PARTE INTRODUTTIVA 

  • giurisdizione amministrativa
  • medico
  • diritti economici
  • diritto tributario
  • giurisdizione
  • ripartizione delle competenze
  • diritto dei consumatori

I)

LA NOMOFILACHIA ED IL DIRITTO EUROPEO: LA CORTE DICASSAZIONEPROTAGONISTADEL DIALOGO SOVRANAZIONALE.

(di Dario Cavallari, Angelo Napolitano, Antonella Filomena Sarracino )

Sommario

1 Il dialogo fra corti: i limiti del controllo della S.C. sulle decisioni dei giudici amministrativi e contabili. - 2 Il dialogo fra corti: l’adeguamento della giurisprudenza nazionale a quella eurounitaria in seguito ad ordinanze di rimessione alla CGUE. - 3 Il dialogo fra corti: l’incidenza della giurisprudenza UE sulla giurisdizione e sulla competenza. - 4 Il diritto tributario. - 5 Le libertà civili e i diritti fondamentali. - 6 Libertà economiche e diritti del consumatore. - 7 I medici specializzandi: premessa. - 8 Il diritto al risarcimento del danno dei medici specializzandi iscritti anteriormente al 1982: la nuova rimessione alle Sezioni Unite ed il secondo coinvolgimento della CGUE.

1. Il dialogo fra corti: i limiti del controllo della S.C. sulle decisioni dei giudici amministrativi e contabili.

Durante l’anno 2020 è possibile scorgere diversi ambiti nei quali la giurisprudenza della Corte di cassazione ha incrociato il diritto dell’Unione europea e i princìpi posti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Un primo filone concerne il dialogo con le corti sovranazionali e, quindi, l’interpretazione della normativa interna, anche di livello costituzionale, conseguente a detto dialogo; esso riguarda, soprattutto, ma non solo, i limiti entro i quali la Suprema Corte può garantire, attraverso il sindacato in tema di giurisdizione (art. 111, comma 8, Cost.), l’esatta applicazione del diritto UE e CEDU da parte dei giudici amministrativi e contabili.

A tale filone si collegano quelli della diretta conformazione del nostro ordinamento a quello unionale e dell’incidenza delle decisioni della CGUE sul nostro diritto internazionale privato e sull’individuazione della giurisdizione e della competenza.

Un ulteriore settore è quello del diritto tributario, e dei princìpi connessi all’accertamento e alla riscossione dei tributi.

Un distinto profilo è quello delle libertà civili e dei diritti fondamentali.

Assumono pure rilievo le pronunce sulle libertà economiche e sui diritti del consumatore.

Infine, non possono essere dimenticate alcune questioni in tema di diritto del lavoro e concernenti gli specializzandi in materia sanitaria.

Il profilo in esame è, senza dubbio, quello di maggior rilievo, nel 2020, fra quelli relativi al rapporto fra ordinamento italiano e Corte di giustizia dell’Unione europea.

La più recente giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso che la violazione, da parte del Consiglio di Stato, di norme del diritto dell’Unione europea o della CEDU che si risolva in un error in iudicando non è sindacabile ad opera delle Sezioni Unite della Corte di cassazione in sede di controllo di giurisdizione, in quanto il controllo in questione è circoscritto all’osservanza dei meri limiti esterni della giurisdizione, senza estendersi ad asserite violazioni di legge sostanziale o processuale concernenti il modo* d’esercizio della giurisdizione speciale, l’accertamento delle quali rientra nell’ambito dei limiti interni a quest’ultima (Sez. U, n. 06460/2020, De Stefano, Rv. 657215-01).

Secondo questa impostazione, qualora il Consiglio di Stato ometta di disporre il rinvio pregiudiziale alla CGUE, questo non può essere deciso, sulla medesima questione, dalle Sezioni Unite della Suprema Corte innanzi alle quali sia stata impugnata la decisione del Consiglio di Stato, in quanto al massimo organo nomofilattico della giurisdizione ordinaria spetta solo il controllo del rispetto dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, senza che, su tale attribuzione di controllo, siano evidenziabili norme dell’Unione europea su cui possano ipotizzarsi quesiti interpretativi (Sez. U, n. 06460/2020, De Stefano, Rv. 657215-02).

Un’ipotesi particolare di difetto di attribuzione giurisdizionale del Consiglio di Stato è stata enucleata da Sez. U, n. 07012/2020, Nazzicone, Rv. 657216-01, che ha affermato come in tema di sindacato delle Sezioni Unite sulle decisioni del Consiglio di Stato costituisca motivo di ricorso attinente alla giurisdizione quello con il quale si denunci che il Consiglio di Stato, nell’ambito del giudizio proposto ai sensi dell’art. 133, comma 1, lettera z-sexies, del d.lgs. n. 104 del 2010, abbia esercitato i poteri inerenti alla giurisdizione esclusiva al di fuori dei casi in cui la legge lo consente, per avere invaso la sfera dei poteri riservati alla esclusiva competenza della Commissione europea, quale organo di merito gestorio dell’Unione. Hanno precisato, inoltre, le Sezioni Unite che può qualificarsi come questione attinente alla giurisdizione non la mera violazione di una norma dell’Unione europea, avente i contenuti più vari, o la cd. denegata giustizia, ma lo sconfinamento proprio dai limiti di competenza riservata in capo alla Commissione europea, dove non sono affatto attribuiti poteri al giudice nazionale.

Già nel corso del 2019, d’altronde, Sez. U, n. 29082/2019, Di Virgilio, Rv. 656058-01, avevano affermato che non è configurabile l’eccesso di potere giurisdizionale da parte del giudice speciale, censurabile in Cassazione, quando sia contestato un error in procedendo ed un error in iudicando, per avere il giudice speciale violato il principio del ne bis in idem.

Si tratta di un approccio interpretativo che ha innovato rispetto a quello precedente, rappresentato, esemplificativamente, da Sez. U, n. 31226/2017, De Chiara, Rv. 646744-01, per il quale non costituivano diniego di giurisdizione da parte del Consiglio di Stato (o della Corte dei conti), gli errori in procedendo o in iudicando, ancorché riguardanti il diritto dell’Unione europea, salvo i casi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento (nazionali o dell’Unione) tali da ridondare in denegata giustizia, ed “in particolare, salvo il caso, tra questi, di errore in procedendo costituito dall’applicazione di regola processuale interna incidente nel senso di negare alla parte l’accesso alla tutela giurisdizionale nell’ampiezza riconosciuta da pertinenti disposizioni normative dell’Unione europea, direttamente applicabili, secondo l’interpretazione elaborata dalla Corte di giustizia”.

La ragione del cambiamento giurisprudenziale in esame è rappresentata dalla sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, per la quale l’eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, deve essere riferito:

1) alle ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, quando il giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cd. invasione o sconfinamento) ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cd. arretramento);

2) al difetto relativo di giurisdizione, qualora il giudice amministrativo o contabile dichiari la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici.

Ne consegue che il controllo di giurisdizione non può estendersi al sindacato di sentenze alle quali pur si contesti di essere abnormi o anomale ovvero di essere incorse in uno stravolgimento delle norme di riferimento.

In definitiva, alla stregua del così precisato ambito di controllo sui “limiti esterni” alla giurisdizione, non è consentita la censura di sentenze con le quali il giudice amministrativo o contabile adotti una interpretazione di una norma processuale o sostanziale tale da impedire la piena conoscibilità del merito della domanda, benché detta norma appartenga al diritto dell’Unione o a quello CEDU (cfr. i paragrafi da 13 a 17 della decisione della Corte costituzionale citata).

Questa interpretazione troverebbe conferma negli stessi lavori dell’Assemblea Costituente, dai quali si evince che questo approccio comporta l’esclusione della «soggezione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti al controllo di legittimità della Corte di cassazione» e la sua limitazione «al solo “eccesso di potere giudiziario”, coerentemente alla “unità non organica, ma funzionale di giurisdizione, che non esclude, anzi implica, una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé” (così Mortati, seduta pomeridiana del 27 novembre 1947)».

La stessa Corte costituzionale ha affermato che l’eventuale contrasto con decisioni “sopravvenute” di corti sovranazionali (e, si deve ritenere, con disposizioni provenienti dai relativi ordinamenti) debba trovare la sua soluzione all’interno di ciascuna giurisdizione, eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all’art. 395 c.p.c.

Autorevole dottrina sostiene che questo contrasto fra Corte costituzionale e Sezioni Unite della S.C. consegua alla decisione Sez. U, n. 19787/2015, Amoroso, Rv. 637135-01, la quale aveva affermato che, in caso di concorso bandito dal C.S.M. per l’attribuzione di un incarico giudiziario, il Consiglio di Stato travalica i limiti esterni della giurisdizione qualora, nel giudizio avente ad oggetto la legittimità della corrispondente delibera del primo, operi direttamente una valutazione di merito del contenuto del provvedimento e ne apprezzi la ragionevolezza, - così sovrapponendosi all’esercizio della discrezionalità del C.S.M., espressione del potere, garantito dall’art. 105 Cost., di autogoverno della magistratura - piuttosto che limitarsi a sindacarne la legittimità, anche a mezzo del vizio dell’eccesso di potere.

A prescindere dall’origine di questa contrapposizione fra Corte costituzionale e Corte di cassazione in ordine all’interpretazione dell’art. 111, comma 8, Cost., deve segnalarsi l’estrema importanza dell’ordinanza interlocutoria Sez. U, n. 19598/2020, Lamorgese.

Con tale ordinanza interlocutoria, la Suprema Corte ha posto tre questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia dell’Unione europea.

La prima è: Se gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, del TUE e 2, paragrafi 1 e 2, e 267 TFUE, letti anche alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ostino ad una prassi interpretativa come quella concernente gli articoli 111, ottavo comma, della Costituzione, 360, primo comma, n. 1, e 362, primo comma, del codice di procedura civile e 110 del codice del processo amministrativo - nella parte in cui tali disposizioni ammettono il ricorso per cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato per «motivi inerenti alla giurisdizione» - quale si evince dalla sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018 e dalla giurisprudenza nazionale successiva che, modificando il precedente orientamento, ha ritenuto che il rimedio del ricorso per cassazione sotto il profilo del cosiddetto «difetto di potere giurisdizionale», non possa essere utilizzato per impugnare sentenze del Consiglio di Stato che facciano applicazione di prassi interpretative elaborate in sede nazionale confliggenti con sentenze della Corte di giustizia, in settori disciplinati dal diritto dell’Unione europea (nella specie, in tema di aggiudicazione degli appalti pubblici) nei quali gli Stati membri hanno rinunciato ad esercitare i loro poteri sovrani in senso incompatibile con tale diritto, con l’effetto di determinare il consolidamento di violazioni del diritto comunitario che potrebbero essere corrette tramite il predetto rimedio e di pregiudicare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione e l’effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive di rilevanza comunitaria, in contrasto con l’esigenza che tale diritto riceva piena e sollecita attuazione da parte di ogni giudice, in modo vincolativamente conforme alla sua corretta interpretazione da parte della Corte di giustizia, tenuto conto dei limiti alla «autonomia procedurale» degli Stati membri nella conformazione degli istituti processuali.

La seconda, invece, è: Se gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, TUE e 267 TFUE, letti anche alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ostino alla interpretazione e applicazione degli articoli 111, ottavo comma, della Costituzione, 360, primo comma, n. 1, e 362, primo comma, del codice di procedura civile e 110 del codice processo amministrativo, quale si evince dalla prassi giurisprudenziale nazionale, secondo la quale il ricorso per cassazione dinanzi alle Sezioni Unite per «motivi inerenti alla giurisdizione», sotto il profilo del cosiddetto «difetto di potere giurisdizionale», non sia proponibile come mezzo di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato che, decidendo controversie su questioni concernenti l’applicazione del diritto dell’Unione, omettano immotivatamente di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in assenza delle condizioni, di stretta interpretazione, da essa tassativamente indicate (a partire dalla sentenza 6 ottobre 1982, Cilfit, C-238/81) che esonerano il giudice nazionale dal suddetto obbligo, in contrasto con il principio secondo cui sono incompatibili con il diritto dell’Unione le normative o prassi processuali nazionali, seppure di fonte legislativa o costituzionale, che prevedano una privazione, anche temporanea, della libertà del giudice nazionale (di ultimo grado e non) di effettuare il rinvio pregiudiziale, con l’effetto di usurpare la competenza esclusiva della Corte di giustizia nella corretta e vincolante interpretazione del diritto comunitario, di rendere irrimediabile (e favorire il consolidamento del) l’eventuale contrasto interpretativo tra il diritto applicato dal giudice nazionale e il diritto dell’Unione e di pregiudicare la uniforme applicazione e la effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive derivanti dal diritto dell’Unione.

Infine, il terzo quesito è: Se i principi dichiarati dalla Corte di giustizia con le sentenze 5 settembre 2019, Lombardi, C-333/18; 5 aprile 2016, Puligienica, C-689/13; 4 luglio 2013, Fastweb, C100/12, in relazione agli articoli 1, par. 1 e 3, e 2, par. 1, della direttiva 89/665/CEE, modificata dalla direttiva 2007/66/CE, siano applicabili nella fattispecie che è oggetto del procedimento principale, in cui, contestate dall’impresa concorrente l’esclusione da una procedura di gara di appalto e l’aggiudicazione ad altra impresa, il Consiglio di Stato esamini nel merito il solo motivo di ricorso con cui l’impresa esclusa contesti il punteggio inferiore alla «soglia di sbarramento» attribuito alla propria offerta tecnica e, esaminando prioritariamente i ricorsi incidentali dell’amministrazione aggiudicatrice e dell’impresa aggiudicataria, li accolga dichiarando inammissibili (e ometta di esaminare nel merito) gli altri motivi del ricorso principale che contestino l’esito della gara per altre ragioni (per indeterminatezza dei criteri di valutazione delle offerte nel disciplinare di gara, mancata motivazione dei voti assegnati, illegittima nomina e composizione della commissione di gara), in applicazione di una prassi giurisprudenziale nazionale secondo la quale l’impresa che sia stata esclusa da una gara di appalto non sarebbe legittimata a proporre censure miranti a contestare l’aggiudicazione all’impresa concorrente, anche mediante la caducazione della procedura di gara, dovendosi valutare se sia compatibile con il diritto dell’Unione l’effetto di precludere all’impresa il diritto di sottoporre all’esame del giudice ogni ragione di contestazione dell’esito della gara, in una situazione in cui la sua esclusione non sia stata definitivamente accertata e in cui ciascun concorrente può far valere un analogo interesse legittimo all’esclusione dell’offerta degli altri, che può portare alla constatazione dell’impossibilità per l’amministrazione aggiudicatrice di procedere alla scelta di un’offerta regolare e all’avvio di una nuova procedura di aggiudicazione, alla quale ciascuno degli offerenti potrebbe partecipare”.

Le Sezioni Unite chiariscono che a giustificare la rimessione alla CGUE è l’indirizzo dell’Adunanza Plenaria del Consiglio (sentenze n. 4 del 7 aprile 2011 e n. 9 del 25 febbraio 2014), secondo il quale, nel caso (nella specie, ricorrente) in cui l’Amministrazione abbia escluso dalla gara un concorrente - sia per difetto delle condizioni soggettive di partecipazione alla gara intese in senso ampio, sia per altre cause derivanti da carenze oggettive delle offerte e, dunque, anche per inidoneità dell’offerta tecnica o mancato superamento della soglia di punteggio minimo attribuibile all’offerta medesima -, esso non ha la legittimazione ad impugnare gli atti di gara, a meno che non ottenga una pronuncia di accertamento dell’illegittimità della propria esclusione.

Quest’ultima giurisprudenza si porrebbe in chiaro contrasto con quella della Corte di giustizia dell’Unione europea, per la quale idonea a radicare l’interesse e il diritto alla tutela giurisdizionale è la mera probabilità di conseguire un vantaggio mediante la proposizione del ricorso, consistente in qualsiasi risultato, anche rappresentato dalla riedizione della procedura di gara. In particolare, le Sezioni Unite richiamano le sentenze 5 settembre 2019, C-333/18, Lombardi, 5 aprile 2016, C-689/13, Puligienica, e 4 luglio 2013, C-100/12, Fastweb, le quali - tutte pronunciate su rinvii pregiudiziali disposti da giudici amministrativi italiani - hanno escluso la possibilità che l’eccezione (e il ricorso incidentale) dell’aggiudicatario di una gara di appalto, al fine di ottenere l’esclusione dalla gara, o la conferma dell’esclusione, di un altro partecipante alla gara, siano esaminati prioritariamente con effetti paralizzanti del ricorso principale, privando conseguentemente il concorrente escluso dell’interesse al ricorso (principale) e della legittimazione a contestare l’esito della gara per qualsiasi ragione, qualunque sia il numero dei concorrenti, anche al fine di ottenere il travolgimento e la ripetizione della gara stessa.

Nella stessa direzione, la S.C. cita un proprio precedente, che ha ritenuto non condivisibile il principio, espresso dal Consiglio di Stato, secondo il quale il ricorso incidentale, diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale mediante la censura della sua ammissione alla procedura di gara di affidamento di appalti pubblici, deve essere esaminato prioritariamente, pure ove il ricorrente principale alleghi l’interesse strumentale alla rinnovazione dell’intera procedura. Infatti, tale principio - il quale, al cospetto di due imprese che sollevano a vicenda la medesima questione, ne sanziona una con l’inammissibilità del ricorso e ne favorisce l’altra con il mantenimento di un’aggiudicazione (in tesi) illegittima - denota una crisi del sistema che, al contrario, proclama di assicurare a tutti la possibilità di provocare l’intervento del giudice per ripristinare la legalità e dare alla vicenda un assetto conforme a quello voluto dalla normativa di riferimento, tanto più che l’aggiudicazione può dare vita ad una posizione preferenziale soltanto se acquisita in modo legittimo (Sez. U, n. 10294/2012, Tirelli, Rv. 623049-01).

Affermano le Sezioni Unite nell’ordinanza interlocutoria in questione che il Consiglio di Stato italiano, non applicando la summenzionata giurisprudenza eurounitaria e non rimettendo alla CGUE la questione della corretta interpretazione del diritto dell’UE nella fattispecie in esame, avrebbe violato il diritto dell’Unione.

Ad avviso del Collegio, tale violazione integrerebbe una questione inerente alla giurisdizione e, dunque, sarebbe censurabile come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360, n. 1, c.p.c.

Peraltro, questa conclusione sarebbe preclusa dalla citata interpretazione dell’art. 111, comma 8, Cost., operata dalla decisione n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, coerentemente con la quale l’infrazione del diritto eurounitario de qua, consistendo in una violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., non sarebbe censurabile con ricorso per cassazione.

Secondo le Sezioni Unite, però, questa impostazione confliggerebbe sia con il principio di equivalenza sia con il principio di effettività, nonché con l’esigenza di evitare giudicati contrari al diritto vivente dell’Unione (come interpretato dalla CGUE).

Con riferimento al principio di equivalenza, ha osservato la Suprema Corte che con esso sarebbe confliggente l’orientamento che, nelle controversie concernenti l’applicazione del diritto nazionale, ammette il ricorso per cassazione per difetto di potere giurisdizionale avverso le sentenze del Consiglio di Stato alle quali si imputi di avere invaso competenze riservate al legislatore mentre, in quelle concernenti l’applicazione del diritto dell’Unione, sostiene l’inammissibilità dei ricorsi contro le sentenze del Consiglio di Stato che elaborino regole di diritto interno precluse allo stesso legislatore nazionale perché contrarie a quelle dell’UE.

In ordine al principio di effettività, ha rilevato la Suprema Corte che l’autonomia procedurale di cui lo Stato membro gode nella conformazione degli istituti processuali non può ostacolare la piena tutela che taluno invochi con riferimento ad un diritto o ad una posizione giuridica riconosciuta dall’UE.

Le questioni poste dalle Sezioni Unite sono estremamente complesse e l’ordinanza, peraltro molto argomentata, richiederebbe, anche per la sua dimensione, uno spazio ben maggiore di quello riservato al presente scritto per un suo commento completo.

Al riguardo, è possibile limitarsi ad alcune considerazioni.

Innanzitutto, l’ordinanza interlocutoria pone il problema dell’estensione da riconoscere ai motivi attinenti alla giurisdizione e del significato da dare al concetto di “sconfinamento”.

Da un lato, occorre tenere conto che la nostra Costituzione, con l’art. 111, comma 8, Cost., ha chiaramente dimostrato una tendenza a ridurre al minimo le impugnazioni contro le pronunce del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.

Dall’altro, viene in rilievo il principio di autonomia procedurale, con l’esigenza di una sua ridefinizione che sia, nella specie, rispettosa, per quanto possibile, sia del dettato costituzionale sia degli obblighi derivanti dalla nostra partecipazione all’UE.

Inoltre, non può sottovalutarsi che una situazione come quella in esame potrebbe dare origine ad una responsabilità del nostro Stato a livello europeo e, di conseguenza, ad una correlata responsabilità, davanti alla Corte dei Conti, dei magistrati coinvolti nel mancato rispetto del diritto eurounitario.

Ulteriore questione è quella della tutela del soggetto leso qualora il mancato rispetto del diritto UE da parte del giudice speciale si consolidi.

Sorge il dubbio, infatti, se debba essere prevista solo una protezione risarcitoria (ai sensi della giurisprudenza Köbler e Traghetti del Mediterraneo della CGUE), se possa venire in rilievo pure l’attivazione di una procedura di infrazione a livello unionale o se addirittura la decisione interna in conflitto con il diritto eurounitario sia affetta da vizi che la rendono inidonea al giudicato.

Seguendo quest’ultima impostazione, si potrebbe individuare la presenza di una grave lacuna nel nostro sistema.

Infatti, ai sensi dell’art. 25 Cost. “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”.

Nella specie, però, la parte interessata si è vista privare, dalla decisione del Consiglio di Stato, del proprio diritto a che l’interpretazione di una norma, in qualche modo collegata all’ordinamento dell’UE, sia resa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. Viene da domandarsi, allora, considerato che la CGUE sarebbe probabilmente stato il giudice naturale della controversia, quale sia il rimedio da adottare in presenza di una violazione del principio di cui all’art. 25 Cost. realizzata da un provvedimento giurisdizionale divenuto definitivo, soprattutto alla luce del principio stabilito dalla sentenza Elkinov della Grande Camera della Corte di giustizia UE, del 5 ottobre 2010, C173/09, secondo la quale “Il diritto dell’Unione osta a che un organo giurisdizionale nazionale, al quale spetti decidere a seguito di un rinvio ad esso fatto da un organo giurisdizionale di grado superiore adito in sede d’impugnazione, sia vincolato, conformemente al diritto nazionale di procedura, da valutazioni formulate in diritto dall’istanza superiore qualora esso ritenga, alla luce dell’interpretazione da esso richiesta alla Corte, che dette valutazioni non siano conformi al diritto dell’Unione”.

Nel caso in esame, la violazione del diritto UE è, peraltro, particolarmente evidente, poiché, mentre, da un lato, la CGUE impone di tutelare non solo gli interessi finali, ma pure quelli strumentali, come quello alla regolarità dell’azione amministrativa, il Consiglio di Stato è dell’opinione opposta.

L’ordinanza interlocutoria potrebbe, poi, dare origine ad ulteriori questioni.

Ad esempio, sarebbe legittimo domandarsi se il nostro sistema di giustizia amministrativa, fondato su due distinte giurisdizioni, sia ancora adeguato, nella misura nella quale consente una violazione, consapevole e stabile, di una situazione giuridica soggettiva ritenuta meritevole di protezione dalla Corte di cassazione e dal diritto eurounitario, che sarebbe evitabile in presenza di un unico vertice nomofilattico ( si tratta di una idea non nuova, coincidendo con una proposta avanzata davanti alla II sottocommissione dell’Assemblea costituente dal Calamandrei, il quale aveva suggerito l’istituzione di una giurisdizione unica o, in subordine, di una unica nomofilachia; tale proposta fu respinta, in seguito all’opposizione del Mortati, dall’Assemblea costituente).

Ciò pure alla luce della circostanza per cui, secondo la Corte costituzionale, il ricorso davanti alle Sezioni Unite sarebbe possibile qualora il giudice speciale abbia invaso la sfera di attribuzioni di altri giudici, ma non ove egli abbia inciso sulle competenze riservate alla UE e, in particolare, alla CGUE, in base al disposto dell’art. 267 TFUE.

La stessa distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi tende a perdere di significato, se si tiene conto che i primi sono sempre più spesso collegati ai secondi, almeno in ambito eurounitario.

Le esposte considerazioni fanno emergere, allora, quella che è la reale problematica oggetto del contendere, ovvero l’individuazione del soggetto (giudice) chiamato a decidere per ultimo sulla giurisdizione.

Tale problematica sorge normalmente in presenza di conflitti fra le molteplici sfere della legalità (costituzionale, legale, nazionale, eurounitaria, internazionale ed internazionale convenzionale) che possono trovarsi a disciplinare una identica situazione.

Il confronto è, di solito, binario, come avviene, ad esempio, in presenza di un contrasto fra Corte costituzionale e Corte di cassazione (rappresentanti, rispettivamente, della legalità costituzionale e di quella legale), ma, nella presente fattispecie, è trinario, coinvolgendo Corte costituzionale, Corte di cassazione e Corte di giustizia dell’Unione europea.

Il conflitto fra Corte costituzionale e Corte di cassazione, probabilmente da sempre insito nel sistema, è giunto, quindi, ad un livello ulteriore, con la seconda che ha chiamato, come arbitro, la Corte di giustizia dell’Unione europea.

Ciò forse non sarebbe avvenuto se la Corte costituzionale si fosse limitata a constatare che la tematica in esame avrebbe dovuto essere affrontata solo dalle Sezioni Unite, quale giudice della giurisdizione, come individuato dalla Costituzione, e non dalla medesima Corte costituzionale, atteso che veniva in rilievo lo stabilire se una certa situazione soggettiva (l’interesse strumentale) fosse degna di tutela giuridica.

D’altronde, altro profilo da non sottovalutare, è rappresentato dal fatto che l’articolo della Costituzione in esame, il 111, ha subito delle rilevanti modifiche dopo la sua approvazione che, pur non avendo interessato il comma 8, hanno cambiato l’assetto complessivo del sistema.

Inoltre, non deve dimenticarsi che l’entrata dell’Italia nel sistema eurounitario è posteriore all’entrata in vigore della nostra Carta fondamentale e che lo stesso si è evoluto non poco dalle origini, fino a divenire, negli ultimi anni, una particolare forma di unione di Stati.

Tutti questi elementi avrebbero potuto sconsigliare una lettura della vicenda troppo rigidamente ancorata ai lavori dell’Assemblea costituente che, benché degni del massimo rispetto, risalgono al 1946-1947.

È interessante notare come, sullo sfondo di questa vicenda, si collochi, altresì, un’ulteriore tematica, forse ancora più importante, vale a dire il rapporto fra il nostro ordinamento e l’UE.

Infatti, l’affermazione che il mancato coinvolgimento della CGUE, pur se in particolari circostanze, ridonda in una violazione dei limiti della giurisdizione e che la medesima CGUE può dirimere una controversia, fra Corte costituzionale e Corte di cassazione, in ordine alla portata dell’art. 111, comma 8, Cost. significa, in definitiva, riconoscere il ruolo ormai interno al nostro ordinamento degli organi dell’Unione europea.

Allo stesso tempo, se questa è la conseguenza dell’approccio della Corte di cassazione, ove fosse condiviso dalla Corte di giustizia, potrebbe venire in rilievo il ricorso, da parte della Corte costituzionale, ai cosiddetti controlimiti.

2. Il dialogo fra corti: l’adeguamento della giurisprudenza nazionale a quella eurounitaria in seguito ad ordinanze di rimessione alla CGUE.

Una recente pronuncia di grande impatto, anche sociale, è Sez. 3, n. 26757/2020, Vincenti, Rv. 659865-01, la quale si è occupata dell’indennizzo che l’art. 12, paragrafo 2, della Direttiva 2004/80/CE, impone agli Stati membri di riconoscere ai cittadini UE che siano stati vittime, nei loro territori, di reati intenzionali violenti.

Di rilievo è il fatto che la S.C. si è pronunciata dopo avere rimesso, con ordinanza interlocutoria n. 02964/2019, due questioni pregiudiziali all’attenzione della CGUE, la quale le ha decise con la sentenza della Grande Camera del 16 luglio 2020, C-129/19.

Nel suo arresto giurisprudenziale, la Corte di cassazione tiene conto, altresì, dell’ulteriore sentenza della Grande Camera della Corte di giustizia dell’Unione europea dell’11 ottobre 2016, C-601/14, emessa in seguito ad una procedura di infrazione avviata dalla Commissione UE contro il nostro paese.

La S.C. ha affermato, quindi, che, alla luce dell’interpretazione del diritto eurounitario fatta propria dalla CGUE con le menzionate decisioni, il citato indennizzo compete alle vittime di ogni reato intenzionale violento commesso nel territorio di uno Stato membro e, pertanto, pure in relazione al delitto di violenza sessuale previsto, in Italia, dall’art. 609 bis c.p., benché dette vittime risiedano nel territorio del medesimo Stato membro (vittime non transfrontaliere), senza che sia necessario instaurare un giudizio civile di responsabilità nei confronti degli autori del fatto, qualora questi ultimi si siano resi latitanti.

Siffatto indennizzo non può essere meramente simbolico, ma, anche se determinato in via forfettaria, deve essere “equo ed adeguato” e, quindi, tale da considerare le peculiarità del crimine e la sua gravità, soprattutto in termini di conseguenze effettuali.

Vanno messi adeguatamente in luce l’avvenuta considerazione del grave crimine regolato dall’art. 609 bis c.p. ed il fatto che l’indennizzo vada corrisposto ad ogni cittadino dell’UE, pur se non residente nello Stato membro nel quale l’illecito è stato perpetrato, a prescindere dall’introduzione di un giudizio civile di responsabilità contro i colpevoli che siano latitanti.

Risulta estremamente significativa l’attenzione alla necessità che l’importo pagato non sia solo formale, ma commisurato alle circostanze concrete.

Inoltre, Sez. 3, n. 26757/2020, Vincenti, Rv. 659865-02, ha precisato che sempre alle vittime di reati intenzionali violenti commessi in Italia spetta il risarcimento del danno per tardiva trasposizione dell’art. 12, paragrafo 2, della Direttiva 2004/80/CE (che impone, come detto, agli Stati membri, con riguardo ai cittadini UE e con riferimento ai fatti verificatisi nei rispettivi territori, di riconoscere alle stesse vittime un indennizzo “equo ed adeguato”).

Tale risarcimento va ricondotto allo schema della responsabilità “contrattuale” per inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato ed il criterio parametrico basilare per la sua valutazione e liquidazione, al di là dell’eventuale sussistenza di un maggiore pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale, è costituito dall’ammontare dell’indennizzo che la vittima avrebbe avuto ab origine come bene della vita garantito dall’obbligo di conformazione del diritto nazionale alla Direttiva non tempestivamente attuata.

La S.C. ha aggiunto che, per converso, il menzionato indennizzo ex art. 12, paragrafo 2, citato, concerne una prestazione indennitaria stabilita dalla legge come effetto dell’attuazione di obblighi derivanti dalla partecipazione dello Stato all’UE e prescinde dalla ricorrenza degli elementi costitutivi dell’illecito il quale, nel sistema della responsabilità civile, di fonte sia contrattuale che aquiliana, si pone, invece, come indefettibile presupposto per la liquidazione del danno.

Secondo Sez. 3, n. 26757/2020, Vincenti, Rv. 659865-03, peraltro, dall’ammontare riconosciuto alle vittime di reati intenzionali violenti commessi in Italia a titolo di risarcimento del danno per la tardiva trasposizione dell’art. 12, paragrafo 2, delle Direttiva 2004/80/CE deve essere detratta la somma loro corrisposta, in quanto vittime di detti reati, quale indennizzo ex l. n. 122 del 2016 (e successive modifiche).

Infatti, trova applicazione l’istituto della compensatio lucri cum damno in ragione del disposto del comma 1, lett. e) e lett. e bis), dell’art. 12 della citata l. n. 122 che, quale regola settoriale, ripropone direttamente gli effetti di detto istituto, come desumibili, in generale, dall’art. 1223 c.c., e della circostanza per la quale sia l’obbligo risarcitorio sia quello indennitario, gravanti in capo al medesimo soggetto, sono valutabili in termini di “conseguenza immediata e diretta” dall’identico fatto generatore del reato ed assolvono alla comune funzione di garantire, comunque, alla vittima un ristoro per le conseguenze pregiudizievoli, morali e materiali, patite a seguito del crimine, non altrimenti risarcite dal reo.

3. Il dialogo fra corti: l’incidenza della giurisprudenza UE sulla giurisdizione e sulla competenza.

Vi sono ulteriori pronunce della S.C. che sono espressione di un dialogo fra corti, atteso che sono state emesse dando attuazione a decisioni della CGUE.

Al riguardo, va menzionata Sez. 6-3, n. 24632/2020, Rossetti, Rv. 659913-02, la quale ha chiarito che la domanda di pagamento dell’indennizzo previsto dal Regolamento (CE) n. 261 del 2004 è soggetta alle regole di giurisdizione e di competenza “ordinarie”, stabilite dal Regolamento (UE) n. 1215 del 2012.

Ne consegue che, qualora la suddetta domanda scaturisca da un contratto avente ad oggetto la prestazione di servizi, essa è devoluta, ex art. 7, comma 1, n. 1), lett. b), del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, alla competenza del giudice del luogo in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto essere prestati in base al contratto, laddove tale norma è stata interpretata dalla giurisprudenza della CGUE nel senso che tanto il luogo di partenza del velivolo, quanto quello di arrivo, devono essere considerati, allo stesso titolo, luoghi di “fornitura principale” dei servizi oggetto di un contratto di trasporto aereo.

Invece, per Sez. 6-3, n. 24632/2020, Rossetti, Rv. 659913-03, la competenza per territorio a conoscere della domanda di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, proposta da un passeggero nei confronti del vettore aereo, va individuata in base ai criteri stabiliti dall’art. 33, comma 1, della Convenzione di Montreal sul trasporto aereo internazionale, atteso che, alla luce della giurisprudenza della CGUE, le relative disposizioni disciplinano non solo il riparto della giurisdizione tra giudici di Stati diversi, ma anche l’individuazione del giudice competente all’interno di ciascuno Stato aderente alla menzionata Convenzione.

In ambito processuale, Sez. 6-3, n. 24632/2020, Rossetti, Rv. 659913-05, ha precisato, poi, che le domande di pagamento dell’indennizzo ai sensi del Regolamento (CE) n. 261 del 2004 e di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, proposte dal passeggero contro il vettore aereo, presentano profili di connessione, sia quanto ai presupposti di fatto, che sono identici per entrambe, sia per pregiudizialità, atteso che, in presenza di danni eccedenti l’indennizzo, l’importo di questo, se già percepito, va defalcato dal risarcimento, giusta la previsione di cui all’art. 12 del citato Regolamento, sicché i rapporti tra le due domande separatamente proposte devono essere coordinati secondo le previsioni dettate, in materia di connessione, dall’art. 30 del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012.

Infine, Sez. 6-3, n. 24632/2020, Rossetti, Rv. 659913-04, ha affermato che la competenza a conoscere della domanda di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, proposta da un passeggero nei confronti del vettore aereo, va individuata in base ai criteri stabiliti dall’art. 33, comma 1, della Convenzione di Montreal sul trasporto aereo internazionale che, a questo fine, detta quattro criteri alternativi, attribuendo la competenza, a scelta dell’attore, anche al giudice avente sede nel luogo dove il vettore possiede una “impresa che ha provveduto a stipulare il contratto”, intendendosi per tale quello del luogo in cui il vettore possiede un’organizzazione propria o un soggetto a lui strettamente collegato contrattualmente, per il tramite dei quali distribuisca i biglietti aerei.

In particolare, nel caso in esame, la S.C. ha ritenuto competente a conoscere della domanda il giudice del luogo nel quale era ubicata l’agenzia di viaggi per il tramite della quale i passeggeri avevano acquistato i biglietti, sul rilievo che la relativa legittimazione ad emettere titoli di viaggio per conto di una compagnia aerea consentiva di presumere, ex art. 2727 c.c., che l’agenzia fosse stata autorizzata a ciò dal vettore e rappresentasse, quindi, un suo ticket office, in virtù di un apposito accordo bilaterale, idoneo a qualificarlo come institore, mandatario od appaltatore di servizi del vettore stesso.

La Corte di cassazione ha ulteriormente chiarito che era onere della parte che vi avesse interesse eventualmente allegare e dimostrare circostanze idonee a superare la presunzione in esame, come il fatto che la menzionata agenzia di viaggi avesse agito quale mero intermediario e, quindi, in virtù di un accordo concluso non con il singolo vettore, ma, ad esempio, con la IATA, l’organizzazione dei vettori aerei.

Va pure segnalata Sez. U, n. 00156/2020, Frasca, Rv. 656657-02, che, nel risolvere la questione, attinente alla giurisdizione, se una domanda di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, proposta da una società italiana nei confronti di una tedesca, dovesse essere conosciuta dal giudice italiano o da quello tedesco, ha richiamato l’art. 5, punto 1, lett. b) del regolamento n. 44 del 2001 e, soprattutto, l’esegesi che di tale disposizione ne ha fatto la CGUE con la pronuncia del 25 febbraio 2010 nella causa C-381/08.

La sentenza della CGUE emessa nella citata causa ha giudicato dirimente, al fine di stabilire a quale Stato membro appartenesse la giurisdizione, ai sensi del menzionato art. 5, punto 1, definire l’obbligazione caratterizzante il contratto dedotto dinanzi al giudice e, soprattutto, se quell’obbligazione consistesse in un obbligo di consegna derivante da un contratto di compravendita (art. 5, punto 1, lett. b), primo trattino) o, invece, in una prestazione di servizi (art. 5, punto 1, lett. b), secondo trattino).

Le Sezioni Unite hanno ricordato come la CGUE abbia, innanzitutto, affermato che il fatto che la merce da consegnare debba prima essere fabbricata o prodotta non modifica la qualificazione del contratto quale compravendita.

Viceversa, se colui al quale la merce avrebbe dovuto essere consegnata (acquirente) abbia fornito tutti o la maggior parte dei materiali impiegati nella fabbricazione della merce, siffatta circostanza è idonea a fare propendere l’interprete a qualificare quel contratto come contratto di prestazione di servizi e non di compravendita.

Ulteriore elemento preso in considerazione dalla CGUE, per la qualificazione dell’oggetto della domanda giudiziaria ai fini della giurisdizione, è quello del regime della responsabilità per inadempimento. Per l’esattezza, se il fornitore della merce finita è responsabile della qualità e della conformità al contratto dei beni da esso prodotti, la responsabilità de qua deporrà a favore di una qualificazione del negozio come “contratto di compravendita di beni”. Al contrario, se il fornitore della merce finita risponde solo della correttezza dell’esecuzione delle lavorazioni secondo le istruzioni dell’acquirente-ordinante, ciò condurrà ad una qualificazione del contratto come “prestazione di servizi”. Nel caso di specie, qualificata la domanda come relativa ad un contratto di prestazione di servizi, le Sezioni Unite hanno dichiarato la giurisdizione del giudice italiano.

4. Il diritto tributario.

In tema di dazi antidumping, la Suprema Corte, con ordinanza Sez. T, n. 03608/2020, Triscari, Rv. 656973-01, ha annullato degli avvisi di accertamento doganale emessi per l’omesso pagamento di dazi su importazioni di elementi di fissaggio in ferro e in acciaio spediti dalla Malaysia.

La pronuncia è stata emessa sulla base dalla sentenza CGUE del 3 luglio 2019, Eurobolt, in causa C-644/17 che, dichiarando illegittimo il regolamento UE n. 723 del 2011 (che estendeva i dazi istituiti dal regolamento CE n. 91 del 2009 sugli elementi di fissaggio in ferro e in acciaio provenienti dalla Cina anche a quelli spediti dalla Malaysia) per violazione dell’art. 15, par. 2, del regolamento CE n. 1225 del 2009, ha fatto venire meno, ai sensi dell’art. 264 TFUE, la base legale costituente il presupposto dei detti avvisi di accertamento doganale.

Ancora con riferimento ai dazi antidumping sulle importazioni di elementi di fissaggio in ferro e in acciaio provenienti dalla Cina, Sez. T, n. 21037/2020, Luciotti, non massimata, ha ribadito che l’abrogazione delle misure antidumping ad opera del regolamento UE n. 2016/278, in quanto frutto di una mera valutazione di opportunità degli organi unionali, non ha effetto retroattivo, come si desume dall’art. 2 e dai “considerando” nn. 13 e 14 del citato regolamento; essa, pertanto, non inficia gli atti, le contestazioni e le sanzioni elevate in vigenza del precedente regolamento CE n. 81 del 2009. Dal combinato disposto dei considerando nn. 13 e 14, nonché dell’art. 2 del regolamento UE n. 2016/278 emerge chiaramente come l’abrogazione dei dazi antidumping citati sia frutto di una mera valutazione di opportunità degli organi unionali e sia stata disposta solo per il futuro, non comportando, dunque, la caducazione degli atti di contestazione e di irrogazione di sanzioni emanati in epoca precedente rispetto alla norma di abrogazione (cfr. CGUE del 15 novembre 2018, causa C-592/2017, Skatteministeriet, §§ 63 ss.).

Peraltro, Sez. T, n. 22012/2020, Nonno, Rv. 659076-01, ha affermato, sul piano processuale, con riferimento ai diritti di confine, costituenti risorse proprie della UE, che la sentenza non definitiva con la quale si preveda il rimborso, in favore del contribuente, di dazi doganali ritenuti non dovuti non può ritenersi immediatamente esecutiva ai sensi dell’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, in quanto questa disposizione è incompatibile con il codice doganale comunitario e con il codice doganale unionale, con conseguente inammissibilità del ricorso per ottemperanza eventualmente proposto ai sensi degli artt. 69, comma 5, e 70 del d.lgs. n. 546 del 1992.

Uno dei princìpi cui si ispira l’ordinamento UE, maggiormente “evocato” nell’ambito dei provvedimenti emessi dalla Suprema Corte in ambito tributario è quello del legittimo affidamento, posto a tutela del contribuente.

Il cd. “statuto del contribuente” (l. n. 212 del 2000), all’art. 10, ha codificato tale principio anche nel diritto interno.

In generale, il primo comma del citato articolo dispone che i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede.

Inoltre, i commi secondo e terzo prevedono tre ipotesi di esonero del contribuente dal pagamento di accessori del tributo: la prima prevede l’esonero dal pagamento di sanzioni e interessi moratori nel caso in cui il contribuente si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, sebbene successivamente modificate, o abbia posto in essere il suo comportamento inadempiente in seguito a fatti conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione; la seconda prevede l’esonero dalle sanzioni quando la violazione commessa dal contribuente sia dipesa da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito applicativo della norma tributaria; la terza prevede l’esonero dalle sanzioni qualora le obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria si siano tradotte in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta.

Quanto ai limiti entro i quali il contribuente può invocare a sua tutela il legittimo affidamento, Sez. T, n. 04848/2020, Condello, Rv. 657371-02, ha affermato che esso, pur essendo principio fondamentale dell’ordinamento della UE, non si traduce, secondo la giurisprudenza della CGUE, nell’aspettativa di intangibilità di una normativa, in particolare in settori in cui è necessario, e dunque prevedibile, che le norme in vigore vengano continuamente adeguate alle variazioni della congiuntura economica, in ossequio al superiore interesse dello Stato a fare fronte a situazioni di crisi economica e a rispettare i parametri imposti dalla stessa UE.

In particolare, in una controversia che ha visto opposta una società per azioni ad un Consorzio di Comuni ricompresi in un bacino imbrifero montano, in relazione alla debenza di un sovracanone per l’esercizio di due impianti idroelettrici, aumentato dalla legge di stabilità del 2013 (l. n. 228 del 2012, art. 1, comma 137) rispetto alla misura precedente, Sez. U, n. 16261/2020, Greco, non massimata, ha escluso che l’aumento del detto sovracanone in corso di rapporto si ponesse in violazione dell’art. 17 della Carta di Nizza e degli artt. 101 e 102 TFUE.

Anche la Corte di Strasburgo, infatti, afferma che i cittadini non possono vantare legittime aspettative d’immutabilità giuridica neppure riguardo alla giurisprudenza (Corte EDU, in caso Unedic contro Francia; Atanasovski contro Macedonia), laddove il legittimo affidamento può rilevare solo riguardo a leggi interpretative o retroattive che costituiscano ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine d’influenzare l’esito di una controversia (Corte EDU, De Rosa contro Italia; Arras contro Italia).

La stessa Corte EDU, inoltre, ritiene che la materia dell’imposizione tributaria faccia parte del cd. “nucleo duro” delle prerogative della potestà pubblica, poiché la natura autoritativa del rapporto tra il contribuente e la collettività sarebbe predominante (Corte EDU, Ferrazzini contro Italia). Ne consegue che gli Stati godono di vasta discrezionalità, sia pure entro i confini della riserva di legge sostanziale (Corte EDU, in caso James contro Regno Unito; conforme in caso Spack contro Repubblica Ceca) e del rispetto di alcuni diritti fondamentali (Corte Edu, in caso Darby contro Svezia, sul divieto di discriminazione fiscale; conforme in caso N.K.M. contro Ungheria). Sicché, secondo la Corte EDU, non si può pretendere che l’imposizione fiscale rimanga invariata per tutta la durata di un rapporto concessorio, purché le variazioni in aumento dell’imposizione non siano manifestamente prive di giustificazioni ragionevoli (Corte EDU, in caso National & provincial building society contro Regno Unito).

Dal canto suo, la Corte di Lussemburgo ha affermato che gli operatori economici non possono fare affidamento sulla conservazione di una situazione esistente che può, invece, essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle autorità nazionali (CGUE 10 settembre 2009, Piantano GmbH & Co. KG, C-201/08, in tema di abolizione di esenzioni). Inoltre, un operatore economico non può fondare il suo affidamento sulla mancanza totale di modifiche normative, ma unicamente mettere in questione le modalità applicative di siffatte modifiche, atteso che il principio di certezza del diritto non impone l’assenza di modifiche normative, ma richiede piuttosto che il legislatore nazionale tenga conto delle situazioni specifiche degli operatori economici e preveda, eventualmente, taluni adeguamenti all’applicazione delle nuove disposizioni (CGUE 11 giugno 2015, Berlington Hungary Tenécsadó és Szolgéltató, C-98/14).

Il principio della tutela del legittimo affidamento, dunque, in campo tributario si declina in un modo sensibilmente diverso rispetto agli ambiti extratributari. Esso costituisce, in generale, uno dei corollari del principio della certezza del diritto (che la CGUE ha affermato discendere dall’art. 6 CEDU, ed è stato recepito dall’ordinamento dell’UE all’art. 6 TUE).

Gli altri due corollari sono il principio di irretroattività delle norme e il principio di salvaguardia dei diritti quesiti (CGUE, 14 aprile 1970, Bundesknappschaft, in causa C-68/69, in particolare §7; CGUE 7 luglio 1976, IRCA, in causa C-7/76, e CGUE 16 giugno 1998, Racke, in causa C-162/96, soprattutto §20).

La CGUE nella citata sentenza Bundesknappschaft, ha stabilito che “il principio della certezza del diritto osta, come norma generale, a che l’efficacia nel tempo di un atto comunitario decorra da una data anteriore alla sua pubblicazione”.

Il principio di certezza del diritto comporta che qualunque norma che comporti conseguenze svantaggiose per i privati debba essere chiara e precisa, e debba essere prevedibile nella sua applicazione (CGUE, 7 giugno 2005, VEMW, in causa C-17/03, §80; CGUE, 12 dicembre 2013, Freanked Investment, in causa C-362/12).

Tali princìpi, come ha affermato da ultimo Sez. 3, n. 05022/2020, Rossetti, non massimata, sono stati ripresi dalla CEDU che, dal canto suo, ha affermato che è impedito agli organi giudiziari degli Stati membri interpretare le norme processuali in modo che conducano all’inammissibilità di una domanda giudiziale, quando tali interpretazioni siano “troppo formalistiche”, adottate “a sorpresa” e per niente chiare e univoche (Corte EDU, sez. I, 15 settembre 2016, Trevisanato c. Italia, in causa n. 32610/07, §§ 42-44; Corte EDU, sez. II, 18 ottobre 2016, Miessen c. Belgio, in causa n. 31517/12, §§ 71-73).

La CGUE, come ha ricordato Sez. T, n. 20819/2020, Nonno, Rv. 658996-01, ha inoltre chiarito che, se è vero che il diritto ad avvalersi del principio della tutela del legittimo affidamento “si estende a ogni individuo in capo al quale un’autorità amministrativa abbia fatto sorgere fondate speranze a causa di assicurazioni precise che essa gli avrebbe fornito” (CGUE 14 giugno 2017, causa C-26/16, punto 76; CGUE 9 luglio 2015, causa C-183/14, punto 44; CGUE 5 marzo 2015, causa C-585/13, punto 95), tuttavia “il legittimo affidamento non può basarsi su una prassi illegittima dell’Amministrazione” (CGUE 11 aprile 2018, causa C-532/16, punto 50; CGUE 6 febbraio 1986, causa C-162/84, punto 6).

Quanto alla necessità della rimessione alla CGUE della questione interpretativa della compatibilità con il diritto dell’Unione di una modifica in aumento, in costanza di rapporto concessorio, di un sovracanone per l’esercizio di impianti idroelettrici, ad opera di una legge nazionale, Sez. U, n. 16261/2020, Greco, non massimata, ha ricordato che l’organo giudiziario di ultima istanza non ha l’obbligo del rinvio pregiudiziale, qualora motivi sulla sua non necessità, ovvero qualora la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata, perché l’interpretazione della norma di diritto di cui trattasi non lasci spazio ad alcun ragionevole dubbio (Raccomandazioni 2016/C- 439/01, §6).

Sulla necessità del rinvio pregiudiziale si segnala anche Sez. T, n. 22019/2020, Cavallari, non massimata, che ha ricordato come il giudice nazionale può omettere il rinvio se “la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata” (teoria dell’acte clair), purché la stessa evidenza si imponga anche ai giudici degli altri Stati membri ed alla CGUE.

Un caso particolare, inoltre, è stato affrontato da Sez. T, n. 05010/2020, Napolitano, non massimata, circa il diritto al rimborso azionato da una società avente ad oggetto le somme versate tra il 4/10/2006 e il 7/3/2007 a titolo di tributi catastali e di tasse ipotecarie, la cui entità sarebbe stata non in linea con la direttiva 2003/98/CE del Parlamento e del Consiglio del 17/11/2003 che, prefiggendosi lo scopo di favorire il riutilizzo dei documenti e delle informazioni prodotti o detenuti dalle Pubbliche Amministrazioni, aveva prescritto che quando fosse chiesto dalla Pubblica Amministrazione il pagamento di un corrispettivo in denaro, il totale delle entrate provenienti dalle forniture e dalle autorizzazioni al riutilizzo dei documenti non superi i costi di raccolta, produzione, riproduzione e diffusione, maggiorati di un congruo utile sugli investimenti (art. 6, comma 1).

La Corte, nella citata ordinanza, ha ritenuto che la ragione assorbente ostativa al riconoscimento del diritto al rimborso risiedesse nella natura non self-executing della direttiva 2003/98/CE; quand’anche si fosse voluto ravvisare un contrasto, ratione temporis, tra l’art. 6, comma 1, della citata direttiva e la normativa interna sulla misura delle tasse e dei tributi esigibili dal soggetto che avesse richiesto l’accesso alla documentazione ipocatastale prodotta e detenuta dai competenti uffici dell’(allora) Agenzia del Territorio, l’art. 6 comma 1 della direttiva comunque non sarebbe stato applicabile direttamente dal giudice tributario previa disapplicazione della norma interna incompatibile, in quanto rimanevano irrimediabilmente indeterminati, senza una previa mediazione normativa interna, i “costi di raccolta, produzione, riproduzione e diffusione, maggiorati di un congruo utile sugli investimenti” (così, testualmente, l’art. 6, comma 1, della direttiva).

Ancora in tema di diritto al rimborso, stavolta dell’IVA, Sez. T, n. 10103/2020, Catallozzi, Rv. 657730-01, sulla scorta di CGUE 21 marzo 2018, Volkswagen, C-533/16, e di CGUE 15 settembre 2016, Senatex, C-518/14, interpretando l’art. 178 della direttiva 2006/112/CE in conformità con il principio di effettività, ha affermato che, qualora il cedente provveda alla regolarizzazione degli oneri tributari in un momento successivo rispetto alla cessione dei beni, emettendo le fatture e versando all’erario l’importo dovuto, il termine di decadenza per il rimborso a favore del cessionario decorre da quando quest’ultimo sia venuto in possesso delle fatture, essendo stato in precedenza oggettivamente impossibilitato ad esercitare il diritto alla detrazione per l’indisponibilità materiale dei documenti.

Sez. T, n. 20804/2020, Crolla, sempre in tema di rimborso, infine, ha confermato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il termine per richiedere il rimborso di una imposta o di una ritenuta decorre dalla data del versamento dell’imposta o da quella in cui la ritenuta è stata operata, anche nel caso in cui l’imposta o la ritenuta sia stata dichiarata in contrasto con il diritto dell’Unione europea da una sentenza della CGUE, atteso che l’efficacia retroattiva di questa pronuncia, come quella che assiste la declaratoria di illegittimità costituzionale, incontra sempre il limite dei rapporti esauriti, compresi quelli nei quali sia intervenuta una decadenza. Né, per evitare la decadenza fissandone il dies a quo in una data successiva alla pubblicazione della sentenza della CGUE, è possibile invocare i princìpi elaborati dalla Suprema Corte in tema di overruling, in quanto devono ritenersi prevalenti le esigenze di certezza delle situazioni giuridiche, ancora più cogenti nella materia delle entrate tributarie, che resterebbero vulnerate se si consentisse che i rapporti tributari fossero protratti a tempo indeterminato.

Un diritto fondamentale sancìto nell’ordinamento tributario italiano è quello al contraddittorio procedimentale (art. 12 l. n. 212 del 2000).

L’art. 10, comma 2, della l. n. 212 del 2000, in particolare, dispone che, quando viene iniziata una verifica nei luoghi in cui si svolge l’attività del contribuente, questi ha diritto di essere informato sulle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda, della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria, nonché dei diritti e degli obblighi che vanno riconosciuti al contribuente in occasione delle verifiche.

Il diritto al contraddittorio endoprocedimentale costituisce un diritto fondamentale del contribuente anche in ambito unionale, ai sensi dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Sez. T, n. 14628/2020, Delli Priscoli, Rv. 658527-01), in quanto espressione del diritto di difesa finalizzato a consentirgli di manifestare preventivamente il suo punto di vista in ordine agli elementi su cui l’Amministrazione intende fondare la sua decisione. Tuttavia, tale diritto non è inteso dalla giurisprudenza della CGUE in termini assoluti, potendo esso soggiacere a restrizioni che rispondano, con criterio di effettività e proporzionalità, a obiettivi di interesse generale, sicché è estranea all’orbita di tale diritto l’attività di indagine e di acquisizione di elementi probatori, anche testimoniali, svolta dall’Amministrazione fiscale.

Un altro settore del diritto tributario particolarmente sensibile al diritto dell’Unione europea è quello delle esenzioni, poiché esse possono essere lo strumento con il quale si concedono aiuti di Stato incompatibili con il mercato comune.

Sez. T, n. 19935/2020, Locatelli, non massimata, ha ribadito l’obbligatorietà del recupero degli aiuti di Stato pure nei confronti delle società a partecipazione pubblica operanti sul mercato dei servizi pubblici locali. In particolare, in seguito alla decisione della Commissione europea n. 2003/193/CE del 5 giugno 2002 (confermata dal Tribunale di primo grado delle Comunità europee con sentenza dell’11 giugno 2009, nella causa T-297/02, e dalla CGUE con sentenza emessa in grado di appello l’11 dicembre 2011, nella causa C-319/09P), che aveva dichiarato incompatibile con il mercato comune l’esenzione triennale dall’imposta sul reddito disposta dall’art. 3, comma 70, della l. n. 549 del 1995 e dall’art. 66, comma 14, del d.l. n. 331 del 1993, convertito dalla l. n. 427 del 1993, in favore di società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria istituite ai sensi della l. n. 142 del 1990, la Corte di cassazione in precedenti arresti aveva già stabilito che l’Agenzia delle Entrate ex art. 1 del d.l. n. 10 del 2007, convertito dalla l. n. 46 del 2007, ha l’obbligo di procedere mediante ingiunzione al recupero delle imposte non versate in forza del citato regime agevolativo anche nel caso in cui la società pubblica beneficiaria fosse qualificabile come in house.

Con l’arresto qui segnalato, la S.C. ha affermato, inoltre, che, al fine di sottrarsi all’obbligo di recupero, la società a capitale pubblico maggioritario, esercente il servizio pubblico locale e beneficiaria della esenzione, non può addurre la circostanza che essa abbia destinato gli utili al pagamento di dividendi ai soci, tra cui l’ente pubblico locale quale socio di maggioranza, non sussistendo alcuna correlazione logico-giuridica tra la illegittima esenzione della società dal pagamento di tributi statali e la distribuzione di dividendi all’ente locale socio di maggioranza.

Sez. T, n. 21696/2020, Fuochi Tinarelli, non massimata, ha costituito un’occasione per fare il punto su alcuni fondamentali princìpi del diritto dell’Unione.

Uno di questi è il principio di primazia del diritto unionale.

Tale primazia ha valenza sostanziale: le norme che costituiscono il diritto dell’unione sostituiscono od integrano, nella regolamentazione dei rapporti, le norme degli ordinamenti nazionali, ai quali è rimessa, in linea generale, la disciplina processuale.

Tuttavia, anche se la disciplina processuale è di regola prerogativa degli ordinamenti nazionali, la sua applicazione è limitata o esclusa nel caso in cui essa non sia in grado di assicurare l’effettività del diritto sostanziale unionale e delle tutele delle posizioni giuridiche riconosciute dal diritto dell’Unione.

La CGUE, dunque, vero interprete vivente del diritto dell’Unione, condiziona la piena applicazione della disciplina processuale nazionale a tutela delle posizioni giuridiche soggettive riconosciute direttamente o indirettamente dall’Unione a due princìpi: quello di equivalenza e quello di effettività (cfr. CGUE, 14 dicembre 1995, causa C-312/93, Peterbroeck; sentenza 8 novembre 2005, causa C-443/03, Leffner; sentenza 6 ottobre 2009, causa C-40/08, Asturcom; sentenza 28 aprile 2016, causa C-384/14, Alta Realitat SL; sentenza 13 dicembre 2017, causa C-403/16, El Hassani; sentenza 4 ottobre 2018, causa C-571/2016, Kantarev; sentenza 12 dicembre 2019, causa C-433/2018, ML).

Il principio di equivalenza comporta che le modalità procedurali per tutta la tutela delle posizioni soggettive che sorgono dal diritto unionale non devono essere meno favorevoli di quelle riguardanti diritti che trovino origine nell’ordinamento giuridico interno; il principio di effettività stabilisce che le modalità procedurali interne non devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione.

Il principio di effettività ha sviluppato, nel corso della giurisprudenza eurounitaria, tre corollari: i) il dovere in capo al giudice nazionale di rilevare d’ufficio il contrasto tra la norma interna e il diritto dell’Unione (sentenza Peterbroeck); ii) il dovere di disapplicazione, in capo al giudice nazionale, delle norme interne che ostacolino l’effettività delle libertà fondamentali; iii) il riconoscimento in capo al giudice nazionale di poteri e/o facoltà non specificamente attribuiti dal diritto nazionale (CGUE, sentenza 7 settembre 2006, causa C-526/04, Laboratoires Boiron SA, e sentenza 13 febbraio 2004, causa C-479/12, H. Gautzsch Großhandel GmbH & Co, che riconosce un potere istruttorio d’ufficio al giudice nazionale).

Uno dei princìpi cardine dell’ordinamento dell’Unione è il divieto del bis in idem.

Dopo il leading case costituito dalla decisione CEDU 2 marzo 2014, Grande Stevens, la stessa Corte EDU, con la sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia (successivamente ribadita dalla sentenza Bjarni Armannsson c. Islanda del 16 aprile 2019) ha ritenuto che debba essere esclusa la violazione del diritto di cui all’art. 4, Prot. n. 7, CEDU, allorché tra i due procedimenti (amministrativo e penale) che hanno ad oggetto il medesimo fatto sussista un legame materiale e temporale sufficientemente stretto, e cioè quando: x) le due sanzioni perseguano scopi diversi e complementari, connessi ad aspetti diversi della medesima condotta; xy) la duplicazione dei procedimenti sia prevedibile da parte dell’interessato; xz) esista una coordinazione, specie sul piano probatorio, tra i due procedimenti; y) il cumulo sanzionatorio che ne risulti non sia eccessivamente afflittivo per l’interessato, in relazione alla gravità dell’illecito.

Dopo la Corte EDU si è espressa la CGUE con tre sentenze del 20 marzo 2018 (in C-537/2016, Garlsson Real Estate SA e altri; nelle cause riunite C-596/2016 e C-597/2016, Di Puma; in C-524/2015, Menci), che ha affermato che non si realizza violazione dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea se la disciplina contestata persegua un obiettivo di interesse generale tale da giustificare un cumulo di procedimenti e di sanzioni, vale a dire “la lotta ai reati in materia di imposta sul valore aggiunto, fermo restando che detti procedimenti e dette sanzioni devono avere scopi complementari, contenga norme che garantiscano una coordinazione che limiti a quanto strettamente necessario l’onere supplementare che risulta, per gli interessati, da un cumulo di procedimenti, e preveda norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte sia limitata a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del reato di cui si tratti” (v. anche sentenza 3 aprile 2019, in C-617/2017, Powszechny).

Quanto, poi, agli effetti preclusivi della sentenza penale di assoluzione rispetto all’irrogazione della sanzione amministrativa avente natura penale, per lo stesso fatto materiale, si è espressa CGUE, sentenza 20 marzo 2018, in C-596/2016, Di Puma, che, su rinvio pregiudiziale disposto dalla Suprema Corte, ha affermato che “un procedimento inteso all’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale non può essere proseguito a seguito di una sentenza penale definitiva di assoluzione che ha statuito che i fatti che possono costituire una violazione della normativa sugli abusi di informazioni privilegiate, sulla base dei quali era stato parimenti avviato tale procedimento, non erano provati” (sentenza cit. punto 46).

5. Le libertà civili e i diritti fondamentali.

L’art. 6 § 1 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo dispone che “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti”.

A sua volta, l’art. 13 afferma che “ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.

Con riferimento a tali princìpi, Sez. L, n. 00027/2020, Pagetta, Rv. 656364-01, ha ritenuto che non contrasta con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, posto dalle richiamate disposizioni della CEDU, la disciplina del ricorso per cassazione, nella parte in cui prevede, all’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., requisiti di ammissibilità di contenuto-forma, in quanto essi sono individuati in modo chiaro, tanto da doversi escludere che il ricorrente in cassazione, tramite la difesa tecnica, non sia in grado di percepirne il significato e le implicazioni. Peraltro, i detti requisiti di contenuto-forma sono coerenti con la natura di impugnazione a critica limitata propria del ricorso per cassazione e con la strutturazione del giudizio di legittimità quale processo sostanzialmente privo di istruzione.

Un importante arresto in tema di libertà fondamentali della persona è costituito da Sez. 1, n. 07893/2020, Valitutti, Rv. 657708-01 e Rv. 657708-02, che, in una fattispecie in cui un Comune aveva vietato ad una associazione di atei e agnostici di affiggere manifesti ritenuti offensivi del sentimento religioso altrui, ha ricordato che l’art. 19 Cost. prevede il diritto di tutti di “professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in pubblico e in privato il culto”, e che la propaganda religiosa costituisce una forma di manifestazione del pensiero, la cui libertà è tutelata dall’art. 21 Cost.

La Suprema Corte ha notato che l’art. 19 Cost. sembra, in apparenza, contrariamente alle norme internazionali in materia, tutelare solo la libertà “positiva” di religione, che si estrinseca nella libertà di professare qualunque fede religiosa, con il solo limite che “non si tratti di riti contrari al buon costume”.

Il testo della norma non contiene, di contro, una espressa e specifica menzione della libertà di coscienza, intesa come libertà di mutare credo o di non averne alcuno, ovvero di professare una fede laica e agnostica, tant’è che una risalente pronuncia della Corte costituzionale (sent. n. 58 del 1960) aveva escluso che nell’ambito della libertà di professare una fede religiosa, tutelata dall’art. 19 Cost., potesse rientrare anche la libertà “negativa” di professare un credo agnostico, sulla base dell’argomento che “l’ateismo comincia dove finisce la fede religiosa”.

Sul piano interno, si è assistito, poi, ad un mutamento di indirizzo da parte del giudice delle leggi, che ha iniziato a leggere l’art. 19 Cost. in combinato disposto con gli artt. 2 e 3 Cost., arrivando alla conclusione che la tutela della “libertà di coscienza” dei non credenti rientra nella più ampia libertà in materia religiosa assicurata dall’art. 19 Cost. e dall’art. 21 Cost. (Corte cost. sent. n. 117 del 1979; sent. n. 334 del 1996; sent. n. 149 del 1995)

Quanto al piano comunitario ed internazionale, la libertà di coscienza, in essa compresa la libertà di non avere alcun credo religioso, trova una tutela piena e incondizionata.

Innanzitutto, l’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dispone che “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”. Pressoché all’unisono, l’art. 9 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, paragrafo 1, dispone che: “Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”.

La CGUE ha osservato che, nel Considerando 1 della direttiva n. 78/2000 (che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), il legislatore dell’Unione ha fatto riferimento alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto princìpi generali del diritto dell’Unione. Tra i diritti risultanti da tali tradizioni comuni e che sono stati riaffermati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea vi è il diritto alla libertà di coscienza e di religione sancito all’art. 10, paragrafo 1, della CDFUE (CGUE, Grande Camera, 14 marzo 2017, C-157/15).

La Corte europea dei diritti dell’uomo, con decisione del 29 marzo 2007, in causa Spampinato contro Italia, ha affermato che l’art. 9 della Convenzione tutela la libertà di pensiero, coscienza e religione, che costituisce il fondamento di qualunque società democratica. Tale libertà è posta a tutela non solo dei credenti, ma anche degli atei, degli agnostici, scettici o indifferenti, in quanto consente anche l’esplicazione del diritto di non aderire a nessun credo.

Sulla scorta, dunque, anche dei princìpi comunitari e convenzionali ripercorsi, la Suprema Corte, nella sentenza citata, ha enunciato i seguenti princìpi di diritto: “ai sensi degli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost. e dell’art. 1 del protocollo addizionale al Concordato tra Stato e Chiesa del 1984, dai quali si desume l’esistenza nell’ordinamento del principio supremo di laicità dello Stato, nonché ai sensi dell’art. 10 della CDFUE e dell’art. 9 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, deve essere garantita la pari libertà di ciascuna persona che si riconosca in una fede, quale che sia la confessione di appartenenza, ed anche se si tratta di un credo ateo o agnostico, di professarla liberamente. Dal riconoscimento del diritto di libertà di coscienza anche agli atei o agnostici, discende il diritto di questi ultimi di farne propaganda nelle forme che ritengano più opportune, attesa la previsione aperta e generale dell’art. 19 Cost.

Il diritto di propaganda e di diffusione del proprio credo religioso non deve tradursi nel vilipendio della fede religiosa da altri professata, ed il giudice di merito deve denegare le modalità con cui si esplica la propaganda o la diffusione solo quando esse si traducano in una aggressione o in una denigrazione della diversa fede da altri professata”.

Ancora in tema di libertà religiosa, Sez. L, n. 19618/2020, Di Paolantonio, non massimata, nel chiamare a pronunciarsi le Sezioni Unite sulla questione di diritto della rilevanza disciplinare della rimozione da parte di un insegnante del crocifisso dalla parete dell’aula in cui sia chiamato a fare lezione, violando le disposizioni impartite dal dirigente scolastico che invitava il corpo docente a lasciare affisso il simbolo in conformità ad un deliberato dell’assemblea degli studenti, ha ricordato che sul significato da attribuire all’ostensione del crocifisso nelle aule scolastiche è intervenuta la CEDU, con la sentenza della Grande Camera del 18 marzo 2011, Lautsi ed altri contro Italia, che, dopo aver dato atto del valore religioso del simbolo e delle posizioni divergenti assunte in proposito dal Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, II, parere n. 63 del 1988; Consiglio di Stato, sez. VI, n. 556 del 2006) e dalla Corte di cassazione (Cass. pen., sez. IV, n. 4273/2000), ha escluso la denunciata violazione dell’art. 9 della Convenzione perché dalla sola esposizione di un “simbolo essenzialmente passivo” non deriva la violazione del principio di neutralità dello Stato ed all’ostensione, che deve essere “relativizzata”, non può essere riconosciuta un’influenza sull’educazione degli allievi paragonabile a quella di un discorso didattico o della partecipazione ad attività religiose allorquando lo stesso Stato non assuma alcun comportamento intollerante nei confronti di alunni che aderiscano ad altri credi religiosi.

Il citato arresto della S.C. pone anche la questione della compatibilità della sanzione disciplinare irrogata all’insegnante (sospensione di trenta giorni) con la disciplina in tema di discriminazioni di cui al d.lgs. n. 216/2003, emanato in attuazione della direttiva 2000/78/CE.

In particolare, secondo i principi affermati dalla CGUE nelle sentenze del 14 marzo 2017 in cause C-157/15, Achbita, e C-188/15, Buougnaoui, nel caso di un ordine incidente sulla libertà religiosa di chi è tenuto ad osservarlo, se è vero che esso, per la sua generalità, non comporta una discriminazione diretta di taluni destinatari rispetto ad altri, è pur vero che potrebbe comportare una discriminazione indiretta, ove determini “un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia”, rispetto ai lavoratori che a tale religione o ideologia non aderiscono, con la conseguenza che, affinché possa dirsi consentita una qualche forma di compressione della libertà religiosa, è necessario che ricorra una finalità legittima e che i mezzi impiegati per il perseguimento di detta finalità siano appropriati.

Proprio la necessità di indagare se sussista una forma di discriminazione indiretta, nel senso appena specificato, e di considerare se la compressione alla libertà religiosa (in senso negativo) del docente sanzionato possa dirsi giustificata dalla volontà degli alunni espressa nell’assemblea di classe e se, eventualmente, il miglior contemperamento dei contrapposti diritti in campo fosse quello di lasciare che l’insegnante rimuovesse provvisoriamente il crocifisso durante lo svolgimento delle sue lezioni ha indotto la Suprema Corte, con l’ordinanza interlocutoria appena citata, a rimettere la risoluzione di tali questioni alle Sezioni Unite.

Nel corso del 2020, la S.C. ha affrontato una questione molto particolare ed interessante in tema di status delle persone, dovendo stabilire se fosse o meno legittima la cancellazione della trascrizione, nei registri dello stato civile italiano, di una sentenza emessa da un tribunale religioso di Nablus Occidentale (Palestina), di scioglimento del matrimonio sciaraitico celebrato tra una donna e un uomo, entrambi con doppia cittadinanza, italiana e giordana; scioglimento avvenuto attraverso l’esercizio da parte di quest’ultimo del cd. ripudio unilaterale. In particolare, la Corte di appello aveva ordinato la cancellazione della trascrizione della sentenza in quanto aveva ritenuto che quest’ultima, avendo sostanzialmente preso atto del ripudio esercitato unilateralmente dal marito nei confronti della moglie, si poneva in contrasto sia con l’art. 64, lett. g), della l. n. 218 del 1995, perché il giudice palestinese non aveva effettuato alcun accertamento sulla cessazione della comunione di vita tra i coniugi; sia con l’art. 64, lett. b), della stessa legge, in quanto il procedimento del ripudio unilaterale è basato solo sulla manifestazione di volontà del marito, senza che lo stesso debba addurre alcuna motivazione, senza possibilità di opposizione da parte della moglie, e dunque senza contraddittorio, e senza che alla moglie sia riconosciuto un analogo diritto.

Nel decidere sul ricorso presentato dal marito che aveva interesse a che la sentenza del tribunale sciaraitico avesse efficacia anche in Italia, Sez. 1, n. 16804/20, Iofrida, Rv. 658805-01, nel confermare l’incompatibilità del “ripudio unilaterale”, quale forma di scioglimento del matrimonio, con l’ordinamento italiano, ha richiamato gli artt. 2, 3, 29 Cost. e l’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul divieto di discriminazione ai fini di assicurare a tutti il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti dal suo articolato; l’art. 5, settimo protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sull’uguaglianza morale e giuridica degli sposi, sia durante il matrimonio che dopo lo scioglimento dello stesso; l’art. 16 della Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, ratificata in Italia nel 1985; l’art. 111 Cost. e l’art. 6 della CEDU, che prescrivono l’esigenza di un processo equo ed in condizioni di parità sostanziale e processuale tra le parti.

In tema di sanzioni amministrative e di regime temporale della loro applicazione, si segnala Sez. 2 n. 19558/2020, Varrone, Rv. 659174-01, che ha ricordato come la Suprema Corte affermi che le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Consob ex art. 190 del d.lgs. n. 58 del 1998 (cd. TUF) non sono equiparabili alle sanzioni irrogate per manipolazione del mercato ai sensi dell’art. 187 ter del citato d.lgs., sicché le prime non condividono la natura sostanzialmente penale di queste ultime.

Una volta esclusa la natura sostanzialmente penale delle sanzioni, viene anche meno l’obbligo di applicare retroattivamente la norma sanzionatoria più favorevole al trasgressore.

Il principio di irretroattività delle sanzioni amministrative, di cui all’art. 1 l. n. 689 del 1981, è stato ritenuto dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 193 del 2016, non in contrasto con gli artt. 3 e 117, comma 1, Cost., con riferimento ai parametri posti dagli artt. 6 e 7 della CEDU e dall’art. 49 CDFUE.

Il sistema della CEDU, come interpretato dalla Corte europea, non impone al legislatore nazionale di disporre l’applicazione retroattiva delle sanzioni amministrative più favorevoli al trasgressore; né un vincolo in tal senso si rinviene nella Costituzione, salva la possibilità per il legislatore nel limite della ragionevolezza di modulare le proprie determinazioni, e dunque di disporre volta per volta l’applicazione retroattiva della norma sanzionatoria sopravvenuta più favorevole al trasgressore, a seconda del campo di intervento e della materia oggetto di disciplina (ordinanze della Corte Cost. n. 245 del 2003, n. 501 e n. 140 del 2002).

Un altro settore nel quale il diritto dell’Unione e quello convenzionale hanno avuto una rilevante incidenza è quello del diritto del lavoro.

Sez. L, n. 00001/2020, Arienzo, Rv. 656650-02, con riferimento ad una azione esercitata da un sindacato a tutela di un gruppo di lavoratori identificati in base all’appartenenza sindacale e che in ragione di questa assumevano di essere stati discriminati da provvedimenti datoriali, ha innanzitutto affermato che l’art. 2 del d.lgs. n. 216 del 2003 definisce le nozioni di discriminazione diretta e indiretta.

La prima si configura nelle ipotesi in cui “per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga”; la seconda si configura nelle ipotesi in cui “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di un’altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

Il citato d.lgs. n. 216 del 2003 costituisce attuazione della direttiva 2000/78, che a sua volta stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Tale direttiva trova fondamento nell’art. 13 del Trattato di Amsterdam che modifica il Trattato sull’Unione europea. Il principio di non discriminazione, inoltre, si trova enunciato nell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

L’art. 4 del d.lgs. n. 216 del 2003, dunque, non può che essere letto all’interno della cornice di princìpi unionali in cui si iscrive, con la conseguenza che, nella espressione “convinzioni personali”, possono essere ricomprese anche le convinzioni di cui sono portatrici determinate organizzazioni sindacali, idonee a costituire, al pari delle convinzioni religiose, politiche o dell’orientamento sessuale, il motivo di un comportamento discriminatorio denunciabile dinanzi al giudice.

L’onere della prova dell’esistenza della motivazione discriminatoria del provvedimento datoriale gode, peraltro, di un “alleggerimento”, per evitare lo svuotamento in sede processuale delle garanzie attribuite sul piano sostanziale ai lavoratori e all’organizzazione sindacale che si pone a tutela dell’interesse collettivo a loro riconducibile.

In particolare, tale alleggerimento non può che identificarsi in un livello di indizi che, pur non giungendo a formare una prova presuntiva piena, siano comunque idonei a fondare un ragionevole sospetto che il provvedimento o il comportamento datoriale sia connotato da intenti discriminatori; spetta, poi, al datore di lavoro dedurre e provare circostanze inequivoche idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria dell’atto o del comportamento assunto, in quanto connotate (quelle circostanze) di una oggettività tale che qualsiasi altro lavoratore, nella stessa posizione di quelli in tesi discriminati, sarebbe stato trattato allo stesso modo (CGUE 17 luglio 2008, C-303/06, Colemann; CGUE 10 luglio 2008, C-54/07, Feryn; CGUE 16 luglio 2015, C-83/14, Chez).

Altra importante pronuncia per i diritti dei lavoratori è Sez. L, n. 17202/2020, Amendola, in tema di licenziamenti collettivi in caso di trasferimento di azienda concomitante con una situazione di crisi.

La Suprema Corte ha ricordato che la direttiva 2001/23/CE, agli artt. 3 e 4, detta regole generali cui non è consentito derogare da parte degli Stati membri in senso sfavorevole ai lavoratori, al fine di assicurare il mantenimento dei loro diritti in caso di trasferimento d’impresa. Le regole volte a garantire il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di cambiamento dell’imprenditore, consentendo loro di restare al servizio del nuovo datore di lavoro alle stesse condizioni pattuite con il cedente, possono essere derogate dalle legislazioni nazionali nei soli casi espressamente previsti dall’art. 5 della direttiva 2001/23/CE.

L’introduzione del comma 4 bis nel corpo dell’art. 47 della l. n. 428 del 1990, avvenuta per dare esecuzione alla sentenza della CGUE 11 giugno 2009, nella causa C-561/07, emanata in seguito ad una procedura di infrazione intrapresa dalla Commissione europea contro l’Italia per la non corretta attuazione della direttiva 2001/23/CE, deve essere, dunque, letta in maniera conforme con la predetta direttiva, con la conseguenza che, in ipotesi di trasferimento che riguardi soggetti imprenditoriali dei quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell’art. 2, comma 5, lettera c), l. n. 675 del 1977, ovvero per i quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività, ex d.lgs. n. 270 del 1999, l’accordo sindacale di cui all’art. 47, comma 4 bis, l. n. 428 del 1990, inserito dal d.l. n. 135 del 2009, conv. dalla l. n. 166 del 2009, può prevedere deroghe all’art. 2112 c.c. per quanto riguarda le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionario. Solo in caso di procedura di insolvenza con cessazione dell’attività aziendale del cedente la deroga all’art. 2112 c.c. può concernere anche il passaggio di tutti i lavoratori dal cedente al cessionario, potendosi prevedere che il trasferimento aziendale comporti di per sé la riduzione dei livelli occupazionali.

Un altro “fronte caldo” dei rapporti tra l’ordinamento interno e l’ordinamento dell’Unione ha continuato ad essere, durante l’anno 2020, quello del riconoscimento del servizio svolto dal personale scolastico prima dell’immissione in ruolo.

A tal proposito, con riferimento al personale ausiliario, tecnico ed amministrativo (cd. ATA), Sez. 6-L, n. 21175/2020, Esposito, non massimata, ha ribadito che “l’art. 569 del d.lgs. n. 297/1994 relativo al riconoscimento dei servizi preruolo del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario della scuola si pone in contrasto con la clausola 4 dell’Accordo Quadro CES, UNICE e CEEP allegato alla direttiva 1999/70/CE nella parte in cui prevede che il servizio effettivo prestato, calcolato ai sensi dell’art. 570 dello stesso decreto, sia utile integralmente a fini giuridici ed economici solo limitatamente al primo triennio e per la quota residua rilevi a fini economici nei limiti dei due terzi. Il giudice, una volta accertata la violazione della richiamata clausola 4, è tenuto a disapplicare la norma di diritto interno in contrasto con la direttiva ed a riconoscere ad ogni effetto al lavoratore a termine, poi immesso nei ruoli dell’amministrazione, l’intero servizio effettivo prestato.

In ordine, invece, al personale docente, la segnalata pronuncia, chiamata ad occuparsi della conformità al diritto dell’Unione della disciplina interna relativa alla ricostruzione della carriera degli insegnanti ove l’immissione in ruolo sia stata preceduta da rapporti a termine, ha evidenziato, innanzitutto, che già con il d.l. n. 370 del 1970, convertito con modificazioni dalla l. n. 576 del 1970, il legislatore aveva previsto, all’art. 3, che “il servizio…viene riconosciuto agli effetti giuridici ed economici per l’intero e fino ad un massimo di quattro anni, purché prestato con il possesso, ove richiesto, del titolo di studio prescritto o comunque riconosciuto valido per effetto di apposito provvedimento legislativo. Il servizio eccedente i quattro anni viene valutato in aggiunta a quello di cui al precedente comma agli stessi effetti nella misura di un terzo, e ai soli fini economici per i restanti due terzi. I diritti economici derivanti dagli ultimi due terzi di servizio previsti dal comma precedente saranno conservati e valutati anche in tutte le classi successive di stipendio”. Con il d.lgs. n. 297 del 1994, di approvazione del T.U. delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado, le richiamate disposizioni sono confluite, con modificazioni e integrazioni, negli artt. 485 e 489 ed esse non possono essere derogate da parte della contrattazione collettiva. L’abbattimento opera solo sulla quota eccedente i primi quattro anni di anzianità, oggetto di riconoscimento integrale, e pertanto il meccanismo finisce per penalizzare i precari di lunga data, non già quelli che ottengano l’immissione in ruolo entro il limite massimo per il quale opera il principio della totale valorizzazione del servizio.

Tale sistema di riconoscimento della pregressa anzianità maturata con i contratti a termine prima dell’immissione in ruolo, se poteva dirsi non irragionevole con riferimento ad un sistema di reclutamento basato sulla regola del cd. “doppio canale” e della cadenza triennale dei concorsi, che giustificava l’abbattimento oltre il primo quadriennio in relazione al criterio meritocratico, essendo prevista la periodicità dei concorsi e delle immissioni in ruolo, non ha trovato giustificazione in seguito, in quanto, come è stato rilevato in varie pronunce della CGUE, della Corte costituzionale e della stessa Suprema Corte, le immissioni in ruolo non sono avvenute con la periodicità originariamente pensata e voluta dal legislatore e ciò ha determinato, come conseguenza, che il personale “stabilizzato” si è trovato per lo più a vantare, al momento dell’immissione in ruolo, un’anzianità di servizio di gran lunga superiore a quella per la quale il riconoscimento opera in misura integrale.

Con riguardo, poi, alla comparabilità degli assunti a tempo determinato con il personale stabilmente immesso nei ruoli dell’amministrazione, non sussistono ragioni oggettive atte a giustificare la disparità di trattamento, non potendosi fare leva sulla natura non di ruolo del rapporto di impiego, sulla novità di ogni singolo contratto rispetto al precedente, sulle modalità di reclutamento del personale e sulle esigenze che il sistema mira ad assicurare.

Quanto alla necessità di non discriminare i lavoratori con contratto a termine rispetto a quelli a tempo indeterminato, di cui alla clausola 4 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (concluso il 18 marzo 1999 tra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale e recepito dalla direttiva 99/70/CE), si è ricordato che la CGUE 9 luglio 2015, causa C-177/14, Regojo Dans, punto 32, ha chiarito che l’obbligo posto a carico degli Stati membri di assicurare al lavoratore a tempo determinato “condizioni di impiego” che non siano meno favorevoli rispetto a quelle riservate all’assunto a tempo indeterminato “comparabile” sussiste a prescindere dalla legittimità del termine apposto al contratto, giacché detto obbligo è attuazione, nell’ambito della disciplina del rapporto a termine, del principio della parità di trattamento e del divieto di discriminazione che costituiscono “norme di diritto sociale dell’Unione di particolare importanza, di cui ogni lavoratore deve usufruire in quanto prescrizioni minime di tutela” (Sez. L, n. 21304/2020, Marotta, non massimata).

Con riferimento al diritto alle ferie, Sez. L, n. 22401/2020, Negri Della Torre, non massimata, ha ricordato che il diritto del lavoratore a ferie retribuite trova una disciplina sia nel diritto interno (art. 36, comma 3, Cost.; art. 2109, comma 2, c.c.; art. 10 del d.lgs. n. 66 del 2003) sia in quello dell’Unione europea (art. 7 della direttiva n. 2003/88/CE). Il diritto ad un periodo annuale di ferie è espressamente sancito nell’art. 31, n. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cui l’art. 6, n. 1, TUE riconosce il medesimo valore giuridico dei trattati (CGUE sentenze 8 novembre 2012, Heimann e Toltschin, C-229/11 e C-230/11, punto 22; 29 novembre 2017, King, C-214/16, punto 33; 4 ottobre 18, Dicu, C-12/17, punto 25). Il diritto alle ferie retribuite di almeno quattro settimane, secondo una costante giurisprudenza della CGUE, deve essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione e ad esso non si può derogare. In particolare, per ciò che riguarda “l’ottenimento di un pagamento” a titolo di ferie annuali, la CGUE, sin dalla sentenza 16 marzo 2006, cause riunite C-131/04 e C-257/04, Robinson-Steele e altri (punto 50), ha avuto occasione di precisare che l’espressione “ferie annuali retribuite”, di cui all’art. 7 n. 1 della direttiva n. 88 del 2003 intende significare che, per la durata delle ferie annuali, “deve essere mantenuta la retribuzione”: in altre parole, il lavoratore deve percepire la retribuzione ordinaria per tale periodo di riposo (CGUE 20 gennaio 2009, C-350/06 e C-520/06, Schultz-Hoff e altri, punto 58).

Particolarmente illuminante si rivela la sentenza della CGUE 15 settembre 2011, causa C-155/10, Williams e altri (punto 21), nella quale si afferma che la retribuzione delle ferie annuali deve essere calcolata, in linea di principio, in modo tale da coincidere con la retribuzione ordinaria del lavoratore e che una diminuzione della retribuzione idonea a dissuadere il lavoratore dall’esercitare il diritto alle ferie sarebbe in contrasto con la disciplina del diritto dell’Unione: “qualsiasi incomodo intrinsecamente collegato” all’esecuzione delle mansioni che il lavoratore è tenuto ad espletare in forza del suo contratto di lavoro e che viene compensato tramite un importo pecuniario incluso nel calcolo della retribuzione complessiva del lavoratore…deve obbligatoriamente essere preso in considerazione ai fini dell’ammontare che spetta al lavoratore durante le sue ferie annuali” (sentenza ult. cit., punto 24).

Un altro tema sempre molto sensibile ai riflessi sovranazionali è quello dell’immigrazione.

Con riferimento ai presupposti del riconoscimento del permesso di soggiorno per gravi ragioni umanitarie, Sez. 2, n. 17118/2020, Giannaccari, Rv. 658952-02, ha affermato che nella vigenza della formulazione dell’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, applicabile ai fatti di causa, la condizione di vulnerabilità per motivi di salute richiede, alla luce della giurisprudenza dell’Unione (CGUE, 24 aprile 2018, in causa C-353/16), l’accertamento della gravità della patologia, la necessità ed urgenza delle cure nonché la presenza di gravi carenze del sistema sanitario del paese di provenienza.

Sez. 1, n. 19224/2020, Acierno, Rv. 658819-01, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE, sentenza 17 febbraio 2009, causa C-465/07), ha chiarito che, diversamente dalle ipotesi di protezione sussidiaria cd. individualizzanti, previste dall’art. 14, lett. a) e b), del d.lgs. n. 251 del 2007, nell’ipotesi dell’art. 14, lett. c), del citato d.lgs., l’onere di allegazione del richiedente tale specie di protezione è limitato alla deduzione di una situazione oggettiva di generale violenza indiscriminata, dettata da un conflitto esterno o da una instabilità interna, percepita come idonea a porre in pericolo la vita o l’incolumità psico-fisica per il solo fatto di rientrare nel paese di origine, disancorata dalla rappresentazione di una vicenda individuale di esposizione al rischio persecutorio. Ne consegue che, ove correttamente allegata tale situazione, il giudice, in attuazione del proprio dovere di cooperazione istruttoria, è tenuto ad accertarne l’attualità con riferimento alla situazione oggettiva del paese di origine e, in particolare, dell’area di provenienza del richiedente.

Sez. 1, n. 21584/2020, Fidanzia, Rv. 658982-01, ha fissato i presupposti nei quali, in tema di protezione internazionale, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, il giudice, pure obbligato a fissare l’udienza di comparizione, ha altresì l’obbligo di disporre l’audizione del richiedente: a) nel ricorso vengono dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda, sufficientemente distinti da quelli allegati nella fase amministrativa, circostanziati e rilevanti; b) il giudice ritiene necessario l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) il richiedente fa istanza di audizione nel ricorso precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire chiarimenti, sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile. A tal proposito, nell’arresto citato la Suprema Corte ha ricordato che la CGUE, nella sentenza 26 luglio 2017, C-348/16, Moussa Sacko, ha statuito che “la direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, e in particolare i suoi articoli 12, 14, 31 e 46, letti alla luce dell’art. 47 della CDFUE, deve essere interpretata nel senso che non osta a che il giudice nazionale, investito di un ricorso avverso la decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale manifestamente infondata, respinga detto ricorso senza procedere all’audizione del richiedente qualora le circostanze di fatto non lascino alcun dubbio sulla fondatezza di tale decisione, a condizione che, da una parte, in occasione della procedura di primo grado sia stata data facoltà al richiedente di sostenere un colloquio personale sulla sua domanda di protezione internazionale, conformemente all’art. 14 di detta direttiva, e che il verbale o la trascrizione di tale colloquio, qualora quest’ultimo sia avvenuto, sia stato reso disponibile unitamente al fascicolo, in conformità all’art. 17, paragrafo 2, della direttiva medesima, e, dall’altra parte, che il giudice adìto con il ricorso possa disporre tale audizione ove lo ritenga necessario ai fini dell’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto contemplato all’art. 46, paragrafo 3, di tale direttiva” (sul punto, per ulteriori specificazioni e chiarimenti, cfr. CGUE 6 luglio 2020, C-517/17, Mikiyos Addis).

Sez. 3, n. 22864/2020, Vincenti, non massimata, pronunciandosi sull’interpretazione dell’art. 3 del d.lgs. n. 30 del 2007, e cioè sui limiti del diritto al ricongiungimento familiare in Italia di un cittadino extracomunitario con un cittadino, residente in Italia, di un altro Stato membro dell’UE, ha esaminato il Considerando 6 della direttiva 2004/38, che tende a “preservare l’unità della famiglia in senso ampio senza discriminazione in base alla nazionalità, con la conseguenza che la situazione delle persone che non rientrano nella definizione di familiari ai sensi della detta direttiva, e che pertanto non godono di un diritto automatico di ingresso e di soggiorno nello Stato membro ospitante, dovrebbe essere esaminata dallo Stato membro ospitante sulla base della propria legislazione nazionale, al fine di decidere se l’ingresso e il soggiorno possano essere concessi a tali persone, tenendo conto della loro relazione con il cittadino dell’Unione o di qualsiasi altra circostanza, quali la dipendenza finanziaria o fisica dal cittadino dell’Unione”.

Inoltre, il citato arresto della Suprema Corte ha rilevato che nella “comunicazione della Commissione al parlamento europeo e al Consiglio concernente gli orientamenti per un migliore recepimento e una migliore applicazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente sul territorio degli Stati membri” si afferma che “per stabilire se un familiare è a carico, occorre valutare nella singola fattispecie se l’interessato, alla luce delle sue condizioni finanziarie e sociali, necessita di sostegno materiale per sopperire ai suoi bisogni essenziali nello Stato d’origine o nello Stato di provenienza al momento in cui chiede di raggiungere il cittadino comunitario (quindi non nello Stato membro ospitante in cui soggiorna il cittadino UE)”.

La S.C. è stata anche investita, quale giudice a quo, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, come modificato dall’art. 6 del d.l. n. 13 del 2017, per violazione degli artt. 117 Cost., 6 e 13 CEDU, nella parte in cui stabilisce che il procedimento per l’ottenimento della protezione internazionale è definito con decreto non reclamabile. Tale questione è stata dichiarata manifestamente inammissibile da Sez. 1, n. 22950/2020, Fidanzia, Rv. 659116-01, poiché la Corte europea dei diritti umani, con riferimento ai procedimenti civili, ha sempre negato che il diritto all’equo processo e ad un ricorso effettivo possano essere considerati parametri per invocare un secondo grado di giurisdizione, mentre la legislazione eurounitaria e, in particolare, la direttiva UE n. 2013/32, secondo l’interpretazione fornitane dalla CGUE, non prevede un obbligo per gli stati membri di istituire l’appello, poiché l’esigenza di assicurare l’effettività del ricorso riguarda espressamente i procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado.

Sez. 1, n. 23584/2020, Pazzi, Rv. 659239-01, con riferimento al sindacato giurisdizionale della determinazione, assunta dall’organo amministrativo all’uopo deputato, dello Stato competente a provvedere a decidere sulla domanda di protezione internazionale proposta dal migrante, ha affermato che l’individuazione dello Stato competente ad esaminare la domanda di protezione internazionale (Regolamento UE del parlamento europeo e del Consiglio n. 603 del 2013, Dublino III) spetta, in base all’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, all’amministrazione e, precisamente, all’Unità di Dublino, operante presso il Dipartimento delle libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno e non al giudice ordinario. Ne consegue che, laddove sia stato impugnato un provvedimento di ripresa in carico di un immigrato già accettato da parte di uno Stato membro UE, il giudice ordinario nazionale non può rilevare violazioni formali del Regolamento Dublino verificatesi nel corso della procedura essendo sfornito di competenza al riguardo. Infatti, il relativo sindacato è limitato al vaglio della sussistenza di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di assistenza dei richiedenti nello Stato membro designato, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tenuto anche conto che fra gli Stati membri dell’UE vige il principio secondo cui “il riconoscimento della protezione internazionale nei paesi dell’Unione è fondato su un sistema comune di asilo (art. 78 TFUE), che postula un principio generale di reciproca fiducia tra i sistemi di asilo nazionali e il mutuo riconoscimento delle decisioni emesse dalle singole autorità nazionali”.

Deve essere segnalata anche Sez. 1, n. 23720/2020, Pazzi, Rv. 659278-01, che, ai fini della concessione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, ha affermato che, nell’effettuare il giudizio di comparazione tra la situazione del richiedente in Italia e la condizione in cui questi verrebbe a trovarsi nel paese di provenienza ove rimpatriato, il giudice, al fine di dare concreta attuazione al diritto alla vita privata e familiare, protetto dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, deve tener conto, quale fattore concorrente ma non esclusivo di un’eventuale situazione di vulnerabilità, anche dell’esistenza e della consistenza dei legami familiari del richiedente in Italia, effettuando un bilanciamento tra il pericolo di danno alla vita familiare e l’interesse statale al controllo dell’immigrazione.

6. Libertà economiche e diritti del consumatore.

Rilevante, nell’ambito della giurisprudenza della Suprema Corte, è anche il “dialogo” sviluppato con le corti sovranazionali, specialmente con la CGUE, in tema di tutela delle libertà economiche e dei diritti del consumatore.

Con riferimento alle libertà economiche, l’applicazione che più spesso la Suprema Corte fa del diritto dell’Unione riguarda i rapporti contrattuali tra le autorità pubbliche dei singoli Stati e le imprese.

In materia di spese di giustizia, Sez. 1, n. 00208/2020, Sambito, Rv. 656501-01, ha affermato che il noleggio ad una procura della Repubblica di apparecchiature destinate ad intercettazioni telefoniche non è una transazione commerciale, ma una spesa straordinaria di giustizia sottratta alla libera contrattazione, sicché al compenso non si applicano gli interessi moratori di cui al d.lgs. n. 231 del 2002, nemmeno alla luce del terzo e quinto considerando della direttiva n. 7 del 2011 del parlamento europeo e del Consiglio del 16 febbraio 2011, applicabile, avendo lo scopo di tutelare la concorrenza, alle “pubbliche amministrazioni aggiudicatrici”, dunque, alle sole transazioni commerciali frutto di una procedura di evidenza pubblica.

Dal canto suo, Sez. U, n. 00299/2020, Perrino, Rv. 656575-01, in tema di notificazioni di atti processuali, ha affermato che, nel quadro giuridico novellato dalla direttiva n. 2008/6/CE del parlamento e del Consiglio del 20 febbraio 2008, è prevista la possibilità per tutti gli operatori postali di notificare atti giudiziari, a meno che lo Stato non evidenzi e dimostri la giustificazione oggettiva ostativa. Ne consegue che, con riferimento alla notificazione di un atto giudiziario eseguita da un operatore di posta privata senza il relativo titolo abilitativo nel periodo successivo all’entrata in vigore della detta direttiva ma precedente al regime introdotto dalla l. n. 124 del 2017, tale notificazione non può dirsi inesistente, ma solo nulla, e, dunque, suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo costituito dalla costituzione in giudizio della controparte; raggiungimento che, comunque, non rileva ai fini della tempestività del ricorso, a fronte della mancanza di certezza legale della data di consegna del ricorso all’operatore, dovuta all’assenza di poteri certificativi di quest’ultimo, in quanto sprovvisto di titolo abilitativo.

In materia di professioni, è interessante il caso di cui si è occupata l’ordinanza interlocutoria Sez. 1, n. 01568/2020, Sambito.

L’Ordine dei biologi lamentava che il d.lgs. n. 261 del 2007, di attuazione della direttiva 2002/98/CE, aveva escluso i biologi dalla possibilità di essere designati quali responsabili del servizio trasfusionale, in violazione dell’art. 9, comma 2, della detta direttiva che, invece, attribuiva l’idoneità professionale alla prestazione di tale servizio anche ai laureati in scienze biologiche. Rigettata anche in appello la domanda di alcuni biologi volta ad ottenere la condanna dello Stato italiano al risarcimento per illegittima e incompleta attuazione della direttiva, e su ricorso dei professionisti, la Suprema Corte ha innanzitutto chiarito che la domanda di condanna al risarcimento proposta dai biologi era ben determinata, in quanto essi avevano allegato: 1) la norma del diritto dell’Unione violata, preordinata ad conferire diritti ai singoli; 2) una violazione sufficientemente caratterizzata, da intendersi quale grave e manifesta; 3) l’esistenza di un nesso di causalità tra violazione dell’obbligo posto a carico dello Stato membro e danno subito dal soggetto leso (CGUE, sentenze 10 novembre 1991, Francovich, cause C-6/90 e C-9/90, sull’obbligo risarcitorio degli Stati membri per la mancata attuazione di direttive comunitarie; sentenza 5 marzo 1996 Brasserie du pecheur e Factortame, cause C-46/93 e C-48/93, sul tema degli obblighi risarcitori dello Stato membro nei confronti dei singoli per violazione del diritto comunitario).

La S.C. ha rilevato che, in base al diritto interno, è precluso ai dottori in biologia l’accesso al ruolo di persona responsabile dei servizi trasfusionali, mentre la direttiva enuncia, come si è visto, tra i requisiti di qualificazione valenti al riguardo, titoli accademici acquisiti anche nel settore delle scienze mediche o biologiche.

Ebbene, sulla base di tale rilievo, ha formulato alla CGUE, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, il quesito se la disposizione dell’art. 9, comma 2, della direttiva 2002/98/CE, che stabilisce norme di qualità e di sicurezza per la raccolta, il controllo, la lavorazione , la conservazione e la distribuzione del sangue umano e dei suoi componenti, vada interpretato nel senso che, nell’indicare, tra le condizioni minime di qualificazione per l’accesso al ruolo di persona responsabile del centro ematologico, il possesso di un titolo accademico “nel settore delle scienze mediche o biologiche” attribuisca direttamente ai laureati in entrambe le discipline il diritto a poter svolgere il ruolo di persona responsabile di un centro ematologico-trasfusionale; e, di conseguenza, se il diritto dell’Unione consenta o impedisca che il diritto nazionale escluda che il predetto ruolo di persona responsabile del centro ematologico-trasfusionale possa essere ricoperto da soggetti laureati in scienze biologiche.

Nel corso del 2020 la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi anche in materia antitrust.

In particolare, Sez. 1, n. 05381/2020, Iofrida, Rv. 657038-01, ha chiarito che, in seguito all’entrata in vigore della direttiva n. 2014/114/UE, alla quale ha fatto seguito, nell’ordinamento italiano, la legge delega n. 114 del 2015 e il d.lgs. n. 3 del 2017, si è delineato un ordinamento in cui: 1) il termine di prescrizione è di cinque anni per il diritto al risarcimento del danno; 2) il dies a quo di decorrenza del termine va individuato nel momento in cui intervenga la conoscenza o la ragionevole presunzione di conoscenza della violazione antitrust fonte di danno e dell’identità dell’autore della violazione; 3) il termine di prescrizione non inizia a decorrere prima che la violazione sia cessata; 4) la prescrizione rimane sospesa durante l’indagine o istruttoria antitrust avviata dall’Autorità Garante in relazione alla violazione del diritto della concorrenza cui si riferisce l’azione risarcitoria e si protrae per un anno dal momento della decisione sulla violazione definitiva o dal momento di chiusura del procedimento in altro modo.

Orbene, mentre quanto previsto ai punti 1) e 2) costituisce un orientamento consolidato del giudice di legittimità, le disposizioni dei punti 3) e 4) hanno carattere innovativo e non hanno portata retroattiva, con la conseguenza che queste ultime non si applicano alle azioni risarcitorie, derivanti dalla violazione delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione europea, proposte anteriormente alla data del 26 dicembre 2014.

Sempre con riferimento alla libertà di concorrenza e al divieto di aiuti di Stato atti a falsarla, in una fattispecie in cui si discuteva se l’Azienda Napoletana Mobilità S.p.A., che gestiva il servizio di trasporto pubblico locale per il Comune di Napoli negli anni ’90 del secolo scorso, fosse tenuta a restituire all’INPS gli sgravi contributivi di cui aveva illegittimamente fruito nel periodo dal 1997 al 2001, deve segnalarsi Sez. L, n. 09801/2020, Cavallaro, Rv. 657785-01 che, dopo aver sollevato una questione pregiudiziale alla CGUE circa l’interpretazione e la portata da dare alla decisione della Commissione europea n. 128/2000, questione alla quale la Corte di giustizia ha risposto con sentenza del 29 luglio 2019, C-659/17, ha chiarito che, per stabilire sulla legittimità degli sgravi contributivi goduti dall’azienda di trasporto pubblico locale, si sarebbe dovuto accertare se, all’epoca di questi ultimi, il Comune di Napoli fosse soggetto ad un obbligo legislativo o regolamentare di conferire la gestione del servizio a quella azienda di trasporto e se quest’ultima avesse o meno esercitato, nel periodo in cui aveva fruito degli sgravi, attività su altri mercati di beni o servizi o comunque su altri mercati geografici aperti alla concorrenza.

Con riferimento ai contratti di gestione già in essere alla data di entrata in vigore dell’art. 18 del d.lgs. n. 422 del 1997, la S.C., nella sentenza citata, ha affermato che l’azienda di trasporto locale gestiva il servizio in regime di monopolio legale, in quanto l’ente comunale, ai sensi dell’art. 22 della l. n. 142 del 1990, era vincolato ad affidare il servizio di trasporto pubblico ad aziende speciali, quali prestatori esclusivi, con divieto di accesso a qualsiasi altro operatore economico. La verifica della sussistenza della seconda condizione richiesta dalla CGUE, relativa all’eventuale svolgimento da parte dell’azienda di trasporto di altre attività aperte alla concorrenza o della stessa attività su altri mercati geografici aperti alla concorrenza, è stata demandata dalla Suprema Corte alla Corte territoriale di merito.

In ordine al regime di recupero degli sgravi contributivi illegittimi in quanto costituenti aiuti di Stato vietati dalla Commissione europea, Sez. L, n. 15972/2020, Berrino, Rv. 658533-01, ha affermato che l’azione dell’ente previdenziale volta al recupero non costituisce una azione di ripetizione dell’indebito oggettivo ai sensi dell’art. 2033 c.c., bensì una azione volta al pagamento dei contributi differenziali.

Ne consegue che tale azione è soggetta al termine ordinario prescrizionale di dieci anni di cui all’art. 2946 c.c., e non a quello dell’art. 3, commi 9 e 10, l. n. 335 del 1995.

In tema di azione risarcitoria nei confronti dello Stato per violazione del divieto di aiuti pubblici erogati in violazione del principio di libera concorrenza deve segnalarsi Sez. 3, n. 22631/2020, Vincenti, Rv. 659242-01, che ha stabilito come, in materia di aiuti di Stato illegittimi, il giudice nazionale - qualora sia chiamato a decidere sulla sussistenza della responsabilità per illecito eurounitario dello Stato-Legislatore per violazione della norma di riferimento, da individuarsi nell’art. 88, par. 3, del Trattato CE (già art. 93, attuale art. 108 TFUE), avente efficacia diretta nell’ordinamento - debba verificare, in successione, se: a) il provvedimento controverso, procurando ai beneficiari un vantaggio mediante risorse pubbliche, costituisca un aiuto di Stato ai sensi dell’art. 87, par. 1, del Trattato; b) l’aiuto di Stato rientri nella categoria di quelli vietati dall’art. 87, par. 1, del Trattato, in quanto idoneo a falsare la concorrenza e ad incidere sugli scambi fra gli Stati membri; c) il predetto aiuto rientri nella procedura di controllo di cui all’art. 88, par. 3, del Trattato e, quindi, se si tratti di nuovo aiuto e non di un aiuto esistente, che a tale procedura si sottrae, ai sensi del par. 1 del citato art. 88.

Con riferimento alla distinzione tra “aiuti nuovi” ed “aiuti esistenti”, ai fini del giudizio di illiceità, non sono nuovi, bensì esistenti (ai sensi dell’art. 88, par. 1 e 2, del Trattato CE, già art. 93, attuale art. 108 TFUE) e, quindi, irrilevanti per il giudizio di responsabilità per illecito eurounitario dello Stato-Legislatore, gli aiuti: a) istituiti in uno Stato membro prima dell’entrata in vigore del Trattato CE; b) già autorizzati dalla Commissione o dal Consiglio; c) notificati e rispetto ai quali sia scaduto il termine per l’esame preliminare; d) non notificati e per i quali sia scaduto il termine decennale per il recupero; e) non qualificabili, al tempo della loro adozione, come aiuti e che lo sono divenuti in seguito al processo di completamento del mercato interno, dovendo però escludersi dal novero degli aiuti esistenti le misure di sostegno ad attività già oggetto di un processo di liberalizzazione in forza del diritto comunitario (Sez. 3, n. 22631/2020, Vincenti, Rv. 659242-02).

L’azione risarcitoria contro lo Stato per l’illecito eurounitario consistente nella concessione di un aiuto di Stato illegittimo è soggetta alle regole di prescrizione dell’ordinamento interno, di cui agli artt. 2934 ss. (Sez. 3, n. 22631/2020, Vincenti, Rv. 659242-03).

Con riferimento alla tutela del consumatore, inoltre, la Suprema Corte sembra aver definitivamente abbandonato la teoria del cd. “rimbalzo”, secondo la quale il fideiussore non sarebbe autonomamente definibile quale consumatore o professionista, dipendendo il suo inquadramento nell’una o nell’altra categoria dalla qualità che riveste il debitore principale.

Infatti, Sez. 6-1, n. 00742/2020, Dolmetta, Rv. 656803-01, ha affermato che nel contratto di fideiussione, i requisiti soggettivi per l’applicazione della disciplina consumeristica devono essere valutati con riferimento alle parti di esso, senza considerare il contratto principale, come affermato dalla CGUE con sentenze del 19 novembre 2015, C-74/15, Tarcau, e del 14 settembre 2016, C-534/15, Dumitras, dovendo ritenersi, pertanto, consumatore il fideiussore persona fisica che, pur svolgendo una propria attività professionale (o anche più attività professionali), stipuli il contratto di garanzia per finalità estranee alla stessa, nel senso che la prestazione della fideiussione non deve costituire atto espressivo di tale attività, né essere ritenuta strettamente funzionale al suo svolgimento. Ne consegue che il fideiussore è qualificabile come consumatore anche se stipula il contratto per garantire il debito contratto da un terzo imprenditore o professionista, nell’esercizio dell’impresa o della professione di questo.

Tale orientamento è stato ribadito da Sez. 6-1, n. 01666/2020, Marulli, Rv. 656807-01, che, in ordine ad un contratto di fideiussione stipulato da un socio a garanzia di un debito della società, ha affermato che i requisiti soggettivi per l’applicazione della disciplina consumeristica in capo al socio debbono essere valutati in base alle parti del contratto di fideiussione, senza alcuna rilevanza della qualità soggettiva del debitore principale e, per escludere che il socio sia in sostanza il portatore dell’interesse della società, rileva la entità della sua partecipazione sociale ed anche il fatto che, al tempo della conclusione del contratto di fideiussione, ricoprisse o meno la carica di amministratore della società garantita.

7. I medici specializzandi: premessa.

Al fine di agevolare la libera prestazione di servizi nella Comunità Europea, il Consiglio della Comunità ha adottato due direttive (75/362/CEE e 75/363/CEEE) definite, rispettivamente, di “riconoscimento” e di “coordinamento”, volte, la prima, al riconoscimento reciproco dei diplomi e titoli di medico, la seconda, al coordinamento ed alla armonizzazione della legislazione dei vari Stati in relazione ai percorsi di specializzazione post-laurea.

Entrambe sono state successivamente modificate e coordinate dalla direttiva del Consiglio n. 82/76/CEE che, all’art. 13, ha riconosciuto il diritto degli specializzandi ad una “adeguata remunerazione” e, all’art. 16, ha fissato nel 31 dicembre 1982 il termine ultimo per l’adozione da parte degli Stati membri della normativa di adeguamento.

Lo Stato italiano ha provveduto al recepimento della direttiva solo con il d.lgs. n. 257 dell’8 agosto 1991, in esito alla condanna da parte della Corte di giustizia nella sentenza del 7 luglio 1987, C-49/86, Commissione c. Italia, a conclusione di una procedura di infrazione, disponendo all’art. 8, comma 2, che la “adeguata retribuzione” fosse attribuita ai medici specializzandi iscritti ai percorsi di formazione a far tempo dall’anno accademico 1991/1992, prevedendo - almeno sul piano letterale - solo una applicazione pro futuro della direttiva.

Ne è nato un vasto contenzioso da parte dei medici specializzandi iscritti ai corsi prima dell’anno 1991/1992, che hanno avanzato domanda di risarcimento del danno da mancata tempestiva attuazione della direttiva. Nello specifico, oggetto del risarcimento erano le somme cui i medici specializzandi avrebbero avuto diritto se lo Stato italiano si fosse tempestivamente conformato.

A seguito di due importanti pronunzie della Corte di giustizia dell’Unione europea (Corte di giustizia, 25 febbraio 1999, C-131/1997, Carbonari, e Corte di giustizia, 3 ottobre 2000, C-371/97, Gozza, quest’ultima relativa ai percorsi di specializzazione a tempo ridotto, sulla scia della quale si pone la successiva Corte di giustizia, 19 maggio 2011, C-452/2009, Tonina e altri) si sono affermati sul tema in esame importanti principi: 1) il diritto alla adeguata remunerazione di tutti i medici iscritti alle scuole di specializzazione negli anni accademici compresi tra il 1983 ed il 1991, in forza dell’obbligo incondizionato e sufficientemente preciso dettato dalle disposizioni comunitarie; 2) l’individuazione del rimedio alle conseguenze pregiudizievoli dell’inadempimento, nell’applicazione retroattiva e completa delle misure di attuazione della norma comunitaria, con previsione del risarcimento del danno in relazione alla posizione di tutti coloro che lo avevano subito, senza effettuare alcun distinguo con riferimento all’anno di iscrizione al corso; 3) la sussistenza del diritto alla remunerazione anche con riferimento alla formazione a tempo cd. ridotto sul rilievo che anch’essa risponde alle medesime esigenze di quella a tempo pieno, dalla quale si distingue unicamente per la possibilità di limitare la partecipazione alle attività mediche fino alla metà del tempo previsto per il tempo pieno.

Impossibile, quindi, conseguire il risultato prescritto dalla direttiva attraverso l’interpretazione conforme del diritto nazionale (che, come visto, si applicava espressamente solo a far tempo dall’anno 1991/1992), inadempiente lo Stato rispetto agli obblighi di riconoscimento della adeguata remunerazione per gli anni anteriori al 1991/1992, ricorrevano, secondo la giurisprudenza della CGUE, le condizioni per il riconoscimento della responsabilità dello Stato italiano per violazione del diritto comunitario: 1) la sufficiente gravità della violazione di una norma attributiva di diritti ai singoli (nello specifico, il diritto alla adeguata retribuzione), il cui contenuto ben poteva essere individuato sulla scorta delle disposizioni della direttiva; 2) l’esistenza di un nesso di causalità diretta tra la violazione dell’obbligo imposto allo Stato ed il danno subito dai soggetti lesi.

Risolta con un punto fermo la questione del diritto alla retribuzione e al risarcimento per i medici specializzandi iscritti ai percorsi di formazione per gli anni dal 1993 all’entrata in vigore dell’art. 8 del d.lgs. n. 257 del 1991, sono rimasti un vasto dibattito ed un ampio contenzioso con riferimento alla posizione di coloro che si erano iscritti in data anteriore al 1° gennaio 1983, data in cui si è perfezionato l’inadempimento italiano.

Numerose pronunzie della Terza sezione della S.C. hanno affermato che il diritto al risarcimento non compete a coloro che avevano già iniziato il corso alla data del 31 dicembre 1982, poiché fino a tale data non era maturato alcun inadempimento dello Stato italiano, diversamente, l’estensione della tutela risarcitoria anche in capo a costoro avrebbe determinato una inammissibile irretroattività degli effetti dell’inadempimento (il diritto alla adeguata retribuzione, fatto costitutivo del successivo diritto al risarcimento del danno, era venuto in essere solo alla scadenza del termine ultimo fissato nella direttiva per adempiere - il 31 dicembre 1982 - con l’organizzazione di percorsi di specializzazione caratterizzati dal tempo pieno, dall’esclusività e dall’ obbligo di frequenza, sicché, inteso il corso di specializzazione nella sua unitarietà e completezza ciclica, non essendo previsto nella Direttiva 82/76/CEE alcun obbligo di adeguamento anche dei corsi pendenti, non poteva evidentemente riconoscersi agli iscritti ai corsi anteriormente alcun diritto alla adeguata retribuzione).

Al fine di ulteriormente corroborare l’opzione negativa sono stati altresì utilizzati ulteriori argomenti di supporto: le esigenze di finanza pubblica e la gradualità temporale nell’adeguamento della normativa italiana alla normativa comunitaria.

Sposano questa linea di pensiero, ostativa al risarcimento, ex plurimis, Sez. 6-3, n. 14375/2015, De Stefano, Rv. 636215-01, Sez. 6-3, n. 17067/2013, Frasca, Rv. 627674-01, e Sez. 6-3, n. 15198/2015, De Stefano, Rv. 636215-01.

Su un orizzonte interpretativo completamente opposto, si colloca, invece, la tesi che propende per l’estensione della tutela risarcitoria, assumendo che nelle direttive innanzi ricordate non vi è una limitazione delle platee dei destinatari e che solo l’interpretazione estensiva è in armonia con l’essenza del diritto comunitario, che impone, in applicazione del criterio cd. funzionale, il ristoro di tutti i danneggiati per il ritardo del legislatore, ristoro che deve esplicarsi attraverso l’applicazione retroattiva e completa delle misure di attuazione (nello specifico dell’art. 8 del d.lgs. n. 257 del 1991).

Si è pure rappresentato che a tale soluzione conduce anche il rilievo che i corsi di specializzazione sono rapporti di durata, sicché deve trovare applicazione il principio in materia di successioni di leggi nel tempo, secondo il quale la legge sopravvenuta disciplina (per il periodo successivo al 1° gennaio 1983) il rapporto giuridico in corso, allorché esso, sebbene sorto anteriormente, non abbia ancora esaurito i propri effetti, sempre che - e non sarebbe questa l’ipotesi - la norma innovatrice non sia diretta a regolare il fatto generatore del rapporto.

Da ultimo, è stata richiamata la primazia del diritto comunitario, gli effetti della mancata, tardiva o inadeguata trasposizione delle norme comunitarie, con particolare riguardo al principio cd. della equivalenza giurisdizionale, in virtù del quale il regime della riparazione in caso di violazione del diritto comunitario non deve essere meno favorevole di quello applicabile a delle azioni analoghe fondate sulla violazione delle norme di diritto interno.

In tal senso, possono menzionarsi Sez. L, n. 10612/2015, Tria, Rv. 635765-01, ma anche Sez. L, n. 17434/2015, Manna A., non massimata.

Ricordata la supremazia del diritto comunitario, la soluzione estensiva è stata ulteriormente supportata con il richiamo alla giurisprudenza CGUE ed alle pronunzie richiamate che avevano ritenuto il diritto alla remunerazione in favore di tutti i medici iscritti alle scuole di specializzazione negli anni accademici tra il 1983 ed il 1991, diritto fondato sull’obbligo incondizionato e sufficientemente preciso delle disposizioni comunitarie, individuando altresì il rimedio solutorio all’inadempimento, come già anticipato, nella applicazione retroattiva e completa delle norme di adeguamento.

Stante l’innanzi evidenziato contrasto, con le ordinanze interlocutorie n. 23581 e 23582 del 2016, la soluzione dello stesso è stata rimessa alle Sezioni Unite che hanno deciso di sottoporre alla CGUE, in via pregiudiziale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, le seguenti questioni:

1) se la direttiva 75/363, come modificata, debba essere interpretata nel senso che rientrino nel suo ambito di applicazione anche le formazioni di medici specialisti, sia a tempo pieno che a tempo ridotto, già in corso e proseguite oltre il 31 dicembre 1982, termine fissato agli Stati membri dall’articolo 16 della direttiva per adottare le misure necessarie per conformarsi.

In caso di risposta affermativa al quesito sub 1):

a) se l’allegato, aggiunto alla direttiva 75/363 dall’articolo 13 della direttiva 82/76, debba essere interpretato nel senso che per i corsi di formazione specialistica già iniziati alla data del 31 dicembre 1982 l’insorgenza dell’obbligo di remunerazione adeguata per i medici specializzandi dipenda dall’assolvimento dell’obbligo di riorganizzazione o comunque di verifica di compatibilità con le prescrizioni delle predette direttive;

b) se in favore dei medici che abbiano conseguito specializzazioni frequentando corsi di formazione che avevano già avuto inizio ma non erano ancora conclusi al 1° gennaio 1983 sia insorto o meno l’obbligo di adeguata remunerazione per l’intera durata del corso o per il solo periodo di tempo successivo al 31 dicembre 1982 ed a quali condizioni.

Con la sentenza del 24 gennaio 2018, in cause riunite C-616/16 e C-617/16, la Corte di giustizia ha affermato che:

“37. Alla luce delle considerazioni sopra svolte, non risulta dalla direttiva 75/363 come modificata che l’obbligo imposto agli Stati membri di procedere ad una remunerazione adeguata dei periodi di formazione a tempo pieno e a tempo ridotto come medico specialista non trovi applicazione a quelle formazioni che siano iniziate prima della scadenza, il 1.1.1983, del termine di trasposizione della direttiva 82/76 e che siano proseguite dopo questa data.

38. Alla luce di tali circostanze, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che l’art. 2, paragrafo 1, lettera c), l’art. 3, paragrafi 1 e 2, nonché l’allegato della direttiva 75/363 come modificata devono essere interpretati nel senso che qualsiasi formazione a tempo pieno o a tempo ridotto come medico specialista iniziata nel corso dell’anno 1982 e proseguita fino al 1990 deve essere oggetto di una remunerazione adeguata, ai sensi dell’allegato suddetto, a condizione che tale formazione riguardi una specializzazione medica comune a tutti gli Stati membri ovvero a due o più di essi e menzionata negli artt. 5 o 7 della direttiva 75/362”.

Dall’esame del passo innanzi riportato della pronunzia della Corte del Lussemburgo si osserva che, mentre il punto 37 sembrerebbe dare una risposta congruente con l’ampia formulazione del quesito proposto dalla S.C., affermandosi in esso che tutte le formazioni volte alla specializzazione iniziate anteriormente al 1° gennaio 1983 e proseguite dopo questa data meritano (per la frazione di formazione successiva al 1° gennaio 1983) una retribuzione, il punto 38 parrebbe invece limitare l’affermazione ai soli medici che hanno iniziato il percorso di specializzazione nell’anno 1982 ed in tal senso anche il dispositivo della decisione.

Pertanto, il percorso motivazionale ed il dispositivo della sentenza della Corte di giustizia che qui si sta esaminando non possono essere letti in modo univoco.

Sulla questione non ha preso posizione la successiva Sez. U, n. 20348/2018, Scaldaferri, Rv. 650269-01, che focalizza il thema decidendum in relazione ai casi sottoposti, che riguardavano tutti medici specializzandi iscrittisi negli anni successivi al 1982.

Conclusivamente, non è stata espressamente vagliata la questione relativa alla sussistenza o meno del diritto ad una adeguata retribuzione e, quindi al risarcimento da mancato recepimento della direttiva, per i medici specializzandi che si siano iscritti ai percorsi di specializzazione anteriormente al 1982, in relazione alla frazione di percorso di specializzazione successivo al 1° gennaio 1983.

8. Il diritto al risarcimento del danno dei medici specializzandi iscritti anteriormente al 1982: la nuova rimessione alle Sezioni Unite ed il secondo coinvolgimento della CGUE.

Successivamente alla sentenza della Corte di giustizia del 21 gennaio 2018, in cause riunite C-616/16 e C-617/16, si è sviluppato, all’interno della giurisprudenza della S.C., un nuovo contrasto in ordine alla portata temporale dei principi affermati in tale sentenza, e, in particolare, sulla questione se essi si applichino o meno anche ai percorsi di formazione iniziati anteriormente al 1982, sicché le Sezioni Unite si sono dovute nuovamente occupare del contenzioso in esame.

I termini del contrasto sono efficacemente riassunti nell’ordinanza della Sez. L, n. 00821/2019, Arienzo, di rimessione alle Sezioni Unite, e nella successiva ordinanza Sez. U, n. 23901/2020, Valitutti, con la quale la tematica è stata nuovamente sottoposta all’attenzione della CGUE.

Nello specifico, nelle più recenti decisioni della Terza sezione civile della S.C. si sostiene l’esclusione del diritto al risarcimento per i medici specializzandi che hanno iniziato il loro percorso di formazione anteriormente all’anno 1982 (ex plurimis, Sez. 3, n. 05509/2019, Porreca, Rv. 652993-01).

Per contro, nella summenzionata ordinanza interlocutoria Sez. L, n. 00821/2019, Arienzo, dato conto del percorso ermeneutico seguito dall’orientamento innanzi richiamato, viene valorizzata una diversa via interpretativa.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto, quindi, di rimettere nuovamente la questione interpretativa alla Corte con sede in Lussemburgo.

Nel dettaglio, il quesito rivolto alla CGUE è il seguente:

“Se l’art. 189, terzo comma, del Trattato sull’Unione Europea e gli artt. 13 e 16 della direttiva 82/76/CEE del Consiglio, del 26 gennaio 1982, che modifica la direttiva 75/362/CEE e la direttiva 75/363/CEE, ostino ad un’interpretazione secondo cui il diritto alla remunerazione adeguata previsto dall’art. 13 della Direttiva 82/76/CEE a favore dei sanitari che svolgano attività di formazione, sia a tempo pieno che a tempo ridotto, e sempre che sussistano tutti gli altri requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza europea, spetta anche ai medici che si siano iscritti ad una scuola di specializzazione in anni precedenti l’anno 1982, e che siano in corso all’1 gennaio 1983. Se il diritto al risarcimento del danno per il ritardo nel recepimento della Direttiva suindicata da parte dello Stato italiano competa, di conseguenza, anche a detti sanitari, limitatamente alla frazione di risarcimento successiva all’1 gennaio 1983”.

Occorre rilevare che le Sezioni Unite hanno palesato nell’ordinanza di rimessione alla CGUE di aderire alla tesi minoritaria, quella patrocinata in Sez. L, n. 00821/2019, Arienzo, ma hanno comunque scelto il confronto dialettico con il giudice europeo e di riceverne l’avallo riguardo il sentiero ermeneutico prescelto.

Attraverso la rimessione la S.C. preferisce interloquire con il giudice europeo, stante la ritenuta estrema controvertibilità del tema in analisi e l’espressa preoccupazione che la tesi opposta, quella in virtù della quale il diritto agli emolumenti andrebbe escluso con riferimento ai medici iscritti alla scuola prima del 1982, rischi di porsi in contrasto con la normativa europea e l’interpretazione che di essa ha dato la Corte di giustizia.

Il giudice di legittimità illustra in modo approfondito tutti gli argomenti a favore della tesi che propugna l’estensione del diritto al risarcimento ai medici specializzandi che abbiano cominciato il percorso anteriormente al 1982, naturalmente avuto riguardo ai periodi successivi al 1° gennaio 1983.

All’argomento letterale ed alle tracce rinvenute nella giurisprudenza della CGUE, l’ordinanza affianca l’argomento teleologico, ovvero la necessità che lo Stato membro interpreti le disposizioni della legge promulgata al fine di trasporre una direttiva in armonia con la lettera e lo scopo della stessa.

Ne consegue che, essendo l’attività dei medici iscritti alle scuole di specializzazione universitaria, una particolare ipotesi di contratto di formazione-lavoro, in relazione al quale, quindi, la remunerazione prevista è destinata a sopperire le esigenze materiali per l’impegno degli interessati nell’attività rivolta alla loro formazione ed al conseguimento del titolo abilitante, non potrà che farsi luogo, si legge ancora nell’ordinanza, all’applicazione retroattiva e completa delle misure di attuazione della norma comunitaria, con conseguente risarcimento di tutti coloro che hanno subito un danno e - quindi - anche degli iscritti anteriormente al 1982, sebbene con riferimento al periodo successivo al 1° gennaio 1983.

Da ultimo, va pure rilevato come il giudice di legittimità metta in campo, a sostegno della tesi estensiva, anche un ultimo argomento, ovvero la necessità di applicare il principio della cd. “equivalenza giurisdizionale”, in virtù del quale il regime della riparazione, in caso di violazione del diritto comunitario, non deve essere meno favorevole di quello applicabile in ipotesi di violazione del diritto interno.

Si attende, quindi, che la vicenda sia risolta con la pronunzia della Corte di giustizia, che pare avere appunto anche il fine di evitare che ci possano essere nuovi contrasti in seno alla giurisprudenza italiana.

  • diritti e libertà
  • detenuto
  • avvocato
  • Convenzione europea dei diritti dell'uomo
  • diritto tributario
  • giurisdizione
  • diritti umani
  • espropriazione
  • famiglia
  • sanzione amministrativa

II)

L’APPLICAZIONE DELLA CONVENZIONE PER LA SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI DA PARTE DELLA CORTE COSTITUZIONALE E DELLA CASSAZIONE CIVILE.

(di Gianluca Grasso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La giurisprudenza costituzionale sul diritto dell’Unione e sulle norme della CEDU. - 2.1 Il fondamento della diretta applicazione del diritto dell’Unione. - 2.2 L’inquadramento delle norme della CEDU tra le fonti del diritto italiano e i poteri del giudice nazionale comune. - 2.2.1 Il “diritto consolidato” e la “sentenza pilota”: i vincoli derivanti dall’interpretazione della Corte di Strasburgo. - 2.2.2 L’inquadramento delle norme della CEDU a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona: persistenza del rilievo delle norme della CEDU quali “norme interposte” ai fini della verifica del rispetto dell’art. 117, comma 1, Cost. - 3 La giurisprudenza della Cassazione civile. Casistica relativa all’applicazione delle norme della CEDU. - 3.1 Diritto a un equo processo e accesso alla tutela giurisdizionale. - 3.2 Il diritto di famiglia. - 3.3 Il cittadino straniero. - 3.4 Il divieto di trattamenti inumani nei confronti di soggetti detenuti o internati. - 3.5 Il danno non patrimoniale. - 3.6 Le sanzioni amministrative. - 3.7 Il diritto tributario. - 3.8 Procedimento disciplinare nei confronti degli avvocati. - 3.9 L’espropriazione per pubblica utilità.

1. Premessa.

Questo contributo affronta il tema dell’inquadramento delle norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) nell’ambito delle fonti interne, alla luce della giurisprudenza costituzionale, presentando una casistica delle decisioni assunte in materia dalla Corte di cassazione civile.

2. La giurisprudenza costituzionale sul diritto dell’Unione e sulle norme della CEDU.

La collocazione nel sistema delle fonti del diritto dell’Unione europea e delle norme della CEDU e dei suoi protocolli è stata definita con chiarezza dalla Corte costituzionale.

2.1. Il fondamento della diretta applicazione del diritto dell’Unione.

La diretta applicazione del diritto dell’Unione nel nostro ordinamento trova il suo fondamento nell’art. 11 Cost., la cui seconda parte stabilisce che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Con l’adesione ai Trattati comunitari, l’Italia, cedendo parte della sua sovranità, è entrata a far parte di un “ordinamento” più ampio, di natura sovranazionale. Tale cessione ha riguardato anche il potere legislativo nelle materie oggetto dei Trattati, con il solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.

In ragione della peculiarità del diritto dell’Unione, il contrasto tra norme statali e disciplina UE non dà luogo all’invalidità o all’illegittimità delle norme interne, ma comporta, qualora non sia possibile un’interpretazione conforme al diritto dell’Unione delle norme nazionali incompatibili, la loro disapplicazione o non applicazione al caso concreto. È questo l’orientamento costante della Corte costituzionale a partire dalla sentenza 8 giugno 1984, n. 170, per cui le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l’applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi in ordine all’esistenza del conflitto. La non applicazione deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente dalla stessa Corte costituzionale, del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale o dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità della legge di esecuzione del Trattato (Corte cost. 13 luglio 2007, n. 28).

La Consulta ha così superato l’indirizzo originario in base al quale le norme comunitarie abrogavano le norme statali incompatibili preesistenti, mentre dovevano essere oggetto di rimessione alla Corte quelle sopravvenute per violazione dell’art. 11 Cost. (Corte cost. 30 ottobre 1975, n. 232). Secondo l’orientamento successivo (a partire da Corte cost. n. 170 del 1984), l’effetto connesso alla vigenza della norma comunitaria è quello «non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale».

Tali principî sono stati riferiti dalla Corte costituzionale, nella pronuncia n. 170 del 1984, ai regolamenti comunitari, quali fonti immediatamente applicabili, e la giurisprudenza successiva ha riconosciuto la “diretta applicabilità” anche alle sentenze interpretative della Corte di giustizia (Corte cost. 19 aprile 1985, n. 113 ai sensi dell’art. 177 del Trattato, ora art. 267 TFUE), alle norme comunitarie interpretate in pronunce rese dalla Corte di giustizia in sede contenziosa ai sensi dell’art. 169 del Trattato (ora art. 258 TFUE) (Corte cost. 11 luglio 1989, n. 389), alle direttive munite d’efficacia diretta, nei limiti indicati dalla Corte di giustizia (Corte cost. 18 aprile 1991 n. 168 con riferimento alle disposizioni incondizionate e sufficientemente precise, attributive di un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato inadempiente, secondo quanto precisato dalla Corte di giustizia a partire dalla sentenza 19 gennaio 1982, causa 8/81, Becker).

2.2. L’inquadramento delle norme della CEDU tra le fonti del diritto italiano e i poteri del giudice nazionale comune.

Il sindacato della corte costituzionale. Il sistema convenzionale, derivante dalla CEDU, è caratterizzato dalla presenza di un trattato internazionale multilaterale che, sia pur peculiare, non ha dato luogo a un ordinamento giuridico sovranazionale, dai cui organi deliberativi possano derivare norme vincolanti per le autorità interne degli Stati membri.

Nella lettura fatta propria dalla Consulta a partire dalle sentenze 24 ottobre 2007 n. 348 e n. 349, le norme della CEDU non ricevono copertura costituzionale dall’art. 11 Cost. - che riguarda il diritto sovranazionale dell’Unione europea, le cui norme primarie dotate di efficacia diretta devono avere efficacia obbligatoria in tutti gli Stati membri senza la necessità di leggi di ricezione e di adattamento - ma dall’art. 117 Cost., come modificato dall’art. 2 l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3, che enuncia gli obblighi dello Stato e delle Regioni derivanti dal diritto internazionale pattizio. In base all’art. 117, comma 1, Cost. non può attribuirsi rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento (legge 4 agosto 1955 n. 848 che ha disposto la ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), derivando da tale previsione l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare le norme poste dai trattati e dalle convenzioni internazionali, e tra queste figurano quelle contenute nella CEDU.

Secondo la Corte costituzionale, diversamente da quanto avviene con il diritto dell’Unione, il giudice nazionale non può disapplicare direttamente la norma interna contrastante con le disposizioni della CEDU (Corte cost. n. 348 e n. 349 del 2007. Nello stesso senso, tra le altre, Corte cost. 11 novembre 2011, n. 303; 22 luglio 2011, n. 236; 7 aprile 2011, n. 113; 11 marzo 2011, n. 80; 5 gennaio 2011, n. 1; 28 maggio 2010, n. 187; 15 aprile 2010, n. 138; 12 marzo 2010, n. 93; 4 dicembre 2009 n. 317; 26 novembre 2009, n. 311; 27 febbraio 2008, n. 39).

La CEDU - secondo la Consulta - in considerazione del suo contenuto, presenta una portata sub-costituzionale, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della Convenzione e dunque con gli «obblighi internazionali» di cui all’art. 117, comma 1, Cost. viola quest’ultimo parametro. In questo modo si determina un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, che dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali evocati dall’art. 117 e, con essi, al parametro stesso. Essendo l’uniformità dell’applicazione della CEDU garantita dall’interpretazione attribuita alla Corte EDU - alla quale questa competenza è stata espressamente riconosciuta dagli Stati contraenti - il giudizio di costituzionalità sulla norma interna dovrà riguardare la disposizione della Convenzione così come interpretata dalla Corte di Strasburgo.

Pertanto, il giudice nazionale comune, a fronte di un possibile contrasto tra la norma interna e quella della CEDU, deve cercare di risolvere l’antinomia mediante un’interpretazione conforme della norma interna alla Convenzione, secondo la lettura offertane dalla Corte di Strasburgo. Nel far questo, il giudice nazionale deve spingersi fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni messe a confronto, avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. L’apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza (Corte cost. n. 311 del 2009).

Qualora tale risultato non sia conseguibile in via interpretativa nei limiti indicati, ovvero il giudice dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale “interposta”, nell’ipotesi in cui vi sia un contrasto tra le due disposizioni, egli deve verificare se la norma contenuta nella CEDU sia conforme alla Costituzione.

Se la norma della CEDU rispetta la Costituzione, il giudice nazionale non può far altro che sollevare la questione di legittimità della norma interna con riferimento all’art. 117 Cost. e della norma o delle norme CEDU interposte, ovvero anche dell’art. 10, comma 1, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta (Corte cost. n. 311 del 2009).

In tal caso, la Corte costituzionale dovrà accertare la sussistenza del denunciato contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscano una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana, appurando la compatibilità della norma CEDU con le pertinenti norme della Costituzione (Corte cost. n. 311 del 2009). Il verificarsi di un conflitto con altre norme della nostra Costituzione - da ritenersi eccezionale - esclude l’operatività del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua idoneità a integrare il parametro dell’art. 117, comma 1, Cost., determinando l’illegittimità, per quanto di ragione, della legge di adattamento (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007).

In caso di accertato contrasto della norma interna con quella della CEDU, dovrà essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione interna per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione alla norma convenzionale invocata.

È questo il meccanismo individuato dalla Corte costituzionale per realizzare un corretto bilanciamento tra l’esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali e quella di evitare che ciò possa comportare una lesione della Costituzione stessa.

2.2.1. Il “diritto consolidato” e la “sentenza pilota”: i vincoli derivanti dall’interpretazione della Corte di Strasburgo.

La Corte costituzionale (sentenza 26 marzo 2015, n. 49) ha precisato a quali condizioni la giurisprudenza della Corte EDU - la cui interpretazione è fondamentale per definire l’esatto contenuto delle norme della Convenzione - vincoli il giudice nazionale, allo scopo di evitare un uso arbitrario e selettivo dei precedenti. La ricerca di questi ultimi è senz’altro più complessa di quella che si può effettuare per le decisioni della Corte di giustizia, di regola ufficialmente tradotte in tutte le lingue dell’Unione europea e presenti in un data base di agevole accessibilità, dove per la giurisprudenza di Strasburgo si prevedono due sole lingue ufficiali, il francese e l’inglese, mentre le traduzioni in lingua italiana delle principali decisioni vengono curate dal nostro Ministero della giustizia.

Alla Corte di Strasburgo compete di pronunciare la «parola ultima» (sentenza n. 349 del 2007) in ordine a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, secondo quanto le parti contraenti hanno stabilito in forza dell’art. 32 della CEDU.

Tuttavia, secondo la Corte costituzionale, questo meccanismo non ha spogliato il giudice nazionale della funzione interpretativa che gli compete, ai sensi dell’art. 101, comma 2, Cost., in quanto soggetto soltanto alla legge (in senso conforme Corte cost. 11 maggio 2017, n. 109; 7 aprile 2017, n. 68; 16 dicembre 2016, n. 276; 9 febbraio 2016 n. 36). Tale regola vale anche per le norme emergenti dalla giurisprudenza della CEDU, che entrano nell’ordinamento giuridico nazionale grazie a una legge ordinaria di adattamento e sono recate da sentenze meramente dichiarative e non esecutive (cfr. art. 46 Convenzione EDU).

Al di là dei casi in cui il giudice comune torni a occuparsi della richiesta di cessazione degli effetti lesivi della violazione accertata dalla Corte di Strasburgo (Corte cost. 18 luglio 2013, n. 210; Corte cost. n. 113 del 2011), l’interpretazione offerta dalla Corte EDU vincola il giudice nazionale soltanto in quanto espressiva di un “diritto consolidato”, mentre nessun obbligo esiste a fronte di pronunce che non siano il frutto di un orientamento divenuto definitivo (Corte cost. n. 49 del 2015 che ribadisce e precisa quanto affermato dalle sentenze n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009 secondo cui il giudice comune è tenuto a uniformarsi alla «giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente», «in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza», fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro, Corte cost. 6 gennaio 2012, n. 15 e n. 317 del 2009).

Sul punto, la Consulta (Corte cost. n. 49 del 2015) evidenzia che il riferimento al “diritto consolidato” risponde alle modalità organizzative della Corte di Strasburgo, che consente opinioni dissenzienti e prevede un meccanismo idoneo a risolvere il contrasto tra singole sezioni, quale la rimessione alla Grande Camera (la nozione stessa di “giurisprudenza consolidata” trova riconoscimento nell’art. 28 della CEDU con riferimento al potere del comitato investito di un ricorso individuale ai sensi dell’art. 34 di potere, con voto unanime, di dichiararlo ricevibile e pronunciare congiuntamente sentenza sul merito, solo quando tale “giurisprudenza consolidata” sussista e vada applicata). La formazione del diritto giurisprudenziale della CEDU riveste quindi un carattere progressivo (e la Grande Camera, nel caso previsto dall’art. 30 CEDU, può essere chiamata a prevenire contrasti, sulla non opposizione delle parti, requisito questo dell’accordo tacito che secondo il protocollo n. 15 - non in vigore e non ratificato dall’Italia - potrebbe essere sostituito da un potere d’ufficio).

La Corte costituzionale, al riguardo, sottolinea che non è sempre di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni CEDU abbia maturato a Strasburgo un adeguato consolidamento, specie a fronte di pronunce destinate a risolvere casi del tutto peculiari, e comunque formatesi con riguardo all’impatto prodotto dalla CEDU su ordinamenti giuridici differenti da quello italiano.

Si richiamano, a tal fine, alcuni indici idonei a orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano.

In presenza di tutti o alcuni di questi indizi, secondo la Corte costituzionale, in base a un giudizio che non può peraltro prescindere dalle peculiarità di ogni singola vicenda, non vi è alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU per decidere una certa controversia, sempre che non si tratti di una “sentenza pilota” in senso stretto, secondo la procedura oggi definita nell’art. 61 del regolamento della Corte, non potendosi attribuire tale valenza in via interpretativa da parte del giudice nazionale. Il procedimento della “sentenza pilota”, di origine giurisprudenziale, è codificato nell’art. 61 del regolamento e può essere adottato nei confronti di una parte contraente in presenza di una grave disfunzione, quale un problema strutturale o sistemico che potrebbe dar luogo alla rappresentazione di ricorsi analoghi, ma la cui efficacia ultra partes verso Stati terzi non è espressamente disciplinata e risulta negata da Cass. pen., sez. IV, 6 novembre 2014, n. 46067). La “sentenza pilota” è infatti adottata avendo riguardo alle specificità di un determinato ordinamento, che è quindi il solo chiamato a prendere le misure riparatorie in applicazione del suo dispositivo.

Ad aiutare il giudice nel suo compito potrà soccorrere il parere consultivo di cui al Protocollo addizionale n. 16-entrato in vigore con decorrenza dal 1° agosto 2018 con la ratifica ad opera della Francia, non ratificato dall’Italia - che la Corte EDU può rilasciare, se richiesta, alle giurisdizioni nazionali superiori, pur se espressamente definito non vincolante (art. 5). Il procedimento è stato attivato per la prima volta dalla Corte di cassazione francese, che ha richiesto un doppio parere in materia di maternità surrogata (gestation pour autrui), riguardo alla trascrizione di atti dello stato civile formati all’estero ed al procedimento di adozione. Il parere della Corte EDU è stato pubblicato il 10 aprile 2019.

Il vincolo interpretativo per il giudice italiano discende pertanto dalla presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota” adottata nei confronti dell’Italia che, riempiendo di contenuti specifici la norma interposta della CEDU, impongono al giudice di superare eventuali contrasti rispetto alla norma interna attraverso gli strumenti interpretativi a sua disposizione, ovvero azionando l’incidente di costituzionalità ove ciò fosse possibile (Corte cost. n. 49 del 2015; Corte cost. n. 80 del 2011).

Al di là dei vincoli che possano derivare dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, resta fermo che il giudice comune, nell’esercitare l’attività interpretativa riconosciutagli dalla Costituzione, ha il dovere di evitare violazioni della Convenzione europea e di applicarne le disposizioni, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte di Strasburgo, specie quando il caso sia riconducibile a precedenti di quest’ultima (Corte cost. n. 109 del 2017; n. 68 del 2017; n. 276 del 2016; n. 36 del 2016) col solo limite del divieto di disapplicazione.

2.2.2. L’inquadramento delle norme della CEDU a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona: persistenza del rilievo delle norme della CEDU quali “norme interposte” ai fini della verifica del rispetto dell’art. 117, comma 1, Cost.

Il sistema non ha subìto mutamenti in seguito all’entrata in vigore (1° dicembre 2009) del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, con cui sono stati modificati il Trattato sull’Unione europea e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (già Trattato istitutivo della Comunità Europea).

È noto che non sia ancora giunta a esser definita la questione dell’adesione dell’UE alla CEDU, prevista dalle modifiche introdotte con il Trattato di Lisbona, avendo la Corte di giustizia, con parere articolato, ritenuto che il progetto di accordo sottopostole dalla Commissione non fosse compatibile con l’art. 6, par. 2, TUE, né con il connesso protocollo n. 8 (Corte giust., parere, 18 dicembre 2014).

La Corte costituzionale, allo stato, esclude che la riconduzione della CEDU al diritto dell’Unione europea - realizzata mediante il riconoscimento (art. 6, par. 1, TUE) dei diritti, delle libertà e dei principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza), nonché attraverso l’attribuzione, ai diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, della dignità di principi generali del diritto dell’Unione (art. 6 parr. 2 e 3) - consenta di ritenere operante per le norme della Convenzione la copertura dell’art. 11 Cost. e di accedere, conseguentemente, alla possibilità di una loro diretta applicazione da parte del giudice nazionale (cfr., tra le tante, Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236; 28 novembre 2012, n. 264; 18 luglio 2013, n. 202; 4 luglio 2014, n. 191; 18 luglio 2014, n. 223).

Corte cost. 11 marzo 2011, n. 80 puntualizza che il richiamo alla CEDU contenuto nel paragrafo 3 dell’art. 6 TUE - secondo cui i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione «e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» - riprende lo schema del previgente paragrafo 2 dell’art. 6 del TUE, evocando una forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona e quindi nelle forme già indicate dalla sentenza della Consulta n. 349 del 2007.

La Corte costituzionale esclude altresì una «trattatizzazione» indiretta della CEDU, alla luce della “clausola di equivalenza” che figura nell’art. 52, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali, discendente dall’equiparazione di quest’ultima ai Trattati. La Corte sottolinea che in sede di modifica del Trattato si è inteso evitare che l’attribuzione alla Carta di Nizza dello «stesso valore giuridico dei trattati» abbia effetti sul riparto delle competenze fra Stati membri e istituzioni dell’Unione (art. 6, par. 1, primo alinea TUE secondo cui «le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati»), evidenziando che le disposizioni della Carta si applicano solo nell’ambito delle competenze dell’Unione europea (art. 51, par. 1, TUE; Corte giustizia sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB; ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri).

3. La giurisprudenza della Cassazione civile. Casistica relativa all’applicazione delle norme della CEDU.

Le principali questioni che hanno portato la Corte di cassazione civile nel 2020 a confrontarsi con le norme della CEDU possono essere suddivise, a grandi linee, negli ambiti del diritto a un equo processo e dell’accesso alla tutela giurisdizionale, del diritto in famiglia, della tutela del cittadino straniero, del divieto di trattamenti inumani nei confronti di soggetti detenuti o internati, del danno non patrimoniale, delle sanzioni amministrative, del diritto tributario, nonché del procedimento disciplinare nei riguardi degli avvocati e dell’espropriazione per pubblica utilità.

3.1. Diritto a un equo processo e accesso alla tutela giurisdizionale.

In questa sezione vengono riportate alcune decisioni della S.C. che affrontano, sotto diversi profili, i temi del diritto a un equo processo e dell’accesso alla tutela giurisdizionale, così come declinati dalla giurisprudenza della Corte EDU in relazione all’art. 6 CEDU.

In tema di onere della prova, Sez. 2, n. 16517/2020, Fortunato, Rv. 659018-04 ha ritenuto che non può predicarsi, tanto alla stregua delle norme di rango costituzionale, quanto ai sensi dell’art. 6 CEDU, un obbligo incondizionato del giudice di dar corso all’assunzione di qualsivoglia mezzo istruttorio articolato dalla parte, a prescindere da una valutazione di rilevanza dei fatti da provare. Secondo l’apprezzamento compiuto, da un lato, l’art. 6 cit., pur garantendo il diritto a un processo equo, non contiene alcuna disposizione riguardante il regime di ammissibilità delle prove o sul modo in cui esse dovrebbero essere valutate, trattandosi di questioni rimesse alla regolamentazione della legislazione nazionale, dall’altro, la necessità, da parte del giudice, di scrutinare la rilevanza e ammissibilità dei singoli mezzi proposti dalla parte si coniuga ed è coerente con i principi della ragionevole durata del processo, con cui collide l’espletamento di attività processuali non necessarie o superflue ai fini della pronuncia.

Riguardo ai mezzi di impugnazione, Sez. 3, n. 2467/2020, Olivieri, Rv. 656727-01 ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale - per asserita violazione degli artt. 24 e 117, comma 1, Cost. in relazione agli artt. 47 della Carta di Nizza e 6 della CEDU, quali norme interposte - dell’art. 702-quater c.p.c., nella parte in cui stabilisce che l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione è appellabile entro il termine breve di trenta giorni dalla sua comunicazione a opera della cancelleria, trattandosi di schema procedimentale che, rispondendo allo scopo di garantire la stabilità delle decisioni non impugnate entro un determinato termine, ritenuto dall’ordinamento nazionale adeguato ai fini di una ponderata determinazione della parte interessata, non è incompatibile con il principio di effettività della tutela giurisdizionale.

Sez. L, n. 27/2020, Pagetta, Rv. 656364-01, confermando il precedente orientamento già espresso da Sez. 6-3, n. 7455/2013, Frasca, Rv. 625596-01, ha escluso che la disciplina del ricorso per cassazione, nella parte in cui prevede - all’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. - requisiti di ammissibilità di contenuto-forma contrasti con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, sancito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La S.C. ha evidenziato che tali requisiti sono individuati in modo chiaro, tanto da doversi escludere che il ricorrente in cassazione, tramite la difesa tecnica, non sia in grado di percepirne il significato e le implicazioni, e in armonia con il principio della idoneità dell’atto processuale al raggiungimento dello scopo, sicchè risultano coerenti con la natura di impugnazione a critica limitata propria del ricorso per cassazione e con la strutturazione del giudizio di legittimità quale processo sostanzialmente privo di momenti di istruzione.

È stato altresì affermato (Sez. 5, n. 8425/2020, Guida, Rv. 658196-01) che ai fini del rispetto dei limiti contenutistici di cui all’art. 366, comma 1, n. 3) e 4), c.p.c., il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità al dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva, essendo tenuto il ricorrente selezionare i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c. L’inosservanza di tale dovere (nella specie ravvisata dalla S.C. a fronte di ricorso per cassazione di 239 pagine, nonostante la semplicità della questione giuridica alla base della decisione impugnata, illustrata in due pagine) pregiudica l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e, pertanto, comporta la declaratoria di inammissibilità del ricorso, ponendosi in contrasto con l’obiettivo del processo, volto ad assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa (art. 24 Cost.), nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali del giusto processo (artt. 111, comma 2, Cost. e 6 CEDU), senza gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui.

Sez. U, n. 6460/2020, De Stefano, Rv. 657215-01 ha escluso la sindacabilità a opera delle Sezioni Unite della Corte di cassazione in sede di controllo di giurisdizione della violazione, da parte del Consiglio di Stato, di norme del diritto dell’Unione europea o della CEDU che si risolva in un error in iudicando (sia pure de iure procedendi). Il controllo in questione, secondo le sezioni unite, è circoscritto all’osservanza dei meri limiti esterni della giurisdizione, senza estendersi ad asserite violazioni di legge sostanziale o processuale - l’accertamento delle quali rientra nell’ambito dei limiti interni della giurisdizione - concernenti il modo d’esercizio della giurisdizione speciale.

Sul regolamento necessario di competenza Sez. 6-3, n. 20344/2020, Guizzi, Rv. 659251-01 ha escluso ogni contrasto con l’art. 6 CEDU della disciplina che ne esclude l’ammissibilità contro il diniego di sospensione del processo, alla luce della formulazione letterale dell’art. 42 c.p.c., norma di carattere eccezionale, che prevede un controllo immediato solo sulla legittimità del provvedimento che tale sospensione concede. Secondo l’apprezzamento compiuto, tale disciplina contempera l’esigenza di effettività della tutela giurisdizionale con quella di efficienza della giurisdizione, garantendo, da un lato, il diritto della parte che si vede respingere la richiesta di sospensione di impugnare, comunque, sul punto, la decisione che ha definito il giudizio non sospeso e, dall’altro, la durata ragionevole del processo (in precedenza, Sez. 6-2, n. 31694/2019, Criscuolo, Rv. 656258-01 aveva escluso il contrasto di tale disciplina con gli artt. 3 e 24 Cost. e con l’art. 111 Cost.).

Con riferimento alla materia dell’esecuzione forzata, è stato ribadito che qualora il credito, di natura esclusivamente patrimoniale, sia di entità economica oggettivamente minima, difetta, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., l’interesse a promuovere l’espropriazione forzata, dovendosi escludere che ne derivi la violazione dell’art. 24 Cost. poiché la tutela del diritto di azione va contemperata, per esplicita od anche implicita disposizione di legge, con le regole di correttezza e buona fede, nonché con i principi del giusto processo e della durata ragionevole dei giudizi ex artt. 111 Cost. e 6 CEDU (Sez. 3, n. 24691/2020, De Stefano, Rv. 659765-01. In precedenza, in senso conforme, Sez. 3, n. 4228/2015, Salmè, Rv. 634704-01).

3.2. Il diritto di famiglia.

Con riferimento alla filiazione, è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c., nella parte in cui prevede termini differenziati quando l’azione sia proposta dal figlio o dai discendenti dopo la sua morte (Sez. 6-1, n. 1667/2020, Mercolino, Rv. 656982-01). Secondo la S.C., la diversità di disciplina trova giustificazione nell’evidente disomogeneità delle situazioni considerate, giacché l’imprescrittibilità dell’azione riguardo al figlio tutela l’interesse del medesimo al riconoscimento della propria filiazione, interesse che resta integro anche nell’ipotesi di decesso del presunto genitore, mentre il termine decadenziale biennale previsto per l’azione promossa dagli eredi del presunto figlio, dopo la sua morte, è giustificato dal fatto che essi sono portatori di un interesse non diretto, ma solo riflesso al riconoscimento della filiazione del loro ascendente; inoltre, a differenza di quanto accade per i discendenti, il diritto al riconoscimento di uno status filiale corrispondente alla verità biologica costituisce per il figlio una componente essenziale del diritto all’identità personale, riconducibile all’art. 2 Cost. ed all’art. 8 CEDU, che accompagna la vita individuale e relazionale, e l’incertezza su tale “status” può determinare una condizione di disagio e un vulnus allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità.

Sull’adozione di maggiorenne Sez. 1, n. 7667/2020, Caiazzo, Rv. 657494-01 ha specificato che il giudice, nell’applicare la regola che impone il divario minimo di età di 18 anni tra l’adottante e l’adottato, deve procedere a una interpretazione dell’art. 291 c.c. compatibile con l’art. 30 Cost., secondo la lettura data dalla Corte costituzionale e in relazione all’art. 8 della CEDU, che consenta, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, una ragionevole riduzione di tale divario minimo, al fine di tutelare situazioni familiari consolidatesi da tempo e fondate su una comprovata affectio familiaris.

3.3. Il cittadino straniero.

Sui diritti del cittadino straniero e la sua permanenza sul territorio dello Stato, Sez. 1, n. 22950/2020, Fidanzia, Rv. 659116-01 ha confermato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, come modificato dall’art. 6 del d.l. n. 13 del 2017 (Sez. 1, n. 27700/2018, Di Marzio, Rv. 651122-01 che si era pronunciata in relazione alla violazione degli artt. 3, comma 1, 24 e 111 Cost.). Nella specie, la S.C. ha escluso che la disciplina richiamata contrasti con gli artt. 117 Cost., 6 e 13 CEDU, nella parte in cui stabilisce che il procedimento per l’ottenimento della protezione internazionale sia definito con decreto non reclamabile, poiché la Corte europea dei diritti umani con riferimento ai procedimenti civili ha sempre negato che il diritto all’equo processo e a un ricorso effettivo possano essere considerati parametri per invocare un secondo grado di giurisdizione, mentre la legislazione dell’Unione e, in particolare, la dir. UE n. 2013/32, secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenze C-175/17 e 180/17), non prevede un obbligo per gli stati membri di istituire l’appello, poiché l’esigenza di assicurare l’effettività del ricorso riguarda espressamente i procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado.

In merito ai presupposto per la concessione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, Sez. 1, n. 23720/2020, Pazzi, Rv. 659278-01 ha sottolineato che, nell’effettuare il giudizio di comparazione tra la situazione del richiedente in Italia e la condizione in cui questi verrebbe a trovarsi nel paese di provenienza ove rimpatriato, al fine di dare concreta attuazione al diritto alla vita privata e familiare, protetto dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il giudice deve tener conto, quale fattore concorrente ma non esclusivo di un’eventuale situazione di vulnerabilità, anche dell’esistenza e della consistenza dei legami familiari del richiedente in Italia, effettuando un bilanciamento tra il pericolo di danno alla vita familiare e l’interesse statale al controllo dell’immigrazione. In applicazione del predetto principio, la S.C. ha confermato la pronuncia del giudice di merito che aveva ravvisato una condizione di vulnerabilità per il richiedente asilo che aveva abbandonato un paese in cui non aveva legami socio-culturali ed affettivi di nessun genere, ricongiungendosi alla madre, regolarmente soggiornante in Italia,paese dove aveva avviato altresì un percorso di integrazione.

Ai fini dell’individuazione di eventuali situazioni di vulnerabilità, in tema di protezione umanitaria, il giudice, nell’accertare il livello d’integrazione raggiunto in Italia dal richiedente, comparato con la situazione in cui versava prima dell’abbandono del paese di origine, deve valutarne la minore età, in considerazione della particolare tutela di cui gode nel nostro ordinamento il migrante minorenne, in specie ove sia non accompagnato, trattandosi di condizione di “vulnerabilità estrema”, prevalente rispetto alla qualità di straniero illegalmente soggiornante nel territorio dello Stato, avuto riguardo all’assenza di familiari maggiorenni in grado di prendersene cura ed al conseguente obbligo dello Stato di adottare tutte le misure necessarie per non incorrere nella violazione dell’art. 3 Cedu (Sez. 1, n. 11743/2020, Mercolino, Rv. 657954-01). Nella specie la S.C. ha cassato con rinvio la pronuncia di merito che, nell’escludere i presupposti per la protezione umanitaria, si era limitata a ritenere insufficiente l’inserimento sociale e lavorativo in Italia del richiedente, omettendo di verificare l’eventuale sua condizione di minore straniero non accompagnato.

Sez. 1, n. 7427/2020, Fidanzia, Rv. 657489-01 ha chiarito che la relazione tra due fratelli, entrambi maggiorenni e non conviventi, non è riconducibile alla nozione di “vita familiare” rilevante a norma dell’art. 8 CEDU, difettando ogni elemento presuntivo dell’esistenza di un legame affettivo qualificato da un progetto di vita in comune, con la conseguenza che, affinché un fratello possa ottenere un permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare ad altro fratello o sorella, è necessario il requisito della convivenza effettiva, come previsto dal combinato disposto dell’art. 28 del d.P.R. n. 394 del 1999 e dell’art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286 del 1998.

Sul tema della valutazione delle dichiarazioni del richiedente asilo, è stato ribadito che non deve essere condotta atomisticamente, dovendosi piuttosto effettuare una disamina complessiva della vicenda narrata (Sez. 3, n. 22527/2020, Di Florio, Rv. 659409-01 e Sez. 1, n. 7546/2020, Solaini, Rv. 657584-01). Quando residuino dubbi rispetto ad alcuni dettagli della narrazione, può trovare applicazione il principio del “beneficio del dubbio”, come si desume dall’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 251 del 2017, letto alla luce della giurisprudenza della CEDU, perché la funzione del procedimento giurisdizionale di protezione internazionale, è quella - del tutto autonoma rispetto alla precedente fase amministrativa - di accertare la sussistenza o meno del diritto del richiedente al riconoscimento di una delle forme di asilo previste dalla legge.

Anche gli atti di vendetta e ritorsione minacciati o posti in essere da membri di un gruppo familiare che si ritiene leso nel proprio onore a causa di una relazione (nella specie, sentimentale) esistente o esistita con un membro della famiglia, sono riconducibili, in quanto lesivi dei diritti fondamentali sanciti in particolare dagli artt. 2, 3 e 29 Cost. e dall’art. 8 CEDU, all’ambito dei trattamenti inumani o degradanti considerati nell’art. 14, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria (Sez. 1, n. 1343/2020, Scordamaglia, Rv. 656759-01). Pertanto, è onere del giudice verificare in concreto se, in presenza di minaccia di danno grave ad opera di soggetti non statuali, ai sensi dell’art. 5, lett. c), del decreto citato, lo Stato di origine del richiedente sia in grado o meno di offrire al soggetto vittima di tali atti un’adeguata protezione.

La commissione di un grave reato all’estero, rilevante, ai sensi degli artt. 10, comma 2, lett. b), e 16, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, quale causa ostativa al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, non può essere ritenuta sussistente sulla base di una mera prospettazione di parte, ma dev’essere concretamente accertata dal giudice (Sez. L, n. 26604/2020, Cinque, Rv. 659628-01). In tale evenienza, il giudice è tenuto a verificare, anche previo utilizzo dei poteri di accertamento ufficiosi di cui all’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, da un lato se la contestata violazione di norme di legge nel paese di provenienza provenga dagli organi a ciò istituzionalmente deputati e abbia avuto a oggetto la legittima reazione dell’ordinamento all’infrazione commessa, non costituendo piuttosto una forma di persecuzione razziale, di genere o politico-religiosa verso il denunciante, dall’altro il tipo di trattamento sanzionatorio previsto nel Paese di origine per il reato commesso dal richiedente, in quanto il rischio di subire torture o trattamenti inumani o degradanti nelle carceri può avere rilevanza per l’eventuale riconoscimento sia della protezione sussidiaria, in base al combinato disposto dell’art. 2, lett. g), del d.lgs. n. 251 del 2007 con l’art. 14, lett. b), dello stesso d.lgs., sia, in subordine, della protezione umanitaria, in base all’art. 3 CEDU e all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998.

Sul rilievo della causa ostativa, riguardo alla commissione da parte del richiedente di un delitto comune (nella specie: omicidio di un parente) e sull’ utilizzo dei poteri di accertamento ufficiosi di cui all’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, analogamente, Sez. 1, n. 1033/2020, Tria, Rv. 656757-01.

Altre pronunce della S.C. hanno interessato il tema dell’espulsione del cittadino straniero.

Sez. 3, n. 24908/2020, Pellecchia, Rv. 659769-01, in relazione alla fattispecie del cittadino che abbia legami familiari in Italia, ha confermato (Sez. 1, n. 781/2019, Lamorgese, Rv. 652401-01) che l’art. 13, comma 2 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 richiede una concreta valutazione, condotta caso per caso, della natura e dell’effettività dei menzionati vincoli familiari, da considerarsi preminenti rispetto agli elementi, “suppletivi”, della durata del soggiorno e dell’integrazione sociale nel territorio nazionale del richiedente, in linea con la nozione di diritto all’unità familiare indicata dalla giurisprudenza della Corte EDU con riferimento all’art. 8 CEDU e fatta propria dalla sentenza n. 202 del 2013 della Corte cost.

Riguardo al procedimento di convalida del provvedimento del Questore di applicazione delle misure alternative al trattenimento, di cui all’art. 14, comma 1 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 - in difformità rispetto a Sez. 6-1, n. 2997/2018, Lamorgese, Rv. 647048-01 - è stato evidenziato che si applica il contraddittorio cartolare, non operando la garanzia dell’udienza partecipata necessariamente dal difensore perché prevista solo in relazione al trattenimento e all’accompagnamento coattivo alla frontiera (Sez. 3, n. 24013/2020, Di Florio, Rv. 659525-01). Tale procedura, come statuito dalla sentenza della Corte cost. n. 280 del 2019, non contrasta con gli artt. 13 e 24 Cost., trovando applicazione l’art. 3, commi 3 e 4, del d.P.R. n. 394 del 1999, in ordine alla traduzione del provvedimento del Questore in lingua nota all’interessato, o in una delle lingue veicolari, e all’avviso della possibilità di beneficiare dell’assistenza del difensore d’ufficio e del patrocinio a spese dello Stato, accompagnato dalla comunicazione, da parte delle questure, con modalità effettivamente comprensibili per l’interessato, dei recapiti dei difensori d’ufficio ai quali in concreto rivolgersi ove si intenda esercitare il diritto a presentare memorie o deduzioni al giudice di pace. Secondo l’apprezzamento compiuto, il procedimento cartolare in esame è altresì compatibile con i principi di cui agli artt. 41 e 48 della CEDU, atteso che è applicabile, con le suddette garanzie, ad una fase meramente esecutiva del provvedimento di espulsione e, pertanto, è adottato, in termini meno afflittivi del trattenimento, senza alcuna preclusione del principio del contraddittorio.

Sez. 3, n. 24013/2020, Di Florio, Rv. 659525-02 ha escluso che l’art. 14, comma 1 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, ove non prevede un termine alle misure alternative al trattenimento presso il CPR, violi l’art. 2, Prot. 4 della CEDU, che consente imposizioni necessarie per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale, “giustificate dall’interesse pubblico in una società democratica”. Dette misure, infatti, postulano una condizione del migrante in procinto di essere rimpatriato, tale da consentire il reiterato controllo previsto (anche in termini di possibile protezione), e sostituiscono quella, ben più afflittiva, del trattenimento, con carattere alternativo rispetto al possibile rimpatrio volontario, per il quale il termine previsto (da 7 a 30 giorni) può essere prorogato soltanto per esigenze dello stesso migrante. Nella specie, si trattava delle misure del ritiro del passaporto e dell’obbligo di firma, per due giorni a settimana, per il tempo strettamente necessario alla rimozione degli impedimenti per l’accompagnamento alla frontiera.

3.4. Il divieto di trattamenti inumani nei confronti di soggetti detenuti o internati.

Sul risarcimento del danno da inumana detenzione ex art. 35-ter, comma 3, della l. n. 354 del 1975, è stato confermato che lo Stato incorre nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti nei confronti di soggetti detenuti o internati, stabilito dall’art. 3 della CEDU, così come interpretato dalla conforme giurisprudenza della Corte EDU, quando, in una cella collettiva, il detenuto non possa disporre singolarmente di almeno 3 mq. di superficie, calcolati detraendo l’area destinata ai servizi igienici e agli armadi appoggiati, o infissi, stabilmente alle pareti o al suolo ed anche lo spazio occupato dai letti (sia a castello che singoli), che riducono lo spazio libero necessario per il movimento, senza che, invece, abbiano rilievo gli altri arredi facilmente amovibili, come sgabelli o tavolini (Sez. 3, n. 1170/2020, Scoditti, Rv. 656636-01. In precedenza, in senso conforme, Sez. 1, n. 4096/2018, Lamorgese, Rv. 647236-01).

3.5. Il danno non patrimoniale.

In tema di danno non patrimoniale da perdita della vita, Sez. 6-3, n. 21508/2020, Gorgoni, Rv. 659566-01 ha confermato che tale pregiudizio non è indennizzabile ex se, senza che con ciò possa ritenersi violato l’art. 2 CEDU sul riconoscimento del “diritto alla vita”, poiché la richiamata norma, pur se di carattere generale e diretta a tutelare ogni possibile componente del bene vita, non detta specifiche prescrizioni sull’ambito ed i modi in cui tale tutela debba esplicarsi, né, in caso di decesso immediatamente conseguente a lesioni derivanti da fatto illecito, impone necessariamente l’attribuzione della tutela risarcitoria, il riconoscimento della quale in numerosi interventi normativi ha, comunque, carattere di specialità e tassatività ed è inidoneo a modificare il vigente sistema della responsabilità civile, improntato al concetto di perdita-conseguenza e non sull’evento lesivo in sé considerato (in senso conforme, Sez. L, n. 14940/2016, Doronzo, Rv. 640733-01).

Analogamente , in relazione all’effettività del pregiudizio, Sez. 6-1, n. 17383/2020, Acierno, Rv. 658718-01 si è espressa sul danno non patrimoniale risarcibile a seguito del trattamento illecito di dati personali, ai sensi dell’art. 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 (codice della privacy), ribadendo che tale pregiudizio, pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della “gravità della lesione” e della “serietà del danno”, in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui quello di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito (conforme: Sez. 3, n. 16133/2014, Vincenti, Rv. 632536-01).

3.6. Le sanzioni amministrative.

Altro ambito in cui la Corte di cassazione civile ha avuto modo di confrontarsi con le norme della CEDU è quello relativo alle sanzioni amministrative, con particolare riguardo alla loro natura e alle differenze rispetto a quelle penali.

In tema di sanzioni di competenza della Banca d’Italia, Sez. 2, n. 9371/2020, Sabato, Rv. 657750-01 ha evidenziato che la mancata comunicazione all’incolpato degli esiti istruttori non comporta violazione del diritto di difesa e dei principi sanciti dall’art. 6 della CEDU, atteso che il procedimento amministrativo deve ritenersi ab origine conforme alle prescrizioni di tale ultima disposizione, essendo il provvedimento sanzionatorio impugnabile davanti ad un giudice indipendente ed imparziale, dotato di giurisdizione piena e presso il quale è garantito il pieno dispiegamento del contraddittorio tra le parti.

Le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Banca d’Italia ai sensi degli artt. 144 e ss. del d.lgs. n. 385 del 1993 (nella formulazione anteriore alle modifiche di cui al d.lgs. n. 72 del 2015) nei confronti di soggetti che svolgono funzioni di direzione, amministrazione o controllo di istituti bancari, non sono equiparabili, quanto a gravosità economica ed incidenza sui diritti e libertà fondamentali, avuto riguardo alle concrete estrinsecazioni professionali, imprenditoriali e manageriali della persona, a quelle previste dall’art. 187-ter T.U.F., per manipolazione del mercato, sicché esse non hanno natura sostanzialmente penale e non pongono, quindi, un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU (Sez. 2, n. 16517/2020, Fortunato, Rv. 659018-02. In precedenza, in senso analogo, Sez. 2, n. 3656/2016, Matera, Rv. 638686-01).

Sul rischio della duplicazione sostanziale dei procedimenti sanzionatori, con conseguente violazione del principio del ne bis in idem, Sez. 2, n. 3845/2020, De Marzo, Rv. 657103-03 ha chiarito che la contemporanea attivazione di due distinti procedimenti sanzionatori, l’uno condotto dalla Banca d’Italia e l’altro dalla Consob, in relazione ai medesimi fatti, non pone problemi di compatibilità con l’art. 6 CEDU qualora i predetti procedimenti siano tesi a sanzionare diversi profili della condotta antisociale realizzata dal soggetto ed a condizione che tra le due procedure sussista una connessione sostanziale e cronologica, che il trattamento sanzionatorio sia nel complesso proporzionato e comunque prevedibile nella sua articolazione ed entità, che sia assicurata l’unicità della raccolta e, ove possibile, della valutazione della prova e, infine, che la sanzione imposta nel procedimento che si concluda per primo sia tenuta in considerazione nell’altro procedimento, così da assicurare la proporzionalità complessiva della pena in concreto irrogata (Sez. 2, n. 21017/2019, Giusti, Rv. 655192-02, in precedenza, aveva affermato che il principio del ne bis in idem non opera qualora vengano in rilievo più condotte illecite ricomprese in diverse norme sanzionatorie applicate dalla Banca d’Italia e dalla Consob secondo le rispettive competenze).

Il cumulo di funzioni istruttorie e decisorie in capo a un medesimo organo previsto dall’organizzazione interna della Banca d’Italia, ovvero l’affidamento della decisione sulla sanzione all’organo gerarchicamente sopraordinato rispetto a quello preposto allo svolgimento dell’istruttoria, non comporta, di per sé, la violazione dell’art. 6 CEDU, anche quando esso si risolva in una anticipazione del giudizio, dovendosi comunque aver riguardo, per poter configurare un ragionevole timore di mancanza di imparzialità in capo all’organo investito della funzione decisoria, alla portata e alla natura delle eventuali attività e decisioni preliminari, da valutarsi caso per caso (Sez. 2, n. 3845/2020, De Marzo, Rv. 657103-02).

3.7. Il diritto tributario.

Ulteriore settore in cui hanno assunto rilievo i principi della CEDU è quello tributario.

Sul principio del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU, Sez. 6-5, n. 20358/2020, Conti, Rv. 659307-01 ha evidenziato che lo stesso trova mediata applicazione, in parte qua, in relazione alla natura armonizzata della pretesa fiscale relativa all’IVA, ove letto in combinato disposto con l’art. 47 della Carta UE dei diritti fondamentali, applicabile anche ai giudizi tributari, non contenendo detta norma l’inciso limitativo riferito ai giudizi civili che, invece, compare nell’art. 6 CEDU. In tale ambito, secondo l’apprezzamento compiuto dalla S.C., il cuore del diritto a un equo processo è rappresentato, come stabilito dalla Corte EDU con la sentenza Chambaz c. Francia, dalla tutela del diritto al silenzio e alla non autoincriminazione, sicché tali diritti presuppongono che le autorità, nel determinare la responsabilità degli individui, non ricorrano ad elementi di prova ottenuti attraverso la minaccia di sanzioni o in forza di pressioni nei confronti dell’accusato.

In attuazione del predetto principio, la S.C. ha rigettato il ricorso del contribuente che aveva dedotto l’illegittimità dell’azione accertativa, per la violazione dell’art. 220 disp. att. c.p.p., ritenendo insussistente la dedotta violazione del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost. e dei principi del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU tenuto conto del fatto che il contribuente non aveva prospettato un’attività degli organi accertatori incidente sul diritto al silenzio del soggetto sottoposto a verifica, in assenza di contestazioni rispetto alla violazione di norme in ambito processuale penale, incidenti sui diritti del contribuente.

In attuazione del principio del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU, a garanzia della parità delle armi e dell’attuazione del diritto di difesa, è stato riconosciuto al contribuente, oltre che all’Amministrazione finanziaria, la possibilità di introdurre, nel giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale aventi, anche per il contribuente, il valore probatorio proprio degli elementi indiziari (Sez. 5, n. 9903/2020, Condello, Rv. 657728-01 sulla dichiarazione giurata di conferma di dazione di denaro a titolo di liberalità).

Sulle imposte sui redditi, ai fini del prelievo fiscale di cui all’art. 11, comma 5, l. n. 413 del 1991, Sez. 5, n. 16629/2020, Condello, Rv. 658693-01 ha ritenuto sufficiente che la percezione della plusvalenza derivante dall’espropriazione di beni sia avvenuta dopo l’entrata in vigore della legge anzidetta, a nulla rilevando che il trasferimento del bene sia intervenuto precedentemente. Tuttavia, qualora il decreto di esproprio, la cessione volontaria o l’occupazione acquisitiva siano intervenuti prima del 31 dicembre 1988, ma il pagamento sia stato disposto dopo l’entrata in vigore della l. n. 413 cit., la plusvalenza non è imponibile nel caso di ingiustificato ritardo della P.A. nel pagamento dell’indennizzo, ponendosi una diversa interpretazione in contrasto con i principi costituzionali e convenzionali di cui agli artt. 97, 117, comma 1, e 111, comma 1 e 2, Cost. e 1, prot. 1, CEDU, da ritenersi violati ove l’applicazione retroattiva del regime fiscale non abbia garantito quel giusto equilibrio tra l’interesse generale e la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo.

Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della CTR che si era limitata a confermare il principio di cassa, quale criterio per l’assoggettamento a tassazione, trascurando di valutare le ragioni e la portata del ritardo nella liquidazione dell’indennità, avvenuta dopo anni e solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna al relativo pagamento.

In materia di IVA, è stata ritenuta irrilevante e manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’impossibilità di instaurare o di proseguire un procedimento amministrativo volto all’irrogazione di una sanzione penale formalmente amministrativa ma avente natura sostanzialmente penale, per violazione dell’art. 117 Cost., in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU, in quanto il rapporto tra il suindicato procedimento amministrativo e il processo penale trova una specifica disciplina negli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 74 del 2000 (Sez. 5, n. 21694/2020, Fuochi Tinarelli, Rv. 659071-07).

3.8. Procedimento disciplinare nei confronti degli avvocati.

Sul procedimento disciplinare di primo grado nei confronti degli avvocati, si segnala Sez. U, n. 23593/2020, Carrato, Rv. 659286-01 che, pur evidenziandone la natura amministrativa, ne ha sottolineato il carattere speciale, in quanto disciplinato specificamente dalle norme dell’Ordinamento forense, che non contengono termini perentori per l’inizio, lo svolgimento e la definizione del procedimento stesso all’infuori di quelli posti a tutela del diritto di difesa, nonché di quello di prescrizione dell’azione disciplinare. Di conseguenza, in tale procedimento non trovano applicazione gli artt. 24 Cost. e 6 CEDU in tema di ragionevole durata del processo, né l’art. 2 della l. n. 241 del 1990 sulla durata del procedimento amministrativo, giacché la mancata previsione di un termine finale del procedimento disciplinare è coessenziale al fatto che esso debba avere una durata sufficiente per consentire all’incolpato di sviluppare compiutamente la propria difesa.

3.9. L’espropriazione per pubblica utilità.

Riguardo alle espropriazioni, è stato ribadito che nei casi di occupazione acquisitiva o accessione invertita, alla P.A. non è consentito negare al privato il risarcimento del danno preteso, invocando il mancato formale trasferimento nel proprio patrimonio del bene illegittimamente occupato, sul presupposto che il menzionato istituto sia stato ritenuto contrario ai principi costituzionali e della CEDU e, tuttavia, mantenendo il predetto bene nella propria disponibilità destinandolo in modo definitivo e irreversibile ad un fine pubblico, in quanto la scelta dei rimedi a tutela della proprietà è pur sempre riservata al soggetto danneggiato (Sez. 1, n. 144/2020, Lamorgese, Rv. 656514-01; in senso conforme, Sez. 1, n. 6301/2014, Lamorgese, Rv. 630521-01)

PARTE PRIMA I DIRITTI FONDAMENTALI DELLA PERSONA

  • disabile
  • obiezione di coscienza
  • protezione dei dati
  • dati personali
  • diritto all'immagine

CAPITOLO I

LA TUTELA DELLA PERSONA: DIRITTI DELLA PERSONALITÀ E DIRITTI DI NUOVA EMERSIONE

(di Marina Cirese, Giovanni Maria Armone )

Sommario

1 Il diritto alla protezione dei dati personali. - 2 Il diritto alla riservatezza ed il diritto di cronaca. - 3 Il diritto all’oblio. - 4 L’identità nelle sue diverse declinazioni. - 5 Il diritto all’immagine. - 6 I diritti dei disabili. - 7 La libertà di coscienza. - 8 Profili processuali.

1. Il diritto alla protezione dei dati personali.

Il diritto alla protezione dei dati personali si atteggia senza dubbio quale diritto fondamentale, in quanto riconosciuto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, oltre che dal Regolamento UE n. 2016/679, entrato in vigore il 25 maggio 2016, ma al tempo stesso non come un diritto assoluto, in quanto per sua natura deve essere bilanciato con altri diritti. È lo stesso Regolamento a porre l’accento su opposti interessi e a considerare il diritto alla protezione dei dati personali necessario oggetto di bilanciamento. Il considerando n. 4 recita invero che: “Il diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta, ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ottemperanza al principio di proporzionalità”.

Con Sez. 3, n. 08459/20, Olivieri, Rv. 657825-01, la S.C. affronta diffusamente il delicato tema del rapporto tra norme di diritto processuale e normativa in materia di protezione dei dati personali.

In particolare la pronuncia si sofferma sul dedotto profilo dell’inutilizzabilità della prova nell’ambito del processo civile, rilevando che la categoria penalistica di cui all’art. 191 c.p.c., posta a tutela del diritto di difesa dell’imputato, non è invece contemplata nell’ordinamento processuale civile, ove manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova.

Pertanto, come regola generale, il giudice può porre a base del proprio convincimento anche prove atipiche, salvo che il mezzo di prova costituisca ex se lesione di un diritto fondamentale della persona, per tali intendendosi quelle fonti di prova acquisite con modalità tali da ledere le libertà fondamentali e costituzionalmente garantite. Con riguardo all’invalido svolgimento della consulenza tecnica d’ufficio in quanto fondata su elementi probatori (vetrini con campioni biologici conservati presso i nosocomi) che sarebbero stati illecitamente acquisiti in violazione del d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a rilevare non è la disposizione processuale (art. 191 c.p.p.) bensì la condotta illecita per violazione del divieto* prescritto dalla norma di diritto sostanziale, venendo, tra l’altro, la vittima dell’illecito civile a coincidere con la medesima parte processuale contro cui tale informazione viene fatta valere.

La condotta illecita, relativa alla divulgazione e alla comunicazione del dato che non poteva essere acquisito non può trasformarsi in lecita attraverso le rituali forme di assunzione delle prove nel processo in quanto l’utilizzo probatorio del dato verrebbe ad integrare il medesimo pregiudizio che la norma sostanziale di divieto intende impedire.

In detta pronuncia la Corte ribadisce il principio secondo cui deve ritenersi precluso l’accesso a quelle prove la cui acquisizione concreti una diretta lesione delle libertà fondamentali e costituzionalmente garantite quali la libertà personale, la segretezza della corrispondenza, l’inviolabilità del domicilio, riferibili alla parte contro cui la prova viene utilizzata.

Con riguardo al trattamento di dati personali per ragioni di giustizia, osserva che anche la normativa europea in materia di trattamento di dati personali (Regolamento UE n. 679 del 2016) prevede che il divieto espresso di trattare categorie particolari di dati ex art. 9, § 1 e 2, lett. f), tra i quali rientrano anche i dati genetici dell’interessato, come nel caso di specie, non si applica ove il trattamento stesso risulti necessario “per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali”.

Ulteriori limitazioni possono essere apportate dagli Stati membri nel caso in cui, fatta salva l’essenza dei diritti e delle libertà fondamentali, vi sia la necessità di adottare “misure necessarie e proporzionate” al fine di salvaguardare “l’esecuzione di azioni civili” (art. 23, § 1, lett. i) e j), GDPR). Nel caso di specie la Corte chiarisce che l’accertamento della paternità, fondato su campioni biologici acquisiti presso l’azienda ospedaliera, è legittimo e non è configurabile alcuna lesione del diritto alla protezione dei dati personali nel momento in cui gli stessi vengono trattati per esigenze di giustizia.

In tema di pubblicazione di dati sensibili riguardanti un impiegato comunale contenuti in delibere di enti locali, Sez. 2, n. 18292/2020, Cosentino, Rv. 659101-01, ha precisato che l’art. 124 del d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, che prevede la pubblicazione all’albo pretorio delle deliberazioni del comune e della provincia per 15 giorni consecutivi, non consente all’ente locale di protrarne la pubblicazione oltre il termine normativamente previsto allorché si tratti di notizie afferenti alla vita privata di un impiegato comunale. Nella specie la S.C. confermava la statuizione del giudice di primo grado atteso che il Comune aveva mantenuto visibili per oltre un anno sul proprio albo pretorio on line determinazioni dirigenziali dalle quali risultavano non soltanto il nome e il cognome della dipendente e l’esistenza di un contenzioso tra la stessa e l’Amministrazione municipale ma anche altre informazioni che non afferendo all’organizzazione degli uffici, non potevano essere mantenute dopo la scadenza del termine previsto.

La medesima pronuncia (Sez. 2, n. 18292/2020, Cosentino, Rv. 659101-02) sottolinea altresì che ai sensi dell’art. 28 del GDPR, il titolare del trattamento è la persona giuridica, non il legale rappresentante o l’amministratore, e che, detto codice deroga al principio della imputabilità personale della sanzione di cui alla l. 24 novembre 1981 n. 689, configurando, nello specifico regime sanzionatorio ivi dettato, un’autonoma responsabilità della persona giuridica che va configurata come “colpa di organizzazione”, da intendersi, in senso normativo, come rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione degli illeciti.

Pronunciandosi in tema di anonimizzazione dei dati personali, Sez. 5, n. 16807/2020, Putaturo Donati Viscido Di Nocera, Rv. 658773-01, ha affermato che la qualità di «interessato» legittimato a presentare la domanda di cui all’art. 52, comma 1, del d.lgs. n. 196 del 2003. è definita direttamente dall’art. 4, comma 1, lett. i) del medesimo decreto legislativo, disposizione che, se nella originaria formulazione includeva non solo la persona fisica, ma anche la persona giuridica, l’ente o l’associazione cui si riferivano i dati personali, coincidendo il concetto di “dato personale” di cui alla lett. b) del medesimo articolo con “qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale”, a decorrere dal 6.12.2011, in forza della novella ex art. 40 del d.l. del 06.12.2011 n. 201, include solo la persona fisica, cui si riferiscono i dati personali.

Peraltro il modificato concetto di “dato personale” di cui alla lett. b) dell’art. 4 va a coincidere con “qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale”. Questa diversa ampiezza del termine “dato personale” orienta anche la lettura dei concetti di “dati identificativi” di cui alla lett. c) dell’art. 4 quali “dati personali che permettono l’identificazione diretta dell’interessato” e di “dati sensibili” di cui alla lett. d) dell’art. 4 quali “dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.

La S.C. nel delineare i presupposti cui subordinare l’anonimizzazione dei dati ha altresì precisato che la relativa istanza deve essere presentata solo per motivi “legittimi” che vanno intesi come “motivi opportuni” da cui deriva la particolare ampiezza, non predeterminata dal legislatore, delle ragioni che possono essere addotte a sostegno della istanza la cui valutazione richiede da parte dell’autorità giudiziaria un bilanciamento tra le esigenze di riservatezza del singolo e il principio della generale conoscibilità dei provvedimenti giurisdizionali e del contenuto integrale delle sentenze, quale strumento di democrazia e di informazione giuridica.

Pronunciandosi in relazione ad una fattispecie relativa a comunicazioni fatte da cittadini al Comune utilizzando la pec istituzionale che in realtà era risultata una pec di un privato, Sez. 1, n. 29978/2020, Parise, Rv. 660130-01, ha precisato che tenuto conto della normativa in tema di tutela della privacy nonché di quella di cui al c.d. codice dell’amministrazione digitale (d.lgs. 7 marzo 2005 n. 82 e successive modificazioni), deve ritenersi che la trasmissione di documentazione di carattere riservato (afferente alla situazione amministrativa, tributaria e previdenziale dei medesimi) avvenuta mediante un sistema informatico privato integri un illecito trattamento di dati personali in quanto determina la violazione del diritto alla riservatezza in ordine al contenuto dei documenti trasmessi nonché al loro indirizzo di posta elettronica.

In tema di protezione dei dati personali, Sez. 2, n. 18288/2020, Besso Marcheis, Rv. 659098-01, ha affermato che le violazioni di omessa informativa ex art. 161 del d.lgs. n. 196 del 2003 e di omessa acquisizione del consenso per i dati acquisiti dalle liste elettorali dei cittadini, prima della vigenza del d.l. 30 dicembre 2008 n. 207, sono illeciti a carattere continuativo, in quanto la condotta di gestione, trattamento e conservazione dei dati si è protratta fino alla data indicata nel provvedimento di accertamento del Garante, potendo il titolare del trattamento fare cessare tali condotte in qualsiasi momento.

Nella medesima pronuncia (Sez. 2, n. 18288/2020, Besso Marcheis, Rv. 659098-02) la S.C., ponendosi nel solco del principio già espresso da Sez. 1, n. 17143/2016, Genovese, Rv. 640917-01, ha altresì precisato che in tema di illeciti amministrativi di cui al d.lgs. n. 196 del 2003, la fattispecie prevista dall’art. 164 bis, comma 2, costituisce non un’ipotesi aggravata rispetto alle violazioni semplici ivi richiamate, ma una figura di illecito del tutto autonoma, atteso che essa prevede la possibilità che vengano infrante dal contravventore, anche con più azioni ed in tempi diversi, una pluralità di ipotesi semplici, unitariamente considerate dalla norma con riferimento a «banche di dati di particolare rilevanza o dimensioni», sicché, in caso di concorso di violazioni di altre disposizioni unitamente a quella in esame, ne deriva un’ipotesi di cumulo materiale delle sanzioni amministrative.

2. Il diritto alla riservatezza ed il diritto di cronaca.

Il d.lgs. n. 196 del 2003 agli articoli 136 e 137, disciplina espressamente il trattamento dei dati per finalità giornalistiche, sancendo, in particolare, che il giornalista, nell’esercizio della propria attività professionale, può prescindere dalla prestazione, da parte dell’interessato (oggetto dell’articolo o della pubblicazione), del consenso al trattamento dei propri dati personali e sensibili. Tale principio di libertà è conseguenza della preminenza del diritto all’informazione su fatti di pubblico interesse sul diritto alla riservatezza. Tuttavia, devono essere osservati i limiti del diritto di cronaca ed, in particolare, l’essenzialità dell’informazione nonché il codice deontologico dei giornalisti che in quanto richiamato dall’art. 139 del d.lgs. n. 196 del 2003 ha valore di fonte normativa.

Sez. 1, n. 29583/2020, Terrusi, Rv. 666191-01, 666191-02, pronunciandosi con riguardo ad un caso in cui una testata giornalistica aveva pubblicato le foto di un noto presentatore televisivo durante una vacanza in un lussuoso resort all’estero con la compagna, corredate da un articolo, cassando la sentenza impugnata che aveva ritenuto illecita la pubblicazione con conseguente condanna al risarcimento del danno per la lesione del diritto alla riservatezza ed alla protezione dei dati personali nonché per la lesione del diritto all’immagine, ha affermato che, fermo il principio del rispetto della vita privata e di corrette modalità di apprensione della notizia con il relativo corredo fotografico, non può essere escluso tout court l’interesse pubblico alla notizia in relazione alla personalità del giornalista ed ai temi dal medesimo trattati durante le sue trasmissioni in ragione di una potenziale dissonanza. Ne deriva, pertanto, che in presenza delle condizioni legittimanti l’esercizio del diritto di cronaca, purché nell’ottica dell’essenzialità e della correttezza della notizia, può ritenersi lecita la diffusione della notizia e delle immagini.

Pronunciandosi sempre in tema di attività giornalistica Sez. 1, n. 29584/20, Terrusi, Rv. 660192-01, 660192-02, 660192-03, con riferimento ad una conversazione diffusa su un sito internet riguardante le opinioni politiche liberamente espresse da un soggetto noto captate dall’intervistatore mediante artifici ovvero simulando una identità diversa dalla propria (ovvero imitando la voce di un altro), ritenute tali informazioni dati sensibili, ha statuito che l’acquisizione di tali dati mediante modalità subdole di acquisizione, come quelle insite nell’imitazione dell’identità personale altrui, costituisce illecito trattamento di dati sensibili nonché violazione dell’art. 2 del codice deontologico dei giornalisti non potendo invocarsi la funzione informativa di fronte ad artifici irrispettosi della dignità della persona.

3. Il diritto all’oblio.

Il diritto all’oblio quale diritto generato dalla giurisprudenza e poi consolidato dal legislatore, assume rilievo nella giurisprudenza della Corte non tanto sotto il profilo della riproposizione di fatti a suo tempo pubblicati quanto per il profilo della permanente accessibilità di tali fatti sul web. Da qui deriva l’esigenza di ottenere la cancellazione di tali dati dalla rete quando siano venuti meno i motivi che ne hanno giustificato la diffusione.

Sez. 1, n. 07559/2020, Campese, Rv. 657424-01, pronunciandosi in un caso di un archivio storico digitale on line di un quotidiano che riportava dati personali relativi all’attività economica dell’azionista di riferimento di un importante gruppo industriale in relazione ad una risalente vicenda giudiziaria, posta la necessità di trovare un punto di equilibrio tra opposti interessi (della collettività a ricostruire vicende economiche di perdurante rilevanza storico-sociale e dell’interessato al controllo del dato che lo riguarda), ha ritenuto lecita la permanenza di un articolo di stampa nell’archivio informatico di un quotidiano purché l’articolo sia deindicizzato dai siti generalisti e reperibile solo attraverso l’archivio storico del quotidiano, in tal modo contemperandosi in modo bilanciato il diritto ex art. 21 Cost. della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico, con quello del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita compressione della propria immagine sociale.

In altri termini, il diritto all’oblio, da ricollegare alla tutela dell’identità personale, non si può considerare leso (sì che non deve darsi ingresso a intervento di cancellazione) qualora l’editore abbia provveduto: a) a escludere l’accessibilità all’articolo contenente i dati in questione con i motori generali di ricerca, così rendendo i contenuti disponibili solo tramite attivazione del motore di ricerca interno all’archivio ed estromettendo azioni di ricerca mosse da ragioni casuali quando non futili; b) a inserire nell’archivio, in calce all’articolo contenente i dati in questione, un aggiornamento sugli ulteriori sviluppi dei procedimenti giudiziari trattati, così preservandone il valore documentaristico conservativo e la totale sovrapponibilità all’archivio cartaceo.

In linea con tale pronuncia si pone Sez. 1, n. 09147/2020, Scalia, Rv. 657638-01 che ripercorre l’elaborazione del diritto all’oblio, quale corollario del diritto alla riservatezza, e lo pone in relazione con altri diritti, tra cui in particolare quello di cronaca e di interesse pubblico alla conoscenza dei fatti.

La fattispecie è quella dell’amministratore unico di un’agenzia che lamenta che, digitando il suo nome e cognome su Google e su altri motori di ricerca, appare un collegamento all’articolo di una testata giornalistica che descrive la sua vicenda giudiziaria culminata in una sentenza di patteggiamento.

Il tema affrontato dalla pronuncia riguarda il trattamento da riservarsi alla notizia di cronaca la quale, oggetto di una prima pubblicazione e poi trasmigrata nell’archivio online della testata giornalistica, resti accessibile nel web senza limiti di tempo per l’intervenuta indicizzazione dei relativi contenuti dai motori di ricerca.

A riguardo la Corte ha ritenuto che la tutela del menzionato diritto va posta in bilanciamento con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica, cosicché nel caso di notizia pubblicata sul web, il medesimo può trovare soddisfazione anche nella sola “deindicizzazione” dell’articolo dai motori di ricerca. In applicazione di tale principio la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che, nel disporre senz’altro la cancellazione della notizia relativa ad una vicenda giudiziaria mantenuta on line, non aveva operato il necessario bilanciamento tra il diritto all’oblio e quelli di cronaca giudiziaria e di documentazione ed archiviazione.

4. L’identità nelle sue diverse declinazioni.

L’art. 8 CEDU sancisce, com’è noto, il diritto al rispetto della vita privata e familiare e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha utilizzato l’ampiezza di questa formula per ricondurvi molteplici situazioni giuridiche soggettive, non riducibili alla semplice riservatezza.

Sulla scia di questa tendenza, la Corte di cassazione ha con crescente frequenza utilizzato il combinato disposto degli artt. 2 Cost. e 8 CEDU per affermare a largo raggio l’identità personale in tutte le sue declinazioni.

Così, rispetto all’identità sessuale, la giurisprudenza di legittimità si mostra consapevole che tale diritto richiede non soltanto di essere protetto dalle ingerenze dei pubblici poteri, ma anche l’adozione di misure positive da parte dello Stato, al fine di renderne effettivo il godimento (come di recente ribadito da CEDU 9 ottobre 2020, Y.T. c. Bulgaria, in un caso di rifiuto di trascrizione sui registri dello stato civile della rettificazione di sesso, giudicato immotivato e dunque censurato per violazione dell’art. 8).

In quest’ottica, nel solco cioè del progressivo riconoscimento della identità sessuale quale attributo fondamentale dell’individuo, si pone Sez. 1, n. 03877/2020, Iofrida, Rv. 657061-01, che, pronunciandosi in relazione ad un caso in cui i giudici di secondo grado avevano ritenuto che a seguito della rettificazione del sesso il nuovo nome dovesse automaticamente derivare dalla mera conversione dal maschile al femminile dell’originario prenome, ha ritenuto invece che il riconoscimento del primario diritto alla identità sessuale, sotteso alla disposta rettificazione dell’attribuzione di sesso, rende consequenziale la rettificazione del prenome, che non va necessariamente convertito nel genere scaturente dalla rettificazione, dovendo il giudice tener conto del nuovo prenome indicato dalla persona, pur se del tutto diverso dal prenome precedente, ove tale indicazione sia legittima e conforme al nuovo stato.

In termini analoghi, sia pure su un diverso terreno, il richiamo agli artt. 2 Cost. e 8 CEDU è servito a Sez. 6-1, n. 01667/2020, Mercolino, Rv. 656982-01, per negare la sussistenza di una disparità di trattamento nella disciplina dell’art. 270 c.c. nella parte in cui prevede termini differenziati per esercitare l’azione di riconoscimento di paternità quando la stessa sia proposta dal figlio o dai discendenti dopo la sua morte. L’imprescrittibilità dell’azione riguardo al figlio tutela l’interesse del medesimo al riconoscimento della propria filiazione, interesse che resta integro anche nell’ipotesi di decesso del presunto genitore, mentre il termine decadenziale biennale previsto per l’azione promossa dagli eredi del presunto figlio, dopo la sua morte, è giustificato dal fatto che essi sono portatori di un interesse non diretto, ma solo riflesso al riconoscimento della filiazione del loro ascendente; inoltre, a differenza di quanto accade per i discendenti, il diritto al riconoscimento di uno status filiale corrispondente alla verità biologica costituisce per il figlio una componente essenziale del diritto all’identità personale, riconducibile all’art. 2 Cost. ed all’art. 8 CEDU, che accompagna la vita individuale e relazionale, e l’incertezza su tale status può determinare una condizione di disagio ed una lesione allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità.

L’identità personale veniva in gioco anche nel caso deciso da Sez. 6-1, n. 00772/2020, L. Tricomi, Rv. 656804-01. Qui la Corte ha stabilito che è legittimo, in ipotesi di secondo riconoscimento da parte del padre, l’attribuzione del patronimico in aggiunta al cognome della madre, purché non gli arrechi pregiudizio in ragione della cattiva reputazione del padre e purché non sia lesivo della sua identità personale, ove questa si sia definitivamente consolidata con l’uso del solo matronimico nella trama dei rapporti personali e sociali.

La S.C. ha ritenuto che, a tal fine, occorre valutare il perseguimento del miglior interesse del minore che, in questo caso, coincide con l’evitare un danno alla sua identità personale. Nella specie il figlio di otto anni non aveva ancora acquisito col matronimico una definitiva e formata identità tale da escludere l’aggiunta di un cognome diverso al proprio. L’assenza di comportamenti negativi paterni e di rapporti tra padre e figlio non veniva considerata come condizione ostativa all’aggiunta del patronimico rilevando, invece, l’assenza di comportamenti negativi del padre di tale gravità da renderlo inidoneo al ruolo genitoriale.

Rilevante è anche Sez. 1, n. 19824/2020, Fidanzia, Rv. 658976-01, in cui veniva in rilievo la delicata questione del parto anonimo. Il diritto della donna a non essere nominata al momento del parto può cedere, nel periodo successivo alla sua morte, rispetto all’interesse del figlio biologico all’accertamento dello status, attraverso una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 269 c.p.c. La tutela degli eredi non può prevalere, in particolare quando la donna abbia dimostrato nei fatti di aver superato l’originaria scelta dell’anonimato, trattando il figlio come uno dei suoi.

Nel prisma dell’identità rientra anche l’identità genitoriale, come affermato da Sez. 3, n. 08459/2020, Olivieri, Rv. 657825-03, in un caso in cui la madre, pur consapevole della paternità, non aveva comunicato al padre del nascituro l’avvenuto concepimento. La Corte ha affermato che l’omessa comunicazione si traduce, ove non giustificata da un oggettivo apprezzabile interesse del nascituro e nonostante che tale comunicazione non sia imposta da alcuna norma, in una condotta non jure che, se posta in essere con dolo o colpa, può integrare gli estremi di una responsabilità civile, ai sensi dell’art. 2043 c.c., poiché suscettibile di arrecare un pregiudizio, qualificabile come danno ingiusto, al diritto del padre naturale di affermare la propria identità genitoriale, ossia di ristabilire la verità inerente al rapporto di filiazione.

E un diritto alla protezione dell’identità è ravvisabile anche in capo al partito politico, quale luogo di espressione di idee e di azioni, centro di imputazione di situazioni giuridiche e, come tale, soggetto di diritto distinto dagli associati. Al fine di soddisfare l’esigenza, riportabile agli artt. 2, 21, 49 Cost., di evitare nel dibattito pubblico il pericolo di confusione in ordine agli elementi che li caratterizzano, Sez. 1, n. 11635/2020, De Marzo, Rv. 657948-01, ha pertanto affermato che ogni partito politico beneficia della tutela della propria denominazione, che si traduce nella possibilità di chiedere la cessazione di fatti di usurpazione (ossia, di indebita assunzione di nomi e denominazioni altrui quali segni distintivi), la connessa reintegrazione patrimoniale, nonché il risarcimento del danno ex art. 2059 c.c., comprensivo di qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione dei diritti immateriali della personalità, compatibile con l’assenza di fisicità e costituzionalmente protetti, quali sono il diritto al nome, all’identità ed all’immagine dell’ente.

La Corte ha precisato che il nome della persona, fisica e giuridica, equiparandosi a quest’ultima l’associazione non riconosciuta, rientra nella previsione generale dell’art. 7 c.c., che individua nel nome il segno di identificazione del soggetto in quanto tale, indipendentemente dalla natura del soggetto e dunque dalla eventuale posizione del soggetto in un mercato. Nella specie, è stata dunque cassata la decisione di merito, che aveva escluso la confondibilità tra le denominazioni e i segni distintivi di due partiti, senza giustificare come avesse tratto il convincimento che il simbolo della fiamma tricolore rappresentasse, con carattere di generalità, patrimonio ideologico di tutta la destra autoritaria e nazionalistica italiana, anziché il segno identificativo di uno dei due partiti.

5. Il diritto all’immagine.

Con Sez. 3, n. 08880/2020, Pellecchia, Rv. 657866-01, la S.C. ha ritenuto che la pubblicazione dell’immagine di un minore in scene di manifestazioni pubbliche (o anche private, ma di rilevanza sociale) o di altre iniziative collettive non pregiudizievoli, in assenza di consenso al trattamento validamente prestato, è legittima, in quanto aderente alle fattispecie normative di cui all’art. 97 della l. n. 633 del 1941 , se l’immagine che ritrae il minore possa considerarsi del tutto casuale ed in nessun caso mirata a polarizzare l’attenzione sull’identità del medesimo e sulla sua riconoscibilità. Nella specie, la S.C., pur confermando la decisione di merito di rigetto della domanda risarcitoria per difetto di prova del danno patito, ha ritenuto illecita l’acquisizione e la pubblicazione dell’immagine di due minori in assenza del relativo valido consenso, considerato non sostituibile dalla presenza, all’interno di un parco acquatico, di cartelli di avviso dello svolgimento di un servizio di fotoshooting, finalizzato a pubblicizzare un evento ludico, essendo le fotografie specificatamente incentrate sulle dette minori nell’atto di utilizzare uno scivolo gonfiabile il giorno della sua inaugurazione.

6. I diritti dei disabili.

La disabilità trova ormai nell’ordinamento un’ampia e consolidata rete di protezione, che si traduce nell’attribuzione di diritti a prestazione, benefici assistenziali e lavorativi, divieti di discriminazione.

Talvolta, si rendono tuttavia necessarie precisazioni, onde evitare che i diritti riconosciuti degradino a interessi legittimi o di mero fatto.

In ambito scolastico, ad esempio, l’obiettivo dell’integrazione richiede che il generale diritto del portatore di handicap a frequentare la scuola in condizioni di parità sia assistito da misure appropriate. Sez. U, n. 01870/2020, Lombardo, Rv. 656799-01, ha così sancito che la domanda con la quale i genitori di un minore portatore di handicap invochino la condanna dell’amministrazione scolastica al risarcimento del danno non patrimoniale derivato al minore dalla omessa tempestiva attuazione di un precedente provvedimento cautelare, con il quale la stessa amministrazione era stata condannata ad integrare il numero delle ore didattiche previste dal piano educativo individualizzato (PEI) per insufficienza delle stesse, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che l’ordine giudiziale rimasto disatteso si è sostituito al predetto piano educativo, facendo sorgere il diritto soggettivo del minore disabile a fruire del maggior numero di ore di servizio scolastico stabilite dall’autorità giudiziaria, non residuando alcun ambito di esercizio di potere discrezionale per la pubblica amministrazione.

In termini analoghi, Sez. U, n. 20164/2020, Giusti, Rv. 658855-01, ha attribuito al giudice ordinario la cognizione della controversia relativa alla mancata attuazione, in favore di una persona disabile, del progetto individuale predisposto dalla P.A. ai sensi dell’art. 14 l. n. 328 del 2000 poiché, a seguito dell’adozione di tale progetto, il portatore di disabilità diviene titolare di una posizione di diritto soggettivo alla concreta erogazione delle prestazioni e dei servizi ivi programmati, per il cui espletamento non è richiesto l’esercizio di alcuna potestà autoritativa.

7. La libertà di coscienza.

In linea con i più recenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale e della Corte EDU, Sez. 1, n. 07893/2020, Valitutti, Rv. 657708-01 e 657708-02, ha affermato che, in virtù del principio supremo di laicità dello Stato, esistente nell’ordinamento italiano, è garantita la pari libertà di coscienza di ciascuna persona che si riconosca in una fede, quale che sia la confessione di appartenenza, ed anche se si tratta di un credo ateo o agnostico, di professarla liberamente e di farne propaganda nelle forme ritenute più opportune, attesa la previsione aperta e generale dell’art. 19 Cost., purché l’esercizio di tale diritto di propaganda e diffusione del proprio credo religioso non si traduca nel vilipendio della fede da altri professata, secondo un accertamento che il giudice di merito è tenuto ad effettuare con rigorosa valutazione delle modalità con le quali si esplica la propaganda o la diffusione, denegandole solo quando si traducano in un’aggressione o in una denigrazione della diversa fede da altri professata.

Secondo la S.C., la cornice normativa di riferimento è data, in sede di concreta applicazione, dal principio della parità di trattamento delle confessioni religiose, sancito dagli artt. 1 e 2 della direttiva 2000/78/CE e degli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, che impone che venga assicurata una forma di uguaglianza tra tutte le forme di religiosità, in essa compreso il credo ateo o agnostico. La sua violazione integra pertanto una discriminazione vietata, che si verifica quando, nella comparazione tra due o più soggetti, non necessariamente nello stesso contesto temporale, uno di essi è stato, è o sarebbe avvantaggiato rispetto all’altro, sia per effetto di una condotta posta in essere direttamente dall’autorità o da privati, sia in conseguenza di un comportamento, in apparenza neutro, ma che abbia comunque una ricaduta negativa per i seguaci della religione discriminata.

8. Profili processuali.

In tema di controversie concernenti la tutela della riservatezza, Sez. 6-1, n. 09221/2020, Marulli, Rv. 657772-01, ha stabilito che è inammissibile il ricorso immediato per Cassazione ex art. 152, comma 1, del d.lgs. n. 196 del 2003, applicabile ratione temporis, avverso la sentenza del tribunale che abbia statuito sulla maggiorazione della sanzione irrogata in conseguenza della violazione dell’art. 162, comma 2 bis, decreto cit., non venendo in tal caso in rilievo l’applicazione di norme del codice della privacy, la cui violazione costituisce solo l’occasione per l’applicazione della detta sanzione. Nella specie, si osserva, la violazione dell’art. 162, comma 2-bis, d.lgs. 196/2003 è solo l’occasione di emersione della sanzione - soggetta quanto alla sua riscossione all’applicazione delle disposizioni della 1. 689/1981 quale disciplina generale della responsabilità amministrativa - ma non è la causa che qualifica la relativa controversia.

Sez. 1, n. 29336/2020, Terrusi, Rv. 660188-01, ha affermato che nel caso di controversia afferente alla violazione del diritto alla riservatezza, del trattamento dei dati personali e del diritto all’immagine, atteso che il giudice di primo grado aveva ritenuto unica la causa petendi in relazione all’illecito trattamento dei dati personali a norma dell’art. 4 del d.lgs. n. 150 del 2011, in base al principio secondo cui l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile va fatta in base alla qualificazione giuridica del rapporto controverso da parte del giudice, ancorché errata, deve ritenersi inammissibile l’appello proposto avverso detta sentenza.

  • abitazione
  • potestà genitoriale
  • separazione legale
  • divorzio
  • diritto di affidamento
  • diritto di adozione
  • figlio naturale
  • impresa familiare

CAPITOLO II

LA FAMIGLIA, I MINORI E LA PROTEZIONE DELLE PERSONE NON AUTONOME

(di Paolo Di Marzio, Chiara Giammarco )

Sommario

1 La nullità del matrimonio e le sue conseguenze. - 2 La separazione personale dei coniugi. - 2.1 La separazione personale dei coniugi e le modifiche alle statuizioni consequenziali, profili processuali. - 3 L’addebito della separazione ed il risarcimento del danno per la violazione dei doveri coniugali. - 3.1 L’addebito della separazione e la riconciliazione, profili processuali. - 4 Separazione dei coniugi e divorzio, litispendenza internazionale, profili processuali. - 5 Il riconoscimento degli effetti civili alla sentenza straniera di divorzio. - 6 L’assegno divorzile. - 6.1 Il giudizio di divorzio, l’assegno divorzile e la sua revisione, profili processuali. - 7 La pensione di reversibilità, e la sua ripartizione. - 7.1 La ripartizione della pensione di reversibilità, profili processuali. - 8 Il regime patrimoniale della famiglia: pubblicità delle convenzioni matrimoniali, comunione legale dei beni, fondo patrimoniale e impresa familiare. - 8.1 Il regime patrimoniale della famiglia, profili processuali. - 9 Unioni coniugali, famiglia di fatto, convivenza more uxorio. - 10 Il riconoscimento dello status di figlio. - 10.1 Il riconoscimento dello status di figlio, profili processuali. - 10.2 Il diritto al riconoscimento dello status del figlio nato da parto anonimo. - 11 La responsabilità genitoriale e l’intervento del giudice nei procedimenti separativi. - 12 L’affido condiviso e la regolamentazione dei rapporti con il genitore non convivente. - 12.1 L’affido condiviso e la regolamentazione dei rapporti con il genitore non convivente, profili processuali. - 13 Il mantenimento dei figli. - 13.1 Il mantenimento dei figli, profili processuali. - 14 La casa familiare a seguito dello scioglimento della coppia. - 14.1 La casa familiare a seguito dello scioglimento della coppia, profili processuali. - 15 I procedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale: aspetti processuali. - 16 La sottrazione internazionale di minori. - 17 La genitorialità solidale: gli sviluppi degli istituti adottivi. - 17.1 Lo stato di abbandono. - 17.2 Adozione in casi particolari, profili processuali. - 17.3 Il riconoscimento delle sentenze straniere di adozione. - 18 Le persone prive in tutto o in parte di autonomia: misure di protezione e altre questioni. - 18.1 La protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia, profili processuali. - 19 Questioni in materia di matrimonio concordatario, profili processuali. - 20 Questioni in materia di matrimonio celebrato innanzi al ministro di un culto ammesso nello Stato. - 21 Famiglia e tributi.

1. La nullità del matrimonio e le sue conseguenze.

L’acquisto della cittadinanza italiana iuris communicatione, che si produce per effetto del matrimonio e del provvedimento con il quale l’Amministrazione accerti l’esistenza dei requisiti previsti dalla legge, può venire meno per effetto dell’iniziativa della stessa Amministrazione che, preso atto della sentenza dichiarativa della nullità del matrimonio, provveda a rimuovere l’originario provvedimento, poiché l’effetto retroattivo della decisione passata in giudicato concernente il rapporto coniugale, determina l’inesistenza al momento del provvedimento di annullamento del requisito necessario per il riconoscimento della cittadinanza. (Sez. 1, n. 25441/2020, Pazzi, Rv. 659518-01).

2. La separazione personale dei coniugi.

In tema di procedura di negoziazione assistita tra avvocati, ogni qualvolta l’accordo stabilito tra i coniugi, al fine di giungere ad una soluzione consensuale della separazione personale, ricomprenda anche il trasferimento di uno o più diritti di proprietà su beni* immobili, la disciplina di cui all’art. 6 d.l. n. 132 del 2014, conv. dalla l. n. 162 del 2014, deve necessariamente integrarsi con quella di cui all’art. 5, comma 3, del medesimo d.l. n. 132, con la conseguenza che, per procedere alla trascrizione dell’accordo di separazione contenente anche un atto negoziale comportante un trasferimento immobiliare, è necessaria l’autenticazione del verbale di accordo da parte di un pubblico ufficiale a ciò autorizzato, ai sensi dell’art. 5, comma 3, cit. (Sez. 2, n. 01202/2020, Varrone, Rv. 656842-01).

Ai sensi dell’art. 5, comma 1, della l. n. 91 del 1992, così come modificato dall’art. 1, comma 11, della l. n. 94 del 2009, soltanto la separazione personale dei coniugi, ma non anche quella di fatto, costituisce condizione ostativa all’acquisto della cittadinanza italiana mediante matrimonio con un cittadino italiano, come si evince dal tenore testuale della norma in questione che adopera l’espressione “separazione personale”, utilizzata anche negli artt. 150, 154 e 155 c.c. prima delle modifica intervenuta con il d.lgs. n. 154 del 2013, cogliendosi peraltro la differenza tra “separazione personale” e “separazione di fatto” anche nell’art. 6 della l. n. 184 del 1983 in tema di adozioni. (Sez. 1, n. 04819/2020, Ghinoy, Rv. 657001-01).

Il requisito della convivenza effettiva del cittadino straniero con il coniuge di nazionalità italiana non è richiesto ai fini del rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno per coloro che rientrano nella categoria di cui all’art. 30, comma 1, lett b), del d.lgs n. 286 del 1998, essendo ostativo a tale rilascio o rinnovo solo l’accertamento che il matrimonio fu contratto allo scopo esclusivo di permettere all’interessato di soggiornare nel territorio dello Stato. (Sez. 1, n. 05378/2020, Fidanzia, Rv. 656882-01).

Il diritto alla corresponsione dell’assegno sociale ex art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995, prevede come unico requisito lo stato di bisogno effettivo del titolare, desunto dall’assenza di redditi o dall’insufficienza di quelli percepiti in misura inferiore al limite massimo stabilito dalla legge, restando irrilevanti eventuali altri indici di autosufficienza economica o redditi potenziali, quali quelli derivanti dall’assegno di mantenimento che il titolare abbia omesso di richiedere al coniuge separato, e senza che tale mancata richiesta possa essere equiparata all’assenza di uno stato di bisogno. (Sez. 6-L, n. 14513/2020, Riverso, Rv. 658800-01).

In tema di separazione personale dei coniugi, la condizione di intollerabilità della convivenza deve essere intesa in senso soggettivo, non essendo necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco di una sola delle parti, che sia verificabile in base a fatti obiettivi, come la presentazione stessa del ricorso ed il successivo comportamento processuale, con particolare riferimento alle risultanze negative del tentativo di conciliazione, dovendosi ritenere venuto meno, al ricorrere di tali evenienze, quel principio del consenso che caratterizza ogni vicenda del rapporto coniugale. (Sez. 1, n. 16698/2020, Solaini, Rv. 658564-01).

Il regolamento concordato fra i coniugi mediante un atto di “puntuazione” avente ad oggetto la definizione dei loro rapporti patrimoniali in vista di una separazione consensuale, acquista efficacia giuridica solo in seguito al provvedimento di omologazione della separazione, mentre qualora i coniugi addivengano ad una separazione giudiziale, le pattuizioni convenute antecedentemente sono prive di efficacia giuridica. (Sez. 1, n. 28649/2020, L. Tricomi, Rv. 660048-01).

2.1. La separazione personale dei coniugi e le modifiche alle statuizioni consequenziali, profili processuali.

In tema di separazione personale dei coniugi, l’art. 156, comma 6, c.c., nell’attribuire al giudice, in caso d’inadempimento all’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento, il potere di ordinare ai terzi tenuti a corrispondere somme di denaro al coniuge obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto, postula un apprezzamento in ordine all’idoneità del comportamento dell’obbligato a suscitare dubbi circa l’esattezza e la regolarità del futuro adempimento, affidato in via esclusiva al giudice di merito e, dunque, non sindacabile in sede di legittimità. (Sez. 1, n. 05604/2020, Valitutti, Rv. 657044-01).

Nel corso del giudizio di separazione personale dei coniugi, la corte d’appello adita in sede di reclamo avverso l’ordinanza emessa dal presidente del tribunale ai sensi dell’art. 708, comma 3, c.p.c., non deve statuire sulle spese del procedimento, poiché, trattandosi di provvedimento cautelare adottato in pendenza della lite, spetta al tribunale provvedere sulle spese, anche per la fase di reclamo, con la sentenza che conclude il giudizio. (Sez. 1, n. 08432/2020, Mercolino, Rv. 657610-01).

Con l’opposizione ex art. 615 c.p.c. il debitore esecutato può opporre in compensazione al creditore procedente un controcredito certo (cioè, definitivamente verificato giudizialmente o incontestato) oppure un credito illiquido di importo certamente superiore (la cui entità possa essere accertata, senza dilazioni nella procedura esecutiva, nel merito del giudizio di opposizione) anche nell’ipotesi di espropriazione forzata promossa per il credito inerente al mantenimento del coniuge separato, non trovando applicazione, in difetto di un “credito alimentare”, l’art. 447, comma 2, c.c. (Sez. 3, n. 09686/2020, Porreca, Rv. 657716-01).

Nei giudizi aventi ad oggetto le modifiche alle statuizioni consequenziali alla separazione personale ed al divorzio, in applicazione del principio rebus sic stantibus, possono essere proposte domande in corso di causa ove siano giustificate da sopravvenienze fattuali ma nel rispetto del principio del contraddittorio, sicché risulta inammissibile la richiesta di un contributo per il mantenimento del figlio introdotta soltanto nelle note conclusive del giudizio di appello, senza alcuna possibilità di interlocuzione per la controparte. (La S.C. ha espresso il principio in relazione alla domanda, tardivamente proposta dal marito, di gravare la moglie di un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne ma non autosufficiente, il quale era andato a convivere con il padre nel corso del giudizio). (Sez. 1, n. 19020/2020, Acierno, Rv. 658881-01).

È ammissibile l’azione revocatoria ordinaria del trasferimento di immobile, effettuato da un genitore in favore della prole in ottemperanza ai patti assunti in sede di separazione consensuale omologata, poiché esso trae origine dalla libera determinazione del coniuge e diviene “dovuto” solo in conseguenza dell’impegno assunto in costanza dell’esposizione debitoria nei confronti di un terzo creditore, sicché l’accordo separativo costituisce esso stesso parte dell’operazione revocabile e non fonte di obbligo idoneo a giustificare l’applicazione dell’art. 2901, comma 3, c.c. (Sez. 6-3, n. 21358/2020, Cricenti, Rv. 659157-01).

3. L’addebito della separazione ed il risarcimento del danno per la violazione dei doveri coniugali.

Il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uno dei coniugi, costituendo violazione del dovere di convivenza, è di per sé sufficiente a giustificare l’addebito della separazione personale, a meno che non risulti provato che esso è stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile ed in conseguenza di tale fatto (Sez. 1, n. 00648/2020, Mercolino, Rv. 656981-01).

L’addebito della separazione personale dei coniugi, di per sé considerato, non è fonte di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., determinando, nel concorso delle altre circostanze previste dalla legge, solo il diritto del coniuge incolpevole al mantenimento, con la conseguenza che la risarcibilità di danni ulteriori è configurabile solo se i fatti che hanno dato luogo all’addebito integrano gli estremi dell’illecito ipotizzato dalla clausola generale di responsabilità espressa dalla norma indicata. (Sez. 1, n. 16740/2020, Caradonna, Rv. 658804-01).

3.1. L’addebito della separazione e la riconciliazione, profili processuali.

Deve escludersi che il procedimento di modifica delle condizioni di separazione dei coniugi, il cui thema decidendum è rappresentato dall’esistenza di rilevanti mutamenti di fatto delle condizioni poste a base della decisione, comporti anche un accertamento con efficacia di giudicato sull’assenza dell’avvenuta riconciliazione dei coniugi, ove la questione non sia stata posta da alcuna delle parti processuali. (Sez. 1, n. 11636/2020, De Marzo, Rv. 657949-01).

In tema di separazione, grava sulla parte che richieda l’addebito l’onere di provare sia la contrarietà del comportamento del coniuge ai doveri che derivano dal matrimonio, sia l’efficacia causale di questi comportamenti nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza. (Sez. 1, n. 16691/2020, Caradonna, Rv. 658891-01).

4. Separazione dei coniugi e divorzio, litispendenza internazionale, profili processuali.

Nell’ipotesi di contemporanea pendenza, dinanzi a giudici di diversi Paesi dell’Unione europea, di due giudizi di divorzio o separazione personale dei coniugi, il giudice italiano che sia stato successivamente adito è tenuto, ai sensi dell’art. 19 del reg. CE n. 2201 del 2003, a sospendere il procedimento fino all’accertamento della competenza dell’autorità giurisdizionale preventivamente adita, di modo che, nel processo dinanzi a lui pendente, è inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione. (Sez. U, n. 19665/2020, Acierno, Rv. 658927-01).

5. Il riconoscimento degli effetti civili alla sentenza straniera di divorzio.

La decisione di ripudio emanata all’estero da un’autorità religiosa (nella specie il tribunale sciaraitico palestinese), seppure equiparabile, secondo la legge straniera, ad una sentenza del giudice statale, non può essere riconosciuta all’interno dell’ordinamento italiano, sotto il duplice profilo dell’ordine pubblico sostanziale (violazione del principio di non discriminazione tra uomo e donna) e dell’ordine pubblico processuale (mancanza della parità difensiva e di un effettivo contraddittorio, oltre che di ogni accertamento sulla definitiva cessazione della comunione di vita tra i coniugi). (Sez. 1, n. 16804/2020, Iofrida, Rv. 658805-01).

Per decidere sulla richiesta di cancellazione della trascrizione dai registri dello stato civile italiano della sentenza straniera che abbia pronunciato il divorzio dei coniugi, a causa della contrarietà della stessa con l’ordine pubblico italiano, il giudice nazionale deve esaminare, ai sensi dell’art. 64, lett. g), della l. n. 218 del 1995, se la decisione straniera produca “effetti” contrari al detto ordine pubblico, accertando se nel corso del procedimento straniero siano stati violati i diritti essenziali della difesa, sicché resta esclusa la possibilità di sottoporre il provvedimento straniero ad un sindacato di merito, valutando la correttezza della soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero o di quello italiano. (Sez. 1, n. 17170/2020, Marulli, Rv. 658878-01).

6. L’assegno divorzile.

L’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge ha natura assistenziale, ma anche perequativo-compensativa, discendente direttamente dal principio costituzionale di solidarietà, che conduce al riconoscimento di un contributo volto non a conseguire l’autosufficienza economica del richiedente sulla base di un parametro astratto, bensì un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella vita familiare in concreto, tenendo conto in particolare delle aspettative professionali sacrificate, fermo restando che la funzione equilibratrice non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi. (In applicazione di questi principi la S.C. ha cassato con rinvio la decisione della corte di merito, in quanto, a fronte dell’adeguata valutazione dei redditi da lavoro dell’ex marito, non era stata operata alcuna quantificazione di quelli della ex moglie, essendo mancata anche la valutazione in ordine al contributo fornito, dal coniuge economicamente più debole, alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale dell’altro coniuge). (Sez. 1, n. 05603/2020, Valitutti, Rv. 657088-01).

La determinazione dell’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge in misura superiore a quella prevista in sede di separazione personale, in assenza di un mutamento nelle condizioni patrimoniali delle parti, non è conforme alla natura giuridica dell’obbligo, presupponendo, l’assegno di separazione, la permanenza del vincolo coniugale e, conseguentemente, la correlazione dell’adeguatezza dei redditi con il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; al contrario tale parametro non rileva in sede di fissazione dell’assegno divorzile, che deve invece essere quantificato in considerazione della sua natura assistenziale, compensativa e perequativa, secondo i criteri indicati all’art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, essendo volto non alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge beneficiario alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi. (Sez. 1, n. 05605/2020, Scalia, Rv. 657036-01).

In sede di divorzio, ai fini della determinazione dell’assegno in favore dell’ex coniuge occorre tenere conto dell’intera consistenza patrimoniale di ciascuno dei coniugi e, conseguentemente, ricomprendere qualsiasi utilità suscettibile di valutazione economica, compreso l’uso di una casa di abitazione, valutabile in misura pari al risparmio di spesa che occorrerebbe sostenere per godere dell’immobile a titolo di locazione. (Sez. 1, n. 15773/2020, Valitutti, Rv. 658674-01).

Ai fini della determinazione dell’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge, deve essere esclusa la rilevanza dell’entità dei patrimoni delle famiglie di appartenenza ovvero del loro apporto economico ai coniugi, in quanto trattasi di ulteriore criterio non previsto dall’art. 5 della legge n. 898 del 1970. (Sez. 1, n. 15774/2020, Parise, Rv. 658470-01).

6.1. Il giudizio di divorzio, l’assegno divorzile e la sua revisione, profili processuali.

In tema di revisione dell’assegno divorzile, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970, il mutamento sopravvenuto delle condizioni patrimoniali delle parti attiene agli elementi di fatto e rappresenta il presupposto necessario che deve essere accertato dal giudice perché possa procedersi al giudizio di revisione dell’assegno, da rendersi, poi, in applicazione dei principi giurisprudenziali attuali. Ne consegue che consentire l’accesso al rimedio della revisione attribuendo alla formula dei “giustificati motivi” un significato che includa la sopravvenienza di tutti quei motivi che possano far sorgere un interesse ad agire per conseguire la modifica dell’assegno, ricomprendendo tra essi anche una diversa interpretazione delle norme applicabili avallata dal diritto vivente giurisprudenziale, è opzione esegetica non percorribile poiché non considera che la funzione della giurisprudenza è ricognitiva dell’esistenza e del contenuto della regula iuris, non già creativa della stessa (fattispecie relativa a una domanda di revisione dell’assegno divorzile determinato prima di Cass., Sez. 1, n. 11504/2017 e Sez. U, n. 18287/2018). (Sez. 1, n. 01119/2020, Sambito, Rv. 656875-01).

L’assegno di divorzio traendo la sua fonte nel nuovo status delle parti, ha efficacia costitutiva decorrente dal passaggio in giudicato della statuizione di risoluzione del vincolo coniugale. A tale principio ha introdotto un temperamento l’art. 4, c. 13, della l. n. 898 del 1970, così come sostituito dall’art. 8 della l. n. 74 del 1987, conferendo al giudice il potere di disporre, tenuto conto delle circostanze del caso concreto e fornendo una adeguata motivazione, anche in assenza di una specifica richiesta delle parti, la decorrenza dell’assegno dalla data della domanda di divorzio. (Sez. 1, n. 19330/2020, Scalia, Rv. 658974-01).

Nel giudizio divorzile in appello, che si svolge, ai sensi dell’art. 4, comma 15, della l. n. 898 del 1970, secondo il rito camerale, di per sé caratterizzato dalla sommarietà della cognizione e dalla semplicità delle forme, va esclusa la piena applicabilità delle norme che regolano il processo ordinario ed è quindi ammissibile l’acquisizione di nuovi mezzi di prova, in specie documenti, a condizione che sia assicurato un pieno e completo contraddittorio tra le parti. (Sez. 1, n. 27234/2020, Iofrida, Rv. 659747-01).

Quando, nelle more del giudizio di legittimità avente ad oggetto l’affidamento di figlio minore ad uno degli ex coniugi a seguito di cessazione degli effetti civili del matrimonio, sopravvenga la maggiore età del figlio, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente all’impugnazione. (Sez. 1, n. 27235/2020, Iofrida, Rv. 659748-01).

7. La pensione di reversibilità, e la sua ripartizione.

La ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, deve essere effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata dei matrimoni, ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto, tra i quali la durata delle convivenze prematrimoniali, dovendosi riconoscere alla convivenza more uxorio non una semplice valenza “correttiva” dei risultati derivanti dall’applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale, tenendo tuttavia distinta la durata della convivenza prematrimoniale da quella del matrimonio - cui soltanto si riferisce il criterio legale -, e senza individuare nell’entità dell’assegno divorzile un limite legale alla quota di pensione attribuibile all’ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa in tal senso. (Sez. 6-1, n. 05268/2020, Tricomi, Rv. 657240-01).

La ripartizione del trattamento di reversibilità, in caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite, deve essere effettuata ponderando, con prudente apprezzamento, in armonia con la finalità solidaristica dell’istituto, il criterio principale della durata dei rispettivi matrimoni, con quelli correttivi, eventualmente presenti, della durata della convivenza prematrimoniale, delle condizioni economiche, dell’entità dell’assegno divorzile (in applicazione del sopraindicato principio, la S.C. ha precisato che va valutato anche il periodo di convivenza prematrimoniale coevo al periodo di separazione che precede il divorzio, ancorché in detto lasso temporale permanga il vincolo matrimoniale). (Sez. L, n. 08263/2020, Calafiore, Rv. 657611-01).

In tema di ripartizione delle quote della pensione di reversibilità tra l’ex coniuge divorziato e quello già convivente e superstite, la considerazione tra gli altri indicatori, della durata delle rispettive convivenze prematrimoniali non comporta che vi debba essere una un’equiparazione tra la convivenza vissuta nel corso di uno stabile legame affettivo e quella condotta nel corso del matrimonio, sicché la questione di costituzionalità dell’art. 9 l. n. 898 del 1970 che non le pone su un piano equiordinato ai fini dell’attribuzione della pensione di reversibilità, risulta manifestamente infondata. (Sez. 1, n. 11520/2020, De Marzo, Rv. 657947-01).

Il diritto del coniuge divorziato alla pensione di reversibilità ex art. 9 della l. n. 898 del 1970 presuppone (anche ai sensi della norma interpretativa di cui all’art. 5 della l. n. 263 del 2005) non solo che il richiedente al momento della morte dell’ex coniuge sia titolare di assegno di divorzio giudizialmente riconosciuto, ma anche che detto assegno non sia fissato in misura simbolica, ponendosi la diversa interpretazione in contrasto con la ratio dell’attribuzione del trattamento di reversibilità al coniuge divorziato, da rinvenirsi nella continuazione del sostegno economico prestato in vita all’ex coniuge e non già nell’irragionevole esito di assicurare al coniuge divorziato una condizione migliore rispetto a quella già in godimento. (Sez. L, n. 20477/2020, Cavallaro, Rv. 658914-01).

7.1. La ripartizione della pensione di reversibilità, profili processuali.

La controversia tra l’ex coniuge e il coniuge superstite per l’accertamento della ripartizione - ai sensi dell’art. 9, comma 3, della l. n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 13 della l. n. 74 del 1987 - del trattamento di reversibilità, deve necessariamente svolgersi in contraddittorio con l’ente erogatore atteso che, essendo il coniuge divorziato, al pari di quello superstite, titolare di un autonomo diritto di natura previdenziale, l’accertamento concerne i presupposti affinché l’ente assuma un’obbligazione autonoma, anche se nell’ambito di una erogazione già dovuta, nei confronti di un ulteriore soggetto. (Sez. L, n. 09493/2020, D’Antonio, Rv. 657674-01).

8. Il regime patrimoniale della famiglia: pubblicità delle convenzioni matrimoniali, comunione legale dei beni, fondo patrimoniale e impresa familiare.

Pronunciando in materia di beni rientranti nella comunione legale dei beni dei coniugi, il giudice di legittimità ha chiarito, a proposito dei testimoni di giustizia, che le “misure di assistenza” di cui all’art. 16 ter, comma 1, lett. b), d.l. n. 8 del 1991, conv. con modif. dalla l. n. 82 del 1991, e la “capitalizzazione” prevista in alternativa al costo dell’assistenza ai sensi del comma 1, lett. c), del medesimo articolo, hanno natura indennitaria e non risarcitoria, poiché sono erogate discrezionalmente dall’autorità competente e non presuppongono la commissione di un illecito, ma solo la sottoposizione dell’interessato ad un programma di protezione; ne consegue che il relativo credito non è sottratto alla cd. comunione de residuo in base al disposto dell’art. 179, comma 1, lett. e), c.c. (Sez. 3, n. 03313/2020, Guizzi, Rv. 657145-01).

L’impresa familiare ha carattere residuale, come emerge anche dalla clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 230 bis c.c., sicché mira a disciplinare situazioni di apporto lavorativo all’impresa del congiunto che, pur connotate dalla continuità, non siano riconducibili all’archetipo della subordinazione e a confinare in un’area limitata il lavoro gratuito. (Nella specie, la S.C. ha escluso di poter ritenere la partecipazione all’impresa familiare del congiunto che aveva offerto contributi finanziari ed occasionali consulenze professionali, ma non aveva prestato attività lavorativa continuativa per l’impresa). (Sez. L, n. 11533/2020, Garri, Rv. 657972-01).

Il diritto alla rendita per infortunio sul lavoro in favore dei familiari superstiti, ex art. 85 del d.P.R. n. 1124 del 1965, presuppone, ai sensi del successivo art. 106, la cosiddetta “vivenza a carico”, la quale sussiste ove i predetti si trovino senza sufficienti mezzi di sussistenza autonoma ed al loro mantenimento abbia concorso in modo efficiente il lavoratore defunto, dovendosi a tal fine considerare anche il reddito del coniuge dell’ascendente che domanda la prestazione previdenziale, giacché, anche ove non sia operante il regime di comunione legale, comunque sussiste l’obbligo di assistenza materiale tra coniugi posto dall’art. 143 c.c., e quello di assistenza per i figli di cui al successivo art. 147 c.c., senza che possa procedersi ad una valutazione distinta della posizione di ciascuno dei superstiti, indipendentemente dalla sussistenza di contributi o aiuti familiari. (Sez. L, n. 18658/2020, Cavallaro, Rv. 658597-01).

I coniugi in regime di comunione legale, al fine di effettuare l’acquisto anche di un solo bene in regime di separazione, sono tenuti a stipulare previamente una convenzione matrimoniale derogatoria del loro regime ordinario, ai sensi dell’art. 162 c.c., sottoponendola alla specifica pubblicità per essa prevista, non essendo, per converso, sufficiente una esplicita indicazione contenuta nell’atto di acquisto, posto che questo non viene sottoposto alla pubblicità delle convenzioni matrimoniali, unico strumento che conferisce certezza in ordine al tipo di regime patrimoniale cui sono sottoposti gli atti stipulati dai coniugi. (Sez. 1, n. 17175/2020, Valitutti, Rv. 658806-04). Nella stessa pronuncia la Cassazione ha avuto modo di chiarire che la procura ad nubendum costituisce uno strumento sostitutivo della simultanea presenza degli sposi avanti all’Ufficiale dello stato civile e di manifestazione del consenso alle nozze, che interviene tramite la volontà manifestata dal procuratore, sicché il mandato conferitogli in favore del regime patrimoniale della separazione dei beni, non è sufficiente all’instaurazione del detto regime, che richiede l’accordo di entrambi i nubendi (in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la decisione della corte di merito la quale aveva accertato che nessun accordo delle parti si era espressamente perfezionato nell’atto di celebrazione del matrimonio, tale da consentire di ritenere che le stesse avessero inteso derogare al regime legale di comunione dei beni). (Sez. 1, n. 17175/2020, Valitutti, Rv. 658806-03).

8.1. Il regime patrimoniale della famiglia, profili processuali.

Tra coniugi in regime di comunione legale può essere costituita una società di persone, con un patrimonio costituito dai beni conferiti dagli stessi, essendo anche le società personali dotate di soggettività giuridica, sicché, in caso di recesso di un socio, sorgendo a carico della società l’obbligo della liquidazione della sua quota, la domanda del coniuge receduto di accertamento della comproprietà dei beni sociali può essere interpretata dal giudice come tesa alla liquidazione della sua quota sociale (nella specie, la S.C. ha ritenuto che potesse riqualificarsi come istanza di liquidazione della quota sociale, la domanda della moglie nei confronti del marito tesa all’accertamento della comproprietà dei beni appartenenti ad una società in nome collettivo, di cui i coniugi in regime di comunione dei beni erano unici soci). (Sez. 1, n. 08222/2020, Nazzicone, Rv. 657609-01).

L’azione revocatoria ordinaria presuppone, per la sua esperibilità, la semplice esistenza di un debito, e non anche la sua concreta esigibilità, con la conseguenza che, concessa fideiussione in relazione alle future obbligazioni del debitore principale connesse all’apertura di credito regolata in conto corrente, gli atti dispositivi del fideiussore successivi alla detta apertura di credito ed alla prestazione della fideiussione, se compiuti in pregiudizio delle ragioni del creditore, sono soggetti all’azione revocatoria, ai sensi dell’art. 2901, n. 1, prima parte, c.c., in base al mero requisito soggettivo della consapevolezza del fideiussore (e, in caso di atto a titolo oneroso, del terzo) di arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore (scientia damni) ed al solo fattore oggettivo dell’avvenuto accreditamento, giacché l’insorgenza del credito deve essere apprezzata con riferimento al momento dell’accreditamento e non a quello, eventualmente successivo, dell’effettivo prelievo da parte del debitore principale della somma messa a sua disposizione (la S.C., richiamato il principio di cui in massima, ha ritenuto di farne applicazione in fattispecie nella quale il soggetto tenuto alla responsabilità patrimoniale per conto di un’associazione non riconosciuta aveva costituito alcuni immobili di sua proprietà in fondo patrimoniale). (Sez. 6-3, n. 10522/2020, Positano, Rv. 658031-01).

Qualora il soggetto che esercita l’azione revocatoria ordinaria vanti un credito garantito da ipoteca anteriormente iscritta proprio sul bene che è oggetto dell’atto dispositivo revocando (nella specie, costituzione di fondo patrimoniale), la declaratoria di inefficacia si palesa come mezzo eccedente lo scopo in quanto la titolarità del diritto di ipoteca esclude quel pericolo di infruttuosità dell’esecuzione nel quale si identifica l’eventus damni. (Sez. 3, n. 12121/2020, Guizzi, Rv. 658172-01).

Qualora un bene immobile, oggetto della divisione, appartenga a coniugi in regime di comunione in comproprietà con terzi, la comunione legale dei coniugi persiste, pur se ne muta l’oggetto: non più la quota indivisa, ma i beni assegnati in proprietà ai coniugi per effetto della stessa divisione; ne consegue che, se la divisione è inserita nel processo di espropriazione per un debito di uno solo dei coniugi comproprietari, l’espropriazione comporterà il venire meno della comunione legale sui beni attribuiti nella divisione ai coniugi unitariamente, ma tale risultato si realizzerà solo in sede esecutiva come se, fin dall’origine, fosse stato sottoposto a pignoramento un bene appartenente a loro, per intero, in regime di comunione. (Sez. 6-2, n. 15692/2020, Tedesco, Rv. 658782-01).

9. Unioni coniugali, famiglia di fatto, convivenza more uxorio.

In materia di soggiorno per motivi di coesione familiare, ai fini del rilascio della carta di soggiorno ad un genitore, non appartenente all’Unione Europea, di minore, cittadino dell’U.E., e convivente con cittadina dell’U.E. residente in Italia, pur costituendo un presupposto la convivenza tra i predetti, la loro relazione stabile di fatto - “debitamente attestata” con “documentazione ufficiale”, ai sensi dell’art. 3, comma 2, lett. b) del d.lgs. n. 30 del 2007, nel testo introdotto dalla legge europea n. 97 del 2013 - può essere comprovata anche con l’atto di nascita del minore o con altra documentazione idonea, diversa da quella prevista dalla legge n. 76 del 2016 in materia di unioni civili (nella specie inoperante, attesa l’epoca di presentazione dell’istanza). (Sez. 1, n. 03876/2020, Iofrida, Rv. 657060-01).

Nell’ambito del rapporto di convivenza more uxorio, il termine di prescrizione dell’azione di ingiustificato arricchimento decorre non dai singoli esborsi, bensì dalla cessazione della convivenza. (Sez. 3, n. 11303/2020, Valle, Rv. 658159-02).

10. Il riconoscimento dello status di figlio.

In tema di minori, è legittimo, in ipotesi di secondo riconoscimento da parte del padre, l’attribuzione del patronimico in aggiunta al cognome della madre, purché non gli arrechi pregiudizio in ragione della cattiva reputazione del padre e purché non sia lesivo della sua identità personale, ove questa si sia definitivamente consolidata con l’uso del solo matronimico nella trama dei rapporti personali e sociali. (Sez. 6-1, n. 00772/2020, Tricomi, Rv. 656804-01).

La Cassazione ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c., nella parte in cui, nel disciplinare la dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità, prevede termini differenziati quando l’azione sia proposta dal figlio, oppure dai discendenti dopo la sua morte, perché la diversità di disciplina trova giustificazione nell’evidente disomogeneità delle situazioni considerate, giacché l’imprescrittibilità dell’azione riguardo al figlio tutela l’interesse del medesimo al riconoscimento della propria filiazione, interesse che resta integro anche nell’ipotesi di decesso del presunto genitore, mentre il termine decadenziale biennale previsto per l’azione promossa dagli eredi del presunto figlio, dopo la sua morte, è giustificato dal fatto che essi sono portatori di un interesse non diretto, ma solo riflesso, al riconoscimento della filiazione del loro ascendente; inoltre, a differenza di quanto accade per i discendenti, il diritto al riconoscimento di uno status filiale corrispondente alla verità biologica costituisce per il figlio una componente essenziale del diritto all’identità personale, riconducibile all’art. 2 Cost. ed all’art. 8 CEDU, che accompagna la vita individuale e relazionale, e l’incertezza su tale status può determinare una condizione di disagio ed un vulnus allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità. (Sez. 6-1, n. 01667/2020, Mercolino, Rv. 656982-01).

10.1. Il riconoscimento dello status di figlio, profili processuali.

Nel procedimento disciplinato dall’art. 250 c.c., come novellato dall’art. 1 della l. n. 219 del 2012, teso al riconoscimento del figlio che non abbia compiuto i quattordici anni, quest’ultimo non assume la qualità di parte, per cui la nomina di un curatore speciale è necessaria solo ove il giudice lo ritenga opportuno in considerazione del profilarsi, in concreto, di una situazione di conflitto di interessi. (Sez. 1, n. 00275/2020, Scalia, Rv. 656519-01).

In tema di impugnazione del riconoscimento di paternità ex art. 263 c.c., la mancata contestazione della madre naturale in ordine alla non paternità dell’autore del riconoscimento non ha la valenza probatoria prevista dall’art. 115 c.p.c., poiché, vertendosi in ambito di diritti indisponibili, sugli stessi non è ammesso alcun tipo di negoziazione o rinunzia. (Sez. 1, n. 04791/2020, Iofrida, Rv. 656999-01).

Nel caso di minore concepito mediante l’impiego di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo e nato all’estero, non è accoglibile la domanda di rettificazione dell’atto di nascita volta ad ottenere l’indicazione in qualità di madre del bambino, accanto a quella che l’ha partorito, anche della donna a costei legata in unione civile, poiché in contrasto con l’art. 4, comma 3, della l. n. 40 del 2004, che esclude il ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentite, al di fuori dei casi previsti dalla legge, forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico mediante i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto. (Sez. 1, n. 08029/2020, Mercolino, Rv. 657628-01).

In giudizio in cui la Cassazione ha confermato la decisione adottata dalla Corte di appello, che aveva rigettato la domanda risarcitoria proposta dal padre di figlio nato fuori dal matrimonio, il quale lamentava alla madre del bambino di non averlo portato al corrente della sua paternità, valorizzando il giudice di merito, in particolare, il fatto che egli avesse sempre negato il riconoscimento e la circostanza che non avesse allegato e provato né le modalità di svolgimento della sua relazione con la madre del figlio né le condotte, da lui successivamente tenute, idonee a dimostrare la sua intenzione di realizzare l’aspirazione alla genitorialità, la S.C. ha avuto comunque occasione di affermare che l’omessa comunicazione all’altro genitore, da parte della madre, consapevole della paternità, dell’avvenuto concepimento si traduce, ove non giustificata da un oggettivo apprezzabile interesse del nascituro e nonostante che tale comunicazione non sia imposta da alcuna norma, in una condotta non jure che, se posta in essere con dolo o colpa, può integrare gli estremi di una responsabilità civile, ai sensi dell’art. 2043 c.c., poiché suscettibile di arrecare un pregiudizio, qualificabile come danno ingiusto, al diritto del padre naturale di affermare la propria identità genitoriale, ossia di ristabilire la verità inerente il rapporto di filiazione. (Sez. 3, n. 08459/2020, Olivieri, Rv. 657825-03).

Quando sia richiesto al tribunale ordinario di pronunciare sentenza che tenga luogo del consenso dell’altro genitore al riconoscimento di un figlio nato fuori del matrimonio, in pendenza di procedura di adottabilità, nel corso del quale sia stata erroneamente dichiarata inammissibile l’istanza di sospensione dalla responsabilità del genitore che ha richiesto il riconoscimento dello status, il medesimo provvedimento non può essere adottato dal tribunale ordinario, in attesa che divengano definitive le statuizioni del Tribunale per i minorenni, tenuto conto che non ricorre l’ipotesi di sospensione ex lege prevista dall’art. 22 l. n. 184 del 1983 relativa alla dichiarazione giudiziale di maternità e paternità. (Sez. 6-1, n. 11208/2020, Scalia, Rv. 657934-01).

L’azione di disconoscimento della paternità del marito deve essere intrapresa nei termini indicati dall’art. 244, comma 2, c.c., gravando pertanto, sull’attore, l’onere di dimostrare di avere agito entro l’anno dalla data in cui ha scoperto una condotta della donna idonea al concepimento con un altro uomo e, sui convenuti, l’onere di dimostrare l’eventuale anteriorità della scoperta. Entrambe le prove soggiacciono alla regola secondo la quale ciò che rileva è l’acquisizione “certa” della conoscenza di un fatto (una vera e propria relazione o un incontro sessuale) idoneo a determinare il concepimento, non essendo perciò sufficiente un’infatuazione o una relazione sentimentale e neppure una mera frequentazione della moglie con un altro uomo (nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che al fine di escludere la tempestività dell’azione, aveva ritenuto sufficiente la conoscenza da parte del marito delle frequentazioni della moglie). (Sez. 1, n. 19324/2020, Pazzi, Rv. 658820-01).

Il giudizio sull’ammissibilità dell’azione di dichiarazione della paternità naturale - prima della sua dichiarazione di incostituzionalità per effetto di Corte cost. n. 50 del 2006 - e quello successivo di merito, pur essendo tra loro collegati risultano del tutto autonomi, sicché definito il procedimento di ammissibilità a seguito dell’irrevocabilità acquisita dal relativo provvedimento, l’azione introduttiva del giudizio di cognizione piena non è soggetta ad un termine perentorio per la riassunzione, ma soltanto alle condizioni ed ai termini posti dal codice civile. (Sez. 1, n. 28330/2020, L. Tricomi, Rv. 660015-01).

10.2. Il diritto al riconoscimento dello status del figlio nato da parto anonimo.

In tema di diritto della donna a non essere nominata al momento del parto, nel periodo successivo alla sua morte, può essere promossa dal figlio biologico l’azione volta all’accertamento dello status, attraverso una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 269 c.p.c., risultando recessiva la tutela degli eredi in particolare ove essa abbia dimostrato nei fatti di aver superato l’originaria scelta dell’anonimato, trattando il figlio come uno dei suoi. (Sez. 1, n. 19824/2020, Fidanzia, Rv. 658976-01).

11. La responsabilità genitoriale e l’intervento del giudice nei procedimenti separativi.

Il tema della responsabilità genitoriale, come ridisegnato dal legislatore nel biennio 2012-2013, ha dato luogo anche nell’anno in rassegna a numerose e importanti pronunce, nelle quali si è continuata a ribadire la centralità della posizione del minore.

12. L’affido condiviso e la regolamentazione dei rapporti con il genitore non convivente.

Con riferimento all’affido condiviso, va anzitutto menzionata Sez. 1, n. 19323/2020, Pazzi, Rv. 658973-01: la S.C. ha ribadito il principio secondo cui tale tipo di affido deve essere orientato alla tutela dell’interesse morale e materiale della prole, di talché se esso deve tendenzialmente comportare, in mancanza di gravi ragioni ostative, una frequentazione dei genitori paritaria con il figlio, tuttavia, nell’interesse di quest’ultimo, il giudice può individuare un assetto che si discosti da questo principio tendenziale, al fine di assicurare al minore la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena.

Tale principio trova una sua specificazione in Sez. 1 n. 03652/2020, Bisogni, Rv. 657047-01, che afferma che la regolamentazione dei rapporti con il genitore non convivente non può avvenire sulla base di una simmetrica e paritaria ripartizione dei tempi di permanenza con entrambi i genitori, ma deve essere il risultato di una valutazione ponderata del giudice del merito che, partendo dall’esigenza di garantire al minore la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena, tenga anche conto del suo diritto a una significativa e piena relazione con entrambi i genitori e del diritto di questi ultimi a una piena realizzazione della loro relazione con i figli e all’esplicazione del loro ruolo educativo.

In tema di rapporti con la prole, il diritto-dovere di visita del figlio minore spettante al genitore non collocatario, non è suscettibile di coercizione neppure nelle forme indirette previste dall’art. 614 bis c.p.c., trattandosi di un “potere-funzione” che, non essendo sussumibile negli obblighi la cui violazione integra una grave inadempienza ex art. 709 ter c.p.c., è destinato a rimanere libero nel suo esercizio, quale esito di autonome scelte che rispondono anche all’interesse superiore del minore ad una crescita sana ed equilibrata. Nella specie la S.C. ha cassato il provvedimento del giudice di merito, che aveva condannato il genitore non collocatario al pagamento di una somma in favore dell’altro genitore, per ogni inadempimento all’obbligo di visitare il figlio minore. (Sez. 1, n. 06471/2020, Scalia, Rv. 657421-01).

12.1. L’affido condiviso e la regolamentazione dei rapporti con il genitore non convivente, profili processuali.

Sul piano processuale, da menzionare è anzitutto Sez. 1, n. 16410/2020, Terrusi, Rv. 658563-01, relativa alla posizione del minore nei procedimenti giudiziari che lo riguardano ed al tema dell’audizione: la sentenza afferma che la persona minore di età, pur non potendo essere considerata parte formale del giudizio, perché la legittimazione processuale non gli è attribuita da alcuna disposizione di legge, è tuttavia parte sostanziale, in quanto portatrice di interessi comunque diversi, quando non contrapposti, rispetto ai genitori. La tutela del minore, in questi giudizi, si realizza attraverso la previsione della sua audizione, e costituisce pertanto violazione del principio del contraddittorio e dei diritti del minore il suo mancato ascolto, quando non sia sorretto da un’espressa motivazione sull’assenza di discernimento, tale da giustificarne l’omissione. Il principio è stato affermato dalla S.C. in un giudizio nel quale i nonni del minore, che domandavano di essere ammessi ad incontrarlo, avevano contestato la nullità della sentenza a causa della mancata nomina di un difensore del minore, critica respinta, e della sua mancata audizione, censura che è stata invece accolta, con rinvio al giudice dell’appello. Tale pronuncia fa seguito a Sez. 1, n.12018/2019, Tricomi, Rv. 653695-02, che aveva già affermato che l’audizione dei minori, prevista nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardano ed, in particolare, in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la l. n. 77 del 2003, nonché dell’art. 315 bis c.c. (introdotto dalla l. n. 219 del 2012) e degli artt. 336 bis e 337 octies c.c. (inseriti dal d.lgs. n. 154 del 2013, che ha altresì abrogato l’art. 155 sexies c.c.). Numerose sono le pronunce che negli ultimi anni hanno approfondito le caratteristiche di tale istituto, i limiti di operatività e le conseguenze della mancata applicazione. In questa sede è sufficiente richiamare Sez. 1, n. 06129/2015, Acierno, Rv. 634881-01, in tutto conforme alla pronuncia appena indicata, e, tra le ultime, Sez. 1, n. 12957/2018, Bisogni, Rv. 649153-01.

Riguarda, invece, il tema della interpretazione e delle conseguenze derivanti dal nuovo testo dell’art. 38 delle disp. di att. del c.c., quanto alla ripartizione di competenze tra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni per i provvedimenti ex art. 333, c.c., in caso di pendenza di giudizio di separazione o di divorzio, Sez. 6-1, n. 02073/2020, Bisogni, Rv. 656821-01, che afferma la possibilità, in pendenza di un giudizio di separazione, di proporre regolamento di competenza d’ufficio, anche in presenza di un conflitto solo virtuale, al fine di stabilire se competente all’adozione dei provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale sia il tribunale ordinario o il tribunale per i minorenni, in applicazione analogica dell’art. 45 c.p.c., trattandosi di materia nella quale il giudice dispone di poteri officiosi d’iniziativa, ai fini tanto dell’instaurazione e della prosecuzione del procedimento quanto della pronuncia di merito.

È relativa, invece, al tema della competenza per territorio, in relazione ai procedimenti di modifica delle condizioni di divorzio o di separazione che abbiano ad oggetto l’affidamento ed il mantenimento dei minori, Sez. 6-1, n. 15421/2020, Acierno, Rv. 658370-01, che afferma che la competenza per tali procedimenti deve essere radicata nel luogo di residenza abituale dei minori, nel rispetto delle regole dettate dal diritto internazionale convenzionale e ribadite nel nostro ordinamento positivo dall’art. 709 ter c.p.c., suscettibile di interpretazione estensiva, essendo il nuovo regime derivante dalla riforma della filiazione introdotta dalla l. n. 219 del 2012 e dal d.lgs. n. 154 del 2013, teso ad assicurare l’uniformità di regolazione giuridica della responsabilità genitoriale in sede separativa, divorzile ed in relazione ai figli nati fuori dal matrimonio.

In tema di ricorso per cassazione, Sez. 1, n. 27235/2020, Iofrida, Rv. 659748-01, citata al par. 6.1., conformemente a quanto già affermato da Sez. 1, n. 10719/2013, Rv. 626444-01, afferma che quando, nelle more del giudizio di legittimità avente ad oggetto l’affidamento di figlio minore ad uno degli ex coniugi a seguito di cessazione degli effetti civili del matrimonio, sopravvenga la maggiore età del figlio, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente all’impugnazione.

La presenza nel provvedimento giurisdizionale di un errore che con l’uso dell’ordinaria diligenza, per la sua intrinseca grossolanità, è immediatamente riconoscibile come mero errore materiale, non determina alcuna conseguenza in termini di nullità della motivazione (nella specie la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso contro il decreto della Corte d’appello che in un procedimento ex art. 337 c.c., nel disporre la conferma dell’affidamento del figlio minore al comune, dopo avere esaminato la domanda di affido esclusivo della madre, affermava in motivazione. Nella specie che non sussistevano ragioni per escludere l’affido condiviso. (Sez. 1, n. 19325/2020, Pazzi, Rv. 658821-01).

13. Il mantenimento dei figli.

In tema di mantenimento della prole, devono intendersi spese “straordinarie” quelle che, per la loro rilevanza, imprevedibilità e imponderabilità, esulano dall’ordinario regime di vita dei figli, cosicché la loro inclusione in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno, posto a carico di uno dei genitori, può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità sancito dall’art. 155 c.c. e con quello dell’adeguatezza del mantenimento, nonché recare nocumento alla prole che potrebbe essere privata, non consentendolo le possibilità economiche del solo genitore beneficiario dell’assegno cumulativo, di cure necessarie o di altri indispensabili apporti. (Sez. 6-1, n. 01562/2020, Bisogni, Rv. 656805-01).

L’obbligo di mantenimento del minore da parte del genitore non collocatario deve far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione, secondo uno standard di soddisfacimento correlato a quello economico e sociale della famiglia di modo che si possa valutare il tenore di vita corrispondente a quello goduto in precedenza. (Sez. 1, n. 16739/2020, Caradonna, Rv. 658968-01).

Ai fini del riconoscimento dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, ovvero del diritto all’assegnazione della casa coniugale, il giudice di merito è tenuto a valutare, con prudente apprezzamento, caso per caso e con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto all’età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere del suddetto obbligo o l’assegnazione dell’immobile, fermo restando che tale obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e (purché compatibili con le condizioni economiche dei genitori) aspirazioni. (Sez. 1, n. 17183/2020, Nazzicone, Rv. 658568-01).

Il credito vantato da un genitore per il contributo, da parte dell’altro (nella specie, ex convivente more uxorio), al mantenimento del figlio minore regolarmente riconosciuto è da ritenersi insorto non oltre il momento della proposizione della relativa domanda; ne consegue che, ai fini dell’azione revocatoria ordinaria avente ad oggetto un’alienazione immobiliare posta in essere dopo la proposizione di una tale domanda, quel credito va qualificato come insorto anteriormente all’alienazione ed è allora sufficiente ad integrare l’elemento soggettivo della revocatoria, esperita contro il genitore inadempiente alienante, che il terzo acquirente sia stato consapevole del pregiudizio delle ragioni creditorie, non occorrendo invece la prova della participatio fraudis e cioè della conoscenza, da parte di quest’ultimo, della dolosa preordinazione dell’alienazione ad opera del disponente rispetto al credito. (Sez. 3, n. 25857/2020, De Stefano, Rv. 659586-01)

13.1. Il mantenimento dei figli, profili processuali.

I provvedimenti in tema di mantenimento dei figli minori di genitori divorziati passano in giudicato, ma essendo sempre rivedibili, divengono definitivi solo rebus sic stantibus, sicché il giudice in sede di revisione non può procedere ad una diversa ponderazione delle pregresse condizioni economiche delle parti, né può prendere in esame fatti anteriori alla definitività del titolo stesso o che comunque avrebbero potuto essere fatti valere con gli strumenti concessi per impedirne la definitività (nella specie la S.C. ha confermato il rigetto della domanda proposta dal coniuge onerato del pagamento di un assegno di mantenimento per la prole, il quale aveva introdotto un nuovo procedimento di revisione dell’assegno, invocando fatti modificativi delle condizioni economiche delle parti, intervenuti prima della conclusione di altro procedimento di modifica nel quale essi avrebbero potuto essere fatti valere). (Sez. 1, n. 00283/2020, Sambito, Rv. 656764-01).

In caso di modifica giudiziale delle condizioni economiche del regime post-coniugale, intervenuta in ragione della raggiunta indipendenza economica dei figli, il genitore obbligato può esercitare l’azione di ripetizione ex art. 2033 c.c. anche con riferimento alle somme corrisposte in epoca antecedente alla domanda di revisione, allorché la causa giustificativa del pagamento sia già venuta meno, atteso che la detta azione ha portata generale e si applica a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa. (Nella specie, le due figlie erano divenute economicamente autosufficienti a seguito del conseguimento della laurea, come previsto dagli accordi economici in sede di divorzio congiunto dei genitori, e pacificamente con i rispettivi matrimoni contratti nel 1994 e 1998, sicché la S.C. ha cassato la sentenza della Corte d’appello che aveva negato la ripetizione delle somme corrisposte per il mantenimento delle figlie prima della modifica delle condizioni a decorrere dal 2006). (Sez. 1, n. 03659/2020, Lamorgese, Rv. 657054-01).

A seguito della pronuncia di divorzio, il genitore collocatario creditore per il rimborso pro quota delle spese straordinarie sostenute per i figli, a fronte dell’inadempimento del genitore obbligato, dispone di una pluralità di forme di tutela, potendo anche richiedere un accertamento giudiziale a cognizione piena sugli specifici esborsi sostenuti, teso alla formazione di un nuovo titolo esecutivo in suo favore. (Sez. 6-1, n. 04513/2020, Acierno, Rv. 659889-01).

In tema di revisione delle condizioni economiche del divorzio riguardanti l’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni ma non autosufficienti, la sopravvenuta adozione dei medesimi da parte del nuovo marito della madre, ove ne derivi il loro stabile inserimento nel contesto familiare creatosi, deve essere valutata dal giudice ai fini della modificazione dell’entità di tale mantenimento, ove risulti che l’adottante, benché privo del corrispondente obbligo giuridico, provveda comunque continuativamente e non solo occasionalmente alle esigenze e necessità quotidiane degli adottati. (Sez. 1, n. 07555/2020, Campese, Rv. 657484-01).

In tema di filiazione, la decisione del tribunale per i minorenni relativa all’obbligo di contribuire al mantenimento del figlio naturale posto a carico del genitore non affidatario o collocatario decorre naturalmente dalla data della proposizione della domanda giudiziale oppure, se successiva, dall’effettiva cessazione della coabitazione, senza la necessità di un’apposita statuizione sul punto. Inoltre, la pronuncia adottata dalla corte d’appello in sede di reclamo, sostituendosi a quella del tribunale per i minorenni, produce effetti con la medesima decorrenza. (Sez. 3, n. 08816/2020, D’Arrigo, Rv. 657864-01).

Il terzo pignorato non è parte necessaria nel giudizio di opposizione all’esecuzione o in quello di opposizione agli atti esecutivi, qualora non sia interessato alle vicende processuali, relative alla legittimità e alla validità del pignoramento, dalle quali dipende la liberazione dal relativo vincolo, potendo assumere, invece, tale qualità solo quando abbia un interesse all’accertamento dell’estinzione del suo debito per non essere costretto a pagare di nuovo al creditore del suo debitore. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato con rinvio una sentenza per omessa integrazione del litisconsorzio necessario con il terzo INPS, nell’ambito di un giudizio di opposizione ex art. 617 c.p.c. ad ordinanza di assegnazione per crediti di mantenimento di figlia minorenne, sussistendo un interesse del medesimo terzo all’accertamento della misura dell’assegnazione e, quindi, della modifica coattiva della titolarità attiva del rapporto obbligatorio). (Sez. 3, n. 10813/2020, Porreca, Rv. 657920-01).

Il figlio divenuto maggiorenne ha diritto al mantenimento a carico dei genitori soltanto se, ultimato il prescelto percorso formativo scolastico, dimostri, con conseguente onere probatorio a suo carico, di essersi adoperato effettivamente per rendersi autonomo economicamente, impegnandosi attivamente per trovare un’occupazione in base alle opportunità reali offerte dal mercato del lavoro, se del caso ridimensionando le proprie aspirazioni, senza indugiare nell’attesa di una opportunità lavorativa consona alle proprie ambizioni. (Sez. 1, n. 17183/2020, Nazzicone, Rv. 658568-02).

In tema di mantenimento dei figli, la legittimazione del genitore convivente con il figlio maggiorenne, essendo fondata sulla continuità dei doveri gravanti su uno dei genitori nella persistenza della situazione di convivenza, concorre con la diversa legittimazione del figlio, che trova invece fondamento nella titolarità del diritto al mantenimento, sicché i problemi determinati dalla coesistenza di entrambe le legittimazioni si risolvono sulla base dei principi dettati in tema di solidarietà attiva. Ne deriva che, nel caso in cui ad agire per ottenere dall’altro coniuge il contributo al mantenimento sia il genitore con il quale il figlio medesimo continua a vivere, non si pone una questione di integrazione del contraddittorio nei confronti del figlio diventato maggiorenne, rivelando il mancato esercizio, da parte di quest’ultimo, del diritto di agire autonomamente nei confronti del genitore con cui non vive, l’inesistenza di qualsiasi conflitto con la posizione assunta dal genitore con il quale continua a vivere. (Sez. 6-1, n. 17380/2020, Acierno, Rv. 658717-01).

Nel giudizio di divorzio, al fine di quantificare l’ammontare del contributo dovuto dal genitore per il mantenimento dei figli economicamente non autosufficienti, deve osservarsi il principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, oltre alla considerazione delle esigenze attuali del figlio e del tenore di vita da lui goduto. (Sez. 6-1, n. 19299/2020, Falabella, Rv. 658723-01).

In materia di separazione dei coniugi, la legittimazione iure proprio del genitore a richiedere l’aumento dell’assegno di mantenimento del figlio maggiorenne non ancora autosufficiente economicamente, che non abbia formulato autonoma richiesta giudiziale, sussiste quand’anche costui si allontani per motivi di studio dalla casa genitoriale, qualora detto luogo rimanga in concreto un punto di riferimento stabile al quale fare sistematico ritorno e sempre che il genitore anzidetto sia quello che, pur in assenza di coabitazione abituale o prevalente, provveda materialmente alle esigenze del figlio, anticipando ogni esborso necessario per il suo sostentamento presso la sede di studio. (Sez. 1, n. 29977/2020, Parise, Rv. 660113-01).

14. La casa familiare a seguito dello scioglimento della coppia.

In caso di separazione personale, sia essa giudiziale o consensuale, il coniuge assegnatario della casa familiare succede ex lege e alle stesse condizioni nel rapporto di godimento dell’alloggio adibito a residenza della famiglia, già assegnato al socio di cooperativa edilizia di categoria con finalità mutualistica. (Sez. 3, n. 12114/2020, Rubino, Rv. 658169-01).

Il diritto di abitare la casa familiare, che la legge riserva al coniuge superstite (art. 540, secondo comma, c.c.), può avere ad oggetto soltanto l’immobile concretamente utilizzato prima della morte del de cuius come residenza familiare. Il suddetto diritto, pertanto, non può mai estendersi ad un ulteriore e diverso appartamento, autonomo rispetto alla sede della vita domestica, ancorché ricompreso nello stesso fabbricato, ma non utilizzato per le esigenze abitative della comunità familiare. (Sez. 6-2, n. 12042/2020, Tedesco, Rv. 658454-01).

14.1. La casa familiare a seguito dello scioglimento della coppia, profili processuali.

Nel giudizio di separazione personale dei coniugi, l’assegnazione di una porzione della casa familiare al genitore non collocatario dei figli può disporsi solo nel caso in cui l’unità abitativa sia del tutto autonoma e distinta da quella destinata ad abitazione della famiglia o sia comunque agevolmente divisibile. (Sez. 6-1, n. 22266/2020, Acierno, Rv. 659413-01).

15. I procedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale: aspetti processuali.

Nel corso del 2020 due sole pronunce, di carattere processuale, hanno riguardato i provvedimenti de potestate, includendo tra queste anche Sez. 6-1, n. 02073/2020, cit., al par. 12.1.

Sez. 6-1, n. 01668/2020, Mercolino, Rv. 656983-01, facendo seguito a S.U. n. 32359/2018, Sambito, Rv. 651820-02, ribadisce in tema di provvedimenti de potestate ex artt. 330, 333 e 336 c.c., che il decreto pronunciato dalla Corte d’appello sul reclamo avverso quello del Tribunale per i minorenni è impugnabile con il ricorso per cassazione, avendo, al pari del decreto reclamato, carattere decisorio e definitivo, in quanto incidente su diritti di natura personalissima e di primario rango costituzionale, ed essendo modificabile e revocabile soltanto per la sopravvenienza di nuove circostanze di fatto e quindi idoneo ad acquistare efficacia di giudicato, sia pure rebus sic stantibus, anche quando non sia stato emesso a conclusione del procedimento per essere stato, anzi, espressamente pronunciato “in via non definitiva”, trattandosi di provvedimento che riveste comunque carattere decisorio, quando non sia stato adottato a titolo provvisorio ed urgente, idoneo ad incidere in modo tendenzialmente stabile sull’esercizio della responsabilità genitoriale. Il principio è stato affermato in un giudizio in cui il Tribunale per i minorenni aveva sospeso il padre dall’esercizio della responsabilità genitoriale e demandato al servizio sociale di individuare i tempi e le modalità di frequentazione tra il padre ed il figlio, nonché di procedere, insieme ad un centro specializzato, alla valutazione del minore e del contesto familiare.

16. La sottrazione internazionale di minori.

Sez. 1, n. 04792/2020, Iofrida, Rv. 656880-01, afferma che nel procedimento per la sottrazione internazionale di minori, in mancanza di una norma che ne preveda l’intervento quale parte, va esclusa la necessità di integrare il contraddittorio anche nei loro confronti, previa nomina di un curatore speciale, tenuto altresì conto del fatto che la mancata partecipazione dei minori al procedimento è giustificata dalla sua incompatibilità con i caratteri d’urgenza e provvisorietà che connotano il relativo provvedimento. La stessa pronuncia (Rv. 656880-02), facendo seguito alla costante giurisprudenza, espressa da Sez. 1, n. 03319/2017, Lamorgese, Rv. 643870-01 e da Sez. 1, n. 15254/2019, Scalia, Rv. 654271-01, ribadisce che nel procedimento per la sottrazione internazionale di minore, il suo ascolto, ai sensi dell’art. 315 bis c.p.c. e degli artt. 3 e 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, è adempimento necessario ai fini della legittimità del decreto di rientro, poiché detto ascolto è finalizzato, ex art. 13, comma 2, della Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980, anche alla valutazione dell’eventuale sua opposizione al ritorno in Italia; siffatto adempimento, tuttavia, può essere espletato anche da soggetti diversi dal giudice, secondo le modalità dallo stesso stabilite tenuto conto del carattere urgente e meramente ripristinatorio di tale procedura. In tal senso anche Sez. 1, n. 29585/2020, Terrusi, Rv. 660111-01.

17. La genitorialità solidale: gli sviluppi degli istituti adottivi.

Non molto numerose le pronunce del 2020 di questa Corte che, in tema di adozione, si inseriscono sulla scia della giurisprudenza precedente, sia per quanto riguarda quelle che affrontano temi processuali, sia per quanto riguarda quelle che riguardano temi di natura sostanziale.

17.1. Lo stato di abbandono.

Di particolare importanza è il principio affermato da Sez. 1, n. 03643/2020, Acierno, Rv. 657069-01, che, per la prima volta, offre una sponda giurisprudenziale di legittimità alla c.d. “adozione mite” che, nelle prassi dei tribunali per i minorenni, viene praticata in quei casi, definiti di “semi-abbandono”, in cui pur presentando il rapporto del minore con le figure parentali aspetti problematici, non è tuttavia opportuno reciderlo del tutto. Infatti, la S.C. non solo ribadisce il principio della residualità del ricorso all’istituto dell’adozione (già espresso da Sez. 1, n. 13435/2016, Nazzicone, Rv. 640326-01) - in virtù del quale il giudice, prima di giungere alla dichiarazione di adottabilità, deve accertare la sussistenza dell’interesse del minore a conservare il legame con i suoi genitori biologici, pur se deficitari nelle loro capacità genitoriali, perché l’adozione legittimante costituisce una extrema ratio cui può pervenirsi quando non si ravvisi tale interesse - ma sottolinea pure che il giudizio di opportunità in ordine alla dichiarazione di adottabilità deve essere formulato anche alla luce dell’esistenza dei diversi modelli di adozione che coesistono nel nostro ordinamento. La l. n. 184 del 1983, infatti, contempla sia istituti fondati sulla radicale recisione dei rapporti con i genitori biologici, sia istituti che escludono tale requisito e consentono la conservazione del rapporto, come nel caso delle forme di adozione disciplinate dagli artt. 44 e ss. e, in particolare, dall’art. 44, lett. d). Si legge nella motivazione che tali istituti “rappresentano nel nostro ordinamento quelle forme di adozione compatibili con il rispetto del diritto alla vita privata e familiare imposti dagli obblighi nazionali ed internazionali in materia.”

Sez. 1, n. 00274/2020, Scalia, Rv. 656683/01, riguarda, invece, i requisiti che deve avere la figura parentale sostitutiva di quella genitoriale, che intende prendersi cura del minore, per poterne escludere lo stato di abbandono. Tale figura, afferma la S.C., deve essere una figura di riferimento per il minore in grado di rispondere non solo alle sue esigenze materiali ed economiche, ma anche a quelle affettive, assicurandogli un supporto emotivo e relazionale in ragione di preesistenti legami affettivi, senza che, in mancanza di tali elementi, possa avere rilevanza la presenza accanto a tale figura di persona non legata al minore da alcun vincolo parentale che dichiari la propria disponibilità a prendersi cura del minore insieme alla figura vicaria. La pronuncia è conforme a quanto in precedenza affermato da Sez. 1, n. 09021/2018, Acierno, Rv. 648885-01.

17.2. Adozione in casi particolari, profili processuali.

Riguarda i criteri di collegamento per individuare la giurisdizione S. U., n. 08847/2020, Scarano, Rv. 657658-01, che afferma che sulla domanda di adozione in casi particolari ex art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 184 del 1983 di un minore di origine russa stabilmente residente in Italia, il giudice munito di giurisdizione si individua in base alla residenza abituale del minore, come stabilito dalla Convenzione dell’Aja del 5/10/1961 (ratificata e resa esecutiva con l. n. 1253 del 1966), e non già in base al criterio dello Stato di origine del minore previsto dall’Accordo bilaterale tra Italia e Russia del 6/11/2008, criterio applicabile alle sole adozioni di tipo legittimante, caratterizzate dalla previa dichiarazione dello stato di adottabilità e dalla costituzione di un vincolo di filiazione giuridica sostitutiva di quello di sangue, con definivo ed esclusivo inserimento del minore nella nuova famiglia.

17.3. Il riconoscimento delle sentenze straniere di adozione.

Riguarda il tema della competenza in materia di riconoscimento in Italia di una sentenza di adozione di minore straniero Sez. 6-1, n. 26882/2020, Lamorgese, Rv. 659893-01, che, in un caso in cui la sentenza era stata pronunciata in favore di adottanti stranieri (nella specie cittadini brasiliani), benché uno dei due avesse acquisito dopo la pronuncia anche la cittadinanza e la residenza italiana, afferma la competenza della Corte d’Appello e non già del tribunale per i minorenni, non trovando applicazione la disciplina relativa all’adozione internazionale, bensì quella del diritto internazionale privato di cui all’art. 41, comma 1, della l. n. 218 del 1995.

18. Le persone prive in tutto o in parte di autonomia: misure di protezione e altre questioni.

L’amministrazione di sostegno prevista dall’art. 3 della l. n. 6 del 2004 ha la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli artt. 414 e 427 del c.c. Rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa. Appartiene all’apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie. (Sez. 2, n. 06079/2020, Oliva, Rv. 657124-01). Nella stessa decisione la Corte di legittimità ha specificato che l’amministrazione di sostegno si configura come cd. sostitutiva o mista, laddove presenta caratteristiche affini alla tutela, poiché l’amministrato, pur non essendo tecnicamente incapace di compiere atti giuridici, non è comunque in grado di determinarsi autonomamente in difetto di un intervento, appunto sostitutivo ovvero di ausilio attivo, dell’amministratore; viene, invece, definita amministrazione puramente di assistenza quando si avvicina alla curatela, in relazione alla quale l’ordinamento non prevede i divieti di ricevere per testamento e donazione. Ne discende che, nel caso dell’amministrazione di mera assistenza, il beneficiato è pienamente capace di disporre del suo patrimonio, anche per testamento e con disposizione in favore dell’amministratore di sostegno, a prescindere dalla circostanza che tra i due soggetti, amministratore e beneficiato, sussistano vincoli di parentela di qualsiasi genere, o di coniugio, ovvero una stabile condizione di convivenza. (Sez. 2, n. 06079/2020, Oliva, Rv. 657124-02).

Ai fini dell’annullamento degli atti unilaterali per incapacità naturale, l’accertamento dell’idoneità a recare grave pregiudizio al suo autore va effettuato con particolare rigore, avuto riguardo alla situazione di incapacità del soggetto, e sulla base di una valutazione ex ante, nella quale occorre tenere conto di tutte le caratteristiche strutturali del negozio, idonee a disvelarne la potenzialità lesiva (nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, con riferimento a una procura ad operare sul conto corrente senza obbligo di rendiconto, rilasciata da un soggetto incapace di intendere e di volere in favore del figlio, aveva escluso la sussistenza del grave pregiudizio, sul presupposto che l’atto, al momento del suo compimento, non fosse astrattamente idoneo a danneggiare il suo autore, ed anzi apparisse giustificato dall’incapacità di quest’ultimo di eseguire personalmente le operazioni bancarie). (Sez. 3, n. 11272/2020, Rubino, Rv. 658153-01).

L’accertamento, ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c., del contributo causale della vittima all’evento dannoso, ai fini della riduzione proporzionale dell’obbligo risarcitorio, prescinde dall’età e dallo stato di incapacità naturale della stessa, non rilevando la condotta del soggetto che ne aveva la sorveglianza, sotto il profilo di una eventuale culpa in vigilando e/o in educando. Infatti, tale accertamento è di tipo oggettivo e va condotto alla stregua dello standard ordinario della diligenza dell’uomo medio, verificando se vi sia un contrasto con una regola stabilita da norme positive e/o dettata dalla comune prudenza e senza che occorra un comportamento colposo soggettivamente imputabile della detta vittima (nella specie, la S.C. ha pure chiarito che la posizione del sorvegliante e degli ulteriori danneggiati diversi dalla cd. vittima primaria può assumere valore ex art. 1227, comma 2, c.c., esclusivamente ove agiscano iure proprio). (Sez. 3, n. 03557/2020, Tatangelo, Rv. 656897-01).

L’amministrazione di sostegno, ancorché non esiga che la persona versi in uno stato di vera e propria incapacità di intendere o di volere, nondimeno presuppone una condizione attuale di menomata capacità che la ponga nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi; sono, pertanto, esclusi il ricorso all’istituto nei confronti di chi si trovi nella piena capacità di autodeterminarsi, pur in condizioni di menomazione fisica, e il suo impiego in funzione di mere, asserite esigenze di gestione patrimoniale, in quanto detti utilizzi implicherebbero un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto sottoponibile all’istituto ex art. 404 e ss. c.c. un’anziana signora sul presupposto di una scarsa cognizione delle proprie possidenze patrimoniali, non paventata come conseguenza di una patologia psico-cognitiva, ma quale semplice effetto dell’organizzazione di vita già da tempo assunta e imperniata su una fiduciaria delega gestionale delle risorse alla figlia). (Sez. 1, n. 29981/2020, Terrusi, Rv. 660197 - 01).

18.1. La protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia, profili processuali.

Nei procedimenti di interdizione o inabilitazione, i parenti e gli affini dell’interdicendo o dell’inabilitando - i quali, a norma dell’art. 712 c.p.c., devono essere indicati nel ricorso introduttivo - non hanno qualità di parti in senso tecnico-giuridico, né sono litisconsorti, ma svolgono funzioni “consultive”, essendo fonti di informazione per il giudice, sicché la loro partecipazione al giudizio va inquadrata nell’ambito dell’intervento volontario a carattere necessariamente adesivo (delle ragioni dell’istante o del soggetto della cui capacità si discute); ne consegue che costoro, non essendo assimilabili al convenuto in giudizio, non sono legittimati ad eccepire il difetto di giurisdizione, e ciò sia in riferimento all’art. 11 della l. n. 218 del 1995 che in riferimento alle disposizioni generali di cui all’art. 268 c.p.c. (Sez. 1, n. 04250/2020, Sambito, Rv. 657194-01). Nella stessa pronuncia, la Corte di legittimità ha chiarito che nel giudizio di interdizione, regolato - per quanto non derogato da norme speciali - dai principi propri del processo ordinario di cognizione, l’interdicendo, convenuto in lite, può eccepire il difetto di giurisdizione ex art. 11 della l. n. 218 del 1995 soltanto ove non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana (nella specie, la S.C. ha ritenuto inammissibile l’eccezione di difetto di giurisdizione proposta da un interdicendo dopo che, nella comparsa di costituzione, si era difeso nel merito senza sollevare la questione). (Sez. 1, n. 04250/2020, Sambito, Rv. 657194-02).

I beneficiari di una amministrazione di sostegno sono dotati di un’autonoma legittimazione processuale non solo ai fini dell’apertura della relativa procedura ma anche per impugnare i provvedimenti adottati dal giudice tutelare nel corso della stessa, essendo invece necessaria l’assistenza dell’amministratore di sostegno e la previa autorizzazione del giudice tutelare, a norma del combinato disposto degli artt. 374, n. 5, e 411 c.c., per l’instaurazione dei giudizi nei confronti di terzi estranei a tale procedura (Sez. 1, n. 05380/2020, Fidanzia, Rv. 656883-01).

In tema di amministrazione di sostegno, l’istanza di regolamento di competenza può essere sottoscritta anche dalla parte personalmente, atteso che il relativo procedimento, a differenza di quelli d’interdizione o inabilitazione, non richiede il ministero di un difensore, almeno nelle ipotesi, corrispondenti al modello legale tipico, in cui l’emanando provvedimento abbia ad oggetto esclusivamente l’individuazione di singoli atti, o categorie di essi, in relazione ai quali è richiesto l’intervento dell’amministratore e non incida sui diritti fondamentali della persona attraverso la previsione di effetti, limitazioni o decadenze analoghi a quelli previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o per l’inabilitato (Sez. 6-1, n. 07241/2020, Mercolino, Rv. 657558-01). Nella stessa decisione, il Giudice di legittimità ha pure chiarito che nel caso in cui il beneficiario dell’amministrazione di sostegno si trovi in stato di detenzione in esecuzione di una sentenza definitiva di condanna, la competenza territoriale va riconosciuta al giudice del luogo in cui il detenuto aveva la sua dimora abituale prima dell’inizio dello stato detentivo, non potendo trovare applicazione il criterio legale che individua la residenza (con la quale coincide, salva prova contraria, la dimora abituale) nel luogo in cui è posta la sede principale degl’interessi e degli affari della persona, dal momento che tale criterio, implicando il carattere volontario dello stabilimento, postula un elemento soggettivo la cui sussistenza resta esclusa per definizione nel caso in cui l’interessato, essendo sottoposto a pena detentiva, non possa fissare liberamente la propria dimora (fattispecie relativa al reclamo proposto dal detenuto contro il provvedimento di cessazione dell’amministrazione di sostegno; la S.C. ha regolato la competenza in base alla residenza anteriore all’inizio della detenzione, non risultando il mutamento della sede principale degli affari e interessi per effetto della detenzione e, in particolare, per il trasferimento del ricorrente, intervenuto nel frattempo, ad altra casa di reclusione). (Sez. 6-1, n. 07241/2020, Mercolino, Rv. 657558-02). Ancora mediante questa pronuncia, la Cassazione ha statuito che in tema di reclamo contro il provvedimento di chiusura dell’amministrazione di sostegno, ai fini dell’instaurazione del rapporto processuale deve considerarsi irrilevante la mancata notificazione del ricorso al P.M. presso il giudice a quo, avendo l’impugnazione ad oggetto un provvedimento emesso all’esito di un procedimento unilaterale in cui l’unica parte necessaria è il beneficiario dell’amministrazione, con la conseguenza che la mancata partecipazione del P.M. non comporta la pretermissione di un litisconsorte necessario, costituendo tale notificazione un requisito di ammissibilità dell’impugnazione esclusivamente per i giudizi contenziosi, o comunque per i procedimenti con pluralità di parti, e non è estensibile al procedimento in esame, nel quale non è individuabile un interesse diverso da quello del soggetto istante, dal momento che in tal caso non esiste una controparte cui notificare il ricorso, non potendosi legittimamente qualificare come parte il P.M. (Sez. 6-1, n. 07241/2020, Mercolino, Rv. 657558-03).

Il difensore revocato continua, ai sensi dell’art. 85 c.p.c., a svolgere il suo mandato finché non intervenga la sostituzione con un nuovo difensore, sicché è irrilevante la ridotta o compromessa capacità di intendere e di volere del mandante intervenuta medio tempore. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato l’istanza di rimessione in termini per il deposito di memorie ex art. 183 c.p.c., proposta dal nuovo difensore della parte sottoposta ad amministrazione di sostegno, la quale aveva dedotto di essersi trovata, dopo la revoca del precedente difensore e prima della nomina del nuovo, in uno stato di incapacità). (Sez. 6-1, n. 12249/2020, Di Marzio M., Rv. 658059-01).

La Corte di legittimità ha quindi ribadito che nel caso in cui il beneficiario dell’amministrazione di sostegno si trovi in stato di detenzione in esecuzione di una sentenza definitiva di condanna, la competenza territoriale va riconosciuta al giudice del luogo in cui il detenuto aveva la sua dimora abituale prima dell’inizio dello stato detentivo, non potendo trovare applicazione il criterio legale che individua la residenza (con la quale coincide, salva prova contraria, la dimora abituale) nel luogo in cui è posta la sede principale degl’interessi e degli affari della persona, dal momento che, tale criterio, implicando il carattere volontario dello stabilimento, postula un elemento soggettivo la cui sussistenza resta esclusa per definizione nel caso in cui l’interessato, essendo sottoposto a pena detentiva, non possa fissare liberamente la propria dimora. (Sez. 6-1, n. 18943/2020, Parise, Rv. 659245-01).

L’esercizio dell’azione di annullamento del contratto per incapacità di intendere e volere di uno dei contraenti, che sia successivamente deceduto, sebbene possa compiersi da parte di uno solo dei coeredi, anche in contrasto con gli altri, implica comunque il litisconsorzio necessario di tutti, giacché, come la sentenza di annullamento deve investire l’atto negoziale non limitatamente ad un soggetto, ma nella sua interezza, posto che esso non può essere contemporaneamente valido per un soggetto e invalido per un altro, così anche l’eventuale restituzione non può avvenire pro quota. (Sez. 2, n. 19807/2020, Cosentino, Rv. 659135-01).

19. Questioni in materia di matrimonio concordatario, profili processuali.

La contumacia del convenuto, nel giudizio di riconoscimento degli effetti civili alla sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, non incide sulla natura dell’eccezione relativa alla convivenza triennale come coniugi, che costituisce un limite di ordine pubblico alla delibazione, e rimane compresa, anche in mancanza della costituzione della parte convenuta, tra quelle riservate dall’ordinamento all’esclusiva disponibilità delle parti (nella specie la S.C. ha respinto il ricorso per cassazione proposto dal procuratore generale nel giudizio di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, in cui la moglie era rimasta sempre contumace e dagli atti era emersa una convivenza tra i coniugi di durata ultratriennale, accompagnata dalla nascita di tre figli). (Sez. 1, n. 07923/2020, Parise, Rv. 657562-01).

Nel giudizio di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, ove la relativa domanda sia proposta da uno solo dei coniugi, non trova applicazione la disciplina dei procedimenti camerali, ma quella del giudizio ordinario di cognizione, ai sensi dell’art. 796 c.p.c., sicché la costituzione del convenuto dinanzi alla corte d’appello deve ritenersi disciplinata dall’art. 167 c.p.c., che impone a tale parte, a pena di decadenza, di proporre nella comparsa di risposta le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, nel termine stabilito per la costituzione dall’art. 166 c.p.c. (Nella specie la S.C. ha precisato che non assume rilievo l’intervenuto differimento dell’udienza di comparizione delle parti, disposto ai sensi dell’art. 168-bis, comma 4, c.p.c., perché non opera, in tal caso, la disciplina dettata dall’art. 166 c.p.c. per l’ipotesi di cui al comma 5 dell’art. 168-bis, che è norma avente carattere eccezionale, pertanto non suscettibile di applicazione analogica). (Sez. 1, n. 08028/2020, Mercolino, Rv. 657563-01).

In caso di delibazione della sentenza di nullità del matrimonio concordatario pronunciata dal tribunale ecclesiastico, la corte d’appello, ove la parte deduca la contrarietà all’ordine pubblico di tale sentenza per la sussistenza del requisito della convivenza pluriennale richiamando prove documentali e chiedendo l’ammissione di prove orali, è tenuta ad istruire la causa, poiché l’accertamento circa la natura e la durata della convivenza è devoluto al giudice del riconoscimento della sentenza emessa dal giudice canonico, trattandosi di circostanze estranee a quel giudizio (nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la pronuncia della corte d’appello che aveva rigettato l’eccezione, senza neanche dar conto dei documenti prodotti in atti e senza esaminare le istanze di prove testimoniali). (Sez. 6-1, n. 17379/2020, Acierno, Rv. 658716-01).

La sopravvenienza della morte di uno dei coniugi, nel corso del procedimento dinanzi alla Corte di cassazione sull’impugnazione della pronuncia che abbia dichiarato l’esecutività della sentenza del tribunale ecclesiastico di nullità del matrimonio canonico, non determina la cessazione della materia del contendere, salva l’esigenza di avvertire gli eventuali eredi per assicurare il contraddittorio e il diritto di difesa. (Sez. 6-1, n. 22599/2020, Acierno, Rv. 659538-01).

20. Questioni in materia di matrimonio celebrato innanzi al ministro di un culto ammesso nello Stato.

In materia di trascrizione agli effetti civili del matrimonio religioso celebrato secondo il rito di culti diversi da quello cattolico, occorre distinguere due ipotesi: la trascrizione dell’atto di matrimonio celebrato secondo il rito di un culto che abbia stipulato un’intesa con lo Stato italiano segue la disciplina prevista da questa; l’atto di matrimonio celebrato in Italia davanti ad un ministro di un culto con il quale non sia stata stipulata un’intesa deve invece essere trascritto quando il detto ministro appartenga ad un culto ammesso nello Stato ai sensi della legge n. 1159 del 1929, la sua nomina sia stata approvata con decreto del Ministro dell’Interno e l’ufficiale dello stato civile abbia rilasciato l’autorizzazione scritta alla celebrazione del matrimonio (nella specie, la Corte d’appello ha erroneamente negato la trascrizione del matrimonio celebrato innanzi al ministro di culto della Watch Tower Bible and Tract Society of Pennsylvania in quanto confessione religiosa ammessa nello Stato ai sensi della legge n. 385 del 1949 che, all’epoca del matrimonio, non aveva stipulato un’intesa con l’Italia, senza indagare se il matrimonio dovesse essere trascritto secondo la normativa sui culti ammessi, dettata dalla legge n. 1159 del 1929 e dal r.d. n. 289 del 1930) (Sez. 1, n. 06511/2020, Scalia, Rv. 657475-01).

21. Famiglia e tributi.

In tema di accertamento dell’imposta sui redditi (nella specie da lavoro autonomo), le verifiche fiscali finalizzate a provare, per presunzioni, la condotta evasiva possono anche indirizzarsi sui conti bancari intestati al coniuge o al familiare del contribuente, potendo desumersi la riferibilità a quest’ultimo da elementi sintomatici, quali: il rapporto di stretta familiarità, l’ingiustificata capacità reddituale dei prossimi congiunti nel periodo di imposta considerato, l’infedeltà delle dichiarazioni e l’esercizio di attività da parte del contribuente compatibile con la produzione della maggiore redditività riferita a dette persone. (Sez. 5, n. 00549/2020, Napolitano, Rv. 656550-01).

In tema di IMU, l’esenzione prevista per la casa principale dall’art. 13, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011 richiede non soltanto che il possessore e il suo nucleo familiare dimorino stabilmente in tale immobile, ma altresì che vi risiedano anagraficamente. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata la quale aveva escluso che l’immobile della ricorrente potesse ritenersi abitazione principale dato che il marito, non legalmente separato, aveva la residenza e la dimora abituale in un altro Comune). (Sez. 6-5, n. 04166/2020, Castorina, Rv. 657312-01).

In tema di riscossione coattiva delle imposte, l’iscrizione ipotecaria è ammissibile anche sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle condizioni indicate dall’art. 170 c.c., sicché è legittima solo se l’obbligazione tributaria sia strumentale ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni, ma grava sul debitore che intenda avvalersi del regime di impignorabilità dei beni costituiti nel fondo l’onere di provare l’estraneità del debito alle esigenze familiari e la consapevolezza del creditore. (Sez. 5, n. 10166/2020, Guida, Rv. 657724-01).

In tema di IVA, essendo l’ufficio di amministratore di sostegno precipuamente volto alla cura della persona bisognosa, l’amministrazione del patrimonio del beneficiario non configura, di norma, attività economica indirizzata alla produzione del reddito e, quindi, imponibile, non avendo l’eventuale indennità corrisposta in via equitativa dal giudice funzione corrispettiva di effettivo controvalore del servizio svolto dall’amministratore (preferibilmente scelto entro la cerchia familiare dell’amministrato), a meno che la gestione non risulti in concreto volta a ricavare introiti con carattere di stabilità o, comunque, sia espletata da un professionista a titolo oneroso, assumendo rilievo ai fini della tassabilità l’oggettiva natura economica dell’attività espletata. (Sez. 5, n. 14846/2020, Perrino, Rv. 658344-01).

Nel giudizio relativo al debito contributivo dell’impresa coltivatrice diretta, determinato in relazione al lavoro dei familiari del titolare, non è ravvisabile alcun litisconsorzio necessario tra quest’ultimo ed i predetti familiari, atteso che l’obbligo contributivo nei confronti dell’istituto previdenziale grava sul titolare dell’impresa e non sui lavoranti nella stessa. (Sez. L, n. 19983/2020, Buffa, Rv. 658847-01).

In tema di ICI ed IMU, ai fini dell’esenzione prevista dall’art. 8 del d.lgs. n. 504 del 1992, come modif. dall’art. 1, comma 173, lett. b, della l. n. 296 del 2006 per l’abitazione principale - come tale intendendosi, salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica - è necessario che, in riferimento alla stessa unità immobiliare, tanto il possessore quanto il suo nucleo familiare non solo vi dimorino stabilmente, ma vi risiedano anche anagraficamente, conformemente alla natura di stretta interpretazione delle norme agevolative (in applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza che aveva riconosciuto l’esenzione in favore di una coppia di coniugi non separata legalmente ma avente due distinte residenze anagrafiche, rispetto ad una delle quali un coniuge aveva fruito dell’esenzione in altro Comune). (Sez. 6 - 5, n. 21873/2020, La Torre, Rv. 659354-01).

In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la competenza territoriale dell’Ufficio accertatore è determinata dall’art. 31 d.P.R. n. 600 del 1973 con riferimento al domicilio fiscale indicato dal contribuente; nel caso in cui questi abbia omesso di presentare la dichiarazione dei redditi e non abbia mai comunicato in modo formale all’Amministrazione il proprio mutamento di domicilio fiscale, resta competente, per il principio dell’affidamento, l’Ufficio in relazione all’ultimo domicilio fiscale noto, con riguardo all’anagrafe tributaria del Comune, a nulla rilevando gli altri elementi fattuali (nella specie la dimora, l’assegnazione della casa coniugale o le richieste del Comune volte a sollecitare indagini patrimoniali e bancarie). (Sez. 5, n. 23362/2020, D’Orazio, Rv. 659304-01).

Il patto di famiglia è assoggettato all’imposta sulle donazioni, sia per quanto concerne il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie, operato dall’imprenditore in favore del discendente beneficiario, sia relativamente alla liquidazione della somma corrispondente alla quota di riserva, calcolata sul valore dei beni trasferiti, effettuata dal beneficiario in favore dei legittimari non assegnatari. Il pagamento dell’imposta va però escluso qualora ricorra l’esenzione prevista dall’art. 3, comma 4-ter, d.lgs. n. 346 del 1990, che si applica solo alle ipotesi di trasferimento d’azienda e delle partecipazioni societarie in favore del discendente beneficiario che si impegni a proseguire l’esercizio dell’attività d’impresa o a detenere il controllo societario per un periodo non inferiore a cinque anni, giammai, quindi, alle liquidazioni operate dal discendente in favore di altri legittimari, sia perché trattasi di previsione di stretta interpretazione, sia in considerazione della “ratio” normativa, volta a favorire la prosecuzione dell’azienda da parte dei discendenti. (Sez. 5, n. 29506/2020, Reggiani, Rv. 659989-01).

Nella stessa decisione, la Cassazione ha specificato che in tema di trattamento fiscale del patto di famiglia, alla liquidazione operata dal beneficiario del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie in favore del legittimario non assegnatario, ai sensi dell’art. 768-quater c.c., è applicabile l’art. 58, comma 1, d.lgs. n. 346 del 1990, intendendosi tale liquidazione, ai soli fini impositivi, donazione del disponente in favore del legittimario non assegnatario, con conseguente attribuzione dell’aliquota e della franchigia previste con riferimento al corrispondente rapporto di parentela o di coniugio. (Sez. 5, n. 29506/2020, Reggiani, Rv. 659989-02).

  • protezione sociale
  • apolide
  • rifugiato politico
  • patrocinio gratuito
  • cittadinanza europea
  • diritto degli stranieri
  • diritto d'asilo
  • diritto umanitario internazionale
  • espulsione

CAPITOLO III

I DIRITTI DEI CITTADINI STRANIERI

(di Marina Cirese, Donatella Salari, Chiara Giammarco, Aldo Natalini )

Sommario

1 Questioni processuali vecchie e nuove nelle controversie in materia di protezione internazionale. - 1.1 La competenza ed il rito applicabili alla protezione umanitaria ai sensi del d.l. n. 13 del 2017, prima delle modifiche introdotte dal d.l. n. 113 del 2018. - 1.2 Il giudizio di appello nel vigore dell’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011. - 1.3 I rilievi di costituzionalità sul d.l. n. 13 del 2017. - 1.4 I ricorsi avverso i decreti dell’Unità Dublino. - 1.5 La composizione del giudice (il ruolo dei g.o.t. nel procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale). - 1.6 La garanzia della traduzione degli atti per i richiedenti asilo. - 1.7 La fase introduttiva del giudizio davanti al tribunale e la motivazione del decreto. - 1.8 I termini di impugnazione nelle procedure accelerate. - 1.9 La fase istruttoria del procedimento per la protezione internazionale: l’udienza e l’audizione del ricorrente. - 1.10 L’onere probatorio attenuato ed il dovere di allegazione del richiedente in generale. I contrasti sul tema delll’onere di allegazione nel caso di contemporanea richiesta di riconoscimento di tutte e tre le forme di protezione. - 1.11 Il dovere di cooperazione istruttoria del giudice e le fonti informative. - 1.12 La valutazione di credibilità. - 1.13 I rapporti tra la valutazione di credibilità ed il dovere del giudice di cooperazione istruttoria. - 1.14 La correlazione tra il giudizio di credibilità effettuato in relazione alle situazioni dedotte a sostegno del riconoscimento delle protezioni maggiori ed il riconoscimento dei presupposti per la protezione umanitaria. - 1.15 Gli oneri di allegazione del richiedente, il rapporto tra valutazione di credibilità e dovere officioso di cooperazione istruttoria nell’ipotesi di protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007. - 1.16 La procura alle liti per il ricorso per cassazione. - 1.17 Casi di improcedibilità del ricorso per cassazione. - 1.18 Ricorso straordinario per cassazione: la pronuncia di rigetto dell’istanza di sospensiva dell’esecutività del decreto del tribunale. - 1.19 Ammissione al patrocinio a spese dello Stato e raddoppio del contributo unificato. - 2 I presupposti del riconoscimento dello status di rifugiato. - 3 I presupposti del riconoscimento della protezione sussidiaria. - 4 La protezione umanitaria ed i suoi rapporti con le altre forme di protezione. - 4.1 La condizione di vulnerabilità. - 4.2 Protezione umanitaria e regime probatorio. - 4.3 Protezione umanitaria, qualche accenno sul rito applicabile. - 4.4 Il Regolamento Dublino III. - 5 L’espulsione amministrativa. - 5.1 I casi d’inespellibilità. - 5.2 Il trattenimento dello straniero e le misure alternative. - 6 La tutela dell’unità familiare e dei minori: premessa. - 6.1 Il ricongiungimento familiare. - 6.2 I limiti al divieto di espulsione: lo straniero convivente con i parenti entro il secondo grado o con il coniuge di cittadinanza italiana. - 6.3 L’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare del minore. - 7 Apolidia e cittadinanza.

1. Questioni processuali vecchie e nuove nelle controversie in materia di protezione internazionale.

Nel rinviare a quanto più diffusamente esposto nelle specifiche rassegne sul tema (Rel. n. 108 e n. 119 del 2018, n. 91 e n. 84 del 2019), ci si limiterà qui a ricordare che il 17 agosto 2017 sono entrate in vigore le innovazioni ordinamentali e processuali previste dal d.l. 17 febbraio 2017, n. 13, conv., con modif., dalla l. 13 aprile 2017, n. 46, che ha ridisegnato il sistema giurisdizionale relativo alle controversie in materia di protezione internazionale, disponendo, tra l’altro, che tali controversie - per la cui trattazione era previsto in precedenza il rito sommario di cognizione e l’appello avverso la decisioni del tribunale - siano trattate con il rito camerale in unico grado, prevedendo che la fissazione dell’udienza, e, conseguentemente, l’audizione dell’interessato, non siano più obbligatorie, come nel regime previgente, ma siano discrezionalmente* disposte dal giudice quando le ritiene necessarie. Successivamente è intervenuto il d.l. n. 113 del 2018 conv. con modifiche dalla l. n. 132 del 2018, che oltre ad avere apportato alcune modifiche processuali, ha anche profondamente innovato il regime della protezione umanitaria. Da ultimo, il legislatore è reintervenuto sulla materia della protezione internazionale con il d.l. 21 ottobre 2020 n. 130, convertito, con modif., dalla l. 18 dicembre 2020 n. 173, in tema di permessi di soggiorno, di procedure, di trattenimento.

Tra le pronunce che ancora si occupano della disciplina transitoria nel passaggio dal vecchio rito a quello introdotto con il d.l. n. 13 del 2017, si segnala Sez. 3 n. 20488/2020, Dell’Utri, Rv. 659240 che ribadisce che la disciplina transitoria dettata dall’art. 21 del d.l. n. 13 del 2017, conv. dalla l. n. 46 del 2017, àncora espressamente l’applicabilità del nuovo rito, previsto dall’art. 6, comma 1, lett. g), del d.l. citato, alla circostanza che i procedimenti giudiziari in materia siano stati instaurati dopo la data del 17 agosto 2017; ne consegue che, in base al principio tempus regit actum, le controversie iniziate successivamente a tale data sono disciplinate dall’art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, introdotto dal menzionato art. 6, comma 1, lett. g), secondo cui il decreto del tribunale concernente l’impugnazione dei provvedimenti delle Commissioni territoriali è inappellabile e ricorribile unicamente per cassazione.

1.1. La competenza ed il rito applicabili alla protezione umanitaria ai sensi del d.l. n. 13 del 2017, prima delle modifiche introdotte dal d.l. n. 113 del 2018.

La questione della competenza e del rito applicabili alla protezione umanitaria si era posta poiché il d.l. n. 13 del 2017, nell’istituire presso i Tribunali ordinari del luogo nel quale hanno sede le Corti d’appello le sezioni specializzate in materia di immigrazione, aveva attribuito ad esse la competenza nelle controversie in materia di riconoscimento della protezione umanitaria «nei casi di cui all’art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008» , vale a dire nei casi in cui la C.T., non accogliendo la domanda di protezione internazionale (status di rifugiato o di protezione sussidiaria), trasmette[va] gli atti al Questore per il rilascio del permesso ex art. 5, comma 6, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (T.U.I.), perché ravvisa[va] la sussistenza di gravi motivi di carattere umanitario. L’articolo, tuttavia, non chiariva quale fosse il rito da osservare per tali controversie. Inoltre, l’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, nel disciplinare lo speciale rito davanti alle sezioni specializzate, lo riserva in modo esplicito solo ai ricorsi di cui all’art. 31, comma 1, ossia ai ricorsi «avverso la decisione della C.T. e la decisione della Commissione nazionale sulla revoca o sulla cessazione dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria», senza menzionare i casi di protezione umanitaria.

Sul punto si era espressa per la prima volta Sez. 1 n. 16458/2019, Parise, Rv. 654637-01, affermando che nei procedimenti instaurati prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, qualora sia stata proposta esclusivamente la domanda di protezione umanitaria, la competenza per materia appartiene alla sezione specializzata del Tribunale in composizione monocratica, che giudica secondo il rito ordinario ex art. 281-bis e ss. c.p.c. o, ricorrendone i presupposti, secondo il procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis e ss. c.p.c. e pronuncia sentenza o ordinanza impugnabile in appello, atteso che il rito previsto dall’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, con le peculiarità che lo connotano (composizione collegiale della sezione specializzata, procedura camerale e non reclamabilità del decreto), ha un ambito di applicazione espressamente limitato alle controversie di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 25 del 2008 e a quelle relative all’impugnazione dei provvedimenti adottati dall’Unità Dublino. Tale giurisprudenza è confermata nel 2020 da Sez. 6-1 n. 03668/2020, Sambito, Rv. 6572-01 e Sez. 2 n. 20888/2020, Oliva, Rv. 659210-01 e trova una sua precisazione in Sez. 1 n. 14681/2020, Meloni, Rv. 658389-01, che la limita tuttavia, all’ipotesi in cui sia stata presentata solo domanda di protezione umanitaria, escludendo che essa possa trovare applicazione anche nel caso in cui la domanda per la protezione umanitaria sia proposta contestualmente a quella di protezione internazionale e di protezione sussidiaria, prevalendo in tal caso il rito camerale collegiale di cui all’art. 35 bis del d.lgs. n. 25 del 2008, in ragione della profonda connessione tra le domande. Conseguentemente, afferma Sez. 1, n. 02120/2020, Scotti, Rv. 656808-01, nel caso in cui il ricorrente, per sua scelta, abbia cumulato la domanda di protezione umanitaria con quelle aventi per oggetto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, assoggettate allo speciale rito camerale di cui all’art. 35 bis del d.lgs. n. 25 del 2008, egli non può poi dolersi della mancata pronuncia di inammissibilità della domanda di protezione umanitaria, in applicazione del divieto di venire contra factum proprium di cui all’art. 157, comma 3, c.p.c., secondo il quale la nullità non può mai essere opposta dalla parte che vi ha dato causa.

1.2. Il giudizio di appello nel vigore dell’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011.

Sul tema del procedimento d’appello si registrano poche pronunce, tutte relative a questioni processuali.

In particolare, sul tema dell’applicabilità del termine breve per proporre appello ex art. 702-quater c.p.c., Sez. 6-1, n. 17624/2020, Valitutti, Rv. 658721-01, a conferma del precedente orientamento espresso già da Sez. 1, n. 32961/2019, Oliva, Rv. 656499 - 01, afferma che essa presuppone la regolarità della notifica dell’ordinanza che decide la controversia in primo grado, mancando la quale è applicabile il termine semestrale di impugnazione ex art. 327 c.p.c. Riguarda, invece il termine per ricorrere in cassazione avverso la sentenza pronunciata in grado di appello, Sez. 1, n. 14821/2020, Rossetti, Rv. 658259-01 che, ritenendo inapplicabile il termine previsto dall’art. 702 quater c.p.c. in quanto esclusivamente riservato all’impugnazione delle ordinanze di primo grado, ritiene applicabile solo il termine di sei mesi ex art. 327, comma 1 c.p.c.

Sez. 1, n. 08768/2020, Solaini, Rv. 657798-01, sempre in tema di ricorso per cassazione, ribadisce la sua improcedibilità, ex art. 369, comma 2 c.p.c., nel caso in cui non sia depositata anche la copia autentica del provvedimento impugnato.

Riguarda un problema di disciplina processuale applicabile Sez. 1, n. 05387/2020, Parise, Rv. 657003-01 che, nel caso di domanda di protezione internazionale proposta da un minore straniero non accompagnato prima dell’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 19 bis del d.l. n. 13 del 2017 - che ha attribuito alle sezioni specializzate del tribunale in composizione collegiale anche la competenza sulle domande proposte dai minori stranieri non accompagnati - ha dichiarato la nullità del decreto pronunciato dalla sezione specializzata, in virtù del principio tempus regit actum, ritenendo che a giudicare avrebbe dovuto essere il tribunale ordinario in composizione monocratica secondo il vecchio rito, giacchè l’erronea trattazione da parte della sezione specializzata avrebbe determinato l’eliminazione del grado di appello.

Sempre in tema di gravami nei procedimenti di protezione internazionale ai quali è applicabile ancora il vecchio rito, Sez. 6-1, n. 02750/2020, Pazzi, Rv. 656716-01, afferma che la proposizione del ricorso per cassazione anziché dell’appello, avverso l’ordinanza del tribunale, rende il ricorso medesimo inammissibile, poiché il principio secondo il quale il gravame proposto davanti ad un giudice incompetente impedisce la decadenza dall’impugnazione, consentendo la prosecuzione del giudizio davanti al giudice competente attraverso la traslatio iudicii, non è applicabile nel caso in cui sia stato esperito un rimedio diverso da quello previsto dalla legge.

Infine, in tema di audizione del richiedente nel giudizio di appello, Sez. 1 n. 08931/2020, Scordamaglia, Rv. 657904-01 conferma il precedente costante orientamento, già espresso da Sez. 6-1, n. 14600/2019, Marulli, Rv. 654301-01 (ma già in precedenza da Sez. 6-1, n. 03003/2018, Lamorgese, Rv. 647297-01 e Sez. 6-1 n. 24544/2011, Macioce, Rv. 619702-01), secondo cui nell’omessa audizione del richiedente in ordine ad una domanda di protezione internazionale non è ravvisabile una violazione processuale sanzionabile a pena di nullità, atteso che il rinvio, contenuto nell’art. 35, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, al precedente comma 10, che prevede l’obbligo di sentire le parti, non si configura come un incombente automatico e doveroso, ma come un diritto della parte di richiedere l’interrogatorio personale, cui si collega il potere officioso del giudice d’appello di valutarne la specifica rilevanza.

1.3. I rilievi di costituzionalità sul d.l. n. 13 del 2017.

Nel corso del 2020 Sez. 1, n. 22950/2020, Fidanzia, Rv. 659116-01, ha affrontato, ritenendola manifestamente infondata, la questione di costituzionalità dell’art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, sollevata in relazione agli artt. 117 Cost., 6 e 13 Cedu, nella parte in cui stabilisce che il procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale è definito con decreto non reclamabile. Riportandosi a quanto già affermato da Sez. 1, n. 27700/2018, Di Marzio M., Rv. 651122-01, alla quale ha fatto seguito Sez. 1 n. 28119/2018, Lamorgese, Rv. 651799-01, la S.C. ribadisce che la legislazione eurounitaria, secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia, non prevede un obbligo per gli stati membri di istituire l’appello poiché l’esigenza di assicurare l’effettività del ricorso riguarda espressamente i procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado.

Più di recente, Sez. 1, n. 21442/2020, Oliva, Rv. 659418-01 ha preso in considerazione la questione di costituzionalità degli artt. 2 comma 1 e 3 del d.p.r. n. 21 del 2015, 4 del d.lgs. n. 25 del 2008 e 3 del d.l. n. 13 del 2017, conv. dalla l. n. 46 del 2017, per il dedotto conflitto con gli artt. 3, 24, 97, 101, 108 e 111 Cost., in quanto tali norme affiderebbero la decisione sull’istanza nella fase amministrativa ad un organo privo del requisito della terzietà. La S.C. ha ritenuto la questione irrilevante in quanto le eventuali nullità relative alla fase svoltasi dinanzi alle Commissioni territoriali non si riverberano in vizio del procedimento o del suo provvedimento conclusivo, posta la successiva fase giurisdizionale, nella quale al richiedente asilo è comunque assicurata una pronuncia sulla spettanza del suo diritto alla protezione invocata, resa da un giudice terzo ed imparziale all’esito di un processo a cognizione piena in cui si realizza anche la garanzia del contraddittorio pieno tra le parti.

1.4. I ricorsi avverso i decreti dell’Unità Dublino.

Sulla natura del procedimento di determinazione dello Stato membro competente a decidere sulla domanda di protezione internazionale, Sez. 1, n. 21553/2020, Scordamaglia, Rv. 658981-01 afferma che la cd. “procedura Dublino”, pur inserendosi nel contesto relativo alla domanda di protezione internazionale, è dotata di una propria autonomia strutturale e funzionale, configurandosi quale procedimento d’ufficio, regolato dal Regolamento UE n. 604 del 2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio, che, all’art. 4, intitolato “Diritto di informazione”, prescrive (in particolare nei commi 2 e 3) che l’informazione essenziale sia fornita per iscritto attraverso uno specifico “opuscolo comune”, redatto in conformità al medesimo regolamento, funzionale ad informare l’interessato sulle finalità del regolamento e sulle conseguenze dell’eventuale presentazione di un’altra domanda in uno Stato membro diverso.

In tema di competenza territoriale a decidere sulle impugnazioni dei provvedimenti emessi dalla “Unità Dublino” o dalle sue articolazioni territoriali, va segnalata Sez. 6-2, n. 11873/2020, Casadonte, Rv. 658453- 01 che ribadisce il principio - già espresso da Sez. 6-1 n. 31127/2019, Acierno, Rv. 656292-01 (a sua volta discostatasi consapevolmente dalla precedente interpretazione espressa da Sez. 6, n. 18757/2019, Acierno, Rv. 654721-01) - secondo cui la competenza territoriale a decidere su tali impugnazioni si radica, secondo un criterio “di prossimità”, nella sezione specializzata in materia di immigrazione del Tribunale nella cui circoscrizione ha sede la struttura di accoglienza o il centro che ospita il ricorrente, anche nell’ipotesi in cui questi sia trattenuto in un centro di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998. L’interpretazione costituzionalmente orientata del comma 3, coordinato con il comma 1, dell’art. 4 del d.l. n. 13 del 2007, conv. in l. n. 46 del 2017, deve tener conto, infatti, della posizione strutturalmente svantaggiata del cittadino straniero in relazione all’esercizio del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost., nonché dell’obbligo, imposto dall’art. 13 CEDU e dall’art. 47 della Carta di Nizza, di garantire un ricorso effettivo «ad ogni persona», e ciò anche in relazione al quadro normativo innovato dal d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. n. 132 del 2018.

Sez. 1, n. 02119/2020, Lombardo, Rv. 656581-01 afferma che, ai sensi dell’art. 19, comma 2, par. 2, del reg. U.E. n. 604 del 2013, allorché lo straniero richiedente la protezione internazionale si sia allontanato dal territorio dell’U.E. per almeno tre mesi, la successiva domanda presentata presso un altro stato membro va considerata come nuova e dà inizio ad un ulteriore procedimento di determinazione dello Stato membro competente. Nella specie la S.C. ha annullato con rinvio il provvedimento impugnato che, in relazione ad una domanda di protezione internazionale proposta originariamente in Germania e successivamente riproposta in Italia, aveva ritenuto competente il primo Stato, sull’assunto che quest’ultimo non aveva esercitato la facoltà discrezionale di denegare la propria competenza.

Sez. 1, n. 23584/2020, Pazzi, Rv. 659239-01, in un caso in cui era stato impugnato davanti all’Unità Dublino il decreto di trasferimento di un richiedente protezione internazionale in altro Stato - che aveva accettato la domanda proposta dall’Italia di ripresa in carico ex art. 18 reg. Ce n. 604/2013 - afferma che «il giudice ordinario nazionale non può annullare il provvedimento dell’Amministrazione sulla base della violazione di norme procedurali verificatasi nel corso della procedimento (nella specie, il tribunale aveva riscontrato la dedotta violazione degli artt. 4 e 5 del reg. Dublino III, rispettivamente, relativi alla omessa comunicazione di informazioni sulla procedura ed all’omesso colloquio con il richiedente), atteso che la competenza ad individuare lo Stato competente ad esaminare la domanda di protezione internazionale, spetta, in base all’art. 3, comma 3 del d. lgs. n. 25 del 2008, all’Unità Dublino e che il sindacato del giudice ordinario deve ritenersi limitato al vaglio della sussistenza di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti nello Stato membro designato, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sempre che tale situazione sia tale da superare l’art. 78 del TFU».

Quanto alla facoltà di fare ricorso alla “clausola discrezionale”, prevista dall’art. 17, par. 1, del regolamento UE n. 604 del 2013 (cd. regolamento Dublino III) Sez. 1, n. 23724/2020, Pazzi, Rv. 659437-01 chiarisce che essa è demandata all’Amministrazione (e segnatamente all’Unità di Dublino operante presso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno), in ragione delle considerazioni di tipo politico, umanitario o pragmatico, che ne determinano l’esercizio, e non può essere operato direttamente dal giudice ordinario, fermo restando che la relativa scelta non rimane al di fuori di ogni controllo, sicché il rifiuto di esercitare tale facoltà, risolvendosi nella decisione di trasferire il cittadino straniero, può essere contestato in sede giurisdizionale, mediante l’impugnazione di tale decisione, al fine di verificare se l’Amministrazione abbia esercitato la propria discrezionalità in violazione dei diritti soggettivi riconosciuti al richiedente asilo dal regolamento menzionato e, più in generale, dall’impianto normativo eurounitario. Nello stesso senso Sez. L, n. 26603/2020, Cinque, Rv. 659627-01, che, in un caso in cui era stato impugnato il decreto di trasferimento nello Stato membro che aveva preso in carico lo straniero, precisa che al giudice investito del ricorso compete unicamente il sindacato di legalità riguardo detto atto, ai fini della verifica del rispetto del procedimento e dei criteri di competenza, mentre è preclusa ogni rivalutazione della domanda di protezione già esaminata dallo Stato di prima accoglienza, sia perché ogni domanda di asilo deve essere esaminata da un solo Stato membro, sia perché l’operatività delle clausole discrezionali di cui all’art. 17 del citato regolamento, che consentono a ciascuno Stato di esaminare comunque una domanda di protezione internazionale, pur non essendo quello di presa in carico del richiedente, ha come destinatari gli Stati e non il giudice.

Deve essere segnalato che Sez. 1, con ordinanza interlocutoria n. 23911/2020, Campese, ha rimesso alla pubblica udienza la questione se «In tema di competenza dello Stato nazionale all’esame della domanda di protezione internazionale, il ricorso contro la decisione di trasferimento in un altro Stato dell’Unione di quella proposta dal richiedente asilo, reso dalla cd. Unità Dublino, investa la sola sussistenza delle condizioni e dei presupposti del trasferimento stesso, come desumibili dal Regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, o pure le determinazioni dello Stato membro investito dell’istanza circa l’esercizio del suo potere discrezionale ex art. 17.1 del menzionato Regolamento».

1.5. La composizione del giudice (il ruolo dei g.o.t. nel procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale).

In tema di composizione del giudice, la Corte ha affrontato la questione relativa all’ attività svolta dai giudici onorari presso le sezioni specializzate con Sez. 1, n. 04887/2020, Campese, Rv. 657037-01, che, in relazione ad un caso in cui era stato dedotto il vizio di costituzione del giudice, poiché il giudice onorario aveva effettuato l’audizione del richiedente, rimettendo poi la causa per la decisione al collegio della sezione specializzata, esclude la nullità del procedimento poiché «l’art. 10 del d.lgs. n. 116 del 2017, recante la riforma organica della magistratura onoraria, consente ai giudici professionali di delegare, anche nei procedimenti collegiali, compiti e attività ai giudici onorari, compresa l’assunzione di testimoni, mentre l’art. 11 del medesimo d.lgs. esclude l’assegnazione dei fascicoli ai giudici onorari solo per specifiche tipologie di giudizi, tra i quali non rientrano quelli di cui all’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2000».

Sez. 1, n. 07880/2020, Falabella, Rv. 657680-01, in un caso in cui era stata eccepita la violazione dell’art. 276 c.p.c. per essere stata la pronuncia emessa da un collegio che non aveva come tale partecipato all’udienza di comparizione delle parti e di discussione, poiché quest’ultima udienza si era svolta davanti ad un giudice onorario, afferma che non è affetto da nullità il procedimento nel cui ambito un giudice onorario di tribunale abbia svolto attività processuali e abbia poi rimesso la causa per la decisione al collegio della sezione specializzata in materia di immigrazione, in quanto l’estraneità di detto giudice al collegio non assume rilievo a norma dell’art. 276 c.p.c., dato che, con riguardo ai procedimenti camerali, il principio di immutabilità del giudice non opera con riferimento alle attività svolte in diverse fasi processuali.

Le due pronunce citate danno continuità all’orientamento inaugurato da Sez. 6-1, n. 03356/2019, Iofrida, Rv. 652464-01 che, in un caso in cui lo straniero era stato sentito in udienza da un g.o.t. non appartenente alla sezione immigrazione, che aveva rimesso la causa per la decisione al collegio della sezione specializzata, ha stabilito che il procedimento non è affetto da nullità, richiamando la giurisprudenza formatasi in relazione ad altri tipi di procedimenti, secondo la quale non sono affette da nullità le decisioni assunte da giudici onorari nell’ambito di materie tabellarmente sottratte alla loro potestà decisoria (a riguardo si rinvia alla rassegna precedente).

1.6. La garanzia della traduzione degli atti per i richiedenti asilo.

In base all’art. 10, comma 4, del d.lgs. n. 25 del 2008, «tutte le comunicazioni concernenti il procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale sono rese al richiedente nella prima lingua da lui indicata o, se ciò non è possibile, in lingua inglese, francese, spagnola o araba, secondo la preferenza indicata dall’interessato. In tutte le fasi del procedimento connesse alla presentazione e all’esame della domanda, al richiedente è garantita, se necessario, l’assistenza di un interprete della sua lingua o di altra lingua a lui comprensibile. Ove necessario, si provvede alla traduzione della documentazione prodotta dal richiedente in ogni fase della procedura». In base al comma 5, inoltre, «in caso di impugnazione della decisione in sede giurisdizionale, allo straniero, durante lo svolgimento del relativo giudizio, sono assicurate le stesse garanzie di cui al presente articolo».

Sez. 1, n. 13769/2020, Fidanzia, Rv. 658093-01 ha dato seguito al conforme precedente orientamento (Sez. 6-1, 11271/2019, Falabella, Rv. 653479-01, Sez. 6-1 n. 11295/2019, Scaldaferri, Rv. 653483-01, Sez. 1, n. 13086/2019, Scotti, Rv. 654172-01, Sez. 6-1, n. 18723/2019, Falabella, Rv. 654720-01), dichiarando inammissibili i motivi di ricorso, con i quali si deduceva la mancata traduzione degli atti del procedimento svoltosi avanti alla C.T., affermando che la relativa censura non può limitarsi a lamentare genericamente la violazione del relativo obbligo, ma deve necessariamente indicare in modo specifico quale atto non tradotto abbia determinato un vulnus all’ “esercizio del diritto di difesa”, in considerazione del fatto che lo scopo della norma che prescrive l’obbligo di traduzione è quello di assicurare al richiedente la massima informazione e la più penetrante possibilità di allegazione.

Sez. 2, n. 08367/2020, Manna, Rv. 657595-01 e Sez. 1, n. 27254/2020, Caiazzo, non massimata, affermano, invece, conformemente al precedente Sez. 1, n. 16470/2019, Oliva, Rv. 654638-01, che la censura relativa alla nullità degli atti per omessa traduzione può essere fatta valere solo in sede di opposizione all’atto che sia affetto da tale vizio, inclusa l’opposizione tardiva, qualora il rispetto del termine di legge sia stato reso impossibile proprio dalla nullità. Tuttavia, ciò non può avvenire senza limiti di tempo, essendo invece compito del giudice accertare, in difetto di specifici riscontri probatori, anche avvalendosi di logiche presunzioni, purché adeguatamente motivate, se e da quale momento l’opponente abbia potuto avere un’adeguata conoscenza dell’atto, posto che da tale momento decorre il termine decadenziale per proporre il ricorso ad opponendum. Nella specie, il richiedente aveva impugnato il provvedimento negativo adottato dalla commissione territoriale oltre un anno dopo aver ricevuto la comunicazione della decisione non tradotta.

Sez. 1, n. 26576/2020, Caprioli, Rv. 659746-01 afferma che la nullità del provvedimento amministrativo, emesso dalla Commissione territoriale, per omessa traduzione in una lingua conosciuta dall’interessato o in una delle lingue veicolari, non esonera il giudice adito dall’obbligo di esaminare il merito della domanda, poiché oggetto della controversia non è il provvedimento negativo ma il diritto soggettivo alla protezione internazionale invocata, sulla quale comunque il giudice deve statuire, non rilevando in sé la nullità del provvedimento ma solo le eventuali conseguenze di essa sul pieno dispiegarsi del diritto di difesa.

1.7. La fase introduttiva del giudizio davanti al tribunale e la motivazione del decreto.

Riguarda l’impugnazione del provvedimento della C.T. avanti al tribunale, Sez. 2, n. 21133/2020, Casadonte, Rv. 659313-01, che afferma che il termine di cui all’art. 35 bis, comma 2, del d.lgs. n. 25 del 2008 è previsto a pena di inammissibilità, spettando, dunque, al cittadino straniero, che impugni il diniego della Commissione territoriale, fornire la prova della tempestività del ricorso. Nella specie, la S.C. ha respinto l’impugnazione contro il decreto con cui il tribunale aveva dichiarato inammissibile il ricorso del richiedente asilo, per avere quest’ultimo omesso di depositare, nel termine assegnato, la relata di notifica del provvedimento della Commissione, così impedendo la verifica della tempestività dell’azione.

Nel caso in cui il tribunale si dichiari incompetente per territorio, Sez. 1, n. 06262/2020, Ghinoy, Rv. 657419-01, afferma che l’omessa fissazione del termine per riassumere il procedimento, non implica la nullità della decisione, né priva la pronunzia della propria statuizione sulla competenza, dovendosi applicare il termine ex 50 c.p.c.

Sez. 6-1 n. 20492/2020, Iofrida Rv. 659005-01, conformemente a precedente orientamento (Sez. 1, n. 17318/2019, Vella, Rv. 654643-01 e Sez. 1, n. 18860/2019, Sambito, Rv. 654664-01), afferma che l’oggetto del giudizio avanti al giudice ordinario è l’accertamento del diritto soggettivo del richiedente alla protezione invocata, per cui il tribunale non può limitarsi all’annullamento del provvedimento di diniego per vizi del provvedimento o del procedimento, ma ha l’obbligo di pronunciarsi nel merito.

Riguarda l’obbligo di motivazione del giudice Sez. 18648/2020, Manna, Rv. 659106-01 che, in tema di protezione internazionale, afferma che, esclusa l’attendibilità della narrazione del richiedente relativamente alla richiesta di riconoscimento dello “status” di rifugiato, il giudice non è tenuto a reiterare il medesimo apprezzamento negativo in relazione alla istanza di protezione sussidiaria per le ipotesi di cui all’art. 14, lett. a) e b), del d.lgs. n. 251 del 2007, solo perché succedanea alla prima, giacché l’una motivazione di diniego regge l’altra.

1.8. I termini di impugnazione nelle procedure accelerate.

Riguarda le procedure accelerate, Sez. n. 07520/2020, Meloni, Rv. 657422-01, che afferma che il termine ridotto di quindici giorni per proporre l’impugnazione avverso il provvedimento di diniego reso dalla commissione territoriale, previsto dall’art. 35 bis, comma 2, del d.lgs. n. 25 del 2008, si applica soltanto nelle ipotesi in cui il procedimento amministrativo abbia seguito l’iter acceleratorio previsto dall’art. 28 bis, comma 2, del d.lgs. cit., vale a dire nel caso di domanda ritenuta manifestamente infondata dal questore, e non già quando si tratti di decisione della commissione territoriale assunta all’esito di una procedura ordinaria. Nello stesso senso Sez. 1, n. 23021/2020, Balsamo, Rv. 659424-01 e Sez. 1 n. 07880/2020, Falabella, Rv. 657680-01, che precisano che il termine per impugnare il provvedimento della commissione territoriale è ridotto della metà senza che rilevi l’omessa informativa al richiedente circa la procedura accelerata, atteso che oggetto della controversia non è il provvedimento negativo della commissione, ma il diritto soggettivo alla protezione e la riduzione del termine discende direttamente dalla legge ed è pertanto rilevabile da chi impugna dal tenore del provvedimento.

1.9. La fase istruttoria del procedimento per la protezione internazionale: l’udienza e l’audizione del ricorrente.

La Corte di legittimità aveva già affrontato il nodo interpretativo relativo alla nuova disciplina dell’udienza introdotta dal d.l. n. 13 del 2017 con l’art. 35 bis, commi 10 e 11 del d.lgs. n. 25 del 2008, la cui formulazione non univoca aveva portato i giudici di merito e la dottrina a fornirne interpretazioni contrastanti (il comma 10 dispone che «è fissata udienza per la comparizione delle parti esclusivamente nei casi in cui il giudice: a) visionata la videoregistrazione di cui al comma 8, ritiene necessario disporre l’audizione dell’interessato; b) ritiene indispensabile richiedere chiarimenti alle parti; c) dispone consulenza tecnica ovvero anche d’ufficio, l’assunzione di mezzi di prova», mentre il comma 11 aggiunge che «l’udienza è altresì disposta quando ricorra almeno una delle seguenti ipotesi: a) la videoregistrazione non è disponibile; b) l’interessato ne abbia fatto motivata richiesta nel ricorso introduttivo e il giudice, sulla base delle motivazioni esposte dal ricorrente, ritenga la trattazione del procedimento in udienza essenziale ai fini della decisione; c) l’impugnazione si fonda su elementi di fatto non dedotti nel corso della procedura amministrativa di primo grado») per il cui approfondimento si rimanda alla relazione di questo Ufficio n. 108 del 2018.

La modifica legislativa, peraltro, va letta unitamente alle nuove norme che regolano la fase amministrativa davanti alle Commissioni Territoriali, nel corso della quale ora l’art. 14 del d.lgs. n. 25 del 2008 prevede che l’audizione del cittadino straniero sia «videoregistrata con mezzi audiovisivi» ed il relativo verbale «trascritto in lingua italiana con l’ausilio di sistemi automatici di riconoscimento vocale».

Il comma 5 prosegue aggiungendo che, «in sede di ricorso giurisdizionale avverso la decisione della Commissione territoriale, la videoregistrazione e il verbale di trascrizione sono resi disponibili all’autorità giudiziaria in conformità alle specifiche tecniche di cui al comma 8 ed è consentito al richiedente l’accesso alla videoregistrazione». Tuttavia, le “specifiche tecniche”- che, in base al comma 8 del novellato art. 14 d.lgs. n. 25 del 2008, avrebbero dovuto essere stabilite «d’intesa tra i Ministeri della giustizia e dell’interno, con decreto direttoriale, da adottarsi entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente articolo, pubblicato sulla gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, sui siti internet dei medesimi Ministeri, sentito, limitatamente ai profili inerenti alla protezione dei dati personali, il Garante per la protezione dei dati personali» - non sono ancora state adottate, con la conseguenza che il colloquio del richiedente è verbalizzato in modo riassuntivo ed è questo verbale che viene messo a disposizione dell’autorità giudiziaria in caso di impugnazione della decisione della C.T.

Va qui ricordato che il tema dell’udienza e dell’audizione del richiedente acquistano un rilievo centrale nel rito della protezione internazionale, per le peculiarità proprie di tale giudizio che, pur inserendosi nell’alveo dei giudizi civili, è tuttavia indiscutibilmente caratterizzato dall’attenuazione del principio dispositivo e dalla previsione di un dovere di cooperazione del giudice, rispetto all’acquisizione della prova, che sono espressioni del principio di tutela giurisdizionale effettiva, sancito dagli artt. 6 e 13 CEDU, ribadito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e riconosciuto da Sez. 1, n. 11564/2015, Lamorgese, Rv. 635649-01, in motivazione, e Sez. 3, n. 21255/2013, Travaglino, Rv. 628700-01, come regola-cardine dell’ordinamento costituzionale, volto ad assicurare il diritto «ad un rimedio adeguato al soddisfacimento del bisogno di tutela di quella… unica e talvolta irripetibile situazione sostanziale di interesse giuridicamente tutelato».

Può dirsi consolidato il principio da ultimo affermato da Sez. 3, n. 08574/2020, Di Florio, Rv. 657779-01 (che è conforme a Sez. 1, n. 03029/2019, Pazzi, Rv. 652410-01, Sez. 6-1, n. 02817/2019, Mercolino, Rv. 652463-01, Sez. 6-1, n. 14148/2019, Pazzi, Rv. 654198-01, Sez. 6-1, n. 17076/2019, Tricomi, Rv. 65445-01. Sez. 1, n. 10786/2019, Valitutti, Rv. 653473) secondo cui il comma 10 dell’art. 35 bis prevede ipotesi in cui il giudice può fissare discrezionalmente l’udienza, mentre il comma 11 prevede i casi in cui egli deve (almeno tendenzialmente) fissarla, di talché, ove manchi la videoregistrazione per motivi tecnici, e ne sia stata fatta richiesta, il giudice deve obbligatoriamente fissare l’udienza, configurandosi altrimenti la nullità del decreto pronunciato all’esito del ricorso, per inidoneità del procedimento così adottato, a realizzare lo scopo del pieno dispiegamento del principio del contraddittorio. La Corte aveva tuttavia precisato, richiamando la pronuncia della Corte di Giustizia UE, 26 luglio 2017, nella causa C-348/16, che dalla necessaria fissazione dell’udienza non deriva la necessaria audizione del richiedente.

Meno netto ed univoco il percorso della giurisprudenza sull’individuazione dei presupposti per procedere all’audizione o per escluderla con certezza. Sez.1, n. 05973/2019, Falabella, Rv. 652815-01 e Sez. 1, n. 33858/2019, Sambito, Rv. 656566-01 nel 2019 avevano affermato che «il tribunale… può esimersi dall’audizione del richiedente solo se a questi sia stata data la facoltà di renderla avanti alla commissione territoriale e il tribunale stesso, cui siano stati resi disponibili il verbale dell’audizione ovvero la videoregistrazione e la trascrizione del colloquio…... debba respingere la domanda, per essere la stessa manifestamente infondata». Principio questo condiviso da Sez. 2, n. 15318/2020, Giannaccari, Rv. 658285-01 e Sez. 3, n. 24444/2020, Dell’Utri, Rv. 659755-01, ma certamente non risolutivo ai fini dell’individuazione dei presupposti per procedere all’audizione. Aveva invece individuato un’ipotesi in cui l’audizione doveva considerarsi obbligatoria, Sez. 1, n. 27073/2019, Federico, Rv. 656871-01, che, facendo riferimento all’art. 46, par. 3 della direttiva 2013/32/UE, nell’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia, aveva affermato l’obbligatorietà dell’audizione nel caso in cui il ricorrente l’abbia richiesta ed egli con il ricorso giurisdizionale abbia aggiunto motivi o circostanze di fatto non menzionate davanti alla C.T. e che non sono state oggetto dell’audizione tenutasi avanti ad essa, “trattandosi di strumenti essenziale per verificare anche in relazione a tali nuove allegazioni, la coerenza e la plausibilità del racconto del richiedente”.

Fornisce un’indicazione precisa sui casi in cui è necessario procedere all’audizione del richiedente Sez. 1, n. 21584/2020, Fidanzia, Rv. 658982-01 che afferma che nei casi in cui manchi la videoregistrazione, all’obbligo del giudice di fissare udienza fa seguito anche l’obbligo del giudice di procedere all’audizione del richiedente solo ove: « a) nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda (sufficientemente distinti da quelli allegati nella fase amministrativa, circostanziati e rilevanti); b) il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) il richiedente faccia istanza di audizione nel ricorso, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire chiarimenti e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile». È conforme a tale orientamento Sez. 1, n. 25439/2020, Scotti, Rv. 659659-01, che esclude l’obbligatorietà dell’audizione in un caso in cui lo straniero non aveva adempiuto all’onere di allegazione, sia pure esistendo contraddizioni ed incongruenze nella versione dei fatti già narrata.

Un profilo nuovo è quello messo in evidenza da Sez. L., n. 29304/2020, Arienzo, Rv. 660069-01, secondo la quale il giudice è tenuto a fissare l’udienza di comparizione del ricorrente al fine di procedere alla sua audizione, non solo quando l’audizione nella fase amministrativa del procedimento sia stata omessa, ma anche quando la stessa sia stata inidoneamente condotta, assumendo tale momento un’importanza centrale ai fini della valutazione di credibilità della narrazione posta a base della domanda. Nella specie, la S.C. ha cassato il provvedimento impugnato per avere il giudice di merito rigettato la domanda per scarsa credibilità dei fatti narrati, senza disporre la comparizione delle parti e senza tenere conto dell’inadeguatezza della traduzione dell’audizione amministrativa, effettuata da interprete di nazionalità diversa dal ricorrente.

L’audizione è obbligatoria, anche nel caso in cui il richiedente sia un minore «che abbia compiuto almeno dodici anni, ovvero di età inferiore, ove capace di discernimento», in forza del principio generale espresso dall’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ritenuto applicabile anche ai procedimenti di protezione internazionale, potendo l’audizione essere omessa solo nel caso in cui, tenuto conto del grado di maturità del richiedente, sussistano particolari ragioni, da indicarsi specificamente, che lo sconsiglino (Sez. 1, n. 01785/2020, Tricomi, Rv. 656580-01).

Un caso particolare, è quello affrontato da Sez. 3, n. 22875/2020, Dell’Utri, Rv. 659243-01 che afferma che l’inammissibilità della domanda di protezione internazionale, fondata sui medesimi presupposti di fatto indicati a sostegno di una precedente istanza, può essere dichiarata, ai sensi dell’art. 29, c. 1 lett. b), del d. lgs. n. 25 del 2008, senza che sia necessaria la rinnovazione dell’audizione del richiedente (audizione non effettuata né dalla C.T., né dal giudice di merito).

Sembra affermare che la violazione dei principi in tema di audizione comporti una nullità relativa e, come tale sanabile, Sez. 1, n. 1594/2020, Oliva, 658247- 01 che, da un lato, ritiene nullo il decreto di fissazione dell’udienza che esclude, in via preventiva, la necessità di procedere all’audizione del cittadino straniero per violazione dell’art. 35 bis, commi 10 e 11, del d. lgs. n. 25 del 2008, ma, dall’altro, afferma la sanabilità del vizio, ex art. 157, comma 2, c.p.c. essendo onere del richiedente asilo di procedere all’immediata contestazione della nullità, dichiarandosi disponibile a rendere il colloquio davanti al giudice. È conforme a tale pronuncia Sez. 2, n. 25943/2020, Grasso, Rv.659680-01, che definisce tale tipo di nullità “a rilevanza c.d. variabile”, soggetta all’art. 157, comma 2, c.p.c., sicché, ove non tempestivamente eccepita, non può essere fatta valere con il ricorso per cassazione.

In tema di udienza per l’audizione (che solitamente viene preannunciata con il decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti, quando il suo espletamento sia fatto coincidere con questa), sostiene una posizione particolare Sez. 2, n. 20120/2020, Gorjan, Rv. 659976-01, che afferma che il richiedente ha l’onere di comparire all’udienza fissata dal giudice, anche ove non ne sia disposta l’audizione e, se comparso, deve essere sentito con libertà di forma, poiché nessuna norma impone al giudice la fissazione di un’apposita e nuova udienza per l’audizione, né, per dar corso a questa, è prescritto il ricorso a formalità particolari. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che poteva essere considerata come espletata l’audizione del richiedente presente all’udienza di comparizione e che, in presenza di un’interprete, si era riportato agli atti.

Riguardano il particolare profilo della delegabilità dell’audizione da parte del collegio al giudice relatore Sez. 2, n. 18787/2020, Varrone, Rv. 65912-01 e Sez. 1, n. 22968/2020, Caradonna, Rv. 659236-01, che si esprimono entrambe in senso favorevole alla delegabilità, richiamando l’art. 35 bis del d. lgs n. 25 del 2008, le disposizioni degli artt. 737 e segg. c.c.

Sez. 1, n. 25312/2020, Terrusi, Rv. 659577-01, riguarda, invece, il tema del motivo di ricorso per cassazione con il quale si deduca, in mancanza di videoregistrazione, l’omessa audizione del richiedente che ne abbia fatto espressa istanza. Tale motivo, secondo la S.C. deve contenere l’indicazione puntuale dei fatti che erano stati dedotti avanti al giudice di merito a sostegno della richiesta, avendo il ricorrente un preciso onere di specificità della censura.

1.10. L’onere probatorio attenuato ed il dovere di allegazione del richiedente in generale. I contrasti sul tema delll’onere di allegazione nel caso di contemporanea richiesta di riconoscimento di tutte e tre le forme di protezione.

Nel giudizio relativo alla protezione internazionale rivestono particolare importanza il tema dell’onere probatorio del richiedente asilo e del connesso principio del dovere di cooperazione da parte dell’autorità competente nell’acquisizione e valutazione della prova.

Ciò significa, come chiarito dalla Corte di giustizia (Corte di giustizia UE, 22 novembre 2012, causa, C-277/11), che, «benché il richiedente sia tenuto a produrre tutti gli elementi necessari a motivare la domanda, spetta tuttavia allo Stato membro interessato cooperare con tale richiedente nel momento della determinazione degli elementi significativi della stessa. Tale obbligo di cooperazione in capo allo Stato membro implica, pertanto, concretamente che, se, per una qualsivoglia ragione, gli elementi forniti dal richiedente protezione internazionale non sono esaustivi, attuali o pertinenti, è necessario che lo Stato membro interessato cooperi attivamente alla procedura per consentire di riunire tutti gli elementi atti a sostenere la domanda. Peraltro, uno Stato membro riveste una posizione più adeguata del richiedente per l’accesso a determinati documenti».

In ossequio a tali principi ed in continuità con la giurisprudenza degli anni precedenti, che aveva affermato che il richiedente la protezione internazionale non deve fornire alcuna precisa qualificazione giuridica del tipo di misura di protezione invocata e che è compito del giudice colmare le lacune informative, quando le indicazioni fornite dal richiedente siano deficitarie o mancanti, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui all’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008 ( v. Sez. 6-1, n. 14998/2015, Acierno, Rv. 636559-01 e Sez. 6-1, n. 07333/2015, Acierno, Rv. 644949-01), si era espressa la giurisprudenza del 2018 (Sez. 6-1, n. 02875/2018, Lamorgese, Rv. 647344-01) che, tuttavia, aveva precisato come l’obbligo di cooperazione istruttoria da parte del giudice conseguisse soltanto all’adempimento da parte del richiedente del proprio onere di individuazione ed allegazione dei fatti costitutivi della sua pretesa (in tal senso già Sez. 1, n. 19197/2015, De Chiara, Rv. 637125-01, e n. 07333/2015, Acierno, Rv. 634949-01, e nel 2018 Sez. 6-1, n.16925/18, Acierno, Rv. 649607-01, Sez. 6-1, n. 17069/2018, De Chiara, Rv. 649647-01) sino ad affermare, con Sez. 6-1 n. 27336/2018, Terrusi, Rv. 651146-01, che la domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio.

Sez.1, n. 03016/2019, M. Di Marzio, Rv. 652422-01, aveva poi precisato che l’attenuazione del principio dispositivo derivante dalla “cooperazione istruttoria”, cui il giudice del merito è tenuto, non riguarda il versante dell’allegazione, che anzi deve essere adeguatamente circostanziata, ma la prova, con la conseguenza che l’osservanza degli oneri di allegazione si ripercuote sulla verifica della fondatezza della domanda.

In linea con tali precedenti Sez. 1, n. 02355/2020, Nazzicone, Rv. 656724-01 chiarisce che l’onere di cooperazione istruttoria da parte del giudice non è correlato a fatti e circostanze non dedotti o allegati dal richiedente.

Un importante principio in tema di onere di allegazione del richiedente nel caso in cui il suo paese di provenienza sia inserito nell’elenco dei c.d. “paesi sicuri” è quello stabilito da Sez. 2, n. 19252/2020, Besso Marcheis, Rv. 659111-01, che afferma che tale circostanza non preclude al richiedente la possibilità di dedurre la propria provenienza da una specifica area del paese stesso, interessata da fenomeni di violenza ed insicurezza generalizzata che, ancorché territorialmente circoscritti, possono essere rilevanti ai fini della concessione della protezione internazionale o umanitaria, né esclude il dovere del giudice, in presenza di tale allegazione, di procedere all’accertamento in concreto della pericolosità di detta zona e della rilevanza dei predetti fenomeni. Tuttavia, precisa Sez. n. 25311/2020, Terrusi, Rv. 659576-01, in tale caso lo straniero è gravato da un onere di “allegazione rinforzata” in ordine alle ragioni soggettive ed oggettive per le quali invece il paese non può considerarsi sicuro.

Così Sez. 2, n. 17185/2020, Dongiacomo, Rv.658956-01, in tema di riconoscimento del rifugio politico, afferma che l’onere allegativo del richiedente in ordine ai fatti costitutivi del suo diritto, riguarda l’individualizzazione del rischio rispetto alla situazione del paese di provenienza e che, quando il richiedente abbia adempiuto all’onere di allegazione, sorge il potere-dovere del giudice di cooperazione istruttoria, che tuttavia è circoscritto alla verifica della situazione oggettiva del paese di origine e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente.

Partendo da tali principi condivisi, tuttavia, la giurisprudenza della S.C. sembra essersi divisa nell’ultimo periodo proprio sulla delimitazione dei confini del potere del giudice in relazione alla domanda proposta dal richiedente (che, nella maggior parte dei casi, riguarda le due forme di protezione cd. maggiori e, in via gradata, la protezione umanitaria) laddove in alcune pronunce l’attenuazione del principio dispositivo è stata restrittivamente interpretata, delimitando in modo rigoroso l’ambito delle allegazioni relative a ciascuna forma di protezione. Infatti, già Sez. 1, n. 21123/2019, Rossetti, Rv. 655294-01, in relazione all’onere di allegazione del richiedente in tema di protezione umanitaria, pur ritenendo che la natura residuale ed atipica di quest’ultima, implichi che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, aveva affermato, tuttavia, che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione cd. maggiore. Conseguentemente all’affermazione dell’autonomia della domanda di protezione umanitaria rispetto alle protezioni maggiori, Sez. 3 n. 11935/2020, Rossetti, Rv. 658018-01 statuisce che la decisione sulla domanda di protezione sussidiaria, non assorbe quella sulla domanda di protezione umanitaria, né in senso proprio, né in senso improprio, in quanto non fa venir meno l’interesse del richiedente asilo, perché il rigetto della prima non esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulla seconda e non comporta, di per sé, un implicito rigetto della stessa. All’affermazione del principio dell’onere di allegazione di fatti diversi per le diverse forme di protezione, ha fatto seguito Sez. 1, n. 06923/2020, Scalia, Rv. 657499-01, che, sempre in tema di protezione umanitaria, sembra esprimere un concetto ancora più restrittivo giacché - in un caso in cui la lesione del diritto allo studio derivante da un difficile rapporto tra il richiedente ed un congiunto era stata allegata dallo straniero e valutata dalla corte di merito ai fini della riconoscibilità della misura della protezione sussidiaria, mentre nel ricorso per cassazione era stata posta a sostegno della domanda di protezione umanitaria - prospettata fin dall’inizio del procedimento ma con allegazioni fattuali diverse - ha ritenuto l’inammissibilità del mutamento dei fatti allegati a sostegno della domanda di protezione umanitaria nel giudizio di legittimità, anche quando i medesimi fatti, nel giudizio di merito, siano stati posti a base della domanda di protezione sussidiaria. Infatti - si legge in motivazione - «nella domanda di riconoscimento della protezione per ragioni umanitarie, la causa petendi si atteggia diversamente rispetto alle distinte forme della protezione internazionale ed il ricorrente non può introdurre nel corso del giudizio di cassazione, con mutamento della causa petendi una domanda nuova, facendo valere forme diverse di protezione di cui non abbia tempestivamente dedotto nella fase di merito i correlati fatti costitutivi».

In tal senso ancora più esplicita Sez. 1, n. 07622/2020, M. Di Marzio, Rv. 657464 -01, che afferma chiaramente che la domanda di protezione internazionale, di protezione sussidiaria e di protezione umanitaria si fondano su differenti causae petendi, così che è onere del richiedente allegare fatti specifici e diversi a seconda della forma di protezione invocata.

Si discosta nettamente da tale orientamento, Sez. 3, n. 08819/2020, Travaglino, Rv. 657916-05, che, pur affermando che i presupposti necessari al riconoscimento della protezione umanitaria devono essere individuati autonomamente rispetto a quelli previsti per le due protezioni maggiori, non essendo tra loro sovrapponibili, evidenzia come i fatti storici posti a fondamento della positiva valutazione della condizione di vulnerabilità ben possono essere gli stessi già allegati per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato o la concessione della protezione sussidiaria, spettando al giudice qualificare detti fatti ai fini della riconduzione all’una o all’altra forma di protezione.

La medesima pronuncia (Rv. 657916-01) inoltre, esprimendo un principio di diritto che definisce, senza possibilità di equivoco, l’area di operatività del principio dispositivo nell’ambito del giudizio di protezione internazionale, richiamandone la funzione di accertamento di diritti fondamentali, afferma che «qualora i fatti storici allegati dal richiedente risultino pertinenti, a prescindere dalle istanze formulate dalla parte, il giudice del merito è tenuto ad esaminare la possibilità di riconoscere una delle forme di protezione previste dalla legge, trattandosi di giudizi relativi a domanda autodeterminata, avente ad oggetto diritti fondamentali, in relazione alla quale non ha importanza l’indicazione precisa del nomen iuris del tipo di protezione invocata, ma esclusivamente la prospettazione di situazioni concrete che consentano di configurare lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria. Non rileva, di conseguenza, l’espressa limitazione della domanda ad alcune soltanto delle modalità di protezione possibili, poiché tale limitazione non può assumere il significato di una rinuncia tacita alla protezione non richiesta, quando i fatti esposti nell’atto introduttivo siano rilevanti rispetto alla fattispecie non espressamente invocata».

Infine, sempre in tema di rapporti tra le domande relative alle diverse forme di protezione, Sez. 3, n. 11912/2020, Travaglino, Rv. 658295-01, reputa irrilevante la mancata allegazione per la protezione umanitaria di fatti diversi da quelli dedotti per la richiesta di rifugio politico e per quella di protezione sussidiaria, ponendosi in consapevole esplicito contrasto con le precedenti Sez. 1, n. 21123/2019, cit. e con Sez. 1, n. 07622/2020, cit. - la cui interpretazione viene considerata «priva di qualsivoglia fondamento normativo e frutto di interpretazione in malam partem impredicabile in tema di diritti fondamentali, contraddicendo il basilare dovere del giudice di qualificazione della domanda sulla base degli stessi fatti storici allegati da parte istante». Afferma, infatti, la S.C. che «la necessità di collegare la norma che disciplina la protezione umanitaria ai diritti fondamentali che ne costituiscono il presupposto, impedisce di imprigionare gli interessi protetti ad essa sottesi nella camicia di Nesso di regole rigide e parametri severi, che ne limitino la possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali, sicché l’apertura e la residualità di tale tutela non consentono tipizzazioni, considerato che l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 CEDU, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a, clausola generale di sistema capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione».

1.11. Il dovere di cooperazione istruttoria del giudice e le fonti informative.

Il dovere di cooperazione richiede che il giudice, prima dell’interrogatorio libero, esamini le precedenti dichiarazioni rese dal ricorrente (innanzi alla Questura e nel corso dell’audizione dinanzi alla C.T.) e verifichi, attraverso l’esame delle informazioni acquisite d’ufficio, c.d. C.O.I., ove non prodotte dalla difesa, le condizioni relative al Paese d’origine del richiedente asilo. Al riguardo l’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008 stabilisce che «ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise ed aggiornate circa la situazione generale esistente nel paese di origine del richiedente e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR e dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri, anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa. La Commissione nazionale assicura che tali informazioni, costantemente aggiornate, siano messe a disposizione delle Commissioni territoriali, secondo le modalità indicate dal regolamento da emanare ai sensi dell’art. 38 e siano altresì fornite agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative». Tale articolo è la trasposizione dell’art. 10, par. 3, lett. b), della direttiva 2013/32/UE, che tuttavia non annoverava tra le organizzazioni abilitate a fornire le informazioni, i Ministeri degli Esteri dei singoli Stati, ma solo organismi internazionali specializzati «quali l’EASO e l’UNHCR e le organizzazioni internazionali per i diritti umani pertinenti». L’obbligo di acquisizione di tali informazioni vige solo in riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo per contro attivarsi in relazione a fatti non dedotti (Sez. 1, n. 02355/2020, Nazzicone, Rv. 656724-01).

Come già affermato da Sez. 1, n. 13897/2019, Pazzi Rv. 654174-01, conforme peraltro alla giurisprudenza costante precedente, l’approfondimento istruttorio deve essere compiuto con riguardo alla situazione socio-politica del Paese d’origine sulla base di un accertamento che deve essere aggiornato al momento della decisione, non potendo fondarsi su informazioni risalenti ma deve essere svolta, anche mediante integrazione istruttoria ufficiosa, all’attualità (Sez. 3, n. 08819/2020, Travaglino, Rv. 657916-06 e Sez. 3, n. 22527/2020, Rv. 659409-02, che aggiunge che le fonti informative devono essere riferite specificamente alle condizioni del singolo paese e non genericamente all’area geografica nel quale il medesimo è collocato). Al riguardo, tuttavia, Sez. 3, n. 23999/2020, Rubino, Rv. 659522-01, precisa che l’obbligo del giudice di decidere sulla base di C.O.I. aggiornate «non implica, a pena di nullità, che si tratti di quelle più recenti, salvo che il richiedente deduca che da queste ultime emergano specifici elementi di accresciuta instabilità e pericolosità non considerati in precedenza».

In ogni caso le indicazioni dell’art. 8 del d.lgs. n. 25 del 2008 non hanno carattere esclusivo, ben potendo le informazioni essere tratte da concorrenti canali informativi (Sez. 1, n. 13253/2020, Fidanzia, Rv. 658089-01, conforme a Sez. 1. n. 15794/2019, M. Di Marzio, Rv. 654624-03 che afferma che le C.O.I. sono «strumento preferenziale ma non esclusivo» per l’acquisizione di informazioni). In tal senso Sez. 1, n. 13253/2020, cit. e Sez. l, n. 28349/2020, Cinque, Rv. 659802-01 affermano che il giudice può trarre elementi informativi sulla situazione del Paese estero, da «concorrenti canali di informazione, anche via web, le quali, per la capillarità della loro diffusione e la facile accessibilità da parte dei consociati, vanno considerate alla stregua del fatto notorio». Tuttavia, non è stata considerata esauriente a tal fine la consultazione del sito ministeriale Viaggiare sicuri, «il cui scopo e funzione non coincidono, se non in parte, con quelli perseguiti nei procedimenti indicati» (Sez. 1, n. 08819/2020, Travaglino, Rv. 657916-06). Sono stati invece ritenuti utilizzabili, ai fini di comprovare la condizione del Paese di provenienza del richiedente, le informazioni tratte dai siti delle principali organizzazioni non governative attive nel settore dell’aiuto e della cooperazione internazionale, come Amnesty International e Medici senza frontiere. La recente Sez. 1, n. 28641/2020, Oliva, Rv. 660005 - 01, precisa, tuttavia, che il ricorso a fonti diverse dalle C.O.I. «è consentito solo in aggiunta a queste e non al loro posto, poiché la ratio dell’art. 8, comma 3 del d. lgs. n. 25 del 2008 è ispirata alla necessità di assicurare da un lato l’uniformità del criterio valutativo delle domande di protezione internazionale, che vanno scrutinate in base a notizie precise ed aggiornate sul paese di origine del richiedente, e dall’altra l’autorevolezza della fonte dalla quale le informazioni poste a fondamento del predetto criterio valutativo sono in concreto tratte». Comunque, ove necessario, il giudice non deve fermarsi ad acquisire informazioni generiche sul Paese di provenienza, ma deve acquisire informazioni specifiche in ordine ai fatti allegati dal richiedente, ove il loro accertamento risulti indispensabile al fine di verificare la sussistenza dei presupposti di una delle forme di protezione (Sez. 1, n. 11175/2020, Oliva, Rv. 658032-01).

In coerenza con tale principio, Sez. 1, n. 13257/2020, Tria, Rv. 658131-02, in un caso in cui occorreva indagare sulla sussistenza dei presupposti del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, legati al pericolo di compromissione del diritto alla salute del richiedente ove fosse rientrato nel suo Paese di provenienza, afferma la necessità che il giudice indaghi specificamente in ordine alle condizioni del sistema sanitario di tale Paese. Sez. 1, 08573/2020, Di Florio, Rv. 657778-01 ribadisce il principio, già affermato da Sez. 1, n. 28974/2019, Oliva, Rv. 655565-01, secondo il quale, in un caso in cui sia allegata una persecuzione a sfondo religioso, «il giudice deve effettuare un’indagine specifica su tale aspetto»; Sez. 1, n. 13932/2020, Fidanzia, Rv. 658240-01 in tema di rifugio politico, afferma, nel caso in cui si deduca che la persecuzione assuma la forma di provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori in sé o attuati in modo discriminatorio, che il giudice del merito deve verificare tutti i fatti pertinenti il paese di origine, comprese le disposizioni legislative o regolamentari, nonché le loro modalità di applicazione, al fine di accertare se vi sia stata la dedotta discriminazione.

Nel caso delle “liti tra privati” la necessità che la cooperazione istruttoria da parte del giudice si esplichi in modo specifico e non generico comporta che l’oggetto dell’indagine debba tendere a verificare, in concreto, se lo Stato di origine sia in grado di offrire alla persona minacciata adeguata protezione (Sez. 1, n. 06879/2020, Pacilli, Rv. 657476-01). Particolarmente pregnante deve essere l’obbligo di cooperazione istruttoria del giudice, anche a fronte della mancata esplicita allegazione dei fatti, quando nel corso del giudizio per il riconoscimento del rifugio, emerga un quadro indiziario, ancorché incompleto, che faccia temere che la richiedente sia stata vittima di tratta. In tal caso il giudice non può arrestarsi di fronte al difetto di allegazione (o anche all’esistenza di allegazione contraria), ma deve avvalersi degli strumenti di cui dispone per conoscerne la vera storia, ricorrendo, in particolare, allo strumento dell’audizione, paradigmaticamente indispensabile, al fine di consentire alla intravista realtà, occultata dalla stessa richiedente, di emergere in sede giurisdizionale (Sez. 1, n. 24573/2020, Scotti, Rv. 659572-01).

Specifica e pregnante deve essere la cooperazione istruttoria del giudice nel caso in cui sia dedotta, come ragione di persecuzione, l’orientamento sessuale del richiedente. In tal caso, afferma Sez. 1, n. 9815/2020, Russo, Rv. 657835 01, l’allegazione da parte dello straniero della propria condizione di omosessualità impone al giudice di porsi in una prospettiva dinamica e non statica, vale a dire che verifichi la sua concreta esposizione a rischio, sia in relazione alla rilevazione di un vero e proprio atto persecutorio - ove nel paese di origine l’omosessualità sia punita come reato e sia prevista una pena detentiva sproporzionata o discriminatoria - sia in relazione alla configurabilità della protezione sussidiaria, che può verificarsi anche in mancanza di una legislazione esplicitamente omofoba, ove il soggetto sia esposto a gravissime minacce da agenti privati e lo Stato non sia in grado di proteggerlo, dovendosi evidenziare che tra i trattamenti inumani e degradanti lesivi dei diritti fondamentali della persona omosessuale non vi è solo il carcere ma vi sono anche gli abusi medici, gli stupri ed i matrimoni forzati, tenuto conto che non è lecito pretendere che la persona tenga un comportamento riservato e nasconda la propria omosessualità.

In tal senso, Sez. 1, n. 01175/2020, Oliva, Rv. 658032-01, in tema di protezione sussidiaria, afferma che, quando il richiedente descrive una situazione di rischio per la vita o l’incolumità fisica, che derivi da sistemi di regole non scritte sub statuali, imposte con la violenza e la sopraffazione verso un genere, un gruppo sociale o religioso o semplicemente verso un soggetto o un gruppo familiare nemico, in presenza di tolleranza, tacita approvazione o incapacità a contenere o fronteggiare il fenomeno da parte delle autorità statuali, sul giudice grava un più incisivo e specifico obbligo di informazione e di approfondimento proprio al fine di verificare il grado di diffusione ed impunità dei comportamenti violenti descritti e la risposta delle autorità statuali. Sempre in tema di rifugio politico, Sez.1, n. 13932/2020, Fidanzia, Rv. 658240-01, afferma che, particolarmente incisivo e specifico deve essere il dovere di cooperazione da parte del giudice, quando si deduca che la persecuzione assuma la forma di provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori in sé o attuati in modo discriminatorio. A tal fine il giudice deve verificare tutti i fatti pertinenti il paese di origine, comprese le disposizioni legislative o regolamentari, nonché le loro modalità di applicazione, al fine di accertare se vi sia discriminazione.

Nello stesso senso Sez. n. 14668/2020, Tria, Rv. 658258-01, in un caso in cui lo straniero aveva allegato di essere fuggito dal paese di origine per sottrarsi alle violenze e persecuzioni di una comunità antagonista rispetto a quella di appartenenza.

Quanto, poi, ai documenti prodotti dal ricorrente, Sez. 1, n. 24506/2020, Ariolli, Rv. 659655-01, afferma che, a seguito della produzione da parte del richiedente di un documento ritenuto palesemente falsificato - circostanza che può essere liberamente apprezzata dal giudice del merito ai fini della valutazione negativa in ordine alla credibilità del richiedente, in quanto fatto sintomatico del tentativo del richiedente di sottrarsi all’accertamento della verità ad opera del giudice, in violazione dei canoni di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c. - il giudice non è tenuto ad attivare i suoi poteri di cooperazione istruttoria. In precedenza, invece, Sez. 1, n. 11097/2019, Dolmetta, Rv. 653475-01, se pure nel diverso caso in cui si erano presentati dubbi o contestazioni sull’autenticità di documenti o sulla loro affidabilità, aveva ritenuto che l’attività istruttoria officiosa dovesse essere compiuta utilizzando anche canali diplomatici, rogatoriali ed amministrativi, prima di poterne affermare l’insufficienza.

Il tema dell’esatto e verificabile adempimento da parte del giudice del proprio dovere di cooperazione istruttoria, nei casi in cui ne sussistano i presupposti, ha risvolti, anche sul tema della motivazione dei provvedimenti.

Al riguardo Sez. 2, n. 09230/2020, Rv. 657701-01 (alla quale hanno fatto seguito in senso conforme Sez. 1, n. 29147/2020, Oliva, Rv. 660108 - 01, Sez. 2, n. 26229/2020, Dongiacomo, Rv. 659681-01, e Sez. 3, n. 23999/2020, Rubino, Rv. 659522-01, conformemente a quanto già affermato da. Sez. 1, Pazzi, n. 13897/2019, Rv. 654174-01), ravvisa la violazione dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, oltre che il vizio di motivazione apparente, nella pronuncia che, nel prendere in considerazione la situazione generale esistente nel Paese d’origine dello straniero, si limiti a valutazioni solo generiche o comunque non individui le specifiche fonti informative da cui vengono tratte le conclusioni assunte, considerato che, come afferma in motivazione anche Sez. n. 14283/2019, Rv. 654168-01, «l’effettuazione di tale accertamento, proprio in quanto imposto dalla legge, deve essere poi obiettivamente verificabile (dal richiedente, dall’Amministrazione e dallo stesso giudice dell’impugnazione); e ciò implica che il provvedimento reso debba quantomeno dar conto delle fonti informative consultate: indicazione questa, tanto più necessaria, in quanto consente di affermare (o negare) che l’attività di indagine sia stata effettivamente condotta sulla base di notizie aggiornate, come il richiamato art. 8, comma 3, per l’appunto richiede».

In attuazione di tali principi, Sez. 1, n. 13255/2020, Fidanzia, Rv. 658130-01, ha cassato con rinvio la pronuncia di merito che aveva genericamente escluso l’esistenza in Senegal di una situazione di violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato in corso, senza indicare in alcun modo la fonte internazionale che aveva consentito di giungere a tale conclusione, mentre Sez. 2, n. 26229/2020, Dongiacomo, Rv. 659681-01, precisa che l’indicazione delle fonti di cui all’art. 8 citato non ha carattere esclusivo, pur non potendosi ritenere sufficiente il riferimento a dati desunti da una fonte riguardante categorie di soggetti, quali i lettori di una testata giornalistica, non comparabili ai richiedenti la protezione internazionale. (Nella specie, la S.C. ha annullato la decisione di merito, che si era limitata a fare riferimento alle “notizie desumibili facilmente da qualunque sito di politica internazionale, come ad es. internazionale.it”).

Nel 2019 Sez. 1, n. 13449/2019, Rv. 653887-01, aveva ritenuto insufficiente il semplice richiamo, contenuto nel provvedimento impugnato, «ai più recenti report del Ministero degli Esteri», e Sez. 6-1, n. 11312/2019, Terrusi, Rv. 653608-01, aveva giudicato insufficiente il riferimento a fonti internazionali, non meglio identificate.

Riguarda, invece, il tema dei motivi di ricorso per cassazione che mirano a contrastare l’apprezzamento del giudice di merito in ordine alle c.d. fonti privilegiate, Sez. 1, n. 04037/2020, Oliva, Rv. 657062-01, che afferma che la censura deve evidenziare, mediante riscontri precisi ed univoci, che le informazioni sulla cui base è stata assunta la decisione, in violazione del cd. dovere di collaborazione istruttoria, sono state oggettivamente travisate, ovvero superate da altre più aggiornate e decisive, dovendosi, in mancanza, dichiarare inammissibile il ricorso. In tal senso anche Sez. 1, n. 21932/2020, Rossetti, Rv. 659234-01 e Sez. 1, n. 22769/2020, Amatore, Rv. 659276-01.

1.12. La valutazione di credibilità.

Sulla credibilità del richiedente asilo, va ricordato che la S.C. afferma, con giurisprudenza costante, che la sua valutazione non è affidata alla mera opinione del giudice, ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi di quanto narrato, ma secondo la griglia predeterminata di criteri offerta dall’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 251 del 2007 (Sez. 3, n. 11925/2020, Vincenti, Rv. 658017-01, ma già in precedenza, solo tra le più recenti, Sez. 1, n. 15794/2019, M. Di Marzio, Rv. 654624-02).

Era stato poi puntualizzato da Sez. 6-1, n. 20580/2019, Nazzicone, Rv. 654946-01, che l’art. 3 del d.lgs. n 251 del 2007 enuncia alcuni parametri, meramente indicativi e non tassativi, che possono costituire una guida per la valutazione nel merito della veridicità delle dichiarazioni del richiedente, i quali, tuttavia, fondandosi sull’id quod plerumque accidit, non sono esaustivi, non precludendo la norma la possibilità di fare riferimento ad altri criteri generali di ordine presuntivo. Con Sez. 1, n. 21142/2919, M. Di Marzio, Rv. 654674-01 era stato poi affermato che le dichiarazioni del richiedente devono essere sottoposte non solo ad un controllo di coerenza interna ed esterna, ma anche ad una verifica di credibilità razionale della vicenda narrata.

L’indicazione che viene dalla più recente giurisprudenza, esprime la necessità che la valutazione di credibilità del richiedente non sia rivolta «ad una capillare ricerca di eventuali contraddizioni - atomisticamente esaminate insite nella narrazione ….- dovendosi piuttosto effettuare una disamina complessiva della vicenda persecutoria narrata» (Sez. 1, n. 07546/2020, Solaini, Rv.657584-01), che deve essere «frutto di una valutazione complessiva di tutti gli elementi», senza che la valutazione negativa sulla credibilità possa «essere motivata soltanto con riferimento ad elementi isolati e secondari o addirittura insussistenti, quando invece viene trascurato un profilo decisivo e centrale del racconto» (Sez. 1, n. 10908/2020, Oliva, Rv. 658050-01 e Sez. 1 n. 14674/2020, Tria Rv. 658388-01).

In linea con tale orientamento, Sez. 3 n. 24183/2020, Di Florio, Rv. 659752-01 afferma che l’art. 3, comma 5, lett. e), del d.lgs. n. 251 del 2007, nella parte in cui prevede che, ai fini della valutazione di credibilità, si deve verificare anche se il richiedente sia “in generale attendibile”, va interpretato nel senso che il racconto debba essere considerato credibile “nel suo insieme”, attribuendo all’espressione “in generale” utilizzata dalla norma il valore semantico di “complessivamente” o “globalmente”, benché non si possa escludere, in astratto, che una specifica incongruenza, per il ruolo della circostanza narrata, possa inficiare del tutto la valutazione di credibilità del ricorrente.

Sez. 1, n. 07546/2020 cit. aggiunge, inoltre che, all’esito del vaglio di credibilità eseguito secondo le regole sopra espresse, quando residuino dubbi rispetto ad alcuni dettagli della narrazione, può trovare applicazione “il principio del beneficio del dubbio”, come si desume dall’art. 3 del d.lgs. n. 251 del 2017, letto alla luce della giurisprudenza della Cedu, perché la funzione del procedimento giurisdizionale di protezione internazionale, è quella - del tutto autonoma rispetto alla precedente fase amministrativa - di accertare la sussistenza o meno del diritto del richiedente al riconoscimento di una delle forme di asilo previste dalla legge» ( in senso conforme Sez. 3, n. 22527/2020, Di Florio, Rv. 659409-01).

Sempre in tema di interpretazione dell’art. 3, comma 5 del d. lgs. n. 251 del 2007 Sez. 1, n. 06897/2020, Rossetti, Rv. 657477-01 afferma che tale articolo «impone al giudice soltanto l’obbligo, prima di pronunciare il proprio giudizio sulla sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione, di compiere le valutazioni ivi elencate e, in particolare, di stabilire se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili. Da ciò consegue che:

a) la norma non potrà mai dirsi violata sol perché il giudice del merito abbia ritenuto inattendibile un racconto o inveritiero un fatto;

b) non sussiste un diritto dello straniero ad essere creduto sol perché abbia presentato la domanda di asilo il prima possibile o abbia fornito un racconto circostanziato;

c) il giudice è libero di credere o non credere a quanto riferito secondo il suo prudente apprezzamento che, in quanto tale, non è sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato».

Sez. 3, n. 21929/2020, Rossetti, Rv.659031-01 afferma, inoltre, che, in tema di protezione internazionale, l’inattendibilità dei fatti narrati dal richiedente è preclusiva di ogni forma di protezione ove cada sulla sua provenienza geografica o sulla sua stessa identità. Quando, per contro, tale inattendibilità investa il vissuto posto a fondamento della domanda di protezione, essa potrà giustificarne il rigetto solo a condizione che il rimpatrio non debba avvenire verso paesi nei quali siano esposte a rischio la vita o l’incolumità fisica del medesimo richiedente; in tal caso, infatti, il principio sovranazionale del “non refoulement”, di cui all’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, impedirebbe il respingimento anche del richiedente non attendibile, salvo che egli costituisca un pericolo per la sicurezza del paese ospitante o una minaccia per la collettività, ai sensi del comma 2 del citato art. 33.

Sez. 1, n. 29624/2020, Fidanzia, Rv. 660128-01, afferma che se è vero che il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari deve essere il frutto di autonoma valutazione avente ad oggetto l’esistenza delle condizioni di vulnerabilità che ne integrano i requisiti, non potendo il diniego automaticamente conseguire dal rigetto delle domande di protezione internazionale, tuttavia, la necessità dell’approfondimento da parte del giudice di merito non sussiste se, già esclusa la credibilità del richiedente, non siano state dedotte ragioni di vulnerabilità diverse da quelle dedotte per le protezioni maggiori.

Attiene sempre alla valutazione di credibilità, sia pure su temi specifici, Sez. 1 n. 5225/2020, Oliva, Rv. 657002-01, che esclude che possa rientrare nell’ambito della valutazione di credibilità il sindacato sul percorso individuale che il richiedente abbia seguito per abbracciare un determinato credo, nonché il livello di conoscenza dei relativi riti, fondato sul grado delle conoscenze teologiche, poiché la «mutevolezza delle modalità dell’atteggiarsi della fede personale rende il concetto stesso di conoscenza delle pratiche religiose di un determinato culto estremamente vago e, come tale, non idoneo a fondare alcun giudizio oggettivamente apprezzabile». Sulla stessa linea si pone Sez.1, n. 15219/2020, Rv. 658252-01, che, specificando tale principio, afferma che in un contesto di ravvisata discriminazione religiosa nel paese di origine, non può essere dato rilievo, ai fini di escludere l’attendibilità della storia personale riferita dal richiedente, al fatto che costui abbia comunque scelto di professare il suo credo o di fare proselitismo, posto che tali attività rientrano nell’ambito della libera esplicazione della personalità umana.

Sez. 2, n. 20385/2020, Varrone, Rv. 659190-01, in un caso in cui il giudice di merito aveva riconosciuto la protezione umanitaria ad un richiedente per ragioni di persecuzione nel paese di origine legate alla sua omosessualità, affermando che, stante l’impossibilità di provare tale condizione, non era possibile sindacare la veridicità del racconto in quanto relativo alla sfera sessuale, ha invece affermato che, ove tali dichiarazioni non siano suffragate da prove, il giudice deve comunque sottoporle ad un controllo di coerenza interna ed esterna e ad una verifica di credibilità razionale, determinandosi altrimenti, la violazione dell’art. 3, comma 5 del d. lgs. n. 251 del 2007. Sempre in tema di credibilità delle dichiarazioni rese da un richiedente sul proprio orientamento sessuale, Sez. 1 n. 23891/2020, Dolmetta, Rv. 659279-01, riconfermandone la necessità di verifica ai sensi dell’art. 3, comma 5 del d. lgs. sopra citato, precisa che, «pur considerando l’innegabile margine di discrezionalità che connota tale valutazione, il giudice non può motivarla mediante il richiamo a giudizi che riflettono le sue opinioni o che siano il frutto di sue impressioni o suggestioni». Nella specie, il giudice aveva basato il giudizio di non credibilità del racconto del richiedente dichiaratosi omosessuale, sulla circostanza della mancata dimostrazione da parte sua «di un percorso di consapevolezza sofferta della propria condizione, nonché della mancata instaurazione in Italia di rapporti omosessuali». Sulla stessa linea Sez. 1, n. 09815/2020, Russo, Rv. 657835-01 che afferma che, ove quale ragione di persecuzione sia allegato il proprio orientamento sessuale, la valutazione di credibilità non può fondarsi su nozioni stereotipate associate all’omosessualità ed in particolare sulla mancata risposta a domande relative a tali nozioni, quali quelle concernenti la conoscenza di associazioni per la difesa dei diritti degli omosessuali. Nello stesso senso anche Sez. 1, n. 13944/2020, Tria, Rv. 658241-01 che specifica che il giudice in motivazione deve argomentare sulla valutazione di credibilità in modo idoneo a rivelarne la ratio decidendi.

Un profilo particolare, è quello posto in evidenza da Sez. 1, n. 29943/2020, Oliva, Rv. 660199 - 02, quanto ai criteri da seguire per la valutazione di credibilità di una donna che abbia subito violenza di genere. In tale caso, afferma la pronuncia, le mancate risposte della richiedente, possono tradursi in un indizio di scarsa attendibilità del suo narrato, solo nel caso in cui il giudice di merito le abbia posto specifiche domande a chiarimento della storia, alle quali ella non sia stata in grado di rispondere, domande che devono essere contenute negli stretti limiti delle esigenze istruttorie, non potendosi, in caso contrario, richiedere alla vittima un onere di specificazione che finirebbe per tradursi in una sua ulteriore sottoposizione ad una forma di violenza psicologica.

Quanto alla ricorribilità per cassazione della valutazione relativa alla credibilità, la giurisprudenza del 2020, sulla linea di quella del 2019 (Sez. 1, n. 03340/2019, Schirò, Rv. 652549-01 e Sez. 1, n. 21142/2019, M. Di Marzio, Rv. 654674-01) è conforme nel ritenere che tale valutazione è censurabile solo ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., restando esclusa la possibilità di impugnazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. per violazione di norme di legge. In tal senso Sez. 3, n. 11925/2020, cit., Sez. 1, n. 13578/2020, Vella, Rv. 658237-01, Sez. 1 n. 28782/20, Rossetti, Rv. 654674-01.

1.13. I rapporti tra la valutazione di credibilità ed il dovere del giudice di cooperazione istruttoria.

Una delle questioni interpretative più controverse in giurisprudenza è quella delle ricadute della valutazione negativa di credibilità sul dovere officioso di cooperazione istruttoria del giudice. Una prima linea interpretativa della giurisprudenza di legittimità, che sino al 2020 non ha visto pronunce contrastanti (Sez. 6-1-, n. 16925/2018, Acierno, Rv. 649607-01, Sez 6-1, n. 28862/2018, Terrusi, Rv. 651501-01, Sez. 1, n. 15794/2019, M. Di Marzio, Rv. 654624-01, Sez. 1, n. 33858/2019, Sambito, Rv. 656566-01, Sez. 2, n. 08367/2020, F. Manna, Rv. 657595-02, Sez. 3, n. 11924/2020, Vincenti, Rv. 658163-01, Sez. 2 n. 16925/2020, Bellini, Rv. 658940-01, Sez. 1 n. 24575/2020, Scotti, Rv. 659573-01), afferma che il dovere di cooperazione istruttoria non sorge in presenza di dichiarazioni intrinsecamente inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva, di talché il giudice di merito deve anzitutto accertare la credibilità soggettiva della versione del richiedente asilo circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona e, qualora giudichi le dichiarazioni inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al cit. art. 3, non deve procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria del Paese d’origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori. Come afferma, infatti, Sez. 1 n. 24575/2020, cit., «il controllo sulla credibilità estrinseca, come desumibile dalla concordanza tra le dichiarazioni ed il quadro culturale, sociale, religioso e politico del paese di provenienza, desumibile dalla consultazione di fonti internazionali meritevoli di credito, assolverebbe alla funzione meramente teorica di accreditare la mera possibilità astratta di eventi non provati riferiti in modo assolutamente non convincente dal richiedente».

Tuttavia, il presupposto di tali pronunce, rappresentato dalla necessità che la valutazione di credibilità preceda, comunque, eventuali approfondimenti istruttori, è stato messo in dubbio dalla recente Sez. 3, n. 08819/2020, Travaglino, Rv. 657916-04, che afferma «che il giudice, prima di decidere la domanda nel merito, deve assolvere all’obbligo di cooperazione istruttoria, che non può essere di per sé escluso sulla base di qualsiasi valutazione preliminare di non credibilità della narrazione del richiedente asilo, dal momento che, anteriormente all’adempimento di tale obbligo, egli non può conoscere e apprezzare correttamente la reale e attuale situazione dello Stato di provenienza e, pertanto, in questa fase, la menzionata valutazione non può che limitarsi alle affermazioni circa il Paese di origine. Ne consegue che solo ove queste ultime risultino immediatamente false, oppure la ricorrenza dei presupposti della tutela invocata possa essere negata in virtù del notorio, l’obbligo di cooperazione istruttoria verrà meno; alle stesse conclusioni, inoltre, dovrà giungersi qualora la difesa del ricorrente non esponga fatti storici idonei a rendere possibile l’esame della domanda, ovvero rinunci espressamente e motivatamente ad una delle possibili forme di protezione». La medesima pronuncia precisa poi (Rv. 657916-02) che ancorchè l’obbligo del giudice di cooperazione istruttoria non sorga per il solo fatto che sia stata proposta domanda di protezione internazionale, tuttavia, tale adempimento non può essere escluso solo perché, in base agli indicatori di credibilità soggettiva forniti dall’art. 3 del d.lgs. n. 251 del 2007, le dichiarazioni della parte risultino intrinsecamente inattendibili, poiché, in questo modo, la valutazione di credibilità non atterrebbe più alla prova, ma diverrebbe una condizione di ammissibilità o un presupposto del riconoscimento del diritto o, comunque, si risolverebbe in un giudizio sulla lealtà processuale. Sulla stessa linea Sez. 3, n. 24010/2020, Di Florio, Rv. 659524-01 che afferma che «il dovere di cooperazione istruttoria del giudice, una volta assolto, da parte del richiedente asilo, il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale che evidenzi aspetti contraddittori idonei a metterne in discussione la credibilità, poiché è finalizzato al necessario chiarimento di realtà e vicende che presentano una peculiare diversità rispetto a quelle di altri Paesi e che, solo attraverso informazioni acquisite da fonti affidabili, riescono a dare una logica spiegazione alla narrazione. Ne consegue che, in tale fase, prodromica alla decisione di merito, la valutazione di credibilità impeditiva dell’adempimento del detto dovere dovrà limitarsi alle affermazioni circa il Paese di provenienza, venendo meno il menzionato obbligo di cooperazione pure nei casi di evidente contrasto fra le vicende narrate ed i fatti notori riguardanti il Paese in questione, che faccia categoricamente escludere l’esistenza dei presupposti di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 251 del 2007».

1.14. La correlazione tra il giudizio di credibilità effettuato in relazione alle situazioni dedotte a sostegno del riconoscimento delle protezioni maggiori ed il riconoscimento dei presupposti per la protezione umanitaria.

Il primo orientamento illustrato al paragrafo che precede, inaugurato da Sez. 6-1, n. 16925/2018, cit. affermato in relazione alla protezione internazionale, era già stato posto in dubbio nel caso di valutazione dei risvolti del giudizio di non credibilità sui fatti allegati per le protezioni maggiori sui presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria. Al riguardo, infatti, Sez. 1, n. 10922/2019, Federico, Rv. 653474-01, aveva affermato che il giudizio di scarsa credibilità del ricorrente in relazione alla specifica situazione dedotta a sostegno della domanda di protezione internazionale, non può precludere la valutazione, da parte del giudice, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, delle diverse circostanze che concretizzino una situazione di vulnerabilità, da effettuarsi su base oggettiva e, se necessario, previa integrazione anche officiosa delle allegazioni del ricorrente, in applicazione del principio di cooperazione istruttoria, in quanto il riconoscimento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, deve essere frutto di valutazione autonoma non potendo conseguire automaticamente al rigetto delle altre domande di protezione internazionale, attesa la strutturale diversità dei relativi presupposti. In senso conforme a tale pronuncia si segnalano le più recenti Sez. 1, n. 08020/2020, Ghinoy, Rv. 657498-01 e Sez. 1, n. 07985/2020, Acierno Rv. 657565-01. Quest’ultima, in particolare, discostandosi da Sez. 1, n. 11267/19, Scalia, Rv. 653478-01, secondo cui il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie deve essere frutto di valutazione autonoma in relazione ad una condizione di vulnerabilità in capo al richiedente, assumendo al riguardo rilievo, in assenza di prove del racconto dell’interessato ed in difetto di sollecitazioni ad acquisizioni documentali, quantomeno la credibilità soggettiva del medesimo, ribadisce come il difetto di intrinseca credibilità sulla vicenda individuale e sulle deduzioni ed allegazioni relative al rifugio politico ed alla protezione sussidiaria, non umanitario estenda i suoi effetti anche alla domanda riguardante il permesso umanitario. Ciò in quanto tale domanda è soggetta ad oneri allegativi e deduttivi in parte diversi, che richiedono un esame autonomo delle condizioni di vulnerabilità, dovendo il giudice attivare, anche su tale domanda, ove non genericamente proposta, il proprio dovere di cooperazione istruttoria.

1.15. Gli oneri di allegazione del richiedente, il rapporto tra valutazione di credibilità e dovere officioso di cooperazione istruttoria nell’ipotesi di protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007.

Deve qui essere segnalato che, in tema di onere di allegazione del richiedente, sulla correlazione tra il giudizio di credibilità della narrazione del richiedente e i doveri istruttori officiosi del giudice, la giurisprudenza della S.C. si era mostrata divisa, in particolare, con riguardo all’ipotesi di protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007 («minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale»).

Sino a tutto il 2018 la prevalente interpretazione giurisprudenziale di legittimità aveva ritenuto che, mentre i presupposti per il rifugio politico e per le ipotesi di protezione sussidiaria di cui alle lett. a) e b) sono connotate dalla necessità che si fornisca una prova legata indispensabilmente alle ricadute soggettive delle condizioni del Paese di provenienza, tale stretta correlazione, nell’ipotesi di cui all’art. 14, lett. c), può non sussistere nel caso in cui «il grado di violenza indiscriminata, che caratterizza il conflitto armato in corso, valutato dalle autorità nazionali competenti, raggiunga un livello così elevato da far ritenere presumibile che il rientro dello straniero nel proprio Paese lo possa sottoporre, per la sua sola presenza sul territorio, al rischio di subire concretamente tale minaccia» (così Sez. 6-1, n. 25083/2017, De Chiara, Rv. 647042 - 01). Pertanto, il potere-dovere di indagine di ufficio del giudice circa la situazione generale esistente nel paese di origine del richiedente (che va esercitato dando conto, nel provvedimento emesso, delle fonti informative attinte in modo da verificarne l’aggiornamento) non trova ostacolo nella non credibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente stesso riguardo alla propria vicenda personale, sempre che il giudizio di non credibilità non investa il fatto stesso della provenienza dell’istante dall’area geografica interessata alla violenza indiscriminata che fonda forme di protezione.

Proprio partendo da tali considerazioni Sez. 1, n. 14283/2019, Falabella, Rv. 654168-01 aveva affermato che « il potere-dovere di indagine d’ufficio del giudice circa la situazione generale esistente nel paese d’origine del richiedente, non trova ostacolo nella non credibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente stesso riguardo alla propria vicenda personale, sempre che il giudizio di non credibilità non investa il fatto stesso della provenienza dell’istante dall’area geografica interessata alla violenza indiscriminata che fonda tale forma di protezione».

In senso difforme, tuttavia, Sez. 6-1 n. 04892/2019, Lamorgese, Rv. 652755-01 (alla quale ha fatto seguito in termini Sez. 1, n. 15794/2019, M. Di Marzio, Rv. 654624- 02 e Sez. 1, n. 17174/2019, Tria, Rv. 654654-01) aveva ritenuto, invece, che la valutazione di inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente, alla stregua degli indicatori di cui all’art. 3 d.lgs. n. 251 del 2007, impedisce di procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, anche nel caso di cui all’art. 14, lett. c).

Secondo questa diversa esegesi, il disposto dell’art. 3 del d.lgs. n. 251/2007 finirebbe per essere irrilevante mentre la valutazione della generale attendibilità del richiedente è prevista dalla legge come centrale per l’assolvimento dell’onere di “cooperazione” previsto a suo carico, sul quale solo è possibile innestare il dovere di cooperazione, non di sostituzione istruttoria del giudice nell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale.

Sul punto, si registrano nel 2020 diverse pronunce, a partire da Sez. 1, n. 10286/2020, Scotti, Rv. 657711-01 (conf. Sez. 1, n. 14283/2019, cit.), che afferma che «il principio in virtù del quale, quando le dichiarazioni dello straniero sono inattendibili non è necessario un approfondimento istruttorio officioso, se è applicabile ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello “status” di rifugiato o di quelli per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. a) e b) del d.lgs. n. 251 del 2007, non può invece essere invocato nell’ipotesi di cui all’art. 14, lett. c), del medesimo decreto, poiché in quest’ultimo caso il dovere del giudice di cooperazione istruttoria sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione non credibile dei fatti attinenti alla vicenda personale del richiedente, purché egli abbia assolto il proprio dovere di allegazione». Spiega, infatti, Sez. 1, n. 13940/2020, Tria, Rv. 658384-02 che lo straniero che chiede il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007 non ha l’onere di presentare, tra gli elementi e i documenti necessari a motivare la domanda (art. 3, comma 1, del d.lgs. cit.), quelli che si riferiscono alla sua storia personale, salvo quanto sia indispensabile per verificare il Paese o la regione di provenienza, perché, a differenza delle altre forme di protezione, in quest’ipotesi non rileva alcuna personalizzazione del rischio, sicché, una volta che il richiedente abbia offerto gli elementi utili alla decisione, relativi alla situazione nello Stato o nella regione di origine, il giudice deve accertare anche d’ufficio se effettivamente in quel territorio la violenza indiscriminata in presenza di conflitto armato sia di intensità tale da far rischiare a chiunque vi si trovi di subire una minaccia grave alla vita o alla persona, senza che alcuna valutazione di non credibilità, che non riguardi l’indicazione dello Stato o regione di provenienza, possa essere di ostacolo a tale accertamento.

In senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 1 n. 14350/2020, Scordamaglia, Rv. 658256-01, Sez. 1 n. 16122/2020, Acierno, Rv. 658561-01 e Sez. 1, n. 19224/2020, Acierno, Rv. 658819-02. Così, inoltre, sembra desumersi anche da quanto affermato da Sez. 3, n. 11936/2020, Rossetti, Rv. 658019-01, argomentando “a contrario” rispetto alle diverse ipotesi di cui all’art. 14, lett. a) e lett. b).

D’altra parte, Sez. 3, n. 08819/2020, Travaglino, Rv. 657916-03, estende anche alla protezione sussidiaria i principi sopra riportati in tema di rapporto tra l’attività di cooperazione istruttoria e la valutazione di credibilità, affermando che «la protezione sussidiaria, disciplinata dall’art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, ha come presupposto la presenza, nel Paese di origine, di una minaccia grave e individuale alla persona, derivante da violenza indiscriminata in una situazione di conflitto armato, il cui accertamento, condotto d’ufficio dal giudice in adempimento dell’obbligo di cooperazione istruttoria, deve precedere, e non seguire, qualsiasi valutazione sulla credibilità del richiedente, salvo che il giudizio di non credibilità non riguardi le affermazioni circa lo Stato di provenienza le quali, ove risultassero false, renderebbero inutile tale accertamento».

1.16. La procura alle liti per il ricorso per cassazione.

Ai sensi dell’art. art. 35-bis, comma 13 del d. lgs. n. 25 del 2008, in materia di protezione internazionale, la procura speciale alle liti per il ricorso per cassazione «deve essere conferita, a pena di inammissibilità del ricorso, in data successiva alla comunicazione del decreto impugnato, a tal fine il difensore certifica la data di rilascio della procura in suo favore». Le prime pronunce sul tema sottolineano il rigore con il quale la S.C. interpreta tale principio, ritenendo sempre necessaria l’espressa dichiarazione del difensore in ordine alla data di rilascio della procura, non desumibile da altri elementi. In tal senso Sez. 1, n. 01043/2020, Ferro, Rv. 656872-01 afferma che la posteriorità della procura rispetto alla comunicazione del decreto impugnato debba essere certificata esclusivamente dal difensore, «titolare di una speciale potestà assertiva ex lege, con la conseguenza che non è stata rispondente ai requisiti di cui all’art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. cit. la procura apposta a margine dell’atto che non indichi la data in cui è stata conferita, non assolvendo alla funzione certificatoria del difensore la sola autentica della firma, né potendo il citato requisito discendere dalla mera inerenza all’atto steso a fianco della sequenza notificatoria». Né, come afferma Sez. 1, n. 27232/2020, Amatore, Rv. 659975-01, in un caso analogo, “la certificazione postuma” da parte del difensore, intervenuta solo in sede di deposito della memoria integrativa, successivamente alla comunicazione del decreto impugnato, vale a sanare tale vizio, poiché la certificazione deve intervenire contestualmente all’atto del rilascio della procura speciale, venendo altrimenti meno la funzione certificatoria dell’attestazione. Dichiarano inammissibile il ricorso per la mancanza dell’apposita certificazione del difensore, ma in relazione ad una fattispecie in cui la procura speciale era stata rilasciata su un foglio separato e materialmente congiunto all’atto, Sez. 6-1, n. 02342/2020, Pazzi, Rv. 656643-01, alla quale hanno fatto seguito Sez. 6-1, n. 19164/2020, Falabella, Rv. 659141-01 e Sez. 1, n. 25447/2020, Ferro, Rv. 659736-01. Così pure Sez. 1, n. 20075/2020, Solaini, Rv. 659024-01 che si riferisce al caso di procura rilasciata dal ricorrente al difensore, redatta su foglio separato congiunto al ricorso e riferita genericamente “al procedimento in ogni sua fase e grado, compreso l’eventuale appello e opposizione”.

Sez. 1, n. 15211/2020, Oliva, Rv. 658251-01 dichiara inammissibile il ricorso in un caso in cui la procura ad esso relativa, ancorché rilasciata su un foglio materialmente congiunto al medesimo ricorso e recante una data successiva al deposito del decreto impugnato, «non indicava gli estremi di tale provvedimento, né altri elementi idonei ad identificarlo, come il numero cronologico ovvero la data del deposito o della comunicazione, poiché tale procura non soddisfa il requisito della specialità richiesto dall’art. 365 c.p.c.»

Riguarda, invece, il diverso caso di procura speciale rilasciata su foglio separato e non congiunto materialmente all’atto, priva della certificazione della specifica data di rilascio, Sez. 6-1, n. 12083/2020, Pazzi, Rv. 658209-01.

Deve essere segnalato che Sez. 2, n. 28208/2020, Oricchio, con ordinanza interlocutoria ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle S.U., la questione di massima particolare importanza: «se, in tema di protezione internazionale, pur essendo riportata la data della procura ad litem, la volontà certificativa del difensore, per quanto la sua autenticazione sia riferita alla sola sottoscrizione del richiedente - con espressioni del tipo “è vera la firma” o “per autentica di sottoscrizione” o altre equipollenti -, possa estendersi anche oltre quanto espressamente dichiarato e, quindi, alla data del rilascio ».

1.17. Casi di improcedibilità del ricorso per cassazione.

In tema di ricorso per cassazione, Sez. 1 n. 14839/2020, Ferro, Rv. 658390-01 afferma che il ricorrente che agisca ai sensi dell’art. 35 bis del d.lgs. n. 25 del 2008 è tenuto ad allegare l’avvenuta comunicazione del decreto impugnato (o la mancata esecuzione di tale adempimento), producendo, a pena d’improcedibilità, copia autentica del provvedimento unitamente alla relazione di comunicazione, munita di attestazione di conformità delle ricevute PEC, fermo restando che il mancato deposito di tale relazione é irrilevante non solo nel caso in cui il ricorso sia comunque notificato entro trenta giorni dalla pubblicazione del decreto (cd. prova di resistenza), ma anche quando essa risulti comunque nella disponibilità della Corte di cassazione, perché prodotta dalla parte controricorrente ovvero acquisita a seguito dell’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio, sempre che l’acquisizione sia stata in concreto effettuata e che da essa risulti l’avvenuta comunicazione, non spettando alla Corte attivarsi per supplire, attraverso tale via, all’inosservanza della parte al precetto posto dall’art. 369, comma 2, c.p.c.

1.18. Ricorso straordinario per cassazione: la pronuncia di rigetto dell’istanza di sospensiva dell’esecutività del decreto del tribunale.

Sez. 1, n. 11756/2020, Acierno, Rv. 657955-01, afferma che la S.C. non è competente a pronunciarsi sull’istanza di sospensiva dell’esecutività del provvedimento impugnato, poiché l’art. 35 del d.lgs. n. 25 del 2008 attribuisce tale potere in via esclusiva al giudice che ha adottato il provvedimento impugnato, come già previsto in via generale dall’art. 373, comma 1, c.p.c.; né davanti al giudice di legittimità può essere impugnato il rigetto dell’istanza di sospensiva pronunciato dal giudice di merito, trattandosi di provvedimento non definitivo a contenuto cautelare, in relazione al quale è inammissibile il ricorso straordinario ex art. 111 Cost.

In senso conforme si esprime anche Sez. 1 n. 18801/2020, Solaini, Rv. 658814-01.

1.19. Ammissione al patrocinio a spese dello Stato e raddoppio del contributo unificato.

Diverse pronunce hanno avuto ad oggetto la questione della revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio in tema di protezione internazionale, affermando che anche in tale materia l’istituto è regolato dal principio generale per cui costituisce motivo di revoca dell’ammissione, sia l’avere agito o resistito in giudizio con dolo o colpa grave, sia la rivalutazione giudiziale dell’iniziale giudizio prognostico sulla manifesta infondatezza della pretesa. La specifica previsione di cui all’art. 35 bis, comma 17, del d.lgs. n. 25 del 2008 va intesa, pertanto, nel senso che è da ritenere sufficiente, ai fini della revoca, il richiamo operato dal giudice del merito alle ragioni dell’infondatezza della domanda. (Sez. 6-2, n. 20002/2020, Scarpa, Rv. 659224-01 e, in senso conforme, Sez. 6-2, n. 27203/2020, Grasso, Rv. 659909-01).

Sez. 6-2, n. 07785/2020, Cosentino, Rv. 657578-01, precisa, tuttavia, che il rigetto della domanda di protezione internazionale non implica automaticamente la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, la quale postula l’accertamento del presupposto della colpa grave nella proposizione dell’azione, valutazione diversa ed autonoma rispetto a quella afferente alla fondatezza del merito della domanda.

Poiché il ricorrente, nei giudizi di protezione internazionale, è sempre ammesso al patrocinio a spese dello Stato, deve darsi conto del contrasto che si era creato tra Sez. 1, n. 09660/2019, Terrusi, Rv. 653689-01 (alla quale in senso conforme ha fatto seguito Sez. 1 n. 27867/2019, Terrusi, Rv. 655780-01) - secondo cui il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (derivante dal rigetto, dalla dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità dell’impugnazione), ha natura di obbligazione tributaria ex lege, con la conseguenza che il relativo provvedimento della S.C. ha natura meramente ricognitiva, essendo irrilevante l’eventuale ammissione della parte al patrocinio a spese dello Stato, trattandosi di circostanza che preclude l’esperimento di un’azione di recupero e consistendo l’esecuzione del provvedimento giurisdizionale nella mera annotazione, a cura della cancelleria, dell’importo nel foglio notizie e nel registro di cui agli artt. 280 e 161 del d.P.R. n. 115 del 2002- e la consolidata precedente giurisprudenza (Sez. 5, n. 22646/2019, D’Aquino, Rv. 655049-01, Sez. 1, n. 9538/2017, Vincenti, Rv. 643826-01; Sez. 1, n. 07368/2017, L. Napolitano, Rv. 643484-01, Sez. 1, n. 13935/2017, Cinque, Rv. 644533-01; Sez. 1, n. 18523/2014, Ghinoy, Rv. 632638-01, secondo cui, nell’ipotesi di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, il rigetto dell’impugnazione precluderebbe la condanna al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, stante la prenotazione a debito in ragione dell’ammissione al predetto beneficio. Sez. U, n. 04315/2020, Lombardo, Rv. 657198-02, Rv. 657198-03, Rv. 657198-04, Rv. 657198-05, Rv. 657198-06, hanno risolto il contrasto nel senso che «l’ulteriore importo del contributo unificato (cd. doppio contributo) che la parte impugnante è obbligata a versare allorquando ricorrano i presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, ha natura di debito tributario, in quanto partecipa della natura del contributo unificato iniziale ed è volto a ristorare l’Amministrazione della giustizia dei costi sopportati per la trattazione della controversia; ne consegue che la questione circa la sua debenza è estranea alla cognizione della giurisdizione civile ordinaria, spettando invece alla giurisdizione del giudice tributario» (Rv. 657198-02). Pertanto, il giudice dell’impugnazione che emetta una delle pronunce previste dal cit. art. 13, comma 1-quater e che è tenuto ad attestare la sussistenza del presupposto processuale per il versamento dell’ulteriore importo quando la pronuncia adottata è inquadrabile nei tipi previsti dalla norma (integrale rigetto, inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) può condizionare detta attestazione «all’effettiva debenza del contributo unificato iniziale, che spetta all’Amministrazione giudiziaria accertare, tenendo conto di cause di esenzione o di prenotazione a debito, originarie o sopravvenute, e del loro eventuale venir meno» (Rv. 657198-05).

2. I presupposti del riconoscimento dello status di rifugiato.

In tema di rifugio politico Sez. 1 n. 08230/2020, Ghinoy, Rv. 657585-01 e Sez. 1, n. 29621/2020, Falabella, Rv. 660152-01, ribadiscono il principio, già affermato dalla costante giurisprudenza (v. da ultimo Sez. 1, n. 13088/2019, Scotti, Rv. 653884-01) in virtù del quale, poiché il d.lgs. n. 251 del 2007 si è avvalso ( prima delle modifiche introdotte dal d.l. n. 113 del 2018) della facoltà prevista dall’art. 8 della direttiva 2004/83/CE di non escludere dalla protezione il richiedente straniero, quando il rischio di persecuzione o di danno grave sia limitato a determinate regioni o aree del Paese di origine e appaia ragionevolmente possibile il trasferimento in altre regioni o aree sicure, per valutare la sussistenza delle ragioni ostative al rimpatrio, occorre avere riguardo alla zona del Paese in cui il richiedente potrebbe effettivamente fare ritorno, avuto riguardo alla sua origine o ai suoi riferimenti familiari e sociali, mentre qualora il predetto abbia vissuto in più regioni, occorre effettuare un giudizio comparativo che privilegi il territorio di maggiore radicamento al momento dell’eventuale rimpatrio.

La casistica relativa ai presupposti per il riconoscimento del rifugio politico ha riguardato diversi ambiti. Sez. 1, n. 18803/2020, Oliva, Rv. 658815-01 in tema di violenza di genere, afferma che tale violenza, “al pari di quella contro l’infanzia”, non può essere ricondotta alla categoria del “fatto meramente privato”, poiché essa costituisce una delle fattispecie espressamente previste dall’art. 7, comma 2 del d. lgs. n. 251 del 2007 ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, sia con riferimento agli “atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale” (cfr. lett. a), che con riguardo, in generale, agli “atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia”( cfr. lett. f). Quanto alla persecuzione a sfondo religioso, Sez. 3, n. 08573/2020, Di Florio, Rv. 657778-01, conformemente a Sez. 1, n. 28974/2019, Oliva, Rv. 655565-01, ha affermato che, quando il richiedente asilo alleghi il timore di essere soggetto nel suo Paese di origine a tale tipo di persecuzione o comunque ad un trattamento inumano o degradante fondato su motivazioni a sfondo religioso, il giudice deve effettuare una valutazione sulla situazione interna del Paese di origine, indagando espressamente l’esistenza di fenomeni di tensione a contenuto religioso, senza che, in direzione contraria, assuma decisiva rilevanza il fatto che il richiedente non si sia rivolto alle autorità locali o statuali per invocare tutela, potendo tale scelta derivare, in concreto, proprio dal timore di essere assoggettato ad ulteriori trattamenti persecutori o umanamente degradanti.

Sez. 1, n. 06879/2020, Pacilli, Rv. 657476-01, identifica nella riduzione in stato di schiavitù derivante da soggetti non statuali una situazione di minaccia di danno grave alla persona o di persecuzione, rilevante ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, che impone al giudice di verificare in concreto se lo Stato di origine sia in grado di offrire alla persona minacciata adeguata protezione (nella specie la S.C. ha ritenuto rilevante la narrazione del richiedente che aveva riferito di essere fuggito dal Paese di origine perché costretto al lavoro fin da piccolo da soggetti privati e di temere, in caso di rimpatrio, di essere rintracciato dalle stesse persone e costretto nuovamente a lavorare per ripagare un debito del padre). Nello stesso senso Sez. 2, n. 17186/2020, Oliva, Rv. 658967-01, che precisa che non può attribuirsi alcun rilievo alla liceità o tolleranza di quel trattamento nel Paese di provenienza del richiedente, poiché altrimenti si vanificherebbe l’essenza stessa della tutela internazionale, che è proprio quella di assicurare al richiedente, in fuga dal proprio Paese, la tutela dei suoi diritti inalienabili di persona, tra i quali certamente rientra quello alla libertà personale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione gravata che aveva rigettato l’istanza del richiedente, il quale deduceva di essere fuggito dal Mali perché trattato come schiavo nel suo villaggio, qualificando gli eventi posti a fondamento dell’istanza come fatti di rilevo locale correlati ad usanze tribali). Ha dato rilievo quale presupposto per il riconoscimento della protezione internazionale, al pericolo di riduzione in schiavitù per il trattamento destinato nel paese di origine del richiedente a chi si trovi in condizioni di insolvenza Sez. 1, n. 29142/2020, Bellè, Rv. 660124 - 01, che ha precisato che tale pericolo nulla ha a che vedere con la migrazione per motivi economici riconducibile al caso in cui l’espatrio sia esclusivamente connesso alla ricerca di una migliore condizione di vita.

È andata arricchendosi nel corso del 2020 la giurisprudenza in tema di persecuzione a causa dell’orientamento sessuale del richiedente. Tale condizione costituisce fattore di individuazione del “particolare gruppo sociale” la cui appartenenza, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 251 del 2007, integra ex se una situazione di oggettiva persecuzione idonea a fondare il riconoscimento dello status di rifugiato, sussistendo tale situazione quando le persone di orientamento omosessuale sono costrette a violare la legge penale del loro Paese e ad esporsi a gravi sanzioni per poter vivere liberamente la propria sessualità: la circostanza per cui l’omosessualità sia considerata un reato dall’ordinamento giuridico del Paese di provenienza costituisce, di per sé, una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini omosessuali, che compromette grandemente la loro libertà personale e li pone in una situazione oggettiva di persecuzione, tale da giustificare la concessione della protezione richiesta (vedi nell’anno appena trascorso Sez. 1, n. 11172/2020, Caradonna, Rv. 657909-01; Sez. 1, n. 07438/2020, Scotti, Rv. 657482-01). Tuttavia, per Sez. 1, n. 09815/2020, Russo, Rv. 657835-01, il mero fatto di qualificare come reato gli atti omosessuali non costituisce, di per sé, un atto di persecuzione, mentre una pena detentiva che sanzioni taluni atti omosessuali e che effettivamente trovi applicazione nel Paese d’origine deve essere considerata sanzione sproporzionata o discriminatoria, costituendo pertanto atto di persecuzione, come pure accade in caso di legislazione non esplicitamente omofoba, quando il soggetto è esposto a gravissime minacce provenienti da agenti privati senza che lo Stato sia in grado di proteggerlo.

In ogni caso, l’allegazione da parte dello straniero della propria condizione di omosessualità impone al giudice di porsi in una prospettiva dinamica e non statica (Sez. 1, n. 09815/2020, cit.), nel senso che ha il dovere di accertare se lo Stato di provenienza non possa o non voglia offrire adeguata protezione alla persona omosessuale, ex art. 5, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, e dunque se, considerata la concreta situazione del richiedente e la sua particolare condizione personale, questi possa subire, a causa del suo orientamento sessuale, ex art. 8, lett. d), del d.lgs. n. 251 del 2007, una minaccia grave ed individuale alla propria vita o alla persona (Sez. 1, n. 11172/2020, cit.)

Quanto alle modalità di raccolta delle dichiarazioni dell’asilante sul proprio orientamento sessuale, Sez. 1, n. 09815/2020, cit., richiede la presenza di un intervistatore competente senza esigere il ricorso ad una perizia, con successiva loro valutazione giudiziale secondo i criteri procedimentali di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 251 del 2007, comparate con C.O.I. aggiornate e pertinenti, potendo essere sufficienti da sole a dimostrare l’appartenenza al gruppo sociale a rischio persecutorio, ovvero la circostanza che nel Paese d’origine il soggetto è stato percepito come tale.

Sez. 2, n. 02097/2020, Gorjan, Rv. 659312-01, quanto all’obiezione di coscienza, conformemente a quanto già ritenuto da Sez. 1 n. 30031/2019, Succio, Rv. 656354-01, afferma che l’interpretazione dell’art. 7, comma 2, lett. e), del d.lgs. n. 251 del 2007, correla la persecuzione alla previsione di sanzioni per il cittadino che si sottrae alla leva obbligatoria solo quando è in atto un conflitto, nel cui ambito si profili la concreta possibilità che il militare sia chiamato a concorrere nella commissione di crimini e violazioni dei diritti umani. Il cittadino straniero, che per tali motivi richieda asilo, ha, pertanto, l’onere di allegare specificamente che il conflitto esistente nelle zone in cui avrebbe presumibilmente espletato il servizio militare è condotto con modalità che implicano violazioni sistematiche dei diritti umani da parte dei militari o comunque l’alta probabilità della commissione di tali violazioni ad opera di questi ultimi.

3. I presupposti del riconoscimento della protezione sussidiaria.

Sez. 3, n. 11936/2020, Rossetti, Rv. 658019-01, nel distinguere l’onere probatorio che grava sul richiedente nelle diverse ipotesi di cui all’art. 14 lett. a) e lett. b), da un lato, e dall’art. 14 lett, c) dall’altro, afferma che, «al fine di ritenere integrate le due fattispecie normative di cui all’art. 14, lettera a) (condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte) e lettera b) (tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante), del d.lgs. n. 251 del 2007, è necessario, diversamente da quanto disposto alla lettera c) del medesimo art. 14, che i rischi ai quali sarebbe esposto il richiedente in caso di rientro in patria siano “effettivi” (come richiesto dall’art. 2, comma 1, lett. g), dello stesso decreto) e, cioè, “individuali” o almeno “individualizzati” e non già configurabili in via meramente ipotetica o di supposizione».

Riguarda i presupposti sia del rifugio che della protezione sussidiaria, Sez. 2, n. 25567/2020, Giannaccari, Rv. 659674-01 secondo cui la circostanza che il cittadino straniero, appartenente ad una minoranza etnica o politica, si astenga dalla partecipazione a manifestazioni o ad altre forme di manifestazioni di dissenso per timore di essere perseguitato o di essere arrestato, non esclude la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, ma costituisce un elemento da valutare ai fini dell’accertamento dell’esistenza, nel paese di provenienza, di discriminazioni e di persecuzioni sulla base dell’etnia e dell’appartenenza politica.

Sez. 1, n. 01359/2020, Marulli, Rv. 658385-01 non esclude che agenti del danno grave per il cittadino straniero possano essere soggetti privati, qualora nel Paese di origine non vi sia un’autorità statale in grado di fornirgli adeguata ed effettiva tutela, con conseguente dovere del giudice di effettuare una verifica officiosa sulla situazione del paese e, quindi, sull’eventuale inutilità di una richiesta di protezione alle autorità locali.

Quanto ai presupposti di cui all’art. 14, lett. b), Sez. 1 n. 1343/2020, Scordamaglia, Rv. 656759-01 afferma che anche gli atti di vendetta e ritorsione minacciati o posti in essere da membri di un gruppo familiare, che si ritiene leso nel proprio onore a causa di una relazione (nella specie, sentimentale) esistente o esistita con un membro della famiglia, sono riconducibili, in quanto lesivi dei diritti fondamentali sanciti in particolare dagli artt. 2, 3 e 29 Cost. e dall’art. 8 CEDU, all’ambito dei trattamenti inumani o degradanti e che è onere del giudice verificare in concreto se, in presenza di minaccia di danno grave ad opera di soggetti non statuali, lo Stato di origine del richiedente sia in grado o meno di offrire al soggetto vittima di tali atti un’adeguata protezione.

Sez. 1, n. 23017/2020, Balsamo, Rv. 659237-01, quanto agli atti di violenza domestica - come intesi dall’art. 3 della Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011, quali limitazioni al godimento dei diritti umani fondamentali - afferma che possono integrare i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, ex art. 14, lett. b) del d.lgs. n. 251 del 2007, in termini di rischio effettivo di “danno grave” per “trattamento inumano o degradante”, qualora risulti che le autorità statuali non contrastino tali condotte o non forniscano protezione contro di esse, essendo frutto di regole consuetudinarie locali.

Afferma che la violenza di genere non può mai essere ridotta a fatto meramente privato e che, quindi, essa può costituire il presupposto sia per la protezione internazionale che per la protezione sussidiaria, Sez. 1, n. 29943/2020, Oliva, Rv. 660199 - 01. Così, secondo Sez. 1, n. 06573/2020, Vella, Rv. 657087-01 può rientrare tra i trattamenti inumani e degradanti la coercizione esercitata mediante minaccia su una persona (donna o uomo) finalizzata a contrarre un matrimonio forzato in base a norme consuetudinarie del Paese d’origine, proveniente anche da soggetti diversi dallo Stato, qualora le autorità pubbliche o le organizzazioni che controllano lo Stato, o una sua parte consistente, non possano o non vogliano fornire protezione adeguata. Tale giurisprudenza, in tema di liti tra privati, fa seguito alla prevalente giurisprudenza degli anni precedenti, che, nelle più diverse fattispecie, ha affermato che la provenienza della persecuzione da parte di soggetti privati, sia pure a determinate condizioni, non potesse escludere la configurabilità del rifugio o della protezione sussidiaria (v. solo per il 2019 Sez. 1, n. 26823/2019, Federico, Rv. 655628-01, e Sez. 1 n. 29836/2019, Parise, Rv. 656267-01 in tema di libertà religiosa dello straniero; Sez. 1, n. 28974/2019, Oliva, Rv. 655565-01, in tema di persecuzione derivante dall’avere ostacolato la pratica dell’infibulazione).

Sez. 1, n. 08930/2020, Scordamaglia, Rv. 657903-01, esclude, invece, non in linea teorica, ma nel caso di specie, la ricorrenza dei presupposti di cui agli artt. 14, lett. a) e b) in un caso in cui era stato dedotto che il danno grave era rappresentato dalla mera difficoltà, allegata dal richiedente, di pagare i suoi creditori nel paese di origine. Tale giurisprudenza si pone in contrasto, tuttavia, con quanto affermato da Sez. 2 n. 19258/2020, Besso Marcheis, Rv. 659126-01, che ha escluso la rilevanza ai fini della concessione della protezione internazionale, di una “fatwa” considerata vicenda privata e con Sez. 2, n. 23281/2020, Manna, Rv. 659378-01, che ha escluso la rilevanza di liti per ragioni proprietarie o familiari. Entrambe le pronunce si riportano alla motivazione di Sez. 6-1, n. 09043/2019, Lamorgese, Rv. 653794-01, che aveva escluso che le liti tra privati potessero essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal d.lgs. n. 251 del 2007, trattandosi, per l’appunto, di “vicende private”, estranee al sistema di protezione internazionale, non rientrando né nelle forme dello status di rifugiato (art. 2, lett. e), né nei casi di protezione sussidiaria (art. 2, lett. g). Ciò in quanto l’art. 5 del cit. decreto individua chi sono - e devono essere - i responsabili della persecuzione o del danno grave, sicché per ricomprendere le c.d. vicende private tra le cause di persecuzione o danno grave, ai fini del riconoscimento della protezione internazionale, occorrerebbe valorizzare oltremisura il riferimento ai «soggetti non statuali» indicati nella lett. c) dell’art. 5. Tuttavia - si argomenta in parte motiva - detti soggetti non statuali sono considerati responsabili della persecuzione o del danno grave solo «se [“può essere dimostrato che…”: cfr. art. 6 della direttiva n. 2004/83/CE] i responsabili di cui alle lett. a), e b) [vale a dire lo Stato e le organizzazioni internazionali] non possono o non vogliono fornire protezione», a fronte di atti persecutori e danno grave non imputabili direttamente ai medesimi «soggetti non statuali», ma pur sempre allo Stato o alle menzionate organizzazioni collettive. Pertanto - si conclude - un’interpretazione che, facendo leva sul generico riferimento del legislatore ai «soggetti non statuali», faccia assurgere le controversie tra privati (o la mancata o inadeguata tutela giurisdizionale offerta dal Paese per la risoluzione delle stesse) a cause idonee e sufficienti a integrare la fattispecie persecutoria o del danno grave, verrebbe a porsi in rotta di collisione con il principio secondo cui «i rischi a cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un paese di norma non costituiscono di per sé una minaccia individuale da definirsi come danno grave» (Considerando 26 della direttiva n. 2004/83/CE).

Quanto all’ipotesi di cui all’art. 14, lett. c), Sez. 2, n. 15317/2020, Lombardo, Rv. 658284-01 conferma il principio già espresso da Sez. 6-1, n. 18306/2019, Sambito, Rv. 654719-01, secondo il quale la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia. Quanto alle cause ostative al riconoscimento della protezione sussidiaria Sez. 1, Tria, n. 01033/2020, Rv. 656757-01 afferma che, ai fini dell’affermazione della sussistenza della causa ostativa, ex art. 10, comma 2, lett. b), e 16, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, alla protezione sussidiaria (o umanitaria) rappresentata dalla commissione da parte del richiedente di un delitto comune (nella specie: omicidio di un parente), il giudice del merito deve fra l’altro tenere conto anche del tipo di trattamento sanzionatorio previsto nel Paese di origine per il reato commesso dal richiedente - anche previo utilizzo dei poteri di accertamento ufficiosi di cui all’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008 - in quanto il rischio di sottoposizione alla pena di morte nel Paese di provenienza o anche il rischio di subire torture o trattamenti inumani o degradanti nelle carceri del proprio paese può avere rilevanza per l’eventuale riconoscimento sia della protezione sussidiaria, in base al combinato disposto dell’art. 2, lett. g), del d.lgs. n. 251 del 2007 con l’art. 14, lett. a) e b) dello stesso d.lgs., sia, in subordine, della protezione umanitaria, in base all’art. 3 CEDU e all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998.

Sempre in tema di cause ostative, Sez. L. n. 26604/2020, Cinque, Rv. 659628-01 afferma, che la commissione di un grave reato all’estero, rilevante, ai sensi degli artt. 10, comma 2, lett. b), e 16, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, quale causa ostativa al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, non può essere ritenuta sussistente sulla base di una mera prospettazione di parte, ma dev’essere concretamente accertata dal giudice, tenuto a verificare, anche previo utilizzo dei poteri di accertamento ufficiosi di cui all’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, da un lato se la contestata violazione di norme di legge nel paese di provenienza provenga dagli organi a ciò istituzionalmente deputati e abbia avuto ad oggetto la legittima reazione dell’ordinamento all’infrazione commessa, non costituendo piuttosto una forma di persecuzione razziale, di genere o politico-religiosa verso il denunciante, dall’altro il tipo di trattamento sanzionatorio previsto nel Paese di origine per il reato commesso dal richiedente, in quanto il rischio di subire torture o trattamenti inumani o degradanti nelle carceri può avere rilevanza per l’eventuale riconoscimento sia della protezione sussidiaria, in base al combinato disposto dell’art. 2, lett. g), del d.lgs. n. 251 del 2007 con l’art. 14, lett. b), dello stesso d.lgs., sia, in subordine, della protezione umanitaria, in base all’art. 3 CEDU e all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998.

Infine, avuto riguardo alla censurabilità in cassazione dell’accertamento della situazione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, di cui all’art. 14, lett. c) del d. lgs, n. 251 del 2007 che sia causa per il richiedente di una sua personale esposizione al rischio di un danno grave, Sez. 2, n. 23942/2020, Rv. 659606-01, afferma che tale vizio implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, censurabile solo nei limiti consentiti dall’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.

4. La protezione umanitaria ed i suoi rapporti con le altre forme di protezione.

Nell’anno che sta per concludersi la S.C. ha dato il suo contributo determinante nel rendere effettivo, secondo la previsione costituzionale di cui all’art. 10 comma 3 Cost., il diritto alla protezione internazionale, in un quadro normativo fortemente instabile.

Gli snodi cruciali che si sono evidenziati nella giurisprudenza di legittimità, impegnata in un continuo dialogo con il giudice di primo grado, si colgono in alcuni dei temi fondanti, soprattutto dopo le recenti modifiche dirette alla ridefinizione della fisionomia della protezione umanitaria in rapporto al d.l.. 4 ottobre 2018, n. 113, conv., con modif., dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132 recentemente rivisitato, in parte, per effetto del d.l. 21 ottobre 2020, n. 130, conv., con modif., dalla legge 18 dicembre 2020, n. 173.

In via di sintesi , la nuova disciplina limita la revoca o il rifiuto del permesso di soggiorno quando ciò sia incompatibile con il diritto costituzionale italiano e gli obblighi internazionali, ossia tenta di risolvere e superare le obiezioni di incostituzionalità e contrasto con i principi di diritto internazionale che erano state mosse all’indomani dell’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari per effetto del citato d.l. n.113 del 2018, richiamando l’art. 10 comma 3 Cost. che riconosce il diritto di asilo.

Come noto, infatti, la disciplina della protezione umanitaria risultava in parte, contenuta nel d.l. n. 113 del 2018, conv. con modif., dalla l. n. 132 del 2018, che aveva rivisitato integralmente la materia del permesso di soggiorno per motivi umanitari ricatalogandolo in una serie di fattispecie vincolate definite «casi speciali».

Nel corso del 2020 è entrata in vigore la novella contenuta nel d.l. n. 130 del 2020 che ha introdotto novità importanti in tema di permessi di soggiorno, di controlli alle frontiere, di concessione della cittadinanza, di non refoulement, di procedure dinanzi alle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, di detenzione amministrativa degli stranieri.

Inoltre, un nuovo sistema di accoglienza, denominato Sistema di accoglienza e integrazione (SAI) prende il posto del SOPROIMI che, a sua volta, aveva preso il posto del sistema SPRAR..

La novella citata ha ridisegnato la protezione umanitaria con l’introduzione del permesso di protezione speciale a salvaguardia della vita privata e familiare dello straniero perimetrando in senso ampio le categorie di permessi che possono convertirsi in permesso di lavoro, oltre a quelle di più estesa casistica per ottenere il permesso per cure mediche ed introducendo la più completa fattispecie legata alla migrazione c.d. ambientale con il nuovo titolo di permesso di soggiorno per calamità e «migranti ambientali».

I successivi sviluppi della giurisprudenza di legittimità ci racconteranno il cammino applicativo di queste nuove fattispecie mentre la S.C. ha affrontato per tutto il 2020 le problematiche legate al regime intertemporale create dal d.l. n. 113 del 2018 (conv. in l. n. 132 del 2018).

In proposito, la giurisprudenza della Corte, anticipando le tematiche legate al permesso di soggiorno per motivi di salute, ha ritenuto che la domanda dell’asilante dovrà essere scrutinata in base alle norme esistenti ratione temporis e comporterà il rilascio del permesso di soggiorno «per casi speciali» previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto d.l., della durata di due anni, convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo o subordinato, e non del nuovo permesso per motivi di salute introdotto dall’art. 19, comma 2, lett. d) bis, del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, come modificato dal citato art. 1 comma 9 del d.l. n. 113 del 2018, convertito dalla l. n. 132 del 2018, avente contenuto e durata più restrittivi (Sez. 1, n. 23898/2020, Iofrida, Rv. 659571-01).

Anticipando, inoltre, il nucleo della novella n. 130 del 2020 (che tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale), con Sez. 2, n. 22832/2020, De Marzo, Rv. 659373-01. la S.C. ha ritenuto la sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione umanitaria nel caso di un padre convivente di un minore presente sul territorio italiano, senza che, a tal fine, si ponga come preclusiva l’autorizzazione ex art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998, finalizzata alla tutela di un interesse non già del richiedente, bensì essenzialmente del minore, mediante il collegamento tra la vulnerabilità che giustifica la protezione umanitaria e la tutela dei legami familiari di cui all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretato dalla giurisprudenza della CEDU.

Con Sez. 1, n. 23720/ 2020, Pazzi, Rv. 659278-01 la S.C. nel riportare nell’alveo della protezione umanitaria la tutela dei legami familiari precisa che nell’effettuare il giudizio di comparazione tra la situazione del richiedente in Italia e la condizione in cui questi verrebbe a trovarsi nel paese di provenienza ove rimpatriato, il giudice, al fine di dare concreta attuazione al diritto alla vita privata e familiare, protetto dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, deve tener conto, quale fattore concorrente ma non esclusivo di un’eventuale situazione di vulnerabilità, anche dell’esistenza e della consistenza dei legami familiari del richiedente in Italia, effettuando un bilanciamento tra il pericolo di danno alla vita familiare e l’interesse statale al controllo dell’immigrazione. Nella specie la Corte confermava la pronuncia del giudice di merito che aveva ravvisato una condizione di vulnerabilità per il richiedente asilo che aveva abbandonato un paese in cui non aveva legami socio-culturali ed affettivi di nessun genere, ricongiungendosi alla madre, regolarmente soggiornante in Italia,paese dove invece aveva avviato anche un percorso di integrazione).

Come precisato da Sez. 1, n. 22052/2020, Amatore, Rv. 659026-01, deve essere individuata quale condizione di vulnerabilità quella della donna in stato di gravidanza ed anche, conseguentemente, anche la situazione di madre con figlio minore, considerato che l’art. 19, comma 2, lett. d), del d.lgs. n 286 del 1998 prevede il divieto di espulsione per le donne in gravidanza e nei sei mesi successivi al parto e che l’art. 2, comma 11, lett. h) bis, del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, include tra le persone vulnerabili anche le donne in stato di gravidanza ed i genitori singoli con figli minori,.

Può dirsi, allora, che la giurisprudenza della Corte nel farsi interprete attraverso letture orientate verso l’art. 10 comma 3 Cost. della normativa vigente ha inteso superare una catalogazione rigida delle esigenze umanitarie dando voce alle esigenze di salvaguardia del contenuti minimi dei diritto dell’asilante anche rispetto al diritto alla salute, interpretando in modo ampio l’art. 36 del d.lgs. n. 286 del 1998, rispetto al nucleo della protezione umanitaria. Sez. 1, n. 2558/2020, Tria, Rv. 656623 - 01 ha affermato, invero che nei casi in cui ratione temporis sia applicabile l’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, ai fini del riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, la vulnerabilità del richiedente può anche essere conseguenza di una seria esposizione al rischio di una lesione del diritto alla salute adeguatamente allegata e dimostrata, né tale primario diritto della persona può trovare tutela esclusivamente nell’art. 36 del d. lgs. citato, in quanto la ratio della protezione umanitaria rimane quella di non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo di diritti della persona, come quello alla salute, e al contempo di essere posti nella condizione di integrarsi nel paese ospitante anche attraverso un’attività lavorativa, mentre il permesso di soggiorno per cure mediche di cui all’art. 36 si può ottenere esclusivamente mediante specifico visto d’ingresso e pagamento delle spese mediche da parte dell’interessato.

Nell’interpretazione della S.C., la valutazione di vulnerabilità nella più ampia accezione attenta ai valori costituzionali, non va, peraltro, condizionata dall’esistenza di Paesi definiti “sicuri”.

In proposito, come noto, il d.l. n.113 del 2018, conv. nella l. n. 132 del 2018, ha introdotto modifiche ai decreti legislativi n. 25 del 2008 e n. 251 del 2007 inserendo nell’impianto normativo l’istituto del “paese di origine sicura”, in conformità della Direttiva 2013/32/UE, all’articolo 41, peraltro, non introdotto nel nostro ordinamento a tutto il 2018.

Recentemente il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione di concerto con i Ministri dell’Interno e della giustizia, come previsto dal d.l. n. 113 del 2018 ha individuato tredici Paesi dichiarati di origine sicuri: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Senegal, Serbia, Tunisia e Ucraina.

La S.C. è intervenuta sul tema con Sez. 2, n. 19252/2020, Besso Marcheis, Rv. 659111-01 affermando che, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata ed attenta alla tutela del diritto di asilo, indipendentemente, dall’avvenuto inserimento del paese di origine del richiedente nell’elenco dei “cd. paesi di origine sicura” di cui all’art. 1 del d.m. M.A.E. del 4 ottobre 2019, non è preclusa, ai fini della protezione umanitaria, l’indagine ufficiosa sulla zona d’origine laddove il richiedente alleghi l’esistenza della pericolosità di quell’area.

Da un punto di vista processuale va, inoltre, segnalato l’orientamento che, in funzione della natura multilivello degli istituti di protezione dello straniero, valorizza l’esigenza di valutazioni specifiche, in funzione dei diversi presupposti, e individualizzate, di modo che il diniego d’una forma di protezione non possa escludere l’altra.

A riguardo Sez. 1, n. 7622/2020, M. Di Marzio, Rv. 657464-01, ha affermato che, le diverse forme di protezione sono caratterizzate da differenti causae petendi con la conseguenza che sarà onere del richiedente allegare fatti specifici a seconda della forma di protezione invocata. Ciò sta a significare che i presupposti necessari al riconoscimento della protezione umanitaria devono essere individuati autonomamente rispetto a quelli previsti per le forme di rango primario (rifugiato e sussidiaria) non essendo tra loro sovrapponibili, mentre i fatti storici posti a fondamento della positiva valutazione della condizione di vulnerabilità ben possono essere gli stessi già allegati per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato o la concessione della protezione sussidiaria; spetta al giudice qualificare detti fatti ai fini della riconduzione all’una o all’altra forma di protezione previste (Sez. 3, n. 08819/2020, Travaglino, Rv. 657916-05).

Si può, quindi, affermare che la decisione sulla domanda di protezione sussidiaria non tenderà ad assorbire quella sulla domanda di protezione umanitaria né in senso proprio, in quanto non fa venir meno l’interesse del richiedente asilo, né in senso improprio, perché il rigetto della prima non esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulla seconda e non comporta, di per sé, un implicito rigetto della stessa (Sez. 3, n. 11935/2020, Rossetti, Rv. 658018-01).

4.1. La condizione di vulnerabilità.

L’autonomia della categoria della protezione umanitaria’ esige che la condizione di “vulnerabilità” del richiedente debba essere verificata caso per caso ed in concreto mettendo a confronto la sua vita privata in Italia, con quella che si prospetta in caso di rimpatrio non potendosi tipizzare le categorie soggettive meritevoli di tale tutela che è, invece, atipica e residuale, nel senso che copre tutte quelle situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento dello “status” di rifugiato o della protezione sussidiaria, possano sussistere condizioni di vulnerabilità (Sez. 3, n. 08571/2020, Di Florio, Rv. 657814-01).

In particolare, Sez. 1, n. 01104/2020, Amatore, Rv. 656791-01, e così anche Sez. 2, n. 20894/2020, F. Manna, Rv. 659211-01, hanno affermato che ove sia ritenuta credibile la situazione di eccezionale vulnerabilità allegata dal richiedente, il confronto tra il grado di integrazione raggiunto nel nostro paese e la situazione oggettiva del paese di origine va condotto secondo il principio di «comparazione attenuata», nel senso che quanto più intensa sarà la vulnerabilità accertata in giudizio, tanto più sarà consentito al giudice di valutare con minor rigore il secundum comparationis ed anche con riferimento alla permanenza nel paese di transito, e senza che assuma rilievo la mancata allegazione di fatti diversi da quelli dedotti per la richiesta di rifugio politico e per quella di protezione sussidiaria (Sez. 3, n. 11912/2020, Travaglino, Rv. 658295-01).

La vulnerabilità si manifesta anche, secondo la S.C., in una compressione irragionevole di un diritto alla libertà di scelta della compagna di vita e, quindi, nell’ostacolo posto all’aspirazione dell’individuo a formarsi una famiglia laddove sia presente una discriminazione di casta che vieti l’unione tra persone di estrazione sociale diversa, oppure, secondo Sez. 1, n. 20642/2020, Fidanzia, Rv. 658883-01, in una situazione di grave povertà che lambisce la carestia purché documentabile da fonti attendibili (Sez. 3, n. 20334/2020, Rossetti, Rv. 658988 - 01)

Non rileva, perciò, l’espressa limitazione della domanda ad alcune soltanto delle modalità di protezione possibili, poiché tale perimetrazione non può assumere il significato di una rinuncia tacita alla protezione non richiesta, quando i fatti esposti nell’atto introduttivo siano rilevanti rispetto alla fattispecie non espressamente invocata (Sez. 3, n. 08819/2020, Travaglino, Rv. 657916-01).

4.2. Protezione umanitaria e regime probatorio.

La giurisprudenza della S.C., nel soffermarsi sulle regole dell’onere probatorio semplificato a favore del migrante ribadisce, innanzitutto, quell’orientamento secondo il quale il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta secondo il principio della cooperazione istruttoria, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, dal momento che la deroga al principio dispositivo si radica in un’allegazione il più possibile facilitata dal dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare.

Si è posto, però, alla giurisprudenza di legittimità il problema dello scrutinio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati dall’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 251 del 2007, rispetto all’impulso probatorio officioso e di come esso debba precedere qualsiasi valutazione sulla credibilità del richiedente. Per il compiuto esame della giurisprudenza di legittimità sulla valutazione delle dichiarazioni del richiedente ed il dovere di cooperazione istruttoria del giudice si rinvia a quanto esposto nei par. 1.12, 1.13 e 1.14.

Giova solo sottolineare che secondo la giurisprudenza della S.C. il giudizio di scarsa credibilità della narrazione del richiedente, relativo alla specifica situazione dedotta a sostegno di una domanda di protezione internazionale, non preclude al giudice di valutare altre circostanze che integrino una situazione di “vulnerabilità” ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, poiché la statuizione su questa domanda è frutto di una valutazione autonoma e non può conseguire automaticamente al rigetto di quella concernente la protezione internazionale (Sez. 1, n. 08020/2020, Ghinoy, Rv. 657498-01; Sez. 1, n. 07985/2020, Acierno, Rv. 657565-01). Anche il livello di integrazione, ai fini della concessione della protezione umanitaria, va valutato non come necessità di un pieno, irreversibile e radicale inserimento nel contesto sociale e culturale del paese, ma come ogni apprezzabile sforzo d’inserimento nella realtà locale di riferimento, dimostrabile, in ipotesi, attraverso la produzione di attestati di frequenza e di apprendimento della lingua italiana o di partecipazione ad attività di volontariato nonché di contratti di lavoro anche a tempo determinato (Sez. 3, n. 21240/2020, Pellecchia, Rv. 659030-01).

4.3. Protezione umanitaria, qualche accenno sul rito applicabile.

Sez. 1, n. 2120/2020, Scotti, Rv. 656808-01, afferma che nella vigenza dell’art. 3, comma 1, lett. d), e comma 4, del d.l. n. 13 del 2017, conv. con modif. dalla l. n. 46 del 2017, nel regime antecedente alla modifica introdotta dall’art. 1, comma 3, lett. a), del d.l. n. 113 del 2018, conv. dalla l. n. 132 del 2018 dato che sulla domanda di protezione umanitaria la competenza per materia fa capo alla sezione specializzata del tribunale in composizione monocratica, che giudica secondo il rito ordinario ovvero secondo il procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis ss. c.p.c., se il ricorrente, per sua scelta, abbia cumulato la domanda di protezione umanitaria con quelle aventi per oggetto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, assoggettate allo speciale rito camerale di cui all’art. 35 bis del d.lgs. n. 25 del 2008, egli non può poi dolersi della mancata pronuncia di inammissibilità della domanda di protezione umanitaria, in applicazione del divieto di venire contra factum proprium di cui all’art. 157, comma 3, c.p.c., secondo il quale la nullità non può mai essere opposta dalla parte che vi ha dato causa.

In ogni caso, secondo Sez. 1, n. 13575/2020, Vella, Rv. 658236-01, anche prima dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 3, lett. a), del d.l. n. 113 del 2018 nel caso di proposizione, con un unico ricorso dell’azione finalizzata ad ottenere le protezioni maggiori e di quella volta al riconoscimento della protezione umanitaria comporta la trattazione unitaria di tutte le domande da parte della sezione specializzata del tribunale, in composizione collegiale, secondo il rito camerale previsto dall’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, stante la profonda connessione, soggettiva e oggettiva, esistente tra le domande, oltre che per la prevalenza della composizione collegiale su quella monocratica, sancita dall’art. 281-nonies c.p.c. ed in attuazione del principio della ragionevole durata del processo.

Ne deriva che l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione dell’organo che abbia privato il ricorrente di un grado di giudizio di merito, impedendogli la deduzione del vizio di composizione del giudice quale motivo d’impugnazione davanti ad altro giudice di merito, determina la rimessione della causa al primo giudice per un nuovo esame della domanda (Sez. 1, n. 28640/2020, Caradonna, non massimata).

4.4. Il Regolamento Dublino III.

Come noto, il Regolamento “Dublino III” vincola tutti i Paesi membri dell’Unione europea, esclusa la Danimarca, e, per effetto di accordi ad hoc anche la Norvegia, Svizzera, Islanda e Liechtenstein.

L’obiettivo di detto regolamento è quello di garantire che l’esame della domanda d’asilo di un richiedente competa ad un solo Stato e, pertanto, una volta stabilito quale sia lo Stato competente, è applicato il diritto interno dello Stato in questione.

La CGEU ha più volte richiamato il valore fondante della fiducia reciproca basato sul mutual trust tra gli Stati membri, prendendo atto che la costruzione di un sistema comune europeo di asilo incontra in, concreto, un rischio per il richiedente la protezione internazionale nel trasferimento verso uno degli Stati membri nel quale non sia assicurato il rispetto dei suoi diritti fondamentali (Causa C‑163/17, Abubacarr Jawo contro Bundesrepublik Deutschland).

Infatti, l’individuazione della sede sul territorio dello Stato che ha preso in carico la richiesta di protezione va interpretata alla luce del diritto di difesa (art. 47 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) non solo pieno, ma «effettivo» come si esprime il citato articolo, il che sta a significare che lo straniero deve vedersi garantita una facile accessibilità ai suoi diritti di impugnativa, in linea con l’art. 24 della Costituzione e con l’art. 13 della Cedu.

La S.C., in proposito, ha affermato che il procedimento di determinazione dello Stato membro competente, pur inserendosi nel contesto relativo alla domanda di protezione internazionale, è dotato di una propria autonomia strutturale e funzionale, configurandosi quale procedimento d’ufficio, disciplinato dal Regolamento UE n. 604 del 2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio, che, all’art. 4, rubricato «Diritto di informazione», prescrive (in particolare nei commi 2 e 3) che l’informazione essenziale sia fornita per iscritto attraverso uno specifico «opuscolo comune», redatto in conformità al medesimo regolamento, funzionale ad informare l’interessato sulle finalità del regolamento e sulle conseguenze dell’eventuale presentazione di un’altra domanda in uno Stato membro diverso, (Sez. 1, n. 21553/2020, Scordamaglia, Rv. 658981-01).

Come noto, il criterio di maggiore impatto nei flussi migratori provenienti dai Paesi terzi, ai fini della determinazione della competenza di presa in carico della domanda di asilo, è quello del Paese di primo ingresso irregolare. Tale circostanza ha spinto alcuni Stati, a cercare di sottrarsi alla propria competenza prevenendo l’ingresso dei richiedenti asilo, in aperta violazione del principio di non refoulement.

Il correttivo del sistema generale di individuazione dello Stato chiamato a prendere in carico la domanda di protezione internazionale risiede nell’art. 17 del regolamento Dublino III ((Regolamento del Consiglio CEE 26/06/2013 n. 604 art. 17, par. 1) che consente, come noto, ad ogni Stato membro di poter derogare ai criteri di competenza per motivi umanitari e caritatevoli, al fine di consentire all’ asilante il ricongiungimento con familiari, parenti o persone legate da altri vincoli di parentela e di esaminare una domanda di protezione internazionale presentata in quello o in un altro Stato membro, anche se tale esame non è di sua competenza secondo i criteri vincolanti stabiliti nel regolamento.

In tal caso, esercitata la c.d. “clausola discrezionale”, la domanda rimane di competenza della singola Autorità nazionale, che, nel caso dell’Italia, s’identifica con l’Unità di Dublino operante presso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno.

Al descritto meccanismo di deroga il giudice ordinario rimane estraneo ma può esercitare un controllo con la conseguenza che il rifiuto di esercitare tale facoltà, risolvendosi nella decisione di trasferire il cittadino straniero, può essere contestato in sede giurisdizionale, mediante l’impugnazione di tale decisione, al fine di verificare se l’Amministrazione abbia esercitato la propria discrezionalità in violazione dei diritti soggettivi riconosciuti al richiedente asilo dal regolamento menzionato e, più in generale, dall’impianto normativo euro unitario (Sez. 1, n. 23724/2020, Pazzi, Rv. 659437-01).

Tuttavia, come precisato da Sez. 1, n. 23584/2020, Pazzi, Rv. 659239-01, nel caso di ripresa in carico dell’asilante da parte dello Stato individuato come competente ad esaminare la domanda di protezione internazionale il provvedimento dell’Unità Dublino di trasferimento del richiedente potrà essere impugnato davanti al giudice ordinario il quale non potrà, però, annullare il provvedimento dell’Amministrazione sulla base della violazione di norme procedurali verificatasi nel corso della procedimento( nella specie, il tribunale aveva riscontrato la dedotta violazione degli artt. 4 e 5 del reg. Dublino III, rispettivamente, relativi alla omessa comunicazione di informazioni sulla procedura ed all’omesso colloquio con il richiedente), atteso che la competenza ad individuare lo Stato competente ad esaminare la domanda di protezione internazionale, spetta, in base all’art. 3, comma 3 del d. lgs. n. 25 del 2008, all’Unità Dublino e che il sindacato del giudice ordinario deve ritenersi limitato al vaglio della sussistenza di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti nello Stato membro designato, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sempre che tale situazione sia tale da superare l’art. 78 del TFUE).,.

Per converso, secondo Sez. 1, n. 02119/2020, Lombardo, Rv. 656581-01, una volta che lo straniero sia stato preso in carico da uno degli Stati membri e, tuttavia, lasci il territorio UE per più di tre mesi (ex art. 19, comma 2, par. 2, del reg. U.E. n. 604 del 2013)la domanda di protezione internazionale si radica ex novo in un nuovo procedimento di determinazione dello Stato competente. Nella specie la S.C. ha annullato con rinvio il provvedimento impugnato che, in relazione ad una domanda di protezione internazionale proposta originariamente in Germania e successivamente riproposta in Italia, aveva ritenuto competente il primo Stato, sull’assunto che quest’ultimo non aveva esercitato la facoltà discrezionale di denegare la propria competenza.

5. L’espulsione amministrativa.

La disciplina dell’espulsione amministrativa dello straniero irregolare è inserita in un complesso quadro normativo di riferimento.

Chi è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera o non ha titolo per rimanervi, può essere destinatario di un provvedimento di espulsione amministrativa (con avvio allo Stato di appartenenza, ovvero, quando ciò non sia possibile, allo Stato di provenienza) disposta dal prefetto ed eseguita dal questore, previo nulla osta dell’autorità giudiziaria che procede per reati a carico dello straniero espulso «salvo che sussistano inderogabili esigenze processuali» (art. 13, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998).

Si tratta di un provvedimento impugnabile davanti al giudice di pace ex art. 18 del d.lgs. n. 150 del 2011, che può eseguirsi mediante accompagnamento alla frontiera (art. 13, commi 4 e 5-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998): misura restrittiva della libertà personale che necessita di convalida da parte del giudice e che, una volta concessa, rende definitivo il provvedimento di espulsione (prima sospeso nella sua efficacia).

Con riguardo al profilo delle garanzie dell’espellendo, nella fase amministrativa, la consolidata giurisprudenza di legittimità, da ultimo riaffermata da Sez. 1, n. 27682/2018, Acierno, Rv. 651119-01, ha escluso l’obbligo di dare preventiva comunicazione all’interessato dell’inizio del procedimento amministrativo di espulsione, ai sensi degli artt. 7 e 8 della l. n. 241 del 1990: l’argomentazione (leggibile, tra le altre, in Sez. 1, n. 28858/2005, Spagna Musso, Rv. 586798-01), valorizza la specialità della procedura espulsiva, ove rilevano sia motivi di ordine di pubblico che di sicurezza dello Stato, e tiene conto, altresì, dei caratteri di celerità e speditezza che ne connotano l’iter.

Il decreto di espulsione va tradotto nella lingua propria del destinatario: la mancata traduzione - ribadisce da ultimo Sez. 6-1, n. 0426/2020, Terrusi, Rv. 657238-01 - comporta la nullità (non l’inesistenza) del provvedimento di espulsione che però, pur potendo esser fatta valere con l’opposizione tardiva, non è deducibile senza limiti di tempo, occorrendo a tal fine verificare se la violazione dell’art. 13, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 abbia effettivamente determinato un’ignoranza del contenuto dell’atto tale da impedirne l’identificazione e se, medio tempore, lo straniero non abbia comunque avuto adeguata conoscenza della natura dell’espulsione e del rimedio proponibile, nel qual caso è da tale momento che dovrà farsi decorrere il termine per la proposizione dell’opposizione tardiva fondata sull’intervenuta nullità. In ogni caso, l’eventuale l’impossibilità di traduzione è condizione necessaria e sufficiente perché il decreto di espulsione risulti immune da vizi di nullità (Sez. 6-1, n. 17558/2010, Salmè, Rv. 614305). Grava, poi, sulla P.A. l’onere di provare l’eventuale conoscenza della lingua italiana o di una delle lingue veicolari da parte del destinatario del provvedimento: l’accertamento compete al giudice di merito il quale, a tal fine, deve valutare gli elementi probatori acquisiti al processo, tra cui assumono rilievo anche le dichiarazioni rese dall’interessato nel cd. foglio-notizie, ove egli abbia dichiarato di conoscere una determinata lingua nella quale il provvedimento sia stato tradotto (così Sez. 3, n. 24015/2020, Di Florio, Rv. 659526-02).

La competenza ad emanare l’atto espulsivo è del prefetto, mentre l’esecuzione deve essere curata dal questore. Come ha precisato Sez. 6-1, n. 18540/2016, Bisogni, Rv. 641171-01, spetta al prefetto stabilire se sussistono le condizioni per concedere, col provvedimento di espulsione, il termine per la partenza volontaria, mentre è il questore che deve indicare, in tale evenienza, le condizioni per la permanenza medio tempore dello straniero nel territorio nazionale, oppure, qualora venga disposta l’espulsione immediata, decidere se provvedere all’accompagnamento coattivo immediato, al trattenimento presso il centro di permanenza per i rimpatri o all’intimazione ex art. 14, comma 5 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998. Non vi è pertanto contraddittorietà, secondo la S.C., tra il diniego di concessione di partenza volontaria e la mancata adozione di misure di controllo, che restano applicabili, alternativamente o cumulativamente, dal questore solo nell’ipotesi in cui sia stata accolta dal prefetto la richiesta di rimpatrio volontario.

Quanto ai vizi del decreto prefettizio di espulsione ed alla tempestività della impugnazione del medesimo si rinvia a quanto già esposto nella rassegna precedente.

Passando alle questioni relative alla natura giuridica dell’espulsione amministrativa, è consolidato l’orientamento che riconosce l’obbligatorietà ed il carattere vincolato dell’atto (Sez. 2, n. 18788/2020, Oliva, Rv. 659123-01; Sez. 6-1, n. 28860/2018, Terrusi, Rv. 651500-02), escludendosi pertanto qualsivoglia potere discrezionale in capo al prefetto. Il principio è ripetutamente affermato nel caso di reingresso dello straniero nel territorio dello Stato di cui all’art. 13, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 286 del 1998 (Sez. 6-1, n. 25414/2018, Lamorgese, Rv. 651125-01, conforme a Sez. 6-1, n. 18540/2016, Bisogni, Rv. 641171-01; Sez. 6-1, n. 12976/2016, De Chiara, Rv. 640104-01, Sez. 6-1, n. 8984/2016, Genovese, Rv. 639502-01).

Attesa l’automaticità del provvedimento espulsivo, il giudice innanzi al quale viene impugnato è tenuto unicamente a controllare la sussistenza, al momento dell’espulsione, dei requisiti di legge che ne imponevano l’emanazione (così da ultimo Sez. 1, n. 18788/2020, Oliva, cit.; Sez. 1, n. 28860/2018, Terrusi, Rv. 651500-01) i quali consistono nella mancata richiesta, in assenza di cause di giustificazione, del permesso di soggiorno, ovvero nella sua revoca od annullamento o nella mancata tempestiva richiesta di rinnovo che ne abbia comportato il diniego; al giudice investito dell’impugnazione del provvedimento espulsivo non è invece consentita alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del questore che abbia rifiutato, revocato o annullato il permesso di soggiorno ovvero ne abbia negato il rinnovo, poiché tale sindacato spetta unicamente al giudice amministrativo, la cui decisione non costituisce in alcun modo un antecedente logico della decisione sul decreto di espulsione. Al giudice dell’opposizione al provvedimento di espulsione non è consentita alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del questore che abbia rifiutato, revocato o annullato il permesso di soggiorno, ovvero ne abbia negato il rinnovo. Tale sindacato spetta, secondo la giurisprudenza di legittimità, unicamente al giudice amministrativo, davanti al quale viene impugnato il provvedimento del questore, la cui decisione non costituisce in alcun modo un antecedente logico della decisione sul decreto di espulsione. Ne consegue che la pendenza del giudizio promosso dinanzi al giudice amministrativo per l’impugnazione del provvedimento del questore, non giustifica la sospensione del processo instaurato dinanzi al giudice ordinario con l’impugnazione del decreto di espulsione del prefetto, attesa la carenza di pregiudizialità giuridica necessaria tra il processo amministrativo e quello civile (Sez. 2, n. 19788/2020, Oliva, cit.; conf. Sez. 6-1, n. 15676/2018, Acierno, Rv. 649334-01; Sez. 6-1, n. 12976/2016, De Chiara, Rv. 640104-01).

Poteri giudiziali di accertamento pieno (e non già limitati da un’insussistente discrezionalità amministrativa) sono invece riconosciuti dalla giurisprudenza in tema di valutazione dei presupposti espulsivi per motivi di ordine e sicurezza pubblica di cui all’art. 13, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286 del 1998come già esposto nella rassegna precedente.

In tema di rapporti tra il decreto di espulsione e la presentazione della domanda di protezione internazionale da ultimo, secondo Sez. 3, n. 24009/2020, Di Florio, Rv. 659539-01, la pendenza del relativo giudizio, ove la Commissione territoriale abbia dichiarato l’inammissibilità della domanda proposta, perché reiterata, non produce la sospensione automatica degli effetti della decisione amministrativa, ostandovi l’art. 35-bis, comma 3, lett. b), del d.lgs. n. 25 del 2008, che la esclude testualmente. Ne consegue che in sede di opposizione al provvedimento di espulsione, emesso e comunicato contestualmente al provvedimento della Commissione territoriale, non può farsi valere, alcuna efficacia sospensiva derivante dalla concomitanza del procedimento di protezione internazionale.

In tema di vizi del provvedimento espulsivo Sez. 6-1, n. 7128/2020, Lamorgese, Rv. 657555-01, ha escluso l’illegittimità del provvedimento di espulsione amministrativa perché privo del termine per la partenza volontaria, potendo incidere tale mancanza sulla misura coercitiva adottata per eseguire l’espulsione, ma non sulla validità del provvedimento espulsivo, o perché non contenga l’informazione circa la facoltà di fare rientro volontario, ostandovi il principio secondo cui detta omessa informazione può essere fatta valere esclusivamente nel giudizio di convalida avverto il provvedimento di accompagnamento coattivo o di trattenimento emesso dal questore, attesa la separazione in due fasi distinte del complessivo procedimento di allontanamento coattivo dello straniero. Ne consegue l’insussistenza della violazione della direttiva 2008/115/CE in quanto il diritto dell’interessato a contraddire o a difendersi in merito all’alternativa tra partenza volontaria ed esecuzione coattiva dell’espulsione può dispiegarsi nel predetto giudizio di convalida (v., altresì in parte motiva, anche Sez. 6-1, n. 25414/2018, Lamorgese, Rv. 651125-01, conf. Sez. 6-1, n. 18540/2018, Bisogni, Rv. 641169-01).

5.1. I casi d’inespellibilità.

L’istituto dell’espulsione amministrativa si intreccia con la garanzia dell’inespellibilità dello straniero, che ne preclude l’esecuzione coattiva.

Principale causa di inespellibilità è, tranne alcune eccezioni, la presentazione della domanda di protezione internazionale. Sotto il profilo sostanziale, la disciplina europea e nazionale sancisce in via generale il diritto dei richiedenti la protezione internazionale a rimanere nello Stato membro, sia durante il periodo dell’esame amministrativo della loro domanda di protezione (art. 9 della direttiva 2013/32/CE e art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 25 del 2008), sia durante il periodo di attesa della definizione della fase giurisdizionale (v. artt. 9 e 46 direttiva 2013/32/UE e 35 bis, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, quest’ultimo articolo aggiunto dal d.l. n. 13 del 2017 e poi modificato dal d.l. n. 113 del 2018).

Si deve tenere presente che l’art. 35 bis, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008 stabilisce che la proposizione del ricorso avverso la decisione della Commissione Territoriale determina la sospensione automatica degli effetti del provvedimento impugnato, tranne che in alcuni casi tassativamente indicati alle lett. a), b), c), d) del medesimo comma (quando il ricorrente sia trattenuto in un centro di permanenza per i rimpatri, quando vi sia un provvedimento di inammissibilità della domanda, o quando la domanda sia manifestamente infondata, quando la domanda sia stata presentata dopo che il ricorrente sia stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i controlli alla frontiera, ovvero fermato in condizioni di soggiorno illegale, al solo scopo di impedire l’adozione o l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento). L’art. 3, comma 2, lett. c), del d.l. n. 113 del 2018, ha poi specificato che la lett. a) riguarda l’ipotesi in cui il ricorso sia proposto da parte di un soggetto «nei cui confronti è stato adottato un provvedimento di trattenimento nelle strutture di cui all’art. 10 ter del d.lgs. n. 286 del 1998». In tali casi la sospensiva può tuttavia essere accordata a richiesta del ricorrente in presenza di gravi e circostanziate ragioni, con decreto motivato da assumersi inaudita altera parte entro cinque giorni dal deposito della richiesta.

Ai sensi dell’art. 35 bis, comma 5, del d.lgs. n. 25 del 2008 (nel testo introdotto dal d.l. n. 13 del 2017), non è mai sospesa l’efficacia esecutiva del provvedimento della Commissione Territoriale nei casi in cui questa dichiari, per la seconda volta, inammissibile la domanda reiterata senza addurre elementi nuovi. L’art. 9 del d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. n. 132 del 2018, ha poi modificato tale comma, precludendo la sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento della Commissione Territoriale anche nell’ipotesi in cui l’inammissibilità sia dichiarata per la prima volta, modificando l’articolo nel modo che segue: «la proposizione del ricorso o dell’istanza cautelare, ai sensi del comma 4 non sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento che dichiara inammissibile la domanda di riconoscimento della protezione internazionale ai sensi dell’art. 29, comma 1, lett. b), nonché del provvedimento adottato ai sensi dell’art. 32, comma 1-bis. Quando, nel corso del procedimento giurisdizionale regolato dal presente articolo, sopravvengono i casi e le condizioni di cui all’art. 32, comma 1-bis, cessano gli effetti di sospensione del provvedimento impugnato già prodotti a norma del comma 3».

Infine, in applicazione dell’art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, come riformulato con il d.l. n. 13 del 2017, nel caso in cui sia stata disposta o sia intervenuta in via automatica la sospensione del provvedimento impugnato, questa viene meno se «con decreto anche non definitivo, il ricorso è rigettato».

Si deve peraltro tenere presente che, come supra evidenziato, la S.C. ha risposto alle censure di costituzionalità di tale disposizione per contrasto con gli articoli 3, 24 e 111 Cost., da ultimo con Sez. 1, n. 32319/2018, Lamorgese, Rv. 651902-01, dichiarandole manifestamente infondate.

Tanto premesso, la proposizione della domanda di protezione internazionale legittima lo straniero richiedente a permanere nel territorio dello Stato sino alla decisione della Commissione Territoriale sulla stessa, quale unico soggetto deputato a verificarne le condizioni di ammissibilità e fondatezza, con la sola salvezza delle ipotesi di cui all’art. 7, comma 2, del d.lgs. n. 25 del 2008; ne consegue che l’autorità di pubblica sicurezza avanti alla quale lo straniero si presenti per proporre la domanda non è autorizzata a valutarla nel merito ed in ipotesi di delibazione di infondatezza ad attivare il procedimento di espulsione del cittadino straniero (così Sez. 6-1, n. 11309/2019, Terrusi, Rv. 654197-01)).

Da ultimo, Sez. 3, n. 25964/2020, Rubino, Rv. 659589-01, ha ritenuto affetto da violazione di legge il provvedimento, emesso nell’ambito dell’opposizione a decreto di espulsione, con il quale il giudice di pace, anziché dare atto dell’inespellibilità attuale dell’opponente fino all’esito del giudizio di riconoscimento della protezione internazionale, compia una propria ed autonoma valutazione prognostica negativa desunta dai precedenti penali del richiedente, decidendo immediatamente l’opposizione e reputando non necessaria la verifica dell’esito del giudizio sulla protezione internazionale.

Anche il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 6, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 - fattispecie “generale” soppressa dal d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., dalla l. n. 132 del 2018 - rende inefficace, e dunque ineseguibile, il decreto di espulsione precedentemente emesso, il quale, come sancisce Sez. 6-1, n. 21609/2018, Valitutti, Rv. 650345-01, deve essere revocato in autotutela dalla stessa amministrazione e, in caso di inerzia, spetta al giudice di pace adito in sede di opposizione dichiararne la perdita di efficacia. Anche per Sez. 6-1, n. 14268/2014, De Chiara, Rv. 631625-01, il rilascio del menzionato permesso di soggiorno comporta la cessazione di efficacia del precedente decreto di espulsione, che non può più avere esecuzione, ma viene precisato che ciò basta per ritenere cessata la materia del contendere, essendo in questo modo conseguito il risultato cui tende il ricorso avverso il provvedimento espulsivo, senza che possa ritenersi persistente l’interesse all’annullamento del decreto di espulsione, dato che la posizione giuridica dell’interessato resta regolata dal permesso di soggiorno conseguito).

Detto arresto giurisprudenziale si ricollega al più generale indirizzo secondo cui, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998 in relazione all’art. 5, par. 1, CEDU (che consente la detenzione di una persona, a fini di espulsione, a condizione che la procedura sia regolare), il giudice, in sede di convalida del decreto di trattenimento dello straniero raggiunto da provvedimento di espulsione, è tenuto a rilevarne incidenter la manifesta illegittimità, che può consistere anche nella situazione di inespellibilità dello straniero (così Sez. 6-1, n. 24415/2015, De Chiara, Rv. 637982-01).

Come da ultimo precisato da Sez. 3, n. 26216/2020, Dell’Utri, Rv. 659856-01, la regola della non espellibilità dal territorio nazionale del cittadino straniero, convivente con la moglie ed i figli di nazionalità italiana, di cui all’art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286 del 1998, subisce deroga al ricorrere delle condizioni di pericolosità sociale del soggetto indicate all’art. 13, comma 1, del medesimo decreto (fattispecie in cui la S.C. ha confermato la decisione del tribunale che aveva rigettato il ricorso avverso il decreto di espulsione proposto dallo straniero, convivente in Italia con moglie e figli di nazionalità italiana, ma resosi responsabile della commissione dei reati di cui agli artt. 582 e 609-bis c.p.).

La giurisprudenza di legittimità ha poi enucleato altre ipotesi di inespellibilità. Come chiarito da Sez. 6-1, n. 12713/2016, De Chiara, Rv. 640100-01, può inibire l’esercizio del potere espulsivo, nel caso di scadenza del permesso di soggiorno oltre il limite temporale stabilito nell’art. 13, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 286 del 1998, il mancato rifiuto esplicito (o per facta concludentia) di ricevere l’istanza di rinnovo, ancorché tardivamente proposta, del permesso di soggiorno scaduto, che può integrare una causa di addebitabilità all’Amministrazione della permanenza illegale, purché lo straniero fornisca la prova del comportamento dilatorio ed ostruzionistico subito. D’altra parte, Sez. 6-1, n. 12713/2016, De Chiara, Rv. 640099-01, ha ritenuto che la spontanea presentazione della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno oltre il termine di sessanta giorni dalla sua scadenza non consente l’espulsione automatica, che può essere disposta solo se la domanda sia stata respinta per la mancanza, originaria o sopravvenuta, dei requisiti richiesti dalla legge per il soggiorno dello straniero sul territorio nazionale, mentre il ritardo nella presentazione può costituirne solo un indice rivelatore, nel quadro di una valutazione complessiva, della situazione in cui versa l’interessato.

Sez. 1, n. 16486/2019, Bisogni, Rv. 654549-01, ha esteso la garanzia ex art. 31 della Convenzione di New York - che prevede la non espellibilità di un apolide se non nei casi di documentata sussistenza dei motivi di sicurezza nazionale e di ordine pubblico - in via analogica anche alle situazioni di apolidia di fatto e/o nelle more del procedimento per accertare lo stato di apolidia, quando la situazione del soggetto emerge chiaramente dalle informazioni o dalla documentazione delle autorità pubbliche competenti dello Stato italiano, di quello di origine o di quello verso il quale può ravvisarsi un collegamento significativo con il soggetto interessato.

Sez. 6-1, n. 10341/2018, De Chiara, Rv. 648280-01, ha invece escluso che costituisca causa di inespellibilità la pendenza di procedimenti penali a carico dello straniero, in quanto l’interesse dello stesso a partecipare al processo ed ad esercitare il suo diritto di difesa (art. 24 Cost.) è comunque tutelato dall’autorizzazione al rientro prevista dall’art. 17 del d.lgs. n. 286 del 1998 (così anche Sez. 1, n. 20693/2019, Oliva, Rv. 654884-01).

Sez. 6-1, n. 16272/2018, Acierno, Rv. 649787-01, ha infine precisato che, ove, in sede di impugnazione del decreto di espulsione prefettizio, il ricorrente alleghi specificamente la pendenza, alla data di emissione del decreto di espulsione, della procedura di emersione dal lavoro irregolare ex art. 5, comma 11, del d.lgs. n. 109 del 2012, è onere del giudice accertare la veridicità di quanto dedotto, ai fini della conseguente applicazione del divieto di espulsione, anche mediante richiesta di informazioni alla p.a. ex art. 213 c.p.c. Ne consegue che, in mancanza di tale accertamento, l’ordinanza del giudice di pace che rigetti l’opposizione deve considerarsi illegittima.

Per quanto riguarda i limiti all’espulsione correlati alla tutela dell’unità familiare, si rinvia infra al capitolo a ciò specificamente dedicato.

5.2. Il trattenimento dello straniero e le misure alternative.

Sia nel caso dell’espulsione che nel caso respingimento “differito”, il questore può disporre il trattenimento dello straniero in un centro di identificazione ed espulsione (CIE, ora CPR) ai sensi dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998.

Si tratta di una misura strumentale all’esecuzione del provvedimento di allontanamento che - come ha affermato Sez. 1, n. 06064/2019, Federico, Rv. 653101-01 - costituisce una privazione della libertà personale legittimamente realizzabile soltanto in presenza delle condizioni giustificative previste dalla legge e secondo una modulazione dei tempi rigidamente predeterminata.

In base all’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, lo straniero attinto da decreto prefettizio di espulsione - non eseguito - che sia in possesso di passaporto o di altro documento equipollente in corso di validità, anziché essere trattenuto, può essere destinatario di una o più delle seguenti misure adottate dal questore con provvedimento motivato comunicato entro quarantotto ore dalla notifica al giudice di pace competente per territorio il quale, se ne ricorrono i presupposti, le convalida nelle successive quarantotto ore:

a) consegna del passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, da restituire al momento della partenza;

b) obbligo di dimora in un luogo preventivamente individuato, dove possa essere agevolmente rintracciato;

c) obbligo di presentazione, in giorni ed orari stabiliti, presso un ufficio della forza pubblica territorialmente competente.

Secondo Sez. 3, n. 24013/2020, Di Florio, Rv. 6509525-02, l’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, ove non prevede un termine alle misure alternative al trattenimento presso il CPR, non viola l’art. 2, Prot. 4, della CEDU, che consente imposizioni necessarie per l’ordine e la sicurezza nazionale «giustificate dall’interesse pubblico in una società democratica». Dette misure postulano, infatti, una condizione del migrante in procinto di essere rimpatriato, tale da consentire il reiterato controllo previsto (anche in termini di possibile protezione), e sostituiscono quella, ben più afflittiva, del trattenimento, con carattere alternativo rispetto al possibile rimpatrio volontario, per il quale il termine previsto (da 7 a 30 giorni) può essere prorogato soltanto per esigenze dello stesso migrante (nella specie si trattava di misure del ritiro del passaporto e dell’obbligo di firma, per due giorni a settimana, per il tempo strettamente necessario alla rimozione degli impedimenti per l’accompagnamento alla frontiera).

Competente a pronunciarsi sulla convalida del provvedimento del questore di applicazione delle misure alternative presso il CPR è il giudice di pace (per effetto del d.l. n. 241 del 2004, conv. con modif. in l. n. 271 del 2004), anche con riferimento all’eventuale richiesta di proroga del trattenimento medesimo.

Il procedimento di convalida del trattenimento o delle misure ad essa alternative è analogo a quello della convalida dell’accompagnamento alla frontiera ed è disciplinato dall’art. 14, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 286 del 1998, che fa applicazione dell’art. 13 Cost., con previsione del termine di quarantotto ore dalla richiesta del questore per l’emissione del decreto di convalida del trattenimento, previsto a pena di inefficacia (così Sez. 6-1, n. 03298/2017, Genovese, Rv. 643361-01). Come da ultimo statuito da Sez. 3, n. 24013/2020, Di Florio, Rv. 659525-01, si applica il contraddittorio cartolare, non operando la garanzia dell’udienza partecipata necessariamente del difensore perché prevista solo in relazione al trattenimento e all’accompagnamento coattivo alla frontiera. Tale procedura, come statuito da Corte Cost. n. 280 del 2019, non contrasta con gli artt. 13 e 24 Cost., trovando applicazione l’art. 3, commi 3 e 4, del d.P.R. n. 394 del 1999, in ordine alla traduzione del provvedimento del questore in lingua nota all’interessato, o in una delle lingue veicolari, ed all’avviso della possibilità di beneficiare dell’assistenza del difensore d’ufficio e del patrocinio a spese dello Stato, accompagnato dalla comunicazione, da parte delle questure, con modalità effettivamente compatibili per l’interessato, dei recapiti dei difensori d’ufficio ai quali in concreto rivolgersi ove si intenda esercitare il diritto a presentare memorie o deduzioni al giudice di pace. Il procedimento cartolare in esame è compatibile, altresì, con i principi di cui agli artt. 41 e 48 della CEDU atteso che è applicabile, con le suddette garanzie, ad una fase meramente esecutiva del provvedimento di espulsione e, pertanto, è adottato, in termini meno afflittivi del trattenimento, senza alcuna preclusione del principio del contraddittorio. (in difformità v. Sez. 6-1, n. 02997/2018, Lamorgese, Rv. 647048-01 che, senza fornire una specifica motivazione sul punto, aveva ritenuto necessaria anche per la convalida delle misure alternative al trattenimento la celebrazione dell’udienza prevista dal comma 4 dell’art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998, estendendo le stesse garanzie della comunicazione della data d’udienza e della partecipazione necessaria del difensore, di fiducia o di ufficio nel caso in cui l’interessato ne sia sprovvisto).

Con riferimento alla proroga del trattenimento nel CIE di uno straniero richiedente asilo o protezione internazionale Sez. 2, n. 18322/2020, Oliva, Rv. 659102-01, ravvisa l’interesse del cittadino straniero ad ottenere l’annullamento del provvedimento di convalida della proroga del trattenimento disposta dal giudice di pace seguito da provvedimento di respingimento e contestuale trattenimento la cui convalida sia stata cassata dalla Corte Suprema, sia per il diritto al risarcimento derivante dall’illegittima privazione della libertà personale, sia al fine di eliminare ogni impedimento illegittimo al riconoscimento della sussistenza delle condizioni di rientro e soggiorno nel territorio italiano.

Secondo Sez. 1, n. 13741/2020, Rubino, Rv. 658255-01, non può essere disposta la proroga del trattenimento di un cittadino straniero presso un CIE quando il provvedimento espulsivo che ne costituisce il presupposto sia stato, ancorché indebitamente, sospeso, dal momento che il sindacato giurisdizionale, pur non potendo avere ad oggetto la validità dell’espulsione amministrativa, deve rivolgersi alla verifica dell’esistenza ed efficacia della predetta misura coercitiva.

6. La tutela dell’unità familiare e dei minori: premessa.

Nel corso del 2020 la giurisprudenza della S.C. si è mossa nel solco degli orientamenti maturati nel corso del 2019 dando una lettura sempre più attenta ed incisiva degli istituti posti a tutela dell’unità familiare e dei minori in una costante osmosi con il mutamento della realtà sociale.

6.1. Il ricongiungimento familiare.

In tema di tutela dell’unità familiare Sez. 1, n. 7427/2020, Fidanzia, Rv. 657489-01, ha affermato che la relazione tra due fratelli, entrambi maggiorenni e non conviventi, non è riconducibile alla nozione di “vita familiare” rilevante a norma dell’art. 8 CEDU, difettando ogni elemento presuntivo dell’esistenza di un legame affettivo qualificato da un progetto di vita in comune, con la conseguenza che, affinché un fratello possa ottenere un permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare ad altro fratello o sorella, è necessario il requisito della convivenza effettiva, come previsto dal combinato disposto dell’art. 28 del d.P.R. n. 394 del 1999 e dell’art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286 del 1998 .

La Corte, ha osservato in particolare che i fratelli maggiorenni non rientrano quindi nella nozione di famiglia rilevante ai fini del ricongiungimento familiare, tanto è vero che possono ottenere il permesso per motivi familiari solo a norma del combinato disposto dell’art. 28 del decreto Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 e dell’art. 19 comma 2 lett c) del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (che impone il requisito della convivenza con parenti entro il secondo grado o con il coniuge di nazionalità italiana) o eventualmente a norma dell’art. 3 comma 2° lett. a) del d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30 (attuativo della direttiva 2004/38/CE) applicabile anche ai cittadini italiani in virtù dell’art. 23 l. cit. - che consente l’ingresso o il soggiorno in territorio comunitario di “ogni altro familiare”, qualunque sia la cittadinanza, non definito all’art. 2 comma 1 lett. b) solo se è a carico o convive nel paese di provenienza con il cittadino dell’Unione.

Né, peraltro, può comunque prospettarsi una lesione, nel caso di specie, dell’art. 8 CEDU, che tutela il rispetto della vita familiare occorrendo in ogni caso la prova rigorosa di legami personali effettivi, ovvero di una concreta condivisione della vita in comune.

Con Sez. 1, n. 25310/20, Terrusi, Rv. 659575-01, pronunciandosi in una peculiare ipotesi di richiesta di ricongiungimento familiare, ha affermato che l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 29 del d.lgs. n. 286 del 1998, anche alla luce dell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e dell’art. 24 della Carta di Nizza, impone di non escludere che la norma possa essere estesa anche ai minori affidati mediante kafalah di tipo negoziale. Trattasi di istituto proprio del diritto islamico che prescinde dallo stato di abbandono del minore, ma si realizza mediante un negozio stipulato tra la famiglia di origine e quella di accoglienza, donde per tale via presenta caratteri comuni con l’affidamento previsto dall’ordinamento nazionale. E solo in quanto finalizzato a realizzare l’interesse superiore del minore esso non contrasta con i principi dell’ordine pubblico italiano e neppure con quelli della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, che pure opera espressamente, all’art. 20, comma 3, il riconoscimento quale istituto di protezione del minore della sola kafalah giudiziale la quale, diversamente da quella convenzionale, presuppone invece la situazione di abbandono o comunque di grave disagio del minore nel suo ambiente. In tale prospettiva la valutazione circa la possibilità di consentire al minore l’ingresso in Italia e il ricongiungimento con l’affidatario non può essere esclusa, quindi, in considerazione della natura e della finalità dell’istituto della kafalah negoziale, ma pur sempre deve essere effettuata caso per caso in considerazione del superiore interesse del minore.

Il diritto al ricongiungimento familiare viene riconosciuto anche nella fase esecutiva del provvedimento di espulsione, come affermato da Sez. 2, n. 26563/2020, Picaroni, Rv. 659720 -01, secondo cui anche nel procedimento di convalida del decreto di accompagnamento alla frontiera, il giudice è tenuto a verificare l’esistenza del diritto del cittadino straniero al ricongiungimento familiare trattandosi di circostanza ostativa all’esecuzione di detto provvedimento.

6.2. I limiti al divieto di espulsione: lo straniero convivente con i parenti entro il secondo grado o con il coniuge di cittadinanza italiana.

La giurisprudenza della S.C. si è posta nel solco di quanto statuito nell’anno precedente in tema di tutela dei legami familiari anche qualora non sia stata proposta formale domanda di ricongiungimento familiare, seppure con valutazione da effettuarsi caso per caso nell’ottica della ricerca di un bilanciamento tra esigenze di ordine pubblico e tutela dell’unità familiare delineata dalla giurisprudenza della Corte EDU con riferimento all’art. 8 CEDU.

Nell’anno in rassegna si segnala Sez. 3, n. 24908/20, Pellecchia, Rv., 659769-01, la quale ha ritenuto che, in ragione della tutela riconosciuta ai legami familiari, al fine di riconoscere o negare l’applicazione della tutela rafforzata di cui al citato art. 13 comma 2 bis del d.lgs. n. 286 del 1998 occorre dare conto di tutti gli elementi qualificanti l’effettività di dette relazioni (ovvero rapporto di coniugio, durata del matrimonio, nascita di figli e loro età, convivenza, dipendenza economica dei figli maggiorenni etc.) oltre che delle difficoltà, conseguenti all’espulsione, dalle quali possa derivare la definitiva compromissione della relazione affettiva.

La concreta valorizzazione di tali elementi viene ritenuta dalla Corte preminente rispetto ad altri (quali la durata del soggiorno e l’integrazione sociale nel territorio nazionale del richiedente) considerati invero “suppletivi” imponendo al giudice di merito una motivazione aderente alle emergenze istruttorie ed al di sopra della sufficienza costituzionale sia sotto il profilo logico che contenutistico.

Tuttavia l’inespellibilità del cittadino straniero in ragione della sussistenza di legami familiari, subisce una deroga, come affermato da Sez. 3, n. 26216/2020, Dell’Utri, Rv. 659856 - 01, allorché sussistano ragioni di pericolosità sociale del richiedente ai sensi dell’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998. Nella specie la Corte confermava la decisione del Tribunale che a sua volta aveva rigettato il ricorso avverso il decreto di espulsione proposto dallo straniero, convivente in Italia con moglie e figli di nazionalità italiana, ma resosi responsabile della commissione dei reati di cui agli artt. 582 e 609 bis c.p.

6.3. L’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare del minore.

Nell’art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 il legislatore definisce con chiarezza l’accertamento cui è subordinata la concessione dello speciale permesso di soggiorno. Essa ha ad esclusivo oggetto l’accertamento del pregiudizio («il grave disagio1) sullo sviluppo psico fisico del minore dovuto all’allontanamento coattivo del genitore dal territorio italiano, da valutare mediante il parametro elaborato dall’intervento nomofilattico delle S.U. con le pronunce n. 21799 e 21803 del 2010.

La tutela prevista si fonda proprio sul diritto del minore a non lasciare il territorio italiano. Hanno chiarito le S.U. che deve essere sempre svolta una valutazione prognostica che non richiede l’esistenza di condizioni di emergenza o di circostanze contingenti od eccezionali strettamente collegate alla salute del minore, potendo comprendere qualsiasi danno effettivo, concreto, percepibile ed obiettivamente grave con la precisazione che deve trattarsi di situazioni di non lunga ed indeterminabile durata e non caratterizzate da tendenziale stabilità che si concretino in eventi traumatici e non prevedibili non rientranti nel normale disagio dovuto al rimpatrio di un familiare.

Sez. 6-1, n. 00773/2020, Tricomi, Rv. 656450-01, delimita i presupposti applicativi della norma statuendo che i “gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico” del minore, che consentono la temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del suo familiare, devono consistere in situazioni oggettivamente gravi, comportanti una seria compromissione dell’equilibrio psicofisico del minore, non altrimenti evitabile se non attraverso il rilascio della misura autorizzativa. Ritiene, pertanto, la Corte che detta normativa non può essere intesa come volta ad assicurare una generica tutela del diritto alla coesione familiare del minore e dei suoi genitori incombendo sul richiedente l’autorizzazione l’onere di allegazione della specifica situazione di grave pregiudizio che potrebbe derivare al minore dall’allontanamento del genitore.

Rilievo preminente nella concessione dell’autorizzazione de qua assume la valutazione dell’interesse del minore in relazione alla sua specifica condizione, ovvero tenendo conto dell’età, del suo radicamento nel territorio nazionale e della situazione dei genitori. A riguardo Sez. 1, n. 00277/2020, Rossetti, Rv. 656502 - 01, dopo aver compiuto un’ampia disamina circa i presupposti applicativi dell’art. 31 cit., stabilisce che la valutazione da parte del giudice del merito dei “gravi motivi” richiesti dall’art. 31, comma 3, del d.lgs. 286 del 1998, ai fini del rilascio dello speciale permesso di soggiorno temporaneo in favore degli stranieri che siano genitori di figli minori, costituisce un apprezzamento in fatto insindacabile in sede di legittimità. Afferma inoltre che né l’età prescolare del minore, né il rischio del suo allontanamento dall’Italia, di per sé, possono costituire circostanze sufficienti a ritenere la sussistenza dei detti gravi motivi. Nella fattispecie dedotta in giudizio, la S.C. ha confermato il provvedimento di rigetto della domanda di rilascio del permesso di soggiorno temporaneo, avanzata dai genitori di nazionalità albanese di un minore ancora in età prescolare nato in Italia.

Propone invece una lettura più ampia della norma Sez. 2, n. 18188/2020, Oliva, Rv. 659093 - 01 che, pronunciandosi nel caso in cui una coppia di cittadini albanesi aveva chiesto il rilascio di un permesso di soggiorno, a tempo indeterminato o in subordine a tempo determinato, lamentando i gravi pregiudizi derivanti allo sviluppo psicofisico dei propri figli minori a seguito dell’allontanamento dal territorio nazionale in cui sia il giudice di primo grado che quello d’appello avevano rigettato la domanda, ha invece affermato che va presunta la vulnerabilità dei minori nati in Italia che siano integrati nel tessuto socio-territoriale e nei percorsi scolastici, in applicazione dei criteri di rilevanza decrescente dell’età, per i minori di età prescolare, e di rilevanza crescente del grado di integrazione, per i minori in età scolare, entrambi affermati da questa Corte con Ordinanza n. 4197 del 2018. Aggiungendo che il giudice di merito è tenuto ad applicare alla posizione dei minori eventualmente coinvolti in provvedimenti di rimpatrio interessanti i loro genitori, o uno di essi, il criterio della comparazione attenuata, in base al quale va ritenuta, sino a prova contraria, la prevalenza della condizione di vulnerabilità del minore rispetto alle norme regolanti il diritto di ingresso e soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale, e va quindi dato primario rilievo al danno che deriverebbe, sulla persona del minore e sulle sue aspettative di vita in Italia, per effetto del rimpatrio in un contesto socio-territoriale con il quale il minore stesso non abbia in concreto alcun rapporto.

Su tale linea interpretativa si pone anche Sez. 1, n. 05938/2020, Scalia, Rv. 657026-01 secondo cui nella valutazione del danno grave per lo sviluppo psico-fisico di minori, ai fini del rilascio dello speciale permesso di soggiorno temporaneo in favore degli stranieri che siano genitori di figli minori, il tribunale per i minorenni non può omettere di tenere in considerazione, unitamente a tutti gli altri requisiti previsti dall’art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 , anche l’età prescolare dei minori e la disponibilità del genitore richiedente ad occuparsi della loro cura, in ausilio della madre soggiornante impedita temporaneamente a farlo.

In applicazione di tale principio la S.C. cassava con rinvio il decreto impugnato che aveva negato l’autorizzazione de qua ai genitori di due bambini in età pre scolare essendo uno solo il genitore in grado di accudirli.

Puntualizza ulteriormente il perimetro applicativo della norma Sez. 6-1, n. 15642/2020, Acierno, Rv. 658499-01 secondo cui il permesso di soggiorno di cui all’art. 31, comma 3, in favore del familiare del minore straniero che si trovi in Italia, si fonda sul presupposto che, ai sensi dell’ art. 19, comma 2, lett. a), del d. lgs. cit., il minore non può essere espulso principio ritenuto dal legislatore un corollario del preminente interesse del minore, secondo i principi della Convenzione di New York del 20 novembre 1989 ratificata con l. 27 maggio 1991, ribaditi nell’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Pertanto la valutazione delle condizioni per il rilascio di detta autorizzazione non può consistere solo nel giudizio sul radicamento del minore sul territorio italiano, il quale si risolverebbe in una grave violazione del divieto di espulsione ma tale considerazione può essere utilizzata solo come elemento integrativo, che concorre alla formulazione del giudizio prognostico, il quale deve fondarsi, indefettibilmente, sull’accertamento, secondo un giudizio probabilistico, del nesso causale tra l’allontanamento coattivo del genitore e i verosimili effetti pregiudizievoli sull’equilibrio psico-fisico del minore. Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva negato la richiesta autorizzazione esclusivamente in base alla ritenuta mancanza di radicamento del minore nel territorio italiano in ragione della tenera età dello stesso senza effettuare alcuna valutazione circa il nesso causale tra l’allontanamento della figura genitoriale priva del titolo di soggiorno ed i verosimili effetti pregiudizievoli sull’equilibrio psico-fisico del minore dovuti a tale evento.

Da ultimo Sez. 1, n. 27237/2020, Caradonna, Rv. 658930-01, segna un ulteriore passaggio nella valutazione dei “gravi motivi”. La Corte ha invero affermato che il tribunale per i minorenni nell’effettuare il giudizio prognostico circa le conseguenze alle quali il minore sarebbe esposto a seguito dell’allontanamento dei genitori o dello sradicamento dall’ambiente in cui il minore è nato o vissuto, qualora segua il genitore espulso nel luogo di destinazione, deve considerare anche le ricadute negative che deriverebbero al minore dal mutamento della situazione economica della famiglia conseguente alla perdita del lavoro da parte dei genitori, in quanto il deterioramento di tali condizioni è idoneo ad incidere non solo sul piano economico, ma anche sul piano relazionale ed affettivo del minore. In applicazione di tale principio la S.C. ha confermato la pronuncia di merito che aveva valutato come la perdita di un lavoro economicamente soddisfacente da parte dei genitori, potesse incidere sui minori non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista relazionale ed affettivo, tenuto conto anche dell’età prescolare dei medesimi nonché del loro radicamento in Italia.

Quanto all’altro presupposto da valutarsi ai fini dell’accoglimento del rilascio del permesso di soggiorno de quo, nel solco tracciato da Sez. U. n. 15750/2019, Giusti, Rv. 654215-01, Sez. 6-1, n. 01563/2020, Sambito, Rv. 654215 - 01 ha statuito che nel giudizio avente ad oggetto l’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare del minore straniero, ex art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, la sussistenza di comportamenti del familiare medesimo incompatibili con il suo soggiorno nel territorio nazionale deve essere valutata in concreto e attraverso un esame complessivo della sua condotta, al fine di stabilire, all’esito di un attento bilanciamento, se le esigenze statuali inerenti alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale debbano prevalere su quelle derivanti da gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, cui la norma conferisce protezione in via primaria. Nella specie la S.C. cassava il decreto impugnato che aveva negato l’autorizzazione ex art. 31 cit. valutando come condizione ostativa il rinvio a giudizio degli istanti.

Con riguardo ai presupposti del rilascio dell’autorizzazione ex art. 31, comma 3, d.lgs. cit., Sez. 1, n. 29996/20, Tricomi, Rv. 660133 - 01, precisa che la temporaneità della stessa non risulta incompatibile con il suo rinnovo, tenuto conto del prioritario interesse del minore mentre risulta incompatibile il rinnovo, inteso come mero differimento del termine di scadenza dell’autorizzazione già riconosciuta, in quanto sganciato dall’accertamento della ricorrenza dei presupposti.

In tema di legittimazione processuale, Sez. 1, n. 280/2020, Meloni, Rv. . 656619 - 01 ha affermato che nel caso di impugnazione del provvedimento di diniego dell’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza nel territorio italiano del familiare di minore di nazionalità straniera, ai sensi dell’ art. 31 del d. lgs. n. 286 del 1998, legittimato passivo nel relativo procedimento è il solo pubblico ministero presso il giudice che procede. Nella fattispecie dedotta, la S.C. ha cassato senza rinvio il decreto impugnato, rilevando che l’azione non andava proposta nei confronti del ministero dell’Interno, bensì del procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni.

7. Apolidia e cittadinanza.

La fonte principale che definisce l’apolidia è contenuta nell’art. 1 della Convenzione di New York del 28 settembre 1954 ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 1° febbraio 1962, n. 306 che definisce «apolide» una persona che nessuno Stato considera come suo cittadino nell’applicazione della legislazione nazionale.

Da questa premessa discendono conseguenze fondanti la condizione di apolidia considerato che un individuo privo di qualunque nazionalità non godrebbe dei diritti fondamentali riservati ai cittadini.

La Convenzione citata prevede, perciò, un fulcro di diritti e di garanzie per lo status di apolide, quali il diritto a documenti di identità e di viaggio.

Ulteriore strumento pattizio è quello della Convenzione del 1961 di riduzione dell’apolidia attraverso ordinamenti sulla cittadinanza diretti a prevenire la condizione di apolide.

L’Italia ha ratificato le due Convenzioni, in ultimo, con la legge 29 settembre 2015, n. 162 ed ha equiparato, ai fini dell’applicazione della legge italiana sulla cittadinanza, (art. 16, comma 2, legge 5 febbraio 1992, n. 91) il rifugiato all’apolide, con esclusione degli obblighi inerenti al servizio militare.

La citata Convenzione del 1961 pone a carico degli Stati una serie di azioni dirette a prevenire i casi di apolidia che si verificano al momento della nascita o nel corso della vita per i casi di perdita o rinuncia alla nazionalità o nel caso di successione tra Stati.

La legge italiana sulla cittadinanza citata prevede, perciò, che l’apolide possa richiedere l’acquisto della cittadinanza italiana dopo cinque anni di residenza stabile e legale sul territorio,

Infine, altri trattati internazionali come la Dichiarazione universale dei diritti umani del 10 dicembre 1948, la Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, la Convenzione sull’ eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne del 18 dicembre 1979 contengono specifiche disposizioni sulla nazionalità finalizzate alla prevenzione dell’apolidia, la Convenzione sui diritti del fanciullo e la Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del 30 agosto 1961.

Con la legge 18 dicembre 2020, n. 173, è stato convertito in legge il d.l. 21 ottobre 2020, n. 130 (c.d. decreto immigrazione e sicurezza) che reca una serie di disposizioni urgenti in materia di immigrazione ed apolidia.

In particolare, risulta introdotta la convertibilità del permesso di soggiorno per acquisto della cittadinanza o dello stato di apolide di cui all’art. 11 lettera c) del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 , ad eccezione dei casi in cui lo straniero fosse precedentemente in possesso di un permesso per richiesta asilo, onde ricondurre la normativa vigente al rispetto più puntuale degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano garantendo che le persone con lo status di apolide abbiano sostanzialmente i medesimi diritti dei cittadini stranieri regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale con permessi di soggiorno di lunga durata: diritto al lavoro, diritto allo studio, diritto all’iscrizione sanitaria, diritto al ricongiungimento familiare.

La novella n. 130 del 2020 nell’affrontare, da questo punto di vista, il fenomeno dell’apolidia, sempre in via di crescita per effetto dei fenomeni migratori, non è riuscita, tuttavia, a ripensare la nuova sanzione di revoca della cittadinanza introdotta dal d.l. 4 ottobre 2018, n.113 convertito nella legge 1 dicembre 2018, n. 132 (art. 10-bis della l. 5 febbraio 1992, n. 91, introdotto dall’art. 14, comma 1, lett. d), del d. l. n. 113/2018) che viene a privare della cittadinanza stessa coloro che, avendola acquisita per maggiore età, matrimonio o residenza prolungata, si siano in seguito macchiati di reati considerati gravi.

Non è stato, infatti, approvato l’emendamento che prevedeva l’abrogazione della revoca della cittadinanza italiana prevista nell’art. 10-bis della l. n. 91 del 1992 introdotta dall’art. 14, comma 1 lett. d) del d.l. n. 113 del 2018, ancorché la disposizione presentasse delle criticità per sospetta violazione del divieto di privazione della cittadinanza per motivi politici contenuto nell’art. 22 Cost,. nella parte in cui attraverso la revoca, si determina una situazione di apolidia secondo l’art. 10-bis della l. n. 91 del 1992 che rinvia, a sua volta, all’art. 4, comma 2, della l. citata. La disposizione in questione sembra, infatti, poco coerente con il divieto di nuova apolidia previsto dall’art 8 della Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del 30 agosto 1961 già citata in premessa.

Si tratterebbe, anche, di un esito non proprio in linea con i criteri elaborati dalla CEDU (CEDU, Plenaria, 8 giugno 1976, caso n. 5100/71, Engel and Others v. the Netherlands 8 giugno 1976) specie con riferimento alla nota questione del cumulo di sanzioni c.d. amministrative con misure penali in rapporto ad divieto del ne bis in idem di cui all’art. 4 del Protocollo aggiuntivo n. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo

Infine, l’articolo 9-ter della l. n. 91 del 1992, introdotto dal d. l. n. 113 del 2018 aveva portato da 24 a 48 mesi il termine per la conclusione dei procedimenti di riconoscimento della cittadinanza per matrimonio (art. 5) e per c.d. naturalizzazione (art. 9), a far data dalla presentazione della istanza. Nel testo originario del d.l. n. 130 del 2020 il termine massimo era stato ridotto a 36 mesi, tuttavia, in sede di conversione, è stato riportato a 24 mesi, prorogabili fino a trentasei.

In linea generale la l. n. 91 del 1992 disciplina l’istituto della concessione della cittadinanza italiana mediante decreto del Presidente della Repubblica, ove si prevedono modalità differenziate in considerazione di specifici requisiti degli aspiranti e graduando il periodo di residenza legale occorrente per legittimare la proposizione della relativa istanza prevedendo all’art. 10 il giuramento di fedeltà come requisito integrativo della fattispecie procedimentale attributiva allo straniero dello status di cittadino italiano.

La giurisprudenza della S.C. ha, in proposito affrontato alcune questioni procedurali ed interpretative.

Secondo Sez. 1, n. 18610/2020, Parise, Rv. 658813-01, la prestazione del giuramento costituisce l’atto conclusivo del procedimento di cittadinanza, dal quale solo si produce ex nunc l’efficacia costitutiva del d.p.r. di conferimento della cittadinanza italiana, ne consegue che nelle ipotesi di acquisto della cittadinanza previsto dall’art. 9 della l. n. 91 del 1992, ai sensi dell’art. 4, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica 12 ottobre 1993, n. 572, l’Ufficiale dello Stato civile è tenuto ad esercitare attività di controllo, vincolata e specifica, circa la perdurante sussistenza, in capo al naturalizzando, del requisito della residenza legale nel territorio italiano fino al momento della prestazione del giuramento di cui all’art.10 della l. n. 91 del 1992.

Qualora a quel momento, il requisito sia venuto meno, l’Ufficiale dello Stato civile è tenuto a rifiutare, ai sensi dell’art. 7 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, di ricevere la prestazione del giuramento del naturalizzando, in quanto adempimento in contrasto con l’ordinamento Inoltre, nel caso di acquisto per matrimonio dell’apolide o dello straniero con cittadino, secondo lo ius communicationis la nullità del matrimonio all’esito del provvedimento con il quale l’Amministrazione accerti l’esistenza dei requisiti previsti dalla legge, può venire meno per effetto dell’iniziativa della stessa Amministrazione che, preso atto della sentenza dichiarativa della nullità del matrimonio, provveda a rimuovere l’originario provvedimento, poiché l’effetto retroattivo della decisione passata in giudicato concernente il rapporto coniugale, determina l’inesistenza al momento del provvedimento di annullamento del requisito necessario per il riconoscimento della cittadinanza (Sez. 1, n. 25441/2020, Pazzi, Rv. 659518-01).

Per quanto riguarda la cittadinanza che si acquisti per matrimonio con cittadino italiano, è rimasto confermato quell’orientamento secondo il quale rileva soltanto la separazione personale dei coniugi, ma non anche quella di fatto, costituisce condizione ostativa all’acquisto della cittadinanza italiana mediante matrimonio con un cittadino italiano, come si evince dal tenore testuale della norma in questione che adopera l’espressione «separazione personale», utilizzata anche negli artt. 150, 154 e 155 c.c. prima della modifica intervenuta con il d.lgs. n. 154 del 2013, cogliendosi peraltro la differenza tra «separazione personale » e «separazione di fatto » anche nell’art. 6 della legge 4 maggio 1983, n. 184 in tema di adozione (Sez. 1, n. 04819/2020, Ghinoy, Rv. 657001-01).

La giurisprudenza della S.C. nell’ anno in corso è, poi, intervenuta su alcuni aspetti processuali di riconoscimento dello status di apolidia, ossia sul tema della competenza territoriale ed i suoi rapporti con il foro erariale.

A riguardo Sez. 1, n. 25440/2020, Scotti, Rv. 659517-01, ha affermato che nei giudizi aventi ad oggetto il riconoscimento della condizione di apolidia, la competenza va determinata in base al criterio del foro del luogo dove ha sede l’ufficio dell’avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie, senza che assuma rilievo il contenuto degli interessi in gioco o la necessità di porre le parti in una situazione di parità, in quanto così facendo si affiderebbe al giudice una valutazione, riservata invece al legislatore, circa la sussistenza o meno di una ragione per agevolare la difesa dello Stato.

PARTE SECONDA I DIRITTI A CONTENUTO ECONOMICO

  • abitazione
  • proprietà pubblica
  • proprietà privata
  • disciplina urbanistica
  • servitù
  • usufrutto

CAPITOLO IV

I DIRITTI REALI E IL POSSESSO

(di Gian Andrea Chiesi )

Sommario

1 Proprietà pubblica. - 1.2 Azioni a tutela della proprietà pubblica e della relativa destinazione. - 2 Le servitù pubbliche (o di uso pubblico) e gli usi civici. - 2.1 (Segue) La liquidazione degli usi civici. - 3 Conformità urbanistiche degli immobili e diritti privati. - 3.1 (Segue) Le distanze legali. - 4 Le azioni a tutela della proprietà: a) la rivendicazione. - 4.1 (Segue) b) la “negatoria servitutis”. - 4.1.1 (Segue) Le immissioni. - 4.2 (Segue) c) le azioni di regolamento di confini e di apposizione di termini. - 5 Comunione di diritti reali. - 5.1 Comunione e tutela in sede giudiziaria. - 6 Usufrutto, uso e abitazione. - 7 Servitù prediali. - 7.1 Profili processuali relativi alla costituzione delle servitù. - 8 Tutela ed effetti del possesso. - 8.1 Profili processuali relativi all’esercizio delle azioni possessorie e quasi-possessorie.

1. Proprietà pubblica.

L’art. 41, comma 1, Cost. chiarisce che la proprietà è privata o pubblica ed alla regolamentazione di quest’ultima sono altresì dedicate numerose previsioni del codice civile; peraltro, neppure la proprietà privata è del tutto scevra da connotazioni latamente pubblicistiche, se si considera che, dal combinato disposto degli 42, comma 2, Cost. e 832 c.c., essa va esercitata in modo da assicurarne la funzione sociale. Il medesimo concetto è espresso, peraltro, dall’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, firmata a Nizza il 7 dicembre 2000, ove, nell’ultimo periodo, si chiarisce che “l’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale”.

Siffatta funzionalizzazione della proprietà è resa evidente da Sez. 2, n. 26714/2020, Varrone, Rv. 659834 - 01, la quale osserva che i terreni acquisiti al patrimonio degli enti di sviluppo, destinati al servizio pubblico di ridistribuzione della proprietà terriera, per trent’anni dalla prima assegnazione sono assoggettati al regime del patrimonio indisponibile non abrogato dalla l. 10 maggio 1976 n. 346 - e perciò non sono usucapibili, pur se affrancati ai sensi della l. 20 aprile 1976, n. 386 o riscattati ai sensi dell’art. 1 della l. 29 maggio 1967, n. 379, neppure dall’ente assegnante o dai coltivatori diretti o da altri manuali coltivatori della terra, ai quali invece sono alienabili, a norma dell’art. 4 di quest’ultima legge “fino al termine del trentesimo anno dalla data della prima assegnazione”. Sostanzialmente nel medesimo senso si pone Sez. 2, n. 21137/2020, Oliva, Rv. 659314-01, chiarendosi ivi che, allorquando lo Stato o altro ente pubblico intervenga nel settore della proprietà, fondiaria o urbana, per assicurare il soddisfacimento di un interesse pubblico primario, quali l’esigenza di redistribuzione della proprietà agraria ovvero l’assicurazione di una casa di abitazione per i cittadini non abbienti oppure, ancora, la ricostruzione post-terremoto, la finalità perseguita assume valenza e prevalente rispetto alla posizione individuale di eventuali soggetti che si pongano in una mera relazione di fatto con la cosa: sicché, il bene immobile interessato dall’intervento pubblico rimane nel patrimonio indisponibile dell’ente e non è usucapibile a vantaggio del privato, sino all’intervenuto completamento dei diversi procedimenti amministrativi finalizzati alla realizzazione dell’interesse pubblico perseguito, configurarsi una reviviscenza dell’interesse individuale rispetto a quello generale solo ove l’intervento progettato non abbia avuto seguito e non si sia realizzato in concreto l’asservimento del bene alla finalità pubblica perseguita, ovvero il bene sia stato abbandonato dall’ente pubblico per un periodo di tempo incompatibile con l’utilizzazione in concreto a fini di pubblica utilità.

Caso peculiare di beni assoggettati a vincolo di destinazione non disponibile dallo Stato è, poi, quello affrontato da Sez. 2, n. 16434/2020, Picaroni, Rv. 658291-01, con riferimento ai beni facenti parte della Riserva Fondo lire U.N.R.R.A. (“United Nations Relief and Rehabilitation Administration”, organizzazione umanitaria internazionale fondata nel 1943, con l’accordo di quarantaquattro paesi allo scopo di fornire aiuto e assistenza immediati ai paesi più colpiti dalla guerra e operante in Europa dal 1944), costituita in attuazione dell’Accordo internazionale 8 marzo 1945: in particolare, nell’accordo stipulato tra il Governo italiano e l’U.N.R.R.A. il 12 novembre 1947 e reso esecutivo con d.lgs. 10 aprile 1948, n. 1019, è stato stabilito l’impiego della Riserva U.N.R.R.A. e cioè di quanto raccolto nel fondo attraverso “i proventi derivanti dalla vendita, affitto o altro trasferimento dei rifornimenti e dei servizi forniti dall’U.N.R.R.A.”, per una serie determinata di destinazioni fra le quali l’esecuzione di progetti finalizzati a scopi di assistenza e riabilitazione. Con il successivo d.P.C.M. del 20 ottobre 1994, n. 755, sono stati poi definiti puntualmente i criteri da adottare per la gestione del patrimonio, le modalità per il perseguimento dei fini della Riserva, le aree di intervento, i destinatari dei finanziamenti ed è stata stabilita la rendicontazione all’O.N.U. Orbene, nel rilevare l’esistenza di siffatto vincolo di destinazione, la S.C. ne ha fatto discendere l’insuscettibilità dei beni ad esso assoggettati a rientrare tra i beni patrimoniali che l’art. 6 dello Statuto di autonomia attribuisce alla Regione Valle d’Aosta (così confermando la pronuncia d’appello che, in riforma di quella di primo grado, aveva disatteso la domanda della Regione Valle d’Aosta, mirata ad ottenere l’attribuzione, ai sensi dell’art. 6 dello Statuto di autonomia, della proprietà di un complesso immobiliare situato nel territorio regionale, parte -per l’appunto - della Riserva Fondo lire U.N.R.R.A.).

La connotazione in senso pubblicistico di un determinato bene pone poi, il problema delle modalità attraverso le quali può procedersi alla dismissione di tale attributo: si occupa della questione Sez. 2, n. 19814/2020, Oliva, Rv. 659136-01, con specifico riferimento alla declassificazione dei beni inclusi nel patrimonio indisponibile, la cui destinazione all’uso pubblico derivi da una determinazione legislativa. La S.C. chiarisce, nell’occasione, che la declassificazione deve avvenire in virtù di atto di pari rango e non può, dunque, trarsi da una condotta concludente dell’ente proprietario, postulando la cessazione tacita della patrimonialità indisponibile, così come della demanialità, che il bene abbia subito un’immutazione irreversibile, tale da non essere più idoneo all’uso della collettività, senza che a tal fine sia sufficiente la semplice circostanza obiettiva che detto uso sia stato sospeso per lunghissimo tempo. Ne consegue che, con riguardo agli alloggi costruiti a carico dello Stato per far fronte alle esigenze delle popolazioni colpite da eventi sismici, la cui inclusione nell’ambito del patrimonio indisponibile si ricava dagli artt. da 252 a 255 del Testo Unico delle disposizioni sull’edilizia popolare ed economica, deve escludersi la stessa ipotetica configurabilità di una declassificazione tacita per effetto dell’attività concludente posta in essere dall’ente proprietario, nonché la possibilità che questa abbia anche soltanto innescato la sospensione dell’uso pubblico.

1.2. Azioni a tutela della proprietà pubblica e della relativa destinazione.

Sul versante processuale, molteplici sono state le decisioni che hanno affrontato, sotto vari angoli prospettici, il tema del riparto di giurisdizione in ipotesi di azioni a tutela di beni pubblici.

Anzitutto, Sez. U, n. 24101/2020, Rubino, Rv. 659449-01, che, a fronte di un rapporto di affittanza agraria instaurato da un Comune con una cooperativa agricola, volto a consentire, verso il pagamento di un corrispettivo, l’utilizzo di un determinato terreno di proprietà comunale adibito a pascolo, radica in capo al giudice ordinario la cognizione della controversia relativa alla validità e all’efficacia del contratto di transazione, diretto a prevenire le liti in ordine al predetto contratto, qualora sia estranea alla materia del contendere la natura pubblica o privata del terreno, l’amministrazione non abbia utilizzato poteri autoritativi e le parti si siano limitate a domandare al giudice una verifica della conformità alla normativa positiva delle regole in base alle quali è sorto l’atto negoziale.

Merita, poi, di essere segnalata Sez. U, n. 21991/2020, Graziosi, Rv. 659283-01, la quale, in tema di beni di proprietà degli enti pubblici, chiarisce che l’immobile comunale che, a titolo oneroso, sia stato concesso in uso ad un privato per lo svolgimento di servizi socio-assistenziali, in mancanza di un provvedimento amministrativo che lo destini a pubblico servizio, appartiene al patrimonio disponibile dell’ente, con la conseguenza che la controversia relativa alla sua restituzione rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, avendo ad oggetto un rapporto privatistico di carattere paritetico riconducibile a quello locatizio.

Sez. U, n. 11126/2020, Falaschi, Rv. 657874-01 ha infine rilevato che, nel rapporto di concessione di derivazione ed utilizzazione di acque pubbliche, i diritti dei privati (che non possono mai essere diritti assoluti) sono acquisiti con la condizione che siano fatte salve le esigenze della collettività, il cui diritto all’uso delle acque pubbliche, sempre latente, può riespandersi in ogni momento; ne consegue che, in seguito alla riespansione del primato della destinazione pubblica dell’acqua, il concessionario non subisce la compressione di un inesistente diritto di proprietà ma soggiace all’obbligo (assunto con la sottoscrizione dell’atto di concessione) di rilasciare l’acqua richiesta a causa del verificarsi di una condizione legittima e accettata, e non può pertanto pretendere alcun indennizzo o risarcimento, ma soltanto l’adeguamento del canone in ragione del ridotto utilizzo, quantitativo e temporale.

2. Le servitù pubbliche (o di uso pubblico) e gli usi civici.

L’istituto della “servitù” trova pacificamente applicazione anche nel campo del diritto “pubblico”, sebbene l’esatta identificazione del significato e la delimitazione del contenuto della locuzione “servitù pubbliche” appaiono ancora oggi tutt’altro che univoche, con precipuo riferimento (a) ai relativi elementi costitutivi, (b) all’eventuale autonomia concettuale rispetto all’omologo istituto disciplinato dal codice civile e (c) alle linee di demarcazione dalle fattispecie di cd. “limitazione amministrativa della proprietà”. L’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale è comunque giunta alla conclusione per cui le “servitù pubbliche” (o “servitù d’uso pubblico”) possono essere qualificate in termini di vincoli lato sensu pubblicistici alla (condizione giuridica della) proprietà privata o pubblica, caratterizzati da un’intensa funzionalizzazione alla tutela di interessi pubblici o collettivi (cfr. anche l’art. 825 c.c.), immanente alle differenti matrici e giustificazioni teoriche della demanialità (o della immutabilità di destinazione propria del concetto di patrimonio indisponibile), nonché a situazioni di vantaggio su beni privati aventi caratteristiche oggettive assimilabili a quella dei beni pubblici riconosciute in favore di comunità di cittadini o utenti.

Per ciò che concerne i relativi modi di costituzione, essi vengono comunemente ravvisati - non dissimilmente rispetto a quanto avviene relativamente alle servitù coattive di diritto privato - nella legge, negli atti amministrativi ablatori, nell’esistenza di una convenzione tra le parti, nell’usucapione e nella sentenza.

L’imposizione di una servitù di uso pubblico per atto della pubblica amministrazione implica la corresponsione, in favore del titolare del fondo servente, della cd. indennità di asservimento, secondo la previsione generale oggi contenuta nell’art. 44 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, quale approdo di una lunga evoluzione legislativa che trova il proprio incipit nella legge Pisanelli (cfr. gli artt. 45 e 36 della l. 25 giugno 1865, n. 2359).

A tale riguardo, sia pure con riferimento alla servitù di elettrodotto, Sez. 1, n. 18577/2020, Nazzicone, Rv. 658617-01 ha evidenziato che la determinazione dell’indennità di asservimento, parametrata al valore venale del bene ed attribuita se sia dimostrata l’attualità del deprezzamento nonché l’oggettiva incidenza causale del vincolo, richiede l’applicazione del metodo sintetico-comparativo con obbligo per il giudice, onde non incorrere in violazione di legge, di indicare i dati obiettivi sui quali ha fondato la propria valutazione, vale a dire gli elementi di comparazione utilizzati documentandone la rappresentatività in riferimento ad immobili analoghi e quindi in riferimento ad atti specifici ed identificabili. Quanto, poi, alle specifiche modalità di calcolo, Sez. 1, n. 18581/2020, Scalia, Rv. 658809-01 ha chiarito che l’indennità di asservimento che spetta al proprietario del fondo gravato dall’imposizione di una servitù di metanodotto e che presuppone un atto legittimo della Pubblica Amministrazione, con conseguente responsabilità indennitaria ex art. 44 del d.P.R n. 327 del 2001, va calcolata in una misura percentuale dell’indennità di espropriazione, essendo destinata a ristorare il pregiudizio attuale ed effettivo derivante al proprietario non espropriato dalla realizzazione dell’opera pubblica, ulteriormente precisando, poi, che dall’accostamento, in via analogica, tra le due indennità consegue che la posta di cui all’art. 33 d.P.R. n. 327 cit. - che in tema di esproprio parziale impone la commisurazione dell’indennità anche alla perdita di valore della porzione residua del fondo - trova applicazione anche rispetto ad un fondo appartenente ad un unico proprietario che si trovi svilito nel suo valore anche quanto alla parte del fondo non attinta dal provvedimento di servitù in ragione della originaria unitarietà del bene.

Non dissimili rispetto alle servitù coattive di diritto privato sono, inoltre, le cause di estinzione: sicché, ove la servitù pubblica sia stata costituita su base convenzionale, è anzitutto nel regolamento contrattuale che vanno ricercate le fonti di eventuali cause di cessazione della medesima (ad es.: fissazione di un termine); ove, al contrario, all’origine del vincolo reale vi sia un provvedimento amministrativo, l’eventuale sopravvenienza di ragioni d’interesse pubblico incompatibili con la permanenza del vincolo potrebbe costituire il presupposto per l’esercizio di poteri di autotutela amministrativa (come nel caso si revoca del provvedimento impositivo del vincolo).

Può, infine accadere, che la servitù pubblica ceda il passo al definitivo spossessamento, da parte della P.A., del fondo del privato: è il caso, affrontato, in particolare, da Sez. 6-1, n. 09547/2020, Mercolino, Rv. 657737-01 avuto riguardo alla domanda di risarcimento del danno, proposta dal proprietario di una strada già assoggettata a servitù di uso pubblico di passaggio, il quale deduca di aver subito la definitiva spoliazione del terreno per effetto dell’illecito spossessamento operato dal comune. In tal caso - osserva la S.C. - il riconoscimento del danno postula la verifica dell’effettiva immutazione della precedente situazione di possesso concernente la detta strada, con la verifica delle concrete modalità di esercizio della servitù pubblica di passaggio, e delle ulteriori residue facoltà, poteri o utilità che sottratte al proprietario rispetto a quelle già perdute per effetto dell’esistenza della servitù: ed infatti, non risultano sufficienti ad affermare l’avvenuta interversione del possesso da parte della P.A. né l’esercizio di facoltà ricomprese nella servitù di uso pubblico (quali l’esercizio di poteri di polizia sulla strada, il servizio di pubblica amministrazione, l’apposizione dei numeri civici sui fabbricati, l’esecuzione di lavori di manutenzione o del manto stradale, etc.) o che non sono di per sé idonee ad incidere sulla situazione possessoria (quali la destinazione a strada pubblica nell’ambito del piano regolatore o l’inclusione della strada nella toponomastica cittadina), né l’apertura di accessi sulla strada a favore di fondi latistanti (riconducibile al comportamento di singoli privati esorbitanti dai limiti della servitù), dovendosi piuttosto accertare le concrete modalità con le quali l’ente pubblico abbia di fatto usurpato il completo possesso uti dominus della strada, con conseguente perdita della disponibilità da parte del proprietario (così anche, in passato, Sez. 2, n. 05282/1983, Pierantoni, Rv. 430180-01).

Certamente diversi dalle servitù pubbliche sono gli usi civici, pur essendo innegabile, tuttavia, l’analogo effetto di assoggettamento che ne consegue, con efficacia erga omens, a carico della proprietà (pubblica o) privata, in favore del soddisfacimento di un interesse della collettività indifferenziata degli abitanti di un territorio (chiara in tal senso Sez. 5, n. 02632/2020, Mondini, Rv. 656961-01).

Osserva, in proposito, Sez. 3, n. 11276/2020, Guizzi, Rv. 658154-01, che la possibilità di consentire in favore dei privati, con atto di concessione o con contratto di affitto, il godimento individuale di un terreno demaniale di uso civico, temporaneamente non utilizzato dalla comunità, può avere solo carattere precario e temporaneo, con la conseguenza che il rapporto resta sottratto alle norme speciali in materia agraria relative alla durata, poiché altrimenti resterebbe preclusa alla P.A. la possibilità di condizionarne la continuazione e la rinnovazione alla compatibilità, in concreto, con la destinazione ad uso civico del terreno.

La natura peculiare del diritto di uso civico su di un suolo “colora”, inoltre, il regime giuridico delle opere e degli impianti che su di esso siano realizzati senza titolo: chiarisce, infatti, Sez. 2, n. 09373/2020, San Giorgio, Rv. 657751-02 che, essendo tali manufatti privi di una propria titolarità giuridica diversa dal suolo sul quale insistono, di quest’ultimo acquisiscono la natura demaniale civica (nell’occasione la S.C. ha cassato la sentenza di merito, nella parte in cui aveva dichiarato la natura demaniale civica di alcuni terreni e non anche delle opere idroelettriche abusivamente realizzate sui terreni medesimi).

2.1. (Segue) La liquidazione degli usi civici.

Come chiarito poc’anzi, i diritti di uso civico su beni privati (cd. in senso stretto) - la cui disciplina risulta essenzialmente condensata nella l. 16 giugno 1927, n. 1766 - comportano, per il proprietario, un vincolo ed un limite al pieno godimento del proprio bene, stante l’obbligo di consentire ai membri di una data comunità di fare proprie specifiche utilità: donde la necessità di provvedere alla loro liquidazione.

In particolare, il procedimento che conduce all’estinzione dei diritti di uso civico si articola in più fasi e, precisamente, (a) nell’accertamento dell’esistenza degli usi civici, (b) nella valutazione dell’estensione e del valore degli stessi e (c) nella liquidazione: la prima fase, condotta da periti nominati dalla Regione, è volta a verificare la presenza dei diritti di uso civico su un dato bene e ad individuarne l’esatto contenuto e rilevanza, sotto il profilo economico, nel territorio; accertata l’esistenza del diritto di uso civico degli usi civici in senso stretto, segue, quindi, la fase della verifica, finalizzata a determinarne l’estensione ed il valore, dovendosi distinguere, secondo quanto previsto dall’art. 4 della l. n. 1766 del 1927, fra “usi essenziali” (legati, cioè, ai bisogni fondamentali della vita) e “usi utili” (aventi una destinazione economico-produttiva, di tipo agricolo o silvo-pastorale); la liquidazione, da ultimo, avviene mediante affrancazione del terreno, che viene liberato dall’uso mediante scorporo ovvero l’imposizione di un canone di natura enfteutica a favore della collettività, da corrispondersi annualmente.

Il progetto di liquidazione degli usi civici, una volta predisposto dai periti, va trasmesso e depositato, a cura della Regione, al Comune o alla associazione agraria del luogo in cui siano situate le terre interessate dal diritto di uso civico; di tale deposito va dato avviso con un bando ed il progetto di liquidazione va notificato agli interessati.

Contro di esso i possessori delle terre su cui sono stati individuati gli usi, il Comune o l’associazione agraria possono proporre opposizione (in mancanza della quale, peraltro, il progetto di liquidazione è dichiarato esecutivo dalla Regione) al Commissario per gli usi civici nel termine di trenta giorni: tale organo - osserva Sez. 2, n. 17310/2020, Grasso, Rv. 658895-03 - è investito, in virtù di quanto previsto dall’art. 29 della l. n. 1766 del 1927, di compiti amministrativi, nonché della piena giurisdizione in materia di “controversie circa la esistenza, la natura e la estensione” dei diritti di cui all’art. 1 della l. n. 1766 cit., nel cui alveo si colloca, peraltro, l’”esperimento di conciliazione” previsto dall’art. 29, comma 3, quale evenienza auspicabile, ma non obbligatoria, esperibile “in ogni fase del procedimento” giurisdizionale regolato dal comma 2 della medesima norma. Più in generale Sez. U, n. 09280/2020, Lombardo, Rv. 657660-01 chiarisce che appartengono alla giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici le controversie che abbiano ad oggetto l’accertamento degli usi civici o di diritti di uso collettivo delle terre ovvero l’accertamento dell’appartenenza di un terreno al “demanio civico”; esulano, invece, da tale giurisdizione tutte le controversie che abbiano ad oggetto l’accertamento dell’appartenenza di un terreno al demanio comunale non destinato all’uso civico (come il demanio stradale), le quali spettano alla giurisdizione del giudice ordinario. Esula, altresì, dalla giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici, per rientrare in quella del G.A., la controversia relativa all’impugnazione di una delibera comunale di approvazione di uno schema di accordo transattivo avente ad oggetto il riconoscimento della natura civica di alcune terre, giacché - osserva Sez. U, n. 09282/2020, Lombardo, Rv. 657662-01 - il petitum sostanziale della lite è in tal caso costituito dalla legittimità amministrativa della delibera, senza che sia proposta alcuna domanda di accertamento della qualità demaniale dei suoli.

Quanto alle regole procedurali applicabili innanzi al Commissario liquidatore, Sez. 2, n. 17310/2020, Rv. 658895-02 precisa che l’art. art. 31, comma 3, della l. n. 1766 cit., in virtù del quale i commissari per la liquidazione degli usi civici debbono attenersi alle norme dei procedimenti dinanzi al pretore, ha carattere indicativo e programmatico e faculta i commissari a seguire tali norme, meno rigide di quelle del procedimento ordinario, sempre che ciò sia compatibile con il carattere inquisitorio e l’impulso di ufficio del procedimento dinanzi ad essi e con i principi posti dai commi 1 e 4 del medesimo art. 31, i quali dispensano dalla osservanza delle forme della procedura ordinaria, purché prima di provvedere siano sentiti gli interessati e ne siano raccolte sommariamente le osservazioni e le istanze, né ammettono eccezioni di nullità degli atti processuali ulteriori rispetto a quelle relative all’assoluta incertezza delle persone e dell’oggetto dell’atto, del luogo di comparizione o che concernono l’essenza dell’atto. Ne consegue che le parti possono stare dinanzi al Commissario per la liquidazione degli usi civici senza il ministero di difensore e, qualora conferiscano la procura alle liti, non sono strettamente vincolate all’osservanza delle forme prescritte dall’art. 83 c.p.c. Osserva, ulteriormente, Sez. 2, n. 09373/2020, San Giorgio, Rv. 657751-01 che, nel giudizio di appello in materia di usi civici, la preclusione della facoltà di proporre appello incidentale è determinata esclusivamente dall’inizio dell’udienza di discussione fissata dal presidente, cioè dalla comparizione della parte, atteso che l’art. 4 della l. n. 1078 del 1930 (applicabile ratione temporis alla fattispecie) è una norma speciale che prevale sugli artt. 166 e 343 c.p.c., incompatibili con essa. È, poi, inammissibile il ricorso per cassazione proposto dal P.M. presso il giudice a quo avverso la sentenza pronunciata in sede di reclamo dalla corte d’appello, sezione speciale per gli usi civici, atteso che nel procedimento in materia di usi civici, disciplinato dalla l. n. 1078 del 1930, tale organo, pur essendo tenuto ad intervenire, non è titolare di un autonomo diritto d’impugnazione, laddove secondo la regola generale posta dall’art. 72 c.p.c., spetta al pubblico ministero interveniente la titolarità del diritto d’impugnazione soltanto nelle cause che avrebbe potuto proporre, ovvero in quelle altrimenti previste nei commi 3 e 4 di tale norma (così Sez. 2, n. 06626/2020, Scarpa, Rv. 657467-01).

3. Conformità urbanistiche degli immobili e diritti privati.

La tematica delle conformità urbanistiche ha rappresentato fertile terreno di indagine da parte della giurisprudenza di legittimità.

Va anzitutto chiarito che, in tale ambito, la distinzione fra “vincoli conformativi” e “vincoli espropriativi” (comprensivi di quelli “preordinati all’esproprio” e di quelli “sostanzialmente espropriativi”, secondo la formula dell’art. 39, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001) origina dalla sentenza n. 55 del 1968 della Corte costituzionale ed ha ricevuto una più precisa definizione nella successiva sentenza n. 179 del 1999 del giudice delle leggi: in via di prima approssimazione il discrimen sembrerebbe riposare sul binomio determinatezza/generalità, nel senso che i vincoli espropriativi sono a titolo particolare su beni determinati, mentre quelli conformativi attengono alla generalità o a categorie, determinate anche “per zone territoriali” oppure, ma sempre in via generale, in rapporto a beni o a interessi della pubblica amministrazione (in altri termini, come indicato nella sentenza n. 6 del 1966 della Corte Costituzionale, hanno un carattere “generale e obiettivo”).

La differenza tra le due tipologie di vincolo è riproposta espressamente da Sez. 1, n. 00207/2020, Sambito, Rv. 656617-01 che, in tema di espropriazione per pubblica utilità ed al fine di individuare la qualità edificatoria dell’area (da effettuarsi in base agli strumenti urbanistici vigenti al momento dell’espropriazione), chiarisce che, ove con l’atto di pianificazione si provveda alla zonizzazione dell’intero territorio comunale, o di una sua parte, sì da incidere su di una generalità di beni, in funzione della destinazione dell’intera zona in cui essi ricadono e in ragione delle sue caratteristiche intrinseche, il vincolo assume carattere conformativo ed influisce sulla determinazione del valore dell’area espropriata mentre, ove si imponga un vincolo particolare, incidente su beni determinati, in funzione della localizzazione di un’opera pubblica, il vincolo è da ritenersi preordinato all’espropriazione e da esso deve prescindersi nella stima dell’area.

La distinzione, peraltro, rileva anche in relazione alla determinazione dell’indennità di espropriazione: così, ad esempio, Sez. 1, n. 06486/2020, Caradonna, Rv. 657067-01 esclude, a tali fini, la qualità edificatoria dell’area che risulti destinata a pubblici impianti in base a progetti approvati dall’autorità amministrativa, in virtù delle norme di attuazione del p.r.g. che, comportando un vincolo di tipo non ablativo ma conformativo, regolano il territorio comunale con previsione generale e astratta; mentre, più in generale, Sez. 1, n. 14780/2020, Marulli, Rv. 658245-02 chiarisce che i vincoli conformativi discendono non già dal piano di recupero urbano quanto, piuttosto, dall’accordo di programma, con la conseguenza che la determinazione delle indennità riflette necessariamente le varianti apportate al p.r.g., quale strumento urbanistico generale, proprio a seguito della stipulazione dell’accordo anzidetto.

3.1. (Segue) Le distanze legali.

Nell’ambito delle limitazioni legali al diritto di proprietà dettate dai rapporti di vicinato rilievo preminente assume la disciplina delle distanze tra costruzioni (artt. 873 ss. c.c.), le cui prescrizioni hanno carattere preventivo e trovano applicazione indipendentemente dall’esistenza di un danno (pur avendo Sez. 6-2, n. 25082/2020, Criscuolo, Rv. 659708-01 specificato, al riguardo, che la violazione della prescrizione sulle distanze tra le costruzioni, attesa la natura del bene giuridico leso, determina un danno in re ipsa, con la conseguenza che non incombe sul danneggiato l’onere di provare la sussistenza e l’entità concreta del pregiudizio patrimoniale subito al diritto di proprietà, dovendosi, di norma, presumere, sia pure iuris tantum, tale pregiudizio, fatta salva la possibilità per il preteso danneggiante di dimostrare che, per la peculiarità dei luoghi o dei modi della lesione, il danno debba, invece, essere escluso): si tratta di reciproci presupposti di convenienza e sviluppo, non inquadrabili nel concetto di servitù, benché tutelabili per il tramite dell’actio negatoria, imprescrittibili (ma suscettibili di cedere di fronte a chi abbia acquisito, anche per il mezzo dell’usucapione, una servitù) e non onerosi.

Come già avvenuto negli anni passati, la disamina dei molteplici arresti con cui la Corte, nel corso del 2020, si è soffermata sulla disciplina delle distanze tra costruzioni, consente di suddividere la materia per macroaree di interesse: da un lato, le decisioni che si sono occupate, perimetrandolo, dell’ambito di applicabilità della normativa in questione, dall’altro le pronunzie che si sono interessate dell’applicazione, in concreto, della normativa sulle distanze tra costruzioni.

Quanto al primo blocco di decisioni, Sez. 6-2, n. 27586/2020, Tedesco, Rv. 659705-01 chiarisce, anzitutto, che la sopravvenienza di una disciplina meno restrittiva, che può legittimare la costruzione originariamente illecita, non può consistere in una semplice delibera del consiglio comunale, atteso che questa non è idonea, di per sé, a modificare la disciplina urbanistica, costituendo solo il primo atto di un complesso iter amministrativo che si conclude soltanto con l’approvazione regionale della variante del piano regolatore generale. La tematica dello ius superveniens è affrontata anche da Sez. 2, n. 26713/2020, Varrone, Rv. 659725-02, la quale, muovendo dalla considerazione per cui i regolamenti edilizi in materia di distanze tra costruzioni contengono norme di immediata applicazione, salvo il limite, nel caso di norme più restrittive, dei cosiddetti “diritti quesiti” (per cui la disciplina più restrittiva non si applica alle costruzioni che, alla data dell’entrata in vigore della normativa, possano considerarsi “già sorte”) e, nel caso di norme più favorevoli, dell’eventuale giudicato formatosi sulla legittimità o meno della costruzione, trae da tale premessa la conclusione dell’inammissibilità dell’ordine di demolizione di costruzioni che, illegittime secondo le norme vigenti al momento della loro realizzazione, tali non siano più alla stregua delle norme vigenti al momento della decisione salvo, ove ne ricorrano le condizioni, il diritto al risarcimento dei danni prodottisi medio tempore, ossia di quelli conseguenti alla illegittimità della costruzione nel periodo compreso tra la sua costruzione e l’avvento della nuova disciplina.

Più in generale, poi: 1) Sez. 2, n. 22589/2020, Criscuolo, Rv. 659369-02 chiarisce che, in tema di distanze fra le costruzioni, le prescrizioni del piano regolatore, atto complesso risultante dal concorso della volontà del Comune e della Regione, acquistano efficacia di norme giuridiche integrative del codice civile solo con l’approvazione del piano medesimo da parte dell’autorità regionale sicché, qualora uno dei due atti che costituiscono l’atto complesso sia annullato a seguito di ricorso giurisdizionale, il piano regolatore decade con effetto retroattivo e non ha alcuna idoneità a regolare i rapporti in materia di distanze legali, fino a quando non intervenga una sua nuova approvazione e salva l’applicazione delle misure di salvaguardia, dall’altro; 2) Sez. 2, n. 03043/2020, Sabato, Rv. 657095-01, invece, ribadisce che per configurare gli estremi di una veduta ai sensi dell’art. 900 c.c., conseguentemente soggetta alle regole di cui agli artt. 905 e 907 c.c. in tema di distanze, è necessario che le cd. inspectio et prospectio in alienum, vale a dire le possibilità di “affacciarsi e guardare di fronte, obliquamente o lateralmente”, siano esercitabili in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza: ne consegue che l’assenza di parapetto su una terrazza di copertura di un edificio costituisce elemento decisivo per escludere che l’opera abbia i caratteri della veduta o del prospetto, anche se essa sia di normale accessibilità e praticabilità da parte del proprietario, laddove la praticabilità può valere invece ai fini della qualificazione della situazione come luce irregolare. Per escludere anche questa seconda configurazione giuridica è necessario accertare, avuto riguardo all’attuale consistenza e destinazione dell’opera, oggettivamente considerata, ed alle sue possibili e prevedibili utilizzazioni da parte del proprietario, se e quali limitazioni, ancorché diverse e minori di quelle derivanti da un’apertura avente i caratteri della veduta o del prospetto, possano discenderne a carico della libertà del fondo vicino altrui.

Passando, quindi, all’esame degli arresti con cui la S.C. si è interessata, dell’applicazione, in concreto, della normativa sulle distanze, Sez. 2, n. 26713/2020, Varrone, Rv. 659725-01, chiarisce, anzitutto, che l’esenzione dall’osservanza delle prescrizioni di cui all’art. 878 c.c. concerne, sia i muri di cinta, qualificati dalla destinazione alla recinzione di una determinata proprietà, dall’altezza non superiore a tre metri, dall’emersione dal suolo nonché dall’isolamento di entrambe le facce da altre costruzioni, sia i manufatti che, pur carenti di alcuni di tali requisiti, siano comunque idonei a delimitare un fondo ed abbiano ugualmente la funzione e l’utilità di demarcare la linea di confine e di recingere il fondo.

La sopravvenienza del permesso di costruire in deroga non legittima, poi, ex se l’intervento edilizio, occorrendo, al contrario, che il titolo abilitativo preceda la realizzazione dell’opera: è chiara in tal senso Sez. 2, n. 18499/2020, De Marzo, Rv. 659171-02, la quale evidenza che, in materia di controversie tra privati proprietari relative alla violazione delle distanze legali tra le costruzioni, il permesso di costruire in deroga, di cui all’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, deve necessariamente precedere, per l’appunto, la realizzazione dell’intervento edilizio e non può indirettamente comportare quale effetto la sanatoria dell’eventuale illecito, tenuto conto del carattere eccezionale del potere derogatorio che deve, pertanto, essere inteso in termini restrittivi, nonché della necessità di proteggere l’affidamento del privato.

La tematica della sopravvenienza riguarda anche un ulteriore aspetto dell’attività edificatoria e, precisamente, il successivo mutamento della destinazione di una costruzione, in origine realizzata ad una distanza conforme a quella contenuta nel regolamento locale: per Sez. 2, n. 11845/2020, Criscuolo, Rv. 658271-01, tale mutamento, anche se non accompagnato da modifiche strutturali o aumenti di volumetrie, impone di verificare la perdurante legittimità dell’opera.

Da un punto di vista squisitamente processuale, infine, si registrano diversi interventi della S.C. in materia: (a) Sez. 2, n. 10069/2020, Cosentino, Rv. 657757-01, per cui la domanda di demolizione di una costruzione per la generica violazione delle norme in tema di distanze legali non esclude che il giudice, investito della decisione, possa pronunciarsi sulla legittimità dell’opera avuto riguardo alle previste distanze non solo fra costruzioni, ma anche dal confine, nonché a quelle stabilite della normativa cosiddetta antisismica di cui alla l. 25 novembre 1962, n. 1684, senza per questo incorrere in violazione dell’art. 112 c.p.c.; (b) Sez. 6-2, n. 12325/2020, Giannaccari, Rv. 658461-01, che riconosce al comproprietario la facoltà di agire a tutela della proprietà comune, al fine di far valere l’osservanza delle distanze legali, senza che sia necessario integrare il contraddittorio nei confronti degli altri comproprietari; (c) Sez. 6-2, n. 23074/2020, Giannaccari, Rv. 659403-01 che, a proposito della competenza del giudice di pace, chiarisce che, proposta innanzi a detta A.G. una domanda relativa al rispetto delle distanze legali nella piantagione di alberi (e, dunque, rientrante nella competenza ratione materiae dello stesso), ove sia investito, in via riconvenzionale, di una eccezione eccedente la sua competenza per valore o per materia (nella specie, di usucapione, ma al solo fine di paralizzare la domanda attorea), lo stesso deve decidere su entrambe, in quanto l’eccezione riconvenzionale, a differenza della domanda riconvenzionale, non comporta lo spostamento della competenza e la separazione delle cause ai sensi dell’art. 36 c.p.c.; (d) ove, poi, in tema di violazione delle distanze legali, sorga questione tra privati circa la legittimità di una concessione rilasciata in deroga alla relativa disciplina dettata dallo strumento urbanistico, Sez. 2, n. 18499/2020, De Marzo, Rv. 659171-01 evidenzia che il giudice ordinario deve esercitare un sindacato incidentale sull’atto amministrativo, al solo fine della sua eventuale disapplicazione.; (e) da ultimo, Sez. 6-2, n. 23184/2020, Giannaccari, Rv. 659404-01, a proposito di eliminazione delle vedute abusive, chiarisce che ciò può avvenire, non solo, mediante la demolizione delle porzioni immobiliari per mezzo delle quali si realizza la violazione lamentata, ma anche attraverso la predisposizione di idonei accorgimenti che impediscano di esercitare la veduta sul fondo altrui o attraverso l’arretramento della costruzione, che il giudice può disporre, in alternativa alla demolizione, senza incorrere nel vizio di ultrapetizione, essendo tale decisione contenuta nella più ampia domanda di demolizione.

4. Le azioni a tutela della proprietà: a) la rivendicazione.

Le azioni riconosciute al proprietario a tutela del proprio diritto sono quattro (rivendicazione, negatoria servitutis, regolamento di confini ed apposizione di termini) e ad esse si aggiungono le due azioni di nunciazione (denuncia di nuova opera e di danno temuto) su cui si avrà modo di tornare più avanti.

La fondamentale azione di rivendicazione ha lo scopo di far conseguire al proprietario il possesso definitivo della cosa, con ogni suo incremento ed è, pertanto, esercitata da chi sia proprietario, ma non nel possesso della “res”.

Caratteristica peculiare della rei vindicatio - al di fuori di tale istituto, infatti, la proprietà può essere dimostrata, come tutti i fatti, anche con presunzioni e, quindi, pure attraverso il ricorso alle risultanze catastali (così Sez. 2, n. 07567/2019, Dongiacomo, Rv. 653289-01) - è la prova particolarmente rigorosa (cd. probatio diabolica) richiesta all’attore - ovvero al convenuto che, ad una domanda di rilascio o consegna di natura personale opponga, in via di eccezione ovvero riconvenzionale, difese di carattere petitorio (Sez. 2, n. 00795/2020, Bellini, Rv. 656838-01) - dovendo questi risalire ad un titolo originario di acquisto della proprietà, normalmente coincidente con l’usucapione.

La distribuzione dell’onere della prova e la valutazione del materiale probatorio vanno, tuttavia, anche adeguate alle esigenze della controversia: principio già affermato, nel recente passato da Sez. 2, n. 25793/2016, Criscuolo, Rv. 642159-01 (la quale ebbe ad affermare che, nell’azione di rivendicazione, il rigore della prova della proprietà è attenuato se il convenuto riconosca che il bene rivendicato apparteneva un tempo ad una determinata persona, essendo sufficiente in tal caso che il rivendicante dimostri, mediante gli occorrenti atti d’acquisto, il passaggio della proprietà da quella determinata persona fino a lui) ed alla base di quanto osservato dalla più recente Sez. 2, 20880/2020, Tedesco, Rv. 659183-01, per la quale, quando il rivendicante, dante causa mediato del convenuto, sostiene che questi si sia impossessato di una parte del suo terreno eccedente quella a suo tempo venduta, al fine di individuare se e dove fosse stata occupata altra parte del terreno, rileva esclusivamente accertare - alla stregua di un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità, se correttamente e congruamente motivato - l’estensione del terreno venduto, stabilendone l’esatta individuazione e collocazione nell’ambito dell’originaria proprietà dell’attore.

Sostanzialmente in applicazione del medesimo principio, Sez. 2, n. 03852/2020, Scarpa, Rv. 65716-04 chiarisce, ancora, che la presunzione legale di proprietà comune di parti del complesso immobiliare in condominio, che si sostanzia sia nella destinazione all’uso comune della res, sia nell’attitudine oggettiva al godimento collettivo, dispensa il condominio dalla prova del suo diritto, ed in particolare dalla cosiddetta probatio diabolica: ne consegue che quando un condomino pretenda l’appartenenza esclusiva di uno dei beni indicati nell’art. 1117 c.c., poiché la prova della proprietà esclusiva dimostra, al contempo, la comproprietà dei beni che detta norma contempla, onde vincere tale ultima presunzione è onere dello stesso condomino rivendicante dare la prova della sua asserita proprietà esclusiva, senza che a tal fine sia rilevante il titolo di acquisto proprio o del suo dante causa, ove non si tratti dell’atto costitutivo del condominio, ma di alienazione compiuta dall’iniziale unico proprietario che non si era riservato l’esclusiva titolarità del bene.

4.1. (Segue) b) la “negatoria servitutis”.

L’azione negatoria ha, invece, lo scopo di tutelare la pienezza del diritto di proprietà sulla cosa, con libertà da pesi o servitù pretesi da altri sulla stessa: l’azione trova ingresso allorché alle molestie provenienti dal terzo corrisponda la pretesa esistenza di un diritto, senza che sia controversa la titolarità del fondo asseritamente servente.

Dei profili processuali inerenti tale azione si è occupata Sez. 6-2, n. 07040/2020, Scarpa, Rv. 657283-01, chiarendo che, allorché il fondo, nel quale sono state realizzate le opere di cui si chieda la rimozione, appartenga a più soggetti, si determina un’ipotesi di litisconsorzio necessario; ne deriva, in fase di appello, la inscindibilità delle cause, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., e, quindi, la necessità della partecipazione a tale fase di tutte le parti originarie, la quale deve essere verificata dal giudice del gravame preliminarmente ad ogni altra pronuncia, con l’emissione di un eventuale ordine d’integrazione del contraddittorio; in difetto, si determina la nullità, rilevabile di ufficio pure in sede di legittimità, dell’intero processo di secondo grado e della sentenza che lo ha concluso.

4.1.1. (Segue) Le immissioni.

A proposito della regolamentazione dei rapporti di vicinato, discorso a parte merita la disciplina delle immissioni, regolate dall’art. 844 c.c., il cui limite è rappresentato non già dalla normalità dell’esercizio di una determinata attività, quanto dalla normale tollerabilità per chi deve subirla, tenendo conto (a) delle esigenze della produzione e (b) delle condizioni di ambiente (cd. “preuso”).

L’azione inibitoria esperibile ai sensi della richiamata disposizione codicistica - secondo l’impostazione granitica della giurisprudenza di legittimità, ribadita nel recente passato da Sez. 2, n. 26882/2019, Oliva, Rv. 655665-01 - ha natura reale, rientra nello schema della negatoria servitutis e deve essere proposta contro tutti i proprietari di tale fondo, qualora l’attore miri ad ottenere un divieto definitivo delle immissioni, operante, cioè, nei confronti dei proprietari attuali o futuri del fondo medesimo e dei loro aventi causa, in modo da ottenere l’accertamento della infondatezza della pretesa, anche solo eventuale e teorica relativa al diritto di produrre siffatte immissioni. La medesima azione ha, invece, carattere personale e rientra nello schema dell’azione di risarcimento in forma specifica di cui all’art 2058 c.c., nel caso in cui l’attore miri soltanto ad ottenere il divieto del comportamento illecito dell’autore materiale delle suddette immissioni, sia esso detentore ovvero comproprietario del fondo, il quale si trovi nella giuridica possibilità di eliminare queste ultime senza bisogno dell’intervento del proprietario o degli altri comproprietari del fondo medesimo.

Nell’anno appena trascorso, la tematica delle immissioni ha interessato la S.C. con riferimento all’individuazione del criterio in base al quale ripartire la giurisdizione tra G.O. e G.A., allorché il superamento della soglia di normale tollerabilità consegua ad attività svolte su aree pubbliche ovvero il cui svolgimento è connesso al rilascio di titoli abilitativi da parte della P.A.

Avuto riguardo alla prima evenienza (i.e. immissioni acustiche provenienti da aree pubbliche), Sez. U, n. 21993/2020, Vincenti, Rv. 659163-01 chiarisce che appartiene alla giurisdizione ordinaria la controversia avente ad oggetto la domanda, proposta da cittadini residenti nelle zone interessate, di condanna della P.A. a provvedere, con tutte le misure adeguate, all’eliminazione o alla riduzione nei limiti della soglia di tollerabilità delle immissioni nocive, oltre che al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, patiti, atteso che l’inosservanza da parte della P.A. delle regole tecniche o dei canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni può essere denunciata dal privato davanti al giudice ordinario, non solo, per conseguire la condanna della P.A. al risarcimento dei danni, ma anche per ottenerne la condanna ad un facere, tale domanda non investendo scelte ed atti autoritativi della P.A., ma un’attività soggetta al principio del neminem laedere.

Ugualmente appartiene alla giurisdizione del G.O. la controversia nella quale il privato, previo accertamento della rumorosità, molestia e intollerabilità delle immissioni prodotte dagli aerogeneratori di un parco eolico, nonché degli effetti pregiudizievoli da esse recati alla salute propria e dei suoi familiari e al valore economico della sua proprietà, ne abbia domandato la cessazione o, almeno, la riduzione entro i limiti della tollerabilità, unitamente al risarcimento del danno: ed infatti - osserva Sez. U, n. 25578/2020, Giusti, Rv. 659460-01 - la domanda, avuto riguardo al “petitum” sostanziale, non concerne l’annullamento del provvedimento amministrativo di autorizzazione all’istallazione e gestione dell’impianto di produzione di energia elettrica da fonte eolica (né presuppone l’accertamento della sua illegittimità), ma ha ad oggetto la tutela dei diritti soggettivi alla salute e di proprietà, sul fondamento della violazione dei limiti di tollerabilità previsti dall’art. 844 c.c.

Interessante, infine, il caso affrontato da Sez. 3, n. 11105/2020, Fiecconi, Rv. 658079-01, in tema di immissione di onde elettromagnetiche: in tal caso, infatti, il principio di precauzione - sancito dall’ordinamento comunitario come cardine della politica ambientale - è assicurato dallo stesso legislatore statale attraverso la regolamentazione contenuta nella l. 22 febbraio 2001, n. 36 e nel d.P.C.M. 8 luglio 2003, che ha fissato i parametri relativi ai limiti di esposizione, ai valori di attenzione e agli obiettivi di qualità, i quali non sono modificabili, neppure in senso restrittivo, dalla normativa delle singole Regioni (cfr. Corte cost., sentenza n. 307 del 2003) ed il cui mancato superamento osta alla possibilità di avvalersi della tutela giudiziaria preventiva del diritto alla salute, che è ipotizzabile solo in caso di accertata sussistenza del pericolo della sua compromissione, da ritenersi presuntivamente esclusa quando siano stati rispettati i limiti posti dalla disciplina di settore.

4.2. (Segue) c) le azioni di regolamento di confini e di apposizione di termini.

Le azioni cd. “di confine” sono due e perseguono, rispettivamente, finalità diverse: mentre l’actio finium regundorum si esercita allorché vi sia un’incertezza sul confine ad opera di uno (azione qualificata) ovvero di entrambi (actio simplex) i confinanti, l’azione di apposizione di termini viene invece introdotta quando tale incertezza non vi sia e si voglia unicamente apporre un segno visibile ad indicazione del confine tra i fondi. Si tratta, in entrambi i casi, di un iudicium duplex, nel senso che entrambe le parti confinanti possono introdurre le due azioni, vantando reciprocamente una posizione di pretesa e di difesa.

Con particolare riferimento all’azione di regolamento di confini, la Corte (Sez. 6-2, n. 22095/2020, Oliva, Rv. 659399-01) ne ravvisa il discrimen con la rivendica nella circostanza che, mentre quest’ultima presuppone un conflitto di titoli determinato dal convenuto, il quale oppone a suo favore un titolo - anche non negoziale - diverso da quello su cui l’attore fonda la sua istanza, nell’azione di regolamento di confini il conflitto è tra fondi, in quanto il convenuto deduce che, in forza del titolo dedotto dall’attore e del titolo di proprietà del fondo a lui appartenente, il confine è diverso, a nulla rilevando, in presenza di una incertezza del confine per avvenuta usurpazione di parte del terreno, l’effetto recuperatorio di detta domanda che consegua soltanto all’eliminazione del preesistente stato di incertezza sui confini.

Quanto alla determinazione del confine tra due fondi, a norma dell’art. 950 c.c. è ammissibile qualsiasi mezzo di prova; tuttavia, osserva Sez. 6-2, n. 12322/2020, Giannaccari, Rv. 658460-01, qualora si tratti di fondi appartenenti originariamente come unico appezzamento ad un solo proprietario, deve necessariamente farsi riferimento agli atti di frazionamento allegati ai contratti di vendita o di divisione, quando dalle misure ivi contenute possono essere desunti elementi idonei ad individuare con esattezza la linea di confine tra le due proprietà; ove, poi, i dati sul confine siano discordanti e gli acquisti siano stati effettuati in tempi diversi, la medesima Sez. 6-2, n. 12322/2020, Giannaccari, Rv. 658460-02 specifica ulteriormente che deve attribuirsi rilievo al confine indicato nel tipo di frazionamento allegato al titolo di acquisto formatosi e trascritto in epoca più risalente. Ne consegue che nell’indagine diretta all’individuazione del confine tra due fondi riveste importanza fondamentale il tipo di frazionamento allegato ai singoli atti di acquisto ed in essi richiamato con valore vincolante, potendo il giudice ricorrere ad altri mezzi di prova soltanto nel caso in cui le indicazioni desumibili dai rispettivi titoli di provenienza siano mancanti o insufficienti (così Sez. 6-2, n. 12327/2020, Giannaccari, Rv. 658462-01).

5. Comunione di diritti reali.

A lungo si è posto il problema dell’individuazione delle norme applicabili ai consorzi di urbanizzazione, istituti atipici con aspetti sia associativi che di realità (derivanti, questi ultimi, dall’osservanza di obblighi propter rem o dalle costituzioni di reciproche servitù): la questione, invero, è stata ripetutamente affrontata in sede di legittimità, sotto il profilo dell’applicabilità, alternativamente, delle norme in materia di comunione, condominio o di associazioni non riconosciute: dall’atipicità del rapporto consortile è stata argomentata la necessità di tener conto, anzitutto, dell’atto costitutivo o dello statuto, al fine di rispettare la volontà espressa dai consorziati medesimi sui vari aspetti della disciplina del rapporto, salvo passare, ove questo nulla disponga al riguardo, all’individuazione della normativa più confacente alla regolazione degli interessi implicati dalla controversia. A tale proposito, Sez. 2, n. 27634/2018, Casadonte, Rv. 651029-01 aveva chiarito - con una conclusione in linea con il novellato art. 1117-bis c.c., che estende la disciplina del condominio a tutte le fattispecie che registrano la compresenza di parti di proprietà esclusiva e parti di proprietà comuni - che, atteso il nesso funzionale tra i beni di proprietà comune e quelli di proprietà esclusiva, il recesso del consorziato diretto alla liberazione dall’obbligo contributivo, in assenza di specifica previsione statutaria, non è disciplinato dall’art. 1104 c.c., che consente l’”abbandono liberatorio” nella comunione, bensì dall’art. 1118 c.c., che lo vieta nel condominio.

Sez. 6-1, n. 25394/2019, Dolmetta, Rv. 655418-01 ha riproposto l’orientamento meno recente (cfr. anche Sez. 1, n. 09568/2017, Ferro, Rv. 643730-01) che, in assenza di indicazioni provenienti dallo statuto, ricorre alla disciplina della comunione ordinaria: stando a tale ultimo arresto, infatti, i consorzi di urbanizzazione, quali aggregazioni di persone fisiche o giuridiche preordinate alla sistemazione o al miglior godimento di uno specifico comprensorio mediante la realizzazione e la fornitura di opere e servizi, sono figure atipiche disciplinate principalmente dagli accordi tra le parti espressi nello statuto e, solo sussidiariamente, dalla normativa in tema di associazioni non riconosciute e di comunione. Sostanzialmente sulla scia di tale ultimo orientamento si colloca anche la più recente Sez. 1, n. 22957/2020, Solaini, Rv. 659423-01 la quale precisa che i quorum deliberativi delle assemblee consortili (nella specie, di un consorzio di urbanizzazione) sono disciplinati esclusivamente dagli accordi tra le parti espressi nello statuto, non trovando quindi applicazione, in questi casi, le regole legali in materia di comunione (con ciò presupponendo la S.C., in mancanza di regole statutarie, il ricorso a siffatta disciplina piuttosto che a quella condominiale).

Meritano menzione, inoltre, tre pronunzie attraverso le quali la S.C. perimetra i diversi ambiti operativi della disciplina della comunione ordinaria e del condominio, sia pure in ipotesi di compresenza di unità immobiliari in titolarità esclusiva accanto a porzioni in proprietà comune: a) anzitutto Sez. 2, n. 21716/2020, Criscuolo, Rv. 659324-01 che chiarisce come il perimento, totale o per una parte che rappresenti i tre quarti dell’edificio condominiale, determini l’estinzione del condominio per mancanza dell’oggetto, in quanto viene meno il rapporto di servizio tra le parti comuni, mentre permane tra gli ex condomini soltanto una comunione pro indiviso dell’area di risulta, potendo la condominialità essere ripristinata solo in caso di ricostruzione dell’edificio in modo del tutto conforme al precedente. Ne consegue che, in caso di ricostruzione difforme, la nuova costruzione sarà soggetta esclusivamente alla disciplina dell’accessione e la sua proprietà apparterrà ai comproprietari dell’area di risulta in proporzione delle rispettive quote, ripristinandosi il condominio solo allorché i comunisti individuino gli appartamenti di proprietà esclusiva di ciascuno di essi, con un’operazione negoziale che assume la portata di una vera e propria divisione; b) quindi Sez. 2, n. 18909/2020, Tedesco, Rv. 659108-02, donde emerge che la divisione in natura di un fabbricato originariamente oggetto di comunione ereditaria è compatibile con la parallela costituzione di un condominio per l’uso delle parti comuni dell’edificio, ai fini del miglior godimento delle singole cose di proprietà esclusiva; c) infine Sez. 6-2, n. 10850/2020, Scarpa, Rv. 657892-01, per cui in tema di condominio di edifici, l’ascensore installato ex novo, per iniziativa ed a spese di alcuni condomini, successivamente alla costruzione dell’edificio, non rientra nella proprietà comune di tutti i condomini, ma appartiene a quelli, tra costoro, che l’hanno impiantato, dando luogo ad una particolare comunione parziale, distinta dal condominio stesso; tale è il regime proprietario finché tutti i condomini non decidano, successivamente, di partecipare alla realizzazione dell’opera, con l’obbligo di pagarne pro quota” le spese all’uopo impiegate, aggiornate al valore attuale, secondo quanto previsto dall’art. 1121, comma 3, c.c., non assumendo rilievo giuridicamente rilevante, ai fini della natura condominiale dell’innovazione, la circostanza che questa sia stata, di fatto, utilizzata anche a servizio delle unità immobiliari di proprietà di coloro che non avevano inizialmente inteso trarne vantaggio.

5.1. Comunione e tutela in sede giudiziaria.

Sul versante più spiccatamente processuale, Sez. 6-2, n. 10067/2020, Tedesco, Rv. 658015-02, risolvendo una questione che ha letteralmente “spaccato” la giurisprudenza di merito, ha affermato che nei giudizi di scioglimento della comunione, la produzione dei certificati relativi alle trascrizioni e iscrizioni sull’immobile da dividere, imposta dall’art. 567 c.p.c. per la vendita del bene pignorato, non costituisce un adempimento previsto a pena di inammissibilità o improcedibilità della domanda, tenuto conto che, in tali giudizi, l’intervento dei creditori e degli aventi causa dei condividenti è consentito ai soli fini dell’opponibilità delle statuizioni adottate. Ciò vale - prosegue la Corte - anche nel caso in cui si debba procedere alla vendita dell’immobile comune, sebbene le informazioni richieste dal predetto articolo si debbano necessariamente acquisire a tutela del terzo acquirente, ma a tale esigenza sovraintende d’ufficio il giudice della divisione, il quale, nello svolgimento del potere di direzione delle operazioni, può ordinare alle parti la produzione della documentazione occorrente o avvalersi del professionista delegato alla vendita.

Di particolare rilievo, poi, è linea di demarcazione tracciata da Sez. 2, n. 04014/2020, Casadonte, Rv. 657110-01 a seconda che la divisione dei beni comuni avvenga secondo la disciplina della comunione ordinaria o quella condominiale. Gli artt. 1119 e 1112 c.c. hanno, infatti, una ratio diversa e forniscono differenti tutele: il primo contempla una forma di protezione rafforzata dei diritti dei condomini, in omaggio al minor favor del legislatore per la divisione condominiale e, conseguentemente, contiene la prescrizione dell’unanimità e la tutela del mero comodo godimento del bene, in relazione alle parti di proprietà esclusiva; il secondo costituisce un’eccezione alla regola generale della divisione della comunione disposta dall’art. 1111 c.c., tutela la destinazione d’uso del bene e, per questo, ammette che la divisione sia richiedibile anche da uno solo dei comproprietari, con la sola subordinazione della stessa alla valutazione giudiziale che il bene, anche se diviso, manterrà l’idoneità all’uso cui è stato destinato.

Quanto, infine, alle modalità di scioglimento della comunione, come le parti possono, con il contratto di divisione, manifestare volontà contraria al sorgere della servitù per destinazione del padre di famiglia a favore e, rispettivamente, a carico dei singoli cespiti componenti il compendio comune e che vengono a ciascuna assegnati, così Sez. 2, n. 18909/2020, Tedesco, Rv. 659108-02, già citata in precedenza, sub § 4.1.1. di questo Capitolo, riconosce analoga possibilità al giudice, specificando come tale potere sia esercitabile nel processo di divisione (anche attraverso la conferma di un progetto di consulente tecnico), purché nei limiti dell’oggetto e, cioè, con riguardo ai beni effettivamente in divisione.

Si rinvia, in ogni caso, al successivo Capitolo V di questa sezione, per l’approfondimento delle specifiche tematiche relative alla comunione dei diritti reali.

6. Usufrutto, uso e abitazione.

La proprietà può essere in vario modo compressa, non solo sulla base di diritti che altri soggetti vantino nei confronti del proprietario, ma anche in virtù di diritti esistenti sulla cosa stessa, esercitabili erga omnes e concorrenti con la proprietà: rispetto a quest’ultima, ovviamente, non hanno il carattere di pienezza ed esclusività (donde la definizione in termini di diritti parziari o limitati), ma ne condividono il carattere reale; sono inoltre caratterizzati, pur nella crescente critica, sul punto, della dottrina, dalla tipicità (si discorre, in proposito, di numerus clausus dei diritti reali) e dal diritto di seguito. Si distinguono, sistematicamente, in diritti reali di garanzia e di godimento e tra questi ultimi rientrano le servitù, l’usufrutto, l’uso e l’abitazione.

Diverse sono state, nel corso dell’anno appena trascorso, le pronunzie in cui la Corte si è occupata del diritto di usufrutto, sia pure intersecando la disciplina relativa a quest’ultimo con la materia successoria.

Così, sotto un primo profilo, Sez. 2, n. 18211/2020, Tedesco, Rv. 659167-01 si occupa delle conseguenze, ai fini della collazione, della donazione della nuda proprietà di un bene immobile, con riserva di usufrutto congiuntivo in favore del donante medesimo e del coniuge: in tal caso, ove il coniuge muoia prima dell’apertura della successione del donante, il bene donato è soggetto a collazione per imputazione secondo il valore della piena proprietà mentre, ove il coniuge, al contrario, sopravviva al donante, il donatario sarà obbligato a conferire solo il valore della nuda proprietà al tempo dell’apertura della successione.

La successiva Sez. 6-2, n. 17861/2020, Tedesco, Rv. 658751-01, poi, si confronta con l’ipotesi del legato in sostituzione di legittima, che abbia ad oggetto il diritto di usufrutto: ove il beneficiario muoia prima di averlo accettato, la facoltà di rinunziarvi, quale potere inerente al rapporto successorio in atto, non esauritosi con il definitivo conseguimento del legato, si trasmette all’erede del legatario, divenuto titolare iure hereditatis dell’azione di riduzione; né rileva, in senso contrario, che l’erede medesimo non possa subentrare nel diritto già acquistato dal proprio dante causa, potendo egli comunque scegliere se renderlo definitivo, assumendo su di sé obblighi ed eventuali diritti nascenti dall’estinzione dell’usufrutto ovvero rinunciarvi, in tal modo assolvendo all’onere cui è subordinata l’azione di riduzione.

Dal punto di vista fiscale, inoltre, Sez. 5, n. 27134/2020, Reggiani, Rv. 659699-01 ha precisato, in tema di ICI-IMU, che l’assimilazione all’abitazione principale delle unità immobiliari non locate, possedute a titolo di proprietà o di usufrutto da cittadini italiani residenti all’estero, prevista dall’art. 1, comma 4-ter, del d.l. 23 gennaio 1993, n. 16, conv., con modif., dalla l. 24 marzo 1993, n. 75, opera solo ai fini della detrazione prevista dall’art. 8, comma 2, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, e non anche dell’esenzione “prima casa” introdotta dall’art. 1 del d.l. 27 maggio 2008, n. 93, conv., con modif., dalla l. 24 luglio 2008, n. 126.

Per quanto attiene, invece, al diritto d’uso, di notevole rilievo è la questione - “classica” della materia condominiale - risolta da Sez. U, n. 28972/2020, n. 28972, Di Marzio, Rv. 659712-01: la S.C. ha infatti chiarito che la pattuizione avente ad oggetto l’attribuzione del cd. “diritto reale di uso esclusivo” su una porzione di cortile condominiale, costituente, come tale, parte comune dell’edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, idoneo ad incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall’art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi. Ne consegue che il titolo negoziale che siffatta attribuzione abbia contemplato implica di verificare, nel rispetto dei criteri di ermeneutica applicabili, se, al momento di costituzione del condominio, le parti non abbiano voluto trasferire la proprietà ovvero, sussistendone i presupposti normativi previsti e, se del caso, attraverso l’applicazione dell’art. 1419 c.c., costituire un diritto reale d’uso ex art. 1021 c.c. ovvero, ancora se sussistano i presupposti, ex art. 1424 c.c., per la conversione del contratto volto alla creazione del diritto reale di uso esclusivo in contratto avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo (ovviamente inter partes) di natura obbligatoria. Fermo restando l’approfondimento che ne sarà curato nel successivo Capitolo V di questa sezione, si evidenzia in questa sede come la decisione giunga a composizione di un contrasto consolidatosi nell’ultimo quinquennio tra chi (cfr., da ultimo Sez. 2, n. 00193/2020, Grasso, Rv. 656828-01), conformemente alla soluzione prescelta dalla Corte, negava la configurabilità di un diritto d’uso reale atipico, esclusivo e perpetuo (idoneo a privare del tutto di utilità la proprietà e a dar vita ad un diritto reale incompatibile con l’ordinamento) e chi (Sez. 2, n. 02431/2017, Sabato, Rv. 645793-01), al contrario, riteneva tale opzione possibile, specificando, altresì, come tale diritto di “uso esclusivo” non fosse riconducibile al diritto reale d’uso previsto dall’art. 1021 c.c. e, pertanto, oltre a non mutuarne le modalità di estinzione, fosse tendenzialmente perpetuo e trasferibile ai successivi aventi causa dell’unità immobiliare cui accedeva.

7. Servitù prediali.

L’art. 1027 c.c. definisce la servitù come un peso al godimento di un fondo, per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario: vantaggio e correlativa restrizione formano, dunque, due aspetti correlati nel concetto stesso di servitù, tanto da consentire l’identificazione di un fondo servente e di uno dominante.

Sez. 2, n. 18465/2020, Varrone, Rv. 659129-01 precisa che il concetto di utilitas è talmente ampio da ricomprendere ogni elemento che, secondo la valutazione sociale, sia legato da un nesso di strumentalità con la destinazione del fondo dominante e si immedesimi obiettivamente nel godimento di questo, in modo tale che la servitù possa soddisfare ogni bisogno di tale fondo, assicurando ad esso una maggiore amenità, abitabilità, anche evitando rumori o impedendo costruzioni che abbiano una destinazione spiacevole o fastidiosa. Il contenuto dell’utilitas è ulteriormente indagato da Sez. 6-2, n. 16322/2020, Abete, Rv. 658745-01, la quale osserva che, a norma dell’art. 1064, comma 1, c.c., il diritto di servitù comprende tutto ciò che è necessario per usarne ed è comprensivo anche degli adminicula servitutis - e, cioè, di quelle facoltà accessorie, indispensabili per l’esercizio del diritto e senza le quali proprio l’utilitas della servitù non potrebbe ricevere attuazione - la cui modifica non si ripercuote sul vincolo, né sulle modalità di attuazione della servitù medesima, traendone la conseguenza per cui la modifica di tali facoltà non è riconducibile in alcun modo alla disciplina dell’art. 1067, comma 1, c.c., che consente al proprietario del fondo dominante di apportare, alle cose ed opere destinate all’esercizio della servitù, quelle modifiche che ne rendano più agevole o comodo l’esercizio medesimo, ove ciò non si traduca in un apprezzabile aggravio dell’onere che pesa sul fondo servente.

L’applicazione, in concreto, del rapporto tra utilità (per il fondo dominante) e peso (a carico del fondo servente) emerge chiaramente da Sez. 2, n. 08779/2020, Carrato, Rv. 657698-01, a proposito della determinazione del luogo di esercizio di una servitù di passaggio coattivo: tale individuazione va compiuta alla stregua dei criteri enunciati dal comma 2 dell’art. 1051 c.c., costituiti dalla maggiore brevità dell’accesso alla via pubblica, sempreché la libera esplicazione della servitù venga garantita con riguardo all’utilità del fondo dominante, e dal minore aggravio del fondo asservito, da valutarsi ed applicarsi contemporaneamente ed armonicamente, mediante un opportuno ed equilibrato loro contemperamento e tenuto presente che, vertendosi in tema di limitazione del diritto di proprietà - resa necessaria da esigenze cui non è estraneo il pubblico interesse - va applicato, in modo ancora più accentuato di quanto avviene per le servitù volontarie, il principio del minimo mezzo; il relativo giudizio compete, in ogni caso, al giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se congruamente e logicamente motivato.

La soggezione può consistere in un pati o in un non facere, salvo, relativamente a quest’ultima prestazione, la possibilità di prevedere, a carico del proprietario del fondo servente, alcuni obblighi di facere (cfr., ad es., l’art. 1091 c.c.); requisiti comuni a tutte le servitù sono la vicinanza dei fondi (cd. vicinitas), la perpetua causa, l’indivisibilità e l’inscindibilità.

In particolare, il principio di indivisibilità ex art. 1071 c.c. comporta, nel caso di frazionamento del fondo dominante, la permanenza del diritto su ogni porzione del medesimo, salve le ipotesi di aggravamento della condizione del fondo servente: tale disciplina, tuttavia, non trova applicazione allorché il fondo dominante non sia stato attribuito a diversi proprietari, ma fatto unicamente oggetto di un frazionamento catastale, di per sé consistente - chiarisce Sez. 2, n. 17940/2020, Scarpa, Rv. 658945-01 - nella mera redazione di un documento tecnico indicante in planimetria le particelle catastali al fine della voltura in catasto.

Quanto alla fonte costitutiva, le servitù possono essere volontarie o coattive (o legali) a seconda che siano riconducibili ad un atto volitivo delle parti ovvero ad una previsione legislativa, nel senso che, in tale ultimo caso, possono essere costituite anche senza il consenso del titolare del fondo servente, essendo il relativo diritto riconosciuto ex lege al titolare del fondo dominante. Ove non apparenti, poi, le servitù volontarie possono costituirsi soltanto per titolo (contratto o testamento) mentre, se apparenti, possono costituirsi anche per usucapione e destinazione del padre di famiglia; quando coattive, in mancanza di accordo tra le parti, possono essere costituite per provvedimento dell’autorità giudiziaria, con cui vengono altresì stabiliti le modalità di esercizio della servitù e l’indennizzo da riconoscere al titolare del fondo servente.

Proprio avuto riguardo all’indennità dovuta dal proprietario del fondo in cui favore è stata costituita la servitù di passaggio coattivo, Sez. 2, n. 21866/2020, Carrato, Rv. 659377-01 chiarisce che essa non rappresenta il corrispettivo dell’utilità conseguita dal fondo dominante, ma un indennizzo risarcitorio da ragguagliare al danno cagionato al fondo servente, sicché, per la sua determinazione, non può aversi riguardo esclusivamente al valore della superficie di terreno assoggettata alla servitù, dovendosi tenere altresì conto di ogni altro pregiudizio subìto dal fondo servente, in relazione alla sua destinazione, a causa del transito di persone e di veicoli. Costituisce, peraltro, accertamento di fatto, demandato al giudice del merito e sottratto al sindacato della Corte di cassazione, se congruamente ed esattamente motivato, stabilire l’esistenza della interclusione di un fondo per effetto della mancanza di un qualunque accesso sulla via pubblica e dell’impossibilità di procurarselo senza eccessivo dispendio o disagio (interclusione assoluta), ovvero a causa del difetto di un accesso adatto o sufficiente alle necessità di utilizzazione del fondo (interclusione relativa) (così Sez. 2, n. 00014/2020, Casadonte, Rv. 656331-01).

Con riferimento, invece, alla costituzione delle servitù volontarie, Sez. 2, n. 21858/2020, Oliva, Rv. 659376-02 evidenzia che, per configurare la costituzione di una servitù di passaggio a carico di un bene immobile in proprietà comune ed a favore di altro bene immobile in proprietà esclusiva di uno dei comproprietari del primo, è necessario svolgere una indagine in concreto, per verificare se l’esercizio del diritto sul fondo servente da parte del contitolare dello stesso rientri - o meno - nei limiti delle prerogative del comproprietario, perché solo quando tale limite è superato è possibile configurare un diritto “in re aliena”; a tal fine è irrilevante, peraltro, che le clausole contrattuali siano state redatte da un tecnico del diritto, quale è il notaio rogante, dovendo tale interpretazione essere condotta tenendo in considerazione la volontà delle parti.

Circa il modo di esercizio della servitù, quando esso non sia regolato dal titolo, il criterio per determinare il contenuto del diritto è dato dal possesso (cfr. art. 1065 c.c.) e, cioè, dall’esistente situazione di fatto rispetto al godimento che si ha sul fondo servente, valutata sulla base della pratica dell’anno precedente o dell’ultimo godimento (art. 1066 c.c.).

In particolare, Sez. 2, n. 17940/2020, Scarpa, Rv. 658945-02 osserva che la determinazione delle modalità di attuazione ed esercizio della servitù di passaggio coattivo rientra nelle attribuzioni del giudice di merito, che può scegliere tra le varie ipotesi prospettate in merito dal consulente tecnico, con l’unico limite dell’osservanza dei criteri dettati dal codice civile in relazione alle accertate concrete necessità da soddisfare, curando l’equo contemperamento dell’utilità del fondo dominante e dell’aggravio del fondo servente, ulteriormente precisando che ogni dubbio che residui al riguardo, in ordine alle modalità di esercizio della servitù coattiva (come di quella convenzionale) di passaggio, va risolto alla stregua della medesima legge economica del minimo mezzo.

Avuto riguardo, infine, ai modi di estinzione delle servitù, Sez. 2, n. 22579/2020, Dongiacomo, Rv. 659387-01 rappresenta che essendo la servitù di passaggio, per sua natura, discontinua, ai fini della prescrizione, non assumono rilievo la visibilità delle opere nei confronti del fondo servente ed il carattere sporadico e non apparente dell’esercizio, se la situazione dei luoghi lo consente: conseguentemente, la S.C. ha cassato la decisione con la quale la corte di merito aveva considerato estinta per prescrizione una servitù di passaggio sulla base della mancata visibilità sul viottolo in terra battuta di segni di calpestio e di passaggio di veicoli destinati a compattare il terreno.

7.1. Profili processuali relativi alla costituzione delle servitù.

La difesa del diritto di servitù è affidata all’azione confessoria, la quale rappresenta il simmetrico della azione negatoria: si tratta di una previsione innovativa rispetto al codice del 1865, che consente a chi pretende di avere il diritto reale sulla cosa altrui di agire nei confronti del proprietario e di chiunque ne contesti l’esercizio.

A tale riguardo Sez. 6-2, n. 20902/2020, Grasso, Rv. 659309-01 osserva che difetta della legittimazione passiva il soggetto, convenuto in giudizio per la dichiarazione del diritto di servitù di passaggio sul suo terreno, acquisito per usucapione, il quale abbia alienato il proprio fondo prima di aver ricevuto la notifica della citazione in giudizio, pur richiesta dalla controparte prima dell’alienazione del terreno, posto che nei suoi confronti il procedimento notificatorio si perfeziona al momento in cui l’atto è stato da lui ricevuto. Sempre avuto riguardo alla posizione della parte convenuta, poi, specifica ulteriormente Sez. 2, n. 19555/2020, Fortunato, Rv. 659231-01, pronunziatasi in tema di domanda volta alla costituzione di una servitù coattiva di passaggio, che l’allegazione del convenuto di non essere tenuto a subire la servitù in virtù di interclusione del fondo, per effetto di alienazione o di divisione ai sensi dell’art. 1054 c.c. non integra una eccezione in senso proprio, bensì una mera difesa, proponibile, come tale, in ogni fase del giudizio.

Peraltro, Sez. 6-2, n. 09637/2020, D’Arrigo, Rv. 657741-01 chiarisce che la mera statuizione di accertamento dell’esistenza (o inesistenza) della servitù non costituisce, in difetto di statuizioni di condanna, titolo esecutivo per richiedere al giudice dell’esecuzione misure idonee a far cessare impedimenti, turbative o molestie.

8. Tutela ed effetti del possesso.

Numerose le pronunce della S.C. relativamente al possesso utile ai fini dell’usucapione.

Trattandosi di modo di acquisto della proprietà a titolo originario, la giurisprudenza di legittimità richiede, per il suo compiersi, il compimento di atti diretti in maniera non equivoca a manifestare sul bene un animus corrispondente a quello del proprietario: tali principi, assolutamente pacifici, sono stati ribaditi da Sez. 6-2, n. 06123/2020, Cosentino, Rv. 657277-01, la quale chiarisce che ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’usucapione - il cui onere grava su chi invoca la fattispecie acquisitiva - la coltivazione del fondo non è sufficiente, perché non esprime in modo inequivocabile l’intento del coltivatore di possedere, occorrendo, invece, che tale attività materiale, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da univoci indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta uti dominus. Aggiunge, inoltre, la Corte, che costituisce accertamento di fatto, rimesso al giudice del merito, la valutazione, caso per caso, dell’intero complesso dei poteri esercitati su un bene, non limitandosi a considerare l’attività di chi si pretende possessore, ma considerando anche il modo in cui tale attività si correla con il comportamento concretamente esercitato del proprietario.

Consegue da quanto precede - evidentemente - il principio affermato nel recente passato da Sez. 2, n. 27411/2019, Dongiacomo, Rv. 655670-01, per cui la presunzione di possesso utile ad usucapionem, di cui all’art. 1141 c.c., non opera quando la relazione con il bene non consegua ad un atto volontario di apprensione, ma derivi da un iniziale atto o fatto del proprietario-possessore, come nell’ipotesi della mera convivenza nell’immobile con chi possiede il bene; in tal caso, la detenzione può mutare in possesso soltanto con un atto di interversione, consistente in una manifestazione esteriore, rivolta contro il possessore, affinché questi possa rendersi conto dell’avvenuto mutamento, da cui si desuma che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio. Così - chiarisce Sez. 3, n. 26521/2020, Iannello, Rv. 659860 - 01 - qualora un contratto di enfiteusi stipulato in luogo di un precedente affitto agrario sia affetto da nullità, nondimeno esso può valere a fondare il possesso utile per l’usucapione del bene, ogni qualvolta il rapporto instauratosi da lì in avanti tra l’accipiens e la res tradita sia sorretto dall’animus rem sibi habendi, ossia dalla riferibilità del potere di fatto esercitato sul fondo alla pretesa titolarità di un diritto reale, anziché ai diritti derivanti da un mero rapporto obbligatorio.

Di particolare interesse, inoltre, la precisazione svolta da Sez. 2, n. 27513/2020, Giannaccari, Rv. 659689-01 a proposito dell’inefficacia, nel giudizio petitorio avente ad oggetto l’accertamento dell’avvenuto acquisto del diritto di proprietà o di altro diritto reale per usucapione, del giudicato formatosi sulla domanda possessoria: ed infatti - osserva nell’occasione la S.C. - il possesso utile ad usucapire ha requisiti che non vengono in rilievo nei giudizi possessori, ove l’accoglimento della domanda prescinde dall’accertamento della legittimità del possesso ed offre, piuttosto, tutela ad una mera situazione di fatto, che ha i caratteri esteriori dei diritti sopra menzionati.

Oltre ad essere pubblico e pacifico, il possesso ad uscapionem deve essere ininterrotto e continuato.

L’aspetto relativo al difetto di continuità è stato affrontato da Sez. 2, n. 13156/2020, Oliva, Rv. 658421-01, la quale precisa che, ove tale difetto risulti ex actis dalla produzione della parte che quella continuità invochi, il giudice, anche se l’interruzione non sia stata dedotta dalla controparte e pur in contumacia della stessa, deve rigettare la domanda o l’eccezione, giacché, in tal caso, non giudica ultrapetita in violazione dell’art. 112 c.p.c., rilevando un fatto che avrebbe dovuto essere eccepito ad iniziativa della controparte, bensì si limita a constatare il difetto, risultante dagli atti del giudizio fornitigli dalla parte interessata, di una delle condizioni necessarie all’accoglimento della domanda o dell’eccezione.

8.1. Profili processuali relativi all’esercizio delle azioni possessorie e quasi-possessorie.

La tutela del possesso è affidata alle azioni di reintegrazione e manutenzione (rispettivamente disciplinate dagli artt. 1168 e 1170 c.c.), nonché alle azioni di nunciazione o quasi-possessorie (denuncia di nuova opera e di danno temuto, disciplinate dagli artt. 1171 e 1172 c.c.) - che, in realtà, spettano non solo al possessore, ma anche al proprietario ed al titolare di altro diritto reale di godimento.

La struttura del procedimento, nell’uno come nell’altro caso, è modellata sulla falsariga di quello disegnato dagli artt. 669-bis e ss. c.p.c. e, in particolare, dei procedimenti cautelari a giudizio di merito solo eventuale (cfr. l’art. 669-octies c.p.c.): in tal senso, dunque, la novella legislativa apportata con il d.l. n. 35 del 2005, conv. con mod. dalla l. n. 80 del 2005 ha profondamente inciso sulla originaria struttura bifasica del procedimento possessorio, come delineata da Sez. U, n. 01984/1998, Vella, Rv. 512984-01, rendendola solo eventualmente tale.

Prendendo le mosse dalle azioni possessorie, queste sono esperibili anche nei confronti della pubblica amministrazione, con devoluzione della giurisdizione al giudice ordinario, allorché il comportamento della medesima non si ricolleghi ad un formale provvedimento amministrativo, emesso nell’ambito e nell’esercizio dei poteri autoritativi e discrezionali ad essa spettanti, ma si concreti e si risolva in una mera attività materiale, disancorata e non sorretta da atti o provvedimenti amministrativi formali (così Sez. U, n. 29087/2019, Sambito, Rv. 655801-01). Consegue da tale principio, allora, la devoluzione alla giurisdizione del giudice amministrativo dell’azione possessoria con cui si denunci un contegno della pubblica amministrazione consistente nell’attuazione di un piano urbanistico esecutivo (PUE) approvato dall’autorità comunale, risolvendosi la tutela possessoria invocata - osserva Sez. U, n. 09281/2020, Lombardo, Rv. 657661-01 - nella richiesta di controllo della legittimità del potere amministrativo esercitato con il provvedimento di approvazione di detto piano.

La Corte si è occupata della materia con specifico riferimento all’ambito condominiale ed alla legittimazione, attiva come passiva, dell’amministratore di condominio, avendo Sez. 2, n. 25782/2020, Giannaccari, Rv. 659677-01 chiarito che, così come va riconosciuta la legittimazione attiva dell’amministratore - in base ad un’interpretazione estensiva dell’art. 1130, n. 4), c.c. - ad esercitare l’azione di reintegrazione nel possesso, allo stesso modo deve riconoscersi la sua legittimazione passiva, qualora un’azione relativa alle parti comuni venga svolta nei confronti del condominio e si tratti di compiere atti conservativi sui beni di proprietà comune del condominio. Al contrario, osserva Sez. 2, n. 25014/2020, Bellini, Rv. 659671-01, la proposizione di una domanda diretta alla estensione della proprietà comune mediante declaratoria di appartenenza al condominio di un’area adiacente al fabbricato condominiale, siccome acquistata per usucapione, implicando non solo l’accrescimento del diritto di comproprietà, ma anche la proporzionale assunzione degli obblighi e degli oneri ad esso correlati, esorbita dai poteri deliberativi dell’assemblea e dai poteri di rappresentanza dell’amministratore, il quale può esercitare la relativa azione solo in virtù di un mandato speciale rilasciato da ciascun condomino. Entrambe le pronunzie si collocano, a ben vedere, nel più ampio dibattito, dottrinario come giurisprudenziale, circa l’ambito entro il quale va riconosciuta, a seguito di Sez. U, n. 18331/2010, Elefante, Rv. 614419-01, un’autonoma legittimazione processuale all’amministratore di condominio, senza l’intervento - preventivo o successivo, a seguito di ratifica - dell’assemblea.

Per quanto attiene alle azioni di nunciazione, invece, la novella del 2005 ha solo previsto l’eventualità della fase di merito, ma non ha mutato la struttura originaria del procedimento, la cui fase cautelare termina con l’ordinanza di accoglimento o rigetto del giudice monocratico o del collegio in caso di reclamo, mentre il successivo processo di cognizione richiede un’autonoma domanda di merito.

Con specifico riferimento alla denuncia di nuova opera, Sez. 2, n. 22589/2020, Criscuolo, Rv. 659369-01, evidenzia come il difetto dei requisiti della mancata ultimazione dell’opera e del mancato decorso di un anno dall’inizio dei lavori, se osta all’adozione di provvedimenti provvisori e urgenti nella fase preliminare di natura cautelare, non interferisce, al contrario, sulla successiva ed autonoma fase di merito, nonché sulla proponibilità della relativa domanda, qualora si tratti di azione di natura petitoria e non meramente possessoria.

Ove le azioni di nunciazione siano proposte nei confronti della P.A. Sez. U, n. 19667/2020, Di Marzio, Rv. 658851-02, in perfetta linea di continuità con Sez. U, n. 30009/2019, De Stefano, Rv. 656069-01, chiarisce, infine, che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario qualora l’attore denunci attività materiali dell’amministrazione che possano recare pregiudizio a beni di cui egli si assume proprietario o possessore e, in relazione al petitum sostanziale della sottostante pretesa di merito, la domanda risulti diretta a tutelare una posizione di diritto soggettivo e non si lamenti l’emissione di atti o provvedimenti ricollegabili all’esercizio di poteri discrezionali spettanti alla P.A. Conseguentemente la S.C. ha ravvisato la giurisdizione del G.A. in relazione ad una denuncia di nuova opera esperita da un privato nei confronti di una società, risultata concessionaria di opera pubblica all’esito di una procedura di project financing, relativamente al “se” ed al “come” dell’opera da realizzarsi, consistente nell’edificazione, a ridosso dell’abitazione dell’originario attore, di un’autostazione di pullman con tettoia.

  • condominio

CAPITOLO V

COMUNIONE E CONDOMINIO

(di Vittorio Corasaniti, Valeria Pirari )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le parti comuni nel condominio di edifici. - 3 Il godimento della cosa comune. - 4 Le innovazioni. - 5 La responsabilità del condominio. - 6 Il regolamento di condominio. - 7 La ripartizione delle spese condominiali. - 8 L’amministratore. Premessa. - 8.1. La nomina e la revoca dell’amministratore. - 8.2. La legittimazione processuale dell’amministratore di condominio e l’onere della prova. - 9 L’assemblea e l’impugnazione delle deliberazioni assembleari. - 9.1. Il funzionamento. - 9.2. Le determinazioni dell’assemblea. - 9.3. L’impugnazione.

1. Premessa.

Nel corso del 2020 la S.C. è più volte intervenuta in materia condominiale, affrontando alcune delle principali problematiche, sia sostanziali che processuali, che con maggiore frequenza si pongono in rapporto all’istituto giuridico del condominio, talvolta operando significative specificazioni di principi già elaborati nella precedente produzione giurisprudenziale, talaltra sviluppando nuovi profili alla luce della novella introdotta con la l. 11 dicembre 2012, n. 220, recante “Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici”.

2. Le parti comuni nel condominio di edifici.

L’art. 1117 c.c., norma che introduce la disciplina codicistica del condominio, individua, con elencazione non tassativa, i beni che sono presuntivamente di proprietà e godimento comune in relazione alla loro funzione e al collegamento strutturale con le unità immobiliari di proprietà esclusiva costituenti il condominio.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, il presupposto perché si instauri un diritto di condominio su un bene comune è costituito dalla relazione di accessorietà strumentale e funzionale che collega i piani o le porzioni di piano di proprietà esclusiva agli impianti o ai servizi di uso comune, rendendo il godimento del bene comune strumentale al godimento del bene individuale e non suscettibile di autonoma utilità, come avviene invece nella comunione (Sez. 2, n. 0 4973 /2007, Trombetta, Rv. 596943-01).

Sicchè, giusta Sez. 2, n. 00 884 /2018, Scarpa, Rv. 647073-01, la disciplina del condominio degli edifici è ravvisabile ogni qual volta sia accertato in fatto un rapporto di accessorietà necessaria che lega alcune parti comuni - quali quelle elencate in via esemplificativa dall’art. 1117 c.c. - ad unità o porzioni di proprietà individuale, delle quali le prime rendono possibile l’esistenza stessa o l’uso.

Circa l’ambito di operatività della previsione normativa da ultimo richiamata, mette conto segnalare che, secondo le coordinate enucleate da Sez. 2, n. 04881/1993, Paolella, Rv. 482042-01, successivamente ribadite da Sez. 6-2, n. 17022 /2019, Scarpa, Rv. 654613-01, la presunzione legale di condominialità stabilita dall’art. 1117 c.c. è applicabile anche quando non si tratti di parti comuni di uno stesso edificio, bensì di edifici limitrofi ed autonomi, oggettivamente e stabilmente destinate alla conservazione, all’uso od al servizio di detti immobili, ancorché insistenti sull’area appartenente al proprietario di uno solo degli* stessi; la presunzione è tuttavia invocabile solo se l’area e gli edifici siano appartenuti ad una stessa persona - o a più persone pro indiviso - nel momento della costruzione della cosa o del suo adattamento o trasformazione all’uso comune, mentre, nel caso in cui l’area sulla quale siano state realizzate le opere destinate a servire i due edifici sia appartenuta sin dall’origine ai proprietari di uno solo di essi, questi ultimi acquistano per accessione la proprietà esclusiva delle opere realizzate sul loro fondo, anche se poste in essere per un accordo intervenuto tra tutti gli interessati ovvero con il contributo economico dei proprietari degli altri stabili.

Premesso che, secondo Sez. 2 n. 0 3852 /2020, Scarpa, Rv. 657106-03, la comproprietà delle parti comuni dell’edificio indicate nell’art 1117 c.c. sorge nel momento in cui più soggetti divengono proprietari esclusivi delle varie unità immobiliari che costituiscono l’edificio, sicché per effetto della trascrizione dei singoli atti di acquisto di proprietà esclusiva - i quali comprendono “pro quota”, senza bisogno di specifica indicazione, le parti comuni - la situazione condominiale è opponibile ai terzi dalla data dell’eseguita formalità, va rimarcato che il criterio dell’attitudine funzionale del bene al servizio o al godimento collettivo ha orientato le pronunce della S.C. in diverse fattispecie concrete.

E così, secondo Sez. 2, n. 23316 /2020, Fortunato, Rv. 659381-01, in materia di condominio, il cortile, salvo titolo contrario, ricade nella presunzione di condominialità ai sensi dell’art. 1117 c.c., essendo destinato prevalentemente a dare aria e luce allo stabile comune, senza che la presunzione possa essere vinta dalla circostanza che ad esso si acceda solo dalla proprietà esclusiva di un condomino, in quanto l’utilità particolare che deriva da tale fatto non incide sulla destinazione tipica del bene e sullo specifico nesso di accessorietà del cortile rispetto all’edificio condominiale.

Sempre con riguardo al cortile condominiale, Sez. U., n. 28972/2020, Di Marzio, Rv. 659712-01, ha chiarito che la pattuizione avente ad oggetto l’attribuzione del cd. “diritto reale di uso esclusivo” su una porzione di esso, costituente, come tale, parte comune dell’edificio, è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del “numerus clausus” dei diritti reali e della tipicità di essi, atteso che essa mira alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, idoneo ad incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall’art. 1102 c.c. Pertanto, il titolo negoziale che siffatta attribuzione abbia contemplato impone di verificare, nel rispetto dei criteri di ermeneutica applicabili, se, al momento di costituzione del condominio, le parti non abbiano voluto trasferire la proprietà ovvero, sussistendone i presupposti normativi previsti e, se del caso, attraverso l’applicazione dell’art. 1419 c.c., costituire un diritto reale d’uso ex art. 1021 c.c. ovvero, ancora se sussistano i presupposti, ex art. 1424 c.c., per la conversione del contratto volto alla creazione del diritto reale di uso esclusivo in contratto avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo (ovviamente inter partes) di natura obbligatoria.

E ancora, in tema di aree esterne adibite a parcheggio, precisa Sez. 6-2, n. 18796 /2020, Scarpa, Rv. 659217-01, che la speciale normativa urbanistica, dettata dall’art. 41-sexies della l. n. 1150 del 1942, introdotto dall’art. 18 della l. n. 765 del 1967, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, la destinazione obbligatoria di appositi spazi a parcheggi in misura proporzionale alla cubatura totale dell’edificio, determinando, mediante tale vincolo di carattere pubblicistico, un diritto reale d’uso sugli spazi predetti a favore di tutti i condomini dell’edificio, senza imporre all’originario costruttore alcun obbligo di cessione in proprietà degli spazi in questione; pertanto, ove manchi un’espressa riserva di proprietà o sia stato omesso qualsiasi riferimento, al riguardo, nei singoli atti di trasferimento delle unità immobiliari, le aree in questione, globalmente considerate, devono essere ritenute parti comuni dell’edificio condominiale, ai sensi dell’art. 1117 c.c., con conseguente legittimazione dell’amministratore di condominio ad esperire, riguardo ad esse, le azioni contro i singoli condomini o contro terzi dirette ad ottenere il ripristino dei luoghi e il risarcimento dei danni, giacché rientranti nel novero degli atti conservativi, al cui compimento l’amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1130, n. 4, c.c.

Afferma, poi, Sez. 2 n. 0 9383 /2020, Grasso, Rv. 657705-01, che la natura del sottotetto di un edificio è, in primo luogo, determinata dai titoli e, solo in difetto di questi ultimi, può presumersi comune, se esso risulti in concreto, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, oggettivamente destinato, anche solo potenzialmente, all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune; il sottotetto può considerarsi, invece, pertinenza dell’appartamento sito all’ultimo piano solo quando assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo.

Merita segnalare, peraltro, che il criterio dell’attitudine funzionale e strutturale del bene7-01, la fattispecie del condominio parziale, che rinviene il fondamento normativo nell’art. 1123, comma 3, c.c., è automaticamente configurabile “ex lege” tutte le volte in cui un bene risulti, per le sue obbiettive caratteristiche strutturali e funzionali, destinato oggettivamente al servizio e/o al godimento, in modo esclusivo, di una parte soltanto dell’edificio in condominio, rimanendo, per l’effetto, oggetto di un autonomo diritto di proprietà e venendo meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini su quel bene; ne consegue che i partecipanti al gruppo non hanno il diritto di partecipare all’assemblea relativamente alle cose di cui non hanno la titolarità e la composizione del collegio e delle maggioranze si modifica in relazione alla titolarità delle specifiche parti oggetto della concreta delibera da adottare.

Da ultimo, la rilevanza del rapporto di servizio tra le parti comuni è stata evidenziata anche nell’ipotesi di perimento dell’edificio condominiale, in relazione alla quale, osserva Sez. 2 n. 21716 /2020, Criscuolo, Rv. 659324-01, il perimento, totale o per una parte che rappresenti i tre quarti dell’edificio condominiale, determina l’estinzione del condominio per mancanza dell’oggetto, in quanto viene meno il rapporto di servizio tra le parti comuni, mentre permane tra gli ex condomini soltanto una comunione pro indiviso dell’area di risulta, potendo la condominialità essere ripristinata solo in caso di ricostruzione dell’edificio in modo del tutto conforme al precedente.

Nel corso del 2020, peraltro, la S.C. ha affrontato, in materia condominiale, anche alcune rilevanti questioni di carattere processuale.

Segnatamente, in relazione all’onere probatorio in tema di azione di rivendica di parti comuni riconducibili all’art. 1117 c.c., di particolare interesse è quanto affermato da Sez. 2 n. 0 3852 /2020, Scarpa, Rv. 657106-04, secondo cui la presunzione legale di proprietà comune di parti del complesso immobiliare in condominio, che si sostanzia sia nella destinazione all’uso comune della res, sia nell’attitudine oggettiva al godimento collettivo, dispensa il condominio dalla prova del suo diritto, ed in particolare dalla cosiddetta probatio diabolica. Ne consegue che, quando un condomino pretenda l’appartenenza esclusiva di uno dei beni indicati nell’art. 1117 c.c., poiché la prova della proprietà esclusiva dimostra, al contempo, la comproprietà dei beni che detta norma contempla, onde vincere tale ultima presunzione è onere dello stesso condomino rivendicante dare la prova della sua asserita proprietà esclusiva, senza che a tal fine sia rilevante il titolo di acquisto proprio o del suo dante causa, ove non si tratti dell’atto costitutivo del condominio, ma di alienazione compiuta dall’iniziale unico proprietario che non si era riservato l’esclusiva titolarità del bene. La medesima pronuncia, puntualizza, altresì, che l’individuazione delle parti comuni (nella specie, i cortili o qualsiasi area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica, che serva a dare luce e aria agli ambienti circostanti o sia destinata a spazi verdi, zone di rispetto, parcheggio di autovetture) operata dall’art. 1117 c.c. non si limita a formulare una mera presunzione di comune appartenenza a tutti i condomini, vincibile con qualsiasi prova contraria, potendo essere superata soltanto dalle opposte risultanze di quel determinato titolo che ha dato luogo alla formazione del condominio per effetto del frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali (Sez. 2 n. 0 3852 /2020, Scarpa, Rv. 657106-02).

Sul tema, poi, delle azioni a tutela dei diritti reali su cose o parti dell’edificio, chiarisce Sez. 6-2, n. 23190 /2020, Criscuolo, Rv. 659405-01, che le azioni reali nei confronti dei singoli condomini o contro terzi e dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità, al contenuto o alla tutela dei diritti reali su cose o parti dell’edificio condominiale, che esulino dal novero degli atti meramente conservativi, possono essere esperite dall’amministratore solo previa autorizzazione dell’assemblea, ex art. 1131, comma 1, c.c. (nella specie, la S.C. ha ritenuto necessaria l’autorizzazione, avendo il condominio agito per la demolizione di un fabbricato non costruito a distanza).

Infine, con riferimento alla condizione di procedibilità delle “controversie in materia di condominio”, di cui all’art. art. 71 quater disp. att. c.c., ha chiarito Sez. 6-2, n. 10846 /2020, Scarpa, Rv.657890-01 (la quale ritornerà utile, sia pure a fini diversi, in prosieguo), che, ai sensi del comma 3 della menzionata disposizione, l’amministratore di condominio è legittimato a partecipare alla procedura di mediazione obbligatoria solo previa delibera assembleare di autorizzazione, non rientrando tra le sue attribuzioni, in assenza di apposito mandato, il potere di disporre dei diritti sostanziali rimessi alla mediazione. Ne consegue che la predetta condizione di procedibilità non può dirsi realizzata qualora l’amministratore partecipi all’incontro davanti al mediatore sprovvisto della previa delibera assembleare, da assumersi con la maggioranza di cui all’art. 1136, comma 2, c.c., non essendo in tal caso possibile iniziare la procedura di mediazione e procedere al relativo svolgimento, come suppone il comma 1 dell’art. 8 del d.lgs. n. 28 del 2010.

3. Il godimento della cosa comune.

La norma regolatrice della materia è costituita dall’art. 1102 c.c., dettata in tema di comunione, ma applicabile anche al condominio in forza del richiamo operato dall’art. 1139 c.c.

Tale disposizione, nel permettere a ciascun partecipante di servirsi della cosa comune e di apportarvi anche le modificazioni necessarie per il migliore godimento, pone come condizione limitativa il divieto di alterarne la destinazione e il divieto di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso, secondo il loro diritto. Osservati questi limiti, ogni singolo partecipante può trarre dalla cosa comune le utilità che la stessa e in grado di fornire ed apportarvi, a sue spese, tutte quelle modificazioni suscettibili del migliore godimento di essa.

Trattasi di previsione avente portata generale, ma non inderogabile, come chiarito da Sez. 2, n. 0 2114 /2018, Carrato, Rv. 647302-01, secondo cui i suddetti limiti possono anche essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale, o da delibere assembleari adottate con il quorum prescritto dalla legge, fermo restando che non è consentita l’introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni.

Ribadisce Sez. 2, n. 18038 /2020, Scarpa, Rv. 658947-01, che la nozione di pari uso della cosa comune, cui fa riferimento l’art. 1102 c.c., non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri. Ne consegue che qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, atteso che, in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso, il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali, pertanto, costituiscono impedimento alla modifica, solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto.

Nella menzionata pronuncia, peraltro, si specifica che la destinazione della cosa comune - che, a norma dell’art. 1102 c.c., ciascun partecipante alla comunione non può alterare, divenendo altrimenti illecito l’uso del bene - dev’essere determinata attraverso elementi economici, quali gli interessi collettivi appagabili con l’uso della cosa, elementi giuridici, quali le norme tutelanti quegli interessi ed elementi di fatto, quali le caratteristiche della cosa. In particolare, in mancanza di accordo unanime o di deliberazione maggioritaria circa l’uso delle parti comuni, la destinazione di queste ultime, rilevante ai fini del divieto di alterazione ex art. 1102 cit., può risultare anche dalla pratica costante e senza contrasti dei condomini e, cioè, dall’uso ultimo voluto e realizzato dai partecipanti alla comunione, che il giudice di merito deve accertare (così Sez. 2, n. 18038 /2020, Scarpa, Rv. 658947-03).

Qualora il “miglior uso” della cosa comune per il maggior godimento del bene di proprietà travalichi il perimetro di operatività dell’art. 1102 c.c. in ambito condominiale, si è in presenza di un utilizzo illegittimo.

Sotto questo profilo, osserva Sez. 6-2, n. 0 5060 /2020, Scarpa, Rv. 657264-01, che è illegittima l’apertura di un varco praticata nel muro perimetrale dell’edificio condominiale da un comproprietario al fine di mettere in comunicazione un locale di sua proprietà esclusiva, ubicato nel medesimo fabbricato, con altro immobile, pure di sua proprietà, ma estraneo al condominio, comportando tale utilizzazione la cessione del godimento di un bene comune in favore di soggetti non partecipanti al condominio, con conseguente alterazione della destinazione, giacché in tal modo viene imposto sul muro perimetrale un peso che dà luogo a una servitù, per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i condomini. Né è possibile ipotizzare la costituzione di un vincolo pertinenziale tra il muro perimetrale e l’unità immobiliare di proprietà esclusiva esterna al condominio, per atto proveniente dal solo titolare di quest’ultima, giacché detto vincolo postula che il proprietario della cosa principale abbia la piena disponibilità della cosa accessoria - sì da poterla validamente destinare, in modo durevole, al servizio od all’ornamento dell’altra - mentre il muro perimetrale è oggetto di proprietà comune.

E ancora, secondo Sez. 2, n. 20543 /2020, De Marzo, Rv. 659204-01, in presenza di un edificio strutturalmente unico, su cui insistono due distinti ed autonomi condomini, è illegittima l’apertura di un varco nel muro divisorio tra questi ultimi, volta a collegare locali di proprietà esclusiva del medesimo soggetto, tra loro attigui, ma ubicati ciascuno in uno dei due diversi condomini, in quanto una simile utilizzazione comporta la cessione del godimento di un bene comune, quale è, ai sensi dell’art. 1117 c.c., il muro perimetrale di delimitazione del condominio (anche in difetto di funzione portante), in favore di una proprietà estranea ad esso, con conseguente imposizione di una servitù per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i condomini.

In ogni caso, chiarisce Sez. 2, n. 0 4439 /2020, De Marzo, Rv. 657111-01, qualora uno dei condomini, senza violare i limiti di cui all’art. 1102 c.c., faccia uso della cosa comune, la mera mancanza delle concessioni o autorizzazioni amministrative non può essere invocata dal condominio quale fonte di risarcimento del danno, riflettendosi tale carenza esclusivamente nei rapporti tra il privato e la pubblica amministrazione, salvo che si deduca e dimostri che, in concreto, l’inosservanza di una norma ordinata a garantire parametri di sicurezza si sia tradotta nel pregiudizio degli interessi perseguiti dalla normativa in materia condominiale.

Sul versante processuale, si segnala che secondo Sez. 2, n. 0 2002 /2020, Scarpa, Rv. 656855-01, la domanda azionata da un condomino in base al disposto dell’art. 1102 c.c., ed avente quale fine il ripristino dello “status quo ante” di una cosa comune illegittimamente alterata da altro condomino, ha natura reale, in quanto si fonda sull’accertamento dei limiti del diritto di comproprietà su un bene. Essa, dunque, rientra nel novero delle azioni relative ai diritti autodeterminati, individuati sulla base del bene che ne forma l’oggetto, nel senso che la relativa “causa petendi” s’identifica con lo stesso diritto di comproprietà sul bene comune. Ne consegue che non vi è diversità di domande, agli effetti degli artt. 183 e 345 c.p.c., ove a fondamento della domanda di rimozione delle opere si ponga dapprima il difetto della preventiva autorizzazione dell’assemblea condominiale e poi si deducano i generali criteri di cui all’art. 1102 c.c.; né incorre nel vizio di extrapetizione il giudice che, dedotta in lite l’illegittimità dell’uso particolare del bene comune, ex art. 1102 c.c., accolga la domanda ritenendo che l’opera arrechi pregiudizio al decoro architettonico dell’edificio condominiale, trattandosi di limite legale compreso nel principio generale dettato da tale norma e che perciò deve guidare l’indagine giudiziale sulla verifica delle condizioni di liceità del mutamento d’uso.

Da ultimo, sempre sul versante processuale, ma con specifico riferimento al tema della regolamentazione dell’uso della cosa comune, merita segnalare Sez. 2, n. 18038/2020, Scarpa, Rv. 658947-02, secondo cui la previsione, ad opera dell’art. 1105, comma 4, c.c. del ricorso, da parte di ciascun partecipante, all’autorità giudiziaria per adottare gli opportuni provvedimenti in sede di volontaria giurisdizione (inclusi gli atti di conservazione), preclude al singolo partecipante alla comunione di rivolgersi al giudice, in sede contenziosa, per ottenere provvedimenti di gestione della “res”, ai fini della sua amministrazione nei rapporti interni tra i comunisti; ne consegue che non è consentito il ricorso all’A.G. per ottenere determinazioni finalizzate al “migliore godimento” delle cose comuni, ovvero l’imposizione di un regolamento contenente norme circa l’uso delle stesse, spettando unicamente al gruppo l’espressione della volontà associativa di autorganizzazione contenente i futuri criteri di comportamento vincolanti per i partecipanti alla comunione. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva proceduto, in sede contenziosa, alla determinazione giudiziale delle superfici delle mura perimetrali dell’androne, utilizzabili dai proprietari dei locali terranei del condominio per apporvi delle vetrine espositive).

4. Le innovazioni.

L’art. 1120 c.c., nella formulazione previgente alle modifiche apportate dalla l. n. 220 del 2012, stabiliva che i condomini potessero deliberare innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni e che fossero vietate quelle che potessero “recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato”, che ne alterassero il decoro architettonico o che rendessero talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.

Successivamente all’entrata in vigore della novella del 2012 e dunque a decorrere dal 18 giugno 2013, trova, invece, applicazione il nuovo testo dell’art. 1120, a mente del quale i condomini, con la maggioranza indicata dal comma 2 dell’art. 1136 c.c., possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della normativa di settore, riguardino: 1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti; 2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell’edificio, nonché per la produzione di energia mediante l’utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune; 3) l’installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri condomini di farne uso secondo il loro diritto. È rimasto, invece, inalterato il divieto di innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.

La nozione di “innovazione” si è nutrita, nell’anno in rassegna, di precisazioni importanti, funzionali alla risoluzione di questioni afferenti all’assetto proprietario o alle conseguenze pregiudizievoli, che hanno tratto spunto da fattispecie concrete ricorrenti (si pensi alla realizzazione di una canna fumaria o all’installazione “ex novo” di un ascensore).

Va innanzitutto chiarito che, secondo Sez. 2, n. 18928/2020, Varrone, Rv. 659186-01, costituisce innovazione lesiva del decoro architettonico dell’edificio condominiale, come tale vietata, non soltanto quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio, spettando la relativa valutazione al giudice di merito, senza che possa essere sindacata in sede di legittimità, a meno che non siano presenti vizi di motivazione.

Quando dunque si verifichi un’alterazione della fisionomia architettonica dell’edificio condominiale (come in caso di realizzazione di una canna fumaria apposta sulla facciata), il pregiudizio economico risulta conseguenza normalmente insita nella menomazione del decoro architettonico, che, costituendo una qualità del fabbricato, in sé meritevole di salvaguardia, è tutelata dalle norme che ne vietano l’alterazione (in tal senso, Sez. 2, n. 25790/2020, Scarpa, Rv. 659623-01).

Secondo Sez. 6-2, n. 10850/2020, Scarpa, Rv. 657892-01, costituisce innovazione, ad esempio, l’ascensore installato “ex novo”, successivamente alla costruzione dell’edificio, per iniziativa e a spese di alcuni condomini, il quale, appartenendo soltanto a coloro che l’hanno realizzato e non a tutti i condomini, dà luogo ad una particolare comunione parziale che contempla soltanto questi ultimi, finché coloro che ne sono rimasti esclusi non decidano, successivamente, di partecipare alla realizzazione dell’opera con assunzione dell’obbligo di pagarne “pro quota” le spese all’uopo impiegate e aggiornate al valore attuale, secondo quanto previsto dall’art. 1121, comma 3, c.c., essendo giuridicamente irrilevante, ai fini della natura condominiale del manufatto, la circostanza che questo sia stato, di fatto, utilizzato anche a servizio delle unità immobiliari di proprietà di coloro che non avevano inizialmente inteso trarne vantaggio.

In applicazione della vecchia disciplina, infine, Sez. 2, n. 23741/2020, Scarpa, Rv. 659391-01, ha chiarito che l’innovazione vietata, la cui valutazione è rimessa al giudice di merito, si caratterizza in particolare per l’intervenuta sensibile menomazione dell’utilità ritraibile dalla parte comune, la cui sussistenza incide sulle maggioranze richieste per l’estrinsecazione della volontà condominiale. Alla stregua di tale principio, si è dunque sostenuto che i condomini, seppur titolari di un fondo configurato come dominante nell’ambito di una servitù costituita per la fruizione di un servizio condominiale, possono decidere di modificare il servizio (nella specie, spostando l’ubicazione dell’autoclave, dell’elettropompa e della cisterna della riserva dell’impianto idrico) con le maggioranze richieste dall’art. 1136 c.c., non costituendo oggetto della delibera la rinunzia della servitù, la cui estinzione consegue eventualmente ad essa quale effetto legale tipico della nuova situazione di fatto venutasi a creare tra i fondi per il venir meno dei requisiti oggettivi che caratterizzano la servitù, salvo che la trasformazione del servizio non richieda l’unanimità per altre ragioni, derivanti appunto dalle regole in materia di innovazioni vietate.

5. La responsabilità del condominio.

Il condominio è custode delle parti comuni e di quelle che, indipendentemente dall’assetto proprietario, sono funzionalmente asservite alle proprietà esclusive.

A questo proposito, Sez., 6-2, n. 07044/2020, Scarpa, Rv. 657285-01, ha chiarito che il condominio di un edificio, quale custode dei beni e dei servizi comuni, è in particolare obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché tali cose non rechino pregiudizio ad alcuno, sicché risponde ex art. 2051 c.c. dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini, ancorché tali danni siano causalmente imputabili anche al concorso del fatto di un terzo, prospettandosi in tal caso la situazione di un medesimo danno provocato da più soggetti per effetto di diversi titoli di responsabilità, che dà luogo ad una situazione di solidarietà impropria. Nondimeno, la conseguenza della corresponsabilità in solido, ex art. 2055 c.c., comporta che la domanda del condomino danneggiato vada intesa sempre come volta a conseguire per l’intero il risarcimento da ciascuno dei coobbligati, in ragione del comune contributo causale alla determinazione del danno.

6. Il regolamento di condominio.

Secondo l’art. 1138 c.c., è prescritta l’adozione di un regolamento condominiale quando il numero dei condomini sia superiore a dieci. Il regolamento, che costituisce espressione dell’autonomia organizzativa nel condominio, deve contenere le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione.

Il regolamento condominiale si distingue dal regolamento contrattuale, che postula una “convenzione” intervenuta tra tutti i condomini in via contestuale ovvero mediante adesione di tutti gli acquirenti, attraverso i loro “atti di acquisto”, ad un testo di regolamento predisposto dall’originario proprietario alienante.

Spiega Sez. 6-2, n. 24957 /2020, Dongiacomo, Rv. 659703-01, che il regolamento di condominio cosiddetto contrattuale, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune; ne consegue che l’azione di nullità del regolamento medesimo è esperibile non nei confronti del condominio (e, quindi, dell’amministratore), carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, versandosi in una situazione di litisconsorzio necessario (in applicazione di tale principio, la S.C. ha condiviso la decisione della Corte di merito che, una volta escluso che il riscontro della eventuale nullità del regolamento costituisse l’oggetto di un accertamento incidentale - nel qual caso non sarebbe stata imposta la necessaria partecipazione di tutti i condomini - aveva dichiarato la nullità della sentenza di primo grado per la mancata partecipazione al giudizio di tutti i condomini).

Chiarisce, inoltre, Sez. 2, n. 0 3058 /2020, Dongiacomo, Rv. 657097-02, che la clausola con la quale gli acquirenti di un’unità immobiliare di un fabbricato assumono l’obbligo di rispettare il regolamento di condominio che contestualmente incaricano il costruttore di predisporre non può valere quale approvazione di un regolamento allo stato inesistente, in quanto è solo il concreto richiamo nei singoli atti di acquisto ad un determinato regolamento già esistente che consente di ritenere quest’ultimo come facente parte per relationem di ogni singolo atto, sicché quello predisposto dalla società costruttrice in forza del mandato ad essa conferito non è opponibile agli acquirenti.

7. La ripartizione delle spese condominiali.

L’art. 1123, comma 1, c.c. stabilisce il criterio generale di ripartizione delle spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Secondo la predetta disposizione, tali spese sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione.

Premesso, dunque, che la disciplina legale di ripartizione delle spese per la conservazione e per il godimento delle parti comuni è, in linea di principio, derogabile (così, da ultimo, Sez. 2, n. 0 4844 /2017, Orilia, Rv. 643057-02), chiarisce Sez. 2, n. 0 6735 /2020, Scarpa, Rv. 657132-02, che per l’atto di approvazione delle tabelle millesimali e per quello di revisione delle stesse, è sufficiente la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136, comma 2, c.c., ogni qual volta l’approvazione o la revisione avvengano con funzione meramente ricognitiva dei valori e dei criteri stabiliti dalla legge; viceversa, la tabella da cui risulti espressamente che si sia inteso derogare al regime legale di ripartizione delle spese, ovvero approvare quella “diversa convenzione”, di cui all’art. 1123, comma 1, c.c., rivelando la sua natura contrattuale, necessita dell’approvazione unanime dei condomini.

Di particolare interesse, sul tema della ripartizione delle spese condominiali, è quanto affermato da Sez. 6-2, n. 20006 /2020, Scarpa, Rv. 659225-01, secondo cui, qualora la ripartizione sia avvenuta soltanto con l’approvazione del rendiconto annuale dell’amministratore, ai sensi dell’art. 1135, comma 1, n. 3, c.c., l’obbligazione dei condomini di contribuire al pagamento delle stesse sorge soltanto dal momento della approvazione della delibera assembleare di ripartizione, che i condomini assenti o dissenzienti non potranno impugnare per ragioni di merito, perché non è consentito al singolo condomino rimettere in discussione, al momento del bilancio consuntivo, i provvedimenti della maggioranza che, tradottisi in delibere, avrebbero dovuto essere tempestivamente impugnati.

Quanto, poi, alle spese di manutenzione straordinaria di un edificio condominiale, afferma Sez. 6-2, n. 18793 /2020, Scarpa, Rv. 659215-01, che ai fini dell’insorgenza del relativo debito di contribuzione, deve farsi riferimento all’approvazione della delibera assembleare che determini l’oggetto dell’appalto da stipulare con l’impresa prescelta, ovvero le opere da compiersi e il prezzo dei lavori, fissando gli elementi costitutivi fondamentali dell’opera nella loro consistenza quantitativa e qualitativa, non rilevando l’esistenza di una deliberazione programmatica e preparatoria.

Sul diverso versante della ripartizione delle spese per le parti comuni tra venditore ed acquirente dell’immobile, di particolare interesse, per il periodo in rassegna, è quanto argomentato da Sez. 2, n. 21860 /2020, Scarpa, Rv. 659363-01, secondo cui il previgente art. 63, comma 2, disp. att. c.c. - ora, in forza della l. n. 220 del 2012, art. 63, comma 4, disp. att. c.c. - delinea a carico dell’acquirente un’obbligazione solidale, non propter rem, ma autonoma, in quanto costituita ex novo dalla legge esclusivamente in funzione di rafforzamento dell’aspettativa creditoria del condominio su cui incombe, poi, l’onere di provare l’inerenza della spesa all’anno in corso o a quello precedente al subentro dell’acquirente.

Per quel che concerne, invece, l’annoso tema delle spese di gestione dell’impianto centralizzato di riscaldamento, Sez. 2, n. 18131 /2020, Scarpa, Rv. 658905-01, ha precisato che il condomino autorizzato a rinunziare all’uso del riscaldamento centralizzato e a distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto comune rimane obbligato a pagare le sole spese di conservazione di quest’ultimo - quali, ad esempio, quelle di sostituzione della caldaia - perché l’impianto centralizzato è comunque un accessorio di proprietà comune, al quale egli potrà, in caso di ripensamento, riallacciare la propria unità immobiliare; qualora tuttavia, in seguito ad un intervento di sostituzione della caldaia, il mancato allaccio non sia espressione della volontà unilaterale di rinuncia o distacco, ma una conseguenza dell’impossibilità tecnica di fruire del nuovo impianto, che non consente neppure un futuro collegamento, egli non può essere più considerato titolare di alcun diritto di comproprietà su tale impianto e perciò non deve più partecipare ad alcuna spesa ad esso relativa.

In ultimo con riferimento alle spese di potatura degli alberi che insistono su suolo oggetto di proprietà esclusiva di un solo condomino, chiarisce Sez. 2, n. 22573 /2020, Scarpa, Rv. 659367-01, che sono tenuti a contribuirvi tutti i condomini, allorché si tratti di piante funzionali al decoro dell’intero edificio e la potatura stessa avvenga per soddisfare le relative esigenze di cura del decoro stesso (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata per l’omesso esame del vincolo di destinazione imposto dal comune al costruttore circa il congruo numero di alberature da mettere a dimora, al fine di verificare se gli alberi oggetto di abbattimento e di reimpianto concorressero, in virtù del detto vincolo, a costituire il decoro architettonico dell’edificio).

8. L’amministratore. Premessa.

L’art. 1129 c.c., nella formulazione attualmente vigente, prevede che quando i condomini siano più di otto, la nomina dell’amministratore, se l’assemblea non vi provvede, è fatta dall’autorità giudiziaria su ricorso di uno o più condomini o dell’amministratore dimissionario e che la sua revoca può essere deliberata, in ogni momento, dall’assemblea, con la stessa maggioranza prevista per la sua nomina oppure con le modalità previste dal regolamento di condominio, o può essere disposta dall’autorità giudiziaria, su richiesta di ciascun condomino, nei casi previsti dall’art. 1131 c.c., se non viene reso il conto della gestione, o in caso di gravi irregolarità, tra le quali rientrano gli inadempimenti tipizzati nella medesima disposizione in ragione della loro gravità. Il procedimento nell’ambito del quale vengono accertati i presupposti della revoca è quello camerale di cui agli artt. 737 e ss. c.c.

Le attribuzioni dell’amministratore sono descritte dall’art. 1130 c.c., a mente del quale questi è tenuto, tra le altre cose, a convocare l’assemblea per l’approvazione del rendiconto e ad eseguirne le deliberazioni, a curare l’osservanza del regolamento, a disciplinare l’uso delle cose comuni, a riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria, a compiere gli atti conservativi delle parti comuni, a conservare la documentazione contabile e a fornirne copia al condomino che ne faccia richiesta, e dall’art. 1130-bis, quanto alla redazione del rendiconto condominale.

A quest’ultimo proposito, Sez. 6-2, n. 15996/2020, Scarpa, Rv. 658788-01, ha stabilito che gli artt. 1129, comma 2, c.c. e 1130-bis c.c., come novellati dalla l. n. 220 del 2012, prevedono la facoltà dei condomini di ottenere l’esibizione di registri e documenti contabili condominiali in qualsiasi tempo, non necessariamente in sede di rendiconto annuale e di approvazione del bilancio da parte dell’assemblea, sempreché l’esercizio del diritto di accesso non si risolva in un intralcio all’amministrazione, ponendosi in contrasto con il principio della correttezza ex art. 1175 c.c.; al condomino istante - il quale non è tenuto a specificare le ragioni della richiesta - fa capo l’onere di dimostrare che l’amministratore non gli abbia consentito l’esercizio della facoltà in parola.

L’art. 1131 c.c., invece, rubricato “rappresentanza”, stabilisce che “nei limiti delle attribuzioni stabilite (dall’articolo 1130) o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea, l’amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condomini sia contro i terzi” (comma 1), che “può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio” e “a lui sono notificati i provvedimenti dell’autorità amministrativa che si riferiscono allo stesso oggetto” (comma 2), che “qualora la citazione o il provvedimento abbia un contenuto che esorbita dalle attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all’assemblea dei condomini” (comma 3) e che “l’amministratore che non adempie a quest’obbligo può essere revocato ed è tenuto al risarcimento dei danni”.

8.1.. La nomina e la revoca dell’amministratore.

Nel caso di condominio minimo, ossia di condominio costituito da due soli condomini, ancorché titolari di quote diseguali, l’approvazione di deliberazioni che, come quella della nomina dell’amministratore, richiedono, sotto il profilo personale, un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ai sensi dell’art. 1136, comma 2, c.c., la volontà assembleare è validamente espressa con la partecipazione di entrambi i condomini e la decisione unanime, non potendosi ricorrere al criterio maggioritario (Sez. 6-2, n. 16337/2020, Scarpa, Rv. 658749-01).

Una volta che l’amministratore sia stato nominato, l’accettazione da parte sua della documentazione condominiale consegnatagli dal precedente non costituisce, ad avviso di Sez. 6-2, n. 15702/2020, Scarpa, Rv. 658785-01, prova idonea del debito nei confronti di quest’ultimo da parte dei condomini per l’importo corrispondente al disavanzo tra le rispettive poste contabili, spettando pur sempre all’assemblea l’approvazione del conto consuntivo, onde confrontarlo con il preventivo, ovvero valutare l’opportunità delle spese affrontate d’iniziativa dell’amministratore, sicché la sottoscrizione del verbale di consegna della documentazione, apposta dal nuovo amministratore, non integra una ricognizione di debito fatta dal condominio in relazione alle anticipazioni di pagamenti ascritte al precedente amministratore e risultanti dalla situazione di cassa registrata (negli stesso termini, Sez. 6-2, n. 05062/2020, Scarpa, Rv. 657266-01).

Quanto infine alla revoca dell’amministratore condominiale, il relativo procedimento, ad avviso di Sez. 6-2, n. 04696/2020, Scarpa, Rv. 657259-01, riveste carattere eccezionale ed urgente, oltre che sostitutivo della volontà assembleare, ed è ispirato dall’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, a fronte del pericolo di grave danno derivante da determinate condotte dell’amministratore. Tali essendo le caratteristiche del giudizio, non è pertanto ammissibile l’intervento adesivo nello stesso del condominio ovvero di altri condomini rispetto a quello istante, atteso che uniche parti legittimate a parteciparvi e contraddirvi sono il ricorrente e l’amministratore, con la conseguenza che gli effetti del regolamento delle spese ex art. 91 c.p.c. devono esaurirsi nel rapporto tra costoro.

8.2.. La legittimazione processuale dell’amministratore di condominio e l’onere della prova.

Come noto, l’art. 71-quater disp. att. c.c. disciplina le modalità con le quali deve essere avviata e condotta la mediazione obbligatoria, ai sensi dell’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 28 del 2010, nelle controversie in materia condominiale, ossia quelle derivanti dalla violazione o dalla errata applicazione delle disposizioni del libro III, titolo VII, capo II, c.c. e degli artt. da 61 a 72 delle suddette disp. att. c.c., prevedendo, al comma 3, la legittimazione a parteciparvi dell’amministratore e le relative condizioni.

A questo riguardo, Sez. 6-2, n. 10846/2020, Scarpa, Rv. 657890-01 (già citata supra, sub § 2), ha chiarito che, ai sensi di quest’ultima disposizione, l’amministratore di condominio è legittimato a partecipare alla procedura di mediazione obbligatoria soltanto previa delibera assembleare di autorizzazione, non rientrando tra le sue attribuzioni, in assenza di apposito mandato, il potere di disporre dei diritti sostanziali rimessi alla mediazione, con la conseguenza che la condizione di procedibilità delle “controversie in materia di condominio” non può dirsi realizzata qualora l’amministratore partecipi all’incontro davanti al mediatore sprovvisto della previa delibera assembleare, da assumersi con la maggioranza di cui all’art. 1136, comma 2, c.c., non essendo in tal caso possibile iniziare la procedura di mediazione e procedere al relativo svolgimento, come suppone il comma 1 dell’art. 8 del d.lgs. n. 28 del 2010.

Tale principio è in linea con altro espresso da Sez. 6-2, n. 10846/2020, Scarpa, Rv. 657890-02 (già citata supra, sub § 2), secondo cui non rientra tra le attribuzioni dell’amministratore il potere di pattuire con i condomini morosi dilazioni di pagamento o accordi transattivi, spettando all’ assemblea il potere di approvare una transazione riguardante spese d’interesse comune, ovvero di delegare l’amministratore a transigere, fissando gli eventuali limiti dell’attività dispositiva negoziale affidatagli.

Avviato il processo nel quale si sia costituito il condominio, il mutamento della persona dell’amministratore in corso di causa non ha immediata incidenza sul rapporto processuale, che, in ogni caso, sia dal lato attivo che da quello passivo, resta riferito al condominio, il quale opera, nell’interesse comune dei partecipanti, attraverso il proprio organo rappresentativo unitario, senza bisogno del conferimento dei poteri rappresentativi per ogni grado e fase del giudizio. Pertanto, ferma l’inefficacia della procura conferita da chi, alla data di costituzione in giudizio, sia già cessato dalla carica di amministratore di un condominio, perché dimissionario o sostituito con altra persona dall’assemblea, l’eventuale morte o cessazione del potere di rappresentanza dell’amministratore del condominio già costituito in giudizio a mezzo di procuratore possono comportare conseguenze, a norma dell’art. 300 c.p.c., soltanto se e quando l’evento sia stato dichiarato in udienza, ovvero sia notificato alle altre parti dal procuratore costituito, proseguendo altrimenti il rapporto processuale senza soluzione di continuità (in tal senso, Sez. 2, n. 27302/2020, Scarpa, Rv. 659726-01).

Come si è detto, i poteri di rappresentanza processuale dell’amministratore, sia dal lato attivo, sia passivo, sono correlati, ai sensi dell’art. 1131 c.c., alle attribuzioni stabilite dall’art. 1130 c.c. e ai poteri conferitigli dal regolamento condominiale.

Sulla base di ciò, l’amministratore del condominio può resistere all’impugnazione della delibera assembleare riguardante parti comuni e può gravare la relativa decisione del giudice senza necessità di autorizzazione o ratifica dell’assemblea, tenuto conto dei poteri demandatigli dalla suddetta disposizione, giacché l’esecuzione e la difesa delle deliberazioni assembleari rientra fra le attribuzioni proprie dello stesso (Sez. 2, n. 23550/2020, Abete, Rv. 659389-01); può agire o resistere in giudizio per ottenere che un condomino non adibisca la propria unità immobiliare ad attività vietata dal regolamento condominiale contrattuale (nella specie, attività alberghiera), senza la necessità di una specifica deliberazione assembleare assunta con la maggioranza prevista dall’art. 1136, comma 2, c.c., la quale è richiesta soltanto per le liti attive e passive esorbitanti dalle incombenze proprie dell’amministratore stesso, essendo tenuto a curare l’osservanza del regolamento di condominio ex art. 1130, comma 1, n. 1, c.c. (Sez. 2, n. 21562/2020, Tedesco, Rv. 659320-01); ha infine legittimazione passiva nelle cause in cui sia esercitata azione nei confronti del condominio in relazione alle parti comuni e si tratti di compiere atti conservativi sui beni di proprietà comune, stante il riconoscimento allo stesso, sulla base di un’interpretazione estensiva dell’art. 1130, n. 4), c.c., della legittimazione attiva ad esercitare l’azione di reintegrazione nel possesso (Sez. 2, n. 25782/2020, Giannaccari, Rv. 659677-01).

Ad avviso di Sez. 6-2, n. 18796/2020, Scarpa, Rv. 659217-01 (cfr. supra, sub § 2), va considerato atto conservativo, per il quale può riconoscersi la legittimazione autonoma dell’amministratore, ai sensi dell’art. 1130, n. 4, c.c., ad esempio, l’azione esperita contro i singoli condomini o contro i terzi per il ripristino dei luoghi e per il risarcimento del danno a tutela di spazi adibiti a parcheggio, globalmente considerati, quando questi non siano contemplati negli atti di trasferimento delle unità immobiliari, in quanto mancanti di espressa riserva di proprietà o di alcun altro riferimento, e costituiscano perciò parti comuni dell’edificio condominiale. Come già evidenziato (cfr. supra, sub § 2), ad avviso della Corte, infatti, la speciale normativa urbanistica, dettata dall’art. 41-sexies della l. n. 1150 del 1942, introdotto dall’art. 18 della l. n. 765 del 1967, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, la destinazione obbligatoria di appositi spazi a parcheggi in misura proporzionale alla cubatura totale dell’edificio, determinando, mediante tale vincolo di carattere pubblicistico, un diritto reale d’uso sugli spazi predetti a favore di tutti i condomini dell’edificio, senza imporre all’originario costruttore alcun obbligo di cessione in proprietà degli spazi in questione.

Per contro, proprio in ragione della correlazione tra attribuzioni, legali o convenzionali, e rappresentanza, la legittimazione dell’amministratore non può essere riconosciuta, né in caso di azioni personali, né reali che esulino dai limiti della propria competenza senza essere autorizzato dall’assemblea o in certi casi da ciascun condomino.

Secondo Sez. 2, n. 03846/2020, Besso Marcheis, Rv. 657104-01, in particolare, l’amministratore non è legittimato a promuovere l’azione di responsabilità, ai sensi dell’art. 1669 c.c., nei confronti del costruttore, a tutela dell’edificio nella sua unitarietà, non potendo la sua legittimazione estendersi, in difetto di mandato rappresentativo dei singoli condomini, anche alla proposizione delle azioni risarcitorie, in forma specifica o per equivalente, relative ai danni subiti dai condomini nei rispettivi immobili di proprietà esclusiva, né, secondo Sez. 6-5, n. 23190/2020, Criscuolo, Rv. 659405-01 (già citata, supra, sub § 2), può esercitare, nei confronti dei singoli condomini o contro terzi, azioni reali dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità, al contenuto o alla tutela dei diritti reali su cose o parti dell’edificio condominiale, che esulino dal novero degli atti meramente conservativi (come in caso di azione esercitata dal condominio per ottenere la demolizione di un fabbricato non costruito a distanza), le quali possono essere da lui esperite soltanto previa autorizzazione dell’assemblea, ex art. 1131, comma 1, c.c. (negli stessi termini, Sez. 2, n. 21533/2020, Bellini, Rv. 659375-01, secondo cui l’autorizzazione dell’assemblea ex art. 1131, primo comma, c.c., richiede l’adozione con la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136 c.c.).

Va infine considerato che, a seconda dell’oggetto della causa, la legittimazione ad agire o resistere in giudizio non soltanto non può essere riconosciuta all’amministratore, ma neppure all’assemblea dei condomini.

È il caso, ad esempio, della domanda diretta alla estensione della proprietà comune mediante declaratoria di appartenenza al condominio di un’area adiacente al fabbricato condominiale, siccome acquistata per usucapione, la quale, implicando non solo l’accrescimento del diritto di comproprietà, ma anche la proporzionale assunzione degli obblighi e degli oneri ad esso correlati, esorbita dai poteri deliberativi dell’assemblea e dai poteri di rappresentanza dell’amministratore, il quale può esercitare la relativa azione solo in virtù di un mandato speciale rilasciato da ciascun condomino (vedi, Sez. 2, n. 25014/2020, Bellini, Rv. 659671-01).

Allo stesso modo, l’azione di nullità del regolamento condominiale c.d. contrattuale è esperibile non nei confronti del condominio (e quindi dell’amministratore), carente di legittimazione, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, versandosi in una situazione di litisconsorzio necessario, in quanto esso, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune (in applicazione di tale principio, la S.C. ha condiviso la decisione della Corte di merito che, una volta escluso che il riscontro della eventuale nullità del regolamento costituisse l’oggetto di un accertamento incidentale - nel qual caso non sarebbe stata imposta la necessaria partecipazione di tutti i condomini -, aveva dichiarato la nullità della sentenza di primo grado per la mancata partecipazione al giudizio di tutti i condomini) (in tal senso, Sez. 6-2, n. 24957/2020, Dongiacomo, Rv. 659703-01, già citata, supra, sub § 6).

Per gli stessi motivi, infine, Sez. 6-2, n. 04697/2020, Scarpa, Rv. 657260-01 evidenzia che non va proposta nei confronti dell’amministratore di condominio, ma nei confronti di tutti i condomini, quali legittimati passivi, in situazione di litisconsorzio necessario, la domanda di accertamento negativo della qualità di condomino, atteso che questa inerisce all’inesistenza del rapporto di condominialità ex art. 1117 c.c. e che la definizione della vertenza postula, perciò, una decisione implicante una statuizione in ordine a titoli di proprietà confliggenti fra loro, suscettibile di assumere valenza solo se, ed in quanto, data nei confronti di tutti i soggetti, asseriti partecipi del preteso condominio in discussione (in applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che, a fronte di una domanda di accertamento negativo dell’appartenenza ad un condominio di alcune unità immobiliari, aveva dichiarato la nullità della sentenza di primo grado, con rimessione della causa al giudice di prime cure, per non aver quest’ultimo disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini).

Instaurato il giudizio in cui sia parte il condominio nella persona dell’amministratore, infine, quando vi sia stata opposizione a decreto ingiuntivo per il pagamento di contributi per spese, il condominio soddisfa l’onere probatorio su esso gravante con la produzione del verbale di assemblea condominiale in cui sono state approvate le spese, nonché dei relativi documenti, sicché il giudice emetterà una sentenza favorevole qualora l’amministratore dimostri che il credito preteso sussiste, è esigibile e che il condominio ne è titolare (in tal senso, Sez. 6-2, n. 15696/2020, Scarpa, Rv. 658784-01; conforme Sez. 2, n. 07569/1994, Corona, Rv. 48778501).

9. L’assemblea e l’impugnazione delle deliberazioni assembleari.

9.1.. Il funzionamento.

L’assemblea dei condomini è l’organo deliberativo del condominio che provvede, ai sensi dell’art. 1135 c.c., all’adozione di decisioni in merito alla conferma dell’amministratore e alla sua retribuzione, all’approvazione del preventivo delle spese occorrenti e alla ripartizione tra condomini, all’approvazione del rendiconto annuale e all’impiego del residuo attivo e alle opere di manutenzione straordinaria e alle innovazioni, oltre alle questioni elencate negli articoli precedenti.

La costituzione dell’assemblea e la validità delle sue deliberazioni sono disciplinate invece dal successivo art. 1136 c.c.

In proposito, Sez. 2, n. 25558/2020, Bellini, Rv. 659673-01, ha precisato che la regola posta dall’art. 1136, comma 3, c.c., secondo la quale la deliberazione assunta dall’assemblea condominiale in seconda convocazione è valida se riporta un numero di voti che rappresenti il terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell’edificio, va intesa nel senso che, coloro che abbiano votato contro l’approvazione non devono rappresentare un valore proprietario maggiore rispetto a coloro che abbiano votato a favore, atteso che l’intero art. 1136 c.c. privilegia il criterio della maggioranza del valore dell’edificio quale strumento coerente per soddisfare le esigenze condominiali.

In caso di condominio minimo, invece, costituito da un proprietario esclusivo di un’unità immobiliare e altri comproprietari “pro indiviso” delle restanti unità immobiliari comprese nell’edificio, il funzionamento dell’assemblea, secondo Sez. 6-2, n. 15705/2020, Scarpa, Rv. 658742-01, non è regolato dal principio di maggioranza, atteso che i medesimi comproprietari, con riguardo all’elemento personale supposto dall’art. 1136 c.c., esprimono comunque un solo voto, ancorché abbiano designato distinti rappresentanti, con la conseguenza che, ove non si raggiunga l’unanimità, è necessario adire l’autorità giudiziaria, ai sensi degli artt. 1105 e 1139 c.c.

L’assemblea viene convocata con le modalità di cui all’art. 66, disp. att. c.c., il quale nella formulazione introdotta con la l. n. 220 del 2012, stabilisce, al comma 3, che l’avviso di convocazione debba contenere specifica indicazione dell’ordine del giorno e debba essere notificato almeno cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza.

Ad avviso di Sez. 2, n. 24041/2020, Scarpa, Rv. 659608-01, ogni condomino ha infatti il diritto di intervenire all’ assemblea e deve, quindi, essere messo in condizione di poterlo fare, con la conseguente necessità che l’avviso di convocazione, previsto dall’art. 66, comma 3, disp. att. c.c. nel testo vigente “ratione temporis”, quale atto unilaterale recettizio, sia, non solo, inviato, ma anche ricevuto nel termine ivi stabilito di almeno cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza, avendo riguardo alla riunione dell’assemblea in prima convocazione.

La mancata comunicazione a taluno dei condomini dell’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale, in quanto vizio procedimentale, comporta, invero, l’annullabilità della delibera condominiale, con la conseguenza che la legittimazione a domandare il relativo annullamento spetta, ai sensi degli artt. 1441 e 1324 c.c., unicamente al singolo avente diritto pretermesso, sul quale grava l’onere di dedurre e provare, in caso di contestazione, i fatti dai quali l’omessa comunicazione risulti (vedi Sez. 2, n. 06735/2020, Scarpa, Rv. 657132-01, già citata supra, sub § 9.1).

Tuttavia, il condomino regolarmente convocato, secondo Sez. 2, n. 10071/2020, Giannaccari, Rv. 657758-01, non può impugnare la delibera per difetto di convocazione di altro condomino, in quanto l’interesse a far valere un vizio che renda annullabile una deliberazione dell’ assemblea, non può ridursi al mero interesse alla rimozione dell’atto, ovvero ad un’astratta pretesa di sua assoluta conformità al modello legale, ma deve essere espressione di una sua posizione qualificata, diretta ad eliminare la situazione di obiettiva incertezza che quella delibera genera quanto all’esistenza dei diritti e degli obblighi da essa derivanti.

9.2.. Le determinazioni dell’assemblea.

Le attribuzioni dell’assemblea, oltre a quanto stabilito negli artt. precedenti, sono contenute nell’art. 1135 c.c., che richiama, tra le altre materie, la conferma dell’amministratore e la sua eventuale retribuzione, l’approvazione del preventivo e della ripartizione delle spese, l’approvazione del rendiconto annuale e le opere di manutenzione straordinaria e le innovazioni.

Ad avviso di Sez. 2, n. 14300/2020, Abete, Rv. 658439-01, l’assemblea condominiale ben può altresì deliberare la nomina di una commissione di condomini deputata ad assumere determinazioni di competenza assembleare. Tuttavia, le determinazioni di tale commissione, per essere vincolanti anche per i dissenzienti, ex art. 1137, comma 1, c.c., devono essere approvate, con le maggioranze prescritte, dall’assemblea medesima, non essendo le funzioni di quest’ultima suscettibili di delega (nella specie l’assemblea, demandata ad una commissione ristretta di condomini la scelta e la nomina del tecnico cui affidare l’incarico di accertare quali fossero le opere di manutenzione straordinaria necessarie per la buona conservazione dei fabbricati e di redigere il computo metrico dei lavori, nonché il capitolato d’appalto, aveva poi approvato le indicazioni così emerse con una propria successiva delibera di recepimento).

Sui confini dei poteri attribuiti all’assemblea in caso di condominio parziale, Sez. 2, n. 00791/2020, Scarpa, Rv. 656837-01 (già citata supra, sub § 2), dopo averne fornito la descrizione, stabilendo che esso è fondato sull’art. 1123, comma 3, c.c. ed è automaticamente configurabile ex lege tutte le volte in cui un bene risulti, per le sue obbiettive caratteristiche strutturali e funzionali, destinato oggettivamente al servizio e/o al godimento, in modo esclusivo, di una parte soltanto dell’edificio in condominio, rimanendo, per l’effetto, oggetto di un autonomo diritto di proprietà e venendo meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini su quel bene, ha stabilito che i partecipanti al gruppo non hanno il diritto di partecipare all’assemblea relativamente alle cose di cui non hanno la titolarità e la composizione del collegio e delle maggioranze si modifica in relazione alla titolarità delle specifiche parti oggetto della concreta delibera da adottare.

L’assemblea, come si è detto, ha una competenza essenziale in ordine all’insorgenza dell’obbligo, in capo ai condomini, di contribuire al pagamento delle spese condominiali.

A questo riguardo Sez. 6-2, n. 20006/2020, Scarpa, Rv. 659225-01 (già citata supra, sub § 7) ha infatti stabilito che, qualora la ripartizione delle spese condominiali sia avvenuta soltanto con l’approvazione del rendiconto annuale dell’amministratore, ai sensi dell’art. 1135, n. 3, c.c., l’obbligazione dei condomini di contribuire al pagamento delle stesse sorge soltanto dal momento della approvazione della delibera assembleare di ripartizione, che i condomini assenti o dissenzienti non potranno impugnare per ragioni di merito, perché non è consentito al singolo condomino rimettere in discussione, al momento del bilancio consuntivo, i provvedimenti della maggioranza che, tradottisi in delibere, avrebbero dovuto essere tempestivamente impugnati.

In caso di spese di manutenzione straordinaria dell’edificio condominiale, inoltre, deve sempre farsi riferimento all’approvazione della delibera assembleare che determini l’oggetto dell’appalto da stipulare con l’impresa prescelta, ovvero le opere da compiersi e il prezzo dei lavori, fissando gli elementi costitutivi fondamentali dell’opera nella loro consistenza quantitativa e qualitativa, non rilevando l’esistenza di una deliberazione programmatica e preparatoria (in tal senso, Cass. 6-2, n. 18793/2020, Scarpa, Rv. 659215-01, già citata supra, sub § 7).

La Corte si è infine occupata delle maggioranze assembleari richieste sia nell’ipotesi di assegnazione di parti comuni (nella specie di una caldaia) in proprietà esclusiva ad alcuni condomini, sia di installazione di un ripetitore sul tetto dello stabile condominiale (per una rapida riflessione sul punto, si rinvia anche al Capitolo IV di questa sezione).

Nel primo caso, la deliberazione condominiale, ad avviso di Sez. 2, n. 06090/2020, Carrato, Rv. 657126-01, richiede l’unanimità dei consensi, incidendo sulla pregressa comproprietà originaria ex lege di parti comuni e comportando l’esclusione dal vincolo reale di alcuni dei condomini.

Nel secondo caso, invece, occorre distinguere. Sez. U., n. 08434/2020, Cosentino, Rv. 657604-01, ha innanzitutto premesso, sul punto, che il programma negoziale con cui il proprietario di un lastrico solare intenda cedere in godimento ad altri, a titolo oneroso, la facoltà di installarvi e mantenervi per un certo tempo un ripetitore o altro impianto tecnologico, con il diritto di mantenere la disponibilità ed il godimento dell’impianto ed asportare il medesimo alla fine del rapporto, può astrattamente essere perseguito sia attraverso un contratto ad effetti reali, sia attraverso un contratto ad effetti personali e che la riconduzione del contratto concretamente dedotto in giudizio all’una o all’altra delle suddette categorie rappresenta una questione di interpretazione contrattuale, che rientra nei poteri del giudice di merito.

Qualora le parti abbiano inteso attribuire a tale accordo effetti reali, prosegue la medesima Sez. U., n. 08434/2020, Cosentino, Rv. 657604-02, lo schema negoziale di riferimento è quello del contratto costitutivo di un diritto di superficie, il quale attribuisce all’acquirente la proprietà superficiaria dell’impianto installato sul lastrico solare, può essere costituito per un tempo determinato e può prevedere una deroga convenzionale alla regola che all’estinzione del diritto per scadenza del termine il proprietario del suolo diventi proprietario della costruzione. In tal caso, anche quando il diritto di superficie sia temporaneo, è richiesta l’approvazione di tutti i condomini.

Ove, al contrario, le parti abbiano inteso attribuire all’accordo effetti obbligatori, lo schema negoziale di riferimento è quello del contratto atipico di concessione ad aedificandum di natura personale, con rinuncia del concedente agli effetti dell’accessione, con il quale il proprietario di un’area concede ad altri il diritto personale di edificare sulla stessa, di godere e disporre dell’opera edificata per l’intera durata del rapporto e di asportare tale opera al termine del rapporto. Tale contratto è, invece, soggetto alla disciplina dettata, oltre che dai patti negoziali, dalle norme generali contenute nel titolo II del libro IV del codice civile (art. 1323 c.c.), nonché, per quanto non previsto dal titolo, dalle norme sulla locazione, tra cui quelle dettate dagli artt. 1599 c.c. e 2643, n. 8, c.c. e, ove stipulato da un condominio per consentire a terzi l’installazione del ripetitore sul lastrico solare del fabbricato condominiale, richiede l’approvazione di tutti i condomini solo se la relativa durata sia convenuta per più di nove anni (cfr. anche Sez. U., n. 08434/2020, Cosentino, Rv. 657604-03).

Le Sezioni Unite, nell’esprimere tali principi, hanno in premessa chiarito, nella parte motiva, che la collocazione di un ripetitore sul tetto dello stabile condominiale può astrattamente costituire innovazione, essendo questa caratterizzata dalla idoneità ad alterare l’entità materiale del bene e ad operarne la trasformazione anche soltanto della sua destinazione o della sua consistenza materiale o della sua utilizzabilità per fini diversi ed essendo il ripetitore idoneo a far perdere parzialmente la destinazione al calpestio del lastrico, così superando quelle opinioni dottrinali che escludono aprioristicamente la natura di innovazione del ripetitore in ragione della sua inidoneità ad incidere sulla consistenza materiale del tetto o sulla sua utilità o uso consentito ai condomini. La qualificabilità in termini di “innovazione” di tale impianto, secondo la Corte, non deriva, invero, dalla struttura dell’opera realizzata, ma dalla sua destinazione o meno all’uso comune: l’art. 1120 c.c. opera infatti soltanto quando l’immutatio loci derivante dall’ancoraggio dell’impianto al lastrico solare sia realizzata su disposizione, a spese e nell’interesse del condominio, in quanto destinato all’uso comune, mentre quando detta installazione avviene su disposizione, a spese e nell’interesse del terzo cessionario del godimento del lastrico, la vicenda deve essere vista nella prospettiva dell’approvazione di un atto di amministrazione (il contratto con il terzo) ai sensi dell’art. 1108, comma 3, c.c. e non di un’innovazione.

9.3.. L’impugnazione.

Ai sensi dell’art. 1137 c.c., le deliberazioni assunte dall’assemblea sono obbligatorie per tutti i condomini e, se contrarie alla legge o al regolamento di condominio, possono essere impugnate da ogni condomino assente, dissenziente o astenuto, davanti all’autorità giudiziaria, nel termine di 30 giorni decorrente dalla data della deliberazione per i dissenzienti o gli astenuti ovvero dalla data della comunicazione della deliberazione per gli assenti.

In merito alla competenza, Sez. 2, n. 28508/2020, Scarpa, Rv. 660061 - 01, ha ribadito l’uniforme orientamento di questa Corte, secondo cui l’art. 1137, comma 2, c.c., nel riconoscere ad ogni condomino assente, dissenziente o astenuto la facoltà di ricorrere all’autorità giudiziaria avverso le deliberazioni dell’assemblea del condominio, non pone una riserva di competenza assoluta ed esclusiva del giudice ordinario, e, quindi, non esclude la compromettibilità in arbitri di tali controversie, le quali, d’altronde, non rientrano in alcuno dei divieti sanciti dagli artt. 806 e 808 c.p.c.

Quanto al termine di impugnazione, Sez. 6-2, n. 19714/2020, Scarpa, Rv. 659220-01, in linea con un risalente insegnamento della stessa Corte (cfr. Sez. 2, n. 01082/1964, Corduas, Rv. 301546-01; Sez. 2, n. 02155/1966, Pratis, Rv. 324211-01) ha chiarito che è affetta da nullità la clausola del regolamento di condominio che stabilisce un termine di decadenza di quindici giorni per chiedere all’autorità giudiziaria l’annullamento delle delibere dell’assemblea, atteso che l’ultimo comma dell’art. 1138 c.c. vieta che con norme regolamentari siano modificate le disposizioni relative alle impugnazioni delle deliberazioni condominiali di cui all’art. 1137 c.c..

La legittimazione ad agire, attribuita dall’art. 1137 c.c. ai condomini assenti e dissenzienti, non è subordinata alla deduzione ed alla prova di uno specifico interesse diverso da quello alla rimozione dell’atto impugnato, essendo l’interesse ad agire, richiesto dall’art. 100 c.p.c. quale condizione dell’azione di annullamento anzidetta, costituito proprio dall’accertamento dei vizi formali di cui sono affette le deliberazioni (in tal senso, Sez. 2, n. 17294/2020, Casadonte, Rv. 658893-01).

L’interesse ad agire sussiste anche quando la relativa azione sia volta esclusivamente alla rimozione della delibera assembleare, ove il vizio abbia carattere meramente formale e la delibera impugnata non abbia ex se alcuna incidenza diretta sul patrimonio dell’attore, sicché la domanda giudiziale appartiene alla competenza residuale del tribunale, non avendo ad oggetto la lesione di un interesse suscettibile di essere quantificato in una somma di denaro per il danno ingiustamente subito ovvero per la maggior spesa indebitamente imposta (vedi Sez. 6-2, n. 15434/2020, Dongiacomo, Rv. 658730-01).

Il sindacato dell’autorità giudiziaria sulle delibere assembleari, secondo Sez. 6-2, n. 05061/2020, Scarpa, Rv. 657265-01, è limitato ad un riscontro di legittimità della decisione, avuto riguardo all’osservanza delle norme di legge o del regolamento condominiale ovvero all’eccesso di potere, inteso quale controllo del legittimo esercizio del potere di cui l’ assemblea medesima dispone, non potendosi invece estendere al merito e al controllo della discrezionalità di cui tale organo sovrano è investito, sicché ragioni attinenti alla opportunità ed alla convenienza della gestione del condominio possono essere valutate soltanto in caso di delibera che arrechi grave pregiudizio alla cosa comune, ai sensi dell’art. 1109, comma 1, c.c. La sostituzione della delibera impugnata con altra adottata dall’assemblea in conformità della legge, infine, facendo venir meno la specifica situazione di contrasto fra le parti, determina la cessazione della materia del contendere, analogamente a quanto disposto dall’art. 2377, comma 8, c.c. dettato in tema di società di capitali, a condizione che la nuova deliberazione abbia un identico contenuto, e che cioè provveda sui medesimi argomenti, della deliberazione impugnata, ferma soltanto l’avvenuta rimozione dell’iniziale causa di invalidità (cfr. Sez. 6-2, n. 10847/2020, Scarpa, Rv. 657891-01).

  • eredità
  • diritto successorio
  • donazione
  • testamento di vita

CAPITOLO VI

SUCCESSIONI E DONAZIONI

(di Dario Cavallari )

Sommario

1 Apertura della successione, delazione ereditaria, indegnità a succedere e rappresentazione. - 2 L’accettazione di eredità e la sua rinuncia. - 3 Il beneficio d’inventario. - 4 La petizione di eredità e la successione legittima. - 5 I legittimari e la reintegrazione della quota loro riservata. - 6 I diritti di uso ed abitazione riservati al coniuge superstite. - 7 Il testamento. - 8 La divisione ereditaria. - 9 La collazione. - 10 Le donazioni.

1. Apertura della successione, delazione ereditaria, indegnità a succedere e rappresentazione.

In tema di acquisto della qualità di erede, Sez. 6-3, n. 12987/2020, Porreca, Rv. 658232-01, ha chiarito che, nell’ipotesi di interruzione del processo per morte di una delle parti in corso di giudizio, i chiamati all’eredità, pur non assumendo, per il solo fatto di aver ricevuto e accettato la notifica come eredi, la suddetta qualità, hanno l’onere di contestare, costituendosi in giudizio, l’effettiva assunzione di tale condizione soggettiva, chiarendo la propria posizione, e il conseguente difetto di legittimazione, in quanto, dopo la morte della parte, la legittimazione passiva, che non si trasmette per mera delazione, deve essere individuata dall’istante allo stato degli atti, cioè nei confronti dei soggetti che oggettivamente presentino un valido titolo per succedere, qualora non sia conosciuta, o conoscibile con l’ordinaria diligenza, alcuna circostanza idonea a dimostrare la mancanza del titolo.

Con riguardo all’indegnità a succedere, Sez. 6-2, n. 19045/2020, Dongiacomo, Rv. 658793-01, ha affermato che la formazione o l’uso consapevole di un testamento falso è causa d’indegnità a succedere, se colui che viene a trovarsi nella posizione d’indegno non provi di non aver inteso offendere la volontà del de cuius, perché il contenuto della disposizione corrisponde a tale volontà e il de cuius aveva acconsentito alla compilazione della scheda da parte dello stesso nell’eventualità che non fosse riuscito a farla di persona, ovvero che il de cuius aveva la ferma intenzione di provvedervi per evitare la successione ab intestato.

In ordine alla rappresentazione, Sez. 2, n. 02914/2020, San Giorgio, Rv. 657093-02, ha precisato che la formulazione dell’art. 467 c.c., secondo la quale la rappresentazione fa subentrare i discendenti nel luogo e nel grado dell’ascendente, deve intendersi non già nel senso che i discendenti siano titolari dei medesimi diritti del rappresentato, ma, piuttosto, nel senso che gli stessi vengano a trovarsi nella medesima posizione e nel medesimo grado del rappresentato solo ai fini della misura della delazione ereditaria, la quale avviene, peraltro, direttamente nei confronti dei rappresentanti, che mantengono una posizione autonoma rispetto al rappresentato.

2. L’accettazione di eredità e la sua rinuncia.

Secondo Sez. 6-2, n. 19711/2020, Grasso, Rv. 659219-01, ai sensi dell’art. 475 c.c., si ha accettazione espressa dell’eredità ogni qualvolta il chiamato assuma il titolo di erede in una scrittura privata, trattandosi di autonomo negozio giuridico unilaterale e non recettizio, che conserva appieno la sua validità, ancorché, per effetto della mancata registrazione in base al r.d.l. 27 settembre 1941, n. 1015, sia stata colpita da nullità la distinta convenzione, eventualmente contenuta nello stesso documento.

Inoltre, Sez. 2, n. 12646/2020, Cosentino, Rv. 658276-01, ha confermato l’orientamento tradizionale di Sez. 2, n. 03529/1969, D’Amico, Rv. 343691-01, per il quale un chiamato all’eredità può acquistare la qualità di erede per accettazione espressa o tacita dell’eredità anche dopo il decorso del termine di prescrizione decennale del diritto di accettare l’eredità di cui al comma 1 dell’art. 480 c.c., quando nessuno degli interessati sollevi tempestivamente l’eccezione di prescrizione.

Ad avviso di Sez. 6-2, n. 15690/2020, Tedesco, Rv. 658781-01, l’immissione in possesso dei beni ereditari non comporta accettazione tacita dell’eredità, poiché non presuppone necessariamente, in chi la compie, la volontà di accettare. Peraltro, se il chiamato nel possesso o compossesso anche di un solo bene ereditario non forma l’inventario nel termine di tre mesi decorrenti dal momento di inizio del possesso, viene considerato erede puro e semplice; tale onere condiziona, non solo la facoltà di accettare con beneficio d’inventario, ma anche quella di rinunciare all’eredità in maniera efficace nei confronti dei creditori del “de cuius”.

Per Sez. 6-2, n. 15663/2020, Criscuolo, Rv. 658738-01, l’atto di accettazione dell’eredità, in applicazione del principio semel heres, semper heres, è irrevocabile e comporta in maniera definitiva l’acquisto della qualità di erede, la quale permane non solo qualora l’accettante intenda revocare l’atto di accettazione in precedenza posto in essere, ma anche nell’ipotesi in cui questi compia un successivo atto di rinuncia all’eredità. La regola della retroattività della rinuncia deve, infatti, essere riferita esclusivamente all’eventualità nella quale, nelle more tra l’apertura della successione e la data della rinuncia, il chiamato non abbia ancora posto in essere atti idonei ad accettare l’eredità, e non anche al diverso caso nel quale nelle more sia intervenuta l’accettazione dell’eredità.

Sez. 2, n. 20878/2020, Criscuolo, Rv. 659182-01, ha affermato, inoltre, che, per aversi accettazione tacita di eredità, non basta che un atto sia compiuto dal chiamato all’eredità con l’implicita volontà di accettarla, ma è necessario, altresì, che si tratti di atto che egli non avrebbe diritto di porre in essere, se non nella qualità di erede. Pertanto, poiché il pagamento di un debito del de cuius, che il chiamato all’eredità effettui con danaro proprio, non è un atto dispositivo e, comunque, suscettibile di menomare la consistenza dell’asse ereditario - tale, cioè, che solo l’erede abbia diritto a compiere - ne consegue che, rispetto ad esso, difetta il secondo dei suddetti requisiti, richiesti in via cumulativa e non disgiuntiva per l’accettazione tacita. Pertanto, la S.C. ha escluso che il pagamento, ad opera di uno dei chiamati all’eredità, di una sanzione pecuniaria elevata nei confronti del de cuius, per contravvenzione al codice della strada, possa intendersi alla stregua di un atto di accettazione tacita, trattandosi di atto meramente conservativo e compatibile, in tesi, con un’ipotesi di adempimento del terzo ex art. 1180 c.c.

Secondo Sez. 3, n. 25885/2020, Olivieri, Rv. 659588-01, a seguito della notifica dell’atto di riassunzione nei confronti dei chiamati all’eredità, che consente la ripresa del processo senza che occorra alcun accertamento in ordine all’accettazione espressa o tacita dell’eredità, la parte evocata in riassunzione può assumere un contegno di non contestazione (o di espressa ammissione) circa la propria qualità di erede, il che esonera la parte attrice dall’onere di dimostrare il fatto incontroverso, oppure può negare tale qualifica e, dunque, la titolarità del rapporto controverso, attraverso una mera difesa da esercitarsi tempestivamente rispetto alle preclusioni formatesi con la definizione del thema decidendum all’esito della fase di trattazione; in tal caso, il giudice dovrà verificare l’assolvimento dell’onere della prova da parte di colui che afferma la qualità di erede, anche valutando, attraverso un ragionamento presuntivo, il comportamento, processuale ed extraprocessuale, tenuto dal chiamato.

In ambito tributario, Sez. 5, n. 23989/2020, Condello, Rv. 659481-01, ha affermato che, nell’ipotesi in cui il chiamato all’eredità abbia impugnato un atto di accertamento emesso nei suoi confronti nella qualità di erede dell’originario debitore, senza contestare l’assunzione di tale qualità e, quindi, il difetto di titolarità passiva della pretesa, ma censurando nel merito l’accertamento compiuto dall’Amministrazione finanziaria, deve ritenersi che lo stesso abbia posto in essere un’attività non altrimenti giustificabile se non con la veste di erede, trattandosi di un comportamento che esorbita dalla mera attività processuale conservativa del patrimonio ereditario.

Con riferimento all’azione ex art. 524 c.c., Sez. 6-2, n. 15664/2020, Criscuolo, Rv. 658739-01, ha precisato che questa è ammissibile unicamente ove i creditori abbiano richiesto, ai sensi dell’art. 481 c.c., la fissazione di un termine entro il quale il chiamato dichiari se accetta o rinuncia all’eredità quando non sia ancora maturata la prescrizione del diritto di accettare l’eredità ex art. 480 c.c. In caso contrario, si finirebbe per rimettere impropriamente in termini i creditori, anche con evidente pregiudizio dei successivi accettanti che confidano nella decorrenza di un termine prescrizionale per l’azione dei creditori inferiore a quello ordinario decennale.

In particolare, Sez. 6-2, n. 05994/2020, Criscuolo, Rv. 657272-01, ha chiarito che, per l’impugnazione della rinuncia ereditaria ai sensi dell’art. 524 c.c., il presupposto oggettivo è costituito unicamente dal prevedibile danno ai creditori, che si verifica quando, al momento dell’esercizio dell’azione, i beni personali del rinunziante appaiono insufficienti a soddisfare del tutto i suoi creditori; ove dimostrata da parte del creditore impugnante l’idoneità della rinuncia a recare pregiudizio alle sue ragioni, grava sul debitore provare che, nonostante la rinuncia, il suo residuo patrimonio è in grado di soddisfare il credito dell’attore.

Infine, per Sez. 5, n. 15871/2020, Russo, Rv. 658407-01, il chiamato all’eredità, che abbia ad essa validamente rinunciato, non risponde dei debiti tributari del de cuius, neppure per il periodo intercorrente tra l’apertura della successione e la rinuncia, neanche se risulti tra i successibili ex lege o abbia presentato la dichiarazione di successione (che non costituisce accettazione) in quanto, avendo la rinuncia effetto retroattivo ex art. 521 c.c., egli è considerato come mai chiamato alla successione e non deve più essere annoverato tra i successibili.

3. Il beneficio d’inventario.

Secondo Sez. 2, n. 20531/2020, Tedesco, Rv. 659179-01, l’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario limita al valore dei beni ricevuti la responsabilità dell’erede per i debiti ereditari, ma di per sé non impedisce che, entro i limiti dell’eredità, i creditori ereditari agiscano direttamente contro di lui e sui suoi beni.

Peraltro, per Sez. 2, n. 29252/2020, Tedesco, Rv. 659948-01, l’erede beneficiato risponde dei debiti ereditari e dei legati non solo intra vires hereditatis, e cioè non oltre il valore dei beni a lui pervenuti a titolo di successione, ma, altresì, cum viribus hereditatis, ovvero con esclusione della responsabilità patrimoniale in ordine a tutti gli altri suoi beni che, pertanto, i creditori ereditari e i legatari non possono aggredire. Siffatta limitazione di responsabilità assume rilievo già nella fase antecedente l’esecuzione forzata, precludendo ogni misura anche cautelare sui beni propri dell’erede, vale a dire sui beni diversi da quelli a lui provenienti dalla successione.

Sez. 2, n. 20531/2020, Tedesco, Rv. 659179-02, ha affermato, poi, che l’erede, il quale abbia accettato con beneficio di inventario e che sia convenuto dal creditore del de cuius che faccia valere per intero la sua pretesa, se vuole contenere intra vires l’estensione e gli effetti della pronuncia giudiziale, deve fare valere tale sua qualità - mediante una difesa che si configura in termini di eccezione in senso lato, invocabile liberamente anche nel giudizio di appello e rilevabile pure d’ufficio dal giudice - nel giudizio di cognizione; in mancanza, la pronuncia giudiziale costituisce un titolo non più contestabile in sede esecutiva.

Infine, ad avviso di Sez. 1, n. 26567/2020, Vella, Rv. 659744-01, in tema di concordato preventivo avente natura liquidatoria, ove nel corso dell’esecuzione della procedura sopravvenga la morte del debitore concordatario, è applicabile, in via analogica, l’art. 12 l. fall., con la conseguenza che la procedura prosegue nei confronti dei suoi eredi, benché costoro abbiano accettato con beneficio d’inventario ovvero, nel caso previsto dall’art. 528 c.c., nei confronti del curatore dell’eredità giacente.

4. La petizione di eredità e la successione legittima.

Innanzitutto, Sez. 6-2, n. 20024/2020, Criscuolo, Rv. 659228-01, ha chiarito che, in tema di divisione dell’asse ereditario, qualora l’erede convenuto, in forza di un titolo giuridico preesistente e indipendente rispetto alla morte del de cuius, chieda l’adempimento dei diritti di credito da questo vantati verso altro coerede, può esperire l’azione di petizione dell’eredità che, ai sensi dell’art. 533 c.c., consente di chiedere sia la quota dell’asse ereditario sia il suo valore, assumendo natura di azione di accertamento o funzione recuperatoria. Pertanto, ha ritenuto che la domanda riconvenzionale con la quale si rivendica la qualità di unico erede, per rappresentazione, della madre del de cuius, deceduta dopo questo, postuli l’accertamento, fra l’attivo ereditario, anche di crediti allo stesso appartenuti, giacenti su conti correnti intestati alla ascendente, nei confronti di altro coerede per le somme delle quali quest’ultimo si sia illegittimamente appropriato prima della sua morte.

Inoltre, Sez. 2, n. 22192/2020, Tedesco, Rv. 659330-01, ha confermato l’indirizzo di Sez. 2, n. 07276/2006, Colarusso, Rv. 587734-01, per cui, in tema di successione legittima, il rapporto di parentela con il de cuius, quale titolo che, a norma dell’art. 565 c.c., conferisce la qualità di erede, deve essere provato tramite gli atti dello stato civile. Tuttavia, ove essi manchino o siano andati distrutti o smarriti ovvero, ancora, sia stata omessa la registrazione di un atto, la prova dei fatti oggetto di registrazione - quali la nascita, la morte o il matrimonio - può essere data con qualsiasi mezzo, ai sensi dell’art. 452 c.c.

5. I legittimari e la reintegrazione della quota loro riservata.

Di rilievo sono state alcune decisioni che hanno riguardato i presupposti per l’esercizio dell’azione di riduzione ed alcuni profili processuali che la concernono.

Innanzitutto, Sez. 2, n. 02914/2020, San Giorgio, Rv. 657093-03, ha affermato che il legittimario totalmente pretermesso, proprio perché escluso dalla successione, non acquista per il mero fatto dell’apertura della successione, ovvero semplicemente per la morte del de cuius, la qualità di erede, né la titolarità dei beni ad altri attribuiti, potendo conseguire i suoi diritti solo dopo l’utile esperimento delle azioni di riduzione o di annullamento del testamento e, quindi, dopo il riconoscimento dei suoi diritti di legittimario.

Inoltre, per Sez. 6-2, n. 15706/2020, Fortunato, Rv. 658786-01, l’azione di riduzione non spetta collettivamente ai legittimari, ma ha carattere individuale e compete in via autonoma al singolo erede che ritenga lesa la sua quota individuale di legittima. L’accertamento della lesione e della sua entità non deve farsi con riferimento alla quota complessiva riservata a favore di tutti i legittimari, ma solo riguardo alla quota di coloro che abbiano proposto la domanda. Il giudizio non assume, pertanto, carattere inscindibile neppure nell’ipotesi in cui la domanda sia rivolta verso più eredi, che non acquistano la qualità di litisconsorti necessari.

In aggiunta a ciò, Sez. 6-2, n. 04694/2020, Tedesco, Rv. 657257-01, ha precisato che l’azione di riduzione proposta contro un soggetto che è legittimario al pari dell’attore implica che il convenuto abbia ricevuto una donazione o debba beneficiare di una disposizione testamentaria per la quale venga ad ottenere, oltre la rispettiva legittima, che è anche a suo favore intangibile, qualcosa di più, che contribuisce a privare, in tutto o in parte, della legittima il legittimario attore. In tal caso, il convenuto con l’azione di riduzione non deve proporre alcuna domanda o eccezione per contenere la riduzione nei limiti di quanto eventualmente sopravanzi a quello che gli compete come legittimario, conseguendo siffatto risultato dall’applicazione delle norme di legge, senza che rilevi minimamente che la riduzione, così operata, non sia sufficiente a reintegrare la legittima dell’attore.

Pertanto, secondo Sez. 2, n. 17926/2020, Tedesco, Rv. 658943-02, la ricostruzione dell’intero patrimonio del defunto, mediante la riunione fittizia di ciò che è stato donato in vita a quello che è rimasto al momento della morte, e l’imputazione alla quota del legittimario di quanto egli ha ricevuto dal defunto, costituiscono i necessari antecedenti dell’azione di riduzione; ne consegue che le richieste volte all’esatta ricostruzione sia del relictum, sia del donatum, mediante l’inserimento di altri beni, non costituiscono domande, ma deduzioni che attengono ai presupposti dell’azione di riduzione e, come tali, da ritenere implicitamente contenute nella domanda introduttiva.

Sez. 2, n. 17926/2020, Tedesco, Rv. 658943-01, ha chiarito, quindi, che la sussistenza di oneri di deduzione a carico del legittimario che agisce in riduzione non implica la necessità di precisare nella domanda l’entità monetaria della lesione, occorrendo, piuttosto, che la richiesta di riduzione di disposizioni testamentarie o donazioni sia giustificata alla stregua di una rappresentazione patrimoniale tale da rendere verosimile, anche sulla base di elementi presuntivi, la sussistenza della lesione di legittima.

Alla luce di questo approccio, Sez. 2, n. 18199/2020, Criscuolo, Rv. 659096-02, ha affermato che, in tema di azione di riduzione, l’omessa allegazione nell’atto introduttivo di beni costituenti il relictum e di donazioni poste in essere in vita dal de cuius, anche in vista dell’imputazione ex se, ove la loro esistenza emerga dagli atti di causa ovvero costituisca oggetto di specifica contestazione delle controparti, non preclude la decisione sulla domanda di riduzione, dovendo il giudice procedere alle operazioni di riunione fittizia prodromiche al riscontro della lesione, avuto riguardo alle indicazioni complessivamente provenienti dalle parti, nei limiti processuali segnati dal regime delle preclusioni per l’attività di allegazione e di prova. Ne consegue che, qualora il silenzio serbato in citazione sull’esistenza di altri beni relitti ovvero di donazioni sia dovuto al convincimento della parte dell’inesistenza di altre componenti patrimoniali da prendere in esame, ai fini del riscontro della lesione della quota di riserva, il giudice non può solo per questo addivenire al rigetto della domanda, che è, invece, consentito se, all’esito dell’istruttoria, e nei limiti segnati dalle preclusioni istruttorie, risulti indimostrata l’esistenza della dedotta lesione.

Infatti, per Sez. 2, n. 18199/2020, Criscuolo, Rv. 659096-01, nel caso di esercizio dell’azione di riduzione, il legittimario, ancorché abbia l’onere di precisare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, indicando gli elementi patrimoniali che contribuiscono a determinare il valore della massa ereditaria nonché, di conseguenza, quello della quota di legittima violata, senza che sia necessaria all’uopo l’indicazione in termini numerici del valore dei beni interessati dalla riunione fittizia e della conseguente lesione, può, a tal fine, allegare e provare, pure ricorrendo a presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della riserva.

Con riferimento al vittorioso esperimento dell’azione di riduzione per lesione di legittima, ad avviso di Sez. 6-2, n. 04709/2020, Criscuolo, Rv. 657261-01, indipendentemente dalla circostanza che essa sia indirizzata verso disposizioni testamentarie o donazioni, i frutti dei beni da restituire vanno riconosciuti al legittimario leso con decorrenza dalla domanda giudiziale e non dall’apertura della successione, presupponendo detta azione - avente carattere personale ed efficacia costitutiva - il suo concreto e favorevole esercizio, affinché le disposizioni lesive perdano efficacia e poiché è solo da tale momento che la presunzione di buona fede cessa di caratterizzare il possesso del beneficiario sui beni ricevuti.

Nell’eventualità che la successione legittima si apra su un relictum insufficiente a soddisfare i diritti dei legittimari alla quota di riserva, avendo il de cuius fatto in vita donazioni che eccedono la disponibile, Sez. 2, n. 16535/2020, Tedesco, Rv. 658294-01, ha rilevato che la riduzione delle donazioni pronunciata su istanza del legittimario ha funzione integrativa del contenuto economico della quota ereditaria di cui il legittimario stesso è già investito ex lege, determinando il concorso della successione legittima con la successione necessaria. Pertanto, la circostanza che il legittimario, nel chiedere l’accertamento della simulazione di atti compiuti dal de cuius, abbia fatto riferimento alla quota di successione ab intestato non implica che egli abbia inteso far valere i suoi diritti di erede piuttosto che quelli di legittimario, qualora dall’esame complessivo della domanda risulti che l’accertamento sia stato comunque richiesto per il recupero o la reintegrazione della quota di legittima lesa.

In questa ottica, Sez. 2, n. 16535/2020, Tedesco, Rv. 658294-02, ha precisato che il principio secondo cui il legittimario che propone l’azione di riduzione ha l’onere di indicare e comprovare tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, e in quale misura, sia avvenuta la lesione della sua quota di riserva, non può essere applicato qualora il de cuius abbia integralmente esaurito in vita il suo patrimonio con donazioni. In questo caso, infatti, il legittimario non ha altra via, per reintegrare la quota riservata, se non quella di agire in riduzione contro i donatari, essendo, quindi, la compiuta denuncia della lesione già implicita nella deduzione della manifesta insufficienza del relictum.

Sez. 3, n. 01593/2020, Cricenti, Rv. 656640-01, ha chiarito, poi, che, ai fini dell’esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria, il credito derivante da legittima, stante la sua natura litigiosa, sorge al momento dell’apertura della successione e non quando l’erede necessario lo faccia giudizialmente valere.

Va segnalata, altresì, Sez. 2, n. 29924/2020, Fortunato, Rv. 659983-01, per la quale, in tema di lesione della legittima, il criterio cronologico di riduzione previsto dall’art. 559 c.c. per le donazioni non può operare ove si sia in presenza non già di donazioni successive, ma di più donazioni coeve, per le quali non sarebbe possibile stabilire quale di esse sia anteriore rispetto alle altre, trovando applicazione il citato art. 559 solo se le varie donazioni sono state stipulate lo stesso giorno con atti distinti e se i vari rogiti risultano predisposti in ore diverse, sempre che l’orario emerga dai medesimi rogiti; in particolare, alcuna certezza riguardo all’anteriorità delle singole donazioni può trarsi dal numero di repertorio assegnato a ciascun atto redatto lo stesso giorno, né in base alla data della loro registrazione. In mancanza di siffatte indicazioni, nessuno dei donatari è in grado di reclamare una priorità del suo titolo (a meno che risulti altrimenti e con certezza che l’uno abbia preceduto l’altro), e non resta che fare ricorso alla riduzione proporzionale stabilita dall’art. 558 c.c. per le disposizioni testamentarie.

Infine, in tema di legato in sostituzione di legittima, Sez. 6-2, n. 17861/2020, Tedesco, Rv. 658751-01, ha affermato che, ove detto legato abbia ad oggetto il diritto di usufrutto ed il beneficiario muoia prima di averlo accettato, la facoltà di rinunziarvi, quale potere inerente al rapporto successorio in atto, non esauritosi con il definitivo conseguimento del legato, si trasmette all’erede del legatario, divenuto titolare iure hereditatis dell’azione di riduzione; né rileva, in senso contrario, che l’erede medesimo non possa subentrare nel diritto già acquistato dal proprio dante causa, potendo egli comunque scegliere se renderlo definitivo, assumendo su di sé obblighi ed eventuali diritti nascenti dall’estinzione dell’usufrutto ovvero rinunciarvi, in tal modo assolvendo all’onere cui è subordinata l’azione di riduzione.

6. I diritti di uso ed abitazione riservati al coniuge superstite.

Con riguardo al diritto di uso ed abitazione del coniuge, Sez. 6-2, n. 12042/2020, Tedesco, Rv. 658454-01, ha confermato l’orientamento di Sez. 2, n. 04088/2012, Giusti, Rv. 622040-01, per il quale il diritto di abitazione, che la legge riserva al coniuge superstite (art. 540, comma 2, c.c.), può avere ad oggetto soltanto l’immobile concretamente utilizzato prima della morte del “de cuius” come residenza familiare. Il suddetto diritto, pertanto, non può mai estendersi ad un ulteriore e diverso appartamento, autonomo rispetto alla sede della vita domestica, ancorché ricompreso nello stesso fabbricato, ma non utilizzato per le esigenze abitative della comunità familiare.

7. Il testamento.

Il testamento ha rappresentato pure nel 2020 uno dei principali argomenti trattati nell’ambito delle successioni.

Secondo Sez. 2, n. 04449/2020, Carrato, Rv. 657113-01, il dies a quo di decorso del termine di prescrizione quinquennale dell’azione di annullamento del testamento olografo per incapacità del testatore, ex art. 591 c.c., va individuato in quello di compimento di un’attività diretta alla concreta realizzazione della volontà del de cuius - come la consegna o l’impossessamento dei beni ereditati o la proposizione delle azioni giudiziarie occorrenti a tale scopo - anche da parte di uno solo dei chiamati all’eredità e senza che sia necessario eseguire tutte le disposizioni del testatore. Ne consegue che, in caso di istituzione di un erede universale, non occorre che questi dimostri, al fine predetto, di avere disposto a titolo esclusivo dei beni costituenti l’intero universum ius defuncti. Pertanto, non può escludersi che integri gli estremi di una condotta esecutrice, sia pure parzialmente, delle disposizioni testamentarie, quella con la quale l’erede abbia continuato a percepire, dopo la morte del de cuius, il canone di locazione di un immobile commerciale facente parte del compendio ereditario.

Con riferimento alla capacità di fare testamento, per Sez. 2, n. 06079/2020, Oliva, Rv. 657124-02, l’amministrazione di sostegno si configura come cd. sostitutiva o mista, laddove presenta caratteristiche affini alla tutela, poiché l’amministrato, pur non essendo tecnicamente incapace di compiere atti giuridici, non è comunque in grado di determinarsi autonomamente in difetto di un intervento, appunto sostitutivo ovvero di ausilio attivo, dell’amministratore; viene, invece, definita amministrazione puramente di assistenza quando si avvicina alla curatela, in relazione alla quale l’ordinamento non prevede i divieti di ricevere per testamento e donazione. Ne discende che, nel caso dell’amministrazione di mera assistenza, il beneficiato è pienamente capace di disporre del suo patrimonio, anche per testamento e con disposizione in favore dell’amministratore di sostegno, a prescindere dalla circostanza che tra i due soggetti, amministratore e beneficiato, sussistano vincoli di parentela di qualsiasi genere, o di coniugio, ovvero una stabile condizione di convivenza.

In materia di vizi del testamento, Sez. 6-2, n. 09364/2020, Tedesco, Rv. 657707-02, ha chiarito che la pronuncia di annullamento del testamento ha efficacia retroattiva e comporta il ripristino della situazione giuridica al momento della apertura della successione, con delazione, quindi, in favore del successibile ex lege, come se il testamento non fosse esistito. Prima che sia pronunziato l’annullamento è comunque valido l’atto di disposizione compiuto dall’erede legittimo.

Inoltre, Sez. 6-2, n. 09364/2020, Tedesco, Rv. 657707-01, ha confermato l’indirizzo di Sez. 2, n. 12124/2008, Mazziotti Di Celso, Rv. 603424-01, per il quale la completa indicazione della data, composta di giorno, mese ed anno, costituisce un requisito essenziale di forma dell’atto anche nel caso in cui, in concreto, l’omissione sia irrilevante rispetto al regolamento d’interessi risultante dalle disposizioni testamentarie.

Nella stessa ottica, Sez. 2, n. 16079/2020, Carrato, Rv. 658477-01, ha affermato che, ai fini della validità di una disposizione testamentaria, non è necessario che il beneficiario sia indicato nominativamente, essendo sufficiente che lo stesso sia determinabile in base ad indicazioni desumibili dal contesto complessivo della scheda testamentaria nonché da elementi ad essa estrinseci, come la cultura, la mentalità e l’ambiente di vita del testatore, dovendosi improntare l’operazione ermeneutica alla valorizzazione del criterio interpretativo di conservazione previsto dall’art. 1367 c.c., da ritenersi applicabile anche in materia testamentaria.

In relazione a questo profilo, Sez. 6-2, n. 10065/2020, Tedesco, Rv. 657760-01, ha ribadito l’orientamento di Sez. 2, 11195/2012, Mazzacane, Rv. 623129-01, per cui l’art. 590 c.c., nel prevedere la possibilità di conferma od esecuzione di una disposizione testamentaria nulla da parte degli eredi, presuppone, per la sua operatività, l’oggettiva esistenza di una disposizione testamentaria che sia comunque frutto della volontà del de cuius, sicché detta norma non trova applicazione in ipotesi di accertata sottoscrizione apocrifa del testamento, la quale esclude in radice la riconducibilità di esso al testatore.

In aggiunta a ciò, Sez. 2, n. 28602/2020, Tedesco, Rv. 659839-01, ha precisato che la legittimazione al negozio di conferma o di convalida, anche sotto forma di esecuzione volontaria, della disposizione testamentaria nulla sussiste solo in capo a chi dall’accertamento giudiziale della invalidità trarrebbe un vantaggio che si sostanzi nel riconoscimento di diritti (o di maggiori diritti) oppure nell’accertamento della inesistenza di determinati obblighi testamentari; essa non ricorre, quindi, in capo a legatario con riferimento al testamento che lo gratifica, rispetto al quale egli è portatore di un interesse opposto all’invalidità del testamento stesso, con la conseguenza che questi, solo qualora sia divenuto erede dell’erede onerato, potrà proseguire l’impugnativa del testamento già proposta dal proprio dante causa o iniziarla autonomamente, senza trovare alcuna preclusione nel conseguimento del legato.

Secondo Sez. 2, n. 11472/2020, Criscuolo, Rv. 658265-01, che segue Sez. 2, n. 01260/1987, Pierantoni, Rv. 450771-01, l’art. 681 c.c. prevede che la revocazione totale o parziale di un testamento può essere a sua volta revocata, ma sempre con le forme previste dall’art. 680 c.c., ovvero con un nuovo testamento o con un atto ricevuto da notaio. Peraltro, la detta disposizione, che disciplina la sola revocazione espressa della precedente revoca di un testamento, disponendo in tal caso la reviviscenza delle disposizioni revocate, non preclude al testatore la possibilità di revocare tacitamente la precedente revocazione espressa, nei limiti in cui la revoca tacita sia desumibile dalla redazione di un successivo testamento, le disposizioni del quale siano incompatibili con quelle precedenti, ponendosi, al più, un problema di interpretazione in ordine alla volontà complessiva del testatore di fare rivivere o meno le disposizioni già revocate.

Con riferimento alla tematica dei patti successori, Sez. 2, n. 18198/2020, Criscuolo, Rv. 659095-01, ha chiarito che l’atto mortis causa, rilevante agli effetti di cui all’art. 458 c.c., è esclusivamente quello nel quale la morte incide non già sul profilo effettuale (ben potendo il decesso di uno dei contraenti fungere da termine o da condizione), ma sul piano causale, essendo diretto a disciplinare rapporti e situazioni che vengono a formarsi in via originaria con la morte del soggetto o che dalla sua morte traggono comunque una loro autonoma qualificazione, sicché la morte deve incidere sia sull’oggetto della disposizione sia sul soggetto che ne beneficia. In relazione al primo profilo, l’attribuzione deve concernere l’“id quod superest” e, in relazione al secondo, deve beneficiare un soggetto solo in quanto reputato ancora esistente al momento dell’apertura della successione.

Inoltre, per Sez. 2, n. 18197/2020, Tedesco, Rv. 659094-01, l’esistenza di un patto successorio istitutivo non deve necessariamente risultare dal testamento, quale motivo determinate della disposizione, o da atto scritto, essendo, al contrario, ammissibile qualunque mezzo di prova, trattandosi di dimostrare un accordo che la legge considera illecito.

Sez. 2, n. 05520/2020, Bellini, Rv. 657119-01, si è occupata della figura dell’esecutore testamentario, confermando Sez. 2, n. 04663/1982, Nocella, Rv. 422616-01, per cui l’esecutore testamentario, mentre è titolare iure proprio delle azioni, relative all’esercizio del suo ufficio, che trovano il loro fondamento e il loro presupposto sostanziale nel suo incarico di custode e di detentore dei beni ereditari ovvero nella gestione, con o senza amministrazione, della massa ereditaria, è soltanto legittimato processuale, a norma dell’art. 704 c.c., per quanto riguarda le azioni relative all’eredità e, cioè, a diritti ed obblighi che egli non acquista o assume per sé, perché ricadenti direttamente nel patrimonio ereditario, pur agendo in nome proprio. In tale ultima ipotesi, nella quale non è investito della legale rappresentanza degli eredi del de cuius, ma agisce in nome proprio, l’esecutore testamentario assume la figura di sostituto processuale, atteso che resiste a tutela di un diritto del quale sono titolari gli eredi, ma la sua chiamata in giudizio è necessaria ad integrare il contraddittorio.

Con riguardo ai legati, Sez. 6-2, n. 06125/2020, Criscuolo, Rv. 657278-01, ha affermato che, in tema di distinzione tra erede e legatario, ai sensi dell’art. 588 c.c., l’assegnazione di beni determinati configura una successione a titolo universale (institutio ex re certa), qualora il testatore abbia inteso chiamare l’istituito nell’universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto, mentre deve interpretarsi come legato se egli abbia voluto attribuire singoli, individuati, beni, così che l’indagine diretta ad accertare se ricorra l’una o l’altra ipotesi si risolve in un apprezzamento di fatto, incensurabile in cassazione, se congruamente motivato (nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva interpretato come disposizione a titolo universale l’attribuzione testamentaria di beni determinati, valorizzando sia il fatto che al beneficiato fosse stata assegnata la generalità dei beni mobili, oltre che la quota di un immobile, sia le peculiari espressioni allo stesso riservate dal testatore, attestanti un trattamento, sul piano del riconoscimento affettivo, differente rispetto a quello destinato agli altri soggetti indicati nel testamento).

In aggiunta a ciò, secondo Sez. 6-2, n. 15661/2020, Criscuolo, Rv. 658737-01, la disposizione testamentaria con la quale il testatore abbia lasciato ad un legatario le somme risultanti a credito su un conto corrente bancario al momento della sua morte è un legato di specie; per converso, il legato di somme di denaro, senza indicazione di un conto specifico, va qualificato legato di genere, con conseguente applicazione dell’art. 653 c.c. Infatti, solo nel primo caso è evidente l’intenzione del de cuius di attribuire non un generico ammontare numerario, ma, piuttosto, il diritto ad esigere il capitale e gli interessi presenti su un conto in un determinato momento.

Con una pronuncia di carattere processuale, Sez. 2, n. 23315/2020, Tedesco, Rv. 659380-02, ha chiarito che la legittimazione all’azione di accertamento dell’inefficacia di un contratto stipulato dal de cuius compete anche al legatario di una cosa determinata sul quale incomba il danno giuridico derivante dall’incertezza circa l’efficacia del negozio e che nel relativo giudizio, instaurato nei confronti del terzo contraente, l’erede, subentrato nel contratto stipulato dal dante causa, è litisconsorte necessario, qualora, in base alla finalità del giudizio stesso, quale emergente dal petitum in concreto formulato dall’attore, non sia possibile adottare una pronuncia idonea a produrre gli effetti giuridici voluti senza la sua partecipazione.

Inoltre, Sez. 6-2, n. 25077/2020, Tedesco, Rv. 659908-01, ha precisato che l’interesse del successibile ex lege ad impugnare il testamento olografo può essere disconosciuto, qualora costui non dia prova dell’inesistenza in vita di altri eredi legittimi di grado poziore in termini di evidente probabilità, ancorché non di oggettiva certezza.

Infine, per Sez. 2, n. 22191/2020, Tedesco, Rv. 659329-01, l’irreperibilità del testamento olografo, di cui si provi l’esistenza in un certo tempo, mediante la produzione di una copia informale, è equiparabile alla sua distruzione e, pertanto, ingenera una presunzione di revoca dello stesso, non scalfita dal mancato disconoscimento della conformità all’originale - rilevante solo una volta che sia superata la detta presunzione -, rispetto alla quale grava su chi vi ha interesse l’onere di provare che esso “fu distrutto, lacerato o cancellato da persona diversa dal testatore” oppure che costui “non ebbe intenzione di revocarlo”. Tale prova, salvo che la scomparsa sia dovuta a chi agisce per la ricostruzione del testamento medesimo, può essere data con ogni mezzo, dimostrando l’esistenza dell’olografo al momento della morte ovvero che esso, seppur scomparso prima della morte del testatore, sia stato distrutto da un terzo o sia andato perduto fortuitamente o, comunque, senza alcun concorso della volontà del testatore ovvero, ancora, che la distruzione del testamento da parte di costui non era accompagnata dall’intenzione di togliere efficacia alle disposizioni ivi contenute.

8. La divisione ereditaria.

Nel corso dell’anno vi sono state varie pronunce riguardanti i profili processuali della divisione.

Pertanto, Sez. 6-2, n. 10067/2020, Tedesco, Rv. 658015-02, ha rilevato che, nei giudizi di scioglimento della comunione, la produzione dei certificati relativi alle trascrizioni e iscrizioni sull’immobile da dividere, imposta dall’art. 567 c.p.c. per la vendita del bene pignorato, non costituisce un adempimento previsto a pena di inammissibilità o improcedibilità della domanda, tenuto conto che, in tali giudizi, l’intervento dei creditori e degli aventi causa dei condividenti è consentito ai soli fini dell’opponibilità delle statuizioni adottate. Ciò vale anche nel caso in cui si debba procedere alla vendita dell’immobile comune, sebbene le informazioni richieste dal predetto articolo si debbano necessariamente acquisire a tutela del terzo acquirente, ma a questa esigenza sovraintende d’ufficio il giudice della divisione il quale, nello svolgimento del potere di direzione delle operazioni, può ordinare alle parti la produzione della documentazione occorrente o avvalersi del professionista delegato alla vendita.

Inoltre, secondo Sez. 6-2, n. 10067/2020, Tedesco, Rv. 658015-01, le statuizioni contenute nella sentenza non definitiva possono essere riformate o annullate solo in sede d’impugnazione, non con la sentenza definitiva successivamente resa.

Sempre in ambito processuale, Sez. 2, n. 02914/2020, San Giorgio, Rv. 657093-04, ha chiarito che, in un giudizio di divisione ereditaria, ove gli attori coeredi chiedano la divisione della massa ereditaria da calcolare a seguito di collazione dei beni donati al coerede convenuto e, in subordine, la riduzione della donazione per lesione della quota di legittima, non può essere considerata nuova e, pertanto, inammissibile, la domanda subordinata qualora solo in appello si deduca l’assenza di relictum - e, quindi, la loro totale pretermissione - che consentirebbe agli appellanti di proporla senza essere tenuti ad accettare previamente l’eredità con beneficio di inventario.

Sez. 2, n. 01635/2020, Criscuolo, Rv. 656848-01, ha affermato che, nei procedimenti di divisione giudiziale, le spese occorrenti allo scioglimento della comunione vanno poste a carico della massa, in quanto effettuate nel comune interesse dei condividenti, trovando, invece, applicazione il principio della soccombenza e la facoltà di disporre la compensazione soltanto con riferimento alle spese che siano conseguite ad eccessive pretese o inutili resistenze alla divisione.

Con riguardo agli oneri istruttori gravanti sulle parti, Sez. 2, n. 17122/2020, Besso Marcheis, Rv. 658953-01, ha precisato che il coerede, convenuto in giudizio per il pagamento di un debito ereditario per l’intero, che eccepisca l’esistenza di altri coeredi, nonché la divisione pro quota del debito ereditario, ha l’onere di provare l’esistenza e la consistenza numerica di questa, (agli effetti della eccepita divisione del debito in proporzione della rispettiva quota ereditaria), il titolo della successione e la stessa qualifica di eredi.

Con una interessante decisione che ha collegato fra loro vari istituti di diritto successorio, Sez. 2, n. 00139/2020, Scarpa, Rv. 656824-01, ha rilevato che, per il combinato disposto degli artt. 469 e 726 c.c., la divisione ereditaria, quando vi è rappresentazione, avviene per stirpi, procedendosi alla formazione di tante porzioni, una volta eseguita la stima, quanti sono gli eredi o le stirpi condividenti, mentre non è prevista l’ulteriore formazione di altrettante subporzioni all’interno di ciascuna stirpe, sempre che non si formi al riguardo un accordo fra tutti i partecipanti. Una volta, poi, che sia stabilito con sentenza quali siano i beni da dividere e, formate le porzioni, quanti siano gli eredi o le stirpi condividenti, le statuizioni relative all’appartenenza alla massa di detti beni ed alla loro concreta attribuzione diventano irrevocabili ed irretrattabili, ove non impugnate, formandosi su di esse il giudicato.

In questa direzione, ad avviso di Sez. 2, n. 00139/2020, Scarpa, Rv. 656824-02, il principio riguardante la natura unitaria del giudizio di divisione va riferito all’intera comunione ereditaria che venga sciolta nei modi e nelle forme di legge, ma non si estende alle ipotesi di divisione di singoli beni ereditari, nelle quali non venga fatta alcuna questione che possa in qualsiasi modo incidere circa la divisione degli altri beni ereditari e, in particolare, circa l’eventuale appartenenza ad alcune parti, o altro titolo diverso da quello ereditario, di taluni beni apparentemente rientranti nell’eredità. In questo caso, ciascuna divisione, anche se collegata con la successiva, ha una propria autonomia processuale mentre, sul piano del diritto sostanziale, ai fini della efficacia preclusiva di eventuali giudicati, assume rilievo il contenuto delle domande espresso nel “petitum” effettivamente richiesto nei diversi giudizi.

Sempre con riferimento al giudizio civile, Sez. 6-2, n. 12675/2020, Grasso, Rv. 658463-01, ha affermato che, in tema di mandato di assistenza e rappresentanza in giudizio, il decesso dell’assistito non preclude il diritto del difensore di pretendere dalla controparte, quale coerede dell’assistito, le competenze maturate nei confronti del de cuius; trattandosi di un debito della massa, infatti, al difensore creditore non è opponibile il rapporto interno tra de cuius ed eredi, restando irrilevante nei suoi confronti che l’esecuzione del contratto si sia posta in contrasto con l’interesse degli eredi o di uno degli eredi dell’assistito.

Inoltre, Sez. 2, n. 05527/2020, Criscuolo, Rv. 657121-01, ha confermato l’indirizzo di Sez. 2, n. 00857/1999, Paolini, Rv. 522832-01, per il quale, nel giudizio di divisione ereditaria di un bene riscontrato non divisibile, le migliorie apportate da uno dei condividenti vengono a fare parte dello stesso per il principio dell’accessione, con la conseguenza che di esse deve tenersi conto ai fini della stima del bene medesimo, nonché della determinazione delle quote e della liquidazione dei conguagli.

Sez. 6-2, n. 05993/2020, Criscuolo, Rv. 657271-01, ha precisato, poi, che, nel giudizio di scioglimento della comunione ereditaria, la stima per la formazione delle quote di beni in comunione va effettuata al tempo della divisione, avendo riguardo ad ogni elemento incidente sul valore di mercato, sicché, qualora lite pendente sia disposta un’espropriazione per pubblica utilità su immobili della massa comune, occorre tenere conto, tra le componenti da dividere, del diritto di credito all’indennità di espropriazione in luogo del bene non più in proprietà dei condividenti.

Per ciò che concerne i poteri del giudice, Sez. 2, n. 18909/2020, Tedesco, Rv. 659108-03, ha rilevato che, in tema di scioglimento della comunione, come le parti possono, con il contratto di divisione, manifestare volontà contraria al sorgere della servitù per destinazione del padre di famiglia a favore e, rispettivamente, a carico dei singoli cespiti componenti il compendio comune e che vengono a ciascuna assegnati, analogo potere è esercitabile dal giudice, nel processo di divisione (anche attraverso la conferma di un progetto di consulente tecnico), purché nei limiti dell’oggetto e, cioè, con riguardo ai beni effettivamente in divisione.

In questa ottica, per Sez. 2, n. 18909/2020, Tedesco, Rv. 659108-02, la divisione in natura di un fabbricato originariamente oggetto di comunione ereditaria è compatibile con la parallela costituzione di un condominio per l’uso delle parti comuni dell’edificio, ai fini del miglior godimento delle singole cose di proprietà esclusiva.

Con riguardo all’eventualità che vengano in rilievo più masse ereditarie, Sez. 2, n. 18910/2020, Oricchio, Rv. 659124-01, ha chiarito che, in tema di giudizio divisorio avente ad oggetto masse plurime ereditarie provenienti da titoli diversi, la divisione unitaria può avvenire per effetto del consenso comunque manifestato dai condividenti, mentre quello tra essi che la contesti deve risultare portatore di un concreto ed effettivo interesse leso da tale tipo di procedimento unitario divisionale.

Secondo Sez. 2, n. 15764/2020, Tedesco, Rv. 658287-01, il principio di autonomia delle comunioni derivanti da diverso titolo è applicabile anche quando esse riguardino i medesimi beni e intercorrano fra le stesse persone, dovendo anche in questo caso i diritti del singolo essere regolati nell’ambito di ciascuna massa, senza possibilità, salvo diverso accordo, di essere soddisfatti con l’attribuzione di beni facenti parte di altra massa.

Sez. 6-2, n. 17862/2020, Tedesco, Rv. 659010-01, ha ribadito l’orientamento di Sez. 2, n. 15105/2000, Cioffi, Rv. 542051-01, per il quale nella divisione ereditaria non si richiede necessariamente, in sede di formazione delle porzioni, una assoluta omogeneità delle stesse, ben potendo, nell’ambito di ciascuna categoria di beni immobili, mobili e crediti da dividere, taluni di essi essere assegnati per l’intero ad una quota ed altri, sempre per l’intero, ad altra quota, salvi i necessari conguagli, giacché il diritto dei condividenti ad una porzione in natura di ciascuna delle categorie di beni in comunione non consiste nella realizzazione di un frazionamento quotistico delle singole entità appartenenti alla stessa categoria, ma nella proporzionale divisione dei beni compresi nelle tre categorie degli immobili, mobili e crediti, dovendo evitarsi un eccessivo frazionamento dei cespiti in comunione che comporti pregiudizi al diritto preminente dei coeredi e dei condividenti in genere di ottenere in sede di divisione una porzione di valore proporzionalmente corrispondente a quello della massa ereditaria o, comunque, del complesso da dividere. Pertanto, nell’ipotesi in cui nel patrimonio comune vi siano più immobili da dividere, il giudice del merito deve accertare se l’anzidetto diritto del condividente sia meglio soddisfatto attraverso il frazionamento delle singole entità immobiliari oppure con l’assegnazione di interi immobili ad ogni condividente, salvo conguaglio.

In tema di spese inerenti all’eredità, Sez. 2, n. 17938/2020, Criscuolo, Rv. 658944-01, ha affermato che le spese per le onoranze funebri rientrano tra i pesi ereditari che, sorgendo in conseguenza dell’apertura della successione, costituiscono, unitamente ai debiti del defunto, il passivo ereditario gravante sugli eredi, ex art. 752 c.c., sicché colui che ha anticipato tali spese ha diritto di ottenerne il rimborso da parte dei coeredi, purché essi non abbiano manifestato una volontà contraria alla sua attività gestoria. Il mancato dissenso, tuttavia, non giustifica anche il rimborso di spese incongrue ed eccessive, non potendosi ritenere che il coerede abbia l’onere di manifestare una volontà contraria anche sul quantum, con la conseguenza che il giudice del merito, nella quantificazione delle spese da rimborsare a chi le ha anticipate, è tenuto a verificare quale sia la somma congrua alla luce delle tariffe praticate da altre agenzie per lo stesso servizio.

Ulteriore provvedimento di rilievo è Sez. 2, n. 29247/2020, Criscuolo, Rv. 659977-01, per il quale la deduzione per migliorie e spese ex art. 748 c.c. spetta anche al donatario nudo proprietario che provi di avere migliorato il bene donatogli dal de cuius con riserva di usufrutto, non essendo giustificabile il conferimento in collazione di un valore accresciuto a spese del conferente.

Sempre Sez. 2, n. 29247/2020, Criscuolo, Rv. 659977-02, ha aggiunto che la pretesa del donatario di dedurre migliorie e spese a norma dell’art. 748 c.c. non integra domanda riconvenzionale, ma semplice eccezione, non ampliando il contenuto del giudizio divisorio, atteso che il patrimonio del donante non può comprendere quanto realizzato sul bene dal donatario.

Infine, secondo Sez. 2, n. 26356/2020, Tedesco, Rv. 659684-01, nel procedimento di scioglimento della comunione, ove si proceda mediante attribuzione diretta delle quote ai condividenti, non occorre attendere il passaggio in giudicato della sentenza che definisca le contestazioni insorte rispetto al progetto di divisione, giacché, in tal caso, diversamente dall’ipotesi di assegnazione con sorteggio, la formazione delle parti e la loro distribuzione sono distinguibili solo dal punto di vista logico mentre, sul piano operativo, rappresentano due aspetti di una medesima operazione, essendo la porzione formata in funzione del condividente cui va attribuita.

9. La collazione.

Ad avviso di Sez. 2, n. 02914/2020, San Giorgio, Rv. 657093-01, la collazione postula l’accettazione dell’eredità anche nella ipotesi di rappresentazione, non esistendo una diversificazione legislativamente prevista, nell’ambito dell’istituto della collazione, in ragione del fatto che l’obbligato sia il discendente diretto o colui che succede per rappresentazione, tant’è che la rubrica dell’art. 740 c.c. fa riferimento alle donazioni fatte all’ascendente dell’erede, presupponendo, dunque, tale qualifica.

Inoltre, Sez. 2, n. 18211/2020, Tedesco, Rv. 659167-01, ha precisato che, in tema di donazione di immobile con riserva di usufrutto, qualora il donante abbia donato la nuda proprietà, riservandosi l’usufrutto per sé e per il coniuge, vita natural durante e con reciproco diritto di accrescimento (cd. usufrutto congiuntivo), se il coniuge muore prima dell’apertura della successione del donante, il bene donato è soggetto a collazione per imputazione secondo il valore della piena proprietà; ove il coniuge, al contrario, sopravviva al donante, il donatario sarà obbligato a conferire solo il valore della nuda proprietà al tempo dell’apertura della successione.

In ambito processuale, Sez. 2, n. 18468/2020, Criscuolo, Rv. 659168-01, ha confermato l’indirizzo espresso da Sez. 2, n. 22885/2010, Goldoni, Rv. 615538-01, per cui l’azione di divisione ereditaria e quella di riduzione sono fra loro autonome e diverse, perché la prima presuppone la qualità di erede e l’esistenza di una comunione ereditaria che si vuole sciogliere, mentre la seconda implica la qualità di legittimario leso nella quota di riserva ed è diretta alla reintegra in essa, indipendentemente dalla divisione; ne consegue che la domanda di divisione e collazione non può ritenersi implicitamente inclusa in quella di riduzione sicché, una volta proposta la domanda di riduzione, quelle di divisione e collazione, avanzate nel corso del giudizio di primo grado con le memorie ex art. 183 c.p.c., sono da ritenersi nuove e, come tali, inammissibili, ove la controparte abbia sul punto rifiutato il contraddittorio.

Nella stessa ottica, va menzionata Sez. 2, n. 28196/2020, Tedesco, Rv. 659836-01, per la quale, mentre la riduzione sacrifica i donatari nei limiti di quanto occorra per reintegrare la legittima lesa ed è, quindi, imperniata sul rapporto fra legittima e disponibile, la collazione, nei rapporti indicati nell’art. 737 c.c., pone il bene donato, in proporzione della quota ereditaria di ciascuno, in comunione fra i coeredi che siano il coniuge o discendenti del de cuius, donatario compreso, senza alcun riguardo alla distinzione fra legittima e disponibile. Nondimeno, il rilievo che la collazione può comportare, di fatto, l’eliminazione di eventuali lesioni di legittima, consentendo agli eredi legittimi di conseguire nella divisione proporzioni uguali, non esclude che il legittimario possa contestualmente esercitare l’azione di riduzione verso il coerede donatario, atteso che solo l’accoglimento di tale domanda assicura al legittimario leso la reintegrazione della sua quota di riserva con l’assegnazione di beni in natura, privando i coeredi della facoltà di optare per l’imputazione del relativo valore. Al contempo, e in modo speculare, deve riconoscersi che l’azione di riduzione, una volta esperita, non esclude l’operatività della collazione con riguardo alla donazione oggetto di riduzione, fermo restando che, mentre la collazione, ove richiesta in via esclusiva, comporta il rientro del bene donato nella massa, senza riguardo alla distinzione fra legittima e disponibile, nel caso di concorso con l’azione di riduzione essa interviene in un secondo tempo, dopo che la legittima sia stata reintegrata, al fine di redistribuire l’eventuale eccedenza, e cioè l’ulteriore valore della liberalità che esprime la disponibile.

10. Le donazioni.

Innanzitutto, Sez. 2, n. 03858/2020, Scarpa, Rv. 657108-01, ha ribadito l’orientamento di Sez. 2, n. 11304/1994, Catalano, Rv. 489470-01, secondo cui, ai fini del riconoscimento del modico valore di una donazione, l’art. 783 c.c. non detta criteri rigidi ai quali ancorare la relativa valutazione, dovendosi essa apprezzare alla stregua di due elementi di valutazione la ricorrenza dei quali, involgendo un giudizio di fatto ed imponendo il contemperamento di dati analitici, è rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità, se non ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.: quello obiettivo, correlato al valore del bene che ne è oggetto, e quello soggettivo, per il quale si tiene conto delle condizioni economiche del donante. Ne consegue che l’atto di liberalità, per essere considerato di modico valore, non deve mai incidere in modo apprezzabile sul patrimonio del donante.

Inoltre, Sez. 2, n. 09379/2020, De Marzo, Rv. 657703-01, ha affermato che la donazione indiretta si identifica con ogni negozio che, pur non avendo la forma della donazione, sia mosso da un fine di liberalità e abbia l’effetto di arricchire gratuitamente il beneficiario, sicché l’intenzione di donare emerge solo in via indiretta dal rigoroso esame di tutte le circostanze del singolo caso, nei limiti in cui siano tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio (nella specie, la S.C. ha escluso che la donazione indiretta fosse dimostrata dalla dazione di denaro effettuata all’unico scopo di acquisto di un immobile da parte del destinatario, non potendo trarsi conferma dell’animus donandi dalla sola dichiarazione, resa dall’accipiens, che il corrispettivo della compravendita era stato pagato dai genitori dell’ex coniuge).

Secondo Sez. 2, n. 28993/2020, Gorjan, Rv. 659729-01, in tema di donazione modale, la risoluzione per inadempimento dell’onere non può avvenire ipso iure, senza valutazione di gravità dell’inadempimento, in forza di clausola risolutiva espressa, istituto che, essendo proprio dei contratti sinallagmatici, non può estendersi al negozio a titolo gratuito, cui pure acceda un modus.

Infine, con una pronuncia che emerge per la sua complessità e particolarità, Sez. 2, n. 04589/2020, Cricenti, Rv. 657133-01, ha precisato che l’accordo con il quale una parte si obbliga a tenere indenne l’altra da ogni pretesa fiscale (nel caso in esame, relativa ad un immobile assegnato in forza di un accordo divisorio) ha natura di accollo interno, rilevante esclusivamente tra i privati stipulanti e non verso l’Amministrazione finanziaria, non avendo effetto sull’individuazione del soggetto passivo, sul rapporto fra contribuente e P.A. o sul potere impositivo di quest’ultima. Esso è, pertanto, valido e la controversia che lo riguarda è devoluta alla giurisdizione ordinaria. Tale accordo, diversamente dall’intesa che trasferisca l’onere dell’imposta, regolandone i presupposti in modo difforme dalla legge, non è nullo, in quanto non viola il divieto, prescritto dall’art. 27 del d.P.R. del 26 ottobre 1972, n. 643, di patti dispositivi del tributo, atteso che si limita a ripartirne le conseguenze economiche, senza incidere sull’obbligazione originaria o porre in essere una successione nel lato passivo della medesima (come si evince dall’art. 8 della l. 27 luglio 2000, n. 212 che prevede come l’obbligazione tributaria possa estinguersi mediante accollo non liberatorio). Inoltre, il negozio in esame è legittimo perché comunque dotato di una causa, ancorché variabile, e, non essendo riconducibile allo schema della donazione diretta (ma, eventualmente, di quella indiretta, ove non vi sia uno scambio con un corrispettivo), non deve neppure rispettare i requisiti di forma per essa stabiliti.

PARTE TERZA OBBLIGAZIONI, CONTRATTI E RESPONSABILITÀ

  • contratto
  • obbligazione
  • contratto di locazione
  • diritti di obbligazioni
  • impresa
  • esecuzione della sentenza
  • fallimento

CAPITOLO VII

LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE

(di Fabio Antezza )

Sommario

1 Premessa. - 2 Buona fede e correttezza nel “contatto sociale qualificato”. - 3 “Contatto sociale”, responsabilità professionale e danni cagionati al terzo. - 4 Il “contatto sociale” della CONSAP ed in tema di amministrazione straordinaria. - 5 Omessa o tardiva trasposizione di direttive europee, obbligazione ex lege, criterio liquidatorio, compensatio lucri cum damno e deducibilità del factum superveniens in sede di legittimità. - 6 Riscossione di imposte, cancellazione della società ed obbligazione civile ex lege. - 7 Adempimento secondo diligenza, rapporti con correttezza e buona fede (anche con “funzione integrativa”) e causa concreta. - 8 La buona fede nella fase attuativa del rapporto: conformazione della riduzione equitativa della penale e rapporti con l’abuso del diritto (anche ai fini del recesso). - 9 Principio di correttezza e buona fede ed azione giudiziale. - 10 La remissione. - 11 Compensazione giudiziale e ragione creditoria prescritta. - 12 Compensazione c.d. atecnica o impropria. - 13 La compensazione fallimentare. - 14 Compensazione ed esecuzione forzata. - 15 Novazione e rapporti con il passivo fallimentare e la notifica della cartella di pagamento. - 16 Locazione e novazione. - 17 Novazione e contratto d’agenzia. - 18 Transazione novativa.

1. Premessa.

Nel corso del 2020 la S.C. ha posto alla base di rilevanti decisioni in merito alle obbligazioni il principio di correttezza e buona fede, quale espressione del generale principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.

Quanto innanzi è emerso con particolare riferimento non solo ai limiti dell’esercizio abusivo del diritto, alla stregua appunto del parametro della correttezza e della buona fede, ma anche in merito al “contatto sociale qualificato” ed alla relativa responsabilità oltre che in ordine all’adempimento secondo diligenza.

Il principio in considerazione, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, ha costituito altresì limite alla parcellizzazione della domanda giudiziale.

Sono stati altresì ulteriormente vagliati i rapporti tra la compensazione, l’indebito oggettivo e l’eccezione di compensazione nonché definiti i confini della novazione ed il modo d’atteggiarsi dell’obbligazione ex lege dello Stato per mancata o tardiva trasposizione di direttive europee.

2. Buona fede e correttezza nel “contatto sociale qualificato”.

Spetta alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede. La responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa sorge difatti da un rapporto tra soggetti (la pubblica amministrazione ed il privato che con questa sia entrato in relazione) inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c., e ciò non solo nel caso in cui tale danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione.

Statuendo nei termini di cui innanzi Sez. U, 08236/2020, Cosentino, Rv. 657613-01, ancorché ai fini della risoluzione di una questione di giurisdizione, conferma il contatto sociale qualificato quale fonte dell’obbligazione.

La S.C., difatti, ritiene necessario mettere a fuoco con precisione la natura della responsabilità che sorge in capo alla P.A. per effetto della lesione dell’affidamento del privato, riconducendola al paradigma della responsabilità da contatto sociale qualificato. Il dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede rappresenta infatti una manifestazione del più generale dovere di solidarietà sociale, che trova il suo principale fondamento nell’articolo 2 della Costituzione e grava reciprocamente su tutti i membri della collettività. Tale dovere si intensifica e si rafforza, trasformandosi in dovere di correttezza e di protezione, quando tra i consociati si instaurano momenti relazionali socialmente o giuridicamente qualificati, tali da generare, unilateralmente o, talvolta, anche reciprocamente, ragionevoli affidamenti sull’altrui condotta corretta e protettiva. Le Sezioni Unite riconoscono quindi l’esistenza di una proporzionalità diretta tra l’ambito e il contenuto dei doveri di protezione e correttezza, da un lato, e il grado di intensità del momento relazionale e del conseguente affidamento da questo ingenerato, dall’altro. Ne consegue che, mutuando Cons. St. n. 57/2018, «da chi esercita, ad esempio, un’attività professionale “protetta” (ancor di più se essa costituisce anche un servizio pubblico o un servizio di pubblica necessità) e, a maggior ragione, da chi esercita una funzione amministrativa, costituzionalmente sottoposta ai principi di imparzialità e di buon andamento (art. 97 Cost.), il cittadino si aspetta uno sforzo maggiore, in termini di correttezza, lealtà, protezione e tutela dell’affidamento, rispetto a quello che si attenderebbe dal quisque de populo».

Nella fattispecie di cui innanzi vi è quindi un quid pluris rispetto al generale precetto del neminem laedere; non si tratta della generica “responsabilità del passante”, ma della responsabilità che sorge tra soggetti che si conoscono reciprocamente già prima che si verifichi un danno; danno che consegue non alla violazione di un dovere di prestazione ma alla violazione di un dovere di protezione, il quale sorge non da un contratto ma dalla relazione che si instaura tra l’amministrazione ed il cittadino nel momento in cui quest’ultimo entra in contatto con la prima.

Sulla scorta dei rilievi di cui innanzi le dette Sezioni Unite ritengono di dover valorizzare - generalizzandone gli esiti oltre il mero ambito dell’attività contrattuale della pubblica amministrazione - l’orientamento che connota la responsabilità da lesione dell’affidamento del privato entrato in relazione con la pubblica amministrazione come responsabilità da contatto sociale qualificato dallo status della pubblica amministrazione quale soggetto tenuto all’osservanza della legge come fonte della legittimità dei propri atti. Il contatto o, per meglio dire, il rapporto tra il privato e la pubblica amministrazione deve essere inteso come il fatto idoneo a produrre obbligazioni «in conformità dell’ordinamento giuridico» (art. 1173 c.c.) dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione, bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 (correttezza), 1176 (diligenza) e 1337 (buona fede) del c.c.

In linea con la ricostruzione di cui innanzi, Sez. 2, n. 29711/2020, Abete, Rv. 660023 - 01, ribadisce il principio per il quale la c.d. responsabilità “da contatto sociale”, soggetta alle regole della responsabilità contrattuale pur in assenza d’un vincolo negoziale tra danneggiante e danneggiato, è configurabile non in ogni ipotesi in cui taluno, nell’eseguire un incarico conferitogli da altri, nuoccia a terzi, come conseguenza riflessa dell’attività così espletata, ma soltanto quando il danno sia derivato dalla violazione di una precisa regola di condotta, imposta dalla legge allo specifico fine di tutelare i terzi potenzialmente esposti ai rischi dell’attività svolta dal danneggiante, tanto più ove il fondamento normativo della responsabilità si individui nel riferimento dell’art. 1173 c.c. agli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico (conforme, ex plurimis, Sez. 1, n. 11642/2012, Scaldaferri, Rv. 623269-01).

Del detto orientamento, peraltro, come evidenziato dalla stessa citata Sez. U, 08236/2020, Cosentino, Rv. 657613-01, si rinviene traccia nella precedente giurisprudenza di legittimità ed in particolare in Sez. 1, n. 00157/2003, Benini, Rv. 559551-01, i cui principi sono stati ripresi e sviluppati (oltre che da Sez. U, n. 17586/2015, Frasca, Rv. 636105-01) anche da Sez. 1, n. 14188/2016, Valitutti, Rv. 640485-01, successivamente da Sez. 1, n. 25644/2017, Valitutti, 646005-01, con riferimento ad ipotesi di contratto di appalto pubblico divenuto inefficace per effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione da parte dell’organo di controllo.

Il contatto sociale qualificato, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c., dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 2 Cost., 1175 e 1375 c.c., opera dunque, anche nei rapporti con la P.A. e nella materia contrattuale

Esso, ha proseguito, Sez. 3, n. 24071/2017, Olivieri, Rv. 645832-01, prescrive un autonomo obbligo di condotta che si aggiunge e concorre con l’adempimento dell’obbligazione principale, in quanto diretto alla protezione di interessi ulteriori della parte contraente, estranei all’oggetto della prestazione contrattuale, ma comunque coinvolti dalla realizzazione del risultato negoziale programmato

In materia di contratti pubblici, in particolare, l’erronea scelta del contraente di un contratto di appalto, divenuto inefficace e tamquam non esset per effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione da parte del giudice amministrativo, espone la P.A. a dover corrispondere il risarcimento dei danni per le perdite e i mancati guadagni subiti dal privato aggiudicatario.

Tale responsabilità non è qualificabile né come aquiliana né come contrattuale in senso proprio, sebbene a questa si avvicini poiché consegue al “contatto” tra le parti nella fase procedimentale anteriore alla stipula del contratto ed origina dalla violazione dei doveri di buona fede e correttezza.

In questi termini si era già espressa Sez. 1, n. 24438/2011, Forte F., Rv. 620472-01, per la quale, nella fattispecie di cui innanzi, l’Amministrazione, avendo indetto la gara e dato esecuzione ad un’aggiudicazione apparentemente legittima, ha provocato la lesione dell’interesse del privato, non qualificabile come interesse legittimo ma assimilabile a un diritto soggettivo, avente ad oggetto l’affidamento incolpevole nella regolarità e legittimità dell’aggiudicazione stessa.

Muovendo dalla ricostruzione di cui innanzi della fonte della responsabilità da contatto sociale, fondante nel dovere di correttezza e buona fede, Sez. 1, n. 19775/2018, Cirese., Rv. 649953-01, ha confermato che il risarcimento del danno dovuto all’appaltatore necessita di essere parametrato non già alla conclusione del contratto bensì al c.d. interesse contrattuale negativo che copre sia il danno emergente, ovvero le spese sostenute, che il lucro cessante. Quest’ultimo, però, deve essere riferito ad altre occasioni di contratto che la parte allega di avere perso e non deve intendersi alla stregua di mancato guadagno rispetto al contratto non eseguito.

Per converso, sempre muovendo dalla ricostruzione di cui innanzi, Sez. 1, n. 15707/2018, Di Marzio, Rv. 649278-01, in tema di sollecitazione al pubblico risparmio, ha ritenuto di natura aquiliana la responsabilità per violazione delle regole destinate a disciplinare il prospetto informativo che correda l’offerta di prodotti finanziari. Tali regole, difatti, sono volte a tutelare un insieme ancora indeterminato di soggetti ed a consentire a ciascuno di essi la corretta percezione dei dati occorrenti al compimento di scelte consapevoli, non essendo ancora configurabile, al momento dell’emissione del prospetto, un contatto sociale con i futuri eventuali investitori.

3. “Contatto sociale”, responsabilità professionale e danni cagionati al terzo.

Il notaio che, nell’autenticazione di una procura speciale a vendere preparatoria del successivo contratto traslativo, violi il dovere di diligenza qualificata impostogli ai fini dell’identificazione del soggetto che rilascia detta procura, può essere chiamato a rispondere, a titolo di responsabilità contrattuale, in applicazione dei principi in tema di cd. contatto sociale qualificato, anche dei danni cagionati al terzo interessato all’acquisto in conseguenza di tale negligente identificazione. Il contratto d’opera professionale finalizzato al rilascio della procura speciale, benché formalmente concluso fra il notaio e il futuro venditore ed avente ad oggetto un negozio unilaterale, è difatti fonte di obblighi di protezione pure nei confronti dell’aspirante compratore, il quale va qualificato come “terzo protetto dal contratto”

Sez. 3, n. 07746/2020, Guizzi, Rv. 657617-01, conclude nei termini di cui innanzi all’esito dell’applicazione dei principi della responsabilità da cd. “contatto sociale qualificato”, nonché dell’efficacia protettiva, verso il terzo, del contratto corrente inter alios.

Nella specie ricorrono difatti i presupposti già delineati dalla giurisprudenza di legittimità per l’”applicazione del disposto dell’art. 1218 c.c. oltre i confini propri del contratto”, giacché essa “si giustifica considerando che quando l’ordinamento impone a determinati soggetti, in ragione della attività (o funzione) esercitata e della specifica professionalità richiesta a tal fine dall’ordinamento stesso” (e tale è il caso, appunto, dell’attività notarile), “di tenere in determinate situazioni specifici comportamenti, sorgono a carico di quei soggetti, in quelle situazioni previste dalla legge, obblighi (essenzialmente di protezione) nei confronti di tutti coloro che siano titolari degli interessi la cui tutela costituisce la ragione della prescrizione di quelle specifiche condotte” (Sez. 1, n. 11648/2012, Scaldaferri, Rv. 623269-01). In particolare, la S.C. “ha ravvisato la sussistenza della responsabilità in esame in una varietà di casi accomunati dalla violazione di obblighi di comportamento, preesistenti alla condotta lesiva, posti dall’ordinamento a carico di determinati soggetti”, come tipicamente accade “nell’ambito dell’esercizio di attività professionali cd. protette”, vale a dire “riservate dalla legge a determinati soggetti, previa verifica della loro specifica idoneità, e sottoposte a controllo nel loro svolgimento” (Sez. 1, 11648/2012, cit.). Tale è, tipicamente, anche quella notarile, tanto che il suo esercizio è stato ritenuto fonte di obblighi di protezione anche nei confronti di soggetti che, pur non conferendo al notaio alcun incarico, risentano un danno conseguente ad attività dallo stesso svolte che siano preparatorie della stipulazione di futuri contratti, successivamente conclusi senza neppure ricorrere all’ausilio di quello stesso professionista (Sez. 2, n. 09320/2016, Scarpa, Rv. 639919-01, concernente le cd. “relazioni notarili”, prodromiche alla conclusione di contratti di mutuo bancario).

La citata Sez. 3, n. 07746/2020, Guizzi, Rv. 657617-01, dopo aver fatto riferimento anche alla figura dal “terzo protetto dal contratto” (già enunciata, in passato, dalla giurisprudenza di legittimità, con riferimento al contratto di opera professionale, cfr. Sez. 3, n. 14488/2004, Segreto, Rv. 575702-01; Sez. 3, n. 11503/1993, Nicastro, Rv. 484431-01), fa applicazione nella specie del principio per cui in materia di responsabilità contrattuale anche “quando sia dedotto l’inesatto adempimento dell’obbligazione al creditore istante spetta la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento, gravando ancora una volta sul debitore la prova dell’esatto adempimento, quale fatto estintivo della propria obbligazione” (in merito, ex plurimis, Sez. 3, n. 00082/2015, Stalla, Rv. 634361-01).

4. Il “contatto sociale” della CONSAP ed in tema di amministrazione straordinaria.

In tema di amministrazione straordinaria, l’azione di responsabilità promossa nei confronti del commissario straordinario per inosservanza dei doveri di perizia connessi all’espletamento dell’incarico professionale è soggetta al termine di prescrizione decennale stabilito dall’art. 2946 c.c., venendo in rilievo una forma di responsabilità contrattuale derivante dalla violazione di obblighi legali in una situazione di contatto qualificato.

Statuisce nei termini di cui innanzi Sez. 1, n. 10093/2020, Vella, Rv. 657710-01, per la quale, quindi, non vi è motivo di discostarsi dal consolidato orientamento di legittimità per cui l’azione di responsabilità contro il curatore revocato, prevista dall’art. 38 legge fall. - norma richiamata, per il commissario straordinario, dagli artt. 199, l.fall. e 36 del d.lgs. 270 del 199999 - ha natura contrattuale, in considerazione della natura del rapporto (equiparabile lato sensu al mandato) e del suo ricollegarsi alla violazione degli obblighi posti dalla legge a carico dell’organo concorsuale, sicché essa è soggetta all’ordinario termine di prescrizione decennale, a decorrere dal giorno della sostituzione del curatore revocato (in termini si vedano: Sez. 2, n. 25687/2018, Scarpa, Rv. 650833-02; Sez. 3, n. 16589/2019, Cigna, non massimata, e, in precedenza Sez. 3, n. 08716/1996, Finocchiaro, Rv. 499941-01; Sez. 1, n. 01507/2000, Losavio, Rv. 533713-01, proprio in tema di amministrazione straordinaria, Sez. 1, n. 05044/2001, Plenteda, Rv. 545586-01).

Parimenti, l’azione volta ad ottenere la restituzione delle somme erroneamente confluite nel fondo “rapporti dormienti”, istituito presso il Ministero dell’economia e delle finanze ai sensi dell’art. 1, comma 343, della l. n. 266 del 2005, è correttamente proposta nei confronti della CONSAP s.p.a., cui è affidata la gestione delle relative domande, perché tale società, quale mandataria senza rappresentanza del ministero, ha contatti diretti con i richiedenti, fonte di responsabilità da contatto sociale della società nei confronti di questi ultimi.

Sez. 1, n. 06475/2020, Scalia, Rv. 657084-01, conclude nei termini di cui innanzi evidenziando che la responsabilità da contatto sociale è una peculiare forma di responsabilità contrattuale che insorge da un rapporto che si instaura tra due soggetti o per un obbligo legale oppure quale conseguenza di un altro rapporto contrattuale instauratosi tra soggetti diversi rispetto a quelli del “contatto sociale”.

5. Omessa o tardiva trasposizione di direttive europee, obbligazione ex lege, criterio liquidatorio, compensatio lucri cum damno e deducibilità del factum superveniens in sede di legittimità.

In tema di illecito eurounitario dello Stato, alle vittime di reati intenzionali violenti commessi in Italia spetta il risarcimento del danno per tardiva trasposizione dell’art. 12, paragrafo 2, della Direttiva 2004/80/CE, che impone agli Stati membri, con riguardo ai cittadini UE e con riferimento ai fatti verificatisi nei rispettivi territori, di riconoscere alle stesse vittime un indennizzo “equo ed adeguato”. Esso, pertanto, è ricondotto allo schema della responsabilità “contrattuale” per inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria, in quanto nascente non da fatto illecito ex art. 2043 c.c. bensì da un illecito ex contractu, cioè dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente. Il criterio parametrico basilare per la sua valutazione e liquidazione, al di là dell’eventuale sussistenza di un maggior pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale, è costituito dall’ammontare dell’indennizzo che la vittima avrebbe avuto ab origine come bene della vita garantito dall’obbligo di conformazione del diritto nazionale a quello unionale.

Per converso, prosegue sempre Sez. 3, n. 26757/2020, Vincenti, Rv. 659865-02, il diritto all’indennizzo ex art. 12, paragrafo 2, citato, che è prestazione indennitaria stabilità dalla legge come effetto dell’attuazione di obblighi derivanti dalla partecipazione dello stato all’UE, prescinde dalla ricorrenza degli elementi costitutivi dell’illecito, il quale, nel sistema della responsabilità civile, di fonte sia contrattuale che aquiliana, si pone invece come indefettibile presupposto per la liquidazione del danno.

Dall’ammontare riconosciuto alle vittime di reati intenzionali violenti commessi in Italia a titolo di risarcimento del danno per la tardiva trasposizione dell’art. 12 della citata direttiva dev’essere però detratta la somma loro corrisposta, in quanto vittime di detti reati, quale indennizzo ex l. n. 122 del 2016 (e successive modifiche).

Trova difatti applicazione, chiarisce la stessa Sez. 3, n. 26757/2020, Vincenti, Rv. 659865-03, l’istituto della compensatio lucri cum damno in ragione della regola settoriale che ne ripropone direttamente gli effetti (comma 1, lett. e, e-bis, dell’art. 12 della citata l. n. 122) e della circostanza per la quale sia l’obbligo risarcitorio che quello indennitario, gravanti in capo al medesimo soggetto, trovano la loro comune “conseguenza immediata e diretta” nel fatto generatore del reato, fulcro intorno al quale si muove proprio la disciplina della Direttiva che ha dato origine all’obbligo dello Stato di darne attuazione, ed assolvono alla comune funzione omnicomprensiva, compensativa/risarcitoria, di garantire comunque alla vittima un ristoro per le conseguenze pregiudizievoli, morali e materiali, patite a seguito del crimine, non altrimenti risarcite dal reo.

La citata Sez. 3, n. 26757/2020, Vincenti, Rv. 659865-04, conferma poi che quella di compensatio lucri cum damno è un’eccezione in senso lato, vale a dire non l’adduzione di un fatto estintivo, modificativo o impeditivo del diritto azionato ma una mera difesa in ordine all’esatta entità globale del pregiudizio effettivamente patito dal danneggiato, ed è, come tale, rilevabile d’ufficio dal giudice, il quale, per determinarne l’esatta misura del danno risarcibile, può fare riferimento, per il principio dell’acquisizione della prova, a tutte le risultanze del giudizio (in senso conforme, ex plurimis, Sez. 3, n. 24177/2020, Moscarini, Rv. 659529-01, e Sez. 6-3, n. 20111/2014, De Stefano, Rv. 632976-01).

La S.C. nella fattispecie innanzi evidenziata , caratterizzata da azione di risarcimento danni per illecito eurounitario dello Stato a causa di mancata o tardiva trasposizione dell’art. 12, paragrafo 2, della Direttiva 2004/80/CE, ritiene infine deducibile la sopravvenuta erogazione del beneficio di cui alla l. n. 122 del 2016, in forza del presupposto provvedimento amministrativo di riconoscimento, operando essa quale ridimensionamento del quantum debeatur in applicazione dell’istituto della compensatio lucri cum damno (Sez. 3, n. 26757/2020, Vincenti, Rv. 659865-05).

La Corte argomenta quanto da ultimo evidenziato ritenendo, alla luce del principio della durata ragionevole del processo (art. 111 Cost.), garante del canone dell’economia processuale, deducibile nel giudizio di legittimità il factum superveniens in quanto equiparabile allo ius superveniens, se idoneo ad incidere sull’oggetto della causa sottoposta all’esame del giudice di merito, allorché il contenuto della situazione giuridica controversa abbia avuto una definitiva modificazione a seguito di provvedimento della P.A. e non si ponga questione alcuna di accertamento del fatto medesimo, con il conseguente superamento dei imiti di prova della documentazione del fatto sopravvenuto rispetto a quanto previsto dall’art. 372 c.p.c. (si vedano, ancorché in tema di sopravvenienza del provvedimento ablatorio in pendenza del giudizio avente ad oggetto il risarcimento danni da illegittima occupazione di un bene da parte della P.A., Sez., 1, n. 02341/1982, Gualtieri, Rv. 420224-01, e la successiva sostanzialmente conforme Sez. 1, n. 02546/1983, Bologna, Rv. 427411-01).

In tema di fonti dell’obbligazione e di natura della relativa responsabilità per l’inadempimento, la S.C. conferma quindi l’orientamento, già ribadito nel 2019, per il quale il diritto al risarcimento dei danni per omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, va ricondotto allo schema della responsabilità contrattuale per inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria (sul punto si veda altresì Sez. 6-3, n. 13283/2020, Tatangelo, Rv. 13283-01, con particolare riferimento alle direttive in materia di retribuzione della formazione dei medici specializzandi ed ai rapporti con l’azione di indebito arricchimento).

Tale responsabilità, ha difatti già statuito Sez. 3, n. 30502/2019, Cricenti, Rv. 655837-01, nella specie, con riferimento alle le direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, non autoesecutive, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi, dovendosi considerare il comportamento omissivo dello Stato come antigiuridico anche sul piano dell’ordinamento interno e dovendosi ricondurre ogni obbligazione nell’ambito della ripartizione di cui all’art. 1173 c.c., va inquadrata nella figura della responsabilità “contrattuale”, in quanto nascente non dal fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c., bensì dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente. Sicché, il diritto al risarcimento del relativo danno è soggetto all’ordinario termine decennale di prescrizione (in tal senso, tra le alte, anche la conforme precedente Sez. 3, n. 10813/2011, Frasca, Rv. 617336-01). Sempre in fattispecie in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi, ne consegue, peraltro, come ribadito da Sez. 3, n. 20099/2019, Dell’Utri, Rv. 655029-01, essendo lo Stato italiano l’unico responsabile di detto inadempimento e, dunque, l’esclusivo legittimato passivo in senso sostanziale, la non configurabilità di una responsabilità, neppure solidale, delle Università presso le quali la specializzazione venne acquisita. Con l’ulteriore conseguenza che l’atto interruttivo della prescrizione proveniente dal medico specializzato ed indirizzato soltanto all’Università non è idoneo a interrompere la prescrizione nei confronti della Presidenza del Consiglio, posto che viene rivolto erroneamente ad un debitore estraneo al rapporto controverso (in senso sostanzialmente conforme la precedente Sez. 3, n. 23558/2011, Barreca, Rv. 620311-01, la quale ne ha tratto l’ulteriore conseguenza per la quale l’eccezione di prescrizione sollevata dall’Università evocata in giudizio non può giovare all’Amministrazione statale anch’essa convenuta).

6. Riscossione di imposte, cancellazione della società ed obbligazione civile ex lege.

In tema di responsabilità dei liquidatori e degli amministratori di società in liquidazione per imposte sul reddito delle persone giuridiche, a seguito di liquidazione del patrimonio in epoca anteriore alla formale messa in liquidazione della società, il credito dell’Amministrazione finanziaria ha natura civilistica e trova titolo autonomo, riconducibile agli artt. 1176 e 1218 c.c., rispetto all’obbligazione fiscale vera e propria, costituente mero presupposto della responsabilità stessa, ancorché da accertarsi con atto motivato - e ricorribile - da notificare ai sensi dell’art. 60 d.P.R. n. 600 del 1973. Ne consegue che l’Ufficio, per poter pretendere il pagamento in via sussidiaria nei confronti del liquidatore, deve provare di aver iscritto i relativi crediti quantomeno in ruoli provvisori.

Statuendo nei detti termini Sez. 5, n. 15377/2020, Dell’Orfano, Rv. 658555-01, si pone nel solco interpretativo seguito da Sez. 6-5, n. 17020/2019, Gori, Rv. 654398-01, per la quale la responsabilità dei liquidatori e degli amministratori per le imposte non pagate con le attività della liquidazione, prevista dall’art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973, trova la sua fonte in un’obbligazione civile propria ex lege in relazione agli artt. 1176 e 1218 c.c. Sicché, non avendo natura strettamente tributaria, a carico dei predetti non vi è alcuna successione o coobbligazione nei debiti tributari per effetto della cancellazione della società dal registro delle imprese.

In merito Sez. 5, n. 11968/2012, Cirillo, Rv. 623331-01, aveva già precisato che il processo tributario iniziato in relazione alle imposte sui redditi nei confronti di una società non può proseguire, una volta che questa si sia estinta per cancellazione dal registro delle imprese, ad opera o nei confronti dell’ex-liquidatore o degli ex-amministratori, poiché essi non sono successori, e neppure coobbligati della stessa. Ciò in quanto l’azione di responsabilità prevista dall’art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973, è esercitabile, nei confronti del primo di tali soggetti, solo se i ruoli in cui siano iscritti i tributi della società possano essere posti in riscossione e se sia acquisita legale certezza che i medesimi non siano stati soddisfatti con le attività della liquidazione, e, nei confronti degli ex-amministratori, alle condizioni della sussistenza di attività nel patrimonio della società e della distrazione di esse a fini diversi dal pagamento delle imposte dovute, e, quindi, in entrambi i casi, sulla base di un titolo autonomo dall’obbligazione fiscale, di natura civilistica, ex artt. 1176 e 1218 c.c., ancorché accertabile nelle forme del procedimento e del processo tributario (con conseguente inammissibilità, nella specie, del ricorso per cassazione proposto dall’ex-liquidatore di una società a responsabilità limitata già cancellata dal registro delle imprese).

7. Adempimento secondo diligenza, rapporti con correttezza e buona fede (anche con “funzione integrativa”) e causa concreta.

Nel 2020 la S.C. ha ribadito che la buona fede oggettiva o correttezza, oltre che regola di comportamento e di interpretazione del contratto, è criterio di determinazione della prestazione contrattuale imponendo il compimento di quanto necessario o utile a salvaguardare gli interessi della controparte, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio.

Sez. 3, n. 08494/2020, Scarano, Rv. 657807-01, in particolare, prosegue evidenziando che l’avvocato è tenuto all’esecuzione del contratto di prestazione d’opera professionale secondo i canoni della diligenza qualificata, di cui al combinato disposto degli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c., e della buona fede oggettiva o correttezza, da intendersi nei termini di cui innanzi. Sicché, l’impegno imposto dall’obbligo di buona fede, dovendo essere correlato alle condizioni del caso concreto, alla natura del rapporto e alla qualità dei soggetti coinvolti, è da valutarsi alla stregua della causa concreta dell’incarico conferito al professionista che, a tale stregua, è pertanto tenuto a fornire le necessarie informazioni al cliente, anche per consentirgli di valutare i rischi insiti nell’iniziativa giudiziale. Ne consegue che l’omessa comunicazione al cliente dell’interruzione del processo e della possibilità di riassunzione, fino a far decorrere il relativo termine massimo con conseguente estinzione del giudizio, costituisce fonte di responsabilità professionale del difensore. Nella specie, l’ordinanza in oggetto, ha considerato esente da critiche la sentenza che, ritenuta l’omessa comunicazione fonte di responsabilità, aveva rigettato la domanda risarcitoria per l’assenza di prova del danno conseguenza dell’omissione (in merito si vedano, sempre in tema di responsabilità professionale dell’avvocato: Sez. 3, n. 19520/2019, Valle, Rv. 654569-01; Sez. 6-3, n. 04790/2014, De Stefano, Rv. 630405-01; Sez. 3, n. 18360/2010, Lanzillo, Rv. 614291-01).

Sempre in tema di buona fede oggettiva, in funzione integrativa del contenuto del contratto, Sez. 3, n. 03494/2020, Valle, Rv. 656900-01, ribadisce che essa impone alle parti di porre in essere comportamenti comunque rientranti, secondo la legge, gli usi e l’equità, nello spettro complessivo della prestazione pattuita. Ne consegue la responsabilità professionale del notaio che, ancorché abbia autenticato le firme della dichiarazione di vendita di una vettura, non comunichi al venditore, che li abbia richiesti, i dati anagrafici dell’acquirente, pur avendo il potere di rilasciare copia ed estratti dei documenti a lui esibiti e non necessariamente depositati e nonostante venga in rilievo un atto soggetto a pubblicità mobiliare (ai sensi dell’art. 2683, n. 3, c.c.), la conservazione della cui copia, per quanto informale, rispondeva a prassi già in uso, costantemente osservata e successivamente trasfusa in atto normativo, la l. n. 246 del 2005 (sempre in termini di buona fede oggettiva in funzione integrativa del contenuto del contratto, si vedano anche Sez. 3, n. 20106/2009, Urban, Rv. 610222-01, e Sez. 1, n. 17642/2012, Di Virgilio, Rv. 624747-01, in tema di fideiussione).

8. La buona fede nella fase attuativa del rapporto: conformazione della riduzione equitativa della penale e rapporti con l’abuso del diritto (anche ai fini del recesso).

Ai fini dell’esercizio del potere di riduzione della penale, il giudice non deve valutare l’interesse del creditore con esclusivo riguardo al momento della stipulazione della clausola - come sembra indicare l’art. 1384 c.c., riferendosi all’interesse che il creditore “aveva” all’adempimento - ma tale interesse deve valutare anche con riguardo al momento in cui la prestazione è stata tardivamente eseguita o è rimasta definitivamente ineseguita, poiché anche nella fase attuativa del rapporto trovano applicazione i principi di solidarietà, correttezza e buona fede, di cui agli artt. 2 Cost., 1175 e 1375 c.c., conformativi dell’istituto della riduzione equitativa. Deve difatti intendersi che la lettera dell’art. 1384 c.c., impiegando il verbo “avere” all’imperfetto, si riferisca soltanto all’identificazione dell’interesse del creditore, senza impedire che la valutazione di manifesta eccessività della penale tenga conto delle circostanze manifestatesi durante lo svolgimento del rapporto (Sez. 3, n. 11908/2020, Rubino, Rv. 658162-01, conforme a Sez. 1, n. 21994/2012, Di Amato, Rv. 624244-01).

Sempre con riferimento alla fase attuativa del rapporto, Sez. 2, n. 10324/2020, Giannaccari, Rv. 658010-01, chiarisce che qualora un contratto preveda il diritto di recesso ad nutum in favore di una delle parti, il giudice del merito non può esimersi dal valutare se l’esercizio di tale facoltà sia stato effettuato nel pieno rispetto delle regole di correttezza e di buona fede cui deve improntarsi il comportamento delle parti del contratto, atteso che la mancanza della buona fede in senso oggettivo, espressamente richiesta dagli artt. 1175 e 1375 c.c. nella formazione e nell’esecuzione del contratto, può rivelare un abuso del diritto, pure contrattualmente stabilito, ossia un esercizio del diritto volto a conseguire fini diversi da quelli per i quali il diritto stesso è stato conferito. Tale sindacato, da parte del giudice di merito, deve pertanto essere esercitato in chiave di contemperamento dei diritti e degli interessi delle parti in causa, in una prospettiva anche di equilibrio e di correttezza dei comportamenti economici. In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza gravata che, anche alla luce del concreto atteggiarsi del comportamento delle parti nell’esecuzione del contratto, aveva ritenuto affetta da nullità la clausola contrattuale che rimetteva l’esercizio del diritto di recesso all’unilaterale, successiva e non previamente conoscibile volontà del predisponente.

Con particolare riferimento al factoring, per Sez. 3, n. 03319/2020, Guizzi, Rv. 656894-01, il debitore ceduto che, reso edotto della cessione, non abbia avvertito il factor dell’inesistenza di crediti per i quali il cedente abbia ricevuto anticipazioni, non è tenuto al risarcimento dei danni subiti dal cessionario poiché, a fronte della mera comunicazione dell’avvenuta cessione, il suo comportamento inerte non viola il principio di correttezza e buona fede, non sussistendo a suo carico - neanche nel caso in cui abbia accettato la cessione - un obbligo di informazione che ne aggravi la posizione. Il medesimo cessionario, invece, può pretendere di essere risarcito dal detto debitore ove questi, dopo avere garantito allo stesso factor l’esistenza e la validità di tali crediti, ne abbia leso l’affidamento, omettendo di avvisarlo sua sponte di circostanze sopravvenute ostative alla loro realizzazione.

La statuizione di cui innanzi si pone sostanzialmente nell’ottica fatta propria da Sez. 3, n. 03184/2016, Esposito, Rv. 638945-01, per la quale l’accettazione della cessione del credito da parte del debitore ceduto non costituisce ricognizione tacita del debito, trattandosi di una dichiarazione di scienza priva di contenuto negoziale, sicché, il ceduto non viola il principio di buona fede nei confronti del cessionario, se non contesta il credito, pur se edotto della cessione, né il suo silenzio può costituire conferma di esso, perché, per assumere tale significato, occorre un’intesa tra le parti negoziali cui il ceduto è estraneo.

Circa il contratto di fornitura, l’abuso di dipendenza economica, di cui all’art. 9 della l. n. 192 del 1998, è nozione indeterminata il cui accertamento postula l’enucleazione della causa concreta della singola operazione che il complessivo regolamento negoziale realizza, secondo un criterio teleologico di valutazione, in via di fatto, della liceità dell’interesse in vista del quale il comportamento è stato tenuto.

Nell’applicazione applicazione della citata norma, prosegue Sez. 1, n. 01184/2020, Nazzicone, Rv. 656876-01, è pertanto necessario: 1) quanto alla sussistenza della situazione di “dipendenza economica”, indagare se lo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti sia “eccessivo”, essendo il contraente che lo subisce privo di reali alternative economiche sul mercato (a titolo esemplificativo, perché impossibilitato a differenziare agevolmente la propria attività o per avere adeguato l’organizzazione e gli investimenti in vista di quel rapporto); 2) quanto all’”abuso”, indagare la condotta arbitraria contraria a buona fede, ovvero l’intenzionalità di una vessazione perpetrata sull’altra impresa, in vista di fini esulanti dalla lecita iniziativa commerciale retta da un apprezzabile interesse dell’impresa dominante (quale, ancora una volta a titolo esemplificativo, modificare le proprie strategie di espansione, adattare il tipo o la quantità di prodotto, o anche spuntare migliori condizioni), mirando la condotta soltanto ad appropriarsi del margine di profitto altrui (in tema di abuso del diritto contrattuale e buona fede si veda, ex plurimis, Sez. L, n. 15885/2018, Negri Della Torre, Rv. 649311-01).

9. Principio di correttezza e buona fede ed azione giudiziale.

Il mero ritardo nell’esercizio del diritto, pur imputabile al titolare ed idoneo a far ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato, non costituisce violazione della buona fede e non può essere causa di esclusione della tutela giudiziaria, salvo che dal ritardo possa desumersi una rinunzia tacita.

Nel riaffermare il principio di cui innanzi, Sez. L, n. 01888/2020, Blasutto, Rv. 656694-01, ha ritenuto tempestiva, e non contraria alla buona fede, l’impugnazione giudiziale di licenziamento proposta due giorni prima della scadenza del termine di prescrizione quinquennale (in termini conformi Sez. 1, n. 23382/2013, De Chiara, Rv. 628554-01, per la quale, in difetto di deduzione e prova della rinunzia tacita, è legittima la revoca dell’affidamento intimata dalla banca pur dopo avere a lungo tollerato gli sconfinamenti dai relativi limiti da parte del correntista).

Circa i rapporti tra principio di correttezza e buona fede ed azione giudiziale l’orientamento di cui innanzi mostra adesione alla giurisprudenza di legittimità, con particolare riferimento alla tematica della parcellizzazione della domanda giudiziale.

Sul punto si vedano, limitando i riferimenti alle statuizioni del 2020, Sez. 3, n. 08530/2020, De Stefano, Rv. 657812-01, Sez. 3, n. 04003/2020, Sestini, Rv. 656906-01, Sez. 6-3, n. 00337/2020, D’Arrigo, Rv. 656587-01, e Sez. 2, n. 29638/2020, Falaschi, Rv. 660116 - 02.

Per la prima delle quattro citate statuizioni, difatti, il danneggiato, che non dimostri di avervi un interesse oggettivamente valutabile, non può, in presenza di un unitario fatto illecito lesivo di cose e persone, frazionare la tutela giudiziaria, agendo separatamente per il risarcimento dei danni patrimoniali e di quelli non patrimoniali, poiché tale condotta aggrava la posizione del danneggiante-debitore e causa ingiustificato aggravio del sistema giudiziario. In particolare, non integrano un interesse oggettivamente valutabile ed idoneo a consentire detto frazionamento, di per sé sole considerate, né la prospettata maggiore speditezza del procedimento dinanzi ad uno anziché ad altro dei giudici aditi, in ragione della competenza per valore sulle domande risultanti dal frazionamento, né la semplice ricorrenza di presupposti processuali più gravosi per l’azione relativa ad una delle componenti del danno, soprattutto in caso di intervalli temporali modesti.

Parimenti, le domande concernenti diversi e distinti diritti di credito relativi a un medesimo rapporto di durata tra le parti che siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, possono essere proposte in separati processi solo ove l’attore risulti assistito da un oggettivo interesse alla tutela processuale frazionata. Nella specie, la citata Sez. 6-3, n. 00337/2020, ha ritenuto non meritevole di tutela la scelta dell’attore di frazionare il suo credito al fine di adire il giudice di pace, così da ottenere una decisione più rapida, trattandosi di condotta che aveva alterato la competenza per valore sulla domanda e, quindi, sottratto la controversia al suo giudice naturale.

Il giudicato di rigetto della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento preclude invece la proposizione di una nuova domanda di risoluzione fondata su altri inadempimenti conosciuti o conoscibili alla data di proposizione della prima domanda e non fatti valere con essa.

La seconda della tre statuizioni innanzi indicate (Sez. 3, n. 04003/2020, Sestini, Rv. 656906-01) ha sancito tale principio in fattispecie relativa ad affitto di fondo rustico ove il concedente aveva chiesto la risoluzione del contratto per inadempimento, deducendo l’intervenuto abusivo frazionamento del fondo ad opera dell’affittuario, nonostante tale condotta fosse conoscibile già al momento dell’introduzione di un precedente giudizio di risoluzione per degli ulteriori inadempimenti dello stesso affittuario, definito con sentenza di rigetto favorevole a quest’ultimo e passata in giudicato.

La parcellizzazione della domanda diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede sia con il principio costituzionale del giusto processo e si traduce in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale (ex plurimis, Sez. U, n. 04090/2017, Di Iasi, Rv. 623269-01; Sez. 2, n. 17993/2018, D’Ascola, Rv. 649387-01; Sez. 2, n. 20714/2018, Besso Marcheis, Rv. 650013-01; Sez. 3, n. 06591/2019, Dell’Utri, Rv. 653251-01; Sez. U, n. 23726/2007, Morelli, 599316-01).

Nel ribadire quanto innanzi, la citata Sez. 2, n. 29638/2020, Falaschi, Rv. 660116 - 01, ha ritenuto che, nella specie, la sentenza del giudice di pace, anche se pronunciata secondo equità, fosse appellabile in virtù dell’espressa previsione contenuta nell’art. 339, comma 3 c.p.c., che include, appunto, tra i casi di appellabilità, anche la violazione di norme Costituzionali (si veda, in termini, Sez. 6-2, n. 15398/2019, Orilla, Rv. 654137-01).

10. La remissione.

La remissione del debito, quale causa di estinzione delle obbligazioni, esige che la volontà abdicativa del creditore sia espressa in modo inequivoco e un comportamento tacito, pertanto, può ritenersi indice della volontà del creditore di rinunciare al proprio credito solo se è privo di alcun’altra giustificazione razionale.

Ne consegue, per Sez. 3, n. 28439/2020, Rossetti, Rv. 659863-01, i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a meno che tale omissione non sia accompagnata da ulteriori circostanze tali da non consentire dubbi sul fatto che l’omessa appostazione in bilancio possa fondarsi su altra causa, diversa dalla volontà della società di rinunciare al credito. Nella specie, la citata ordinanza ha ritenuto esente da critiche la sentenza che aveva escluso che la mera omissione dell’indicazione d’un credito nel bilancio finale di liquidazione potesse ritenersi indice certo della volontà di rinunciarvi.

Ancora più in generale, l’eccezione di estinzione del credito per rinunzia al diritto e, in particolare, per remissione del debito, rientra nel novero di quelle che possono essere proposte soltanto dalle parti non potendo il giudice rilevarle d’ufficio. Nei termini di cui innanzi il principio è ribadito da Sez. 2, n. 29920/2020, Oricchio, Rv. 660118 - 01.

Nei medesimi termini si veda altresì Sez. L, n. 01110/1999, Picone, Rv. 523085-01, per la quale, l’eccezione di cui innanzi non è peraltro ammissibile se proposta per la prima volta in grado di appello con la conseguenza che, qualora il giudice dichiari l’estinzione del credito per remissione sebbene la relativa eccezione non sia stata ritualmente proposta nel giudizio di primo grado si è in presenza di un error in procedendo che, quale ragione della cassazione della sentenza impugnata, rende logicamente irrilevante l’esame di tutte le altre censure.

11. Compensazione giudiziale e ragione creditoria prescritta.

L’art. 1243 c.c. stabilisce i presupposti sostanziali ed oggettivi del credito opposto in compensazione, ossia la liquidità, inclusiva del requisito della certezza, e l’esigibilità. Nella loro ricorrenza, il giudice dichiara l’estinzione del credito principale per compensazione legale, a decorrere dalla sua coesistenza con il controcredito e, accogliendo la relativa eccezione, rigetta la domanda, mentre, se il credito opposto è certo ma non liquido, perché indeterminato nel suo ammontare, in tutto o in parte, egli può provvedere alla relativa liquidazione, se facile e pronta, e quindi può dichiarare estinto il credito principale per compensazione giudiziale sino alla concorrenza con la parte di controcredito liquido, oppure può sospendere cautelativamente la condanna del debitore fino alla liquidazione del controcredito eccepito in compensazione (Sez. U, n. 23225/2016, Chiarini, Rv. 641764-02).

Il principio secondo cui la compensazione può operare anche relativamente ad una ragione creditoria già prescritta è applicabile anche alla compensazione giudiziale, in quanto la regola generale contenuta nell’art. 1242, comma 2, c.c., che postula la prevalenza del diritto alla compensazione rispetto alla prescrizione nel caso in cui il relativo termine non sia spirato nell’arco temporale di coesistenza di crediti e debiti, si fonda sul principio di ragionevolezza e di buona fede nella disciplina dei rapporti negoziali e rappresenta una declinazione di quello, generale, secondo il quale quando due persone sono obbligate l’una verso l’altra i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti.

Statuendo nei termini di cui innanzi Sez. 3, n. 07018/2020, Di Florio, Rv. 657469-01, intenzionalmente supera il precedente difforme di Sez. 3, n. 23078/2005, De Nanni, Rv. 587950-01, per il quale il detto principio, invece, non sarebbe applicabile alla compensazione giudiziale, potendo questa aver luogo soltanto ope iudicis, con la conseguenza che l’effetto dell’estinzione dei due debiti dal giorno della loro coesistenza non può verificarsi.

Con riferimento più generale all’eccezione di compensazione, Sez. 6-2, n. 28469/2020, Dongiacomo, Rv. 659998 - 01, ribadisce che l’applicabilità delle disposizioni degli articoli 1241 e ss. c.c. (riguardanti l’ipotesi della compensazione in senso tecnico-giuridico) postula l’autonomia dei rapporti dai quali nascono contrapposti crediti delle parti, mentre quando i rispettivi crediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto si tratta di accertare semplicemente le reciproche partite di dare e avere, e a ciò il giudice può procedere senza che sia necessaria l’eccezione di parte o la proposizione della domanda riconvenzionale, purché tale accertamento si fondi su circostanze tempestivamente dedotte in giudizio, in quanto diversamente si verificherebbe un - non consentito - ampliamento del thema decidendum (in senso conforme Sez. L, n. 11030/2006, Monaci, Rv. 590795-01, che, nella specie, ha cassato la sentenza di merito in quanto solo in secondo grado la Regione aveva chiesto, con ampliamento del thema decidendum, che il giudice provvedesse al conteggio delle poste passive esistenti tra essa e il medico convenzionato che chiedeva il riconoscimento di competenze arretrate, sulla base dell’unico rapporto di convenzionamento esistente tra il professionista e la ASL).

12. Compensazione c.d. atecnica o impropria.

Quando tra due soggetti i rispettivi debiti e crediti hanno origine da un unico - ancorché complesso - rapporto, non vi è luogo ad una ipotesi di compensazione “propria”, bensì ad un mero accertamento di dare e avere, con elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza, cui il giudice può procedere senza che siano necessarie l’eccezione di parte o la domanda riconvenzionale, che postulano invece, l’autonomia dei rapporti ai quali i crediti si riferiscono. In applicazione di tale principio, la Sez. 3, n. 16800/2015, Armano, Rv. 636862-01, ha ritenuto che, correttamente, nel giudizio di merito fosse stato d’ufficio compensato il credito vantato dal locatore-attore, avente ad oggetto il risarcimento dei danni da inadempimento contrattuale per violazione della clausola di non rimozione delle addizioni effettuate dal conduttore, con quello vantato dal convenuto-locatario ed inerente l’indennità per l’eseguita addizione.

Tale accertamento, che si sostanzia in una compensazione “impropria” o “atecnica”, pur producendo risultati analoghi a quelli della compensazione “propria”, non è sottoposto alla relativa disciplina tipica, sia processuale sia sostanziale, ivi compresa quella contenuta nell’art. 1248 c.c., riguardante l’inopponibilità al cessionario, da parte del debitore che abbia accettato puramente e semplicemente la cessione, della compensazione che avrebbe potuto opporre al cedente. Nei termini di cui innanzi Sez. 2, n. 04825/2019, Abete, Rv. 652692-01. Nella specie, veniva in rilievo il caso di una dipendente che aveva dato in garanzia il proprio TFR per ottenere un prestito da una società la quale, dopo le dimissioni della lavoratrice, aveva chiesto il versamento del detto TFR al datore di lavoro che, però, aveva rifiutato, eccependo, in parziale compensazione, il suo credito verso la medesima dipendente avente ad oggetto l’indennità di mancato preavviso da essa dovuta perché dimessasi in tronco. La S.C., enunciando il principio di cui innanzi, ha cassato la decisione di appello che, applicando l’art. 1248 c.c., aveva accolto la domanda della società cessionaria (in tema di c.d. compensazione impropria o atecnica si veda altresì, ex plurimis, Sez. 3, n. 18498/2006, Scarano, Rv. 593967-01).

Nel solco interpretativo di cui innanzi si pone Sez. 1, n. 24325/2020, Scarano, Rv. 659653-01, per la quale in tema di rapporti tra il credito dell’agricoltore a titolo di contributi dell’Unione europea conseguenti alla Politica agricola comune (Pac), ed i debiti dello stesso per prelievo supplementare relativo alle quote latte, è ammissibile la cd. compensazione impropria o atecnica, a condizione che il controcredito sia certo e liquido secondo la valutazione dei giudici di merito, incensurabile in sede di legittimità, a tal fine valorizzando l’unitarietà del rapporto, in base al quale il regime delle quote latte è parte integrante del sistema Pac, il cui corretto funzionamento complessivo postula l’effettività del recupero delle somme dovute dai produttori di latte che abbiano superato i limiti nazionali, mediante la previa verifica del Registro nazionale previsto dalla legge, nel quale sono inseriti i debiti e crediti dell’agricoltore, la cui compensazione è connaturata al sistema della Pac, come configurato dal diritto dell’Unione, la cui primazia all’interno degli Stati membri postula l’interpretazione conforme delle norme nazionali.

13. La compensazione fallimentare.

Il credito da equo indennizzo ex art. 79 l.fall., pur collegato al contratto di affitto di azienda, diviene certo soltanto a seguito dell’esercizio del diritto di recesso da parte del curatore, successivamente alla dichiarazione di fallimento, sicché, per Sez. 1, n. 10869/2020, Vella, Rv. 658123-01, non è suscettibile di compensazione ai sensi dell’art. 56 l.fall. con i contrapposti crediti, norma che postula la preesistenza dei crediti da compensare rispetto all’apertura della procedura concorsuale.

In merito preme ricordare che circa i rapporti con il fallimento, il terzo in bonis non può eccepire, ex art. 56, comma 2, l.fall., la compensazione tra un proprio debito verso il fallito con un credito, scaduto anteriormente alla dichiarazione di fallimento, di cui, però, il primo sia divenuto titolare, per atto di cessione tra vivi, dopo l’apertura del concorso. Nei termini di cui innanzi si era già espressa Sez. 1, n. 09528/2019, Campese, Rv. 653688-01, laddove la precedente Sez. L, n. 10025/2010, Bandini, Rv. 613492-01, aveva chiarito che la disposizione contenuta nell’art. 56 della l.fall. rappresenta una deroga al concorso, a favore dei soggetti che si trovino ad essere al contempo creditori e debitori del fallito, non rilevando il momento in cui l’effetto compensativo si produce e ferma restando l’esigenza dell’anteriorità del fatto genetico della situazione giuridica estintiva delle obbligazioni contrapposte. Le stesse esigenze poste a base della citata norma giustificano l’ammissibilità anche della compensazione giudiziale nel fallimento, per la cui operatività è necessario che i requisiti dell’art. 1243 c.c. ricorrano da ambedue i lati e sussistano al momento della pronuncia, quando la compensazione viene eccepita. Il citato art. 56, quale unico limite per la compensabilità dei debiti verso il fallito-creditore, prevede altresì l’anteriorità al fallimento del fatto genetico della situazione giuridica estintiva delle obbligazioni contrapposte. La compensazione fallimentare (come aveva chiarito Sez. 1, n. 09678/2000, Celentano, Rv. 538713-01) è pertanto applicabile non solo quando il credito del terzo non è ancora scaduto alla data della dichiarazione di fallimento ma anche quando tale scadenza riguardi il credito del fallito; conseguentemente, poiché il credito del socio escluso a seguito della dichiarazione di fallimento, relativo alla liquidazione della quota o al rimborso delle azioni, diviene liquido ed esigibile al momento della delibera di esclusione successiva alla dichiarazione di fallimento ma rinviene il suo fondamento causale nella costituzione del vincolo sociale (antecedente al fallimento), deve ritenersi ammessa la compensazione dei contrapposti crediti del socio e della società essendo il debito di quest’ultima debito verso il fallito e non verso la massa.

14. Compensazione ed esecuzione forzata.

Con l’opposizione ex art. 615 c.p.c. il debitore esecutato può opporre in compensazione al creditore procedente un controcredito certo (cioè, definitivamente verificato giudizialmente o incontestato) oppure un credito illiquido di importo certamente superiore (la cui entità possa essere accertata, senza dilazioni nella procedura esecutiva, nel merito del giudizio di opposizione) anche nell’ipotesi di espropriazione forzata promossa per il credito inerente al mantenimento del coniuge separato, non trovando applicazione, in difetto di un “credito alimentare”, l’art. 447, comma 2, c.c.

Nei termini di cui innanzi sostanzialmente statuisce Sez. 3, n. 09686/2020, Porreca, Rv. 657716-01, laddove Sez. 3, n. 30323/2019, Rossetti, Rv. 656147-01, già aveva chiarito che nel giudizio di opposizione all’esecuzione, è consentito al debitore dedurre in compensazione un suo controcredito, anche se illiquido, ma di importo certamente superiore al credito opposto, la cui sussistenza ed entità potrà essere accertata dal giudice dell’esecuzione; quest’ultimo, peraltro, in tale eventualità, non potrà disporre la sospensione dell’esecuzione nelle more del giudizio medesimo.

15. Novazione e rapporti con il passivo fallimentare e la notifica della cartella di pagamento.

La pronuncia di Sez. 1, n. 25028/2020, Nazzicone, Rv. 659731-01, chiarisce che ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare di somme iscritte a ruolo, l’eventuale notifica della cartella di pagamento (ovvero di altro atto di riscossione coattiva) da parte dell’agente della riscossione nei confronti della società in bonis successivamente fallita, non produce effetto novativo della natura del credito, il quale resta assoggettato alla sua specifica disciplina anche in ordine al regime prescrizionale, sicché qualora sia prevista una prescrizione più breve di quella ordinaria, non si rende applicabile il termine decennale di cui all’art. 2953 c.c., salvo che in presenza di un accertamento divenuto definitivo per il passaggio in giudicato di una sentenza.

16. Locazione e novazione.

In tema di locazione, non è sufficiente ad integrare novazione del contratto la variazione della misura del canone o del termine di scadenza, trattandosi di modificazioni accessorie, essendo invece necessario, oltre al mutamento dell’oggetto o del titolo della prestazione, che ricorrano gli elementi dell’animus e della causa novandi (ex plurimis: Sez. 3, n. 14620/2017, D’Arrigo, Rv. 644645-01; Sez. 3, n. 11672/2007, D’Amico, Rv. 596711-01; Sez. 3, n. 05673/2010, Finocchiaro, Rv. 611737-01).

Nel ribadire il principio, Sez. 3, n. 22126/2020, Iannello, Rv. 659241-01, ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto novato il rapporto locativo sebbene le parti avessero pattuito modifiche soltanto accessorie, come la previsione della risoluzione in caso di ritardato pagamento, il prolungamento della durata del rapporto e la misura dell’aggiornamento del canone.

17. Novazione e contratto d’agenzia.

In tema di contratto di agenzia, Sez. L, n. 17572/2020, Negri Della Torre, Rv. 658545-01, ribadisce che il conferimento dell’incarico di riscossione all’atto della stipula del contratto fa presumere - attesa la natura corrispettiva del rapporto - che il compenso per tale attività sia compreso nella provvigione pattuita, che va riferita al complesso dei compiti affidati, mentre essa va separatamente compensata se il relativo incarico sia conferito nel corso del rapporto e costituisca una prestazione accessoria ulteriore rispetto a quella originariamente prevista dal contratto, a meno che non risulti accertata la volontà delle parti di procedere ad una novazione che, prevedendo nuovi obblighi a carico dell’agente, lasci invariati quelli del preponente (in termini conformi si vedano, ex plurimis: Sez. L, n. 22892/2008, Stile, Rv. 604789-01, e Sez. L, n. 07481/2000, De Matteis, Rv. 537250-01)

18. Transazione novativa.

La transazione ad esecuzione differita è suscettibile di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, in base al principio generale emergente dall’art. 1467 c.c., in quanto l’irresolubilità della transazione novativa stabilita in via eccezionale dall’art. 1976 c.c. è limitata alla risoluzione per inadempimento, e l’irrescindibilità della transazione per causa di lesione, sancita dall’art. 1970 c.c., esaurisce la sua ratio sul piano del sinallagma genetico (Sez. 2, n. 04451/2020, Carbone, Rv. 657114-01).

Già Sez. 2, n. 09125/1993, Corona, Rv. 483595-01, aveva statuito che la disposizione dell’art. 1976 c.c., che esclude la possibilità di chiedere la risoluzione della transazione per inadempimento quando il rapporto preesistente è stato estinto per novazione, a meno che non sia stato diversamente stabilito dalle parti, comportando una eccezione ai principi generali della risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive, nei quali il venir meno del sinallagma funzionale, qualunque ne sia la causa, comporta sempre la caducazione del contratto, non può essere estesa ai casi di risoluzione per impossibilità sopravvenuta, per eccessiva onerosità o per l’accertata inesistenza della condizione presupposta (in tema si veda anche Sez. 1, n. 01105/1956, Arras, Rv. 881119-01).

  • contratto
  • ricorso per inadempienza
  • diritto di recesso
  • clausola contrattuale

CAPITOLO VIII

IL CONTRATTO IN GENERALE

(di Francesco Cortesi )

Sommario

1 I requisiti del contratto: la causa. Contratti atipici e meritevolezza dell’interesse. - 1.1 L’oggetto e la sua determinazione. - 1.2 Forma ad substantiam e forma ad probationem. - 2 I contratti per adesione. - 3 L’interpretazione e l’integrazione del contratto: l’applicazione delle regole ermeneutiche. - 3.1 Minuta e puntuazione. - 3.2 Contenuto del contratto ed individuazione degli obblighi delle parti. - 3.3 Contenuto del contratto ed effetti nei confronti dei terzi. - 4 La buona fede nell’esecuzione del contratto. - 5 Clausola penale e caparra. - 6 Il contratto concluso dal rappresentante. - 7 La nullità e la simulazione: la nullità per contrarietà a norme imperative. - 7.1 Nullità e simulazione: aspetti processuali. - 8 L’inadempimento e i rimedi caducatori: gravità dell’inadempimento e fattispecie di risoluzione stragiudiziale. - 8.1 Il diritto di recesso. - 8.2 Rimedi caducatori ed eccezione di inadempimento: profili processuali.

1. I requisiti del contratto: la causa. Contratti atipici e meritevolezza dell’interesse.

In linea con la propria ormai costante giurisprudenza che attribuisce rilevanza - ai fini della qualificazione del contratto e della conseguente individuazione della disciplina applicabile - alle forme convenute dalle parti per la realizzazione dei rispettivi interessi, la Suprema Corte ha reso alcune decisioni di rilievo concernenti ipotesi atipiche di fattispecie previste dall’ordinamento, delle quali ha evidenziato la peculiarità del relativo regolamento.

Così Sez. 3, n. 08881/2020, Fiecconi, Rv. 657839-01, ha affermato che la vendita al pubblico incanto di cosa ricevuta in pegno, nel cui regolamento d’asta le parti abbiano escluso la possibilità per l’acquirente di invocare la garanzia per i vizi della cosa venduta, configura una forma di autotutela privata esecutiva; tale “forma atipica” della fattispecie di cui all’art. 2797 c.c. - la cui praticabilità è desumibile dalla previsione dell’ultimo comma, che consente alle parti di convenire “forme diverse” da quelle prescritte dai commi precedenti - resta, in ogni caso, distinta dall’espropriazione forzata, sicché alla stessa non si applicano le ulteriori previsioni che riguardano quest’ultima.

La Corte ha precisato, al riguardo, che il patto di esclusione della garanzia deve considerarsi lecito e meritevole di tutela, in ossequio al principio di autonomia privata ex art. 1322 c.c., ferma restando la necessità di riconoscere al compratore i rimedi che gli spettano in caso di vendita di aliud pro alio, caratterizzata dalla mancanza in capo alla res delle qualità necessarie per assolvere alla sua naturale funzione economico-sociale.

Affronta invece il tema della vendita cd. con patto marciano - mediante il quale le parti stabiliscono che, nell’eventualità di inadempimento del debitore, il creditore possa vendere il bene, previa stima, versando al debitore l’eccedenza del prezzo rispetto al credito - Sez. 3, n. 00844/2020, Cricenti, Rv. 656813-01. In questo caso, osserva la Corte, non si incorre nel divieto di patto commissorio, poiché lo scopo perseguito dalle parti ricalca la funzione del pegno irregolare ex art. 1851 c.c., essendo ispirato alla medesima ratio di evitare approfittamenti del creditore in danno del debitore, e la relativa clausola è lecita, sempreché sia stato previsto che la stima avvenga in tempi certi e con modalità che consentano di assicurare una valutazione imparziale, ancorata a parametri oggettivi ed automatici.

Sez. 3, n. 09256/2020, Guizzi, Rv. 657635-01, prende invece in esame il contratto atipico di “prestito d’uso d’oro”, che assimila al mutuo in considerazione del correlato obbligo di restituzione del tantundem, nonché per la sua funzione di finanziamento.

La decisione rileva, conseguentemente, che l’eventuale recesso del garante per fideiussione delle obbligazioni nascenti da tale contratto produce effetto liberatorio qualora alla data del recesso risulti essere stata adempiuta dal debitore garantito l’obbligazione principale di restituzione dell’oro utilizzato; ovvero, a seguito della c.d. “opzione d’acquisto”, quella alternativa di pagamento dell’equivalente in denaro dell’oro trattenuto.

1.1. L’oggetto e la sua determinazione.

Le decisioni più rilevanti rese in materia di oggetto del contratto concernono il requisito della determinabilità di cui all’art. 1346 c.c..

In tema di vendita immobiliare, Sez. 2, n. 16078/2020, Carrato, Rv. 658476-01, ha dato continuità al consolidato principio (si veda al riguardo, fra le altre, Sez. 2, n. 11237/2016, Orilia, Rv. 640046-01) secondo cui detto requisito è soddisfatto dall’inequivocabile identificazione dell’immobile tramite l’indicazione dei confini o di altri dati oggettivi, incontrovertibilmente idonei allo scopo e tali da impedire, perciò, che rimangano margini di dubbio sull’identità dello stesso; di tale principio, la decisione ha fatto governo con riferimento al contratto preliminare, affermando che, in funzione dell’adottabilità della pronuncia ex art. 2932 c.c., occorre avere riguardo all’indicazione e descrizione degli elementi identificativi dell’immobile, restando irrilevanti eventuali successive modifiche dei relativi dati catastali, che restano elementi esterni non incidenti sulla relativa identificazione.

Dando continuità a tali principi, Sez. 2, n. 28275/2020, Criscuolo, Rv. 655688-01, ha evidenziato che, in caso di offerta non formale di una prestazione che abbia ad oggetto la consegna di cose specifiche, il rifiuto del creditore è legittimo solo se, all’esito di una valutazione comparativa della condotta delle parti, risulti che esso sia improntato alla verifica del rispetto del principio della buona fede; in tal senso, pertanto, non è sufficiente limitarsi a riscontrare che non vi è identità fra i beni offerti dal debitore e quelli dovuti per contratto.

In termini non dissimili, e con riferimento al tipo dell’appalto, Sez. 2, n. 00133/2020, Falaschi, Rv. 653656-01, ha ritenuto non necessaria una specificazione dell’opera in tutti i suoi particolari, essendo sufficiente la fissazione dei relativi elementi fondamentali; di conseguenza, eventuali deficienze ed inesattezze riguardanti taluni elementi costruttivi non importano alcuna nullità, ove non impediscano l’agevole individuazione dell’opera, nella sua consistenza qualitativa e quantitativa, mediante il ricorso ai criteri generali della buona tecnica costruttiva ed alle cd. regole d’arte, le quali devono adeguarsi alle esigenze e agli scopi cui l’opera è destinata.

La possibilità di determinare l’oggetto del contratto ricorrendo ad elementi esterni al relativo documento - da tempo pacificamente ammessa - è oggetto di specifiche considerazioni da parte di Sez. 2, n. 01626/2020, Criscuolo, Rv. 656846-01, che la esclude laddove l’oggetto sia stato individuato dalle parti per relationem in un atto destinato a formare parte integrante dell’accordo negoziale; in tal caso, infatti, è la volontà delle parti a limitare la possibilità di avvalersi di elementi esterni diversi dall’atto specificamente richiamato in contratto e destinato a formarne parte integrante, con l’ulteriore conseguenza che, ove si tratti di contratto per il quale è prevista la forma scritta a pena di nullità, ogni pretesa fondata sullo stesso postula necessariamente la produzione in giudizio dell’atto integrativo.

1.2. Forma ad substantiam e forma ad probationem.

In relazione ai contratti per i quali è prevista dalla legge la forma scritta ad substantiam, Sez. 3, n. 00525/2020, Cricenti, Rv. 656582-01, ha specificato che eventuali accordi modificativi delle clausole originarie sono soggetti al medesimo onere formale soltanto ove essi riguardino gli elementi essenziali del contratto; tali accordi hanno dunque forma libera - e possono così essere stipulati anche verbalmente - quando concernono profili esecutivi del contratto, come nel caso in cui riguardino le modalità di pagamento del corrispettivo.

Laddove, invece, il contratto soggetto ad onere formale presenti un collegamento con un contratto a forma libera, occorre che anche quest’ultimo, per la sua validità, rivesta la forma del primo; Sez. 2, n. 26693/2020, Oliva, Rv. 659686-01, ha specificato, al riguardo, che per le ipotesi di cd. collegamento funzionale (caratterizzato dal nesso di reciproca interdipendenza dei due negozi, le cui vicende ne condizionano la rispettiva validità ed efficacia) è necessario che tutte le obbligazioni che formano il sinallagma siano documentate per iscritto, seppur in diversi documenti o in contesti comunque separati.

Sugli stessi temi del collegamento negoziale e del patto aggiunto al contratto soggetto ad oneri formali, merita poi specifica menzione Sez. U, n. 06459/2020, Giusti, Rv. 657212-01, relativa al pactum fiduciae con oggetto immobiliare, che si innesta su un acquisto effettuato dal fiduciario per conto del fiduciante.

Al riguardo, le Sezioni Unite, intervenute a risoluzione di contrasto, hanno premesso che al tradizionale orientamento (inaugurato da Sez. 2, n. 05663/1988, Anglani, Rv. 460201-01) che prescrive, per tale patto, la forma scritta a pena di nullità, si era contrapposto, in tempi più recenti, un indirizzo che riteneva sufficiente, a fronte di un patto concluso oralmente, la dichiarazione unilaterale scritta contenente l’impegno del fiduciario a trasferire al fiduciante (ovvero ad un terzo da questo indicato) la proprietà immobiliare dedotta in contratto, esattamente individuata, in esplicita attuazione del pactum fiduciae (Sez. 3, n. 10633/2014, Rubino, Rv. 630670-01).

A composizione del contratto è stata condivisa quest’ultima impostazione.

Muovendo dal rilievo dell’assimilabilità del pactum fiduciae, quale atto meramente interno tra fiduciante e fiduciario, al mandato senza rappresentanza, le Sezioni Unite hanno infatti osservato che lo stesso ha la funzione non di propiziare un effetto reale (che si è già prodotto), ma di conformarlo all’assetto degli interessi delle parti; tale assetto si esplica esclusivamente sul piano obbligatorio, cosicché il contratto che fonda l’obbligo fiduciario non soggiace all’onere di forma scritta previsto dall’art. 1350 c.c., e, quando sia provato in giudizio, è idoneo a giustificare l’accoglimento della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di ritrasferimento che grava sul fiduciario.

Sez. 2, n. 01439/2020, Fortunato, Rv. 656867-01, concerne invece il rapporto fra oneri formali e clausola compromissoria; secondo tale pronuncia, quando la clausola compromissoria sia contenuta in un preliminare di compravendita, essa sopravvive anche ove non riprodotta nel definitivo, trattandosi di negozio autonomo ad effetti processuali, con funzione distinta da quella del preliminare cui accede. Pertanto, le parti possono porre nel nulla detta clausola solo mediante una manifestazione di volontà specificamente diretta a tale effetto.

Infine, in tema di forma scritta ad probationem, Sez. 2, n. 18489/2020, Varrone, Rv. 659120-02, ha specificato che l’eventuale mancanza di sottoscrizione del documento contrattuale da parte di uno dei contraenti può essere sostituita dall’inequivocabile manifestazione della volontà di questo di avvalersi del contratto documentato dalla scrittura incompleta, in particolare mediante la produzione della stessa in giudizio o l’intervenuta accettazione della medesima fatta allo scopo di avvalersi dei suoi effetti negoziali.

2. I contratti per adesione.

Sulla disciplina dei contratti per adesione si segnalano due pronunzie di rilievo.

In materia di clausole vessatorie, Sez. 6-2, n. 09738/2020, Fortunato, 658014-01, ha ritenuto inefficace una clausola derogatoria della competenza territoriale contenuta nelle condizioni di contratto predisposte unilateralmente da un committente per tutti i rapporti con le imprese appaltatrici, e ciò quantunque fosse emerso che l’accordo era stato preceduto dallo svolgimento di trattative sull’ammontare del compenso e sui termini di pagamento.

La Corte ha ritenuto che l’approvazione per iscritto delle clausole vessatorie non sia necessaria soltanto quando il contratto sia stato concluso all’esito di una trattativa che ha avuto ad oggetto tali specifiche pattuizioni; pertanto, la parte che ne assuma l’efficacia non può limitarsi ad allegare che il contratto sia stato oggetto di negoziazione, essendo necessaria l’assicurazione di “una contrattualità effettiva e non formale” al contraente più debole.

Sez. 4, n. 04190/2020, Negri Della Torre, Rv. 656930-01, ha invece preso in esame l’ipotesi di un patto aggiunto ad un contratto di agenzia avente carattere vessatorio, escludendone la necessità di specifica approvazione per iscritto, sul rilievo del fatto che il relativo regolamento negoziale non era riferito ad una platea indifferenziata di soggetti, ma solo agli agenti interessati, né risultava predisposto a mezzo di moduli o formulari.

3. L’interpretazione e l’integrazione del contratto: l’applicazione delle regole ermeneutiche.

Il ruolo del giudice nell’interpretazione del contratto, funzionale alla qualificazione dello stesso e, soprattutto, all’esatta individuazione del contenuto delle prestazioni che ne sono oggetto, ha costituito materia per alcune pronunzie di particolare interesse.

Fra queste, mette conto citare anzitutto Sez. U, n. 08434/2020, Cosentino, 657604-01.

Nella fattispecie, le Sezioni Unite erano state chiamate a pronunziarsi sulla questione di massima di particolare importanza circa la necessità del consenso di tutti i partecipanti, ai sensi dell’art. 1108, comma 3, c.c., per l’approvazione del contratto con il quale il condominio conceda una superficie comune in godimento ad un terzo, dietro corrispettivo, allo scopo precipuo di consentirgli l’installazione di infrastrutture ed impianti (quali, nel caso in esame, quelli necessari per l’esercizio del servizio di telefonia mobile).

In tal senso, e per i profili che qui occupano, la pronunzia muove dall’esigenza di appurare se un tale contratto costituisca, sul bene concesso in godimento, un diritto reale - con il che si renderebbe necessario il prescritto consenso unanime - ovvero un mero diritto personale.

Al quesito le Sezioni Unite hanno risposto osservando che il programma negoziale può astrattamente essere perseguito mediante entrambe le forme contrattuali, e hanno rilevato che la riconduzione dell’operazione concretamente dedotta in giudizio all’una o all’altra categoria rappresenta, per l’appunto, una questione di interpretazione contrattuale.

A tale riguardo, la decisione enuclea i criteri ermeneutici rilevanti, apportando anche indicazioni metodologiche in punto al corretto ricorso agli stessi: segnala, infatti, che il nomen juris adottato dalle parti è in sé non determinante “ma nemmeno del tutto trascurabile nel processo interpretativo”, ed evidenzia la necessità di tener conto anche di ulteriori elementi testuali, quali la previsione relativa alla durata, la disciplina negoziale della sorte del manufatto al momento della cessazione del rapporto, la determinazione del corrispettivo in forma unitaria o con canoni periodici, la regolazione degli obblighi del cessionario in ordine alla manutenzione della base della installazione, l’eventuale richiamo a specifici aspetti della disciplina delle locazioni non abitative; infine, sottolinea la possibile rilevanza di elementi extratestuali, come la forma dell’atto (rappresentando espressamente che la stipulazione per atto pubblico può essere valorizzata a favore della qualificazione dell’atto come contratto a effetti reali) e il comportamento delle parti, ad esempio laddove consistito nella decisione di trascrivere l’atto nei registri immobiliari pur se il diritto di utilizzazione della superficie sia stato concesso per una durata infranovennale.

Il rapporto fra criteri ermeneutici viene affrontato anche da Sez. 3, n. 10825/2020, Di Florio, Rv. 657966-01, concernente l’interpretazione del contratto di assicurazione; in tale ambito, caratterizzato dalla necessità che le clausole siano redatte in modo chiaro e comprensibile, ad eventuali espressioni polisense il giudice non può attribuire uno specifico significato, pur teoricamente non incompatibile con la loro lettera, senza prima ricorrere all’ausilio di tutti gli altri criteri interpretativi, fra i quali, in particolare, il criterio dell’interpretazione contra auctorem di cui all’art. 1370 c.c..

Alla corretta applicazione delle regole ermeneutiche fa riferimento anche Sez. 3, n. 17615/2020, De Stefano, Rv. 658686-01, nell’affrontare il tema della presupposizione; richiamato, infatti, l’insegnamento reso da Sez. U, n. 09909/2018, D’Ascola, Rv. 648129-01, secondo cui tale fattispecie ricorre quando una determinata situazione di fatto o di diritto può ritenersi implicitamente tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto condizionante il negozio, la Corte ha osservato che anche ai fini dell’individuazione di tale elemento “esterno” al contratto occorre aver riguardo al significato proprio del medesimo, alla stregua dei criteri legali d’interpretazione, che assumono valore determinante per il mantenimento del vincolo contrattuale.

Un significativo riferimento a detti criteri è infine contenuto in Sez. 2, n. 09379/2020, De Marzo, Rv. 657703-01, inerente ai rapporti fra vendita e donazione indiretta; la sentenza, dopo aver premesso che in quest’ultimo contratto - concluso senza il rispetto delle forme previste per la donazione, ma mosso da un fine di liberalità mediante l’arricchimento gratuito del beneficiario - l’animus donandi emerge solo in via indiretta dall’esame di tutte le circostanze del singolo caso, ha evidenziato che occorre in proposito fare ricorso ai criteri ermeneutici per selezionare gli elementi che di tale animus siano univocamente significativi.

La Corte ha pertanto cassato la sentenza d’appello che aveva riconosciuto in una vendita una donazione indiretta in base al fatto che la dazione del denaro era stata effettuata quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto dell’immobile, osservando che tale circostanza, in sé considerata, vale a distinguere la donazione indiretta dell’immobile da quella diretta del denaro elargito, ma non a significare la certa sussistenza dell’intento liberale nello schema apparente della vendita.

3.1. Minuta e puntuazione.

Il corretto ricorso ai criteri ermeneutici ha consentito anche una più netta demarcazione dei confini fra il perfezionamento dell’accordo e il mero raggiungimento di intese prodromiche allo stesso, definite dagli interpreti come minute o puntuazioni del contratto, e caratteristiche dei cd. contratti a formazione progressiva.

Si segnalano, al riguardo, due decisioni.

Con la prima di esse, Sez. 2, n. 02204/2020, Dongiacomo, 656858-01, la Corte ha precisato che nella nozione di minuta o puntuazione del contratto possono rientrare tanto i documenti che contengono intese parziali in ordine al futuro regolamento di interessi tra le parti (cd. puntuazione di clausole), quanto quelli dai quali derivi la predisposizione completa di un accordo negoziale, ancorché in funzione preparatoria del medesimo (cd. puntuazione completa di clausole).

Il primo caso denota una presunzione iniziale di mancato accordo, salva la dimostrazione concreta che l’accordo tra le parti ha ad oggetto solo le clausole documentate, mentre nel secondo caso è invece integrata una presunzione semplice di perfezionamento contrattuale, superabile dalla prova contraria del fatto che le parti non volessero effettivamente raggiungere un accordo.

In entrambi i casi, ha osservato la Corte, in presenza di un documento sottoscritto dalle parti e contenente la regolamentazione (parziale o completa) di un assetto di interessi negoziale, la parte che intenda superare tali presunzioni è tenuta ad evidenziare il fondamento del proprio assunto sulla base dell’intenzione manifestata dalle parti nella scrittura, così come interpretata secondo i criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c.

Con la seconda decisione - Sez. 3, n. 13610/2020, Dell’Utri, 658503-01 - la Corte ha invece affermato che nei contratti a formazione progressiva il momento perfezionativo coincide di regola con quello in cui tra le parti sia raggiunto l’accordo sugli elementi costitutivi, sia principali che secondari, salvo che le parti abbiano inteso considerare il contratto già definitivamente formato per l’ininfluenza dei punti ancora da definire. In tal caso, la minuta assurge a prova del contratto perfezionato qualora contenga l’indicazione dei suoi elementi essenziali e risulti che le parti abbiano voluto vincolarsi definitivamente anche in base al loro comportamento successivo, univocamente inteso a dare esecuzione all’accordo risultante dalla puntuazione.

3.2. Contenuto del contratto ed individuazione degli obblighi delle parti.

Non di minore importanza è la produzione giurisprudenziale che, in punto all’esatta individuazione dei rispettivi diritti ed obblighi negoziali, fa riferimento all’integrazione del contratto in base alle conseguenze che ne derivano secondo la legge o in conformità al principio di buona fede.

Sotto il primo profilo, Sez. 6-3, n. 09997/2020, Rossetti, Rv. 657746-01, ha confermato la decisione di merito nella parte in cui aveva affermato la responsabilità contrattuale del ristoratore per le ustioni procurate ad un cliente dalla pietanza bollente accidentalmente rovesciatagli addosso da un cameriere. Con la decisione, la Corte ha ritenuto che nel contratto di ristorazione (così come, del resto, in quello d’albergo o di trasporto), sull’erogatore della prestazione grava anche l’obbligo di garantire l’incolumità fisica dell’avventore, quale effetto naturale del negozio ex art. 1374 c.c. che deriva dalla necessaria applicazione dell’art. 32 Cost. anche ai rapporti fra privati.

Ancora, Sez. 3, n. 09714/2020, Olivieri, Rv. 657767-01, ha ritenuto che fra gli obblighi che sorgono a carico del personale di un centro di assistenza disabili per lo svolgimento di attività di terapia occupazionale va fatto rientrare anche quello di sorvegliare l’assistito in modo adeguato alle sue condizioni, onde prevenire eventi dannosi a suo carico, in quanto obbligo rientrante nel novero delle prestazioni necessarie a proteggere il soggetto disabile e dunque a salvaguardare la sua incolumità; in tal senso, la prova liberatoria dell’impossibilità oggettiva non imputabile, richiesta dall’art. 1218 c.c., non può essere fornita deducendo l’asserita eccezionalità di quelle ipotesi di rischio alle quali si intende provvedere proprio attraverso la prestazione contrattuale.

Con riferimento al secondo profilo, Sez. 3, n. 08494/2020, Scarano, Rv. 657806-01, ha osservato che la buona fede oggettiva, oltre che regola di comportamento ed interpretazione del contratto, è criterio di determinazione della prestazione contrattuale, imponendo il compimento di quanto necessario o utile a salvaguardare gli interessi della controparte, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio.

Su tale base, la sentenza ha ritenuto che l’avvocato sia obbligato a fornire al cliente le informazioni necessarie a consentirgli, se del caso, di valutare i rischi insiti nell’iniziativa giudiziale, con la conseguenza che l’omessa comunicazione all’assistito dell’interruzione del processo e della possibilità di riassunzione, al punto da fare decorrere il relativo termine massimo ed estinguere il giudizio, costituisce fonte di responsabilità per il professionista.

In termini non dissimili, Sez. 3, n. 03694/2020, Valle, Rv. 656900-01, ha poi individuato il contenuto degli obblighi del notaio, facendo ancora una volta riferimento alla buona fede integrativa.

La Corte, in particolare, ha ritenuto la responsabilità professionale del notaio che, dopo aver autenticato le firme della dichiarazione di vendita di una vettura, non aveva comunicato al venditore i dati anagrafici dell’acquirente, quantunque di ciò richiesto e munito del potere di rilasciare copia ed estratti dei documenti a lui esibiti; in questo caso, infatti, la buona fede oggettiva imponeva al professionista di porre in essere comportamenti comunque rientranti “nello spettro complessivo della prestazione pattuita”.

Sullo stesso, specifico, tema, Sez. 3, n. 25865/2020, Cirillo F.F.M., Rv. 659786-01, ha tuttavia specificato che l’ambito di responsabilità del notaio non può giungere a ricomprendere eventuali ipotesi di omessa informazione circa il merito dell’operazione economica in relazione alla quale egli abbia espletato le proprie attività; pertanto, ove richiesto di procedere alla stipula di un mutuo ipotecario funzionalmente collegato ad una vendita immobiliare, il notaio non è tenuto ad accertare la ragionevole possibilità di soddisfazione del credito in sede espropriativa per la banca mutuante, a fronte dell’inadempimento del mutuatario, avuto riguardo al valore effettivo del bene ipotecato rispetto a quello dichiarato.

3.3. Contenuto del contratto ed effetti nei confronti dei terzi.

L’esatta individuazione del contenuto del contratto assume rilievo anche in relazione agli effetti che ne possono derivare nei confronti dei terzi.

Può trattarsi, anzitutto, di effetti che concernono soggetti “protetti dal contratto”, legittimati ad invocare una responsabilità risarcitoria a carico della parte che non abbia correttamente eseguito le prestazioni da ritenersi esigibili a suo carico, in applicazione dei principi in tema di cd. contatto sociale.

A questo proposito, va segnalata Sez. 3, n. 07746/2020, Guizzi, Rv. 657617-01, inerente agli obblighi professionali del notaio richiesto di autenticare una procura a vendere.

Con tale decisione, la Corte ha affermato che il difetto di diligenza nell’identificazione del soggetto che rilascia la procura, in vista del successivo contratto traslativo, espone il professionista ad una responsabilità anche nei confronti dell’aspirante compratore, pur se formalmente estraneo al contratto d’opera; infatti, nel predisporre un atto prodromico ad una successiva stipulazione, il notaio pone in essere un comportamento fonte di obblighi ai sensi dell’art. 1375 c.c. anche nei confronti del predetto terzo, titolare dell’interesse la cui tutela ha costituito la ragione del ricorso ai suoi poteri certificativi.

La natura di “terzi protetti dal contratto” è stata invece esclusa da Sez. 3, n. 14258/2020, Guizzi, Rv. 658316-01, con riferimento ai congiunti di un paziente deceduto presso una struttura psichiatrica a causa dell’omessa vigilanza da parte del personale, i quali avevano formulato domanda di risarcimento dei danni patiti iure proprio per la lesione del rapporto parentale.

La Corte ha escluso la natura contrattuale del diritto risarcitorio, osservando che il rapporto negoziale è intercorso solo tra la struttura ed il ricoverato, e che i congiunti non possono essere qualificati come “terzi protetti” in difetto di una stretta connessione fra l’interesse del quale essi sono portatori e quello regolato sul piano della programmazione negoziale. L’obbligo risarcitorio della struttura, pertanto, potrà al più essere inquadrato nell’ambito della responsabilità da fatto illecito.

4. La buona fede nell’esecuzione del contratto.

Al tema della buona fede nell’esecuzione del contratto sono dedicate numerose pronunzie.

Si tratta, in particolare, di decisioni che - collocandosi nel solco dei principi affermati dalla Suprema Corte negli ultimi anni, quanto al contenuto del dovere di buona fede ed alla sua riconducibilità al criterio solidaristico di cui all’art. 2 Cost. - hanno preso in esame le conseguenze della relativa violazione nell’ottica della complessiva valutazione del comportamento delle parti, coessenziale ai giudizi che traggono origine da un inadempimento.

Richiamando quanto affermato, in punto all’operatività del principio di buona fede nei rapporti fra intermediario finanziario ed investitore, da Sez. U, n. 28314/2019, Acierno, Rv. 655800-01, in particolare quanto al diritto dell’intermediario di opporre l’eccezione di buona fede ad una domanda di “nullità selettiva” del risparmiatore che sia diretta a colpire soltanto alcuni ordini di acquisto, con ingiustificato sacrificio economico a danno del primo, Sez. 1, n. 10505/2020, Scotti, Rv. 657894-01, ha specificato che in tal caso le cedole medio tempore riscosse dall’investitore non vengono in considerazione né come oggetto di un’eventuale azione di ripetizione di indebito (nelle specie, ob causam finitam), né quali frutti civili che l’accipiens è tenuto a restituire, ma rilevano solo come limite quantitativo all’efficace esperimento della domanda di indebito esperita dall’investitore.

Le conseguenze risarcitorie della violazione del dovere di buona fede sono poi prese in considerazione da Sez. 3, n. 10549/2020, Olivieri, Rv. 658016-02.

La Corte, dopo aver ribadito che tale condotta può integrare diretta violazione degli obblighi contrattuali, comportando il risarcimento del danno patrimoniale di cui all’art. 1223 c.c., l’ha ritenuta sussistente nell’illegittimo esercizio del diritto di recesso da parte del concedente, idoneo a ledere l’incolpevole aspettativa del concessionario ad una maggiore durata del rapporto, ingenerata dalla precedente richiesta di controparte di realizzare ulteriori investimenti, sì da consentire anche il riconoscimento del lucro cessante per mancato utile, commisurato al fatturato che la concessionaria avrebbe realizzato se tale aspettativa fosse stata soddisfatta.

Il principio di buona fede rileva anche nella concreta determinazione delle conseguenze dell’inadempimento.

Sez. 3, n. 11908/2020, Rubino, Rv. 658162-01, ha infatti statuito che il giudice, nell’esercizio del suo potere di riduzione della penale, non deve valutare l’interesse del creditore esclusivamente al momento della stipulazione della clausola (come parrebbe indicare l’art. 1384 c.c., riferendosi all’interesse che il creditore “aveva” all’adempimento), ma altresì con riguardo al successivo momento dell’inadempimento; anche nella fase attuativa del rapporto, infatti, trovano applicazione i principi di solidarietà, correttezza e buona fede, cui l’istituto della riduzione si conforma, dovendosi intendere, quindi, che la lettera dell’art. 1384 c.c., comporti anche di tener conto delle circostanze manifestatesi durante lo svolgimento del rapporto.

Ancora, Sez. 2, n. 10324/2020, Giannaccari, Rv. 658010-01, ha sottolineato come il principio di buona fede debba fungere da criterio per valutare se l’esercizio della facoltà di recesso ad nutum, attribuita in contratto ad una delle parti, sia stato legittimamente effettuato.

Secondo la Corte, infatti, la mancanza della buona fede nell’esecuzione del contratto può rivelare un abuso del diritto, ossia un esercizio del diritto volto a conseguire fini diversi da quelli per i quali esso è stato conferito; in tal senso, il giudice di merito è dunque tenuto a contemperare i diritti e gli interessi delle parti in causa, in una prospettiva di equilibrio e di correttezza dei comportamenti economici.

Infine, sul tema - ampiamente visitato dalla giurisprudenza degli ultimi anni - del dovere di buona fede in pendenza di condizione, Sez. 2, n. 18464/2020, Criscuolo, Rv. 659103-01, ha precisato che nel contesto di un preliminare di compravendita immobiliare sottoposto alla condizione risolutiva del mancato rilascio del permesso di costruire secondo le attese potenzialità edificatorie, entrambe le parti sono tenute a comportarsi secondo buona fede; non è solo il promittente alienante, pertanto, a dover porre in essere tutti gli atti necessari per l’ottenimento del permesso, ma anche il promittente acquirente deve improntare la sua condotta a favorire la conservazione del contratto.

5. Clausola penale e caparra.

Due decisioni di rilievo hanno riguardato l’esercizio del potere di reductio ad aequitatem della clausola da parte del giudice del merito.

Sez. 6-2, n. 11439/2020, Falaschi, Rv. 658210-01, ha osservato che detto potere, in quanto volto a tutelare l’interesse generale dell’ordinamento ad assicurare l’equilibrio contrattuale, può essere esercitato officiosamente anche quando la penale è prevista a favore della P.A. da disposizioni di capitolati generali, recepite nel contratto stipulato con il privato, la cui disapplicazione - per contrasto con il precetto inderogabile dettato dall’art. 1384 c.c. - postula tuttavia che sia stata dimostrata l’eccessività della penale.

Sez. 2, n. 17715/2020, Bellini, Rv. 658941-01, ne ha invece esclusa l’applicazione per l’ipotesi di caparra confirmatoria, sia in considerazione del carattere eccezionale dell’art. 1384 c.c., che ne preclude l’applicazione analogica, sia per la differenza strutturale fra la penale e tale istituto; esso, infatti, quantunque assolva alla funzione di liquidare preventivamente il danno da inadempimento, svolge l’ulteriore funzione di anticipato parziale pagamento per l’ipotesi di adempimento.

Desta infine interesse, per i suoi profili concernenti la disciplina del mutuo bancario, Sez. 3, n. 09237/2020, Cricenti, Rv. 657782-01.

Tale pronunzia riguarda infatti l’ipotesi in cui, nell’ambito del tipo negoziale in questione, la funzione della penale sia assolta dalla previsione di interessi di mora.

La Corte, dopo aver premesso che questi ultimi vanno necessariamente assoggettati alla disciplina antiusura - con conseguente necessario contenimento del saggio entro i limiti del tasso-soglia di cui all’art. 2 della l. n. 108 del 1996, successivamente ribadito da Sez. U, n. 19597/2020, Nazzicone, Rv. 658833-01, - ha ritenuto che tanto non vada tuttavia esteso alla pattuizione concernente gli interessi corrispettivi; questi ultimi, infatti, pur avendo l’analoga funzione remunerativa del mutuante, non coesistono nell’attuazione del rapporto con gli interessi moratori, che ad essi succedono, sostituendoli dopo la scadenza del termine per la restituzione della somma, mantenendo la loro autonomia e la conseguente non cumulabilità ai fini del calcolo del loro ammontare.

6. Il contratto concluso dal rappresentante.

In tema di rappresentanza, si segnalano due pronunzie di particolare rilievo.

Sez. 6-2, n. 15454/2020, Casadonte, Rv. 658732-01, ha affermato il principio in base al quale, nell’ipotesi di contratto concluso dal rappresentante, ove il rappresentato contesti l’esistenza del relativo potere in capo a colui che ha agito in suo nome, spetta al terzo contraente - il quale pretenda di addossare sul rappresentato gli effetti del contratto concluso a suo nome - la prova dell’esistenza di tale potere.

Per l’ipotesi di contratto concluso in difetto di poteri, Sez. 3, n. 13855/2020, Guizzi, Rv. 658302-01, ha poi specificato che, ove il contratto sia soggetto ad onere formale ad probationem tantum, la relativa ratifica da parte del falso rappresentato può avvenire anche in modo tacito, purché risultante da atti scritti; la Corte ha pertanto ritenuto la transazione intervenuta fra una compagnia di assicurazione ed il falsus procurator del danneggiato validamente ratificata da una quietanza sottoscritta da quest’ultimo, contenente abdicazione a qualsivoglia iniziativa giudiziale relativa all’evento dannoso e seguita dalla riscossione di una somma “a saldo” documentata dalla ricevuta di versamento di una banca.

7. La nullità e la simulazione: la nullità per contrarietà a norme imperative.

Il tema della nullità cd. virtuale è stato affrontato da due pronunzie che hanno riguardato ipotesi nelle quali la contrarietà a norme imperative concerneva singole clausole, e non l’intero contratto.

Sez. 3, n. 00525/2020, Cricenti, Rv. 656582-02, si è richiamata al principio, affermato - fra le altre - da Sez. U, n. 26724/2007, Rordorf, Rv. 600330-01, in base al quale la violazione di disposizioni inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità unicamente ove non sia altrimenti stabilito dalla legge; su tale presupposto, la pronunzia ha ritenuto che l’esito invalidante vada escluso sia quando risulti indicata una differente forma di invalidità (quale, ad esempio, l’annullabilità), sia quando la legge assicura l’effettività della norma imperativa con la previsione di rimedi diversi.

Nella specie, pertanto, la Corte ha confermato la sentenza d’appello che aveva rigettato la domanda di nullità del contratto di vendita di un immobile per violazione delle disposizioni antiriciclaggio di cui alla l. n. 231 del 2007, stante il dedotto pattuito pagamento del prezzo in contanti, ritenendo non applicabile l’art. 1418 c.c. poiché l’infrazione contestata era sanzionata in via amministrativa.

Alla nullità parziale per contrarietà a norme imperative è poi dedicata Sez. 1, n. 09140/2020, Falabella, Rv. 657637-01, che ha riguardato l’ipotesi di clausole anatocistiche contenute in un contratto di conto corrente concluso prima dell’entrata in vigore della delibera CICR 9 febbraio 2000.

Con tale decisione, la Corte ha osservato che, dopo la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 25, comma 3, del d.lgs. n. 342 del 1999, dette clausole sono radicalmente nulle e non può dunque procedersi al giudizio di comparazione previsto dall’art. 7, comma 2, della citata delibera al fine di verificare se le nuove pattuizioni abbiano o meno comportato un peggioramento di quelle previgenti; pertanto, la valida introduzione, in tali contratti, di una nuova clausola di capitalizzazione degli interessi ne impone l’espressa pattuizione, formulata nel rispetto dell’art. 2 della delibera.

Sez. 2, n. 17959/2020, Varrone, Rv. 658946-01, ha invece riguardato l’ipotesi del cd. reato in contratto, ovvero del contratto stipulato per effetto diretto di una condotta criminosa, costituito - nella specie - da una vendita immobiliare conclusa dalla vittima di un fatto estorsivo.

La Corte ha ritenuto che in tali casi sussista non già una mera annullabilità del contratto per vizio del consenso, bensì una sua radicale nullità, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, che discende dalla violazione di disposizioni di ordine pubblico; le esigenze d’interesse collettivo sottese alla tutela penale, ed in particolare l’inviolabilità del patrimonio e della libertà personale, trascendono, in queste ipotesi, quelle di mera salvaguardia patrimoniale dei singoli contraenti, perseguite dalla disciplina che regola, sul piano negoziale, gli effetti di un consenso viziato.

7.1. Nullità e simulazione: aspetti processuali.

Di particolare interesse, al solito, è il nucleo di pronunzie che hanno riguardato il rilievo officioso della nullità del contratto, nel solco dei principi affermati per la prima volta, al riguardo, dalla nota Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 635507-01.

Sez. 2, n. 20870/2020, Cosentino, Rv. 659207-01, sgombra il campo dall’ipotesi che con tale decisione le Sezioni Unite abbiano svincolato la deduzione della nullità contrattuale dalle ordinarie preclusioni processuali, non solo assertive ma anche istruttorie; vi si afferma, infatti, che la pronunzia ha consentito di interpretare l’art. 101, comma 2, c.p.c. in termini che consentono alle parti di proporre domande di nullità e spiegare la conseguente attività probatoria sino alla precisazione delle conclusioni, ma soltanto alla condizione che vi sia stata una previa rilevazione officiosa di tale nullità. In tal senso, precisa la Corte, la deroga chiarisce i suoi limiti, sì da non travolgere le regole processuali.

Per l’ipotesi nella quale il rilievo officioso della nullità sia operato dal giudice d’appello, in conseguenza di un’eccezione sollevata per la prima volta in sede di gravame, Sez. 6-1, n. 19161/2020, Falabella, Rv. 658837-01, ha ritenuto che - ferma la procedibilità del rilievo per il caso di nullità cd. di protezione - non sussista alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c. ove l’eccezione proposta per la prima volta in sede d’appello sia qualificabile come eccezione in senso lato, e dunque ammissibile a norma dell’art. 345, comma 2, c.p.c.

Sez. 2, n. 02670/2020, Abete, Rv. 657090-02, ha invece riguardato i limiti alla proponibilità dell’actio nullitatis da parte del terzo, con riferimento all’interesse ad agire; nella specie, la Corte ha osservato che, mentre per i contraenti l’interesse deve ritenersi sussistente in re ipsa, in dipendenza dell’attitudine del contratto di cui è invocata la nullità ad incidere nella loro sfera giuridica, il terzo ha l’onere di dimostrare la sussistenza di un proprio concreto interesse alla declaratoria di nullità, per la configurazione del quale, nel caso di specie, è stata ritenuta appagante l’allegazione dell’esistenza di un contratto collegato, avvinto a quello principale dalla prospettiva unificatrice della cd. causa in concreto.

In relazione alla simulazione, invece, le pronunzie di maggior rilievo concernono il tema della prova.

Circa la prova dell’accordo simulatorio, Sez. 2, n. 12639/2020, De Marzo, Rv. 658274-01, ha ritenuto che, ove tale ultimo sia ipotizzato nel rapporto fra l’emittente ed il destinatario di una quietanza, la stessa possa evincersi dal fatto che la quietanza non corrisponde ad una determinazione unilaterale del creditore, apparendo invece destinata a rendere ostensibile ai terzi l’attestazione dell’avvenuto pagamento.

In tal modo, infatti, la quietanza riflette una programmazione negoziale, vale a dire un accordo tra creditore e debitore, diretta a porre in essere solo apparentemente il negozio confessorio.

Sullo stesso specifico tema, Sez. 2, n. 17740/2020, Falaschi, Rv. 658942-01, ha affermato che nell’ipotesi in cui la prova della simulazione assoluta del contratto sia stata ricavata dall’esame di elementi documentali, quali la controdichiarazione, mentre siano stati aliunde evinti i fini pratici contingenti perseguiti dalle parti (ad esempio attraverso un’indagine presuntiva), quest’ultimo elemento assume unicamente il carattere di riscontro esterno del convincimento attinto circa la nullità del negozio, sicché la relativa contestazione non giova a sovvertire il giudizio di sussistenza dell’accordo simulatorio, poiché non ne intacca la ratio decidendi.

Infine, per lo specifico settore delle locazioni immobiliari, Sez. 3, n. 09672/2020, Positano, Rv. 657846-01, ha ritenuto ammissibile la prova testimoniale nell’ambito del giudizio volto a far valere l’illiceità dell’accordo dissimulato che preveda un canone superiore rispetto a quello risultante dal contratto registrato quando vi sia un principio di prova per iscritto (ex art. 2724, comma 1, n. 1, c.c.) che conferisca alla testimonianza riscontro probatorio documentale presuntivo.

8. L’inadempimento e i rimedi caducatori: gravità dell’inadempimento e fattispecie di risoluzione stragiudiziale.

In ordine ai criteri che sovraintendono alla valutazione di non scarsa importanza dell’inadempimento, nell’ottica della pronunzia risolutoria del contratto, Sez. 1, n. 10496/2020, Iofrida, Rv. 658048-01, ha specificato che nei contratti sinallagmatici il giudice deve tener conto del complessivo comportamento delle parti, dell’economia generale del rapporto e del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto; su quest’ultimo criterio, in particolare, si fonda una valutazione di proporzionalità dell’inadempimento, alla quale il giudice deve necessariamente procedere avendo riguardo alla volontà manifestata dai contraenti, alla natura e alla finalità del rapporto, nonché al concreto interesse della parte non inadempiente all’esatta e tempestiva prestazione.

Sullo stesso tema, Sez. 1, n. 08212/2020, Federico, Rv. 657629-01, ha fatto buon governo - in materia di intermediazione finanziaria - della regola, più volte affermata dalla giurisprudenza di legittimità, in base alla quale la valutazione di gravità dell’inadempimento ex art. 1455 c.c. va sempre commisurata all’interesse che la parte adempiente aveva o avrebbe potuto avere alla regolare esecuzione del negozio; su tale base, infatti, la Corte ha cassato la sentenza d’appello che aveva escluso l’importanza dell’inadempimento dell’intermediario - consistito nella violazione degli obblighi informativi concernenti le caratteristiche di rischiosità dell’investimento - in quanto, a distanza di alcuni anni, i risparmiatori avevano effettuato un nuovo ordinativo del medesimo prodotto finanziario.

Alcune sentenze hanno poi riguardato l’operatività dei meccanismi di risoluzione stragiudiziale.

Fra le decisioni di maggior rilievo si segnala Sez. 2, n. 00787/2020, Tedesco, Rv. 656836-01, in tema di clausola risolutiva espressa.

La pronunzia, pur ribadendo che in tal caso la valutazione di gravità dell’inadempimento, tale da legittimare la risoluzione del contratto, è compiuta ex ante dalle parti, ha precisato che la condizione essenziale dell’inadempimento, in sé considerato, difetta radicalmente ove prevista a carico del promissario acquirente di un immobile oggetto di contratto preliminare di vendita da parte di un soggetto che non sia proprietario del bene; a detta fattispecie, infatti, non si applica l’art. 1479, comma 1, c.c. poiché, indipendentemente dalla conoscenza - da parte del promissario compratore - dell’altruità del bene, il promittente venditore può adempiere all’obbligo di procurargliene l’acquisto fino alla scadenza del termine per stipulare il contratto definitivo.

Il promissario acquirente non può così considerarsi inadempiente se, nonostante la maturazione del termine previsto per la stipula del definitivo, il promittente venditore non sia ancora proprietario del bene; in tale situazione, pertanto, quest’ultimo non può avvalersi della clausola risolutiva espressa eventualmente pattuita per il caso di inutile decorso del termine.

In tema di diffida ad adempiere, Sez. 1, n. 08943/2020, Falabella, Rv. 657906-02, ha specificato che la fissazione al debitore di un termine per l’adempimento inferiore ai quindici giorni trova fondamento solo in presenza delle condizioni di cui all’art. 1454, comma 2, c.c., ovvero allorché ricorra una specifica previsione derogatoria o quando il termine abbreviato sia congruo rispetto alla natura del contratto o agli usi.

Nella specie, la Corte ha pertanto cassato la sentenza impugnata che aveva attribuito rilievo, ai fini della valutazione di congruità del termine ridotto, al fatto che sulla base di una propria precedente missiva il debitore era già risultato inadempiente e non aveva contestato il termine assegnatogli per adempiere.

8.1. Il diritto di recesso.

Le pronunzie di maggior rilievo in punto al recesso quale conseguenza dell’altrui inadempimento si appuntano sulle distinzioni fra detto istituto - ove previsto dalla legge o dal regolamento contrattuale - ed il più generale rimedio risolutorio.

Sez. 6-1, n. 22429/2020, Dolmetta, Rv. 659009-01, contiene importanti indicazioni sui requisiti per l’operatività del diritto di recesso nell’ambito dei cd. impegni di garanzia, intesi - secondo il riferimento ad ipotesi di amplissimo riscontro nella pratica - come obblighi di garanzia di risultato, dei quali fanno parte, ad esempio, la garanzia per evizione (artt. 1483 ss. c.c.), quella della veritas nominis in ipotesi di cessione dei crediti (art. 1266 c.c.) ovvero, nel contesto degli obblighi di fonte negoziale, la garanzia di buon funzionamento cui si riferisce l’art. 1512 c.c.

In tali casi, ha precisato la Corte, il recesso opera su un piano meramente obiettivo, indipendentemente dalla prova dell’inadempimento, avuto riguardo al fatto che la garanzia opera a prescindere dalla colpa di chi abbia promesso il risultato non raggiunto; pertanto, laddove una delle parti di un contratto preliminare si sia impegnata ad assicurare un determinato risultato inerente al bene oggetto di pattuizione, è legittimo il recesso dell’altra parte sulla sola base del previsto fatto oggettivo.

Due pronunzie si innestano, invece, sull’ormai annosa questione della compatibilità strutturale e funzionale fra i due rimedi, inizialmente risolta - in senso negativo - da Sez. U, n. 00553/2009, Travaglino, Rv. 606608-01, cui tuttavia ha fatto seguito un atteggiamento tutt’altro che univoco da parte della giurisprudenza della Suprema Corte.

Nel solco della decisione delle Sezioni Unite si colloca Sez. 6-2, n. 21971/2020, Oliva, Rv. 659397-01, secondo cui occorre aver rilievo alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso, all’irrinunciabilità dell’effetto conseguente alla risoluzione di diritto ed all’incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento.

Si attesta, invece, nel senso della compatibilità fra i due rimedi Sez. 2, n. 08048/2020, Criscuolo, Rv. 657606-01, ove il principio assunto a riferimento è quello (affermato da Sez. 2, n. 00882/2018, Giusti, Rv. 646669-02) in base al quale la parte non inadempiente che abbia agito per l’esecuzione del contratto può, in sostituzione dell’originaria pretesa, legittimamente domandarne il recesso nel corso del giudizio, senza incorrere nelle preclusioni derivanti dalla proposizione dei nova, poiché tale modificazione dell’originaria istanza costituisce legittimo esercizio di un perdurante diritto di recesso rispetto alla domanda di adempimento; di tale principio, la sentenza ritiene di dover fare applicazione anche nel caso in cui la parte abbia agito in origine per la risoluzione del contratto, atteso “il carattere alternativo del recesso ex art. 1385 c.c. rispetto all’ordinaria azione di risoluzione”.

8.2. Rimedi caducatori ed eccezione di inadempimento: profili processuali.

Le considerazioni inerenti al rapporto fra risoluzione e recesso introducono l’ultimo tema in esame, concernente i profili processuali che contraddistinguono l’operatività di tali rimedi, nonché dell’exceptio inadempleti contractus volta a paralizzarli.

In relazione alla domanda di risoluzione del contratto, Sez. 2, n. 19513/2020, Abete, Rv. 659132-01, ha osservato che essa non deve necessariamente risultare da un’espressa petizione, ben potendo essere implicitamente contenuta in un’altra domanda, eccezione o richiesta, sia pure di diverso contenuto, che la presupponga; nella specie, la Corte ha pertanto escluso che, nell’ambito di una compravendita immobiliare, la domanda di ripetizione degli acconti già versati contenesse implicitamente quella di risoluzione, trattandosi di richiesta compatibile con la domanda di riduzione del corrispettivo, avuto riguardo al fatto che era stata lamentata la presenza di vizi in capo alla cosa venduta.

Circa i rapporti fra azione di risoluzione e domanda di accertamento dell’avvenuta risoluzione stragiudiziale del contratto, Sez. 2, n. 23193/2020, Criscuolo, Rv. 659406-01, ha affermato che nella proposizione di una domanda di risoluzione di diritto per l’inosservanza di una diffida ad adempiere può ritenersi implicita, in quanto di contenuto minore, anche quella di risoluzione giudiziale di cui all’art. 1453 c.c.; non altrettanto può dirsi, invece, nell’ipotesi inversa, poiché la sola proposizione della domanda di risoluzione giudiziale preclude l’esame di quella di risoluzione di diritto, salvo che i fatti su cui la prima si fonda siano stati allegati in funzione di un proprio effetto risolutivo.

Sul tema delle eccezioni, la Corte ha affermato che laddove la parte inadempiente deduca la non imputabilità dell’inadempimento si è in presenza non già di una mera difesa, ma di un’eccezione in senso lato; conseguentemente, ha specificato Sez. 6-3, n. 12980/2020, Iannello, Rv. 658372-01, si tratta di questione rilevabile d’ufficio e non soggetta alla decadenza ex art. 167 c.p.c., sempreché il fatto emerga dagli atti, dai documenti o dalle altre prove ritualmente acquisite al processo.

Sez. 2, n. 12714/2020, De Marzo, Rv. 658892-01, ha svolto considerazioni non dissimili quanto all’eccezione di inadempimento, osservando che essa può essere dedotta per la prima volta in sede giudiziale, quand’anche non sia stata sollevata in precedenza per rifiutare motivatamente l’adempimento chiesto dalla controparte, non ponendo l’art. 1460 c.c. alcuna limitazione temporale o modale alla sua esperibilità, salva l’ipotesi di termini differenziati di adempimento, né essendo l’esercizio della facoltà di sospendere l’esecuzione del contratto, a fronte del grave inadempimento della controparte, subordinato ad alcuna condizione.

Laddove, infine, la domanda di risoluzione sia stata respinta, non è precluso all’interessato il diritto di agire per l’esatto adempimento del contratto; Sez. 2, n. 12637/2020, San Giorgio, Rv. 658273-01, ha affermato, in proposito, che il divieto posto sul punto dall’art. 1453 c.c. non ha più ragion d’essere, giacché rimane in vita il vincolo contrattuale facendo risorgere l’interesse all’esecuzione della prestazione, con inizio di un nuovo termine di prescrizione del diritto di chiedere l’adempimento.

Quando, tuttavia, sull’infondatezza della pretesa risolutoria si è formato il giudicato, la parte non inadempiente non può proporre una nuova domanda di risoluzione fondata su altri inadempimenti, conosciuti o conoscibili alla data di proposizione della prima domanda e non fatti valere con essa; sul punto, Sez. 3, n. 04003/2020, Sestini, Rv. 656906-01, ha infatti rilevato che il giudicato sulla domanda copre il dedotto e il deducibile.

  • garanzia di credito
  • gioco d'azzardo
  • contratto
  • contratto assicurativo
  • mandato
  • contratto di appalto previa trattativa privata
  • contratto di trasporto
  • assicurazione obbligatoria
  • responsabilità contrattuale
  • prescrizione dell'azione
  • transazione finanziaria
  • contratto di locazione
  • vendita
  • agricoltura contrattuale

CAPITOLO IX

I SINGOLI CONTRATTI

(di Stefania Billi e Stefano Pepe )

Sommario

1 Il contratto di appalto privato. - 1.1 Rapporti tra le ipotesi di responsabilità contrattuale e extracontrattuale. - 1.2 La responsabilità verso terzi. - 2 Profili del contratto di assicurazione e questioni interpretative. - 2.1 Vizi del sinallagma e aspetti processuali. - 2.2 Disciplina della prescrizione. - 2.3 L’assicurazione obbligatoria r.c.a. - 3 Il comodato. - 3.1 Il comodato, aspetti processuali. - 4 I contratti agrari. - 5 La tutela del credito, tra garanzie tipiche e atipiche o improprie. - 6 La locazione: differenza tra affitto e locazione, aspetti sostanziali e processuali. - 6.1 Locazione e la novazione del rapporto, presupposti. - 6.2 Il sinallagma contrattuale. - 6.3 Indennità di avviamento. - 6.4 Le obbligazioni del locatore. - 6.5 Le obbligazioni del conduttore, restituzione della cosa locata. - 6.6 Locazione non abitativa: la denuntiatio, presupposti. - 6.7 La risoluzione per inadempimento del conduttore, risarcimento danno per il locatore, quantificazione. - 6.8 Locazione di immobile ad uso non abitativo, affitto di azienda: differenze. - 7 Il mandato. - 8 La mediazione. - 9 La transazione. - 10 Il trasporto. - 11 La vendita: premessa. - 11.1 I diversi tipi. - 11.2 I vizi e le difformità. - 11.3 Il concorso dei danni e altri profili processuali. - 11.4 Il contratto preliminare. - 12 Il giuoco e la scommessa.

1. Il contratto di appalto privato.

Con riferimento ai requisiti del contratto di appalto privato la Corte (Sez. 2, n. 00133/2020, Falaschi, Rv. 656356-01) si è occupata dei limiti di determinatezza dell’oggetto che esso deve contenere. Nella fattispecie il Tribunale di Ascoli Piceno aveva rigettato la domanda proposta da un soggetto volta ad ottenere la risoluzione del contratto di appalto stipulato con un appaltatore per inadempimento di quest’ultimo all’obbligazione di realizzazione dei muri di sostegno come contrattualmente previsto. A fondamento della decisione il giudice di primo grado rilevava che nessuna obbligazione di realizzazione dei muri di sostegno poteva ritenersi sorta in capo all’appaltatore per non essere l’oggetto del contratto sul punto fornito del necessario requisito della determinatezza e/o determinabilità, giacché dalla lettura del contratto non veniva individuata né la collocazione né la conformazione di siffatte pareti.

La Corte d’Appello confermava la sentenza di primo grado e la relativa sentenza veniva cassata dalla Corte di cassazione sul rilievo che dal contratto era evincibile l’oggetto dell’appalto.

In proposito, il Collegio ha osservato che per la determinazione dell’oggetto del contratto di appalto non è necessario che l’opera sia specificata in tutti i suoi particolari, ma è sufficiente che ne siano fissati gli elementi fondamentali. Ne consegue che le eventuali deficienze ed inesattezze riguardanti taluni elementi costruttivi non costituiscono causa di nullità del contratto quando non siano rilevanti ai fini della realizzazione dell’opera e consentano una agevole individuazione della stessa, nella sua consistenza qualitativa e quantitativa, mediante il ricorso ai criteri generali della buona tecnica costruttiva e alle cosiddette regole d’arte, le quali devono adeguarsi alle esigenze e agli scopi cui l’opera e destinata. Alla stregua di tali principi, nella specie, ai fini dell’identificazione dell’oggetto della prestazione non era indispensabile che le parti indicassero, in modo completo e dettagliato, la distanza dal fabbricato dei muri e l’entità dello sbancamento del terreno, risultando sufficiente* l’accordo delle parti sugli elementi essenziali in merito alla collocazione (confini nord ed est del fabbricato) e alla conformazione dei muri di sostegno idonei a consentire in modo inequivoco l’identificazione dell’obbligazione.

Con riferimento alla diversa fase dell’esecuzione del contratto di appalto privato merita di essere segnalata la sentenza Sez. 2, n. 10452/2020, San Giorgio, Rv. 657792-01, che ha fornito l’interpretazione dell’art. 1665 c.c. e, quindi, ne ha delimitato l’ambito operativo.

In particolare, la Corte nel confermare la sentenza di merito censurata, ha affermato che, in tema di appalto, ai sensi dell’art. 1665, quarto comma, c.c., occorre distinguere tra atto di «consegna» e atto di «accettazione» dell’opera: la consegna costituisce un atto puramente materiale che si compie mediante la messa a disposizione del bene a favore del committente, mentre l’accettazione esige che il committente esprima (anche per facta concludentia) il gradimento dell’opera stessa, con conseguente manifestazione negoziale che comporta effetti ben determinati, quali l’esonero dell’appaltatore da ogni responsabilità per i vizi e le difformità dell’opera ed il conseguente suo diritto al pagamento del prezzo. L’art. 1665 c.c., prosegue il Collegio, poi, pur non enunciando la nozione di accettazione tacita dell’opera, indica i fatti e i comportamenti dai quali deve presumersi la sussistenza dell’accettazione da parte del committente e, in particolare, al quarto comma, prevede come presupposto dell’accettazione (da qualificare come tacita) la consegna dell’opera al committente (alla quale è parificabile l’immissione nel possesso) e come fatto concludente la ricezione senza riserve da parte di quest’ultimo, anche se non si sia proceduto alla verifica.

Alla luce di tali premesse, precisato che la valutazione di tali circostanze costituisce una quaestio facti, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la Corte ha affermato che la Corte d’Appello investita della questione aveva ritenuto configurabile quale accettazione dell’opera non già la mera circostanza della presa in consegna della stessa, «sebbene tale circostanza unita a quella dell’avvenuto pagamento da parte della committenza della somma dovuta, ivi compreso lo svincolo delle somme ritenute a garanzia».

1.1. Rapporti tra le ipotesi di responsabilità contrattuale e extracontrattuale.

Ai fini dell’individuazione dell’ambito applicativo delle norme che disciplinano le ipotesi di responsabilità nel caso di contratto di appalto privato appare opportuno segnalare, con riferimento alla portata dell’art. 1669 c.c., la Sez. 2, n. 00777/2020, Scalisi, Rv. 656833-02.

Con tale pronuncia la Corte ha analizzato diversi aspetti della disciplina di cui alla norma sopra indicata.

In particolare, il Collegio ha, dapprima, affermato che l’azione di responsabilità prevista dall’art. 1669 c.c. configura una responsabilità extracontrattuale di ordine pubblico, sancita per finalità d’interesse generale, ed è esperibile contro ogni costruttore, per tale intendendosi chi abbia costruito l’ immobile sotto la propria responsabilità, senza che abbia rilievo la specifica identificazione del rapporto giuridico (appalto o contratto d’opera) in base al quale la costruzione è stata effettuata.

La Corte ha, poi, osservato che configurano gravi difetti dell’edificio, ex art. 1669 c.c. anche le carenze costruttive dell’opera - da intendere anche come singola unità abitativa - che pregiudicano o menomano in modo grave il normale godimento e/o la funzionalità e/o l’abitabilità della medesima, come, allorché, la realizzazione è avvenuta con materiali inidonei e/o non a regola d’arte ed, anche, se incidenti su elementi secondari ed accessori dell’opera (quali impermeabilizzazione, rivestimenti, infissi, pavimentazione, impianti, etc.), purché tali da compromettere la sua funzionalità e l’abitabilità ed eliminabili solo con lavori di manutenzione, ancorché ordinaria, e, cioè, mediante opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici o che mediante opere che integrano o mantengono in efficienza gli impianti tecnologici installati.

Infine, nella medesima sentenza si è affermato che il dies a quo della decadenza del termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti della costruzione di un immobile, previsto dall’art. 1669 c.c. a pena di decadenza dall’azione di responsabilità contro l’appaltatore, decorre dal giorno in cui il committente consegua un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall’imperfetta esecuzione dell’opera - nel caso di specie individuato nella data del deposito della relazione del consulente, nominato in sede di accertamento tecnico preventivo - non essendo sufficienti, viceversa, manifestazioni di scarsa rilevanza e semplici sospetti; accertamento che è rimesso al giudice di merito.

Sempre con riferimento all’art. 1669 c.c. la Sez. 2, n. 20877/2020, Dongiacomo, Rv. 659208-01, ha, poi, precisato, che la garanzia da esso prevista può essere esercitata, non solo dal committente contro l’appaltatore, ma anche dall’acquirente contro il venditore che abbia costruito l’immobile sotto la propria responsabilità, allorché lo stesso venditore abbia assunto una posizione di diretta responsabilità nella costruzione dell’opera nei confronti dei terzi e degli stessi acquirenti e sempre che si tratti di difetti gravi che pregiudichino il grave godimento o la funzionalità dell’immobile.

In particolare, la Corte ha precisato che la circostanza che il venditore sia anche il costruttore del bene compravenduto non vale ad attribuirgli le veste di appaltatore nei confronti dell’acquirente con la conseguenza che quest’ultimo non acquista la qualità di committente nei confronti del primo. L’acquirente, pertanto, non può esercitare l’azione per ottenere l’adempimento del contratto d’appalto e l’eliminazione dei difetti dell’opera a norma degli artt. 1667 e 1668 c.c., spettando tale azione, di natura contrattuale, esclusivamente al committente nel contratto d’appalto. Il Collegio ha, poi, precisato che tuttavia le argomentazioni sopra riportate non valgono per l’azione prevista dall’art. 1669 c.c., di natura extracontrattuale, che opera non solo a carico dell’appaltatore ed a favore del committente, ma anche a carico del costruttore ed a favore dell’acquirente. Tale conclusione poggia sulla considerazione che la norma indicata, prevedendo un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale sancita per ragioni e finalità di interesse generale, si applica, nonostante la sedes materiae non soltanto ai rapporti tra committente e appaltatore ma anche a quelli tra l’acquirente ed il costruttore-venditore, pur in mancanza, tra essi, di un formale contratto d’appalto, con la conseguenza che il predetto costruttore non può ritenersi sollevato dalla responsabilità verso l’acquirente qualora l’opera sia stata eseguita (in tutto o in parte), su suo incarico, da un terzo. Il venditore di unità immobiliari che ne curi direttamente la costruzione, ancorché i lavori siano stati appaltati ad un terzo, risponde, quindi, nei confronti degli acquirenti, dei gravi difetti, a norma dell’art. 1669 c.c., indipendentemente dall’identificazione del contratto con essi intercorso.

Ancora, con riferimento alla portata dell’art. 1669 c.c. sempre la Sez. 2, n. 18289/2020, Bellini, Rv. 659099-02, ha affermato ha ritenuto che il bacino idrico si debba qualificare come bene immobile destinato per sua natura a lunga durata, per ciò disciplinato dall’art. 1669 c.c., quanto alla responsabilità in caso di pericolo di rovina o di presenza di gravi difetti. Precisa la Corte che le cose immobili indicate dalla suddetta norma si possono identificare, in relazione alle indicazioni generali previste dall’art. 812 c.c., nelle costruzioni incorporate al suolo non a scopo transitorio e negli altri beni che vengono reputati immobili, quali mulini ed edifici galleggianti, saldamente assicurati alla riva o all’alveo e destinati a esserlo in modo permanente. Con la medesima sentenza la Corte ha provveduto a delimitare l’applicabilità al contratto di appalto privato delle norme che disciplinano la responsabilità dell’appaltatore e, in particolare, del vincolo di responsabilità solidale fra l’appaltatore ed il progettista e direttore dei lavori, nel caso in cui i rispettivi inadempimenti abbiano concorso in modo efficiente a produrre il danno risentito dal committente. La Corte ha affermato che in simili ipotesi la concorrente responsabilità dei soggetti sopra indicati trova fondamento nel principio di cui all’art. 2055 c.c., il quale, anche se dettato in tema di responsabilità extracontrattuale, si estende all’ipotesi in cui taluno degli autori del danno debba rispondere a titolo di responsabilità contrattuale.

In ordine ai profili di responsabilità connessi con l’esecuzione del contratto di appalto va, poi, segnalata, la Sez. 1, n. 05144/2020, Scalia, Rv. 657082-01, con la quale la Corte ha affermato che tra gli obblighi dell’appaltato rientra, nell’appalto pubblico e privato e senza necessità di una specifica pattuizione, il controllo della validità tecnica del progetto fornito dal committente, anche in relazione alle caratteristiche del suolo su cui l’opera deve sorgere, posto che dalla corretta progettazione, oltre che dall’esecuzione dell’opera, dipende il risultato promesso. Alla luce di tale principio, la Corte ha concluso che la scoperta in corso d’opera di peculiarità geologiche del terreno tali da impedire l’esecuzione dei lavori, non può essere invocata dall’appaltatore per esimersi dall’obbligo di accertare le caratteristiche idrogeologiche del terreno sul quale l’opera deve essere realizzata e per pretendere una dilazione o un indennizzo, essendo egli tenuto a sopportare i maggiori oneri derivanti dalla ulteriore durata dei lavori, restando la sua responsabilità esclusa solo se le condizioni geologiche non siano accertabili con l’ausilio di strumenti, conoscenze e procedure normali.

Con specifico riferimento alla responsabilità in capo al direttore dei lavori, la Corte Sez. 2, n. 02913/2020, Giannaccari, Rv. 657092-01, ha riaffermato un principio già sancito nel 2013 (Sez. 2, n. 10728/2008, De Julio, Rv. 603056-01), secondo il quale il direttore dei lavori, pur prestando un’opera professionale in esecuzione di un’obbligazione di mezzi e non di risultato, è chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l’impiego di peculiari competenze tecniche e deve utilizzare le proprie risorse intellettive e operative per assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente-preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della diligentia quam in concreto. In ragione di tali principi la Corte ha affermato che rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori, l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi. In conclusione, non si sottrae a responsabilità il professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e, in difetto, di riferirne al committente.

1.2. La responsabilità verso terzi.

Con Sez. 3, n. 12882/2020, Rossetti, Rv. 658296-01, la Corte si è occupata della fattispecie in cui alcuni soggetti avevano convenuto in giudizio il Comune di Pattada esponendo che quest’ultimo, a seguito di espropriazione di parte di un loro fondo, aveva realizzato la relativa opera pubblica arrecando un danno alla parte di terreno non espropriata e ciò, anche, in ragione della errata progettazione dell’opera. Gli attori chiedevano, pertanto, la condanna dell’ente locale al risarcimento dei danni subiti, eccependo, al contrario, il Comune che la responsabilità dei danni andava ascritta all’impresa cui erano stati appaltati i lavori di realizzazione dell’impianto, ed a quella cui l’appaltatore aveva subappaltato parte di essi.

Il Tribunale di Sassari accolse la domanda attorea nei confronti delle due società appaltatrici, e la rigettò nei confronti del Comune.

La Corte d’Appello di Cagliari, in riforma della sentenza di primo grado, condannava al risarcimento del danno, in solido con gli altri obbligati, anche il Comune di Pattada.

La Corte di cassazione nel rigettare il ricorso ha affermato che i giudici di secondo grado avevano correttamente individuato una condotta colposa da parte del Comune. In particolare, la Corte ha affermato che se la realizzazione di un’opera arreca a terzi danni provocati non da una malaccorta esecuzione, bensì da un vizio del progetto fornito dal committente, sussiste la concorrente responsabilità risarcitoria dell’appaltatore e del committente stesso. La concorrente responsabilità si fonda sul principio che il primo è tenuto al risarcimento quando, con la diligenza professionale ex art. 1176, comma 2, c.c., si sarebbe potuto avvedere del vizio progettuale e non l’abbia fatto; il secondo è sempre obbligato al risarcimento dei terzi danneggiati per aver ordinato l’esecuzione di un progetto malamente concepito.

2. Profili del contratto di assicurazione e questioni interpretative.

Nel corso dell’anno gli interventi di legittimità sul contratto di assicurazione si sono rivelati particolarmente utili anche per meglio definire il contenuto dello scambio sinallagmatico. In proposito, infatti, Sez. 3, n. 14595/2020, Gorgoni, Rv. 658318-01, è partita dal principio consolidato per cui in tale contratto la corrispettività e l’equilibrio sinallagmatico sono costituiti dallo scambio della promessa di pagare l’indennità da parte dell’assicuratore a fronte del versamento del corrispettivo, mentre la misura del premio non entra nello scambio privatistico, perché è condizionata da fattori esogeni derivanti dalla considerazione del rischio medio calcolato sulla base di elementi probabilistici in relazione ad una massa di rischi omogenei e non di quello del singolo contratto. Tale premessa ha costituito l’occasione per scandagliare la rilevanza che comunque può assumere il premio nel sinallagma. Si è affermato, pertanto, che ove, in virtù di specifiche clausole delimitative dell’oggetto del contratto a favore dell’assicuratore, la responsabilità di quest’ultimo sia eliminata o ridotta senza una corrispondente modifica del premio, è indispensabile verificare se il piano di distribuzione dei rischi soddisfi il requisito della causa in concreto o se vi sia uno squilibrio significativo tra i diritti e gli obblighi delle parti. Se, all’esito dell’accertamento emerga la carenza dell’assunzione di un rischio in capo all’assicuratore, è certo il venire meno dell’interesse per l’assicurato alla stipulazione del contratto, così da rendere privo di giustificazione lo spostamento patrimoniale posto a suo carico. In tal caso le menzionate clausole delimitative dell’oggetto negoziale saranno evidentemente sanzionabili, per difetto originario o sopravvenuto di causa.

Nell’ambito dell’analisi delle clausole utilizzate dalla pratica commerciale Sez. 3, n. 08894/2020, Cricenti, Rv. 657843-01, ha ritenuto nulla la clausola che pone a carico dell’assicurato un termine di decadenza per denunciare l’evento, la cui decorrenza è indipendente dalla volontà di quest’ultimo. Tale clausola contrasta, infatti, non solo, con l’art. 1341 c.c., che vieta le clausole che impongono decadenze, ove non sottoscritte, ma anche con l’art. 2965 c.c., che commina la nullità di quelle con cui si stabiliscono decadenze che rendono eccessivamente difficile, ad una delle parti, l’esercizio del diritto. L’arresto, precisando che tra esse vanno ricomprese anche quelle che fanno dipendere tale esercizio da una condotta del terzo, autonoma e non calcolabile, ha ritenuto nulla la clausola claims made che consentiva all’assicurato di fare denuncia dell’evento nei dodici mesi dalla cessazione del contratto di assicurazione, purché avesse ricevuto la richiesta di risarcimento del danno entro la scadenza del contratto stesso.

A conferma di un orientamento pacifico, da ultimo affermato da Sez. 3, n. 18525/2007, Durante, Rv. 599514-01, Sez. 3, n. 25298/2020, Moscarini, Rv. 659780-02, ha ribadito la nullità in forza dell’art. 1932 c.c., della clausola del contratto assicurativo che stabilisce, in caso di mancato pagamento dei premi assicurativi, la loro persistente esigibilità e la decadenza dell’assicurato dal diritto di pretendere l’indennizzo, in quanto introduce una sospensione della garanzia non prevista dalla legge.

Una siffatta clausola, invero, espone l’assicurato al pagamento del corrispettivo in mancanza di prestazione dell’assicuratore, così illegittimamente derogando, in sfavore di quest’ultimo, all’art. 1901 c.c., secondo il quale il mancato pagamento dei premi successivi al primo comporta la sospensione della garanzia assicurativa per il solo periodo a cui si riferisce il premio, fermo restando l’obbligo dell’assicuratore di indennizzare i sinistri verificatisi precedentemente. L’inderogabilità dell’art. 1901 c.c. è, infatti, prevista dall’art. 1932 c.c.

È stata, poi, ritenuta nulla per contrarietà a norma imperativa, da Sez. 3, n. 06177/2020, Olivieri, Rv. 657142-02, la clausola del contratto autonomo di garanzia che attribuisce all’assicuratore garante la facoltà di adempiere la stessa obbligazione del debitore, alternativa al versamento dell’indennizzo in favore del creditore insoddisfatto. L’affermazione trova la sua ragione nella preclusione alle società di assicurazione, incluse quelle del ramo cauzioni, dell’esercizio di qualsiasi attività diversa da quella assicurativa e da quelle connesse in base all’art. 5 della l. 10 giugno 1978, n. 295, nel caso di specie applicabile ratione temporis.

Sul versante dell’obbligo di indennizzo Sez. 6-3, n. 14481/2020, Rossetti, Rv. 658418-01, ha escluso che ricorra l’inadempimento dell’assicuratore all’obbligo di pagamento dell’indennizzo per il mero fatto che, ricevuta la relativa richiesta dall’assicurato, abbia omesso di provvedervi. Sussiste, infatti, l’inadempimento solo nell’ipotesi in cui l’assicuratore abbia rifiutato il pagamento senza attivarsi per accertare, alla stregua dell’ordinaria diligenza professionale ex art. 1176, comma 2, c.c., la sussistenza di un fatto colposo addebitabile al medesimo assicurato oppure qualora gli elementi in suo possesso evidenzino la sussistenza di una responsabilità dello stesso assicurato non seriamente contestabile.

La pronuncia ha colto l’occasione per precisare che tale accertamento deve essere compiuto dal giudice di merito con una prognosi postuma, ovvero con riferimento al momento in cui l’assicuratore ha ricevuto la domanda di indennizzo, e sulla base di una valutazione di tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresa la condotta dell’assicurato. In tal senso ha escluso che possa darsi esclusivo ed assorbente rilievo ad una sentenza di condanna non definitiva a carico dell’assicurato, quando l’assicuratore non abbia preso parte al relativo giudizio.

Nello specifico settore della responsabilità per attività medico-chirurgica, secondo Sez. 3, n. 11098/2020, Di Florio, Rv. 658139-01, sebbene la struttura presso la quale il paziente sia ricoverato risponda della condotta colposa dei sanitari, a prescindere dall’esistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze della stessa, tuttavia, ciò non incide automaticamente sul rapporto di manleva derivante dalla polizza stipulata tra la medesima struttura e la compagnia di assicurazione, tanto più ove il contratto escluda espressamente la copertura assicurativa per l’operato di medici non dipendenti della detta struttura.

Con riguardo ad altre clausole contrattuali, Sez. 6-3, n. 08973/2020, Iannello, Rv. 657936-03, ha confermato il principio a suo tempo espresso già da Sez. 3, n. 03961/2012, Lanzillo, Rv. 621404-01, secondo cui la previsione della perizia contrattuale, rendendo inesigibile il diritto all’indennizzo fino alla conclusione delle operazioni peritali, sospende fino a tale momento la decorrenza del relativo termine di prescrizione ex art. 2952, comma 2, c.c., sempre che, tuttavia, il sinistro sia stato denunciato all’assicuratore entro il termine di prescrizione del diritto all’indennizzo. Il termine decorre dal giorno in cui si è verificato il sinistro e tale decorrenza consente di attivare la procedura di accertamento del diritto, evitando che la richiesta di indennizzo possa essere dilazionata all’infinito.

Sul fronte delle questioni relative all’interpretazione del contratto di assicurazione risulta, poi, ulteriormente confermato da Sez. 3, n. 10825/2020, Di Florio, Rv. 657966-01, il principio consolidato, secondo cui il giudice non può attribuire a clausole polisenso uno specifico significato, pur teoricamente non incompatibile con la loro lettera, senza prima ricorrere all’ausilio di tutti gli altri criteri di ermeneutica previsti dagli artt. 1362 ss. c.c. e, in particolare, a quello dell’interpretazione contro il predisponente di cui all’art. 1370 c.c. L’affermazione parte dalla premessa che il negozio debba innanzitutto essere redatto in modo chiaro e comprensibile e si aggancia a quanto da ultimo espresso da Sez. 3, n. 668/2016, Rossetti, Rv. 638509-01.

Sul solco già tracciato da Sez. 3, n. 07597/2006, Scarano, Rv. 587980-01, Sez. 3, n. 08810/2020, Scarano, Rv. 657914-01, ha ribadito che l’interpretazione delle clausole in ordine alla portata e all’estensione del rischio assicurato rientra tra i compiti del giudice di merito ed è incensurabile in cassazione, se rispettosa dei canoni legali di ermeneutica e motivata. Il sindacato di legittimità, infatti, può avere ad oggetto, non già, la ricostruzione della volontà delle parti, ma solamente l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il medesimo giudice di merito si sia avvalso per assolvere la funzione a lui riservata, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto.

2.1. Vizi del sinallagma e aspetti processuali.

Con riferimento ai vizi del sinallagma, anche quest’anno molteplici sono state le pronunce.

Sul versante delle azioni di annullamento è stato ribadito da Sez. 3, n. 11115/2020, Rossetti, Rv. 658096-01, che la reticenza dell’assicurato costituisce causa di annullamento solo ove ricorrano simultaneamente tre condizioni: a) che la dichiarazione sia inesatta o reticente; b) che la dichiarazione sia stata resa con dolo o colpa grave; c) che la reticenza sia stata determinante nella formazione del consenso dell’assicuratore.

L’onere probatorio in ordine alla sussistenza di tali condizioni è a carico dell’assicuratore, in applicazione dei principi generali, trattandosi di elementi che costituiscono il presupposto di fatto e di diritto dell’inoperatività della garanzia assicurativa. L’arresto conferma un consolidato orientamento, da ultimo espresso da Sez. 3, n. 16769/2006, Mazza, Rv. 591763-01.

In tema di rimedi avverso le dichiarazioni inesatte o reticenti con dolo o colpa grave dell’assicurato, risulta confermato da Sez. 3, n. 01166/2020, Cricenti, Rv. 656584-01, che l’onere dell’assicuratore di manifestare la propria volontà di esercitare l’azione di annullamento del contratto entro tre mesi dal giorno in cui ha conosciuto la causa di tale annullamento, imposto dall’art. 1892 c.c. allo scopo di evitare la decadenza, non sussiste quando il sinistro si verifichi anteriormente al decorso del termine suddetto e, ancora più, ove avvenga prima che l’assicuratore sia venuto a sapere dell’inesattezza o reticenza della dichiarazione.

In linea con quanto più volte espresso e, da ultimo affermato da Sez. 3, n. 16406/2010, Urban, Rv. 614109-01, l’arresto di quest’anno ha ribadito che, in tali casi, per sottrarsi al pagamento dell’indennizzo, è sufficiente che l’assicuratore stesso invochi, anche mediante eccezione, la violazione dolosa o colposa dell’obbligo, esistente a carico dell’assicurato, di rendere dichiarazioni complete e veritiere sulle circostanze relative alla rappresentazione del rischio.

I profili processuali legati alle controverse in tema di assicurazione della responsabilità civile sono stati, poi, affrontati da differenti prospettive.

In tema di ripartizione dell’onere probatorio, secondo Sez. 3, n. 01168/2020, Guizzi, Rv. 656635-01, ove il massimale di polizza sia fissato nel contratto, l’onere di provarne l’esistenza e la misura grava sull’assicuratore. Posta tale premessa, si è anche chiarito che il principio iura novit curia può trovare applicazione nelle sole ipotesi in cui lo stesso massimale sia normativamente stabilito.

Sez. 6-3, n. 24409/2020, Cirillo, Rv. 659911 - 01, ha confermato quanto a suo tempo espresso da Sez. 3, n. 19176/2014, Spirito, Rv. 633085-01, secondo cui la costituzione e difesa dell’assicurato, a seguito dell’instaurazione del giudizio da parte di chi assume di aver subito danni, è svolta anche nell’interesse dell’assicuratore, ritualmente chiamato in causa, in quanto finalizzata all’obbiettivo ed imparziale accertamento dell’esistenza dell’obbligo di indennizzo. Il logico corollario che deriva è che, pure nell’ipotesi in cui nessun danno venga riconosciuto al terzo che ha promosso l’azione, l’assicuratore è tenuto a sopportare le spese di lite dell’assicurato, nei limiti stabiliti dall’art. 1917, comma 3, c.c.

Con riguardo, invece, ai diversi possibili esiti giudiziari nel succedersi dei gradi di giudizio, Sez. 3, n. 03999/2020, Di Florio, Rv. 656903-01, ha avuto modo di chiarire che all’assicuratore, chiamato in manleva, che abbia pagato direttamente al danneggiato la somma che l’assicurato sia stato condannato a corrispondere a titolo di risarcimento del danno con sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, spetta, ove tale sentenza sia stata riformata in appello con il rigetto della sola domanda di manleva, l’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo nei confronti dello stesso assicurato, per avere dato esecuzione alla condanna risarcitoria per suo conto e in sua sostituzione, quale terzo adempiente, nonostante non sussistesse alcun obbligo di manleva.

Sul tema mai sopito delle spese di giudizio, Sez. 6-3, n. 18076/2020, Iannello, Rv. 658762-01, ha contribuito a chiarirne ulteriormente le differenti tipologie, affermando che l’assicurato ha diritto di essere tenuto indenne dal proprio assicuratore delle spese processuali che è stato costretto a rifondere al terzo danneggiato, c.d. spese di soccombenza, entro i limiti del massimale, in quanto costituiscono una delle tante conseguenze possibili del fatto illecito; tale diritto si estende, inoltre, alle spese sostenute per resistere alla pretesa di quegli, c.d. spese di resistenza, anche in eccedenza rispetto al massimale purché entro il limite stabilito dall’art. 1917, comma 3, c.c.

La pronuncia ha chiarito, infatti, che, pur non costituendo propriamente una conseguenza del fatto illecito, tali ultime spese rientrano nel genus delle spese di salvataggio di cui all’art. 1914 c.c., perché sostenute per un interesse comune all’assicurato ed all’assicuratore.

Le spese di chiamata in causa dell’assicuratore, viceversa, non costituiscono, né conseguenza del rischio assicurato, né spese di salvataggio, bensì comuni spese processuali soggette, dunque, alla disciplina degli artt. 91 e 92 c.p.c.

Sull’obbligo di rimborso da parte dell’assicuratore delle spese di lite sostenute dall’assicurato, Sez. 3, n. 08896/2020, Cricenti, Rv. 657844-01, ne ha chiarito la natura oggettiva. Tale obbligo di rimborso sorge, infatti, oggettivamente per la sola circostanza che il detto assicurato sia stato costretto ad agire o a difendersi in una controversia che abbia causa in situazioni rientranti nella garanzia assicurativa, nei limiti di quanto convenuto in contratto o, in ogni caso, in quelli di cui all’art. 1917, comma 3, c.c.

La finalità di tale obbligo è, infatti, quella di rimborsare le spese di lite sostenute dall’assicurato, pur se l’assicuratore non abbia aderito alle ragioni di questi e senza che assuma rilevanza il fatto che la presenza in giudizio in proprio del medesimo assicurato non sia dipesa dalla posizione difensiva dell’assicurazione, ma dalle richieste del danneggiato.

2.2. Disciplina della prescrizione.

In materia, Sez. 3, n. 11581/2020, Guizzi, Rv. 658054-01, ha precisato che il termine breve di due anni, previsto dall’art. 2952, comma 2, c.c., decorre dal giorno in cui il terzo ha promosso l’azione risarcitoria nei confronti dell’assicurato e non dalla precedente domanda di accertamento tecnico preventivo.

Restando sempre nell’analisi applicativa dell’articolo ora citato, ma con riguardo, alla diversa ipotesi della sospensione prevista dal comma 4, in caso di comunicazione all’assicuratore della richiesta del terzo danneggiato, Sez. 3, n. 00541/2020, Cigna, Rv. 656630-02, ha chiarito che essa riguarda unicamente la specifica ipotesi dell’assicurazione della responsabilità civile. La pronuncia in oggetto ha, dunque, espressamente escluso l’applicabilità della disposizione al termine di prescrizione dei diritti nascenti da contratto di assicurazione concernente la navigazione aerea.

Con riguardo, appunto, a tali contratti di navigazione marittima ed aerea (Sez. 3, n. 00541/2020, Cigna, Rv. 656630-01) il termine annuale di prescrizione previsto dall’art. 547, comma 1, c. nav. si applica a tutti i diritti derivanti dal contratto di assicurazione, incluso quello all’indennizzo dell’assicurato verso l’assicuratore in caso di verificazione dell’evento previsto in contratto. Tale principio deriva dall’affermazione che la disposizione da ultimo citata ha natura speciale rispetto all’art. 2952, comma 2, c.c.

In tema, ma nello specifico ambito del diritto al risarcimento dei danni, causati da un broker assicurativo, da parte del Fondo di garanzia per l’attività dei mediatori di assicurazione e riassicurazione, Sez. 3, n. 01575/2020, Scrima, Rv. 656648-01, ha specificato che trova applicazione il termine ordinario decennale e non quello biennale di cui all’art. 2952, comma 2, c.c., trattandosi, in tal caso di un’obbligazione che nasce dalla legge e non deriva dal contratto di assicurazione.

2.3. L’assicurazione obbligatoria r.c.a.

Sotto il profilo dell’analisi degli elementi del contratto assicurazione della responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli a motore, Sez. 3, n. 12119/2020, Rossetti, Rv. 658170-01, ha chiarito che la clausola che esclude la copertura per i sinistri causati da conducenti privi di patente di guida non ha natura vessatoria ex art. 1341 c.c.; provvedendo, infatti, a delimitare il rischio garantito, essa attiene all’oggetto del contratto.

Con riguardo all’ambito di applicazione dell’obbligo della garanzia assicurativa, Sez. 3, n. 17665/2020, Positano, Rv. 658824-01, ha preliminarmente chiarito che l’autorizzazione ministeriale alla circolazione con “targa prova”, regolata dall’art. 1 del d.P.R. 24 novembre 2001, n. 474, è consentita ai veicoli privi della carta di circolazione e non immatricolati la cui circolazione sia necessaria per prove tecniche, sperimentali o costruttive o per dimostrazioni finalizzate alla vendita, previa stipula di polizza assicurativa per la responsabilità civile da parte dei titolari della specifica autorizzazione, quali le officine, i concessionari, i costruttori, ecc.

Da tale premessa la pronuncia ne ha fatto conseguire il principio che dei danni cagionati da un veicolo già immatricolato, regolarmente targato e munito di copertura assicurativa per la r.c.a., circolante, quindi, con la targa di prova del titolare dell’officina di riparazione per essere controllato o a scopo dimostrativo o per collaudo, risponde solo l’assicuratore del mezzo e non quello della targa di prova.

La finalità di quest’ultima, come si è detto infatti, non è quella di sostituirsi all’ assicurazione del veicolo, ma quella di munire di copertura assicurativa i veicoli non ancora immatricolati.

Lo sforzo più grande, anche quest’anno, della S.C. è stato quello di arare ulteriormente il campo delle domande risarcitorie, con particolare riguardo ai diritti del terzo trasportato, con diverse questioni processuali connesse.

In tema di risarcimento del terzo trasportato Sez. 3, n. 14255/2020, Sestini, Rv. 658315-01, ha affermato la sussistenza, in capo all’impresa di assicurazione che abbia risarcito, ex art. 141, comma 1, del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, il terzo trasportato a bordo del veicolo da essa assicurato, del diritto di rivalsa nei confronti dell’impresa assicuratrice del responsabile civile, nei limiti e alle condizioni previste dall’art. 150 d.lgs. citato. Ove, poi, il veicolo del responsabile civile non risulti coperto da assicurazione, la rivalsa può essere esercitata contro l’impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada, nei limiti quantitativi stabiliti dall’art. 283, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 209 del 2005.

In una prospettiva eurounitaria, allineandosi a quanto stabilito dalle direttive 84/5/CEE e 90/232/CEE, concernenti il riavvicinamento delle legislazioni nazionali in materia di assicurazione della responsabilità civile derivante dalla circolazione di autoveicoli, così come interpretate dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, Sez. 6-3, n. 13738/2020, Guizzi, Rv. 658380-01, ha affermato che il principio vulneratus ante omnia reficiendus si applica anche in favore dell’assicurato che, al momento del sinistro, è trasportato da un terzo, non distinguendosi la sua condizione da quella di qualsiasi altro passeggero vittima dell’incidente. Ad avviso dei giudici di legittimità, in questo caso, l’assicuratore non può avvalersi, per negare il risarcimento, di disposizioni legali o di clausole contrattuali, ivi comprese quelle che escludono la copertura assicurativa nelle ipotesi di utilizzo del veicolo da parte di persone non autorizzate o prive di abilitazione alla guida, perché l’unica eccezione al principio sopra menzionato opera quando il veicolo assicurato è condotto da una persona non autorizzata ed il passeggero, vittima dell’incidente, è a conoscenza del fatto che il mezzo è stato oggetto di furto.

Sez. 3, n. 01161/2020, D’Arrigo, Rv. 656886-01, ha colto l’occasione per riaffermare che l’art. 141 del d.lgs. n. 209 del 2005, di derivazione comunitaria, assegna una garanzia diretta alle vittime dei sinistri stradali in un’ottica di tutela sociale che fa traslare il “rischio di causa” dal terzo trasportato, vittima del sinistro, sulla compagnia assicuratrice del trasportante. Su tale presupposto ha, quindi, affermato che in tema di risarcimento del danno da incidente stradale, la persona trasportata può avvalersi dell’azione diretta nei confronti dell’impresa di assicurazioni del veicolo sul quale viaggiava al momento del sinistro anche se quest’ultimo sia stato determinato da uno scontro in cui sia rimasto coinvolto un veicolo immatricolato all’estero assicurato con una compagnia che non abbia aderito alla convenzione terzi trasportati (cd. CTT), parte della convenzione tra assicuratori per il risarcimento diretto (cd. CARD).

In questo senso si era di recente espressa Sez. 3, n. 01279/2019, Fiecconi, Rv. 652470-01, ma ancor prima Sez. 3, n. 16477/2017, Rubino, Rv. 644953-01, in relazione al caso di sinistro in cui uno dei veicoli fosse privo di assicurazione r.c.a.

Il principio che la S.C. ha ritenuto di applicare anche in via analogica si fonda sul rilievo che “l’interpretazione costituzionalmente orientata della norma impone di riconoscere al terzo la possibilità di azionare la procedura diretta, a prescindere dall’identificazione del soggetto civilmente responsabile, dalla ripartizione di responsabilità tra conducenti e finanche dall’essere assicurato il veicolo antagonista, salvo esclusivamente il caso fortuito. In questo modo, sarebbe stato possibile tener conto dell’esigenza di salvaguardare la posizione del terzo, non ostacolando il ricorso ad uno strumento di tutela semplificato e più celere, aggiuntivo rispetto all’ordinaria azione nei confronti del proprietario del veicolo e civilmente responsabile”.

Nell’ottica della risoluzione di questioni più strettamente processuali, secondo Sez. 3, n. 07755/2020, Dell’Utri, Rv. 657502-01, nella procedura di risarcimento diretto di cui all’art. 149 del d.lgs. n. 209 del 2005, promossa dal danneggiato nei confronti del proprio assicuratore, sussiste litisconsorzio necessario rispetto al danneggiante responsabile, analogamente a quanto previsto dall’art. 144, comma 3, dello stesso decreto. Qualora, pertanto, il proprietario del veicolo assicurato non sia stato citato in giudizio, il contraddittorio deve essere integrato ex art. 102 c.p.c. e la relativa omissione, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, comporta l’annullamento della sentenza ai sensi dell’art. 383, comma 3, c.p.c.

Sotto un diverso profilo Sez. 6-3, n. 14494/2020, Pellecchia, Rv. 658419-01, ha chiarito che la domanda di condanna dell’assicuratore al risarcimento del danno per “mala gestio” cosiddetta impropria deve ritenersi implicitamente formulata tutte le volte in cui la vittima abbia domandato la condanna al pagamento di interessi e rivalutazione, anche senza riferimento al superamento del massimale o alla condotta renitente dell’assicuratore. Non costituisce, dunque, domanda nuova quella con la quale, in appello, i danneggiati chiedano la condanna dell’assicuratore al versamento della differenza tra danno liquidato e superamento del massimale di polizza, che va intesa quale riproposizione della domanda originaria nei limiti del riconoscimento di interessi moratori e rivalutazione oltre il massimale di legge.

Nel diverso ambito del sinistro stradale concausato da più veicoli, tutti privi di copertura assicurativa, l’impresa designata dal Fondo di Garanzia delle Vittime della Strada, per Sez. 6-3, n. 17893/2020, Rossetti, Rv. 658757-04, è tenuta, ai sensi dell’art. 283, comma 1, lettera b, cod. ass., ad indennizzare la vittima entro il limite totale costituito dal prodotto del massimale minimo di legge (nella misura individuata ratione temporis) per il numero dei responsabili coobbligati, a condizione che il danneggiato abbia convenuto in giudizio l’impresa designata espressamente invocando la sua qualità di garante ex lege di tutti i coobbligati e che tale domanda venga accolta con conseguente condanna dei responsabili, in solido tra loro ex art. 2055 c.c., al risarcimento dell’intero danno patito.

Nell’ipotesi in cui, invece, sia convenuto uno solo dei corresponsabili oppure sia richiesta la condanna dell’impresa designata quale garante di uno soltanto di essi, il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato impedisce al giudice di condannare al pagamento di somme eccedenti un singolo massimale.

La medesima pronuncia, Sez. 6-3, n. 17893/2020, Rossetti, Rv. 658757-03, ha altresì chiarito che l’aumento dell’importo minimo del massimale di legge di cui all’art. 128, comma 5, cod. ass. - incrementato da 0,77 a 2,5 milioni di Euro dall’art. 1 del d.lgs. n. 198 del 2007 - opera dall’11 dicembre 2009 anche con riguardo alle obbligazioni del Fondo di Garanzia delle Vittime della Strada in ragione del rinvio dell’art. 283 cod. ass. al citato art. 128.

Nel particolare caso in cui l’impresa designata dal Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada, succeda ope legis all’impresa assicuratrice sottoposta a liquidazione coatta amministrativa, Sez. 3, n. 17556/2020, Sestini, Rv. 658683-01, ha provveduto a definire il limite di risarcibilità nei confronti del danneggiato che è stato fissato entro il massimale minimo legale ex art. 21, ultimo comma, l. 24 dicembre 1969, n. 990 senza possibilità di detrarre da questo i pagamenti parziali precedentemente effettuati dalla compagnia ancora “in bonis” se non superano la differenza fra il maggior massimale convenzionale e il massimale legale. Ove, viceversa, il massimale di polizza coincide con quello di legge, gli importi già corrisposti al danneggiato devono essere interamente detratti.

Nell’ulteriore diversa ipotesi in cui il massimale convenzionale superi quello legale in misura inferiore agli importi versati dall’impresa in bonis, il diffalco dal massimale legale deve essere effettuato per l’ammontare eccedente la differenza fra i due massimali.

3. Il comodato.

La nozione di comodato si evince dall’art. 1803 c.c. secondo cui esso è il contratto con il quale una parte (comodante) consegna all’altra (comodatario) una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta. È un contratto intuitu personae, evincendosi ciò dalla portata dell’art. 1804 c.c., che vieta al comodatario la possibilità di concedere in uso a terzi il bene oggetto del comodato. Ai sensi dell’art. 1803 c.c. il comodato è, poi, «essenzialmente gratuito». L’art. 1809 c.c. stabilisce che «Il comodatario è obbligato a restituire la cosa alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza di termine, quando se ne è servito in conformità del contratto. Se però, durante il termine convenuto o prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa, sopravviene un urgente e impreveduto bisogno al comodante, questi può esigerne la restituzione immediata». Il successivo art. 1810 c.c. precisa, poi, che «Se non è stato convenuto un termine né questo risulta dall’uso a cui la cosa doveva essere destinata, il comodatario è tenuto a restituirla non appena il comodante la richiede». Uno dei caratteri del comodato è, dunque, la sua natura essenzialmente gratuita, anche se non è esclusa la possibilità di far ricorso ad un comodato c.d. “modale” o “oneroso”, a patto che l’onere imposto non sia di una consistenza tale da far venir meno la natura tipica del contratto e, dunque, ridursi ad un corrispettivo per il godimento della cosa.

Così riportate le fondamentali caratteristiche del comodato, assume rilievo la Sez. 2, n. 21853/2020, Tedesco, Rv. 659327-01, con la quale la Corte si è occupata della domanda di rilascio di alcuni immobili che gli attori assumevano detenuti senza titolo dai convenuti; domanda accolta dalla Corte d’Appello e confermata dalla Corte di cassazione. Con la pronuncia in esame il Collegio dopo aver rilevato che l’azione proposta era da qualificarsi come volta alla restituzione di un bene fondata sul comodato, ha affermato che chiunque abbia la disponibilità di fatto di una cosa, in base a titolo non contrario a norme di ordine pubblico, può validamente concederla in comodato e, quando il rapporto viene a cessare, è legittimato a richiederla in restituzione, senza dover dimostrare di esserne proprietario. Egli ha, infatti, soltanto l’onere di provare la consegna del bene e il rifiuto della restituzione, spettando eventualmente al convenuto far valere il possesso di un diverso titolo per il suo godimento.

Con specifico riferimento alla durata e, dunque, al termine del contratto di comodato la Corte (Sez. 6-3, n. 22309/2020, Dell’Utri, Rv. 659161-01) ha affermato che la circostanza che un immobile concesso in comodato sia destinato a una specifica attività commerciale non è sufficiente per ritenere il relativo contratto soggetto a un termine implicito, sicché il comodante può domandare la restituzione del bene prima della cessazione di tale attività.

In particolare, ha osservato la Corte che l’apposizione al comodato di un termine derivante dall’uso cui la cosa è destinata non può ravvisarsi nel solo fatto che nell’immobile si svolga una determinata attività (commerciale o di altro tipo), per la semplice ragione che tale attività potrebbe non avere alcun termine prevedibile, nel qual caso il comodato sarebbe di fatto sine die; conclusione, quest’ultima, che snaturerebbe la causa del contratto (espropriando di fatto il comodante), prospettandosi in termini insostenibili sul piano logico, poiché condurrebbe all’irragionevole conclusione che un comodato di immobili destinato ad attività che vi si svolgono sine die, sarebbe pur esso sine die. Peraltro, poiché la destinazione d’uso di un immobile dipende dalla volontà del comodatario (e poiché non può concepirsi che un immobile non abbia una destinazione d’uso, sia pure solo di svago), a seguire il ragionamento della corte d’appello la durata di ogni comodato finirebbe per essere rimessa alla volontà mera del comodatario.

Alla luce di tali premesse precisa la Corte che è pacifico il principio secondo cui il termine dei comodato può risultare dall’uso cui la cosa deve essere destinata solo “se tale uso abbia in sé connaturata una durata predeterminata nel tempo”; in mancanza, invece, di particolari prescrizioni di durata, ovvero di elementi certi ed oggettivi che consentano ab origine di prestabilirla, l’uso corrispondente alla generica destinazione dell’immobile configura un comodato a tempo indeterminato e, perciò, a titolo precario, e, dunque, revocabile ad nutum da parte del comodante, a norma dell’art. 1810 c.c.

3.1. Il comodato, aspetti processuali.

La Corte di cassazione (Sez. 6-3, n. 10936/2020, Scrima, Rv. 658218-01) si è occupata della questione afferente all’individuazione del giudice competente a decidere in ordine ad una impugnativa di un contratto di comodato concluso dal de cuius con uno dei futuri coeredi.

In particolare, a seguito del decesso del padre di quattro figli si era aperta la successione ab intestato in favore di questi ultimi, successione che veniva impugnata da uno dei figli dinanzi al Tribunale di Ravenna, nei confronti degli altri coeredi contestando, tra l’altro, la validità di un contratto di comodato ventennale stipulato quattro mesi prima della morte del de cuius a favore di uno dei coeredi e relativo ad un appartamento poi entrato nell’asse ereditari. I coeredi eccepirono l’incompetenza per territorio e ratione materiae del Tribunale adito, sul rilievo che la successione si era aperta a Forlì. Il Tribunale di Ravenna declinò la propria competenza in favore di quello di Forlì quale forum successionis ex art. 22, primo comma, n. 1, c.p.c., innanzi al quale, pendeva anche il giudizio di divisione ereditaria.

A seguito di istanza per regolamento di competenza, la Corte di cassazione con la sentenza indicata ha rilevato che in tema di competenza territoriale, ai fini dell’applicabilità della disciplina ex art. 22 c.p.c., che demanda alla competenza del giudice del luogo dell’apertura della successione ogni altra causa tra i coeredi, fino alla divisione, deve intendersi per causa tra coeredi quella che, non solo si riferisca ai beni caduti in successione, ma comprenda, altresì, un oggetto attinente alla qualità di erede.

Alla luce di tale principio la Corte ha concluso che le domande proposte in via principale dal ricorrente, in base alle quali va regolata la competenza, non erano riconducibili a quelle indicate dalla norma richiamata, non potendo esse essere considerate introduttive di cause tra coeredi, in quanto non sono relative all’accertamento di diritti inerenti alla successione. Ed invero, nella specie l’attore aveva impugnato per inesistenza, nullità o annullamento un contratto di comodato di un immobile e, quindi, la relativa questione era attribuita alla competenza per materia del tribunale del luogo dove è posto l’immobile, ai sensi dell’art. 21 c.p.c. e non di quello di apertura della successione ex art. 22 c.p.c. Precisa il Collegio che, infatti, risulta del tutto irrilevante che a fondamento dell’impugnativa del comodato sia posta la violazione degli artt. 458 e 549 c.c., atteso che queste ultime disposizioni non sono funzionali a risolvere dispute fra coeredi, ma esclusivamente ad individuare delle ipotesi di nullità, mentre l’art. 22 citato disciplina la competenza nelle cause successorie, che sono configurabili solo allorché la lite sorga tra successori veri o presunti a titolo universale o particolare e abbia come oggetto principale l’accertamento di beni o diritti caduti in successione o che si ritenga debbano costituirne parte.

4. I contratti agrari.

Con riferimento a tali contratti si segnalano nel corso del 2020 due decisioni della Corte che hanno delimitato i limiti di applicabilità e di operatività delle norme che disciplinano tali accordi.

La prima pronuncia (Sez. 3, n. 11276/2020, Guizzi, Rv. 658154-01), si è occupata dell’applicabilità all’Amministrazione, quale concedente, della disciplina vincolistica prevista per i contratti agrari e, in particolare, di quella afferente alla durata legale del contratto, ovvero della necessità di derogarvi solo con l’ausilio delle associazioni rappresentative degli interessi di affittanti ed affittuari. La Corte, confermando la sentenza di merito, ha affermato che la Corte territoriale aveva correttamente escluso l’applicazione della disciplina vincolistica sopra indicata e ciò in quanto se sussiste la possibilità di consentire in favore dei privati, con atto di concessione o con contratto di affitto, il godimento individuale di un terreno demaniale di uso civico, temporaneamente non utilizzato dalla comunità, non essendo ciò escluso dalla natura giuridica del suolo e dalla sua destinazione ex lege, resta, nondimeno, inteso che quale sia stata la forma impiegata per la cessione, tuttavia, il rapporto che si costituisce può avere solo carattere precario e temporaneo, risultando, pertanto, sottratto alle norme speciali in materia agraria relative alla durata del rapporto medesimo, poiché, in caso contrario, resterebbe preclusa all’Amministrazione la possibilità di condizionarne la continuazione e la rinnovazione alle valutazioni, in concreto, circa la compatibilità con la destinazione ad uso civico del terreno.

Con la seconda decisione (Sez. 3, n. 04685/2020, Scoditti, Rv.656913-01), la Corte ha affrontato la questione afferente al concetto di fondo rilevante ai fini dell’applicazione della legge n. 590 del 1965 e della legge n. 817 del 1971 e del diritto di prelazione previsto in materia di contratti agrari.

La fattispecie aveva ad oggetto la domanda volta al riconoscimento, nei confronti dei convenuti, del diritto di prelazione e di riscatto, nella qualità di proprietari coltivatori diretti di fondo confinante, in relazione alla vendita dei terreni acquistati dai convenuti; domanda accolta dalla Corte d’Appello valorizzando il criterio dell’unicità del bene posto in vendita, e rimettendo quindi all’autonomia privata l’identificazione dello stesso, così da non considerare le peculiarità della prelazione e del riscatto agrario. In particolare, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso dei ricorrenti con il quale essi lamentavano il fatto che il diritto di prelazione e riscatto non può essere esteso all’ipotesi della cosiddetta contiguità funzionale (fra fondi separati, ma idonei ad essere accorpati in un’unica azienda agraria) e che le particelle non confinati erano dotate di autonomia economico-culturale. La Corte ha, infatti, precisato che al fine della prelazione e del riscatto agrario, ai sensi delle leggi 26 maggio 1956 n. 590 e 14 agosto 1971 n. 817, per “fondo” deve intendersi un’estensione che abbia una propria autonomia colturale e produttiva. Ne consegue che, potendo nel relativo concetto farsi rientrare tanto un’unità poderale (costituita da un complesso unitario di terreni non suscettibili singolarmente di autonoma coltivazione), quanto un singolo terreno (anche di piccole dimensioni, che, rispetto ai terreni circostanti, sia distinto ed autonomo per caratteristiche della sua coltivazione e produttività), nel caso di vendita di un complesso di terreni attigui tra loro e confinanti solo in parte con un fondo appartenente a coltivatore diretto, per stabilire se il diritto di prelazione debba essere esercitato in relazione a tutti i terreni oggetto della vendita, ovvero soltanto a quelli a confine con la proprietà dell’avente diritto alla prelazione, devesi accertare se quelli costituiscono un’unità poderale (nell’ambito della quale ogni terreno sia privo di propria autonomia coltivatrice), oppure un insieme di porzioni distinte e indipendenti l’una dall’altra.

Con altra decisione la Corte ha, poi, precisato i termini della legittimazione all’azione di rilascio nel caso in cui il terreno sia stato concesso da più proprietari (Sez. 3, n. 00845/2020, Sestini, Rv. 656814-01).

La fattispecie oggetto di scrutinio aveva ad oggetto la domanda proposta da un comproprietario, in proprio e quale procuratore speciale di altro comproprietario, volta all’accertamento della cessazione di un contratto agrario. La Corte ha, sul punto, affermato che i comproprietari di un bene concesso in locazione hanno pari poteri gestori sulla cosa comune ed ognuno di essi è legittimato ad agire per il rilascio, in base alla presunzione che ciascuno operi con il consenso degli altri, la quale non è esclusa dal fatto che uno di loro, come nel caso di specie, sia incapace di intendere e di volere, poiché tale presunzione prescinde da un’indagine sullo stato soggettivo degli ulteriori comproprietari e va intesa - in senso oggettivo - quale mancanza di dissenso da parte degli stessi. In applicazione di tale principio la Corte ha confermato la decisione di appello che aveva accolto la sopra indicata domanda di cessazione di un contratto di affitto agrario, ritenendo che a ciò non ostasse la circostanza che il comproprietario avesse agito nei modi sopra indicati e, in particolare, anche quale procuratore speciale - privo di rappresentanza processuale - dell’altra comproprietaria, interdetta, senza, però, l’autorizzazione del suo tutore e del giudice tutelare, atteso che non erano stati comunque forniti elementi idonei a superare la summenzionata presunzione di consenso.

5. La tutela del credito, tra garanzie tipiche e atipiche o improprie.

Con riferimento alle forme contrattuali aventi come finalità quelle dell’accesso al credito e di tutela della posizione creditoria, assumono rilievo le garanzie atipiche o improprie, sia personali che reali, diffuse nella prassi bancaria e commerciale, che presentano punti in comune con la fideiussione, ma se ne distaccano per alcuni decisivi caratteri. Si tratta di fattispecie nate in ragione delle mutate esigenze del mercato rispetto a quelle esistenti al tempo di adozione del codice, nonché delle difficoltà di accesso al credito e della collegata esigenza di trovare nuove forme di tutela del creditore, e frutto di successiva elaborazione da parte della giurisprudenza di legittimità.

Prima di passare ad esaminare tali forme di garanzia atipiche, con riferimento alla fideiussione, la Sez. 3, n. 17820/2020, Porreca, Rv. 658626-01, si è occupata della distinzione tra fideiussione alla fideiussione (o fideiussione al fideiussore, o fideiussione di regresso) e la fideiussione del fideiussore (cosiddetta approvazione), di cui all’art. 1940, cod. civ., che costituisce una particolare modalità della fideiussione tipica, nella quale il “secondo” fideiussore garantisce l’adempimento dell’obbligazione del “primo” fideiussore, e non l’adempimento dell’obbligato principale, laddove nella fideiussione alla fideiussione il fideiussore si obbliga verso colui il quale è già fideiussore, per garantirgli, una volta che egli abbia pagato, la fruttuosità dell’azione di regresso nei confronti del debitore principale, sicché il fideiussore è un terzo rispetto alla prima fideiussione, e il creditore garantito è, in effetti, il soggetto che nella prima fideiussione era il fideiussore. Fatte tali premesse la Corte ha affermato che in materia di fideiussione di regresso (o fideiussione al fideiussore o fideiussione alla fideiussione), è meritevole di tutela, ex art. 1322 c.c., la clausola di estensione della spettanza dell’azione di rilievo attivamente al primo fideiussore e passivamente al fideiussore di regresso, in quanto volta a rafforzare la funzione di garanzia del collaterale negozio incidendo su valori patrimoniali oggetto di contratto e non su diritti indisponibili.

Sempre in tema di fideiussione la Sez. 3, n. 09862/2020, Positano Rv. 657692-01, ha affermato che la clausola della fideiussione che stabilisce espressamente la solidarietà tra garante e debitore principale non può essere interpretata come un’implicita deroga alla disciplina dell’art. 1957 c.c., poiché l’esplicita esclusione del beneficium excussionis non è incompatibile con la liberazione del fideiussore per il caso in cui il creditore non agisca contro il debitore principale nel termine di sei mesi dalla scadenza della obbligazione. Ed invero, la possibilità di escludere il beneficium excussionis non interferisce invero con la previsione di cui all’articolo 1957 c.c., in base alla quale il fideiussore è liberato quando il creditore non abbia agito contro il debitore principale nel termine di sei mesi dalla scadenza della obbligazione;

Nel corso dell’anno 2020 la Corte di cassazione ha, poi, esaminato diverse forme contrattuali aventi le finalità sopra descritte, riconoscendo loro tutela giuridica in ragione degli interessi da esse perseguiti.

Quanto alle forme di garanzia personale atipiche, assumono rilievo alcune sentenze relative al contratto autonomo di garanzia, che si distingue dalla fideiussione - oltre che per il fatto che il fideiussore assume l’obbligo di eseguire una prestazione di identico contenuto a quella dovuta dal debitore medesimo, mentre la prestazione dovuta dal garante ha ad oggetto il pagamento al beneficiario di una determinata somma di denaro - per l’assenza di accessorietà dell’obbligazione del garante rispetto all’obbligazione garantita, laddove il fideiussore può opporre al creditore le eccezioni relative al rapporto di base ex art. 1945 c.c. Alla luce di tali principi la Sez. 3, n. 06177/2020, Olivieri, Rv. 657142-01, ha confermato la decisione di merito che aveva qualificato come garanzia autonoma la polizza cauzionale prestata da una società di assicurazione per le obbligazioni assunte da un concessionario del servizio di smaltimento di rifiuti speciali, desumendo il carattere infungibile della prestazione del debitore principale dai requisiti tecnici, economici e di affidabilità indispensabili per il rilascio delle autorizzazioni amministrative necessarie allo svolgimento del servizio. Fermi i caratteri di differenziazione sopra riportati tra il contratto autonomo di garanzia e la fideiussione la Sez. 3, n. 03893/2020, Pellecchia, Rv. 657148-01, ha delimitato i limiti interpretativi delle due diverse fattispecie contrattali in capo al giudice. In particolare, la Corte ha affermato che sebbene sia consentito al giudice d’appello qualificare il contratto oggetto del giudizio in modo diverso rispetto a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, tale attività gli è vietata se, per pervenire alla nuova qualificazione, debba prendere in esame fatti nuovi e non dedotti dalle parti, né rilevati dal giudice di primo grado. Pertanto, una volta che un contratto di garanzia sia stato qualificato come fideiussione tipica dal giudice di primo grado, è viziata da ultrapetizione la sentenza con la quale il giudice d’appello lo qualifichi come contratto autonomo di garanzia, facendo leva sul contenuto di alcune clausole contrattuali non considerate dal giudice di prime cure.

Altra garanzia personale atipica di cui si è occupata la Corte di cassazione è la cessione del credito a scopo di garanzia fattispecie molto diffusa nella pratica commerciale con la cessione, da parte di un’impresa, di crediti a una banca al fine di ottenere finanziamenti, con la natura di detti crediti che usualmente si rifà alla commercializzazione di beni o servizi. È a carico della banca, in questi casi, la raccolta dei documenti giustificativi relativi al credito ceduto, come la consegna delle copie delle fatture che attestano la merce il cui prezzo è l’oggetto del credito ceduto.

In particolare, la Corte (Sez. 1, n. 10092/2020, Vella Rv. 657764-01) ha osservato che la cessione del credito, avendo causa variabile, ben può avere anche funzione esclusiva di garanzia, comportando in tal caso il medesimo effetto, tipico della cessione ordinaria, immediatamente traslativo del diritto al cessionario, nel senso che il credito ceduto entra nel patrimonio del cessionario e diventa un credito proprio di quest’ultimo. Ne deriva che, nel caso di cessione effettuata esclusivamente a scopo di garanzia di una diversa obbligazione dello stesso cedente, il cessionario è legittimato ad azionare sia il credito originario sia quello che gli è stato ceduto in garanzia; ove, invece, si verifichi l’estinzione, totale o parziale, dell’obbligazione garantita, il credito ceduto a scopo di garanzia, nella stessa quantità, si ritrasferisce automaticamente nella sfera giuridica del cedente, con un meccanismo analogo a quello della condizione risolutiva, senza quindi che occorra, da parte del cessionario, un’attività negoziale diretta a tal fine. In ragione di quanto sopra nel caso di cessione di credito a fine di garanzia di una diversa obbligazione dello stesso cedente, il cessionario è legittimato ad agire sia nei confronti del debitore ceduto che nei confronti dell’originario debitore cedente, senza essere gravato, in quest’ultimo caso, dall’onere di provare l’infruttuosa escussione del debitore ceduto.

Quanto alle garanzie reali, queste si caratterizzano per una minore flessibilità rispetto a quelle personali, con la conseguenza che nella prassi si sono diffusi nuovi schemi contrattuali derivanti dagli istituti tipici del diritto obbligazionario e contrattuale: tra queste, l’ampia categoria delle alienazioni a scopo di garanzia costituite da vendite sospensivamente o risolutivamente condizionate all’inadempimento del debitore, oppure da vendite con annesso patto di ricompera, di riscatto o di retrovendita. In questi casi la funzione di garanzia si compie con il trasferimento al creditore - a titolo temporaneo o provvisorio - del diritto pieno di proprietà. Di tali alienazioni a scopo di garanzia la Corte di cassazione si è dovuta occupare al fine di evitare che con esse le parti violino il divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c.

Con la vendita con patto di riscatto il venditore si riserva il diritto di riacquistare la cosa venduta alle condizioni stabilite dagli artt. 1500 ss. c.c. e ciò al fine di ottenere l’equivalente denaro, nella speranza che, successivamente, possa riacquistare il bene venduto. Il negozio in esame può assumere una funzione di garanzia se vista dal lato del compratore, in quanto il pagamento del prezzo può avere la natura di un prestito e la proprietà del compratore garantisce dall’inadempimento dello stesso.

Diversamente, nel caso di vendita con riserva di proprietà, l’acquirente paga il prezzo del bene in via dilazionata divenendone proprietario, anche se ne ha già la materiale disponibilità, solo al momento del pagamento dell’ultima rata di prezzo. In sostanza il diritto di proprietà rimane in capo al venditore, svolgendo una funzione di garanzia sul pagamento del prezzo, laddove l’inadempimento del pagamento del prezzo da parte del compratore comporta la risoluzione del contratto. Con riferimento a tale schema contrattuale, Sez. 2, n. 22190/2020, Besso Marcheis, Rv. 659366 - 01, ha affermato che la disposizione di cui all’art. 1525 c.c., secondo cui «Nonostante patto contrario, il mancato pagamento di una sola rata, che non superi l’ottava parte del prezzo, non dà luogo alla risoluzione del contratto, e il compratore conserva il beneficio del termine relativamente alle rate successive», ha lo scopo di limitare l’autonomia contrattuale attraverso l’eteroregolamentazione legale che richiede, affinché la vendita possa risolversi su domanda del venditore rimasto creditore del prezzo, che il compratore non sia inadempiente per il mancato pagamento di una sola rata che non superi l’ottava parte del prezzo, con la rilevanza dell’inadempimento tipizzata dall’ordinamento che preclude al venditore o al suo cessionario di poter chiedere la risoluzione oltre i limiti della rilevanza legale.

6. La locazione: differenza tra affitto e locazione, aspetti sostanziali e processuali.

Con riferimento agli aspetti processuali, la Sez. 3, n. 19632/2020, Gorgoni, Rv. 658692-01, si è occupata della vicenda afferente ad un contratto, dalle parti denominato affitto d’azienda, nel quale era prevista, quale controprestazione, oltre al pagamento dei canoni, che l’ordinaria manutenzione sarebbe stata a carico della affittuaria. In particolare, la vicenda aveva ad oggetto l’individuazione delle opere di manutenzione ordinaria. La Corte, confermando la sentenza di merito, ha affermato che carico di chi affitta un’azienda grava l’obbligo di conservarla in tutte le sue componenti nello stato in cui viene affittata con conseguente obbligo di sostenere tutte le spese necessarie a tale scopo. Sicché la distinzione tra spese di manutenzione ordinaria e straordinaria — a differenza di quanto avviene per il contratto di locazione di beni non produttivi — deve partire da tale premessa, con la conseguenza che ciò che rientra nel novero dei lavori di manutenzione ordinaria va determinato in negativo, escludendo quelle opere che risultino straordinarie perché esulano da quelle volte alla conservazione della destinazione economica originariamente impressa al bene concesso in godimento e al ripristino della sua attitudine produttiva. L’alleggerimento degli obblighi manutentivi a carico del locatore è giustificato dal fatto che il conduttore fa proprio il reddito derivante dalla cosa, perciò sostenere le spese di manutenzione ordinaria mantiene l’equilibrio sinallagmatico. Ne consegue, ai fini della distinzione tra spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, con riferimento al contratto di affitto, deve eventualmente adoperarsi, in via orientativa e in assenza di un criterio discretivo certo, l’elenco esemplificativo delle riparazioni straordinarie di cui all’art. 1005 c.c., norma applicabile anche ad istituti diversi dall’usufrutto.

Con riferimento agli aspetti processuali, la Sez. 6-3, n. 23110/2020, Graziosi, Rv. 659270-01, ha confermato il principio espresso dalla Sez. 6-3, n. 19384/2012, Barreca, Rv. 624207-01, secondo cui il contratto che ha per oggetto l’affitto di un bene produttivo deve essere inquadrato nello schema dell’affitto e non nella diversa figura della locazione, con la conseguenza che ad esso non sono applicabili le leggi speciali riguardanti le locazioni e, dunque, il criterio di competenza del forum rei sitae, dettato dall’art. 21 c.p.c. per i contratti di locazione e affitto di azienda, in quanto la distinzione delle species contrattuali, di natura sostanziale, nel predetto articolo si riverbera sull’interpretazione delle norme processuali sulla competenza, le quali sono in rapporto di strumentalità con i tipi sostanziali. Nel caso di specie il Tribunale di Termini Imerese aveva rigettato l’eccezione di incompetenza territoriale a favore del Tribunale di Palermo sollevata dagli opponenti a decreto ingiuntivo con cui il Tribunale aveva ordinato di pagare la somma di €. 116.962,62, oltre interessi e spese, all’opposto a titolo di canone in relazione a un contratto di affitto. L’eccezione era stata proposta in riferimento all’articolo 21 c.p.c., per avere il contratto ad oggetto un terreno e l’annesso pozzo situati nel territorio del Comune di Palermo. L’opposta si era costituita chiedendo il rigetto dell’eccezione di incompetenza, trattandosi di contratto di affitto di bene produttivo, non assoggettato quindi all’articolo 21 c.p.c. La Corte ha ritenuto corretta la decisione del Tribunale di Termini Imerese, in quanto l’art. 21 cit., non è applicabile al contratto di affitto di bene produttivo, dovendosi il contratto in esame qualificarsi come contratto di affitto per finalità produttiva. La Corte ha, infatti, osservato che l’art. 21 c.p.c., al primo comma, conferisce al «giudice del luogo dove è posto l’immobile o l’azienda», oltre alle cause ulteriori ivi indicate (cause relative a diritti reali su beni immobili, cause relative ad apposizione di termini e ad osservanza delle distanze relative al piantamento degli alberi e delle siepi), «le cause in materia di locazione e comodato di immobili e di affitto di aziende». Parallelamente, l’art. 447 bis c.p.c. delinea poi il cosiddetto rito locatizio per questo gruppo di cause. È dunque evidente che il contratto di affitto rientra nel cluster che ne deriva esclusivamente se ha per oggetto un’azienda. Non rientra, invece, il contratto di affitto di cosa produttiva di cui agli articoli 1615 ss. c.c., che costituisce ovviamente un paradigma diverso. In particolare, il Collegio nel riportare il precedente citato rileva che la disciplina del codice civile fonda la distinzione tra locazione ed affitto -che fa di questo secondo contratto una species del primo - sulla diversa tipologia dell’oggetto del contratto, definendo come affitto la locazione che «ha per oggetto il godimento di una cosa produttiva, mobile o immobile» (art. 1615 cod. dv.). La peculiarità dell’oggetto connota le obbligazioni dell’affittuario poiché questi «deve curarne la gestione in conformità della destinazione economica della cosa e dell’interesse della produzione» (art. 1615 cod. civ.); connota altresì i suoi diritti, poiché gli «spettano i frutti e le altre utilità della cosa» (art. 1615 cod. civ.). Va perciò ribadito che il contratto che ha per oggetto lo sfruttamento di un bene produttivo, va inquadrato nello schema dell’affitto e non nella diversa figura contrattuale della locazione, con la conseguenza che ad esso non sono applicabili le leggi speciali riguardanti le locazioni urbane, né, in ragione della tassatività della previsione dell’art. 657 cod. proc. civ., lo speciale procedimento di convalida di licenza o di sfratto.

6.1. Locazione e la novazione del rapporto, presupposti.

Con Sez. 3, n. 22126/2020. Iannello, Rv. 659241-01, la Corte, dopo aver ribadito il costante orientamento della Corte di cassazione secondo cui, in tema di locazione, non è sufficiente ad integrare novazione del contratto la variazione della misura del canone o del termine di scadenza, trattandosi di modificazioni accessorie, essendo invece necessario, oltre al mutamento dell’oggetto o del titolo della prestazione, che ricorrano gli elementi dell’animus e della causa novandi, il cui accertamento costituisce compito proprio del giudice di merito insindacabile in sede di legittimità se logicamente e correttamente motivato - ha rilevato l’errore di sussunzione in cui era incorso il giudice di merito per avere attribuito rilevanza, ai fini della configurabilità della dedotta novazione, sotto il profilo oggettivo (aliquid novi), a pattuizioni incidenti su aspetti meramente accessori del rapporto. In particolare, la Corte ha ritenuto tali: la previsione della risoluzione di diritto in caso di ritardato pagamento del canone, riguardando situazione meramente eventuale e patologica del rapporto; il prolungamento di un ulteriore seennio del rapporto, in quanto si tratta di effetto incidente su aspetto meramente accessorio del rapporto; la prevista maggiore misura dell’aggiornamento Istat del canone, trattandosi di previsione che, oltre a essere palesemente e incontestatamente nulla per contrasto con l’art. 32 legge eq. can., incide anch’essa su aspetto del rapporto (ossia l’ammontare del canone) che non può comunque considerarsi, di per sé solo, suscettibile di modificazioni tali da integrare novazione del rapporto.

6.2. Il sinallagma contrattuale.

La Corte d’appello di Milano, nel rigettare la domanda volta a dichiarare la risoluzione di alcuni contratti di locazione commerciale, poneva a fondamento di tale decisione la circostanza che la circostanza che gli immobili concessi in locazione fossero risultati affetti da abusi di carattere edilizio non fosse valsa a impedire il pieno godimento degli stessi immobili da parte della società conduttrice, che ne aveva fatto uso senza alcun tipo di pregiudizi e senza alcuna forma di ingerenza, di controllo o di limitazione da parte dell’autorità amministrativa, con la conseguente persistente integrità del sinallagma contrattuale, dovendo, in ogni caso, escludersi che la concessione in godimento di immobili abusivi integrasse gli estremi di una nullità contrattuale. La Sez. 3, n. 17557/2020, Dell’Utri, Rv. 658684-01, nel rigettare il ricorso proposto dalla conduttrice ha condiviso la decisione dei giudici di merito rilevando che, sul terreno dei prospettabili inadempimenti delle parti, il discorso sulla natura abusiva dell’immobile locato chiede di risolversi nell’analisi degli interessi disposti in sede contrattuale, potendo individuarsi un eventuale inadempimento del locatore solo là dove il carattere abusivo dell’immobile concesso in godimento abbia in qualche misura inciso su un qualche concreto profilo di interesse del conduttore. Ciò posto - finché nessuna limitazione, contestazione o turbativa del godimento abbia condizionato la sfera del conduttore - spetterà a quest’ultimo allegare e fornire la prova del concreto pregiudizio subito per effetto di tale particolare caratteristica giuridica del bene, dovendo escludersi il ricorso di alcun inadempimento del locatore, in ragione della mera circostanza, in sé, del carattere abusivo dell’immobile locato, non costituente, in quanto tale, un pregiudizio in re ipsa per il conduttore.

Sempre con riferimento al profilo del sinallagma contrattuale in tema di contratto di affitto risulta di particolare rilievo la Sez. 3, n. 14240/2020, Scrima, Rv. 658329-01, che si è occupata di una fattispecie avente ad oggetto la domanda di risoluzione di un contratto di affitto per mancato pagamento dei canoni di affitto da parte dell’affittuaria. Avverso tale domanda l’affittuaria, non contestava il pagamento tardivo delle rate trimestrali, ma sosteneva l’inoperatività della clausola risolutiva espressa, azionata dalla proprietaria in mala fede, considerata la tolleranza dimostrata sin dall’inizio della gestione dalla concedente nel ricevere i pagamenti dei canoni ben oltre il termine stabilito, essendo la stessa consapevole delle difficoltà di gestione ed economico- finanziarie che interessavano tutti gli esercenti del centro commerciale. Così ricostruita la fattispecie, la Corte di cassazione, ha affermato che la valutazione sull’esistenza, o meno, di una prassi di tolleranza del ritardo nel pagamento dei canoni locativi costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità ed il mancato esercizio, da parte del locatore, del potere potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per l’inadempimento del locatario, in virtù della previsione di una clausola risolutiva espressa, è l’effetto conformante della buona fede nella fase esecutiva del detto contratto. In ragione di ciò, la Corte, nel rigettare il ricorso avverso la sentenza che aveva respinto la domanda di risoluzione, ha affermato che il rispetto del principio di buona fede impone che il locatore, contestualmente o anche successivamente all’atto di tolleranza, manifesti la sua volontà di avvalersi della menzionata clausola risolutiva espressa in caso di ulteriore protrazione dell’inadempimento e comunque per il futuro, circostanza che non era avvenuta nella fattispecie. In sostanza, nel caso di specie assumeva rilievo il fatto che la concedente, contestualmente o successivamente ai descritti atti di tolleranza, non aveva mai manifestato l’intenzione di avvalersi della clausola risolutiva espressa in caso di ulteriore protrazione dell’inadempimento, circostanza che avrebbe escluso la tacita rinuncia ad avvalersene.

6.3. Indennità di avviamento.

Per effetto dell’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, ex art. 34 della l. n. 392 del1978, il conduttore di un locale ad uso commerciale ha diritto all’indennità per la perdita di avviamento in caso di cessazione del rapporto di locazione non dovuta a risoluzione per inadempimento o disdetta o recesso del conduttore stesso o a una delle procedure di cui al regio decreto n. 267/1942. La previsione legislativa mira, da un lato, a tutelare il conduttore, dai disagi e dalle difficoltà derivanti alla sua attività commerciale a causa della disdetta del contratto di locazione da parte del proprietario/locatore e, dall’altro, a disincentivare il locatore dal recesso anticipato spingendolo ad attendere la scadenza naturale del contratto per evitare di incorrere nell’obbligo del versamento delle somme a titolo di indennità.

Con Sez. 6-3, n. 12405/2020, Scrima, Rv. 658221-02, la Corte ha affermato che l’art. 79 l. n. 392 del 1978, il quale sancisce la nullità di ogni pattuizione diretta a limitare la durata legale del contratto di locazione o ad attribuire al locatore un canone maggiore di quello legale, ovvero ad attribuirgli altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della legge stessa, mira ad evitare che al momento della stipula del contratto le parti eludano in qualsiasi modo le norme imperative poste dalla legge sul cosiddetto equo canone, aggravando in particolare la posizione del conduttore, ma non impedisce che al momento della cessazione del rapporto le parti addivengano ad una transazione in ordine ai rispettivi diritti ed in particolare alla rinunzia da parte del conduttore, dopo la cessazione del rapporto, all’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale di cui all’art. 34 della stessa legge, e, “a fortiori”, ad avvalersi della facoltà di impedire che l’esecuzione si compia senza la corresponsione (o l’offerta nella misura dovuta) della detta indennità.

6.4. Le obbligazioni del locatore.

Sez. 3, n. 07574/2020, Graziosi, Rv. 657428-01, ha accolto il ricorso della conduttrice e, per l’effetto, cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto l’art. 1621 c.c. avente natura inderogabile. In ragione di tale assunto i giudici di merito avevano ritenuto nullo l’art. 17 del contatto di affitto con il quale le parti avevano stabilito, in deroga all’art. 1621 c.c., che «ai sensi dell’art. 1621 c.c. le spese di manutenzione e riparazione ordinaria e straordinaria sono a carico dell’affittante, mentre le spese di piccola manutenzione ordinaria sono a carico della parte affittuaria». La Corte ha osservato che l’art. 1621 c.c., sorge esclusivamente dalla ratio di colmare eventuali carenze del regolamento negoziale in ordine alle “Riparazioni”, ma non inibisce alle parti di scegliere direttamente, al riguardo, la disciplina, lasciando quindi integra l’autonomia negoziale.

Sempre nel corso del 2020 la Corte (Sez. 3, n. 08466/2020, Scarano, Rv. 657801 - 01) ha affermato che il conduttore ha diritto alla tutela risarcitoria nei confronti del terzo che, con il proprio comportamento, gli arrechi danno nell’uso o nel godimento dell’immobile locato, avendo un’autonoma legittimazione per proporre l’azione di responsabilità contro l’autore di tale danno, ai sensi dell’art. 1585, comma 2, c.c.

6.5. Le obbligazioni del conduttore, restituzione della cosa locata.

Sez. 3, n. 08526/2020, Gorgoni, Rv. 657811 - 01 ha affermato che l’inadempimento o l’inesatto adempimento dell’obbligazione contrattuale è di per sé un illecito, ma non obbliga l’inadempiente al risarcimento se, in concreto, non è derivato un danno al patrimonio del creditore, neppure nell’ipotesi disciplinata dall’art. 1590 c.c. Applicando tale principio alla fattispecie oggetto di scrutinio, la Corte ha rilevato che il conduttore non è tenuto al risarcimento se dal deterioramento della cosa locata, superiore a quello corrispondente all’uso della stessa in conformità del contratto, per particolari circostanze non è conseguito un danno patrimoniale al locatore. In particolare, nella specie, la riconsegna era avvenuta per consentire che l’immobile, destinato ad attività alberghiera, fosse sottoposto a ristrutturazione, sulla quale il deterioramento non aveva avuto alcuna incidenza economica.

6.6. Locazione non abitativa: la denuntiatio, presupposti.

Sez. 6-3, n. 17992/2020, Dell’Utri, Rv. 659011-01, ha cassato la sentenza della Corte d’Appello di Palermo che, in accoglimento dell’appello proposto e in riforma della decisione di primo grado, aveva ordinato il trasferimento, ai sensi dell’art. 2932 c.c., della quota di un terzo indiviso di proprietà di un’area condotta in locazione dalla appellata e appartenente agli appellanti, con la contestuale condanna della prima al pagamento, in favore degli appellanti, del prezzo dovuto. Tale pronuncia si fondava sul diritto dell’appellata a godere della prelazione spettante, ai sensi dell’art. 38 della legge n. 392 del 1978; diritto rispetto al quale non assumeva alcun rilievo la mancata coincidenza tra il bene immobile condotto in locazione (nella sua interezza) e quello offerto in prelazione dalle controparti che non aveva impedito l’incontro effettivo della volontà negoziale delle parti con conseguente condanna dell’appellata, ex art 2932 c.c., al trasferimento pro quota del suindicato immobile. Diversamente la Corte di cassazione nel confermare il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui la comunicazione del locatore al conduttore dell’intenzione di vendere l’immobile locato per uso non abitativo - cosiddetta denuntiatio, prevista dall’art. 38 della l. n. 392 del 1978 - è atto dovuto non negoziale, volto a consentire l’esercizio del diritto di prelazione, ha, poi, precisato che ciò vale purché però sussistano già i presupposti per la sua esistenza. Di talché, prosegue il Collegio, in carenza di questi è inefficace l’adesione del conduttore alla suddetta denuntiatio. Alla luce di tale principio, la Corte ha escluso che nel caso di specie sussistessero i presupposti per l’esercizio del diritto di prelazione, attesa l’oggettiva diversità tra la quota offerta nella denuntiatio e l’intero bene condotto in locazione dal conduttore.

6.7. La risoluzione per inadempimento del conduttore, risarcimento danno per il locatore, quantificazione.

Nel corso di un rapporto di locazione commerciale, la conduttrice agiva proponeva domanda volta ad ottenere la risoluzione del contratto per inadempimento di controparte chiedendone anche la condanna al risarcimento del danno. La locatrice resisteva, deducendo l’inadempimento della conduttrice al pagamento dei canoni, per i quali aveva chiesto ed ottenuto decreto ingiuntivo, opposto dall’altra società. Riuniti i procedimenti, il Tribunale rigettava le domande della conduttrice e condannava l’ingiunta al pagamento delle somme maturate fino alla data di riconsegna formale dell’immobile, respingendo la domanda della locatrice con la quale chiedeva, a titolo risarcitorio, anche il pagamento dei canoni ulteriori, maturati e maturandi successivamente al rilascio fino alla scadenza naturale del contratto, originariamente stipulato per sei anni. Tale ultima domanda trovava parziale accoglimento dinnanzi alla Corte d’Appello la cui sentenza era oggetto di ricorso dinanzi alla Corte di cassazione.

Sez. 3, n. 08482/2020, Iannello, Rv. 657805 - 01 è stata investita, dunque, investita sulla risarcibilità del danno rappresentato dai canoni non riscossi dopo lo scioglimento del rapporto e fino all’eventuale rilocazione del bene e sulla sua quantificazione nei limiti della eventuale differenza tra il canone originariamente pattuito e quello della nuova locazione. La Corte premette richiamando i principi generali in tema di risoluzione e segnatamente dall’art. 1453 c.c., che configura l’obbligo risarcitorio come rimedio ulteriore sia alla manutenzione che alla risoluzione del contratto. Resta tuttavia da chiarire se la norma attribuisca alla parte che subisce l’inadempimento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione dell’interesse contrattuale positivo.

In proposito, il Collegio riporta le soluzioni giurisprudenziali proposte sul punto. Secondo l’orientamento maggioritario viene riconosciuto al locatore non inadempiente il diritto di pretendere quanto avrebbe potuto conseguire se le obbligazioni fossero state adempiute (detratto l’utile ricavato) o che, con la normale diligenza, avrebbe potuto ricavare dall’immobile nel periodo intercorso tra la risoluzione prematura ed il termine convenzionale del rapporto inadempiuto. In particolare si osserva che l’art. 1453 c.c. fa salvo in ogni caso il diritto al risarcimento della parte adempiente che chiede la risoluzione del contratto per inadempimento della controparte; ciò a conferma che tra i danni risarcibili è compreso anche il mancato guadagno, se e in quanto sia conseguenza diretta ed immediata dell’evento risolutivo, ex art. 1223 c.c. Quanto all’ammontare del danno effettivamente subito dal locatore sarà poi necessario un accertamento concreto, che costituisce indagine di merito riservata al giudice, da farsi caso per caso e non sindacabile se non sotto il profilo del vizio di motivazione.

La tesi opposta esclude invece, già in astratto, che avvenuta la risoluzione per inadempimento del conduttore a seguito del rilascio del bene, il locatore possa lamentare un danno per la mancata percezione dei canoni esigibili fino alla scadenza del contratto o fino alla rilocazione. La mancata percezione dei canoni pattuiti non costituisce una perdita, dato che comunque non avrebbero mai fatto parte del patrimonio del locatore a causa dell’intervenuta risoluzione, ma non configura neppure un mancato guadagno. Secondo tale orientamento, se infatti è vero che il canone rappresenta il corrispettivo della privazione della facoltà di godimento del bene, è altrettanto vero che il locatore, in seguito alla risoluzione del contratto e con il rilascio riacquisita la facoltà di godimento e disponibilità dell’immobile e quindi non può pretenderne la corresponsione.

Con la sentenza in esame la Corte aderisce al primo dei due orientamenti, non reputando convincente l’affermazione secondo cui la riottenuta disponibilità del bene da parte del locatore sarebbe sufficiente a compensare il danno subito.

A sostegno ti tale conclusione depone la circostanza che se è vero che il proprietario dell’immobile è libero di scegliere se goderne, direttamente o indirettamente, o anche di non utilizzarlo in alcun modo, non è altrettanto vero che queste scelte siano realizzabili e abbiano lo stesso valore economico, a prescindere dalle condizioni personali e di mercato e sul solo presupposto di effettiva disponibilità del bene. Se il proprietario non consegue l’interesse contrattuale voluto, consistente nella percezione di un canone a fronte del godimento garantito al conduttore, si determina un danno che non viene meno per la sola riacquistata disponibilità del bene. Il locatore continuerà infatti a subire il pregiudizio derivante dalla risoluzione fino alla successiva rilocazione del bene a terzi, oppure fino al termine del rapporto originariamente pattuito.

Con specifico riferimento al caso di specie, i giudici osservano che la scelta di godere indirettamente dell’immobile attraverso la locazione era già stata fatta liberamente dalla società locatrice, che l’ha preferita sia all’esercitarvi direttamente un’attività produttiva, sia al non utilizzo e che è stata frustrata dall’inadempimento della conduttrice e dalla successiva risoluzione, privandola definitivamente dei crediti derivanti dal rapporto ormai risoltosi.

6.8. Locazione di immobile ad uso non abitativo, affitto di azienda: differenze.

Sez. 3, n. 03888/2020, Cricenti, Rv. 657146-01, ha indicato i criteri discretivi tra due distinte fattispecie contrattuali: la locazione ad uso commerciale e l’affitto d’azienda. In proposito assume rilievo il carattere dell’organizzazione, che deve preesistere alla cessione; in difetto, non si è possibile affermare che si è ceduto il godimento di un’azienda o di un suo ramo. Precisa, ancora, la Corte che il bene immobile oggetto del negozio, non deve rivestire un carattere centrale, ma essere uno degli altri elementi dell’azienda.

Nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la decisione della Corte d’Appello, la quale, poiché l’immobile oggetto del contratto era situato in un centro commerciale, aveva erroneamente ritenuto l’avvenuta cessione di un’organizzazione aziendale, senza verificare se il cedente avesse in precedenza impresso ai beni interessati dall’accordo una tale organizzazione e valorizzando, invece, il trasferimento in godimento, assieme al locale, di elementi, quali un massetto, un registratore ed un gabinetto, di per sé insufficienti a costituire un’azienda. Va preliminarmente osservato che la locazione ad uso commerciale è disciplinata dagli artt. 7 e ss. (in quanto richiamati dall’art. 41) e dagli 27-42 della legge n. 392 del 1978 (legge sull’equo canone). Il contratto d’affitto d’azienda è invece, previsto dall’art. 2562 c.c., mentre il contratto d’affitto tout court è definito dall’art. 1615 c.c. come il negozio avente ad oggetto un bene produttivo, mobile o immobile. Si tratta del contratto con cui un soggetto (affittante o locatore), dietro corrispettivo, si obbliga a far godere l’azienda ad altro soggetto (affittuario), il quale deve gestirla senza modificarne la destinazione e conservare l’efficienza dell’organizzazione. Alla luce di ciò, la Corte si è soffermata sugli elementi fondamentali che compongono l’azienda. Uno di essi è l’organizzazione come, del resto, si evince dall’art. 2555 c.c. Premesso che l’azienda è composta da una pluralità di beni, il collante è l’attività dell’imprenditore, intesa come organizzazione volta al perseguimento della finalità d’impresa. In ragione di quanto sopra il contratto con cui il cedente conceda al cessionario il godimento di un’azienda presuppone la preesistenza dell’azienda in capo al cedente; di talché è incompatibile con l’affitto d’azienda la cessione in godimento di beni che sarà il cessionario ad organizzare. Da ciò consegue che se oggetto della cessione è solo un complesso di beni, ma non organizzati ai fini dell’impresa, non si ha cessione d’azienda. Conclude la Corte che da quanto sopra l’erroneo convincimento della Corte d’Appello che ha affermato che si ha affitto d’azienda solo allorché sia concesso in godimento un complesso di beni dotato di potenzialità produttiva, anche se l’attività produttiva non sia ancora iniziata al momento della conclusione del contratto.

7. Il mandato.

L’istituto del mandato è stato affrontato quest’anno dalla S.C. prevalentemente sotto il profilo della legittimazione all’azione del mandante. È stato precisato da Sez. 3, n. 08101/2020, Rossetti, Rv. 657573-03, che la legittimazione a domandare la restituzione di un indebito pagamento eseguito dal mandatario secondo le disposizioni del mandante spetta a quest’ultimo e non al mandatario, a meno che il mandato non abbia attribuito anche la suddetta facoltà e sempre che, in questo caso, la domanda giudiziale di restituzione sia formulata dal mandatario spendendo tale sua qualità.

L’azione diretta del mandante nei confronti del sostituto del mandatario, viceversa, presuppone che il mandante, surrogandosi al sostituito, agisca per la mala gestio rimproverabile al sostituto. Secondo, infatti, Sez. 2, n. 09381/2020, Grasso, Rv. 657704-01, tale azione diretta non sussiste, qualora il sostituito non possa esercitare un’azione contrattuale nei confronti del sostituto, per averne ratificato l’operato o per avervi previamente rinunciato.

8. La mediazione.

In materia di mediazione nel corso dell’anno la S.C. si è confrontata principalmente, da un lato, sulla questione dell’individuazione degli elementi comuni e di quelli differenziali rispetto alla figura del procacciatore d’affari e, dall’altro, sulla sempre più attuale questione relativa alla compatibilità della disciplina interna in rapporto al diritto unionale. Non sono mancati, tuttavia altresì, arresti chiarificatori di alcuni profili relativi al contratto, al rapporto e alla responsabilità del mediatore.

In tema di rapporti tra mediazione e procacciamento di affari Sez. 2, 18489/2020, Varrone, Rv. 659120-01, ha chiarito, in linea con Sez. 2, n. 04422/2009, Petitti, Rv. 606724-01, che, l’elemento comune a dette figure è dato dalla prestazione di un’attività di intermediazione diretta a favorire tra terzi la conclusione di un affare, con conseguente applicazione di alcune identiche disposizioni in materia di diritto alla provvigione.

L’elemento distintivo, viceversa, consiste nel fatto che il mediatore è un soggetto imparziale, mentre nel procacciamento di affari l’attività dell’intermediario è prestata esclusivamente nell’interesse di una delle parti. Deriva da tale assunto che al procacciatore d’affari sono applicabili, in via analogica, le disposizioni del contratto d’agenzia, ivi comprese quelle in materia di prescrizione del compenso spettante all’agente, diverse da quelle previste per il compenso spettante al mediatore.

Ove diversamente l’attività di mediazione sia stata prestata contemporaneamente in favore di entrambi i contraenti è, viceversa, configurabile il diritto alla provvigione. È ben possibile, infatti, che il procacciatore, nel promuovere gli affari del suo mandante, svolga un’attività utile anche nei confronti dell’altro contraente con piena consapevolezza e accettazione da parte di quest’ultimo.

A tale proposito Sez. 2, 12651/2020, Cosentino, Rv. 658278-01, ha precisato, infatti, che è richiesto un accertamento relativo al concreto atteggiarsi del rapporto e, in particolare, alla natura dell’attività svolta e agli accordi concretamente intercorsi con la parte che non abbia conferito l’incarico, essendo il procacciatore di affari una figura atipica, i cui connotati, effetti e compatibilità, vanno individuati di volta in volta, con riguardo alla singola fattispecie. In tal senso risulta confermato quanto già espresso da Sez. 3, 14582/2007, Lanzillo R., Rv. 597986-01.

Sul versante della verifica di compatibilità con il diritto dell’Unione Europea, Sez. 2, n. 17478/2020, Carrato, Rv. 658898-01, ha escluso che la previsione della non spettanza della provvigione al mediatore non iscritto all’albo, contenuta nella l. 3 febbraio 1989, n. 39, sia in contrasto con la direttiva 86/653/CEE, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti. Tale direttiva, che osta ad una normativa nazionale che subordini la validità di un contratto di agenzia all’iscrizione dell’agente di commercio in apposito albo, non si rivolge, infatti, al mediatore, il quale agisce in posizione di terzietà rispetto ai contraenti posti in contatto, a tale stregua differenziandosi dall’agente di commercio, che attua invece una collaborazione abituale e professionale con altro imprenditore. Risulta, quindi, anche sotto questo profilo, confermato quanto a suo tempo già affermato da Sez. 1, n. 13184/2007, Giusti, Rv. 596864-01.

Nell’ambito dell’analisi degli elementi del contratto Sez. 2, n. 19565/2020, Giannaccari, Rv. 659175-01, ha affermato che la clausola del contratto che riservi al mediatore, in caso di recesso anticipato del preponente, una penale commisurata al prezzo di vendita del bene, indipendentemente dall’attività di ricerca di acquirenti che il mediatore abbia concretamente svolto per la conclusione dell’affare non si sottrae ad un’analisi sulla sua vessatorietà.

Si tratta, infatti, di una verifica che il giudice è tenuto a compiere d’ufficio, sia al fine di verificare se la clausola determini un significativo squilibrio a carico del consumatore dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, ex art. 33, comma 1, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 205, sia per il suo potenziale contrasto con l’art. 33, comma 2, lett. e), del d.lgs. citato, in base al quale si presume vessatoria la clausola che consente al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest’ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest’ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere.

È stata ribadita da Sez. 6-2, n. 22426/2020, Giannaccari, Rv. 659402-01, in linea con quanto affermato da Sez. 3, n. 01120/2015, Travaglino, Rv. 633989-01, sotto il diverso profilo del diritto alla provvigione, la necessità della sussistenza di un nesso stretto di causalità tra l’attività svolta e la conclusione dell’affare.

Ove, viceversa, l’attività di intermediazione sia svolta in forma societaria, ai fini del riconoscimento del diritto alla provvigione è necessario, secondo Sez. 6-2, n. 10350/2020, Tedesco, Rv. 657817-01, che la società o il suo legale rappresentante siano iscritti nell’albo di cui alla l. 3 febbraio 1989, n. 39 (nel testo applicabile ratione temporis). Non è di conseguenza sufficiente a far sorgere in capo alla società il diritto alla provvigione la semplice iscrizione nel ruolo dei mediatori del legale rappresentante come persona fisica.

Da una diversa angolazione del rapporto negoziale, Sez. 2, n. 20512/2020, Gorjan, Rv. 659139-01, ha chiarito che nel perimetro della responsabilità ex art. 1759 c.c. del mediatore professionale e del correlato onere di corretta informazione delle parti rientra anche il profilo della capacità patrimoniale delle parti stesse, specie in presenza della dazione di una somma a titolo di anticipo di pagamento o di caparra, costituendo un elemento influente sulla sicurezza dell’affare.

Non sono, infine, mancate pronunce che hanno affrontato alcune questioni di rilevanza fiscale. In particolare, Sez. 2, n. 20537/2020, Carrato, Rv. 659203-01, ha chiarito che la decorrenza del termine di prescrizione per l’esercizio dell’azione diretta al recupero dell’IVA, in sede di rivalsa, da parte del mediatore è fissata al momento dell’emissione della fattura.

In ipotesi di contratti ad effetti obbligatori, quali ad esempio la stipula di un contratto preliminare, il costo corrisposto all’intermediario, in assenza di clausole sospensive della debenza della provvigione rilevante fiscalmente, deve essere imputato secondo il criterio di competenza, da individuarsi nel momento in cui lo stesso, essendo stato stipulato il preliminare, possa ritenersi certo e determinato, avendo il mediatore ultimato la propria attività. Il principio, affermato da Sez. 5, n. 15752/2020, Crucitti, Rv. 658405-01, poggia, infatti, sul presupposto che in tema di determinazione del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 109 (già art. 75) T.U.I.R. (d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917) “le spese di acquisizione dei servizi” sono da imputare e si considerano sostenute nell’esercizio nel quale la prestazione di servizi “è ultimata”.

9. La transazione.

Lo strumento tipico di composizione delle liti è il processo, avendo, poi, il legislatore previsto, quando si verte in materia di diritti disponibili, la possibilità per le parti di comporre pattiziamente, per mezzo della transazione, le liti senza ricorrere alla pronuncia del giudice. In ragione di quanto sopra, risulta evidente come l’istituto in esame trovi applicazione in molti settori potendo avere i contenuti più svariati; si possono trasferire diritti, cedere crediti, estinguere obblighi. La causa di tale contratto deve individuarsi nella composizione di una lite già sorta o che può nascere, a fronte della quale le parti si fanno reciproche concessioni.

Con riferimento alla giurisdizione in tema di transazione qualora parte di essa sia una pubblica amministrazione assume rilievo il principio fissato dalle Sezioni Unite della Corte (Sez. U, n. 24101/2020, Rubino, Rv. 659449-01). La questione sottoposta alla Corte era quella afferente all’individuazione del giudice competente a decidere nel caso di controversia nata a seguito di una transazione intervenuta tra un Comune e un privato. La questione sottoposta alla Corte scaturiva dalla stipula di un contratto di affittanza agraria instaurato da un Comune con una cooperativa agricola, volto a consentire, verso il pagamento di un corrispettivo, l’utilizzo di un determinato terreno di proprietà comunale adibito a pascolo. A seguito di contrasti nati in ordine a tale contratto le parti stipulavano una transazione successivamente oggetto di impugnazione dinnanzi al giudice ordinario da parte della sub affittuaria che, rimasta estranea alla pattuizione, ne chiedeva la inopponibilità nei suoi confronti. I convenuti chiedevano una declaratoria di difetto di giurisdizione a favore del giudice amministrativo. Il giudice ordinario rigettava l’eccezione formulata sul rilievo che il thema decidendum era la validità ed opponibilità della transazione alla parte attrice. La Corte, nel dare seguito alla pronuncia di merito ha affermato che la controversia relativa alla validità e all’efficacia del contratto di transazione, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, qualora sia estranea alla materia del contendere la natura pubblica o privata del terreno, l’amministrazione non abbia utilizzato poteri autoritativi e le parti si siano limitate a domandare al giudice una verifica della conformità alla normativa positiva delle regole in base alle quali è sorto l’atto negoziale.

Con riferimento ai limiti della transazione, le Sez. U, n. 23593/2020, Carrato, Rv. 659286-02, hanno esaminato i rapporti tra questa e il procedimento disciplinare a carico di un avvocato. In proposito, a seguito di esposto presentato al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Terni nei confronti di un avvocato da una cliente di quest’ultima, il Consiglio distrettuale disciplinare dell’Umbria instaurava un procedimento disciplinare a carico del suddetto professionista legale che si concludeva, a seguito ricorso al Consiglio Nazionale Forense nella condanna del professionista sul rilievo, tra l’altro, che, ai fini della tutela dell’interesse perseguito con tale procedimento, non aveva alcuna rilevanza la sopravvenuta transazione tra il professionista e la sua cliente che aveva presentato l’esposto nei suoi riguardi. La Corte, nel confermare tale decisione ha affermato che nel caso di specie l’intervenuta transazione, nel corso del procedimento, tra l’incolpato e il suo assistito non può influire sul corso del procedimento stesso (comportandone la possibile interruzione od estinzione), poiché l’esercizio del potere disciplinare è previsto a tutela di un interesse pubblicistico, come tale non rientrante nella disponibilità delle parti, rimanendo perciò intatto, per l’organo disciplinare, il potere di accertamento della responsabilità del professionista per gli illeciti a lui legittimamente contestati.

Sez. 3, n. 07963/2020, Guizzi, Rv. 657570-01, ha esaminato gli istituti della transazione novativa e conservativa. La Corte ha rilevato che l’art. 1965 c.c., nel definire - al comma 1 - il contratto di transazione, ha introdotto una previsione sostanzialmente corrispondente a quella dell’art. 1764 del codice civile del 1865, quantunque connotata da maggiore sinteticità, visto che il riferimento alle «reciproche concessioni» tiene il posto dell’indicazione di quelle condotte - consistenti nel «dare», «promettere» o «ritenere», ciascuna delle parti transigenti, «qualche cosa» - che, nel sistema dell’abrogato codice civile, identificava uno degli elementi connotanti, ancora oggi, la presente fattispecie contrattuale (ovvero, il cd. aliquid datum, aliquid retentum). Una novità, invece, viene individuata nel comma 2 dell’art. 1965 c.c., laddove si stabilisce che «le reciproche concessioni possono riguardare rapporti diversi da quello controverso» - dando vita, così, ad una fattispecie contrattuale che si può definire transazione novativa, in contrapposizione a quella semplice o conservativa. In proposito viene rilevato che quantunque l’accordo transattivo sia connotato da una certa portata innovativa, la differenza tra la transazione “novativa” e quella “conservativa” e si ravvisa nel fatto che, nella prima, è necessario che l’accordo raggiunto dalle parti disciplini per intero il nuovo rapporto negoziale, e ciò perché la novazione oggettiva si configura come un contratto estintivo e costitutivo di obbligazioni, caratterizzato dalla volontà di far sorgere un diverso rapporto obbligatorio in sostituzione di quello precedente, con nuove ed autonome situazioni giuridiche, sicché di tale contratto sono elementi essenziali, oltre ai soggetti e alla causa, l’animus novandi, consistente nella inequivoca, comune intenzione di entrambe le parti di estinguere l’originaria obbligazione, sostituendola con una nuova, e l’aliquid novi, inteso come mutamento sostanziale dell’oggetto della prestazione o del titolo del rapporto il tutto, ovviamente, sempre nella prospettiva di eliminare la res litigiosa. Per contro, la transazione è conservativa quando le parti danno vita ad un accordo con il quale si limitano ad apportare modifiche solo quantitative ad una situazione già in atto e a regolare il preesistente rapporto mediante reciproche concessioni, consistenti (anche) in una bilaterale e congrua riduzione delle opposte pretese in modo da realizzare un regolamento di interessi sulla base di un quid medium tra le prospettazioni iniziali. La distinzione tra le due fattispecie - transazione “novativa” e “conservativa” - assume rilievo dirimente, secondo quanto sancito dalla Corte, ai fini dell’applicazione dell’art. 1972 c.c. In proposito, la transazione novativa che interviene su un titolo nullo è sanzionata con la nullità (comma 1) soltanto se relativa a un contratto illecito (per illiceità della causa o del motivo comune a entrambe le parti) ed è invece annullabile negli altri casi, ma il vizio del negozio può essere fatto valere soltanto dalla parte che ha ignorato la causa di invalidità (comma 2); la transazione conservativa, riguardante l’esecuzione o gli effetti di un negozio nullo, è sempre affetta da nullità, ancorché le parti ne abbiano trattato, perché essa regola il rapporto congiuntamente al titolo contrattuale invalido e non in sostituzione di questo. Nella specie, la Corte - nel correggere la motivazione della sentenza impugnata, che aveva erroneamente qualificato come conservativo l’accordo transattivo delle parti contenente la risoluzione consensuale dei contratti di franchising e la disciplina di nuove obbligazioni - ha statuito che la dedotta nullità dei contratti di affiliazione societaria per inosservanza della normativa interna e comunitaria non poteva dar luogo ad annullamento della transazione novativa ex art. 1972, comma 2, c.c., trattandosi di pretesa invalidità del titolo non ignota alle società affiliate.

Sez. 2, n. 04451/2020, Carbone, Rv. 657114-01, ha affrontato il tema della risolubilità della transazione per eccessiva onerosità sopravvenuta. La Corte, preliminarmente, rileva che la legge stabilisce l’rescindibilità della transazione per causa di lesione (art. 1970 c.c.) e l’irresolubilità per inadempimento della transazione novativa (art. 1976 c.c.), ma non anche l’irresolubilità della transazione per eccessiva onerosità sopravvenuta. Alla luce di tale quadro normativo, la Corte ha affermato la natura commutativa, e non aleatoria, della transazione e, pertanto, essa è considerata soggetta al principio generale di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. Osserva, sul punto, il Collegio che l’irresolubilità della transazione novativa per inadempimento, sancita dall’art. 1976 c.c., quale eccezione al principio generale di risolubilità dei contratti a prestazioni corrispettive per alterazione del sinallagma funzionale, è, infatti, ritenuta inestensibile all’eccessiva onerosità, oltre che all’impossibilità sopravvenuta e alla presupposizione. A tale fine in ragione della natura commutativa del rapporto tra aliquid datum e aliquid retentum, e della valenza sistematica della risoluzione per alterazione funzionale del sinallagma, la Corte ha affermato il seguente principio di diritto: «la transazione ad esecuzione differita è suscettibile di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, in base al principio generale emergente dall’art. 1467 c.c., in quanto l’irresolubilità della transazione novativa stabilita in via eccezionale dall’art. 1976 c.c. è limitata alla risoluzione per inadempimento, e l’rescindibilità della transazione per causa di lesione, sancita dall’art. 1970 c.c., esaurisce la sua ratio sul piano del sinallagma genetico».

Nel corso del 2020 la Corte (Sez. 3, n. 13877/2020, Cigna, Rv. 658307-01) è intervenuta in tema di transazione nelle obbligazioni solidali ex art 1304 c.c. Nella sentenza si premette che, l’art. 1304, comma 1, c.c., secondo cui «la transazione fatta dal creditore con uno dei debitori in solido non produce effetto nei confronti degli altri se questi non dichiara di volerne profittare», si riferisce unicamente alla transazione che abbia ad oggetto l’intero debito, e non la sola quota del debitore con cui è stipulata, poiché è la comunanza dell’oggetto della transazione che comporta, in deroga al principio secondo cui il contratto produce effetti solo tra le parti, la possibilità per il condebitore solidale di avvalersene pur non avendo partecipato alla sua stipulazione. Se, invece, la transazione stipulata tra il creditore ed uno dei condebitori solidali ha avuto ad oggetto la sola quota del condebitore che l’ha stipulata, occorre distinguere: nel caso in cui il condebitore che ha transatto ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all’importo pagato; nel caso in cui, invece, il pagamento è stato inferiore, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto. Alla luce di tali principi la Corte ha cassato la sentenza di merito pur dando atto della transazione intervenuta tra i creditori ed un debitore solidale (Casa di Cura), ha poi condannato l’altro debitore solidale (il medico) a pagare ai creditori, in proprio, la complessiva somma di €. 207.725,00, senza accertare se la detta transazione avesse avuto ad oggetto l’intero debito o la sola quota del debitore con cui era stata stipulata, e senza accertare tempi e luoghi dell’eventuale dichiarazione del medico di volerne profittare.

10. Il trasporto.

In materia di trasporto, le Sez. U, n. 03561/2020, Rubino, Rv. 656952-01, nell’affrontare la fattispecie relativa ad un caso di soppressione del volo e, in particolare, la domanda dei passeggeri volta ad ottenere il relativo risarcimento del danno, hanno affermato che in tale ipotesi si applicano i criteri di collegamento indicati dall’art. 33 della Convenzione di Montréal, anche nell’ipotesi in cui il contratto concluso con la compagnia aerea contenga una clausola di proroga della giurisdizione. Nella specie, il vettore aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano in ragione di una specifica clausola contenuta nelle condizioni generali di contratto, accettate dai trasportati, in sede di acquisto on line dei biglietti.

Inoltre, il Collegio, tenuto conto che nel caso di specie i biglietti erano stati acquistati on line, ha affermato che il luogo ove è sito lo stabilimento del vettore che cura la conclusione del contratto - indicato nella Convenzione - coincide con il domicilio degli acquirenti - e, dunque, nel caso in esame, in Italia - in quanto luogo ove i passeggeri erano venuti a conoscenza dell’accettazione della proposta formulata tramite portale web.

In particolare, secondo la compagnia aerea, sussisteva la giurisdizione esclusiva del giudice irlandese in virtù di un’apposita clausola, accettata dai trasportati, con l’apposizione del segno di spunta (point and click), al momento dell’acquisto del titolo di viaggio tramite portale web. La clausola di proroga della giurisdizione è disciplinata dall’art. 25 del Regolamento 1215/2012, in cui si stabilisce che le parti, concordemente, possono convenire la competenza di una specifica autorità giurisdizionale, purché tale pattuizione avvenga per iscritto. Nel caso di specie, la clausola accettata dai trasportati prevedeva la giurisdizione del giudice irlandese, fatto salvo quanto previsto dalla Convenzione di Montréal. Diversamente, i passeggeri rilevavano che l’art. 71 del Regolamento 1215/2012 (Bruxelles I bis) lascia impregiudicate le convenzioni tra gli Stati membri. Orbene, tra Italia e Irlanda sussiste la succitata Convenzione di Montréal in materia di traffico aereo. Tale accordo, quindi, prevale sulle disposizioni contrattuali eventualmente predisposte dal vettore, in forza della sua imperatività (art. 49). In altre parole, secondo i ricorrenti sulla clausola da loro sottoscritta prevalevano le disposizioni della Convenzione (art. 33) in quanto imperative (art. 49). La Corte ha accolto la tesi proposta dai passeggeri sul rilievo che la clausola sottoscritta tra le parti (trasportati e vettore) conteneva una deroga alla giurisdizione, clausola che faceva salvo il contenuto della Convenzione di Montréal, di talché essendo nulla qualsiasi clausola contrastante con le norme della Convenzione, nel caso di specie è la Convenzione che regola la giurisdizione. Essa contiene dei criteri alternativi per radicare la competenza giurisdizionale, tra i quali la possibilità per l’attore di scegliere (art. 33) il Tribunale del domicilio del vettore o della sede principale della sua attività o del luogo in cui esso possiede un’impresa che ha provveduto a stipulare il contratto, il Tribunale del luogo di destinazione. Nel caso di specie, il volo sia in partenza che in arrivo si era svolto sul territorio nazionale, pertanto, la causa poteva correttamente radicarsi in Italia, in virtù dell’ultimo criterio di collegamento.

Sempre con riferimento al trasporto aereo, la Sez. 6-3, n. 24632/2020, Rossetti, Rv. 659913 - 04, ha affermato che la competenza per territorio a conoscere della domanda di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, proposta da un passeggero nei confronti del vettore aereo, va individuata in base ai quattro criteri alternativi stabiliti dall’art. 33, comma 1, della Convenzione di Montréal sul trasporto aereo internazionale. In particolare, tale norma attribuisce la competenza, a scelta dell’attore, anche al giudice avente sede nel luogo dove il vettore possiede una “impresa” che ha provveduto a stipulare il contratto, intendendosi per tale il giudice del luogo in cui il vettore possiede un’organizzazione propria o un soggetto a lui strettamente collegato contrattualmente, per il tramite dei quali distribuisca i biglietti aerei. Nel precisare, poi, che il suindicato art. 33 disciplina non solo il riparto della giurisdizione tra giudici di Stati diversi, ma anche l’individuazione del giudice competente all’interno di ciascuno Stato aderente alla Convenzione, la Corte ha affermato che nella fattispecie, competente a conoscere della domanda era il giudice del luogo in cui era ubicata l’agenzia di viaggi per il cui tramite i passeggeri avevano acquistato i biglietti, sul rilevo che la relativa legittimazione ad emettere titoli di viaggio per conto di una compagnia aerea consentiva di presumere, ex art. 2727 c.c., che l’agenzia fosse stata autorizzata dal vettore all’emissione di biglietti e rappresentasse, quindi, un c.d. ticket office del vettore stesso, in virtù di un apposito accordo bilaterale, idoneo a qualificarlo come institore, mandatario od appaltatore di servizi del vettore aereo.

Nell’ambito del contratto di trasporto assume rilievo quello di trasporto pubblico, che rientra nella nozione di servizio pubblico volto a garantire ai cittadini il proprio diritto alla mobilità. Il trasporto pubblico è stato oggetto di diversi interventi della Corte nel corso del 2020 e, in particolare, Sez. 3, n. 08106/2020, Cricenti, Rv. 657574-01, si è occupata della domanda proposta da una società, esercente il servizio di trasporto locale, sia urbano che extraurbano, in forza di contratti stipulati con il Comune e la Provincia di Padova, volta ad ottenere da tali enti territoriali la compensazione derivante dallo svantaggio economico dovuto all’applicazione di tariffe agevolate a favore delle cosiddette fasce deboli. La società sosteneva di avere ricevuto una compensazione inferiore a quella spettante in base al Regolamento Comunitario n. 1191 del 1969 ed alla legge nazionale n. 422 del 1997. Sia in primo che in secondo grado la domanda veniva stata respinta. La Corte con la sentenza in esame ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto non applicabile alla fattispecie il Regolamento UE n. 1191 del 1969, essendo il rapporto regolato esclusivamente dal contratto stipulato nel 2001, e poi rinnovato, nel quale era previsto un corrispettivo unico sia per gli obblighi di servizio che per quelli tariffari, salva la possibilità di un indennizzo all’esito del consuntivo, indennizzo effettivamente erogato. In sostanza, i criteri legali, aventi fonte nel Regolamento 1191/69/CEE, come modificato dal Regolamento 1893/91/CEE, e nella legge nazionale, non si applicano in presenza di una specifica pattuizione in quanto essi non impongono una compensazione economica a favore delle imprese di trasporto obbligate ad applicare tariffe agevolate, ma hanno lo scopo di fissare criteri comuni per la sua attuazione; pertanto, se gli obblighi di servizio (compresi quelli tariffari) gravano sulle imprese per effetto di contratti stipulati in esito a gare di evidenza pubblica (come previsto dagli artt. 17 e 19 d.lgs. n. 422 del 1997), l’obbligo di compensazione per lo svantaggio economico trova fonte esclusivamente nella contrattazione delle parti, se conforme ai criteri indicati dal predetto Regolamento.

Sempre con riferimento al trasporto pubblico, un passeggero conveniva in giudizio Trenitalia, s.p.a., esponendo che aveva viaggiato su un treno della società evocata in lite che era giunto a destinazione dopo una notte di percorrenza con circa 23 ore di ritardo a causa delle avverse quanto prevedibili condizioni meteorologiche, senza alcuna assistenza in termini di luce, riscaldamento e coperte, cibo e acqua. In ragione di ciò chiedeva il ristoro dei conseguenti danni. In primo e secondo grado la domanda veniva accolta. La Corte (Sez. 3, n. 07754/2020, Porreca, Rv. 657508-02) ha confermato la sentenza di merito affermando che in tema di responsabilità dell’amministrazione ferroviaria, la vigente normativa nazionale e comunitaria sulla tutela indennitaria, cui è tenuto il prestatore del servizio di trasporto ferroviario, è diretta ad assicurare forme di “indennizzo” per le ipotesi di cancellazione, interruzione o ritardo nel detto servizio, ma non a impedire che, ricorrendone i presupposti, sia accolta la richiesta giudiziale di risarcimento di ulteriori pregiudizi tutelati.

11. La vendita: premessa.

Il contratto di vendita è stato anche quest’anno analizzato dalla S.C. sotto molteplici aspetti, in particolare, con riferimento ai diversi tipi di vendita, alle azioni volte a farne valere l’invalidità, ma non sono mancate, come di consueto, parecchie pronunce sul preliminare di vendita.

Sul contratto di vendita in generale, ai fini dell’individuazione del luogo di adempimento dell’obbligazione di pagare il prezzo di beni mobili in base al criterio del forum destinatae solutionis, risulta consolidato il principio espresso a suo tempo da Sez. 2, n. 00648/2004, Colarusso, Rv. 569472-01.

Sez. 6-2, n. 19894/2020, Besso Marcheis, Rv. 659222-01, ha, infatti, confermato che la designazione contrattuale del luogo in cui si trova l’acquirente al momento della consegna della cosa opera solo nell’ipotesi dell’adempimento. Nella diversa ipotesi di inadempimento, seguito da azione giudiziale del venditore, riprende, viceversa, vigore il regolamento legale ex art. 1498, c.c., in virtù del quale il luogo del pagamento coincide con quello del domicilio del venditore-creditore.

11.1. I diversi tipi.

Per la vendita di cose da trasportare Sez. 2, n. 00782/2020, Falaschi, Rv. 656835-01, pronunciandosi su un contratto di fornitura di gasolio, ha ribadito la specialità della disposizione di cui all’art. 1510, comma 2, c.c., applicabile solo in tema di vendita a distanza di cose mobili. La norma prevede che, salvo patto o uso contrario, se la cosa venduta deve essere trasportata da un luogo all’altro, il venditore si libera dall’obbligo di consegna rimettendo la cosa al vettore o allo spedizioniere. In tale fattispecie, infatti, il contratto di trasporto costituisce mera modalità esecutiva.

La S.C., pertanto, ha ricordato che la disposizione in esame risponde alla precisa ratio che è quella di favorire i rapporti commerciali e la vendita a distanza, consentendo al venditore di liberarsi dell’obbligo della consegna, rimettendo la cosa che avrebbe dovuto essere consegnata nel luogo della vendita o presso il suo domicilio o la sede dell’impresa, a due distinte figure professionali, il vettore o lo spedizioniere. Rifacendosi al precedente espresso da Sez. 3, n. 02084/2014, Carleo, Rv. 629823-01, la S.C. ha riaffermato, quindi, che, al di fuori della vendita di cose mobili, il vettore deve essere considerato terzo ausiliario del debitore-mittente, il quale, in caso di perdita o avaria, totale o parziale, risponde verso il creditore-destinatario del fatto doloso o colposo del vettore.

Con riguardo, invece, alla vendita con riserva di proprietà Sez. 2, n. 22190/2020, Besso Marcheis, Rv. 659366-01, ha confermato il principio consolidato, da ultimo affermato da Sez. 2, n. 23967/2013, Nuzzo, Rv. 628021-01, per cui la disposizione di cui all’art. 1525 c.c., concernente l’inadempimento del compratore, ha la funzione di impedire al venditore, di chiedere la risoluzione del contratto oltre i limiti della rilevanza legale dell’inadempimento del compratore per il mancato pagamento del prezzo. La previsione dell’omesso pagamento di una sola rata che non superi l’ottava parte del prezzo, come ipotesi che esclude l’inadempimento, costituisce, dunque, proprio l’espressione di una tipizzazione della rilevanza dell’inadempimento effettuata dall’ordinamento.

Nella vendita a catena Sez. 2, n. 01631/2020, Varrone, Rv. 656847-01, si è pronunciata sull’ambito applicativo dell’azione di rivalsa, consolidando ulteriormente l’orientamento espresso da ultimo da Sez. 2, n. 02115/2015, Varrone, Rv. 634177-01. Il principio dell’autonomia di ciascuna vendita, in particolare, non impedisce al rivenditore di proporre, nei confronti del proprio venditore, domanda di rivalsa di quanto versato a titolo di risarcimento del danno all’acquirente, quando l’inadempimento del rivenditore sia direttamente connesso e consequenziale alla violazione degli obblighi contrattuali verso di lui assunti dal primo venditore.

La vendita di beni di consumo ha, invece, impegnato la S.C. sotto diverse angolazioni.

Ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile Sez. 2, n. 13148/2020, Giannaccari, Rv. 658282-01, ha affermato la natura speciale della normativa prevista dal d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206.

Ove, quindi, ricorrano i presupposti individuati dall’art. 128 del d.lgs. n. 206 del 2005 e, dunque, si tratti di vendita di un bene di consumo, intendendosi per tale “qualsiasi bene mobile”, operata da un soggetto qualificabile in termini di “venditore” alla stregua di tale disciplina e, cioè, “qualsiasi persona fisica o giuridica pubblica o privata che, nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, utilizza i contratti di cui al comma 1”, trovano applicazione innanzitutto le norme del codice del consumo, potendosi ricorrere in via residuale a quelle fissate dal codice civile solo per quanto ivi non previsto.

Sotto il diverso aspetto dei vizi di conformità, è intervenuta Sez. 2, n. 10453/2020, San Giorgio, Rv. 657793-01, chiarendo che, ove la sostituzione o riparazione del bene non siano state impossibili, né risultino eccessivamente onerose, il consumatore, scaduto il termine congruo per la sostituzione o riparazione, senza che il venditore vi abbia provveduto, ovvero se le stesse abbiano arrecato un notevole inconveniente, può agire per la riduzione del prezzo o per la risoluzione del contratto, pur in presenza di un difetto di lieve entità.

A tale proposito, sempre secondo, Sez. 2, n. 10453/2020, San Giorgio, Rv. 657793-02, l’azione per la risoluzione proponibile dal consumatore nei confronti del venditore, ex artt. 1492 e 1519-quater, comma 7, c.c., evidentemente nel periodo di vigenza di tale ultima disposizione, non può essere esperita anche nei confronti dell’importatore del bene, stante la non equiparabilità tra le due figure. Ad avviso dei giudici di legittimità, infatti, dal combinato disposto degli artt. 1519-bis e quinquies c.c., emerge netta la rilevanza di tali posizioni ai diversi fini dell’azione di regresso.

Ove, viceversa, la riparazione o la sostituzione risultino, rispettivamente, impossibile ovvero eccessivamente onerosa, per Sez. 2, n. 01082/2020, Tedesco, Rv. 656841-01, va riconosciuto al consumatore anche il diritto di agire per il solo risarcimento del danno. Benché non espressamente contemplato dall’art. 130, comma 2, del d.lgs. n. 206 del 2005, secondo la S.C., tale diritto all’azione risarcitoria trova fondamento in altre norme dell’ordinamento, secondo quanto disposto dall’art. 135, comma 2, del medesimo codice del consumo, al fine di garantire al consumatore uno standard di tutela più elevato rispetto a quello realizzato dalla Direttiva n. 44 del 1999.

11.2. I vizi e le difformità.

Dal punto di vista generale sono stati riconfermati i limiti della garanzia per i vizi della cosa venduta, operanti nell’ipotesi in cui il compratore ne avesse conoscenza al momento della vendita. Si tratta dell’applicazione del principio di auto responsabilità e consegue all’inosservanza di un onere di diligenza del compratore in ordine alla rilevazione dei vizi che si presentino di semplice percezione.

L’esclusione della garanzia nel caso di facile riconoscibilità dei vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art. 1491 c.c., presuppone, innanzitutto, un apprezzamento in relazione al caso concreto, avuto riguardo alle particolari circostanze della vendita, alla natura della cosa ed alla qualità dell’acquirente. In proposito Sez. 6-2, n. 02756/2020, Falaschi, Rv. 657247-01, ha ribadito, in linea con Sez. 2, n. 02981/2012, Giusti, Rv. 621577-01, che è, tuttavia, da escludere che l’onere di diligenza del compratore debba spingersi sino al punto di postulare il ricorso ad esperti o l’effettuazione di indagini penetranti ad opera di tecnici del settore, al fine di individuare il vizio.

Il giudizio sulla conoscibilità del vizio costituisce, pertanto, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo per limiti della motivazione, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., e, quindi, nel regime anteriore alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, per inadeguatezza della stessa ovvero, a seguito delle modifiche introdotte dal d.l. cit., per omesso esame di un fatto decisivo ed oggetto di discussione tra le parti. In questo senso Sez. 2, n. 08637/2020, Varrone, Rv. 657694-01, ha confermato Sez. 2, n. 24726/2017, Picaroni, Rv. 645802-01.

I confini tra l’ipotesi di nullità del contratto e i vizi della cosa venduta sono stati precisati con riguardo al particolare caso della vendita di animale affetto da malattia infettiva e diffusiva. Sez. 2, n. 17930/2020, Casadonte, Rv. 658961-01, ha chiarito in proposito che la nullità del contratto per incommerciabilità del bene è configurabile solo nel caso in cui la patologia sia espressamente prevista dal regolamento di polizia veterinaria o da altra disposizione normativa per il tipo di animale oggetto della vendita. Negli altri casi, viceversa, occorrerà fare applicazione, ai fini dell’eventuale responsabilità del venditore ai sensi dell’art. 1496 c.c., della disciplina relativa ai vizi della cosa venduta, ovvero alla mancanza delle qualità promesse o essenziali, ovvero alla consegna di aliud pro alio.

Nell’ambito delle anomalie del sinallagma deve essere richiamata, infine, Sez. 1, n. 02980/2020, Nazzicone, Rv. 656684-01, in tema di vendita sottocosto o comunque a prezzi non immediatamente remunerativi. La pronuncia, confermando la linea tracciata da Sez. 1, n. 01636/2006, Rordorf, Rv. 585933-01, ha affermato che essa è contraria ai doveri di correttezza ex art. 2598, comma 1, n. 3), c.c. solamente se si connota come “illecito antitrust”, in quanto realizzata da un’impresa in posizione dominante e praticata con finalità predatorie di soppressione della concorrenza, traducendosi così in un danno per i consumatori ed il mercato e concretizzando l’illecito concorrenziale da “dumping” interno.

Per i vizi o difetti di conformità nella vendita immobiliare il diritto al risarcimento è riconosciuto, qualora il bene trasferito non risulti conforme alle norme urbanistiche e il venditore abbia taciuto l’esistenza di diritti o oneri che ne diminuiscano il libero godimento. Sul punto Sez. 3, n. 14595/2020, Gorgoni, Rv. 658318-02, ha precisato che tale responsabilità viene meno ove il venditore dimostri che l’acquirente ne abbia avuto un’effettiva conoscenza. Ai fini della condanna del venditore al risarcimento del danno non è, tuttavia, necessaria la sua malafede, essendo sufficiente la sussistenza della colpa.

Sempre nello stesso ambito Sez. 2, n. 17123/2020, Besso Marcheis, Rv. 658954-01, ha precisato che, per gli immobili destinati ad abitazione, il certificato di abitabilità, pur costituendo un requisito giuridico essenziale, ai fini del legittimo godimento e della normale commerciabilità del bene, la mancata consegna di detto certificato costituisce un inadempimento del venditore che non incide necessariamente in modo dirimente sull’equilibrio delle reciproche prestazioni. Il successivo rilascio del certificato di abitabilità, infatti, esclude la possibilità stessa di configurare l’ipotesi di vendita di aliud pro alio.

11.3. Il concorso dei danni e altri profili processuali.

Risulta confermato da Sez. 3, n. 04002/2020, Amendola, Rv. 656905-01, l’orientamento sulle condizioni del concorso del danno contrattuale ed extracontrattuale espresso da ultimo da Sez. 3, n. 16654/2017, Cirillo, Rv. 644820-01. La coesistenza dei diversi tipi di danno è, dunque, configurabile solo quando il pregiudizio arrecato al compratore abbia leso interessi di quest’ultimo che siano sorti al di fuori del contratto ed abbiano la consistenza di diritti assoluti.

Sul tema del riparto degli oneri probatori, con Sez. 2, n. 08199/2020, Carbone, Rv. 657593-01, ha trovato, altresì, conferma la pronuncia di Sez. U, n. 11748/2019, Cosentino, Rv. 653791-01, secondo cui, in materia di garanzia per i vizi della cosa venduta di cui all’articolo 1490 c.c., il compratore che esercita le azioni di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo di cui all’articolo 1492 c.c. è gravato dell’onere di offrire la prova dell’esistenza dei vizi.

Dalla diversa angolazione degli effetti della dichiarazione di nullità Sez. 3, n. 09719/2020, Rossetti, Rv. 657768-01, ha chiarito che essa non travolge, di per sé, gli effetti confessori dell’affermazione, in esso contenuta, con cui il venditore riconosce di aver incassato il prezzo. La rilevante conseguenza che ne deriva sul piano processuale è che tale dichiarazione, anche se inserita nel contratto dichiarato nullo, può comunque costituire prova dell’avvenuto pagamento nel giudizio di restituzione dell’indebito conseguente alla dichiarazione di nullità. L’arresto, reso in tema di compravendita immobiliare nella fase del giudizio di esecuzione, si fonda sulla ragione per cui il principio della conservazione degli effetti del negozio affetto da nullità parziale costituisce la regola; è, di converso, un’eccezione l’estensione della nullità all’intero negozio.

Sul diverso fronte dell’azione di nullità per illiceità della causa, Sez. 2, n. 00886/2020, Fortunato, Rv. 656839-01, ha chiarito che nel giudizio volto ad ottenere la declaratoria di nullità del contratto di compravendita di un immobile stipulato a titolo di corrispettivo di un prestito usurario, non è configurabile un’ipotesi di litisconsorzio necessario nei confronti dell’amministratore della società acquirente, ritenuto responsabile del delitto di usura per essersi fatto dare o promettere interessi illeciti e per aver procurato l’acquisto dell’immobile in corrispettivo del detto prestito.

La ragione di tale esclusione poggia sulla circostanza che, in tale ipotesi, l’amministratore ha stipulato il contratto nell’esercizio dei poteri gestori e in nome e per conto della società, unica parte sostanziale del negozio di vendita.

11.4. Il contratto preliminare.

Molteplici, come già anticipato, sono state le pronunce in tema di contratti preliminari, in relazione evidentemente alla numerosa casistica proposta dalla pratica negoziale.

Nell’ambito degli elementi essenziali del contratto, con riguardo alla determinabilità dell’oggetto del contratto, Sez. 2, n. 01626/2020, Criscuolo, Rv. 656846-01, ha chiarito che la possibilità di individuare per relationem il bene oggetto del futuro trasferimento può incontrare il limite della volontà delle parti diretta ad avvalersi solo di un atto specificamente richiamato nel contratto e destinato a formarne parte integrante. L’arresto ha chiarito che, in tal caso, il preciso richiamo ad uno specifico documento non permette, ai fini dell’individuazione del bene oggetto del trasferimento, di fare riferimento ad elementi diversi, né ad un successivo e diverso comportamento delle parti. Nello specifico le parti, nel preliminare di una compravendita immobiliare, avevano rinviato ad una planimetria ed i giudici di legittimità hanno ritenuto che solo la produzione della stessa in giudizio avrebbe consentito di ritenere sufficientemente determinato l’oggetto della vendita.

In ipotesi di ignoranza da parte del promissario acquirente dell’altruità del bene, un’importante precisazione proviene da Sez. 2, n. 00787/2020, Tedesco, Rv. 656836-01, in relazione alla disciplina applicabile al contratto preliminare. Non trova, secondo la S.C., applicazione l’art. 1479, comma 1, c.c. in quanto, fino alla scadenza del termine per stipulare il contratto definitivo, il promittente venditore può adempiere all’obbligo di procurargliene l’acquisto e ciò indipendentemente dalla conoscenza da parte del promissario compratore che il bene appartenga ad altri.

Al promissario acquirente, quindi, è inibito chiedere la risoluzione del contratto prima della scadenza del termine, ma, per altro verso, lo stesso non è inadempiente se, nonostante la maturazione del termine previsto per la stipula del contratto, il promittente venditore non sia ancora proprietario del bene. Quest’ultimo, dunque in tale ultima situazione, non può avvalersi della clausola risolutiva espressa eventualmente pattuita per il caso di inutile decorso del termine, mancando l’essenziale condizione dell’inadempimento del promissario.

Sul versante degli obblighi assunti dalle parti nel preliminare Sez. 6-1, n. 22429/2020, Dolmetta, Rv. 659009-01, ha chiarito che, qualora una delle parti si sia impegnata ad assicurare un determinato risultato, è legittimo il recesso dell’altra parte, a prescindere dalla mancanza di colpa in chi abbia promesso il risultato non raggiunto, sul presupposto che la garanzia, in tale ipotesi, opera per il fatto oggettivo.

Con riferimento alla particolare fattispecie del preliminare di un bene indiviso, considerato quale “unicum”, Sez. 2, n. 04013/2020, Casadonte, Rv. 657109-01, ha precisato che la prestazione dei promittenti venditori ha natura indivisibile, poiché ciascun promittente venditore, non solo, si obbliga a prestare il consenso per il trasferimento della sua quota, ma promette anche il fatto altrui e, cioè, il consenso degli altri, attesa l’unitarietà della prestazione.

A proposito, invece, del preliminare di vendita di un terreno sul quale insistono beni immobili non menzionati nell’atto, Sez. 2, n. 18195/2020, Varrone, Rv. 658906-01, ha avuto modo di precisare che esso comporta il trasferimento, a titolo negoziale, anche dei fabbricati, ancorché non menzionati espressamente nell’atto, salvo che il venditore, contestualmente alla cessione, riservi a sé stesso od altri la proprietà di tali manufatti.

Il principio, tuttavia, non può essere applicato ove sia intrapresa un’azione ex art. 2932 c.c. Il Supremo Collegio ha chiarito, infatti, che al giudice adito è preclusa una pronuncia di trasferimento coattivo in assenza, non solo, del certificato di destinazione urbanistica del terreno, ma anche della dichiarazione, contenuta nel preliminare o successivamente prodotta in giudizio, sugli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali elementi sono, invero, requisiti richiesti a pena di nullità dall’art. 46 del d.P.R. 6 giugno del 2001 n. 380 ed integrano, altresì, una condizione dell’azione.

Sotto un diverso profilo Sez. 2, n. 09953/2020, San Giorgio, Rv. 657754-01, ha dato continuità ad un consolidato orientamento da ultimo espresso da Sez. 1, n. 07584/2016, Nappi, Rv. 639308-01, secondo cui, ove la consegna dell’immobile venga effettuata prima della stipula del definitivo, non scatta la decorrenza del termine di decadenza per opporre i vizi noti e neppure quello di prescrizione.

L’onere della tempestiva denuncia presuppone, infatti, l’avvenuto trasferimento del diritto. Ne deriva che il promissario acquirente, anticipatamente immesso nella disponibilità materiale del bene risultato successivamente affetto da vizi, può chiedere l’adempimento in forma specifica del preliminare, ai sensi dell’art. 2932 c.c., e contemporaneamente agire con l’azione quanti minoris per la diminuzione del prezzo, senza che gli si possa opporre la decadenza o la prescrizione.

Sez. 6-2, n. 10665/2020, Cosentino, Rv. 657889-01, ha nuovamente affrontato il tema del mancato rilascio del certificato di abitabilità o agibilità ovvero dell’insussistenza delle condizioni per il relativo rilascio per escludere che l’assenza di tali elementi determini l’invalidità del contratto preliminare. Tali omissioni, infatti, integrano un inadempimento del venditore per consegna di aliud pro alio, adducibile da parte del compratore in via di eccezione, ai sensi dell’art. 1460 c.c., o come fonte di pretesa risarcitoria per la ridotta commerciabilità del bene, salvo che quest’ultimo non abbia espressamente rinunciato al requisito dell’abitabilità o comunque esonerato il venditore dall’obbligo di ottenere la relativa licenza.

Sul diverso ambito della controversia definita con il rigetto della domanda risolutoria del promittente acquirente Sez. 2, n. 21262/2020, Oricchio, Rv. 659316-01, ha chiarito che l’istanza di restituzione della caparra in favore del promittente acquirente deve ritenersi inclusa nella domanda, dal medesimo già formulata, di restituzione del doppio della caparra stessa. Tale inclusione presuppone, tuttavia, l’accertamento dell’impossibilità sopravvenuta di trasferimento del bene oggetto del preliminare di vendita e, conseguentemente, l’affermazione del carattere di indebito assunto dalla medesima caparra.

Sul versante dell’individuazione dei criteri di liquidazione del risarcimento del danno in favore del promittente venditore per la mancata conclusione del definitivo Sez. 6-3, n. 26042/2020, Rossetti, Rv. 659919 - 01, ha finalmente chiarito che il danno consiste nella differenza tra il valore commerciale del bene al momento della liquidazione e il prezzo offerto dal promissario acquirente rivalutato al medesimo tempo. La pronuncia ha precisato, inoltre, che è possibile tenere conto anche di circostanze future, suscettibili di determinare un incremento o una riduzione del pregiudizio, alla condizione che esse siano allegate e provate e appaiano ragionevolmente prevedibili e non meramente ipotizzate.

12. Il giuoco e la scommessa.

Nell’ambito delle ridotte pronunce in tema, occorre, tuttavia, richiamare Sez. 2, n. 17124/20, C. Besso Marcheis, Rv. 658955-01, a proposito del gioco del lotto, secondo cui l’obbligo contrattualmente previsto per il concessionario di versare ogni settimana i proventi del giuoco della settimana contabile precedente sorge soltanto con la riscossione e l’incasso effettivo delle giocate e non a seguito dell’inserimento delle stesse nel terminale e dell’emissione del relativo scontrino, deponendo in tal senso l’art. 24 del d.P.R. n. 303 del 1990, rubricato modalità di versamento delle somme “riscosse”. In materia, invece, di adempimenti connessi al funzionamento di apparecchi e congegni di intrattenimento da gioco, secondo Sez. 2, n. 23954/20, Varrone, Rv. 659383-01, la mancata attivazione della procedura di blocco e collocazione in magazzino delle apparecchiature non collegate alla rete telematica giustifica la legittimità dell’ordinanza ingiunzione emessa dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (A.A.M.S) per violazione dell’art. 110, comma 9, lett. c) del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 del (T.U.L.P.S.), anche in caso di mancato ritrovamento di denaro all’interno degli apparecchi medesimi e senza che assuma rilevanza l’allaccio di questi ultimi alla rete elettrica al momento del controllo. Solo la neutralizzazione del loro uso potenziale può, infatti, comportare l’esclusione della responsabilità per i gestori, gli esercenti nonché il concessionario del servizio telematico per la raccolta e la gestione del gioco lecito.

In tema, ma sotto una diversa prospettiva, Sez. 2, n. 04605/2020, Carrato, Rv 657115-01, ha affermato che la mancata apposizione sugli apparecchi e congegni per il gioco lecito dei titoli autorizzatori “in forma originale” integra la violazione dell’art. 110, comma 9, lett. f), del r.d. n. 773 del 1931 (cd. T.U.L.P.S.), non essendo sufficiente la semplice apposizione su di essi, come era avvenuto nella specie, di una mera fotocopia di siffatti titoli, non rispondendo tale modalità ai requisiti di sicurezza sottesi all’intera normativa di settore.

  • obbligazione
  • responsabilità sociale dell'impresa
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO X

LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE

(di Fabio Antezza )

Sommario

1 Premessa. - 2 La ripetizione d’indebito: portata ed onere probatorio in generale. - 3 La ripetizione di indebito e l’errore del solvens. - 4 Ripetizione d’indebito, prescrizione ed onere probatorio. - 5 La ripetizione dell’indebito e l’esecuzione forzata. - 6 L’indebito assistenziale e quello contributivo. - 7 Aiuti di Stato e ripetizione di indebito. - 8 Prestazione contraria al buon costume e soluti retentio. - 9 Azione di arricchimento senza causa: presupposti e distinzione dalla domanda di ripetizione d’indebito. - 10 Arricchimento senza causa, P.A. e tardiva attuazione di direttive comunitarie. - 11 L’ingiustificato arricchimento nei rapporti familiari e prescrizione. - 12 La gestione di affari altrui: le Sezioni Unite sulla giurisdizione.

1. Premessa.

Nel corso del 2020 la S.C. ha ribadito oltre che chiarito principi in merito alla disciplina della ripetizione dell’indebito, con particolare riferimento all’errore del solvens, alla prescrizione ed ai rapporti con l’esecuzione forzata.

In merito all’arricchimento senza causa, invece, sono stati ribaditi nonché ulteriormente specificati principi inerenti l’esercizio della relativa azione nei confronti della P.A.

2. La ripetizione d’indebito: portata ed onere probatorio in generale.

La disciplina della ripetizione dell’indebito di cui all’art. 2033 c.c. ha portata generale e si applica a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa (in applicazione del principio, Sez. L, n. 18266/2018, Lorito M., Rv. 649965-01, ha ritenuto applicabile la disciplina in oggetto, con il conseguente regime prescrizionale decennale, al diritto del preponente, in caso di risoluzione anticipata del contratto d’agenzia, alla restituzione degli anticipi provvigionali corrisposti all’agente).

La legittimazione a domandare la restituzione di un indebito pagamento eseguito dal mandatario secondo le disposizioni del mandante spetta però a quest’ultimo e non al mandatario, a meno che il mandato non abbia attribuito anche la suddetta facoltà e sempre che, in questo caso, la domanda giudiziale di restituzione sia formulata dal mandatario spendendo tale sua qualità (Sez. 3, n. 08101/2020, Rossetti, Rv. 657573-03).

Il pagamento effettuato dal soggetto che aveva assunto il relativo obbligo, ancorché in base ad un contratto nullo, rimane comunque qualificabile come adempimento del contratto stesso, suscettibile di comportare la restituzione dell’importo versato in applicazione dei principi dell’indebito oggettivo.

In particolare, per Sez. 2, n. 21550/2018, Fortunato, Rv. 650069-01, detto pagamento resta atto dovuto e non assume carattere e significato negoziale, tranne che nelle ipotesi tipiche indicate dall’art. 1327 c.c., non potendo essere interpretato quale accettazione della proposta di modifica di un contratto giudicato invalido di cui costituisca mera esecuzione.

La dichiarazione di nullità di un contratto di vendita, però, non travolge di per sé sola gli effetti confessori della dichiarazione, in esso contenuta, con cui il venditore riconosce di aver incassato il prezzo. Ne consegue, per Sez. 3, n. 09719/2020, Rossetti, Rv. 657768-01, che tale dichiarazione, anche se inserita nel contratto dichiarato nullo, può costituire prova dell’avvenuto pagamento nel giudizio di restituzione dell’indebito conseguente alla dichiarazione di nullità.

Circa i rapporti tra nullità protettive ed azione d’indebito esperita dall’investitore interviene Sez. 1, n. 10505/2020, Scotti, Rv. 657894-01. Essa evidenzia in particolare che nel caso in cui l’intermediario opponga l’eccezione di buona fede per evitare un uso oggettivamente distorsivo delle regole di legittimazione in tema di nullità protettive, al solo fine di paralizzare, in tutto o in parte, gli effetti restitutori conseguenti all’esperimento selettivo dell’azione di nullità da parte del cliente investitore, nei limiti della complessiva utilitas economica ritratta da quest’ultimo grazie all’esecuzione del contratto quadro affetto dalla nullità dal medesimo fatta valere, le cedole medio tempore riscosse dall’investitore non vengono in considerazione né come oggetto dell’indebito, né quali frutti civili ex art. 820 e 2033 c.c., ma rilevano solo come limite quantitativo all’efficace esperimento della domanda di indebito esperita dall’investitore.

La portata generale dell’azione in esame, tale da applicarsi con riferimento a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa, spinge peraltro Sez. 1, n. 03659/2020, Lamorgese, Rv. 657054-01, a ribadire che in caso di modifica giudiziale delle condizioni economiche del regime post-coniugale, intervenuta in ragione della raggiunta indipendenza economica dei figli, il genitore obbligato può esercitare l’azione di ripetizione ex art. 2033 c.c. anche con riferimento alle somme corrisposte in epoca antecedente alla domanda di revisione, allorché la causa giustificativa del pagamento sia già venuta meno. Nella specie, le due figlie erano divenute economicamente autosufficienti a seguito del conseguimento della laurea, come previsto dagli accordi economici in sede di divorzio congiunto dei genitori, e pacificamente con i rispettivi matrimoni contratti nel 1994 e 1998, sicché la S.C. ha cassato la sentenza della Corte d’appello che aveva negato la ripetizione delle somme corrisposte per il mantenimento delle figlie prima della modifica delle condizioni a decorrere dal 2006.

Trattasi, quello di cui innanzi, di principio massimato come difforme rispetto a Sez. 6-1, n. 13609/2016, Genovese, Rv. 640399-01). Per quest’ultima, in particolare, il carattere sostanzialmente alimentare dell’assegno di mantenimento a favore del figlio maggiorenne, in regime di separazione, comporta che la normale retroattività della statuizione giudiziale di riduzione al momento della domanda vada contemperata con i principi di irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità di dette prestazioni, sicché la parte che abbia già ricevuto, per ogni singolo periodo, le prestazioni previste dalla sentenza di separazione non può essere costretta a restituirle, né può vedersi opporre in compensazione, per qualsivoglia ragione di credito, quanto ricevuto a tale titolo, mentre ove il soggetto obbligato non abbia ancora corrisposto le somme dovute, per tutti i periodi pregressi, tali prestazioni non sono più dovute in base al provvedimento di modificazione delle condizioni di separazione.

Circa i rapporti nascenti dal contratto di assicurazione, Sez. 3, n. 03999/2020, Di Florio, Rv. 656903-01, evidenzia che all’assicuratore della responsabilità civile che, chiamato in manleva, abbia pagato direttamente al danneggiato la somma che l’assicurato sia stato condannato a corrispondere a titolo di risarcimento del danno con sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, spetta - laddove tale sentenza sia stata riformata in appello con il rigetto della sola domanda di manleva - l’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo nei confronti dello stesso assicurato, per avere dato esecuzione alla condanna risarcitoria per suo conto e in sua sostituzione, quale terzo adempiente, nonostante non sussistesse alcun obbligo di manleva.

Il pagamento dell’IVA sulla tariffa di igiene ambientale ex art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 (c.d. TIA1), attesa la natura tributaria di detta tariffa e la sua non assoggettabilità ad imposta, integra invece indebito oggettivo e legittima l’azione di ripetizione promossa nei confronti del cedente, non assumendo rilevanza l’eventuale detrazione, comunque non consentita, del relativo importo ad opera del cessionario (Sez. 6-3, n. 06149/2020, Vincenti, Rv. 657290-01).

In fattispecie caratterizzata dall’esperimento dell’azione di ripetizione di una quota parte della tariffa pagata in relazione alla fornitura del servizio idrico, a titolo di corrispettivo per l’attività di depurazione delle acque, deducendo che tale attività fosse mancata, Sez. 3, n. 11294/2020, Di Florio, Rv. 658157-01, ha invece avuto modo di ribadire che chi allega di aver effettuato un pagamento dovuto solo in parte e proponga nei confronti dell’accipiens l’azione di indebito oggettivo per la somma versata in eccedenza, ha l’onere di provare l’inesistenza di una causa giustificativa del pagamento per la parte che si assume non dovuta (conforme Sez. 3, n. 07501/2012, Carluccio, Rv. 622359-01).

Circa l’onere probatorio, in termini più generali, nella ripetizione di indebito opera il normale principio dell’onere della prova a carico dell’attore il quale, quindi, è tenuto a dimostrare sia l’avvenuto pagamento sia la mancanza di una causa che lo giustifichi (ex plurimis, Sez. 2, n. 30713/2018, Abete, Rv. 651530-02). Colui che agisce per la ripetizione di un indebito allega la dazione senza causa della somma di denaro non come adempimento di un negozio giuridico ma come spostamento patrimoniale. Sicché, può assolvere l’onere della prova di questo fatto al di fuori dei limiti probatori previsti per i contratti, atteso che detti limiti sono applicabili solo al pagamento dedotto come manifestazione di volontà contrattuale e non a quello prospettato come fatto materiale estraneo alla esecuzione di uno specifico rapporto giuridico. Ne consegue, per la precedente Sez. 2, n. 18483/2010, Migliucci, Rv. 614623-01, che la prova dell’indebito può essere fornita anche per testimoni, indipendentemente dai limiti di cui all’art. 2721 c.c. Proposta la domanda di ripetizione dell’indebito, l’attore ha l’onere di provare l’inesistenza di una giusta causa delle attribuzioni patrimoniali compiute in favore del convenuto, ma solo con riferimento ai rapporti specifici intercorsi tra le parti e dedotti in giudizio, non potendosi invece esigere dall’attore la dimostrazione dell’inesistenza di ogni e qualsivoglia causa di dazione tra solvens e accipiens. Sicché, e consegue che ai fini della prova del diritto alla ripetizione di somme riscosse da A.G.E.A. (Agenzia per le erogazioni in Agricoltura) per contributi ritenuti erogati indebitamente è sufficiente dimostrare l’inesistenza del diritto alla restituzione in capo all’Agenzia pubblica e non, invece, la titolarità del diritto a ricevere aiuti comunitari in capo all’azienda agricola (Sez. 2, n. 20522/2018, De Marzo, Rv. 650167-01).

3. La ripetizione di indebito e l’errore del solvens.

La proponibilità dell’azione di ripetizione d’indebito oggettivo non è esclusa dall’avere il solvens effettuato il pagamento non già nell’erronea consapevolezza dell’esistenza dell’obbligazione ma, al contrario, nella convinzione di non essere debitore e, quindi, senza l’animus solvendi, nemmeno quando tale convinzione sia stata enunciata in una espressa riserva formulata in sede di pagamento (Sez. 3, n. 03894/2020, Pellecchia, Rv. 657149-01), in ipotesi effettuato al solo scopo di evitare l’applicazione di eventuali sanzioni (Sez. 3, n. 09624/1994, Giuliano, Rv. 488615-01).

Con la citata pronuncia del 2020 la S.C. mostra di proseguire nel solco interpretativo già segnato dalla propria precedente giurisprudenza in ordine all’errore del solvens con riferimento alla disciplina della ripetizione d’indebito.

Ai detti fini della ripetizione dell’indebito oggettivo, difatti, non è necessario che il solvens versi in errore circa l’esistenza dell’obbligazione, posto che, diversamente dall’indebito soggettivo ex persona debitoris, in cui l’errore scusabile è previsto dalla legge come condizione della ripetibilità, ricorrendo l’esigenza di tutelare l’affidamento dell’accipiens - il quale riceve ciò che gli spetta sia pure da persona diversa dal vero debitore -, nell’ipotesi di cui all’art. 2033 c.c. non vi è un affidamento da tutelare, non avendo l’accipiens alcun diritto di conseguire, né dal solvens né da altri, la prestazione ricevuta e la sua buona o mala fede rileva solo ai fini della decorrenza degli interessi. In applicazione di tale principio, Sez. 6-3, n. 07066/2019, Vincenti, Rv. 653441-01, ha ritenuto sussistente il diritto di una regione alla restituzione del contributo comunitario di cui al Regolamento CE n. 2081 del 1993 indebitamente versato per un progetto di opere in assenza dei requisiti di legge, nonostante alla stessa amministrazione risultasse che alla data della domanda il richiedente non avesse ancora ottenuto la concessione edilizia. Per converso, il versamento effettuato da chi non vi era tenuto, nell’erroneo ma scusabile convincimento di esservi personalmente obbligato, configura un indebito soggettivo ex latere solventis, con la conseguenza che il solvens ha azione di ripetizione che, nel diritto tributario, si traduce nella possibilità di presentare istanza di rimborso, trovando applicazione l’art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, oltreché in caso di errore materiale, in quello di inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento e, dunque, in maniera indifferenziata in tutte le ipotesi di ripetibilità del versamento indebito, a prescindere dalla riferibilità dell’errore al versamento, all’an od al quantum del tributo (Sez. T, n. 14608/2019, Cataldi, Rv. 654112-01).

Parimenti, la giurisprudenza di legittimità ha già in passato evidenziato che nella materia in esame, l’errore del solvens, laddove rilevante, deve comunque inerire la fase di esecuzione del contratto e non quella della formazione della volontà contrattuale. Muovendo da tale assunto, Sez. 3, n. 20321/2019, Iannello, Rv. 654872-01, ha ritenuto che l’errore nella determinazione del canone di locazione di immobili ad uso diverso da quello di abitazione a misura, che sia stato specificamente pattuito sia con riferimento alla base di calcolo, sia con riferimento al risultato finale, collocandosi nel momento della formazione della volontà negoziale, e non in quello dell’esecuzione del contratto, non legittima direttamente all’azione di ripetizione di indebito, trovando il pagamento della somma convenuta giustificazione nell’accordo contrattuale, il quale rimane valido ed efficace fino a quando il vizio del consenso non venga fatto valere con l’azione di annullamento e questa non trovi accoglimento.

4. Ripetizione d’indebito, prescrizione ed onere probatorio.

Nella detta materica già Sez. 3, n. 03706/2018, Tatangelo, Rv. 647602-01, aveva chiarito che il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di una sentenza di condanna, successivamente riformata, soggiace, ai sensi degli artt. 2033 e 2946 c.c., al termine di prescrizione decennale, che inizia a decorrere dal giorno in cui è divenuto definitivo - con la riforma della sentenza predetta - l’accertamento dell’indebito. Sez. 1, n. 27704/2018, Nazzicone, Rv. 651326-01, aveva invece ribadito che l’azione di ripetizione dell’indebito proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di conto corrente, è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale. Quest’ultima decorre, in assenza di un’apertura di credito, dai singoli versamenti aventi natura solutoria. Grava sull’attore in ripetizione dimostrare la natura indebita dei versamenti e, a fronte dell’eccezione di prescrizione dell’azione proposta dalla banca, dimostrare l’esistenza di un contratto di apertura di credito idoneo a qualificare il pagamento come ripristinatorio ed a spostare l’inizio del decorso della prescrizione al momento della chiusura del conto (in senso conforme, la precedente Sez. U, n. 24418/2010, Rordorf, Rv. 615489-01).

Con particolare riferimento ai citati rapporti tra ripetizione di indebito e prescrizione estintiva in ordine al contratto di conto corrente, Sez. U, n. 15895/2019, Sambito, Rv. 654580-01, aveva altresì precisato che l’onere di allegazione gravante sull’istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l’eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l’azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da apertura di credito, è soddisfatto con l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare, senza che sia necessaria l’indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte. Sul punto si era già espressa Sez. 1, n. 18144/2018, Caiazzo, Rv. 649902-01, ritenendo necessario distinguere i versamenti ripristinatori della provvista, operati nel limite dell’affidamento concesso al cliente, da quelli solutori, ovvero effettuati oltre tale limite ai fini della decorrenza della prescrizione decennale dell’azione rispettivamente dalla estinzione del conto o dai singoli versamenti. Ai fini della valida proposizione dell’eccezione, secondo l’ordinanza da ultimo citata, non sarebbe necessaria l’indicazione specifica da parte della banca delle rimesse prescritte, né il relativo dies a quo, emergendo la natura ripristinatoria o solutoria dei singoli versamenti dagli estratti-conto, della cui produzione in giudizio è onerato il client; sicché la prova degli elementi utili ai fini dell’applicazione della prescrizione è nella disponibilità del giudice che deve decidere la questione. Poiché la decorrenza della prescrizione è condizionata al carattere solutorio, e non meramente ripristinatorio, dei versamenti effettuati dal cliente, essa matura sempre dalla data del pagamento, qualora il conto risulti in passivo e non sia stata concessa al cliente un’apertura di credito, oppure i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento. Ne conseguiva che, come ha statuito Sez. 1, n. 02660/2019, Nazzicone, Rv. 652622-01, eccepita dalla banca la prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito per decorso del termine decennale dal pagamento, è onere del cliente provare l’esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quel versamento come mero ripristino della disponibilità accordata.

Nella descritta linea esegetica si inseriscono le ulteriori statuizioni della S.C. in materia.

Sez. 1, n. 09141/2020, Fidanzia, Rv. 658248-01, difatti, evidenzia che in tema di apertura di credito in conto corrente, ove il cliente agisca in giudizio per la ripetizione di importi relativi ad interessi non dovuti per nullità delle clausole anatocistiche e la banca sollevi l’eccezione di prescrizione, al fine di verificare se un versamento abbia avuto natura solutoria o ripristinatoria, occorre previamente eliminare tutti gli addebiti indebitamente effettuati dall’istituto di credito e conseguentemente rideterminare il reale saldo passivo del conto, verificando poi se siano stati superati i limiti del concesso affidamento ed il versamento possa perciò qualificarsi come solutorio.

Nel contratto di apertura di credito in conto corrente, ove il cliente agisca per la ripetizione di importi relativi ad interessi non dovuti e la banca sollevi l’eccezione di prescrizione, la questione della natura solutoria o ripristinatoria delle rimesse, rilevante ai fini della decorrenza della prescrizione decennale dell’azione, può però essere sollevata per la prima volta in appello, in quanto è la stessa proposizione dell’eccezione di prescrizione ad imporre di prendere in esame tale profilo, essendo l’onere di allegazione gravante sull’istituto di credito soddisfatto semplicemente con l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto, unitamente alla dichiarazione di volerne profittare (Sez. 6-1, n. 14958/2020, Falabella, Rv. 658366-01).

In termini ancora più ampi, muovendo dalla natura generale dell’azione in oggetto, Sez. 3, n. 03314/2020, Guizzi, Rv. 656891-05, chiarisce che l’azione di ripetizione dell’indebito presuppone l’inesistenza dell’obbligazione adempiuta, derivante dall’assenza originaria di un titolo negoziale che la giustifichi o dal suo successivo venir meno a seguito di annullamento, rescissione o inefficacia connessa ad una condizione risolutiva avveratasi, ipotesi alle quali va equiparata la declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione di legge in cui trovi fondamento il pagamento eseguito. Ne consegue che il diritto alla restituzione dell’indebito che sorge in conseguenza della pronuncia di incostituzionalità è soggetto all’ordinario termine di prescrizione decennale.

Con riferimento specifico al rimborso di canoni periodici indebitamente versati per il servizio idrico integrato, Sez. 2, n. 01998/2020, Lombardo, Rv. 656853-01, evidenzia che trattasi di diritto non avente ha carattere periodico, atteso che il Comune è tenuto a restituire le somme indebitamente percepite in un’unica soluzione, e non a rate. Ne consegue che tale diritto non è soggetto al termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948, n. 4, c.c., ma all’ordinario termine decennale di prescrizione, che decorre dalle date dei singoli pagamenti.

I principi di cui innanzi devono comunque sempre coordinarsi con le causa interruttive della prescrizione.

Sicché, in materia contrattuale, la proposizione di una domanda volta a ottenere la restituzione di somme fondata sulla risoluzione o sull’annullamento del contratto vale a interrompere la prescrizione anche del diritto alla restituzione per effetto della nullità dello stesso, essendo medesimo il bene della vita che la parte ha inteso tutelare (Sez. 2, n. 21418/2018, Orilla, Rv. 650037-03).

Parimenti, l’azione di restituzione proposta, a norma dell’art. 389 c.p.c., dalla parte vittoriosa nel giudizio di cassazione, in relazione alle prestazioni eseguite in base alla sentenza d’appello poi annullata, non è riconducibile allo schema della ripetizione d’indebito ed è soggetta all’ordinario termine decennale di prescrizione (Sez. 3, n. 09245/2020, Positano, Rv. 657686-01, in senso conforme Sez. 3, n. 05611/1983, Ruperto, Rv. 430553-01).

In merito proprio ai contratti bancari, e con particolare riferimento all’aspetto probatorio, Sez. 6-1, n. 33009/2019, Falabella, Rv. 656511-01, aveva chiarito che nei rapporti di conto corrente bancario, il cliente che agisca per ottenere la restituzione delle somme indebitamente versate in presenza di clausole nulle, ha l’onere di provare l’inesistenza della causa giustificativa dei pagamenti effettuati mediante la produzione del contratto che contiene siffatte clausole, senza poter invocare il principio di vicinanza della prova al fine di spostare detto onere in capo alla banca, tenuto conto che tale principio non trova applicazione quando ciascuna delle parti, almeno di regola, acquisisce la disponibilità del documento al momento della sua sottoscrizione. Ciò in quanto, nella ripetizione di indebito opera il normale principio dell’onere della prova a carico dell’attore il quale, quindi, è tenuto a dimostrare sia l’avvenuto pagamento sia la mancanza di una causa che lo giustifichi (ex plurimis, per tale ultima precisazione, Sez. 2, n. 30713/2018, Abete, Rv. 651530-01). Grava sul correntista però, oltre all’onere probatorio degli avvenuti pagamenti e della mancanza di una valida causa debendi, anche la prova della ricostruzione dell’intero andamento del rapporto, con la conseguenza che non può essere accolta la domanda di restituzione se siano incompleti gli estratti conto attestanti le singole rimesse suscettibili di ripetizione. In tali ultimi termini, Sez. 1, n. 30822/2018, Genovese, Rv. 651882-01, che, nella specie, ha cassato la sentenza della corte d’appello che, in presenza del primo estratto conto disponibile con saldo negativo per il correntista, aveva calcolato i rapporti di dare e avere con la banca previo azzeramento di detto saldo perché ritenuto non provato con la produzione degli estratti conto risalenti alla data di apertura del rapporto).

5. La ripetizione dell’indebito e l’esecuzione forzata.

Nel caso di azione esecutiva intrapresa in forza di un titolo giudiziale provvisoriamente esecutivo, la caducazione dello stesso in epoca successiva alla fruttuosa conclusione dell’esecuzione forzata legittima il debitore che l’abbia subita a promuovere nei confronti del creditore procedente un autonomo giudizio per la ripetizione dell’indebito che, avendo ad oggetto un credito fondato su prova scritta, può assumere le forme del procedimento d’ingiunzione (Sez. 3, n. 14601/2020, D’Arrigo, Rv. 658322-01).

A seguito della chiusura del procedimento di esecuzione forzata, è da escludere la possibilità di ottenere una modifica della distribuzione del ricavato della vendita mediante l’esperimento dell’azione di ripetizione di indebito da parte di un creditore nei confronti degli altri. Per Sez. 6-3, n. 04263/2019, Tatangelo, Rv. 653008-01, infatti, la definizione del procedimento esecutivo con l’approvazione del progetto di distribuzione senza contestazioni da parte dei creditori determina l’intangibilità della concreta ed effettiva distribuzione delle somme ricavate dalla vendita.

Il provvedimento che chiude il procedimento esecutivo, pur non avendo, per la mancanza di contenuto decisorio, efficacia di giudicato, è, tuttavia, caratterizzato da una definitività insita nella chiusura di un procedimento esplicato col rispetto delle forme atte a salvaguardare gli interessi delle parti ed incompatibile con qualsiasi sua revocabilità, in presenza di un sistema di garanzie di legalità per la soluzione di eventuali contrasti, all’interno del processo esecutivo.

Ne consegue, per Sez. 3, n. 12127/2020, Cigna, Rv. 658174-01, che il soggetto espropriato non può esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata e sul presupposto dell’illegittimità per motivi sostanziali dell’esecuzione forzata, l’azione di ripetizione di indebito contro il creditore per ottenere la restituzione di quanto costui abbia riscosso, ma l’irretrattabilità del progetto di distribuzione della somma ricavata attiene al rapporto tra l’esecutato e il creditore e non già al diverso rapporto tra il creditore ed il suo difensore antistatario. In applicazione del principio la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva respinto la domanda del creditore volta alla restituzione dei compensi del suo difensore, percepiti, con distrazione a suo favore, in un processo esecutivo conclusosi con l’approvazione del piano di riparto in cui le spettanze professionali erano state quantificate e liquidate.

Muovendo dall’assunto per il quale il provvedimento che chiude il procedimento esecutivo, pur non avendo, per la mancanza di contenuto decisorio, efficacia di giudicato, è, tuttavia, caratterizzato da una definitività insita nella chiusura di un procedimento già Sez. 3, n. 20994/2018, Saija, Rv. 650324-01, ne aveva fatto conseguire l’impossibilità per l’espropriato di esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata, l’azione di ripetizione di indebito contro il creditore procedente (o intervenuto) per ottenere la restituzione di quanto costui abbia riscosso, sul presupposto dell’illegittimità per motivi sostanziali dell’esecuzione forzata (in senso sostanzialmente conforme anche la precedente Sez. 3, n. 17371/2011, Barreca, Rv. 619121-01). Per converso, il soggetto espropriato che abbia fatto valere l’illegittimità dell’esecuzione mediante opposizione proposta nel corso del processo esecutivo, ma accolta successivamente alla chiusura dell’esecuzione, può esperire, sul presupposto di tale illegittimità, l’azione di ripetizione dell’indebito nei confronti del creditore al fine ottenere la restituzione di quanto dallo stesso riscosso (Sez. 3, n. 26927/2018, Rubino, Rv. 650910-01).

6. L’indebito assistenziale e quello contributivo.

In tema di indebito assistenziale, in luogo della generale ed incondizionata regola civilistica della ripetibilità, trova applicazione, in armonia con l’art. 38 Cost., quella propria di tale sottosistema, che esclude la ripetizione, quando vi sia una situazione idonea a generare affidamento del percettore e la erogazione indebita non gli sia addebitabile. Ne consegue che l’indebito assistenziale, per carenza dei requisiti reddituali, abilita alla restituzione solo a far tempo dal provvedimento di accertamento del venir meno dei presupposti, salvo che il percipiente non versi in dolo, situazione comunque non configurabile in base alla mera omissione di comunicazione di dati reddituali che l’istituto previdenziale già conosce o ha l’onere di conoscere.

In applicazione del principio, Sez. 6-L, n. 13223/2020, Riverso, Rv. 658116-01, ha escluso la ripetibilità dei ratei di assegno sociale, perché l’assistito aveva inserito nelle dichiarazioni reddituali i ratei della pensione estera che determinavano il superamento dei limiti di reddito.

Tale tipologia d’indebito, se determinato dalla sopravvenuta carenza del requisito reddituale, in assenza di norme specifiche che dispongano diversamente, è ripetibile solo a partire dal momento in cui intervenga il provvedimento che accerta il venir meno delle condizioni di legge, e ciò a meno che non ricorrano ipotesi che escludano qualsivoglia affidamento dell’accipiens, come nel caso di erogazione di prestazioni a chi non abbia avanzato domanda o non sia parte di un rapporto assistenziale o di radicale incompatibilità tra beneficio ed esigenze assistenziali o, infine, di dolo comprovato (Sez. L, n. 26036/2019, Ghinoy, Rv. 655396-01). In linea anche Sez. L, n. 28771/2018, Bellè, Rv. 651691-01, che fa però specifico riferimento, in termini di esclusione dell’affidamento, alla raggiunta prova del dolo, come, ad esempio, allorquando l’incremento reddituale fosse talmente significativo da rendere inequivocabile il venire meno dei presupposti del beneficio, trattandosi di coefficiente soggettivo idoneo a far venir meno l’affidamento alla cui tutela sono preposte le norme limitative della ripetibilità dell’indebito.

In tema si veda anche Sez. 6-L, n. 10642/2019, Cavallaro, Rv. 653627-01, per la quale la violazione, ad opera del titolare della prestazione, dell’obbligo di comunicazione all’INPS della situazione reddituale rilevante ai fini del diritto alla percezione della predetta prestazione, esclude la sussistenza di un affidamento idoneo a giustificare l’irripetibilità dell’indebito. Con riferimento alle prestazioni assistenziali indebite per mancanza del requisito di incollocazione al lavoro, come chiarito da Sez. L, n. 31372/2019, Mancino, Rv. 655991-01, trovano applicazione, in difetto di una specifica disciplina, le norme sull’indebito assistenziale riferite alla mancanza dei requisiti di legge in via generale che, in quanto speciali rispetto alla disposizione di cui all’art. 2033 c.c., limitano la restituzione ai soli ratei indebitamente erogati a decorrere dalla data del provvedimento amministrativo di revoca del beneficio assistenziale non dovuto, restando esclusa la ripetizione delle somme precedentemente corrisposte, e senza che rilevi l’assenza di buona fede dell’accipiens.

Circa l’indebito contributivo, Sez. L, n. 07091/2020, Piccone, Rv. 657188-01, ribadisce che la restituzione dei contributi assicurativi versati dal datore di lavoro in misura maggiore di quella dovuta (anche in dipendenza del suo diritto al beneficio dello sgravio o della fiscalizzazione) costituisce l’oggetto di una obbligazione pecuniaria di fonte legale (art. 2033 c.c.), assoggettata alla disciplina dettata per quelle obbligazioni e, in particolare, alla disposizione di cui all’art. 1224 c.c., in tema di interessi moratori e risarcimento del maggior danno per il ritardo nell’adempimento, restando invece inapplicabile, all’indicata obbligazione restitutoria, la speciale disciplina del cumulo di interessi legali e rivalutazione esclusivamente dettata per i crediti di previdenza sociale e di assistenza sociale obbligatoria (Conforme Sez. L, n. 04402/2009, Lamorgese, Rv. 607372-01).

In ordine all’indebito previdenziale, invece, Sez. 6-L, n. 08731/2019, Cavallaro, Rv. 653391-01, ha chiarito che il dolo dell’assicurato, idoneo ad escludere l’applicazione delle norme che limitano la ripetibilità delle somme non dovute, in deroga alla regola generale di cui all’art. 2033 c.c., pur non potendo presumersi sulla base del semplice silenzio, che di per sé stesso, non ha valore di causa determinante in tutti i casi in cui l’erogazione indebita non sia imputabile al percipiente, è configurabile nelle ipotesi di omessa o incompleta segnalazione di circostanze incidenti sul diritto o sulla misura della pensione, che non siano già conosciute o conoscibili dall’ente competente. Con riferimento alla stessa materia, peraltro, l’art. 13, comma 2, della l. n. 412 del 1991, è stato interpretato da Sez. L, n. 03802/2019, Bellè, Rv. 652884-01, nel senso per il quale l’INPS deve procedere alla verifica nell’anno civile in cui ha avuto conoscibilità dei redditi maturati dal percettore di una data prestazione e che, entro l’anno civile successivo a quello destinato alla verifica, deve procedere, a pena di decadenza, al recupero dell’eventuale indebito.

7. Aiuti di Stato e ripetizione di indebito.

In tema di sgravi contributivi illegittimi, in quanto costituenti aiuti di Stato vietati dalla Commissione europea, l’azione dell’ente previdenziale volta al recupero degli sgravi non costituisce azione di restituzione di indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., ma azione volta al pagamento della contribuzione differenziale, pari alla misura dell’aiuto di Stato recuperabile.

Ne consegue, ribadisce Sez. L, n. 15972/2020, Berrino, Rv. 658533-01, che tale azione - alla cui proposizione è legittimato direttamente l’ente istituzionalmente deputato alla riscossione dei contributi - è soggetta al termine prescrizionale ordinario decennale di cui all’art. 2946 c.c., e non a quello previsto per l’indebito, né a quello ex art. 3, commi 9 e 10, della l. n. 335 del 1995, attesa l’autonomia giuridica dell’azione di recupero degli aiuti in questione. Quest’ultima, disciplinata da regole specifiche, è difatti finalizzata al mero ripristino dello status quo ante e che prevede - a differenza dell’azione volta al pagamento dei contributi omessi - l’applicazione di interessi nella misura stabilita dalla Commissione e non anche delle sanzioni specifiche previste per l’omissione contributiva (conforme, ex plurimis, Sez. L, n. 06756/2012, Bandini, Rv. 622557-01).

La giurisprudenza di legittimità aveva invece opinato diversamente con riferimento alla specifica materia degli aiuti comunitari nel settore dell’agricoltura, con riferimento alla quale la disciplina della ripetizione dell’indebito, regolata dall’art. 2033 c.c., trova applicazione non solo nel caso in cui l’erogazione abbia avuto luogo in assenza dei presupposti o di un valido provvedimento giustificativo ma anche in quello in cui il titolo per fruire del beneficio, originariamente esistente, venga meno per decadenza o revoca, senza che sia necessaria l’adozione di un atto di accertamento o liquidazione. Tale disciplina non è in particolare esclusa dalla possibilità di applicare sanzioni amministrative, tenuto conto che l’Amministrazione può provvedere congiuntamente al recupero delle somme versate e all’irrogazione delle sanzioni, adottando il procedimento previsto dalla l. n. 689 del 1981, richiamato dalla l. n. 898 del 1986, ma può anche agire separatamente per la ripetizione di quanto pagato, utilizzando gli strumenti contemplati dal diritto comune. Sez. 1, n. 24040/2019, Mercolino, Rv. 655306-04, aveva altresì proseguito evidenziando l’operatività del disposto dell’art. 3 del Regolamento n. 95/2988/CEE, che fissa in quattro anni il periodo entro il quale si deve procedere al recupero di ogni vantaggio indebitamente percepito a carico del bilancio comunitario (sempre che una norma di settore non preveda un termine più breve, comunque non inferiore ai tre anni), consentendo però a ciascuno Stato di applicare un termine più lungo che, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, è desumibile anche da disposizioni di diritto comune anteriori al menzionato Regolamento, purché prevedibili e proporzionate. Per l’ordinamento italiano ciò avviene però con la disciplina dell’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo, che, ai sensi dell’art. 2946 c.c., si prescrive nel termine di dieci anni, a cui resta estraneo il disposto dell’art. 28 della l. n. 689 del 1981, che regolamenta esclusivamente la prescrizione delle sanzioni amministrative eventualmente connesse all’indebita percezione degli aiuti.

8. Prestazione contraria al buon costume e soluti retentio.

Ai fini dell’applicazione della soluti retentio prevista dall’art. 2035 c.c., le prestazioni contrarie al buon costume non sono soltanto quelle che contrastano con le regole della morale sessuale o della decenza ma sono anche quelle che non rispondo ai principi e alle esigenze etiche costituenti la morale sociale, in un determinato ambiente e in un certo momento storico.

Sicché, per Sez. 1, n. 16706/2020, Ferro, Rv. 658613-01, deve ritenersi contraria al buon costume, e come tale irripetibile, l’erogazione di somme di denaro in favore di un’impresa già in stato di decozione integrante un vero e proprio finanziamento, che consente all’imprenditore di ritardare la dichiarazione di fallimento, incrementando l’esposizione debitoria dell’impresa trattandosi di condotta preordinata alla violazione delle regole di correttezza che governano le relazioni di mercato e alla costituzione di fattori di disinvolta attitudine “predatoria” nei confronti di soggetti economici in dissesto.

L’approdo di cui innanzi prosegue nel solco interpretativo di legittimità circa i presupposti della soluti retentio.

La nozione di prestazione non ripetibile di cui all’art. 2035 c.c., non si identifica con un dato materiale, qual è la ripetibilità in concreto della prestazione, bensì con un dato giuridico, nel senso che la prestazione fornita non può formare oggetto di obbligazione restitutoria, in favore di chi sia stato partecipe del negozio immorale, in quanto fondata su un contratto illecito, non corrispondente, di conseguenza, ad un interesse giuridicamente tutelabile del creditore (Sez. 1, n. 25631/2017, Lamorgese, Rv. 647056-05).

L’accertata nullità di un contratto di finanziamento stipulato in danno della P.A., da parte di un funzionario infedele, in conseguenza della illiceità della causa per violazione di norme imperative, non preclude l’autonoma valutazione dell’atto dal punto di vista della sua eventuale contrarietà anche al buon costume che, ove sia accertata, stante il disposto dell’art. 2035 c.c., impone di negare la ripetizione della prestazione eseguita al finanziatore (Sez. 1, n. 25631/2017, Lamorgese, Rv. 647056-04).

Quanto innanzi è stato statuito conformemente al principio per il quale chi abbia versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume (Sez. 3, n. 09441/2010, Amendola, Rv. 612552-01).

Sicché, il comune, che sia rimasto estraneo alla stipula di un contratto di finanziamento nullo perché avente causa illecita, concluso dal funzionario infedele, è legittimato a domandare l’applicazione della soluti retentio quando gli effetti del contratto siano ricaduti sulla sua sfera giuridica (Sez. 1, n. 25631/2017, Lamorgese, Rv. 647056-03).

L’impostazione di cui innanzi si è mossa sulla scia di quanto già chiarito in precedenza la dalla S.C. in merito all’esegesi dell’art. 2035 c.c.

La nozione di buon costume, in particolare, non si identifica soltanto con le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza, ma comprende anche quelle contrastanti con i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico. Sicché, chi abbia versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume (Sez. 3, n. 09441/2010, Amendola, Rv. 612552-01).

In applicazione del medesimo principio Sez. L, n. 02014/2018, Curcio, Rv. 647263-01, ha ritenuto, nell’ipotesi di simulazione assoluta di un rapporto di lavoro, non ammessa la ripetizione delle somme versate a titolo di retribuzione ovvero di contribuzione, perché esclusivamente finalizzate a costituire il presupposto truffaldino per il conseguimento di benefici pensionistici indebiti.

Negli stessi termini si era altresì espressa anche Sez. 6-3, n. 08169/2018, Cirillo, Rv. 648539-01, per la quale, chi abbia versato una somma di denaro per l’ottenimento di un posto di lavoro (nella specie, presso un istituto bancario), a prescindere dall’esito della trattativa immorale, non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tale finalità, certamente contraria a norme imperative, è da ritenere anche contraria al buon costume.

9. Azione di arricchimento senza causa: presupposti e distinzione dalla domanda di ripetizione d’indebito.

L’azione di indebito oggettivo ha carattere restitutorio, cosicché la ripetibilità è condizionata dal contenuto della prestazione e dalla possibilità concreta di ripetizione, secondo le regole previste dagli artt. 2033 ss. c.c., che ricorre quando detta prestazione abbia avuto ad oggetto una somma di denaro o cose di genere ovvero, infine, una cosa determinata, operando, altrimenti, ove tale prestazione sia irripetibile e ne sussistano i presupposti, l’azione generale di arricchimento senza causa di cui all’art. 2041 c.c. Essa, invece, assolve alla funzione, in base ad una valutazione obbiettiva, di reintegrazione dell’equilibrio economico e dunque spetta a colui che abbia disposto il pagamento senza causa e non a chi, da questi e per suo conto, sia stato delegato ad effettuare materialmente la prestazione (Sez. 3, n. 10810/2020, D’Arrigo, Rv. 658166-01). Pertanto, nel caso di prestazione di facere, la quale non è suscettibile di restituzione e, in quanto indebita, non è oggetto di valide ed efficaci determinazioni delle parti circa il suo valore economico, non è proponibile l’azione di indebito oggettivo ma, in presenza dei relativi presupposti, solo quella di ingiustificato arricchimento (ex plurimis, Sez. 1, n. 06747/2014, Di Amato, Rv. 630568-01).

Quella d’arricchimento, in termini più generali, ha quale presupposto la mancanza, accertabile anche di ufficio, di un’azione tipica, tale dovendo intendersi non ogni iniziativa processuale ipoteticamente esperibile, ma esclusivamente quella derivante da un contratto o prevista dalla legge con riferimento ad una fattispecie determinata, pur se proponibile contro soggetti diversi dall’arricchito.

Ne consegue, per Sez. 3, n. 00843/2020, Scarano, Rv. 656686-01, l’ammissibilità della detta azione quando l’azione, teoricamente spettante all’impoverito, sia prevista da clausole generali, come quella risarcitoria per responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c. (si veda, con riferimento alla responsabilità precontrattuale, conforme Sez. 2, n. 04620/2012, Bertuzzi, Rv. 622110-019). Ciò non toglie però che, dato il suo carattere sussidiario, l’azione di indebito arricchimento comporta che essa non possa essere esperita, non soltanto quando sussista un’altra azione tipica esperibile dal danneggiato nei confronti dell’arricchito, ma anche quando vi sia originariamente un’azione sperimentabile contro persone diverse dall’arricchito che siano obbligate per legge o per contratto, secondo una valutazione da compiersi, anche d’ufficio, in astratto e perciò prescindendo dalla previsione del suo esito. Il applicazione del principio da ultimo evidenziato è stata argomentata la non esperibilità della detta azione nei confronti di un Comune da parte dell’assuntore del servizio di custodia di auto rimosse e non ritirate, attesa la possibilità per quest’ultimo di procedere al recupero dei crediti nei confronti dei proprietari delle medesime auto (Sez. 6-3, n. 11038/2018, Tatangelo, Rv. 649025-01). Per converso, è stata cassata la pronuncia d’inammissibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento, intrapresa da una società finanziaria nei confronti di un Comune, in ragione della rilevata esperibilità di un’azione risarcitoria diretta nei confronti del funzionario negligente, ritenendo incerta, anche in astratto, la proponibilità della detta azione (Sez. 1, n. 27827/2017, Campanile, Rv. 647025-019).

Circa i rilievi d’ordine processuale della sussidiarietà dell’azione in esame si veda Sez. 1, n. 11653/2020, Scalia, Rv. 658137-01. La parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, difettando di interesse al riguardo, non ha l’onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale per richiamare in discussione le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perché assorbite o anche quelle esplicitamente respinte qualora l’eccezione mirava a paralizzare una domanda comunque respinta per altre ragioni, ma è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello in modo tale da manifestare la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo, ai sensi dell’art. 346 c.p.c. (sul punto, si veda anche, ex plurimis, Sez. L, n. 24124/2016, Spena, Rv. 641710-01).

In applicazione del principio la citata Sez. 1, n. 11653/2020, cassando con rinvio la sentenza impugnata, ha affermato che lo scrutinio di sussidiarietà dell’azione, indispensabile ai fini della proponibilità dell’azione di arricchimento senza causa, essendo devoluto al giudice di appello, non obbliga l’arricchito vittorioso a proporre appello incidentale sul punto, potendo costui limitarsi a contestare l’indicato presupposto.

Sez. 6-3, n. 27620/2020, Cricenti, Rv. 660060 - 01, ribadisce invece che nel processo introdotto mediante domanda di adempimento contrattuale è ammissibile la domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento formulata, in via subordinata, con la prima memoria ai sensi dell’art. 183, comma 6, c.p.c., qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa per incompatibilità a quella originariamente proposta (conforme, ex plurimis, Sez. U, n. 22404/2018, Scrima, Rv. 650451-01).

10. Arricchimento senza causa, P.A. e tardiva attuazione di direttive comunitarie.

In tema di ristoro del pregiudizio da tardiva attuazione di direttive comunitarie (nella specie, le direttive CEE 75/363, 75/362 e 82/76 in materia di retribuzione della formazione dei medici specializzandi), i medici che hanno frequentato corsi di specializzazione a partire dall’anno accademico 1983 (e si siano iscritti dopo il gennaio 1982) sono titolari dell’azione di responsabilità contrattuale ex lege contro lo Stato per l’inadempimento dell’obbligazione di attuazione delle direttive e, quindi, non possono agire, nei confronti delle Università o dello Stato, con azione di indebito arricchimento, stante il carattere sussidiario di quest’ultima, al pari di coloro che hanno preso parte ai detti corsi anteriormente al 1983 (o, comunque, che si sono iscritti prima del gennaio 1982), le cui prestazioni svolte trovano comunque causa nel rapporto instaurato con l’università per la frequenza della scuola.

Allo stesso modo, prosegue Sez. 6-3, n. 13283/2020, Tatangelo, Rv. 658375-01, l’azione di indebito arricchimento non spetta ai medici che hanno seguito tali corsi dopo il 1991, poiché le attività da essi svolte, in base alla disciplina del d.lgs. n. 257 del 1991, trovano causa nel peculiare rapporto contrattuale di formazione-lavoro, oggetto di questa specifica normativa, con la conseguenza che possono avvalersi dell’azione contrattuale per ottenere la remunerazione prevista.

Sul punto era già intervenuta Sez. 6-3, n. 00307/2014, Frasca, Rv. 629469-01, escludendo che a favore dei medici specializzandi (con iscrizione iniziale ai relativi corsi tra gli anni accademici 1983/1984 e 1990/1991) spettasse - sia nei confronti dello Stato che dell’Università presso la quale avevano frequentato il corso - l’azione generale di arricchimento, che ha carattere sussidiario, in quanto titolari dell’azione di responsabilità contrattuale ex lege contro lo Stato per l’inadempimento dell’obbligazione di adempimento delle direttive.

L’azienda sanitaria, comunicando alla struttura accreditata il limite di spesa stabilito per l’erogazione delle prestazioni sanitarie, manifesta implicitamente la sua contrarietà ad una spesa superiore, ovvero a prestazioni ulteriori rispetto a quelle il cui corrispettivo sarebbe rientrato nel predetto limite. Pertanto, statuisce Sez. 3, n. 13884/2020, Guizzi, Rv. 658618-01, l’arricchimento che la P.A. consegue dall’esecuzione delle prestazioni “extra budget” assume un carattere “imposto” che preclude l’esperibilità nei suoi confronti dell’azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c.

L’obbligo indennitario dell’amministrazione, in termini più generali, non sorge con la compiuta realizzazione dell’opera in conformità al progetto, ma in virtù del dato oggettivo dell’utilizzazione della prestazione, che avviene nel momento in cui l’elaborato progettuale viene acquisito dalla pubblica amministrazione e comunque da essa adoperato; detto momento segna il dies a quo per la decorrenza della prescrizione dell’azione, non rilevando a tal fine il riconoscimento soggettivo dell’utilitas da parte dell’ente (Sez. 2, n. 11803/2020, Besso Marcheis, Rv. 658444-02).

La S.C., peraltro, prosegue evidenziando che ai fini della interruzione della prescrizione, il riconoscimento del diritto, è configurabile in presenza, non solo, dei requisiti della volontarietà, della consapevolezza, della inequivocità e della recettizietà, ma anche dell’esternazione, in quanto funzionale a manifestare alla controparte del rapporto la portata ricognitiva alla base dell’effetto interruttivo. Nella specie, Sez. 2, n. 11803/2020, Besso Marcheis, Rv. 658444-01, ha confermato la sentenza d’appello, che aveva ritenuto che una delibera di giunta con cui un’Amministrazione provinciale aveva comunicato a due professionisti di voler corrispondere loro un importo non avesse effetto interruttivo riguardo all’esercizio dell’azione 2041 c.c., trattandosi del riconoscimento di un diritto, alla prestazione contrattuale, differente rispetto a quello, all’indennizzo per ingiustificato arricchimento, per cui era stata eccepita la prescrizione (sul principio di cui innanzi si veda altresì, in senso conforme, Sez. L, n. 15893/2018, Bellè, Rv. 649389-01).

Quello di cui innanzi sembra un approccio interpretativo in linea con la precedente giurisprudenza di legittimità in materia.

In tema di azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A., conseguente all’assenza di un valido contratto d’opera professionale, è già stato difatti confermato da Sez. 3, n. 09809/2019, Gorgoni, Rv. 653424-01, l’orientamento per il quale, ai fini della determinazione dell’indennità prevista dall’art. 2041 c.c. non può essere assunta, quale valido parametro di riferimento, la parcella del professionista, ancorché vistata dall’ordine professionale, trattandosi di individuare non già il corrispettivo contrattuale per l’esecuzione di prestazioni professionali, ma un importo che deve essere liquidato, alla stregua delle risultanze processuali, se ed in quanto si sia verificato un vantaggio patrimoniale a favore della P.A., con correlativa perdita patrimoniale della controparte (in senso conforme si veda anche Sez. 3, n. 03905/2010, Federico, Rv. 611568-01). Sostanzialmente conforme anche Sez. 3, n. 12702/2019, Gorgoni, Rv. 653894-01, per la quale l’indennità prevista dall’art. 2041 c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale (detrimentum) dal medesimo subita nell’erogazione della prestazione, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di profitto (lucro cessante) se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace. Nella specie infatti la S.C. ha confermato la sentenza che, ai fini della determinazione dell’indennizzo dovuto, aveva assunto la parcella del professionista, redatta sulla base delle tariffe professionali e reputata congrua dal C.T.U., quale parametro comparativo dal quale desumere soltanto gli elementi di costo delle attività effettivamente svolte, decurtando poi la somma del 15% per escludere il riconoscimento del lucro cessante (conf. Sez. 3, n. 23780/2014, Stalla, Rv. 633449-01). In termini non dissimili anche Sez. 1, n. 14670/2019, Scoditti, Rv. 654169-01, per la quale la depauperatio, che non può essere fatta coincidere con la misura del compenso calcolato mediante il parametro della tariffa professionale e nel rispetto dei fattori di importanza dell’opera e del decoro della professione (art. 2233 c.c.), deve considerare, oltre ai costi ed esborsi sopportati (danno emergente), anche quanto necessario a ristorare il sacrificio di tempo, nonché di energie mentali e fisiche del professionista (lucro cessante), del cui valore si deve tener conto in termini economici, al netto della percentuale di guadagno. A causa della difficoltà di determinazione del suo preciso ammontare, l’indennizzo può formare oggetto di una valutazione di carattere equitativo ai sensi dell’art. 1226 c.c., anche officiosa. Parimenti, per Sez. 1, n. 14329/2019, Scalia, Rv. 654266-01, l’indennizzo (per il caso di contratto nullo per mancanza di forma scritta) ben possa essere quantificato in via equitativa, utilizzando come parametro la tariffa professionale, con esclusione delle voci che determinerebbero il conseguimento di un pieno corrispettivo contrattuale, come le maggiorazioni previste per le particolari modalità o per l’urgenza con cui la prestazione è stata resa, o applicando i minimi tariffari a fronte di un compenso pattuito in misura superiore. La coeva Sez. 3, n. 09317/2019, Dell’Utri, Rv. 653420-01, aveva però precisato che nella fattispecie di cui innanzi l’indennizzo non può essere determinato in base alla tariffa professionale, neppure indirettamente quale parametro del compenso che il professionista avrebbe potuto ottenere se avesse svolto la sua opera a favore di un privato, né in base all’onorario che la P.A. avrebbe dovuto pagare, se la prestazione ricevuta avesse formato oggetto di un contratto valido. In termini sostanzialmente difformi si era invece pronunciata Sez. 6-1, n. 00351/2017, Lamorgese, Rv. 642780-01, per la quale, qualora, per lo svolgimento di un’attività professionale, debba essere riconosciuto un indennizzo per arricchimento senza causa ai sensi dell’art. 2041 c.c., la quantificazione dell’indennizzo medesimo può essere effettuata utilizzando la tariffa professionale come parametro di valutazione, per desumere il risparmio conseguito dalla P.A. committente rispetto alla spesa cui essa sarebbe andata incontro nel caso di incarico professionale contrattualmente valido (in senso conforme, Sez. 1, n. 19942/2011, Bisogni, Rv. 619548-01). Trattasi, quest’ultima, di difformità anche con riferimento a Sez. U, n. 01875/2009, Monsitieri, Rv. 606124-01, la quale già aveva chiarito, con riferimento all’azione d’indebito arricchimento nei confronti della P.A., conseguente all’assenza di un valido contratto di appalto d’opera tra la P.A. ed un professionista, che l’indennità prevista dall’art. 2041 c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall’esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace. In applicazione del principio la sentenza da ultimo citata aveva quindi concluso nel senso per il quale, ai fini della determinazione dell’indennizzo dovuto al professionista partecipante, in assenza di valido contratto, ad una commissione comunale per l’affidamento di determinati lavori, non potessero essere assunte come parametro le tariffe professionali (ancorché richiamate da parcelle vistate dall’ordine competente), alle quali si sarebbe potuto ricorrere solo quando le prestazioni fossero effettuate dal professionista in base un valido contratto d’opera con il cliente (ritenendo invece congruo il riferimento alle somme previste per i “gettoni di presenza” spettanti ai componenti di commissione, nella specie ai sensi del d.P.R. 11 gennaio 1956, n. 5). Sempre in argomento, per Sez. 3, n. 11209/2019, Graziosi, Rv. 653710-01 (in ciò confermando l’orientamento di Sez. 1, n. 15937/2017, Campanile, Rv. 644667-01), il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicché il depauperato che agisce ex art. 2041 c.c. nei confronti della P.A. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso. Tuttavia, ha precisato l’ordinanza in argomento, le esigenze di tutela delle finanze pubbliche e la considerazione delle dimensioni e della complessità dell’articolazione interna della P.A. trovano adeguata tutela nel principio di diritto comune del cd. “arricchimento imposto”, potendo, invece, l’Amministrazione eccepire e provare che l’indennizzo non è dovuto laddove l’arricchito ha rifiutato l’arricchimento ovvero non ha potuto rifiutarlo perché inconsapevole dell’eventum utilitatis. Così argomentando la S.C. ha cassato la sentenza gravata che aveva riconosciuto all’appaltatrice l’indennizzo per indebito arricchimento per prestazioni sanitarie fornite oltre il tetto di spesa fissato dalla P.A.

Sez. 1, n. 05130/2020, Meloni, Rv. 657048-01, in merito ai rapporti con il funzionario e con il terzo fornitore, chiarisce che l’art. 191 del d.lgs. n. 267 del 2000 prevede un rapporto obbligatorio diretto tra il fornitore e il funzionario che ha consentito, in violazione delle regole contabili, l’acquisizione di beni o servizi in favore dell’ente pubblico, così escludendo la possibilità di esperire nei confronti di quest’ultimo l’azione sussidiaria di ingiustificato arricchimento. Tale norma riguarda però esclusivamente gli enti locali, elencati nell’art. 2 del citato d.lgs., non essendo suscettibile di applicazione analogica perché di natura eccezionale, sicché, ove le prestazioni siano state eseguite in favore di enti pubblici diversi, il fornitore, non avendo a disposizione altre azioni, può agire ex art. 2041 c.c. nei confronti degli enti stessi.

Circa le società in house, invece, Sez. 1, n. 11265/2020, Scalia, Rv. 658051-01, proprio in base al principio civilistico del divieto di indebito arricchimento e tenuto conto della distinzione tra società partecipata e socio pubblico, statuisce che gli oneri derivanti dalla fruizione da parte dei dipendenti di dette società dei permessi retribuiti previsti per l’esercizio di funzioni elettive presso lo stesso ente locale che partecipa alla società sono a carico di quest’ultimo e devono essere rimborsati alla società datrice di lavoro nei termini e secondo le modalità di cui all’art. 80 del d.lgs. n. 267 del 2000.

11. L’ingiustificato arricchimento nei rapporti familiari e prescrizione.

L’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale.

È, pertanto, per costante giurisprudenza di legittimità, possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza - il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto - e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza.

In merito si vedano, ex plurimis, Sez. 3, n. 11330/2009, Ambrosio, Rv. 608287-01, e Sez. 3, n. 14732/2018, Rubino, Rv. 649049-01, che ha ritenuto operante il principio dell’indebito arricchimento in relazione ai conferimenti di denaro e del proprio tempo libero, impegnato in ore di lavoro per la costruzione della casa che doveva essere la dimora comune, effettuati da uno dei due partner in vista della instaurazione della futura convivenza, atteso che la volontarietà del conferimento non era indirizzata a vantaggio esclusivo dell’altro partner - che se ne è giovato dopo scioglimento del rapporto sentimentale in ragione della proprietà del terreno e del principio dell’accessione - e pertanto non costituiva né una donazione né un’attribuzione spontanea.

Ribadisce il principio di cui innanzi Sez. 3, n. 11303/2020, Valle, Rv. 658159-01, per la quale, peraltro, nell’ambito del rapporto di convivenza more uxorio, il termine di prescrizione dell’azione di ingiustificato arricchimento decorre non dai singoli esborsi, bensì dalla cessazione della convivenza (Sez. 3, n. 11303/2020, Valle, Rv. 658159-02).

12. La gestione di affari altrui: le Sezioni Unite sulla giurisdizione.

Appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda, proposta da una società privata nei confronti di un Comune, avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo e il rimborso dei costi sostenuti per l’erogazione di acqua, da un pozzo privato in gestione, agli abitanti di una località situata nel territorio comunale, fornita, dapprima, su richiesta espressa dell’ente locale e sulla base dell’impegno assunto dallo stesso di farsi carico dell’approvvigionamento idrico e, successivamente, in esecuzione di un’ordinanza contingibile ed urgente del Comune medesimo.

Quanto innanzi si argomenta, chiariscono, per quanto rileva in questa sede, Sez. U, n. 07641/2020, Acierno, Rv. 657524-01, in ragione della circostanza per la quale il rapporto giuridico instaurato prima della predetta ordinanza può essere inquadrato nell’ambito della negotiorum gestio (stante l’impedimento dell’ente pubblico all’esercizio delle proprie competenze e il vantaggio conseguito all’attività posta in essere dal privato), mentre, per il periodo successivo, la domanda non trova fondamento nell’impugnazione del provvedimento d’urgenza ma nelle conseguenze economiche derivate dalla sua esecuzione, sicché, per entrambe le scansioni temporali, l’oggetto della controversia è costituito da pretese patrimoniali conseguenti ad un rapporto contrattuale instaurato di fatto.

  • liquidazione delle spese
  • circolazione stradale
  • responsabilità
  • danno
  • danni e interessi
  • sostanza pericolosa

CAPITOLO XI

LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE

(di Luigi La Battaglia, Laura Mancini )

Sommario

1 L’ingiustizia del danno. - 2 La colpa. - 3 Le esimenti della responsabilità. - 4 Il nesso di causalità. - 5 Il concorso di colpa del danneggiato. - 6 La responsabilità solidale. - 7 Il danno patrimoniale. - 7.1 La determinazione del danno risarcibile. - 7.2 Il danno da ritardato adempimento dell’obbligazione risarcitoria. - 7.3 Allegazione e prova del danno patrimoniale. - 7.4 Il danno patrimoniale futuro. - 7.5 Il risarcimento in forma specifica. - 8 Il danno non patrimoniale: nozione e caratteri. - 8.1 La prova del danno non patrimoniale. - 8.1.1 Il danno da perdita di chance a carattere non patrimoniale. - 8.2 Il danno non patrimoniale da lesione del diritto all’autodeterminazione. - 8.3 Il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale. - 9 La liquidazione del danno non patrimoniale. - 9.1 La liquidazione in via equitativa: casistica. - 9.2 La liquidazione del danno biologico. - 9.3 Parametri di quantificazione del danno: le Tabelle di Milano. - 10 Le responsabilità speciali. Danni cagionati da incapace (art. 2047 c.c.) - 10.1 Genitori, maestri e precettori (art. 2048 c.c.). - 10.2 Padroni e committenti (art. 2049 c.c.). - 10.3 Attività pericolose (art. 2050 c.c.). - 10.4 Cose in custodia (art. 2051 c.c.). - 10.5 Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 c.c.). - 10.6 Rovina di edificio (art. 2053 c.c.). - 10.7 Il danno da circolazione di veicoli (art. 2054 c.c.).

1. L’ingiustizia del danno.

Così come accaduto nell’anno precedente, anche nel 2020 non vi sono stati pronunciamenti espressi, da parte della Corte di cassazione, sul concetto di ingiustizia del danno. Non sono mancate, tuttavia, statuizioni che, nel riscontrare (o negare) la sussistenza di un danno ingiusto in casi particolari, hanno contribuito ad arricchire la casistica relativa a tale fondamentale requisito della fattispecie di responsabilità extracontrattuale.

Sez. 3, n. 17814/2020, Tatangelo, Rv. 658690-01, per esempio, in un caso di revoca dell’aggiudicazione disposta nell’ambito di un’espropriazione a mezzo ruolo, dopo aver osservato che l’agente della riscossione (così come il creditore nell’espropriazione ordinaria) non assume alcuna obbligazione (né contrattuale né precontrattuale) nei confronti dell’aggiudicatario, ne ha tuttavia ipotizzato la responsabilità ex art. 2043 c.c., imperniata sul “dovere di agire secondo correttezza e buona fede e [sul] generale obbligo di non ledere posizioni giuridiche altrui”. La Terza sezione ha, in tale occasione, precisato che, nel caso in esame, il risarcimento è, tuttavia, limitato al cd. interesse negativo, non configurandosi un diritto incondizionato dell’aggiudicatario ad ottenere il trasferimento del bene (diritto che è, al contrario, subordinato al regolare svolgimento del processo esecutivo). Sempre in tema di tutela dell’aggiudicatario (questa volta in seno a una procedura fallimentare), Sez. 3, n. 08496/2020, Scarano, Rv. 657807-01, ha ammesso la configurabilità, nei suoi confronti, di una responsabilità extracontrattuale del perito nominato dal giudice delegato, per il pregiudizio subito in conseguenza dell’erronea valutazione del bene (pur conformando la diligenza esigibile dal professionista ai parametri contrattuali di cui agli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c.). In una fase anteriore all’inizio dell’esecuzione forzata si colloca, invece, il comportamento (ascrivibile all’ente impositore e al concessionario per la riscossione) esitato nell’illegittimo preavviso di iscrizione ipotecaria, giudicato illecito da Sez. 3, n. 10814/2020,* Porreca, Rv. 657921-01, sulla base del ragionamento per cui l’attività della P.A. deve svolgersi, anche nel campo tributario, nei limiti imposti dalla legge e dalla norma primaria del neminem laedere, per cui, fermo restando il divieto di stabilire se il potere discrezionale sia stato opportunamente esercitato, al giudice ordinario adito per il risarcimento del danno è consentito accertare se vi sia stato, da parte dell’amministrazione o del concessionario per la riscossione, un comportamento colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria, abbia determinato la lesione di un diritto soggettivo (con la possibilità, per il detto concessionario, di agire in regresso nei confronti dell’ente impositore, per la misura della condotta causalmente e colposamente riferibile allo stesso e alle sue obbligazioni di diligenza).

Un’efficace illustrazione della “soglia di integrazione” della fattispecie extracontrattuale è stata compiuta dalla Corte, nell’annualità in rassegna, in tre settori assai diversi: quello delle immissioni di onde elettromagnetiche, del mobbing e del danno cd. endofamiliare.

Nel primo, Sez. 3, n. 11105/2020, Fiecconi, Rv. 658079-01, ha affermato che il mancato superamento dei parametri fissati dalla legislazione statale di settore, in ossequio al principio di precauzione, osta alla possibilità di avvalersi della tutela giudiziaria preventiva del diritto alla salute, dovendosi presuntivamente escludere la sussistenza di un pericolo di compromissione della stessa.

Nel secondo, Sez. L, n. 10992/2020, Marotta, Rv. 657926-01, ha affermato che, per l’integrazione della fattispecie del mobbing, non è sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione.

Nel terzo, infine, Sez. 1, n. 16740/2020, Caradonna, Rv. 658804-01, ha ribadito l’orientamento ormai consolidato, secondo cui l’addebito della separazione personale dei coniugi, di per sé considerato, non è fonte di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., determinando, nel concorso delle altre circostanze previste dalla legge, solo il diritto del coniuge incolpevole al mantenimento, con la conseguenza che la risarcibilità di danni ulteriori è configurabile solo se i fatti che hanno dato luogo all’addebito integrano gli estremi dell’illecito ipotizzato dalla clausola generale di responsabilità espressa dalla norma indicata (vale a dire determinino una lesione grave di diritti inviolabili della persona del coniuge: in tal senso, Sez. 3, n. 06598/2019, Rubino, Rv. 652847-01; Sez. 1, n. 18853/2011, Felicetti, Rv. 619619-01; Sez. 1, n. 09801/2005, Luccioli, Rv. 580822-01). Una fattispecie affatto particolare, sempre in tema di danno endofamiliare lato sensu inteso, è stata affrontata da Sez. 3, n. 08459/2020, Olivieri, Rv. 657825-03, che ha ravvisato gli estremi della responsabilità civile nel contegno della madre che, consapevole della paternità del figlio generato, non abbia comunicato la circostanza all’altro genitore, sul presupposto che, in assenza di un oggettivo apprezzabile interesse del nascituro, esso integri una condotta non jure, suscettibile di arrecare un pregiudizio - qualificabile come danno ingiusto - al diritto del padre naturale di affermare la propria identità genitoriale, ossia di ristabilire la verità inerente al rapporto di filiazione (nella specie, la Suprema Corte ha, peraltro, confermato la decisione di merito di rigetto della domanda risarcitoria del padre, valorizzando, in particolare, il fatto che egli avesse sempre negato il riconoscimento e la circostanza che non avesse allegato e provato né le modalità di svolgimento della sua relazione con la madre del figlio né le condotte, da lui successivamente tenute, idonee a dimostrare la sua intenzione di realizzare l’aspirazione alla genitorialità).

Pronunciandosi per la giurisdizione del giudice ordinario, Sez. U, n. 14231/2020, Valitutti, Rv. 658117-01, ha richiamato la categoria del diritto all’integrità patrimoniale, per affermare la rilevanza aquiliana del comportamento della P.A. che, dopo avere alienato a un privato un terreno munito di permesso di costruire, aveva annullato in autotutela il provvedimento ampliativo, in tal modo frustrando l’incolpevole affidamento maturato dall’acquirente (e ciò nonostante quest’ultimo avesse invocato il risarcimento del danno quale misura accessoria alla risoluzione del contratto).

Si occupa, invece, della responsabilità dello Stato-legislatore per violazione della normativa comunitaria (segnatamente l’art. 88, par. 3, del Trattato CE, attuale art. 108 TFUE), Sez. 3, n. 22631/2020, Vincenti, Rv. 659242-01, che, nella materia degli aiuti di Stato, la condiziona alla concorrenza di tre requisiti: che il provvedimento controverso, procurando ai beneficiari un vantaggio mediante risorse pubbliche, costituisca un aiuto di Stato ai sensi dell’art. 87, par. 1, del Trattato; che l’aiuto di Stato rientri nella categoria di quelli vietati dalla norma comunitaria appena citata, in quanto idoneo a falsare la concorrenza e ad incidere sugli scambi fra gli Stati membri; infine, che il predetto aiuto rientri nella procedura di controllo di cui all’art. 88, par. 3, del Trattato e, quindi, si tratti di “nuovo aiuto” e non di un “aiuto esistente” (che a tale procedura si sottrae, ai sensi del par. 1 del citato art. 88).

2. La colpa.

Una significativa esemplificazione dell’elemento soggettivo, quale autonomo requisito della fattispecie di responsabilità extracontrattuale, è stata offerta da Sez. 6-3, n. 12420/2020, Positano, Rv. 658223-01, pronunciatasi in tema di responsabilità del vettore per l’avaria della merce verificatasi durante il trasporto. La Cassazione ha in questo caso affermato che, ai fini dell’integrazione della fattispecie della responsabilità aquiliana, non è sufficiente dedurre l’inadempimento delle obbligazioni incombenti sul vettore (configurabile in mancanza di prova del caso fortuito, secondo lo schema dell’art. 1693 c.c.), ma è necessario l’accertamento positivo di una condotta caratterizzata da dolo o colpa, alla stregua dell’art. 2043 c.c.

Concerne, invece, la colpa della pubblica amministrazione la fattispecie esaminata da Sez. 3, n. 00512/2020, Positano, Rv. 656685-01, relativa agli obblighi di intervento dei comuni a tutela della pubblica incolumità, in caso di pericolo di grave calamità naturale (nella specie, un’alluvione). Nei confronti de(l ristretto numero d)i cittadini residenti in zone a rischio più elevato (indicati nella Tabella del Piano intercomunale della Protezione Civile quali soggetti beneficiari di un dovere di protezione e informazione specifico) non è stata ritenuta sufficiente, al fine di escludere la colpa, l’attività di monitoraggio del livello del fiume esondato o l’attivazione dei volontari e delle squadre di soccorso, richiedendosi la messa in atto di specifiche iniziative funzionali ad avvertire gli abitanti delle aree interessate (pur senza giungere a un obbligo di avviso individuale).

3. Le esimenti della responsabilità.

Si è pronunciata in tema di legittima difesa Sez. 6-3, n. 18094/2020, Guizzi, Rv. 658764-01, evidenziando come, mentre nel giudizio penale la semiplena probatio in ordine alla sussistenza della scriminante comporta l’assoluzione dell’imputato ex art. 530, comma 3, c.p.p., nel giudizio civile, al contrario, il dubbio si risolve in danno del soggetto che la invoca e su cui incombe il relativo onere della prova.

Quanto all’adempimento del dovere, Sez. 3, n. 00528/2020, Valle, Rv. 656524-01, ha ribadito quanto già statuito da un risalente precedente (Sez. 1, n. 02832/1974, Valore, Rv. 371252-01), ovvero che il dovere di riferire i fatti costituenti reato non esime il pubblico ufficiale dalla responsabilità civile per diffamazione qualora, con lettere dirette a varie autorità, riferisca fatti generici e non accertati, senza indicazione di fonti di prova, ed esprima giudizi offensivi. Anche la denuncia di un reato costituisce, secondo Sez. 3, n. 11271/2020, Guizzi, Rv. 658144-02, adempimento di un dovere, con la conseguenza che colui che invochi il risarcimento del danno per avere subito una denuncia calunniosa ha l’onere di provare la sussistenza di una condotta integrante il reato di calunnia dal punto di vista sia oggettivo sia soggettivo (dal momento che la possibilità di andare incontro a responsabilità in caso di denunce semplicemente inesatte o rivelatesi infondate frustrerebbe l’interesse pubblico alla segnalazione di fatti illeciti).

È tradizionalmente ricondotto, invece, all’esimente dell’esercizio del diritto (segnatamente quello alla libera manifestazione del proprio pensiero, declinato, quanto all’attività giornalistica, in diritto di cronaca, critica e satira) il comportamento astrattamente lesivo degli altrui diritti della personalità (onore, reputazione, riservatezza, identità personale), ma in concreto provvisto dei requisiti dell’utilità sociale, della verità e della cd. continenza espositiva (secondo il decalogo stilato dalla giurisprudenza di legittimità a partire da Sez. 1, n. 05259/1984, Borruso, Rv. 436989-01). Relativamente al requisito della verità dei fatti oggetto della notizia, Sez. 3, n. 07757/2020, Cricenti, Rv. 657501-01, ha precisato che esso non è scalfito da inesattezze secondarie che non alterino, nel contesto dell’articolo, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili, aggiungendo che sono da considerare marginali le imprecisioni che non mutano in peggio l’offensività della narrazione e, per contro, sono rilevanti quelle che stravolgono il fatto “vero” in maniera da renderne offensiva l’attribuzione a taluno, all’esito di una valutazione del loro peso sull’intero fatto narrato, onde stabilire se siano idonee a renderlo “falso” e, oltre che tale, diffamatorio (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva giudicato diffamatoria, senza una verifica concreta, una notizia, per il fatto in sé che il giornalista aveva riferito due circostanze inesatte, vale a dire che un medico, indicato come autore della somministrazione di sostante dopanti ad un famoso ciclista, era stato radiato dalla Federazione sportiva, mentre il procedimento disciplinare si era concluso con l’archiviazione per via delle sue dimissioni, e che il medesimo sanitario era stato condannato “definitivamente” in appello, nonostante la proposizione di ricorso per Cassazione contro la sentenza che, peraltro, era stata alla fine confermata). Nello stesso senso si è posta Sez. 3, n. 12903/2020, Guizzi, Rv. 658176-02, confermativa della pronuncia di merito che aveva affermato la sostanziale verità della notizia ed escluso il carattere diffamatorio di un articolo di stampa, nel quale si attribuiva al preteso diffamato un reato (quello di falsa perizia) meno grave di quello effettivamente contestatogli (concorso in tentata concussione). La veridicità della notizia, anche quando questa derivi da una fonte “privilegiata” quale l’autorità giudiziaria o investigativa, dev’essere verificata dal giornalista in modo completo e specifico, mediante un necessario aggiornamento temporale (così Sez. 3, n. 21969/2020, Graziosi, Rv. 659408-01, che ha confermato la decisione impugnata, la quale aveva affermato il carattere diffamatorio dell’articolo di stampa in cui si riportava che un avvocato era stato “indagato nel passato” per traffico d’armi, senza avere verificato che la fonte della notizia, costituita da un decreto di archiviazione risalente ad otto anni prima, era stata successivamente oggetto di correzione di errore materiale, con cancellazione del riferimento all’indagine a carico dell’avvocato, annotata sull’originale del provvedimento).

4. Il nesso di causalità.

Sulla scia dell’orientamento inaugurato da Sez. 3, n. 15991/2011, Travaglino, Rv. 618881-01 (e seguito, da ultimo, da Sez. 3, n. 30521/2019, Iannello, Rv. 655971), Sez. 3, n. 00515/2020, Gorgoni, Rv. 656809-02, ha riaffermato l’irrilevanza, ai fini della riduzione del risarcimento, della concausa naturale dell’evento, con riferimento alla peculiare fattispecie della vittima di sinistro stradale rifiutatasi, per motivi religiosi, di sottoporsi a emotrasfusioni: condotta quest’ultima che, non potendosi qualificare come colposa, può essere equiparata, per l’appunto, a una concausa naturale, con conseguente impossibilità di ridurre ex art. 1227, comma 1, c.c., il danno risarcibile.

Concerne, invece, il successivo segmento della cd. causalità giuridica (quello che lega l’evento lesivo alle conseguenze dannose risarcibili) la pronuncia di Sez. 3, n. 08477/2020, Scoditti, Rv. 657804-01, a tenore della quale, nei reati di danno, la decisione di condanna generica al risarcimento emessa dal giudice penale contiene implicitamente l’accertamento del danno evento e del nesso di causalità materiale tra questo e il fatto-reato, ma non anche quello del danno conseguenza, per il quale si rende necessaria un’ulteriore indagine, in sede civile, sul nesso di causalità giuridica fra l’evento di danno e le sue conseguenze pregiudizievoli. Con riguardo a questo tipo di reati, dunque, il giudicato penale copre la sussistenza del danno evento civilistico, non essendo, per contro, il giudice civile vincolato in alcun modo relativamente all’accertamento del danno-conseguenza sotto l’egida dell’art. 1223 c.c.

5. Il concorso di colpa del danneggiato.

Prendendo spunto da una domanda di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, proposta dai congiunti di un accanito fumatore deceduto per un tumore ai polmoni, Sez. 3, n. 01165/2020, Guizzi, Rv. 656688-01, ha colto l’occasione per ribadire la distinzione tra l’ipotesi prevista dall’art. 1227, comma 1, c.c. - che riguarda il contributo eziologico del danneggiato nella produzione dell’evento dannoso -, e quella disciplinata dal comma 2 dello stesso articolo la quale, riferendosi al comportamento, successivo all’evento, con il quale il danneggiato abbia prodotto un aggravamento del danno ovvero non ne abbia ridotto l’entità, attiene al danno-conseguenza (nella specie, la Cassazione ha ritenuto che il contributo eziologico dato dalla scelta della vittima di fumare, nonostante la notoria nocività del fumo, si inscrivesse nel campo di applicazione del primo comma dell’art. 1227 c.c., e fosse pertanto suscettibile di accertamento ufficioso da parte del giudice).

Per spiegare l’effetto di ridurre (o elidere) la responsabilità del danneggiante, il fattore causale di cui all’art. 1227, comma 1, c.c. deve fare capo a un comportamento colpevole del danneggiato, riconducibile alla violazione di un dovere di cautela ascrivibile al più generale dovere di solidarietà contemplato dall’art. 2 Cost. La condotta non colposa è, infatti, irrilevante ai fini della riduzione del risarcimento, al pari della concausa naturale. In tal senso ha statuito Sez. 3, n. 00515/2020, Gorgoni, Rv. 656809-01, con riguardo alla vicenda in cui la vittima di un sinistro stradale era deceduta in seguito al rifiuto di ricevere trasfusioni di sangue per ragioni religiose, osservando come il solo fatto di essere salita su una vettura ed avere così accettato il rischio della circolazione (nella consapevolezza che, in caso di necessità, non si sarebbe sottoposta alle suddette trasfusioni), non poteva esporla a corresponsabilità per la propria morte, dal momento che il rifiuto di sottoporsi a determinate cure mediche è espressione del diritto all’autodeterminazione spettante ad ogni individuo. Una connotazione eminentemente “oggettiva” alla colpa del danneggiato viene conferita da Sez. 3, n. 03557/2020, Tatangelo, Rv. 656897-01, che ne informa l’accertamento agli ordinari standard di diligenza dell’uomo medio, riscontrandola all’esito della verifica di un contrasto con una regola stabilita da norme positive e/o dettata dalla comune prudenza. Non occorrendo un comportamento colposo soggettivamente imputabile della vittima, si prescinde, quindi, dall’età e dallo stato di incapacità naturale di quest’ultima, così come dalla condotta del soggetto eventualmente tenuto alla sua sorveglianza (sotto il profilo della cd. culpa in vigilando e/o in educando), che potrà incidere, se del caso, nel solo ambito della causalità giuridica, al fine di limitare il danno risarcibile ex art. 1227, comma 2, c.c., laddove a domandarlo iure proprio sia lo stesso sorvegliante del danneggiato.

6. La responsabilità solidale.

È principio giurisprudenziale consolidato quello per cui la responsabilità solidale ex art. 2055 c.c. opera anche nell’ipotesi in cui la condotta dei coautori dell’illecito sia ascrivibile a titoli di responsabilità diversi, posto che l’unicità del fatto dannoso considerata dalla norma dev’essere riguardata dall’angolo visuale del danneggiato (in tal senso, di recente, Sez. 3, n. 01070/2019, Scoditti, Rv. 652444-01).

Nel 2020, tale principio ha trovato applicazione in tema di contratto d’appalto e di condominio negli edifici. Nel primo caso, Sez. 2, n. 18289/2020, Bellini, Rv. 659099-01, ha chiarito che la regola per cui l’appaltatore e il progettista e direttore dei lavori rispondono solidalmente dei danni risentiti dal committente trova fondamento nel principio di cui all’art. 2055 c.c., il quale, anche se dettato in tema di responsabilità extracontrattuale, si estende all’ipotesi in cui taluno degli autori del danno debba rispondere a titolo di responsabilità contrattuale. Con riguardo ai danni subiti, invece, da terzi, Sez. 3, n. 12882/2020, Rossetti, Rv. 658296-01, ha precisato, da parte sua, che, nel caso in cui essi discendano da un vizio del progetto fornito dal committente, sussiste la concorrente responsabilità risarcitoria di quest’ultimo e dell’appaltatore: il committente, per aver ordinato l’esecuzione di un progetto malamente concepito; l’appaltatore, per non essersi colpevolmente avveduto del vizio in discorso, pur essendovi tenuto in ossequio al canone della diligenza professionale ex art. 1176, comma 2, c.c. (in applicazione di tale principio, la Cassazione ha confermato la sentenza di merito, che, con riferimento ai danni subiti da un fondo in conseguenza della realizzazione di un impianto di depurazione delle acque, aveva ravvisato la concorrente responsabilità dell’ente locale committente per aver approvato un progetto che si era rivelato inidoneo a impedire l’anomalo deflusso delle acque stesse). Sempre con riferimento a opere edilizie, Sez. 3, n. 00516/2020, Cricenti, Rv. 656810-02, al cospetto di danni cagionati a terzi dai lavori di ristrutturazione fatti eseguire dal conduttore di un immobile, ha ravvisato la responsabilità solidale del proprietario che tali lavori (altrimenti preclusi al conduttore) aveva autorizzato, sul presupposto che il primo fosse obbligato, ai sensi degli artt. 832, 1576 e 2043 c.c., ad ingerirsi e a sorvegliare l’attività autorizzata o, comunque, consentita, allo scopo di evitare che da essa potesse derivarne un ingiusto danno ai terzi.

In tema di condominio, Sez. 2, n. 07044/2020, Scarpa, Rv. 657285-01, ha osservato che, per i danni occorsi alla porzione di proprietà esclusiva di un condomino, la sua responsabilità ex art. 2051 c.c., quale custode dei beni e dei servizi comuni, concorre con l’eventuale fatto di un terzo riconducibile all’art. 2043 c.c., dando luogo ad una situazione di solidarietà “impropria”. Nondimeno, la conseguenza della corresponsabilità ex art. 2055 c.c. comporta che la domanda del condomino danneggiato vada intesa sempre come volta a conseguire per l’intero il risarcimento da ciascuno dei coobbligati, in ragione del comune contributo causale alla determinazione del danno.

Meritevole di menzione è anche Sez. 6-3, n. 09661/2020, Cirillo F.M., Rv. 657745-01, che ha configurato la concorrente responsabilità, ex artt. 2052 c.c. e 2043 c.c., rispettivamente, del soggetto che - sia esso proprietario o utilizzatore - abbia la custodia dell’animale, e dell’altro tra i due, rispetto al quale si accerti la ricorrenza, in concreto, dei presupposti della clausola generale di responsabilità.

Altre due recenti pronunce si sono soffermate sulle implicazioni processuali della regola della solidarietà. Sez. 3, n. 17893/2020, Rossetti, Rv. 658757-04, ha affrontato il caso di un sinistro stradale concausato da più veicoli, tutti privi di copertura assicurativa. Nell’occasione, la Cassazione ha affermato che, perché l’impresa designata dal Fondo di Garanzia delle Vittime della Strada risponda, ai sensi dell’art. 283, comma 1, lettera b, cod. ass., entro il limite costituito dal prodotto del massimale minimo di legge per il numero dei responsabili coobbligati, è necessario che, nel convenirla in giudizio, il danneggiato ne abbia espressamente invocato la qualità di garante ex lege di tutti i coobbligati, e che tale domanda venga accolta con conseguente condanna dei responsabili, in solido tra loro ex art. 2055 c.c., al risarcimento dell’intero danno patito. Laddove, invece, l’attore abbia agito nei confronti di uno solo dei corresponsabili, ovvero abbia richiesto la condanna dell’impresa designata quale garante di uno soltanto di essi, il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato impedisce al giudice di condannare al pagamento di somme eccedenti un singolo massimale. Con riferimento al processo di secondo grado, Sez. 6-3, n. 10596/2020, Dell’Utri, Rv. 657995-01, ha puntualizzato, invece, che la solidarietà attiva o passiva tra più attori o convenuti in un giudizio di risarcimento del danno non determina l’inscindibilità delle cause in fase di impugnazione (e non dà luogo, quindi, all’applicazione dell’art. 331 c.p.c.), in quanto ogni danneggiato, come può agire separatamente dagli altri danneggiati - e nei confronti di ciascuno dei danneggianti - per ottenere l’integrale risarcimento, così può proseguire il giudizio senza gli ulteriori danneggiati o contro uno solo dei danneggianti, omettendo di proporre impugnazione con riguardo agli altri, con l’effetto di scindere il rapporto processuale.

7. Il danno patrimoniale.

Nell’annualità in rassegna l’elaborazione della giurisprudenza di legittimità in tema di danno patrimoniale si è posta in linea di continuità con l’opzione ermeneutica, da tempo accolta dall’orientamento prevalente, che concepisce il danno risarcibile non in termini di automatico corollario della lesione dell’interesse giuridicamente protetto, ma quale conseguenza pregiudizievole effettivamente scaturita dall’evento di danno (o dall’inadempimento) e a questo collegata mediante un nesso di causalità giuridica necessitante di specifica allegazione e dimostrazione (Sez. 3, n. 12123/2020, Guizzi, Rv. 658173-01).

Tale impostazione - che si mostra coerente con la funzione, se non esclusiva (Sez. U, n. 16601/2017, D’Ascola, Rv. 644914-01), comunque precipua, di compensazione propria della responsabilità civile - è supportata dalla ricostruzione del nesso di derivazione eziologica esistente tra la condotta del danneggiante e l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria, fondata sulla scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti: il primo volto ad identificare il nesso di causalità materiale o di fatto che lega la condotta all’evento di danno; il secondo diretto, invece, ad accertare, secondo la regola dell’art. 1223 c.c. (richiamato dall’art. 2056 c.c.), il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili (Sez. 3, n. 22857/2019, Guizzi, Rv. 655090-01).

7.1. La determinazione del danno risarcibile.

Al principio di stretta correlazione tra riparazione pecuniaria e perdita effettivamente subita hanno mostrato di conformarsi, innanzitutto, le pronunce che hanno fatto applicazione della nozione di danno emergente, nelle quali si coglie l’esigenza di puntualizzare come tale componente del pregiudizio patrimoniale debba essere necessariamente commisurata all’effettivo nocumento accertato.

Significativa di tale perdurante tendenza è Sez. 3, n. 26192/2020, De Stefano, Rv. 659864-01, la quale ha chiarito che il notaio rogante il contratto di compravendita di un immobile che abbia omesso di effettuare le dovute visure ipotecarie è tenuto a risarcire all’acquirente del cespite, successivamente sottoposto ad esecuzione immobiliare da parte del creditore ipotecario, il danno commisurato all’effettivo nocumento sofferto dall’acquirente; questo può essere liquidato in misura pari al valore dell’immobile perduto a seguito della vendita forzata ovvero, per equivalente, all’esborso necessario per ottenere l’estinzione del processo esecutivo e la cancellazione dell’ipoteca, in tale senso lato potendosi intendere le spese di purgazione dell’immobile, vale a dire la sua sottrazione al rischio di legale evizione nel corso della procedura espropriativa.

Nella medesima prospettiva, Sez. 1, n. 18584/2020, Scalia, Rv. 658810-01, ha precisato che l’occupazione usurpativa di terreni, che integra un illecito a carattere permanente e non annulla la connotazione urbanistica dei suoli ablati, obbliga l’amministrazione al risarcimento del danno, che deve essere determinato in considerazione del criterio dell’edificabilità legale dei suoli, e quantificato in base all’integrale valore di mercato del terreno, senza che sia consentito alcun ricorso, integrativo o sostitutivo, all’edificabilità di fatto.

Una peculiare applicazione della nozione di danno emergente ha riguardato il tema delle spese stragiudiziali, esborsi da tempo definiti dalla giurisprudenza di legittimità come “qualcosa di intrinsecamente diverso rispetto alle spese processuali vere e proprie” (Sez. U, n. 16990/2017, Cirillo E., Rv. 644917-01) e ricondotti nel paradigma del danno patrimoniale e, segnatamente, del danno emergente ex art. 1223 c.c. (Sez. 3, n. 00997/2010, Frasca, Rv. 611051-01; Sez. 3, n. 03266/2016, Sestini, Rv. 638791-01; Sez. 6-3, n. 06422/2017, Cirillo F.M., Rv. 643676-01; Sez. 3, n. 09548/2017, Rubino, Rv. 643851-01; Sez. U, n. 16990/2017, Cirillo E., Rv. 644917-01; Sez. 6-3, n. 02644/2018, Rossetti, Rv. 647923-01).

È stato, infatti, ribadito che le spese sostenute per l’assistenza stragiudiziale hanno natura di danno emergente, consistente nel costo sopportato per l’attività svolta da un legale nella fase pre-contenziosa, con la conseguenza che il loro rimborso è soggetto ai normali oneri di domanda, allegazione e prova e che, anche se la liquidazione deve avvenire necessariamente secondo le tariffe forensi, esse hanno natura intrinsecamente differente rispetto alle spese processuali vere e proprie; pertanto, gli importi riconosciuti per il relativo ristoro non possono essere compensati con le somme liquidate, a diverso titolo, per le spese giudiziali relative alle successive prestazioni di patrocinio in giudizio (Sez. 3, n. 24481/2020, Iannello, Rv. 659763-02).

In tema di lucro cessante, confermando il principio espresso da Sez. 3, n. 07531/2009, Rv. 607199-01, Sez. 3, n. 04683/2020, Tatangelo, Rv. 656911-04, ha, invece, affermato che, ai fini della liquidazione del danno subito dai risparmiatori per la perdita delle somme di denaro affidate in gestione a società fiduciarie, ai sensi della l. n. 1966 del 1939, non possono essere riconosciuti, oltre al valore nominale del capitale versato, anche i frutti (sotto forma di interessi) che quei capitali avrebbero prodotto se fossero stati investiti (nella specie, in BOT), atteso che il rapporto di amministrazione fiduciaria, implicando o comunque autorizzando investimenti con margini di rischio e possibilità di perdite, non attribuisce al fiduciante il diritto ad un rendimento minimo o ad un utile garantito.

Nell’annualità in rassegna è proseguita l’opera di ricostruzione e di sistemazione dell’istituto della compensatio lucri cum damno avviata dalle pronunce nomofilattiche del 2018 (Sez. U, n. 12564/2018, Giusti, Rv. 648647-01; Sez. U, n. 12565/2018, Giusti, Rv. 648648-01; Sez. U, n. 12566/2018, Giusti, Rv. 648649-01, n. 12567/2018, Giusti, Rv. 648650-01).

I presupposti applicativi di tale regola di determinazione del danno risarcibile risultano nettamente enucleati da Sez. 1, n. 16702/2020, Mercolino, Rv. 658612-01, la quale ha precisato che l’applicazione del principio della compensatio lucri cum damno richiede che il vantaggio conseguito dal danneggiato rientri nella serie causale dell’illecito, da ricostruirsi secondo un criterio adeguato di causalità, non entrando in gioco, pertanto, il detto principio allorché il vantaggio si presenti come il frutto di scelte autonome e del sacrificio del danneggiato, o come l’effetto di un evento che si sarebbe in ogni caso prodotto, indipendentemente dal momento in cui si è verificato l’illecito, o comunque nell’ipotesi in cui il beneficio trovi altrove la sua fonte e nell’illecito solo un coefficiente causale. In applicazione di tale principio, la Corte ha condiviso la decisione della corte territoriale di escludere che, nella liquidazione del danno derivante dall’inadempimento di un contratto preliminare, si dovesse tenere conto del risarcimento dovuto da una società terza per il mancato rilascio del medesimo immobile promesso in vendita, alla scadenza di un contratto di comodato stipulato con il promittente venditore.

La concreta declinazione di tali principi ha riguardato fattispecie di peculiare interesse, come quella del risarcimento del danno ai familiari delle vittime del disastro aereo di Ustica del 27 giugno 1980, in relazione alla quale è stato precisato che gli importi liquidati a titolo risarcitorio non si cumulano ai benefici liquidati ai sensi della l. n. 302 del 1990, ad essi estesi dalla l. n. 340 del 1995, né assume rilievo il momento, anteriore o successivo al risarcimento del danno, di erogazione di tali provvidenze, poiché si applica comunque la regola della decurtazione dell’indennità dall’ammontare del risarcimento, secondo il principio della compensatio lucri cum damno (Sez. 3, n. 19629/2020, Olivieri, Rv. 659027-01).

Un’altra significativa applicazione dell’istituto si rinviene in Sez. 3, n. 26757/2020, Vincenti, Rv. 659865-03, la quale, in tema di illecito eurounitario dello Stato, ha chiarito che dall’ammontare riconosciuto alle vittime di reati intenzionali violenti commessi in Italia, a titolo di risarcimento del danno per la tardiva trasposizione dell’art. 12, paragrafo 2, delle Direttiva 2004/80/CE, deve essere detratta la somma loro corrisposta quale indennizzo ex l. n. 122 del 2016 (e successive modifiche). Trova difatti applicazione l’istituto della compensatio lucri cum damno in ragione del disposto del comma 1, lett. e) e lett. e bis), dell’art. 12 della citata l. n. 122 che, quale regola settoriale, ripropone direttamente gli effetti di detto istituto, come desumibili, in generale, dall’art. 1223 c.c., e dalla circostanza per la quale sia l’obbligo risarcitorio sia quello indennitario, gravanti in capo al medesimo soggetto, sono valutabili in termini di “conseguenza immediata e diretta” dell’identico fatto generatore del reato ed assolvono alla comune funzione di garantire, comunque, alla vittima un ristoro per le conseguenze pregiudizievoli, morali e materiali, patite a seguito del crimine, non altrimenti risarcite dal reo.

Sotto il profilo processuale, utili indicazioni provengono da Sez. 3, n. 24177/2020, Moscarini, Rv. 659529-01, e da Sez. 3, n. 26757/2020, Vincenti, Rv. 659865-04, secondo le quali l’eccezione di compensatio lucri cum damno è un’eccezione in senso lato, nel senso che non consiste nella deduzione di un fatto estintivo, modificativo o impeditivo del diritto azionato, ma in una mera difesa in ordine all’esatta entità globale del pregiudizio effettivamente patito dal danneggiato, ed è, come tale, rilevabile d’ufficio dal giudice il quale, per determinare l’esatta misura del danno risarcibile, può fare riferimento, per il principio dell’acquisizione della prova, a tutte le risultanze del giudizio.

7.2. Il danno da ritardato adempimento dell’obbligazione risarcitoria.

In materia di danno da ritardato adempimento dell’obbligazione risarcitoria, la giurisprudenza dell’annualità in rassegna è tornata ad attestarsi sull’orientamento tradizionale (per il quale si veda, ex aliis, Sez. 1, n. 04028/2017, Campanile, Rv. 644309-01) che intravede negli interessi compensativi una componente indefettibile del risarcimento del danno, in contrapposizione con una tendenza, delineatasi in tempi più recenti, propensa a rimarcare anche in subiecta materia la distinzione ontologica tra danno evento e danno-conseguenza e la correlata necessità di specifica allegazione e prova di tutte le conseguenze pregiudizievoli, patrimoniali e non patrimoniali, derivanti dall’illecito o dall’inadempimento, e ad escludere, quindi, la configurabilità di automatismi nel riconoscimento degli interessi compensativi, sia perché il danno da ritardo che con essi si indennizza non necessariamente esiste, sia perché, di per sé, esso può essere comunque già ricompreso nella somma liquidata in termini monetari attuali (Sez. 3, n. 18564/2018, Scoditti, Rv. 649736-01; Sez. 3, n. 07267/2018, Iannello, Rv. 648301-01).

In tale contesto si colloca Sez. 3, n. 24468/2020, Olivieri, Rv. 659951 - 02, la quale ha affermato che gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito hanno fondamento e natura differenti da quelli moratori, regolati dall’art. 1224 c.c., in quanto sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono, quindi, una necessaria componente, al pari di quella rappresentata dalla somma attribuita a titolo di svalutazione monetaria, la quale non configura il risarcimento di un maggiore e distinto danno, ma esclusivamente una diversa espressione monetaria del danno medesimo (che, per rendere effettiva la reintegrazione patrimoniale del danneggiato, deve essere adeguata al mutato valore del denaro nel momento nel quale è emanata la pronuncia giudiziale finale).

Da tali premesse la Suprema Corte ha tratto la conclusione per la quale nella domanda di risarcimento del danno per fatto illecito è implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento sia degli interessi compensativi sia del danno da svalutazione monetaria - quali componenti indispensabili del risarcimento, tra loro concorrenti, attesa la diversità delle rispettive funzioni - e il giudice di merito deve attribuire gli uni e l’altro anche se non espressamente richiesti, pure in grado di appello, senza, per ciò solo, incorrere in ultrapetizione.

Per quel che riguarda le modalità liquidatorie del danno da ritardato adempimento dell’obbligazione risarcitoria, meritano menzione Sez. 1, n. 07466/2020, Terrusi, Rv. 657490-01, e Sez. 3, n. 09194/2020, Di Florio, Rv. 657765-01.

Con la prima è stato stabilito che, in tema di adempimento dell’obbligazione risarcitoria nell’occupazione illegittima, posto che il relativo credito è di valore - come tale soggetto a rivalutazione da considerarsi rilevante fino alla data della liquidazione (taxatio) -, il danno da ritardo, ove esistente, comprende la liquidazione degli interessi sul credito espresso in moneta all’epoca del fatto e poi rivalutato anno per anno ovvero, per identità di risultato, sulla semisomma (e cioè la media) tra il credito rivalutato alla data della liquidazione e lo stesso credito espresso in moneta all’epoca dell’illecito.

La seconda pronuncia ha, invece, affermato che nell’obbligazione di risarcimento del danno determinato da un fatto illecito (nella specie, da responsabilità riconducibile alla circolazione di veicoli) gli interessi compensativi vanno determinati con riferimento al periodo che decorre dalla data del sinistro a quella della pubblicazione della sentenza che ha provveduto ad accertare l’an e a liquidare il quantum debeatur, con la conseguenza che, ove la sentenza d’appello riformi quella di primo grado rideterminando l’importo dovuto, la quantificazione va ricondotta, relativamente al termine finale, al momento della pubblicazione della decisione che definisce il gravame.

Per quanto concerne la distinzione tra interessi compensativi e interessi moratori, merita di essere segnalata Sez. 6-3, n. 01641/2020, Porreca, Rv. 656556-01, per la quale, in tema di risarcimento dei danni per la mancata tempestiva trasposizione delle direttive comunitarie 75/362/CEE e 82/76/CEE in favore dei medici frequentanti le scuole di specializzazione in epoca anteriore all’anno 1991, a seguito dell’intervento con il quale il legislatore - dettando l’art. 11 della legge 19 ottobre 1999, n. 370 - ha effettuato una aestimatio del danno, alla precedente obbligazione risarcitoria per mancata attuazione delle direttive si è sostituita un’obbligazione avente natura di debito di valuta, rispetto alla quale - secondo le regole generali di cui agli artt. 1219 e 1224 c.c. - gli interessi legali possono essere riconosciuti solo dall’eventuale messa in mora o, in difetto, dalla notificazione della domanda giudiziale, con la conseguenza che va esclusa la spettanza della rivalutazione e dei correlati interessi compensativi, salva rigorosa prova, da parte del danneggiato, di circostanze diverse da quelle normali, tempestivamente e analiticamente dedotte in giudizio prima della maturazione delle preclusioni assertive o di merito e di quelle istruttorie.

In merito alla rivalutazione monetaria, Sez. 3, n. 11588/2020, D’Arrigo, Rv. 658161-01, ha precisato che in tema di risarcimento da fatto illecito, la circostanza che il danno sia stato liquidato in una “moneta forte” (nella specie, dollaro statunitense), che subisce in misura molto limitata l’impatto erosivo dell’inflazione, può giustificare una rivalutazione monetaria secondo un coefficiente di attualizzazione basso o, eventualmente, anche bassissimo, ma non esclude in radice l’applicazione del principio generale per il quale le obbligazioni di valore devono essere attualizzate.

7.3. Allegazione e prova del danno patrimoniale.

In materia di prova del danno, l’orientamento che nell’ultimo decennio ha ricevuto più ampio credito nella giurisprudenza di legittimità muove dall’assunto, elaborato dal noto arresto nomofilattico del 2008 (Sez. U, n. 26972/2008, Preden, Rv. 605489-01), secondo il quale il sistema del risarcimento del danno delineato dal codice civile esclude in modo irrevocabile la configurabilità del danno patrimoniale in re ipsa, in quanto l’obbligazione risarcitoria non insorge in seguito alla mera colposa o dolosa violazione del diritto (antigiuridicità della condotta), ma soltanto a causa delle “conseguenze” pregiudizievoli eventualmente prodottesi come effetto di tale violazione; conseguenze che, riguardate sul piano degli accadimenti fenomenici, implicano un evento ulteriore ed ontologicamente apprezzabile rispetto a quello determinativo della violazione del diritto (ex multis, Sez. 3, n. 11203/2019, Olivieri, Rv. 653590-01).

L’autorità di tale enunciazione non è, comunque, valsa ad orientare le pronunce successive entro un percorso ermeneutico uniforme, tanto che anche nell’annualità in rassegna, accanto alla ricostruzione che - sulla scorta della segmentazione del processo dannoso nel duplice nesso di causalità, giuridica e materiale - ripudia l’identificazione del danno con la lesione del diritto, ha continuato a coesistere l’impostazione che, invece, ammette tale sovrapposizione.

In linea con il primo dei richiamati approcci ermeneutici si è posta Sez. 3, n. 12123/2020, Guizzi, Rv. 658173-01, la quale ha affermato che, in caso di accertamento dell’illegittimità dell’iscrizione ipotecaria, ricorre un evento di danno costituito dall’apparenza di una situazione idonea a determinare difficoltà alla commerciabilità del bene; tuttavia, ai fini del risarcimento, occorre accertare se in concreto si sia verificato un danno-conseguenza, che non può essere configurato in re ipsa, ma può consistere nel pregiudizio economico derivante dalla perdita di occasioni di alienare il cespite oppure di venderlo a condizioni più favorevoli.

Nella medesima prospettiva, Sez. 3, n. 03133/2020, Guizzi, Rv. 657144-01, ha precisato che il danno patrimoniale derivante da indebita segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d’Italia può essere provato dal danneggiato anche per presunzioni, potendo consistere, per l’imprenditore, nel peggioramento della sua affidabilità commerciale, essenziale pure per l’ottenimento e la conservazione dei finanziamenti, con lesione del diritto ad operare sul mercato secondo le regole della libera concorrenza, e, per qualsiasi altro soggetto, nella maggiore difficoltà nell’accesso al credito.

Ancora, in materia di “fermo tecnico”, Sez. 6-3, n. 05447/2020, Cigna, Rv. 657289-01, ha affermato che il relativo pregiudizio deve essere allegato e dimostrato, mediante una prova che non può avere ad oggetto la mera indisponibilità del veicolo, ma deve sostanziarsi nella dimostrazione o della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo, ovvero della perdita subita per la rinuncia forzata ai proventi ricavabili dall’uso del mezzo.

Con specifico riferimento al danno da lesione dei diritti reali, sul quale si concentra con particolare evidenza la segnalata discontinuità interpretativa, alcune pronunce hanno, invece, dato seguito all’opposta tendenza, favorevole a riconoscere la configurabilità del danno in re ipsa.

A tale riguardo, si segnala, innanzitutto, Sez. 6-2, n. 25082/2929, Criscuolo, Rv. 659708-01, secondo la quale la violazione della prescrizione sulle distanze tra le costruzioni, attesa la natura del bene giuridico leso, determina un danno in re ipsa, con la conseguenza che non incombe sul danneggiato l’onere di provare la sussistenza e l’entità concreta del pregiudizio patrimoniale occorso al diritto di proprietà, dovendosi tale pregiudizio, di norma, presumere, sia pure iuris tantum e fatta salva la possibilità per il preteso danneggiante di dimostrare che, per la peculiarità dei luoghi o dei modi della lesione, il danno debba, invece, essere escluso.

Nella medesima prospettiva, Sez. 2, n. 25790/2020, Scarpa, Rv. 659623-01, ha affermato che, in tema di condominio negli edifici, ove sia accertata un’alterazione della fisionomia architettonica dell’edificio condominiale (nella specie, per effetto della realizzazione di una canna fumaria apposta sulla facciata), il pregiudizio economico rappresenta una conseguenza normalmente insita nella menomazione del decoro architettonico, che, costituendo una qualità del fabbricato, è tutelata, in quanto di per sé meritevole di salvaguardia, dalle norme che ne vietano l’alterazione.

Una posizione intermedia ha, invece, assunto Sez. 2, n. 21272/2020, De Marzo, Rv. 659368, ad avviso della quale, nel caso di occupazione illegittima di un immobile, il danno subito dal proprietario discende dalla menomazione della facoltà di godimento anche indiretta del bene e ben può essere apprezzato sul piano presuntivo. Nella fattispecie, la Corte ha cassato la decisione gravata che aveva rigettato la domanda risarcitoria da occupazione sine titulo perché non vi era prova che il bene, ove lasciato libero, sarebbe stato fruttuosamente utilizzato.

Il ricorso alla prova presuntiva è stato valorizzato anche da Sez. 3, n. 10804/2020, Rossetti, Rv. 657964-02, per la quale il danno subito da una società cooperativa edilizia per effetto del ritardato rilascio dell’alloggio da parte del socio estromesso può essere liquidato in via equitativa ex art. 2727 c.c., anche in mancanza di una prova specifica del suo esatto ammontare, avuto riguardo all’oggetto sociale, al presumibile uso che la medesima società avrebbe fatto del bene nel caso di tempestiva riconsegna, alla durata dell’occupazione illegittima ed alle caratteristiche dell’immobile.

In ordine alla prova del danno patrimoniale è, inoltre, meritevole di menzione Sez. 1, n. 05381/2020, Iofrida, Rv. 657038-03, la quale ha precisato che, in tema di concorrenza, nel giudizio instaurato ai sensi dell’art. 33, comma 2, della l. n. 287 del 1990, per il risarcimento dei danni derivanti da illeciti anticoncorrenziali, nell’ipotesi in cui il procedimento dinanzi all’AGCOM si sia concluso con una decisione implicante l’assunzione di impegni da parte dell’impresa a norma dell’art. 14 ter l. cit., in ordine alla sua posizione rivestita sul mercato ed alla sussistenza di un comportamento integrante un abuso di posizione dominante, il giudice di merito può porre a fondamento del proprio accertamento gli elementi di prova acquisiti nel corso dell’istruttoria svolta e, segnatamente, quelli desumibili dalla comunicazione delle sue risultanze, sebbene gli stessi non costituiscano prova privilegiata, potendo essere contrastati da emergenze di diverso tenore.

Con riguardo alla ripartizione dell’onere della prova, utili indicazioni sono state offerte da Sez. 6-3, n. 18526/2020, Guizzi, Rv. 659035-02, la quale, in linea con un risalente dictum (Sez. 3, n. 04404/1986, Rv. 447158-01), ha chiarito che, in tema di domanda di risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza impugnata, grava su chi invoca il risarcimento l’onere di dare la prova degli ulteriori pregiudizi patiti, prova dalla quale può essere esonerato solo quando risulti pacifica ed incontroversa l’attitudine della causa del danno a produrre effetti nocivi, continui e periodici, della stessa natura ed intensità di quelli passati, già giudizialmente provati e riconosciuti, restando certa cioè non solo la perduranza della causa efficiente, ma anche la invarianza della situazione di fatto in cui essa ha continuato ad operare in pregiudizio altrui.

Ancora, Sez. 6-3, n. 01636/2020, Rv. 656592-01, ha precisato che in tema di azione per risarcimento danni, la circostanza che il lavoratore ingiustamente estromesso (così come quello ingiustamente licenziato) abbia, nelle more del giudizio, lavorato e percepito comunque un reddito (cd. aliunde perceptum) rappresenta un fatto impeditivo della pretesa attorea, il quale, in applicazione del generale precetto di cui all’art. 2697 c.c., deve essere provato da colui che lo eccepisce, e non già da chi invochi il risarcimento.

7.4. Il danno patrimoniale futuro.

Nell’anno in rassegna la produzione giurisprudenziale in tema di danno futuro ha riguardato prevalentemente il pregiudizio da perdita o riduzione della capacità di guadagno conseguente alla compromissione di valori personali.

Le decisioni in materia, sviluppando le indicazioni ermeneutiche provenienti dalla giurisprudenza precedente, hanno palesato una tendenza - ormai univoca e probabilmente destinata a perpetuarsi - a privilegiare, ai fini dell’accertamento del pregiudizio in esame, il giudizio prognostico fondato su parametri di regolarità causale.

Validi spunti sono stati offerti dalle pronunce sul danno reddituale sofferto dal soggetto privo di occupazione lavorativa, tra le quali merita di essere segnalata Sez. 3, n. 01163/2020, Guizzi, Rv. 656633-01, che ha evidenziato come, in tema di risarcimento del danno alla persona, la mancanza di un reddito al momento dell’infortunio, dovuta allo stato di disoccupazione del soggetto leso, possa escludere il danno da invalidità temporanea, ma non anche il danno futuro collegato all’invalidità permanente, il quale verrà ad incidere sulla capacità di guadagno della vittima nel momento in cui questa inizierà un’attività remunerata, salvo che si tratti di disoccupazione volontaria, ovvero di un consapevole rifiuto dell’attività lavorativa.

Secondo Sez. 3, n. 24481/2020, Iannello, Rv. 659763-01, un danno patrimoniale da incapacità lavorativa permanente può essere sofferto anche da chi fosse disoccupato al momento dell’infortunio subito, qualora i postumi delle lesioni siano tali da comportare la perdita o la riduzione del reddito che, continuando a proporsi sul mercato del lavoro, egli avrebbe infine verosimilmente conseguito sulla base delle proprie capacità.

Compete anche ai prossimi congiunti di un soggetto disoccupato, deceduto in conseguenza del fatto illecito di un terzo, il risarcimento del danno patrimoniale futuro che si prospetti come effettivamente probabile sulla scorta di parametri di regolarità causale ed alla stregua di oggettivi e ragionevoli criteri rapportati alle circostanze del caso concreto (Sez. 3, n. 05099/2020, Scoditti, Rv. 657139-01, con la quale la Suprema Corte ha cassato la sentenza che aveva rigettato la domanda sulla base della mera mancanza di un reddito attuale di fonte lavorativa in capo alla vittima deceduta, madre ventunenne dell’attrice).

Utili indicazioni sono state, inoltre, offerte da Sez. 3, n. 09682/2020, Rossetti, Rv. 657848-01, per la quale il danno da perdita o riduzione della capacità lavorativa di un soggetto adulto che, al momento dell’infortunio, non svolgeva alcun lavoro remunerato va liquidato (con equo apprezzamento delle circostanze del caso, ai sensi dell’art. 2056 c.c.) stabilendo: a) se possa ritenersi che la vittima, qualora fosse rimasta sana, avrebbe cercato e trovato un lavoro confacente al proprio profilo professionale; b) se i postumi residuati all’infortunio consentano o meno lo svolgimento di un lavoro confacente al profilo professionale del danneggiato.

Per quanto concerne le modalità della liquidazione del danno da perdita della capacità di guadagno, Sez. 6-3, n. 03545/2020, Rossetti, Rv. 657018-01, ha precisato che tale pregiudizio, come ogni altro credito risarcitorio, va liquidato stabilendo la quota del reddito perduta dalla vittima in conseguenza dell’invalidità causata dall’illecito; se l’ultimo reddito noto risale ad epoca anteriore al sinistro, detta liquidazione va operata rivalutando tale importo in base al coefficiente del costo della vita per le famiglie di operai ed impiegati (cd. FOI) calcolato dall’Istat e relativo al tempo del sinistro.

Ancora Sez. 6-3, n. 18093/2020, Guizzi, Rv. 658516-01, in linea di continuità con la giurisprudenza più recente, ha ribadito che il danno permanente da incapacità di guadagno non può essere liquidato in base ai coefficienti di capitalizzazione approvati con r.d. n. 1403 del 1922, i quali, a causa dell’innalzamento della durata media della vita e dell’abbassamento dei saggi di interesse, non garantiscono l’integrale ristoro del danno, e con esso il rispetto della regola di cui all’art. 1223 c.c.

Ai fini della liquidazione equitativa del danno patrimoniale futuro da incapacità lavorativa patito da soggetto già percettore di reddito da lavoro, può applicarsi, in difetto di prova rigorosa del reddito effettivamente perduto dalla vittima, il criterio del triplo della pensione sociale anche nel caso in cui sia accertato che la vittima, al momento del sinistro, percepiva un reddito talmente sporadico o modesto, da renderla in sostanza equiparabile ad un disoccupato (Sez. 3, n. 17690/2020, De Stefano, Rv. 658625-01).

Infine, in materia di spese mediche future, deve essere segnalata Sez. 3, n. 13881/2020, Rubino, Rv. 658310-02, secondo la quale il danno permanente futuro, consistente nella necessità di sostenere una spesa periodica vita natural durante, non può essere liquidato attraverso la semplice moltiplicazione della spesa attuale per il numero di anni di vita stimata della vittima, ma va liquidato o in forma di rendita, oppure moltiplicando il danno, calcolato su base annua, per il numero di anni per cui verrà sopportato, con successivo abbattimento del risultato in base ad un coefficiente di anticipazione, ovvero, infine, attraverso il metodo della capitalizzazione, vale a dire mediante la moltiplicazione del danno annuo per un coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie. Nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la decisione di appello che non aveva determinato il montante di anticipazione, ritenendo di potere compensare la mancata devalutazione di quanto liquidato con l’omessa rivalutazione delle somme fino al giorno della sentenza e con il mancato aggancio dei costi di protesizzazione a quelli delle protesi più costose e performanti richieste dalla parte.

7.5. Il risarcimento in forma specifica.

In materia di risarcimento del danno in forma specifica è stato ribadito il principio enunciato da Sez. 3, n. 00903/2013, Carleo, Rv. 624906-01, secondo il quale, nel caso in cui il notaio rogante non adempia all’obbligazione di verificare l’esistenza di iscrizioni ipotecarie relative all’immobile compravenduto, dichiarando come libero un bene che risulta, invece, gravato da ipoteca, il risarcimento del danno conseguente può essere disposto anche in forma specifica, mediante condanna del notaio alla cancellazione della formalità non rilevata, a condizione che sia possibile ottenere il consenso del creditore e che l’incombente non sia eccessivamente gravoso, avuto riguardo sia alla natura dell’attività occorrente allo scopo, sia all’entità della somma da pagare in rapporto all’ammontare del danno (Sez. 6-3, n. 01270/2020, Iannello, Rv. 656586-01).

8. Il danno non patrimoniale: nozione e caratteri.

Presupposto per la risarcibilità del danno non patrimoniale (al di fuori delle ipotesi di reato e di previsione espressa della legge ordinaria) è la lesione di un interesse inviolabile della persona costituzionalmente garantito; lesione che, inoltre, deve essere grave (nel senso che l’offesa superi la soglia di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale), e dare luogo a un danno non futile (ossia non consistente in meri disagi o fastidi, e come tale eccedente la dimensione “bagatellare”). Tali assunti (consolidati nella giurisprudenza di legittimità a partire da Sez. U, n. 26972/2008, Preden, Rv. 605493-01) sono stati riaffermati, con riferimento al danno non patrimoniale ex art. 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 (ora art. 82, reg. UE n. 2016/679), da Sez.1, n. 17383/2020, Acierno, Rv. 658718-01, alla cui stregua il pregiudizio in discorso, pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della gravità della lesione e della serietà del danno, in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui quello di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché a determinare una lesione ingiustificabile del diritto è non già la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del codice della privacy, bensì quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito.

La necessità dell’apprezzamento di un danno-conseguenza distinto dalla lesione della situazione giuridica soggettiva del danneggiato è stata ulteriormente messa in luce da Sez. 6-3, n. 21508/2020, Gorgoni, Rv. 659566-01, attraverso la riproposizione dell’arresto di cui a Sez. U, n. 15350/2015, Salmè, Rv. 635985-01, alla cui stregua il danno non patrimoniale da perdita della vita non è indennizzabile ex se, senza che con ciò possa ritenersi violato l’art. 2 CEDU sul riconoscimento del “diritto alla vita”, poiché la richiamata norma, pur se di carattere generale e diretta a tutelare ogni possibile componente del bene vita, non detta specifiche prescrizioni sull’ambito ed i modi nei quali tale tutela debba esplicarsi, né, in caso di decesso immediatamente conseguente a lesioni derivanti da fatto illecito, impone necessariamente l’attribuzione della tutela risarcitoria, il riconoscimento della quale in numerosi interventi normativi ha, comunque, carattere di specialità e tassatività ed è inidoneo a modificare il vigente sistema della responsabilità civile, imperniato sul concetto di perdita-conseguenza e non sull’evento lesivo in sé considerato.

Nel caso in cui causa petendi della domanda risarcitoria sia l’avvenuta commissione di un fatto qualificabile come reato (ai sensi del combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.), la risarcibilità del danno non patrimoniale - ha ricordato Sez. 3, n. 03371/2020, Cricenti, Rv. 656895-01 - non richiede che il fatto illecito integri in concreto un reato, né che sia intervenuta una condanna penale passata in giudicato, essendo sufficiente che il fatto stesso sia astrattamente previsto come reato, sicché la mancanza di una pronuncia del giudice penale non costituisce impedimento all’accertamento ad opera del giudice civile, con valenza incidenter tantum, della sussistenza degli elementi costitutivi (materiale e psicologico) del suddetto reato, negli esatti termini previsti dalla legge penale. E così, in tema di diffamazione, sarà necessaria la comunicazione con più persone, la quale, nell’ipotesi in cui l’agente comunichi in via riservata con un’unica persona, implica la volontà, da parte dell’agente medesimo, dell’ulteriore diffusione del contenuto diffamatorio attraverso il destinatario (Sez. 3, n. 11271/2020, Guizzi, Rv. 658144-01). Si è soffermata sulla stessa fattispecie di reato anche Sez. 3, n. 08476/2020, Scoditti, Rv. 657803-01, la quale (in conformità col precedente rappresentato da Sez. 3, n. 17207/2015, Barreca, Rv. 636845-01) ha sottolineato che non è necessario che il soggetto passivo sia precisamente e specificamente nominato, purché la sua individuazione avvenga, in assenza di una esplicita indicazione nominativa, attraverso tutti gli elementi della fattispecie concreta (quali le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili), desumibili anche da fonti informative di pubblico dominio al momento della diffusione della notizia offensiva diverse da quella della cui illiceità si tratta, se la situazione di fatto sia tale da consentire al pubblico di riconoscere con ragionevole certezza la persona alla quale la notizia è riferita (nel caso di specie, la Suprema Corte ha cassato la decisione di merito che aveva escluso il carattere diffamatorio della notizia riguardante un’indagine a carico di un magistrato per reati diretti a favorire esponenti mafiosi in base al solo fatto che quest’ultimo non fosse stato indicato nominativamente e senza verificare se il medesimo fosse, comunque, riconoscibile alla luce delle circostanze concrete, come l’avvenuta menzione, lo stesso giorno, del detto magistrato da parte di altre testate ed il limitato numero dei soggetti potenzialmente coinvolti nella vicenda).

8.1. La prova del danno non patrimoniale.

Il danno non patrimoniale è, in ogni sua forma, un danno-conseguenza, che deve essere adeguatamente allegato e provato da colui che ne invochi in giudizio il risarcimento, sebbene un ruolo importante sia giocato dalle presunzioni, proprio in virtù delle caratteristiche intrinseche di tale tipo di pregiudizio. Pronunciandosi in tema di diritti della personalità, Sez. 3, n. 04005/2020, Fiecconi, Rv. 657006-01, ha, quindi, rimarcato che il danno all’immagine e alla reputazione (nella specie, per un articolo asseritamente diffamatorio), inteso come “danno conseguenza”, non sussiste in re ipsa, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento. Pertanto, la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice, con accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, sulla base non di valutazioni astratte, bensì del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e dimostrato, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, che siano fondate, però, su elementi indiziari diversi dal fatto in sé, ed assumendo quali parametri di riferimento la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima.

Di un ampio ricorso alle presunzioni si giova anche l’accertamento del danno da perdita del rapporto parentale, nel quale i congiunti sono chiamati a provare l’effettività e la consistenza della relazione conculcata dall’illecito (si veda, in tempi recenti, Sez. 3, n. 28989/2019, Dell’Utri, Rv. 656223-01). Ebbene, secondo Sez. 3, n. 07743/2020, Positano, Rv. 657503-01, il pregresso rapporto di convivenza con la vittima “primaria” non assurge a connotato minimo di esistenza del danno, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l’azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno; infatti, poiché la “società naturale”, alla quale fa riferimento l’art. 29 Cost., non è limitata alla cd. famiglia nucleare, il rapporto tra nonni e nipoti, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, non può essere ancorato alla convivenza, escludendo automaticamente, in caso di insussistenza della stessa, la possibilità per tali congiunti di provare l’esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto. Sulla stessa scia si è posta Sez. 3, n. 07748/2020, Cricenti, Rv. 657507-01, relativa al pregiudizio occorso ai genitori e ai fratelli di un soggetto che aveva riportato gravi lesioni in conseguenza di un incidente stradale, secondo cui tale pregiudizio può essere dimostrato per presunzioni, fra le quali assume rilievo il rapporto di stretta parentela esistente fra la vittima ed i suoi familiari che fa ritenere, in base ad un criterio di normalità sociale, che essi soffrano per le gravissime lesioni riportate dal loro prossimo congiunto. Nell’occasione, la Corte ha precisato, altresì, che, ai fini del risarcimento del pregiudizio in discorso, è sufficiente dimostrare la compromissione della salute o la (significativa) contrazione delle abitudini di vita dei congiunti, senza che, in quest’ultimo caso, sia necessario accertare la ricorrenza di un totale sconvolgimento delle stesse.

8.1.1. Il danno da perdita di chance a carattere non patrimoniale.

Ponendosi nel solco tracciato da Sez. 3, n. 05641/2018, Travaglino, Rv. 648461-03 (e, successivamente, da Sez. 3, n. 28993/2019, Valle, Rv. 655791-01), Sez. 3, n. 12906/2020, Tatangelo, Rv. 658177-01, ha confermato la collocazione della perdita di chance a livello del danno evento, dal quale deve essere tenuta distinta la dimensione della causalità, di modo che il giudice deve muovere anzitutto dalla necessaria indagine sul nesso causale tra la condotta e l’evento, secondo il criterio civilistico del “più probabile che non”, potendo successivamente assimilare l’evento stesso al concetto di chance, laddove si trovi di fronte a un’insanabile incertezza circa il raggiungimento del risultato sperato. Diversamente, ove sia provato il nesso causale rispetto a un evento di danno accertato nella sua esistenza e nelle sue conseguenze dannose risarcibili, non sarà possibile discorrere di chance perduta, profilandosi un danno non patrimoniale nella sua “ordinaria” configurazione, come tale meritevole di integrale risarcimento (il principio è stato affermato dalla Cassazione con riferimento a una sentenza di merito che aveva dimezzato l’importo del risarcimento dei danni riconosciuti dalla decisone di primo grado ai parenti in conseguenza del decesso di un congiunto - avvenuto a seguito di un errore diagnostico che, secondo la valutazione operata dal consulente tecnico, aveva comportato l’evento lesivo con una probabilità del 50% - sovrapponendo, però, i distinti piani dell’accertamento del nesso causale e dell’accertamento e della valutazione del danno in concreto subito dagli attori).

8.2. Il danno non patrimoniale da lesione del diritto all’autodeterminazione.

Richiamandosi all’importante precedente di cui a Sez. 3, n. 28985/2019, Olivieri, Rv. 656134-01, Rv. 656134-02, Rv. 656134-03, Rv. 656134-04 e Rv. 656134-05, Sez. 3, n. 24471/2020, Olivieri, Rv. 659760-01, ha delineato la duplice fisionomia che il pregiudizio conseguente alla lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente è suscettibile di assumere, quale vero e proprio danno alla salute, ovvero quale sofferenza interiore indotta dalla conculcazione della libertà di determinarsi intorno alle scelte terapeutiche involgenti la propria integrità psico-fisica. Se, in tale ultimo caso, l’omessa o insufficiente informazione preventiva evidenzia ex se una relazione causale diretta con la compromissione dell’interesse all’autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del trattamento sanitario, nel primo l’incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato pregiudizievole dell’atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall’opzione che il paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato, ed è configurabile soltanto nel caso di presunto dissenso, con la conseguenza che l’allegazione dei fatti dimostrativi di tale scelta costituisce parte integrante dell’onere della prova (gravante sul danneggiato) del nesso eziologico tra inadempimento ed evento dannoso. Ciò non esclude, peraltro, che, anche qualora venga dedotta la violazione del diritto all’autodeterminazione, sia indispensabile allegare specificamente quali altri pregiudizi, diversi dal danno alla salute eventualmente derivato, il danneggiato abbia subito, non potendosi in nessun caso qualificare il pregiudizio in questione alla stregua di danno in re ipsa.

8.3. Il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale.

Un consistente filone di pronunce ha riguardato, nell’anno in rassegna, il danno da perdita del rapporto parentale, derivante dalla lesione diritto all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, e all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la tutela della quale è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost. (secondo la definizione divenuta ius receptum nella giurisprudenza della Cassazione, a partire da Sez. 3, n. 08828/2003, Preden, Rv. 563841-01). Un diritto la cui violazione, anche se posta in essere dalla P.A. attraverso propri dipendenti, deve essere fatta valere dinanzi al giudice ordinario, come statuito da Sez. U, n. 09772/2020, Scrima, Rv. 657855-01, con riguardo alla domanda di condanna del Ministero della difesa al ristoro del danno provocato dalla condotta omissiva dei Carabinieri, consistita nella mancata trasmissione agli organi competenti (Questore, Prefetto e Procuratore della Repubblica) della notizia delle denunce precedentemente presentate dalla vittima circa il comportamento aggressivo, irascibile e privo di controllo reiteratamente serbato nei suoi confronti da colui che, infine, la aveva uccisa, sul presupposto che una tale domanda fosse volta ad ottenere il risarcimento del pregiudizio cagionato, non già dalla mancata o illegittima adozione di un provvedimento amministrativo discrezionale, ma dal comportamento materiale tenuto dalla P.A.

Di notevole interesse, sotto il profilo dell’inquadramento generale della fattispecie, Sez. 3, n. 14615/2020, Sestini, Rv. 658328-01 (relativa alla domanda degli eredi di un soggetto ammalatosi e poi deceduto a causa di infezione da HCV contratta a seguito di emotrasfusioni ospedaliere), e Sez. 3, n. 14258/2020, Guizzi, Rv. 658316-01 (riguardante la domanda risarcitoria avanzata dagli stretti congiunti di un paziente psichiatrico, suicidatosi gettandosi dalla finestra della struttura ospedaliera nella quale era ricoverato), le quali hanno affermato che il rapporto contrattuale tra il paziente e la struttura sanitaria (o il medico) esplica i propri effetti tra le sole parti dello stesso, sicché i congiunti del paziente possono giovarsi del titolo contrattuale della responsabilità della struttura o del professionista per i soli danni invocati iure hereditario, potendo azionare unicamente la responsabilità extracontrattuale relativamente ai danni patiti iure proprio. In linea generale, non è, infatti, configurabile, in favore dei congiunti, un contratto con effetti protettivi del terzo, ipotesi che va circoscritta al contratto concluso dalla gestante con riferimento alle prestazioni sanitarie funzionali alla procreazione, il quale, per la peculiarità dell’oggetto, è idoneo ad incidere in modo diretto sulla posizione del nascituro e del padre (nonché dei fratelli), sì da farne scaturire una tutela estesa a tali soggetti. Nello stesso senso, ma con riferimento a un caso nel quale la morte del congiunto era stata cagionata dall’inadempimento degli obblighi gravanti sul datore di lavoro a mente dell’art. 2087 c.c., Sez. L, n. 00002/2020, Blasutto, Rv. 656405-01, ha sostenuto che la domanda di risarcimento proposta iure proprio dai congiunti del lavoratore, quali soggetti estranei al rapporto di lavoro, trova la sua fonte esclusiva nella responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c., sicché non è soggetta al regime probatorio proprio della responsabilità ex art. 2087 c.c., irrilevante essendo, a tal fine, la circostanza che l’azione aquiliana, oggetto del giudizio, individui il nucleo dell’elemento soggettivo del convenuto in una “porzione” di un’azione contrattuale, soggetta a regole probatorie differenti.

Per quel che riguarda i legittimati attivi a domandare il risarcimento del pregiudizio in discorso, Sez. 3, n. 24689/2020, Gorgoni, Rv. 659848-01, allineandosi alla giurisprudenza consolidata, ha escluso che il loro novero sia circoscritto ai familiari conviventi, poiché il rapporto di convivenza, pur costituendo elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, non assurge a connotato minimo di esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà, sì da escluderli automaticamente in caso di sua mancanza. Da altro punto di vista, ha opinato, poi, che nessun rilievo, al fine di negare il riconoscimento di tale danno, può essere attribuito all’unilateralità del rapporto di fratellanza ed all’assenza di vincolo di sangue, non incidendo tali elementi negativamente sull’intimità della relazione, sul reciproco legame affettivo e sulla pratica della solidarietà.

Un danno da perdita del rapporto parentale può configurarsi anche rispetto a una relazione non ancora esistente, ma suscettibile di sorgere nel futuro alla stregua di un giudizio di ragionevole probabilità. In particolare, Sez. 3, n. 17554/2020, Tatangelo, Rv. 658621-01, ha riconosciuto tale voce di danno in favore della figlia di una donna che era stata privata della possibilità di (ulteriormente) procreare in conseguenza di malpractice medica, ravvisando la lesione del suo interesse, costituzionalmente protetto dall’art. 29 Cost., a stabilire un legame affettivo con uno o più fratelli. Per la configurazione di questo tipo di danno è necessario, peraltro, che emergano elementi, anche presuntivi, sufficienti a far ritenere che detto legame sarebbe stato acquisito e che la sua mancanza abbia determinato un concreto pregiudizio (in applicazione del principio, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza d’appello che aveva rigettato la domanda risarcitoria escludendo la risarcibilità del danno patito dalla figlia minore, sebbene fosse emerso che, prima della compromissione della capacità riproduttiva, i genitori condividessero il progetto di creare una famiglia più numerosa). Alla perdita di una “relazione soltanto potenziale” fa riferimento anche Sez. 3, n. 22859/2020, Positano, Rv. 659411-01, con riguardo al parto di un feto morto, riconoscendo al giudice di merito la possibilità di operare la necessaria personalizzazione dei parametri delle tabelle elaborate dal tribunale di Milano, mediante l’attribuzione ai danneggiati una somma inferiore ai valori minimi tabellari, tenuto conto della mancata instaurazione della relazione affettiva.

9. La liquidazione del danno non patrimoniale.

Secondo Sez. 3, n. 12280/2016, Cirillo F.M., Rv. 640308-01, il danno non patrimoniale diverge, per natura, da quello patrimoniale e tale diversità persiste anche all’atto della liquidazione, che ha la sola funzione di tradurre il pregiudizio sofferto in un’entità economicamente valutabile. Sez. 3, n. 15213/2018, Fiecconi, non massimata, si esprime in termini di “fondamentale principio di piena e integrale equivalenza tra entità del pregiudizio e liquidazione dell’importo risarcitorio, per cui il danneggiato deve percepire tutto quanto sia necessario a reintegrarlo nella situazione quo ante, ma nulla di più di quanto abbia effettivamente perduto”. Ruolo centrale è, dunque, rivestito dalla funzione compensativa (o, per quel che riguarda il danno non patrimoniale, più propriamente consolatorio-satisfattiva) del risarcimento, il quale, se da un lato non può assumere la natura di mero indennizzo (con conseguente inammissibile arricchimento del danneggiante), dall’altro non può tradursi in una pena privata, dovendo la (pur concorrente) funzione individual-deterrente arrestarsi alle soglie del cd. risarcimento punitivo (ammissibile solo al cospetto degli specifici presupposti enucleati da Sez. U, n. 16601/2017, D’Ascola, Rv. 644914-01).

Con le considerazioni appena svolte è coerente il principio di diritto espresso da Sez. 3, n. 08137/2020, Cricenti, Rv. 657510-01, secondo cui, anche quando il fatto illecito è fonte di arricchimento per il danneggiante, il risarcimento del danno va commisurato al pregiudizio subito dal danneggiato, salvo che l’arricchimento derivi dallo sfruttamento di beni o risorse dello stesso danneggiato (oggetto del giudizio era il risarcimento del danno per la mancata pubblicazione della sentenza di condanna per diffamazione, che la Corte ha statuito dovesse essere parametrato al danno inferto al diffamato e non già al risparmio, per il diffamante, del costo di pubblicazione). Nella stessa logica, applica la regola della compensatio lucri cum damno alla materia del danno da emotrasfusioni Sez. 3, n. 08532/2020, Scoditti, Rv. 657813-02, laddove statuisce che, nel giudizio promosso contro il Ministero della salute per il risarcimento dei pregiudizi connessi al contagio da virus HBV, HIV o HCV, l’indennizzo ex l. n. 210 del 1992, che sia stato già corrisposto al danneggiato, deve essere interamente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno, venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento, consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo.

Caratteristica fondamentale della liquidazione del danno non patrimoniale è la sua natura equitativa (art. 1226, richiamato dall’art. 2056 c.c.), canone valutativo che consente di modellare la quantificazione del risarcimento sulla peculiarità della fattispecie concreta, scongiurando (almeno tendenzialmente) la corresponsione di somme di denaro sensibilmente diverse, a parità di effettivo pregiudizio. Avuto riguardo alle sentenze del giudice di pace, Sez. 2, n. 25017/2020, Fortunato, Rv. 659672-01, ha osservato che l’esercizio del potere discrezionale di liquidazione del danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo ad un giudizio non già di equità, bensì di diritto, caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva o integrativa, con la conseguenza che la sentenza emessa dal giudice nell’esercizio di tale potere non è assoggettata ai limiti di appellabilità previsti per le sentenze pronunciate secondo equità dall’art. 339 c.p.c.

9.1. La liquidazione in via equitativa: casistica.

Attraverso la liquidazione equitativa, il risarcimento tende a uniformarsi a istanze di proporzionalità e adeguatezza, le quali rifuggono dall’ancoraggio a parametri rigidi e si innestano sulla valutazione ponderata di tutte le circostanze del caso concreto (di cui il giudice è chiamato a dar conto nella motivazione). A tali linee direttrici sono ispirate tre pronunce della S.C. che, nel 2020, hanno declinato la regola di cui all’art. 1226 c.c. in campi diversi.

Sez. 6-2, n. 00974/2020, Scarpa, Rv. 657244-01, si è incentrata sul danno da irragionevole durata del processo, per il quale l’art. 2 bis della l. n. 89 del 2001 (come risultante dalle sostituzioni operate dall’art. 1, comma 777, della l. n. 208 del 2015), prevede una liquidazione “non inferiore a euro 400 e non superiore a euro 800 per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo”, disponendo altresì che “la somma liquidata può essere incrementata fino al 20 per cento per gli anni successivi al terzo e fino al 40 per cento per gli anni successivi al settimo”, e (al comma 1 ter) che “la somma può essere diminuita fino a un terzo in caso di integrale rigetto delle richieste della parte ricorrente nel procedimento cui la domanda di equa riparazione si riferisce”. Orbene, nell’indicata ordinanza la Corte di cassazione ha puntualizzato che il giudice, nel determinare la quantificazione del danno non patrimoniale subito per ogni anno di ritardo, può scendere al di sotto del livello di “soglia minima” là dove, in considerazione del carattere bagatellare o irrisorio della pretesa patrimoniale azionata nel processo presupposto - parametrata anche sulla condizione sociale e personale del richiedente -, l’accoglimento della pretesa azionata renderebbe il risarcimento del danno non patrimoniale del tutto sproporzionato rispetto alla reale entità del pregiudizio sofferto.

Con riferimento, invece, al danno da perdita del rapporto parentale (per il quale le tabelle milanesi prevedono un range di valori monetari, differenziato a seconda del vincolo familiare che viene in rilievo), Sez. 3, n. 13269/2020, Rossetti, Rv. 658374-01, ha messo in chiaro che la liquidazione operata in base alle tabelle del Tribunale di Milano vigenti al momento del verificarsi del danno, in luogo di quelle, diverse e più favorevoli, esistenti al tempo della liquidazione, non è censurabile in sede di legittimità, qualora al danneggiato sia riconosciuto un importo compreso nel range previsto dalle tabelle in uso all’epoca della decisione, non essendo consentito alla Corte di legittimità sindacare se, per le peculiarità del caso concreto, quell’importo si sarebbe dovuto attestare sulla misura massima, su quella media o su quella minima indicata dalle tabelle più recenti.

Infine, Sez. L, n. 20466/2020, Lorito, Rv. 658913-01, ha fatto riferimento al criterio equitativo per la liquidazione del risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla lesione del diritto fondamentale al lavoro (inteso come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino nonché dell’immagine, della dignità e della professionalità del dipendente), nel caso di specie sofferto dal lavoratore per la forzata inattività conseguente alla totale privazione di mansioni, correlata alla collocazione in cassa integrazione in violazione dei criteri di rotazione, avendo cura di precisare che lo stesso non può considerarsi assorbito dal ristoro del danno patrimoniale da illegittima sospensione (risarcito mediante il pagamento delle differenze fra il trattamento in CIG e le retribuzioni maturate nei relativi periodi).

9.2. La liquidazione del danno biologico.

Rapportandosi a un caso in cui la vittima di un sinistro stradale era successivamente deceduta per cause indipendenti dallo stesso, Sez. 3, n. 12913/2020, Olivieri, Rv. 658023-01, ha riproposto l’insegnamento manifestato, da ultimo, da Sez. 3, n. 04551/2019, Di Florio, Rv. 652827-01), osservando come, qualora gli scopi tipici della liquidazione equitativa del danno (adeguatezza del risarcimento all’utilità effettivamente perduta e uniformità dello stesso in situazioni identiche) non siano, in concreto, raggiungibili attraverso il criterio tabellare, venendo in questione un’ipotesi di danno biologico non contemplata dalle tabelle adottate, il giudice di merito è tenuto a fornire specifica indicazione degli elementi della fattispecie concreta considerati e ritenuti essenziali per la valutazione del pregiudizio, nonché del criterio di stima ritenuto confacente alla liquidazione equitativa, anche ricorrendo alle tabelle come base di calcolo, ma fornendo congrua rappresentazione delle modifiche apportate e rese necessarie dalla peculiarità della situazione esaminata (nel caso di specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito che - nell’impossibilità di applicare il valore tabellare relativo all’età del danneggiato al momento del sinistro e alla sua aspettativa di vita media, dovendosi piuttosto fare riferimento alla durata reale della vita del soggetto - ha liquidato il risarcimento avendo riguardo al valore monetario tabellare giornaliero previsto per l’inabilità temporanea assoluta, moltiplicato per il numero di giorni della effettiva esistenza in vita del danneggiato).

Sez. 3, n. 24474/2020, Gorgoni, Rv. 659761-01, ha rimarcato la distinzione tra i criteri di indennizzo del danno biologico derivante da infortunio sul lavoro o malattia professionale (avente natura assistenziale e per il quale, in base al disposto dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, devono osservarsi le tabelle di cui al d.m. del 12 luglio 2000) e quelli che presiedono al risarcimento (integrale) del danno biologico cd. civilistico, soggiungendo che il suddetto indennizzo a carico dell’INAIL non può estendersi al ristoro del danno da “perdita del diritto alla vita”, dal momento che, venendo in questione un bene (quale la vita) diverso dalla salute, non ricorre la nozione di danno biologico recepita dal citato art. 13. Resta ferma, peraltro, la possibilità, ove ne ricorrano le condizioni, di intentare un’autonoma azione nei confronti del datore di lavoro al fine di richiedere il risarcimento del danno biologico cd. differenziale, vale a dire di quella parte del danno biologico non coperta dall’assicurazione obbligatoria (per il cui calcolo Sez. L, n. 24880/2019, Marchese, Rv. 655315-01, aveva di recente ribadito la necessità del ricorso al metodo delle cosiddette poste separate).

9.3. Parametri di quantificazione del danno: le Tabelle di Milano.

Anche la giurisprudenza dell’anno 2020 annovera la riproposizione della regola messa a punto da Sez. 3, n. 12408/2011, Amatucci, Rv. 618048-01, per la quale, per il risarcimento dei danni conseguenti alla lesione della salute, le tabelle predisposte dal Tribunale di Milano sono munite di efficacia para-normativa, in quanto concretizzano il criterio della liquidazione equitativa di cui all’art. 1226 c.c. (Sez. 3, n. 08532/2020, Scoditti, Rv. 657813-01). Ne consegue che la loro omessa adozione - secondo Sez. 3, n. 08508/2020, Scarano, Rv. 657808-01 - integra una violazione di norma di diritto censurabile con ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., poiché i relativi parametri devono essere presi a riferimento dal medesimo giudice ai fini di tale liquidazione, dovendo egli indicare in motivazione le ragioni che lo abbiano eventualmente condotto ad una quantificazione del risarcimento che, alla luce delle circostanze del caso concreto, risulti inferiore a quella cui si sarebbe pervenuti utilizzando dette tabelle. Tuttavia, la deduzione, in sede di legittimità, dell’avvenuta applicazione di una tabella diversa da quella milanese non è sufficiente, di per sé, ad inficiare il corretto utilizzo, da parte del giudice, del criterio di liquidazione equitativa, dovendo la correlata denuncia essere accompagnata dall’esposizione delle ragioni che, in concreto, hanno determinato l’incongruo ricorso al criterio in questione (così Sez. 3, n. 08884/2020, Olivieri, Rv. 657868-01).

10. Le responsabilità speciali. Danni cagionati da incapace (art. 2047 c.c.)

L’art. 2047 c.c. pone a carico del soggetto gravato di un obbligo di sorveglianza nei confronti di colui che, sebbene non interdetto, sia incapace di intendere e di volere, la responsabilità per i danni cagionati a terzi da quest’ultimo, salva la prova liberatoria di non aver potuto impedire il fatto malgrado il diligente esercizio della sorveglianza impiegata (Sez. 3, n. 12965/2005, Purcaro, Rv. 582021-01). Allo stesso modo che per l’art. 2048 c.c., la norma non si applica ai danni che l’incapace si sia auto-inferto, fondandosi, in tal caso, la responsabilità del “sorvegliante” sull’inadempimento di obblighi di protezione promananti dal contratto o dalla legge (a tal proposito, merita di essere segnalata Sez. 3, n. 25288/2020, Guizzi, Rv. 659778-01, che, dinanzi al caso di un paziente psichiatrico il quale, durante un ricovero ospedaliero, aveva compiuto atti autolesivi nonostante le misure di contenzione adottate, ha affermato che il contratto di ricovero produce, quale effetto naturale ex art. 1374 c.c., l’obbligo della struttura sanitaria di sorvegliare il paziente in modo adeguato rispetto alle sue condizioni, al fine di prevenire che questi possa causare danni a terzi o subirne, di modo che la prova liberatoria dell’impossibilità oggettiva non imputabile, richiesta dall’art. 1218 c.c., va verificata sul piano della non esigibilità, da parte del danneggiante, di un comportamento diverso da quello in concreto tenuto). Tornando ai danni nei confronti dei terzi, Sez. 3, n. 14260/2020, Gorgoni, Rv. 658317-01, ha escluso la sussistenza di una responsabilità ex art. 2047 c.c. a carico della struttura di accoglienza facente parte del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (cd. SPRAR), per i danni cagionati da un rifugiato (ospite della struttura) gettatosi da una finestra nel tentativo di suicidarsi. Ha osservato, in tale occasione, la S.C., che l’obbligo di sorvegliare il rifugiato ospite, al fine di prevenire che questi possa causare danni a terzi o subirne, deve essere parametrato alle sue condizioni di vulnerabilità e alla conoscenza delle stesse da parte dell’ente, trovando il predetto obbligo un limite nella doverosità e esigibilità in concreto della condotta richiesta al sorvegliante. Pertanto, se l’adempimento di tale obbligo certamente richiede di sottoporre il rifugiato a particolare attenzione (ad esempio, con l’inserimento in un percorso di recupero e l’erogazione di un supporto psicologico, ovvero con la eventuale segnalazione all’autorità di pubblica sicurezza ed al servizio sanitario nazionale, affinchè gli forniscano la necessaria assistenza terapeutica), esso non si spinge fino al dovere di impedirne il suicidio. Con riguardo alla fattispecie concreta, la Corte ha, quindi, escluso che vi fosse stata una violazione dell’obbligo di sorveglianza, tenuto conto che la struttura di riferimento, seppure a conoscenza dello stato di incapacità del danneggiante, non era una struttura terapeutica di ricovero, non poteva imporre alcuna terapia farmacologica né limitare la libertà personale, e non era obbligata a dotare l’edificio di presidi specifici, quali lo sbarramento delle finestre, al fine di prevenire il suicidio per precipitazione, avendo una funzione prevalentemente residenziale e non reclusiva.

10.1. Genitori, maestri e precettori (art. 2048 c.c.).

In tema di responsabilità degli insegnanti, nel 2020 è intervenuta una pronuncia che ha riproposto la delimitazione del perimetro della fattispecie di cui all’art. 2048 c.c. Sez. 6-3, n. 19110/2020, Iannello, Rv. 659149-01, ha, infatti, reiterato l’esplicitazione della regula iuris per cui la presunzione di responsabilità posta dall’art. 2048, comma 2, c.c., a carico dei precettori trova applicazione limitatamente al danno cagionato ad un terzo dal fatto illecito dell’allievo e non è, pertanto, invocabile al fine di ottenere il risarcimento del danno che l’allievo abbia procurato a se stesso (fattispecie, quest’ultima, che, a partire da Sez. U, n. 09346/2002, Preden, Rv. 555386-01, viene ascritta alla responsabilità contrattuale, per l’inadempimento degli obblighi di protezione e vigilanza sorti, in capo all’istituto scolastico e all’insegnante, rispettivamente in virtù dell’accoglimento della domanda di iscrizione e del “contatto sociale” conseguentemente instauratosi tra allievo e insegnante).

10.2. Padroni e committenti (art. 2049 c.c.).

La responsabilità dei “padroni e committenti” ex art. 2049 c.c. annovera, tra i propri presupposti, la circostanza che l’illecito sia stato commesso da persona legata ai primi da un rapporto di preposizione (intesa in senso lato), nel senso che, pur non essendo parte di un rapporto di lavoro subordinato, sia - anche temporaneamente o occasionalmente - inserita nella sua organizzazione (Sez. 3, n. 21685/2005, Manzo, Rv. 584441-01). Nell’anno 2020 questa regola è stata applicata dalla Cassazione al rapporto tra l’avvocato e il proprio cliente, e tra l’amministrazione scolastica e gli educatori chiamati a sovrintendere all’attività ricreativa degli studenti. Nel primo caso, Sez 6-1, n. 15333/2020, Dolmetta, 658367-01, ha ritenuto sussistere la responsabilità aggravata della parte ex art. 96, comma 3, c.p.c., per la redazione, da parte del suo difensore, di un ricorso per cassazione contenente motivi del tutto generici ed indeterminati, in violazione dell’art. 366 c.p.c., sul presupposto che il cliente risponde delle condotte dell’avvocato, ex art. 2049 c.c., ove questi agisca senza la diligenza esigibile in relazione ad una prestazione professionale particolarmente qualificata, quale è quella dell’avvocato cassazionista (in questo senso, già Sez. T, n. 14035/2019, Fanticini, Rv. 654111-01). Nel secondo caso, Sez. 3, n. 08811/2020, Scarano, Rv. 657915-02, ha, invece, sancito l’irrilevanza, ai fini della configurabilità di una responsabilità ex art. 2049 c.c. dell’amministrazione scolastica, della circostanza che gli educatori non rivestissero la qualità di dipendenti, sostenendo il principio per cui, nel momento in cui la prima si avvalga, nell’espletamento della propria attività, dell’opera di terzi, ancorché non alle sue dipendenze, accetta il rischio connaturato alla loro utilizzazione nell’attuazione della propria obbligazione e, pertanto, risponde direttamente di tutte le ingerenze dannose, dolose o colpose, che a costoro, sulla base di un nesso di occasionalità necessaria, siano state rese possibili in conseguenza della posizione conferita nell’adempimento dell’obbligazione medesima rispetto al danneggiato e che integrano il “rischio specifico” assunto dal debitore, fondandosi tale responsabilità sul principio cuius commoda eius et incommoda (nella specie, uno studente aveva cagionato lesioni a un altro con un oggetto, durante l’attività ricreativa successiva al pranzo, svolgentesi nel cortile dell’istituto sotto la sorveglianza non degli insegnanti, ma di educatori esterni).

10.3. Attività pericolose (art. 2050 c.c.).

In tema di responsabilità per esercizio di attività pericolosa si deve dar conto, nell’annualità in rassegna, di Sez. 3, n. 04590/2020, Graziosi, Rv. 656909-01, alla cui stregua colui che esercita l’attività risponde dei danni derivanti dal suo svolgimento, a nulla valendo che il danneggiato sia un terzo piuttosto che un proprio incaricato, e che i mezzi o le opere fonte di danno siano di proprietà di terzi; per vincere la presunzione di colpa, posta a suo carico dall’art. 2050 c.c., non rileva, d’altra parte, la semplice prova dell’imprevedibilità del danno, dovendosi, invece, dimostrare che esso non si sarebbe potuto evitare mediante l’adozione delle misure di prevenzione che le leggi dell’arte o la comune diligenza imponevano.

10.4. Cose in custodia (art. 2051 c.c.).

Anzitutto, sotto il profilo della legittimazione passiva, Sez. 2, n. 10460/2020, De Marzo, Rv. 657794-01, ha posto in evidenza che l’azione di responsabilità ex art. 2051 c.c. è esperibile nei soli confronti del custode del bene, quale non può ritenersi il titolare della servitù di passaggio, atteso che l’esistenza di quest’ultima non sottrae al proprietario del fondo servente, né attribuisce al proprietario del fondo dominante, la disponibilità e la custodia della parte di fondo (strada ed accessori) sulla quale la servitù è esercitata. Il condominio è, invece, custode dei beni e dei servizi comuni, e come tale è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché tali cose non rechino pregiudizio ad alcuno, sicché risponde ex art. 2051 c.c. dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini (Sez. 2, n. 07044/2020, Scarpa, Rv. 657285-01). In una fattispecie particolare, Sez 3, n. 08888/2020, Fiecconi, Rv. 657841-01, ha ritenuto che, nei comuni da esso serviti, l’Acquedotto Pugliese spa, essendo tenuto a provvedere, ai sensi del r.d.l. n. 1464 del 1938, alle opere di costruzione, manutenzione, rinnovazione e riparazione straordinaria della rete idrica e fognaria, nonché all’esercizio ed alla gestione di quest’ultima, deve considerarsi custode delle infrastrutture medesime, e conseguentemente risponde nei confronti dei terzi, in base all’art. 2051 c.c., per i danni dalle stesse cagionati (dovendo, per altro verso, manlevare gli enti proprietari da ogni responsabilità alle infrastrutture medesime connessa).

Gran parte delle decisioni pubblicate nel 2020 attengono, peraltro, al concetto di caso fortuito, che l’art. 2051 c.c. pone a oggetto della prova liberatoria gravante sul custode ai fini dell’esonero da responsabilità. Proseguendo nella direttrice già seguita dalla giurisprudenza dell’anno precedente, la Terza sezione ha confermato l’attenzione ai profili di diligenza predicabili nei confronti del custode, quale cartina di tornasole per valutare l’eccezionalità e imprevedibilità del fattore causale estraneo alla sua sfera soggettiva (generalmente coincidente nel comportamento di un terzo), suscettibile di integrare il caso fortuito rilevante ai fini dell’art. 2051 c.c. In tal senso, si deve menzionare Sez. 3, n. 11096/2020, Scarano, Rv. 658150-01, a mente della quale, ai fini della prova liberatoria che l’ente proprietario di una strada deve fornire per sottrarsi alla responsabilità ex art. 2051 c.c., occorre distinguere tra la situazione di pericolo connessa alla struttura ed alla conformazione della strada e delle sue pertinenze e quella dovuta ad una repentina e imprevedibile alterazione dello stato della cosa, poiché solo in quest’ultima ipotesi può configurarsi il caso fortuito, in particolare quando l’evento dannoso si sia verificato prima che il medesimo ente proprietario abbia potuto rimuovere, nonostante l’attività di controllo espletata con diligenza per tempestivamente ovviarvi, la straordinaria ed imprevedibile condizione di pericolo determinatasi. Degna di rilievo è, inoltre, Sez. 3, n. 08811/2020, Scarano, Rv. 657915-03, secondo cui al custode è imposto dall’art. 2051 c.c. di fornire la prova liberatoria del fortuito, vuoi in ragione degli obblighi di vigilanza, controllo e diligenza (in base ai quali è tenuto ad adottare tutte le misure idonee a prevenire e impedire la produzione dei danni a terzi), vuoi in ossequio al principio della cd. vicinanza della prova, in modo da dimostrare che il danno si è verificato in maniera non prevedibile né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso. Nella fattispecie all’esame della Corte, a venire in questione era la responsabilità dell’istituto scolastico per la lesione ad un occhio subita da una alunna minore, la quale era stata colpita con il coperchio metallico di un contenitore della spazzatura da un altro allievo (non nuovo a episodi del genere), mentre si trovava all’interno del cortile della scuola, durante l’attività ricreativa affidata ad alcuni educatori: la Terza sezione ha cassato la sentenza impugnata, per aver escluso la responsabilità dell’istituto senza spiegare le ragioni per le quali aveva ritenuto imprevedibile la condotta del danneggiante (e, dunque, sussistente il caso fortuito), in considerazione del fatto che, se pure il cestino fosse stato di tipo diverso ed altrimenti collocato e sorvegliato, l’evento si sarebbe ugualmente verificato.

Pure con riferimento alla condotta del danneggiato ha trovato conferma la regola di giudizio (consacrata, da ultimo, da Sez. 6-3, n. 09317/2019, Cirillo F.M., Rv. 653609-01) secondo cui, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione, da parte del danneggiato, delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze del caso concreto, tanto più incidente, sotto il profilo dell’efficienza causale, deve considerarsi il comportamento imprudente del medesimo, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, allorquando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro. Così, Sez. 3, n. 03997/2020, Di Florio, Rv. 656902-02, chiamata ad occuparsi dei danni occorsi in occasione dello svolgimento di attività sportiva amatoriale (benché agonistica), ha affermato che la consapevolezza del rischio di chi vi partecipa volontariamente riduce la soglia di responsabilità dei custodi del bene sul quale viene svolta la competizione, i quali sono tenuti ad attenersi alle normali cautele idonee a contenere il rischio nei limiti confacenti alla specifica attività sportiva, ove esso, per le sue intrinseche caratteristiche, non sia più elevato che nella media. Ancora, Sez. 3, n. 26527/2020, Sestini, Rv. 659862-01, dopo aver premesso che la custodia esercitata dal proprietario o gestore di una strada non è limitata alla sola carreggiata, ma si estende anche agli elementi accessori o pertinenze (ivi comprese eventuali barriere laterali con funzione di contenimento e protezione della sede stradale), ha statuito che, laddove l’attore lamenti un danno derivante dall’assenza o inadeguatezza delle suddette barriere, la circostanza che alla causazione dello stesso abbia contribuito la sua condotta colposa non è - di per sé - idonea ad integrare il caso fortuito, occorrendo accertare giudizialmente la resistenza che un’adeguata barriera avrebbe potuto opporre all’urto da parte del mezzo.

10.5. Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 c.c.).

In tema di responsabilità per danno cagionato da animali, Sez. 6-3, n. 09661/2020, Cirillo F.M., Rv. 657745-01, sul presupposto che l’art. 2052 c.c. prevede, alternativamente e senza vincolo di solidarietà, la responsabilità del proprietario oppure dell’utilizzatore dell’animale, ma non impedisce che del danno possa rispondere ex art. 2043 c.c. anche l’altro soggetto, ha cassato la sentenza di merito che, accertata la responsabilità del proprietario di un cane per i danni da questo causati, aveva respinto la domanda nei confronti dell’utilizzatore senza alcun accertamento sulla sua eventuale responsabilità aquiliana.

Per quel che riguarda il “sotto-settore” della responsabilità per i danni cagionati dalla fauna selvatica, nel corso del 2020 si è registrato un mutamento d’indirizzo all’interno della giurisprudenza di legittimità.

Sez. 3, n. 04004/2020, Fiecconi, Rv. 657005-01, ha ribadito la tradizionale impostazione (consacrata, in tempi recenti, da Sez. 3, n. 05722/2019, Rv. 652994-01, Fiecconi, e Sez. 6-3, n. 23151/2019, Cigna, Rv. 655507-01) che riconduce la responsabilità alla clausola generale dell’art. 2043 c.c., in ragione dell’incompatibilità dello stato di libertà della selvaggina con qualsiasi obbligo di custodia (presupposto, invece, dalla fattispecie di cui all’art. 2052 c.c.). Da tale principio, la citata ordinanza ha tratto la conseguenza che il danneggiato è tenuto provare la condotta colposa causalmente efficiente dell’ente pubblico (nella specie, la Provincia autonoma di Trento) titolare dei poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, soggiungendo che, al di là della generica diligenza e prudenza rilevante ai sensi dell’art. 2043 c.c., il dovere della P.A. di predisporre dispositivi specifici per avvisare dei rischi o scoraggiare l’attraversamento degli animali può trovare fondamento in specifiche disposizioni poste a tutela di chi si trovi ad attraversare un certo territorio in una situazione di concreto pericolo, da valutare ex ante, quale è, con riguardo all’utilizzo della rete viaria, l’art. 84, comma 2, reg. es. codice della strada, che impone, a fini general-preventivi e sulla base di un principio di precauzione, l’installazione di segnali “quando esiste una reale situazione di pericolo sulla strada, non percepibile con tempestività da un conducente che osservi le normali regole di prudenza”. Ne consegue che, laddove il giudice ravvisi tale effettiva situazione di pericolo, la mancata apposizione dei suddetti segnali assume particolare pregnanza ai fini dell’accertamento della colpa della pubblica amministrazione.

A partire da Sez. 3, n. 07969/2020, Tatangelo, Rv. 657572-02, la norma regolatrice della fattispecie è stata individuata, invece, nell’art. 2052 c.c. (tenuto conto che il criterio di imputazione della responsabilità previsto da tale disposizione si fonda non sul dovere di custodia, ma sulla proprietà o, comunque, sull’utilizzazione dell’animale), mentre la legittimazione passiva è stata riconosciuta in capo alle regioni, quali “enti che “utilizzano” il patrimonio faunistico protetto al fine di perseguire l’utilità collettiva di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema›”. Conseguentemente, mentre sul danneggiato grava l’onere di dimostrare il nesso eziologico tra il comportamento dell’animale e l’evento lesivo, alla regione spetta fornire la prova liberatoria del caso fortuito, dimostrando che la condotta dell’animale si è posta del tutto al di fuori della propria sfera di controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile o, comunque, non evitabile, neanche mediante l’adozione delle più adeguate e diligenti misure - concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto e compatibili con la funzione di protezione dell’ambiente e dell’ecosistema - di gestione e controllo del patrimonio faunistico e di cautela per i terzi. Nello stesso senso si è pronunciata Sez. 3, n. 13848/2020, Guizzi, Rv. 658298-01, osservando come l’art. 2052 c.c. non contenga alcun espresso riferimento ai soli animali domestici ma riguardi, in generale, quelli suscettibili di proprietà o di utilizzazione da parte dell’uomo, prescindendo dall’esistenza di una situazione di effettiva custodia degli stessi. In ordine al contenuto dell’onere della prova incombente sull’attore, tale arresto ha ulteriormente precisato che, qualora l’evento dannoso si sia verificato nell’ambito della circolazione stradale, egli, oltre a dovere dimostrare la derivazione eziologica del pregiudizio lamentato dall’animale selvatico (ovvero appartenente ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla l. n. 157 del 1992 o, comunque, rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato), deve anche dare la prova (prevista dall’art. 2054, comma 1, c.c.) di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno. La regione convenuta - ha specificato, poi, la stessa Sez. 3, n. 13848/2020, Guizzi, Rv. 658298-03 -, qualora reputi che le misure idonee ad impedire il danno sarebbero dovute essere adottate da un altro ente, può agire in rivalsa (anche nel medesimo giudizio) contro quest’ultimo, da essa indicato come effettivo responsabile, potendo, in tal caso, assumere rilievo - limitatamente al rapporto processuale con il terzo chiamato - tutte le questioni inerenti al trasferimento o alla delega di funzioni alle province (ovvero eventualmente ad altri enti) e l’effettività della medesima delega (anche sotto il profilo dell’assegnazione di adeguata provvista economica, laddove ciò possa ritenersi rilevante in quest’ottica), così come ogni questione relativa al soggetto effettivamente competente a porre in essere ciascuna misura di cautela.

Infine, con specifico riguardo alla legislazione regionale campana, Sez. 6-3, n. 20997/2020, Tatangelo, Rv. 659153-01, ha affermato che l’indennizzo contemplato dall’art. 26 della l.r. Campania n. 8 del 1996, non costituendo risarcimento del danno conseguente ad illecito aquiliano, non prevede necessariamente l’integrale ristoro del pregiudizio subito dal privato, ed è dovuto esclusivamente alle condizioni e nei limiti derivanti dalla normativa regionale e locale; pertanto, ove il danneggiato agisca per ottenere l’integrale risarcimento del danno subito, a prescindere dalle condizioni e dalle limitazioni previste dalla normativa locale, la domanda sarà da qualificare come ordinaria azione risarcitoria.

10.6. Rovina di edificio (art. 2053 c.c.).

Si è occupata della fattispecie di cui all’art. 2053 c.c. Sez. 3, n. 09694/2020, Gorgoni, Rv. 657691-01, la quale, dopo aver posto mano a un “regolamento di confini” rispetto a quella ex art. 2051 c.c. (nel senso che, nella prima, la responsabilità è posta a carico del proprietario o del titolare di altro diritto reale di godimento in base al criterio formale del titolo, non essendo sufficiente - come invece nella seconda - il mero potere d’uso della res), ha illustrato i caratteri della prova liberatoria, consistente nella dimostrazione che i danni provocati dalla rovina non sono riconducibili a vizi di costruzione o a difetto di manutenzione, bensì ad un fatto dotato di efficacia causale autonoma, comprensivo del fatto del terzo o del danneggiato, ancorché non imprevedibile ed inevitabile.

10.7. Il danno da circolazione di veicoli (art. 2054 c.c.).

La produzione giurisprudenziale dell’anno 2020 intorno al danno derivante dalla circolazione di veicoli si è concentrata sui problemi ormai “classici”, relativi a fattispecie frequentemente ricorrenti.

In primo luogo, Sez. 6-3, n. 10024/2020, Cigna, Rv. 657747-01, ha ribadito che, nell’ampio concetto di circolazione stradale indicato dall’art. 2054 c.c., deve essere ricompresa anche la posizione di arresto del veicolo sul quale sia in atto il compimento, da parte del conducente, di operazioni prodromiche alla messa in marcia (nel caso di specie, si trattava della chiusura intempestiva dello sportello del veicolo, che aveva causato lesioni al trasportato).

Nel caso di noleggio di autovettura senza conducente, delle infrazioni al codice della strada risponde non già il proprietario locatore, ma, in solido con l’autore delle stesse, il solo locatario (così Sez. 3, n. 10833/2020, Moscarini, Rv. 657968-01, che ha giustificato la contraria affermazione, contenuta in alcuni precedenti giurisprudenziali, con il fatto che, in quelle ipotesi, il locatore non aveva ottemperato all’onere di comunicare la generalità del locatario).

Per quel che riguarda la presunzione di cui al comma 1 della disposizione in discorso, Sez. 3, n. 05433/2020, Sestini, Rv. 657158-01, ha evidenziato che la circostanza che non vi sia stato scontro tra veicoli impedisce l’applicazione della presunzione di uguale concorso di colpa di cui al comma 2 dell’art. 2054 c.c., ma non quella prevista nel comma 1, dal momento che essa sorge, a carico del conducente, per il solo fatto che venga accertato il nesso di causalità tra la circolazione di un veicolo e la condotta del conducente dello stesso, da un lato, e il danno a un diverso veicolo, dall’altro. Ove, invece, in concreto, venga riconosciuta la responsabilità esclusiva di uno dei conducenti, ma il nesso di causalità sia escluso, non scatta né la presunzione legale né, di conseguenza, l’onere di fornire la prova liberatoria di avere fatto il possibile per evitare il danno. Invero, come confermato da Sez. 3, n. 00842/2020, Cricenti, Rv. 656632-01, la presunzione in discorso non può operare in contrasto con il principio della responsabilità per fatto illecito, fondata sul rapporto di causalità fra evento dannoso e condotta umana, e dunque non preclude, anche nel caso in cui il conducente non abbia fornito la prova idonea a vincere la presunzione, l’indagine sull’imprudenza e pericolosità della condotta del pedone investito, che va apprezzata ai fini del concorso di colpa, ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c., ed integra un giudizio di fatto, in quanto tale sottratto al sindacato di legittimità se sorretto da adeguata motivazione (l’applicazione di tale principio ha indotto la Corte di cassazione a confermare la decisione di merito che aveva escluso ogni responsabilità del conducente del veicolo per l’investimento di una persona seduta in piena notte nel mezzo di una carreggiata su strada non illuminata). Infine, è opportuno segnalare la puntualizzazione offerta da Sez. 3, n. 13848/2020, Guizzi, Rv. 658298-02, secondo cui l’art. 2054, comma 1, c.c., è applicabile anche agli incidenti stradali che abbiano coinvolto veicoli e animali selvatici, sicché, una volta dimostrato, a norma dell’art. 2052 c.c., che l’evento dannoso sia stato causato dall’animale selvatico, il danneggiato è tenuto, altresì, ad allegare e provare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno (ovvero di avere adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida).

Occupandosi della presunzione di pari responsabilità, regolata dal comma 2 dell’art. 2054 c.c., Sez. 6-3, n. 07061/2020, Scoditti, Rv. 657299-01, ha rammentato che essa ha carattere sussidiario ed opera non solo quando non sia possibile stabilire il grado di colpa dei due conducenti, ma anche qualora non siano accertabili le cause e le modalità del sinistro. Conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità è, poi, Sez. 3, n. 07479/2020, Moscarini, Rv. 657167-01, alla cui stregua, ove il giudice abbia accertato la colpa di uno dei conducenti, non può, per ciò solo, ritenere superata la presunzione posta a carico anche dell’altro dall’art. 2054, comma 2, c.c., ma è tenuto a verificare in concreto se quest’ultimo abbia o meno tenuto una condotta di guida corretta.

Le ultime due pronunce oggetto di segnalazione riguardano il profilo soggettivo della colpa, in due specifiche applicazioni riferite al conducente e al terzo trasportato.

Quanto alla prima, Sez. 3, n. 02864/2020, Pellecchia, Rv. 656760-01, ha posto in luce che il conducente che, uscendo da area privata, si immette nel flusso della circolazione è obbligato a dare la precedenza ai veicoli transitanti, in marcia normale o di sorpasso, sulla strada favorita e, pertanto, è tenuto ad ispezionare costantemente la strada durante tutta la manovra di immissione (e non soltanto in prossimità dell’incrocio), astenendosi dal compierla qualora non sia in grado di avvedersi se sia in atto un sorpasso tra veicoli. Sez. 3, n. 11095/2020, Scarano, Rv. 658149-01, ha, invece, trattato la fattispecie della presenza sul veicolo di un terzo, privo della cintura di sicurezza allacciata, dall’angolo visuale dell’art. 1227 c.c., sostenendo che, in tal caso, si verifica un’ipotesi di cooperazione colposa nella causazione dell’evento dannoso da parte del conducente (colpevole di non avere controllato, prima di iniziare o proseguire la marcia, che la circolazione avvenisse in conformità delle normali regole di prudenza e sicurezza) e dello stesso trasportato, che ha accettato i rischi della circolazione; pertanto, nell’eventualità di danni al trasportato medesimo, la condotta di quest’ultimo - sebbene di per sé non idonea ad escludere la responsabilità del conducente, né a costituire valido consenso alla lesione ricevuta (vertendosi in materia di diritti indisponibili) - può costituire un contributo colposo alla verificazione del danno, la cui quantificazione in misura percentuale è rimessa all’accertamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato

  • intermediario commerciale
  • giudice
  • notaio
  • professioni commerciali
  • libera professione
  • responsabilità
  • medico
  • avvocato

CAPITOLO XII

LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI

(di Irene Ambrosi )

Sommario

1 Premessa. - 2 La responsabilità del medico. - 3 La responsabilità dell’avvocato. - 4 La responsabilità del notaio. - 5 La responsabilità del commercialista. - 6 Le responsabilità del direttore dei lavori e del costruttore nell’appalto. - 7 La responsabilità del geometra. - 8 La responsabilità degli ausiliari del giudice. - 9 La responsabilità dell’intermediario finanziario.

1. Premessa.

Nel corso dell’anno 2020 le questioni affrontate in tema di responsabilità civile dei professionisti si sono sviluppate in diverse direzioni, in parte già percorse dalla giurisprudenza della Suprema Corte, tutte volte a marcare più esattamente il tracciato da seguire per risolvere la problematica principale in materia ovvero quella che attiene ai criteri di riparto dell’onere probatorio tra le parti in tema di inadempimento e responsabilità aquiliana del professionista.

Anche questo anno, il maggior numero di pronunce si è registrato nel settore delle obbligazioni inerenti le prestazioni professionali sanitarie, ma rispetto alle pronunce massimate negli anni precedenti, confrontando i dati desunti dal sistema informatico Italgiureweb, se ne può notare una netta riduzione, addirittura un dimezzamento, segno evidente del processo di stabilizzazione in corso, innescato dalle nove “nuove” pronunce di “San Martino” dell’11 novembre 2019, con cui la Corte di cassazione ha indicato soluzioni nomofilattiche idonee a dirimere una nutrita serie di questioni ermeneutiche in materia*, sorte anche all’indomani dell’entrata in vigore della nuova disciplina della responsabilità civile degli esercenti le professioni sanitarie dettata dalla legge n. 24 del 2017 (cd. legge Gelli-Bianco).

2. La responsabilità del medico.

Il tema principale sul quale si è appuntato il sindacato nomofilattico della Corte di cassazione è quello che attiene ai criteri di riparto della prova del nesso causale nella responsabilità sanitaria, problema affrontato sotto svariati e differenti aspetti nei diversi ambiti dell’individuazione del contenuto del “danno evento”, dei poteri e limiti dell’accertamento della responsabilità da parte del giudice di merito in un quadro di incertezza probatoria dovuta alla condotta del debitore o al concorso del fatto colposo del creditore, dell’individuazione del contenuto del danno da chance perduta, degli effetti protettivi del contratto di ricovero e della delimitazione del dovere del medico di informare il paziente.

Sulla prova del nesso causale nella responsabilità sanitaria, meritano evidenza le affermazioni di carattere generale ribadite da Sez. 3, n. 26907/2020, Positano, Rv. 659901-01, e da Sez. 6-3, n.18102/2020, Gorgoni, Rv. 658517-01, entrambe conformi a Sez. 3, n. 28991/2019, Scoditti, Rv. 655828-01, in merito all’individuazione del contenuto del “danno evento” che consta della lesione del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato) e non, invece, dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione (perseguimento delle leges artis nella cura dell’interesse del creditore). Da tale precisazione consegue che, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, qualora il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione.

Nello stesso ambito e con particolare riferimento ai poteri e limiti dell’accertamento della responsabilità da parte del giudice di merito, è stato riaffermato che l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno (Sez. 3, n. 26428/2020, Porreca, Rv. 659592-01).

In tema di responsabilità medica e concorso del fatto colposo del danneggiato è stato precisato opportunamente da Sez. 3, n. 26426/2020, Porreca, Rv. 659788-01, che il paziente il quale ometta di fornire alcune notizie nel corso dell’anamnesi, senza ricevere specifiche richieste dal medico, non può ritenersi corresponsabile delle carenze informative, verificatesi in quella sede, che hanno poi determinato l’errore diagnostico, perché non rientra tra i suoi obblighi né avere specifiche cognizioni di scienza medica, né sopperire a mancanze investigative del professionista. Nella specie, è stata cassata la decisione di merito che, accertata la responsabilità dei sanitari per omessa diagnosi della condizione di portatrice sana di talassemia in capo ad una donna in stato di gravidanza, divenuta madre di due gemelle affette da talassemia major, aveva affermato la concorrente responsabilità di quest’ultima e del di lei marito perché, consapevoli della condizione di portatore sano in capo a quest’ultimo, si erano rivolti ai medici per assicurarsi che non lo fosse anche la moglie e, pur essendo a conoscenza dell’esistenza di una patologia ematica, la microcitemia, tra i collaterali di quest’ultima, non ne avevano parlato nel corso dell’anamnesi.

Inoltre, in materia di perdita di chance ed in linea conforme rispetto a Sez. n. 05641/2018, Travaglino, Rv. 648461-03, Sez. 3, n. 12906/2020, Tatangelo, Rv. 658177-01, ha ritenuto che l’attività del giudice deve tenere distinta la dimensione della causalità da quella dell’evento di danno e deve altresì adeguatamente valutare il grado di incertezza dell’una e dell’altra, movendo dalla previa e necessaria indagine sul nesso causale tra la condotta e l’evento, secondo il criterio civilistico del “più probabile che non” e procedendo, poi, all’identificazione dell’evento di danno, la cui riconducibilità al concetto di chance postula una incertezza del risultato sperato, e non già il mancato risultato stesso, in presenza del quale non è lecito discorrere di una chance perduta, ma di un altro e diverso danno; ne consegue che, provato il nesso causale rispetto ad un evento di danno accertato nella sua esistenza e nelle sue conseguenze dannose risarcibili, il risarcimento di quel danno sarà dovuto integralmente; nella specie - attinente alla domanda di risarcimento dei danni riconosciuti dalla decisione di primo grado ai parenti in conseguenza del decesso di un congiunto avvenuto a seguito di un errore diagnostico che, secondo la valutazione operata dal consulente tecnico, aveva comportato l’evento lesivo con una probabilità del 50% - è stata cassata con rinvio la sentenza di appello che aveva dimezzato l’importo del risarcimento dei danni riconosciuti in primo grado ai congiunti, erroneamente sovrapponendo i distinti piani dell’accertamento del nesso causale e dell’accertamento e valutazione del danno in concreto subito dagli attori.

In tema di responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria nei confronti del paziente e di effetti protettivi del contratto, in linea di parziale continuità con la precedente giurisprudenza, Sez. 3, n. 10812/2019, Scarano, Rv. 653826-01, è stato affermato da Sez. 3, n. 14615/2020, Sestini Rv.658328-01, secondo cui gli effetti protettivi del contratto sono configurabili, oltre che nei confronti del paziente, anche relativamente a soggetti terzi cui si estendono, ma soltanto nell’ipotesi del contratto stipulato con una gestante che ha ad oggetto la prestazione afferente alla procreazione che, per la peculiarità dell’oggetto, è idonea ad incidere in modo diretto sulla posizione del nascituro e del padre, si da farne scaturire una tutela estesa anche a questi ultimi; viceversa, in tutte le altre ipotesi, il rapporto contrattuale esplica i suoi effetti tra le sole parti del contratto, sicché l’inadempimento della struttura o del professionista genera responsabilità esclusivamente nei confronti dell’assistito, che può essere fatta valere dai suoi congiunti iure hereditario, senza che questi ultimi, invece, possano agire, a titolo contrattuale, iure proprio per i danni da loro patiti.

Sotto altro profilo, Sez. 3, n. 25288/2020, Guizzi, Rv. 59778-01, ha ritenuto che l’effetto naturale del contratto di ricovero ex art. 1374 c.c. può ravvisarsi nell’obbligo della struttura sanitaria di sorvegliare il paziente in modo adeguato rispetto alle sue condizioni, al fine di prevenire che questi possa causare danni a terzi o subirne; la prova liberatoria dell’impossibilità oggettiva non imputabile offerta dal danneggiante, richiesta dall’art. 1218 c.c., va verificata sul piano della non esigibilità di un comportamento diverso da quello in concreto tenuto. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, che aveva fondato la responsabilità degli operatori sanitari della struttura sul mero fatto dell’autolesione provocatasi da una paziente con problemi psichici che le misure di contenzione adottate avrebbero dovuto scongiurare, senza interrogarsi su quali misure diverse, in considerazione dello stato gestazionale della paziente e dell’impossibilità di praticare trattamenti farmacologici, si sarebbero dovute esigere in concreto.

In via generale, sul delicato problema della effettiva garanzia del diritto di autodeterminazione del paziente in caso di dissenso rispetto al trattamento sanitario, ferme restando le condizioni fissate da Sez. 3, n. 23676/2008, Travaglino, Rv. 604907-01 per una puntuale, articolata, espressa ed attuale dichiarazione dalla quale emerga con chiarezza la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita, da Sez. 3, n. 29469/2020, Scoditti, Rv. 660087 - 01, è stato riaffermato il principio secondo cui il testimone di Geova, che fa valere la propria scelta in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione preventiva formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo non equivoco la volontà di impedire la trasfusione pure se vi è pericolo di vita.

Alcune rilevanti affermazioni di principio sono state formulate in relazione alla violazione da parte del medico del dovere di informare il paziente, con specifico riferimento alla differente rilevanza causale che l’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente assume rispetto ai due distinti diritti alla libertà di autodeterminazione e alla salute; in proposito, nel solco già tracciato da Sez. 3, n. 28985/2019, Olivieri, Rv. 656134-02, Sez. 3, n. 24471/2020, Olivieri, Rv. 659760-01, ha ribadito che, in tema di responsabilità sanitaria, l’inadempimento dell’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente assume diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto all’autodeterminazione o la lesione di quello alla salute posto che, se, nel primo caso, l’informazione preventiva omessa o insufficiente evidenzia ex se una relazione causale diretta con la compromissione dell’interesse all’autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del trattamento sanitario, nel secondo, invece, l’incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato negativo dell’atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall’opzione che il paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed è configurabile soltanto in caso di presunto dissenso; di conseguenza, l’allegazione dei fatti dimostrativi di tale scelta è parte integrante dell’onere della prova - gravante sul danneggiato - del nesso eziologico tra inadempimento ed evento dannoso. Infine, ha precisato che ciò non esclude che, anche qualora venga dedotta la violazione del diritto all’autodeterminazione, sia indispensabile l’allegazione di quali altri pregiudizi, diversi dal danno alla salute eventualmente derivato, il danneggiato abbia subito, non potendo esservi un danno in re ipsa.

In tema di conseguenze dannose derivanti dalla lesione del diritto di autodeterminazione in relazione alla ritardata conoscenza della malformazione della nascitura, Sez. 3, n. 09706/2020, Olivieri, Rv. 657783-01, ha evidenziato che il pregiudizio non patrimoniale consiste nel radicale cambiamento di vita e nello sconvolgimento dell’esistenza del soggetto e rinviene il suo fattore causale primo nel precedente fatto-inadempimento che ha determinato la mancata previa consapevolezza dell’infermità. Nella fattispecie, è stata confermata la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni conseguenti all’omessa informazione della gestante perché le allegate alterazioni della vita dei genitori trovavano causa nella nascita della bambina, affetta dalla cd. sindrome di Down, e non nella ritardata conoscenza di tale circostanza. Nello stesso ambito, avente ad oggetto il risarcimento del danno cd. da nascita indesiderata, è stato ribadito da Sez. 3, n. 13881/2020, Rubino, Rv.658310-01, che è onere della parte attrice allegare e dimostrare la sussistenza delle condizioni legittimanti l’interruzione della gravidanza, ai sensi dell’art. 6, lett. b, l. n. 194 del 1978, ovvero che la conoscibilità, da parte della stessa, dell’esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute fisica o psichica. L’accertamento in fatto delle condizioni in parola è riservato al giudice di merito e rimane insindacabile in sede di legittimità, sempreché il giudizio si sia compiuto nel rispetto dei parametri normativi di riferimento.

Sul contenuto dell’obbligo di diligenza richiesto all’esercente la professione sanitaria nell’esecuzione della prestazione, Sez. 6-3, n. 12407/2020, Scrima, Rv. 658222-01, in linea di continuità con la precedente giurisprudenza, ha affermato che la diligenza esigibile dal professionista o dall’imprenditore, nell’adempimento delle obbligazioni assunte nell’esercizio dell’attività, ha contenuto tanto maggiore quanto più è specialistica e professionale la prestazione richiesta; pertanto, incorre in responsabilità il soggetto che non adoperi la diligenza dovuta in relazione alle circostanze concrete del caso, con adeguato sforzo tecnico e con impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari o utili all’adempimento della prestazione dovuta e al soddisfacimento dell’interesse creditorio, nonché ad evitare possibili effetti dannosi.

3. La responsabilità dell’avvocato.

Con riferimento al contenuto dell’obbligazione inerente la prestazione professionale in ambito legale, meritano menzione due pronunce che si pongono nel tracciato già segnato dalla giurisprudenza precedente; in primo luogo, Sez. 3, n. 08494/2020, Scarano, Rv. 657806-01, secondo cui l’avvocato è tenuto all’esecuzione del contratto di prestazione d’opera professionale secondo i canoni della diligenza qualificata, di cui al combinato disposto degli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c., e della buona fede oggettiva o correttezza la quale, oltre che regola di comportamento e di interpretazione del contratto, è criterio di determinazione della prestazione contrattuale, imponendo il compimento di quanto necessario o utile a salvaguardare gli interessi della controparte, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio. In particolare, il professionista deve fornire le necessarie informazioni al cliente, anche per consentirgli di valutare i rischi insiti nell’iniziativa giudiziale, con la conseguenza che l’omessa comunicazione all’assistito dell’interruzione del processo e della possibilità di riassunzione, al punto da fare decorrere il relativo termine massimo ed estinguere il giudizio, è fonte di responsabilità del difensore; in secondo luogo, Sez. 3, n. 12127/2020, Cigna, Rv. 658174-02, secondo cui la responsabilità professionale dell’avvocato presuppone la violazione del dovere di diligenza richiesto dalla natura dell’attività esercitata (art. 1176, comma 2, c.c.), sicché la conoscenza della normativa che impone la rinnovazione dell’ipoteca, ai sensi degli artt. 2847 e 2878, n. 2, c.c., trattandosi di questione prettamente giuridica, fa parte dell’obbligo di prestazione professionale e rientra nella diligenza media esigibile dal difensore e non, invece, dal cliente (nella specie, una società), che non è tenuto a conoscere il periodo di scadenza della garanzia ipotecaria; nella specie, è stata cassata la sentenza impugnata che, pur riconoscendo la responsabilità del professionista per aver lasciato scadere la garanzia ipotecaria, aveva attribuito una parte di responsabilità alla società assistita, sostenendo che questa avrebbe dovuto essere a conoscenza della scadenza della garanzia ipotecaria e che, quindi, con la sua negligente condotta, aveva concorso nella causazione degli effetti pregiudizievoli.

Di sicuro interesse, inoltre, in tema di esecuzione del mandato difensivo in ambito giudiziario e di inadempimento del professionista avvocato, Sez. 3, n. 24270/2020, Graziosi, 659754-01, ha ritenuto che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno inizia a decorrere non dal momento in cui la condotta del professionista determina l’evento dannoso, bensì da quello nel quale essa è oggettivamente percepibile e conoscibile dal danneggiato, vale a dire dalla formazione del giudicato; al contrario, tale decorrenza non è prospettabile nel diverso caso di inadempimento del mandato professionale in ambito stragiudiziale. Nella specie, è stato sottolineato che il principio massimato riguarda non solo la figura dell’avvocato, ma ogni altro professionista che presti assistenza nel giudizio al proprio mandante, in ragione della peculiarità dell’inserimento dell’esecuzione del rapporto professionale nella struttura del processo.

4. La responsabilità del notaio.

Alcune pronunce si sono occupate, anche nell’anno appena trascorso, del contenuto del dovere di diligenza professionale gravante sul notaio e degli effetti della violazione degli obblighi del rogante in danno al cliente o ai terzi.

Proprio con riferimento agli effetti della responsabilità del notaio nei confronti dei terzi, Sez. 3, n. 07746/2020, Guizzi, Rv. 657617-01, ha statuito che, nell’autenticazione di una procura speciale a vendere preparatoria del successivo contratto traslativo, il notaio che violi il dovere di diligenza qualificata impostogli ai fini dell’identificazione del soggetto che rilascia detta procura, può essere chiamato a rispondere, a titolo di responsabilità contrattuale, in applicazione dei principi in tema di cd. contatto sociale qualificato, anche dei danni cagionati al terzo interessato all’acquisto in conseguenza di tale negligente identificazione, poiché il contratto d’opera professionale finalizzato al rilascio della procura speciale, benché formalmente concluso fra il notaio e il futuro venditore ed avente ad oggetto un negozio unilaterale, è fonte di obblighi di protezione pure nei confronti dell’aspirante compratore, il quale va qualificato come “terzo protetto dal contratto”.

Con riferimento all’adempimento dei doveri accessori e di consiglio che gravano sul notaio rogante nei confronti dei propri clienti, ove il predetto sia incaricato del rogito di un atto di compravendita immobiliare, si è affermato, per un verso, che questi sia tenuto, con riferimento all’esistenza ed all’applicazione di agevolazioni fiscali, in adempimento del dovere di consiglio, a presentare direttamente istanza per l’attribuzione della rendita catastale ovvero ad inserirne la richiesta sulla base della valutazione automatica desumibile dalla rendita catastale non ancora assegnata ovvero, qualora non voglia provvedere a tanto, a rendere edotte di ciò le parti, Sez. 3, n. 08497/2020, Scarano, Rv. 657824-01; per altro verso, Sez. 3, n. 11296/2020, D’Arrigo, Rv. 658158-01, ha ritenuto che per il notaio richiesto della preparazione e stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, la preventiva verifica sia della libertà sia della disponibilità del bene e, più in generale, delle risultanze dei registri immobiliari attraverso la loro visura, costituisce, salvo dispensa per concorde volontà delle parti, obbligo derivante dall’incarico del cliente e, quindi, rientra nell’oggetto della prestazione professionale, poiché l’opera di cui è richiesto non si riduce al mero compito di accertamento della volontà delle parti, ma si estende a quelle attività preparatorie e successive necessarie perché sia garantita la serietà e certezza dell’atto giuridico da rogarsi e, in particolare, l’attitudine di questo ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico di esso e del risultato pratico voluto dai partecipanti alla stipula del medesimo atto. Conseguentemente, l’inosservanza dei detti obblighi accessori da parte del notaio comporta responsabilità ex contractu derivante dall’inadempimento della correlata obbligazione di prestazione di opera intellettuale, a nulla rilevando che la legge professionale non contenga un esplicito riferimento a siffatta forma di responsabilità, dovendosi escludere, alla luce di tale obbligo, la configurabilità del concorso colposo del danneggiato ex art. 1227 c.c.

Infine, Sez. 3, n. 25865/2020, Cirillo F.M., Riv. 659786-01, ha ribadito, in linea con la precedente giurisprudenza (Sez. 3, n. 21775/2019, Scarano, Rv. 654929-01), che il notaio, il quale roghi un contratto di mutuo ipotecario funzionalmente collegato a compravendita immobiliare, è tenuto a compiere le visure ipotecarie e catastali allo scopo di individuare esattamente il bene e verificarne la libertà, ma non anche a rendere informazioni in merito alla convenienza economica dell’operazione negoziale e, quindi, ad accertare la ragionevole possibilità per l’istituto di credito di soddisfarsi, in sede di espropriazione del bene ipotecato, a fronte dell’inadempimento del mutuatario. Nella fattispecie, è stata confermata la sentenza impugnata che aveva escluso la responsabilità del notaio per non aver accertato, con una propria perizia, l’effettiva consistenza dell’immobile - di un solo vano, anziché di tre - e, conseguentemente, il suo valore, insufficiente a garantire il credito della banca.

Nell’ambito della esecuzione degli obblighi professionali gravanti sul notaio, Sez. 3, n. 03694/2020, Valle, Rv. 656900-01, ha precisato che la buona fede oggettiva, in funzione di integrazione del contenuto del contratto, impone alle parti di porre in essere delle condotte comunque rientranti, secondo la legge, gli usi e l’equità, nello spettro complessivo della prestazione pattuita. Ne consegue la responsabilità professionale del notaio che, ancorché abbia autenticato le firme della dichiarazione di vendita di una vettura, non comunichi al venditore, che li abbia richiesti, i dati anagrafici dell’acquirente, pur avendo il potere di rilasciare copia ed estratti dei documenti a lui esibiti e non necessariamente depositati e nonostante venga in rilievo un atto soggetto a pubblicità mobiliare (ai sensi dell’art. 2683, n. 3, c.c.), la conservazione della cui copia, per quanto informale, rispondeva a prassi già in uso, costantemente osservata e successivamente trasfusa in atto normativo (l. n. 246 del 2005).

Sempre in tema di vendita immobiliare, ma con riferimento all’entità del risarcimento del danno, Sez. 3, n. 26192/2020, De Stefano, Rv. 659864-01, ha ritenuto che, nell’ipotesi in cui il notaio abbia omesso di effettuare le dovute visure ipotecarie, egli è tenuto a risarcire all’acquirente del cespite, successivamente sottoposto ad esecuzione immobiliare da parte del creditore ipotecario, un danno commisurato all’effettivo nocumento sofferto; questo può essere determinato in misura pari al valore dell’immobile perduto a seguito della vendita forzata ovvero, per equivalente, all’esborso necessario per ottenere l’estinzione del processo esecutivo e la cancellazione dell’ipoteca, in tale senso lato potendosi intendere pure le spese di purgazione dell’immobile e, cioè, la sua sottrazione al rischio di una legale evizione nel corso della procedura espropriativa.

5. La responsabilità del commercialista.

Sui criteri di riparto dell’onere della prova della responsabilità del commercialista e del danno conseguito, di sicuro interesse si mostra l’unica decisione massimata del 2020, Sez. 3, n. 13873/2020, Valle, Rv. 658305-01, secondo la quale la responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell’attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra condotta del professionista e pregiudizio del cliente; in particolare, qualora venga in rilievo l’attività posta in essere dal commercialista incaricato di provvedere ad impugnare un avviso di accertamento tributario, l’affermazione della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole del ricorso presso la commissione tributaria, che avrebbe dovuto essere proposto e seguito in maniera diligente. Pertanto, è stata confermata la pronuncia impugnata, che aveva ritenuto l’evento dannoso non ascrivibile all’omissione di un commercialista, consistita nell’avere mancato di firmare i ricorsi presso la Commissione tributaria provinciale, ma riconducibile alla decisione, presa in autonomia dagli amministratori e dai soci di una s.a.s., di non impugnare in cassazione l’esito sfavorevole dell’iniziativa giudiziale presso la Commissione tributaria regionale.

6. Le responsabilità del direttore dei lavori e del costruttore nell’appalto.

Con una decisione di sicuro interesse, Sez. 2, n. 02913/2020, Giannaccari, Rv. 657092-01, è tornata a occuparsi di responsabilità del professionista incaricato del progetto e della direzione dei lavori di ristrutturazione di un edificio rurale, riaffermando che, in tema di responsabilità conseguente a vizi o difformità dell’opera appaltata, il direttore dei lavori, pur prestando un’opera professionale in esecuzione di un’obbligazione di mezzi e non di risultato, è chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l’impiego di peculiari competenze tecniche e deve utilizzare le proprie risorse intellettive e operative per assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente-preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della diligentia quam in concreto. Rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori, l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a consentire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi; sicché non si sottrae a responsabilità il professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e, in difetto, di riferirne al committente. Sempre in tema di appalto, Sez. 2, n. 18289/2020, Bellini, Rv. 659000-01, ha ritenuto che il vincolo di responsabilità solidale fra l’appaltatore, il progettista e il direttore dei lavori, i cui rispettivi inadempimenti abbiano concorso in maniera efficiente a produrre il danno risentito dal committente, rinviene il suo fondamento nel principio espresso dall’art. 2055 c.c. il quale, anche se dettato in tema di responsabilità extracontrattuale, si estende all’ipotesi nella quale taluno degli autori del danno risponda a titolo di responsabilità contrattuale.

7. La responsabilità del geometra.

Con riferimento ad un incarico professionale ricevuto da un geometra per la stima di un immobile da parte del venditore, Sez. 2, n. 29711/2020, Abete, Rv. 660023 - 01, ha ribadito il principio, già affermato, secondo cui la cosiddetta responsabilità da contatto sociale, soggetta alle regole della responsabilità contrattuale pure in assenza di un vincolo negoziale tra il danneggiante ed il danneggiato, è configurabile non in ogni ipotesi in cui taluno, nell’eseguire un incarico conferitogli da altri, nuoccia a terzi, come conseguenza riflessa dell’attività così espletata, ma soltanto quando il danno sia derivato dalla violazione di una regola di condotta, che sia imposta dalla legge al fine specifico di tutelare i terzi che siano potenzialmente esposti ai rischi dell’attività svolta dal danneggiante, tanto più qualora il fondamento normativo della responsabilità sia individuato nel riferimento dell’art. 1173 c.c. agli altri atti o fatti che siano idonei a produrre obbligazioni conformemente all’ordinamento giuridico.

8. La responsabilità degli ausiliari del giudice.

In tema di giurisdizione, va menzionata la rilevante pronuncia Sez. U, n. 03806/2020, Bruschetta, Rv. 657192-01, per la quale spetta alla giurisdizione ordinaria, e non a quella contabile, l’azione di risarcimento dei danni, conseguenti all’infedele esecuzione dell’incarico, promossa nei confronti del professionista designato dal Presidente del Tribunale per redigere la perizia giurata di stima del patrimonio di un consorzio di Comuni a seguito della decisione degli enti partecipanti di trasformarlo in società di capitali; ciò in quanto la devoluzione di siffatta controversia alla giurisdizione della Corte dei conti presuppone che lo svolgimento dell’incarico rientri nel procedimento deliberativo di trasformazione del consorzio, condizionandolo negativamente quanto alla sua conclusione, e sia, pertanto, idoneo a dare luogo ad un rapporto di servizio, ancorché limitato nel tempo, mentre tale rapporto - presupposto indefettibile della responsabilità contabile - non si costituisce allorché l’operazione di trasformazione sia stata precedentemente deliberata dai comuni partecipanti al consorzio, costituendo, in tale caso, l’attività dell’esperto l’oggetto di un incarico professionale di stima a favore di una società di capitali, benché partecipata da enti locali, la quale soltanto, unitamente ai suoi creditori e al suo fallimento, ha la legittimazione all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità ai sensi degli artt. 2393 c.c. e 146 l.fall.

In tema di prova della particolare difficoltà della prestazione ed in continuità con quanto enunciato da Sez. 3, n. 13010/2016, Cirillo F.M., Rv. 640396-01, Sez. 3, n. 08496/2020, Scarano, Rv. 657807-01, ha affermato che il perito nominato dal giudice delegato ai fallimenti per la stima degli immobili del fallito risponde, a titolo di responsabilità extracontrattuale nei confronti dell’aggiudicatario per il danno da questi patito in conseguenza dell’erronea valutazione del bene qualora, nell’esecuzione della prestazione, non osservi la diligenza professionale qualificata richiesta - ex artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c. - allo specialista in relazione alla natura dell’attività svolta ed alle circostanze concrete del caso, incombendo, comunque, sul medesimo professionista di dare la prova della particolare difficoltà della detta prestazione.

9. La responsabilità dell’intermediario finanziario.

Anche nel 2020, con due rilevanti pronunce, la S.C. è tornata sul problema della individuazione del soggetto responsabile del danno causato al risparmiatore nell’ambito della struttura organizzativa di intermediazione.

Con una prima decisione, che riprende Sez. 3, n. 30161/2018, Scarano, Rv. 651665-01, Sez. 3, n. 00857/2020, Ianniello, Rv. 656687-01, ha ribadito che la società preponente risponde del danno causato al risparmiatore dai promotori finanziari in tutti i casi in cui sussista un nesso di occasionalità necessaria tra il danno e l’esecuzione delle incombenze affidate al promotore. Ha precisato, altresì, che la condotta del terzo investitore può fare venire meno questa responsabilità solo qualora sia per lui chiaramente percepibile che il preposto, abusando dei suoi poteri, agisca per finalità estranee a quelle del preponente, ovvero quando il medesimo danneggiato sia consapevolmente coinvolto nell’elusione della disciplina legale da parte dell’intermediario od abbia prestato acquiescenza all’irregolare agire dello stesso, palesata da elementi presuntivi, quali il numero o la ripetizione delle operazioni poste in essere con delle modalità non regolari, il loro valore complessivo, l’esperienza acquisita nell’investimento di prodotti finanziari, la conoscenza di tutto il complesso iter funzionale alla sottoscrizione di detti programmi di investimento e le sue complessive condizioni culturali e socio-economiche. Con una seconda decisione, che segue la stessa linea interpretativa, Sez. 1, n. 17947/2020, Iofrida, Rv. 658570-01, ha precisato che la società preponente non risponde solidalmente del danno causato al risparmiatore dai suoi promotori finanziari qualora il nesso di occasionalità necessaria tra il danno e l’esecuzione delle incombenze affidate a questi ultimi sia interrotto dalla condotta del danneggiato il quale, inosservante ai canoni di prudenza e agli oneri di cooperazione nel compimento dell’attività di investimento, serbi un contegno anomalo, contrassegnato da collusione o consapevole acquiescenza alla violazione delle regole ordinarie sul rapporto con il cliente e sulle modalità di affidamento dei capitali da investire. Nel caso di specie, è stata confermata la sentenza di appello, che aveva respinto il ricorso dell’investitore contro l’istituto di credito per il danno provocato dal suo promotore, il quale aveva incamerato le somme ricevute, valorizzando la consegna da parte del cliente di denaro con modalità difformi da quelle con cui lo stesso promotore sarebbe stato legittimato a riceverlo, l’omessa compilazione e sottoscrizione di contratti o moduli, l’assenza di evidenza contabile dei supposti investimenti.