PARTE INTRODUTTIVA I RAPPORTI CON I PUBBLICI POTERI

  • immigrazione
  • protezione del consumatore
  • migrante
  • diritto tributario

I)

L’EFFETTIVITÀ DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE

(di Giovanni Maria Armone )

Sommario

1 Il principio di effettività nella giurisprudenza della Corte di giustizia U.E. - 1.1 La tutela del consumatore. - 1.2 I migranti. - 1.3 Il diritto tributario dell’Unione europea. - 1.4 Altre ipotesi. - 2 L’effettività nella giurisprudenza di legittimità. - 2.1 Le garanzie processuali. - 2.2 Effettività e immigrazione - 2.3 Tributi armonizzati e non - 2.4 Effettività e diritto delle impugnazioni - 2.5 Effettività ed entità della riparazione pecuniaria.

1. Il principio di effettività nella giurisprudenza della Corte di giustizia U.E.

Il principio di effettività della tutela giurisdizionale costituisce una realtà consolidata nell’elaborazione giurisprudenziale degli ultimi anni, alla cui affermazione ha contribuito in misura determinante la giurisprudenza della Corte di giustizia U.E.

Anche nel corso del 2020, l’opera di scavo e delimitazione compiuta dai giudici di Lussemburgo, sotto l’egida dell’art. 47 della Carta di Nizza, è proseguita in tutti i settori dell’ordinamento rientranti nel raggio d’azione del diritto eurounitario (1).

E tale opera, benché la Corte rimarchi costantemente la necessità di rispettare l’autonomia procedurale degli Stati membri, investe non solo le norme di diritto sostanziale, ma anche l’assetto istituzionale, i poteri delle autorità giudiziarie, la disciplina processuale (2).

1.1. La tutela del consumatore.

In materia consumeristica, dove il principio di effettività ha conosciuto i suoi principali sviluppi, continuano a registrarsi sentenze di rilievo.

Proseguono anzitutto gli interventi in materia di nullità delle clausole abusive e poteri officiosi del giudice.

Con Corte giust. 5 marzo 2020, C-679/18, OPRFinance s.r.o., si è ribadito che la direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori, coniugata con il principio di effettività, impone al giudice nazionale di esaminare d’ufficio l’esistenza di una violazione dell’obbligo precontrattuale del creditore di valutare il merito creditizio del consumatore, previsto dall’articolo 8 di tale direttiva. A completamento, la sentenza ha aggiunto che la direttiva osta a una disciplina nazionale in forza della quale la violazione da parte del creditore del suo obbligo precontrattuale di valutare il merito creditizio del consumatore è sanzionata con la nullità del contratto di credito, corredata dall’obbligo per tale consumatore di restituire il capitale al creditore entro un termine commisurato alle proprie possibilità, solo a condizione che detto consumatore eccepisca tale nullità entro un termine di prescrizione triennale.

Ancor più dirompente per la sua incidenza sui poteri-doveri del giudice è Corte giust. 25 novembre 2020, C269/19, Banca B. SA. Il caso concerneva le clausole che definiscono il meccanismo di fissazione del tasso d’interesse variabile in un contratto di prestito, di cui sia accertata l’abusività. La Corte ha affermato che, in seguito a tale accertamento, ove il contratto non possa sussistere dopo la soppressione delle clausole abusive e ciò provochi un danno di particolare gravità per il consumatore, non emendabile mediante norme suppletive, il giudice nazionale deve adottare, tenendo conto del complesso del suo diritto interno, tutte le misure necessarie per tutelare il consumatore dalle conseguenze particolarmente dannose che l’annullamento di detto contratto potrebbe provocare, incluso l’invito alle parti a una rinegoziazione del metodo di calcolo del tasso d’interesse.

Ispirata a una maggiore cautela è invece Corte giust. 11 marzo 2020, C-511/17, Lintner, con cui sono stati precisati i confini dell’intervento officioso del giudice.

È vero - ha esordito la Corte - che per garantire la tutela voluta dalla direttiva 93/13, la situazione di disuguaglianza tra il consumatore e il professionista può essere riequilibrata solo grazie a un intervento positivo da parte di soggetti estranei al rapporto contrattuale. Ed è altrettanto vero che, a tal fine, il giudice nazionale è tenuto ad esaminare d’ufficio, non appena disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, il carattere abusivo di una clausola contrattuale rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13 e, in tal modo, ad ovviare allo squilibrio che esiste tra il consumatore e il professionista.

Un siffatto esame deve, in un secondo momento, rispettare i limiti dell’oggetto della controversia, inteso come il risultato che una parte persegue con le sue pretese, lette alla luce delle conclusioni e dei motivi presentati a tal fine. Perché ci sia un intervento positivo da parte del giudice nazionale adito, è pur sempre necessario che il procedimento giurisdizionale sia avviato da una delle parti del contratto perché tale tutela possa essere concessa; inoltre l’effettività della tutela non può spingersi fino a ignorare o eccedere i limiti dell’oggetto della controversia come definito dalle parti con le loro pretese, lette alla luce dei motivi da esse dedotti, di modo che detto giudice nazionale non è tenuto ad estendere tale controversia al di là delle conclusioni e dei motivi presentati dinanzi al medesimo, analizzando individualmente, quanto al loro carattere eventualmente abusivo, tutte le altre clausole di un contratto, soltanto alcune del quale sono oggetto di ricorso dinanzi ad esso.

Di ampia portata sono invece i dicta di Corte giust. 16 luglio 2020, C-224/2019, BY, relativa a un rinvio pregiudiziale spagnolo. Anche qui si trattava di un mutuo ipotecario e la Corte ha affermato numerosi principi in sede di interpretazione della direttiva 93/13/CEE.

Anzitutto, ove una clausola contrattuale che pone il pagamento della totalità delle spese di costituzione e di cancellazione dell’ipoteca a carico del consumatore sia dichiarata abusiva, il giudice nazionale non può rifiutare la restituzione al consumatore degli importi pagati in applicazione di detta clausola, a meno che le disposizioni del diritto nazionale non prevedano tale ripartizione degli oneri anche in mancanza della clausola in questione.

In secondo luogo, la Corte ha delimitato la nozione di «oggetto principale del contratto», rispetto al quale non operano, com’è noto, le presunzioni di abusività. Rientrano in tale nozione le clausole che fissano le prestazioni essenziali di tale contratto, non invece le clausole che rivestono carattere accessorio, come ad esempio quella che fissa una commissione di apertura, benché compresa nel costo totale di un mutuo ipotecario. In ogni caso, un giudice di uno Stato membro è tenuto a controllare il carattere chiaro e comprensibile di una clausola contrattuale vertente sull’oggetto principale del contratto, e ciò indipendentemente dalla trasposizione dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva in parola nell’ordinamento giuridico di tale Stato membro. Ne consegue che il giudice nazionale ben può (e deve) valutare se detta clausola determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto, in contrasto con il requisito della buona fede, qualora l’istituto finanziario non dimostri che tale commissione corrisponde a servizi effettivamente forniti e a spese dallo stesso sostenute, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.

Sulla prescrizione del diritto alla restituzione, la Corte ha escluso che la fissazione di un termine sia di per sé illegittima, ma è necessario che il dies a quo di tale termine nonché la sua durata non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del consumatore.

Infine, sul piano processuale, il principio di effettività esclude la legittimità di un regime che consente di far gravare sul consumatore una parte delle spese processuali, a seconda del livello delle somme indebitamente pagate che gli sono restituite in seguito alla dichiarazione di nullità di una clausola contrattuale per via del suo carattere abusivo; un simile regime crea infatti un ostacolo sostanziale che può scoraggiare i consumatori dall’esercitare il diritto a un controllo giurisdizionale effettivo del carattere potenzialmente abusivo di clausole contrattuali, quale riconosciuto dalla direttiva 93/13.

Il tema della prescrizione dell’azione di restituzione a seguito di nullità è stato affrontato anche da Corte giust. 9 luglio 2020, C698/18 e C699/18, SC Raiffeisen Bank SA.

Ferma la legittimità della fissazione di un termine di prescrizione per esercitare l’azione, la direttiva 93/13/CEE, letta alla luce dei principi di equivalenza, di effettività e di certezza del diritto, osta a un’interpretazione giurisdizionale della normativa nazionale secondo la quale l’azione in giudizio per la ripetizione delle somme indebitamente pagate in forza di una clausola abusiva contenuta in un contratto stipulato tra un consumatore e un professionista è assoggettata a un termine di prescrizione di tre anni che decorre dalla data dell’esecuzione integrale di tale contratto, qualora si presuma, senza che sia necessario verificarlo, che, a tale data, il consumatore avrebbe dovuto avere conoscenza del carattere abusivo della clausola di cui trattasi o qualora, per azioni analoghe, fondate su determinate disposizioni del diritto interno, tale stesso termine inizi a decorrere soltanto a partire dall’accertamento giudiziale della causa di tali azioni.

1.2. I migranti.

Le questioni che ruotano intorno all’immigrazione, concernenti la protezione internazionale o le procedure di rimpatrio dei migranti non richiedenti asilo, sono tra le più delicate. Esse hanno infatti implicazioni politiche e ricadute pesanti sul diritto nazionale, soprattutto per un Paese come l’Italia, esposto in prima linea ai flussi migratori.

Di primario interesse sono due pronunce coeve concernenti l’Ungheria, la protezione internazionale e i poteri decisionali dei giudici.

Corte giust. 19 marzo 2020, C-564/18, LH, in un caso riguardante i Paesi di transito, ha anzitutto affermato la contrarietà alla direttiva 2013/32/UE (cd. direttiva procedure) di una normativa nazionale che consente di respingere in quanto inammissibile una domanda di protezione internazionale con la motivazione che il richiedente è arrivato nel territorio dello Stato membro interessato attraversando uno Stato in cui non è esposto a persecuzioni o a un rischio di danno grave, o in cui è garantito un adeguato livello di protezione.

Ai fini del presente capitolo, l’aspetto più rilevante è però quello concernente le modalità di decisione da parte dei giudici. La normativa ungherese assegnava al giudice un termine perentorio di otto giorni per pronunciarsi su un ricorso avverso una decisione amministrativa che respinge una domanda di protezione internazionale in quanto inammissibile. La sentenza ha letto l’articolo 46, par. 3, della direttiva 2013/32, alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e ne ha tratta la conseguenza della illegittimità della normativa interna, «qualora tale giudice non sia in grado di assicurare, entro un simile termine, l’effettività delle norme sostanziali e delle garanzie processuali riconosciute al richiedente dal diritto dell’Unione».

Su una linea interpretativa analoga è Corte giust. 19 marzo 2020, C-406/18, PG, in cui si è bensì esclusa la contrarietà al principio di effettività di una normativa nazionale che conferisce ai giudici soltanto il potere di annullare le decisioni delle autorità competenti in materia di protezione internazionale, escludendo quello di riformarle.

Tuttavia, la Corte di giustizia ha aggiunto che in tal caso l’autorità amministrativa “di rinvio” non è completamente libera di riesaminare la domanda di protezione, ma deve conformarsi alla pronuncia giudiziaria di annullamento, potendosene discostare solo in presenza di elementi nuovi. Ove l’autorità amministrativa non si attenga a questa regola, il giudice nuovamente adìto, qualora il diritto nazionale non gli conferisca alcun mezzo che gli consenta di far rispettare la sua sentenza, potrà sostituire la propria decisione a quella amministrativa e, se del caso, disapplicare la normativa nazionale che gli vieti di procedere in tale senso.

Anche qui, poi, la sentenza si è soffermata sul termine che la normativa ungherese assegna al giudice per decidere sul ricorso avverso una decisione amministrativa di rigetto (non di inammissibilità). Il termine di sessanta giorni è astrattamente adeguato, ma il giudice resta libero, se non si ritiene in grado di garantire l’effettività delle norme sostanziali e delle garanzie procedurali riconosciute al richiedente dal diritto dell’Unione, di disapplicare la normativa nazionale che fissa il termine, ferma restando la necessità, una volta scaduto, di rendere la propria decisione il più rapidamente possibile.

Sempre in tema di protezione internazionale e termini processuali, va segnalata anche Corte giust. 9 settembre 2020, C-651/19, JP.

In questo caso, il termine era quello di dieci giorni, assegnato dalla legge nazionale belga al ricorrente per impugnare una decisione di irricevibilità di una domanda ulteriore di protezione internazionale. Il termine, decorrente dalla data dalla notifica della decisione, è stato giudicato congruo, anche nell’ipotesi in cui, in mancanza di elezione di domicilio in tale Stato membro da parte del richiedente interessato, tale notifica sia effettuata presso la sede dell’autorità nazionale competente a esaminare tali domande, ma a quattro condizioni, imposte dal principio di effettività: a) che i richiedenti siano informati del fatto che, in caso di mancata elezione di un domicilio ai fini della notifica della decisione relativa alla loro domanda, si presumerà che abbiano eletto domicilio a tal fine presso la sede di detta autorità nazionale; b) che le condizioni di accesso di detti richiedenti a tale sede non rendano loro eccessivamente difficile ricevere le decisioni che li riguardano; c) che sia loro assicurato entro il suddetto termine l’accesso effettivo alle garanzie processuali riconosciute dal diritto dell’Unione a coloro che richiedono protezione internazionale; d) che sia rispettato il principio di equivalenza.

Al di fuori della protezione internazionale, in tema di ricongiungimento familiare dei migranti, significative sono due decisioni concernenti la legislazione belga.

Corte giust. 16 luglio 2020, C-133/19, B.M.M., ha affrontato un caso in cui la domanda di ricongiungimento di un figlio minorenne era stata dichiarata irricevibile per il solo motivo che il figlio era divenuto maggiorenne nelle more del procedimento giurisdizionale. La Corte ha affermato la contrarietà della previsione interna alla direttiva 2003/86/CE, letta alla luce dell’art. 47 della Carta di Nizza.

Per analoghi motivi, Corte giust. 30 settembre 2020, C-133/19, LM, ha affermato la contrarietà al diritto eurounitario di una previsione che non prevede il ricongiungimento con un figlio che, pur maggiorenne, sia affetto da una grave malattia e non abbia mezzi di sostentamento.

1.3. Il diritto tributario dell’Unione europea.

Un altro importantissimo terreno di applicazione del principio di effettività è quello del diritto tributario, dove occorre tuttavia muoversi con particolare cautela.

Anzitutto, è necessaria una fondamentale distinzione tra tributi armonizzati e non armonizzati. Solo con riferimento ai primi, dove sussiste una competenza eurounitaria, la Corte di giustizia esercita infatti il suo controllo sulle modalità attuative del diritto U.E. nei singoli Stati, il che genera differenti declinazioni applicative dell’effettività in ambito nazionale.

Inoltre, la disciplina tributaria armonizzata è pur sempre diretta ad assicurare alla fiscalità eurounitaria i giusti introiti. Con la conseguenza che il principio di effettività non sempre si traduce in un rafforzamento dei diritti dei cittadini contribuenti, ma può talvolta finire per garantire, sanzionando le violazioni del diritto unionale, le ragioni dell’Erario.

A favore del contribuente vanno segnalate numerose pronunce.

Corte giust. 30 aprile 2020, C-661/18, CTT - Correios de Portugal, è intervenuta sulle detrazioni operate secondo il metodo del volume d’affari, affermando che negare al contribuente la possibilità di rettificare tali detrazioni secondo il diverso metodo della destinazione urta, tra l’altro, contro il principio di effettività.

Analogamente, Corte giust. 2 luglio 2020, C-835/2018, SC Terracult srl, ha affermato la contrarietà ai principi di neutralità fiscale, di effettività e di proporzionalità, di una normativa nazionale o di una prassi amministrativa nazionale che non consenta ad un soggetto passivo che abbia effettuato operazioni che in un momento successivo si sono rivelate rientrare nel regime dell’inversione contabile dell’imposta sul valore aggiunto (IVA), di correggere le fatture relative a tali operazioni e di avvalersene mediante la rettifica di una precedente dichiarazione fiscale o mediante la presentazione di una nuova dichiarazione fiscale che tenga conto della correzione così effettuata.

Corte giust. 3 settembre 2020, C-610/2019, Vikingo, riguarda il diritto alla detrazione dell’IVA nell’ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria adduca l’inattendibilità delle fatture e la soggettiva inesistenza delle operazioni sottostanti. Qui la Corte ha ribadito che, per poter negare la detrazione, deve essere dimostrato adeguatamente che il soggetto passivo ha partecipato attivamente a un’evasione o che tale soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che dette operazioni si iscrivevano in un’evasione commessa dall’emittente delle fatture o da qualsiasi altro operatore intervenuto a monte in detta catena di cessioni.

In tema di rimborso del bollo ambientale per gli autoveicoli, e sempre con orientamento di garanzia per il contribuente, Corte giust. 14 ottobre 2020, C677/19, SC Valoris SRL, ha sottolineato come il diritto U.E. non contenga una disciplina armonizzata delle modalità di rimborso. Il principio di effettività serve allora a evitare che le modalità stabilite dai legislatori nazionali siano strutturate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione. A tale ultimo riguardo, occorre prendere in considerazione il principio della tutela dei diritti della difesa, il principio della certezza del diritto e il regolare svolgimento del procedimento. È alla luce di questi criteri, in particolare, che va valutata l’adeguatezza di un termine di decadenza fissato per presentare le domande di rimborso di tributi dichiarati incompatibili con il diritto dell’Unione.

Di ben altro tenore, anche se sempre nel settore dell’IVA, è invece Corte giust. 16 luglio 2020, C424/19, Cabinet de avocat, che è destinata a rivestire un’importanza centrale per le ricadute che avrà sulla giurisprudenza italiana in materia di giudicato tributario.

È noto come la giurisprudenza della Corte di cassazione in materia di giudicato e imposte periodiche sia orientata a riconoscere l’effetto vincolante del giudicato esterno nei casi in cui vengano in esame fatti che, per legge, hanno efficacia permanente o pluriennale, producendo effetti per un arco di tempo che comprende più periodi di imposta, o nei quali l›accertamento concerne la qualificazione di un rapporto ad esecuzione prolungata, restando esclusa l›efficacia espansiva del giudicato per le fattispecie «tendenzialmente permanenti» in quanto suscettibili di variazione annuale (la sentenza-guida è Sez. T, n. 04832/2015, Virgilio, Rv. 635058 01).

Si tratta di una giurisprudenza che, specie nel settore dell’IVA, ha poi ricevuto ulteriori temperamenti, proprio in nome dell’effettività eurounitaria (Sez. T, n. 09710/2018, Nonno, Rv. 647717-01).

La sentenza Cabinet de avocat sembra però aver fornito un indirizzo ancor più restrittivo, affermando che il diritto dell’Unione e, in particolare, il principio di effettività, ostano a che, nell’ambito di una controversia relativa all’imposta sul valore aggiunto (IVA), un giudice nazionale applichi il principio dell’autorità di cosa giudicata, qualora tale controversia non verta su un periodo d’imposta identico a quello di cui trattavasi nella controversia che ha dato luogo alla decisione giurisdizionale munita di tale autorità, né abbia il medesimo oggetto di quest’ultima. Ove sia stata presa una decisione contraria al diritto U.E., l’effettività richiede che l’errore non si ripeta negli esercizi fiscali successivi, anche a costo di mettere in discussione e disapplicare una sentenza passata in giudicato.

1.4. Altre ipotesi.

Il principio di effettività estende il suo raggio applicativo anche in altre direzioni.

La tutela risarcitoria, ad esempio, resta un presidio fondamentale per la violazione dei diritti scaturenti dalle fonti U.E. e l’effettività impedisce che essa si annacqui, o riducendosi a entità simboliche o comunque insufficienti, o per gli ostacoli posti sul cammino per farla valere.

Lo si vede nei casi di discriminazione, come quello preso in considerazione da Corte giust. 27 febbraio 2020, C-773, 774, 775/2018, TK e altri, in cui era stata realizzata una discriminazione sul luogo di lavoro, atteso che la legislazione di un Land tedesco prevedeva, a parità di anzianità, una diversa retribuzione a seconda dell’età anagrafica dei lavoratori pubblici. I lavoratori discriminati, all’atto di proporre l’azione risarcitoria, si erano trovati davanti a un termine di decadenza non solo breve (due mesi), ma anche decorrente dal giorno della pronuncia di una sentenza della Corte che aveva accertato il carattere discriminatorio di una misura analoga. I giudici di Lussemburgo hanno affermato la contrarietà al principio di effettività di una simile disciplina, qualora le persone interessate rischino di non essere in grado di venire a conoscenza, entro tale termine, dell’esistenza o della portata della discriminazione di cui sono state vittime.

A proposito invece dell’entità del risarcimento del danno, va segnalata la recentissima Corte giust. 10 dicembre 2020, C-735/19, Euromin Holdings (Cyprus) Limited, in cui è stata reputata contraria al principio in esame una norma di diritto nazionale (lettone) in forza della quale, nel caso in cui sussista la responsabilità di uno Stato membro per danni causati dalla violazione di una norma di diritto dell’Unione da parte di una decisione di un’autorità amministrativa di tale Stato, il risarcimento del danno materiale che ne deriva, può essere limitato al 50% dell’importo totale.

In tema di protezione dei dati personali e lungo il confine tra diritto civile e diritto penale, Corte giust. 6 ottobre 2020, C-511, 512, 520/2018, La Quadrature du Net e altri, ha fatto derivare dal principio di effettività l’obbligo, per il giudice penale nazionale, di non tenere conto delle informazioni e degli elementi di prova ottenuti mediante una conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione incompatibile con il diritto dell’Unione, nell’ambito di un procedimento penale avviato nei confronti di persone sospettate della commissione di reati, qualora dette persone non siano in grado di prendere efficacemente posizione su tali informazioni ed elementi di prova, che provengono da un settore che esula dalla competenza dei giudici e che possono influenzare in modo preponderante la valutazione dei fatti.

2. L’effettività nella giurisprudenza di legittimità.

Preso atto dell’intensità dell’opera della Corte di giustizia, occorre valutare se il principio di effettività di matrice sovranazionale continui a esercitare quello che la Cassazione alcuni anni fa, prendendo a prestito un’espressione utilizzata nel diritto tedesco per descrivere l’adeguamento delle norme ordinarie a quelle costituzionali, ebbe a definire l’effetto di irraggiamento sugli istituti del diritto interno (Sez. U, n. 22601/2004, Altieri, Rv. 580646-01, Sez. U, n. 03117/2006, Altieri, Rv. 586830-01).

2.1. Le garanzie processuali.

Non v’è dubbio che il principio di effettività sia tuttora presente al giudice di legittimità nelle ipotesi più estreme, in cui le garanzie difensive appaiono a rischio di essere vanificate.

Di rilievo è ad esempio Sez. U, n. 07825/2020, Garri, Rv. 657586-01, che, in tema di attuazione, da parte della P.A., del giudicato civile in materia di lavoro, in nome dell’effettività della tutela giurisdizionale ha attribuito al giudice di ottemperanza il potere di verifica dell’esattezza della interpretazione data dall’amministrazione alle disposizioni da applicare al caso concreto, per accertare che del contenuto della decisione passata in giudicato non sia stato dato un adempimento parziale, incompleto se non addirittura elusivo.

Un diretto richiamo alla giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di effettività è poi rinvenibile in Sez. T, n. 10103/2020, Catallozzi, Rv. 657730-01. Qui la Corte ha affermato che, in tema d’IVA, laddove il cedente provveda alla sua regolarizzazione in un momento successivo rispetto alla cessione dei beni, emettendo fatture e versando all’erario l’importo dovuto, in difetto del rischio di evasione fiscale, il correlato termine di decadenza per rimborso decorre - secondo l’interpretazione dell’art. 178 dir. 2006/112/CE datane dalla giurisprudenza unionale conforme al principio di effettività (CGUE 21 marzo 2018, Volkswagen; CGUE 15 settembre 2016, Senatex) - solo a partire dal momento in cui il cessionario è venuto in possesso delle fatture, essendo stato, in precedenza, oggettivamente impossibilitato ad esercitare il diritto alla detrazione proprio in ragione dell’indisponibilità materiale dei documenti e dell’ignoranza in ordine alla debenza dell’imposta.

Si veda anche Sez. 3, n. 05124/2020, Rossetti, Rv. 657135-01, in cui la S.C. ha affermato che la domanda di annullamento degli atti impositivi proposta al giudice tributario interrompe e sospende, per tutta la durata di quel processo, la prescrizione dell’azione - successivamente esercitata dinanzi al giudice ordinario - di risarcimento dei danni derivanti dalla riscossione coattiva, non potendo la pluralità di giudici, ordinari e speciali, prevista per assicurare una più adeguata risposta alla domanda di giustizia, risolversi in una minore effettività della tutela giurisdizionale.

O si prenda ad esempio Sez. 5, n. 01954/2020, Mucci, Rv. 656778-01, in cui la Corte ha scongiurato un’interpretazione davvero formalistica, affermando che, in tema di processo tributario, a seguito dell’istituzione dell’Agenzia delle entrate, per i giudizi di cassazione, nei quali la legittimazione era riconosciuta esclusivamente al Ministero delle finanze ai sensi dell’art. 11 del r.d. n. 1611 del 1933, la nuova realtà ordinamentale, caratterizzata dal conferimento della capacità di stare in giudizio agli uffici periferici dell’Agenzia, in via concorrente e alternativa rispetto al direttore, consente di ritenere che la notifica della sentenza di merito, ai fini della decorrenza del termine breve per l’impugnazione, e quella del ricorso per cassazione possano essere effettuate, alternativamente, presso la sede centrale dell’Agenzia o presso i suoi uffici periferici, in tal senso orientando l’interpretazione sia il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità, sia il carattere impugnatorio del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato.

Ancora sul principio di effettività ha fatto leva, in materia previdenziale, Sez. L, n. 02230/2020, D’Antonio, Rv. 656599-01, per affermare che il termine di dodici mesi decorrente a ritroso dalla data di inizio dell’esecuzione forzata ex art. 1, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 80 del 1992, per far valere i crediti lavorativi non soddisfatti nei confronti del Fondo di garanzia costituito presso l’INPS, si calcola senza tenere conto del tempo intercorso fra la data di proposizione dell’atto di iniziativa volto a far valere in giudizio i crediti del lavoratore (necessario per la precostituzione del titolo esecutivo e, quindi, per dare inizio all’esecuzione forzata) e la data di formazione del titolo esecutivo stesso.

2.2. Effettività e immigrazione

In materia di immigrazione, nei due ambiti delle espulsioni e della protezione internazionale, è ricorrente il richiamo al principio di effettività, al fine di temperare gli effetti di riforme di diritto processuale orientate perlopiù a fini deflattivi di un contenzioso che cresce in misura esponenziale.

Sez. 1, n. 04806/2020, Scordamaglia, Rv. 657000-01, ha così chiarito che l’omesso avviso al difensore di fiducia dello straniero espulso con decreto prefettizio della fissazione dell’udienza di convalida dell’ordine del questore di accompagnamento alla frontiera, determina la nullità del relativo decreto di convalida, dovendosi così interpretare il disposto dell’art. 13, comma 5-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dall’art. 1, comma 1, del d.l. n. 241 del 2004, conv. con modif. dalla l. n. 271 del 2004, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale n. 222 del 2004. Tale norma, nello stabilire che il destinatario del provvedimento di accompagnamento alla frontiera ha diritto di essere tempestivamente informato dell’udienza di convalida e di farsi assistere da un difensore di fiducia, va interpretata, alla luce dei principi espressi dalla Corte costituzionale, nel senso che l’effettività del diritto di difesa può essere assicurata solo se l’assistenza tecnica non si riduce all’adempimento di una mera formalità, ma rappresenta lo strumento per assicurare il rispetto dei principi del giusto processo.

Da parte sua, Sez. 1, n. 21584/2020, Fidanzia, Rv. 658982-01, ha fissato alcuni punti fermi in tema di audizione personale del richiedente asilo, leggendo sia la normativa nazionale, sia l’art. 46 della direttiva n. 32/13/CEE alla luce del principio di effettività consacrato nella Carta di Nizza. In assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, il giudice ha l’obbligo non solo di fissare l’udienza di comparizione, ma anche quello di disporre l’audizione del richiedente quando: a) nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda (sufficientemente distinti da quelli allegati nella fase amministrativa, circostanziati e rilevanti); b) ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) il richiedente faccia istanza di audizione nel ricorso, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire chiarimenti e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile.

2.3. Tributi armonizzati e non

In altre occasioni si nota tuttavia, se non un arretramento, certo una maggiore prudenza nel dare spazio al principio di effettività ad ampio raggio.

Lo si osserva in materia tributaria, dove la Corte mantiene una netta distinzione tra tributi armonizzati, rientranti nel cono di luce del diritto unionale e come tali interessati dal principio di effettività, e tributi non armonizzati, per i quali valgono regole puramente interne e parzialmente diverse.

Sulla base di questa distinzione, Sez. 5, n. 21694/2020, Fuochi Tinarelli, Rv. 659071-05, ha bensì affermato l’importante principio per cui l’effettività della tutela rende producibile in cassazione ex art. 372 c.p.c. la sentenza penale irrevocabile di assoluzione, relativa ai medesimi fatti oggetto della sanzione tributaria controversa, ove il contribuente intenda far valere l’improcedibilità, l’improponibilità o, comunque, l’estinzione, in tutto o in parte, del giudizio tributario per violazione - pur dedotta per la prima volta in sede di legittimità e sempreché pertinente alle questioni ritualmente in giudizio - di principi di ordine pubblico unionale (nella specie, del ne bis in idem); ma ha avuto anche cura di precisare che tale produzione non è ammissibile ai fini delle contestazioni in materia di imposte dirette, per le quali non viene in rilievo l’esigenza di effettività del diritto unionale.

2.4. Effettività e diritto delle impugnazioni

Un terreno poi sul quale la Cassazione non sembra disposta a lasciare spazio a quelle che appaiono strumentalizzazioni del principio in esame, è quello delle impugnazioni.

Pertanto, l’effettività non basta a rendere ammissibile il regolamento necessario di competenza contro il diniego di sospensione del processo, dovendosi ritenere che la disciplina dell’art. 42 c.p.c. contemperi l’esigenza di effettività della tutela giurisdizionale con quella di efficienza della giurisdizione, garantendo, da un lato, il diritto della parte che si vede respingere la richiesta di sospensione di impugnare, comunque, sul punto, la decisione che ha definito il giudizio non sospeso e, dall’altro, la durata ragionevole del processo (Sez. 6-3, n. 20344/2020, Guizzi, Rv. 659251-01).

Neppure contrasta con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, sancito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la disciplina del ricorso per cassazione, nella parte in cui prevede - all’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. - requisiti di ammissibilità di contenuto-forma (Sez. L, n. 00027/2020, Pagetta, Rv. 656364-01). Tali requisiti sono infatti individuati in modo chiaro (tanto da doversi escludere che il ricorrente in cassazione, tramite la difesa tecnica, non sia in grado di percepirne il significato e le implicazioni) ed in armonia con il principio della idoneità dell’atto processuale al raggiungimento dello scopo, sicché risultano coerenti con la natura di impugnazione a critica limitata propria del ricorso per cassazione e con la strutturazione del giudizio di legittimità quale processo sostanzialmente privo di momenti di istruzione.

E l’effettività sovranazionale non vale neppure, attraverso il canale dell’art. 117 Cost., a rendere fondate le questioni di legittimità costituzionale: dell’art. 702-quater c.p.c., nella parte in cui stabilisce che l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione è appellabile entro il termine breve di trenta giorni dalla sua comunicazione ad opera della cancelleria, trattandosi di schema procedimentale che, rispondendo allo scopo di garantire la stabilità delle decisioni non impugnate entro un determinato termine, ritenuto dall’ordinamento nazionale adeguato ai fini di una ponderata determinazione della parte interessata (Sez. 3, n. 02467/2020, Olivieri, Rv. 656727-01); dell’art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, come modificato dall’art. 6 del d.l. n. 13 del 2017, nella parte in cui stabilisce che il procedimento per l’ottenimento della protezione internazionale è definito con decreto non reclamabile, poiché la Corte Europea dei diritti umani con riferimento ai procedimenti civili ha sempre negato che il diritto all’equo processo e ad un ricorso effettivo possano essere considerati parametri per invocare un secondo grado di giurisdizione, mentre la legislazione eurounitaria ed, in particolare, la dir. n. 2013/32, non prevede un obbligo per gli Stati membri di istituire l’appello, poiché l’esigenza di assicurare l’effettività del ricorso riguarda espressamente i procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado (Sez. 1, n. 22950/2020, Fidanzia, Rv. 659116-01).

2.5. Effettività ed entità della riparazione pecuniaria.

Come si è visto nel paragrafo dedicato alla giurisprudenza della Corte di giustizia, l’adeguatezza del risarcimento del danno o, comunque, della tutela per equivalente, costituisce un’importante declinazione del principio di effettività.

Nella giurisprudenza di legittimità del 2020, tuttavia, questo indirizzo non ha prodotto interpretazioni correttive o disapplicazioni.

Così, Sez. 2, n. 16076/2020, Carrato, Rv. 658680-01, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-sexies, della l. n. 89 del 2001 (in vigore dal 1° gennaio 2016), sollevata sul presupposto dell’irragionevolezza della norma che, nel prevedere la presunzione di insussistenza del pregiudizio anche in caso di prescrizione maturata antecedentemente a quella data, violerebbe il principio di effettività della tutela indennitaria. La Corte ha osservato come, con la norma in oggetto, non sia stata introdotta una causa assoluta di insussistenza del presupposto dell’irragionevole durata del processo penale in caso di sopravvenuta dichiarazione di estinzione del reato, ma solo relativa, essendo fatta salva la prova contraria circa l’esistenza di un reale ed effettivo pregiudizio subito dal ricorrente, nonostante l’intervenuta prescrizione del reato.

Da parte sua, Sez. 1, n. 05381/2020, Iofrida, Rv. 657038-02, resa in materia di disciplina della concorrenza nell’ordinamento italiano, ha affermato che il diritto al risarcimento del danno da illecito antitrust risulta garantito, senza che possa ravvisarsi un’impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio al punto di vanificare il principio di effettività della tutela posto dall’art. 102 T.F.U.E., dalla previsione di un termine quinquennale di prescrizione dettato dalla normativa nazionale, che cominci a decorrere dal momento in cui sia stato dato, con pubblicità legale, avvio al procedimento amministrativo dinanzi all’Autorità Garante per l’accertamento dell’abuso di posizione dominante rispetto ad un’impresa concorrente.

  • DIRITTO
  • tutela
  • interesse ad agire

II)

GIUSTO PROCESSO, ADEGUATEZZA DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE EMERITEVOLEZZA DELL’INTERESSE AD AGIRE

(di Laura Mancini )

Sommario

1 La teoria dell’azione nella genesi del principio di adeguatezza della tutela giurisdizionale. - 2 Il diritto di azione nella Costituzione. - 3 Il diritto alla tutela giurisdizionale nell’ordinamento europeo. - 3.1 L’effettività come limite al principio di autonomia procedurale. - 4 Giusto processo, potere giurisdizionale e riserva di legge processuale. La teoria dell’atipicità dell’azione e della tutela giurisdizionale. - 5 L’adeguatezza dei rimedi nella giurisprudenza di legittimità. La tutela risarcitoria. - 5.1 Il controllo giudiziale sull’equilibrio contrattuale. - 6 Il limite della meritevolezza dell’interesse ad agire.

1. La teoria dell’azione nella genesi del principio di adeguatezza della tutela giurisdizionale.

Il principio di strumentalità del processo rispetto al diritto sostanziale, pur non essendo esplicitamente enunciato in una disposizione positiva, identifica una regola fondamentale dell’ordinamento processuale civile e, esprimendo la tendenziale corrispondenza tra i risultati del processo e le utilità riconosciute al titolare della situazione giuridica soggettiva, lesa o rimasta inattuata, che di esso si avvalga, è considerato immanente al sistema (PICARDI, Manuale del processo civile, Milano, 2010, 16 ss.).

L’effettività della tutela giurisdizionale, di cui l’adeguatezza delle forme e delle tecniche di attuazione dei diritti costituisce estrinsecazione, indica, invece, la misura della capacità del rimedio a soddisfare il bisogno qualificato di tutela generato dalla lesione dell’interesse protetto (CARRATTA, Tecniche di attuazione dei diritti e principio di effettività, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2019, 1, 1) e rappresenta il principio-cardine sul quale poggia l’assetto delle garanzie processuali approntato dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali (e, in particolare, dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, così come interpretato dalla Corte EDU, e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea).

Dal disegno costituzionale si ricavano, invero, una serie di principi che, alla stregua di naturalia processus, hanno ridelineato il tradizionale rapporto tra la protezione sostanziale e la tutela processuale dei diritti, nell’acquisita consapevolezza dell’inscindibilità dei correlati piani e della necessità che alle singole situazioni sostanziali corrispondano strumenti di tutela adeguati (TROCKER, Costituzione e processo civile: dall’accesso al giudice all’effettività della tutela giurisdizionale, in Il giusto proc. civ., 2019, 1, 18).

Il distinto riconoscimento dei diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost.) e del diritto di agire in giudizio per la loro tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) palesa, infatti, un superamento dell’approccio formalistico proprio della concezione autonomistica dell’azione e l’adesione ad una prospettiva sostanzialistica incline a stabilire una corrispondenza tra l’interesse sostanziale protetto e il rimedio adeguato, il quale deve, quindi, essere modellato sul contenuto e sulla natura del bene oggetto di ciascuna situazione giuridica soggettiva.

Nel processo evolutivo che ha portato alla definizione della nozione di tutela giurisdizionale accolta dalla Costituzione e dalle norme eurounitarie un contributo essenziale è stato, quindi, offerto dalla riflessione scientifica sull’azione quale categoria giuridica distinta dal diritto sostanziale, così che è utile ripercorrere i momenti salienti dell’itinerario culturale che ha condotto alla sua attuale configurazione.

Risale, invero, all’inizio del XX secolo la costruzione teorica che, superando la concezione - vicina alla tradizione romanistica delle actiones - che intravedeva nell’azione una mera funzione del diritto soggettivo individuale, ha riconosciuto alla stessa una propria autonoma fisionomia e, quindi, un valore ontologico distinto rispetto a quello della situazione giuridica soggettiva con essa fatta valere.

È appena il caso di rammentare che la teoria dell’autonomia, che risale alla dottrina tedesca della metà dell’’800, muove dall’assunto per il quale l’azione è un diritto che spetta al titolare affermato del diritto sostanziale nei confronti del soggetto passivo - anch’esso affermato - dello stesso diritto sostanziale e, a differenza di quest’ultimo, ha come contenuto una prestazione non del titolare passivo, ma dell’organo giurisdizionale, configurandosi, dunque, come un diritto verso il giudice ad un provvedimento sul merito (CARNELUTTI, Diritto e processo, Napoli, 1958, 112).

Nell’ambito dell’orientamento autonomistico si è, tuttavia, registrato un dissidio tra i fautori della teoria dell’azione in senso concreto, per i quali l’azione è un diritto ad un provvedimento favorevole, e i sostenitori della tesi dell’astrazione, ad avviso dei quali l’azione è astratta dall’esistenza del diritto sostanziale, della quale si ha contezza soltanto all’esito del giudizio.

Da tale disputa è scaturita la più recente elaborazione della teoria dell’azione in senso parzialmente astratto (LIEBMAN, L’azione nella teoria del processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1951, 1, 48 e ss.; MANDRIOLI-CARRATTA, Diritto processuale civile, I, Torino, 2017, 64-65), secondo la quale l’azione postula la sola affermazione, nella domanda, del diritto sostanziale come spettante a colui che agisce e necessitante di tutela giurisdizionale.

L’importante opera di “conciliazione” tra diritto soggettivo e tutela processuale, che è alla base della collocazione del processo civile nell’ordinamento delle garanzie costituzionali, si deve soprattutto alla raffinata ricostruzione di Chiovenda (Principi di diritto processuale, Napoli, 1923), nella quale l’azione viene per la prima volta concepita, all’esito di un procedimento di entificazione, come un diritto potestativo autonomo dal diritto sostanziale che mira a realizzare, con il quale il singolo coopera nel proprio interesse all’attuazione della legge e quindi dell’interesse pubblico.

Ma il risultato più originale di tale ricostruzione va sicuramente identificato nell’assunto per il quale, secondo un principio generale, che non necessita di un fondamento positivo, il processo è la fonte di tutte le azioni praticamene possibili che tendono all’attuazione di una volontà di legge.

In consonanza con tale intuizione, altra dottrina osservava che le libertà consacrate nella Carta costituzionale sono vane se non possono essere rivendicate e difese in un giudizio e se l’ordinamento giurisdizionale non è fondato sul rispetto della persona umana (CALAMANDREI, Studi sul processo civile, VI, Padova, 1937, 290), dovendo la funzione del processo essere colta nell’attuazione della giustizia e, segnatamente, di una legalità di valori costituzionali (SATTA, Il mistero del processo, Milano, 1994; CARNELUTTI, Torniamo al giudizio, in Riv. dir. proc., 1949, 165 ss.).

In tempi più recenti è stato evidenziato che l’art. 24 Cost. integra una norma in bianco che «aderisce a tutte le norme sostanziali» che attribuiscono situazioni soggettive. Le norme attributive di situazioni giuridiche soggettive, ove non dispongano anche sulla tutela, devono, quindi, essere considerate alla stregua di fattispecie dell’art. 24 Cost. (ANDRIOLI, La tutela giurisdizionale dei diritti nella Costituzione della Repubblica italiana, in Scritti giuridici, I, Milano, 2007, 7).

In linea con tale impostazione è stato, poi, precisato che il rimedio non sostituisce il diritto, ma lo presuppone, nel senso che postula che l’interesse che ne è alla base risulti protetto dall’ordinamento giuridico, e individua il quomodo della protezione (DI MAJO, Il linguaggio dei rimedi, in Europa e dir. priv., 2005, 341).

Ancora, per altra dottrina, spetta al diritto sostanziale individuare l’interesse meritevole di tutela e al diritto processuale identificare la risposta più adeguata (il rimedio effettivo) al bisogno individuale di protezione (MAZZAMUTO, Il contratto di diritto europeo, Torino, 2015). Tale operazione impone uno sforzo ermeneutico che porti ad offrire la massima strumentalità del processo al diritto sostanziale e a superare le limitazioni che discendono dalla mancata inclusione nell’assetto dei rimedi dell’uno o dell’altro tipo di azione.

È stato, infine, posto in evidenza come le teorie sin qui richiamate sottendano il principio dell’atipicità della tutela giurisdizionale, in forza del quale ogni rimedio che non sia espressamente escluso deve ritenersi consentito (PAGNI, La giurisdizione tra effettività ed efficienza, in Dir. proc. amm., 2016, 2, 401 e ss.).

La stessa dottrina ha, tuttavia, avvertito che tale ricostruzione non deve essere confusa con l’approccio puramente rimediale tipico dei sistemi di common law, i quali, in antitesi con il modello continentale dei diritti soggettivi quali entità preesistenti e indipendenti rispetto al processo, si fondano sull’assunto per il quale il diritto esiste in quanto è disponibile un rimedio, con la conseguenza che la garanzia non coincide con il potere agire in giudizio, ma con le concrete forme di tutela che si possono esperire.

2. Il diritto di azione nella Costituzione.

Il nesso di interdipendenza tra processo e diritto soggettivo, che costituisce il fondamento del principio di adeguatezza della tutela giurisdizionale, trova, dunque, nel disegno costituzionale un’essenziale fonte di legittimazione.

Invero, la Carta costituzionale fa assurgere il diritto di agire in giudizio consacrato nell’art. 24 a diritto fondamentale e inviolabile, collocandolo nel contesto dei diritti e delle libertà personali dell’individuo e munendolo, al pari di queste, di stabilità e di opponibilità al legislatore ordinario.

Una disposizione di simile contenuto prescrittivo si rinviene nella Costituzione tedesca (art. 19, par. 4, della Legge fondamentale per la Repubblica Federale di Germania), mentre è estranea all’esperienza giuridica francese ed ai sistemi di common law, ai quali, come già evidenziato, è ignoto il concetto di alterità del diritto sostanziale rispetto alla sua attuazione giudiziale.

La consacrazione costituzionale del diritto alla tutela giurisdizionale assume, dunque, rilevanza su un duplice piano, perché, per un verso, la Legge fondamentale mostra di aver recepito gli esiti dell’imponente elaborazione processualcivilistica sull’azione e suggellato l’opzione interpretativa favorevole all’autonoma considerazione di tale diritto rispetto alla situazione giuridica soggettiva con esso fatta valere; per altro verso, la formulazione “aperta” dell’art. 24 Cost. ha indotto una parte della dottrina a ritenere che il legislatore costituzionale abbia accolto la concezione chiovendiana dell’atipicità della tutela giurisdizionale, in base alla quale al giudice è attribuito il potere di ricercare nelle pieghe del sistema il rimedio più adeguato a realizzare l’utilità offerta al titolare della situazione giuridica soggettiva lesa.

Si tratta di una prospettiva antitetica rispetto al modello del codice civile del 1942, il quale, essendo costruito intorno ai valori della proprietà, dell’impresa, della famiglia e del contratto, ha approntato un articolato sistema di azioni tipiche a protezione di tali diritti (mentre per i diritti immateriali specifici rimedi sono stati previsti in leggi speciali), concedendo, per contro, uno spazio più ridotto ai diritti della personalità, la cui tutela era affidata in via prioritaria al diritto penale, in coerenza con la concezione statalista all’epoca imperante.

Radicalmente diverse sono le direttrici che ispirano il disegno dei costituenti, il quale, nella preoccupazione di evitare iniziative liberticide, accanto ad un catalogo di diritti inviolabili della persona e a garanzia della loro effettività, delinea, appunto, come autonomo diritto inviolabile spettante a «tutti», quello di «agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi».

Ad avviso della dottrina più recente non si è al cospetto di una “costituzionalizzazione” in senso formale, ma di una «precisa opzione culturale di considerare quelle garanzie destinate a condizionare nel tempo la credibilità e l’accettabilità delle forme di tutela giudiziale e delle strutture processuali, non solo come sfere riservate da proteggere, ma anche, se non primariamente, come beni da promuovere e concretizzare» (TROCKER, La formazione del diritto processuale europeo, Torino, 2011, 221 e ss.; Id., Costituzione e processo civile: dall’accesso al giudice all’effettività della tutela giurisdizionale, cit., 17).

Nell’attuazione di tale disegno programmatico un ruolo fondamentale ha assunto l’interpretazione evolutiva dell’art. 24 Cost. compiuta dalla Corte costituzionale.

In tale itinerario ermeneutico si iscrivono sicuramente le pronunce che hanno contribuito alla rifondazione dello statuto del danno alla persona, tra le quali un essenziale impulso è scaturito dalla nota pronuncia n. 184 del 14 luglio 1986, che ha stabilito che «[…] La vigente Costituzione garantendo all’art. 32 Cost. la tutela della salute come diritto fondamentale del privato, diritto primario e pienamente operante anche nei rapporti tra privati, svela che l’art. 2043 c.c. non possa essere interpretato come applicantesi esclusivamente al danno patrimoniale e al danno economico derivante dalla menomazione psico-fisica. L’art. 2043 c.c. correlato all’art. 32 Cost., va necessariamente esteso fino a comprendere il risarcimento di tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana».

In tale prospettiva evolutiva si pone anche il riconoscimento, da parte della stessa Corte costituzionale, della funzione di monito sociale, di prevenzione e di deterrenza che può assumere il rimedio risarcitorio (Corte cost., n. 194 dell’8 novembre 2018, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23).

Ancora, la flessibilità dell’azione di risarcimento del danno e le sue potenzialità espansive si colgono nell’affermazione della natura polifunzionale e, dunque, anche sanzionatoria, della tutela risarcitoria.

Emblematiche, in proposito, sono le sentenze n. 139 del 2019 e n. 152 del 2016, con le quali la Consulta ha precisato che l’obbligazione risarcitoria posta dall’art. 96, comma 3, c.p.c., che si affianca al regime del risarcimento del danno da lite temeraria, ha «natura sanzionatoria dell’abuso del processo, commesso dalla parte soccombente, non disgiunta da una funzione indennitaria a favore della parte vittoriosa».

In linea con le indicazioni offerte da tali pronunce, nonché dalle sentenze n. 303 del 9 novembre 2011 e n. 238 del 22 ottobre 2014, la Corte di Cassazione (Sez. U, n. 16601/2017, D’Ascola, Rv. 644914-01) ha ammesso che, accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo-riparatoria della responsabilità civile, dal sistema normativo che è venuto componendosi nel corso degli anni è emersa una natura polifunzionale e, quindi, anche preventiva, o deterrente o dissuasiva, e sanzionatorio-punitiva, pur avvertendo che tale rinnovato approccio non consente una generalizzata facoltà di modulazione giudiziale del risarcimento avulsa dal concreto pregiudizio accertato, dal momento che ogni imposizione di prestazione personale esige un’intermediazione legislativa in forza del principio di cui all’art. 23 Cost., correlato agli artt. 24 e 25 Cost., con la conseguenza che il risarcimento punitivo può ritenersi configurabile soltanto a condizione che sia supportato da un’apposita previsione normativa.

3. Il diritto alla tutela giurisdizionale nell’ordinamento europeo.

La categoria dell’azione, intesa come diritto di agire in giudizio per la tutela di situazioni giuridiche soggettive riconosciute dal diritto sostanziale, non figura nell’assetto originariamente delineato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Invero, le garanzie introdotte con l’art. 6, par. 1 - a mente del quale «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti» -, attengono alle modalità di svolgimento del processo e, quindi, sono state concepite per operare nel corso di esso, essendo volte ad assicurare che la decisione autoritativa sul diritto dell’interessato sia resa nel rispetto di un iter formativo equo e conforme ai fondamentali principi della terzietà del giudice, del contraddittorio, della pubblicità del giudizio e della sua ragionevole durata.

Tale circoscritto ambito di operatività si spiega alla luce dell’approccio “selettivo” della Convenzione, il cui obiettivo, esplicitato nel preambolo, era quello di offrire le prime misure dirette ad assicurare l’attuazione di alcuni dei diritti enunciati nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 10 dicembre del 1948 attraverso una giustizia procedurale quale misura dell’accettabilità della potestà pubblicistica degli organi giurisdizionali (così TROCKER, La formazione del diritto processuale europeo, cit., 223).

Tra gli opposti modelli delineati dalla Costituzione italiana e tedesca, da un lato, e dai sistemi di common law, dall’altro, connotati, rispettivamente, dalla distinzione ontologica tra diritto sostanziale e rimedio, il primo, e dall’approccio puramente rimediale, il secondo, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo sembra aver condiviso quest’ultimo.

È stato, infatti, da più parti evidenziato come nella formulazione dell’art. 6, par. 1, le garanzie procedurali non risultino corroborate dal riconoscimento di un diritto di azione a protezione di situazioni giuridiche soggettive.

Non di meno, tale lacuna è stata colmata in via pretoria dalla stessa Corte EDU, la quale, attraverso un complesso itinerario ermeneutico, ha ridefinito, arricchendolo, il contenuto precettivo dell’art. 6, fino configurare un autonomo diritto di accesso alla tutela giurisdizionale, che, benché lontano dalle raffinate raffigurazioni teoriche della scienza processualcivilistica continentale sul diritto di azione, ha rappresentato una tappa fondamentale nella definizione dell’ordine costituzionale europeo.

Secondo i giudici di Strasburgo (v., in particolare, la nota sentenza del 21 febbraio 1975, Golder c. Regno Unito, ric. n. 4451/70), il diritto di accesso a un tribunale è implicato dal giusto processo - quale mezzo inteso ad arginare l’ingiustificata limitazione della tutela giurisdizionale - e risponde al fondamentale obiettivo dell’attuazione del principio della preéminence du droit (o della rule of law).

L’argomentazione che supporta tale assunto è incentrata sulla considerazione per la quale, ancorché la norma non contenga un riferimento espresso al diritto di accesso ad una corte, ma specifichi soltanto i requisiti per un equo processo una volta che una corte o un tribunale siano stati aditi, l’effettività dei diritti fondamentali dell’individuo e, in particolare, del diritto ad un equo processo, presuppone necessariamente il riconoscimento del diritto ad un giudizio davanti ad un tribunale, posto che, diversamente opinando, il riconoscimento di tali diritti si ridurrebbe ad un’astratta e teorica proclamazione.

Come chiarito nella sentenza del 28 maggio 1985, (Ashingdane c. Regno Unito, ric. n. 8225/78), richiamata dalla sentenza del 22 ottobre 1996 (Stubbings e altri c. Regno Unito, ric. nn. 22083/93, 22095/93), se è vero che agli Stati va riconosciuto un «margine di apprezzamento», non di meno, poiché la Convenzione garantisce diritti che non sono teorici o illusori, bensì reali ed effettivi, non sono ammesse limitazioni tali da restringere l’accesso al giudice sino al punto da far venire meno la sostanza del diritto (Corte EDU, sentenza del 9 ottobre 1979, Airey c. Irlanda, ric. 6289/73). Inoltre, il diritto di accesso alla tutela giurisdizionale deve essere «practical and effective» e non può ridursi a un mero accesso “fisico” al tribunale (Corte EDU, 13 maggio 1980, Artico c. Italy, n. 6694/74).

Costituisce, non di meno, condizione indefettibile per accedere ad un tribunale il fatto che il diritto su cui si fonda la controversia trovi riconoscimento nell’ordinamento del foro, sulla base di «motivazioni almeno sostenibili». Invero, l’art. 6 non riconosce il diritto ad ottenere necessariamente una statuizione nel merito da parte dei giudici interni qualora la pretesa giuridica non sia riconosciuta nell’ordinamento del foro, giacché diversamente opinando, si attribuirebbe alla Corte EDU il potere di creare diritti sostanziali (per una recente applicazione del principio v. Grande Sezione, 15 marzo 2018, Naït-Liman c. Svizzera, ric. n. 51357/07).

3.1. L’effettività come limite al principio di autonomia procedurale.

Nel contesto dell’ordinamento eurounitario la nozione di tutela giurisdizionale adeguata ha assunto nel tempo una connotazione del tutto peculiare, frutto dell’opera ricostruttiva attraverso la quale la Corte di giustizia ha inteso rafforzare la protezione dei diritti di origine comunitaria (PICARDI, La giurisdizione all’alba del terzo millennio, Milano 2007, 183, richiamato da CARRATTA, Libertà fondamentali del trattato dell’unione europea e processo civile, Riv. Dir. Proc., 2015, 6, 1400).

La preoccupazione di potenziare l’assetto dei rimedi predisposti dalle legislazioni nazionali, che nasce fondamentalmente dalla diretta applicabilità di alcune disposizioni unionali e dalla loro attitudine a far sorgere veri e propri diritti soggettivi a favore dei privati, si è, tuttavia, tradotta in significative ingerenze, da parte del legislatore e del giudice europei, negli ordinamenti processuali interni, a dispetto del principio di autonomia procedurale che riserverebbe ai soli stati membri la competenza in materia.

D’altro canto, tale ultimo principio soggiace al pregnante limite dell’obbligo di osservanza, da parte degli ordinamenti nazionali, dei principi, generali e cogenti, dell’equivalenza e dell’effettività della tutela giurisdizionale.

Come chiarito dalla stessa Corte di giustizia nella nota decisione del 16 dicembre 1976, Rewe, C-33/76 - e, più di recente, ribadito nella pronuncia del 14 marzo 2013, Aziz, C-415/11 -, «in mancanza di una specifica disciplina comunitaria, è l’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro che designa il giudice competente e stabilisce le modalità procedurali delle azioni giudiziali intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie aventi efficacia diretta».

Il principio di equivalenza esige che l’azione a tutela di un diritto derivante da una fonte dell’Unione europea non sia sottoposta a condizioni procedurali meno favorevoli di quelle che si applicherebbero ad un diritto simile, ma di origine interna.

Il principio di effettività - che genera il diritto fondamentale consacrato dagli artt. 6 e 13 della CEDU e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e che per questo costituisce un principio generale del diritto comunitario derivante dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (Corte giust., 3 settembre 2008, Kadi c. Consiglio e Commissione, C-402/05 e C-415/05 P) - impone, invece, che l’azione a tutela di un diritto procedurale nazionale non renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile la tutela giurisdizionale delle posizioni derivanti dal diritto dell’Unione.

Ne discende che, nella prospettiva dell’ordinamento eurounitario, il principo di effettività si traduce in un dovere per gli organi giurisdizionali dei paesi membri di sopperire ad eventuali lacune ordinamentali, specie nell’ipotesi in cui la normazione interna si presenti carente sul piano della tutela giurisdizionale di situazioni soggettive riconosciute dal diritto dell’Unione.

Quale organo periferico della giustizia europea, il giudice nazionale è, in primo luogo, tenuto a vigilare sull’applicazione del diritto comune al fine di garantirne l’uniforme ed effettiva attuazione in ossequio al principio di primazia dell’ordinamento sovranazionale sancita dall’art. 4, par. 3, TUE (Corte giust., 15 luglio 1964, Costa/Enel, C-6/64; Corte giust., 5 febbraio 1963, Van Gend en Loos, C-26/62).

A tale obbligo conformativo gli organi giurisdizionali sono chiamati ad adempiere attraverso i meccanismi dell’applicazione diretta delle norme europee self executing - che risultino, cioè, chiare, precise e incondizionate - e della disapplicazione delle disposizioni interne suscettibili di interferire con quelle unionali o di ostacolarne l’effettività (Corte giust., 9.3.1978, Simmenthal, C-106/77), oppure ricorrendo alla tecnica dell’interpretazione adeguatrice del diritto interno alle fonti eurounitarie, sia pure nel rispetto delle norme nazionali rientranti nei c.d. controlimiti, ossia dei principi caratterizzanti l’identità nazionale (Corte giust., 10 aprile 1984, Von Colson e Kamann, C-14/83), e comunque accedendo al rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE ogniqualvolta insorgano dubbi sull’esegesi della norma europea ovvero sulla compatibilità della disposizione interna con il diritto dell’Unione.

4. Giusto processo, potere giurisdizionale e riserva di legge processuale. La teoria dell’atipicità dell’azione e della tutela giurisdizionale.

Si è evidenziato come una recente dottrina, valorizzando il pensiero di Giuseppe Chiovenda, intraveda nell’atipicità dell’azione e della tutela giurisdizionale il fondamento teorico del potere-dovere del giudice di ricercare la tutela più adeguata alla situazione sostanziale protetta dall’ordinamento.

Secondo tale impostazione, il principio di atipicità del diritto di azione e della tutela giurisdizionale, efficacemente sintetizzato dall’affermazione chiovendiana secondo la quale il processo “deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire” così che esso “è per sé stesso fonte di tutte le azioni praticamente possibili, che tendano all’attuazione di una volontà di legge”, è stato costituzionalizzato dall’art. 24 Cost., il quale, riconoscendo il diritto fondamentale di agire in giudizio ai titolari dei diritti e degli interessi legittimi previsti da qualsiasi norma del sistema ordinamentale, anche se nulla disponga sulla tutela processuale, configura una norma a fattispecie aperta.

La teoria dell’atipicità dell’azione si fonda, quindi, sull’assunto per il quale è sufficiente che il diritto sostanziale preveda una determinata situazione giuridica soggettiva perché il relativo titolare possa agire in giudizio per la sua tutela, senza che sia necessaria un’apposita norma, sostanziale o processuale, che autorizzi l’azione (PROTO PISANI, Introduzione sull’atipicità dell’azione e la strumentalità del processo, in Foro it., 2012, V, 1 e ss.; PAGNI, L’effettività della tutela in materia di lavoro, cit., 387 e ss.). Il diritto sostanziale preesiste e si distingue dalla tutela giurisdizionale, la quale appartiene al diritto pubblico e ne costituisce lo strumento di attuazione, con la conseguenza che sono configurabili tante azioni quanti sono i diritti riconosciuti dall’ordinamento e che “ogni modo di attuazione della legge e ogni mezzo esecutivo che sia praticamente possibile e non sia contrario ad una norma generale o speciale di diritto deve ritenersi ammissibile” (PAGNI, L’effettività della tutela in materia di lavoro, cit., 393).

In linea con tale approccio ermeneutico, altri autori hanno affermato che il principio della tipicità delle azioni debba ritenersi ormai superato, essendo, invece, configurabile un’azione unica per più forme di tutela (COMOGLIO, FERRI, TARUFFO, Lezioni sul processo civile, I, Il processo ordinario di cognizione, Bologna, 2011, 225; LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 1961, I 58).

Inoltre, una parte della dottrina sostiene che la teoria dell’atipicità dell’azione e della tutela giurisdizionale sia stata recepita anche nel codice del processo amministrativo (SCOCA, Giustizia amministrativa, Torino, 2011, 35; CLARICH, Le azioni nel processo amministrativo tra reticenze del Codice e apertura a nuove tutele, in www.giustizia-amministrativa.it), mentre altra opinione ritiene che il d.lgs. n. 104 del 2010 sia ispirato ad un «canone di tipicità “moderata”» (TRAVI, La tipologia delle azioni nel nuovo processo amministrativo, in AA.VV., La gestione del nuovo processo amministrativo: adeguamenti organizzativi e riforme strutturali (Atti del LVI Convegno di studi di scienza dell’amministrazione), Milano 2011, 87).

Secondo la prima impostazione, il legislatore del 2010 ha abbandonato il modello processuale del rimedio a tutela di specifiche e legalmente predeterminate tipologie di interessi, optando per la concezione secondo la quale l’oggetto della garanzia giurisdizionale è il bisogno concreto di protezione, la cui tutela deve essere attuata attraverso strumenti idonei ed atipici, ancorché necessariamente compatibili con l’ordinamento (LUCIANI, Processo amministrativo e disciplina delle azioni: nuove opportunità, vecchi problemi e qualche lacuna nella tutela dell’interesse legittimo, in Dir. proc. amm., 2, 2012, 503 e ss.; in giurisprudenza v. Cons. Stato, A.P., n. 15 del 2011; Cons. Stato, A.P., n. 13 del 2017).

La concezione favorevole all’atipicità dell’azione intravede, tuttavia, un insuperabile limite all’operatività del relativo principio nella volontà del legislatore espressa nella disciplina positiva delle forme di tutela giurisdizionale tipiche.

Se, infatti, è vero che i principi di strumentalità del processo e di atipicità della tutela autorizzano il giudice ad integrare in via interpretativa l’assetto dei rimedi che si riveli lacunoso e incompleto rispetto al concreto bisogno della parte, e, quindi, in contrasto con il principio di effettività, è altrettanto vero che tale facoltà viene necessariamente meno di fronte alla scelta del legislatore di identificare le forme di tutela per determinate situazioni giuridiche soggettive, così accordando preferenza a determinati interessi, e di escludere l’esperibilità di altri rimedi (PAGNI, L’effettività della tutela in materia di lavoro, cit., 392).

Anche questa precisazione si pone in linea con la concezione chiovendiana, secondo la quale il principio di atipicità dell’azione rende ammissibile ogni modalità di attuazione di situazioni giuridiche soggettive che, tuttavia, non sia contraria ad una norma generale o speciale di diritto e trova conferma nella riserva di legge processuale costituzionalizzata nell’art. 111, comma 1, Cost., a mente del quale «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge».

Tale prescrizione, ancorché sia stata introdotta soltanto con la legge cost. n. 2 del 1999, non costituisce una novità perché è espressione del principio di legalità e dello Stato di diritto, secondo il quale tutti i titolari di un potere pubblico sono tenuti all’osservanza di precise regole (Corte cost., n. 415 del 2001).

Ad eccezione di un’opinione minoritaria, secondo la quale detta riserva sarebbe finalizzata esclusivamente a garantire che il processo non sia regolato da atti di normazione secondaria e, quindi, riguarderebbe i soli rapporti tra i poteri dello Stato legittimati a emanare norme e non anche quelli tra legislatore e potere giudiziario (CHIARLONI, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il processo civile, in Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile (Atti del Convegno dell’Elba, 9-10 giugno 2000) a cura di CIVININI e VERARDI, Milano, 2001,16), la maggior parte degli interpreti, aderendo alla concezione secondo la quale la riserva di legge riguarda non solo le relazioni tra organi depositari del potere di normazione (legislativo ed esecutivo), ma anche i rapporti tra legislatore e organi deputati all’attuazione della legge (PIVETTI, Per un processo civile giusto e ragionevole, in Il nuovo art. 111 della costituzione e il giusto processo civile. (Atti del convegno dell’Elba, 9-10 giugno 2000, cit.), ritiene che l’art. 111, primo comma, Cost. sia inteso proprio a garantire che le modalità e i tempi di esercizio dei poteri processuali del giudice e delle parti non siano rimessi alla valutazione discrezionale dell’organo giurisdizionale (PROTO PISANI, Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, in Foro it., 2000, V, 241-242; LANFRANCHI, Giusto processo (processo civile), in Enc. giur., X, 1, Roma, 2001, 10), ammettendosi, da parte di questo, soltanto interventi di stretta applicazione.

Alcuni degli autori che aderiscono a tale ricostruzione sostengono che la riserva sia circoscritta alla predeterminazione ex lege delle sole condizioni o componenti essenziali sancite dall’art. 111 Cost., ovvero delle norme che attuano le garanzie minime del giusto processo (COMOGLIO, Il «giusto processo» civile nella dimensione comparatistica, in Riv. dir. proc., 2002, 702 ss.).

Secondo altri studiosi (PROTO PISANI, Relazione conclusiva, in Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile (Atti del Convegno dell’Elba, 9-10 giugno 2000), cit., 324 ss.; CECCHETTI, Giusto processo (diritto costituzionale), in Enc. dir., Milano, 2001; COSTANTINO, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il «giusto processo civile». Le garanzie, in Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile (Atti del Convegno dell’Elba, 9-10 giugno 2000), cit., 255-259), dall’espressione «regolato dalla legge» deve, invece, ricavarsi la non conformità alla Costituzione di un processo «nel quale la forma e i termini (cioè i poteri delle parti e del giudice) attraverso cui realizzare i poteri di domanda, eccezione ecc., i poteri istruttori, il potere di difesa scritta e orale, fossero tutti rimessi quanto alla modalità ed ai tempi alla discrezionalità del giudice» (PROTO PISANI, Relazione conclusiva, cit., 320).

Occorre, in particolare, distinguere tra i poteri destinati all’organizzazione e al governo del processo e ininfluenti sul contenuto della decisione, i quali possono essere esercitati discrezionalmente dal giudice a seconda delle esigenze delle singole controversie; e i poteri suscettibili di incidere sul contenuto della decisione, di cui il principio del giusto processo regolato dalla legge esige la rigida predeterminazione da parte del legislatore.

Alla stregua dell’impostazione appena indicata, il potere giudiziale di integrazione del sistema dei rimedi regolati dalla legge, espressione del principio di atipicità e di effettività della tutela giurisdizionale, può trovare spazio solo nel caso in cui l’assetto delle tutele tipiche si presenti incompleto rispetto a specifiche esigenze di protezione di beni-interessi, ma non può spingersi fino ad una «deformazione delle azioni quando queste siano tipizzate dal legislatore» (DIPACE, L’annullamento tra tradizione e innovazione: la problematica flessibilità dei poteri del giudice amministrativo, cit., 1273 e ss.).

5. L’adeguatezza dei rimedi nella giurisprudenza di legittimità. La tutela risarcitoria.

Il richiamo all’effettività della tutela giurisdizionale ricorre frequentemente nella giurisprudenza di legittimità dell’ultimo ventennio, ma soltanto in alcune pronunce il relativo principio risulta declinato nella specifica accezione di «regola fondamentale dell’ordinamento costituzionale, intesa a garantire il diritto ad un rimedio adeguato al soddisfacimento del bisogno di tutela di quella […] unica e talvolta irripetibile situazione sostanziale di interesse giuridicamente tutelato» (Sez. 3, n. 21255/2013, Travaglino, Rv. 628699-01; 628700-01; 628701-01; 628702-01; 628703-01).

Tra le enunciazioni più significative del canone di adeguatezza della tutela giurisdizionale si iscrive indubbiamente la pronuncia nomofilattica in materia di nullità negoziale n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633502-01; Rv. 633503-01; Rv. 633504-01; Rv. 633505-01; Rv. 633506-01; Rv. 633507-01; Rv. 633508-01; Rv. 633509-01, in cui il principio di effettività, orientando l’interpretazione del sistema verso il superamento del formalismo dell’impostazione tradizionale, ha condotto la Corte a identificare l’oggetto del giudizio di impugnazione del contratto con il rapporto giuridico che da esso scaturisce.

Ancora, in materia processuale, merita di essere segnalata Sez. U, n. 12310/2015, Di Iasi, Rv. 635536-01, la quale, sulla scorta della premessa secondo la quale «[…] la previsione costituzionale di un processo “giusto” impone a giudice di non limitarsi alla meccanica e formalistica applicazione di regole processuali astratte, ma di verificare sempre (e quindi ogni volta) se l’interpretazione adottata sia necessaria ad assicurare nel caso concreto le garanzie fondamentali in funzione delle quali le norme oggetto di interpretazione sono state poste, evitando che, in mancanza di tale necessità, il rispetto di una ermeneutica tralascia sottratta alla necessaria verifica in rapporto al caso concreto si traduca in un inutile complessivo allungamento dei tempi di giustizia ed in uno spreco di risorse, con correlativa riduzione di effettività della tutela giurisdizionale», ha enunciato il principio secondo il quale la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali.

Altra significativa applicazione del principio di adeguatezza della tutela giurisdizionale si rinviene in Sez. U, n. 7825/2020, Garri, Rv. 657586-01, la quale ha affermato che in tema di attuazione, da parte della Pubblica amministrazione, del giudicato civile in materia di lavoro, il potere del giudice di ottemperanza non può che esercitarsi sulla base di elementi interni al giudicato - la cui valutazione rientra nella giurisdizione propria del giudice che ha emesso la sentenza -, con la conseguenza che è ammissibile, in ossequio al principio dell’effettività della tutela giurisdizionale che caratterizza il giudizio di ottemperanza, la verifica dell’esattezza dell’interpretazione data dall’amministrazione alle disposizioni da applicare al caso concreto, per accertare che del contenuto della decisione passata in giudicato non sia stato dato un adempimento parziale e incompleto, se non addirittura elusivo.

Il settore in cui l’attenzione giurisprudenziale per l’adeguatezza dei rimedi ha prodotto gli esiti ermeneutici più elevati è, tuttavia, quello della tutela risarcitoria.

Invero, come evidenziato in dottrina, «affrancato dai condizionamenti della nozione riduttiva di “patrimonialità” del danno, lo strumento risarcitorio ha assunto una flessibilità e adattabilità che lo rendono idoneo a coprire spazi inesplorati, a colpire fattispecie lesive che causano conseguenze pregiudizievoli di carattere personale; insomma, a proteggere diritti nuovi spesso di carattere non patrimoniale rispetto ai quali non solo la coscienza sociale pone un imperativo di tutela coordinata con l’esigenza di effettività» (TROCKER, Costituzione e processo civile: dall’accesso al giudice all’effettività della tutela giurisdizionale, cit., 37).

Il percorso ermeneutico che ha portato il diritto vivente ad ampliare le «mobili frontiere del danno ingiusto» (GALGANO, Le mobili frontiere del danno ingiusto, in Contr. e impr., 1985, 1 e ss.) costituisce, dunque, l’espressione più significativa dell’adattamento pretorio del rimedio alla reale portata contenutistica delle situazioni giuridiche soggettive sostanziali via via emergenti dall’evoluzione della realità sociale.

In tale contesto si iscrive l’itinerario giurisprudenziale sul danno alla persona il quale, dalla concezione sanzionatoria della tutela risarcitoria, che ispirava l’orientamento paneconomico della cultura giuridica precostituzionale e che tendeva ad identificare il pregiudizio non patrimoniale con il «danno morale subiettivo», è approdato alla più recente ricostruzione che, valorizzando la concreta fenomenologia del danno non patrimoniale, lo scompone nel duplice pregiudizio della sofferenza interiore e delle ripercussioni sulla vita quotidiana nel suo aspetto dinamico-relazionale, da valutarsi autonomamente nella liquidazione del ristoro pecuniario.

Secondo tale ultima impostazione, che nel corso degli anni ha ottenuto sempre più consistente adesione sino a divenire, in tempi recenti, un orientamento ampiamente condiviso dai giudici di legittimità, la reale essenza del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente tutelati è, dunque, duplice, potendo il pregiudizio ex art. 2059 c.c. manifestarsi anche come sofferenza interiore.

Il danno morale non viene più concepito come mera componente del danno biologico, liquidabile mediante personalizzazione in aumento dei valori tabellari, ma come voce di pregiudizio concettualmente autonoma e, in quanto tale, oggetto di liquidazione differenziata.

Tra le decisioni più significative di tale recente corso della giurisprudenza merita di essere segnalata Sez. 3, n. 11851/2015, Travaglino, Rv. 635701-01, secondo la quale ogni vulnus arrecato ad un interesse tutelato dalla Costituzione si caratterizza per una doppia dimensione di danno relazionale/proiezione esterna dell’essere e di danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza. Spetta la giudice valutare questi differenti aspetti del danno, procedendo “ad una riparazione che, caso per caso, nella unicità e irripetibilità di ciascuna delle vicende umane che si presentano dinanzi a lui, risulti da un canto equa, dall’altro consonante con quanto realmente patito dal soggetto, pur nella inevitabile consapevolezza della miserevole incongruità dello strumento risarcitorio a fronte del dolore dell’uomo, che dovrà rassegnarsi a veder trasformato quel dolore in denaro” (in senso conforme, ex multis, Sez. 3, n. 901/2018, Travaglino, Rv. 647125-03; Sez. 3, n. 7513/2018, Rossetti, Rv. 648303-01; Sez. 3, n. 20795/2018; Sez. 3, n. 11754/2018; Sez. 3, n. 23469/2018, Scoditti, Rv. 650858-02; Sez. 3, n. 27482/2018, Olivieri, Rv. 651338-01; Sez. 3, n. 32944/2018, Dell’Utri, non massimata; Sez. 6-3, n. 4878/2019, Porreca, Rv. 653138-01; Sez. 3, n. 2788/2019, Porreca, Rv. 652664-01; Sez. L, n. 9112/2019, Boghetich).

La ricerca del rimedio più adeguato al contenuto della situazione giuridica soggettiva fatta valere si coglie con particolare evidenza nella citata sentenza n. 21255 del 17 settembre 2013, in cui la Corte ha accordato la tutela risarcitoria - motivata dal comportamento corrotto di un giudice che aveva generato una sentenza corrotta che aveva, a propria volta, alterato l’assetto di interessi divisato in una transazione con la quale le parti avevano definito i reciproci rapporti - in alternativa all’azione di revocazione della sentenza causativa del danno e dell’azione di annullamento dell’accordo transattivo.

La Terza Sezione civile è giunta, così, a configurare, in ossequio al principio di effettività della tutela, un’azione di risarcimento in via autonoma, ossia non condizionata dal previo esperimento dei rimedi specifici, quali sono la revocazione e l’impugnativa negoziale, tutte le volte in cui questi ultimi siano divenuti impossibili e, dunque, inutili rispetto al risultato avuto di mira dalla parte interessata.

Tale impostazione collima con la tesi, sostenuta da recente dottrina, secondo la quale l’obbligo di attivare il rimedio specifico si impone a preferenza del rimedio per equivalente ove il risultato con esso perseguito sia attuabile, mentre non è configurabile nell’ipotesi in cui la possibilità e l’utilità del medesimo rimedio non possano in concreto essere garantite (PAGNI, La giurisdizione tra effettività ed efficienza, cit., 401 e ss.).

L’attenzione per l’adeguatezza della tutela emerge anche da Sez. 1, n. 29237/2019, Tricomi, Rv. 656040-02, la quale, dando seguito al principio enunciato in Sez. 1, n. 11564/2015, Lamorgese, Rv. 635649-01, ha stabilito che in tema di risarcimento del danno derivante dalla violazione degli artt. 2 e ss. della l. n. 287 del 1990, il giudice non può decidere la causa applicando meccanicamente il principio dell’onere della prova, ma è chiamato a rendere effettiva la tutela dei privati che agiscono in giudizio, tenuto conto dell’asimmetria informativa esistente tra le parti nell’accesso alla prova, sicché, fermo restando l’onere dell’attore di indicare in modo sufficientemente plausibile seri indizi dimostrativi della fattispecie denunciata come idonea ad alterare la libertà di concorrenza e a ledere il suo diritto di godere del beneficio della competizione commerciale, il giudice è tenuto a valorizzare in modo opportuno gli strumenti di indagine e conoscenza che le norme processuali già prevedono, interpretando estensivamente le condizioni stabilite dal codice di procedura civile in tema di esibizione di documenti, richiesta di informazioni e consulenza tecnica d’ufficio, al fine di esercitare, anche officiosamente, quei poteri d’indagine, acquisizione e valutazione di dati e informazioni utili per ricostruire la fattispecie anticoncorrenziale denunciata.

Un’altra significativa applicazione del principio di adeguatezza della tutela risarcitoria si rinviene in Sez. 3, n. 5124/2020, Rossetti, Rv. 657135-01, la quale, nella prospettiva dell’effettività della tutela giurisdizionale, ha stabilito che la domanda di annullamento degli atti impositivi proposta al giudice tributario interrompe e sospende, per tutta la durata di quel processo, la prescrizione dell’azione - successivamente esercitata dinanzi al giudice ordinario - di risarcimento dei danni derivanti dalla riscossione coattiva, non potendo la pluralità di giudici, ordinari e speciali, prevista per assicurare una più adeguata risposta alla domanda di giustizia, risolversi in una minore effettività o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale.

5.1. Il controllo giudiziale sull’equilibrio contrattuale.

La frontiera più avanzata della riflessione sulla correlazione tra la dimensione processuale e la struttura e il contenuto dei diritti è costituita senz’altro dal tema dell’equilibrio, normativo ed economico, del contratto, da tempo al centro di una vasta discussione che in dottrina vede contrapposte soluzioni aperte alla configurabilità di un controllo contenutistico sulla proporzionalità e sull’adeguatezza dell’assetto di interessi divisato dalle parti, e impostazioni tese a salvaguardare, anche in un’ottica di garanzia della sicurezza dei traffici, l’intangibilità dell’autonomia contrattuale.

Secondo l’orientamento tradizionale, il contratto è giusto in quanto è il risultato del libero e consapevole esercizio dell’autonomia delle parti. L’equilibrio normativo del regolamento degli interessi e la proporzione economica del sinallagma non sono, quindi, di per sé, giuridicamente rilevanti, né sono sindacabili attraverso il controllo di validità del contratto o la correzione giudiziale dello squilibrio, salvo che allo squilibrio o alla sproporzione si associ una diversa e ulteriore anomalia nella formazione del consenso che infici, anche in ragione della debolezza di una delle parti, la libertà negoziale (CATAUDELLA, L’uso abusivo dei principi, in Riv. dir. civ., 2014, 753 ss.; SCHLESINGER, L’autonomia privata ed i suoi limiti, in Giur. it., 1999, V, 230 ss.; GALGANO, Squilibrio contrattuale e mala fede del contraente forte, in Contratto e impr., 1997, 421).

Ad avviso di altri autori è, invece, possibile cogliere una tendenza dell’ordinamento nazionale e sovranazionale verso la tutela dell’equità dello scambio, sul presupposto che il contratto giusto non è quello voluto dalle parti, ma quello equilibrato (PERLINGIERI, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Rass. dir. civ., 2001, 341; LIPARI, Intorno alla giustizia del contratto, in Il diritto civile tra legge e giudizio, Milano 2017, 235 e ss.; VOLPE, La giustizia contrattuale tra autonomia e mercato, Napoli 2004, 88 ss.; GALGANO, Sull’aequitas delle prestazioni contrattuali, in Contr. e impr., 1993, 419 e ss.; Id., Squilibrio contrattuale e mala fede del contraente forte, ivi, 1997, 421 e ss.).

Nell’ambito di tale ultimo indirizzo, nella prospettiva della valorizzazione delle potenzialità applicative del pricipio di effettività della tutela giurisdizionale e degli spunti ricostruttivi offerti dalla teoria processualcivilistica dell’atipicità dell’azione, una recente dottrina ha suggerito di verificare la configurabilità di un rimedio atipico capace di attuare efficacemente il concreto interesse leso dallo scambio contrattuale (CORRIAS, Giustizia contrattuale e poteri conformativi del giudice, in Riv. dir. civ., 2019, 345 e ss.).

Anche nella giurisprudenza di legittimità, a fronte di un indirizzo che, considerando prevalente il principio di autonomia privata, esclude che lo squilibrio originario del sinallagma possa tradursi nella nullità del contratto per mancanza di causa (Sez. 2, n. 9640/2013, Nuzzo, non massimata; Sez. 1, n. 22567/2015, Nappi, Rv. 637658-01; Sez. 3, n. 9182/2018, D’Ovidio, Rv. 648591-01), altre decisioni hanno riconosciuto rilevanza all’equilibrio del regolamento negoziale ritenendo ammissibile, sia pure entro precisi limiti, un potere conformativo del giudice (Sez. U, n. 18128/2005, Lo Piano, Rv. 583011- 01; Sez. 3, 20106/2009, Vivaldi, Rv. 610222-01; Sez. 3, n. 7557/2011, De Stefano, Rv. 617752-01; Sez. 1, n. 17642/2012, Di Virgilio, Rv. 624747-01;).

Nella giurisprudenza più recente, una significativa apertura al controllo giudiziale di natura contenutistica in funzione conformativa del programma negoziale si rinviene nella pronuncia nomofilattica n. 9140 del 2016, Amendola A., Rv. 639703-01, la quale, con riferimento alla validità delle clausole claims made inserite nei contratti di assicurazione della responsabilità civile, ha affermato che la pattuizione che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che, tanto il fatto illecito, quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati periodi di tempo preventivamente individuati (cd. clausola claims made mista o impura), non è vessatoria, ma, in presenza di determinate condizioni, può essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero - ove applicabile la disciplina del d.lgs. n. 206 del 2005 - per il fatto di determinare a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e obblighi contrattuali.

Pur non prendendo espressa posizione sull’incidenza qualificatoria della clausola claims made sul tipo contrattuale assicurativo, ovvero sul se essa determini, o meno, l’atipicità del regolamento contrattuale, detta pronuncia ha offerto originali spunti ricostruttivi sul tema del sindacato giudiziale sull’equilibrio contrattuale.

Invero, a giudizio delle Sezioni Unite, la valutazione di meritevolezza deve essere condotta «in concreto, con riferimento, cioè, alla fattispecie negoziale di volta in volta sottoposta alla valutazione dell’interprete» e l’eventuale immeritevolezza, derivante dallo squilibrio, riguarda le sole clausole “impure” in ragione della compressione temporale dell’oggetto della copertura.

Dall’immeritevolezza della clausola claims made la Corte fa discendere la nullità parziale del contratto ammettendo un intervento del giudice in senso modificativo o integrativo del programma negoziale finalizzato a ristabilire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e a prevenire o reprimere l’abuso del diritto. E la conformazione giudiziale avviene attraverso l’applicazione dello schema legale del contratto di assicurazione della responsabilità civile (c.d. loss occurrence).

A sostegno di tale ricostruzione le Sezioni Unite richiamano i principi enunciati nelle ordinanze n. 248 del 2013 e n. 77 del 2014, con le quali la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1385, comma 2, c.c. nella parte in cui non consente di ridurre la caparra confirmatoria, sul presupposto che, di fronte ad un regolamento contrattuale non equo e squilibrato in danno di uno dei contraenti - come una caparra manifestamente eccessiva e, quindi, non equa e gravemente sbilanciata in danno di una parte in contrasto con il dovere costituzionale di solidarietà - il giudice può rilevare d’ufficio la nullità della clausola per contrasto con l’art. 2 Cost. in combinato disposto con il canone della buona fede.

Le indicazioni ricostruttive offerte dall’arresto del 2016 sono state sviluppate ed arricchite da Sez. U., n. 22437/2018, Vincenti, Rv. 650461-01, la quale, sempre in tema di regolamento contrattuale on claims made basis, ha precisato che «Il modello di assicurazione della responsabilità civile con clausole “on claims made basis”, quale deroga convenzionale all’art. 1917, comma 1, c.c., consentita dall’art. 1932 c.c., è riconducibile al tipo dell’assicurazione contro i danni e, pertanto, non è soggetto al controllo di meritevolezza di cui all’art. 1322, comma 2, c.c., ma alla verifica, ai sensi dell’art. 1322, comma 1, c.c., della rispondenza della conformazione del tipo, operata attraverso l’adozione delle suddette clausole, ai limiti imposti dalla legge, da intendersi come l’ordinamento giuridico nella sua complessità, comprensivo delle norme di rango costituzionale e sovranazionale. Tale indagine riguarda, innanzitutto, la causa concreta del contratto - sotto il profilo della liceità e dell’adeguatezza dell’assetto sinallagmatico rispetto agli specifici interessi perseguiti dalle parti -, ma non si arresta al momento della genesi del regolamento negoziale, investendo anche la fase precontrattuale (in cui occorre verificare l’osservanza, da parte dell’impresa assicurativa, degli obblighi di informazione sul contenuto delle “claims made”) e quella dell’attuazione del rapporto (come nel caso in cui nel regolamento contrattuale “on claims made basis” vengano inserite clausole abusive), con la conseguenza che la tutela invocabile dall’assicurato può esplicarsi, in termini di effettività, su diversi piani, con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili di volta in volta implicati».

La sentenza, dopo aver sottolineato il riconoscimento legislativo ottenuto dal modello contrattuale in questione attraverso gli artt. 11 della legge 8 marzo 2017, n. 24, concernente l’obbligo di assicurazione delle strutture sanitarie per la responsabilità civile verso i terzi e i prestatori d’opera, e 3, comma 5, lett. e), del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. con modificazioni dalla legge 14 novembre 2011, n. 148, come novellato dall’art. 1, comma 26, della legge 4 agosto 2017, n. 124, che ha stabilito l’obbligo di stipulare idonea assicurazione a carico dell’esercente una libera professione in relazione ai rischi da questa derivanti, ha evidenziato come la clausola claims made - già ampiamente diffusa nel settore assicurativo - sia divenuta una componente contenutistica del modello contrattuale di base, inderogabile in pejus, dell’assicurazione della responsabilità civile sanitaria e dei professionisti in genere, così collocandosi all’interno dell’ambito di derogabilità del sotto-tipo delineato dal primo comma dell’art. 1917 c.c., concesso dall’art. 1932 c.c. Il contratto di assicurazione con clausola claims made costituisce, dunque, una deroga convenzionale, consentita dall’art. 1932 c.c., al modello di assicurazione della responsabilità civile, che non comporta una deviazione strutturale della fattispecie negoziale tale da estraniarla dal tipo dell’assicurazione contro i danni, e partecipa della causa indennitaria propria di tale ultimo contratto (art. 1904 c.c.).

La principale conseguenza di tale scelta ermeneutica va rintracciata nella sottrazione del regolamento contrattuale con claims made al controllo di meritevolezza degli interessi, che l’art. 1322, secondo comma, c.c. riserva ai contratti atipici, e nel suo assoggettamento alla verifica sulla rispondenza del contenuto negoziale liberamente determinato ai limiti imposti dalla legge ai sensi dell’art. 1322, primo comma, c.c.

Tale indagine riguarda, in primo luogo, il contenuto del regolamento contrattuale, essendo demandato al giudice il compito di verificare, attraverso la causa concreta - da identificarsi nello scopo pratico, ovvero nella sintesi degli interessi che il contratto è diretto a realizzare in concreto, quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato -, se l’assetto di interessi pattuito sia lecito, ovvero non lesivo degli interessi delle parti tutelati dall’ordinamento, e adeguato agli interessi in concreto avuti di mira dai contraenti.

Ai fini di tale accertamento, l’emersione di un palese squilibrio dell’assetto sinallagmatico si presta ad essere interpretato come indice di carenza della causa in concreto dell’operazione economica. Ciò non significa - avverte la Suprema Corte - che il controllo di adeguatezza sia volto a garantire l’equilibrio economico delle prestazioni, essendo detto profilo rimesso all’autonomia contrattuale. Invero, tale indagine è diretta a verificare «con la lente del principio di buona fede contrattuale» se lo scopo pratico del regolamento on claims made presenti un arbitrario squilibrio giuridico tra rischio assicurato e premio, «giacché nel contratto di assicurazione contro i danni la corrispettività si fonda in base ad una relazione oggettiva e coerente con il rischio assicurato attraverso criteri di calcolo attuariale». La determinazione del premio di polizza assume, quindi, valore decisivo non soltanto ai fini dell’individuazione del tipo e del limite del rischio assicurato, ma della stessa verifica del rispetto in concreto dell’equilibrio sinallagmatico tra le reciproche prestazioni.

Tra i suggerimenti ermeneutici più originali e innovativi offerti dalla pronuncia nomofilattica in esame vi è la considerazione per la quale il giudice di merito può compiere il giudizio causale in concreto attingendo dalla fase precontrattuale elementi chiarificatori sulle esigenze dell’assicurato e, quindi, sul contenuto più idoneo, e perciò più adeguato, a soddisfarle a pieno, valorizzando le peculiarità del caso concreto, ma avvalendosi anche dei principi generali tratti dalla legislazione speciale in materia di assicurazione obbligatoria della responsabilità professionale e dalla disciplina delle clausole abusive ex artt. 33 e ss. del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206.

Il connotato causale dell’adeguatezza - avvertono le Sezioni Unite - salvaguarda, oltre all’interesse individuale, «gli interessi che entrano nel contratto, ai quali non è estraneo quello, di natura superindividuale, di una corretta allocazione dei costi sociali dell’illecito, che sarebbe frustrata ove il terzo danneggiato non potesse essere risarcito del pregiudizio patito a motivo dell’incapienza patrimoniale del danneggiante, siccome, quest’ultimo, privo di “idonea” assicurazione».

Sul versante rimediale, la natura ancipite, individuale e pubblicistica, degli interessi perseguiti attraverso il parametro dell’adeguatezza contrattuale conduce a identificare la forma di tutela più confacente nella nullità, ma non già totale, bensì parziale, con sostituzione automatica di clausole ex art. 1419, comma 2, c.c.

Ne discende che, con riferimento all’assicurazione della responsabilità professionale, il regolamento contrattuale deve modularsi alla stregua della disciplina legale di base, avente carattere imperativo perché posta a tutela di interessi pubblicistici, così che lo scarto tra il primo e la seconda comporta la nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418 c.c., cui il giudice può porre rimedio, in forza dell’art. 1419 c.c., integrando il regolamento contrattuale, ma non attraverso il modello della c.d. loss occurrence di cui all’art. 1917, comma 1, c.c., come sostenuto dalle Sezioni Unite nel 2016, bensì «attingendo quanto necessario per ripristinare in modo coerente l’equilibrio dell’assetto vulnerato dalle indicazioni reperibili dalla stessa regolamentazione legislativa». E, nel caso di contratti stipulati anteriormente all’entrata in vigore della legislazione in materia, è, comunque, possibile tenere conto della «giuridica esigenza che il contratto assicurativo sia adeguato allo scopo pratico perseguito dai paciscenti» in funzione di «criterio guida nell’interpretazione della stipulazione intercorsa al fine di garantire l’assicurato dalla responsabilità civile anche in settori diversi da quello sanitario o professionale e, segnatamente, in quelli che postulano l’esigenza di una copertura dai rischi per danni da eziologia incerta e/o caratterizzati da una lungolatenza».

6. Il limite della meritevolezza dell’interesse ad agire.

L’aspetto più innovativo della teoria dell’atipicità della tutela giurisdizionale è rappresentato sicuramente dall’attribuzione al giudice di un potere-dovere di ricercare la protezione più adeguata allo specifico bisogno di tutela, sul presupposto che il processo deve assicurare la massima strumentalità dei propri risultati rispetto al diritto sostanziale, fatti salvi i limiti posti dalla legge (art. 2908 c.c.) o dall’impossibilità materiale di attingere un determinato risultato o dalla preferenza accordata dall’ordinamento ad un interesse maggiormente rilevante (PAGNI, La giurisdizione tra effettività ed efficienza, 401 e ss., spec. nota 34).

L’individuazione della tutela più congeniale all’attuazione del diritto sostanziale, che costituisce l’essenza stessa del principio di adeguatezza della tutela giurisdizionale di derivazione europea, passa attraverso l’apprezzamento dell’interesse concretamente perseguito dalla parte che agisce in giudizio.

Una recente dottrina, nell’evidenziare come tale controllo possa esitare nella constatazione dell’insussistenza di un interesse ad agire degno di protezione, ha avanzato l’ipotesi della configurabilità nel nostro sistema di un controllo giudiziale sulla meritevolezza della tutela richiesta (GHIRGA, Principi processuali e meritevolezza della tutela richiesta, in Riv. dir. proc., 2020, 1, 13 e ss).

Tale ricostruzione è stata, tuttavia, avversata da chi, facendo leva sul carattere strettamente formalistico del diritto processuale, oltre che sul principio della certezza del diritto, ha posto in rilievo l’indeterminatezza del concetto di meritevolezza della tutela e la sua contrarietà al principio per il quale le valutazioni in merito alla stessa sono riservate in via esclusiva al legislatore (WIDMANN, Sulla minima unità economica della pretesa azionata in giudizio, in Giusto proc. civ., 2017, 894).

La dottrina che attribuisce rilevanza alla meritevolezza dell’interesse ad agire intravede una chiara conferma dei propri assunti nella giurisprudenza di legittimità in materia di frazionamento del credito inaugurata dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 23726/2007, Morelli, Rv. 599316-01, secondo la quale non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto dell’obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto, ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale (in senso conforme Sez. 3, n. 24539/2009, Finocchiaro, Rv. 610945-01; Sez. 6-2, n. 19898/2018, Falaschi, Rv. 650068-01; Sez. 6-2, n. 15398/2019, Orilia, Rv. 654137-01).

Ad avviso del Giudice nomofilattico, tale ricostruzione costituisce l’esito dell’allineamento delle norme processuali «al duplice obiettivo della “ragionevolezza della durata” del procedimento e della “giustezza” del “processo”, inteso come risultato finale (della risposta cioè alla domanda della parte), che “giusto” non potrebbe essere ove frutto di abuso, appunto, del processo, per esercizio dell’azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell’attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi».

Ulteriori sviluppi sul rapporto tra rimedio e interesse si colgono in Sez. U, n. 4090/2017, Di Iasi, Rv. 643111-01, in cui il principio dell’infrazionabilità della singola obbligazione è stato declinato con riferimento all’ipotesi di diversi e distinti diritti di credito riconducibili ad un medesimo rapporto di durata tra le parti.

Le Sezioni Unite hanno precisato che le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, - sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale - le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata, e, laddove ne manchi la corrispondente deduzione, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ex art. 183, c.p.c., riservando, se del caso, la decisione con termine alle parti per il deposito di memorie ex art. 101, comma 2, c.p.c. (in senso conforme Sez. 2, n. 17893/2018, D’Ascola, Rv. 649387-01; Sez. 2, n. 20714/2018, Besso Marcheis, Rv. 650013-01; Sez. 3, n. 6591/2019, Dell’Utri, Rv. 653251-01; Sez. 6-3, n. 337/2020, D’Arrigo, Rv. 656587-01; Sez. 6-L, n. 26089/2019, Cavallaro, Rv. 655428-01; Sez. 3, n. 8530/2020, De Stefano, Rv. 657812-01).

La pronuncia nomofilattica del 2017, innovando rispetto al precedente arresto del 2007, non esclude in radice la frazionabilità del credito, ma condiziona la proposizione separata di azioni relative a crediti riferibili al medesimo rapporto obbligatorio all’allegazione di un «interesse oggettivamente valutabile» (nello stesso senso v. Sez. 3, n. 17019/2018, Saija, Rv. 649441-02).

Ad avviso della dottrina della meritevolezza della tutela richiesta, tale interesse non è sovrapponibile all’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.

Infatti, l’interesse al frazionamento della pretesa non può ridursi al vantaggio giuridico perseguito attraverso la domanda giudiziale, dovendo, altresì, risultare conforme al principio, desumibile dagli artt. 1175 e 1375 c.c., che vieta l’abuso del diritto e del processo (in tal senso, in giurisprudenza, v. Sez. U, n. 9935/2015, Di Amato, Rv. 635325-01; Sez. 1, n. 5677/2017, Terrusi, Rv. 644656-01; Sez. 3, n. 21768/2019, Rossetti, Rv. 655030-01; Sez. 1, n. 30539/2018, Campese, Rv. 651878-01).

La sussistenza di un interesse meritevole sembra assumere rilevanza condizionante nella più recente Sez. 2 n. 29079/2019, Cosentino, Rv. 655360-01, secondo la quale in caso di accertamento dell’usucapione in danno di più proprietari, è inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione della sentenza di rigetto proposta, per violazione dell’integrità del contraddittorio, dal soccombente che abbia agito in giudizio senza convenirvi tutti i comproprietari e senza sollecitare al riguardo l’esercizio dei poteri officiosi del giudice, stante l’irrilevanza per lo stesso della non opponibilità della pronuncia ai litisconsorti necessari pretermessi e l’assenza di pregiudizio per i diritti di questi ultimi. Né è meritevole di tutela l’interesse ad un nuovo giudizio che si concluda con differente esito, traducendosi esso in un abuso del processo, oltre ad essere contrario al principio di ragionevole durata dello stesso ai sensi dell’art. 111 Cost.

Utili indicazioni sul tema si traggono, infine, da Sez. 6-2, n. 21971/2020, Oliva, Rv. 659397-01, la quale ha precisato che, in tema di contratti cui acceda la consegna di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, qualora il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione (giudiziale o di diritto) e il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell’intervenuto recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del doppio), avuto riguardo - oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed all’irrinunciabilità dell’effetto conseguente alla risoluzione di diritto - all’incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento: la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe infatti frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all’azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito - in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di abuso processuale - di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative.

  • esecuzione della pena

III)

LA FORMAZIONE PROGRESSIVA DEL GIUDICATO NELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ

(di Maria Elena Mele )

Sommario

1 Il coordinamento degli artt. 329, comma 2 e 336 c.p.c. - 2 La formazione del giudicato rispetto alle pronunce implicite. - 3 L’effetto espansivo interno del giudicato. - 4 Impugnazioni e preclusioni.

1. Il coordinamento degli artt. 329, comma 2 e 336 c.p.c.

L’individuazione dei criteri che regolano la formazione del giudicato a seguito della impugnazione parziale della sentenza e della conseguente acquiescenza tacita rispetto alle parti non impugnate costituisce un tema problematico sul quale anche nell’anno di riferimento la Corte di cassazione è intervenuta più volte.

Vi è, innanzitutto, il problema del coordinamento tra l’art. 329, comma 2 c.p.c. e l’art. 336 c.p.c. La prima disposizione disciplina l’istituto dell’acquiescenza tacita cd. qualificata, stabilendo che l’impugnazione parziale della sentenza importa acquiescenza alle parti di essa non impugnate. In tal modo il legislatore, attraverso una presunzione che opera a prescindere dalla volontà della parte acquiescete, ricollega alla impugnazione di una parte soltanto della decisione l’effetto di accettazione delle altre parti e il conseguente passaggio in giudicato formale delle medesime. Tale effetto, tuttavia, può verificarsi, solo in quanto le parti non impugnate siano indipendenti e scindibili rispetto a quelle impugnate. E infatti, l’art. 336 c.p.c. dispone che la riforma o cassazione parziale hanno effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti da quelle riformate o cassate (cd. effetto espansivo interno dell’impugnazione), rispetto alle quali, dunque, l’impugnazione parziale non determina acquiescenza.

Un primo problema attiene alla individuazione delle ipotesi in cui si verifica l’acquiescenza cui si riferisce l’art. 329 c.p.c. In via generale, Sez. 2, n. 02670/2020, Abete, Rv. 657090-01 ha chiarito che tale acquiescenza opera come preclusione rispetto ad un’impugnazione non ancora proposta, mentre nell’ipotesi in cui la sentenza sia già stata impugnata è possibile avvalersi soltanto di un’espressa rinunzia all’impugnazione stessa, da compiersi nelle forme e con le modalità prescritte dalla legge (in senso conforme si era già espressa Sez. L, n. 23529/2013, Fernandes, Rv. 628251-01).

Inoltre, Sez. 2, n. 21267/2020, Criscuolo, Rv. 659365-01 - conformemente a quanto affermato da Sez. 3, n. 12615/2017, De Stefano, Rv. 644402-01 - ha precisato che l’acquiescenza costituisce atto dispositivo del diritto di impugnazione e, quindi, indirettamente, del diritto fatto valere in giudizio, sicché la relativa manifestazione di volontà deve essere inequivoca e deve necessariamente provenire dal soggetto che di detto diritto possa disporre o dal procuratore munito di mandato speciale. In applicazione di tale principio, la Corte ha escluso che potesse assumere univoco significato di atto di acquiescenza una comunicazione tra uffici dell’amministrazione che richiamava soltanto una pregressa presupposta rinuncia all’impugnazione, in relazione alla quale nulla risultava dimostrato.

Si è inoltre affermato che il contegno della parte che, ai fini della determinazione della somma da precettare, detrae dall’importo riconosciuto in suo favore con la sentenza parziale quanto riconosciuto in favore della controparte con la sentenza definitiva, non implica acquiescenza a tale ultima sentenza, della quale è corretto tener conto ai fini della determinazione del saldo dei rapporti di dare e avere tra le parti cristallizzato nel precetto, non fosse altro che per prevenire l’eccezione di compensazione della parte precettata (Sez. 2, n. 07941/2020, Cosentino, Rv. 657592-01).

Nel caso di sentenza d’appello che dichiari la nullità della notificazione della citazione introduttiva del giudizio di primo grado e rimetta le parti al primo giudice ai sensi dell’art. 354 c.p.c., Sez. 6-2, n. 07041/2020, Scarpa, Rv. 657284-02 ha ritenuto che la riassunzione della causa davanti al giudice di primo grado quando siano ancora aperti i termini per l’impugnazione di detta statuizione non può essere considerata acquiescenza tacita, trattandosi di iniziativa riconducibile ad esigenze cautelative e, comunque, non incompatibile con la volontà di avvalersi di tale mezzo di impugnazione, e non preclude, alla medesima parte che abbia riassunto la causa davanti al giudice di primo grado, l’esperimento di ricorso incidentale tardivo, ai sensi dell’art. 334 c.p.c., avverso qualsiasi capo della sentenza medesima (v., in precedenza, Sez. U, n. 03331/2019, Conti R.G., Rv. 652848-01).

L’ulteriore questione posta dalla necessità di coordinamento degli artt. 329, comma 2 e 336 c.p.c. attiene alla individuazione della nozione di «parte» della sentenza, anche al fine di stabilire quale possa definirsi autonoma e sulla quale, ove non impugnata, si formi il giudicato. La giurisprudenza della S.C. identifica la «parte» della sentenza con sole le questioni, sia sostanziali che processuali, dotate di autonomia e indipendenza, restandone escluse le mere argomentazioni e le esposizioni di un’astratta tesi giuridica. Si è perciò ritenuto che la formazione della cosa giudicata su un capo della sentenza per mancata impugnazione può verificarsi solo con riferimento ai capi che siano completamente autonomi perché fondati su distinti presupposti di fatto e di diritto, sicché l’acquiescenza alle parti della sentenza non impugnata non si verifica quando queste si pongano in nesso consequenziale con altra e trovino in essa il suo presupposto (Sez. 2, n. 12649/2020, Giannaccari, Rv. 658277-01).

Sotto altro profilo è stato ribadito che, ai fini della individuazione delle questioni, di fatto o di diritto, suscettibili di giudicato interno se non censurate in appello, la locuzione giurisprudenziale “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto, sussumibile sotto una norma, cui il giudice ricolleghi un dato effetto giuridico. Ne consegue che, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di un apposito motivo d’impugnazione, quest’ultima, ove motivata in ordine anche ad uno soltanto di essi, riapre la cognizione del giudice dell’impugnazione sull’intera statuizione. Sez. 2, n. 08645/2020, Manna F., Rv. 657696-01 ha pertanto ritenuto che è da escludere la formazione di un giudicato interno sull’affermata inesistenza della notifica della citazione di primo grado, ancorché il relativo capo del dispositivo non sia stato oggetto d’una propria e autonoma censura allorquando la parte impugnante contesti i successivi effetti processuali che il giudice d’appello ne abbia tratto, atteso che, affinché il giudice possa ricostruire i fatti in maniera autonoma rispetto a quanto prospettato dalle parti e procedere ad una diversa loro qualificazione giuridica, non occorre un’apposita censura sugli uni o sull’altra, ma è sufficiente che sia contestato anche soltanto l’effetto finale che il giudice a quo ne abbia ricavato, rappresentando l’inesistenza - non diversamente dalla nullità di un atto processuale - una “qualificazione” giuridica che questi opera per trarne uno o più effetti concreti sui themata decidenda sostanziali e/o processuali.

2. La formazione del giudicato rispetto alle pronunce implicite.

Problematica è l’operatività dell’acquiescenza rispetto alle parti della sentenza contenenti pronunce implicite.

Tra queste particolare rilievo ha la questione concernente la giurisdizione allorché il giudice non si sia espressamente pronunciato in proposito e la parte appellante non abbia formulato al riguardo alcuna specifica doglianza.

A partire da Sez. U., n. 24883/2008, Merone, Rv. 604576-01, la Corte, discostandosi dal precedente orientamento, ha affermato che con riguardo alla rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, del difetto di giurisdizione, soltanto qualora sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito il giudice può rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione, operando la relativa preclusione anche in sede di legittimità. Nella pronuncia richiamata, la S.C. ha precisato che il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte in cui la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione delle sole decisioni che non contengono statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo alla ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito.

Tale interpretazione è stata costantemente ribadita dalla successiva giurisprudenza di legittimità.

Nell’anno di riferimento, Sez. U., n. 07454/2020, Conti, Rv. 657417-03 ha affermato che il giudicato implicito sulla giurisdizione si forma tutte le volte in cui la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione delle sole decisioni che non contengano statuizioni implicanti l’affermazione della giurisdizione, sicché la preclusione da giudicato non può scaturire da una pronuncia che non contenga alcuna statuizione sull’attribuzione o sulla negazione del bene della vita preteso, ma si limiti a risolvere questione giuridiche strumentali all’attribuzione del bene controverso. In applicazione del principio in fattispecie relativa ad una domanda di risarcimento danni per accessione invertita e occupazione illegittima, la Corte di cassazione ha escluso la presenza di un giudicato implicito sulla giurisdizione del giudice ordinario, rispetto alla domanda risarcitoria, nella sentenza non definitiva di primo grado, che si era limitata a ritenere non perfezionato un accordo di cessione volontaria dell’area occupata, senza esaminare la predetta domanda, neppure al fine di ritenere sussistente l’an della pretesa.

Deve, altresì, essere menzionata Sez. U, n. 08095/2020, Napolitano, Rv. 657587-01 la quale, muovendo da tale presupposto, ha ritenuto che il ricorso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, per motivi di giurisdizione, avverso le pronunce emesse dalla Corte dei conti, non trova ostacolo nella circostanza che tale questione non sia stata sollevata nelle precedenti fasi processuali, ricollegandosi l’effetto preclusivo al solo maturarsi del giudicato interno formatosi per la mancata impugnazione di una pregressa pronuncia resa esplicitamente sulla giurisdizione, ovvero sul merito, nel presupposto implicito della giurisdizione medesima.

Inoltre, secondo Sez. U, n. 23903/2020, Scarpa, Rv. 659289-01 in tema di danno erariale, ove la pronuncia di condanna emessa in primo grado a carico di due soggetti ritenuti solidalmente responsabili sia stata appellata per difetto di giurisdizione soltanto da uno di essi, deve ritenersi formato il giudicato implicito sulla sussistenza della giurisdizione del giudice adìto nei confronti del corresponsabile, stante il carattere scindibile dei rapporti giuridici, concretanti un’obbligazione solidale risarcitoria. Per tale ragione, il ricorso in cassazione per carenza di giurisdizione proposto dal coobbligato che non aveva sollevato la relativa questione nel grado di appello, deve essere dichiarato inammissibile.

Sez. U, n. 16458/2020, Scoditti, Rv. 658629-01 ha riconosciuto l’efficacia esterna del giudicato civile di condanna di un Comune al pagamento di un indennizzo per ingiustificato arricchimento in favore dei proprietari di una cava utilizzata dall’ente come discarica di rifiuti solidi sulla base di un accordo verbale mai formalizzato in una convenzione, riconoscendo portata di res iudicata all’implicita statuizione dell’esistenza della giurisdizione del giudice ordinario derivante dal giudicato sulla natura privatistica del rapporto intercorso e sulla carenza di esercizio di potere

Più in generale, Sez. 3, n. 25864/2020, Cirillo FM, Rv. 659785-01 ha ritenuto che alla mancata, specifica impugnazione della statuizione adottata dal giudice di merito - anche implicitamente ai fini della prescrizione - sulla natura, contrattuale o extracontrattuale, del titolo di responsabilità del convenuto, consegue il passaggio in giudicato, sul punto, della sentenza, non potendo il giudice dell’impugnazione, in conseguenza dell’effetto devolutivo dell’appello, qualificare autonomamente e diversamente tale titolo, al fine di ritenere in ipotesi applicabile un diverso termine prescrizionale (in senso conforme si era già espressa Sez. 3, n. 23871/2006, Varrone M., Rv. 594709-01).

3. L’effetto espansivo interno del giudicato.

La previsione dell’art. 336 c.p.c. - a mente del quale «la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata» - rende necessario stabilire cosa debba intendersi per «parte dipendente» della sentenza. Innanzitutto, allorché sia impugnata la premessa logica della decisione di una domanda, parte dipendente sarà la statuizione che dipenda da quella decisione. E ciò vale anche nel caso in cui tale premessa logica sia costituita da un mero elemento della fattispecie, ovvero da una questione preliminare di merito o da una questione pregiudiziale in senso tecnico o in senso logico. In questi casi, l’impugnazione della parte di sentenza condizionante comporta la devoluzione al giudice dell’impugnazione anche delle parti dipendenti le quali, dunque, saranno sottratte al giudicato. Tale devoluzione, tuttavia, è circoscritta nei soli limiti del condizionamento, e cioè solo nella misura in cui la diversa soluzione della questione pregiudicante sia in grado di incidere sulla decisione della questione dipendente.

In applicazione di tale principio Sez. 2, n. 12649/2020, Giannaccari, Rv. 658277-01 ha affermato che la formazione della cosa giudicata su un capo della sentenza per mancata impugnazione può verificarsi solo con riferimento ai capi che siano completamente autonomi perché fondati su distinti presupposti di fatto e di diritto, sicché l’acquiescenza alle parti della sentenza non impugnata non si verifica quando queste si pongano in nesso conseguenziale con altra e trovino in essa il loro presupposto.

Secondo Sez. 2, n. 08773/2020, Carbone, Rv. 657697-01 qualora la domanda di revocazione concerna una parte autonoma della sentenza d’appello, il relativo accoglimento determina, in aderenza alle regole dell’impugnazione parziale e dell’effetto espansivo interno, la rescissione di quella parte soltanto, nonché delle parti che dipendano dalla parte rescissa, mentre conservano la loro efficacia le parti autonome ed indipendenti; sicché, nel giudizio di cassazione pendente su queste ultime, la pronuncia di revocazione non fa cessare la materia del contendere.

In tema di spese processuali, Sez. 1, n. 14916/2020, Caradonna, Rv. 658671-01 ha ribadito che il potere del giudice d’appello di procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronunzia di merito adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, poiché gli oneri della lite devono essere ripartiti in ragione del suo esito complessivo, mentre in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle spese può essere modificata dal giudice del gravame soltanto se il relativo capo della sentenza abbia costituito oggetto di specifico motivo d’impugnazione (nello stesso senso v. Sez. 3, n. 27606/2019, Dell’Utri, Rv. 655640-01; Sez. 6-3, n. 01775/2017, Scrima, Rv. 642738-01).

4. Impugnazioni e preclusioni.

La formazione del giudicato è incisa anche dalle preclusioni che maturano nel giudizio di impugnazione, conseguenti all’onere imposto alle parti dagli artt. 329, 342, 346, 360 c.p.c. di coltivare le questioni.

Tali preclusioni condizionano i poteri del giudice come ribadito di recente da Sez. 3, n. 03896/2020, Valle, Rv. 657150-01 la quale ha riaffermato il principio (già espresso da Sez. 2, n. 25244/2013, Manna F., Rv. 628907-01) per cui il divieto di reformatio in peius costituisce conseguenza delle norme, dettate dagli artt. 329 e 342 c.p.c. in tema di effetto devolutivo dell’impugnazione di merito e di acquiescenza, che presiedono alla formazione del thema decidendum in appello, per cui, una volta stabilito il quantum devolutum, l’appellato non può giovarsi della reiezione del gravame principale per ottenere effetti che solo l’appello incidentale gli avrebbe assicurato e che, invece, in mancanza, gli sono preclusi dall’acquiescenza prestata alla sentenza di primo grado. Per tale ragione, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di secondo grado che, in assenza di impugnazione incidentale sul punto, aveva attribuito all’appellato delle “voci di spesa” non ricomprese nella somma già quantificata in suo favore dal tribunale, in accoglimento della sua domanda di rimborso di alcuni costi di bonifica di un immobile, sul presupposto che l’ammontare così liquidato fosse comunque inferiore a quello determinato dal giudice di prime cure e che venisse in rilievo semplicemente “una diversa incidenza degli specifici costi nell’ambito del complessivo importo riconosciuto”.

Analogamente, Sez. 6-3, n. 21504/2020, Gorgoni, Rv. 659565-01 ha cassato con rinvio la decisione impugnata che, in assenza di impugnazione incidentale sul punto e dopo avere dichiarato assorbito il motivo di appello formulato sul capo delle spese, aveva modificato, in violazione del principio sopra espresso, la statuizione sulle spese processuali di primo grado in senso sfavorevole per l’appellante.

In applicazione del medesimo principio, Sez. 3, n. 25877/2020, Porreca, Rv. 659855-01 ha affermato che, nell’ipotesi di rinvio c.d. prosecutorio alla corte d’appello - che si verifica quando la sentenza impugnata sia entrata nel merito della controversia, se del caso accogliendo la domanda risarcitoria e quantificando i danni - la corte territoriale, diversamente da quanto accade nel caso di rinvio c.d. improprio o restitutorio, soggiace al divieto di reformatio in peius, che costituisce conseguenza delle norme, dettate dagli artt. 329 e 342 c.p.c. in tema di effetto devolutivo dell’impugnazione di merito e di acquiescenza, che presiedono alla formazione del thema decidendum in appello, per cui, una volta stabilito il “quantum devolutum”, l’appellato non può giovarsi della reiezione del gravame principale per ottenere effetti che solo l’appello incidentale gli avrebbe assicurato e che, invece, in mancanza, gli sono preclusi dall’acquiescenza prestata alla sentenza di primo grado.

Con riguardo alla individuazione delle ipotesi in cui sussiste un onere di impugnazione specifico, rispetto a quelle in cui ricorre un onere di mera riproposizione di domande ed eccezioni non accolte, Sez. 3, n. 00121/2020, Olivieri, Rv. 656628-01 ha precisato che in caso di rigetto della domanda principale e conseguente omessa pronuncia sulla domanda condizionata di garanzia, la devoluzione di quest’ultima al giudice investito del gravame sulla domanda principale non richiede la proposizione di appello incidentale, essendo sufficiente la riproposizione della domanda, ai sensi dell’art. 346 c.p.c. (in senso conforme già Sez. 6-2, n. 832/2017, D’Ascola, Rv. 642557-01).

In ordine all’onere di riproposizione delle domande non accolte in primo grado, Sez. 6-3, n. 22311/2020, Dell’Utri, Rv. 659416-01 ha affermato che, mancando una norma specifica sulla forma nella quale l’appellante che voglia evitare la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c. deve reiterare le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, queste possono essere riproposte in qualsiasi forma idonea ad evidenziare la volontà di riaprire la discussione e sollecitare la decisione su di esse; tuttavia, pur se libera da forme, la riproposizione deve essere fatta in modo specifico, non essendo al riguardo sufficiente un generico richiamo alle difese svolte ed alle conclusioni prese davanti al primo giudice.

In applicazione di tale principio, Sez. 3, n. 25840/2020, D’Arrigo, Rv. 659852-01 ha cassato, decidendo nel merito, la decisione di appello, respingendo l’opposizione all’esecuzione, tenuto conto che gli originari opponenti nel costituirsi in appello, lungi dall’aver esposto compiutamente le ragioni dell’opposizione non decise al tribunale, non ne avevano fatto neppure sommario cenno nell’esposizione dei fatti di causa.

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CAPITOLO I

LA GIURISDIZIONE IN GENERALE E IL REGOLAMENTO PREVENTIVO DI GIURISDIZIONE

(di Angelo Napolitano )

Sommario

1 Premessa: la questione di giurisdizione - 2 La questione di giurisdizione e le preclusioni processuali al suo rilievo: l’orientamento precedente alle Sez. U. n. 24883/2008 - 3 Il regolamento preventivo di giurisdizione: il procedimento - 4 Il regolamento di giurisdizione e la translatio iudicii

1. Premessa: la questione di giurisdizione

La giurisdizione ben può essere definita come la misura della potestas iudicandi attribuita al giudice dall’ordinamento giuridico con riferimento alla cognizione di una controversia.

La questione di giurisdizione è strettamente connessa alla domanda di tutela di una situazione giuridica soggettiva attraverso un giudizio, sicché il momento determinante della giurisdizione coincide con quello della proposizione della domanda (art. 5 c.p.c.).

Si può affermare, pertanto, sul piano teorico, che, data una regiudicanda, ciascun giudice dell’ordinamento è, in astratto, munito del potere di deciderla, tant’è vero che se la decisione emessa nonostante il difetto di giurisdizione passasse in giudicato, essa farebbe “stato” ai sensi dell’art. 2909 c.c.

Tuttavia, il giudice adìto rispetto ad una controversia deve interrogarsi se essa possa essere decisa nel merito o se il potere di deciderla sia stato attribuito, in concreto, dall’ordinamento, al giudice di un diverso plesso giurisdizionale.

La disposizione che attribuisce al giudice ordinario il potere di definire in rito il giudizio nel caso in cui egli ritenga di non essere munito del potere di pronunciare una decisione di merito è l’art. 37 c.p.c.

La questione della sussistenza o meno in capo al giudice di un determinato plesso giurisdizionale del potere di definire nel merito la controversia portata alla sua cognizione può essere preventivamente sollevata dinanzi alle Sezioni Unite della S.C. da una delle parti in contesa, compreso colui che abbia scelto di instaurare la causa dinanzi a quel giudice.

Sul punto, infatti, Sez. U., n. 32727/2018, Lombardo, Rv. 65209601, hanno affermato che il regolamento preventivo di giurisdizione può essere proposto anche dall’attore, sussistendo, in presenza di ragionevoli dubbi sui limiti esterni della giurisdizione del giudice adìto, un interesse concreto ed immediato alla risoluzione della questione da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in via definitiva, per evitare che la sua risoluzione possa incorrere in successive modifiche nel corso del giudizio, ritardando la definizione della causa, anche al fine di ottenere un giusto processo di durata ragionevole.

Tuttavia, nel caso in cui l’attore abbia incardinato la causa dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel merito, egli non è legittimato ad interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto, in quanto non soccombente su tale autonomo capo della decisione (Sez. U., n. 22439/2018, Giusti, Rv. 650463-01).

Tale orientamento è stato ribadito anche in seguito.

Si è deciso, infatti, che, in tema di ricorso straordinario al Capo dello Stato, la parte ricorrente che abbia allegato, come indefettibile presupposto della domanda, la giurisdizione del giudice amministrativo, senza che l’intimato abbia esercitato l’opposizione ex art. 48 c.p.a., né abbia contestato la sussistenza di tale presupposto, eventualmente proponendo regolamento preventivo di giurisdizione, non può proporre ricorso per cassazione ex art. 111, comma 8, Cost. e art. 362 c.p.c. avverso il decreto del Presidente della Repubblica che abbia deciso il ricorso su conforme parere del Consiglio di Stato reso sull’implicito, o esplicito, presupposto della sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo allegato dalla parte stessa, sul punto non soccombente (Sez. U., n. 29081/2019, Perrino, Rv. 656057-01).

Tuttavia, il regolamento preventivo di giurisdizione è esperibile anche nell’ambito del procedimento attivato dal ricorso straordinario al Capo dello Stato.

Infatti, ove l’amministrazione intimata abbia proposto opposizione al ricorso ex art. 48 c.p.a., senza contestare la giurisdizione amministrativa, e il TAR l’abbia dichiarata inammissibile per tardività, rimettendo gli atti all’amministrazione per la prosecuzione del procedimento in sede straordinaria, il regolamento preventivo di giurisdizione, con il quale l’amministrazione deduca in tale sede l’insussistenza della giurisdizione amministrativa, presupposto indefettibile del ricorso straordinario al Capo dello Stato ex art. 7, comma 8, c.p.a., ben può essere proposto fino al momento della pronuncia del parere del Consiglio di Stato che, formando il contenuto sostanziale della conforme decisione giustiziale del Presidente della Repubblica, ne costituisce l’antecedente necessario e segna il momento preclusivo per far valere il difetto del presupposto della decisione (Sez. U., n. 1413/2019, Genovese, Rv. 652244-01).

Il rilievo della questione di giurisdizione potrebbe entrare in conflitto con il principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111, comma 2, Cost., considerata l’apparente assenza di preclusioni nel testo dell’art. 37 c.p.c.

Con riferimento ai tempi processuali entro i quali è possibile rilevare il difetto di giurisdizione del giudice adìto, l’art. 37 c.p.c. dispone che il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato anche d’ufficio in qualunque stato e grado del processo.

L’art. 37 c.p.c. indica tre diversi rapporti nei quali può venire in rilievo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario: A) Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione; B) Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti dei giudici speciali; C) Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice straniero (secondo l’art. 11 della legge n. 218 del 1995).

Il difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione ha, ormai, una scarsissima incidenza statistica.

Esso identifica l’improponibilità assoluta della domanda, in quanto si riferisce alla deduzione in giudizio di una questione sfornita del tutto di tutela giurisdizionale, in quanto il soggetto che agisce fa valere in giudizio un mero interesse di fatto, che non assume la sostanza né di diritto soggettivo, né di interesse legittimo.

A proposito del difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione, si è detto che esso solo formalmente appartiene al novero delle pronunce meramente processuali, ma sostanzialmente rappresenta un’ipotesi di rigetto nel merito della domanda per insussistenza della situazione giuridica di cui si è chiesta la tutela.

Il difetto assoluto di giurisdizione è stato ravvisato nel caso della proposizione, in sede civile, di una azione risarcitoria diretta contro un magistrato per fatti commessi nell’esercizio della funzione giudiziaria, in quanto essa, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 117 del 1988, e salva la previsione dell’art. 13 della detta legge, è improponibile, in quanto concernente un diritto non configurato in astratto a livello normativo dall’ordinamento. Pertanto, la questione integra la deduzione di difetto assoluto di giurisdizione, sindacabile in sede di regolamento preventivo di giurisdizione (o come motivo di ricorso ex art. 360, comma 1, n. 1 c.p.c.), poiché attiene al perimetro, in astratto delimitato dall’ordinamento, della cognizione giurisdizionale (Sez. U, n. 6690/2020, Vincenti, Rv. 657416-01).

Un’altra ipotesi in cui è stato ravvisato un peculiare difetto di giurisdizione è quello relativo ad una domanda relativa all’attribuzione e alla misura degli assegni vitalizi per gli ex parlamentari.

La S.C. ha ritenuto che una tale controversia, avendo ad oggetto un istituto che, in quanto proiezione economica dell’indennità parlamentare per la vita successiva all’espletamento del mandato, rientra nella normativa di diritto singolare prevista per il Parlamento e per i suoi membri a presidio della peculiare posizione di autonomia riconosciuta dagli artt. 64, comma 1, 66 e 68 Cost., è devoluta alla cognizione degli organi di autodichia, ed in relazione ad essa è, tuttavia, ammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione, quale strumento di carattere non impugnatorio diretto a verificare il fondamento costituzionale per l’esercizio del potere decisorio da parte dei predetti organi e, quindi ad accertare se esiste un giudice del rapporto controverso o se quel rapporto debba ricevere una definitiva regolamentazione domestica. Tale rimedio può essere utilizzato dalla stessa parte che ha scelto il giudice, allorché, alla stregua della natura della controversia e delle deduzioni del convenuto, abbia un interesse giuridicamente rilevante ad una preventiva soluzione della questione da parte delle Sezioni Unite, in ragione dell’eventualità che il giudice adìto possa declinare la giurisdizione, rendendo inutile l’attività processuale già svolta e frustrando l’attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo (Sez. U., n. 1720/2020, Tria, Rv. 656702-01).

Per Sez. U., n. 25211/2020, Tria, Rv. 659453-01, il presupposto per l’esperibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, nell’ambito della controversia sulla spettanza e sulla misura degli assegni vitalizi degli ex parlamentari, è lo svolgimento, da parte degli organi di autodichia della Camera, di una funzione obiettivamente giurisdizionale.

Ancora in relazione ai rapporti tra l’autorità giudiziaria ordinaria e plessi non giurisdizionali, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso per regolamento di giurisdizione sulla domanda risarcitoria proposta da una banca in amministrazione straordinaria nei confronti dei suoi commissari, sul presupposto del diniego di autorizzazione della Banca d’Italia alla proposizione dell’azione, ai sensi dell’art. 72, comma 9, del d.lgs. n. 385 del 1993, atteso, per un verso, che il regolamento preventivo di cui agli artt. 37 e 41 c.p.c. è dato soltanto per le questioni sulla giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della P.A. o dei giudici speciali o di quello straniero, e considerato, per l’altro verso, che, ove in una controversia tra privati, attinente a diritti soggettivi, il giudice ordinario debba vagliare situazioni che presentano aspetti di pubblico interesse o si trovi a scrutinare la legittimità di provvedimenti amministrativi, le questioni che insorgono circa i confini dei suoi poteri attengono al merito e non alla giurisdizione, investendo l’individuazione dei limiti interni posti dall’ordinamento alle attribuzioni del giudice ordinario. Pertanto, la valutazione degli effetti del diniego di autorizzazione della P.A. alla proposizione di una domanda risarcitoria nell’ambito di un giudizio al quale essa è estranea non coinvolge la giurisdizione, ma riguarda esclusivamente la proponibilità della domanda, non modificandone l’oggetto, né incidendo sui fatti costitutivi della pretesa (Sez. U., n. 30010/2019, De Stefano, Rv. 656070-01).

Le altre due ipotesi di difetto di giurisdizione, quello nei confronti dei giudici che non appartengono all’ordine giudiziario e quello nei confronti dei giudici stranieri, invece, sono quelle davvero rilevanti dal punto di vista della prassi giudiziaria.

Con riferimento ai rapporti tra diverse giurisdizioni all’interno dell’ordinamento nazionale, ed in particolare con riguardo al deferimento a collegio arbitrale, mediante convenzione stipulata nella vigenza dell’art. 6, comma 2, della legge n. 205 del 2000, di controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la Suprema Corte ha chiarito che si pone una questione di rapporto tra le differenti giurisdizioni, ordinaria e speciale, e non una questione di merito circa la validità della compromissione in arbitrato della controversia. Pertanto, deve essere applicato, ai sensi dell’art. 5 c.p.c., il sopravvenuto art. 12 del d.lgs. n. 104 del 2010, che generalizza la possibilità di risolvere mediante arbitrato rituale le predette controversie, con conseguente ravvisabilità della giurisdizione degli arbitri (Sez. U., n. 27847/2019, Bruschetta, Rv. 655590-01).

D’altra parte, difetta dei presupposti per la proposizione del regolamento di competenza, ai sensi dell’art. 43 c.p.c., l’impugnazione della decisione che non abbia avuto ad oggetto la ripartizione interna della competenza tra i giudici ordinari, bensì una questione di ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice speciale. È altresì inammissibile il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione contro una sentenza di primo grado, quale istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, essendo maturata la preclusione di cui all’art. 41 c.p.c., né può essere preso in esame come ricorso ordinario avverso una sentenza appellabile, poiché il ricorso “per saltum” è ammesso solo per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, se le parti sono d’accordo per omettere l’appello, e giammai per motivi di giurisdizione (Cass., sez. 6-5, n. 8303/2020, Russo, Rv. 658467-01).

Il regolamento preventivo di giurisdizione è ammissibile anche avverso le decisioni del giudice amministrativo rese nel giudizio di ottemperanza, trattandosi di procedimento a natura non esclusivamente esecutiva, giacché il giudice amministrativo gode, in sede di ottemperanza, di poteri cognitivi che implicano la potestà di interpretare, integrare e precisare, pur se entro determinati limiti, il dictum del giudice della cognizione, senza che assuma rilievo il consolidamento della giurisdizione nell’ambito del giudizio presupposto, che ha avuto un oggetto diverso (Sez. U., n. 4880/2019, Acierno, Rv. 652853-01).

La proposizione del regolamento di giurisdizione non è impedita dalla pronuncia di un’ordinanza cautelare da parte del giudice amministrativo, atteso che il provvedimento cautelare, destinato a perdere efficacia per effetto della sentenza di merito, non assume carattere decisorio e non statuisce sulle posizioni soggettive con la forza dell’atto giurisdizionale idonea ad assumere autorità di giudicato, neppure in punto di giurisdizione (Sez. U., n. 12864/2020, Perrino, Rv. 658057-01).

A seguito dello scioglimento della riserva assunta all’esito della prima udienza, il giudice amministrativo può sollevare conflitto di giurisdizione (nonostante che nel riservarsi non abbia manifestato alle parti l’intenzione di pronunciarsi al riguardo, esternando dubbi in proposito, né abbia indicato la questione di giurisdizione, dandone atto a verbale, ex art. 73, comma 3, c.p.a.), interpretato alla luce dei princìpi del giusto processo, ex artt. 2 c.p.a. e 111 Cost., essendo comunque garantita la finalità, da un lato, di evitare alle parti del giudizio riproposto ogni inutile dispendio di attività processuale e, dall’altro, di onerare il giudice amministrativo ad quem di evidenziare immediatamente le ragioni del proprio eventuale dissenso, provocando l’intervento risolutore delle sezioni unite della Suprema Corte (Sez. U., n. 23904/2020, Scarpa, Rv. 659165-01).

Tuttavia, in una fattispecie in cui il conflitto negativo di giurisdizione era stato formalmente sollevato dal giudice amministrativo all’esito della seconda udienza dopo la riassunzione in seguito a declinatoria del giudice ordinario, si è affermato che l’art. 11, comma 3, c.p.a., che consente al giudice amministrativo, davanti al quale la causa sia stata riassunta, di sollevare anche d’ufficio il conflitto negativo di giurisdizione “alla prima udienza”, deve essere inteso nel senso che il limite temporale entro il quale il conflitto può essere sollevato è dato dall’udienza di discussione, fissata ai sensi dell’art. 71 c.p.a., ove ha luogo la reale trattazione e decisione della causa, intendendo il legislatore evitare, con la previsione di tale barriera, che la questione di giurisdizione si trascini oltre la soglia di ingresso del giudizio (Sez. U, n. 23749/2020, Scarpa, Rv. 659455-01).

Nel giudizio tempestivamente riproposto dinanzi al giudice amministrativo a seguito di declinatoria di giurisdizione del giudice ordinario, il Consiglio di Stato, in sede di appello, può sollevare d’ufficio il conflitto negativo dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, purché sia osservato, a pena di inammissibilità, il limite temporale costituito dalla prima udienza fissata per la trattazione del merito, ai sensi dell’art. 59, comma 3, della l. n. 69 del 2009 e dell’art. 11, comma 3, del d.lgs. n. 104 del 2010, disposizioni applicabili anche qualora il giudizio di primo grado si sia svolto prima della loro entrata in vigore, in ossequio al principio tempus regit actum (Sez. U., n. 1611/2020, Perrino, Rv. 656701-01).

Ancora con riferimento ai giudici speciali, la S.C. ha recentemente affermato che nel giudizio per resa del conto dinanzi alla Corte dei Conti, la notifica all’agente contabile dell’intimazione a rendere il conto e del decreto di fissazione della pubblica udienza, in caso di mancata presentazione del conto nel termine, nonché la notifica delle “decisioni interlocutorie della Corte contenenti osservazioni sul conto”, non precludono il regolamento preventivo di giurisdizione, trattandosi di provvedimenti aventi portata esclusivamente istruttoria non suscettibili di passaggio in giudicato, finalizzati a provocare il contraddittorio, abilitando l’agente ad esercitare il diritto di difesa e a contestare la veste di agente contabile, senza implicare una decisione sulla giurisdizione né sul merito (Sez. U., n. 7640/2020, Scrima, Rv. 657523-01).

Con riferimento ai rapporti con il giudice straniero, il quadro normativo, rispetto all’originario testo dell’art. 37 c.p.c., è radicalmente mutato in seguito alla legge n. 218 del 1995, ed in particolare in seguito al regolamento comunitario n. 44 del 2001.

Quanto al rapporto tra la legge n. 218 del 1995 e le fonti unionali incidenti sulla giurisdizione, è da segnalare Sez. U. n. 12585/2019, Virgilio, Rv. 653932-01 che hanno affermato che la clausola di deroga della giurisdizione, stipulata ai sensi dell’art. 25 del Regolamento UE n. 1215 del 2012, è valida anche nel caso in cui riguardi una controversia relativa a diritti indisponibili, non potendo prevalere sulla disciplina di fonte unionale l’art. 4, comma 2, della legge n. 218 del 1995, il quale, nel prevedere un’ipotesi di inderogabilità convenzionale non contemplata dalla prima, ne pregiudica “in parte qua” l’applicazione, in contrasto con i caratteri di diretta applicabilità e cogenza e con la finalità di unificazione delle norme nazionali in materia, ad essa attribuiti dai “considerando” 4 e 6 del citato regolamento.

Ancora in tema di rapporti tra giurisdizione nazionale e giudice straniero, si è chiarito che non è esperibile e deve essere dichiarato inammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione nel caso di conflitto fra clausole di proroga della giurisdizione che attribuiscano la competenza a giudici di paesi diversi dell’Unione europea, relativamente a controversie in cui sussista una ipotesi di litispendenza o connessione, qualora il giudice straniero sia stato preventivamente adìto in base a una clausola di attribuzione esclusiva della giurisdizione rispetto al giudice italiano successivamente adìto anch’esso in base a una clausola attributiva in via esclusiva della giurisdizione (Sez. U., n. 12638/2019, Bisogni, Rv. 653936-02).

Sulla stessa linea, si è affermato recentemente che in presenza di una clausola di proroga della giurisdizione, nel caso in cui siano promosse più cause in rapporto di litispendenza davanti a giudici di Stati diversi, e dovendosi applicare l’art. 27 della Convenzione di Lugano, firmata il 30 ottobre 2007 (approvata anche dalla Comunità Europea con decisione del Consiglio 2009/430/CE del 27 novembre 2008), è il giudice preventivamente adìto a dover verificare l’esistenza della clausola e, con essa, l’effettiva pattuizione di una competenza giurisdizionale esclusiva, mentre l’altro giudice, nell’attesa di tale statuizione, deve sospendere d’ufficio il proprio procedimento, non potendo adottare alcuna statuizione sulla competenza giurisdizionale, sicché, ove sia successivamente adìto il giudice italiano, nel processo pendente dinanzi a quest’ultimo non è consentita neppure la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione (Sez. U., n. 12865/2020, Perrino, Rv. 658084-02).

Proprio in applicazione di tale principio, la S.C. ha affermato che nell’ipotesi di contemporanea pendenza, dinanzi a giudici di diversi paesi dell’Unione europea, di due giudizi di divorzio o separazione personale dei coniugi, il giudice italiano che sia stato successivamente adìto è tenuto, ai sensi dell’art. 19 del regolamento CE n. 2201 del 2003, a sospendere il procedimento fino all’accertamento della competenza dell’autorità giurisdizionale preventivamente adìta, di modo che, nel processo dinanzi a lui pendente, è inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione (Sez. U., n. 19665/2020, Acierno, Rv. 658927-01).

Inoltre, il regolamento preventivo di giurisdizione non può essere utilizzato per contestare l’attribuzione della cognizione di una domanda giudiziale ad un foro rispetto ad un altro appartenente ad uno stesso plesso giurisdizionale nazionale. Sicché, nell’ipotesi di clausola contrattuale che, ai fini della determinazione della giurisdizione del giudice di un singolo Stato, indichi anche lo specifico foro di quello Stato presso il quale deve svolgersi la causa, il rimedio esperibile per contestare l’azione proposta davanti ad un foro diverso, appartenente tuttavia allo stesso ordinamento nazionale, non è il regolamento di giurisdizione, poiché la prospettazione integra una questione di competenza territoriale che deve essere fatta valere nei termini e nei modi della legge processuale del giudice che ha la giurisdizione, senza che, in assenza di una sentenza sulla competenza, il ricorso per regolamento di giurisdizione sia suscettibile di conversione in ricorso per regolamento di competenza (Sez. U., n. 5195/2019, Campanile, Rv. 652861-01).

Tra le novità più rilevanti portate dalla legge n. 218 del 1995, deve ricordarsi che ai sensi degli artt. 64 e 65 è ormai sancita la regola in base alla quale le sentenze delle autorità straniere sono immediatamente efficaci senza bisogno della cd. “delibazione”.

Inoltre, il difetto di giurisdizione del giudice italiano nei confronti del giudice straniero non è più rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, ma lo è solo in tre casi: se il convenuto è contumace; se la causa ha ad oggetto azioni reali relativi a beni immobili che si trovano all’estero; se il difetto di giurisdizione è previsto da trattati internazionali.

Al di fuori di queste ipotesi, il difetto di giurisdizione deve essere eccepito dal convenuto nel suo primo atto difensivo e, se questi non propone l’eccezione, il giudice non potrà declinare la giurisdizione.

2. La questione di giurisdizione e le preclusioni processuali al suo rilievo: l’orientamento precedente alle Sez. U. n. 24883/2008

Uno dei problemi più dibattuti in tema di giurisdizione è quello della portata della previsione, contenuta nell’art. 37 c.p.c., secondo cui il difetto di tale presupposto processuale è rilevabile in ogni stato e grado del processo.

Prima della pronuncia delle Sez.U. n. 24883/2008, la giurisprudenza si era attestata sul seguente criterio: se il giudice decide sul merito nulla dicendo circa la giurisdizione, l’impugnazione solo sul merito devolve al giudice superiore il potere di rilevare d’ufficio la questione di giurisdizione, fermo restando il potere della parte soccombente di eccepirne il difetto.

Ne deriva, innanzitutto, che la decisione sulla giurisdizione sottrae la questione al rilievo di ufficio, attivando il meccanismo di cui all’art. 329, comma 2, c.p.c.: la decisione con cui il giudice conferma la propria giurisdizione può essere contrastata soltanto con l’impugnazione del relativo capo di pronuncia.

In secondo luogo, se la decisione sul merito passa in giudicato, l’esistenza del potere giurisdizionale in capo al giudice che l’ha pronunciata non può più essere messa in discussione.

Con la sentenza a Sez. U., n. 24883/2008, Merone, Rv. 604576-01, la S.C. ha stabilito, invece, che l’interpretazione dell’art. 37 cod. proc. civ., secondo cui il difetto di giurisdizione “è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”, deve tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo (“asse portante della nuova lettura della norma”), della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli. All’esito della nuova interpretazione della predetta disposizione, volta a delinearne l’ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, ne consegue che: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 38 cod. proc. civ. (coincidente con la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito. In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo all’ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito “per saltum”, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito.

Una particolare declinazione degli esposti princìpi la si trova in Sez. U., n. 04997/2018, Lombardo, Rv. 647166-02, secondo cui “le sentenze di merito che statuiscono sulla giurisdizione sono suscettibili di acquistare autorità di giudicato esterno, sì da spiegare i propri effetti anche al di fuori del processo nel quale siano state rese, solo in quanto in esse la pronuncia sulla giurisdizione, sia pure implicita, si coniughi con una di merito, fermo restando che tale efficacia presuppone il passaggio in giudicato formale delle sentenze stesse ed è limitata a quei processi che abbiano per oggetto cause identiche, non solo soggettivamente ma anche oggettivamente, a quelle in cui si è formato il giudicato esterno”. Nella specie, la S.C. ha escluso che la sentenza del TAR, con la quale era stato dichiarato inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso proposto dal privato avverso un provvedimento comunale, avesse determinato un giudicato esterno esplicito sulla giurisdizione.

Ed ancora, sul rapporto logico di presupposizione dell’esistenza del potere giurisdizionale in una pronuncia di rito, è paradigmatico l’arresto di Sez. U., n. 04361/2018, Scarano, Rv. 647315-01: “la decisione sulla competenza presuppone l’affermazione, quantomeno implicita, da parte del giudice investito della causa, della propria giurisdizione, sicché, attribuita la competenza, in sede di regolamento, ad un giudice, quest’ultimo non può successivamente negare la sua giurisdizione”.

Al di là della tenuta, sul piano logico formale, della svolta interpretativa delle Sezioni Unite, ed al di là dell’aderenza di tale svolta al testo dell’art. 37 c.p.c., ciò che emerge nettamente dal percorso motivazionale tracciato dalla S.C. è la dichiarata volontà di dare all’art. 37 c.p.c. una lettura che favorisca, al di fuori di una esplicita doglianza di parte in sede di impugnazione, la stabilizzazione della sentenza di merito nell’ottica di un processo che abbia anche una ragionevole durata, e che dunque non rischi, dopo il primo grado, di essere “azzerato” pur in mancanza del rilievo del difetto di giurisdizione da parte del primo giudice o di una impugnazione della parte in punto di giurisdizione.

Secondo le citate Sezioni Unite, l’art. 37, comma 1, c.p.c., nell’interpretazione tradizionale, basata sulla lettera della legge, non realizza un corretto bilanciamento dei valori costituzionali in gioco e produce una ingiustificata violazione del principio della ragionevole durata del processo e dell’effettività della tutela (artt. 24 e 111 Cost.).

Nel solco di tale interpretazione dell’art. 37 c.p.c. coordinata con il principio della ragionevole durata del processo, si pone la recente Cass., sez. 5, n. 25493/2019, Perrino, Rv. 655411-01, che ha affermato che nel processo tributario, la mera prospettazione della questione di giurisdizione (contenuta nel ricorso per cassazione avverso la sentenza della CTR che abbia inammissibilmente rilevato d’ufficio il difetto della giurisdizione implicitamente affermata dalla decisione di primo grado) consente alla Corte di cassazione di accertare il consolidamento in capo al giudice tributario della “potestas iudicandi” per effetto della formazione, a suo beneficio, di un giudicato implicito sulla relativa attribuzione e, quindi, senza che venga statuita la cogenza di quest’ultima alla stregua del quadro normativo, ponendosi d’ostacolo, in sede di legittimità, soltanto la pronuncia di secondo grado che decida, ancorché implicitamente, sull’esistenza o meno del giudicato interno, rimovibile solo per effetto di una espressa impugnazione.

In (almeno apparente) controtendenza, Sez. U., n. 23899/2020, Rubino, Rv. 659456-01 hanno affermato che la possibilità di proporre ricorso per cassazione, deducendo la configurabilità dell’ipotesi dell’eccesso di potere giurisdizionale da parte di un giudice speciale (nella specie, la Corte dei Conti), non è in alcun modo preclusa dall’accettazione della giurisdizione sul merito della controversia, derivante dal non aver sollevato la relativa questione nei gradi di merito.

3. Il regolamento preventivo di giurisdizione: il procedimento

Il regolamento preventivo di giurisdizione può essere definito come lo strumento per poter sollevare, prima ancora di qualsiasi decisione, la questione dell’esistenza della potestas iudicandi in capo al giudice adìto.

Si tratta di un rimedio preventivo attraverso il quale si sottopone alla Corte di Cassazione l’esame della questione di giurisdizione, allo scopo di evitare che si proceda in un giudizio relativo ad una controversia o ad un “affare” con riferimento al quale il giudice adìto sia privo di giurisdizione.

Il problema maggiore che la disposizione dell’art. 41, comma 1, c.p.c. ha sempre posto è quello del termine entro il quale esso può essere proposto.

Il punto fermo era che sia la sentenza di merito, non definitiva, sia la pronuncia di una sentenza definitiva di rito precludevano la proponibilità del regolamento preventivo.

Ne derivava, ad esempio, che non si riteneva preclusiva della proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione la sentenza che si fosse limitata ad affermare la giurisdizione in capo al giudice adìto.

Il regolamento preventivo di giurisdizione, e l’esigenza, sottesa a tale strumento processuale, che il dubbio sull’esistenza della potestas iudicandi in capo al giudice adìto sia sciolto in limine litis, e comunque prima che quest’ultimo si pronunci sul merito della domanda o definisca il giudizio in rito, si aggancia all’art. 65 dell’ordinamento giudiziario (r.d. n. 12 del 1941), a norma del quale la Corte Suprema di Cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni.

La pronuncia della S.C. resa in sede di regolamento preventivo di giurisdizione ha efficacia cd. panprocessuale: vale per tutti i processi.

Quindi, anche se il processo a quo si estingue e si instaura un nuovo processo tra le stesse parti, l’efficacia della pronuncia delle Sezioni Unite resta vincolante.

Questa regola è stata “codificata” nell’art. 59, comma 1, della l. n. 69 del 2009, a norma del quale la pronuncia sulla giurisdizione, resa dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, è vincolante per ogni giudice ordinario o speciale e per le parti anche in un altro processo.

Sull’efficacia vincolante della pronuncia sulla giurisdizione sono recentemente intervenute le Sez. U. n. 11161/2019, Genovese, Rv. 653897-01, che hanno affermato che per il principio del ne bis in idem, secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, l’efficacia panprocessuale delle pronunce della Suprema Corte sulla giurisdizione non si realizza soltanto quando la nuova domanda sia proposta in termini identici sotto tutti i profili della struttura dell’azione (personae, causa petendi e petitum), ma anche quando il petitum sostanziale della nuova domanda sia identico a quello della domanda già proposta, con la conseguenza che il regolamento preventivo di giurisdizione, proposto nel nuovo processo ex art. 41 c.p.c., è inammissibile.

Un arresto fondamentale nell’evoluzione interpretativa dell’art. 41, comma 1, Cost., è stato quello di Sez. U., n. 04218/1996, Finocchiaro, Rv. 497431-01, che, argomentando dalla formulazione dell’art. 367 c.p.c. in seguito alla legge n. 353 del 1990, e dalla impossibilità di configurare una sospensione automatica dei termini di impugnazione della sentenza emessa dal giudice a quo per effetto della proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione, hanno concluso per la non proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione dopo che il giudice abbia emesso una qualsiasi decisione nel corso del processo di merito.

La proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione è preclusa nell’ipotesi in cui il giudice abbia emesso un provvedimento non modificabile o revocabile in tema di giurisdizione, sicché tale preclusione non opera allorché egli abbia statuito sulla giurisdizione “allo stato degli atti”, con l’ordinanza contenente il rinvio per la precisazione delle conclusioni, la quale non concreta una delibazione sulla giurisdizione insuscettibile di ripensamento (Sez. U., n. 1605/2020, Oricchio, Rv. 656794-03).

Lungo questa linea interpretativa, si è affermato che il regolamento preventivo di giurisdizione è inammissibile dopo che il giudice del merito abbia emesso una sentenza, anche solo limitata alla giurisdizione o ad altra questione processuale, poiché in tal caso la decisione sul punto va rimessa al giudice di grado superiore, atteso che l’art. 367 c.p.c., prevedendo la sospensione del processo ad opera del giudice davanti al quale pende la causa in caso di proposizione del ricorso per regolamento di giurisdizione, postula che il ricorso per regolamento venga proposto prima che il giudice di primo grado abbia definito il giudizio davanti a sé (Sez. U., n. 10083/2020, Cosentino, Rv. 657735-01).

Di converso, non osta alla proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione la circostanza che il giudice abbia provveduto nella fase cautelare di un’azione di enunciazione, sia pure risolvendo in senso affermativo o negativo una questione attinente alla giurisdizione, giacché il provvedimento reso sull’istanza cautelare non costituisce sentenza (Sez. U., n. 19667/2020, Di Marzio, Rv. 658851-01).

L’istanza di regolamento preventivo si propone con ricorso a norma degli artt. 364 e ss. c.p.c., e produce gli effetti di cui all’art. 367 c.p.c.

Sez. U., n. 22433/2018, Genovese, Rv. 650459-01 hanno chiarito che il regolamento preventivo di giurisdizione è ammissibile anche in pendenza del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, poiché l’adozione del provvedimento monitorio non costituisce decisione nel merito ai sensi dell’art. 41 c.p.c.

Con riferimento all’attivabilità dello strumento processuale previsto dall’art. 41 c.p.c. nel caso in cui la lite pendente sia soggetta alla giurisdizione del giudice straniero, la Suprema Corte, in relazione alla richiesta di una parte processuale con sede in Italia di stabilire la giurisdizione in presenza di un patto contrattuale teso a devolvere ad un arbitrato straniero la lite promossa in via monitoria nei suoi confronti davanti al giudice italiano, ha chiarito che nel sistema di diritto internazionale privato disciplinato dalla legge n. 218 del 1995, l’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione proposta dal convenuto residente o domiciliato in Italia è sempre ammissibile, purché l’istante dimostri l’esistenza di uno specifico interesse a ricorrere a questo specifico strumento al fine di escludere la giurisdizione nazionale davanti alla quale sia stato convenuto. In tal caso, qualora, in pendenza del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, in seguito all’esperimento del regolamento preventivo di giurisdizione, sia stato dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice nazionale, si determina una improseguibilità del giudizio di merito, in quanto il giudice italiano, pure avendo avuto il potere di adottare il provvedimento poi opposto, non ha più quello di decidere la relativa controversia, se non limitandosi a dichiarare la nullità del ridetto decreto monitorio. (Sez. U., n. 22433/2018, Genovese, Rv. 650459-02, Rv. 650459-03)

Con riferimento alla giurisdizione del giudice italiano, Sez. U., n. 29879/2018, Giusti, Rv. 651441-01 hanno affermato che il regolamento preventivo di giurisdizione di cui all’art. 41 c.p.c., per sollevare una questione concernente il difetto di giurisdizione del giudice italiano, è ammissibile non solo allorché il convenuto nella causa di merito sia domiciliato o residente all’estero, ma anche quando lo stesso, pur domiciliato o residente in Italia, contesti la giurisdizione italiana in forza di una deroga convenzionale a favore di un giudice straniero o di un arbitrato estero.

Sez. 6-3, n. 20045/2018, De Stefano, Rv. 650292-01 ha chiarito che il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione non si sottrae alle regole generali del giudizio di legittimità, e pertanto deve essere sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato munito di valida procura speciale.

Nel procedimento per la pronuncia sull’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, la querela di falso “incidentale” può essere proposta solo se la parte, tramite il difensore, abbia chiesto di essere sentita in funzione di tale proposizione prima della convocazione della camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., restando invece inammissibile nell’ipotesi in cui la richiesta sia stata formulata il giorno stesso dell’adunanza e la querela sia stata contestualmente depositata, atteso che il predetto procedimento non tollera dilazioni o ritardi nella definizione del regolamento; né, per effetto di tale interpretazione del contesto normativo di riferimento, si determina una lesione del diritto di difesa, restando impregiudicata per la parte la possibilità di proporre la querela di falso in via principale (Sez. U., n. 1605/2020, Oricchio, Rv. 656794-01).

Come si diceva poc’anzi, il codice di rito, con l’art. 41, ha inteso forgiare uno strumento per la risoluzione preventiva della questione di giurisdizione. Coerentemente, dunque, Sez. U., n. 14435/2018, De Stefano, Rv. 648947-01 hanno dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto contro una sentenza del TAR declinatoria della giurisdizione, in quanto essa è impugnabile soltanto con l’appello dinanzi al Consiglio di Stato, ai sensi degli artt. 9, 100 e 105 del d.lgs. n. 104 del 2010, non potendo essere convertito, il detto ricorso, né in regolamento preventivo di giurisdizione, né in denuncia di conflitto reale di giurisdizione, in mancanza, per quest’ultima ipotesi, di una previa declinatoria di giurisdizione anche di un altro giudice.

A norma dell’art. 367, comma 1, c.p.c., dopo che una copia del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, notificata alle altre parti, è depositata nella cancelleria del giudice davanti al quale pende la causa, quest’ultimo può sospendere il processo se non ritiene l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata.

Prima della novella recata con l. n. 353 del 1990, il cui art. 61 ha riformulato il comma 1 della disposizione citata, la sospensione del giudizio di merito era una conseguenza necessaria ed automatica della proposizione dell’istanza di regolamento.

Ora, dunque, in seguito all’art. 61 della legge n. 353 del 1990, che ha riformulato il primo comma dell’art. 367 c.p.c., potrebbe accadere che, proposta istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, la definizione del giudizio di merito preceda la decisione della Suprema Corte.

Sul punto, Sez. U., n. 11576/2018, Campanile, Rv. 648273-01 hanno deciso che l’emissione della sentenza ad opera del giudice di merito non determina la carenza d’interesse alla decisione della Corte di Cassazione sul regolamento preventivo di giurisdizione proposto anteriormente ad essa, dovendosi considerare la decisione del giudice di merito come pur sempre condizionata al riconoscimento della giurisdizione all’esito della definizione del regolamento.

Quanto ai limiti oggettivi del giudicato sulla giurisdizione, la S.C. ha affermato che il giudicato interno, conseguente alla statuizione sul regolamento preventivo di giurisdizione, adottata con esclusivo riferimento alla domanda principale, senza operare alcuna distinzione rispetto alle domande subordinate o accessorie, pur potendo la pronuncia interessare anche queste ultime, preclude ogni successiva contestazione attinente alla giurisdizione, anche se relativa alle domande subordinate o accessorie in precedenza non esaminate (Sez. U., n. 12479/2020, De Stefano, Rv. 658037-01).

La Suprema Corte ha avuto anche modo di pronunciarsi sui limiti soggettivi di efficacia delle sue decisioni rese in sede di regolamento preventivo di giurisdizione.

In particolare, Sez. U., n. 06929/2018, De Stefano, Rv. 647661-01 hanno chiarito che il giudicato sulla giurisdizione, formatosi all’esito di una istanza di regolamento proposta nell’ambito di un giudizio su cause inscindibili (perché le domande sono avvinte da un legame di connessione teleologica o dall’identità della causa petendi), è irretrattabile per tutte le parti del processo nel cui ambito detto giudicato si è formato, le quali sono litisconsorti necessari nel procedimento ex art. 41 c.p.c., ma non vincola anche coloro che sono intervenuti nel medesimo giudizio dopo la formazione del giudicato, che, pertanto, a differenza dei primi, possono ancora sollevare la questione di giurisdizione, anche facendo valere il successivo mutamento di giurisprudenza sulla materia (nel caso di specie, la Corte ha era stata chiamata a regolare la giurisdizione della Corte dei Conti in un giudizio di responsabilità per danni cagionati nella gestione di una società a partecipazione pubblica non in house providing).

Con riferimento all’istanza di regolamento preventivo proposta nell’ambito del giudizio amministrativo, Sez. U., n. 04899/2018, Frasca, Rv. 647563-01 hanno stabilito che essa può essere proposta con ricorso notificato prima dell’udienza di discussione, essendo tale udienza indefettibile nell’ambito del procedimento decisorio delineato dall’art. 73 del d.lgs. n. 104 del 2010.

Constando il procedimento per cassazione della notifica del ricorso e, successivamente, del suo deposito, si è posto il problema di quando possa essere definito come proposta l’istanza di regolamento preventivo di competenza ai fini della sua ammissibilità.

Sul punto, si segnala Sez. U., n. 04997/2018, Lombardo, Rv. 647166-01, che hanno deciso che ai fini della verifica della proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione nella pendenza del giudizio di primo grado, e della sua conseguente ammissibilità, assume rilievo la data della notifica e non del deposito del ricorso ad esso finalizzato.

Dal momento che, anche sotto la spinta del diritto comunitario, le funzioni pubbliche non sono più sempre esercitate da soggetti formalmente pubblici, si è stabilito che il regolamento preventivo di giurisdizione è ammissibile anche in un giudizio che si svolga fra privati, in quanto la mera qualità soggettiva delle parti non è più un criterio discriminante assoluto per stabilire l’ammissibilità del detto strumento. Al contrario, per verificare l’ammissibilità del ricorso preventivo di giurisdizione, occorre esaminare se il petitum e la causa petendi così come prospettati in giudizio, possano, effettivamente ed in concreto, porre il dubbio sulla giurisdizione.

Con riferimento al termine ultimo per la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione, Sez. U., n. 02144/2018, Giusti, Rv. 647037-01 hanno chiarito che la preclusione alla proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione, prevista dall’art. 41, comma 1, c.p.c., di regola si verifica non al momento della pubblicazione del provvedimento decisorio di merito di primo grado, ma da quello, precedente, in cui la causa viene trattenuta in decisione. Tuttavia, qualora il giudice, dopo aver trattenuto la causa in decisione assegnando i termini per le scritture conclusionali, sospenda il processo ai sensi dell’art. 367 c.p.c., tale termine finale non opera, posto che, in questo caso, per effetto del provvedimento di sospensione, la pronuncia sul regolamento recupera la funzione di consentire una sollecita definizione della questione di giurisdizione, nonostante che l’istanza di regolamento sia stata proposta dopo la rimessione della causa in decisione.

Si tratta di un’applicazione del principio della ragionevole durata del processo, che “consiglia” (o, per meglio dire, “impone”) alla Suprema Corte di eliminare il dubbio sollevato sulla giurisdizione, che comunque potrebbe essere riprospettato in appello, ed eventualmente in Cassazione tramite gli ordinari mezzi di impugnazione, una volta che il processo sospeso riprendesse in seguito ad un eventuale pronuncia di inammissibilità dello strumento preventivo e giungesse fino a sentenza definitiva di merito.

4. Il regolamento di giurisdizione e la translatio iudicii

Per lungo tempo la pronuncia declinatoria di giurisdizione era uno spettro per chi chiedeva giustizia.

Nei giudizi impugnatori essa poteva vanificare l’accesso alla tutela giurisdizionale, in quanto non era prevista alcuna trasmigrazione della causa dall’uno all’altro plesso giurisdizionale.

In seguito a Sez. U., n. 04109/2007, Trifone, Rv. 595428-01, e a Corte Cost. n. 77 del 2007, non solo è stata introdotta la translatio iudicii tra giudici di diversi plessi giurisdizionali, ma, in virtù del corollario in base al quale la trasmigrazione del giudizio comporta la sua continuazione dinanzi al “nuovo” giudice, si è stabilito che l’originaria domanda proposta al giudice carente di giurisdizione spiegasse effetti conservativi sostanziali e processuali, se la riassunzione davanti al giudice indicato come munito di giurisdizione fosse tempestiva.

La lacuna normativa, denunciata sia dalla Suprema Corte che dalla Corte Costituzionale, è stata finalmente colmata dal legislatore con la legge n. 69 del 2009, che peraltro, oltre ad introdurre il regolamento di giurisdizione d’ufficio, prendendo a modello la disciplina dell’incompetenza, al comma 3 dell’art. 59 fa espressamente salvo il regolamento preventivo di giurisdizione.

In seguito all’entrata in vigore della legge citata, tuttavia, la S.C. ha ribadito i princìpi più volta espressi: il regolamento preventivo conserva la sua natura non impugnatoria, essendo un celere strumento per la definizione della questione di giurisdizione; le decisioni sulla giurisdizione sono suscettibili di passare in cosa giudicata formale; il passaggio in giudicato di tali sentenze preclude l’esperimento del regolamento preventivo di giurisdizione.

A proposito della natura non impugnatoria del regolamento preventivo di giurisdizione, Sez. U., n. 22575/2019, Scarano, Rv. 655112-01 hanno affermato che l’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, essendo solo uno strumento per risolvere in maniera preventiva ogni contrasto, reale o potenziale, sulla potestas iudicandi del giudice adìto, può anche non contenere specifici motivi di ricorso, e cioè l’indicazione del giudice avente giurisdizione o delle norme e delle ragioni su cui si fonda, ma deve recare, a pena di inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, in modo da consentire alla Corte di cassazione di conoscere dall’atto, senza attingerli aliunde, gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti, sia pure in funzione della sola questione di giurisdizione da decidere.

La natura non impugnatoria del regolamento preventivo di giurisdizione comporta la non applicabilità, al relativo procedimento, dell’art. 360-bis c.p.c.

Il regolamento preventivo di giurisdizione, infatti, ha la funzione di provocare una decisione che accerti, in via definitiva ed immediata, se il giudice adìto abbia o meno giurisdizione e, comunque, a quale giudice essa appartenga, giacché, da un lato, ove la soluzione della questione fosse riconducibile all’ambito dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c., in ogni caso occorrerebbe una statuizione in merito ad opera della Corte di cassazione, mentre, dall’altro, l’art. 360-bis, n. 2, c.p.c. risulterebbe comunque sempre applicabile, ma in positivo, risultando l’individuazione della giurisdizione, per definizione, conforme alla logica del giusto processo (Sez. U., n. 3886/2019, Frasca, Rv. 652850-01).

Anche recentemente si è affermato che l’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione non è un mezzo di impugnazione e pertanto può anche non contenere specifici motivi di ricorso, ossia l’indicazione del giudice che abbia la giurisdizione o delle norme e delle ragioni su cui si fonda, essendo sufficiente che esponga gli elementi necessari alla definizione della questione di giurisdizione, in conformità a quanto previsto dall’art. 366, comma 1, n. 3 c.p.c., indicando le parti, l’oggetto e il titolo della domanda e specificando altresì il procedimento a cui si riferisce e la fase in cui si trova, in modo tale da consentire la verifica delle condizioni richieste dall’art. 41 c.p.c. (Sez. U., n. 12865/2020, Perrino, Rv. 658084-01).

Occorre notare che quando il giudice ordinario dichiara il difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione, non opera il meccanismo della translatio, né quando il difetto è dichiarato nei confronti di un giudice straniero, trattandosi, nel primo caso, di un apparato burocratico estraneo all’amministrazione della giustizia; nel secondo caso, di un giudice estraneo all’ordinamento giuridico statale, nei confronti del quale nessuna norma sovranazionale prevede la trasmigrazione di cause instaurate dinanzi a giudici italiani.

Il processo che, a seguito di tempestiva riassunzione conseguente ad una pronuncia declinatoria della giurisdizione, si instaura innanzi al giudice indicato come munito di essa, non è un nuovo ed autonomo procedimento, ma la naturale prosecuzione dell’unico giudizio sicché, mentre nella ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 59, comma 3, della l. n. 69 del 2009 (e dell’art. 11, comma 3, del c.p.a.) e sempre che la causa riassunta costituisca la riproposizione di quella originaria, il giudice successivamente adìto può sollevare d’ufficio la questione di giurisdizione, al contrario, nel giudizio riassunto non può essere sollevato il regolamento preventivo ex art. 41 c.p.c., giacché la pronuncia declinatoria emessa nella prima fase integra una decisione sulla giurisdizione assunta nell’unitario giudizio e, pertanto, ostativa alla proposizione del regolamento preventivo, il quale è utilizzabile solo nella prima fase del medesimo giudizio, ove tale decisione ancora manca (Sez. U., n. 9683/2019, Carrato, Rv. 653557-01).

Sulla stessa scia, si è affermato che il processo che, a seguito della pronuncia declinatoria della giurisdizione, si instaura per effetto della tempestiva riassunzione davanti al giudice indicato come munito di giurisdizione, non è un nuovo ed autonomo procedimento, ma la naturale prosecuzione dell’unico giudizio; rimane pertanto precluso alle parti, nel giudizio riassunto, sollevare la questione di giurisdizione, stante la formazione del giudicato interno sul punto (Sez. U., n. 23599/2020, Scoditti, Rv. 659454-01).

La riassunzione nel processo di primo grado conseguente all’affermazione della competenza giurisdizionale dell’Autorità giudiziaria ordinaria, denegata nei gradi di merito e pronunciata dalla Corte di cassazione in seguito a ricorso ordinario per motivo attinente alla giurisdizione, va effettuata nel termine previsto, in via generale, dall’art. 362 c.p.c., e non nel termine di cui all’art. 367, comma 2, c.p.c., riguardante l’ipotesi di pronuncia, affermativa della giurisdizione del giudice ordinario, resa in sede di regolamento di giurisdizione, né in quello di cui all’art. 353, comma 2, c.p.c., né, infine, nei termini stabiliti dall’art. 50 c.p.c. o 59, comma 2, della legge n. 69 del 2009 (Sez. L., n. 29623/2019, Bellè, Rv. 655712-01).

Con riferimento alle modalità di proposizione del regolamento di giurisdizione d’ufficio, Sez. U., n. 11143/2017, De Stefano, Rv. 644051-01, hanno stabilito che, nel caso di translatio iudicii verso il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, alla quale la causa sia stata rimessa dopo la declinatoria di difetto di giurisdizione da parte di un altro giudice, la questione di giurisdizione non può essere ulteriormente d’ufficio sottoposta alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 59, comma 3, della l. n. 69 del 2009, se non viene sollevata dal giudice delegato all’istruzione alla prima udienza tenuta davanti a lui, ferma la competenza del collegio, cui la questione sia stata rimessa dal detto giudice, siccome privo di poteri decisori ma non del potere di rilevare d’ufficio questioni, a provvedere sul punto all’esito dell’udienza di discussione.

Sez. U., n. 05303/2018, Giusti, Rv. 647320-01 avevano ritenuto che il regolamento di giurisdizione d’ufficio chiesto dal giudice ad quem abbia, come indefettibile presupposto, la tempestiva riassunzione della causa, potendo d’altronde essere posta a base dell’istanza, da parte del giudice ad quem, non solo la carenza di giurisdizione di quest’ultimo riguardo al giudice a quo, ma anche rispetto ad un diverso giudice speciale indicato alternativamente come munito di giurisdizione sulla controversia.

Nella fattispecie, la controversia aveva ad oggetto il compenso per un incarico di collaborazione affidato da una commissione parlamentare ad un professionista esterno, e la S.C., equiparando la posizione del professionista a quella di un funzionario onorario e qualificando la sua situazione giuridica come interesse legittimo, ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo, escludendo quella degli organi parlamentari di autodichia in quanto, sulla base del principio della perpetuatio iurisdictionis, di cui all’art. 5 c.p.c., la controversia era stata instaurata prima dell’entrata in vigore della delibera del Consiglio di Presidenza del Senato n. 180 del 2005, che aveva esteso la giurisdizione “domestica” agli atti e ai provvedimenti amministrativi non concernenti i dipendenti o le procedure di reclutamento del personale.

In tema di limiti della translatio iudicii in seguito a pronuncia declinatoria della giurisdizione, Sez. U., n. 19045/2018, Giusti, Rv. 649753-01 avevano chiarito che il conflitto può essere sollevato dal giudice successivamente adìto se, oltre a ricorrere gli altri requisiti (la tempestività della riproposizione della domanda; il non superamento del termine preclusivo della prima udienza; la mancanza di pronuncia delle Sezioni Unite nel processo, sulla questione di giurisdizione), la causa dinanzi a lui promossa costituisca riproposizione di quella per la quale il giudice preventivamente adìto aveva dichiarato il proprio difetto di giurisdizione. Ove, invece, si sia di fronte alla proposizione di una nuova ed autonoma domanda, di contenuto diverso da quella azionata nel precedente giudizio, il giudice adìto successivamente non può investire direttamente le Sezioni Unite della Corte ai fini della risoluzione della questione di giurisdizione, ma è tenuto, se del caso, a pronunciarsi sulla stessa ai sensi dell’art. 37 c.p.c.

La translatio iudicii opera anche tra il processo dinanzi agli arbitri che abbiano rilevato di essere carenti di giurisdizione rispetto alla domanda ed il processo riassunto, senza che rilevi la mancata impugnazione della pronuncia arbitrale che abbia declinato la giurisdizione (Sez. U., n. 1251/2019, Mercolino, Rv. 652243-01).

Il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione può essere notificato sia presso l’Avvocatura generale dello Stato, sia presso la sede dell’Avvocatura distrettuale dello Stato nel cui distretto si trova l’autorità giudiziaria dinanzi alla quale pende la causa. Infatti, dalla natura e dalle funzioni del regolamento di giurisdizione, quale procedimento incidentale ed eventuale che sorge all’interno del giudizio di primo grado in corso, consegue che la notifica del ricorso va effettuata a norma del secondo comma dell’art. 11 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611; ciò non esclude che la notifica possa validamente effettuarsi ai sensi del primo comma dello stesso articolo, in applicazione del principio della ragionevole durata del processo, in base al quale vanno ridotte all’essenziale le ipotesi di nullità per vizi formali e va ampliata la doverosa collaborazione tra giudicante e procuratore costituito, in funzione di una sollecita definizione della controversia (Sez. U., n. 5454/2019, Doronzo, Rv. 652976-01).

Il regolamento preventivo di giurisdizione non è ammissibile nel corso del procedimento possessorio, prima della conclusione della fase sommaria o interdittale, e della introduzione della fase di merito ai sensi dell’art. 703, comma 4, c.p.c., atteso che l’art. 41 c.p.c., nello stabilire che la richiesta alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione possa essere formulata “finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado”, richiede, quale condizione per la proposizione del detto regolamento, che sia in corso l’esame di una causa nel merito in primo grado e che essa non sia stata ancora decisa (Sez. U., n. 11220/2019, Genovese, Rv. 653603-01).

Il regolamento preventivo di giurisdizione non è esperibile nemmeno nel corso del procedimento cautelare (Sez. U., n. 6039/2019, Bruschetta, Rv. 652978-01).

Tuttavia, nel giudizio di merito conseguente a provvedimento ex art. 700 c.p.c., il regolamento preventivo di giurisdizione può essere proposto anche dal ricorrente rimasto soccombente in sede cautelare sussistendo, in presenza di ragionevoli dubbi sui limiti esterni della giurisdizione del giudice adìto, un interesse concreto ed immediato alla risoluzione della questione, in via definitiva, da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, per evitare che vi possano essere successive modifiche della giurisdizione nel corso del giudizio, anche al fine di ottenere un giusto processo di durata ragionevole (Sez. U., n. 12861/2020, Doronzo, Rv. 658024-01).

  • appalto pubblico
  • competenza giurisdizionale
  • danno
  • giurisdizione
  • sanzione amministrativa

CAPITOLO II

IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE TRA GIUDICE ORDINARIO E GIUDICE AMMINISTRATIVO

(di Dario Cavallari )

Sommario

1 Brevi premesse. - 2 Profili processuali: il giudicato. - 3 Profili processuali: i motivi inerenti alla giurisdizione. - 4 Profili processuali: ulteriori questioni. - 5 Le sovvenzioni, i finanziamenti ed i canoni. - 6 Le sanzioni amministrative. - 7 Gli appalti. - 8 Le vicende legate al patrimonio immobiliare. - 9 Le procedure ad evidenza pubblica, i servizi in regime di concessione e l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza. - 10 L’attività sanitaria. - 11 Gli enti. - 12 Le domande di accertamento dei diritti, di pagamento di somme di denaro e di risarcimento del danno.

1. Brevi premesse.

La S.C. ha affrontato anche nel 2020 numerose questioni attinenti alla tematica del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario ed amministrativo.

In particolare, di estremo interesse sono molte pronunce in materia processuale.

Particolare rilievo hanno, poi, le controversie concernenti richieste risarcitorie.

2. Profili processuali: il giudicato.

Per quanto concerne il giudicato, Sez. U, n. 26493/2020, Mancino, Rv. 659550-01, ha affermato che, in tema di riparto di giurisdizione, ove sulla sanzione amministrativa, emessa a titolo di concorso nell’indebita percezione di aiuti comunitari, intervenga il giudicato di rigetto della relativa opposizione, ma poi venga pronunciata, in sede penale, sentenza irrevocabile di assoluzione per insussistenza del fatto, spetta al giudice ordinario la cognizione della vertenza promossa nei confronti del diniego di revoca o annullamento della sanzione, ai sensi dell’art. 22 della l. n. 689 del 1981, poiché la causa petendi non attiene alla correttezza dell’azione amministrativa di riesame, ma alla permanente legittimità della sanzione a seguito della menzionata sentenza di proscioglimento.

Inoltre, per Sez. U, n. 28179/2020, Terrusi, Rv. 659664-01, il passaggio in cosa giudicata di una pronuncia del giudice ordinario, ovvero del giudice amministrativo, recante statuizioni sul merito di una pretesa attinente ad un determinato rapporto, estende i suoi effetti al presupposto della sussistenza della giurisdizione di detto giudice su tale rapporto, indipendentemente dal fatto che essa sia stata o meno oggetto di esplicita declaratoria, e, quindi, osta a che la giurisdizione di quel giudice possa essere contestata in successive controversie fra le stesse parti aventi titolo nel medesimo rapporto davanti a un giudice diverso, avendo il giudicato esterno la medesima autorità di quello interno, in quanto corrispondono entrambi all’unica finalità dell’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche e della stabilità delle decisioni.

In ordine, poi, al conflitto di giudicati, Sez. L, n. 27357/2020, Bellé, Rv. 659691-01, ha precisato che il giudicato implicito sulla giurisdizione, contenuto in una statuizione di merito del giudice ordinario o amministrativo, spiega effetti al di fuori del processo in cui la decisione è resa sicché, in caso, appunto, di conflitto di giudicati, la risoluzione è affidata alla regola di prevalenza del giudicato successivo.

Sez. U, n. 26497/2020, Graziosi, Rv. 659463-01, ha affermato, altresì, che, nel processo amministrativo, ove il difetto di giurisdizione non sia stato eccepito in primo grado né sia stato oggetto di specifico motivo di appello, deve ritenersi maturato, sul punto, il giudicato implicito, stante la preclusione di cui all’art. 9 c.p.a., che regola la deduzione delle questioni di giurisdizione nell’ambito delle specifiche norme processuali che strutturano il rito del relativo plesso giurisdizionale.

Con una pronuncia di un certo interesse Sez. U, n. 07825/2020, Garri, Rv. 657586-01, ha chiarito che, in tema di attuazione, da parte della P.A., del giudicato civile in materia di lavoro, il potere del giudice di ottemperanza non può che esercitarsi sulla base di elementi interni al giudicato - la valutazione dei quali rientra nella giurisdizione propria del giudice che ha emesso la sentenza -, con la conseguenza che è ammissibile, in ossequio al principio dell’effettività della tutela giurisdizionale che caratterizza il giudizio di ottemperanza, la verifica dell’esattezza della interpretazione data dall’amministrazione alle disposizioni da applicare al caso concreto, per accertare che del contenuto della decisione passata in giudicato non sia stato dato un adempimento parziale, incompleto se non addirittura elusivo.

3. Profili processuali: i motivi inerenti alla giurisdizione.

La tematica del rispetto dell’art. 111 Cost. e della sua relazione con il giudizio di cassazione è stata nuovamente affrontata dalla S.C.

Pertanto, Sez. U, n. 27770/2020, Cirillo F.M., Rv. 659662-01, ha ribadito l’indirizzo di Sez. U, n. 08311/2019, Scrima, Rv. 653284-01, per il quale, in materia di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del limite esterno della giurisdizione - che l’art. 111, comma 8, Cost., affida alla Corte di cassazione - non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori in iudicando o in procedendo, senza che rilevi la gravità o intensità del presunto errore di interpretazione, il quale rimane confinato entro i limiti interni della giurisdizione amministrativa, considerato che l’interpretazione delle norme costituisce il proprium distintivo dell’attività giurisdizionale.

Nella stessa ottica, Sez. U, n. 19952/2020, Cosentino, Rv. 658854-02, ha affermato che il mancato esercizio, da parte del Consiglio di Stato, del potere di sospendere il giudizio, ai sensi dell’art. 295 c.p.c. (applicabile al processo amministrativo per il rinvio contenuto nell’art. 79, comma 1, c.p.a.) non integra una violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, ma, piuttosto, un errore in procedendo, come tale insindacabile. In particolare, ha respinto la censura con la quale il ricorrente lamentava la mancata sospensione del giudizio innanzi al Consiglio di Stato, in attesa della definizione di una procedura di infrazione aperta dalla Commissione Europea nei confronti dell’Italia, anche a cagione dell’impossibilità di qualificare come giudice la Commissione Europea.

Inoltre, per Sez. U, n. 26387/2020, Garri, Rv. 659461-01, nei giudizi di appello avverso le sentenze della Sezione autonoma di Bolzano del Tribunale regionale di giustizia amministrativa, la mancanza, nella composizione del collegio del Consiglio di Stato investito dell’impugnazione, del consigliere appartenente al gruppo di lingua tedesca ovvero al gruppo di lingua ladina, in violazione delle prescrizioni contenute nello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige (art. 93 del d.P.R. n. 70 del 1972) e nelle relative norme di attuazione (art. 14 del d.P.R. n. 426 del 1984), determina un’alterazione strutturale dell’organo giudicante, tale da impedirne l’identificazione con l’organo delineato dalla fonte costituzionale, la quale richiede che il giudice sia, nella sua composizione, rappresentativo del complessivo sistema autonomistico locale, a sua volta improntato alla tutela delle minoranze linguistiche presenti nel territorio della provincia; pertanto, la predetta mancanza integra un vizio derivante da difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato, che può essere dedotto dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione con ricorso proposto ai sensi degli artt. 111, comma 8, Cost. e 362 c.p.c.

Altro profilo di interesse attiene ai rapporti con il diritto eurounitario.

Sez. U, n. 24107/2020, Conti, Rv. 659290-01, ha confermato, quindi, l’indirizzo di Sez. U, n. 30301/2017, Rv. 646625-02, per il quale non è affetta dal vizio di eccesso di potere giurisdizionale ed è, pertanto, insindacabile sotto il profilo della violazione del limite esterno della giurisdizione, in relazione, appunto, al diritto eurounitario, la decisione, adottata dal Consiglio di Stato, di non disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, giacché il controllo che l’art. 111, comma 8, Cost., affida alla S.C. non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori in iudicando o in procedendo per contrasto con il diritto dell’Unione europea, salva l’ipotesi estrema in cui l’errore si sia tradotto in un’interpretazione delle norme europee di riferimento in contrasto con quelle fornite dalla CGUE, sì da precludere, rendendola non effettiva, la difesa giudiziale.

Al riguardo deve segnalarsi pure l’importantissima ordinanza interlocutoria Sez. U, n. 19598/2020, Lamorgese, con la quale la S.C. ha rimesso alla CGUE una serie di rilevanti questioni, con particolare riguardo alla compatibilità con il diritto eurounitario di una giurisprudenza nazionale, come quella concernente l’interpretazione dell’art. 111, comma 8, Cost., che, nella sostanza, impedisca di ricorrere contro le decisioni del Consiglio di Stato emesse in contrasto con lo stesso diritto eurounitario e senza adempiere all’obbligo di rinvio pregiudiziale alla detta CGUE.

Tale ultima pronuncia delle Sezioni Unite è meglio esaminata nell’apposito contributo, pubblicato in questa Rassegna, relativo al dialogo fra la Corte di cassazione italiana e i giudici sovranazionali.

Con riferimento alle autorità amministrative indipendenti, Sez. U, n. 19952/2020, Cosentino, Rv. 658854-01, ha affermato che la sentenza del Consiglio di Stato di annullamento della delibera dell’AGCOM relativa alla conversione delle reti analogiche in reti digitali e l’assegnazione delle frequenze, pur producendo, riguardo alla successiva attività regolatoria dell’Autorità, un effetto conformativo - consistente nella necessità di tenere conto, nella riedizione del potere, di un contesto fattuale e normativo diverso da quello vigente all’epoca del provvedimento annullato - non realizza un’indebita ingerenza del giudice amministrativo nei poteri riservati all’Amministrazione e, dunque, non travalica i limiti esterni della giurisdizione, imponendo piuttosto la necessità di rinnovare l’esercizio del potere in modo immune dai vizi riscontrati, in modo da tenere conto del mutato contesto tecnologico e normativo.

Sez. U, n. 18592/2020, Tria, Rv. 658665-01, ha precisato, poi, che non è affetta da eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata al potere amministrativo la sentenza con la quale il Consiglio di Stato, all’esito di una pluralità di giudicati amministrativi di annullamento dei reiterati provvedimenti di diniego con cui era stata definita una procedura di abilitazione scientifica alle funzioni di professore universitario di prima fascia, abbia disposto un ulteriore annullamento degli atti della medesima procedura, contestualmente ordinando al MIUR di provvedere al rilascio dell’abilitazione senza sottoporre i titoli dell’interessato al riesame di una nuova commissione, sul rilievo che, per effetto del susseguirsi dei predetti giudicati, si fosse progressivamente ridotto, sino a svuotarsi del tutto, l’ambito di discrezionalità amministrativa e tecnica attribuito alla P.A. Ciò in quanto una tale pronuncia costituisce il frutto di un’attività (l’interpretazione, sia pure articolata ed evolutiva, di norme giuridiche) che rappresenta il proprium della funzione giurisdizionale e non può, dunque, integrare, di per sé sola, la violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale, essendo fondata sull’art. 1 del codice del processo amministrativo (secondo cui la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva in base ai principi della Costituzione e del diritto europeo) ed attuata attraverso il rimedio disciplinato dall’art. 34, comma 1, lett. e), del medesimo codice, il quale attribuisce al giudice della cognizione il potere, in passato spendibile solo nella successiva fase dell’ottemperanza, di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese (cd. cognizione ad esecuzione integrata), in coerenza con l’evoluzione della giustizia amministrativa da strumento di garanzia della legalità della azione amministrativa a giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali.

Allo stesso modo, ad avviso di Sez. U, n. 00158/2020, Acierno, Rv. 656510-01, non sussiste eccesso di potere giurisdizionale nella decisione del Consiglio di Stato che si discosti dalla valutazione tecnica espressa dal verificatore, il parere del quale sia stato richiesto nel corso del giudizio amministrativo ex artt. 19 e 64 del d.lgs. n. 104 del 2010 (codice del processo amministrativo), trattandosi di uno strumento processuale cognitivo e non valutativo di fatti rilevanti ai fini della decisione, le cui contestazioni costituiscono censure strettamente interne all’esercizio della giurisdizione.

Sez. U, n. 08093/2020, Stalla, Rv. 657612-01, ha chiarito che il sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato - pur non comportando che il predetto giudice possa sostituirsi all’Autorità medesima nelle attività di accertamento e di applicazione della legge con un proprio provvedimento - non è limitato ai soli profili giuridico-formali dell’atto amministrativo, dovendosi estendere, invece, anche alla risoluzione delle eventuali contestazioni in punto di fatto, allorquando da tali contestazioni dipenda la legittimità dell’atto amministrativo in questione.

Inoltre, per Sez. U, n. 07012/2020, Nazzicone, Rv. 657216-01, in tema di sindacato delle Sezioni Unite sulle decisioni del Consiglio di Stato, costituisce motivo di ricorso attinente alla giurisdizione quello con il quale si denunzia che il Consiglio di Stato, nell’ambito del giudizio proposto ai sensi dell’art. 133, comma 1, lettera z sexies, del d.lgs. n. 104 del 2010, abbia esercitato i poteri inerenti alla giurisdizione esclusiva al di fuori dei casi in cui la legge lo consente, per avere invaso la sfera dei poteri riservati alla esclusiva competenza della Commissione europea, quale organo di merito gestorio dell’Unione.

Va pure segnalata Sez. U, n. 06691/2020, De Stefano, Rv. 657220-02, secondo la quale, poiché il controllo di legittimità del giudice amministrativo importa un sindacato pieno non solo sul fatto, ma pure sulle valutazioni, anche di ordine tecnico, operate dall’amministrazione, non sussiste eccesso di potere giurisdizionale per usurpazione della funzione amministrativa nella decisione del Consiglio di Stato che rilevi, quale vizio dell’aggiudicazione dell’affidamento in concessione dei lavori di costruzione e gestione di un’opera pubblica, l’illegittimità del criterio della equiparazione al mancato utilizzo del contributo pubblico a fondo perduto della promessa di sua restituzione integrale, non assistita da valide garanzie o previsioni gestionali o contabili.

Allo stesso modo, Sez. U, n. 05904/2020, Mercolino, Rv. 657208-01, ha affermato che, in tema di appalto di servizi, la verifica dei presupposti oggettivi di esclusione dell’impresa dalla gara, ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 163 del 2006 - avendo ad oggetto la mancata dissociazione dell’impresa dalla condotta illecita del titolare, del socio, dell’amministratore o del direttore tecnico attinto da una condanna penale, così come la qualità rivestita da quest’ultimo - non presenta alcun profilo di discrezionalità, trattandosi di circostanze oggettivamente riscontrabili; pertanto, il sindacato di tali circostanze da parte del giudice amministrativo non può tradursi in una invasione del merito amministrativo e non può dare luogo ad eccesso di potere giurisdizionale, il quale è configurabile soltanto quando l’indagine svolta dal giudice abbia ecceduto i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, rivelandosi strumentale ad una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e convenienza dell’atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, esprima la volontà dell’organo giudicante di sostituirsi a quella dell’amministrazione, attraverso un sindacato di merito che si estrinsechi in una pronunzia avente il contenuto sostanziale e l’esecutorietà propria del provvedimento sostituito, senza salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa.

Sez. U, n. 03562/2020, Garri, Rv. 656953-01, ha precisato, quindi, che le valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici dei pubblici concorsi sono assoggettabili al sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo, che può rilevare l’irragionevolezza o l’arbitrio delle stesse o la violazione del principio della par condicio tra i concorrenti, senza che ciò comporti un’invasione della sfera del merito amministrativo, denunciabile con il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione.

4. Profili processuali: ulteriori questioni.

Sez. U, n. 06690/2020, Vincenti, Rv. 657416-03, ha chiarito che l’art. 103 Cost. non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie nelle quali non sia parte una P.A. (o un soggetto ad essa equiparato), sicché la pretesa risarcitoria avanzata nei confronti di singole persone fisiche, componenti di un organo collegiale pubblico, cui si imputi l’adozione di provvedimenti illegittimi, va azionata dinanzi al giudice ordinario.

Inoltre, per Sez. U, n. 18788/2020, Oliva, Rv. 659123-01, in tema di immigrazione, il provvedimento di espulsione dello straniero è provvedimento obbligatorio a carattere vincolato, con la conseguenza che il giudice ordinario dinanzi al quale esso venga impugnato è tenuto unicamente a controllare l’esistenza, al momento dell’espulsione, dei requisiti di legge che ne impongono l’emanazione, i quali consistono nella mancata richiesta, in assenza di cause di giustificazione, del permesso di soggiorno, ovvero nella sua revoca od annullamento ovvero nella mancata tempestiva domanda di rinnovo che ne abbia comportato il diniego; al giudice investito dell’impugnazione del provvedimento di espulsione non è consentita, invece, alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del questore che abbia rifiutato, revocato o annullato il permesso di soggiorno ovvero ne abbia negato il rinnovo, poiché tale sindacato spetta unicamente al giudice amministrativo, la decisione del quale non costituisce in alcun modo un antecedente logico della decisione sul decreto di espulsione. Ne deriva, per un verso, che la pendenza del giudizio promosso dinanzi al giudice amministrativo per l’impugnazione dei predetti provvedimenti del questore non giustifica la sospensione del processo instaurato dinanzi al giudice ordinario con l’impugnazione del decreto di espulsione del prefetto, attesa la carenza di pregiudizialità giuridica necessaria tra il processo amministrativo e quello civile; e, per l’altro verso, che il giudice ordinario, dinanzi al quale sia stato impugnato il provvedimento di espulsione, non può disapplicare l’atto amministrativo presupposto emesso dal questore (rifiuto, revoca o annullamento del permesso di soggiorno o diniego di rinnovo).

5. Le sovvenzioni, i finanziamenti ed i canoni.

Ad avviso di Sez. U, n. 16457/2020, Scoditti, Rv. 658338-01, la controversia promossa per ottenere l’annullamento del provvedimento di revoca di un finanziamento pubblico concerne una posizione di diritto soggettivo (ed è, pertanto, devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario) tutte le volte in cui l’amministrazione abbia inteso fare valere la decadenza del beneficiario dal contributo in ragione della mancata osservanza, da parte sua, di obblighi all’adempimento dei quali la legge o il provvedimento condizionano l’erogazione, mentre riguarda una posizione di interesse legittimo (con conseguente devoluzione al giudice amministrativo) allorché la mancata erogazione del finanziamento, pur oggetto di specifico provvedimento di attribuzione, sia dipesa dall’esercizio di poteri di autotutela dell’amministrazione, la quale abbia inteso annullare il provvedimento stesso per vizi di legittimità o revocarlo per contrasto originario con l’interesse pubblico.

Inoltre, secondo Sez. U, n. 16459/2020, Terrusi, Rv. 658339-01, le controversie concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi, riservate, in materia di concessioni amministrative, alla giurisdizione del giudice ordinario, sono solo quelle con un contenuto meramente patrimoniale, senza che assuma rilievo un potere d’intervento della P.A. a tutela di interessi generali; quando, invece, la controversia coinvolge la verifica dell’azione autoritativa della P.A. sull’intera economia del rapporto concessorio, la medesima è attratta nella sfera di competenza giurisdizionale del giudice amministrativo. In particolare, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in una controversia avente ad oggetto la domanda di annullamento, proposta da una società di gestione del servizio idrico integrato per diversi Comuni di una Provincia, sia della deliberazione della Giunta regionale con la quale sia stato approvato il nuovo tariffario relativo all’occupazione permanente del suolo pubblico, sia, in via consequenziale, del provvedimento del direttore del servizio di viabilità contenente l’invito a versare l’importo dovuto in base alla tariffa.

Nella stessa ottica, Sez. U, n. 28973/2020, Di Marzio M., Rv. 659873-01, ha rilevato che, in materia di concessioni amministrative di beni pubblici, le controversie relative a indennità, canoni od altri corrispettivi, involgenti diritti soggettivi a contenuto patrimoniale, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che assuma rilievo la sussistenza di un potere di intervento della P.A. a tutela di interessi generali. In particolare, la S.C. ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario con riferimento ad una lite avente ad oggetto l’annullamento di alcuni provvedimenti di rideterminazione dei canoni annuali per la concessione di beni demaniali marittimi sul presupposto che, attraverso gli stessi, il comune si fosse limitato a disporre il ricalcolo del canone in applicazione di una norma di mero aggiornamento quantitativo, quale l’art. 1, comma 252, della l. n. 296 del 2006.

Pertanto, Sez. U, n. 01180/2020, Rubino, Rv. 656576-01, ha affermato che la controversia avente ad oggetto i canoni dovuti dal pubblico dipendente per il godimento di alloggio di servizio - anche con riferimento al periodo di occupazione senza titolo decorrente dalla messa in quiescenza del dipendente medesimo -, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, poiché la controversia in questione, prescindendo dal rapporto di lavoro pubblico ed avendo contenuto meramente patrimoniale, ovvero relativo a presunti inadempimenti di natura contrattuale, ricade nella sfera di applicabilità dell’art. 133 del d.lgs. n. 104 del 2010 che, in relazione ai rapporti di concessione di beni pubblici, esclude dalla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi.

Con riguardo alle garanzie personali, per Sez. U, n. 12866/2020, Giusti, Rv. 658025-01, la controversia avente ad oggetto l’escussione, da parte del Comune, di una polizza fideiussoria, concessa a garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione e a titolo di penali, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non in quella esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica ed edilizia, attesa l’autonomia tra i rapporti in questione, nonché la circostanza che, nella specie, la P.A. agisce nell’ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri.

Sez. U, n. 07563/2020, Nazzicone, Rv. 657444-01, ha chiarito che la lite in ordine all’accertamento della misura del contributo previsto dall’art. 5 della l.r. Liguria n. 4 del 1985, dovuto dai Comuni alle competenti autorità religiose e determinato in proporzione agli oneri di urbanizzazione secondaria riscossi, appartiene alla giurisdizione ordinaria, e non a quella amministrativa, avendo ad oggetto l’esistenza di un obbligo con fonte diretta nella legge e non implicando alcuna valutazione sulla legittimità di provvedimenti amministrativi espressione di pubblici poteri.

6. Le sanzioni amministrative.

Nell’ambito delle violazioni attinenti alla circolazione stradale, Sez. U, n. 26391/2020, Giusti, Rv. 659549-01, ha rilevato che, anche a seguito della sentenza della Corte cost. n. 99 del 2020 - che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 120, comma 2, del codice della strada, nella parte in cui dispone che il prefetto “provvede”, anziché “può provvedere”, alla revoca della patente di guida nei confronti dei soggetti che sono stati sottoposti a misure di prevenzione ai sensi del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione -, la revoca della patente dà luogo all’esercizio non già di discrezionalità amministrativa, ma di un potere che non affievolisce la posizione di diritto soggettivo del privato; ne consegue che la giurisdizione sulla controversia avente ad oggetto il provvedimento di revoca adottato dal prefetto continua a spettare al giudice ordinario, in accordo con la regola generale di riparto.

Inoltre, secondo Sez. U, n. 19664/2020, Acierno, Rv. 658850-01, la sanzione amministrativa della chiusura temporanea dell’esercizio commerciale o del locale destinato al videogioco e alle video lotterie, prevista - in aggiunta a quella pecuniaria, ancorché senza alcun collegamento causale o consequenziale con quest’ultima - dall’art. 24, comma 21, del d.l. n. 98 del 2011, conv., con modif., dalla l. n. 111 del 2011, per il caso di indebito ingresso, nell’esercizio medesimo, di un soggetto minore d’età, ha natura esclusivamente afflittiva e si riconduce non già ad un potere discrezionale di vigilanza e controllo, esercitato dall’autorità amministrativa irrogante, sul settore dei giochi vietati ai minori, bensì ad un potere interamente vincolato dalla norma, la quale definisce dettagliatamente il fatto che integra la violazione, stabilisce l’obbligo di applicare la sanzione in seguito all’accertamento dell’illecito da parte dell’autorità di polizia e ne determina il contenuto pure in relazione alla durata, con la prescrizione inderogabile del minimo e del massimo irrogabili; pertanto, la giurisdizione sull’opposizione avverso la predetta sanzione amministrativa spetta al giudice ordinario, dovendosi ritenere devoluto a quella del giudice amministrativo soltanto il sindacato sulle sanzioni di carattere ripristinatorio, la cui applicazione consegua all’esercizio di un potere discrezionale di vigilanza e controllo, funzionale alla tutela dell’interesse pubblico violato.

7. Gli appalti.

Come di consueto la materia degli appalti è stata oggetto di attenzione da parte della S.C.

In proposito, Sez. U, n. 21990/2020, Graziosi, Rv. 659039-01, ha precisato che, nelle controversie relative alla clausola di revisione del prezzo negli appalti di opere e servizi pubblici, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in conformità alla previsione dell’art. 133, comma 1, lett. e), n. 2), del d.lgs. n. 104 del 2010, sussiste nell’ipotesi in cui il contenuto della clausola implichi la permanenza di una posizione di potere in capo alla P.A. committente, attribuendo a quest’ultima uno spettro di valutazione discrezionale nel disporre la revisione, mentre, nella contraria ipotesi nella quale la clausola individui puntualmente e compiutamente un obbligo della parte pubblica del contratto, deve riconoscersi la corrispondenza di tale obbligo ad un diritto soggettivo dell’appaltatore, che fa valere una mera pretesa di adempimento contrattuale, ricadente nell’ambito della giurisdizione ordinaria.

Inoltre, per Sez. U, n. 12483/2020, Carrato, Rv. 658083-01, la lite concernente la corresponsione del corrispettivo della gestione del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani, affidato sulla base di ordinanze contingibili e urgenti adottate (per ragioni di emergenza ambientale) ai sensi dell’art. 191 del d.lgs. n. 152 del 2006, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che essa riguarda unicamente l’esecuzione del rapporto di natura privatistica intercorrente tra le parti e la cognizione di aspetti puramente patrimoniali, senza involgere il sindacato, in via diretta o incidentale, della legittimità dell’attività provvedimentale urgente posta “a monte” dello stesso, la quale costituisce uno strumento alternativo e sostitutivo del contratto di appalto.

8. Le vicende legate al patrimonio immobiliare.

Le questioni aventi ad oggetto il patrimonio immobiliare dello Stato o di enti pubblici sono state oggetto di numerose pronunce della S.C., intervenuta a chiarire ulteriormente la linea di confine fra le due giurisdizioni in questione.

Con riguardo ai rapporti agrari, Sez. U, n. 24101/2020, Rubino, Rv. 659449-01, ha affermato che, a fronte di un rapporto di affittanza agraria instaurato da un Comune con una cooperativa agricola, volto a consentire, verso il pagamento di un corrispettivo, l’utilizzo di un determinato terreno di proprietà comunale adibito a pascolo, la controversia relativa alla validità e all’efficacia del contratto di transazione, diretto a prevenire le liti in ordine al predetto contratto, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario qualora sia estranea alla materia del contendere la natura pubblica o privata del terreno, l’amministrazione non abbia utilizzato poteri autoritativi e le parti si siano limitate a domandare al giudice una verifica della conformità alla normativa positiva delle regole in base alle quali è sorto l’atto negoziale.

In relazione, poi, ai beni di proprietà degli enti pubblici, ad avviso di Sez. U, n. 21991/2020, Graziosi, Rv. 659283-01, l’immobile comunale che, a titolo oneroso, sia stato concesso in uso ad un privato per lo svolgimento di servizi socio-assistenziali, in mancanza di un provvedimento amministrativo che lo destini a pubblico servizio, appartiene al patrimonio disponibile dell’ente, con la conseguenza che la controversia relativa alla sua restituzione rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, avendo ad oggetto un rapporto privatistico di carattere paritetico riconducibile a quello locatizio.

Per quanto concerne la retrocessione del bene espropriato, Sez. U, n. 18580/2020, Scalia, Rv. 658808-01, ha rilevato che il giudice ordinario, investito del merito a seguito della riassunzione del giudizio conseguente alla declinatoria della giurisdizione del giudice amministrativo, ferma la giurisdizione affermata dal giudice remittente, ben può riconoscere la retrocessione parziale del bene e con essa la sussistenza di un mero interesse legittimo del privato, e rigettarne la domanda sul presupposto della mancanza della dichiarazione di inservibilità, atteso che la formazione di un giudicato interno sulla giurisdizione del giudice ordinario, in difetto di eccezione di parte o rilievo d’ufficio, non si estende al merito della lite e, dunque, non impedisce al medesimo di qualificare diversamente il rapporto e di sottoporlo alla relativa disciplina.

Secondo Sez. U, n. 10082/2020, Cosentino, Rv. 657733-01, la cartolarizzazione degli immobili appartenenti allo Stato e agli enti pubblici - disciplinata dal d.l. n. 351 del 2001, conv., con modif., dalla l. n. 410 del 2001, è compresa nel più vasto ambito delle procedure di privatizzazione o di dismissione di imprese o beni pubblici, indicato come possibile oggetto dei giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa dall’art. 23-bis della l. n. 1034 del 1931, senza che ciò implichi che la cognizione di tutte le controversie relative sia riservata al giudice amministrativo, atteso che la disposizione non contiene norme sulla giurisdizione e, quindi, non modifica l’ordinario criterio di riparto, fondato sulla natura della situazione soggettiva fatta valere in giudizio.

Inoltre, Sez. U, n. 07831/2020, Graziosi, Rv. 657528-01, ha precisato che, in tema di dismissione del patrimonio immobiliare delle Regioni (nella specie, dell’Emilia Romagna ex l.r. n. 10 del 2000) in regime di concessione, la controversia relativa all’esatta determinazione del prezzo contenuto nell’offerta inoltrata al concessionario per consentirgli l’esercizio del diritto di prelazione spetta alla giurisdizione del giudice amministrativo, atteso che l’imposizione normativa del valore di mercato, quale corrispettivo del bene oggetto di dismissione, non depriva di discrezionalità l’ente pubblico nel conformare la proposta di vendita, discrezionalità che, anche se tecnica, conferisce al privato aspirante all’acquisto esclusivamente una posizione giuridica di interesse legittimo (pretensivo) alla corretta determinazione del prezzo di vendita; solo dopo che l’offerta è stata formulata dal proponente e ricevuta dal concessionario, il prezzo indicato integra una componente dell’oggetto della prelazione ed esce dalla discrezionalità, sia pure solo tecnica, dell’offerente e, quindi, il concessionario può avvalersi, rispetto ad essa, del suo diritto di prelazione.

Pertanto, per Sez. U, n. 02503/2020, Carrato, Rv. 656733-01, la controversia avente ad oggetto la domanda di rilascio di un immobile del patrimonio pubblico, dismesso ai sensi della l. n. 326 del 2003, proposta dall’acquirente, a seguito della vendita conseguente all’intervenuta dismissione, nei confronti dell’occupante titolare di una pregressa concessione quale alloggio di servizio, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, atteso che la domanda azionata trova la propria origine in un rapporto tra privati, essendo diretta al riconoscimento della sussistenza, o meno, di un titolo legittimo della persistente detenzione in capo all’occupante, mentre l’Amministrazione concedente resta - per effetto della cessazione di ogni uso pubblico dell’immobile - totalmente estranea al predetto rapporto, non essendo ravvisabile alcun collegamento con l’atto autoritativo concessorio.

In tema di edilizia residenziale pubblica, Sez. U, n. 08097/2020, Graziosi, Rv. 657536-01, ha chiarito che spetta alla giurisdizione ordinaria la controversia, promossa dagli eredi del soggetto assegnatario fucense di un alloggio ai sensi dell’art. 3 della l.r. Abruzzo n. 7 del 1997, avente ad oggetto la richiesta di nullità e/o inefficacia del contratto di cessione dell’immobile stipulato con un terzo dal competente organo regionale, per essere il petitum sostanziale della lite costituito dall’accertamento della titolarità, in capo all’assegnatario, del diritto soggettivo di riscatto, i cui presupposti sono fissati direttamente dalla legge.

Nella stessa ottica, ad avviso di Sez. U, n. 07643/2020, Scarpa, Rv. 657446-01, l’atto di esercizio del diritto di prelazione artistica spettante alla P.A. è un provvedimento amministrativo in relazione al quale, ove si contesti la tempestività della sua adozione, è configurabile la giurisdizione del giudice amministrativo, vertendosi in una ipotesi di carenza di potere in concreto, in quanto attinente al quomodo della potestà pubblica, sicché la posizione fatta valere dalla parte privata acquirente che lo abbia subito è di interesse legittimo oppositivo e non di diritto soggettivo.

Infine, in tema di usi civici, Sez. U, n. 09282/2020, Lombardo, Rv. 657662-01, ha affermato che la controversia relativa all’impugnazione di una delibera comunale di approvazione di uno schema di accordo transattivo avente ad oggetto il riconoscimento della natura civica di alcune terre è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo, e non del commissario per la liquidazione degli usi civici, per essere il petitum sostanziale della lite costituito dalla legittimità amministrativa della delibera, senza alcuna domanda di accertamento della qualità demaniale dei suoli.

9. Le procedure ad evidenza pubblica, i servizi in regime di concessione e l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza.

In materia di concessioni, secondo Sez. U, n. 24111/2020, Ferro, Rv. 659450-01, la controversia introdotta da un Comune per ottenere dalla banca concessionaria del servizio pubblico di tesoreria comunale la restituzione di un indebito monetario, quale effetto di una pronuncia dichiarativa di invalidità o inesistenza della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi e di commisurazione ultralegale dei medesimi, appartiene alla giurisdizione ordinaria, atteso che la domanda non pone in discussione il rapporto concessorio, nel suo aspetto genetico o funzionale, ma contesta il fondamento della praticata commisurazione del debito per interessi, così rientrando nella clausola di deroga di cui all’art. 133, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 104 del 2010, il quale esclude dalle controversie relative a concessioni di pubblici servizi devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi.

Inoltre, per Sez. U, n. 23591/2020, Carrato, Rv. 659447-01, in tema di riparto di giurisdizione, spetta al giudice ordinario la cognizione della vertenza relativa alla richiesta di integrazione del canone già versato per il rilascio di una concessione cimiteriale perpetua, il cui importo sia determinato in base a una tabella di aggiornamento, approvata dal comune senza fare uso di poteri autoritativi o discrezionali a tutela di interessi generali, trattandosi di controversia dal contenuto meramente patrimoniale, sottratta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. b), c.p.a.

In tema di trasporto pubblico locale, Sez. U, n. 14235/2020, Locatelli, Rv. 658195-01, l’art. 17, comma 1, della l.p. Bolzano n. 16 del 1985 e successive modificazioni, prevede il pagamento, in favore dell’impresa esercente il servizio di trasporto pubblico locale, di un contributo integrativo aggiuntivo rispetto a quello ordinario, qualificabile quale corrispettivo del servizio di trasporto. Le liti concernenti tale contributo sono sottratte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e devolute a quella del giudice ordinario poiché il suo importo è determinato mediante il riconoscimento dei costi aziendali sulla base di un costo standard, approvato con apposite delibere, sicché il successivo provvedimento di attribuzione possiede un contenuto meramente ricognitivo e privo di profili di discrezionalità, che si sono esauriti attraverso l’adozione dei provvedimenti di fissazione dei costi standard.

Ad avviso di Sez. U, n. 08849/2020, Rubino, Rv. 657626-01, la controversia relativa all’affidamento in subconcessione di parcheggi ad uso pubblico, situati all’interno del sedime demaniale aeroportuale, disposto dal gestore aeroportuale in favore di una propria società controllata, spetta alla giurisdizione ordinaria, non integrandosi alcuno dei presupposti (soggettivi ed oggettivi) richiesti dall’art. 133, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 104 del 2010, ai fini della devoluzione alla giurisdizione amministrativa; infatti, sotto il profilo soggettivo, nel sub-concedente non è ravvisabile né la natura di organismo di diritto pubblico né quella di impresa pubblica (che richiedono il finanziamento o il controllo pubblico oppure la designazione pubblica degli organi amministrativi e di controllo), bensì la diversa natura di soggetto privato titolare di un diritto di esclusiva (ex art. 3, commi 1 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016), mentre, sotto il profilo oggettivo, il servizio di parcheggio esula dal novero delle attività strumentali alle operazioni del gestore aeroportuale nei ccdd. settori speciali, non rientrando nell’elenco tassativo dei servizi di assistenza a terra, propedeutici al trasporto aereo, ma costituendo un’attività meramente eventuale, prestata solo su richiesta del cliente e da questi autonomamente remunerata, con la conseguenza che l’affidamento di tale servizio, di natura puramente commerciale, non soggiace alle regole del procedimento ad evidenza pubblica e si risolve in un contratto di diritto privato.

Sez. U, n. 21433/2020, Stalla, Rv. 659038-01, ha affermato che, in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, la facoltà, attribuita dall’art. 50 del d.lgs. n. 270 del 1999 al commissario straordinario, di sciogliersi dai contratti ancora inseguiti o non interamente eseguiti da entrambe le parti alla data di apertura della procedura, non costituisce manifestazione di un potere autoritativo o di supremazia pubblicistica, ma espressione di un diritto potestativo di natura privatistica, coessenziale agli strumenti di gestione ed indirizzo dei rapporti patrimoniali dell’imprenditore insolvente in funzione della risoluzione della crisi, che trova il suo fondamento generale nel disposto dell’art. 1372 c.c., a norma del quale lo scioglimento del contratto può conseguire, oltre che al mutuo consenso delle parti, anche alle “cause ammesse dalla legge”, tra cui rientrano quelle riconducibili alla regolamentazione legale dei rapporti giuridici pendenti nelle procedure di insolvenza; pertanto, la controversia scaturente dall’impugnazione, ad opera del contraente in bonis, dell’atto con cui il commissario straordinario ha esercitato la predetta facoltà, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, integrando esso, per un verso, una manifestazione (recettizia) di volontà prettamente negoziale e non provvedimentale e, per l’altro, un atto diretto ad incidere sulle posizioni di diritto soggettivo derivanti dal rapporto contrattuale in capo all’impugnante.

Inoltre, per Sez. U, n. 07560/2020, Rubino, Rv. 657472-01, in materia di incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia tra il gestore del servizio energetico e il fallimento della società di produzione energetica, qualora la materia del contendere non riguardi le tariffe, il criterio di loro quantificazione o la concessione degli incentivi, ma soltanto l’opponibilità o meno alla procedura fallimentare della cessione di crediti inerenti agli incentivi attribuiti, in correlazione alla produzione anzidetta, per il periodo successivo alla dichiarazione da parte della curatela del fallimento di volere subentrare nel rapporto; né è idonea ad incidere sull’individuazione dell’autorità avente il potere di giudicare l’eccezione riconvenzionale proposta dal gestore in punto di giurisdizione, determinandosi quest’ultima sulla sola base del petitum sostanziale, che rimane inalterato pure a seguito dell’eccezione in parola.

Ad avviso di Sez. U, n. 07219/2020, Doronzo, Rv. 657442-01, nel settore dell’attività negoziale della P.A. appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo tutte le controversie che attengono alla fase preliminare, antecedente e prodromica al contratto, inerenti alla formazione della volontà e alla scelta del contraente privato in base alle regole della cd. evidenza pubblica, mentre quelle che radicano le loro ragioni nella serie negoziale successiva, che va dalla stipulazione del contratto fino alle vicende del suo adempimento, e riguardano la disciplina dei rapporti scaturenti dal contratto, sono devolute al giudice ordinario; l’asse della giurisdizione non è spostato dall’intervento, tra le parti, di sentenza del giudice amministrativo di annullamento del provvedimento di affidamento in concessione, con conseguente dichiarazione d’inefficacia del contratto limitata, ex art. 121, comma 1, c.p.a., alle prestazioni ancora da eseguire, atteso che, in tale caso, le prestazioni già eseguite restano legate dal sinallagma contrattuale e rimangono sottoposte alla disciplina privatistica che le regolava prima, continuando a collocarsi nella fase esecutiva del contratto e, quindi al di fuori dal raggio di applicazione della giurisdizione esclusiva ex art. 133, comma 1, lett. e), c.p.a., atteso che non viene in rilievo l’esercizio di poteri discrezionali.

Secondo Sez. U, n. 07005/2020, Cosentino, Rv. 657221-01, l’affidamento a terzi (nella specie, a soggetto estraneo alla società di progetto) di servizi, oggetto di concessione, ad opera di concessionario di lavori pubblici, che non sia amministrazione aggiudicatrice, non soggiace alle regole dell’evidenza pubblica, sicché le relative controversie, in quanto afferenti alla fase esecutiva del rapporto successiva all’aggiudicazione, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario.

Sez. U, n. 05594/2020, Scoditti, Rv. 657200-01, ha chiarito che la lite relativa alla fase di esecuzione di una convenzione avente ad oggetto la costruzione e la gestione di un’opera pubblica appartiene alla giurisdizione ordinaria, per essere sussumibile nella unitaria categoria, regolata dal d.lgs. n. 163 del 2006, della “concessione di lavori pubblici”, nella quale la gestione funzionale ed economica dell’opera non costituisce un accessorio eventuale della concessione di costruzione, ma la controprestazione principale e tipica a favore del concessionario. (Nella specie, veniva in rilievo una procedura di finanza di progetto, cd. project financing, in cui la controversia non riguardava la fase pubblicistica di scelta del promotore, che si conclude con la concessione, ma quella privatistica introdotta dalla convenzione, che regola i rispettivi diritti ed obblighi delle parti).

Infine, Sez. U, n. 28978/2020, Tricomi, Rv. 659874-01, ha precisato che sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo, e non quella del giudice ordinario, nella controversia instaurata dal commissario straordinario delegato per il rischio idrogeologico per ottenere, a fronte del silenzio serbato dall’amministrazione, il riconoscimento delle competenze relative all’attività svolta, avuto riguardo al petitum sostanziale della domanda, che investe l’esercizio della discrezionalità amministrativa nella determinazione del compenso (sia con riguardo alla quota fissa, da stabilire tra un minimo e un massimo, sia con riguardo a quella variabile, che richiede a monte la fissazione degli obiettivi), ed alla posizione soggettiva di mero interesse legittimo conseguentemente configurabile in capo all’interessato.

10. L’attività sanitaria.

Vi sono stati pure interventi chiarificatori della S.C. nel settore dell’attività sanitaria.

Al riguardo, Sez. U, n. 23744/2020, Rubino, Rv. 659287-01, ha affermato che, in tema di attività sanitaria esercitata in regime di cd. accreditamento, la domanda volta alla corresponsione della differenza tra gli importi già erogati dalla ASL e l’incremento riconosciuto da un regolamento regionale rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di controversia avente ad oggetto l’effettiva spettanza dei corrispettivi in favore del concessionario, che non coinvolge la verifica dell’attività autoritativa della P.A., e ciò anche laddove la ASL eccepisca la carenza, in capo al richiedente, dei requisiti per poter fruire dell’accreditamento, trattandosi di requisiti stabiliti dalla legge.

11. Gli enti.

Secondo Sez. U, n. 08238/2020, Mercolino, Rv. 657631-01, le controversie relative all’adozione ed alla modificazione dello statuto della S.I.A.E., ente pubblico economico a base associativa, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, in ragione della formulazione ampia ed omnicomprensiva dell’art. 1, comma 2, della legge n. 2 del 2008, dell’assoggettamento del predetto ente alle norme di diritto privato nonché della natura ed efficacia dello statuto, quale atto alla cui formazione concorre la volizione autonoma degli associati, espressa attraverso la deliberazione dell’assemblea, che incide su posizioni degli stessi associati all’interno della società qualificabili come diritti soggettivi.

Inoltre, Sez. U, n. 05593/2020, Cirillo F.M., Rv. 657199-01, ha ribadito l’orientamento di Sez. U, n. 12215/2006, Rv. 588772-01, per il quale, in tema di cooperative edilizie, anche fruenti del contributo erariale, il riparto della giurisdizione deve ritenersi fondato sulle comuni regole correlate alla posizione soggettiva prospettata nel giudizio, distinguendo la fase pubblicistica, caratterizzata dall’esercizio di poteri finalizzati al perseguimento di interessi pubblici, e, corrispondentemente, da posizioni di interesse legittimo del privato, da quella privatistica, nella quale l’assegnatario vanta un diritto soggettivo. Ne consegue che sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie attinenti a pretesi vizi di legittimità dei provvedimenti emessi nella prima fase, mentre sono riconducibili alla giurisdizione del giudice ordinario le liti in cui siano in discussione cause sopravvenute di estinzione o di risoluzione del rapporto.

12. Le domande di accertamento dei diritti, di pagamento di somme di denaro e di risarcimento del danno.

Molteplici, come di consueto, sono state le questioni concernenti la protezione dei diritti fondamentali e il risarcimento del danno, ad esempio in materia di salute e di rapporti di lavoro.

Con riguardo alla tutela del diritto alla salute, Sez. U, n. 25578/2020, Giusti, Rv. 659460-01, ha affermato che la controversia nella quale il privato, previo accertamento della rumorosità, molestia e intollerabilità delle immissioni prodotte dagli aerogeneratori di un parco eolico, nonché degli effetti pregiudizievoli da esse recati alla salute propria e dei suoi familiari e al valore economico della sua proprietà, ne abbia domandato la cessazione o, almeno, la riduzione entro i limiti della tollerabilità, unitamente al risarcimento del danno, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, avuto riguardo al petitum sostanziale della domanda, la quale non concerne l’annullamento del provvedimento amministrativo di autorizzazione all’istallazione e gestione dell’impianto di produzione di energia elettrica da fonte eolica (né presuppone l’accertamento della sua illegittimità), ma ha ad oggetto la tutela dei diritti soggettivi alla salute e di proprietà, sul fondamento della violazione dei limiti di tollerabilità previsti dall’art. 844 c.c.

Per Sez. U, n. 25210/2020, Tria, Rv. 659294-01, appartiene alla giurisdizione ordinaria la controversia introdotta dal dipendente di un Corpo Forestale regionale per ottenere il riconoscimento del diritto a un superiore inquadramento, previa disapplicazione del decreto del Presidente della Regione contenente un diverso criterio di classificazione del personale, atteso che gli appartenenti al Corpo forestale delle Regioni sono titolari di un rapporto di lavoro privatizzato e che, ai fini della giurisdizione, occorre avere riferimento al petitum sostanziale, radicandosi la giurisdizione del giudice ordinario ogni qual volta detto petitum abbia per oggetto non direttamente il provvedimento amministrativo di macroorganizzazione, ma l’inquadramento in una diversa categoria contrattuale, con le correlative progressioni economiche medio tempore maturate.

Nella stessa ottica, ad avviso di Sez. U, n. 25207/2020, Tria, Rv. 659548-01, la giurisdizione sulla controversia attinente ad un rapporto di lavoro subordinato con la Stazione sperimentale per l’industria delle conserve alimentari, protrattosi dal 1995 al 2004, spetta al giudice ordinario anche in relazione a questioni relative al periodo antecedente al 1° luglio 1998, non ostando a tale conclusione il disposto dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, il quale, in ossequio alla ratio di evitare il frazionamento della tutela giurisdizionale, deve essere interpretato nel senso di riconoscere la generale giurisdizione del giudice ordinario in ordine ad ogni questione afferente ai rapporti di lavoro che pure siano stati instaurati anteriormente alla data suddetta, laddove unitaria risulti essere la fattispecie dedotta in giudizio, residuando la giurisdizione del giudice amministrativo per le sole questioni che riguardino unicamente il periodo antecedente a tale data.

Il medesimo ragionamento è alla base di Sez. U, n. 19668/2020, Torrice, Rv. 658852-01, secondo cui la determinazione con la quale il direttore di un’Azienda Sanitaria Locale, per affidare l’incarico di dirigente di struttura complessa, ai sensi dell’art. 15 ter del d.lgs. n. 502 del 1992, indice un nuovo avviso pubblico invece di procedere allo scorrimento nell’ambito della terna selezionata in esito a precedente procedura, si compendia in un atto adottato in base alla capacità ed ai poteri propri del datore di lavoro privato, trattandosi di scelta essenzialmente fiduciaria di un professionista ad opera del direttore generale della ASL in base ad un elenco di soggetti ritenuti idonei, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario, anche in virtù del principio di concentrazione delle tutele, non potendo frazionarsi la giurisdizione con riferimento alle singole fasi del procedimento.

Pertanto, per Sez. U, n. 06455/2020, Vincenti, Rv. 657214-01, la procedura per il conferimento di incarico di direttore di struttura complessa, prevista dagli artt. 15 e 15 ter del d.lgs. n. 502 del 1992, ha carattere non concorsuale - anche a seguito delle modifiche introdotte con il d.l. n. 158 del 2012, conv. con modif. in l. n. 189 del 2012 -, essendo articolata seguendo uno schema che prevede la scelta di carattere essenzialmente fiduciario di un professionista ad opera del direttore generale della ASL, nell’ambito di un elenco di soggetti ritenuti idonei da un’apposita commissione sulla base di requisiti di professionalità e capacità manageriali; ne deriva che, avendo la fase di nomina carattere dominante rispetto all’intero percorso della selezione, le relative controversie, attinenti sia alla procedura di selezione (ad esempio, concernenti l’accertamento del diritto al conferimento dell’incarico) sia al provvedimento discrezionale, di natura privatistica, del direttore generale, rientrano, per il principio di concentrazione delle tutele, nella giurisdizione del giudice ordinario, non potendo frazionarsi la giurisdizione con riferimento alle singole fasi del procedimento.

Di conseguenza, Sez. U, n. 10089/2020, Mancino, Rv. 657816-01, ha chiarito che la controversia avente ad oggetto la domanda con la quale l’aspirante all’inclusione nell’elenco nazionale di idonei alla nomina di direttore generale delle aziende sanitarie locali, delle aziende ospedaliere e degli altri enti del Servizio sanitario nazionale, previsto dall’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 171 del 2016, denunzi, avendo conseguito un giudizio di inidoneità, la illegittimità del procedimento per la formazione dell’elenco stesso, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, quale giudice naturale dei diritti soggettivi, in quanto l’amministrazione non esercita, nell’ambito del predetto procedimento, poteri discrezionali, ma è chiamata esclusivamente a verificare la sussistenza dei presupposti - id est regolare e tempestiva domanda - e dei requisiti normativamente previsti - id est diploma di laurea ed esperienza dirigenziale - nello svolgimento di una attività vincolata, di carattere meramente ricognitivo, della cui natura partecipa anche il giudizio tecnico concernente la verifica dell’esperienza dirigenziale e dei titoli professionali degli aspiranti.

Inoltre, per Sez. U, n. 08633/2020, D’Antonio, Rv. 657632-01, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il rapporto di lavoro del personale universitario con l’azienda sanitaria poiché l’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 517 del 1999 distingue il rapporto di lavoro dei professori e ricercatori con l’università da quello instaurato dagli stessi con l’azienda ospedaliera (anche qualora quest’ultima non si sia ancora trasformata in azienda ospedaliero-universitaria) e dispone che, sia per l’esercizio dell’attività assistenziale sia per il rapporto con le aziende, si applicano le norme stabilite per il personale del servizio sanitario nazionale; pertanto, qualora la parte datoriale si identifichi nell’azienda sanitaria, la qualifica di professore universitario funge da mero presupposto del rapporto lavorativo e l’attività svolta si inserisce nei fini istituzionali e nell’organizzazione dell’azienda, determinandosi, pertanto, l’operatività del principio generale di cui all’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, che sottopone al giudice ordinario le controversie dei dipendenti delle aziende e degli enti del servizio sanitario nazionale.

Sez. U, n. 16452/2020, D’Antonio, Rv. 658337-01, ha precisato, altresì, che, in tema di pubblico impiego privatizzato, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia relativa al diritto all’assunzione, all’esito di una procedura di mobilità esterna, per passaggio diretto tra pubbliche amministrazioni, atteso che, nell’ambito di essa, non viene in rilievo la costituzione di un nuovo rapporto lavorativo a seguito di procedura concorsuale, ma una mera modificazione soggettiva del rapporto preesistente con il consenso di tutte le parti e, quindi, una cessione del contratto.

In questa ottica, ad avviso di Sez. U, n. 07218/2020, Torrice, Rv. 657217-01, ai sensi dell’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario tutte le controversie inerenti ad ogni fase del rapporto di lavoro, incluse quelle concernenti l’assunzione al lavoro ed il conferimento di incarichi dirigenziali, mentre la riserva in via residuale alla giurisdizione amministrativa, contenuta nel comma 4 del citato art. 63, concerne esclusivamente le procedure concorsuali strumentali alla costituzione del rapporto con la P.A., le quali possono essere anche interne, purché configurino progressioni verticali novative e non meramente economiche oppure comportanti, in base alla contrattazione collettiva applicabile, il conferimento di qualifiche più elevate, ma comprese nella stessa area, categoria o fascia di inquadramento. Ne consegue che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la cognizione della controversia avente ad oggetto la domanda di una dipendente volta all’annullamento, tra l’altro, del provvedimento di conferimento ad altro lavoratore di un incarico dirigenziale di natura temporanea, revocabile pure prima della scadenza prevista e non comportante una progressione verticale novativa.

Pertanto, secondo Sez. U, n. 04318/2020, Doronzo, Rv. 657195-01, in materia di procedura di trasferimento e mobilità del personale docente, la controversia avente ad oggetto la domanda di annullamento dell’ordinanza n. 241 dell’8 aprile 2016 del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, adottata ex art. 462, comma 6, d.lgs. n. 297 del 1994, nella parte in cui non consente la valutazione del servizio “pre-ruolo” presso le scuole paritarie, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, in quanto l’ordinanza in questione, lungi dal dettare le linee fondamentali di organizzazione degli uffici o dal determinare le dotazioni organiche complessive, si limita alla previsione di norme di dettaglio circa i termini e le modalità di presentazione delle domande relative alle procedure di mobilità - che non possono essere ascritte alla categoria delle procedure concorsuali per l’assunzione, né equiparate all’ipotesi di passaggio da un’area funzionale ad altra - come definite dalla contrattazione collettiva integrativa nazionale, sicché il petitum sostanziale dedotto involge un atto di gestione della graduatoria, incidente in via diretta sulla posizione soggettiva dell’interessato e sul suo diritto al collocamento nella giusta posizione nell’ambito della graduatoria medesima.

Per ciò che concerne i funzionari onorari, Sez. U, n. 01869/2020, Tria, Rv. 656704-01, ha affermato che, nelle controversie che li riguardano, la giurisdizione deve essere determinata tenendo conto delle situazioni giuridiche, di diritto soggettivo o di interesse legittimo, di volta in volta fatte valere in giudizio, sicché, laddove siano direttamente in contestazione atti amministrativi che hanno la loro origine in libere e discrezionali determinazioni dell’autorità che procede all’investitura, la relativa controversia appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto la posizione dell’interessato è di interesse legittimo, mentre, qualora l’atto emanato dall’autorità che ha attribuito l’incarico onorario non abbia carattere discrezionale, ma vincolato, la situazione fatta valere è qualificabile come diritto soggettivo, con conseguente sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario.

Sez. U, n. 23908/2020, Giusti, Rv. 659613-01, ha chiarito, poi, che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario - non ricadendo nell’ipotesi di giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi configurata dall’art. 133, comma 1, lettera c), d.lgs. n. 104 del 2010 (c.p.a.) - la domanda inibitoria e risarcitoria da illecito scarico a mare di un rivo adibito a pubblica fognatura, promossa nei confronti della P.A. e del suo concessionario, gestore del servizio idrico integrato, dal concessionario di un compendio demaniale destinato a porto turistico, allorché, a fondamento della proposta azione, siano denunciate una mera attività materiale e l’omissione di condotte doverose in violazione del generale principio del neminem laedere, senza che vengano in rilievo atti e provvedimenti amministrativi di cui la condotta dell’amministrazione sia esecuzione.

In ordine alle questioni previdenziali, Sez. U, n. 23597/2020, Tricomi, Rv. 659164-01, ha precisato che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, e non quella del giudice amministrativo, sulla controversia relativa alla domanda dell’INPS volta ad ottenere il risarcimento del danno conseguente alla mancata percezione di interessi sulle somme dovute da un dipendente pubblico per il riscatto dei periodi utili alla determinazione della indennità di buonuscita, danno che si assume derivato dalla tardiva trasmissione all’ente previdenziale, da parte della P.A. ex datrice di lavoro, della documentazione necessaria all’istruttoria della domanda di riscatto; in tal caso, infatti, secondo la prospettazione dell’attore, il danno non deriva dall’inosservanza del termine di conclusione di un procedimento amministrativo nei confronti del destinatario del provvedimento finale, con conseguente giurisdizione esclusiva del g.a. ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a), c.p.a., ma costituisce una possibile conseguenza della definizione della procedura di riscatto, coinvolgendo aspetti inerenti ai rapporti tra l’ente previdenziale e il datore di lavoro, rispetto ai quali la vicenda provvedimentale costituisce una semplice occasione, ossia un mero presupposto di fatto non controverso che fa da sfondo al petitum sostanziale.

In generale, ad avviso di Sez. U, n. 06075/2020, D’Antonio, Rv. 657209-01, la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie annoverate dall’art. 133, lett. l), c.p.a. presuppone che le stesse originino da un atto o provvedimento che sia espressione dell’esercizio di un potere autoritativo della P.A., o dei soggetti a questa equiparati. Ne consegue che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda di un ex dipendente di banca che miri ad ottenere la riqualificazione come non complementare della natura di un Fondo previdenziale, in funzione dell’accertamento dei maggiori emolumenti pensionistici pretesi.

Allo stesso tempo, Sez. U, n. 05591/2020, D’Oronzo, Rv. 657204-01, ha chiarito che le controversie in materia di impiego alle dipendenze dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quanto il relativo rapporto di lavoro, la cui fonte di regolamentazione è costituita da un atto normativo di competenza del Consiglio dell’Istituto e non già dal contratto collettivo, è rimasto assoggettato alla disciplina pubblicistica ed escluso dalla privatizzazione - non avendo inciso sul quadro normativo l’art. 133 c.p.a., norma processuale meramente ricognitiva che sottrae alla giurisdizione esclusiva i soli rapporti qualificabili di impiego privato -, avuto riguardo all’elevato tasso di tecnicità ed all’autonomia dell’Istituto dal potere esecutivo, che non possono non riflettersi anche sul momento conformativo del rapporto di lavoro del personale.

Per Sez. U, n. 23418/2020, Vincenti, Rv. 659285-02, in tema di concessioni per l’esercizio di scommesse ippiche, la controversia introdotta per ottenere la condanna della P.A. concedente al risarcimento del danno derivato ai concessionari dal sopravvenuto mutamento delle condizioni economiche poste a base della convenzione (per il venire meno di fatto della riserva esclusiva pubblica della relativa gestione a seguito dell’ingresso illegale nel mercato di operatori esteri), nonché dalla mancata attivazione di sistemi di accettazione di scommesse a quota fissa e per via telefonica e telematica, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, vertendo la stessa sulla fase di attuazione del rapporto concessorio e venendo in considerazione profili che attengono non già all’esercizio di poteri autoritativi incidenti sul momento funzionale dello stesso rapporto, ma all’accertamento dell’inadempimento, da parte della P.A. concedente, delle obbligazioni sostanzianti il rapporto giuridico convenzionale a carattere paritetico, sicché la predetta controversia può essere compromessa in arbitrato rituale.

Inoltre, Sez. U, n. 09772/2020, Scrima, Rv. 657855-01, ha affermato che è devoluta alla giurisdizione ordinaria, e non a quella amministrativa, la domanda con cui i prossimi congiunti della vittima di un omicidio invochino la condanna del Ministero della difesa al risarcimento del danno provocato dalla condotta omissiva dei Carabinieri, consistita nella mancata trasmissione agli organi competenti (Questore, Prefetto e Procuratore della Repubblica) della notizia delle denunce precedentemente presentate dalla vittima circa il comportamento aggressivo, irascibile e privo di controllo reiteratamente serbato nei suoi confronti dall’uccisore, atteso che una tale domanda è volta ad ottenere il risarcimento del danno cagionato non già dalla mancata o illegittima adozione di un provvedimento amministrativo discrezionale, ma dal comportamento materiale asseritamente illecito tenuto dalla P.A. attraverso i propri dipendenti, tale da incidere direttamente su posizioni di diritto soggettivo del privato.

Sez. U, n. 21993/2020, Vincenti, Rv. 659163-01, ha precisato, altresì, che, in tema di immissioni acustiche provenienti da aree pubbliche, appartiene alla giurisdizione ordinaria la controversia avente ad oggetto la domanda, proposta da cittadini residenti nelle zone interessate, di condanna della P.A. a provvedere, con tutte le misure adeguate, all’eliminazione o alla riduzione nei limiti della soglia di tollerabilità delle immissioni nocive, oltre che al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, patiti, atteso che l’inosservanza da parte della P.A. delle regole tecniche o dei canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni può essere denunciata dal privato davanti al giudice ordinario non solo per conseguire la condanna della P.A. al risarcimento dei danni, ma anche per ottenerne la condanna ad un facere, tale domanda non investendo scelte ed atti autoritativi della P.A., ma un’attività soggetta al principio del neminem laedere.

Sez. U, n. 20869/2020, De Stefano, Rv. 659020-01, ha chiarito, altresì, che la controversia introdotta da una società di emittenza radiofonica titolare di rituale concessione per trasmettere su una certa frequenza, volta ad ottenere la cessazione della turbativa del libero e pacifico esercizio dell’attività di impresa, derivante dalla dannosa interferenza, sulle proprie trasmissioni, di quelle poste in essere da un’altra emittente attraverso l’esercizio materiale di un impianto privo di autorizzazione, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che non si contesta la legittimità di un provvedimento amministrativo o, comunque, dell’esercizio, almeno mediato, di un pubblico potere, ma si invoca il riconoscimento dei diritti fondati sul provvedimento concessorio e si fa valere l’illiceità della situazione di fatto, originata da un comportamento materiale posto in essere in assoluta carenza di potere, a nulla rilevando che l’emittente autrice della condotta materiale, prospettata come illegittima, sia la società concessionaria del servizio pubblico nazionale o una società da questa controllata.

In ordine al settore bancario e finanziario, Sez. U, n. 06324/2020, Lamorgese, Rv. 657222-01, ha affermato che le controversie relative alle domande proposte da investitori e azionisti nei confronti delle autorità di vigilanza (Banca d’Italia e CONSOB) per i danni conseguenti alla mancata, inadeguata o ritardata vigilanza su banche e intermediari sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, non venendo in rilievo la contestazione di poteri amministrativi, ma di comportamenti doverosi posti a tutela del risparmio, che non investono scelte ed atti autoritativi, essendo tali autorità tenute a rispondere delle conseguenze della violazione dei canoni comportamentali della diligenza, prudenza e perizia, nonché delle norme di legge e regolamentari relative al corretto svolgimento dell’attività di vigilanza, quali espressione del principio generale del neminem laedere.

Con riferimento alle persone disabili, secondo Sez. U, n. 20164/2020, Giusti, Rv. 658855-01, in tema di riparto di giurisdizione, spetta al giudice ordinario (e non al giudice amministrativo) conoscere della controversia relativa alla mancata attuazione, in favore di una persona disabile, del progetto individuale predisposto dalla P.A. ai sensi dell’art. 14 l. n. 328 del 2000 poiché, a seguito dell’adozione di tale progetto, il portatore di disabilità diviene titolare di una posizione di diritto soggettivo alla concreta erogazione delle prestazioni e dei servizi ivi programmati, per il cui espletamento non è richiesto l’esercizio di alcuna potestà autoritativa.

Pertanto, ad avviso di Sez. U, n. 01870/2020, Lombardo, Rv. 656799-01, la domanda con la quale i genitori di un minore portatore di handicap invochino la condanna dell’amministrazione scolastica al risarcimento del danno non patrimoniale derivato al minore dalla omessa tempestiva attuazione di un precedente provvedimento cautelare, con il quale la stessa amministrazione era stata condannata ad integrare il numero delle ore didattiche previste dal piano educativo individualizzato (PEI) per insufficienza delle stesse, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che l’ordine giudiziale rimasto disatteso si è sostituito al predetto piano educativo, facendo sorgere il diritto soggettivo del minore disabile a fruire del maggior numero di ore di servizio scolastico stabilite dall’autorità giudiziaria, non residuando alcun ambito di esercizio di potere discrezionale per la pubblica amministrazione.

Con una ulteriore pronuncia, Sez. U, n. 19666/2020, Di Marzio M., Rv. 658834-01, ha confermato l’indirizzo di Sez. U, n. 21577/2011, Travaglino, Rv. 619040-01, per cui l’azione risarcitoria proposta dalla curatela di una società calcistica fallita nei confronti della Federazione Italiana Gioco Calcio e della Lega Nazionale Professionisti, per omessa vigilanza sulla regolarità contabile della società assoggettata a fallimento, è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 104 del 2010 (c.p.a.) che, all’art. 133, comma 1, lettera z), ha ribadito il criterio di attribuzione della giurisdizione preesistente; l’azione risarcitoria che venga proposta nei confronti di soggetti privati è, invece, assoggettata alla giurisdizione del giudice ordinario.

In tema di azioni di nunciazione nei confronti della P.A., Sez. U, n. 19667/2020, Di Marzio M., Rv. 658851-02, ha precisato che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario qualora l’attore denunci attività materiali dell’amministrazione che possano recare pregiudizio a beni di cui egli si assume proprietario o possessore e, in relazione al petitum sostanziale della sottostante pretesa di merito, la domanda risulti diretta a tutelare una posizione di diritto soggettivo e non si lamenti l’emissione di atti o provvedimenti ricollegabili all’esercizio di poteri discrezionali spettanti alla P.A. In particolare, la S.C. ha ravvisato la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione ad una denuncia di nuova opera esperita da un privato nei confronti di una società, risultata concessionaria di opera pubblica all’esito di una procedura di project financing, con riferimento al se ed al come dell’opera da realizzarsi, consistente nell’edificazione, a ridosso dell’abitazione dell’originario attore, di un’autostazione di pullman con tettoia.

Inoltre, Sez. U, n. 09281/2020, Lombardo, Rv. 657661-01, ha affermato che è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo l’azione possessoria con la quale si denunci un contegno della pubblica amministrazione consistente nell’attuazione di un piano urbanistico esecutivo (PUE) approvato dall’autorità comunale, risolvendosi la tutela possessoria invocata nella richiesta di controllo della legittimità del potere amministrativo esercitato con il provvedimento di approvazione di detto piano.

Con riferimento ai profili petitori, secondo Sez. U, n. 07639/2020, Scrima, Rv. 657445-01, spetta al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda di accertamento dei confini tra un terreno privato e il demanio marittimo proposta dal privato nei confronti della P.A., avendo tale domanda per oggetto l’accertamento dell’esistenza e dell’estensione del diritto soggettivo di proprietà privata rispetto alla proprietà demaniale.

Per Sez. U, n. 07529/2020, Acierno, Rv. 657443-01, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda risarcitoria, proposta dal privato nei confronti della P.A., per i danni derivati alla proprietà privata in conseguenza di comportamenti colposi determinatisi nella fase di progettazione e realizzazione di un’opera pubblica, trovando essa fondamento nell’inosservanza di regole tecniche o di canoni di diligenza e prudenza nell’esecuzione dei lavori, senza che siano interessati atti autoritativi e scelte dell’amministrazione medesima.

Con riguardo al settore urbanistico, Sez. U, n. 14231/2020, Valitutti, Rv. 658117-01, ha chiarito che la causa petendi della domanda con cui il beneficiario di un permesso di costruire, successivamente annullato in autotutela in quanto illegittimo, abbia invocato la risoluzione del contratto di compravendita del terreno, nonché la condanna della P.A. al risarcimento dei danni conseguenti alla lesione dell’incolpevole affidamento sulla legittimità del predetto atto ampliativo, risiede non già nella lesione di un interesse legittimo pretensivo (giacché non è in discussione la legittimità del disposto annullamento), ma nella lesione del diritto soggettivo all’integrità del patrimonio; pertanto, la controversia è devoluta alla giurisdizione ordinaria, atteso che, avuto riguardo al detto petitum sostanziale, il provvedimento amministrativo non rileva in sé (quale elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria, della cui illegittimità il giudice è chiamato a conoscere principaliter), ma come fatto (rilevabile incidenter tantum) che ha dato causa all’evento dannoso subito dal patrimonio del privato.

Ancora con riguardo all’edilizia, nel caso in esame residenziale pubblica, Sez. U, n. 27768/2020, Cosentino, Rv. Rv. 660028 - 01, ha precisato, in una controversia concernente la convenzione per mezzo della quale il Comune, nell’esercizio della propria potestà di governo del territorio, ha concretamente attribuito la destinazione ad edilizia residenziale pubblica al terreno di proprietà di una società privata, che sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo “in relazione agli accordi integrativi del contenuto di provvedimenti amministrativi di natura concessoria” i quali, costituendo espressione - pur dopo le modifiche apportate dall’art. 7 della l. n. 15 del 2005 all’art. 11 della l. n. 241 del 1990 - di un potere discrezionale della P.A., sono assoggettati al sindacato del giudice al quale appartiene la cognizione sull’esercizio di tale potere.

Sempre in ambito urbanistico, Sez. U, n. 12864/2020, Perrino, Rv. 658057-02, ha affermato che la controversia concernente l’obbligo di pagamento di una tariffa per l’accesso ad una zona a traffico limitato, imposto agli autobus gran turismo in servizio pubblico di linea, appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto l’istituzione di una tale zona costituisce esercizio di un potere pubblico, afferente all’uso del territorio e, dunque, alla materia urbanistica, che conforma la totalità degli aspetti di tale uso, compresa la qualificazione della tariffa di accesso.

Inoltre, ad avviso di Sez. U, n. 03887/2020, Giusti, Rv. 656955-01, la controversia concernente la richiesta di condanna al rimborso delle spese legali sostenute dal funzionario onorario - nella specie, Sindaco di un Comune - per la difesa in un procedimento penale a cui sia stato sottoposto per fatti connessi allo svolgimento di pubbliche funzioni, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, in quanto attiene all’accertamento della sussistenza di un diritto soggettivo, essendo l’ente locale tenuto a fare luogo al predetto rimborso ove ne ricorrano i presupposti di legge ed esulando, nel caso, apprezzamenti di natura discrezionale. Ne consegue che è irrilevante, al fine della soluzione della questione di giurisdizione, accertare se i fatti costitutivi della pretesa azionata si siano verificati in epoca anteriore o successiva all’entrata in vigore dell’art. 7-bis del d.l. n. 78 del 2015, conv. dalla l. n. 125 del 2015, posto che, ai sensi di quest’ultima disposizione, l’ammissibilità del rimborso delle spese legali per gli amministratori locali, nel limite massimo di determinati parametri, non è subordinata a scelte o a valutazioni discrezionali della P.A., ma si ricollega al riscontro di requisiti previsti da normativa di fonte primaria; né, d’altra parte, la circostanza che detto rimborso sia ammissibile, ai sensi della citata disposizione, “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, è suscettibile di incidere sulla posizione soggettiva dell’amministratore locale, degradandola a interesse legittimo, trattandosi di previsione di ordine contabile, dovuta alla necessità di rispettare l’equilibrio di bilancio, che non assegna all’ente territoriale potestà discrezionali nei confronti del suo amministratore.

Con riferimento all’operato della P.A., Sez. U, n. 29178/2020, Scarpa, Rv. 660071 - 01, ha rilevato che non rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo l’azione, proposta ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a., per ottenere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere al riconoscimento del debito fuori bilancio, ex art. 191, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 267 del 2000, trattandosi di domanda comunque correlata ad una pretesa di adempimento contrattuale, rispetto al quale la posizione del privato si configura, pertanto, come diritto soggettivo.

Nella stessa ottica, secondo Sez. U, n. 29175/2020, Stalla, Rv. 660009 - 02, ricade nella giurisdizione del giudice ordinario e non di quello amministrativo l’azione di risarcimento del danno proposta, a titolo di responsabilità diretta e personale, ex art. 28 Cost., nei confronti dei funzionari di una Regione - convenuti in proprio - i quali, nell’ambito di un procedimento amministrativo di rinnovazione o riattivazione della concessione pubblica di sfruttamento di una fonte di acque minerali, abbiano dato corso a comportamenti (di natura sostanzialmente dolosa e penalmente rilevante) posti in essere con abuso delle potestà pubbliche loro conferite e lesivi della sfera giuridica di un privato.

In un settore strettamente attinente alla sfera personale degli individui, Sez. U, n. 07637/2020, Bisogni, Rv. 657473-01, ha precisato che le controversie in materia di rettifica dei dati personali nei registri anagrafici della popolazione coinvolgono situazioni di diritto soggettivo, e non di mero interesse legittimo, ad una corretta indicazione dei dati, attesa la natura vincolata della relativa attività amministrativa, con la conseguenza che la cognizione delle stesse è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario.

In relazione ai rapporti con la P.A., per Sez. U, n. 07641/2020, Acierno, Rv. 657524-01, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda, proposta da una società privata nei confronti di un Comune, avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo e il rimborso dei costi sostenuti per l’erogazione di acqua, da un pozzo privato in gestione, agli abitanti di una località situata nel territorio comunale, fornita, dapprima, su richiesta espressa dell’ente locale e sulla base dell’impegno assunto dallo stesso di farsi carico dell’approvvigionamento idrico e, successivamente, in esecuzione di un’ordinanza contingibile e urgente del Comune medesimo; ciò in quanto il rapporto giuridico instaurato prima della predetta ordinanza può essere inquadrato nell’ambito della negotiorum gestio (stante l’impedimento dell’ente pubblico all’esercizio delle proprie competenze e il vantaggio conseguito all’attività posta in essere dal privato) mentre, per il periodo successivo, la domanda non trova fondamento nell’impugnazione del provvedimento d’urgenza, ma nelle conseguenze economiche derivate dalla sua esecuzione, sicché, per entrambe le scansioni temporali, l’oggetto della controversia è costituito da pretese patrimoniali conseguenti ad un rapporto contrattuale instaurato di fatto.

La questione dell’affidamento del privato nella condotta della P.A. è molto sentita dalla S.C., tanto che Sez. U, n. 08236/2020, Cosentino, Rv. 657613-01, ha chiarito che spetta alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, atteso che la responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa sorge da un rapporto tra soggetti (la pubblica amministrazione ed il privato che con questa sia entrato in relazione) inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da contatto sociale qualificato, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c., e ciò non solo qualora tale danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche ove nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione.

In materia di danno ambientale, Sez. U, n. 08092/2020, Bisogni, Rv. 657588-01, ha precisato che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 310 del d.lgs. n. 152 del 2006, le controversie derivanti dall’impugnazione, da parte dei soggetti titolari di un interesse alla tutela ambientale di cui al precedente art. 309, dei provvedimenti amministrativi adottati dal Ministero dell’ambiente per la precauzione, la prevenzione e il ripristino ambientale, restando invece ferma la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alle cause risarcitorie o inibitorie promosse da soggetti ai quali il fatto produttivo di danno ambientale abbia cagionato un pregiudizio alla salute o alla proprietà, secondo quanto previsto dall’art. 313, comma 7, dello stesso decreto legislativo. L’eventualità che l’attività nociva sia svolta in conformità a provvedimenti autorizzativi della P.A. non incide sul riparto di giurisdizione (atteso che ai predetti provvedimenti non può riconoscersi l’effetto di affievolire diritti fondamentali dei terzi), ma esclusivamente sui poteri del giudice ordinario, il quale, nell’ipotesi in cui l’attività lesiva derivi da un comportamento materiale non conforme ai provvedimenti amministrativi che ne rendono possibile l’esercizio, provvederà a sanzionare, inibendola o riportandola a confomità, l’attività rivelatasi nociva perché non conforme alla regolazione amministrativa, mentre, qualora risulti tale conformità, dovrà disapplicare la predetta regolazione ed imporre la cessazione o l’adeguamento dell’attività in modo da eliminarne le conseguenze dannose.

Infine, ad avviso di Sez. U, n. 28979/2020, Carrato, Rv. Rv. 660007 - 01, la controversia avente ad oggetto la domanda autonoma di risarcimento danni proposta da colui che, avendo ottenuto l’aggiudicazione in una gara per l’affidamento di un pubblico servizio, successivamente annullata o revocata, deduca la lesione dell’affidamento ingenerato dal provvedimento di aggiudicazione apparentemente legittimo, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, non essendo chiesto in giudizio l’accertamento dell’illegittimità dell’aggiudicazione e, quindi, non rimproverandosi alla P.A. l’esercizio illegittimo di un potere consumato nei suoi confronti, ma la colpa consistita nell’averlo indotto a sostenere spese nel ragionevole convincimento della prosecuzione e dell’ultimazione del rapporto precedentemente instauratosi.

  • giurisdizione
  • acqua

CAPITOLO III

LA GIURISDIZIONE DELLE ACQUE PUBBLICHE

(di Stefania Billi )

Sommario

1 La giurisdizione delle acque pubbliche.

1. La giurisdizione delle acque pubbliche.

Il lavoro principale della S.C. in materia è stato anche quest’anno volto, da un lato, all’individuazione del perimetro tra la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche e quella amministrativa, dall’altro, a tracciare una linea di demarcazione tra l’ambito di cognizione della giurisdizione del primo e quella del giudice ordinario specializzato.

In tal senso Sez. U, n. 2710/20, De Stefano, Rv. 656951-01 ha affermato che spetta alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a), del r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, ogni controversia sugli atti amministrativi in materia di acque pubbliche, ancorché non promananti da pubbliche amministrazioni istituzionalmente preposte alla cura degli interessi in materia, idonei ad incidere in maniera non occasionale, ma immediata e diretta, sul regime delle acque pubbliche e del relativo demanio. Restano, viceversa, devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie concernenti atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti e finalizzati ad incidere sul regime di sfruttamento dell’acqua pubblica e del demanio idrico, adottati in preminente considerazione di interessi ambientali, urbanistici o di gestione del territorio. In applicazione del principio, la S.C., pertanto, ha ritenuto riconducibili alla giurisdizione del T.A.R. le impugnazioni di provvedimenti amministrativi riguardanti le infrastrutture di un’impresa titolare di concessione di derivazione di acqua per uso di allevamento ittico e di pesca sportiva, in quanto prospettati come lesivi sotto il profilo urbanistico, edilizio o ambientale.

Una significativa precisazione è stata effettuata da Sez. U, n. 15491/2020, Crucitti, Rv. 658336-01 in tema di concessione di grandi derivazioni idroelettriche, a seguito delle modifiche normative successivamente introdotte all’art. 53 del r.d. n. 1775 del 1933, dapprima con la l. 4 dicembre 1956, n. 1377 e poi con la l. 22 dicembre 1980, n. 925, secondo cui, la discrezionalità originariamente concessa all’amministrazione finanziaria in ordine all’adozione dei provvedimenti riguardanti il sovracanone per il trasporto dell’energia oltre il raggio di quindici chilometri dal territorio dei comuni rivieraschi è stata progressivamente ridotta, sino a fondare il relativo potere sul solo rilievo di specifici requisiti, previsti per legge, in assenza di alcuna valutazione autonoma in termini di opportunità.

Da tale premessa la pronuncia ha fatto derivare il logico corollario, in forza del quale la controversia avente ad oggetto il provvedimento con cui l’autorità amministrativa abbia esercitato il predetto potere, rispetto al quale il destinatario riveste una posizione di diritto soggettivo, appartiene alla giurisdizione del Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche, quale giudice ordinario specializzato, e non a quella del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche. A quest’ultimo, infatti, quale giudice amministrativo in unico grado, è devoluta l’impugnazione, “in via principale”, di atti che costituiscano espressione dell’esercizio di un potere discrezionale, idoneo ad incidere su posizioni di interesse legittimo.

Sulla stessa linea Sez. U, n. 4979/2020, Sambito, Rv. 657202-01, confermando quanto a suo tempo espresso da Sez. U, n. 4784/1998, Garofalo, Rv. 515355-01, ha ribadito che spetta alla cognizione del Tribunale Regionale delle Acque, ai sensi dell’art. 140, lett. b) del r.d. n. 1775 del 1933, quale organo specializzato dell’autorità giudiziaria ordinaria, l’ipotesi in cui il privato insorga avverso il provvedimento amministrativo di perimetrazione di un bacino di acque pubbliche denunciandone l’illegittimità, quale mezzo al fine di tutelare la sua qualità di proprietario di terreni indebitamente inclusi in detto bacino. Il principio trova applicazione anche qualora l’azione implichi la richiesta di annullamento di quel provvedimento. In tal caso, infatti, l’azione si fonda sulla tutela di una posizione di diritto soggettivo, non degradata né affievolita dall’atto amministrativo e, pertanto, esula dalla giurisdizione in unico grado del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.

Appartiene ancora alla giurisdizione del giudice ordinario per Sez. U, n. 7641/2020, Acierno, Rv. 657524-01 la domanda, proposta da una società privata nei confronti di un comune, avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo e il rimborso dei costi sostenuti per l’erogazione di acqua, da un pozzo privato in gestione, agli abitanti di una località situata nel territorio comunale. La particolarità del caso era che l’acqua era stata fornita, in una prima fase, su richiesta espressa dell’ente locale e sulla base dell’impegno assunto dallo stesso di farsi carico dell’approvvigionamento idrico e, successivamente, in esecuzione di un’ordinanza contingibile e urgente dello stesso comune. In proposito, secondo la S.C., il rapporto giuridico instaurato prima della predetta ordinanza può essere inquadrato nell’ambito della negotiorum gestio, stante l’impedimento dell’ente pubblico all’esercizio delle proprie competenze e il vantaggio conseguito all’attività posta in essere dal privato, mentre, per il periodo successivo, la domanda trova fondamento nelle conseguenze economiche derivate dalla sua esecuzione. Per entrambe le scansioni temporali, pertanto, l’oggetto della controversia è costituito da pretese patrimoniali conseguenti ad un rapporto contrattuale instaurato di fatto.

In materia risarcitoria risulta, poi, confermato da Sez. 6 - 3, n. 27207/2020, Graziosi, Rv. 659905 - 01, il principio da ultimo espresso da Sez. 3, n. 10128/2015, Lanzillo, Rv. 635420-01, secondo cui, spettano alla competenza dei tribunali regionali delle acque, ai sensi dell’art. 140, lett. e), r.d. n. 1775 del 1933, le domande risarcitorie in relazione alle quali l’esistenza dei danni dipenda dall’esecuzione, dalla manutenzione o dal funzionamento di un’opera idraulica. Restano, viceversa, riservate alla cognizione del giudice in sede ordinaria quelle aventi per oggetto pretese che si ricollegano solo indirettamente e occasionalmente alle vicende concernenti il governo delle acque, atteso che la competenza del giudice specializzato si giustifica in presenza di comportamenti, commissivi od omissivi, che implichino apprezzamenti circa la deliberazione, la progettazione e l’attuazione di opere idrauliche o comunque scelte della P.A. dirette alla tutela di interessi generali correlati al regime delle acque pubbliche. Appare significativo ricordare che la S.C. ha dato applicazione al principio sopra esposto, escludendo la competenza del tribunale regionale delle acque in una controversia avente per oggetto il risarcimento di danni causati dallo straripamento di un fiume per omessa cura o manutenzione dello stesso da parte dell’amministrazione comunale.

Nella prospettiva processuale, invece, Sez. U, n. 7833/2020, Stalla, Rv. 657603-01 consolida l’indirizzo a suo tempo espresso da Sez. U, n. 15251/2002, Di Nanni, Rv. 558083-01, secondo cui, con riguardo alle decisioni rese, in sede di giurisdizione amministrativa, dal Tribunale superiore delle acque pubbliche nelle materie di cui all’art. 143 del r.d. n. 1775 del 1933, il ricorso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione è esperibile, oltre che per i vizi indicati dall’art. 201 del citato regio decreto (incompetenza ed eccesso di potere), per ogni violazione di legge, sostanziale e processuale, e non per soli motivi inerenti alla giurisdizione, essendo tale limitazione operante, a norma dell’art. 111 Cost., unicamente per le pronunce del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.

  • responsabilità
  • parere della Corte dei conti
  • impiegato

CAPITOLO IV

LA GIURISDIZIONE DELLA CORTE DEI CONTI

(di Dario Cavallari )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’azione di responsabilità. - 3 Il giudizio di conto. - 4 Pubblico impiego e trattamento pensionistico. - 5 Il ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione. - 6 Ulteriori profili processuali.

1. Premessa.

Gli argomenti di maggiore rilievo trattati dalla S.C. nel corso del 2020 sono stati le azioni di responsabilità, dove è stata confermata la tendenza, in corso da alcuni anni, a ridurre l’area delle scelte insindacabili dei pubblici ufficiali che ricoprano cariche “politiche”, e i profili processuali attinenti all’individuazione dei limiti interni ed esterni della giurisdizione.

2. L’azione di responsabilità.

La tematica dell’azione di responsabilità in materia di contabilità pubblica è sempre attuale e su questa si focalizzano molte pronunce della Suprema Corte.

Con una decisione che riguarda l’attività dei professionisti coinvolti nelle procedure di trasformazione dei Consorzi di Comuni, Sez. U, n. 03806/2020, Bruschetta, Rv. 657192-01, ha chiarito che spetta alla giurisdizione ordinaria, e non a quella contabile, la cognizione dell’azione di risarcimento dei danni, conseguenti all’infedele esecuzione dell’incarico, promossa nei confronti del professionista designato dal Presidente del Tribunale per redigere la perizia giurata di stima del patrimonio di un consorzio di Comuni a seguito della decisione degli enti partecipanti di trasformarlo in società di capitali; ciò in quanto la devoluzione della controversia alla giurisdizione della Corte dei conti presuppone che lo svolgimento dell’incarico professionale si inserisca nel procedimento deliberativo di trasformazione del consorzio, negativamente condizionandolo quanto alla sua conclusione, e sia, pertanto, idoneo a dare luogo ad un rapporto di servizio, pur limitato nel tempo, mentre tale rapporto - che integra un presupposto indefettibile della responsabilità contabile - non si costituisce allorché l’operazione di trasformazione sia già stata precedentemente deliberata dai comuni partecipanti al consorzio, costituendo, in tal caso, l’attività dell’esperto l’oggetto di un incarico professionale di stima a favore di una società di capitali, ancorché partecipata da enti locali, la quale soltanto, unitamente ai suoi creditori e al suo fallimento, è legittimata all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità ai sensi degli artt. 2393 c.c. e 146 l.fall.

In ordine alla tematica dei fondi pubblici erogati ai gruppi partitici dei consigli regionali, Sez. U, n. 05589/2020, Vincenti, Rv. 657218-01, ha affermato che la loro gestione è soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità erariale perché a tali gruppi - pur in presenza di elementi di natura privatistica connessi alla loro matrice partitica - va riconosciuta natura essenzialmente pubblicistica, in quanto strumentale al funzionamento dell’organo assembleare da essi svolta ed in ragione dell’origine pubblica delle risorse e della definizione legale del loro scopo, senza che rilevi il principio dell’insindacabilità di opinioni e voti ex art. 122, comma 4, Cost., non estensibile alla gestione dei contributi. L’accertamento rimesso in tale ambito alla Corte dei conti comprende la verifica di difformità delle attività di gestione del contributo erogato al gruppo consiliare rispetto alle finalità, di preminente interesse pubblico, che allo stesso imprime la normativa vigente, debordando dai limiti esterni della giurisdizione contabile solo allorché investa l’attività politica del presidente del gruppo consiliare o le scelte di merito dal medesimo effettuate nell’esercizio del mandato, e non quando, invece, si mantenga nell’alveo di un giudizio di conformità alla legge dell’azione amministrativa, ai sensi dell’art. 1 della l. n. 20 del 1994.

Infatti, per Sez. U, n. 05590/2020, Vincenti, Rv. 657196-01, la funzione di autorganizzazione interna del Consiglio regionale - della quale costituiscono espressione gli atti che riguardano direttamente l’organizzazione degli uffici e dei servizi, nonché le modalità di svolgimento dell’attività dell’assemblea - partecipa delle guarentigie apprestate dall’art. 122, comma 4, Cost., a tutela dell’esercizio delle primarie funzioni (legislativa, di indirizzo politico e di controllo) delle quali l’organo regionale di rappresentanza politica è investito, onde preservarle dall’interferenza di altri poteri; peraltro, la prerogativa dell’insindacabilità non determina l’esenzione dalla giurisdizione (spettante in via tendenziale alla Corte dei conti) in tema di responsabilità per maneggio di denaro pubblico, non estendendosi all’attività materiale di gestione delle risorse finanziarie, che resta assoggettata all’ordinaria giurisdizione di responsabilità civile, penale e contabile, anche in ragione della non assimilabilità delle assemblee elettive regionali a quelle parlamentari.

Più in generale, Sez. U, n. 06461/2020, De Stefano, Rv. 657213-01, ha precisato che sussiste la giurisdizione della Corte dei conti sull’azione di responsabilità contabile per indebita percezione di contributi a carico dell’erario, proposta nei confronti di uno dei componenti di un organismo pubblico che abbia concorso all’erogazione, anche solo esprimendo sulla spettanza di quei contributi pareri poi rivelatisi infondati o basati su artifizi o raggiri, riguardando, invece, il merito la corretta individuazione della ragione del concorso (nella specie, colpa grave del componente dell’organo collegiale in qualità di professionista a conoscenza delle reali condizioni della società istante cui si riferiva il parere, per avere personalmente contribuito ad istruirne la pratica) o della misura dell’apporto causale tramite il voto favorevole alla deliberazione dell’organo collegiale. Come chiarito da Sez. U, n. 19171/2020, Vincenti, Rv. 658667-01, in ordine alla gestione delle somme erogate a titolo di contributi pubblici ai gruppi consiliari, i capigruppo dei Consigli regionali e tutti i consiglieri regionali restano assoggettati alla responsabilità amministrativa e contabile, senza che rilevi la disciplina regionale (nella specie, l. Regione Lombardia n. 17 del 1992) che preveda l’approvazione dei rendiconti da parte dell’Ufficio di Presidenza, poiché il voto dato in tali sedi rappresenta una ratifica formale di spese già effettuate dai gruppi e non già un atto deliberativo che ne costituisce ex ante il titolo giustificativo, conducendo l’opposta interpretazione al risultato - abnorme e contrario alla natura eccezionale della guarentigia di cui all’art. 122, comma 4, Cost. - di configurare, del tutto ingiustificatamente, una tutela della insindacabilità delle opinioni dei consiglieri regionali più ampia di quella apprestata per i parlamentari nazionali.

Si tratta di una tendenza in atto da alcuni anni e volta a ridurre l’ambito delle determinazioni non sindacabili ad opera dell’autorità giudiziaria, limitando l’area degli interna corporis e delle valutazioni asseritamente politiche ai provvedimenti emessi per necessità strettamente inerenti alle funzioni fondamentali dell’ente e in situazioni ove la facoltà di decisione non debba tenere conto di alcuna indicazione di fonte legislativa.

In ordine ai profili processuali ed ai rapporti con il giudicato, Sez. U, n. 23903/2020, Scarpa, Rv. 659289-01, ha affermato che, in tema di danno erariale, ove la pronuncia di condanna emessa in primo grado a carico di due soggetti ritenuti solidalmente responsabili sia stata appellata per difetto di giurisdizione soltanto da uno di essi, deve ritenersi formato il giudicato implicito sulla sussistenza della giurisdizione del giudice adìto nei confronti del corresponsabile, stante il carattere scindibile dei rapporti giuridici, concretanti un’obbligazione solidale risarcitoria; se ne ricava che il ricorso in cassazione per carenza di giurisdizione proposto dal coobbligato che non aveva sollevato la relativa questione nel grado di appello, deve essere dichiarato inammissibile.

La S.C. si è pure occupata della responsabilità in questione con riferimento ad alcuni specifici enti.

Pertanto, secondo Sez. U, n. 07645/2020, Giusti, Rv. 657525-01, le controversie relative alla responsabilità degli amministratori per danni cagionati al patrimonio della fondazione Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza dei medici e degli odontoiatri (ENPAM) appartengono alla giurisdizione della Corte dei conti, atteso che tale Ente - quantunque trasformato in fondazione con personalità giuridica di diritto privato e con autonomia gestionale, organizzativa e contabile - ha mantenuto un carattere pubblicistico. Tale conclusione si giustifica perché tale Ente è chiamato a svolgere l’attività istituzionale (che si colloca nel quadro tutelato dall’art. 38 Cost.) di previdenza ed assistenza obbligatoria in favore di una particolare categoria di lavoratori, alla quale si accompagna l’obbligatorietà dell’iscrizione e della contribuzione da parte degli iscritti, e in quanto esso è sottoposto ad una penetrante vigilanza ministeriale nonché al controllo della Corte dei conti, oltre ad essere qualificato organismo di diritto pubblico e compreso tra le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato.

Come precisato, poi, da Sez. U, n. 19086/2020, Giusti, Rv. 658849-01, ricorre la giurisdizione del giudice contabile sulla domanda di condanna al risarcimento del danno erariale proposta nei confronti del presidente di una Onlus costituita per erogare prestazioni assistenziali, in favore di persone disabili, attraverso l’utilizzazione di contributi corrisposti da una Asl sulla base di apposita convenzione, atteso che, per un verso, deve ritenersi configurabile un rapporto di servizio tra la P.A e l’associazione privata incaricata di svolgere, nell’interesse e con le risorse della prima, un servizio pubblico in sua vece, assoggettandosi alle relative direttive e al relativo controllo, senza che rilevi il titolo in base al quale la gestione è svolta, e considerato che, per altro verso, la responsabilità erariale - configurabile nell’ipotesi di utilizzo, da parte del soggetto privato, dei contributi pubblici ricevuti per scopi appropriativi non coincidenti con gli interessi istituzionali dell’ente - attinge anche coloro che con l’associazione abbiano intrattenuto un rapporto organico, ove essi, disponendo delle risorse erogate in modo diverso da quello preventivato, abbiano provocato la frustrazione dello scopo perseguito dalla P.A.

Sez. U, n. 08848/2020, Scarano, Rv. 657734-01, ha rilevato, in tema di giudizi di responsabilità amministrativa, che la Corte dei conti può valutare, da un lato, se gli strumenti scelti dagli amministratori pubblici siano adeguati - anche con riguardo al rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti - oppure esorbitanti ed estranei rispetto al fine pubblico da perseguire e, dall’altro, se, nell’agire amministrativo, gli amministratori stessi abbiano rispettato i principi di legalità, di economicità, di efficacia e di buon andamento, i quali assumono rilevanza sul piano della legittimità e non della mera opportunità dell’azione amministrativa. Ne consegue che non viola i limiti esterni della giurisdizione contabile, né quelli relativi alla riserva di amministrazione, la pronuncia con la quale la Corte dei conti riconosca la responsabilità di un Direttore di dipartimento di una Regione per avere il medesimo contribuito a determinare a condizioni diseconomiche l’importo di un accordo transattivo volto alla definizione dei rapporti tra una società e la predetta Regione.

Con riferimento allo svolgimento di incarichi non autorizzati da parte di un dipendente della P.A., Sez. U, n. 00415/2020, Scarano, Rv. 656660-01, ha chiarito che l’azione ex art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, esercitata dal Procuratore della Corte dei conti nei confronti di dipendente della P.A. che abbia omesso di versare alla propria Amministrazione i corrispettivi percepiti nello svolgimento dei menzionati incarichi, rimane attratta alla giurisdizione del giudice contabile, anche se la percezione dei compensi si è avuta in epoca precedente all’introduzione del comma 7-bis del medesimo art. 53, giacché tale norma non ha portata innovativa, vertendosi in ipotesi di responsabilità erariale, che il legislatore ha tipizzato non solo nella condotta, ma annettendo, altresì, valenza sanzionatoria alla predeterminazione legale del danno, al fine di tutelare la compatibilità dell’incarico extraistituzionale in termini di conflitto di interesse e il proficuo svolgimento di quello principale in termini di adeguata destinazione di energie lavorative verso il rapporto pubblico; una volta che il procuratore contabile abbia promosso l’azione di responsabilità in relazione alla tipizzata fattispecie legale, è precluso alla P.A. l’esercizio di quella volta a fare valere l’inadempimento degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, dovendosi escludere - stante il divieto del bis in idem - una duplicità di azioni attivate contestualmente che, seppure con la specificità propria di ciascuna di esse, siano volte a conseguire, dinanzi al giudice munito di giurisdizione, lo stesso identico petitum in danno del medesimo soggetto obbligato in base ad un’unica fonte legale.

Inoltre, per Sez. U, n. 28183/2020, Giusti, Rv. 659867-01, l’azione revocatoria ordinaria, promossa direttamente dalla P.A. danneggiata a tutela di un proprio credito risarcitorio, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, in ciò differenziandosi dall’omologa azione attribuita al P.M. contabile dall’art. 1, comma 174, della l. n. 266 del 2005, devoluta, invece, alla giurisdizione contabile.

Infine, con una pronuncia di grande rilievo sistematico e teorico, Sez. U, n. 10441/2020, Greco, Rv. 657857-01, ha affermato che l’azione di simulazione promossa dal Procuratore regionale della Corte dei conti è ricompresa tra quelle concesse al fine di realizzare la tutela dei crediti erariali, ex art. 1, comma 174, della l. n. 266 del 2005, atteso che essa - potendo essere diretta a tutelare le ragioni creditorie pregiudicate dagli atti simulati, in quanto idonei a menomare la garanzia generica del credito di cui all’art. 2740 c.c. - ha natura accessoria e strumentale rispetto al predetto fine e deve, pertanto, ritenersi non estranea alle materie della contabilità pubblica, riservate, ai sensi dell’art. 103 Cost., alla giurisdizione della Corte dei conti.

3. Il giudizio di conto.

Il rapporto fra denaro pubblico e soggetti diversi dallo Stato e dagli enti pubblici è sempre stato di problematico inquadramento giuridico.

Sul punto, con riferimento ai profili processuali della materia, Sez. U, n. 07640/2020, Scrima, Rv. 657523-01, ha precisato che, nel giudizio per resa del conto dinanzi alla Corte dei conti, la notifica all’agente contabile dell’intimazione a rendere il conto e del decreto di fissazione della pubblica udienza, in caso di mancata presentazione del conto nel termine, nonché la notifica delle “decisioni interlocutorie della Corte contenenti osservazioni sul conto”, non precludono il regolamento preventivo di giurisdizione, trattandosi di provvedimenti aventi portata esclusivamente istruttoria non suscettibili di passaggio in giudicato, finalizzati a provocare il contraddittorio, abilitando l’agente ad esercitare il diritto di difesa e a contestare la veste di agente contabile, senza implicare una decisione sulla giurisdizione né sul merito.

Inoltre, ad avviso di Sez. U, n. 07640/2020, Scrima, Rv. 657523-02, ai fini della sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità contabile, la società appaltatrice del servizio di contazione giornaliera e riepilogo settimanale dei tickets sanitari incassati da una ASL riveste la qualifica di agente contabile, per essere a tal fine elementi essenziali e sufficienti il carattere pubblico dell’ente per il quale il soggetto agisca e del denaro o del bene oggetto della gestione, restando irrilevante, invece, il titolo in base al quale la gestione è svolta, che può consistere in un rapporto di pubblico impiego o di servizio, in una concessione amministrativa, in un contratto e perfino mancare del tutto, in quanto il relativo rapporto può modellarsi secondo gli schemi generali previsti e disciplinati dalla legge, ovvero discostarsene in tutto o in parte.

4. Pubblico impiego e trattamento pensionistico.

Occupandosi di pubblico impiego e pensioni, Sez. U, n. 12863/2020, Mancino, Rv. 658038-01, ha chiarito che la controversia promossa dal coniuge superstite di dipendente privato avente ad oggetto la domanda di ricongiunzione di periodi pregressi di contribuzione presso una gestione statale rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non già in quella della Corte dei conti, poiché la predetta controversia non presenta alcuna attinenza con questioni in ordine al mancato accredito o all’inesatta contabilizzazione di contributi previdenziali dovuti in riferimento ad un rapporto di pubblico impiego, venendo in rilievo, invece, il nesso inscindibile tra la sommatoria dei periodi assicurativi e la liquidazione dell’unica pensione che si pretende di commisurare al coacervo contributivo, con la conseguenza che al predetto giudice ordinario, deputato a conoscere del diritto e della misura della predetta pensione, compete anche la giurisdizione sull’eventuale sommatoria dei distinti periodi assicurativi.

In tema di assegno di invalidità, per Sez. U, n. 07830/2020, D’Antonio, Rv. 657527-01, la domanda di accertamento delle condizioni sanitarie preordinate al riconoscimento dell’assegno di invalidità introdotta con procedimento ex art. 445-bis c.p.c. dal pubblico dipendente, in quanto strumentale all’adozione del provvedimento amministrativo di attribuzione della prestazione pensionistica, appartiene alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti, che ricomprende tutte le controversie funzionali e connesse al diritto alla pensione dei pubblici dipendenti.

Infine, ad avviso di Sez. U, n. 22807/2020, Doronzo, Rv. 659049-01, la domanda avente ad oggetto il risarcimento del danno da mancata attuazione della previdenza complementare per il personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico, riservata alla concertazione-contrattazione, ai sensi delle disposizioni degli artt. 26, comma 20, della l. n. 448 del 1998, e 3, comma 2, del d.lgs. n. 252 del 2005, è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, attenendo all’inadempimento di prestazioni di contenuto strettamente inerenti al rapporto di pubblico impiego, non già a materia riguardante un trattamento pensionistico a carico dello Stato, sicché la relativa controversia esula dalla giurisdizione della Corte dei conti.

5. Il ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione.

La questione dei limiti del sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni contabili è sempre di attualità.

Innanzitutto, Sez. U, n. 05589/2020, Vincenti, Rv. 657218-02, ha precisato che non è affetta da eccesso di potere giurisdizionale la pronuncia della Corte dei conti che abbia accertato la responsabilità erariale di un consigliere regionale per illecita gestione del denaro pubblico ricevuto per le spese di rappresentanza del gruppo consiliare di appartenenza relative a manifestazioni od attività di cui sia stato incaricato, sul presupposto della mancata documentazione delle stesse con adeguate “pezze d’appoggio” (quali scontrini, fatture o note di incarico), allorché la necessità di tale documentazione, in funzione dell’adeguato riscontro della pertinenza delle spese ad un concreto ed attuale interesse del gruppo consiliare, sia stata desunta in via interpretativa da una norma di legge (nella specie, l’art. 6 comma 2, della l.r. Emilia Romagna n.32 del 1997), atteso che l’attività di interpretazione, anche quando la voluntas legis sia stata individuata, non in base al tenore letterale delle singole disposizioni, ma alla ratio che esprime il loro coordinamento sistematico, rappresenta il proprium della funzione giurisdizionale e non può, dunque, integrare, di per sé sola, la violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale, ma, tutt’al più, dare luogo ad un error in iudicando.

Inoltre, secondo Sez. U, n. 06462/2020, Nazzicone, Rv. 657223-01, che segue, al riguardo, Sez. U, n. 09680/2019, Frasca, Rv. 653785-01, il giudice contabile non viola i limiti esterni della propria giurisdizione qualora censuri non già la scelta amministrativa adottata, bensì il modo con il quale quest’ultima è stata attuata, profilo che esula dalla discrezionalità amministrativa, dovendo l’agire amministrativo comunque ispirarsi a criteri di economicità ed efficacia. In particolare, la S.C. ha escluso la configurabilità del preteso vizio di eccesso di potere giurisdizionale in relazione alla decisione del giudice contabile che aveva ravvisato la responsabilità amministrativa di un sindaco per avere proposto una domanda temeraria di risarcimento del danno da diffamazione a nome del Comune, così determinando la condanna di quest’ultimo al pagamento di elevate spese legali, essendo stata l’introduzione di quel giudizio caratterizzata da colpa grave, in quanto la pretesa diffamazione avrebbe semmai potuto riguardare gli amministratori comunali in proprio, ma non l’ente come tale.

Sez. U, n. 24376/2020, Conti, Rv. 659292-01, ha affermato, quindi, che l’accertamento della responsabilità per danno erariale operato dal giudice contabile nei confronti di amministratori comunali per avere assunto come direttore generale un soggetto privo del titolo di laurea non integra un’ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale atteso che siffatto accertamento, lungi dall’invadere il merito dell’azione amministrativa, rientra nell’alveo del controllo della conformità alla legge che regola l’attività amministrativa, il quale implica la verifica della ricorrenza dei presupposti di legge per procedere all’assunzione.

Come rilevato, poi, da Sez. U, n. 19675/2020, Conti, Rv. 658853-01, in tema di sindacato di legittimità sulle decisioni della Corte dei conti, per motivi inerenti alla giurisdizione, è inammissibile il ricorso che si fondi sull’assenza di motivazione della sentenza impugnata per mancata individuazione degli elementi fondativi della responsabilità contabile e la violazione delle regole del giusto processo, trattandosi di vizi che riguardano esclusivamente il sindacato sui limiti interni della giurisdizione, non potendosi configurare il cd. rifiuto di giurisdizione.

Sez. U, n. 19174/2020, Vincenti, Rv. 658832-01, ha chiarito che, in tema di sentenze emesse dalla Corte dei conti, il vizio di costituzione del giudice si traduce in difetto di giurisdizione solo quando si abbia la mancata regolare investitura dell’esercizio della giurisdizione, il che non si verifica in tutti i casi di errori in iudicando o in procedendo, siano essi pure di portata radicale come quello sulla immutabilità del collegio, tenuto conto che soltanto le alterazioni della struttura qualitativa e quantitativa dell’organo giudicante implicano violazione dei limiti esterni della giurisdizione.

Inoltre, Sez. U, n. 19169/2020, Lamorgese, Rv. 658633-01, ha precisato che il ricorso per eccesso di potere giurisdizionale, con cui si denuncia il superamento dei limiti della giurisdizione da parte del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, dev’essere intrinsecamente ammissibile, secondo le modalità redazionali previste dall’art. 366 c.p.c. ed i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, ai fini dell’ammissibilità estrinseca delle singole censure.

In particolare, per Sez. U, n. 19085/2020, Giusti, Rv. 658666-01, il sindacato della S.C. sulle decisioni della Corte dei conti è circoscritto all’osservanza dei limiti esterni della giurisdizione e non si riferisce - neppure a seguito dell’inserimento della garanzia del giusto processo ex art. 111 Cost. - ad asserite violazioni di legge sostanziale o processuale, concernenti il modo di esercizio della giurisdizione speciale. Ne consegue che la negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali o processuali, non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione che, invece, si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione. Pertanto, deve escludersi che le lesioni del diritto al contraddittorio - assuntivamente occorse durante la verifica contabile e nel corso dell’accertamento peritale nell’ambito del giudizio dinanzi alla Corte dei conti - possano essere motivo di ricorso ammissibile in cassazione.

Se ne ricava, secondo Sez. U, n. 25208/2020, Crucitti, Rv. 659610-01, che è inammissibile il motivo di ricorso con il quale si deduca una erronea interpretazione, da parte del giudice contabile, delle norme relative all’interruzione della prescrizione dell’azione di responsabilità amministrativo-contabile (nella specie, dell’art. 1, comma 2, della l. n. 636 del 1996), risolvendosi tale doglianza nel prospettare un error in iudicando, il cui accertamento rientra nell’ambito del sindacato afferente ai limiti interni della giurisdizione e non alla osservanza dei limiti esterni della giurisdizione, gli unici che possono essere dedotti dinanzi alla Corte di cassazione contro le decisioni della Corte dei conti.

Infine, Sez. U, n. 19084/2020, Giusti, Rv. 658848-01, ha affermato che non è configurabile un giudicato implicito sulla giurisdizione in relazione ad una sentenza del giudice speciale di primo grado che sia astrattamente affetta dal vizio di eccesso di potere giurisdizionale poiché, all’interno del plesso giurisdizionale della Corte dei conti e del Consiglio di Stato, tale vizio non dà luogo ad un capo autonomo sulla giurisdizione autonomamente impugnabile, ma si traduce in una questione di merito del cui esame il giudice speciale di secondo grado viene investito con la proposizione dell’appello; l’interesse a ricorrere alle Sezioni Unite potrà sorgere, dunque, esclusivamente rispetto alla sentenza d’appello che, essendo espressione dell’organo di vertice del relativo plesso giurisdizionale speciale, è anche la sola suscettibile di arrecare un vulnus all’integrità della sfera delle attribuzioni degli altri poteri, amministrativo e legislativo.

6. Ulteriori profili processuali.

In primo luogo, ad avviso di Sez. U, n. 00156/2020, Frasca, Rv. 656657-01, in ordine alle questioni di giurisdizione, le Sezioni Unite della Corte di cassazione sono anche giudice del fatto, sicché possono e devono esaminare l’atto negoziale la cui valutazione incida sulla determinazione della giurisdizione, tenendo conto, peraltro, che le risultanze fattuali vanno apprezzate, ai sensi dell’art. 386 c.p.c., per come emergenti dalla domanda giudiziale e dalla sua eventuale precisazione, avuto riguardo alla causa petendi e al petitum sostanziale della stessa, non assumendo rilevanza la successiva attività istruttoria diretta a verificare il fondamento degli elementi dedotti ed allegati.

Inoltre, come chiarito da Sez. U, n. 04314/2020, Frasca, Rv. 657201-01, in tema di regolamento di giurisdizione, nel caso di esercizio dinanzi alla Corte dei conti di azione da parte del P.M. contabile, in assenza della relativa giurisdizione, può solo essere dichiarato il difetto di giurisdizione e non statuita l’appartenenza ad altra giurisdizione, essendo previsto il potere di iniziativa officiosa del detto P.M. solo dinanzi alla giurisdizione contabile e non potendo, quindi, l’azione avere corso presso una diversa giurisdizione.

Va segnalata, altresì, Sez. U, n. 23899/2020, Rubino, Rv. 659456-01, la quale ha ritenuto che la possibilità di proporre ricorso per cassazione, deducendo la configurabilità dell’ipotesi dell’eccesso di potere giurisdizionale da parte di un giudice speciale, quale è la Corte dei conti, non è in alcun modo preclusa dall’accettazione della giurisdizione sul merito della controversia, derivante dal non aver sollevato la relativa questione nei gradi di merito.

Alcune decisioni hanno riguardato il P.M. contabile.

Innanzitutto, per Sez. U, n. 04314/2020, Frasca, Rv. 657201-02, la pronuncia delle Sezioni Unite che abbia determinato la giurisdizione di un giudice diverso da quello contabile su una controversia fra un privato ed una pubblica amministrazione non può spiegare effetti ai fini dell’individuazione della giurisdizione in un giudizio introdotto dal pubblico ministero contabile davanti alla Corte dei conti per invocare la responsabilità del privato per il danno erariale cagionato alla stessa pubblica amministrazione, giacché il pubblico ministero contabile non ha rivestito la qualità di parte nel giudizio del quale si invochi l’efficacia panprocessuale.

Sez. U, n. 05589/2020, Vincenti, Rv. 657218-03, ha precisato, poi, che nei giudizi dinanzi alle Sezioni Unite in sede di ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione, il procuratore generale presso la Corte dei conti ha natura di parte solo in senso formale, sicché è esclusa l’ammissibilità di una pronuncia sulle spese processuali, nonché la condanna della parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata ex art. 96, comma 3, c.p.c., atteso che quest’ultima disposizione presuppone, per la sua applicazione, che vi sia stata una pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91 dello stesso codice.

Infine, Sez. U, n. 08095/2020, Napolitano, Rv. 657587-01, ha affermato che il ricorso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, per motivi di giurisdizione, avverso le pronunce emesse dalla Corte dei conti, non trova ostacolo nella circostanza che tale questione non sia stata sollevata nelle precedenti fasi processuali, ricollegandosi l’effetto preclusivo al solo maturarsi del giudicato interno formatosi per la mancata impugnazione di una pregressa pronuncia resa esplicitamente sulla giurisdizione, ovvero sul merito, nel presupposto implicito della giurisdizione medesima.

  • contratto
  • diritto successorio
  • competenza giurisdizionale
  • giurisdizione

CAPITOLO V

IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE TRA GIUDICE NAZIONALE E GIUDICE STRANIERO

(di Gian Andrea Chiesi, Stefania Billi (3) )

Sommario

1 Premesse generali. - 1.1 (Segue) Le clausole di deroga e di proroga della giurisdizione. - 2 Azioni contrattuali e contratti. Per quanto concerne le azioni contrattuali, - 3 Cause successorie. - 4 Delibazione di sentenze e lodi arbitrali stranieri. - 5 Illeciti civili.

1. Premesse generali.

La tematica dei limiti esterni della giurisdizione ogni anno acquista maggiore spessore nelle pronunce della S.C., in relazione all’evolversi della funzione delle norme sulla giurisdizione, soprattutto quelle relative al rapporto tra il giudice nazionale e quello straniero. Esse, come è ben noto, sono nate e per lungo tempo, almeno fino alla prima metà del novecento, sono state considerate come una delle espressioni della sovranità statale.

È con la Convenzione di Bruxelles del 27 settembre del 1968, resa esecutiva in Italia con la legge 21 giugno 1971, n. 804, che vede per la prima volta vita un trattato internazionale multilaterale sulla giurisdizione e sull’efficacia di atti e decisioni, con cui gli Stati che ne fanno parte si coordinano per potere distribuire tra loro il potere di giurisdizione nei reciproci rapporti: si tratta della prima grande espressione del processo di integrazione europea e del consolidamento dello sviluppo del commercio internazionale realizzando il primo passo verso la modifica della funzione delle norme sulla giurisdizione. La ragione fondante di dette disposizioni risiede, infatti, nell’esigenza di una migliore cooperazione tra gli Stati.

Non è un caso che, con l’adozione della Convenzione, per la prima volta vengano introdotte nel nostro ordinamento la nozione di litispendenza internazionale e la deroga alla giurisdizione italiana: il criterio generale della cittadinanza, espressione tipica dell’originaria concezione sovranista, viene sostituito con quello del domicilio, inizialmente nel solo ambito della Convenzione e successivamente ripreso anche nella l. 31 maggio 1995, n. 218.

L’utilità del sistema adottato con la citata Convenzione ha trovato un chiaro riscontro, quando la Convenzione di Lugano del 16 settembre 1988 ne ha esteso l’applicazione agli Stati dell’allora Comunità Europea ed agli Stati membri di un’altra organizzazione economica, l’Associazione Europea del Libero Scambio (AELS o EFTA dall’acronimo inglese).

A decorrere dal 1° marzo 2002, è entrato in vigore, poi, il Regolamento n. 44 del 2001 (Bruxelles I) del 22 dicembre 2000, che ha sostituito la Convenzione di Bruxelles, determinando, non solo, un mutamento della fonte, da internazionale a comunitaria, ma anche alcune significative modifiche di disciplina. Si ricorda, tuttavia, che la maggior parte delle norme della Convenzione è stata trasfusa nel Regolamento. Il citato Regolamento è l’espressione della nuova competenza acquisita dall’Unione europea ad adottare direttamente atti di diritto internazionale privato, senza dovere ricorrere a convenzioni internazionali.

Il sistema è stato ulteriormente modificato attraverso l’adozione del Regolamento n. 1215 del 12 dicembre 2012 (Bruxelles I-bis) che in buona misura ha riproposto la disciplina del precedente regolamento.

La descritta normativa si caratterizza per una sostanziale continuità, tanto che v’è unanimità di vedute nel senso dell’esistenza di un nucleo della disciplina che regola la giurisdizione internazionale applicato all’intero territorio europeo dalla seconda metà del ‘900 fino ai nostri giorni.

In particolare, nel contesto normativo di quello che viene anche definito “sistema Bruxelles I”, il domicilio del convenuto, come già detto, costituisce il criterio generale di giurisdizione, fondato sulle ragioni di tutela delle esigenze di difesa del convenuto: la condizione è che almeno una delle parti sia domiciliata in uno Stato membro per l’evidente ragione di assicurare un coefficiente minimo di integrazione della lite nella UE.

Accanto al criterio generale del domicilio, però, esistono anche altri criteri - cd. speciali - di individuazione della giurisdizione, previsti per determinate fattispecie e giustificati dal principio di prossimità: a) in materia contrattuale la competenza è attribuita al giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio che, in mancanza di un’autonoma definizione, viene determinata in base alla legge richiamata dalle norme di conflitto del giudice adito; b) per gli illeciti civili di natura extracontrattuale, è stabilita la competenza del giudice del luogo in cui è avvenuto o può avvenire l’evento dannoso: tale criterio è stato ideato per rispondere ai problemi interpretativi posti dagli illeciti cd. a distanza (come, ad esempio, in materia di diffamazione a mezzo stampa, di inquinamento ambientale, di illeciti commessi attraverso la rete Internet; c) ulteriori criteri speciali sono contemplati a protezione delle parti contrattuali deboli, per i contratti di: assicurazione, consumo e lavoro dipendente: per tali figure negoziali il particolare favore consiste nell’offrire alla parte debole che agisce la scelta tra più giudici competenti. Più in generale, criteri speciali volti alla preservazione del simultaneus processus sono individuati dall’art. 8 del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012 (già art. 6 del Reg. CE n. 44 del 2001) per il caso di cumulo soggettivo ovvero oggettivo di domande, domande connesse e domande riconvenzionali.

A tale ultimo riguardo, però, e con precipuo riferimento all’ipotesi di litisconsorzio processuale disciplinata dall’art. 8, n. 1, del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012 (già art. 6, n. 1, del Reg. CE n. 44 del 2001), Sez. U, n. 24110/2020, Ferro, Rv. 659291-01, facendo leva sulla portata derogatoria di tale disciplina rispetto alle regole generali di individuazione della giurisdizione, chiarisce che essa va interpretata restrittivamente, integrando una regola speciale, per ciò stesso non estendibile oltre le ipotesi previste. Sicché, nel perimetrare il campo di applicazione del cumulo soggettivo di domande, la S.C. ha chiarito che un persona domiciliata in uno Stato membro non può essere evocata in giudizio in altro Stato membro, ove è domiciliato uno degli altri convenuti, qualora le domande abbiano oggetto e titolo diversi, siano tra loro compatibili, e non una subordinata all’altra, e non sussista il rischio di decisioni incompatibili, ma solo la possibilità di una divergenza nella loro soluzione o la potenziale idoneità dell’accoglimento di una di esse a riflettersi sull’entità dell’interesse sotteso all’altra (è stata, dunque, affermata la giurisdizione italiana in una controversia di risarcimento danni promossa nei confronti di alcuni soggetti per condotta truffaldina ed a carico di altro soggetto per omessa vigilanza prescritta dalla normativa antiriciclaggio in ragione dell’unitaria prospettazione - e conseguente accertamento - del fatto generatore della responsabilità, per tutti i convenuti di natura extracontrattuale).

Il quadro della disciplina si completa con la previsione dei cd. criteri esclusivi (quali, ad esempio, quelli concernenti controversie in materia di diritti reali su beni immobili e di contratti di affitto su questi, per i quali è competente il giudice dello Stato dove si trova l’immobile, ovvero quelle in tema di validità, nullità, scioglimento società e di validità delle decisioni societarie, attribuite alla cognizione dell’A.G. dello Stato della sede della società), imperativi ed inderogabili: essi derogano al foro del domicilio, impediscono l’applicazione dei criteri speciali e fanno eccezione all’istituto della litispendenza. La relativa elencazione (contenuta negli artt. 16 Conv. Bruxelles, 22 del Regolamento Bruxelles I e 24 del Regolamento Bruxelles I-bis) è tassativa.

Come per i criteri speciali, anche quelli esclusivi sono oggetto di stretta interpretazione, come chiarito da Sez. U., n. 05682/2020, Cosentino, Rv. 657206-01 a proposito dell’art. 24, comma 1, n. 2, del Regolamento (CE) n. 1215 del 2012, che assegna al giudice dello Stato membro in cui ha sede una società la giurisdizione in materia di validità delle decisioni degli organi sociali: nell’occasione la S.C. ha precisato che la previsione riguarda esclusivamente le controversie nelle quali si contesti la validità di dette decisioni alla luce del diritto delle società applicabile o delle disposizioni statutarie attinenti al funzionamento dei suoi organi ed ha, dunque, escluso l’applicabilità della norma con riferimento ad un’azione di nullità per simulazione di verbali di assemblee societarie aventi ad oggetto aumento di capitale mediante conferimento di beni immobili.

È stato da ultimo chiarito che, poiché il criterio di collegamento può atteggiarsi in modo diverso con riferimento a distinti giudizi, dovendo sussistere al momento della loro instaurazione, il giudicato sulla giurisdizione nei confronti dello straniero o dello Stato estero non può spiegare effetto in un successivo processo inerente al medesimo rapporto ma coinvolgente effetti diversi rispetto a quelli fatti valere nel primo processo, non essendo possibile, sulla base del precedente giudicato, affermare o negare in un successivo processo a priori la giurisdizione, la quale risponde a criteri mutevoli nel tempo (così Sez. U, n. 01717/2020, Mercolino, Rv. 656766-05).

1.1. (Segue) Le clausole di deroga e di proroga della giurisdizione.

L’evoluzione della funzione della giurisdizione, cui sopra si è fatto cenno, si esprime anche attraverso l’istituto della proroga o deroga della stessa (artt. 17, 18 Conv. Bruxelles, artt. 23 e 24 Regolamento Bruxelles I, artt. 25 e 26 Regolamento Bruxelles I-bis). Tale disciplina, non solo, pone sul medesimo piano le giurisdizioni dei diversi Stati, ma offre anche alle parti la possibilità di scegliere la giurisdizione più confacente ai propri interessi: viene così a profilarsi una giurisdizione sempre più al servizio dei privati, dagli stessi opzionabile e si decolora l’originaria giurisdizione che si imponeva sulla volontà delle parti.

I privati, dunque, possono raggiungere un accordo (che può anche essere contenuto - ed è l’ipotesi più ricorrente - in una clausola di un contratto avente un oggetto differente) di proroga cd. espressa della competenza, che esplicitamente prevede un effetto attributivo della giurisdizione, con conseguente deroga ad altre norme sulla competenza previste dalla Convenzione: le parti, in sostanza, si impegnano a riconoscere la competenza di una determinata autorità giudiziaria di uno Stato membro su future liti inerenti ad un dato rapporto.

Peraltro, il contrasto tra l’ampia portata delle previsioni sovranazionali (cfr., ad esempio, l’art. 25 del Regolamento Bruxelles I-bis, che, al ricorrere di determinate e tassative condizioni, ammette la possibilità per le parti di un determinato rapporto giuridico di concordare la competenza di un’autorità o di autorità giurisdizionali di uno Stato membro a conoscere delle controversie, presenti o future, fatta eccezione per l’ipotesi di accordo nullo dal punto di vista della validità sostanziale secondo la legge di tale Stato membro) e la più restrittiva disciplina contenuta all’art. 4 della l. n. 218 del 1995, che riconosce la possibilità di deroga convenzionale della giurisdizione solo nella materia dei diritti disponibili, se provata per iscritto, è stato risolto da Sez. U, n. 12585/2019, Virgilio, Rv. 653932-01, nel senso della prevalenza, anche nella materia dei diritti indisponibili, della clausola di deroga della giurisdizione, stipulata ai sensi dell’art. 25 del Regolamento n. 1215 del 2012 sull’art. 4, comma 2, della l. n. 218 del 1995

La proroga può tuttavia essere anche cd. tacita, allorché risulti, cioè, dal comportamento concludente delle parti, consistente nella citazione in giudizio dinanzi ad un giudice privo di competenza e dalla conseguente costituzione del convenuto che non ne contesti l’incompetenza, prima di difendersi nel merito (cfr. anche Sez. U, n. 19473/2016, Travaglino, Rv. 641093-01).

L’istituto incontra, ad ogni buon conto, un doppio limite (a) nelle competenze esclusive e (b) nelle competenze cd. imperative, che rispondono alla finalità protezione di un contraente “debole” sopra ricordate

Nel corso del 2020, la S.C. si è soffermata, in particolare, sui criteri interpretativi da osservare con riferimento alle clausole di proroga della giurisdizione.

In proposito, posto che, ai sensi dell’art. 23 del Regolamento (CE) n. 44 del 2001, l’inserimento nel contratto di siffatta clausola rende, in mancanza di diverso accordo delle parti, il foro convenzionale esclusivo e, quindi, prevalente sia su quello del domicilio del convenuto, previsto in via generale dal precedente art. 2, che su quello speciale del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita, previsto dall’art. 5, n. 1, del medesimo Regolamento (così Sez. U, n. 01717/2020, Mercolino, Rv. 656766-03), se, da un lato, (a) Sez. U, n. 28675/2020, De Stefano, Rv. 659871 - 02, ha chiarito che, in presenza di una clausola che, ai sensi dell’articolo 25 del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, preveda la proroga della giurisdizione in favore del giudice straniero su tutte le controversie relative a una serie di contratti, succedutisi nel tempo, che regolino un rapporto sostanzialmente unitario (nella specie, tra il titolare di brevetti nel settore dell’alta tecnologia delle comunicazioni e l’intermediario professionale per la gestione delle relative licenze di utilizzo), non sussiste la giurisdizione del giudice italiano sulla domanda di accertamento negativo della responsabilità contrattuale da inadempimento di precisi obblighi informativi e di violazione del dovere di buona fede nel corso dell’esecuzione del contratto, dovendosi tale domanda qualificare di natura contrattuale, dall’altro, (b) Sez. U, n. 07736/2020, Acierno, Rv. 657532-01, con riferimento alla disciplina contenuta nell’art. 23 del regolamento CE n. 44 del 2001 ed avuto riguardo ai principi elaborati dalla Corte di giustizia con le sentenze del 27 gennaio 2000, in causa C-8/1998 e del 20 aprile 2016, in causa C-366/2013, ha osservato come, in ipotesi di cessione del credito, detta clausola continui ad essere efficace tra le parti originarie ed è applicabile anche al cessionario, il quale sia succeduto nella posizione del creditore cedente verso il debitore ceduto, atteso che quest’ultimo non può trovarsi, in virtù della cessione, in posizione diversa da quella che aveva rispetto al cedente, salva la diversa e alternativa pattuizione con cui il ceduto, in sede di adesione alla cessione, abbia concordato con il cessionario di attribuire la competenza giurisdizionale ad altra autorità giudiziaria, spettando, peraltro, la legittimazione a far valere l’inoperatività della clausola originaria unicamente al cessionario e non al ceduto, che può opporre al primo soltanto le eccezioni opponibili al cedente.

Peculiare è, poi, il caso affrontato Sez. U, n. 12865/2020, Perrino, Rv. 658084-02, nell’ipotesi in cui, esistendo una clausola di proroga della giurisdizione, siano promosse più cause in rapporto di litispendenza davanti a giudici di Stati diversi: dovendosi applicare l’art. 27 della Convenzione di Lugano, firmata il 30 ottobre 2007 (approvata anche dalla Comunità europea con decisione del Consiglio 2009/430/CE del 27 novembre 2008), è il giudice preventivamente adito a dover verificare l’esistenza della clausola e, con essa, l’effettiva pattuizione di una competenza giurisdizionale esclusiva, mentre l’altro giudice, nell’attesa di tale statuizione, deve sospendere d’ufficio il proprio procedimento, non potendo adottare alcuna statuizione sulla competenza giurisdizionale, sicché, ove sia successivamente adito il giudice italiano, nel processo pendente davanti a quest’ultimo non è consentita neppure la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione.

La tematica della litispendenza internazionale è affrontata, infine, anche da Sez. U, n. 19665/2020, Acierno, Rv. 658927-01, che, nell’ipotesi di contemporanea pendenza, dinanzi a giudici di diversi paesi dell’Unione europea, di due giudizi di divorzio o separazione personale dei coniugi, ha chiarito come il giudice italiano che sia stato successivamente adito sia tenuto, ai sensi dell’art. 19 del Reg. (CE) n. 2201 del 2003, a sospendere il procedimento fino all’accertamento della competenza dell’autorità giurisdizionale preventivamente adita: con l’ulteriore conseguenza che ne discende per cui, nel processo dinanzi a lui pendente, è inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione.

2. Azioni contrattuali e contratti. Per quanto concerne le azioni contrattuali,

Sez. U, n. 28675/2020, De Stefano, Rv. 659871 - 03, affermando un principio di carattere generale, ha anzitutto chiarito che l’art. 8, n. 1, del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, secondo cui una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta, in caso di pluralità di convenuti, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui uno di essi è domiciliato, sempre che tra le domande esista un collegamento così stretto da rendere opportuna una trattazione unica, va interpretato restrittivamente, integrando una regola speciale in deroga a quella generale di cui al precedente art. 2; pertanto, la diversità ontologica tra le domande proponibili contro due convenuti esclude l’operatività del criterio di collegamento per entrambi del domicilio di uno qualsiasi di loro, sia nel caso di azione di accertamento negativo della propria condotta illecita quale concorrente nell’inadempimento di obbligazioni derivanti da un contratto con un terzo stipulato dalla società di cui l’attore è stato amministratore, sia nel caso di azione di accertamento dell’illegittimità delle condotte di divulgazione, da parte della controparte, di valutazioni di scorrettezza della condotta della società e dell’amministratore stesso.

Passando, quindi, alla disamina delle pronunce relative a singole fattispecie, Sez. U, n. 26986/2020, Cirillo, Rv. 659554-01 ha affrontato il tema della responsabilità contrattuale da inadempimento di prestazione sanitaria, osservando come, in base agli artt. 2 e 5 del Regolamento Ce n. 44 del 2001 (applicabile ratione temporis), nelle controversie in materia di responsabilità contrattuale il debitore domiciliato nel territorio di uno Stato membro è convenuto, a prescindere dalla sua nazionalità, davanti ai giudici di tale Stato e può essere convenuto in altro Stato membro davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita, luogo che, per i contratti aventi ad oggetto la prestazione di servizi, è quello situato nello Stato membro in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto essere prestati in base al contratto e che comunque va determinato - in conformità al criterio di collegamento stabilito dall’art. 57 della l. n. 218 del 1995 - ai sensi della Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, resa esecutiva con la l. n. 975 del 1984, il cui art. 4, comma 1, prevede che, se non sia stata scelta la legge regolatrice del contratto, esso è regolato dalla legge del paese con il quale presenta il collegamento più stretto. Sicché, venendo al caso di specie, concernente la individuazione dell’A.G. “competente” rispetto domanda di risarcimento danni avanzata dagli eredi di un cittadino italiano, defunto in Italia per gli esiti di cancro al pancreas, nei confronti del titolare di uno studio medico tedesco presso il quale quegli aveva precedentemente eseguito una ecografia addominale senza diagnosi di patologie, la S.C ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano, in favore di quello tedesco, sul rilievo che il medico convenuto era residente in Germania, che ivi era il luogo di esecuzione della prestazione e che tale Paese, in cui aveva sede lo studio medico ove la condotta asseritamente inadempiente era stata compiuta, era pure il luogo con il quale il contratto presentava il collegamento più stretto.

Si occupano della speciale disciplina dettata per la materia consumeristica due pronunzie della Corte.

Anzitutto Sez. U, n. 06456/2020, Vincenti, Rv. 657210-01, la quale evidenzia come l’art. 18, comma 1, del Regolamento CE n. 1215 del 2012, nel prevedere che “l’azione del consumatore contro l’altra parte del contratto può essere proposta davanti alle autorità giurisdizionali del luogo in cui è domiciliato il consumatore”, non si limita ad individuare l’ordinamento munito di giurisdizione, ma identifica anche il giudice che, all’interno di esso, ha la competenza per la decisione della causa; tuttavia, essendo la locuzione “giudice del luogo” riferita alla giurisdizione dello Stato membro nel suo complesso ovvero indifferentemente inteso, è affidata esclusivamente alla lex fori la disciplina della proposizione e del rilievo del difetto di competenza territoriale del giudice adito, giacché la violazione delle norme di competenza del citato Regolamento rileva soltanto se si traduca nel citare il convenuto davanti al giudice di uno Stato membro diverso da quello dovuto.

Quindi Sez. U, n. 01868/2020, Vincenti, Rv. 656798-01, per la quale il contratto avente ad oggetto la sottoscrizione, ad opera di un privato. di azioni di una società e la conseguente attribuzione a detto socio del diritto di usufruire, per le proprie vacanze, di residenze turistiche messe a disposizione dalla società in misura corrispondente alle azioni acquistate (nonché ai titoli denominati “punti vacanze” assegnati ai soci in luogo della distribuzione di utili) e previa prenotazione attraverso un servizio gestito dalla medesima società, configura un negozio unitario, a causa mista, diverso dalla multiproprietà azionaria (in cui, a fronte dell’assunzione della qualità di socio, l’azionista acquista il diritto personale di godimento di un immobile per un determinato periodo di tempo), caratterizzato, sotto il profilo della concreta funzione perseguita dalle parti, dalla prevalenza, rispetto all’acquisizione della qualità di socio, della prestazione di fornitura di servizi posta a carico della società. Ne consegue che, qualora detto contratto (come nella specie) sia stipulato in Italia tra un soggetto domiciliato in Italia, per soddisfare esigenze estranee alla propria attività professionale, e una società anonima di diritto svizzero avente sede legale nella Confederazione elvetica, va affermata sulle relative controversie la giurisdizione del giudice italiano, con riferimento al luogo di conclusione del contratto, in applicazione dei criteri di collegamento stabiliti dalla Convenzione di Lugano del 16 settembre 1988 (ratificata e resa esecutiva in Italia con l. n. 198 del 1992), quale disciplina ratione temporis vigente, alla data di proposizione della domanda, in relazione alla tutela del “consumatore”.

Con riguardo, invece, al trasporto aereo internazionale di persone Sez. U, n. 03561/2020, Rubino, Rv. 656952-01 (in perfetta linea di continuità con la precedente Sez. U, n. 18257/2019, Acierno, Rv. 654582-01), affronta il tema della giurisdizione rispetto alla domanda di compensazione e risarcimento del danno per soppressione del volo, la quale va individuata, anche se il contratto contenga una clausola di proroga della giurisdizione, sulla base dei criteri di collegamento indicati dall’art. 33 della Convenzione di Montreal del 28 maggio 1999 (ratificata e resa esecutiva in Italia con l. n. 12 del 2004), norma applicabile a tutte le ipotesi di ritardo nel compimento della complessiva operazione di trasporto aereo dedotta in contratto fino alla destinazione finale. Così, - venendo al caso di specie - in una controversia promossa da due passeggeri, domiciliati in Italia, nei confronti di una compagnia aerea irlandese, la S.C. ha dichiarato la giurisdizione del giudice italiano, quale giudice del luogo di destinazione del viaggio e del luogo “ove è sito lo stabilimento del vettore che cura la conclusione del contratto”, coincidente, in caso di acquisto on line dei biglietti, con il domicilio degli acquirenti.

Da ultimo, la Corte si è occupata di individuare il criterio discretivo, ai fini della determinazione della giurisdizione, tra compravendita di beni e prestazione di servizi: in particolare, Sez. U, n. 00156/2020, Frasca, Rv. 656657-02, chiarendo che, secondo i vincolanti criteri interpretativi dettati dalla Corte di giustizia (sentenza del 25 febbraio 2010, in C-381/08) - la distinzione tra le due nozioni, entrambe contenute nell’art. 5, Punto 1, lett. b), del Regolamento CE n. 44 del 2001, trova fondamento nella “obbligazione caratteristica” dei predetti contratti, avente ad oggetto, rispettivamente, la consegna di un bene o la prestazione di un servizio. Ne consegue che: a) non assume rilievo, in funzione dell’esclusione della natura di compravendita, la circostanza che i beni vengano fabbricati o prodotti dal venditore, neppure nell’ipotesi in cui l’attività di fabbricazione o produzione sia svolta in funzione delle esigenze di uno specifico cliente; b) al contrario, la circostanza che l’acquirente abbia fornito una parte essenziale degli elementi impiegati in tale fabbricazione o produzione, può far propendere nel senso della qualificazione del contratto come prestazione di servizi; c) elemento rilevante è l’estensione della responsabilità del fornitore, atteso che, nell’ipotesi in cui egli sia responsabile della qualità e della conformità a contratto dei beni prodotti, dovrà propendersi per una qualificazione in termini di compravendita di beni, mentre, nell’ipotesi in cui risponda unicamente della correttezza dell’esecuzione secondo le istruzioni dell’acquirente, il rapporto contrattuale andrà ricondotto alla fattispecie della prestazione di servizi. In applicazione di tali principi, dunque, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, relativamente ad una controversia tra una società italiana e una società tedesca legate da un rapporto contrattuale avente ad oggetto la fornitura, dalla prima alla seconda, di capi di abbigliamento prodotti dal fornitore, ai fini dell’individuazione della giurisdizione aveva qualificato il contratto come compravendita di beni, omettendo di considerare che, l’impresa fornitrice provvedeva alla fabbricazione dei capi di abbigliamento utilizzando materiale proveniente “di fatto” dall’impresa ordinante ed in conformità a specifiche tecniche e modelli da essa forniti.

3. Cause successorie.

Nell’ambito dei diritti successori va registrato l’importante arresto rappresentato da Sez. U, n. 01605/2020, Oricchio, Rv. n. 656794-04, a proposito delle controversie relative ad azione di petizione ereditaria e domande connesse: rispetto a queste ultime, infatti, la circostanza che il luogo di apertura della successione sia in Italia assume rilevanza decisiva al fine dell’affermazione della giurisdizione del giudice italiano.

In particolare, avuto riguardo all’azione di rendiconto rivolta - contestualmente a quella di petizione di eredità esperita nei confronti del coerede - verso più professionisti dei quali il “de cuius” si sia avvalso, in vita, per la gestione del proprio patrimonio, la S.C. radica la giurisdizione in capo all’A.G. italiana anche rispetto all’unico professionista straniero coinvolto, in considerazione: a) dell’art. 6 della Convenzione di Lugano (l. n. 198 del 1992), interpretata alla luce degli orientamenti della Corte di Giustizia (Sentenza del 13 luglio 2006, C 539/2003), in presenza dei presupposti che rendono necessario un unico giudizio (vincolo di connessione delle domande, interesse a istruttoria e pronuncia unica), trattandosi di più soggetti gestori chiamati al rendiconto, stante la funzione unitariamente ricostruttiva di un unitario asse ereditario, senza che rilevi la natura disgiuntiva dell’incarico; b) del carattere pregiudiziale della causa di rendiconto rispetto a quella principale di petizione di eredità (spettante allo stesso giudice ai sensi degli artt. 1 della Convenzione di Lugano e 50 della l. n. 218 del 1995), con conseguente attrazione della prima nell’orbita della seconda.

4. Delibazione di sentenze e lodi arbitrali stranieri.

Particolarmente ampia la giurisprudenza di legittimità intervenuta sul tema della delibazione delle sentenze (anche arbitrali) straniere.

Merita particolare attenzione, in primis, il principio affermato da Sez. 1, n. 16804/2020, Iofrida, Rv. 658805-01, che affronta, per la prima volta, il tema del rapporto, con l’ordinamento interno, della decisione di ripudio emanata all’estero da un’autorità religiosa (nella specie il tribunale sciaraitico palestinese): nell’occasione la S.C., pur dando atto dell’equiparabilità, secondo la legge straniera, di detta decisione ad una sentenza del giudice statale, esclude la sua riconoscibilità all’interno dell’ordinamento italiano, sotto il duplice profilo dell’ordine pubblico sostanziale (per effetto della violazione del principio di non discriminazione tra uomo e donna) e dell’ordine pubblico processuale (stante la mancanza della parità difensiva e di un effettivo contraddittorio, oltre che di ogni accertamento sulla definitiva cessazione della comunione di vita tra i coniugi).

Numerosi sono poi stati, nel corso del 2020, gli interventi resi dalla S.C. avuto riguardo ai giudizi di riconoscimento delle sentenze di nullità del matrimonio pronunziate dal tribunale ecclesiastico: nonostante la l. n. 218 del 1995 preveda il riconoscimento automatico delle sentenze straniere, rispetto a tale peculiare materia non si può invece prescindere dal giudizio di delibazione, giacché l’art. 8, n. 2 dell’Accordo di revisione del Concordato (l. 121 del 1985) prevede espressamente che le sentenze ecclesiastiche di declaratoria di nullità di un matrimonio concordatario possano essere rese esecutive nella Repubblica italiana solo instaurando un apposito e speciale procedimento dinanzi alla Corte d’Appello territorialmente competente (e, cioè, la Corte d’Appello nel cui distretto è compreso il Comune ove fu trascritto il matrimonio concordatario).

In particolare: (a) Sez. 6-1, n. 17379/2020, Acierno, Rv. 658716-01 ha in proposito evidenziato che, ove la parte deduca la contrarietà all’ordine pubblico di tale sentenza, per la sussistenza del requisito della convivenza pluriennale, richiamando prove documentali e chiedendo l’ammissione di prove orali, la corte d’appello è tenuta ad istruire la causa, poiché l’accertamento circa la natura e la durata della convivenza è devoluto al giudice del riconoscimento della sentenza emessa dal giudice canonico, trattandosi di circostanze estranee a quel giudizio; (b) Sez. 6-1, n. 22599/2020, Acierno, Rv. 659538-01, precisa, poi, che la sopravvenienza della morte di uno dei coniugi, nel corso del procedimento dinanzi alla Corte di cassazione sull’impugnazione della pronuncia che abbia dichiarato l’esecutività della sentenza del tribunale ecclesiastico di nullità del matrimonio canonico, non determina la cessazione della materia del contendere, salva l’esigenza di avvertire gli eventuali eredi per assicurare il contraddittorio e il diritto di difesa; (c) precisa, ancora, Sez. 1, n. 07923/2020, Parise, Rv. 657562-01 che, nel giudizio di riconoscimento degli effetti civili alla sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, la contumacia del convenuto non incide sulla natura dell’eccezione relativa alla convivenza triennale come coniugi, che costituisce un limite di ordine pubblico alla delibazione e rimane compresa, anche in mancanza della costituzione della parte convenuta, tra quelle riservate dall’ordinamento all’esclusiva disponibilità delle parti; (d) da ultimo, Sez. 1, n. 08028/2020, Mercolino, Rv. 657563-01, a proposito del rito applicabile, ha chiarito che, ove la relativa domanda sia proposta da uno solo dei coniugi, non trova applicazione la disciplina dei procedimenti camerali, ma quella del giudizio ordinario di cognizione, ai sensi dell’art. 796 c.p.c., sicché la costituzione del convenuto dinanzi alla corte d’appello deve ritenersi disciplinata dall’art. 167 c.p.c., che impone a tale parte, a pena di decadenza, di proporre nella comparsa di risposta le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, nel termine stabilito per la costituzione dall’art. 166 c.p.c..

Sotto diverso - ma concorrente - profilo, Sez. 1, n. 17170/2020, Marulli, Rv. 658878-01 rileva che, per decidere sulla richiesta di cancellazione della trascrizione dai registri dello stato civile italiano della sentenza straniera che abbia pronunciato il divorzio dei coniugi, a causa della contrarietà della stessa con l’ordine pubblico italiano, il giudice nazionale deve esaminare, ai sensi dell’art. 64, lett. g), della l. n. 218 del 1995, se la decisione straniera produca “effetti” contrari al detto ordine pubblico, accertando se nel corso del procedimento straniero siano stati violati i diritti essenziali della difesa, sicché resta esclusa la possibilità di sottoporre il provvedimento straniero ad un sindacato di merito, valutando la correttezza della soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero o di quello italiano.

In tema di delibazione del lodo arbitrale straniero, ancora, in forza degli articoli 4 e 5 della Convenzione di New York del 10 giugno 1958 sul riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere (resa esecutiva in Italia con l. n. 62 del 1968) Sez. 1, n. 27322/2020, Genovese, Rv. 659832 - 01, rileva come la parte che richiede la delibazione del lodo ha soltanto l’onere di produrre, in originale o in copia autentica, la sentenza delibanda e la convenzione scritta contenente l’assunzione dell’obbligo di deferire agli arbitri la risoluzione della controversia, mentre incombe alla parte nei cui confronti il lodo viene invocato l’onere di provare, fra l’altro, l’eventuale invalidità della nomina degli arbitri o l’impossibilità di far valere le proprie difese e, in particolare, ove deduca l’inidoneità del mezzo di comunicazione usato, di dimostrare che questo, per sé o in ragione delle concrete modalità di impiego, non gli ha consentito di venire tempestivamente a conoscenza del procedimento arbitrale o dei momenti essenziali del suo sviluppo; le relative indagini svolte dal giudice della delibazione, peraltro, costituiscono accertamenti di fatto non suscettibili di sindacato in sede di legittimità, se congruamente motivati.

Quanto, infine, al riparto di competenze (interne) tra Tribunale per i minorenni e Corte di Appello, in materia di riconoscimento, in Italia, di una sentenza di adozione di minore straniero, pronunciata all’estero in favore di adottanti stranieri (nella specie cittadini brasiliani), benché uno dei due abbia acquisito dopo la pronuncia anche la cittadinanza e la residenza italiana, Sez. 6-1, n. 26882/2020, Lamorgese, Rv. 659893 - 01, individua nella Corte d’Appello l’A.G. competente, non trovando applicazione la disciplina relativa all’adozione internazionale, bensì quella del diritto internazionale privato di cui all’art. 41, comma 1, della l. n. 218 del 1995.

5. Illeciti civili.

Sul fronte delle domande risarcitorie conseguenti ad illeciti di natura extracontrattuale, trova applicazione il criterio (speciale) di individuazione della giurisdizione fissato dall’articolo 7, n. 2, del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, a mente del quale una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro, in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire.

Ne consegue - precisa Sez. U, n. 28675/2020, De Stefano, Rv. 659871 - 04 - che, anche alla luce della chiara e costante interpretazione che di tale criterio ha fornito la Corte di giustizia dell’Unione europea, la giurisdizione si radica o nel luogo in cui si è concretizzato il danno o, in alternativa, a scelta dell’attore danneggiato, in quello dove si è verificato l’evento generatore di tale danno, coincidendo il primo, quando il danneggiato è persona giuridica, normalmente con la sua sede statutaria, a meno che non sia dimostrato che quivi non si svolge la sua attività prevalente, tanto da escluderne la coincidenza con il centro di interessi della persona giuridica. Donde il radicamento della giurisdizione del giudice italiano in ordine a un’azione proposta da una società italiana di accertamento dell’illegittimità di una condotta, consistente nella diffusione in Germania di valutazioni denigratorie in ordine alla sussistenza delle violazioni di una complessiva autoregolamentazione contrattuale e considerata come tale idonea a causare un pregiudizio professionale, essendo irrilevante il luogo di pubblicazione o di materiale immissione in circolazione della notizia lesiva e risultando al contrario decisiva - in difetto della prova della preminenza dell’attività sociale in luogo diverso - l’ubicazione in Italia della sede statutaria della società danneggiata.

  • competenza giurisdizionale
  • trasporto aereo
  • dati personali
  • diritti di obbligazioni
  • locazione

CAPITOLO VI

LA COMPETENZA

(di Maria Elena Mele )

Sommario

1 La competenza per materia. - 1.1 Le controversie di competenza del giudice di pace. - - 1.2 Le controversie di competenza della sezione specializzata in materia di impresa. - 1.3 Le controversie di competenza della Corte d’appello. - 2 La competenza per valore. - 3 La competenza per territorio. - 3.1 Il foro facoltativo per le cause relative ai diritti di obbligazione. - 3.2 Il foro per le cause relative a diritti reali e in materia di locazione. - 3.3 Il foro della Pubblica amministrazione. - 3.4 Il foro delle controversie in materia di proprietà industriale. - 3.5 Il foro delle controversie in materia di protezione dei dati personali. - 3.6 Procedimenti di competenza della sezione disciplinare del CSM. - 3.7 Il foro per la nomina dell’amministratore di sostegno. - 3.8 Competenza per territorio riguardo al trasporto aereo internazionale. - 3.9 Convenzioni di deroga alla competenza per territorio. - 4 La competenza funzionale. - 5 Profili processuali. L’eccezione di incompetenza. - 6 Il rilievo d’ufficio dell’incompetenza. - 7 Il regolamento di competenza. - 7.1 Il procedimento.

1. La competenza per materia.

Attraverso la disciplina della competenza il legislatore individua i criteri secondo cui distribuire il potere di decidere le controversie. La ripartizione (verticale) tra giudici di tipo diverso avviene, innanzitutto, sulla base del criterio della materia, vale a dire con riferimento alla natura o al tipo del diritto di cui si controverte (giudice di pace, tribunale, tribunale per i minorenni, ecc.). Si tratta di un criterio che non può essere derogato da accordi preventivi e diretti delle parti e la cui violazione è rilevabile anche d’ufficio dal giudice, sia pure non oltre la prima udienza di trattazione.

1.1. Le controversie di competenza del giudice di pace. -

Sez. 6-2, n. 23074/2020, Giannaccari, Rv. 659403-01 ha ritenuto che il giudice di pace, adito con domanda rientrante nella sua competenza per materia (nella specie, relativa al rispetto delle distanze legali nella piantagione di alberi), ove sia investito, in via riconvenzionale, di una eccezione eccedente la sua competenza per valore o per materia (nella specie, di usucapione, ma al solo fine di paralizzare la domanda attorea), deve decidere su entrambe, in quanto l’eccezione riconvenzionale, a differenza della domanda riconvenzionale, non comporta lo spostamento della competenza e la separazione delle cause ai sensi dell’art. 36 c.p.c.

1.2. Le controversie di competenza della sezione specializzata in materia di impresa.

Rientrano nella competenza per materia di tali sezioni le controversie relative alle partecipazioni sociali o ai “diritti inerenti” di cui all’art. 3, commi 2, lett. b), e 3, del d.lgs. n. 168 del 2003, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lett. d), del d.l. n. 1 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 27 del 2012.

Questa competenza, come ribadito da Sez. 6-3, n. 21363/2020, Cricenti, Rv. 659260-01, si determina in relazione all’oggetto della controversia, dovendo sussistere un legame diretto di questa con i rapporti societari e le partecipazioni sociali, riscontrabile alla stregua del criterio generale del “petitum” sostanziale, identificabile in funzione soprattutto della “causa petendi”, per la intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto la competenza delle sezioni ordinarie del tribunale in relazione ad una domanda volta ad ottenere il rilascio di un immobile, non ravvisando tra questa e quella di trasferimento dello stesso immobile dietro pagamento di quote societarie, pendente, fra le medesime parti, dinanzi al tribunale delle imprese, alcun legame diretto con rapporti di tipo societario, bensì soltanto una mera conseguenzialità logica, poiché le menzionate quote societarie erano il semplice corrispettivo del trasferimento e non l’oggetto della controversia.

In applicazione del medesimo principio, Sez. 6 - 2, n. 22149/2020, Criscuolo, Rv. 659401-01 ha affermato che non sussiste la competenza della sezione specializzata, bensì quella delle sezioni ordinarie del tribunale in relazione ad una vicenda successoria ove l’azione era diretta all’accertamento della natura simulata o effettiva dell’intestazione dell’azienda appartenente al de cuius ad uno dei figli, ai fini del calcolo dell’effettiva consistenza dell’asse ereditario e non, invece, della partecipazione societaria o del trasferimento delle quote societarie.

Ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. n. 168 del 2003, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lett. d) del d.l. n. 1 del 2012, conv. in l, n. 27 del 2012, le sezioni specializzate sono altresì competenti, relativamente alle società di cui al libro V, titolo V, capi V, VI e VII, e titolo VI, c.c. per le cause e i procedimenti relativi a “rapporti societari” ivi indicati. Secondo Sez. 6-3, n. 08656/2020, Scrima, Rv. 657829-01 tale locuzione comprende - con riguardo ad una società cooperativa - i rapporti in base ai quali la società stessa è impegnata a fornire i beni e servizi ai propri soci e tutto ciò che concerne la relativa regolamentazione e, dunque, eventuali deliberazioni che dettino tale regolamentazione o la modifichino. Per tale ragione, la Corte ha ritenuto la competenza delle sezioni ordinarie del tribunale in relazione ad un’azione - promossa da una società cooperativa per il conseguimento di un importo dovuto da un farmacista-socio quale corrispettivo di una serie di forniture di medicinali eseguite in favore di quest’ultimo - la cui “causa petendi” andava individuata nell’inadempimento di contratti di compravendita e non nel rapporto societario, non prospettato dalla predetta società.

Rientra invece nella competenza delle sezioni specializzate l’azione revocatoria dell’atto di scissione societaria, diretta alla declaratoria di inopponibilità al creditore del negozio, poiché riguarda in via diretta le società coinvolte e, in particolare, i fenomeni modificativi ed estintivi del loro assetto (Sez. 6-3, n. 02754/2020, Scrima, Rv. 657293-01).

Nel caso invece in cui l’azione revocatoria riguardi l’atto di vendita di quote societarie, essa rientra nella competenza del tribunale ordinario e non della sezione specializzata in materia di impresa, atteso che tale azione non comporta conseguenze sulla titolarità delle quote contese né sui diritti connessi, ma può produrre, ove accolta, soltanto l’inefficacia del trasferimento nei confronti di chi agisce, non alterando, per il resto, la situazione proprietaria né l’assetto della società, che non è coinvolta direttamente (Sez. 6-3, n. 08661/2020, Rubino, Rv. 657831-01).

Si è altresì stabilito che esulano dalla competenza della sezione specializzata:

- la controversia avente ad oggetto il pagamento di oneri periodici dovuti da un socio alla società per il godimento di un bene sociale, in quanto assicurato da una fonte autonoma rispetto al contratto societario, in quanto la competenza della sezione specializzata in materia di impresa è configurabile solo in relazione alle liti in cui sia riconoscibile un immediato radicamento causale rispetto alle vicende societarie ed allo status di socio (Sez. 6-1, n. 22327/2020, Marulli, Rv. 659008-01);

- la controversia relativa all’acquisto di azioni di una società nell’ambito di un contratto di investimento finanziario, nella quale l’attore lamenti, ai sensi del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, la violazione delle disposizioni che regolano la prestazione di servizi di investimento ed il mancato rispetto da parte dell’intermediario delle norme di comportamento poste in capo al medesimo (Sez. 6-1, n. 22340/2020, Nazzicone, Rv. 659148-01);

- la controversia relativa alla domanda di revocazione di una donazione, pur quando essa abbia avuto ad oggetto, diretto o indiretto, partecipazioni sociali, laddove l’attore lamenti, ai sensi dell’art. 801 c.c., la violazione degli obblighi verso il donante ivi previsti, onde le vicende societarie vi restino del tutto estranee (Sez. 6-1, n. 22341/2020, Nazzicone, Rv. 659429-01);

- le controversie aventi ad oggetto acquisti da parte di aziende sanitarie locali derivanti da contratti di fornitura esecutivi di un accordo quadro atteso che, stante l’autonomia tra i predetti negozi, la “causa petendi” dell’obbligazione creditoria trova fondamento nei singoli contratti di fornitura. La centralizzazione dell’acquisto e la clausola di estensione del contratto aggiudicato a seguito di regolare gara pubblica, infatti, non violano il principio di concorrenza, ma anzi lo presuppongono, in aderenza a quanto previsto dalla legislazione nazionale e dalla direttiva 2014/24/UE del Parlamento e del Consiglio, posto che in tale caso le imprese concorrono ad aggiudicarsi un appalto avente un oggetto eventualmente multiplo, senza la necessità di dover concorrere ogni volta a tante gare quante sono le amministrazioni coinvolte (Sez. 6-2, n. 11787/2020, Giannaccari, Rv. 658447-01).

1.3. Le controversie di competenza della Corte d’appello.

Sez. 6-3, n. 10440/2020, D’Arrigo, Rv. 657994-01 ha stabilito che la speciale competenza in unico grado della Corte d’appello, prevista dall’art. 19 l. n. 865 del 1971, è limitata alle controversie relative al quantum dell’indennità di espropriazione, ossia alle richieste volte ad ottenere la liquidazione di un importo maggiore di quello stabilito in sede amministrativa o, in mancanza, la determinazione giudiziale del giusto indennizzo, esulando da tale ambito le domande finalizzate a conseguire il pagamento dell’indennità definitivamente accertata e non contestata. In applicazione del principio, la S.C. ha affermato la competenza della Corte di appello a conoscere della causa promossa dall’espropriato che - allegando di aver concordato, ai fini della liquidazione della menzionata indennità, la corresponsione di un determinato importo per ciascun albero presente sul fondo - aveva dedotto di avere ottenuto una somma inferiore rispetto al dovuto perché, nel verbale di consistenza e immissione nel possesso, era stato indicato un numero errato di piante.

2. La competenza per valore.

Il valore della controversia costituisce l’ulteriore criterio secondo il quale è ripartita tra giudici di tipo diverso la competenza. Esso fa riferimento al valore economico dell’oggetto della causa e opera in via generale allorché non esistano regole che stabiliscano diversamente con riguardo alla materia. Talvolta il valore viene in rilievo congiuntamente al criterio della materia, integrandolo (si veda ad esempio, l’art. 7 c.p.c. con riguardo alla competenza del giudice di pace). Si tratta, anche in questo caso, di un’ipotesi di competenza inderogabile, il cui difetto può essere rilevato d’ufficio dal giudice non oltre l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. Le modalità attraverso cui il valore deve essere quantificato sono indicate negli artt. 10 e ss. c.p.c.

Al fine di stabilire la competenza per valore del giudice adito, Sez. 6-3, n. 17991/2020, Dell’Utri, Rv. 658760-01 ha affermato che la rivalutazione monetaria, ove richiesta in aggiunta alla somma capitale ed agli interessi sino al momento della proposizione della domanda, si cumula, ai sensi dell’art. 10, comma 2, c.p.c., con il capitale e gli interessi (nella specie, si trattava del giudice di pace adito in base all’art. 113, comma 2, c.p.c.).

Sempre con riguardo al giudice di pace, Sez. 6-3, n. 16012/2020, Scrima, Rv. 658513-01 ha affermato la competenza di tale giudice, nei limiti della sua competenza per valore, in ordine alle controversie aventi ad oggetto pretese che abbiano la loro fonte in un rapporto, giuridico o di fatto, riguardante un bene immobile, salvo che la questione proprietaria non sia stata oggetto di una esplicita richiesta di accertamento incidentale di una delle parti e sempre che tale richiesta non appaia, ictu oculi, alla luce delle evidenze probatorie, infondata e strumentale - siccome formulata in violazione dei principi di lealtà processuale - allo spostamento di competenza dal giudice di prossimità al giudice togato.

Inoltre, nel caso in cui proposte, cumulativamente, dinanzi al giudice di pace una domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro, inferiore al limite massimo di competenza per valore del giudice adito, ed una domanda di condanna ad un facere, per la quale non sia indicato alcun valore, quest’ultima, non essendo meramente accessoria o specificativa della prima, deve ritenersi di valore corrispondente al suddetto limite massimo, sicché il cumulo delle due domande comporta il superamento della competenza per valore del giudice di pace. Per tale ragione, Sez. 6-3, n. 11460/2020, Porreca, Rv. 657945-01, adita in sede di regolamento, ha affermato la competenza per valore del tribunale, con riguardo alla causa in cui il cliente di una compagnia telefonica aveva chiesto la condanna di quest’ultima, da un lato, alla restituzione di una somma di denaro quale conseguenza della cessazione del rapporto, e dall’altro al facere consistente nel completamento della procedura di migrazione ad altro gestore.

Con riguardo all’azione revocatoria, Sez. 3, n. 03697/2020, Tatangelo, Rv. 656728-03 (ribadendo quanto affermato da Sez. 6-3, n. 10089/2014, Amendola, Rv. 630692-01), ha ritenuto che il valore della controversia si determina in base al credito vantato dall’attore, a tutela del quale viene proposta l’azione revocatoria stessa.

In tema di annullamento delle deliberazioni delle assemblee condominiali, posta la sussistenza dell’interesse ad agire anche quando la relativa azione sia volta esclusivamente alla loro rimozione, ove il vizio abbia carattere meramente formale e la delibera impugnata non abbia ex se alcuna incidenza diretta sul patrimonio dell’attore, la domanda giudiziale appartiene alla competenza residuale del tribunale, non avendo ad oggetto la lesione di un interesse suscettibile di essere quantificato in una somma di denaro per il danno ingiustamente subito ovvero per la maggior spesa indebitamente imposta. È quanto statuito da Sez. 6-2, n. 15434/2020, Dongiacomo, Rv. 658730-01.

3. La competenza per territorio.

Il riparto della competenza per territorio attiene alla distribuzione (orizzontale) delle controversie tra vari giudici dello stesso livello e del medesimo tipo presenti sul territorio. Il criterio utilizzato in linea di principio dal legislatore per determinare tale competenza è quello soggettivo, in quanto fa riferimento ai soggetti della controversia, privilegiando la figura del convenuto e individuando come foro generale quello della sua residenza o domicilio o, in subordine, quello della dimora (art. 18 c.p.c.), ovvero quello della sede nel caso in cui convenuta sia una persona giuridica (art. 19 c.p.c.).

Con riguardo alle controversie in materia di obbligazioni, l’art. 20 c.p.c. indica una pluralità di fori tra loro alternativi - oltre al giudice del foro generale, è competente anche quello del luogo dove l’obbligazione è sorta o quello in cui deve essere eseguita - lasciando all’attore la possibilità di scelta tra più giudici ugualmente competenti. Diversamente accade per i fori speciali che il legislatore individua per talune controversie (artt. 21 ss. c.p.c.), i quali prevalgono su quelli generali, escludendoli.

In base all’art. 28 c.p.c. la competenza per territorio può essere derogata su accordo (esplicito o implicito) delle parti, ad eccezione che per alcune materie dallo stesso previste per le quali essa è stabilita in modo inderogabile (competenza funzionale). Fuori di tali ultime ipotesi, ove il convenuto non abbia tempestivamente eccepito l’incompetenza del giudice adito, indicando altresì quello che ritiene competente, la competenza rimane radicata presso quel giudice. Nelle ipotesi di incompetenza funzionale, invece, essa è rilevabile anche d’ufficio, sia pure non oltre la prima udienza di trattazione (art. 38, comma 3 c.p.c.).

3.1. Il foro facoltativo per le cause relative ai diritti di obbligazione.

Con riguardo alle controversie relative a diritti di obbligazione, l’art. 20 c.p.c. individua quale giudice competente, oltre a quello indicato negli artt. 18 e 19, anche il giudice del luogo in cui l’obbligazione è sorta ovvero deve essere eseguita, spettando all’attore la facoltà di scegliere tra tali giudici.

Quanto all’ambito di applicazione dell’art. 20 cit., Sez. 2, 11797/2020, Abete, Rv. 658213-01 ha chiarito che il criterio determinativo della competenza da esso previsto - il quale indica il foro facoltativo per le cause relative a diritti di obbligazione e che deve valutarsi sulla base della domanda - è applicabile anche alle azioni di accertamento negativo, purché possa stabilirsi una relazione, sia pure di tipo ipotetico, fra l’obbligazione che costituisce l’oggetto della lite e il luogo dove essa, se esistesse, sarebbe sorta o dovrebbe essere eseguita.

Sez. 6-2, n. 15254/2020, Dongiacomo, Rv. 658729-01 ha affermato che la determinazione della competenza, e specificamente, del forum contractus deve essere effettuata sulla base dei fatti prospettati dall’attore. Ciò vale anche nell’ipotesi in cui la parte convenuta in giudizio per l’adempimento del contratto, eccepisca l’incompetenza territoriale del giudice adito, affermando che il contratto in contestazione non si è concluso ovvero è nullo, e che, ammesso che si sia concluso, si sarebbe perfezionato e avrebbe dovuto avere esecuzione in un luogo diverso, attenendo al merito l’accertamento relativo all’effettiva conclusione del contratto ovvero alla sua nullità. Né al riguardo possono avere rilevanza le contestazioni formulate dal convenuto e la diversa prospettazione dei fatti da lui avanzata, dovendosi tenere separate le questioni concernenti il merito della causa da quelle relative alla competenza, con la conseguenza che sulla determinazione del forum contractus, con riferimento all’art. 20 c.p.c., non può influire l’eccezione del convenuto che neghi l’esistenza del contratto ovvero deduca la sua conclusione in altro luogo, unico limite alla rilevanza dei fatti prospettati dall’attore ai fini della determinazione della competenza essendo l’eventuale prospettazione artificiosa, finalizzata a sottrarre la controversia al giudice precostituito per legge (v. in senso conforme, Sez. 6-3, n. 08189/2012, Frasca, Rv. 622432-01).

Ai fini della determinazione della competenza territoriale in base al criterio del forum destinatae solutionis ex art. 20 c.p.c., Sez. 6-2, n. 19894/2020, Besso Marchesi, Rv. 659222-01 ha ribadito l’orientamento secondo cui la designazione contrattuale, quale luogo per l’adempimento dell’obbligazione di pagare il prezzo della compravendita di beni mobili, di quello in cui si trova l’acquirente al momento della consegna della cosa opera solo nell’ipotesi dell’adempimento, mentre nel caso di inadempimento, seguito da azione giudiziale del venditore, riprende vigore il regolamento legale ex art. 1498, c.c., in virtù del quale il luogo del pagamento luogo coincide con quello del domicilio del venditore-creditore (conf. Sez. 2, n. 00648/2004, Colarusso, Rv. 569472-01).

Con riguardo al contratto di agenzia, Sez. 6-2, n. 18236/2020, Tedesco, Rv. 659213-01 ha riaffermato il principio per cui, ai fini della competenza per territorio ex art. 20 c.p.c., il forum destinatae solutionis dell’obbligazione del preponente verso l’agente per il pagamento di provvigioni già indicate nell’atto introduttivo in una somma di denaro, e. pertanto, liquide ed esigibili, si identifica, ai sensi dell’art. 1182, comma terzo, c.c., con il domicilio del creditore (in senso conforme, Cass. n. 03892/1996, Durante, Rv. 497265-01). Ha altresì affermato che territorialmente competente a conoscere della domanda del preponente diretta ad ottenere le somme dovutegli dall’agente in forza della clausola dello Star del credere, sugli affari non andati a buon fine, e il giudice del domicilio del preponente, presso il quale l’obbligazione dell’agente, stante il suo carattere originariamente pecuniario e l’agevole e aritmetica computabilità dell’importo monetario, deve essere adempiuta.

3.2. Il foro per le cause relative a diritti reali e in materia di locazione.

In tema di diritti reali, Sez. 6-3, n. 10936/2020, Scrima, Rv. 65821801, sulla scorta di quanto affermato da Sez. U., n. 20503/2019, Acierno, Rv. 654944-01, ha chiarito che la controversia relativa alla validità di un contratto di comodato, concluso in vita dal de cuius con uno dei suoi eredi e concernente un immobile rientrante nell’asse ereditario, appartiene, ai sensi dell’art. 21 c.p.c., alla competenza del giudice del luogo dove è posto l’immobile e non di quello di apertura della successione ex art. 22 c.p.c. A tal fine resta infatti irrilevante che a fondamento dell’impugnativa del comodato sia posta la violazione degli artt. 458 e 549 c.c., atteso che queste ultime disposizioni non sono funzionali a risolvere dispute fra coeredi, ma esclusivamente ad individuare delle ipotesi di nullità, mentre l’art. 22 citato disciplina la competenza nelle cause successorie, che sono configurabili solo allorché la lite sorga tra successori veri o presunti a titolo universale o particolare e abbia come oggetto principale l’accertamento di beni o diritti caduti in successione o che si ritenga debbano costituirne parte.

In riferimento alle controversie in materia di locazioni, Sez. 6-3, n. 12404/2020, D’Arrigo, Rv. 658220-01 ha riaffermato il principio secondo il quale la competenza territoriale del giudice del locus rei sitae, come si ricava dagli artt. 21 e 447-bis c.p.c., ha natura inderogabile, con la conseguente invalidità di una eventuale clausola difforme, rilevabile ex officio anche in sede di regolamento di competenza (conf. Sez. 6-3, n. 21908 del 16/10/2014, Vivaldi, Rv. 632974-01).

Sez. 6-3, n. 23110/2020, Graziosi, Rv. 659270-01 ha ritenuto non applicabile alle controversie aventi ad oggetto l’affitto di bene produttivo il criterio di competenza del forum rei sitae, dettato dall’art. 21 c.p.c. per i contratti di locazione e affitto di azienda, in quanto la distinzione delle species contrattuali, di natura sostanziale, nel predetto articolo si riverbera sull’interpretazione delle norme processuali sulla competenza, le quali sono in rapporto di strumentalità con i tipi sostanziali (nella specie si trattava di un terreno con annesso pozzo di sollevamento di acqua e distribuzione, oltre all’impianto ed alla cabina dei comandi).

3.3. Il foro della Pubblica amministrazione.

In tema di obbligazioni pecuniarie degli enti pubblici, Sez. 6-1, n. 03505/2020, Mercolino, Rv. 657235-01 ha statuito che, anche a seguito della riforma dell’ordinamento degli enti locali e della relativa disciplina finanziaria contabile, continua a trovare applicazione nei confronti degli enti locali, pur a prescindere da una specifica pattuizione tra le parti, il principio secondo cui nelle cause relative a rapporti di obbligazione aventi ad oggetto somme di denaro dovute da pubbliche amministrazioni, anche diverse da quelle dello Stato ed anche a titolo di interessi per ritardato pagamento, la competenza territoriale secondo il criterio del forum destinatae solutionis spetta all’autorità giudiziaria del luogo in cui hanno sede gli uffici di tesoreria dell’ente debitore, e ciò anche nel caso in cui il pagamento debba essere effettuato mediante accreditamento del relativo importo su un conto corrente bancario o postale o mediante commutazione del relativo titolo in vaglia cambiario o postale, costituendo tali forme di adempimento, applicabili su richiesta del creditore ed aventi carattere facoltativo per il titolare dell’ufficio di tesoreria, una mera semplificazione delle modalità di riscossione che non comporta una modificazione del luogo dell’adempimento.

Si è altresì ribadito che, nella controversia avente ad oggetto il pagamento di somme di danaro da parte degli enti pubblici, le norme di contabilità degli enti pubblici, che fissano il luogo di adempimento delle obbligazioni in quello della sede di tesoreria dell’ente, valgono ad individuare il forum destinatae solutionis eventualmente in deroga all’art. 1182 cod. civ., ma non rendono detto foro né esclusivo, né inderogabile. La P.A. convenuta che intenda, pertanto, eccepire la incompetenza del giudice adito, diverso da quello della sede della tesoreria, ha l’onere di contestare specificamente tutti i possibili fori, indicando le ragioni giustificative dell’esclusione di ogni momento di collegamento idoneo a radicare la competenza (Sez. 6-2, n. 11781/2020, Abete, Rv. 658446-01; conf. Sez. 3, n. 00270/2015, Cirillo FM, Rv. 634013-01).

Per quanto attiene alle domande risarcitorie dei medici specializzandi per inadempimento da parte dello Stato italiano alle direttive Cee 75/363 e 82/76, Sez. 6-L, n. 17852/2020, De Felice, Rv. 658939-01 ha ritenuto che sussiste la competenza territoriale del Tribunale di Roma, avuto riguardo al foro della p.a. nonché a quello di insorgenza dell’obbligazione dedotta in giudizio, riferibile ad un comportamento dello Stato legislatore, senza che abbia rilievo la presenza di ulteriori convenuti, quali le Università sedi delle scuole di specializzazione; in tali controversie, sia ai fini dell’individuazione del luogo dell’insorgenza dell’obbligazione, sia ai fini del forum destínatae solutionis, l’obbligazione in relazione alla quale deve essere individuato il foro erariale ai sensi dell’art. 25 c.p.c. non è quella risarcitoria, bensì quella rimasta inadempiuta da cui la prima trae fondamento.

Il foro erariale viene in considerazione, inoltre, nelle controversie aventi ad oggetto il riconoscimento della condizione di apolidia per le quali la competenza va determinata in base al criterio del foro del luogo dove ha sede l’ufficio dell’avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie, senza che assuma rilievo il contenuto degli interessi in gioco o la necessità di porre le parti in una situazione di parità, in quanto così facendo si affiderebbe al giudice una valutazione, riservata invece al legislatore, circa la sussistenza o meno di una ragione per agevolare la difesa dello Stato. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione della corte d’appello che, reputando ingiustificata la facilitazione della difesa statuale rispetto ai diritti in gioco nel caso concreto, aveva disapplicato il criterio del foro erariale.

3.4. Il foro delle controversie in materia di proprietà industriale.

Le azioni in materia di proprietà industriale, ai sensi dell’art. 120, comma 2, d.lgs. n. 30 del 2005, si propongono di regola davanti all’autorità giudiziaria del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio e, se questi sono sconosciuti, del luogo in cui il convenuto ha la dimora. Al fine di determinare il foro del convenuto, Sez. 6-1, n. 05309/2020, Falabella, Rv. 657232-01 ha affermato che si applica la regola di carattere generale contenuta nell’art. 19, comma 1, c.p.c., in forza della quale nel caso in cui sia convenuta in giudizio una società dotata di personalità giuridica, la competenza per territorio si individua in base soltanto alla sua sede legale e non anche a quella secondaria, ove quest’ultima sia priva di una rappresentanza institoria.

Per le e azioni concernenti la violazione della proprietà industriale, il comma 6 dell’art. 120 cit., ai fini della individuazione del giudice competente per territorio, indica il criterio del luogo della commissione del fatto, cioè dove è stata tenuta la condotta lesiva e non dove si è verificato il danno, sicché, ove la violazione sia stata posta in essere tramite internet, rileva il luogo in cui il convenuto ha immesso i contenuti lesivi nel circuito telematico, che in via presuntiva corrisponde a quello in cui il medesimo ha il centro principale de propri affari e, dunque, la propria sede.

3.5. Il foro delle controversie in materia di protezione dei dati personali.

Per tali controversie, l’art. 10, d.lgs. n. 150 del 2011 stabilisce che è competente il tribunale del luogo in cui ha la “residenza” il titolare del trattamento dei dati, sicché nei casi in cui il titolare del trattamento sia una persona giuridica, si rende necessaria un’interpretazione integrativa e dinamica della norma e, dunque, la competenza va determinata in base al luogo dove è ubicata la sede effettiva, presso la quale il trattamento sia avvenuto in modo autonomo e si sia manifestato in concreto (Sez. 1, n. 19328/2020, Scotti, Rv. 658822-01).

3.6. Procedimenti di competenza della sezione disciplinare del CSM.

Nell’ambito di un procedimento per responsabilità disciplinare dei magistrati, Sez. U., n. 24631/2020, Virgilio, Rv. 659452-03 ha affermato che le regole relative alla competenza territoriale dettate dall’art. 11 c.p.p. in relazione ai processi riguardanti i magistrati sono inapplicabili ai procedimenti di competenza della sezione disciplinare del CSM in ragione dell’unicità dell’organo giurisdizionale il quale opera a livello nazionale (in senso analogo, con riguardo alla Corte di Cassazione, si era pronunciata Sez. 6-3, n. 13475/2019, Positano, Rv. 653938-01).

3.7. Il foro per la nomina dell’amministratore di sostegno.

Sez. 6-1, n. 19431/2020, Iofrida, Rv. 658839-01 ha affermato che, ai fini dell’individuazione del giudice territorialmente competente per la nomina dell’amministratore di sostegno, si presume la coincidenza della residenza effettiva e del domicilio con la residenza anagrafica dell’amministrando, salvo che risulti accertato non solo il concreto spostamento della sua dimora abituale o del centro principale dei suoi rapporti economici, morali, sociali e familiari, ma anche la volontarietà di tale spostamento.

Nell’ipotesi in cui il beneficiario dell’amministrazione di sostegno si trovi in stato di detenzione in esecuzione di una sentenza definitiva di condanna, la competenza territoriale va riconosciuta al giudice del luogo in cui il detenuto aveva la sua dimora abituale prima dell’inizio dello stato detentivo, non potendo trovare applicazione il criterio legale che individua la residenza (con la quale coincide, salva prova contraria, la dimora abituale) nel luogo in cui è posta la sede principale degl’interessi e degli affari della persona. Tale criterio, infatti, implicando il carattere volontario dello stabilimento, postula un elemento soggettivo la cui sussistenza resta esclusa per definizione nel caso in cui l’interessato, essendo sottoposto a pena detentiva, non possa fissare liberamente la propria dimora. In fattispecie relativa al reclamo proposto dal detenuto contro il provvedimento di cessazione dell’amministrazione di sostegno, la S.C. ha regolato la competenza in base alla residenza anteriore all’inizio della detenzione, non risultando il mutamento della sede principale degli affari e interessi per effetto della detenzione e, in particolare, per il trasferimento del ricorrente, intervenuto nel frattempo, ad altra casa di reclusione (Sez. 6-1, n. 07241/2020, Mercolino, Rv. 657558 - 02. In senso conforme si è espressa Sez. 6-1, n. 18943/2020, Parise, Rv. 659245-01).

Analogamente, con riguardo alla individuazione del giudice tutelare competente per l’apertura della tutela nei confronti del condannato in stato d’interdizione legale - da individuare al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna e destinato a non subire mutamenti in coincidenza di trasferimenti restrittivi del reo ex art. 5 c.p.c. - Sez. 6-1, n. 00324/2020, Mercolino, Rv. 656800-01 ha ribadito l’orientamento secondo il quale la competenza si determina sulla base dell’ultima residenza anagrafica anteriore all’instaurazione dello stato detentivo, salvo che risulti provato, in contrario alla presunzione di coincidenza con detta residenza, un diverso domicilio, quale centro dei suoi affari ed interessi, non identificabile però in sé nel luogo in cui è stata eseguita la pena detentiva, che non viene dal medesimo prescelta (conf. Sez. 6-1, n. 12453/2017, Nazzicone, Rv. 644177-01).

3.8. Competenza per territorio riguardo al trasporto aereo internazionale.

In tema di trasporto aereo internazionale Sez. 6-3, n. 24632/2020, Rossetti, Rv. 659913-02 si è occupata di individuare il giudice competente per territorio in ordine alla domanda di pagamento dell’indennizzo previsto dal Regolamento (CE) n. 261 del 2004 e di risarcimento del danno.

Quanto al primo profilo, la Corte ha affermato che la domanda di pagamento dell’indennizzo è soggetta alle regole di giurisdizione e di competenza “ordinarie”, stabilite dal Regolamento (UE) n. 1215 del 2012. Ne consegue che, ove la suddetta domanda scaturisca da un contratto avente ad oggetto la prestazione di servizi, essa è devoluta, ex art. 7, comma 1, n. 1), lett. b), del Regolamento cit., alla competenza del giudice del luogo in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto essere prestati in base al contratto. Tale disposizione è stata interpretata dalla giurisprudenza della CGUE nel senso che tanto il luogo di partenza del velivolo, quanto quello di arrivo, devono essere considerati, allo stesso titolo, luoghi di “fornitura principale” dei servizi oggetto di un contratto di trasporto aereo.

Riguardo alla domanda di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, la medesima pronuncia ha statuito che, ove essa sia proposta da un passeggero nei confronti del vettore aereo, la competenza per territorio va individuata in base ai criteri stabiliti dall’art. 33, comma 1, della Convenzione di Montreal sul trasporto aereo internazionale, atteso che, alla luce della giurisprudenza della CGUE, le relative disposizioni disciplinano non solo il riparto della giurisdizione tra giudici di Stati diversi, ma anche l’individuazione del giudice competente all’interno di ciascuno Stato aderente alla menzionata Convenzione. A tal fine, la citata disposizione detta quattro criteri alternativi, attribuendo la competenza, a scelta dell’attore, anche al giudice avente sede nel luogo dove il vettore possiede una “impresa che ha provveduto a stipulare il contratto”, intendendosi per tale quello del luogo in cui il vettore possiede un’organizzazione propria o un soggetto a lui strettamente collegato contrattualmente, per il tramite dei quali distribuisca i biglietti aerei. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto competente a conoscere della domanda il giudice del luogo nel quale era ubicata l’agenzia di viaggi per il tramite della quale i passeggeri avevano acquistato i biglietti, sul rilevo che la relativa legittimazione ad emettere titoli di viaggio per conto di una compagnia aerea consentiva di presumere, ex art. 2727 c.c., che l’agenzia fosse stata autorizzata a ciò dal vettore e rappresentasse, quindi, un suo “ticket office”, in virtù di un apposito accordo bilaterale, idoneo a qualificarlo come institore, mandatario od appaltatore di servizi del vettore stesso; in particolare, ha precisato che era onere della parte che vi avesse interesse eventualmente allegare e dimostrare circostanze idonee a superare la presunzione in esame, come il fatto che la menzionata agenzia di viaggi avesse agito quale mero intermediario e, quindi, in virtù di un accordo concluso non con il singolo vettore, ma, ad esempio, con la IATA, l’organizzazione dei vettori aerei).

3.9. Convenzioni di deroga alla competenza per territorio.

L’art. 28 c.p.c. stabilisce il principio per cui la competenza per territorio può essere derogata per accordo delle parti, salvo le ipotesi elencate dalla stessa disposizione, nonché quelle in cui tale possibilità è espressamente esclusa dalla legge.

La S.C., nell’anno di riferimento, ha definito le condizioni in presenza delle quali la designazione convenzionale di un foro, in deroga a quello stabilito dalla legge, attribuisce a tale foro la competenza esclusiva, stabilendo che a tal fine è necessaria una dichiarazione espressa ed univoca da cui risulti, in modo chiaro e preciso, la concorde volontà delle parti, non solo di derogare alla ordinaria competenza territoriale, ma altresì di escludere la concorrenza del foro designato con quelli previsti dalla legge in via alternativa. In applicazione di tale principio, Sez. 6-3, n. 21010/2020, Pellecchia, Rv. 659155-01, regolando la competenza, ha escluso il carattere esclusivo del foro prescelto in sede contrattuale, sul rilievo che tale esclusività non solo non era stata specificata in maniera univoca nella clausola derogativa dell’ordinaria competenza territoriale, ma risultava smentita dal contenuto della eccezione di incompetenza, la quale era stata formulata con l’indicazione, oltre che del foro convenzionale, anche di un foro ad esso alternativo.

Sez. 6-3, n. 21362/2020, Cricenti, Rv. 659159-01, ribadendo tale principio, ha altresì in precisato che in caso di designazione convenzionale del foro, il carattere esclusivo della competenza non può desumersi per via argomentativa attraverso un’interpretazione sistematica dovendo essere inequivoca e non lasciare adito ad alcun dubbio sulla comune intenzione delle parti di escludere la competenza dei fori ordinari. Pertanto, in caso di pluralità di clausole relative al foro competente, per potere ritenere che le parti lo abbiano voluto come esclusivo, occorre che l’esclusività sia espressa in ogni clausola contenente la scelta del foro; al contrario, la presenza nel contratto di clausole espressamente indicanti il foro come esclusivo e di altre che non prevedono l’esclusività rende equivoca la volontà contrattuale di escludere altri fori.

Ove tali clausole siano inserite in un contratto stipulato per atto pubblico, Sez. 6-2, n. 15253/2020, Dongiacomo, Rv. 658728-01 ha ritenuto che, ancorché si conformino alle condizioni poste da uno dei contraenti, non possono considerarsi come predisposte dal contraente medesimo ai sensi dell’art. 1341 c.c. e, pertanto, pur se vessatorie, non necessitano di specifica approvazione. Pertanto, si considerata efficace la clausola di deroga alla competenza territoriale che, pur se contenuta in un documento separato ed unilateralmente predisposto, sia stata oggetto di un esplicito richiamo in contratto e sottoscritta dall’altro contraente, che abbia dichiarato di averne preso visione e di approvarne il contenuto, avendo, in tal caso, il valore, per effetto di una relatio perfecta, delle clausole concordate.

Si è inoltre ritenuta lecita la clausola contrattuale (cd. “asimmetrica”) di deroga alla competenza territoriale a favore anche solo di una parte, con la conseguente facoltà per la stessa di introdurre la lite sia davanti al giudice indicato nel contratto, sia dinanzi a quello che sarebbe competente secondo i criteri ordinari, mentre l’altro contraente resta obbligato a promuovere eventuali controversie soltanto dinanzi all’autorità giudiziaria contrattualmente indicata (Sez. 6-1, n. 15202/2020, Marulli, Rv. 658705-01).

Nel contratto tra consumatore e professionista predisposto unilateralmente da quest’ultimo l’efficacia della clausola convenzionale di deroga alla competenza territoriale del foro del consumatore è subordinata non solo alla specifica approvazione per iscritto prevista dall’art. 1341 c.c., ma anche - a norma dell’art. 34, comma 4, d.lgs. n. 206 del 2005 - allo svolgimento di una trattativa individuale con il consumatore sulla clausola stessa, la cui prova è posta a carico del professionista dal comma 5 del citato art. 34. Pertanto, la S.C., pronunciando su un’istanza di regolamento di competenza, ha dichiarato la competenza del foro del consumatore considerando inefficace la clausola derogatoria della competenza territoriale contenuta in un contratto assicurativo, la quale, anche se specificamente approvata per iscritto, non risultava essere stata oggetto di trattativa individuale (Sez. 6-3, n. 08268/2020, D’Arrigo, Rv. 657607-01).

Nell’ipotesi di cessione del contratto di concessione per effetto di alienazione di ramo d’azienda, Sez. 6-3, n. 12396/2020, Vincenti, Rv. 658219-01 ha statuito che la clausola derogatoria della competenza territoriale - che individua il foro esclusivamente competente nel luogo dove ha sede il concedente al momento dell’introduzione del giudizio - deve intendersi riferita alla diversa sede legale del contraente subentrato, trattandosi di rinvio mobile finalizzato alla conservazione dell’originario equilibrio negoziale. Applicando il principio all’ipotesi riguardante un contratto di concessione e fornitura di carburante ad un’area di servizio, la S.C. ha individuato la competenza territoriale nel luogo in cui il cessionario del contratto, subentrato al concedente, aveva sede al momento dell’inizio della controversia, in quanto i riferimenti testuali alla denominazione del contraente originario avevano una valenza meramente identificativa della parte contrattuale concedente e fornitrice.

Sez. 6-3, n. 21362/2020, Cricenti, Rv. 659159-02 ha statuito che la clausola derogatoria della competenza per territorio contenuta nel contratto di conto corrente per il quale è sorta controversia determina l’estensione del foro convenzionale anche alla lite concernente la relativa garanzia fideiussoria; ciò in ragione di quanto dispone l’art. 31 c.p.c. con riguardo alle cause accessorie e nonostante la coincidenza solo parziale dei soggetti processuali, tenuto conto dello stretto legame esistente tra i due rapporti e del rischio che, in caso di separazione dei procedimenti, si formino due diversi giudicati in relazione ad un giudizio sostanzialmente unico.

4. La competenza funzionale.

Oltre ai criteri indicati dal codice di rito, dottrina e giurisprudenza hanno individuato un ulteriore criterio di ripartizione della competenza conseguente alla natura e alla funzione che il giudice è chiamato ad esercitare. Si tratta della competenza c.d. funzionale.

Costituisce un’ipotesi di competenza funzionale e non derogabile neppure per ragioni di continenza o di connessione la previsione di cui all’art. 645 c.p.c. il quale dispone che l’opposizione a decreto ingiuntivo deve essere proposta dinanzi all’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto. Ne consegue che, qualora nel corso del giudizio di opposizione sia stata formulata una domanda di garanzia impropria nei confronti di un’amministrazione dello Stato, domanda appartenente, ai sensi dell’art. 25 c.p.c., alla competenza territoriale inderogabile di altro giudice, il giudice dell’opposizione deve disporre la separazione delle cause, trattenendo il procedimento di opposizione e rimettendo l’altra al giudice territorialmente competente, salva la successiva applicazione, da parte di quest’ultimo, dei principi in materia di sospensione dei processi (Sez. 6-2, n. 11796/2020, Abete, Rv. 658450-01).

Nelle cause con una pluralità di convenuti, nelle quali è parte un’amministrazione dello Stato, come litisconsorte necessario, prevale la competenza del foro erariale, trattandosi di competenza funzionale e inderogabile. Sez. 6-1, n. 26883/2020, Lamorgese, Rv. 659894-01 ha affermato il principio in fattispecie in cui si trattava di causa instaurata da un cittadino straniero per la mancata iscrizione anagrafica da parte dell’ufficiale dell’anagrafe, nella quale erano stati convenuti il comune ed il ministero dell’Interno.

Secondo Sez. 6-3, n. 20345/2020, Guizzi, Rv. 659252-01 non ricorre un vizio di competenza funzionale nell’ipotesi di riassunzione del giudizio innanzi alla sezione distaccata della corte d’appello individuata dalla S.C. quale giudice del rinvio, anche se la stessa sezione distaccata aveva emesso la decisione poi cassata. La competenza funzionale, infatti, non può riguardare la ripartizione interna degli affari tra sezioni (come nel caso del rapporto fra sede distaccata e principale di una corte di appello) o le persone fisiche dei magistrati, purché nessuno dei componenti del nuovo collegio giudicante abbia partecipato alla pronuncia del provvedimento cassato.

Analogamente, Sez. 6-1, n. 22292/2020, Terrusi, Rv. 659147-01 ha affermato che nel giudizio di opposizione alla liquidazione del compenso degli ausiliari del giudice, l’ordinanza emessa dal giudice monocratico, anziché dal presidente del tribunale non è affetta da nullità, non essendo configurabili all’interno dello stesso ufficio questioni di competenza tra il suo presidente ed i giudici che sono in servizio, ma solo di distribuzione degli affari in base alle tabelle di organizzazione.

In ordine al procedimento per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti di avvocato di cui all’art. 28 della l. n. 794 del 1942, come sostituito dall’art.34, comma 16, lett. a), del d.lgs. n. 150 del 2011, le Sezioni unite della Corte, nel risolvere la questione di massima di particolare importanza ad esse rimessa da Sez. 6-2, n. 16212/2019, Fortunato (non massimata), hanno stabilito che, ove il professionista, agendo ai sensi dell’art. 14 del citato decreto legislativo, chieda la condanna del cliente inadempiente al pagamento dei compensi per l’opera prestata in più fasi o gradi del giudizio, la competenza è dell’ufficio giudiziario di merito che ha deciso per ultimo la causa (Sez. U., n. 04247/2020, Tria, Rv. 657193-01).

Riguardo alla domanda di restituzione delle somme pagate in esecuzione di una sentenza, successivamente cassata in sede di legittimità, ancorché proposta in via autonoma, Sez. 6-3, n. 03527/2020, Gianniti, Rv. 657015-02 ha affermato che essa è devoluta alla competenza esclusiva del giudice del rinvio.

5. Profili processuali. L’eccezione di incompetenza.

Nel corso dell’anno diverse pronunce della Corte hanno precisato modalità e termini per la proposizione dell’eccezione di competenza.

Ai sensi dell’art. 38 c.p.c. l’incompetenza per materia, per valore e per territorio devono essere eccepite a pena di decadenza nella comparsa di risposta tempestivamente depositata.

Secondo quanto affermato da Sez. 6-2, n. 05980/2020, Tedesco, Rv. 657269-01 la parte che sia decaduta dalla facoltà di proporre un’eccezione di incompetenza territoriale non è legittimata ad impugnare il rigetto di analoga eccezione di incompetenza tempestivamente formulata da altra parte processuale, in quanto la perdita di una facoltà non può essere recuperata per fatto altrui, poiché ciò equivarrebbe a vanificare il termine di decadenza previsto dalla legge.

Nel giudizio d’appello la disciplina dell’incompetenza non soggiace ad un regime diverso da quello previsto per tutte le competenze dall’art. 38 c.p.c. Ne consegue che il potere della parte convenuta di eccepire l’incompetenza del giudice del gravame deve ancorarsi alla comparsa di risposta tempestivamente depositata, cosi come quello del giudice di rilevare d’ufficio la propria incompetenza si deve ritenere collegato all’omologo in appello dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. e, dunque, all’udienza ex art. 350 c.p.c. (Sez. 3, n. 11118/2020, Fiecconi, Rv. 658140-01).

Quanto alle modalità con cui l’eccezione va proposta, l’art. 38, comma 1, secondo periodo c.p.c. stabilisce che l’eccezione di incompetenza per territorio deve contenere l’indicazione del giudice che la parte ritiene competente, dovendosi altrimenti considerare come non proposta.

In proposito Sez. 6-3, n. 26910/2020, Scrima, Rv. 659903-01 ha riaffermato il principio secondo il quale, poiché il foro convenzionale, anche se pattuito come esclusivo, è derogabile per connessione oggettiva ai sensi dell’art. 33 c.p.c., la parte che eccepisce l’incompetenza del giudice adito, in virtù della convenzione che attribuisce la competenza esclusiva ad altro giudice, ha l’onere di eccepirne l’incompetenza pure in base ai criteri degli artt. 18 e 19 c.p.c., in quanto richiamati dall’art. 33 c.p.c. ai fini della modificazione della competenza per ragione di connessione.

Sez. 6-3, n. 24632/2020, Rossetti, Rv. 659913 - 01 ha stabilito che, nell’ipotesi in cui il convenuto, sollevando eccezione di incompetenza per territorio, neghi l’esistenza di un criterio di competenza per territorio inderogabile, deve indicare ai fini della completezza dell’eccezione, tutti i possibili fori concorrenti per ragione di territorio derogabile, ma non è necessario che tra i fori alternativi menzioni anche quello inderogabile, non potendosi pretendere che la parte sia costretta a negare e invocare, nel medesimo atto, l’applicabilità di tale ultimo foro.

Nelle cause relative a diritti di obbligazione, secondo Sez. 6-3, n. 17374/2020, Rubino, Rv. 658752-01 la disciplina di cui all’art. 38, comma 1, c.p.c., come sostituito dall’art. 45 della l. n. 69 del 2009 (la quale, con riguardo a detta specie di competenza, ha riproposto i contenuti del terzo comma del testo previgente dell’art. 38, sia in punto di necessaria formulazione dell’eccezione “a pena di decadenza” nella comparsa di risposta, sia quanto alla completezza dell’eccezione) comporta che il convenuto sia tenuto ad eccepire l’incompetenza per territorio del giudice adito con riferimento a tutti i concorrenti criteri previsti dagli artt. 18, 19 e 20 c.p.c. (e, nel caso di cumulo soggettivo, ai sensi dell’art. 33 c.p.c., in relazione a tutti i convenuti), indicando specificamente, in relazione ai criteri medesimi, quale sia il giudice che ritenga competente, senza che, verificatasi la suddetta decadenza o risultata comunque inefficace l’eccezione, il giudice possa rilevare d’ufficio profili di incompetenza non proposti, restando la competenza del medesimo radicata in base al profilo non (o non efficacemente) contestato. Vertendosi in tema di eccezione di rito ed in senso stretto, l’attività di formulazione dell’eccezione richiede un’attività argomentativa esplicita sotto entrambi gli indicati profili.

Nelle medesime controversie in materia di obbligazioni, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ove l’eccezione di incompetenza territoriale sia sollevata dall’opponente persona fisica, la contestazione della sussistenza del foro del giudice adito rende necessaria l’indicazione di quello competente con riferimento, oltre che ai fori speciali concorrenti di cui all’art. 20 c.p.c., anche ai fori generali previsti dal precedente art. 18, con riguardo, quindi, sia alla residenza sia al domicilio, poiché quest’ultimo è criterio di collegamento autonomo rispetto a quello della residenza. Peraltro, l’opponente, rivestendo la posizione sostanziale di convenuto, non è esentato dal suddetto onere neppure in caso di indicazione, nel ricorso per decreto ingiuntivo, della sua residenza ovvero del suo domicilio in un luogo non riconducibile alla giurisdizione territoriale del giudice, sia perché, nella prima ipotesi, l’individuazione della residenza non può lasciare presumere la coincidenza con essa del domicilio (atteso che l’art. 163, n 2, c.p.c. prevede l’indicazione alternativa dell’una e dell’altro) sia perché, in entrambe le circostanze, il secondo comma, secondo inciso, dell’art. 38 c.p.c. esclude ogni operatività del principio di ammissione, onerando comunque il convenuto eccipiente di una specifica contestazione, là dove gli impone di indicare il giudice competente e, nell’eventualità di concorrenza di fori, di contestare e menzionare tutti i fori possibilmente concorrenti (Sez. 6-3, n. 14096/2020, Positano, Rv. 658508-01).

Con riferimento all’azione revocatoria ex art. 2901 c.c., secondo Sez. 3, n. 01594/2020, Cricenti, Rv. 656641-01 l’eccezione di incompetenza non può essere limitata al foro generale del convenuto, ma, come in ogni altra lite che riguardi diritti di obbligazione, deve investire tutti i criteri di collegamento alternativamente previsti dagli artt. 18-20 c.p.c. e astrattamente applicabili. Tali controversie infatti, concernono un’obbligazione da tutelare attraverso la dichiarazione di inefficacia (relativa) del negozio che si assume fraudolentemente posto in essere, sicché la competenza per territorio va determinata in base ai criteri di collegamento previsti dagli artt. 18-20 cit.

Per quanto concerne i procedimenti cautelari ante causam, Sez. 6-3, n. 12403/2020, D’Arrigo, Rv. 658063-01 ha ribadito che l’omessa rilevazione dell’incompetenza, sia essa derogabile o inderogabile nell’ambito di quei procedimenti, non determina il definitivo consolidamento della competenza in capo all’ufficio adìto anche ai fini del successivo giudizio di merito, dal momento che non opera nel giudizio cautelare il regime delle preclusioni relativo alle eccezioni e al rilievo d’ufficio dell’incompetenza, stabilito dall’art. 38 c.p.c., in quanto applicabile esclusivamente al giudizio a cognizione piena. Ne consegue che il giudizio proposto ai sensi degli artt. 669-octies e novies c.p.c., all’esito della fase cautelare ante causam, può essere validamente instaurato davanti al giudice competente, ancorché diverso da quello della cautela (conf. Sez. 3, n. 02505/2010, Frasca, Rv. 611615-01).

6. Il rilievo d’ufficio dell’incompetenza.

L’incompetenza per materia, per valore e quella per territorio c.d. funzionale sono rilevate d’ufficio non oltre l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., cioè l’udienza fissata per la prima comparizione delle parti.

In applicazione di tale disposizione, Sez. 6-1, n. 09552/2020, Mercolino, Rv. 657738-01 ha stabilito che nelle controversie inerenti alla determinazione della giusta indennità di espropriazione, affidate alla competenza funzionale in unico grado della corte di appello, l’incompetenza del tribunale non è rilevabile d’ufficio per la prima volta in sentenza, essendo precluso il rilievo d’ufficio dell’incompetenza oltre la prima udienza di cui all’art. 183 c.p.c.

7. Il regolamento di competenza.

Il regolamento di competenza, disciplinato dagli artt. 42 ss. c.p.c., è finalizzato a determinare quale sia il giudice competente a decidere una determinata causa di merito sicché, sia esso necessario o facoltativo, presuppone che una questione di competenza sia stata - anche solo implicitamente - definita con un provvedimento avente natura di sentenza, ipotizzandosi o sostenendosi la competenza di un giudice ordinario diverso da quello adito. Ai fini della impugnabilità con regolamento facoltativo di competenza, per “decisione di merito” si intende non soltanto una pronuncia sul rapporto sostanziale dedotto in giudizio, in contrapposizione ad una pronuncia sul rapporto processuale, ma anche la risoluzione di questioni diverse da quella sulla competenza, di carattere sostanziale o processuale, pregiudiziali di rito o preliminari di merito, salvo che dal contenuto della pronuncia risulti che l’esame di tali questioni sia stato compiuto solo incidentalmente, in funzione della decisione sulla competenza e senza pregiudizio per l’esito definitivo della controversia (Sez. 2, n. 21530/2020, Grasso Gius., Rv. 659374-02).

Il regolamento di competenza è di norma configurato come uno specifico mezzo di impugnazione avverso i provvedimenti che pronunziano sulla competenza. Pertanto, Sez. 6-1, n. 22682/2020, Parise, Rv. 659431-01 ha affermato che esso deve contenere tutti gli elementi previsti dall’art. 366 c.p.c., salvo che l’art. 47 c.p.c. non disponga diversamente. Pertanto, ai sensi del n. 6) del detto art. 366 c.p.c. la parte è tenuta, oltre a richiamare gli atti e i documenti del giudizio di merito, anche a riprodurli nel ricorso indicando in quale sede processuale siano stati prodotti. Tale principio è stato enunciato dalla S.C. in una fattispecie nella quale il ricorrente, nel lamentare l’insussistenza della litispendenza tra due cause, ha omesso di riportare nel ricorso per regolamento il contenuto della sua domanda che sarebbe stata diversa rispetto a quella formulata dall’altra parte.

Il regolamento è ammissibile allorché sia proposto avverso la sentenza con la quale il giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo dichiari la nullità del decreto opposto esclusivamente per incompetenza del giudice che lo ha emesso, atteso che essa integra una statuizione sulla competenza, e non una pronuncia sul merito, essendo la dichiarazione di nullità non solo conseguente, ma anche necessaria rispetto alla declaratoria di incompetenza; e ciò anche nel caso in cui la sentenza contenga condanna alla restituzione di quanto percepito dal ricorrente in forza del decreto ingiuntivo dichiarato provvisoriamente esecutivo, essendo anche tale statuizione conseguenza necessitata della dichiarazione di nullità del decreto opposto e, quindi, della statuizione di incompetenza (Sez. 2, n. 21530/2020, Grasso Gius., Rv. 659374-01).

Invece non può essere impugnata con tale mezzo l’ordinanza con la quale il giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo si limiti ad una delibazione sommaria sulla competenza, unicamente come presupposto della decisione sulla sussistenza delle condizioni per la concessione della provvisoria esecuzione al decreto ingiuntivo opposto (Sez. 6-3, n. 20357/2020, Tatangelo, Rv. 659255-01).

Secondo Sez. 6-3, n. 13426/2020, Rubino, Rv. 658502-01 è altresì inammissibile il regolamento di competenza con il quale si deduca che il giudice, nel dichiarare la propria incompetenza, abbia omesso di revocare il decreto ingiuntivo opposto, sia perché la pronuncia di incompetenza contiene necessariamente, ancorché implicita, la declaratoria di invalidità e di revoca del decreto stesso, con conseguente carenza di interesse alla formulazione di una tale doglianza, sia in quanto quest’ultima non ricade tra quelle previste dall’art. 42 c.p.c., non integrando una questione di competenza. (Conf. Sez. 6-2, n. 22297/2016, Lombardo, Rv. 641679-01).

Il regolamento di competenza è inammissibile anche ove sia proposto avverso provvedimento del Presidente del tribunale di conferma dell’assegnazione della causa alla sezione agraria, anziché alla sezione ordinaria tabellarmente competente del medesimo tribunale, trattandosi di pronuncia avente carattere ordinatorio interno, a valenza meramente amministrativa e priva di natura decisoria sulla competenza (Sez. 6-3, n. 09072/2020, Rubino, Rv. 657664-01).

È stato altresì ritenuto inammissibile il ricorso ex art. 42 c.p.c. avverso il provvedimento del collegio che disponga la prosecuzione della lite innanzi al giudice istruttore, ove non preceduto dalla rimessione della causa in decisione e dal previo invito alle parti a precisare le rispettive integrali conclusioni anche di merito, salvo che quel giudice abbia affermato, in termini inequivoci ed incontrovertibili, l’idoneità della propria decisione a risolvere definitivamente, davanti a sé, la questione di competenza (Sez. 6-1, n. 02338/2020, Mercolino, Rv. 656642-01).

In continuità con il costante orientamento della Corte, Sez. 3, n. 04001/2020, Di Florio, Rv. 656904-01 ha ribadito che la decisione con la quale il giudice di pace statuisca sulla propria competenza, ove non abbia natura meramente interlocutoria, ma costituisca una vera e propria sentenza, non è impugnabile col regolamento di competenza, ma può essere soltanto appellata, nei limiti e secondo le previsioni di cui all’art. 339 c. p.c.

Sez. 6-2, n. 21975/2020, Oliva, Rv. 659398-01 ha precisato che nei procedimenti avanti al giudice di pace, la sentenza che, definendo il giudizio di opposizione, accolga l’eccezione di incompetenza per territorio del giudice adito in sede monitoria e, conseguentemente, revochi il decreto ingiuntivo opposto, pur non integrando una decisione nel merito della vertenza, contenendo solo statuizioni in rito, non può essere impugnata con il regolamento di competenza, espressamente escluso dall’art. 46 c.p.c., ma è soggetta ad appello, secondo quanto previsto dall’art. 339 c.p.c.

In tema di querela di falso proposta avanti alla corte d’appello, Sez. 6-2, n. 10361/2020, Falaschi, Rv. 657820-01 ha ritenuto impugnabile con regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c. l’ordinanza con cui, ai sensi dell’art. 355 c.p.c. il giudice d’appello rimette la causa al tribunale competente per la riassunzione del giudizio sulla querela, in quanto tale provvedimento ha natura decisoria sulla competenza territoriale relativa a tale giudizio.

Sez. 2, n. 05516/2020, Casadonte, Rv. 657118-01 ha affermato che sono impugnabili soltanto con il regolamento necessario di competenza le pronunce sulla sola competenza, anche se emesse in grado di appello e pur quando abbiano riformato per competenza la decisione di primo grado riguardante anche il merito, dal momento che l’art. 42 c.p.c. non distingue tra sentenza di primo e secondo grado e configura, quindi, il regolamento suddetto quale mezzo d’impugnazione tipico per ottenere la statuizione definitiva sulla competenza. Tale principio, peraltro, opera anche nel caso in cui esista una questione sull’ammissibilità e tempestività dell’eccezione di incompetenza ovvero sul tempestivo rilievo d’ufficio della medesima.

Con specifico riferimento al regolamento facoltativo di competenza in relazione alle sentenze che abbiano pronunciato sulla competenza insieme con il merito, Sez. 6-3, n. 10932/2020, Rubino, Rv. 658217-01 ha chiarito che l’art. 43 c.p.c. non attribuisce una assoluta ed indiscriminata facoltà di scelta tra il regolamento e l’impugnazione ordinaria, ma consente quest’ultima soltanto quando, secondo il testuale dettato della norma, “insieme con la pronunzia sulla competenza, si impugna quella sul merito”. Pertanto, ove la sentenza sia impugnata limitatamente alla prima pronunzia, l’unico mezzo di impugnazione ammesso è il regolamento di competenza.

Quanto al regolamento d’ufficio, Sez. 6-2, n. 11856/2020, Abete, Rv. 658451-01 ha ribadito che in materia di equa riparazione per irragionevole durata del processo, in caso di declinatoria di competenza da parte del giudice originariamente adito, è inammissibile il regolamento di competenza richiesto d’ufficio, ai sensi dell’art. 45 c.p.c., dal magistrato designato per la fase monitoria dal presidente della corte d’appello davanti alla quale la causa sia stata riassunta, trattandosi di prerogativa riservata al collegio, da investire con l’opposizione ex art. 5-ter; l’ingiunzione prevista dall’art. 3 della l. n. 89 del 2001, infatti, non ha i caratteri della definitività, atteso che contro di essa è proponibile l’opposizione al collegio, di cui all’art. 5 ter citato, che non è un mezzo d’impugnazione del decreto monocratico limitato dai motivi di censura, bensì un rimedio processuale ad ampio spettro, esperibile anche quando il giudice della fase monitoria abbia deciso una questione di mero rito.

Non può richiedere d’ufficio il regolamento di competenza il giudice di pace davanti al quale la causa è stata riassunta, dopo che la decisione di altro giudice di pace sulla competenza sia stata riformata in seguito ad appello specifico sul punto. Ciò in quanto la pronuncia di appello sulla competenza può essere contestata solo dalle parti con il regolamento necessario previsto dall’art. 42 c.p.c. (Sez. 6-3, n. 00346/2020, Scrima, Rv. 656552-01).

Secondo Sez. 6-1, n. 02073/2020, Bisogni, Rv. 656821-01, il regolamento di competenza d’ufficio è sempre proponibile, in applicazione analogica dell’art. 45 c.p.c., per individuare chi sia competente tra il tribunale ordinario e quello per i minorenni in tema di provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale in pendenza di un giudizio di separazione personale, anche in presenza di un conflitto positivo pure solo virtuale, ritenendosi i due tribunali entrambi competenti ad adottare il medesimo provvedimento, trattandosi di materia nella quale il giudice dispone di poteri officiosi d’iniziativa, ai fini tanto dell’instaurazione e della prosecuzione del procedimento quanto della pronuncia di merito.

Tra i provvedimenti che impugnabili con regolamento necessario di competenza, ai sensi dell’art. 42 c.p.c., vi sono anche quelli che dichiarano la sospensione del processo ai sensi dell’art. 295 c.p.c. In proposito Sez. 6-3, n. 20344/2020, Guizzi, Rv. 659251-01 ha chiarito che tale rimedio non è ammesso contro il diniego di sospensione del processo, poiché la formulazione letterale dell’art. 42 c.p.c., di carattere eccezionale, prevede un controllo immediato solo sulla legittimità del provvedimento che tale sospensione concede. Si è tuttavia ritenuto che questa disciplina non si ponga in contrasto con l’art. 6 CEDU in quanto contempera l’esigenza di effettività della tutela giurisdizionale con quella di efficienza della giurisdizione, garantendo, da un lato, il diritto della parte che si vede respingere la richiesta di sospensione di impugnare, comunque, sul punto, la decisione che ha definito il giudizio non sospeso e, dall’altro, la durata ragionevole del processo.

È impugnabile col regolamento di competenza di cui all›art. 42 c.p.c. l’ordinanza resa ai sensi dell›art. 337, comma 2, c.p.c., con la quale sia disposta la sospensione facoltativa del processo allorché sia stata invocata l›autorità di una sentenza pronunciata all›esito di un diverso giudizio e tuttora impugnata. Sez. 6-3, n. 14146/2020, Scrima, Rv. 658381-02 ha affermato che in tal caso il sindacato esercitabile al riguardo dalla Corte di cassazione è limitato alla verifica dell’esistenza dei presupposti giuridici in base ai quali il giudice di merito si è avvalso del potere discrezionale di sospensione nonché della presenza di una motivazione non meramente apparente in ordine al suo esercizio.

7.1. Il procedimento.

Nel procedimento per regolamento di competenza, i difensori che rappresentano le parti nel giudizio di merito conservano la qualità di procuratori, senza che sia neppure necessaria l’abilitazione al patrocinio innanzi alla Corte di cassazione, operando il regolamento medesimo come un semplice incidente del processo di merito. In applicazione del principio, Sez. 6 - 2, n. 16219/2020, Scarpa, Rv. 658743-01 ha ritenuto ammissibile la scrittura difensiva depositata, ex art. 47, ultimo comma, c.p.c. dall’Avvocatura distrettuale dello Stato operante nel distretto di Corte di appello di ubicazione del Tribunale ove si stava svolgendo il processo di merito.

Inoltre, Sez. 6-3, n. 10439/2020, D’Arrigo, Rv. 658030-01 ha affermato che il difensore della parte, munito di procura speciale per il giudizio di merito, è legittimato a proporre istanza di regolamento di competenza, ove ciò non sia espressamente e inequivocabilmente escluso dal mandato alle liti, perché l’art. 47, comma 1, c.p.c. è una norma speciale, che prevale sull’art. 83, comma 4, c.p.c., in base al quale la procura speciale deve presumersi conferita per un solo grado di giudizio.

Riguardo ai requisiti che il ricorso per regolamento di competenza deve presentare, Sez. 6-3, n. 01278/2020, Graziosi, Rv. 656591-01, confermando l’orientamento già espresso da Sez. 3, n. 20395/2009, Frasca, Rv. 609345-01, ha stabilito che è inammissibile per inosservanza del requisito di cui al n. 3 del comma 1 dell’art. 366 c.p.c. il ricorso che pretenda di assolvere a tale requisito - applicabile anche a detto mezzo di impugnazione - mediante l’assemblaggio in sequenza cronologica degli atti della causa, riprodotti in copia fotostatica, senza che ad esso faccia seguire una parte espositiva in via sommaria del fatto sostanziale e processuale, né in via autonoma prima dell’articolazione dei motivi né nell’ambito della loro illustrazione.

Con riguardo al regolamento di competenza d’ufficio, Sez. U., n. 11866/2020, Carrato, Rv. 658035-01, nel decidere la questione di massima di particolare importanza rimessa dalla Sez. 6-2, ha affermato che, anche nell’ipotesi in cui esso sia proposto dal giudice di secondo grado ai sensi dell’art. 45 c.p.c., opera la preclusione di cui all’art. 38 c.p.c. (il quale dispone che l’incompetenza per materia, per valore e per territorio inderogabile sono eccepite o rilevate entro l’udienza di trattazione), con la conseguenza che detto regolamento, dovendo immediatamente seguire al rilievo dell’incompetenza, deve essere richiesto entro il termine di esaurimento delle attività di trattazione contemplate dall’art. 350 c.p.c., ossia prima che il giudice del gravame provveda all’eventuale ammissione delle prove a norma dell’art.356 c.p.c., ovvero - in caso di non espletamento di attività istruttoria - prima che proceda ad invitare le parti alla precisazione delle conclusioni e a dare ingresso alla fase propriamente decisoria.

Ai fini della determinazione delle spese del giudizio, Sez. 6-3, n. 00504/2020, D’Arrigo, Rv. 656577-01 ha statuito che, poiché il regolamento di competenza ha ad oggetto una questione di rilievo meramente procedurale, in cui il valore effettivo della controversia non risulta determinabile mediante l’applicazione dei criteri previsti dal decreto del Ministro della Giustizia 10 marzo 2014, n. 55, la questione deve essere considerata di valore indeterminabile, ai sensi dell’art. 5, comma 5, del citato decreto.

Sez. 6-2, n. 13636/2020, Cosentino, Rv. 658724-01 ha riaffermato il principio secondo cui, stante la natura impugnatoria del ricorso per regolamento di competenza, ove lo stesso venga integralmente rigettato il ricorrente può essere obbligato al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ex art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, introdotto, con riferimento ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012.

  • comunicazione
  • giudice
  • lavoratore ausiliario
  • parti sociali
  • accusa
  • interesse ad agire
  • ricusazione

CAPITOLO VII

LE DISPOSIZIONI GENERALI

(di Laura Mancini )

Sommario

1 Il giudice. Astensione e ricusazione. - 2 Ausiliari. - 2.1 Il diritto al compenso. - 2.2 L’opposizione avverso il decreto di liquidazione del compenso degli ausiliari. - 3 Litispendenza e continenza. - 4 Le parti e i difensori. - 5 Successione nel processo e successione nel diritto controverso. - 6 L’interesse ad agire. - 7 La legittimazione ad agire. - 8 I termini. - 9 Comunicazioni e notificazioni. - 9.1 Nullità della notificazione.

1. Il giudice. Astensione e ricusazione.

Le rare pronunce in tema di astensione e ricusazione rese nell’annualità in rassegna hanno confermano la tendenza della giurisprudenza di legittimità a concepire i casi di astensione obbligatoria del giudice stabiliti dall’art. 51 c.p.c., ai quali corrisponde il diritto di ricusazione delle parti, come deroga eccezionale al principio del giudice naturale precostituito per legge e, quindi, come istituti di stretta interpretazione.

Tale approccio ermeneutico, che risponde ad un insegnamento più che consolidato (risalente a Sez. U, n. 665/1964, Celentano, Rv. 300910-01 e recentemente ribadito da Sez. 1, n. 22930/2017, Genovese, Rv. 645526-01), ha orientato Sez. 6-2, n. 2720/2020, Scarpa, Rv. 657246-01, con la quale la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul rapporto tra l’obbligo di astensione e la proposta di trattazione camerale ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c.

Tale decisione ha, innanzitutto, ribadito che nel giudizio di cassazione la proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. non riveste carattere decisorio e non deve essere motivata, essendo destinata a fungere da prima interlocuzione fra il relatore e il presidente del collegio, senza che risulti in alcun modo menomata la possibilità per quest’ultimo, all’esito del contraddittorio scritto con le parti e della discussione in camera di consiglio, di confermarla o di non condividerla, con conseguente rinvio alla pubblica udienza della sezione semplice, in base all’art. 391-bis, comma 4, c.p.c. Ha, quindi, precisato che il contenuto e la funzione di tale disposizione non sono mutati all’esito del Protocollo di intesa tra la Corte di cassazione, il Consiglio Nazionale Forense e l’Avvocatura generale dello Stato sull’applicazione del “nuovo rito” ai giudizi civili di cassazione, intervenuto in data 15 dicembre 2016, che ha previsto l’”informazione circa le ragioni dell’avvio del ricorso alla trattazione in adunanza camerale”, per giungere alla conclusione che in un giudizio di revocazione la suddetta proposta non può valere come indebita anticipazione del giudizio ad opera del consigliere relatore, né tantomeno comportare un obbligo di astensione di cui all’art. 51, n. 4, c.p.c.

Merita, altresì, di essere menzionata Sez. 6-2, n. 18611/2020, Parise, Rv. 657246-01, la quale ha ribadito che l’ordinanza di rigetto dell’istanza di ricusazione non è impugnabile mediante ricorso straordinario per cassazione giacché, pur avendo natura decisoria - atteso che decide su un’istanza diretta a far valere concretamente l’imparzialità del giudice, la quale costituisce non soltanto un interesse generale dell’amministrazione della giustizia, ma anche, se non soprattutto, un diritto soggettivo della parte - manca, tuttavia, del necessario carattere della definitività, in quanto la sua non impugnabilità ex se non esclude che il suo contenuto sia suscettibile di essere riesaminato nel corso dello stesso processo attraverso il controllo sulla pronuncia resa dal (o col concorso del) iudex suspectus. L’eventuale vizio causato dall’incompatibilità del giudice invano ricusato si converte, pertanto, in motivo di nullità dell’attività spiegata dal giudice stesso, e quindi di gravame della sentenza da lui emessa.

2. Ausiliari.

Dalle pronunce che nel 2020 hanno affrontato questioni concernenti la disciplina degli ausiliari del giudice emerge il consolidamento della tendenza della giurisprudenza di legittimità a riconoscere carattere pubblicistico alle funzioni ad essi attribuite nel generale e superiore interesse della giustizia.

La produzione giurisprudenziale ha toccato prevalentemente i profili della liquidazione del compenso, specie con riferimento all’ausiliare del giudice penale, e del procedimento di opposizione avverso la stessa.

2.1. Il diritto al compenso.

Per quel che riguarda la remunerazione dell’ausiliare designato in sede penale, merita di essere segnalata Sez. 2, n. 1205/2020, Grasso Giuseppe, Rv. 656843-01, la quale, in materia di indennità per il custode di cose sequestrate in un procedimento penale, ha chiarito che in tema di liquidazione dell’indennità spettante al custode di tali beni, qualora il compendio sequestrato non rientri in alcuna delle categorie di beni indicati nel d.m. n. 265 del 2006, di approvazione delle tariffe, emesso in attuazione dell’art. 59 del d.P.R. n. 115 del 2002, il giudice può applicare, in via analogica, la disciplina dettata per casi analoghi, in base alla similitudine fisica dei beni, non potendo trovare applicazione l’art. 2233, comma 1, c.c., che si riferisce esclusivamente alle professioni intellettuali. Nella specie, relativa al sequestro di container, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della corte d’appello che, accertata l’insussistenza di un uso locale cui fare riferimento, aveva ritenuto applicabile, in via analogica, la disciplina dettata dall’art. 1 del d.m. n. 265 cit. per il compenso dovuto per la custodia di autoveicoli e natanti.

Ancora, in materia di indennità per gli ausiliari del giudice penale, Sez. 3, n. 14242/2020, Cricenti, Rv. 658330-01, ha precisato che le prestazioni di noleggio di apparecchiature private da utilizzarsi per intercettazioni telefoniche non sono, in astratto, sottratte alla libera contrattazione, ma l’autorizzazione all’utilizzo rilasciata dal P.M. non costituisce accettazione di una proposta contrattuale del noleggiatore poiché essa proviene da un organo che non ha capacità di impegnare contrattualmente il Ministero della Giustizia e la sua funzione è piuttosto di rendere utilizzabili nel processo le intercettazioni effettuate con strumenti privati. Peraltro, in difetto di una utilizzazione pattuita, l’uso di tali apparecchiature è rimborsabile nei termini indicati dall’art. 168 del d.P.R. n. 115 del 2002, disposizione di chiusura che consente il rimborso di tutte le spese, non espressamente previste, effettuate nel corso del processo per situazioni straordinarie.

Sempre in materia di compenso spettante all’ausiliare designato in sede penale, Sez. 6-2, n. 24933/2020, Giannaccari, Rv. 659702-01, dando seguito a Sez. 1, n. 11553/2019, Scotti, Rv. 653768-01 ed a Sez. 6-2, n. 752/2016, Giusti, Rv. 638638-01, ha chiarito che, in tema di liquidazione dell’indennità spettante al custode di beni sottoposti a sequestro nell’ambito di un procedimento penale, la determinazione dell’indennità di custodia per i beni diversi da quelli espressamente contemplati dal d.m. n. 265 del 2006 va operata, ai sensi dell’art. 5 del citato d.m. e dell’art. 58, comma 2, del d.P.R. n. 115 del 2002, sulla base degli usi locali, senza che per questi occorra verificare la ricorrenza del requisito della opinio iuris ac necessitatis, ossia dalla convinzione, comune ai consociati, dell’obbligatorietà dell’osservanza delle tariffe, poiché il recepimento e la legittimazione delle prassi dei corrispettivi applicati nella pratica commerciale deriva direttamente dal rinvio operato dalla disciplina legale. Nella fattispecie, la Corte ha confermato la decisione gravata che, in sede di liquidazione, aveva attribuito valore al fatto che, pur in assenza di una raccolta degli usi della Provincia di Roma, da anni la Prefettura determinava le indennità di custodia dei beni in sequestro con riferimento all’Agenzia del Demanio, applicando le riduzioni di cui al d.P.R. n. 265 del 2006.

Per quanto riguarda l’ausiliare del giudice dell’esecuzione, secondo Sez. 6-3, n. 9048/2020, Tatangelo, Rv. 657833-01, la liquidazione dei compensi e delle spese spettanti agli Istituti di Vendite Giudiziarie per le attività ad essi attribuite (tra cui la custodia, il trasporto e la vendita dei beni mobili pignorati) è regolata esclusivamente ed interamente dalle disposizioni del d.m. n. 109 del 1997, sicché non può trovare applicazione, neppure parziale, il d.m. n. 80 del 2009 che disciplina, invece, i compensi spettanti agli altri soggetti, diversi dai predetti istituti, nominati custodi dei beni pignorati in sostituzione del debitore ai sensi dell’art. 520, comma 2, c.p.c.

Interessanti precisazioni sono state svolte anche in merito alla liquidazione del compenso del consulente tecnico d’ufficio, con specifico riferimento all’ipotesi di accertamento plurimo, in relazione al quale Sez. 2, n. 15306/2020, Picaroni, Rv. 658473-01, in continuità con Sez. 1, n. 22779/2014, Campanile, Rv. 632890-01, ha confermato che, ai fini della liquidazione degli onorari del c.t.u., deve aversi riguardo all’accertamento richiesto dal giudice e, ove si tratti di accertamento plurimo, ancorché in base ad incarico unitario, è legittima la liquidazione degli onorari effettuata mediante sommatoria di quelli relativi a ciascuno dei distinti accertamenti richiesti.

2.2. L’opposizione avverso il decreto di liquidazione del compenso degli ausiliari.

Per quanto concerne il procedimento di opposizione alla liquidazione del compenso, le pronunce rese nel 2020 hanno riguardato prevalentemente questioni attinenti al provvedimento conclusivo del giudizio ex art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002 e al ricorso per cassazione avverso di esso.

Con riferimento all’ordinanza che decide sull’opposizione, Sez. 6-1, n. 22292/2020, Terrusi, Rv. 659147-01, conformandosi alle indicazioni offerte da Sez. 2, n. 879/2012, Giusti, Rv. 622760-01, ha ribadito che nel giudizio di opposizione alla liquidazione del compenso degli ausiliari del giudice, l’ordinanza emessa dal giudice monocratico anziché dal presidente del tribunale non è affetta da nullità, non essendo configurabili all’interno dello stesso ufficio questioni di competenza tra il suo presidente ed i giudici che sono in servizio, ma solo di distribuzione degli affari in base alle tabelle di organizzazione.

Per quanto riguarda, invece, l’impugnazione di tale provvedimento, significative indicazioni sistematiche si traggono da Sez. 6-2, n. 5990/2020, Criscuolo, Rv. 657576-01, la quale ha precisato che l’ordinanza del tribunale che abbia deciso sull’opposizione avverso il decreto di liquidazione dei compensi spettanti al c.t.u., incide con carattere di definitività su diritti soggettivi; non essendo altrimenti impugnabile anche in virtù del disposto di cui all’art. 14, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, essa è soggetta a ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., il cui termine breve di proposizione decorre, a norma dell’art. 739 c.p.c., dalla notificazione dell’ordinanza; in assenza di tale notificazione deve reputarsi applicabile il termine lungo d’impugnazione di cui all’art. 327 c.p.c.

Sulla stessa linea, Sez. 6-2, n. 4735/2020, Criscuolo, Rv. 657263-01, ha affermato che il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza che abbia deciso sull’opposizione ex art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002, può essere proposto entro il termine lungo ex art. 327 c.p.c., non trovando applicazione la previsione, relativa al procedimento sommario di cognizione, secondo la quale l’appello avverso l’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c. deve essere proposto nel termine di trenta giorni dalla sua comunicazione, ma la disciplina del ricorso straordinario ex art. 111 Cost., venendo in rilievo un provvedimento non altrimenti impugnabile che incide con carattere di definitività su diritti soggettivi.

Ancora, in merito alla legittimazione all’opposizione alla liquidazione del compenso in favore del consulente tecnico del P.M. nel corso delle indagini preliminari, Sez. 6-2, n. 5996/2020, Fortunato, Rv. 657273-01, ha precisato che l’ordinanza che definisce detto giudizio è ricorribile per cassazione da parte della Procura della Repubblica; essendo quest’ultima, infatti, litisconsorte necessario nel giudizio di opposizione, è anche legittimata ad impugnare la relativa decisione, a prescindere dal fatto che intervenga spontaneamente in quel giudizio o sia chiamata in causa per integrazione del contraddittorio.

In argomento, va pure segnalata Sez. 6-2, n. 18239/2020, Abete, Rv. 659218-01, la quale, in linea di continuità con Sez. 2, n. 10328/2009, D’Ascola, Rv. 608196-01, ha precisato che avverso il provvedimento di liquidazione del compenso in favore del curatore dell’eredità giacente - il quale, ex art. 3, lett. n), del d.P.R. n. 115 del 2002, è un “ausiliario del magistrato” - emesso in data successiva all’entrata in vigore del citato decreto, non è ammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., difettando il requisito della definitività del provvedimento, che può essere impugnato, con l’opposizione prevista dall’art. 170 del suddetto d.P.R., dinanzi al presidente dell’ufficio giudiziario competente.

3. Litispendenza e continenza.

In materia di litispendenza, tra le pronunce più significative dell’annualità in rassegna meritano di essere segnalate Sez. U, n. 12865/2020, Perrino, Rv. 658084-02 e Sez. U, n. 28675/2020, De Stefano, Rv. 659871-01 sulla litispendenza internazionale.

La prima delle richiamate decisioni ha chiarito che, in presenza di una clausola di proroga della giurisdizione, nel caso in cui siano promosse più cause in rapporto di litispendenza davanti a giudici di Stati diversi, e dovendosi applicare l’art. 27 della Convenzione di Lugano, firmata il 30 ottobre 2007 (approvata anche dalla Comunità europea con decisione del Consiglio 2009/430/CE del 27 novembre 2008), è il giudice preventivamente adito a dover verificare l’esistenza della clausola e, con essa, l’effettiva pattuizione di una competenza giurisdizionale esclusiva, mentre l’altro giudice, nell’attesa di tale statuizione, deve sospendere d’ufficio il proprio procedimento, non potendo adottare alcuna statuizione sulla competenza giurisdizionale, sicché, ove sia successivamente adito il giudice italiano, nel processo pendente davanti a quest’ultimo non è consentita neppure la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione.

La seconda ha, invece, affermato che in sede di regolamento di giurisdizione, è inammissibile ogni questione in materia di litispendenza internazionale, anche alla stregua del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, non configurandosi una questione di giurisdizione neppure in caso di mancato o negato riconoscimento di detta litispendenza, né potendo convertirsi il regolamento di giurisdizione in quello di competenza cd. improprio, che non è mai consentito contro i provvedimenti che non abbiano disposto la sospensione del processo.

Utili indicazioni ricostruttive sono state, inoltre, offerte da Sez. 6-3, n. 10936/2020, Scrima, Rv. 658218-02, secondo la quale, quando sia proposta una domanda, sia pure in via riconvenzionale, è irrilevante che in essa sia eventualmente postulato un accertamento “incidenter tantum”, poiché i fatti costitutivi della stessa necessariamente individuano una domanda da decidere con efficacia di giudicato, senza che, in riferimento alla posizione dell’attore, sia richiamabile l’art. 34 c.p.c., in forza del quale è solo il convenuto che può prospettare la necessità dell’accertamento incidentale di un rapporto, al fine di fargli assumere rilievo sulla decisione della domanda principale. Ne discende che, ove una domanda sia stata già avanzata in separato giudizio, la sua riproposizione in via riconvenzionale nel giudizio promosso da altri dà luogo, nonostante la eventuale precisazione della sua natura incidentale, a litispendenza, con conseguente operare del principio di prevenzione a favore della prima.

Merita, inoltre, di essere menzionata Sez. 5, n. 24226/2020, Fraulini, Rv. 659487-01, la quale ha chiarito che nelle cause a litisconsorzio necessario, sussiste litispendenza, con conseguente eliminazione del giudizio successivamente proposto secondo il criterio della prevenzione, anche quando la prima domanda sia stata avanzata nei confronti di alcuni soltanto dei contraddittori necessari e quella successiva nei confronti di altri o di tutti, attesa la finalità, perseguita con la modifica dell’art. 39, comma 1, c.p.c., intervenuta con l’art. 45, comma 3, legge n. 69 del 2009, di evitare l’inutile duplicità di giudizi e il rischio che un medesimo rapporto sia regolato da statuti confliggenti. In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che i giudici di merito avessero correttamente dichiarato la litispendenza nell’ambito del giudizio proposto dai soci di una s.a.s. avverso l’avviso di accertamento del maggior reddito, in quanto successivo a quello instaurato dalla società avverso il medesimo atto.

In ultimo, va dato conto di Sez. 5, n. 24288/2020, Condello, Rv. 659488-01, la quale, con riferimento al processo tributario, ha precisato la litispendenza si determina con la notifica del ricorso, ai sensi degli artt. 18 e 20 d.lgs. n. 546 del 1992, e non con la successiva costituzione in giudizio del ricorrente, ai sensi dell’art. 22 del medesimo d.lgs., costituendo questo un adempimento ulteriore che non incide sull’esistenza del processo, ma ne preclude la sola prosecuzione.

Tra le rare pronunce in materia di continenza registratesi nell’anno in esame, merita di essere segnalata Sez. 6-3, n. 10439/2020, D’Arrigo, Rv. 658030-02, la quale, dando seguito a Sez. 6-3, n. 5455/2014, Frasca, Rv. 630197-01 ed a Sez. 6-3, n. 26835/2017, Scrima, Rv. 647137-01, ha ribadito che l’art. 39, comma 2, c.p.c. non è applicabile in caso di pendenza di una causa in appello e di altra in primo grado e, quindi, in questa ipotesi, non può realizzarsi la rimessione della seconda controversia al giudice dell’impugnazione della decisione sulla prima, per il diverso grado in cui risultano trovarsi. L’esigenza di coordinamento sottesa alla disciplina della continenza deve, però, essere comunque assicurata mediante la sospensione, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., del processo che avrebbe dovuto subire l’attrazione all’altro, se avesse potuto operare detta disciplina, in attesa della definizione con sentenza passata in giudicato del giudizio che avrebbe esercitato tale attrazione.

In discontinuità con tale principio, Sez. 6-3, n. 18082/2020, Iannello, Rv. 658515- 01, ha, tuttavia, affermato che la sospensione prevista dall’art. 295 c.p.c. presuppone la pendenza davanti allo stesso o ad altro giudice di una controversia avente ad oggetto questioni pregiudiziali necessariamente diverse rispetto a quelle dibattute nel giudizio da sospendere, mentre, ove si verta in ipotesi di identità di questioni in discussione innanzi al giudice del processo del quale si chiede la sospensione ed in altra, diversa sede, detto giudice conserva il potere di pronunciare sul thema decidendum devoluto alla sua cognizione, potendo soltanto configurarsi gli estremi per far luogo o alla riunione dei procedimenti o ad una declaratoria di litispendenza o di continenza di cause. Nella specie, la Corte ha disposto la prosecuzione del giudizio erroneamente sospeso sul rilievo dell’identità della domanda avanzata in altro procedimento preventivamente instaurato e sospeso in attesa della definizione di questione pregiudiziale pendente in cassazione.

Di particolare interesse è, poi, la ricostruzione proposta da Sez. 1, n. 4343/2020, Campese, Rv. 657079-02, secondo la quale, ove la domanda di concordato preventivo ed il procedimento prefallimentare siano pendenti dinanzi ad uffici giudiziari diversi, ferma la regola della continenza ex art. 39, comma 2, c.p.c., è onere del debitore che conosce della pendenza dell’istruttoria prefallimentare, anteriormente introdotta, proporre la domanda di concordato preventivo dinanzi al tribunale investito dell’istanza di fallimento, anche quando lo ritenga incompetente, affinché i due procedimenti confluiscano dinanzi al medesimo tribunale, e senza che una siffatta condotta determini acquiescenza ad una eventuale violazione dell’art. 9 l. fall.

Merita, infine, di essere menzionata Sez. 6-3, n. 30744/2019, D’Arrigo, Rv. 656293-01, la quale, in tema di opposizioni concernenti la medesima procedura esecutiva ed introdotte davanti ad uffici giudiziari diversi, ha chiarito che, ove fra due cause sussista una relazione di continenza o di connessione per pregiudizialità e per il titolo, va disposta, essendosi in presenza di competenze inderogabili, la sospensione della lite pregiudicata in attesa della decisione di quella pregiudicante. Nella specie, la Corte ha precisato che il principio di cui in massima trova applicazione sia se nelle due controversie sono denunciati profili attinenti all’opposizione all’esecuzione sia se i giudizi sono proposti ex art. 617 c.p.c..

4. Le parti e i difensori.

Nell’annualità in rassegna tra le pronunce in materia di legittimazione processuale merita di essere posta in evidenza Sez. L, n. 1392/2020, Raimondi, Rv. 656536-01, la quale ha affermato che il ricorso per cassazione proposto dall’ex rappresentante di società estinta è inammissibile, perché per la sua proposizione occorre la procura speciale, sicché non può valere l’ultrattività di procure in precedenza rilasciate e nemmeno può esserne rilasciata una nuova, stante la necessità che il relativo conferimento provenga da un soggetto esistente e capace di stare in giudizio; ne consegue la condanna alle spese in proprio del detto rappresentante, in quanto, salvo che particolari condizioni o circostanze o elementi anche indiziari non lo richiedano, non corrisponde ad uno specifico dovere professionale dell’avvocato, che si limita ad autenticarne la sottoscrizione, verificare costantemente la persistenza della qualità di legale rappresentante della persona fisica che gli conferisce il mandato, che ha invece l’onere di conoscere la cessata persistenza dei propri poteri e di renderne preventivamente ed adeguatamente edotto il suo difensore.

Ancora, in tema di rappresentanza processuale della persona giuridica Sez. 5, ord. n. 6799/2020, Putaturo Donati Viscido di Nocera, Rv. 657399-01, ha precisato che, quando la fonte del potere rappresentativo dell’ente derivi da un atto soggetto a pubblicità legale, spetta alla controparte, qualora contesti che colui che ha sottoscritto la procura possa agire in giudizio in rappresentanza della società, provare l’irregolarità dell’atto di conferimento. Nel caso in cui, invece, la firma di chi ha conferito la procura sia illeggibile e non sia stato indicato il suo nominativo nel mandato o nell’intestazione dell’atto, il giudice deve invitare la parte alla regolarizzazione, e, solo in caso di inottemperanza, può emettere una pronuncia in rito di inammissibilità del ricorso, stante l’applicabilità dell’art. 182 c.p.c. al processo tributario, prevista dal d.lgs. n. 156/2015 che ha modificato l’art. 12 del d.lgs. n. 546 del 1992.

Devono, poi, essere segnalate Sez. 6-3, n. 8987/2020, Rossetti, Rv. 657935-01 e Sez. 3, n. 11091/2020, Sestini, Rv. 658138-01 sul tema dell’onere della prova del potere rappresentativo.

La prima ha chiarito che la procura alle liti rilasciata da persona chiaramente identificabile, che abbia dichiarato la propria qualità di legale rappresentante dell’ente costituito in giudizio, è valida, incombendo su chi nega tale qualità l’onere di fornire la prova contraria.

La seconda ha precisato che in tema di rappresentanza processuale della persona giuridica, ove il potere rappresentativo non derivi da un atto soggetto a pubblicità legale e la controparte lo contesti, la parte rappresentata è tenuta a dimostrare, tramite pertinente produzione documentale anche ex art. 372 c.p.c., la spettanza di tale potere.

Sviluppando considerazioni presenti in Sez. L, n. 2332/2016, Manna A., Rv. 656726-01, Sez. L, n. 5681/2020, Piccone, Rv. 657514-01, ha ribadito che la contemplatio domini non richiede l’uso di formule sacramentali, né per l’attività negoziale sostanziale né per quella processuale, cosicché la spendita del nome del rappresentato, contenuta nell’atto iniziale della lite, non deve essere necessariamente ripetuta in ogni successivo atto del processo. In applicazione di tale principio, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione di merito, che aveva ritenuto che la mancata notificazione del ricorso in appello alla società di cartolarizzazione dei crediti dell’INPS non contrastasse con la previsione del litisconsorzio necessario di cui all’art. 13, comma 8, della l. n. 448 del 1998, essendosi costituito l’INPS, in primo grado, anche quale mandatario della suddetta società.

Sempre in tema di legittimazione processuale, Sez. 3, n. 2460/2020, Iannello, Rv. 656726-01, con riferimento alla rappresentanza dei figli minori da parte dei genitori, ha chiarito che, nel caso in cui il genitore agisca in giudizio in rappresentanza del figlio minore in difetto di autorizzazione ex art. 320 c.c., l’eccezione di carenza di legittimazione processuale sollevata dalla controparte è infondata se l’autorizzazione viene prodotta, sia pure successivamente alla scadenza dei termini ex art. 183, comma 6, c.p.c., ovvero se il figlio, diventato maggiorenne, si costituisce nel giudizio (nella specie, di appello), così ratificando l’attività processuale del rappresentante legale, operando in entrambe le ipotesi la sanatoria retroattiva del vizio di rappresentanza ai sensi dell’art. 182 c.p.c.

Un’altra interessante applicazione dei principi in materia di legitimatio ad processum ha riguardato la legittimazione sostitutiva dell’esecutore testamentario. In proposito, Sez. 2, n. 5520/2020, Bellini, Rv. 657119-01, ha chiarito che l’esecutore testamentario, mentre è titolare “iure proprio” delle azioni, relative all’esercizio del suo ufficio, che trovano il loro fondamento e il loro presupposto sostanziale nel suo incarico di custode e di detentore dei beni ereditari ovvero nella gestione, con o senza amministrazione, della massa ereditaria, è soltanto legittimato processuale, a norma dell’art. 704 c.c., per quanto riguarda le azioni relative all’eredità e, cioè, a diritti ed obblighi che egli non acquista o assume per sé, in quanto ricadenti direttamente nel patrimonio ereditario, pur agendo in nome proprio. In tale ultima ipotesi, in cui non è investito della legale rappresentanza degli eredi del de cuius, ma agisce in nome proprio, l’esecutore testamentario assume la figura di sostituto processuale, in quanto resiste a tutela di un diritto di cui sono titolari gli eredi, ma la sua chiamata in giudizio è necessaria ad integrare il contraddittorio.

In ultimo, validi spunti ricostruttivi si rinvengono in Sez. 2, n. 12640/2020, Besso Marcheis, Rv. 658275-01, la quale, dando seguito a Sez. 2, n. 14455/2003, Settimj, Rv. 567205-01, ha ribadito che nelle società di capitali il potere di rappresentanza spetta agli amministratori i quali possono conferirlo, in base allo statuto o alle determinazioni dell’organo deliberativo, anche a soggetti che siano preposti a un settore con poteri di rappresentanza sostanziale o inseriti con carattere sistematico nella gestione sociale o in un suo ramo.

Per quanto concerne i temi del difensore e della rappresentanza tecnica, le numerose pronunce emesse nel 2020 hanno riguardato principalmente i profili dei requisiti di validità della procura alle liti, della procura conferita all’estero e del potere di attestazione del difensore.

Tra le decisioni che si sono espresse sui requisiti di forma-contenuto della procura merita, innanzitutto, di essere menzionata Sez. 6-3, n. 1143/2020, Porreca, Rv. 656717-01, la quale, dando seguito a Sez. 1, Di Marzio P., 22772/2018, Rv. 650921-01 ha ribadito che nel caso in cui tra due o più parti sussista un conflitto di interessi, è inammissibile la costituzione in giudizio a mezzo dello stesso procuratore e la violazione di tale limite, investendo i valori costituzionali del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, è rilevabile d’ufficio. Nella specie, la Corte in relazione ad un’opposizione a precetto, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto da un avvocato, in proprio, e da un suo cliente, assistito dall’avvocato medesimo, ravvisando conflitto di interessi nel fatto che oggetto della controversia fosse un pagamento asseritamente eseguito in favore del cliente su un conto riferibile al suo difensore.

In argomento, va citata anche Sez. 6-3, n. 20991/2020, Graziosi, Rv. 659151-01, secondo la quale in tema di giudizio di cassazione, ove più parti abbiano conferito mandato a distinti difensori per la proposizione congiunta di un unico ricorso, l’atto introduttivo deve essere valutato unitariamente nel suo contenuto al fine di verificare la sussistenza di un conflitto di interessi, dovendosi tenere conto non solo della posizione processuale attuale delle parti, ma anche di quella da loro rivestita nei gradi precedenti. In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto sussistente il conflitto di interessi in un caso nel quale avevano presentato ricorso per cassazione congiunto il conducente di un veicolo condannato in appello al risarcimento dei danni in favore del terzo trasportato e quest’ultimo, rilevando che la proposizione congiunta del detto ricorso impediva di accertare se l’impugnazione fosse avvenuta in base ad un interesse proprio di ciascuna parte o ad un interesse comune ad entrambe.

La Suprema Corte è tornata ad esprimersi anche sulla procura speciale conferita su foglio separato, ribadendo, in linea con Sez. L, n. 28146/2018, Amendola, Rv. 651515-01, che il ricorso per cassazione è inammissibile laddove il foglio sia privo di data successiva al deposito della sentenza d’appello e senza alcun riferimento al ricorso introduttivo, alla sentenza impugnata o al giudizio di cassazione, ossia al consapevole conferimento, da parte del cliente, dell’incarico al difensore per la proposizione del giudizio di legittimità, così risultando incompatibile con il carattere di specialità di questo giudizio (Sez. 1, n. 4069/2020, Dell’Orfano, Rv. 657063-01).

In argomento, Sez. 6-2, n. 6122/2020, Cosentino, Rv. 657276-01, ha precisato che secondo il principio di conservazione degli atti, quando la procura al difensore è apposta sul retro della prima pagina del ricorso, seguita dalle pagine successive, il requisito della specialità resta assorbito dal contesto documentale unitario, derivando direttamente dalla relazione fisica tra la delega e il ricorso.

Ancora, Sez. 6-3, n. 13263/2020, Rossetti, Rv. 658373-01, ha chiarito che, in materia di processo civile, è inammissibile, per difetto della prescritta procura speciale, il ricorso per cassazione proposto sulla base della procura rilasciata dal ricorrente al proprio difensore nell’atto d’appello, essendo quest’ultima inidonea allo scopo perché conferita con atto separato in data anteriore alla sentenza da impugnare in sede di legittimità e, pertanto, in contrasto con l’obbligo di rilasciare la procura successivamente alla pubblicazione del provvedimento impugnato e con specifico riferimento al giudizio di legittimità.

Per Sez. 6-3, n. 17901/2020, Valle, Rv. 658572-01, la procura per il ricorso per cassazione ha carattere speciale ed è valida solo se rilasciata in data successiva alla sentenza impugnata, attesa l’esigenza di assicurare, in modo giuridicamente certo, la riferibilità dell’attività svolta dal difensore al titolare della posizione sostanziale controversa. Ne consegue che il ricorso è inammissibile qualora la procura sia conferita a margine dell’atto introduttivo di primo grado, ancorché per tutti i gradi di giudizio.

Per quel che riguarda l’elezione di domicilio, Sez. 5, n. 13067/2020, Di Marzio P., Rv. 658105-01, ha affermato che, in tema di ricorso per cassazione, la notifica effettuata al difensore in grado d’appello presso cui il contribuente abbia eletto domicilio è valida anche quando questi sia privo di abilitazione al patrocinio innanzi le magistrature superiori; detta abilitazione è viceversa essenziale quando la parte soccombente intenda impugnare la pronuncia sfavorevole in cassazione, in quanto funzionale ad investire il difensore designato del potere di proporre tale gravame.

Le decisioni riguardanti gli effetti della rinuncia e della revoca della procura hanno palesato una tendenza a confermare principi ormai acquisiti.

Nel riaffermare il consolidato principio per il quale il difensore revocato continua, ai sensi dell’art. 85 c.p.c., a svolgere il suo mandato finché non intervenga la sostituzione con un nuovo difensore, la Corte ha stabilito che è irrilevante la ridotta o compromessa capacità di intendere e di volere del mandante intervenuta “medio tempore”, così confermando la sentenza di merito che aveva rigettato l’istanza di rimessione in termini per il deposito memorie ex art. 183 c.p.c., proposta dal nuovo difensore della parte sottoposta ad amministrazione di sostegno, che aveva dedotto di essersi trovata, dopo la revoca del precedente difensore e prima della nomina del nuovo, in uno stato di incapacità (Sez. 6-1, n. 12249/2020, Di Marzio M., Rv. 658059-01).

Utili indicazioni ricostruttive si rinvengono anche in Sez. 3, n. 7751/2020, Olivieri, Rv. 657500-01, secondo la quale nel giudizio di cassazione la revoca della procura ad litem, quale espressione dell’autonomia negoziale della parte, attuata mediante l’esercizio del diritto potestativo di recesso dal rapporto professionale con il difensore, non integra una causa interruttiva del processo, che prosegue senza la necessità di alcun particolare adempimento, mentre, in caso di morte dell’unico difensore dopo il deposito del ricorso e prima dell’udienza di discussione, sebbene non operi l’interruzione del processo, tuttavia, trattandosi di evento sottratto alla disponibilità della parte, la Corte ha il potere di differire l’udienza, disponendo la comunicazione del provvedimento alla parte personalmente, per consentire la nomina di un nuovo difensore, salvo il caso in cui la stessa parte risulti essere stata già informata del detto evento e, nonostante il congruo tempo a sua disposizione, non abbia provveduto ad effettuare tale nomina.

In materia di procura conferita all’estero, validi spunti ricostruttivi offre Sez. U, n. 1605/2020, Oricchio, Rv. 656794-02, secondo la quale, in caso di mandante residente all’estero, l’onere di fornire la prova contraria necessaria a superare la presunzione dell’avvenuto rilascio in Italia della procura ad litem apposta su atto giudiziario senza indicazione del luogo di sottoscrizione ed autenticata da legale italiano, grava sulla parte avversa a quella della cui sottoscrizione si tratta, e non può ritenersi assolto nell’ipotesi in cui risulti agli atti il riferimento, attestato da idonea documentazione, ad un ingresso in Italia del mandante nello stesso periodo temporale di predisposizione dell’atto a cui la procura si riferisce.

È stato, inoltre, affermato che è valida la procura ad litem conferita con scrittura autenticata da notaio austriaco ancorché non munita dell’apostille prevista dalla Convenzione sull’abolizione della legalizzazione degli atti pubblici stranieri (adottata all’Aja il 5 ottobre 1961 e ratificata dall’Italia con l. n. 1253 del 1966), atteso che, nei rapporti tra Italia ed Austria, trova applicazione l’art. 14 della Convenzione aggiuntiva alla Convenzione dell’Aja sulla procedura civile dell’1° marzo 1954 (firmata a Vienna il 30 giugno del 1975 e ratificata dall’Italia con l. n. 342 del 1977), il quale esclude la necessità dell’apostille, disponendo che gli atti pubblici formati in uno dei due Stati da un tribunale, un’autorità amministrativa o un notaio e provvisti del sigillo d’ufficio, e quelli privati la cui autenticità sia attestata da un tribunale, un’autorità amministrativa o un notaio hanno il medesimo valore, quanto alla loro autenticità, di quelli formati o redatti nell’altro Stato, senza che risulti necessaria alcuna legalizzazione o formalità analoga (Sez. U, n. 1717/2020, Mercolino, Rv. 656766-02).

Ancora, Sez. U, n. 5592/2020, Cirillo F.M., Rv. 657197-01, ha precisato che la procura speciale alle liti rilasciata all’estero, è nulla, ai sensi dell’art. 12 della l. n. 218 del 1995, ove non sia allegata la traduzione dell’attività certificativa svolta dal notaio, e cioè l’attestazione che la firma sia stata apposta in sua presenza da persona di cui egli abbia accertato l’identità; siffatta nullità può essere sanata con la rinnovazione della procura, ai sensi dell’art. 182 c.p.c., nel termine perentorio all’uopo concesso dal giudice.

Importanti precisazioni sono state offerte, nell’annualità in esame, in merito alla potestà asseverativa del difensore.

In proposito, merita, innanzitutto, di essere segnalata Sez. 1, n. 1043/2020, Ferro, Rv. 656872-01, la quale ha messo in luce che in materia di protezione internazionale, la data del conferimento della procura alle liti per proporre il ricorso per cassazione, al fine di assolvere al requisito della posteriorità alla comunicazione del decreto impugnato ai sensi dell’art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, deve essere certificata dal difensore, titolare di una speciale potestà asseverativa conferita ex lege; ne consegue che è inammissibile il ricorso nel quale la procura (nella specie, apposta a margine dell’atto) non indichi la data in cui essa è stata conferita, non assolvendo alla funzione certificatoria la sola autentica della firma, né il citato requisito potendo discendere dalla mera inerenza all’atto steso a fianco o dalla sequenza notificatoria.

Sulla stessa linea Sez. 1, n. 25304/2020, Nazzicone, Rv. 659574-01, ha ribadito che, sempre in materia di protezione internazionale, per proporre ricorso in Cassazione il difensore deve certificare la data di rilascio della procura alle liti, al fine di garantire la posteriorità di essa rispetto alla data di comunicazione del provvedimento impugnato, sicché è nulla la procura che non indichi la data in cui essa è stata conferita e tanto determina l’inammissibilità del ricorso e il raddoppio del contributo di cui all’art. 13 del d.P.R, n. 115 del 2002, a carico del difensore come se avesse agito egli stesso.

In merito al potere di asseverazione spettante al difensore, la Corte ha anche chiarito che l’attestazione di conformità all’originale della procura alle liti può essere prodotta contestualmente all’iscrizione a ruolo e al deposito del fascicolo telematico, trovando applicazione l’art. 125, comma 2, c.p.c. anche se la notifica dell’atto introduttivo è avvenuta a mezzo PEC (Sez. 3, n. 8815/2020, D’Arrigo, Rv. 657837-02)

Sez. 1, n. 6907/2020, Rossetti, Rv. 657478-01 ha, poi, precisato che nel caso in cui la sentenza impugnata sia stata redatta in formato digitale, l’attestazione di conformità della copia analogica predisposta ai fini del ricorso per cassazione può essere redatta, ai sensi dell’art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della legge n. 53 del 1994, dal difensore che ha assistito la parte nel precedente grado di giudizio, i cui poteri processuali e di rappresentanza permangono, anche nel caso in cui allo stesso fosse stata conferita una procura speciale per quel singolo grado, sino a quando il cliente non conferisca il mandato alle liti per il giudizio di legittimità ad un altro difensore. Nella specie, l’attestazione di conformità della sentenza impugnata con il ricorso dichiarato improcedibile era stata redatta dal difensore in grado di appello successivamente al conferimento della procura speciale per il ricorso per cassazione ad altro difensore.

5. Successione nel processo e successione nel diritto controverso.

Nella giurisprudenza dell’anno in rassegna il fenomeno successorio, nel suo duplice aspetto di successione a titolo universale e di successione a titolo particolare nel processo, è stato oggetto di significativi interventi.

Per quel che concerne la fattispecie di cui all’art. 111 c.p.c., le decisioni si sono soffermate prevalentemente sull’onere della prova della legittimazione del successore a titolo particolare nel diritto controverso.

In proposito, merita di essere menzionata Sez. 6-1, n. 24798/2020, Terrusi, Rv. 659464-01, che ha precisato che la parte che agisca affermandosi successore a titolo particolare del creditore originario, in virtù di un’operazione di cessione in blocco secondo la speciale disciplina di cui all’art. 58 del d.lgs. n. 385 del 1993, ha anche l’onere di dimostrare l’inclusione del credito medesimo in detta operazione, in tal modo fornendo la prova documentale della propria legittimazione sostanziale, salvo che il resistente non l’abbia esplicitamente o implicitamente riconosciuta.

Ad avviso di Sez. 2, n. 5529/2020, Varrone, Rv. 657122-01, nel caso di successione a titolo particolare nel diritto controverso, il processo, in virtù del principio stabilito dall’art. 111 c.p.c., continua tra le parti originarie, con la conseguenza che l’alienante mantiene la sua legittimazione attiva (ad causam), conservando tale posizione anche nel caso di intervento, ai sensi del medesimo articolo 111, comma 3, c.p.c., del successore a titolo particolare, il quale ha legittimazione distinta e non sostitutiva, ma autonoma. Ne discende che, ai fini della domanda di equa riparazione ai sensi della l. n. 89 del 2001, ciascuno di essi non potrà che riferire la pretesa indennitaria per violazione del termine ragionevole del processo alla diversa durata della rispettiva presenza nel giudizio presupposto.

Ancora, in argomento, Sez. 6-3, n. 8975/2020, Iannello, Rv. 657937-01, ha stabilito che il successore a titolo particolare nel diritto controverso è legittimato a impugnare la sentenza resa nei confronti del proprio dante causa allegando il titolo che gli consenta di sostituire quest’ultimo, essendo a tal fine sufficiente la specifica indicazione dell’atto nell’intestazione dell’impugnazione, qualora il titolo sia di natura pubblica e, quindi, di contenuto accertabile, e sia rimasto del tutto incontestato o non idoneamente contestato dalla controparte. In particolare, nel giudizio di cassazione, il fatto che il controricorrente non abbia sollevato alcuna eccezione in ordine alla legittimazione del ricorrente e si sia solo difeso nel merito dell’impugnazione vale come riconoscimento implicito della dedotta legittimazione attiva e ne preclude la rilevabilità con la successiva memoria ex art. 378 c.p.c. In applicazione di tali principi, la Corte di Cassazione ha ritenuto insussistente il dedotto difetto di legittimazione della cessionaria del credito a ricorrere per cassazione avverso la sentenza di appello resa nei confronti della sua dante causa; essa ha rilevato, da un lato, che la ricorrente aveva esplicitamente indicato, in apertura della parte espositiva del ricorso, gli estremi dell’atto di cessione, evidenziandone l’avvenuta pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, e, dall’altro, che la contestazione della controricorrente, oltre che generica, era, altresì, tardiva, in quanto proposta non nel controricorso, ma, per la prima volta, nella memoria ex art. 380-bis, comma 2, c.p.c.

Sempre in tema di ripartizione dell’onere della prova della legittimazione del successore a titolo particolare nel diritto controverso, Sez. 1, n. 9137/2020, Falabella, Rv. 657762-01, ha affermato che la società che intraprenda un giudizio d’appello avverso la sentenza di primo grado emessa nei confronti di un’altra società, della quale affermi di essere successore a titolo universale o particolare, è tenuta a dimostrare la propria legittimazione, sempre che uno degli appellati costituiti l’abbia contestata, giacché la non contestazione postula che la circostanza sia apprezzata come incontroversa anche nei riguardi degli altri appellati rimasti contumaci. Nella specie, la Corte ha cassato la pronuncia di inammissibilità dell’appello proposto da un istituto di credito, per difetto di legitimatio ad causam, ancorché le parti costituite in sede di gravame non avessero contestato l’intervenuta fusione per incorporazione che, secondo la prospettazione della banca, valeva a radicare la sua legittimazione.

Occorre, infine, dare conto di Sez. Sez. 2, n. 12663/2020, Grasso Giuseppe, Rv. 658281-01, che si è espressa sulle spese processuali gravanti sul successore a titolo particolare nel diritto controverso che risulti soccombente in grado di appello, escludendo che lo stesso possa essere condannato alla rifusione per le spese del giudizio di primo grado cui sia rimasto estraneo, e di Sez. L, n. 17486/2020, Cinque, Rv. 658798-01, la quale, con riferimento alla chiamata in causa del successore, ha chiarito che integra violazione dell’art. 111 c.p.c. la dichiarazione di inammissibilità della chiamata in causa del soggetto succeduto nel diritto controverso in pendenza del giudizio di primo grado, effettuata per la prima volta in grado di appello, potendo tale chiamata essere svolta in ogni fase o grado del processo.

Anche in materia di successione a titolo universale ex art. 110 c.p.c., la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sul tema del riparto dell’onere probatorio in ordine alla qualità di successore a titolo universale.

A tale riguardo, merita di essere segnalata Sez. 6-3, n. 12987/2020, Porreca, Rv. 658232-01, secondo la quale nell’ipotesi di interruzione del processo per morte di una delle parti in corso di giudizio i chiamati all’eredità, pur non assumendo, per il solo fatto di aver ricevuto e accettato la notifica come eredi, la suddetta qualità, hanno l’onere di contestare, costituendosi in giudizio, l’effettiva assunzione di tale condizione soggettiva, chiarendo la propria posizione, e il conseguente difetto di legittimazione, in quanto, dopo la morte della parte, la legittimazione passiva, che non si trasmette per mera delazione, deve essere individuata dall’istante allo stato degli atti, cioè nei confronti dei soggetti che oggettivamente presentino un valido titolo per succedere, qualora non sia conosciuta, o conoscibile con l’ordinaria diligenza, alcuna circostanza idonea a dimostrare la mancanza del titolo.

Meritano, inoltre, attenzione Sez. 5, n. 16362/2020, Putaturo Donati Viscido di Nocera, Rv. 658435-01 e Sez. 5, n. 22014/2020, Castorina, Rv. 659077-01.

Con la prima, è stato affermato che nel processo tributario, l’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, determina un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono - venendo altrimenti sacrificato ingiustamente il diritto dei creditori sociali - ma si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti pendente societate; ne discende che i soci peculiari successori della società subentrano ex art. 110 c.p.c. nella legittimazione processuale facente capo all’ente, in situazione di litisconsorzio necessario per ragioni processuali, ovvero a prescindere dalla scindibilità o meno del rapporto sostanziale, dovendo invece escludersi la legittimazione ad causam del liquidatore della società estinta (nella specie destinatario di cartella di pagamento quale coobbligato ai sensi dell’art. 2495, comma 2, previgente art. 2456, comma 2, c.c.) il quale può essere destinatario di un’autonoma azione risarcitoria ma non della pretesa attinente al debito sociale.

Con la seconda delle decisioni richiamate, è stato chiarito che nel processo tributario, la cancellazione della società dal registro delle imprese e la sua conseguente estinzione priva la società stessa della capacità di stare in giudizio e comporta la conseguente legittimazione dei soci, quali successori della stessa; legittimazione che ha ambito più esteso di quello afferente alla loro responsabilità, disciplinato dall’art. dell’art. 2495, comma 2, cod. civ., di talché affermare la legittimazione di questi ultimi ad essere convenuti in quanto successori della società estinta non equivale anche a riconoscerne la responsabilità in relazione alle obbligazioni sociali.

In ultimo, Sez. 3, n. 25869/2020, Iannello, Rv. 659853-01, ha precisato che, qualora l’estinzione della società a seguito di cancellazione dal registro delle imprese intervenga in pendenza di un giudizio che la veda parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 e ss. c.p.c., con eventuale prosecuzione o riassunzione ad opera o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 c.p.c.; ove l’evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, purché dei presupposti della legitimatio ad causam sia da costoro fornita la prova. Nella specie, in applicazione di tale principio la corte ha confermato la sentenza d’appello, che aveva dichiarato l’inammissibilità dell’appello proposto da un socio, che si era limitato a definirsi accomandatario, senza in alcun modo fare cenno d’essere succeduto alla società estinta.

In coerenza con un approccio interpretativo ormai consolidato, Sez. 6-3, n. 8973/2020, Iannello, Rv. 657936-01, ha ribadito il principio, risalente a Sez. U, n. 9692/2013, Segreto, Rv. 625791-01, secondo il quale, in tema di giudizio di cassazione, poiché l’applicazione della disciplina di cui all’art. 110 c.p.c. non è espressamente esclusa per il processo di legittimità, né appare incompatibile con le forme proprie dello stesso, il soggetto che ivi intenda proseguire il procedimento, quale successore a titolo universale di una delle parti già costituite, deve allegare e documentare, tramite le produzioni consentite dall’art. 372 c.p.c., tale sua qualità, attraverso un atto che, assumendo la natura sostanziale di un intervento, sia partecipato alla controparte - per assicurarle il contraddittorio sulla sopravvenuta innovazione soggettiva consistente nella sostituzione della legittimazione della parte originaria - mediante notificazione, non essendone, invece, sufficiente il semplice deposito nella cancelleria della Corte, come per le memorie ex artt. 378 e 380-bis c.p.c., poiché l’attività illustrativa che si compie con queste ultime è priva di carattere innovativo.

6. L’interesse ad agire.

Le pronunce che nell’annualità in esame hanno esaminato questioni inerenti all’interesse ad agire mostrano un’univoca tendenza a valorizzare, in ossequio al principio di economia processuale, l’effettivo bisogno di protezione di un interesse sostanziale e, quindi, la concreta utilità della pronuncia giurisdizionale, quale condizione indefettibile della tutela giurisdizionale.

In questa prospettiva, varie decisioni sono tornate a soffermarsi sulle implicazioni applicative dei requisiti della concretezza e dell’attualità che devono necessariamente caratterizzare tale condizione dell’azione, sul condiviso presupposto che l’interesse ad agire può ritenersi sussistente quando la parte, attraverso l’azione giurisdizionale, possa conseguire un risultato giuridicamente rilevante e non altrimenti ottenibile se non mediante il processo (Sez. L, n. 18819/2018, Amendola F., Rv. 649879-01), così che la concretezza dell’interesse ad agire è misurata dall’idoneità del provvedimento richiesto a soddisfare l’interesse sostanziale protetto.

Non può, pertanto, darsi ingresso alla tutela giurisdizionale quando dall’accoglimento della domanda non possa conseguire alcuna utilità per la parte.

In coerenza con tale approccio, Sez. 6-L, n. 2587/2020, Doronzo, Rv. 656753-01, con specifico riferimento al procedimento per accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c., ha affermato che l’ammissibilità di tale rimedio presuppone, come proiezione dell’interesse ad agire ai sensi dell’art. 100 c.p.c., che l’accertamento medico-legale, richiesto in vista di una prestazione previdenziale o assistenziale, risponda ad una concreta utilità per il ricorrente - la quale potrebbe difettare ove siano manifestamente carenti, con valutazione prima facie, altri presupposti della predetta prestazione -, al fine di evitare il rischio della proliferazione smodata del contenzioso sull’accertamento del requisito sanitario.

Sulla medesima linea, Sez. 2, n. 2670/2020, Abete, Rv. 657090-02, ha precisato che, con riferimento alla domanda (o all’eventuale eccezione) di nullità di un contratto, mentre per le parti contraenti l’interesse ad agire è in re ipsa, in dipendenza dell’attitudine del contratto di cui si invoca la nullità ad incidere nella loro sfera giuridica, il terzo deve dimostrare la sussistenza di un proprio concreto interesse alla declaratoria di nullità.

Sez. 3, n. 8530/2020, De Stefano, Rv. 657812-01, sviluppando considerazioni presenti nell’elaborazione della giurisprudenza sull’abusivo frazionamento del credito (Sez. U, n. 4090/2017, Di Iasi, Rv. 643111-01; Sez. 3, n. 17019/2018, Saija, Rv. 649441-02), ha affermato che il danneggiato, che non dimostri di avervi un interesse oggettivamente valutabile, non può, in presenza di un unitario fatto illecito lesivo di cose e persone, frazionare la tutela giudiziaria, agendo separatamente per il risarcimento dei danni patrimoniali e di quelli non patrimoniali, poiché tale condotta aggrava la posizione del danneggiante-debitore e causa ingiustificato aggravio del sistema giudiziario. In particolare, non integrano un interesse oggettivamente valutabile ed idoneo a consentire detto frazionamento, di per sé sole considerate, né la prospettata maggiore speditezza del procedimento dinanzi ad uno anziché ad altro dei giudici aditi, in ragione della competenza per valore sulle domande risultanti dal frazionamento, né la semplice ricorrenza di presupposti processuali più gravosi per l’azione relativa ad una delle componenti del danno, soprattutto in caso di intervalli temporali modesti.

La concreta declinazione dei richiamati principi sull’interesse alla tutela giurisdizionale ha dato luogo, anche nell’annualità in rassegna, ad un’ampia casistica.

In materia previdenziale merita di essere segnalata Sez. L, n. 6753/2020, Ghinoy, Rv. 657430-01, secondo la quale la notifica della cartella esattoriale per contributi previdenziali determina la sopravvenuta carenza di interesse ad agire nel giudizio di impugnazione dell’accertamento ispettivo che sia stato promosso dopo l’iscrizione a ruolo, perché l’art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999 prevede uno specifico mezzo dell’impugnazione a ruolo, da azionarsi entro il termine di quaranta giorni dalla notifica della cartella di pagamento, con il quale vengono devolute in giudizio tutte le questioni aventi ad oggetto la fondatezza della pretesa, sia quelle relative alla regolarità del titolo che quelle attinenti al merito, sicché nessun risultato utile il ricorrente potrebbe più conseguire in virtù dell’autonoma azione di accertamento negativo proposta in relazione all’accertamento ispettivo.

In materia condominiale, interessanti spunti si traggono da Sez. 6-2, n. 15434/2020, Dongiacomo, Rv. 658730-01, secondo la quale in tema di annullamento delle deliberazioni delle assemblee condominiali, posta la sussistenza dell’interesse ad agire anche quando la relativa azione sia volta esclusivamente alla loro rimozione, ove il vizio abbia carattere meramente formale e la delibera impugnata non abbia ex se alcuna incidenza diretta sul patrimonio dell’attore, la domanda giudiziale appartiene alla competenza residuale del tribunale, non avendo ad oggetto la lesione di un interesse suscettibile di essere quantificato in una somma di denaro per il danno ingiustamente subito ovvero per la maggior spesa indebitamente imposta; e da Sez. 2, n. 17294/2020, Casadonte, Rv. 658893-01, la quale ha precisato che in tema di azione di annullamento delle deliberazioni delle assemblee condominiali, la legittimazione ad agire attribuita dall’art. 1137 c.c. ai condomini assenti e dissenzienti non è subordinata alla deduzione ed alla prova di uno specifico interesse diverso da quello alla rimozione dell’atto impugnato, essendo l’interesse ad agire, richiesto dall’art. 100 c.p.c. quale condizione dell’azione di annullamento anzidetta, costituito proprio dall’accertamento dei vizi formali di cui sono affette le deliberazioni.

In materia successoria, Sez. 6-2, n. 25077/2020, Tedesco, Rv. 659908-01, ha stabilito che l’interesse del successibile ex lege ad impugnare il testamento olografo può essere disconosciuto, qualora costui non dia prova dell’inesistenza in vita di altri eredi legittimi di grado poziore in termini di evidente probabilità, ancorché non di oggettiva certezza.

È stato, infine, ribadito il principio secondo il quale l’interesse ad agire deve sussistere al momento della decisione e, sulla scorta di tale assunto, è stato affermato che l’opposizione al decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione teso all’accertamento dell’esistenza del diritto di credito azionato dal creditore con il ricorso - sicché la sentenza che decide il giudizio deve accogliere la domanda del creditore istante, rigettando conseguentemente l’opposizione, quante volte abbia a riscontrare che i fatti costitutivi del diritto fatto valere in sede monitoria, pur se non sussistenti al momento della proposizione del ricorso o della emissione del decreto, sussistono tuttavia in quello successivo della decisione. Ne consegue ulteriormente che l’opponente è privo di interesse a dolersi del fatto che la sentenza impugnata, nel rigettare l’opposizione, non abbia tenuto conto che difettava una delle condizioni originarie di ammissibilità del decreto ingiuntivo, quando tale condizione, in realtà, sia maturata immediatamente dopo e comunque prima della definizione del giudizio di opposizione (Sez. 1, n. 15224/2020, Scalia, Rv. 658261-01).

7. La legittimazione ad agire.

Anche nell’anno in rassegna si registrano diverse pronunce nelle quali la Corte di Cassazione ha fatto applicazione dei principi elaborati in materia di legittimazione ad agire e a contraddire, quale titolarità del potere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale così come prospettato dalla parte.

In materia di condominio, con specifico riferimento all’azione di annullamento delle deliberazioni delle assemblee condominiali, Sez. 2, n. 17294/2020, Casadonte, Rv. 658893-01, ha chiarito che la legittimazione ad agire attribuita dall’art. 1137 c.c. ai condomini assenti e dissenzienti non è subordinata alla deduzione ed alla prova di uno specifico interesse diverso da quello alla rimozione dell’atto impugnato, essendo l’interesse ad agire, richiesto dall’art. 100 c.p.c. quale condizione dell’azione di annullamento anzidetta, costituito proprio dall’accertamento dei vizi formali di cui sono affette le deliberazioni.

In argomento, con specifico riferimento alla legittimazione ad agire dell’amministratore, merita di essere menzionata anche Sez. 6-2, n. 18796/2020, Scarpa, Rv. 659217-01, la quale ha puntualizzato che la speciale normativa urbanistica dettata dall’art. 41-sexies della l. n. 1150 del 1942, introdotto dall’art. 18 della l. n. 765 del 1967, la quale si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, la destinazione obbligatoria di appositi spazi a parcheggi in misura proporzionale alla cubatura totale dell’edificio, determinando, mediante tale vincolo di carattere pubblicistico, un diritto reale d’uso sugli spazi predetti a favore di tutti i condomini dell’edificio, senza imporre all’originario costruttore alcun obbligo di cessione in proprietà degli spazi in questione; pertanto, ove manchi un’espressa riserva di proprietà o sia stato omesso qualsiasi riferimento, al riguardo, nei singoli atti di trasferimento delle unità immobiliari, le aree in questione, globalmente considerate, devono essere ritenute parti comuni dell’edificio condominiale, ai sensi dell’art. 1117 c.c., con conseguente legittimazione dell’amministratore di condominio ad esperire, riguardo ad esse, le azioni contro i singoli condomini o contro terzi dirette ad ottenere il ripristino dei luoghi e il risarcimento dei danni, giacché rientranti nel novero degli atti conservativi, al cui compimento l’amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1130, n. 4, c.c.

Ad avviso di Sez. 2, n. 21562/2020, Tedesco, Rv. 659320-01, l’amministratore di condominio, essendo tenuto a curare l’osservanza del regolamento di condominio ex art. 1130, comma 1, n. 1, c.c., è legittimato ad agire e a resistere in giudizio per ottenere che un condomino non adibisca la propria unità immobiliare ad attività vietata dal regolamento condominiale contrattuale (nella specie, attività alberghiera), senza la necessità di una specifica deliberazione assembleare assunta con la maggioranza prevista dall’art. 1136, comma 2, c.c., la quale è richiesta soltanto per le liti attive e passive esorbitanti dalle incombenze proprie dell’amministratore stesso.

In materia di società, Sez. 3, n. 3375/2020, Moscarini, Rv. 656896-01, ha chiarito che la cancellazione della società dal registro delle imprese per trasferimento della sede sociale all’estero non implica la cessazione della sua attività, sicché tale società, non venendo meno, non perde la sua legittimazione processuale ad agire o resistere in giudizio.

In argomento, merita di essere menzionata anche Sez. 1, n. 7397/2020, Terrusi, Rv. 657488-01, ad avviso della quale l’incorporazione delle società, ai sensi del d.lgs. n. 1 del 1999, recante il riordino degli enti di promozione dello sviluppo, anche se avvenuta prima dell’entrata in vigore d.lgs. n. 6 del 2003, non ne determina l’automatica estinzione, tenuto conto che l’art. 3 del d.lgs. n. 1 del 1999, nello stabilire la definitiva approvazione delle operazioni di riordino e di accorpamento entro il 30 giugno 2000, ha previsto che debba essere comunque assicurata anche nel periodo transitorio l’operatività, la continuità e la qualità degli interventi e delle attività coinvolte, sicché, ove sia incorporata la società mandataria di un’a.t.i., sussiste la legittimazione ad agire dell’incorporante per far valere il crediti dell’a.t.i. in applicazione dell’art. 1722, n. 4, c.c., nella parte in cui esclude l’estinzione del mandato quando l’esercizio dell’impresa è continuato.

In ultimo, va segnalata Sez. 3, n. 13862/2020, Positano, Rv. 658304-01, secondo la quale, qualora sia stata proposta un’azione revocatoria ordinaria per fare dichiarare inopponibile ad un singolo creditore un atto di disposizione patrimoniale compiuto dal debitore e, in pendenza del relativo giudizio, a seguito del sopravvenuto fallimento di questi, il curatore subentri nell’azione in forza della legittimazione accordatagli dall’art. 66 l. fall., accettando la causa nello stato in cui si trova, la legittimazione e l’interesse ad agire dell’attore originario vengono meno, con conseguente improcedibilità della domanda dallo stesso proposta, salva la dimostrazione dell’inerzia degli organi della procedura in relazione al diritto azionato.

8. I termini.

Dalle rare pronunce che nel 2020 hanno affrontato il tema della rimessione in termini risulta confermata la tendenza, ormai costante ed univoca nella giurisprudenza di legittimità, all’interpretazione restrittiva della nozione di causa non imputabile costituente il presupposto di operatività dell’istituto.

In coerenza con tale direttrice, Sez. 6-5, n. 4585/2020, Dell’Orfano, Rv. 657317-01, ha chiarito che l’istituto della rimessione in termini, previsto dall’art. 153, comma 2, c.p.c., trova applicazione, alla luce dei principi costituzionali di tutela delle garanzie difensive e del giusto processo, in caso di decadenza dai poteri processuali interni al giudizio o a situazioni esterne al suo svolgimento, quale la decadenza dal diritto di impugnazione, ma non anche in caso di decadenza conseguente ad errore di diritto. In applicazione di tale principio, la Corte di Cassazione ha escluso l’applicazione dell’istituto della rimessione in termini in un caso in cui la parte, essendo decaduta dall’impugnazione per l’avvenuto decorso del termine di cui all’art. 327 c.p.c., aveva dedotto la non tempestiva comunicazione della sentenza da parte della cancelleria, atteso che il predetto termine decorre dalla pubblicazione della sentenza e non dalla sua comunicazione.

La rimessione in termini, sia nella norma dettata dall’art. 184-bis c.p.c. che in quella di più ampia portata contenuta nell’art. 153, comma 2, c.p.c., presuppone che la parte incorsa nella decadenza per causa ad essa non imputabile si attivi con tempestività e, cioè, in un termine ragionevolmente contenuto e rispettoso del principio della durata ragionevole del processo. In applicazione di tale principio Sez. 3, n. 25289/2020, Guizzi, Rv. 659779-01, ha confermato la sentenza impugnata che aveva rimesso in termini l’appellante principale, la cui mancata tempestiva costituzione era dipesa dall’illegittimo rifiuto di iscrizione a ruolo opposto dalla cancelleria, anche in considerazione del fatto che la scadenza del termine di costituzione si era verificata durante le festività natalizie.

In argomento, merita di essere menzionata anche Sez. U, n. 27773/2020, Giusti, Rv. 659663-02, per la quale l’istituto della rimessione in termini, applicabile al termine perentorio per proporre ricorso per cassazione anche con riguardo a sentenze rese dal Consiglio nazionale forense in esito a un procedimento disciplinare, presuppone la sussistenza in concreto di una causa non imputabile, riferibile ad un evento che presenti il carattere dell’assolutezza, e non già un’impossibilità relativa, né tantomeno una mera difficoltà. In applicazione di tale principio, le Sezioni Unite non hanno ravvisato le condizioni per la rimessione in termini invocata dalla ricorrente, che, nell’impugnare tardivamente per cassazione la sentenza del CNF, aveva addotto la mancata comunicazione, ad opera del domiciliatario, dell’avvenuta notificazione del provvedimento, trattandosi di impedimento riconducibile esclusivamente alla patologia del rapporto intercorso con il professionista incaricato della domiciliazione.

9. Comunicazioni e notificazioni.

Nell’annualità in esame l’elaborazione giurisprudenziale in materia di notificazioni è stata ampia ed ha investito svariati profili dell’istituto.

Sez. 6-1, n. 2415/2020, Di Marzio M., Rv. 656714-01, ha chiarito che legittimato a richiedere la notificazione di un atto giudiziario, ai sensi dell’art. 137 c.p.c. e dell’art. 104, comma 2, del d.p.r. n. 1229 del 1959, non è soltanto la parte personalmente ed il suo difensore munito di procura, ma anche qualunque persona da loro incaricata pure verbalmente, purché non vi sia incertezza assoluta sull’stante e si possa individuare la parte a richiesta della quale la notifica è eseguita. Facendo applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto inesistente la notificazione di un reclamo, in quanto effettuata su istanza di persona diversa dalla parte e dal suo difensore.

In argomento, occorre menzionare anche Sez. 5, n. 19780/2020, Chiesi, Rv. 659041-01, la quale ha evidenziato che, in tema di notificazione, l’art. 137, comma 1, c.p.c. demanda l’attività di impulso del procedimento notificatorio - consistente essenzialmente nella consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario - alla parte personalmente o al suo procuratore, che la rappresenta in giudizio in ragione del suo ufficio di difensore, mentre non sono disciplinate le modalità di conferimento dell’incarico all’ufficiale giudiziario, che restano irrilevanti rispetto al destinatario, in quanto il presupposto del procedimento notificatorio si realizza con la consegna dell’atto e lo scopo della notificazione è raggiunto quando è certo il soggetto cui essa va riferita. Pertanto, ove nella relazione di notifica si faccia riferimento, quale persona che ha materialmente eseguito la consegna dell’atto da notificare, a soggetto diverso da quello legittimato, senza indicare la sua veste di incaricato di quest’ultimo, tale carenza non inficia di per sé la notifica, che può risultare inutilmente eseguita solo se alla stregua dell’atto notificato non sia possibile individuare il soggetto ad istanza della quale la notifica stessa deve ritenersi effettuata. In applicazione del principio, la Corte di Cassazione ha escluso l’irritualità della notifica effettuata dall’Avvocatura dello Stato mediante presentazione all’UNEP dell’atto, siccome univocamente riferibile, sotto il profilo soggettivo ed oggettivo-contenutistico, all’Agenzia delle entrate quale controparte del ricorrente nel giudizio di legittimità.

In materia di notificazione alla residenza, dimora o domicilio, Sez. 6-2, n. 7041/2020, Scarpa, Rv. 657284-01, ha chiarito che la notificazione all’imprenditore individuale va effettuata alla persona fisica dell’imprenditore stesso, con la conseguenza che devono trovare applicazione le regole sulla notifica alle persone fisiche e non il regime delineato dall’art. 145 c.p.c.

In argomento, va anche segnalata Sez. 6-3, n. 12985/2020, Porreca, Rv. 658231-01, secondo la quale per persona addetta alla ricezione atti deve intendersi anche il collega dell’avvocato destinatario, titolare dello studio professionale adiacente, essendo ragionevole assumere che, pur nella situazione di esistenza di due studi interni diversi dello stesso stabile, il collega dell’interno limitrofo possa essere officiato di ricevere atti se questo suo manifestarsi quale “addetto” è localizzato nel luogo in cui la notifica doveva farsi.

Ancora, ad avviso di Sez. 5, n. 11815/2020, Cavallari, Rv. 660075-01, la consegna dell’atto da notificare “a persona di famiglia”, secondo il disposto dell’art. 139 c.p.c., non postula necessariamente né il solo rapporto di parentela - cui è da ritenersi equiparato quello di affinità - né l’ulteriore requisito della convivenza del familiare con il destinatario dell’atto, non espressamente menzionato dalla norma, risultando sufficiente l’esistenza di un vincolo di parentela o di affinità che giustifichi la presunzione che la “persona di famiglia” consegnerà l’atto al destinatario stesso; resta, in ogni caso, a carico di colui che assume di non aver ricevuto l’atto l’onere di provare il carattere del tutto occasionale della presenza del consegnatario in casa propria, senza che a tal fine rilevino le sole certificazioni anagrafiche del familiare medesimo; l’operatività di tali principi è, però, subordinata all’accertamento che il luogo di ricezione della notificazione è quello di residenza o domicilio del destinatario, circostanza che, ove contestata dall’interessato, deve essere verificata dal giudice, tenendo conto delle prove agli atti.

Per quanto concerne la portata delle attestazioni dell’ufficiale giudiziario, utili indicazioni si traggono da Sez. 6-L, n. 14454/2020, Ponterio, Rv. 658521-01, la quale ha precisato che in tema di notificazione, nel caso in cui l’ufficiale giudiziario attesti di non avere rinvenuto il destinatario della notifica nel luogo indicato dalla parte richiedente, perché, secondo quanto appreso dal portiere, trasferitosi altrove, l’attestazione del mancato rinvenimento del destinatario ed il contenuto estrinseco della notizia appresa sono assistite da fede fino a querela di falso, attenendo a circostanze frutto della diretta attività e percezione del pubblico ufficiale.

La Corte di Cassazione è, inoltre, tornata sul tema del contenuto della relazione di notificazione prevista dall’art. 148 c.p.c., precisando che nella stessa l’ufficiale giudiziario deve indicare la persona alla quale ha consegnato copia dell’atto, identificandola con le sue generalità, nonché il rapporto della stessa con il destinatario della notificazione, con la conseguenza che, qualora, manchi l’indicazione delle generalità del consegnatario, la notifica è nulla ai sensi dell’art. 160 c. p. c. per incertezza assoluta su detta persona, a meno che la persona del consegnatario sia sicuramente identificabile attraverso la menzione del suo rapporto con il destinatario (Sez. 5, n. 6565/2020, Dell’Orfano, Rv. 657392-01).

Le pronunce in materia di notificazione a mezzo del servizio postale si sono soffermate sui requisiti per il perfezionamento e sulla portata delle attestazioni dell’agente postale.

A tale riguardo, Sez. 5, n. 17373/2020, Fichera, Rv. 658702-01, ha chiarito che la notificazione a mezzo posta non si esaurisce con la spedizione dell’atto, ma si perfeziona con la consegna del relativo plico al destinatario da parte dell’agente postale, l’avviso di ricevimento, prescritto dall’art. 149, comma 2, c.p.c., il quale è il solo documento idoneo a provare sia la consegna, sia la data di questa, sia l’identità della persona a mani della quale è stata eseguita la consegna; ne consegue che la mancanza di firma dell’agente postale sull’avviso di ricevimento del piego raccomandato rende inesistente, e non soltanto nulla, la notificazione, rappresentando la sottoscrizione l’unico elemento valido a riferire la paternità dell’atto all’agente notificante.

Sez. 5, n. 22348/2020, Nonno, Rv. 659082-01, ha, invece, sostenuto che, in applicazione analogica dell’art. 8 del d.P.R. n. 655 del 1982, riguardante l’avviso di ricevimento, in caso di smarrimento o distruzione della comunicazione di avvenuto deposito in giacenza per il caso di mancato recapito del plico al destinatario (cd. CAD), l’interessato può richiedere all’Ufficio postale il rilascio di un duplicato, il quale, al pari del duplicato dell’avviso di ricevimento, ha natura di atto pubblico, alla stessa stregua dell’originale, e fa piena prova, ai sensi dell’art. 2700 c.c., in ordine alle dichiarazioni delle parti e agli altri fatti che l’agente postale attesta essere avvenuti in sua presenza, sicché il destinatario che intenda contestare l’avvenuta notificazione ha l’onere di proporre querela di falso nei confronti di detto atto.

Nella medesima prospettiva Sez. L, n. 23921/2020, Bellé, Rv. 659281-01, ha precisato che la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio nel caso di irreperibilità relativa del destinatario deve avvenire - in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 8 della l. n. 890 del 1982 - con la verifica dell’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito (cd. C.A.D.). Il controllo su tale avviso deve riguardare, in caso di ulteriore assenza del destinatario in occasione del recapito della relativa raccomandata, non seguita dal ritiro del piego entro il termine di giacenza, l’attestazione dell’agente postale in ordine all’avvenuta immissione dell’avviso di deposito nella cassetta postale od alla sua affissione alla porta dell’abitazione, formalità le quali, ove attuate entro il predetto termine di giacenza, consentono il perfezionarsi della notifica allo spirare del decimo giorno dalla spedizione della raccomandata stessa, spettando al destinatario contestare, adducendo le relative ragioni di fatto e proponendo quando necessario querela di falso, che, nonostante quanto risultante dalla C.A.D., in concreto non si siano realizzati i presupposti di conoscibilità richiesti dalla legge oppure egli si sia trovato, senza sua colpa, nell’impossibilità di prendere cognizione del piego.

Utili indicazioni di carattere sistematico si rinvengono in Sez. 2, n. 6089/2020, Fortunato, Rv. 657125-01, ad avviso della quale le notifiche ex art. 140 c.p.c. presentano un regime che si discosta da quello di cui all’art. 8, comma 4, l. n. 890 del 1982, atteso che, mentre le notificazioni a mezzo del servizio postale si perfezionano decorsi dieci giorni dalla spedizione della raccomandata o al momento del ritiro del piego contenente l’atto da notificare, ove anteriore, viceversa, l’art. 140 c.p.c., all’esito della sentenza n. 3 del 2010 della Corte costituzionale, fa esplicitamente coincidere tale momento con il ricevimento della raccomandata informativa, reputato idoneo a realizzare, non l’effettiva conoscenza, ma la conoscibilità del deposito dell’atto presso la casa comunale e a porre il destinatario in condizione di ottenere la consegna e di predisporre le proprie difese nel rispetto dei termini eventualmente pendenti per la reazione giudiziale. Tale difformità non si espone a dubbi di legittimità costituzionale, posto che non è predicabile un dovere del legislatore ordinario di uniformare il trattamento processuale di situazioni assimilabili, essendo consentita una diversa conformazione degli istituti processuali a condizione che non siano lesi i diritti di difesa.

In argomento, Sez. L, n. 13917/2020, Marotta, Rv. 658181-01, ha, poi, precisato che la notificazione effettuata al difensore a mezzo del servizio postale al domicilio dichiarato per il giudizio, in caso di attestata assenza del destinatario ovvero di persona abilitata a ricevere l’atto, e di rituale effettuazione delle formalità di affissione dell’avviso alla porta di ingresso dello stabile ed immissione in cassetta, con regolare invio della raccomandata informativa e successiva compiuta giacenza del plico, è valida e produttiva di effetti, essendo tale sequenza notificatoria significativa della permanenza di un vincolo funzionale con lo studio professionale risultante dagli atti, a nulla rilevando che il difensore destinatario della notifica abbia nel frattempo comunicato al proprio ordine professionale la variazione dello studio.

Sez. 6-5, n. 4556/2020, Esposito, Rv. 657324-01, ha, infine, evidenziato che nel caso di notifica a mezzo del servizio postale di cartella esattoriale, ove l’atto sia consegnato all’indirizzo del destinatario a persona che abbia sottoscritto l’avviso di ricevimento, con grafia illeggibile, nello spazio relativo alla “firma del destinatario o di persona delegata”, e non risulti che il piego sia stato consegnato dall’agente postale a persona diversa dal destinatario tra quelle indicate dall’art. 7, comma 2, della legge n. 890 del 1982, la consegna deve ritenersi validamente effettuata a mani proprie del destinatario, fino a querela di falso, a nulla rilevando che nell’avviso non sia stata sbarrata la relativa casella e non sia altrimenti indicata la qualità del consegnatario, non essendo integrata alcuna delle ipotesi di nullità di cui all’art. 160 c.p.c.

Un nutrito numero di decisioni ha, poi, affrontato diversi profili problematici della notificazione a mezzo pec.

Ad avviso di 6-5, n. 3965/2020, Dell’Orfano, Rv. 656990-01, la mancata consegna all’avvocato della comunicazione o notificazione inviatagli a mezzo posta elettronica certificata (c.d. P.E.C.) produce effetti diversi a seconda che gli sia o meno imputabile: nel primo caso, le notificazioni/comunicazioni saranno eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria; nel secondo, attraverso l’utilizzo delle forme ordinarie previste dal codice di rito.

Sez. 6-1, n. 4712/2020, Meloni, Rv. 657243-01, ha posto in luce che, dichiarata l’illegittimità costituzionale, con sentenza n. 75 del 2019, dell’art. 16-septies del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. nella l. n. 221 del 2012 - nella parte in cui prevedeva che la notificazione eseguita con modalità telematiche, la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24, si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione della predetta ricevuta -, trova applicazione anche in questa ipotesi il principio di scissione soggettiva degli effetti della notificazione.

In argomento, merita, inoltre, di essere segnalata Sez. L, n. 4624/2020, Raimondi, Rv. 656932-01, la quale ha stabilito che, in tema di notificazione al difensore mediante posta elettronica certificata, nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione e di consegna del messaggio nella casella del destinatario, si determina una presunzione di conoscenza dell’atto, analoga a quella prevista, per le dichiarazioni negoziali, dall’art. 1335 c.c.; spetta quindi al destinatario, in un’ottica collaborativa, rendere edotto tempestivamente il mittente incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione o di presa visione degli allegati trasmessi via PEC, legate all’utilizzo dello strumento telematico, onde fornirgli la possibilità di rimediare all’inconveniente, sicché all’inerzia consegue il perfezionamento della notifica.

Secondo Sez. 1, n. 20039/2020, Vella, Rv. 658823-01, in caso di notificazione della sentenza a mezzo PEC, la copia analogica della ricevuta di avvenuta consegna, completa di attestazione di conformità, è idonea a certificare l’avvenuto recapito del messaggio e degli allegati, salva la prova contraria, di cui è onerata la parte che solleva la relativa eccezione, dell’esistenza di errori tecnici riferibili al sistema informatizzato.

In materia di notificazione alle persone giuridiche, Sez. 3, n. 9878/2020, Fiecconi, Rv. 657719-01, ha chiarito che, in tema di notificazione a mezzo posta degli atti processuali, la spedizione della raccomandata informativa di cui all’art. 7, comma 6, della l. n. 890 del 1982 (comma inserito dall’art. 36, comma 2-quater, del d.l. n. 248 del 2007, conv., con modif., dalla l. n. 31 del 2008, e successivamente abrogato dalla l. n. 205 del 2017) era prescritta nell’ipotesi di consegna del piego a persona diversa dal destinatario, il quale, nel caso di notificazione alle persone giuridiche ex art. 145 c.p.c., va individuato non solo nel legale rappresentante, ma anche negli altri soggetti indicati nella disposizione e, cioè, nelle persone incaricate di ricevere le notificazioni o, in mancanza, addette alla sede.

Ancora, Sez. 5, n. 10694/2020, Catallozzi, Rv. 657877-01, ha affermato che la notificazione a persona giuridica eseguita presso la sede legale, poi trasferita in luogo diverso, è idonea a produrre gli effetti che le sono propri nei confronti dell’ente medesimo, a condizione che sussista un collegamento fattuale tra il luogo presso cui la notifica è stata effettuata e le sedi in cui, nel tempo, l’attività della società si è svolta e che il consegnatario dichiari di essere incaricato della ricezione degli atti, consentendo tali elementi di ritenere che detto luogo costituisca ancora una sede operativa dell’ente e di escludere che il ricevente sia estraneo all’ente medesimo.

La Corte è tornata, inoltre, a soffermarsi su alcuni profili problematici legati alla notificazione alla Pubblica Amministrazione.

Merita, in proposito, di essere segnalata Sez. 3, n. 11118/2020, Fiecconi, Rv. 658140-02, la quale ha posto in luce che in base al combinato disposto degli artt. 144, comma 1, c.p.c. ed 11, comma 1, del r.d. n. 1611 del 1933, l’atto introduttivo di un giudizio nei confronti di una Ragioneria territoriale dello Stato e ogni successivo atto giudiziale ad essa indirizzato devono essere notificati presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l’autorità giudiziaria “innanzi alla quale è portata la causa”.

Ancora, Sez. L, n. 27424/2020, Di Paolantonio, Rv. 659793-01, ha affermato che nella controversia in cui sia parte un ente pubblico che, pur svolgendo funzioni strumentali al perseguimento degli interessi generali e pur inserito nell’organizzazione statale, sia dotato di autonoma personalità giuridica, la notifica della sentenza nei confronti di tale ente deve essere effettuata presso l’ufficio dell’Avvocatura erariale individuato ex art. 11, comma 2, della l. n. 1611 del 1933, restando irrilevante che l’ente sia rimasto contumace nel giudizio, atteso che la domiciliazione è prevista per legge e spiega efficacia indipendentemente dalla scelta discrezionale di costituirsi o meno. In applicazione del principio, la Suprema Corte ha escluso la tardività del ricorso per cassazione proposto da un istituto tecnico scolastico, dotato di personalità giuridica ex art. 3 della l. n. 889 del 1931, che era rimasto contumace nel giudizio di merito e nei cui confronti la sentenza era stata notificata presso la sede legale dell’istituto, reputando inidonea tale notifica a far decorrere il termine breve per impugnare.

Merita, inoltre, di essere menzionata Sez. L, n. 24932/2020, Spena, Rv. 659444-01, ad avviso della quale in tema di notificazione presso il domiciliatario, ove il difensore di un ente pubblico abbia eletto domicilio presso la direzione territoriale dell’ente stesso (nella specie, direzione provinciale dell’INPS), è valida la notificazione della sentenza di primo grado eseguita mediante consegna al direttore di tale articolazione, poiché, ai sensi dell’art. 141, comma 3, c.p.c., la consegna della copia dell’atto nelle mani del capo dell’ufficio presso il quale è stato eletto domicilio equivale a consegna nelle mani del destinatario.

In ultimo, di particolare rilievo sono le considerazioni svolte da Sez. 1, n. 11351/2020, Fidanzia, Rv. 658072-01, la quale, in tema di notifica di atti giudiziari presso uno Stato membro dell’Unione europea, ha chiarito che l’art. 14 del Regolamento (CE) n. 1393/2007 attribuisce la facoltà di notificare gli atti giudiziari a persone residenti in un altro Stato membro direttamente tramite il servizio postale mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento e, pur essendo prevista una modalità di trasmissione alternativa, “con mezzo equivalente”, tuttavia, come precisato dalla Corte di giustizia UE (sentenza 2 marzo 2017, C-354/15), tale modalità è ammessa solo se offra garanzie paragonabili a quelle della raccomandata con ricevuta di ritorno, dovendo presentare il medesimo livello di certezza e affidabilità in ordine alla ricezione dell’atto da parte del destinatario. Nella specie, la Corte ha cassato la decisione di merito, che aveva erroneamente dichiarato la tardività dell’appello, non applicando il termine lungo, nonostante fosse da rilevare la notifica della sentenza impugnata, effettuata in un altro Stato dell’UE a mezzo posta, senza che il destinatario avesse ricevuto l’atto, essendo stato il plico, non reclamato, restituito al mittente.

9.1. Nullità della notificazione.

A proposito della nullità della notificazione, la giurisprudenza dell’anno in rassegna si è occupata soprattutto del discrimine con l’ipotesi dell’irregolarità e della portata del principio di conservazione degli atti processuali nelle sue diverse declinazioni.

In materia di processo tributario, Sez. 5, n. 3234/2020, Grasso Gianluca, Rv. 656963-01, ha posto in evidenza come la spedizione a mezzo posta del ricorso (o dell’atto d’appello) in busta chiusa, pur se priva di indicazioni all’esterno circa l’atto in essa racchiuso - anziché in plico senza busta come previsto dall’art. 20 del d.lgs. n. 546 del 1992 - costituisca una mera irregolarità se il contenuto della busta e la riferibilità alla parte non siano contestati, essendo, altrimenti, onere del ricorrente (o dell’appellante) dare la prova dell’infondatezza della contestazione formulata.

In tema di rinnovazione della notificazione, merita di essere segnalata Sez. 1, n. 6924/2020, Scalia, Rv. 657479-01, per la quale la declaratoria di inammissibilità del ricorso esonera la S.C. dal disporre la rinnovazione della notificazione dello stesso nulla, poiché effettuata presso l’Avvocatura distrettuale anziché presso l’Avvocatura generale dello Stato, in applicazione del principio della ragionevole durata del processo che impone al giudice, ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c., di evitare e impedire i comportamenti che ostacolino una sollecita definizione del giudizio, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuale e in formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo.

Ancora, secondo Sez. 3, n. 11290/2020, D’Arrigo, Rv. 658097-01, il vizio di notificazione dell’atto di pignoramento è, di regola, sanato dalla mera proposizione dell’opposizione, a meno che l’opponente non deduca contestualmente un concreto pregiudizio al diritto di difesa verificatosi prima che egli abbia avuto conoscenza dell’espropriazione forzata, oppure che la notificazione sia radicalmente inesistente, in quanto del tutto mancante o priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione; diversamente, il vizio di notificazione dell’atto di precetto non è sanato dalla semplice proposizione dell’opposizione se, prima che l’intimato ne abbia avuto conoscenza, il creditore abbia eseguito comunque il pignoramento.

Deve, infine, darsi conto di Sez. L, n. 17577/2020, Calafiore, Rv. 658886-01, la quale, in linea con quanto affermato da Sez. 6-3, n. 20700/2018, Scarano, Rv. 650482-0, ha ribadito il principio secondo il quale, in caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria, deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa.

  • spese processuali
  • liquidazione delle spese
  • responsabilità

CAPITOLO VIII

LE SPESE E LA RESPONSABILITÀ PROCESSUALE AGGRAVATA

(di Donatella Salari )

Sommario

1 La condanna alle spese. - 1.1 Il principio di soccombenza e la liquidazione delle spese. - 1.3 La responsabilità aggravata. - 1.4 La lite temeraria.

1. La condanna alle spese.

La regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile trova la sua fonte nell’art. 91, comma 1 c. p. c. che prevede che «il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa».

La disposizione riposa sul principio generale di causalità che regola la soccombenza in forza del quale la condanna al pagamento delle spese di lite si collega all’alea del processo facendo gravare sulla parte soccombente, secondo un principio di responsabilità, le spese causate disconoscendo, ovvero, opponendosi alla pretesa della parte vittoriosa, come pure, esercitando un’azione infondata.

La condanna alle spese di lite va, quindi, considerato un epilogo conseguente, ma accessorio, alla decisione sulla controversia e, nel contempo, appare funzionale al presidio costituzionale offerto dall’art. 24 Cost. alla tutela giurisdizionale dei propri diritti. Ne discende che il mancato regolamento delle spese di un procedimento contenzioso da parte del giudice - che, ai sensi dell’art. 91 c. p. c., avrebbe dovuto provvedervi in sentenza o in altro provvedimento decisorio emesso a definizione del procedimento - se il giudice non ha statuito sulle spese nemmeno in parte motiva integra un vizio di omessa pronunzia riparabile solo con l’impugnazione (Sez. 6 - 5, n. 03968/2020, Castorina, Rv. 656991 - 01), stesso dicasi per omessa indicazione della parte sulla quale graveranno definitivamente le spese relative alla consulenza tecnica d’ufficio considerato che questa statuizione non può ricomprendere dette spese come pronuncia implicita, a nulla rilevando che esse abbiano già formato oggetto di liquidazione con decreto motivato ex art. 168 d. p. r. n. 115 del 2002 (Sez. 3, n. 10804/2020, Rossetti, Rv. 657964 - 03).

Questione diversa è, invece, quella della mancata determinazione in sentenza del compenso spettante al consulente tecnico d’ufficio, omissione che integra, invece, un mero errore materiale, suscettibile di correzione da parte del giudice d’appello con riferimento all’importo della liquidazione effettuata in favore del consulente (Sez. 2, n. 28309/2020, Tedesco, Rv. 659742 - 01.)

La portata generale del principio fa sì che il meccanismo della soccombenza sia riferibile ad ogni tipo di processo senza distinzioni di natura e di rito e, pertanto, lo rende applicabile anche al procedimento camerale azionato in base agli artt. 1129, comma 11, c.c. e 64 disp. att. c.c. in tema di revoca di amministratore di condominio (Sez. 6 - 2, n. 25682/2020, Scarpa, Rv. 659707 - 01). Il principio di responsabilità e causazione riguarda anche il procedimento camerale di equa riparazione del pregiudizio derivante dalla violazione del termine di ragionevole durata del processo di cui alla l. n. 89 del 2001 considerata la sua natura contenziosa e, pertanto, si applica anche ai fini della liquidazione dei compensi spettanti agli avvocati va applicata la tabella 12 allegata al d. m. n. 55 del 2014 (Sez. 6 - 2, n. 15493/2020, Scarpa, Rv. 658776 - 01).

Il principio generale riguarda anche il procedimento incidentale all’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di merito impugnata, che può essere chiesto nel giudizio di legittimità dalla parte che ha resistito vittoriosamente, alla condizione, tuttavia, che l’istanza, e i relativi documenti da produrre, siano stati notificati alla controparte, ovvero che il contraddittorio con la medesima sia stato comunque rispettato in ragione della sua presenza all’udienza, così da permetterle di interloquire sul punto (Sez. 6 - 3, n. 18079/2020, Iannello, Rv. 658763 - 01).

Nel caso di procedimento di equa riparazione per irragionevole durata del processo, il giudizio di opposizione di cui all’art. 5-ter della l. n. 89 del 2001 non introduce un autonomo giudizio di impugnazione del decreto che ha deciso sulla domanda, ma realizza una fase a contraddittorio pieno di un unico procedimento, avente ad oggetto la medesima pretesa fatta valere con il ricorso introduttivo; sennonché, ove detta opposizione sia proposta dalla parte privata rimasta insoddisfatta dall’esito della fase monitoria e, dunque, abbia carattere pretensivo, le spese di giudizio vanno liquidate in base al criterio della soccombenza, a misura dell’intera vicenda processuale, solo in caso di suo accoglimento, mentre, ove essa venga rigettata, fatta salva l’ipotesi di opposizione incidentale da parte dell’amministrazione, le spese vanno regolate in maniera del tutto autonoma e poste, pertanto, anche a carico integrale della parte privata opponente, ancorché essa abbia diritto a ripetere quelle liquidate nel decreto, in quanto il Ministero opposto, avendo prestato acquiescenza al decreto medesimo, affronta un giudizio che non aveva interesse a provocare e del quale, se vittorioso, non può sopportare le spese (Sez. 6 - 2, n. 09728/2020, Falaschi, Rv. 658012 - 01).

Va precisato che, rispetto al principio di responsabilità, non è parte in senso sostanziale cui possa essere riferita la condanna alle spese il procuratore generale presso la Corte dei conti nell’ambito del ricorso per cassazione proposto per motivi inerenti alla giurisdizione, sicché è esclusa l’ammissibilità di una pronuncia sulle spese processuali, nonché la condanna della parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, ex art. 96, comma 3, c. p. c., atteso che quest’ultima disposizione presuppone, per la sua applicazione, che vi sia stata una pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91 dello stesso codice (Sez. U, n. 5589/2020, Vincenti, Rv. 657218 - 03).

Con la sentenza che definisce il processo, il giudice può compensare le spese di lite ovvero, in caso di contumacia, lasciarle interamente a carico della parte risultata totalmente vittoriosa, quando sussistano gravi ed eccezionali ragioni. Queste, dopo la sentenza della Corte costituzionale del 19.04.2018, n. 77, non sono perciò più limitate ai casi di soccombenza reciproca, ovvero di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza, avendo la Corte dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162, nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni. Nondimeno, il giudice potrà escludere il rimborso delle spese superflue o eccessive, come potrà, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che essa abbia causato alla controparte in caso di trasgressione dei doveri di lealtà e probità (art. 88 c. p. c.).

Il principio di responsabilità e causalità coinvolge anche il rapporto sostanziale tra rappresentante e rappresentato secondo l’art. 94 c. p. c. quando il primo disimpegni per la parte in senso sostanziale un’attività processuale e sussistano gravi motivi (Sez. 6 - 1, n. 09203/2020, Dolmetta, Rv. 657676 - 01); ne deriva che la condanna alle spese in favore dell’avversario vincitore, eventualmente in solido con la parte, del soggetto che la rappresenti, si giustifica con il fatto che il predetto, pur non assumendo la veste di parte nel processo, esplica, comunque, anche se in nome altrui, un’attività processuale in maniera autonoma; tale condanna postula la ricorrenza di gravi motivi, che il giudice è tenuto ad enunciare in modo specifico, quali la trasgressione del dovere di lealtà e probità di cui all’art. 88 c. p. c., ovvero la mancanza della normale prudenza tipica della responsabilità processuale aggravata di cui all’art. 96, comma 2, c. p. c..

Alla stessa conclusione perviene Sez. 5, n. 8591/2020, Fraulini, Rv. 657624 - 01, con riferimento all’ipotesi di procura inesistente e non nulla, sulla considerazione che, in quest’ultima ipotesi, il rapporto processuale si instaura validamente, onerando il giudice, che rilevi il vizio della procura, di ordinarne la rinnovazione sanante e, con ciò, nel caso di inesistenza si giustificherebbe la condanna al pagamento delle spese del giudizio a carico del difensore.

Sullo stessa tema della nullità della procura e della condanna del rappresentante la S.C. è intervenuta con Sez. 1, n. 25304/2020, Nazzicone, Rv. 659574 - 01 affermando che, essendo per il ricorso in cassazione nell’ambito speciale di protezione internazionale prescritta la posteriorità rispetto alla data di notifica del provvedimento impugnato (art. 35-bis, comma 13, d.lgs. n. 25 del 2008), in difetto di tale requisito temporale la procura sarà nulla per omessa indicazione della data di conferimento. Ne consegue la condanna al pagamento delle spese di lite e il raddoppio del contributo di cui all’art. 13 del d. p. r, n. 115 del 2002, per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione a carico del difensore stesso come se avesse agito egli stesso.

La conferma della natura autonoma della condanna alle spese indica che, nel caso di accoglimento dell’appello limitatamente alla condanna ex art. 96 c. p. c. che, come noto, ha introdotto nel nostro ordinamento a partire dal 2009 un sorta di sanzione d’ufficio a carico della parte che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave in favore della parte vittoriosa, infatti, l’accoglimento dell’appello limitatamente all’accessorio capo di condanna non incide sulla determinazione della complessiva (o sostanziale) soccombenza dell’appellante la cui impugnazione sul merito della pronuncia di primo grado sia stata respinta (Sez. 6 - 3, n. 05466/2020, De Stefano, Rv. 657296 - 01).

Allo stesso modo, in un’ipotesi di accoglimento del ricorso per cassazione proposto limitatamente alle spese processuali nel giudizio di rinvio - ai fini della liquidazione delle spese di legittimità e dello stesso rinvio - deve ritenersi vittoriosa la parte la cui doglianza sulle spese sia stata accolta, indipendentemente dall’esito della controversia (Sez. 6 - 3, n. 18108/2020, Tatangelo, Rv. 658518 - 01).

Il rango di statuizione strettamente collegata allo ius dicere fa sì, che si debba escludere che all’esito del procedimento di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 e 391-bis c. p. c. possa ammettersi una decisione sulle spese processuali, trattandosi di procedimento di natura amministrativa priva una parte soccombente in senso proprio (Sez. 6 - 2, n. 12184/2020, Falaschi, Rv. 658456 - 01).

1.1. Il principio di soccombenza e la liquidazione delle spese.

Anche la pronuncia d’inammissibilità dell’appello equivale a soccombenza secondo Sez. 6 - 2, n. 12484/2020, Fortunato, Rv. 658214 - 01, e, pertanto, si deve escludere che essa integri un grave ed eccezionale motivo di compensazione, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c. p. c., nella formulazione vigente ratione temporis, introdotta dalla l. n. 69 del 2009.

Al principio di soccombenza devono essere ricondotte anche le spese sostenute dall’assicurato per chiamare in causa l’assicuratore in materia di responsabilità civile in quanto non sono conseguenza del rischio assicurato né spese di salvataggio, ma comuni spese processuali soggette alla disciplina degli artt. 91 e 92 c. p. c. a differenza di quelle per le quali l’assicurato deve essere tenuto indenne- nei limiti del massimale- che vanno intese come conseguenze possibili del fatto illecito, insieme alle spese sostenute per resistere alla pretesa del danneggiato - in eccedenza rispetto al massimale -ma nel rispetto dell’ art. 1917, comma 3, c.c., e che vanno considerate come spese di salvataggio ex art. 1914 c.c., perché sostenute per un interesse comune all’assicurato ed all’assicuratore. Le spese di chiamata in causa dell’assicuratore non costituiscono, invece, né conseguenza del rischio assicurato né spese di salvataggio, bensì comuni spese processuali soggette alla disciplina degli artt. 91 e 92 c. p. c. (Sez. 6 - 3, n. 18076/2020, Iannello, Rv. 658762 - 01).

Al regime ispirato a causazione e responsabilità è ispirato anche il regime delle spese nel giudizio di divisione ove le spese occorrenti allo scioglimento della comunione vanno poste a carico della massa, in quanto effettuate nel comune interesse dei condividenti, trovando, invece, applicazione il principio della soccombenza e la facoltà di disporre la compensazione soltanto con riferimento alle spese che siano conseguenti ad eccessive pretese o inutili resistenze alla divisione (Sez. 2, n. 01635/2020, Criscuolo, Rv. 656848 - 01). Allo stesso modo, le spese relative alla consulenza tecnica d’ufficio, considerando che essa è un atto compiuto nell’interesse generale di giustizia e, dunque, nell’interesse comune delle parti, trattandosi di un ausilio fornito al giudice da un collaboratore esterno e non di un mezzo di prova in senso proprio, devono essere considerate tra i costi processuali suscettibili di regolamento ex artt. 91 e 92 c. p. c., con la conseguenza che esse potranno essere compensate anche in presenza di una parte totalmente vittoriosa, senza violare in tal modo il divieto di condanna di quest’ultima alle spese di lite, atteso che la compensazione non implica una condanna, ma solo l’esclusione del rimborso (Sez. 1, n. 11068/2020, Scalia, Rv. 657898 - 01).

Nel principio della soccombenza non vanno ricondotte, invece, le spese cui si riferisce l’ammissione al gratuito patrocinio a spese dello Stato perché questo istituto non copre quelle che la parte ammessa sia condannata a pagare all’altra risultata vittoriosa, a meno che anche tale parte sia stata ammessa al patrocinio a spese dell’erario di modo che il soccombente sarà tenuto ad effettuare il versamento in favore dell’Erario (Sez. 6 - 1, n. 25653/2020, Tricomi L., Rv. 659595 - 01).

Come detto in premessa, il principio fondante della soccombenza che ponga l’onere della spesa a carico di chi ha provocato la necessità del processo, pone come deroga l’art. 92 c. p. c., allorché la parte risultata vincitrice sia venuta meno ai doveri di lealtà e probità ed, inoltre, per reciproca soccombenza, nonché per gravi ed eccezionali ragioni secondo il principio della causalità.

Il principio di causalità spiega i suoi effetti sempre rispetto alla domanda proposta e non va condizionato da accadimenti esterni ancorché ad essa connessi, e pertanto, in sede di opposizione all’esecuzione, la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo, in conformità del generale principio della domanda, non determinerà ex se, la fondatezza dell’opposizione e il suo accoglimento, bensì la cessazione della materia del contendere per difetto di interesse. In tal caso atteso il rilievo d’ufficio della caducazione sopravvenuta del titolo rispetto ai motivi cristallizzati con l’opposizione, va sì dichiarata la cessazione della materia del contendere e valutata la soccombenza in senso virtuale, perché diversamente, l’epilogo sulle spese risentirebbe di una casualità irrazionale che spingerebbe ad un abuso della opposizione (Sez. 6 - 3, n. 01005/2020, Tatangelo, Rv. 656589 - 01).

Poiché la pronuncia sulle spese costituisce un capo autonomo della decisione l’impugnazione avverso di essa deve essere proposta in via autonoma e non per mezzo di impugnazione incidentale tardiva, che è, per tale ragione, inammissibile (Sez. 5, n. 04845/2020, D’Ovidio, Rv. 657370 - 01), mentre nel caso di pluralità di gradi di giudizio la parte soccombente nei gradi di merito precedenti a quello di legittimità che risulti vittoriosa all’esito del giudizio di rinvio, ha diritto ad ottenere la liquidazione non solo delle spese processuali relative ai giudizi di rinvio e di cassazione, ma anche di quelle sostenute nel corso dell’intero processo; pertanto. In tal caso ove ne abbia fatto richiesta, la mancata statuizione sul punto del giudice del rinvio integra un’omissione censurabile in sede di legittimità (Sez. 6 - 2, n. 01407/2020, Cosentino, Rv. 656866 - 01).

Stesso dicasi per il rapporto tra fase ante causam e fase di merito, ove, pertanto, le spese dell’accertamento tecnico preventivo devono essere poste, a conclusione della procedura, a carico della parte richiedente, in virtù dell’onere di anticipazione e del principio di causalità, e devono, inoltre, essere prese in considerazione, nell’eventuale successivo giudizio di merito, come spese giudiziali, da regolare in base agli ordinari criteri di cui agli artt. 91 e 92 c. p. c. (Sez. 6 - 2, n. 09735/2020, Giannaccari, Rv. 658013 - 01).

In applicazione del medesimo principio di causalità, nel caso di opposizione all’esecuzione, la sopravvenuta caducazione del titolo in conformità del generale principio della domanda, non determina ex se la fondatezza dell’opposizione e il suo accoglimento, ma la cessazione della materia del contendere per difetto di interesse, sicché, nel regolare le spese dell’intero giudizio, il giudice dell’opposizione non può porle senz’altro a favore dell’opponente, ma deve utilizzare il criterio della soccombenza virtuale, secondo il principio di causalità, considerando, a tal fine, l’intera vicenda processuale (Sez. 6 - 3, n. 01269/2020, De Stefano, Rv. 656718 - 01).

Nel caso che il giudizio prosegua per le sole spese nei vari gradi di giudizio il criterio differenziale tra la somma ritenuta corretta dall’impugnante e quella attribuita dalla decisione impugnata costituisce il disputatum della controversia dal quale si determinano, integrandosi con quello del decisum, le ulteriori spese di lite riferite al detto grado (Sez. 6 - 1, n. 06345/2020, Scotti, Rv. 657227 - 01).

La soccombenza presuppone, infatti, una valutazione globale anche nell’ipotesi di giudizio seguìto ad opposizione ex art. 645 c. p. c., sicché non può considerarsi soccombente il creditore opposto che veda conclusivamente riconosciuto, anche in parte minima, il proprio credito rispetto alla domanda monitoria, legittimamente subendo la revoca integrale del decreto ingiuntivo e la condanna alla restituzione di quanto, eccedente rispetto al dovuto percepito in dipendenza della provvisoria esecutività (Sez. 6 - 2, n. 17854/2020, Abete, Rv. 658965 - 01).

La valutazione globale riguarda anche l’attività complessiva spiegata dal difensore nel senso che debbono essere presi in considerazione anche quei provvedimenti giudiziali pronunciati nel corso e in funzione dell’istruzione, compresi quelli dai quali, può desumersi la non necessità di procedere all’istruzione stessa (Sez. 6 - 3, n. 20993/2020, Graziosi, Rv. 659152 - 01).

Ovviamente, la determinazione in concreto del compenso per le prestazioni professionali di avvocato è rimessa, esclusivamente, al prudente apprezzamento del giudice di merito (Sez. 1, n. 04782/2020, Di Marzio M., Rv. 657030 - 01), salvo il rispetto dei parametri minimi e massimi .In particolare, per le liquidazioni delle spese processuali successiva al d.m. n. 55 del 2014, non sussistendo più il vincolo legale della inderogabilità dei minimi tariffari, i parametri di determinazione del compenso per la prestazione defensionale in giudizio e le soglie numeriche di riferimento costituiscono criteri di orientamento e individuano la misura economica standard, del valore della prestazione professionale; pertanto, il giudice è tenuto a specificare i criteri di liquidazione del compenso solo in caso di scostamento apprezzabile dai parametri medi (Sez. 6 - 2, n. 10343/2020, Giannaccari, Rv. 657887 - 01).

In ogni caso, il giudice, nel pronunciare la condanna della parte soccombente al rimborso, in favore della controparte, delle spese e degli onorari del giudizio, deve liquidarne l’ammontare separatamente, con conseguente illegittimità della mera indicazione dell’importo complessivo, priva della specificazione delle due voci, in quanto inidonea a consentire il controllo sulla correttezza della liquidazione, anche in ordine al rispetto delle relative tabelle (Sez. 6 - 5, n. 23919/2020, Caprioli, Rv. 659360 - 01).

Naturalmente, ove la sentenza liquidi i compensi al difensore, al netto degli esborsi, con somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione è esperibile il ricorso per cassazione, per violazione dell’art. 2233, comma 2, c.c. (Sez. 6 - 5, n. 28113/2020, Caprioli, Rv. 659827 - 01).

Ovviamente il meccanismo finora descritto secondo la S.C. non riguarda le spese stragiudiziali per le quali il rimborso è soggetto ai normali oneri di domanda, allegazione e prova e che, anche se la liquidazione deve avvenire necessariamente secondo le tariffe forensi, hanno natura intrinsecamente differente rispetto alle spese processuali vere e proprie. Ne deriva che gli importi riconosciuti per il ristoro delle spese stragiudiziali non possono essere compensati con le somme liquidate, a diverso titolo, per le spese giudiziali relative alle successive prestazioni di patrocinio in giudizio (Sez. 3, n. 24481/2020, Iannello, Rv. 659763 - 02).

Infine, per le spese da distrarsi in favore del difensore nel giudizio di legittimità la mancata riproposizione nella memoria ex art. 378 c. p. c. nella memoria ex art. 378 c. p. c., dell’istanza di distrazione delle spese processuali non implica tacita rinuncia alla stessa, non rivestendo tale memoria la funzione di ribadire o precisare le conclusioni svolte negli atti introduttivi, bensì di illustrare i motivi o le difese articolate, rispettivamente, nel ricorso e nel controricorso e di replicare alle difese contenute nel detto controricorso, nonché di segnalare mutamenti della giurisprudenza o sopravvenienze normative rilevanti e, eventualmente, di richiedere la distrazione delle spese (Sez. 6 - 3, n. 14098/2020, Positano, Rv. 658505 - 01).

Al difensore distrattario del creditore procedente al quale il giudice dell’esecuzione pronunci, ai sensi dell’art. 553 c. p. c., ordinanza di assegnazione di somme è consentito chiedere la registrazione dell’ordinanza deriva dal titolo esecutivo, anche se le relative spese gravano ex lege a carico del debitore esecutato, in quanto comprese nelle spese di esecuzione ex art. 95 c. p. c..

Pertanto, qualora il difensore distrattario abbia chiesto detta registrazione, pagandone la relativa imposta, avrà adempiuto un’obbligazione tributaria solidale nell’interesse del creditore procedente e per effetto del pagamento acquista il diritto di regresso che sarebbe spettato alla parte, nel cui interesse è stato eseguito, nei confronti di colui che è civilmente tenuto al pagamento (Sez. 2, n. 16061/2020, Giannaccari, Rv. 658679 - 01).

1.3. La responsabilità aggravata.

Se risulta che la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza. In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91 c. p. c, il giudice, anche d’ufficio, può, altresì, condannare la parte soccombente- esclusa l’ipotesi di compensazione- al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.

In questo caso il principio di causalità materiale della condotta e quello di responsabilità del soccombente attingono ad uno specifico elemento soggettivo costituito dalla colpa grave o dalla mala fede (art. 96, 1° c. p. c).

La giurisprudenza della S.C. ha ribadito in più occasioni che alla base della responsabilità aggravata non è indispensabile che vi sia la consapevolezza del proprio torto da parte del soccombente al momento della sua azione o resistenza, essendo, piuttosto, sufficiente la colpa grave, ossia l’omissione di una dovuta diligenza idonea a far percepire agevolmente l’ingiustizia della propria condotta processuale.

La responsabilità aggravata riguarda, qualsiasi tipo di processo, essa, perciò trova applicazione non soltanto nei processi di cognizione, cautelari ed esecutivi, ma anche nei procedimenti di volontaria giurisdizione (Sez. 1, n. 16736/2020 Iofrida, Rv. 658967 - 01) e la liquidazione di questo tipo di danno è affidata alla valutazione equitativa del giudice sul presupposto che tale pregiudizio non possa, di norma, essere provato nel suo esatto ammontare (Sez. 2, n. 22588/2020, Criscuolo, Rv. 659388 - 01).

Parte in senso sostanziale è anche la P. A. che è chiamata al principio di responsabilità anche nel campo tributario, nonostante il divieto per il giudice di stabilire se il potere discrezionale sia stato opportunamente esercitato ed, infatti, laddove risulti volato il divieto del neminem laedere, il giudice può accertare se vi sia stato, da parte dell’amministrazione o del concessionario per la riscossione, un comportamento colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria, abbia determinato la lesione di un diritto soggettivo, ferma restando, per il detto concessionario, l’azione di regresso nei confronti dell’ente impositore per la misura della condotta causalmente e colposamente riferibile allo stesso e alle sue obbligazioni di diligenza. In applicazione del medesimo principio di causazione e responsabilità (Sez. 3, n. 10814/2020, Porreca, Rv. 657921 - 01).

1.4. La lite temeraria.

Come noto, la condanna ex art. 96, comma 3, c. p. c., è applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza e configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma la quale presuppone, per la sua applicazione, che vi sia stata una pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, ma indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c. p. c., eventualmente cumulabile con queste fattispecie. Il carattere di danno punitivo di una simile sanzione risulta compatibile categoria generale, con l’ordinamento italiano dopo Sez. U - n. 16601/2017, D’ Ascola, Rv. 644914 - 01.

La condanna ex art. 96, comma 3, c. p. c., risulta, infatti, applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, agendo come sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c. p. c., e con queste eventualmente cumulabile, volta alla repressione dell’abuso dello strumento processuale. Ne consegue che la sua applicazione, richiederà, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di «abuso del processo», quale l’avere agito o resistito pretestuosamente (Sez. 6 - 2, n. 20018/2020, Oliva, Rv. 659226 - 01).

L’ulteriore somma liquidabile a titolo di sanzione per la lite temeraria non risente di alcun limite quantitativo per la condanna alle spese della parte soccombente, sicché il giudice, nel rispetto del criterio equitativo e del principio di ragionevolezza, può quantificare detta somma sulla base dell’importo delle spese processuali (o di un loro multiplo) o anche del valore della controversia (Sez. 3, n. 26435/2020, D’Arrigo, Rv. 659789 - 01).

In concreto, la c.d. lite temeraria può essere ravvisata nella redazione da parte del difensore di un ricorso per cassazione contenente motivi del tutto generici ed indeterminati, in violazione dell’art. 366 c. p. c., dove il cliente è chiamato a rispondere delle condotte del proprio avvocato, ex art. 2049 c.c., ove questi agisca senza la diligenza esigibile in relazione ad una prestazione professionale particolarmente qualificata, quale è quella svolta dall’avvocato cassazionista (Sez. 6 - 1, n. 15333/2020, Dolmetta, Rv. 658367 - 01).

Il principio risulta ribadito da Sez. 6 - 1, n. 18512/2020, Di Marzio, Rv. 658997 - 01 con riferimento alla scarsa diligenza manifestata nella proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, in ordine a ragioni già formulate nell’atto di appello, espresse attraverso motivi inammissibili nonché attraverso la proposizione, in concreto, di un motivo ricondotto ad una norma abrogata da lungo tempo, ossia tutte ipotesi sussumibili nell’abuso dello strumento impugnatorio.

L’abuso del processo può manifestarsi anche nel giudizio di equa riparazione per irragionevole durata (art. 2, comma 2-quinquies, della l. n. 89 del 2001) e non si sovrappone a quello della lite temeraria considerato che il giudice può valutare autonomamente nel procedimento di equa riparazione anche l’ipotesi di temerarietà che, per qualunque ragione, nel processo presupposto non abbiano condotto ad una pronuncia di condanna ai sensi dell’art. 96 c. p. c. (Sez. 2, n. 09762 2020, Bellini, Rv. 658006 - 01).

  • contenzioso elettorale
  • contratto
  • assicurazione
  • diritto successorio
  • espropriazione

CAPITOLO IX

IL PROCESSO LITISCONSORTILE

(di Giuseppe Nicastro )

Sommario

1 Premessa. - 2 Ipotesi di litisconsorzio necessario: generalità e casistica. - 2.1 Generalità. - 2.2 Comunione legale tra coniugi. - 2.3 Diritti reali. - 2.4 Previdenza. - 2.5 Successioni. - 2.6 Contratti. - 2.7 In particolare, assicurazioni contro i danni. - 2.8 Azione revocatoria. - 2.9 Espropriazione forzata e opposizioni all’esecuzione. - 2.10 Contenzioso elettorale. - 2.11 Espropriazione per pubblico interesse. - 2.12 Successione nel processo. - 3 Difetto del contraddittorio: rilevabilità e sanzione, integrazione. - 4 Svolgimento del processo litisconsortile. - 5 Litisconsorzio necessario in fase di gravame. - 5.1 Ipotesi normativamente regolate di litisconsorzio necessario nei giudizi di impugnazione. - 6 Conseguenze del difetto di integrità del contraddittorio in sede di gravame. - 7 Litisconsorzio necessario (processuale) nel giudizio di rinvio. - 8 Litisconsorzio facoltativo.

1. Premessa.

L’art. 102 c.p.c. contiene, come è noto, una “norma in bianco” che l’interprete è chiamato a riempire individuando le ipotesi in cui, al di là dei casi in cui è la legge stessa a prevedere la necessità della partecipazione di più parti al processo, «la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti».

Se, sul piano astratto, è stato da tempo chiarito che il litisconsorzio necessario - che determina l’inscindibilità della causa e, quindi, la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei litisconsorti eventualmente pretermessi - ricorre, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, anche in ragione della «particolare natura o configurazione del rapporto giuridico dedotto in giudizio, che implichi, cioè, una situazione strutturalmente comune ad una pluralità di soggetti, in guisa tale che la decisione su di essa non potrebbe conseguire il proprio scopo [se] non sia resa nei confronti di tutti questi soggetti» (Sez. 1, n. 04720/2003, Carbone, Rv. 481970-01), non vi è dubbio che la concreta individuazione di tali rapporti passi attraverso l’elaborazione della giurisprudenza, in ultima istanza, di quella di legittimità. Da ciò l’essenzialità di una puntuale analisi casistica di questa.

Uno sguardo parimenti attento necessita lo sviluppo giurisprudenziale sulla disciplina del litisconsorzio nelle fasi di gravame, la quale affronta la diversa questione della determinazione dei soggetti che debbono partecipare al giudizio di impugnazione quando la sentenza impugnata è stata pronunciata nei confronti di più di due parti.

Infine, verrà esposta la giurisprudenza della Corte sul tema del litisconsorzio facoltativo, in cui la legge (art. 103 c.p.c.) consente, ma non impone, la contemporanea partecipazione di più parti, dal lato attivo e/o passivo, nel medesimo processo.

2. Ipotesi di litisconsorzio necessario: generalità e casistica.

Di seguito, quindi, anzitutto, una rassegna delle pronunce della Corte che, al di là dei casi in cui è la legge stessa a prevedere la necessità della partecipazione di più parti al processo, interpretando la “norma in bianco” dell’art. 102 c.p.c., hanno ravvisato (o no) fattispecie in cui «la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti».

A tale analisi casistica verrà premessa la menzione di una pronuncia relativa all’istituto del litisconsorzio necessario in generale.

2.1. Generalità.

A quest’ultimo proposito, Sez. 3, n. 03692/2020, Guizzi, Rv. 656899-01, ha precisato che il litisconsorzio necessario, la cui violazione è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, ricorre, oltre che per motivi processuali e nei casi espressamente previsti dalla legge, quando la situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in giudizio debba essere decisa in maniera unitaria nei confronti di tutti coloro che ne siano partecipi, al fine di non privare la pronuncia dell’utilità connessa con l’esperimento dell’azione proposta, il che non può mai verificarsi per esigenze probatorie, ma solo ove tale azione tenda alla costituzione o al mutamento di un rapporto plurisoggettivo unico oppure all’adempimento di una prestazione inscindibile incidente su una situazione pure inscindibile comune a più soggetti.

2.2. Comunione legale tra coniugi.

In continuità con Sez. U, n. 09660/2009, Fioretti, Rv. 607891-01, Sez. 3. n. 24950/2020, Olivieri, Rv. 659770-02, ha ribadito che, qualora uno dei coniugi, in regime di comunione legale dei beni, abbia da solo acquistato o venduto un bene immobile da ritenersi oggetto della comunione, l’altro, che sia rimasto estraneo alla formazione dell’atto, è litisconsorte necessario in tutte le controversie in cui si chieda al giudice una pronuncia che incida direttamente e immediatamente sul diritto, mentre non può ritenersi tale in quei giudizi nei quali si domandi una decisione che incida direttamente e immediatamente sulla validità ed efficacia del contratto. Da ciò la conseguenza che, con riguardo all’azione revocatoria esperita, ai sensi sia dell’art. 66 sia dell’art. 67 della legge fallimentare (r.d. n. 267 del 1942), in favore del disponente fallito, non sussiste un’ipotesi di litisconsorzio necessario, poiché detta azione non determina alcun effetto restitutorio né traslativo, ma comporta l’inefficacia relativa dell’atto rispetto alla massa, senza caducare, a ogni altro effetto, l’atto di alienazione.

2.3. Diritti reali.

Relativamente, anzitutto, alle ipotesi di comunione dei diritti reali e di condominio, la necessità del litisconsorzio è stata ravvisata, da Sez. 6-2, n. 04697/2020, Scarpa, Rv. 657260-01, nell’ipotesi della domanda di accertamento negativo della qualità di condomino, in quanto inerente all’inesistenza del rapporto di condominialità ai sensi dell’art. 1117 c.c. La Corte ha chiarito la Corte che tale domanda non va proposta nei confronti dell’amministratore del condominio ma impone, piuttosto, la partecipazione, quali legittimati passivi, di tutti i condomini in una situazione di litisconsorzio necessario, in quanto la definizione della vertenza postula una decisione che implica una statuizione in ordine a titoli di proprietà configgenti fra loro, suscettibile di assumere valenza solo se, e in quanto, data nei confronti di tutti i soggetti, asseriti partecipi del preteso condominio in questione. Facendo applicazione di questo principio, la Corte ha confermato la sentenza di appello che, a fronte di una domanda di accertamento negativo dell’appartenenza a un condominio di alcune unità immobiliari, aveva dichiarato la nullità della sentenza di primo grado con la rimessione della causa al giudice di prime cure per non avere quest’ultimo disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini.

Premesso che il regolamento di condominio c.d. contrattuale, quali ne siano il meccanismo di produzione e il momento della sua efficacia, si configura, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente, cioè, pluralità di parti e scopo comune, Sez. 6-2, n. 24957/2020, Dongiacomo, Rv. 659703-01, ha asserito che da ciò consegue che l’azione di nullità dello stesso regolamento è esperibile non nei confronti del condominio (e, quindi, dell’amministratore), che è carente di legittimazione in ordine a una tale domanda, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, versandosi in una situazione di litisconsorzio necessario. In applicazione di tale principio, la Corte ha condiviso la decisione della corte di merito che, una volta escluso che il riscontro dell’eventuale nullità del regolamento costituisse l’oggetto di un accertamento incidentale - nel qual caso non sarebbe stata imposta la necessaria partecipazione di tutti i condomini - aveva dichiarato la nullità della sentenza di primo grado per la mancata partecipazione al giudizio di tutti i condomini.

Dopo avere affermato che il comproprietario può agire a tutela della proprietà comune al fine di fare valere l’osservanza delle distanze legali, Sez. 6-2, n. 12325/2020, Giannaccari, Rv. 658461-01, ha peraltro escluso che, in tale ipotesi, sia necessario integrare il contraddittorio nei confronti degli altri comproprietari.

Relativamente alle servitù e, in particolare, all’actio negatoria servitutis, sussiste un’ipotesi di litisconsorzio necessario allorché il fondo, nel quale sono state realizzate le opere di cui si chieda la rimozione, appartenga a più soggetti. Da ciò deriva, in fase di appello, l’inscindibilità delle cause, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., e, quindi, la necessità della partecipazione a tale fase di tutte le parti originarie, la quale deve essere verificata dal giudice del gravame preliminarmente a ogni altra pronuncia, con l’emissione di un eventuale ordine di integrazione del contraddittorio; in difetto, si determina la nullità - rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità - dell’intero processo di secondo grado e della sentenza che lo ha concluso (Sez. 6-2, n. 07040/2020, Scarpa, Rv. 657283-01).

2.4. Previdenza.

Nella materia previdenziale, Sez. L, n. 08956/2020, Cavallaro, Rv. 657651-02, a proposito, in generale, delle omissioni contributive, ha statuito che, nel giudizio promosso dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi, sussiste un litisconsorzio necessario con l’Istituto previdenziale, con la conseguenza che alla mancata evocazione in giudizio di tale ente non consegue l’inammissibilità della domanda bensì la nullità del giudizio, rilevabile in ogni stato e grado del processo, salvo il limite del giudicato, con necessità di rimessione al giudice di primo grado ai fini dell’integrazione del contraddittorio.

Allo stesso proposito, si deve menzionare anche Sez. L, n. 17320/2020, Calafiore, Rv. 658831/01, secondo cui, in caso di domanda del lavoratore avente a oggetto la condanna del datore di lavoro al pagamento in favore dell’ente previdenziale dei contributi obbligatori omessi, sussiste litisconsorzio necessario nei confronti del datore di lavoro e dell’ente, giustificato dal fatto che l’obbligo di versamento dei contributi si configura, nell’ambito del rapporto di lavoro, come un obbligo di facere del datore di lavoro in favore dell’ente previdenziale che, dando luogo a una situazione sostanziale unitaria, deve trovare riflesso processuale nella partecipazione al giudizio di tutti i soggetti nei cui confronti la decisione del giudizio stesso è idonea a produrre effetti. Va segnalata la difformità di tale principio rispetto a quanto affermato da Sez. L, n. 12213/2004, Roselli, Rv. 574085-01.

La già ricordata Sez. L, n. 08956/2020, Cavallaro, Rv. 657651-01, nonché Sez. L, n. 24924/2020, Amendola F., Rv. 659267-01, hanno chiarito che, nelle controversie promosse dai dipendenti delle aziende di credito volte a ottenere la condanna del datore di lavoro al versamento al Fondo di solidarietà per il sostegno al reddito − istituito presso l’INPS ai sensi del decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro del tesoro del bilancio e della programmazione economica, 28 aprile 2000 − dei contributi correlati alla retribuzione mensile, utili per la determinazione dell’assegno ordinario di accompagnamento, la natura obbligatoria della contribuzione e la struttura del rapporto dedotto in giudizio, che ha a oggetto un’autonoma obbligazione di diritto pubblico, impongono la partecipazione al processo dell’ente previdenziale in qualità di litisconsorte necessario.

Con riguardo al giudizio concernente l’obbligazione contributiva dell’impresa coltivatrice diretta determinata in relazione al lavoro dei familiari del titolare, Sez. L, n. 19983/2020, Buffa, Rv. 658847-01, ha asserito che, in esso, non è ravvisabile alcun litisconsorzio necessario tra il titolare e i suddetti familiari, atteso che l’obbligo contributivo nei confronti dell’istituto previdenziale grava sul titolare dell’impresa e non su coloro che lavorano nella stessa.

Relativamente alla controversia tra l’ex coniuge e il coniuge superstite per l’accertamento della ripartizione − ai sensi dell’art. 9, comma 3, della legge n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 13 della legge n. 74 del 1987 − del trattamento di reversibilità, essa deve necessariamente svolgersi in contraddittorio con l’ente erogatore in quanto, essendo il coniuge divorziato, al pari di quello superstite, titolare di un autonomo diritto di natura previdenziale, l’accertamento concerne i presupposti affinché l’ente assuma un’obbligazione autonoma, anche se nell’ambito di un’erogazione già dovuta, nei confronti di un ulteriore soggetto (Sez. L, n. 09493/2020, D’Antonio, Rv. 657674-01).

Nella controversia instaurata dal lavoratore per ottenere, per effetto dell’applicazione dei benefici combattentistici, il riconoscimento di un aumento fittizio di anzianità contributiva (normalmente di sette anni, ovvero di dieci anni nei casi di mutilati o invalidi di guerra o di vittime civili di guerra) sia al fine del compimento dell’anzianità necessaria per conseguire il diritto a pensione, sia ai fini della quantificazione della pensione stessa, il contraddittore principale è l’ente previdenziale, ma il datore di lavoro è parte necessaria del giudizio in quanto è interessato a contrastare la suddetta pretesa, essendo tenuto a versare all’ente previdenziale il “corrispettivo in valore capitale dei benefici” in argomento (Sez. L, n. 21299/2020, Cinque, Rv. 658989-01).

2.5. Successioni.

Nella materia delle successioni, Sez. 6-2, n. 15706/2020. Fortunato, Rv. 658786-01, ha statuito che: a) l’azione di riduzione non spetta collettivamente ai legittimari, ma ha carattere individuale e compete in via autonoma al singolo erede che ritenga lesa la sua quota individuale di legittima; b) l’accertamento della lesione e della sua entità non deve farsi con riferimento alla quota complessiva riservata a favore di tutti i legittimari, ma solo riguardo alla quota di coloro che abbiano proposto la domanda; c) il giudizio non assume, quindi, carattere inscindibile neppure nell’ipotesi in cui la domanda sia rivolta verso più eredi, che non assumono la qualità di litisconsorti necessari.

Dopo avere affermato che la legittimazione all’azione di accertamento dell’inefficacia di un contratto stipulato dal de cuius compete anche al legatario di una cosa determinata sul quale sovrasti il danno giuridico derivante dall’incertezza circa l’efficacia del negozio, Sez. 2, n. 23315/2020, Tedesco, Rv. 659380-02, ha altresì statuito che nel relativo giudizio, instaurato nei confronti del terzo contraente, l’erede, subentrato nel contratto stipulato dal dante causa, è litisconsorte necessario qualora, in base alla finalità del giudizio stesso, quale emerge dal petitum in concreto formulato dall’attore, non sia possibile adottare una pronuncia idonea a produrre gli effetti giuridici voluti senza la sua partecipazione. Nella specie il legatario aveva chiesto che fosse dichiarata la definitiva inefficacia, per mancato avveramento della condizione sospensiva, del contratto con il quale il de cuius aveva costituito un diritto di superficie sul complesso immobiliare poi oggetto di legato, convenendo in giudizio il terzo contraente ma non anche l’erede subentrato nella situazione di pendenza.

A proposito dei crediti del de cuius, Sez. 3, n. 08508/2020, Scarano, Rv. 657808-01, in continuità con, da ultimo, Sez. 6-2, n. 27417/2020, Criscuolo, Rv. 646949-01, ha ribadito che ciascun coerede può domandare il pagamento del credito ereditario in misura integrale o proporzionale alla quota di sua spettanza senza che il debitore possa opporsi adducendo il mancato consenso degli altri coeredi, i quali non sono neppure litisconsorti necessari nel conseguente giudizio di adempimento poiché i contrasti sorti tra gli stessi devono trovare soluzione nell’ambito dell’eventuale e distinta procedura di divisione.

Secondo Sez. 2, n. 05520/2020, Bellini, Rv. 657119, l’esecutore testamentario, mentre è titolare iure proprio delle azioni, relative all’esercizio del suo ufficio, che trovano il loro fondamento e il loro presupposto sostanziale nel suo incarico di custode e di detentore dei beni ereditari ovvero nella gestione, con o senza amministrazione, della massa ereditaria, è soltanto legittimato processuale, a norma dell’art. 704 c.c., per quanto riguarda le azioni relative all’eredità e, cioè, a diritti e obblighi che egli non acquista o assume per sé, in quanto ricadenti direttamente nel patrimonio ereditario, pur agendo in nome proprio. In quest’ultima ipotesi, in cui non è investito della legale rappresentanza degli eredi del de cuius, ma agisce in nome proprio, l’esecutore testamentario assume la figura di sostituto processuale, in quanto resiste a tutela di un diritto di cui sono titolari gli eredi, ma la sua chiamata in giudizio è necessaria a integrare il contraddittorio.

2.6. Contratti.

In tema di cessione dei crediti, Sez. 3, n. 11287/2020, Rossetti, Rv. 658155-01, ha affermato che il cedente è litisconsorte necessario nella controversia tra debitore ceduto e cessionario allorché il debitore chieda una pronuncia diretta a stabilire quale sia, tra il cessionario e il cedente, l’effettivo e unico titolare del credito. Da ciò anche la conseguenza che, ove il cedente sia dichiarato fallito e la curatela contesti l’opponibilità al fallimento dell’intervenuta cessione o, in subordine, deduca la revocabilità della stessa, la controversia de qua rientra nella vis attractiva del tribunale fallimentare, funzionalmente competente ai sensi dell’art. 24 della legge fallimentare.

In tema di leasing finanziario, Sez. 3, n. 09663/2020, Olivieri, Rv. 657845-01, ha statuito che l’azione diretta dell’utilizzatore nei confronti del fornitore per l’accertamento della responsabilità per inadempimento di questi e dell’entità del risarcimento del danno subito derivatogli dall’inutilizzo del bene ricevuto prescinde dalla partecipazione al processo del concedente, rispetto al quale, anche se evocato in giudizio, non si determina alcuna necessità di integrazione del litisconsorzio, essendo l’utilizzatore terzo rispetto al contratto intercorso tra fornitore e concedente e non potendo, quindi, egli esercitare l’azione di annullamento per vizi del consenso e di risoluzione per inadempimento di quel contratto, salvi gli effetti di specifica clausola contrattuale inserita nel medesimo contratto, con la quale il concedente gli abbia trasferito la propria posizione sostanziale con obbligo del fornitore di adempiere direttamente in favore dell’utilizzatore.

Con riguardo al giudizio volto a ottenere la declaratoria di nullità del contratto di compravendita di un immobile per illiceità della causa, in quanto stipulato a titolo di corrispettivo di un prestito usurario, Sez. 2, n. 00886/2020, Fortunato, Rv. 656839-01, ha affermato che non è configurabile un’ipotesi di litisconsorzio necessario nei confronti dell’amministratore della società acquirente ritenuto responsabile del delitto di usura per essersi fatto dare o promettere interessi illeciti e per aver procurato l’acquisto dell’immobile in corrispettivo del detto prestito, giacché questi ha contratto nell’esercizio dei poteri gestori e in nome e per conto della società, unica parte sostanziale del negozio di vendita. Tale principio è stato enunciato dalla Corte in una fattispecie in cui era stata dichiarata la nullità di un contratto di vendita immobiliare stipulato in attuazione di un prestito usurario, dopo che il socio e amministratore della società acquirente era stato condannato per il reato di usura, per essersi fatto promettere interessi illeciti dai soci della venditrice, ottenendo, al momento della dazione del denaro, la sottoscrizione di contratti preliminari.

Con riguardo all’azione di annullamento del contratto concluso da persona poi deceduta, Sez. 2, n. 19807/2020, Cosentino, Rv. 659135-01, ha statuito che l’esercizio di tale azione di annullamento del contratto, in particolare, per incapacità di intendere e di volere di uno dei contraenti, che sia successivamente deceduto, sebbene possa compiersi da parte di uno solo dei coeredi, anche in contrasto con gli altri, implica comunque il litisconsorzio necessario di tutti, atteso che, come la sentenza di annullamento deve investire l’atto negoziale non limitatamente a un soggetto, ma nella sua interezza, posto che esso non può essere contemporaneamente valido per un soggetto e invalido per un altro, così anche l’eventuale restituzione non può avvenire pro quota.

2.7. In particolare, assicurazioni contro i danni.

Con riguardo all’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile da circolazione dei veicoli a motore, Sez. 3, n. 07755, Dell’Utri, Rv. 657502-01, ha asserito che nella procedura di risarcimento diretto di cui all’art. 149 del d.lgs. n. 209 del 2005, promossa dal danneggiato nei confronti del proprio assicuratore, sussiste litisconsorzio necessario rispetto al danneggiante responsabile, analogamente a quanto previsto dall’art. 144, comma 3, dello stesso decreto, sicché, ove il proprietario del veicolo assicurato non sia stato citato in giudizio, il contraddittorio deve essere integrato ai sensi dell’art. 102 c.p.c. e la relativa omissione, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, comporta l’annullamento della sentenza ai sensi dell’art. 383, comma 3, c.p.c.

2.8. Azione revocatoria.

In tema di azione revocatoria, Sez. 6-3, n. 09648/2020, Cigna, Rv. 657742-01, e Sez. 3, n. 12887/2020, Olivieri, Rv. 658020-01, hanno chiarito che, poiché l’estensione del litisconsorzio necessario è proiezione degli elementi costitutivi della fattispecie, nell’azione revocatoria ordinaria avente per oggetto l’atto di dotazione patrimoniale del trust, il trustee è sempre litisconsorte necessario, in quanto titolare dei diritti conferiti nel patrimonio vincolato e unica persona di riferimento nei rapporti con i terzi, non già quale legale rappresentante, bensì come soggetto che dispone del diritto, sia pure in funzione della realizzazione del programma stabilito nell’atto istitutivo dal disponente a vantaggio dei beneficiari.

2.9. Espropriazione forzata e opposizioni all’esecuzione.

Nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi, secondo Sez. 3, n. 03899/2020, Tatangelo, Rv. 656901-01, il terzo pignorato, avendo l’obbligo di non compiere atti che determinino l’estinzione o il trasferimento del credito, è interessato alle vicende processuali che, riguardando la legittimità o la validità del pignoramento, possano comportare, o no, la sua liberazione dal relativo vincolo. Da ciò consegue che egli è parte necessaria del processo di opposizione in cui il creditore pignorante contesti l’ordinanza del giudice dell’esecuzione dichiarativa dell’inefficacia del detto pignoramento e che, pertanto, deve essere chiamato in causa dal ricorrente al fine di rendere opponibile nei suoi confronti la decisione che definisce il giudizio, dovendo il giudice, in mancanza, ordinare l’integrazione del contraddittorio. In applicazione di questo principio, la Corte ha rilevato, d’ufficio, la nullità di un giudizio di opposizione promosso ai, sensi dell’art. 617 c.p.c., avverso un provvedimento del giudice dell’esecuzione, concernente una richiesta di sequestro conservativo su crediti del debitore esecutato, nel quale non era stato convenuto il terzo pignorato.

Sullo stesso tema, Sez. 3, n. 10813/2020, Porreca, Rv. 657920-01, secondo cui il terzo pignorato non è parte necessaria nel giudizio di opposizione all’esecuzione o in quello di opposizione agli atti esecutivi, qualora non sia interessato alle vicende processuali, relative alla legittimità e alla validità del pignoramento, dalle quali dipende la liberazione dal relativo vincolo, potendo assumere, invece, tale qualità solo quando abbia un interesse all’accertamento dell’estinzione del suo debito per non essere costretto a pagare di nuovo al creditore del suo debitore. In applicazione di questo principio, la Corte ha cassato con rinvio una sentenza per omessa integrazione del litisconsorzio necessario con il terzo INPS nell’ambito di un giudizio di opposizione, ai sensi dell’art. 617 c.p.c., a ordinanza di assegnazione per crediti di mantenimento di un figlio minorenne, ritenendo che sussistesse un interesse del medesimo terzo all’accertamento della misura dell’assegnazione e, quindi, della modifica coattiva della titolarità attiva del rapporto obbligatorio.

2.10. Contenzioso elettorale.

In tema di contenzioso elettorale, Sez. 1, n. 21582/2020, Acierno, Rv. 659273-01, ha chiarito che non sussiste litisconsorzio necessario tra il candidato alla carica di sindaco e gli altri candidati della lista in quanto l’azione popolare elettorale ha a oggetto la condizione personale del candidato eletto, incidendo sul suo diritto soggettivo all’elettorato passivo e sul diritto all’elettorato attivo dell’attore, mentre non rileva che altri consiglieri eletti possano eventualmente subire effetti, riflessi e indiretti, dalla decisione da adottare.

2.11. Espropriazione per pubblico interesse.

In materia di espropriazioni per pubblica utilità, Sez. 1, n. 01090/2020, Parise, Rv. 656620-01, ha statuito che l’art. 54, comma 3, del d.P.R. n. 327 del 2001 - nel testo vigente prima della modifica introdotta dal d.lgs. n. 150 del 2011 -, nel disporre che la notifica dell’opposizione alla stima sia fatta “se del caso” anche al beneficiario, prevede un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra espropriante, promotore e beneficiario dell’espropriazione. Di quest’ultimo s’impone l’evocazione in giudizio ogni qualvolta si tratti di soggetto differente dai primi due, in quanto non si può rimettere a un’inammissibile valutazione dell’espropriato l’interesse a citarlo, posto che ciò sarebbe in contrasto con la finalità semplificativa e deflattiva del contenzioso propria della normativa vigente.

2.12. Successione nel processo.

Tra le ipotesi di litisconsorzio necessario (processuale) vi è quella che si determina in seguito alla successione nel processo, ai sensi dell’art. 110 c.p.c., di una pluralità di eredi.

Va peraltro segnalata, in questa sede, Sez. T, n. 16362/2020, Putaturo Donati Viscido Di Nocera, Rv. 658435-01, che, con riguardo alla peculiare successione nel processo (qui, in particolare, tributario) dei soci della società, di persone o di capitali, che si sia estinta in conseguenza della cancellazione dal registro delle imprese, ha chiarito che tale estinzione determina un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono - venendo altrimenti sacrificato ingiustamente il diritto dei creditori sociali - ma si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti pendente societate, con la conseguenza che i soci peculiari successori della società subentrano ex art. 110 c.p.c. nella legittimazione processuale facente capo all’ente, in situazione di litisconsorzio necessario per ragioni processuali, ovvero a prescindere dalla scindibilità o no del rapporto sostanziale, dovendo invece escludersi la legittimazione ad causam del liquidatore della società estinta (nella specie, destinatario di una cartella di pagamento quale coobbligato ai sensi dell’art. 2495, comma 2, del previgente art. 2456, comma 2, c.c.), il quale può essere destinatario di un’autonoma azione risarcitoria ma non della pretesa attinente al debito sociale.

3. Difetto del contraddittorio: rilevabilità e sanzione, integrazione.

Ribadendo un principio che era già stato affermato da Sez. 2, n. 25810/2013, Proto, Rv. 628300-01, Sez. L, n. 05679/2020, Bellé, Rv. 657513-01, e Sez. 2, n. 17589/2020, Abete, Rv. 658899-01, hanno confermato che la parte che deduce la non integrità del contraddittorio ha l’onere di indicare i litisconsorti pretermessi e di dimostrare i motivi per i quali è necessaria l’integrazione, senza, peraltro, che sia impedito al giudice di rilevare d’ufficio la questione, sia pure a seguito di sollecitazione di parte. In particolare, nella fattispecie oggetto della prima di tali due pronunce, la Corte ha confermato la sentenza di merito che, a fronte della domanda volta al riconoscimento del punteggio per lo svolgimento del servizio civile, nell’ambito delle graduatorie a esaurimento, aveva rigettato l’eccezione di non integrità del contraddittorio in quanto non accompagnata dall’indicazione dei controinteressati nei cui confronti avrebbe potuto spiegare effetto l’attribuzione al ricorrente del punteggio invocato.

In continuità con il precedente di Sez. 6-3, n. 06444/2018, Tatangelo, Rv. 648481-01, Sez. 6-5, n. 03973/20, La Torre, Rv. 656992-01, ha ribadito che, quando risulta integrata la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, non rilevata né dal giudice di primo grado, che non ha disposto l’integrazione del contraddittorio, né da quello di appello, che non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354, comma 1, c.p.c., resta viziato l’intero processo e si impone, in sede di giudizio di cassazione, l’annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse e il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, comma 3, c.p.c.

4. Svolgimento del processo litisconsortile.

A proposito dell’applicazione della disciplina della litispendenza alle cause a litisconsorzio necessario, Sez. T, n. 24226/2020, Fraulini, Rv. 659487-01, ha chiarito che in tali cause sussiste litispendenza − con conseguente eliminazione del giudizio successivamente proposto secondo il criterio della prevenzione − anche quando la prima domanda sia stata avanzata nei confronti di alcuni soltanto dei contraddittori necessari e quella successiva nei confronti di altri o di tutti, attesa la finalità, perseguita con la modifica dell’art. 39, comma 1, c.p.c., intervenuta con l’art. 45, comma 3, della legge n. 69 del 2009, di evitare l’inutile duplicità di giudizi e il rischio che un medesimo rapporto sia regolato da statuti confliggenti. Nella specie, la Corte ha in particolare ritenuto che i giudici di merito avessero correttamente dichiarato la litispendenza nell’ambito del giudizio proposto dai soci di una società in accomandita semplice avverso l’avviso di accertamento del maggior reddito, in quanto successivo a quello instaurato dalla società avverso il medesimo atto.

5. Litisconsorzio necessario in fase di gravame.

Da segnalare, anzitutto, Sez. U, n. 22769/2020, Perrino, Rv. 659612-01, che, in tema di elezioni degli avvocati quali componenti del consiglio dell’ordine, ha chiarito che, ove sia stata rigettata dal Consiglio nazionale forense la domanda del primo non eletto avente a oggetto l’annullamento della proclamazione dell’elezione di uno o più candidati ineleggibili e la conseguente declaratoria del diritto del reclamante a subentrare nella carica, la mancata notifica del ricorso per cassazione agli altri componenti eletti, intervenuti in primo grado, non determina violazione del principio del litisconsorzio necessario e non impone di integrare il contraddittorio nei loro confronti, in quanto l’ineleggibilità individuale comporta la sola invalidità originaria dell’elezione del soggetto ineleggibile ma non incide sul risultato complessivo della tornata elettorale, che resta valido ed efficace, così come i voti validamente espressi in favore degli iscritti eleggibili, con la conseguenza che la loro chiamata in causa si tradurrebbe in un’attività ininfluente sull’esito del giudizio, in mancanza, in concreto, della necessità di garantirne la partecipazione al processo e l’esercizio del diritto di difesa.

In materia di opposizioni esecutive e controversie distributive, Sez. 3, n. 11268/2020, D’Arrigo, Rv. 658143-01, ha chiarito che il ricorso per cassazione deve essere proposto nei confronti di tutti i creditori procedenti o intervenuti al momento della proposizione dell’opposizione, fra i quali sussiste litisconsorzio processuale necessario, sicché il ricorso medesimo deve contenere, a pena di inammissibilità ex art. 366, comma 1, n. 3), c.p.c., l’esatta indicazione dei litisconsorti necessari, al fine di consentire la verifica dell’integrità del contraddittorio ed eventualmente ordinarne l’integrazione ai sensi dell’art. 331 c.p.c.

Con riguardo all’intervento nel giudizio di divisione dei creditori e degli aventi causa da un partecipante, Sez. 6-2, n. 15994/2020, Scarpa, Rv. 658787-01, ha precisato che i creditori iscritti e coloro che hanno acquistato diritti sull’immobile in virtù di atti trascritti hanno diritto a intervenire nella divisione, ex art. 1113, comma 1, c.c., ma non ne sono parti necessarie, assumendo la posizione di litisconsorti, con la conseguente necessità d’integrazione del contraddittorio nel giudizio di appello, ex art. 331 c.p.c., soltanto con l’effettivo intervento in causa, anche a seguito di chiamata in giudizio, ex art. 1113, comma 3, c.c. (la quale costituisce un onere per i comunisti, sui quali grava l’obbligo di salvaguardare il diritto d’intervento dei creditori iscritti e dei cessionari opponenti o trascriventi).

Per la necessità dell’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c. nel caso di actio negatoria servitutis quando il fondo, nel quale siano state realizzate le opere di cui si chieda la rimozione, appartenga a più soggetti, Sez. 6-2, n. 07040/2020, Scarpa, Rv. 657283-01, della quale si è peraltro già dato conto al punto 2.3.

Sez. 6-3, n. 10596/2020, Dell’Utri, Rv. 657995-01, ha affermato che l’ipotesi di solidarietà attiva e passiva tra più soggetti agenti o convenuti nel giudizio di risarcimento del danno non comporta inscindibilità delle cause in fase di impugnazione e non dà luogo all’applicazione dell’art. 331 c.p.c. in quanto ogni danneggiato, come può agire separatamente dagli altri danneggiati e nei confronti di ciascuno dei danneggianti per ottenere l’integrale risarcimento, così può proseguire il giudizio senza gli ulteriori danneggiati o contro uno solo dei danneggianti, omettendo di proporre impugnazione con riguardo agli altri, con l’effetto di scindere il rapporto processuale.

Da segnalare anche Sez. L, n. 22984/2020, Bellé, Rv. 659058-01, che, pronunciando con riguardo alle condizioni in presenza delle quali l’eccezione di prescrizione sollevata da un coobbligato solidale ha effetto estintivo nei confronti dell’altro coobbligato, ha statuito che l’eccezione in senso stretto − quale è quella di prescrizione − sollevata da uno dei coobbligati non giova anche agli altri, ancorché chiamati nel medesimo processo, a meno che le cause riguardanti gli obblighi solidali, intentate unitariamente nei confronti dei coobbligati, siano tra loro ulteriormente connesse, come accade nell’ipotesi di riproposizione in sede di impugnazione di temi comuni ai predetti coobbligati o quando siano state instaurate azioni di regresso o manleva tra i convenuti, nel qual caso nella fase di impugnazione sussiste un litisconsorzio necessario cd. processuale e sorge la necessità di un’unitaria pronuncia nei confronti di tutte le parti in causa. Nella fattispecie da cui la pronuncia ha tratto origine, il dipendente di un’università distaccato presso un’azienda ospedaliera aveva convenuto nello stesso giudizio entrambi gli enti, chiedendone la condanna solidale al pagamento dell’indennità perequativa prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 761 del 1979; la Corte ha negato che la domanda di manleva dell’università fosse stata ritualmente proposta e ha dunque escluso che l’università stessa potesse beneficiare degli effetti dell’eccezione di prescrizione sollevata dall’azienda.

Quanto al caso, poi, di mancata partecipazione di un litisconsorte necessario in sede di reclamo cautelare, non rilevata dal giudice di primo grado, che non ha disposto l’integrazione del contraddittorio, Sez. 6-2, n. 20020/2020, Oliva, Rv. 659227-01, ha chiarito che esso non costituisce una delle ipotesi tassative previste dall’art. 354, comma 1, c.p.c. per le quali resta viziato l’intero processo e si impone, in sede di appello, l’annullamento, anche d’ufficio, della pronuncia emessa e il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, comma 3, c.p.c., trattandosi di un procedimento inidoneo ad incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale e ininfluente nel successivo giudizio di merito.

Con riguardo a cause inscindibili, secondo Sez. 3, n. 03318, Guizzi, Rv. 656893-01, qualora il ricorso per cassazione non sia stato proposto nei confronti di tutte le parti e la Corte abbia assegnato un termine per l’integrazione del contraddittorio, un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 331 c.p.c. esclude che possa farsi ricadere sul ricorrente, che abbia tempestivamente avviato il procedimento di notificazione, l’esito negativo del medesimo dovuto a circostanze indipendenti dalla sua volontà e non prevedibili. Tuttavia, questo principio deve essere applicato tenendo conto che il termine per l’integrazione del contraddittorio non viene concesso soltanto per iniziare il procedimento, ma anche per svolgere le indagini anagrafiche che siano prevedibilmente necessarie, ed è peraltro stabilito allo scopo di permettere alla parte di rimediare a un errore nel quale è incorsa all’atto della notificazione del ricorso.

Nel caso in cui il convenuto chiami in giudizio un terzo, esperendo nei suoi confronti una domanda di garanzia impropria, deve escludersi in appello l’inscindibilità delle cause ai fini dell’integrazione del contraddittorio nelle fasi di impugnazione allorché il chiamato non abbia contestato la fondatezza della domanda proposta contro il proprio chiamante e l’attore non abbia presentato domande verso il chiamato (Sez. 6-3, n. 21366/2020, Dell’Utri, Rv. 659563).

5.1. Ipotesi normativamente regolate di litisconsorzio necessario nei giudizi di impugnazione.

A proposito del giudizio di opposizione al decreto di pagamento emesso a favore del custode di beni sequestrati nell’ambito del procedimento penale, ai sensi dell’art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002, Sez. 6-2, n. 11795/2020, Besso Marcheis, Rv. 658449-01, ha affermato che sono contraddittori necessari, oltre al beneficiario, le parti processuali e, tra esse, in particolare, i soggetti a carico dei quali è posto l’obbligo di corrispondere detto compenso. Da ciò la conseguenza che l’omessa notificazione del ricorso e del decreto di comparizione delle parti a uno dei soggetti obbligati al pagamento, ove manchi la partecipazione di costui al procedimento, determina non l’inammissibilità del ricorso, dato che il suo deposito realizza la editio actionis necessaria all’incardinamento della seconda fase processuale, ma la nullità del successivo procedimento e della relativa decisione, in ragione della mancanza di integrità del contraddittorio, con conseguente cassazione della decisione stessa e rinvio della causa al giudice a quo.

6. Conseguenze del difetto di integrità del contraddittorio in sede di gravame.

Quando risulta integrata la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, non rilevata né dal giudice di primo grado, che non ha disposto l’integrazione del contraddittorio, né da quello di appello, che non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354, comma 1, c.p.c., resta viziato l’intero processo e s’impone, in sede di giudizio di cassazione, l’annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse e il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, comma 3, c.p.c. (Sez. 2, n. 23315/2020, Tedesco, Rv. 659380-01, già menzionata al punto 2.5).

Allo stesso proposito, con riguardo, in particolare, alle conseguenze della mancata evocazione dell’Istituto previdenziale nel giudizio promosso dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi, Sez. L, n. 08956/2020, Cavallaro, Rv. 657651-02, già menzionata al punto 2.4.

Sez. 1, n. 02966/2020, Scalia, Rv. 656996-01, premesso che, in materia di litisconsorzio processuale cd. necessario, l’interesse tutelato che la parte può fare valere rispetto al terzo che abbia partecipato al giudizio di primo grado su ordine del giudice, ma non sia stato chiamato in appello a integrare il contraddittorio, è quello a ottenere una pronuncia di merito e non una sentenza di mero rito, ha affermato che, di conseguenza, la cassazione della sentenza d’appello è ammessa solo se nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole rispetto a quella impugnata. La Corte ha perciò escluso che potesse essere dedotta in Cassazione, quale error in procedendo, la mancata integrazione del contraddittorio a opera del giudice di appello essendo intervenuto il fallimento del terzo chiamato in causa che rendeva la domanda proposta nei suoi confronti comunque improcedibile.

7. Litisconsorzio necessario (processuale) nel giudizio di rinvio.

Va qui ricordata Sez. 6-2, n. 00975/2020, Scarpa, Rv. 657245-02, secondo cui, in conseguenza della cassazione con rinvio, tra il giudizio rescindente e quello rescissorio deve esservi perfetta correlazione quanto al rapporto processuale, che non può costituirsi davanti al giudice di rinvio senza la partecipazione di tutti i soggetti nei cui confronti è stata emessa la pronuncia rescindente e quella cassata; la citazione in riassunzione davanti a detto giudice si configura, infatti, come atto di impulso processuale, in forza del quale la controversia dà luogo a un litisconsorzio necessario fra coloro che furono parti nel processo di cassazione, senza che abbia rilievo alcuno la natura inscindibile o scindibile della causa, né l’ammissibilità di una prosecuzione solo parziale del giudizio in sede di rinvio.

8. Litisconsorzio facoltativo.

In linea di principio, tra le ipotesi di litisconsorzio facoltativo vi è quella delle obbligazioni solidali.

Ne è un esempio la responsabilità degli amministratori di società, ipotesi scrutinata da Sez. 1, n. 21497/2020, Iofrida, Rv. 659419-01, la quale ha affermato che, in tale fattispecie, ove la relativa azione venga proposta nei confronti di una pluralità di soggetti, in ragione della comune partecipazione degli stessi, anche in via di mero fatto, alla gestione amministrativa e contabile, tra i convenuti non si determina una situazione di litisconsorzio necessario, attesa, appunto, la natura solidale dell’obbligazione dedotta in giudizio che, dando luogo ad una pluralità di rapporti distinti, anche se collegati tra loro, esclude l’inscindibilità delle posizioni processuali, consentendo quindi di agire separatamente nei confronti di ciascuno degli amministratori.

Secondo Sez. 3, n. 04684/2020, Olivieri, Rv. 656912-02, in tema di litisconsorzio facoltativo, quale quello che si determina nel giudizio promosso verso più coobbligati solidali, verificatasi una causa di interruzione nei confronti di uno di essi, ove il giudice non si avvalga del potere di disporre la separazione delle cause ex art. 103 c.p.c., la mancata riassunzione della lite nel termine fissato dall’art. 305 c.p.c. non impedisce l’ulteriore prosecuzione del processo relativamente ai litisconsorti non colpiti dall’evento interruttivo.

In senso conforme a tale pronuncia, Sez. 3, n. 08123/2020, Fiecconi, Rv. 657575-01, secondo cui, nel caso di cumulo di cause scindibili, l’evento interruttivo relativo a una delle parti (nella specie, l’apertura del fallimento, ex art. 43, comma 3, della legge fallimentare) non spiega effetti nei confronti delle altre, le quali, pertanto, anche laddove il giudice non disponga la separazione delle cause, non sono tenute a riassumere il processo. Di conseguenza, qualora la riassunzione non sia stata tempestivamente effettuata nell’interesse della parte colpita dal suddetto evento, l’estinzione si verifica nei soli confronti di quest’ultima, continuando il processo nei confronti degli altri litisconsorti. Nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza d’appello che − confermando la decisione di primo grado in una causa di opposizione a decreto ingiuntivo instaurata con un unitario atto di citazione dal debitore principale e da due fideiussori, i quali avevano dedotto altresì la mancata sottoscrizione delle fideiussioni − aveva ritenuto che il fallimento del soggetto garantito spiegasse effetto interruttivo sull’intero processo, con conseguente estinzione dello stesso a seguito della mancata tempestiva riassunzione da parte dei condebitori solidali.

Da segnalare, Sez. U, n. 23903/2020, Scarpa, Rv. 659289-02, che, in tema di danno erariale, ha statuito che l’azione esercitata contro più soggetti solidalmente responsabili inserisce in un unico giudizio più cause scindibili e indipendenti. Da ciò consegue che, proposto ricorso per cassazione da uno dei condebitori solidali, gli altri, per i quali sia ormai decorso il relativo temine, non possono giovarsi dell’impugnazione incidentale tardiva, ai sensi dell’art. 334 c.p.c., giacché le forme e i termini stabiliti da questa norma operano esclusivamente per l’impugnazione incidentale in senso stretto, ossia per quella proveniente dalla parte “contro” la quale è stata proposta l’impugnazione principale o per quella chiamata a integrare il contraddittorio a norma dell’art. 331 c.p.c.

Con riguardo (anche) a quest’ultimo aspetto, Sez. L, n. 12444/2020, Bellé, Rv. 658102-01, ha affermato che, in tema di impiego pubblico privatizzato, le controversie sul rapporto di lavoro che coinvolgano questioni destinate ad avere effetto sull’inquadramento previdenziale individuano, qualora introdotte contestualmente nei riguardi del datore di lavoro e dell’ente di previdenza presso il quale si assume debbano avvenire i versamenti contributivi, una causa inscindibile in sede di impugnazione. Di conseguenza, il lavoratore che riceva l’impugnazione proposta dall’ente di previdenza è legittimato a proporre impugnazione incidentale tardiva, ai sensi dell’art. 334 c.p.c., anche nei confronti di parte diversa dall’impugnante principale e quindi del datore di lavoro, con riferimento alle ragioni sostanziali comuni al rapporto di lavoro e a quello previdenziale.

A proposito dei giudizi di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo, Sez. 6-2, n. 07031/2020, Abete, Rv. 657280-01, ha chiarito che l’obbligazione al relativo indennizzo insorge autonomamente per ciascuna parte del giudizio “presupposto”, con la conseguenza che nel giudizio di equa riparazione non si dà eventualmente luogo a litisconsorzio necessario, bensì a litisconsorzio facoltativo.

Con riguardo alla domanda proposta da più lavoratori nei confronti dello stesso datore di lavoro, Sez. L, n. 24928/2020, Cavallaro, Rv. 659268-01, ha affermato che essa dà luogo a un litisconsorzio facoltativo improprio, nel quale permane l’autonomia dei titoli e che la sentenza, formalmente unica, consta in realtà di tante pronunce quante sono le cause riunite, per loro natura scindibili, con la conseguenza che l’impugnazione proposta solo da alcune delle parti non coinvolge la posizione delle parti non impugnanti e rende inapplicabile l’art. 331 c.p.c.

Il diritto che, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.c., il terzo può far valere in un giudizio pendente tra altre parti, secondo Sez. 3, n. 11085/2020, Cirillo, Rv. 658095-01, deve essere relativo all’oggetto sostanziale dell’originaria controversia, da individuare con riferimento al petitum e alla causa petendi, ovvero dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo a fondamento della domanda giudiziale originaria, restando irrilevante la mera identità di alcune questioni di diritto, la quale, configurando una connessione impropria, non consente l’intervento del terzo nel processo, ferma restando la facoltà del giudice di merito, in caso di bisogno, di disporre la separazione successivamente all’intervento, allo scopo di evitare cause congestionate dal numero eccessivo delle parti. Nella specie, la Corte ha cassato la sentenza che aveva dichiarato inammissibile l’intervento nonostante la dipendenza del diritto fatto valere dagli interventori dal titolo dedotto dagli attori, rappresentato dall’inadempimento dello Stato alle direttive in materia di trattamento economico dei medici specializzandi, comportamento riferibile, nella sua efficacia lesiva, in via immediata a ciascuno dei detti medici; la Corte ha anche precisato che tale dipendenza si ricollegava alla parziale coincidenza della causa petendi delle domande risarcitorie avanzate.

Con riguardo all’impugnazione di decisione riguardante una pluralità di rapporti giuridici distinti e autonomi, Sez. 6-3, n. 00804/2020, Porreca, Rv. 656588-01, ha statuito che, ove il gravame sia proposto nei confronti di alcune soltanto delle parti, l’omessa esecuzione, nel termine perentorio assegnato, dell’ordine del giudice ex art. 332 c.p.c. di eseguire la notificazione nei confronti delle altre determina, venendo in rilievo un litisconsorzio facoltativo in cause scindibili, l’estinzione del processo limitatamente ai soggetti destinatari del rinnovo della notifica, non potendo il detto ordine avere riflesso sugli altri. Nella specie, la Corte, in una controversia nella quale ricorreva un cumulo soggettivo di domande risarcitorie correlate a un unico fatto storico, ma a contratti di trasporto distinti, ha ritenuto che sussistesse un litisconsorzio facoltativo in cause inscindibili, con la conseguenza che l’estinzione del giudizio di secondo grado per tardiva esecuzione dell’ordine del giudice di rinnovazione della notificazione dell’atto di appello a una delle parti poteva essere dichiarata solo rispetto alla destinataria.

  • testimonianza
  • prova

CAPITOLO X

LE PROVE

(di Andrea Penta )

Sommario

1 La consulenza tecnica d’ufficio. - 1.1 Il mancato esame delle risultanze della c.t.u. - 1.2 Le operazioni peritali e i poteri del c.t.u. - 2 L’ordine di esibizione. - 3 Il disconoscimento di scritture private. - 3.1 Il disconoscimento delle copie fotostatiche o fotografiche. - 3.2 Il procedimento di verificazione. - 4 La querela di falso. - 4.1 Gli aspetti processuali. - 4.2 I mezzi di prova utilizzabili. - 5 Il giuramento. - 6 La prova testimoniale. - 6.1 L’incapacità a testimoniare. - 6.2 L’assunzione della prova testimoniale. - 6.3 La testimonianza de relato. - 6.4 Le presunzioni.

1. La consulenza tecnica d’ufficio.

In termini generali, Sez. 6 - 1, n. 00326/2020, Caiazzo, Rv. 656801 - 01, ha ribadito (n. 15219 del 2007 Rv. 598312 - 01; Sez. 5, n. 25253/2019, D’Oriano, Rv. 655530 - 01) che la consulenza tecnica d’ufficio è mezzo istruttorio diverso dalla prova vera e propria, sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario e potendo la motivazione dell’eventuale diniego del giudice di ammissione del mezzo essere anche implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato.

Rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito anche la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative, di sentire a chiarimenti il consulente sulla relazione già depositata ovvero di rinnovare, in parte o in toto, le indagini, sostituendo l’ausiliare del giudice.

Dal canto suo, Sez. 6 - 3, n. 13736/2020, Guizzi, Rv. 658504 - 01, ha confermato (n. 01190 del 2015 Rv. 633974 - 01) che, in tema di risarcimento del danno, è possibile assegnare alla consulenza tecnica d’ufficio ed alle correlate indagini peritali funzione “percipiente” quando essa verta su elementi già allegati dalla parte, ma che soltanto un tecnico sia in grado di accertare per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone (nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso che censurava la sentenza impugnata per non avere quantificato il danno emergente rappresentato dalla necessità di cure odontoiatriche, atteso che la parte attrice non aveva depositato documenti che consentissero di determinare detto danno).

1.1. Il mancato esame delle risultanze della c.t.u.

L’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012 (per un esame più approfondito sul tema, si rinvia al cap. XIV), introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui ambito non è inquadrabile la consulenza tecnica d’ufficio - atto processuale che svolge, come visto, funzione di ausilio del giudice nella valutazione dei fatti e degli elementi acquisiti (consulenza c.d. deducente) ovvero, in determinati casi (come in ambito di responsabilità sanitaria), fonte di prova per l’accertamento dei fatti (consulenza c.d. percipiente) - in quanto essa costituisce mero elemento istruttorio da cui è possibile trarre il “fatto storico”, rilevato e/o accertato dal consulente. In quest’ottica, Sez. 6 - 3, n. 12387/2020, Vincenti, Rv. 658062 - 01, allineandosi a n. 18391 del 2017, Rv. 657999 - 01, ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso, in quanto la ricorrente non aveva evidenziato quale “fatto storico” decisivo fosse stato omesso nell’esame condotto dai giudici di merito, limitandosi a denunciare una omessa valutazione delle risultanze della c.t.u. Tuttavia, di diverso avviso è Sez. 6 - 3, n. 18598/2020, Scrima, Rv. 659088 - 01, secondo cui il mancato esame delle risultanze della c.t.u. integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., risolvendosi nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Quest’ultimo indirizzo sembra, allo stato, prevalente (n. 13770 del 2018, Rv. 649151 - 01; n. 13922 del 2016, Rv. 640530 - 01; n. 13399 del 2018, Rv. 649039 - 01).

1.2. Le operazioni peritali e i poteri del c.t.u.

Ai sensi degli artt. 194, comma 2, c.p.c. e 90, comma 1, disp. att. c.p.c., ha ribadito (conf. n. 14532 del 2016 Rv. 640486 - 01) Sez. 2, n. 03047/2020, Besso Marcheis, Rv. 657096 - 01, alle parti va data comunicazione del giorno, ora e luogo di inizio delle operazioni peritali, senza che l’omissione (anche di una) di simili comunicazioni sia, di per sé, ragione di nullità della consulenza stessa, che si realizza soltanto quando, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, ne sia derivato un pregiudizio del diritto di difesa per non essere state le parti poste in grado di intervenire alle operazioni, pregiudizio che non ricorre ove risulti che le parti, con avviso anche verbale o in qualsiasi altro modo, siano state egualmente in grado di assistere all’indagine o di esplicare in essa le attività ritenute convenienti.

Fermo restando che l’obbligo di comunicazione di tal fatta riguarda sia l’inizio delle operazioni dell’ausiliario, sia la relativa prosecuzione, la nullità della consulenza conseguente al suo inadempimento, se tempestivamente eccepita, non è sanata dalla mera possibilità di riscontro e verifica “a posteriori” dell’elaborato del consulente. Il principio, enunciato da Cassazione civile, sez. III, ordinanza 18 novembre 2020, n. 26304, non massimata, si pone in consapevole contrasto con quanto statuito da Sez. 2, n. 03893/2017, Federico, Rv. 643039 - 01, a mente della quale la validità di una consulenza tecnica d’ufficio non è inficiata dalla eventuale nullità, per violazione del principio del contraddittorio conseguente alla omessa convocazione alle operazioni peritali di una delle parti, di alcuni accertamenti o rilevazioni compiuti dal consulente, salvo che si dimostri che ciò abbia inciso in concreto sul suo atto conclusivo, ossia sulla relazione di consulenza.

Collocandosi in linea di discontinuità con un precedente indirizzo (n. 19427 del 2017, Rv. 645178 - 03; n. 20829 del 2018, Rv. 650420 - 01; n. 3330 del 2016, Rv. 638709 - 01), Sez. L, n. 18657/2020, Pagetta, Rv. 658596 - 01, ha affermato che il secondo termine previsto dall’art. 195 c.p.c., comma 3, così come modificato dalla l. n. 69 del 2009, svolge, ed esaurisce, la sua funzione nel sub-procedimento che si conclude con il deposito della relazione dell’ausiliare, sicché, in difetto di esplicita previsione in tal senso, la mancata prospettazione al consulente tecnico di ufficio di rilievi critici non preclude alla parte di arricchire e meglio specificare le relative contestazioni difensive nel successivo corso del giudizio e, quindi, anche in sede di gravame, laddove tale accertamento sia stato posto a base della decisione di primo grado. Il difforme, prevalente, indirizzo è stato, peraltro, nuovamente sostenuto, nel corso di quest’anno, da Sez. 5, n. 15522/2020; Fichera, Rv. 658401 - 01, a mente della quale anche nel processo tributario, in forza del rinvio generale al codice di rito contenuto nell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, le eccezioni e le contestazioni alla consulenza disposta dal giudice d’ufficio debbono essere formulate, al più tardi, entro l’udienza pubblica di discussione innanzi al collegio, ex art. 34 del d.lgs. n. 546 del 1992, nel contraddittorio tra tutte le parti; resta escluso, poi, che eccezioni, rilievi ed osservazioni nei confronti dell’elaborato peritale, in relazione alle quali la parte sia incorsa in decadenza per non averle tempestivamente articolate nel corso del giudizio innanzi alla CTP, possano essere formulate come motivi di gravame, avverso la decisione che si fondi sulle risultanze dell’esperita c.t.u. A tal punto che la menzionata pronuncia è pervenuta alla conclusione che «è certo che i rilievi e le contestazioni alla consulenza tecnica nell’ambito del processo civile, siano essi formulati per ragioni processuali ovvero anche per profili di merito, in un’ottica di necessaria lealtà processuale e alla luce del principio di ragionevole durata del processo - […] -, devono essere formulate nell’ambito del grado in cui le risultanze peritali si sono formate, restando preclusa alle parti la possibilità di sollevare nuove eccezioni o contestazioni di sorta, per la prima volta, soltanto nei gradi successivi.».

Sez. 2, n. 02671/2020, Dongiacomo, Rv. 657091 - 01, si è posta nel solco di quell’orientamento (n. 01901 del 2010, Rv. 611569 - 01; n. 12921 del 2015, Rv. 635808 - 01), ormai consolidato, secondo cui il consulente tecnico di ufficio ha il potere di attingere aliunde notizie e dati non rilevabili dagli atti processuali, quando ciò sia indispensabile per espletare convenientemente il compito affidatogli, sempre che non si tratti di fatti costituenti materia di onere di allegazione e di prova delle parti. Dette indagini possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice, a condizione che ne siano indicate le fonti, in modo che le parti siano messe in grado di effettuarne il controllo, a tutela del principio del contraddittorio.

Va, infatti, ricordato che la consulenza tecnica d’ufficio (Sez. 6 - 1, n. 30218/2017, Genovese, Rv. 647288 - 01), non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze. Ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negato, qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero a compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (Sez. 1, n. 21487/2017, Ceniccola, Rv. 645410 - 01; Sez. 1, n. 15774/2018, Nazzicone, Rv. 649471 - 01).

Premesso che il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico - riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato - con le altre risultanze del processo, Sez. 3, n. 25162/2020, Sestini, Rv. 659777 - 01, ha ribadito che il giudice del merito può trarre elementi di convincimento anche dalla parte della consulenza d’ufficio eccedente i limiti del mandato, ma non sostanzialmente estranea all’oggetto dell’indagine in funzione della quale è stata disposta (Cass. n. 05965 del 2004; n. 14272 del 1999).

In questo contesto Sez. 3, n. 24468/2020, Olivieri, Rv. 659951 - 01, ha avuto il merito di chiarire che alle informazioni assunte dall’ausiliario nominato d’ufficio, direttamente dalle parti in causa, nel corso delle operazioni peritali ex art. 194 c.p.c., non può riconoscersi l’efficacia di prova legale della dichiarazione confessoria “spontanea”, per la quale è richiesto l’espletamento del mezzo di prova tipico del deferimento dell’“interrogatorio formale” che deve essere assunto esclusivamente dal giudice. Senza tralasciare che, in base all’art. 229 c.p.c., a parte l’ipotesi dell’interrogatorio libero delle parti ex art. 117 c.p.c., la dichiarazione confessoria deve essere contenuta, a pena di inefficacia, in un atto processuale “firmato dalla parte personalmente”. Ne segue che alle dichiarazioni a sé sfavorevoli rese dalla parte al c.t.u. non può che attribuirsi la stessa valenza probatoria che è riconosciuta dall’art. 2735, comma 1, seconda parte, c.c. alle dichiarazioni confessorie stragiudiziali, fatte al terzo.

2. L’ordine di esibizione.

In ipotesi di cessione d’azienda, poiché i creditori sociali (non avendo la disponibilità dei libri contabili del loro debitore che divenga poi cedente), al fine di provare il fondamento della loro pretesa, possono valersi unicamente dello strumento dell’ordine di esibizione emesso dal giudice ai sensi dell’art. 210 c.p.c. nell’ambito del giudizio instaurato nei confronti del cessionario, la relativa richiesta, in quanto funzionale alla possibilità di applicazione della responsabilità solidale ex art. 2560, comma 2, c.c., si sottrae al regime comune di discrezionalità nell’emanazione di un ordine di esibizione da parte del giudice. Sez. 6 - 1, n. 13903/2020, Dolmetta, Rv. 658498 - 01, ha espresso il principio nell’ambito di un giudizio di opposizione allo stato passivo, proposto dalla parte che si affermava creditrice dell’azienda successivamente ceduta a società poi fallita, in cui il giudice di merito non si era pronunciato sulla domanda di esibizione dei libri contabili dell’impresa cedente.

È a darsi atto dell’esistenza, nel contesto del lavoro, di un altro orientamento (Sez. L, n. 24188/2013, Filabozzi, Rv. 629099 - 01), secondo cui, in tema di poteri istruttori d’ufficio del giudice del lavoro, l’emanazione di ordine di esibizione (nella specie, di documenti) è discrezionale e la valutazione di indispensabilità non deve essere neppure esplicitata nella motivazione; ne consegue che il relativo esercizio è svincolato da ogni onere di motivazione e il provvedimento di rigetto dell’istanza di ordine di esibizione non è sindacabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova dei fatti non possa in alcun modo essere acquisita con altri mezzi e l’iniziativa della parte instante non abbia finalità esplorativa.

Al contempo, è configurabile un indirizzo più rigoroso (Sez. 2, n. 13533/2011, Manna F., Rv. 618320 - 01; conf. Sez. L, n. 01484/2014, Balestrieri, Rv. 630271 - 01), a tenore del quale la discrezionalità del potere officioso del giudice di ordinare alla parte o ad un terzo, ai sensi degli artt. 210 e 421 c.p.c., l’esibizione di un documento sufficientemente individuato, non potendo sopperire all’inerzia delle parti nel dedurre i mezzi istruttori, rimane subordinata alle molteplici condizioni di ammissibilità di cui agli artt. 118 e 210 e 94 disp. att. c.p.c. e deve essere supportata da un’idonea motivazione, anche in considerazione del più generale dovere di cui all’art. 111, comma sesto, Cost., saldandosi tale discrezionalità con il giudizio di necessità dell’acquisizione del documento ai fini della prova di un fatto.

3. Il disconoscimento di scritture private.

L’onere del disconoscimento della scrittura privata e, correlativamente, l’eventuale verificarsi del riconoscimento tacito, ai sensi dell’art. 215 c.p.c., presuppongono che il documento prodotto contro una parte provenga dalla stessa, oppure da un soggetto che la rappresenti, in quanto munito di procura, ovvero, trattandosi di persona giuridica, in ragione del rapporto organico in base al quale può impegnare la responsabilità dell’ente; ne consegue, secondo Sez. 2, n. 18919/2020, Oliva, Rv. 659173 - 01, che in presenza di un documento firmato da due diversi soggetti, entrambi parti del processo, il disconoscimento operato da uno di essi spiega effetti limitatamente alla sua posizione processuale, mentre nei confronti dell’altro firmatario il documento acquisisce piena efficacia probatoria.

Nel processo civile le scritture private provenienti da terzi estranei alla lite costituiscono, invece, meri indizi, liberamente valutabili dal giudice e contestabili dalle parti senza necessità di ricorrere alla disciplina prevista in tema di querela di falso o disconoscimento di scrittura privata autenticata. Ne consegue che, sorta controversia sull’autenticità di tali documenti, l’onere di provarne la genuinità grava su chi li invoca, in applicazione del generale principio di cui all’art. 2697 c.c. In una controversia avente ad oggetto il disconoscimento, da parte di una compagnia assicuratrice, della sottoscrizione apposta da un suo agente assicurativo su una polizza, contenente la quietanza di pagamento del premio, Sez. 3, n. 06650/2020, Cigna, Rv. 657468 - 01, nel solco di n. 24208 del 2010, Rv. 614896 - 01, ha cassato la decisione della corte territoriale, la quale aveva ritenuto che la detta compagnia, nonostante fosse soggetto terzo rispetto alle parti del contratto, dovesse proporre querela di falso per contestare la veridicità della firma.

Sez. 6 - 1, n. 15823/2020, Terrusi, Rv. 658501 - 01, ha ribadito (n. 01789 del 2007, Rv. 595719 - 01) che alla parte cui sia riferita una scrittura privata è sempre consentito non solo di disconoscerla, così facendo carico alla controparte della verificazione, ma anche di proporre alternativamente la querela di falso, al fine di negare definitivamente la genuinità del documento, poiché, in difetto di limitazioni di legge, non può negarsi la facoltà di optare per uno strumento più gravoso, ma rivolto al perseguimento di un risultato più ampio e definitivo, qual è quello della completa rimozione del valore dell’atto con effetti erga omnes (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza d’appello che aveva reputato non proponibile la querela di falso, se non dopo l’esito sfavorevole dell’eventuale verificazione, in relazione alla sottoscrizione di alcune distinte bancarie di versamento e prelevamento).

Tuttavia, come confermato da Sez. 3, n. 03891/2020, Guizzi, Rv. 657147 - 01 (conf. n. 04728 del 2007, Rv. 595227 - 01), nell’ambito di uno stesso processo, qualora sia già stato utilizzato il disconoscimento, cui sia seguita la verificazione, la querela di falso è inammissibile se proposta al solo scopo di neutralizzare il risultato della verificata autenticità della sottoscrizione e non, invece, per contestare la verità del contenuto del documento.

Il riconoscimento tacito della scrittura privata ai sensi dell’art. 215 c.p.c. e la verificazione della stessa ex art. 216 stesso codice attribuiscono, peraltro, alla scrittura il valore di piena prova fino a querela di falso, secondo quanto dispone l’art. 2702 c.c., della sola provenienza della stessa da chi ne appare come sottoscrittore, e non anche della veridicità delle dichiarazioni in essa rappresentate, sicché, per Sez. 5, 24841/2020, D’Orazio, Rv. 659498 - 01, il contenuto di queste ultime può essere contestato dal sottoscrittore con ogni mezzo di prova, entro i limiti di ammissibilità propri di ciascuno di essi (Cass., sez. 3, 30 giugno 2015, n. 13321; Cass., sez. L., 12 maggio 2008, n. 11674; Cass., sez. 2, 30 maggio 2007, n. 12695; Cass., sez. L., 25 ottobre 1993, n. 10577; Cass., 2 gennaio 1998, n. 00005; Cass., sez. 2, 14 luglio 1988, n. 04611; contra solo Cass., 8 maggio 1981, n. 03009, e Cass., 6 dicembre 1972, n. 03532).

Pertanto, essendo il valore di prova legale della scrittura privata riconosciuta, o da considerarsi tale, limitato alla provenienza della dichiarazione del sottoscrittore e non estendendosi al contenuto della medesima, la querela di falso è esperibile unicamente nei casi di falsità materiale per rompere il collegamento, quanto alla provenienza, tra dichiarazione e sottoscrizione, e non in quella di falsità ideologica per impugnare la veridicità di quanto dichiarato, al qual fine può farsi, invece, ricorso alle normali azioni atte a rilevare il contrasto tra volontà e dichiarazione (Cass., sez. 1, 10 aprile 2018, n. 08766; Cass., sez. 3, 2 giugno 1999, n. 05383).

Sez. 6 - 2, n. 15676/2020, Oliva, Rv. 658778 - 01, ha ribadito (n. 06968 del 2006, Rv. 588463 - 01), con riferimento ad un caso in cui il disconoscimento riguardava la conformità della copia fotostatica all’originale, che il riconoscimento tacito della scrittura privata sancito dall’art. 215, comma 1, n. 2, c.p.c., comporta la decadenza di natura sostanziale dalla facoltà di disconoscere la scrittura stessa e, come tale, non opera d’ufficio, ma è rilevabile solo ad istanza di parte, non essendo posto in modo esplicito, né essendo desumibile dal sistema a tutela di un interesse generale. Già Sez. 3, n. 23636/2019, Dell’Utri, Rv. 655493 - 01, aveva confermato (conf. Sez. 2, n. 10147/2011, Manna F., Rv. 617920 - 01) che l’eccezione di tardività del disconoscimento della scrittura privata ai sensi degli artt. 214 e 215 c.p.c. è rimessa alla disponibilità della parte che ha prodotto il documento, in quanto unica ad avere interesse a valutare l’utilità di un accertamento positivo della provenienza della scrittura. Essa, di conseguenza, è logicamente incompatibile con l’istanza di verificazione che ne costituisce implicita rinuncia.

Sez. 6 - 1, n. 15645/2020, Dolmetta, Rv. 658709 - 01, ha ricordato (conf. n. 11494 del 2014, Rv. 631280 - 01) che le disposizioni di cui agli artt. 214 e segg. c.p.c., sul riconoscimento e la verificazione della scrittura privata, non sono applicabili nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, tenuto conto del carattere sommario e camerale che tale procedimento ha conservato anche dopo la riforma della legge fallimentare e degli ampi poteri istruttori officiosi che spettano al giudice, sicché il tribunale può accertare la genuinità della scrittura privata anche d’ufficio e con ogni mezzo.

3.1. Il disconoscimento delle copie fotostatiche o fotografiche.

La mancata contestazione della conformità della copia fotografica o fotostatica all’originale non comporta l’incontestabilità della provenienza della scrittura, giacché, mentre il disconoscimento di cui all’art. 214 c.p.c. è diretto ad escludere la prova della riferibilità della scrittura al soggetto che risulta esserne l’autore apparente, con il disconoscimento di cui all’art. 2719 c.c. non si pone in discussione l’autenticità del documento, ma soltanto la piena corrispondenza della riproduzione fotografica al suo originale. In applicazione del principio, Sez. 3, n. 06176/2020, Olivieri, Rv. 657141 - 01, ha ritenuto che il consenso, prestato dalla parte che aveva compiuto il disconoscimento ai sensi dell’art. 214, comma 2, c.p.c., allo svolgimento della c.t.u. grafologica sulla copia fotostatica della scrittura disconosciuta, non avesse precluso alla stessa parte la contestazione dell’esito dell’accertamento peritale sull’autenticità del documento.

La conformità della riproduzione cartacea delle risultanze di un sito internet può essere oggetto di contestazione ai sensi dell’art. 2712 c.c. e delle norme del codice dell’amministrazione digitale, ma al giudice è sempre consentito - anche d’ufficio ai sensi dell’art. 447-bis, comma 3, c.p.c., se applicabile - l’accertamento della contestata conformità con qualunque mezzo di prova, inclusa la richiesta di informazioni al gestore del servizio ai sensi dell’art. 213 c.p.c. ovvero mediante verifica diretta del sito. In quest’ottica, Sez. 3, n. 17810/2020, Tatangelo, Rv. 658689 - 01, ha confermato la correttezza della verifica, svolta d’ufficio dal giudice ed eseguita mediante l’accesso diretto al sito internet del servizio postale degli Emirati Arabi Uniti, dell’esito dell’invio di una raccomandata semplice, trasmessa per la disdetta di un contratto di comodato.

3.2. Il procedimento di verificazione.

La parte che, in sede di procedimento di verificazione della sottoscrizione in calce ad un documento, non abbia prodotto l’originale (di cui non abbia mai contestato di essere in possesso) nonostante l’ordine giudiziale di esibizione, non può, secondo Sez. 2, n. 20884/2020, Varrone, Rv. 659209 - 01, eccepire in appello la nullità dell’elaborato peritale per essere stata sottoposta all’indagine la copia fotografica del documento, trattandosi di nullità relativa la cui denunzia è preclusa dall’avervi dato causa mediante il comportamento defensionale tenuto innanzi al giudice del grado precedente.

4. La querela di falso.

La querela di falso non può essere proposta se non allo scopo di togliere ad un documento (atto pubblico o scrittura privata) la idoneità a far fede e servire come prova di determinati rapporti, sicché, ove siffatte finalità non debbano essere perseguite, in quanto non sia impugnato un documento nella sua efficacia probatoria, né debba conseguirsi l’eliminazione del documento medesimo o di una parte di esso, ma si controverta soltanto su di un errore materiale incorso nel documento, la querela di falso non è ammissibile. E così Sez. 6 - 1, n. 19626/2020, Di Marzio M., Rv. 659001 - 01, ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto necessaria la querela di falso, ancorchè si trattasse semplicemente di far constare l’erroneità dell’indicazione nella relata di notificazione che, per mera svista, recava la data del 6 gennaio, anziché quella del 6 febbraio.

4.1. Gli aspetti processuali.

L’obbligatorietà dell’intervento del pubblico ministero, nel caso del giudizio di falso ai sensi dell’art. 221, ultimo comma, c.p.c., impone la comunicazione della pendenza della causa, per metterlo in grado d’intervenire, mentre la concreta assunzione di conclusioni e partecipazione ai singoli atti istruttori, per i quali non si richiede un formale avviso, rientra nelle scelte discrezionali del medesimo pubblico ministero, al quale soltanto spetta di eccepire o meno l’eventuale inefficacia degli atti compiuti prima della sua chiamata in causa. In applicazione di questo principio, Sez. 6 - 1, n. 12254/2020, Di Marzio M., Rv. 658445 - 01, ha respinto la censura mossa dalla parte privata alla decisione della corte d’appello, per aver disatteso l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado, derivante dalla comunicazione degli atti al pubblico ministero solo all’udienza di precisazione delle conclusioni.

Al di fuori del caso di sua proposizione in via incidentale innanzi al tribunale e, quindi, anche nel corso del giudizio di appello, la competenza territoriale sulla querela di falso va individuata in base ai criteri di collegamento di cui agli artt. 18 e 19 c.p.c., in considerazione del fatto che nel relativo processo è obbligatorio, come detto, l’intervento del pubblico ministero e che, pertanto, la competenza per territorio ha carattere inderogabile, senza che possa aversi riguardo agli effetti della pronuncia sui rapporti giuridici della cui prova si tratta e dovendosi altresì escludere, per Sez. 6 - 2, n. 10361/2020, Falaschi, Rv. 657820 - 02, che la stessa - in mancanza di una specifica disposizione normativa - sia modificabile per effetto di attrazione da parte della causa di merito.

Nel procedimento per la pronuncia sull’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, la querela di falso “incidentale” può essere proposta solo se la parte, tramite il difensore, abbia chiesto di essere sentita in funzione di tale proposizione prima della convocazione della camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., restando invece inammissibile nell’ipotesi in cui, come nella fattispecie analizzata da Sez. U, n. 01605/2020, Oricchio, Rv. 656794 - 01, la richiesta sia stata formulata il giorno stesso dell’adunanza e la querela sia stata contestualmente depositata, atteso che il predetto procedimento non tollera dilazioni o ritardi nella definizione del regolamento; né, per effetto di tale interpretazione del contesto normativo di riferimento, si determina una lesione del diritto di difesa, restando impregiudicata per la parte la possibilità di proporre la querela di falso in via principale.

Qualora la querela di falso venga proposta nel giudizio davanti al tribunale, in sede di appello avverso sentenza del giudice di pace, il tribunale stesso può provvedere su entrambi i processi con unica sentenza, quale giudice di primo grado sulla questione di falso e di secondo grado sull’appello avverso la decisione del giudice di pace. Ne consegue che, come ribadito (conf. n. 02525 del 2012, Rv. 621827 - 01) da Sez. 2, n. 10464/2020, De Marzo G., Rv. 657797 - 01, le statuizioni del tribunale, nella duplice funzione, determinano l’autonomia dei mezzi di impugnazione, nel senso che la prima statuizione deve essere impugnata con l’appello e la seconda con il ricorso per cassazione.

4.2. I mezzi di prova utilizzabili.

Nel giudizio di falso, la prova univoca della falsità del documento impugnato con apposita querela deve essere fornita dal querelante, perché possa pervenirsi all’accoglimento della relativa domanda, sia essa proposta in via incidentale o in via principale (cfr. Sez. 6 - 2, n. 02126/2019, Carrato, Rv. 652216 - 01).

Il soggetto che proponga querela di falso può valersi di ogni mezzo ordinario di prova e, quindi, anche delle presunzioni, utilizzabili in particolare quando il disconoscimento dell’autenticità non si estenda alla sottoscrizione e sia lamentato il riempimento di documento absque pactis, con conseguente contestazione del nesso fra il testo ed il suo autore (cfr. Sez. 3, n. 06050/1998, Segreto, Rv. 516554 - 01). In applicazione di tale principio, Sez. 3, n. 12118/2020, Guizzi, Rv. 658056 - 01, in conformità con n. 06050 del 1998, Rv. 516554 - 01, e n. 01691 del 2006, Rv. 587849 - 01), ha ritenuto corretto il procedimento inferenziale - relativo al presunto riempimento di una ricognizione di debito fuori da qualsiasi intesa - condotto anche in ragione del contrasto tra la data apposta in calce all’atto e quella riprodotta nel documento con cui era stato identificato il sottoscrittore, nonché dell’incompleta indicazione del codice fiscale di quest’ultimo e dell’erronea indicazione del luogo di nascita.

5. Il giuramento.

È inammissibile il giuramento decisorio deferito con atto di appello non sottoscritto dalla parte personalmente, né dal suo difensore munito di mandato speciale, come richiesto dall›art. 233 c.p.c., bensì dal difensore dotato soltanto dell’ordinaria procura «ad litem», anche se questa comprenda la facoltà di «deferire i giuramenti di rito» e nonostante il giuramento sia stato comunque ritualmente deferito in primo grado. Sez. 2, n. 17718/2020, Tedesco, Rv. 658902 - 01, ha precisato che l’inammissibilità per tale causa è insanabile, rimanendo irrilevante che non sia eccepita dalla controparte nella prima difesa successiva, in quanto il giuramento decisorio è un mezzo istruttorio per il quale la legge pone condizioni di ammissibilità non derogabili dalle parti e, dunque, non rimesse alla loro disponibilità.

6. La prova testimoniale.

Sez. 6 - L, n. 12573/2020, Riverso, Rv. 658466 - 01, ha ribadito (n. 17649 del 2010, Rv. 614326 - 01) che nel rito del lavoro, qualora nell’atto introduttivo del giudizio la parte abbia richiesto una prova testimoniale, articolando i relativi capitoli senza indicare le generalità dei testi, l’omissione non determina decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreta mera irregolarità, che, ai sensi dell’art. 421, comma 1, c.p.c., consente al giudice di assegnare alla parte un termine perentorio per porre rimedio alla riscontrata irregolarità, nell’esercizio dei poteri officiosi riconosciutigli dalla disposizione citata, in funzione dell’esigenza di contemperamento del principio dispositivo con la ricerca della verità, cui è ispirato il rito del lavoro per il carattere costituzionale delle situazioni soggettive implicate.

Dal canto suo, Sez. 2, n. 00190/2020, Abete, Rv. 656827 - 01, ha confermato (n. 11889 del 2007, Rv. 596726 - 01) che l’ammissione della prova testimoniale oltre i limiti di valore stabiliti dall’art. 2721 c.c. costituisce un potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio, o mancato esercizio, è insindacabile in sede di legittimità, ove sia correttamente motivato.

La Seconda Sezione Civile, Ordinanza interlocutoria 20 novembre 2019, n. 30244, Falaschi, aveva disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ponendo la questione se, in una transazione o anche, più in generale, in un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad probationem, fosse operativo il divieto della prova per testi e se l’eventuale inammissibilità potesse essere rilevata d’ufficio o dovesse, invece, essere eccepita dalla parte interessata entro il termine di cui all’art. 157, comma 2, c.p.c., nella prima istanza o difesa successiva alla sua articolazione; il quesito era stato posto all’interno della più ampia questione riguardante l’esistenza o meno di un unitario regime processuale relativo all’inammissibilità della prova testimoniale, derivante dal combinato disposto di cui agli artt. 2725 e 2729 c.c., applicabile indifferentemente sia ai contratti per i quali sia richiesta la forma scritta ad probationem, sia a quelli per cui la forma è richiesta ad substantiam.

Sez. U, n. 16723/2020, Scarpa, Rv. 658630 - 01, hanno risolto la questione, statuendo che l’inammissibilità della prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto, ai sensi dell’art. 2725, comma 1, c.c., attenendo alla tutela processuale di interessi privati, non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima dell’ammissione del mezzo istruttorio; qualora, nonostante l’eccezione di inammissibilità, la prova sia stata ugualmente assunta, è onere della parte interessata opporne la nullità secondo le modalità dettate dall’art. 157, comma 2, c.p.c., rimanendo altrimenti la stessa ritualmente acquisita, senza che detta nullità possa più essere fatta valere in sede di impugnazione.

6.1. L’incapacità a testimoniare.

Come ribadito (n. 08462 del 2014, Rv. 630885 - 01) da Sez. 1, n. 18121/2020, Amatore, Rv. 658608 - 01, in tema di intermediazione mobiliare, non importa incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c. per i dipendenti dell’intermediario la circostanza che quest’ultimo, evocato in giudizio da un risparmiatore, potrebbe convenirli in garanzia nello stesso giudizio per essere responsabili dell’operazione che ha dato origine alla controversia, poiché le due cause, anche se proposte nello stesso giudizio, si fondano su rapporti diversi ed i dipendenti hanno un interesse solo riflesso ad una determinata soluzione della causa principale, che non li legittima a partecipare al giudizio promosso dal risparmiatore, in quanto l’esito di questo, di per sé, non è idoneo ad arrecare ad essi pregiudizio.

Secondo Sez. 3, n. 08528/2020, Di Florio, Rv. 657826 - 01, l’eccezione di incapacità a deporre, sollevata - nel rispetto della previsione di cui all’art. 157, comma 2, c.p.c. - all’esito dell’escussione del testimone, deve intendersi come idonea proposizione di un’eccezione di nullità della prova assunta. La precisazione è importante, alla luce del principio, ormai consolidato, secondo cui, premesso che l’eccezione di nullità della testimonianza per incapacità a deporre deve essere sollevata immediatamente dopo l’escussione del teste (ovvero, in caso di assenza del procuratore della parte all’incombente istruttorio, entro la successiva udienza), restando, in mancanza, sanata, non assume rilievo che la parte abbia preventivamente formulato, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., una eccezione d’incapacità a testimoniare, che non include l’eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa ed assunta nonostante la previa opposizione.

6.2. L’assunzione della prova testimoniale.

In sede di assunzione della prova testimoniale, il giudice del merito non è un mero registratore passivo di quanto dichiarato dal testimone, ma un soggetto attivo partecipe dell’escussione, al quale l’ordinamento attribuisce il potere-dovere, non solo di sondare con zelo l’attendibilità del testimone, ma anche di acquisire da esso tutte le informazioni indispensabili per una giusta decisione, sicché egli non può, senza contraddirsi, dapprima, astenersi dal rivolgere al testimone domande a chiarimento, e, successivamente, ritenerne lacunosa la deposizione perché carente su circostanze non capitolate, sulle quali nessuno abbia chiesto al testimone di riferire; in tale ipotesi, pertanto, per Sez. 6 - 3, n. 17981/2020, Cigna, Rv. 658759 - 01, la devalutazione della testimonianza fondata sul rilievo che il teste si è limitato a confermare la rispondenza al vero delle circostanze dedotte nei capitoli di prova, senza aggiungere dettagli mai richiestigli, riposa su argomentazioni tra loro logicamente inconciliabili, sì da costituire motivazione solo apparente.

6.3. La testimonianza de relato.

L’integrazione ex officio delle prove testimoniali, ai sensi dell’art. 257, comma 1, c.p.c., è espressione di una facoltà discrezionale, esercitabile dal giudice quando ritenga che, dalla escussione di altre persone, non indicate dalle parti, ma presumibilmente a conoscenza dei fatti, possano trarsi elementi utili alla formazione del proprio convincimento. Da tale principio Sez. 6 - 3, n. 03144/2020, Vincenti, Rv. 656751 - 01, ha tratto la conseguenza che l’esercizio, o il mancato esercizio, di tale facoltà presuppone un apprezzamento di merito delle risultanze istruttorie, come tale incensurabile in sede di legittimità, anche sotto il profilo del vizio di motivazione.

6.4. Le presunzioni.

Sez. 3, n. 08814/2020, D’Arrigo, Rv. 657836 - 01, ha chiarito che non è consentito fare ricorso alle presunzioni semplici per desumere, ai sensi dell’art. 2729 c.c., dal fatto noto uno ignoto, quando quest’ultimo ha costituito oggetto di prova diretta, in quanto, da un lato, ciò esclude che il fatto possa considerarsi “ignoto” e, dall’altro, lo stesso contrasto fra le risultanze di una prova diretta (nella specie, una testimonianza oculare) e le presunzioni semplici priva queste dei caratteri di gravità e precisione, con la conseguenza che il giudice di merito, il quale intenda basare la ricostruzione del fatto su presunzioni semplici, ha prima l’obbligo di illustrare le ragioni per cui ritiene inattendibili le prove dirette che depongono in senso contrario, non potendosi limitare ad una generica valutazione di maggiore persuasività delle dette presunzioni.

  • interpretazione
  • citazione

CAPITOLO XI

IL PROCESSO DI PRIMO GRADO

(di Paola D’Ovidio )

Sommario

1 L’interpretazione della domanda. - 2 La nullità dell’atto di citazione ed i meccanismi di sanatoria. - 2.1 La mancanza della sottoscrizione del difensore nella copia notificata dell’atto di citazione. - 2.2 La domanda e l’eccezione riconvenzionale. - 3 Il mandato alle liti. - 4 Difetto di autorizzazioni. - 5 Notificazioni e comunicazioni. - 6 Mediazione obbligatoria. - 7 Nullità degli atti e della sentenza. - 7.1 Duplice iscrizione della causa a ruolo. - 8 La mutatio e la emendatio libelli. Preclusioni processuali - 8.1 Il differimento della prima udienza. - 9 La rimessione in termini. - 10 Il litisconsorzio, l’intervento e la chiamata in causa. - 11 La sospensione del processo. - 12 L’interruzione del processo. - 13 La riassunzione del processo interrotto. - 13.1 Eccezione di estinzione per tardiva riassunzione. - 14 La fase decisoria. - 14.1 Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. - 14.2 Le sentenze non definitive. - 15 La correzione dei provvedimenti giudiziali.

1. L’interpretazione della domanda.

In linea generale, chi agisce in giudizio non può proporre la sua domanda in modo generico, ma deve renderne il contenuto compiutamente identificabile e percepibile sia in fatto che in diritto.

È tuttavia consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale la domanda deve essere correttamente interpretata dal giudice del merito, il quale, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto a uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti, ma deve aver riguardo al contenuto della pretesa fatta valere in giudizio e può considerare, come implicita, un’istanza non espressa ma connessa al petitum e alla causa petendi (così da ultimo Sez. 2, n. 7322/2019, Falaschi, Rv. 652943 - 01). Infatti, come chiarito da Sez. 6-3, n. 3363/2019, Scoditti, Rv. 653003 - 01, l’identificazione della causa petendi va operata con riguardo all’insieme delle indicazioni contenute nell’atto di citazione e dei documenti ad esso allegati ai quali, quindi, può essere riconosciuta una funzione di chiarificazione del quadro allegatorio già prospettato, purché risultino specificamente indicati nell’atto di citazione, come prescritto dall’art. 163, comma 3, n. 5, c.p.c.

In proposito, Sez. 3, n. 24480/2020, Scoditti, Rv. 659762 - 01 ha altresì precisato che, ai fini dell’interpretazione delle domande giudiziali non sono utilizzabili i criteri di interpretazione del contratto dettati dagli artt. 1362 ss. c.c. atteso che, rispetto alle attività giudiziali, non si pone una questione di individuazione della comune intenzione delle parti e la stessa soggettiva intenzione dell’attore rileva solo nei limiti in cui sia stata esplicitata in modo tale da consentire al convenuto di cogliere l’effettivo contenuto dell’atto e di svolgere un’adeguata difesa (nello stesso senso già Sez. 3, n. 25853/2914, Rubino, Rv. 633517 - 01)

2. La nullità dell’atto di citazione ed i meccanismi di sanatoria.

Come è noto, per effetto della disciplina di cui all’art. 164, comma 2, c.p.c. i vizi relativi alla vocatio in ius sono sanati con effetto ex tunc e quelli relativi alla editio actionis con effetto ex nunc (Sez. 6 - L, n. 23667/2018, L. Esposito, Rv. 650579 - 01).

Nel solco di tali principi si colloca Sez. 3, n. 00544/2020, Iannello, Rv. 656812 - 01 che ha ritenuto costituire vizi della vocatio in ius, comportanti la nullità della citazione, l’omessa indicazione dell’ufficio giudiziario, del giorno dell’udienza di comparizione e dell’invito a costituirsi nel termine e nelle forme indicate, con avvertimento delle decadenze previste in caso di mancata costituzione, mentre ha considerato priva di conseguenze invalidanti la mancata menzione delle conclusioni e dei mezzi di prova, in quanto requisiti di contenuto dell’atto di citazione aventi funzione meramente preparatoria dell’udienza. La medesima pronuncia ha quindi ricordato che l’omessa indicazione di uno o più elementi attinenti alla vocatio in ius cagiona, per violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, la nullità dell’atto di citazione, a sua volta disciplinata con la previsione di una possibile sanatoria, con effetto ex tunc, in conseguenza di diverse e alternative cause sananti (quali, da un lato, la costituzione del convenuto ex art. 164, comma terzo c.p.c, dall’altro, l’ordine di rinnovazione della citazione da parte del giudice ex art. 164, comma secondo c.p.c).

Si è quindi soffermata in particolare sul meccanismo di sanatoria previsto dall’art. 164, comma terzo, c.p.c. per valutare se. possa ritenersi attivato anche dalla costituzione del convenuto in appello. A tale questione ha dato risposta affermativa richiamando e condividendo il precedente di S.U. n. 9217/2010, Nappi, Rv. 612564 - 01 che, in relazione alla analoga nullità per vizio della vocatio in ius derivante dal difetto della capacità processuale del soggetto cui l’atto era diretto, aveva affermato, in adesione peraltro ad orientamento già allora maggioritario nella giurisprudenza, che l’art. 164 c.p.c. non pone limiti temporali o procedimentali alla possibilità di sanare la nullità della citazione e che, pertanto, tale sanatoria può avvenire anche tramite la proposizione dell’atto di appello, senza peraltro che ciò escluda la nullità del giudizio svoltosi in violazione del contraddittorio. In tale caso, pertanto, il giudice d’appello deve dichiarare la nullità della sentenza e del giudizio di primo grado. Nondimeno, avevano altresì precisato le Sezioni Unite del 2010, la dichiarazione di queste nullità non può comportare la rimessione della causa al giudice di primo grado: e ciò sia perché la nullità della citazione non è inclusa tra le tassative ipotesi di regressione del processo previste dagli artt. 353 e 354 c.p.c., non interpretabili analogicamente in quanto norme eccezionali, sia perché sul principio del doppio grado di giurisdizione, privo di garanzia costituzionale, prevale l’esigenza della ragionevole durata del processo. La decisione in commento, ponendosi sulla medesima linea della citata pronuncia delle Sezioni Unite del 2010, conclude pertanto affermando che il giudice di appello, dopo aver dichiarato la nullità della sentenza e del giudizio di primo grado, è tenuto a trattare la causa nel merito, rinnovando a norma dell’art. 162 c.p.c. gli atti dichiarati nulli, quando sia possibile e necessario.

Di particolare interesse e novità è il principio enunciato da Sez. 6-2, n. 47100/2020, M Criscuolo, Rv. 657262 - 01, a mente del quale, nel caso in cui sia stata rilevata la nullità dell’atto di citazione e la parte ne abbia eseguito la rinnovazione in conformità al provvedimento del giudice, questi può rilevare un’ulteriore causa di nullità, diversa da quella precedentemente riscontrata, ed emettere un nuovo ordine di rinnovazione, non sussistendo una norma che lo impedisca, né essendo prevista una limitazione quantitativa alle rinnovazioni, purché siano effettuate nel rispetto del termine perentorio assegnato dal giudice o dalla legge. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha escluso il verificarsi dell’estinzione del giudizio nel quale il giudice aveva disposto la rinnovazione della citazione in ragione del mancato avvertimento ex artt. 163, comma 3, n. 7, e 38 c.p.c., dopo che la parte aveva ottemperato ad un precedente ordine di rinnovazione, impartito per il mancato rispetto del termine a comparire).

Peraltro, merita di essere sottolineato che, come affermato da Sez. 3, n. 00124/2020, Valle, Rv. 656449 - 01, l’atto di citazione - anche se invalido come domanda giudiziale e, dunque, inidoneo a produrre effetti processuali - può tuttavia valere come atto di costituzione in mora ed avere, perciò, efficacia interruttiva della prescrizione qualora, per il suo specifico contenuto e per i risultati a cui è rivolto, possa essere considerato come richiesta scritta di adempimento rivolta dal creditore al debitore. In applicazione di tale principio, la citata pronuncia ha conseguentemente riconosciuto efficacia interruttiva ad un atto di citazione, nullo per mancanza dell’editio actionis, in quanto contenente richiesta di risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c. con indicazione dei soggetti ritenuti responsabili.

2.1. La mancanza della sottoscrizione del difensore nella copia notificata dell’atto di citazione.

Con riguardo alla mancata sottoscrizione del difensore nella copia dell’atto di citazione notificata, nel corso dell’anno in rassegna è stato ribadito da Sez. 3, n. 08815/2020, D’Arrigo, Rv. 657837 - 01 che tale carenza non comporta la nullità della citazione se dalla copia stessa sia possibile desumerne la provenienza da un procuratore abilitato munito di mandato. Ciò in quanto, come precisato quel che rileva, ai fini del raggiungimento dello scopo d’un atto affetto da nullità per difetto di sottoscrizione, è non già la sua conoscibilità, bensì la sua riferibilità alla persona che ne appare l’autore

Sulla stessa linea Sez. 2, n. 10450/2020, San Giorgio, Rv. 657791 - 02, a mente della quale la mancanza della sottoscrizione del difensore nella copia notificata della citazione non incide sulla validità di questa, ove detta sottoscrizione risulti nell’originale e la copia notificata fornisca alla controparte sufficienti elementi per acquisire la certezza della sua rituale provenienza da quel procuratore.

2.2. La domanda e l’eccezione riconvenzionale.

Va premesso in linea generale che, come affermato da Sez. 2, n. 26880/2019, Oliva, Rv. 655664 - 01 (conf. Sez. 1, n. 20178/2010, Cultrera, Rv. 614253 - 01), l’eccezione riconvenzionale, pur ampliando il tema della controversia, tende a paralizzare il diritto della controparte rimanendo nell’ambito della difesa e del petitum, e, quindi, si differenzia dalla domanda riconvenzionale che, invece, è diretta ad ottenere l’accertamento di un diritto con autonomo provvedimento avente forza di giudicato.

Tale distinzione si riflette su variegate e rilevanti conseguenze processuali, alcune delle quali affrontate nell’anno in rassegna.

In primo luogo, essa incide sul regime delle preclusioni vigenti ratione temporis, come chiarito da Sez. 2, n. 17121/2020, Besso Marcheis, Rv. 658958 - 01, la quale ha affermato che nel regime giuridico successivo alla l. n. 353 del 1990 e precedente al d.l. n. 35 del 2005, il convenuto che si costituisce tardivamente decade dalla facoltà di proporre domande riconvenzionali, giusto il disposto dell’art. 167 c.p.c., così come modificato dall’art. 3 d.l. n. 238 del 1995, conv. in l. n. 534 del 1995, mentre, per quanto attiene alle “eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio”, vigendo il termine perentorio di cui all’art. 180, secondo comma, c.p.c., del pari introdotto dalla novella del 1995, siffatte eccezioni possono essere proposte, al più tardi, nell’intervallo tra l’udienza di prima comparizione ex art. 180 cit. e quella di trattazione ex art. 183 c.p.c., ovvero nel termine stabilito dal giudice istruttore. La medesima pronuncia ha aggiunto che tale regime di preclusioni è inteso non solo a tutela dell’interesse di parte, ma anche dell’interesse pubblico a scongiurare l’allungamento dei tempi del processo, sicché la relativa inosservanza deve essere rilevata d’ufficio dal giudice, indipendentemente dall’atteggiamento processuale della controparte.

In secondo luogo, determina in un senso o nell’altro l’eventuale spostamento della competenza, atteso che, come affermato da Sez. 6 - 2, n. 23074/2020, Giannaccari, Rv. 659403 - 01, il giudice di pace, adito con domanda rientrante nella sua competenza per materia, ove sia investito, in via riconvenzionale, di una eccezione eccedente la sua competenza per valore o per materia, deve decidere su entrambe, in quanto l’eccezione riconvenzionale, a differenza della domanda riconvenzionale, non comporta lo spostamento della competenza e la separazione delle cause ai sensi dell’art. 36 c.p.c.

Inoltre, spesso delicata è l’individuazione in concreto della natura di eccezione o di domanda della pretesa fatta valere dal convenuto.

In proposito, si segnala Sez. 2, n. 29247/2020, Criscuolo, Rv. 659977 - 02, la quale, in tema di collazione ereditaria d’immobili, ha affermato che la pretesa del donatario di dedurre migliorie e spese a norma dell’art. 748 c.c. non integra domanda riconvenzionale, ma semplice eccezione in senso lato, come tale liberamente proponibile e rilevabile anche in grado d’appello, non ampliando il contenuto del giudizio divisorio, atteso che il patrimonio del donante non può comprendere quanto realizzato sul bene dal donatario.

Con specifico riferimento alla domanda di usucapione formulata dal convenuto in via riconvenzionale, Sez. 6 - 2, n. 06009/2020, Oliva, Rv. 657274 - 01 ha ribadito il principio secondo il quale il giudice di merito, anche quando ritenga tale domanda inammissibile per qualsiasi motivo, non può esimersi dall’esaminare il relativo tema sub specie di eccezione, essendo a tale riguardo sufficiente che quest’ultima sia stata sollevata nei termini previsti dal codice di procedura per proporre le eccezioni (nello stesso senso già Sez. 2, n. 10206/2015, Matera, Rv. 635409 - 01).

Riguardo all’oggetto della domanda riconvenzionale può essere proposta, Sez. 3, n. 00533/2020, Graziosi, Rv. 656570 - 01, ha precisato che, qualora la domanda riconvenzionale non ecceda la competenza del giudice della causa principale, a fondamento di essa può porsi anche un titolo non dipendente da quello fatto valere dall’attore, purché sussista con questo un collegamento oggettivo che consigli il simultaneus processus secondo la valutazione discrezionale del medesimo giudice, il quale, tuttavia, è tenuto a motivare l’eventuale diniego di autorizzazione della detta riconvenzionale, non potendo limitarsi a dichiararla inammissibile esclusivamente per la mancata dipendenza dal titolo già dedotto in giudizio.

Analogamente, Sez. 6 - 1, n. 23472/2020, Dolmetta, Rv. 659535 - 01, pronunciandosi su un giudizio di opposizione allo stato passivo - così come disciplinato dall’art. 98 l.fall., nel regime anteriore alle riforme del 2006 - ha ribadito che la relazione di dipendenza della domanda riconvenzionale “dal titolo dedotto in giudizio dall’attore”, che giustifica la trattazione simultanea delle cause, si configura non già come identità della causa petendi (richiedendo appunto l’art. 36 c.p.c. un rapporto di mera dipendenza), ma come comunanza della situazione o del rapporto giuridico dal quale traggono fondamento le contrapposte pretese delle parti, ovvero come comunanza della situazione o del rapporto giuridico sul quale si fonda la riconvenzionale con quello posto a base di un’eccezione, così da delinearsi una connessione oggettiva qualificata della domanda riconvenzionale con l’azione o l’eccezione proposta.

3. Il mandato alle liti.

Nel corso del 2020 la S.C. è più volte intervenuta sul delicato tema del mandato alle liti, affrontando alcune delle problematiche che con maggiore frequenza si pongono in rapporto all’atto con il quale la parte investe il difensore del ruolo di suo rappresentante in giudizio, conferendo allo stesso lo ius postulandi.

In particolare, con riferimento ai vizi della procura e alle modalità della loro possibile sanatoria, afferma Sez. 2, n. 22564/2020, Criscuolo, (Rv. 659395-01 che nel caso in cui l’eccezione di radicale nullità di una procura ad litem di una parte processuale sia stata tempestivamente proposta dall’altra, la prima deve produrre immediatamente la documentazione all’uopo necessaria, non occorrendo a tal fine assegnare, ai sensi dell’art. 182 c.p.c., un termine di carattere perentorio per provvedere, giacché sul rilievo di parte l’avversario è chiamato a contraddire ed attivarsi per conseguire la sanatoria, in mancanza della quale la nullità diviene insanabile.

Affermazione, questa, che si inserisce nel solco dell’impostazione (Sez. 2, n. 24212/2018, Sabato, Rv. 650641-01; n. 4248 del 2016, Rv. 638746-01) secondo cui mentre ai sensi dell’art. 182 c.p.c. il giudice che rileva d’ufficio un difetto di rappresentanza deve promuovere la sanatoria, assegnando alla parte un termine di carattere perentorio, senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze di carattere processuale, nel diverso caso in cui l’eccezione di difetto di rappresentanza sia stata tempestivamente proposta da una parte, l’opportuna documentazione va prodotta immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine, che non sia motivatamente richiesto o comunque assegnato dal giudice, giacché sul rilievo di parte l’avversario è chiamato a contraddire.

Quanto poi ai presupposti di applicabilità della sanatoria di cui all’art. 182, comma 2, c.p.c., merita segnalare quanto affermato da Sez. L, n. 16252/2020, Piccone, Rv. 658495-01, secondo cui la richiamata disposizione, nella formulazione introdotta dall’art. 46, comma 2, della l. n. 69 del 2009, trova applicazione, con conseguente obbligo per il giudice di assegnare un termine perentorio per la sanatoria, anche quando la procura sia reputata mancante per il fatto che, pur allegata all’atto cui si riferisce e pur formulata con riferimento al “presente procedimento”, contenga anche il richiamo testuale ad altro giudizio. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione con la quale il giudice di merito aveva ritenuto inesistente una procura alle liti rilasciata per un’impugnativa di licenziamento e contenente, dopo la frase “per il presente procedimento”, le parole “di fallimento”, senza assegnare il termine per la sanatoria).

Pare utile rimarcare che il richiamato meccanismo di sanatoria attiene ai vizi propri della procura, che è un atto dotato di una sua specifica identità negoziale ed una sua autonomia logica e giuridica, come da ultimo ribadito da Sez. 2, n. 10450/2020, San Giorgio, Rv. 657791-01, secondo cui la procura speciale rilasciata al difensore, quand’anche a margine o in calce alla citazione, è negozio autonomo rispetto ad essa, e non è con questa in rapporto di dipendenza o subordinazione, sì che ove sia nullo l’atto introduttivo del giudizio discenda, necessariamente, la nullità del mandato alle liti. Ne consegue che la rinnovazione della citazione dichiarata nulla non richiede il rilascio di un nuovo mandato al difensore, che si pone sovente come prius temporale ed è sempre un prius logico dell’attività svolta dal difensore tecnico, in ragione del conferimento dello ius postulandi che esso attribuisce.

Nondimeno, ferma la richiamata autonomia, si rammenta che la nullità della procura inficia la valida dell’atto introduttivo qualora il vizio della prima sia ascrivibile ad un conflitto di interessi dei conferenti, così come ribadito da Sez. 6 - 3, n. 01143/2020, Porreca, (Rv. 656717-01, secondo la quale nel caso in cui tra due o più parti sussista un conflitto di interessi, è inammissibile la costituzione in giudizio a mezzo dello stesso procuratore e la violazione di tale limite, investendo i valori costituzionali del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, è rilevabile d’ufficio. (Nella specie, la S.C., in relazione ad un’opposizione a precetto, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto da un avvocato, in proprio, e da un suo cliente, assistito dall’avvocato medesimo, ravvisando conflitto di interessi nel fatto che oggetto della controversia fosse un pagamento asseritamente eseguito in favore del cliente su un conto riferibile al suo difensore).

Sul diverso versante delle modalità di conferimento della procura e della persistenza dello ius postulandi correlato al rilascio della stessa, si segnalano, rispettivamente, Sez. 6-3, n. 08987/2020, Rossetti, Rv. 657935-01 e Sez. 6-1, n. 12249/2020, Di Marzio, Rv. 658059-01

La prima chiarisce, con specifico riferimento all’ipotersi in cui il rappresentato sia una persona giuridica, che la procura alle liti rilasciata da persona chiaramente identificabile, che abbia dichiarato la propria qualità di legale rappresentante dell’ente costituito in giudizio, è valida, incombendo su chi nega tale qualità l’onere di fornire la prova contraria.

La seconda puntualizza, invece, che il difensore revocato continua, ai sensi dell’art. 85 c.p.c., a svolgere il suo mandato finché non intervenga la sostituzione con un nuovo difensore, sicché è irrilevante la ridotta o compromessa capacità di intendere e di volere del mandante intervenuta “medio tempore”. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato l’istanza di rimessione in termini per il deposito memorie ex art. 183 c.p.c., proposta dal nuovo difensore della parte sottoposta ad amministrazione di sostegno, che aveva dedotto di essersi trovata, dopo la revoca del precedente difensore e prima della nomina del nuovo, in uno stato di incapacità).

Nel periodo in rassegna, peraltro, la S.C. ha affrontato alcune interessanti questioni specificamente correlate all’eventualità del rilascio della procura all’estero.

In particolare, secondo Sez. U, n. 05592/2020, Cirillo, Rv. 657197-01, la procura speciale alle liti rilasciata all’estero è nulla, ai sensi dell’art. 12 della l. n. 218 del 1995, ove non sia allegata la traduzione dell’attività certificativa svolta dal notaio, e cioè l’attestazione che la firma sia stata apposta in sua presenza da persona di cui egli abbia accertato l’identità; siffatta nullità può essere sanata con la rinnovazione della procura, ai sensi dell’art. 182 c.p.c., nel termine perentorio all’uopo concesso dal giudice.

E ancora, con riferimento alla procura ad litem conferita con scrittura autenticata da notaio austriaco, afferma Sez. U., n. 01717 del 27/01/2020, Mercolino, Rv. 656766-02, che tale procura è valida ancorché non munita dell’apostille prevista dalla Convenzione sull’abolizione della legalizzazione degli atti pubblici stranieri (adottata all’Aja il 5 ottobre 1961 e ratificata dall’Italia con l. n. 1253 del 1966), atteso che, nei rapporti tra Italia ed Austria, trova applicazione l’art. 14 della Convenzione aggiuntiva alla Convenzione dell’Aja sulla procedura civile dell’1° marzo 1954 (firmata a Vienna il 30 giugno del 1975 e ratificata dall’Italia con l. n. 342 del 1977), il quale esclude la necessità dell’apostille, disponendo che gli atti pubblici formati in uno dei due Stati da un tribunale, un’autorità amministrativa o un notaio e provvisti del sigillo d’ufficio, e quelli privati la cui autenticità sia attestata da un tribunale, un’autorità amministrativa o un notaio hanno il medesimo valore, quanto alla loro autenticità, di quelli formati o redatti nell’altro Stato, senza che risulti necessaria alcuna legalizzazione o formalità analoga.

Chiarisce poi Sez. U, n. 01605/2020, Oricchio, Rv. 656794-02, che in caso di mandante residente all’estero, l’onere di fornire la prova contraria necessaria a superare la presunzione dell’avvenuto rilascio in Italia della procura ad litem apposta su atto giudiziario senza indicazione del luogo di sottoscrizione ed autenticata da legale italiano, grava sulla parte avversa a quella della cui sottoscrizione si tratta, e non può ritenersi assolto nell’ipotesi in cui risulti agli atti il riferimento, attestato da idonea documentazione, ad un ingresso in Italia del mandante nello stesso periodo temporale di predisposizione dell’atto a cui la procura si riferisce.

Infine, sul delicato tema della procura congiunta e dei conseguenti risvolti sul piano dei rapporti interni, pare utile segnalare quanto affermato da Sez. 6-2, n. 070372020, Scarpa, Rv. 657282-01, la quale ha chiarito che nel caso in cui sia stato conferito un incarico ad un avvocato da parte di un altro avvocato ed in favore di un terzo, ai fini dell’individuazione del soggetto obbligato a corrispondere il compenso al difensore per l’opera professionale richiesta, si deve presumere, in presenza di una procura congiunta, la coincidenza del contratto di patrocinio con la procura alle liti, salvo che venga provato, anche in via indiziaria, il distinto rapporto interno ed extraprocessuale di mandato esistente tra i due professionisti e che la procura rilasciata dal terzo in favore di entrambi era solo lo strumento tecnico necessario all’espletamento della rappresentanza giudiziaria, indipendentemente dal ruolo di “dominus” svolto dall’uno rispetto all’altro nell’esecuzione concreta del mandato.

4. Difetto di autorizzazioni.

Nei giudizi introdotti successivamente all’entrata in vigore della l. n. 69 del 2009, l’effetto sanante ex tunc previsto dall’art. 182, comma 2, c.p.c. si determina non solo quando la parte produca le necessarie autorizzazioni nel termine assegnatole dal giudice, ma anche quando le produca autonomamente a seguito dell’eccezione di controparte, atteso che, una volta proposta dall’avversario una eccezione di difetto di rappresentanza, la parte è chiamata a contraddire e, quindi, deve produrre l’opportuna documentazione senza attendere l’assegnazione di un apposito termine giudiziale. Il principio, affermato da Sez. 2, n. 23940/2019, Cosentino, Rv. 655357 - 01, si inserisce nel solco di una impostazione (Sez. 2, n. 24212/2018, Sabato, Rv. 650641 - 01; n. 4248 del 2016, Rv. 638746 - 01) secondo cui, mentre ai sensi dell’art. 182 c.p.c. il giudice che rileva d’ufficio un difetto di rappresentanza deve promuovere la sanatoria, assegnando alla parte un termine di carattere perentorio, senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze di carattere processuale, nel diverso caso in cui l’eccezione di difetto di rappresentanza sia stata tempestivamente proposta da una parte, l’opportuna documentazione va prodotta immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine, che non sia motivatamente richiesto o comunque assegnato dal giudice, giacché sul rilievo di parte l’avversario è chiamato a contraddire.

Con riferimento alla rappresentanza del figlio minore da parte del genitore, nell’anno 2020 tale principio ha trovato applicazione da parte di Sez. 3, n. 02460/2020, Iannello, Rv. 656726 - 01, la quale ha chiarito che, nel caso in cui il genitore agisca in giudizio in rappresentanza del figlio minore in difetto di autorizzazione ex art. 320 c.c., l’eccezione di carenza di legittimazione processuale sollevata dalla controparte è infondata se l’autorizzazione viene prodotta, sia pure successivamente alla scadenza dei termini ex art. 183, comma 6, c.p.c., ovvero se il figlio, diventato maggiorenne, si costituisce nel giudizio, così ratificando l’attività processuale del rappresentante legale, operando in entrambe le ipotesi la sanatoria retroattiva del vizio di rappresentanza ai sensi dell’art. 182 c.p.c.

5. Notificazioni e comunicazioni.

In materia di notificazioni e comunicazioni la cospicua elaborazione giurisprudenziale del 2020 ha offerto rilevanti indicazioni applicative.

Con riferimento alla notificazione in mani proprie, di particolare interesse è quanto affermato da Sez. U., n. 07454 2020, Conti, Rv. 657417-02, secondo cui la regola stabilita dall’art. 138, comma 1, c.p.c., secondo cui l’ufficiale giudiziario può sempre eseguire la notificazione mediante consegna nelle mani proprie del destinatario, ovunque lo trovi, è applicabile anche nei confronti del difensore di una delle parti in causa, essendo quest’ultimo, dopo la costituzione in giudizio della parte a mezzo di procuratore, l’unico destinatario delle notificazioni da eseguirsi nel corso del procedimento (art. 170, comma 1, c.p.c.), sicché, al fine della decorrenza del termine per l’impugnazione, è valida la notifica della sentenza effettuata a mani proprie del procuratore costituito, ancorché in luogo diverso da quello in cui la parte abbia, presso il medesimo, eletto domicilio.

Sul diverso versante delle notificazioni in caso di c.d. irreperibilità relativa del destinatario, merita segnalare Sez. 2, n. 06089 /2020, Fortunato, Rv. 657125-01, secondo cui le notifiche ex art. 140 c.p.c. presentano un regime che si discosta da quello di cui all’art. 8, comma 4, l. n. 890 del 1982, atteso che, mentre le notificazioni a mezzo del servizio postale si perfezionano decorsi dieci giorni dalla spedizione della raccomandata o al momento del ritiro del piego contenente l’atto da notificare, ove anteriore, viceversa, l’art. 140 c.p.c., all’esito della sentenza n. 3 del 2010 della Corte costituzionale, fa esplicitamente coincidere tale momento con il ricevimento della raccomandata informativa, reputato idoneo a realizzare, non l’effettiva conoscenza, ma la conoscibilità del deposito dell’atto presso la casa comunale e a porre il destinatario in condizione di ottenere la consegna e di predisporre le proprie difese nel rispetto dei termini eventualmente pendenti per la reazione giudiziale. Tale difformità non si espone a dubbi di legittimità costituzionale, posto che non è predicabile un dovere del legislatore ordinario di uniformare il trattamento processuale di situazioni assimilabili, essendo consentita una diversa conformazione degli istituti processuali a condizione che non siano lesi i diritti di difesa.

Quanto poi alle formalità imposte all’ufficiale giudiziario nell’ambito del procedimento notificatorio, afferma Sez. 5, n. 06565/2020, Dell’Orfano, Rv. 657392-01, che l’ufficiale giudiziario deve indicare, nella relazione prevista dall’art. 148 c. p. c., la persona alla quale ha consegnato copia dell’atto, identificandola con le sue generalità, nonché il rapporto della stessa con il destinatario della notificazione, con la conseguenza che, qualora, manchi l’indicazione delle generalità del consegnatario, la notifica è nulla ai sensi dell’art. 160 c. p. c. per incertezza assoluta su detta persona, a meno che la persona del consegnatario sia sicuramente identificabile attraverso la menzione del suo rapporto con il destinatario.

Puntualizza, peraltro, Sez. 5, n. 06562/2020, Dell’Orfano, Rv. 657543 -01, che le dichiarazioni dell’ufficiale giudiziario (o del messo notificatore) non fanno fede fino a querela di falso della regolarità intrinseca e della completezza dell’atto ricevuto per procedere alla notifica né della corrispondenza della copia notificata all’originale, non essendo questa l’attività giudiziaria che egli compie e deve compiere, con la conseguenza che la presunzione di conformità tra originale e copia dell’atto notificato viene meno se il destinatario produce quest’ultimo incompleto. Né si può perciò ipotizzare un contrasto tra le due relate (atti pubblici), entrambe originali, apposte dall’ufficiale giudiziario, rispettivamente, sulla copia notificata e sull’originale dell’atto notificato, proprio perché non spetta all’ufficiale giudiziario effettuare alcun controllo intrinseco, sicché, se la copia dell’atto notificato non corrisponde all’originale, è sulla copia che il destinatario fa affidamento e su cui può difendersi.

Inoltre, sempre con riferimento al procedimento notificatorio, chiarisce in termini generali Sez. 5, n. 19780/2020, Gian Andrea, Rv. 659041-01, che l’art. 137, comma 1, c.p.c. demanda l’attività di impulso del procedimento notificatorio - consistente essenzialmente nella consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario - alla parte personalmente o al suo procuratore, che la rappresenta in giudizio in ragione del suo ufficio di difensore, mentre non sono disciplinate le modalità di conferimento dell’incarico all’ufficiale giudiziario, che restano irrilevanti rispetto al destinatario, in quanto il presupposto del procedimento notificatorio si realizza con la consegna dell’atto e lo scopo della notificazione è raggiunto quando è certo il soggetto cui essa va riferita. Pertanto, ove nella relazione di notifica si faccia riferimento, quale persona che ha materialmente eseguito la consegna dell’atto da notificare, a soggetto diverso da quello legittimato, senza indicare la sua veste di incaricato di quest’ultimo, tale carenza non inficia di per sé la notifica, che può risultare inutilmente eseguita solo se alla stregua dell’atto notificato non sia possibile individuare il soggetto ad istanza della quale la notifica stessa deve ritenersi effettuata. (In applicazione del principio, la S.C. ha escluso l’irritualità della notifica effettuata dall’Avvocatura dello Stato mediante presentazione all’UNEP dell’atto, siccome univocamente riferibile, sotto il profilo soggettivo ed oggettivo-contenutistico, all’Agenzia delle entrate quale controparte del ricorrente nel giudizio di legittimità).

Giova evidenziare, peraltro, che nel periodo in rassegna le S.U. sono intervenute sulla vexata questio della natura del vizio della notifica eseguita da un operatore di poste private senza titolo abilitativo nel periodo compreso tra l’entrata in vigore della direttiva n. 2008/6/CE ed il regime introdotto dalla l. n. 124 del 2017, affermando il seguente principio di diritto: In tema di notificazioni di atti processuali, posto che nel quadro giuridico novellato dalla direttiva n. 2008/6/CE del Parlamento e del Consiglio del 20 febbraio 2008 è prevista la possibilità per tutti gli operatori postali di notificare atti giudiziari, a meno che lo Stato non evidenzi e dimostri la giustificazione oggettiva ostativa, è nulla e non inesistente la notificazione di atto giudiziario eseguita dall’operatore di posta privata senza relativo titolo abilitativo nel periodo intercorrente fra l’entrata in vigore della suddetta direttiva ed il regime introdotto dalla l. n. 124 del 2017. La sanatoria della detta nullità per raggiungimento dello scopo dovuto alla costituzione della controparte, non rileva però ai fini della tempestività del ricorso, a fronte della mancanza di certezza legale della data di consegna del ricorso medesimo all’operatore, dovuta all’assenza di poteri certificativi dell’operatore, perché sprovvisto di titolo abilitativo (Sez. U, n. 00299/2020, Perrino, Rv. 656575-01).

Quanto poi allo specifico tema delle notificazioni alla P.A., ribadisce Sez. L, n. 27424/2020, Di Paolantonio, Rv. 659793-01 (in linea di continuità con Sez. 6-3, n.15415/2017, Olivieri, Rv. 645069-02), che nella controversia in cui sia parte un ente pubblico che, pur svolgendo funzioni strumentali al perseguimento degli interessi generali e pur inserito nell’organizzazione statale, sia dotato di autonoma personalità giuridica, la notifica della sentenza nei confronti di tale ente deve essere effettuata presso l’ufficio dell’Avvocatura erariale individuato ex art. 11, comma 2, della l. n. 1611 del 1933, restando irrilevante che l’ente sia rimasto contumace nel giudizio, atteso che la domiciliazione è prevista per legge e spiega efficacia indipendentemente dalla scelta discrezionale di costituirsi o meno. (Nella specie, la S.C. ha escluso la tardività del ricorso per cassazione proposto da un istituto tecnico scolastico, dotato di personalità giuridica ex art. 3 della l. n. 889 del 1931, che era rimasto contumace nel giudizio di merito e nei cui confronti la sentenza era stata notificata presso la sede legale dell’istituto, reputando inidonea tale notifica a far decorrere il termine breve per impugnare).

da ribadisce

Sul medesimo tema, inoltre, è intervenuta Sez. 2, n. 24032/2020, Casadonte, Rv. 659396-01, affermando che la notificazione dell’atto introduttivo di un giudizio eseguita direttamente all’Amministrazione dello Stato e non presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato, nei casi nei quali non si applica la deroga alla regola di cui all’art. 11 del r.d. n. 1611 del 1933, non può ritenersi affetta da mera irregolarità o da inesistenza, bensì - secondo quanto disposto dalla citata norma - da nullità, ed è quindi suscettibile di rinnovazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c. ovvero di sanatoria nel caso in cui l’Amministrazione si costituisca.

Da ultimo, vanno segnalate alcune pronunce che affrontano rilevanti questioni collegate all’impiego della posta elettronica certificata, soprattutto sotto il profilo del perfezionamento della notifica.

In particolare, secondo Sez. L., n. 04624/2020, Raimondi, Rv. 656932-01, in tema di notificazione al difensore mediante posta elettronica certificata, nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione e di consegna del messaggio nella casella del destinatario, si determina una presunzione di conoscenza dell’atto, analoga a quella prevista, per le dichiarazioni negoziali, dall’art. 1335 c.c.; spetta quindi al destinatario, in un’ottica collaborativa, rendere edotto tempestivamente il mittente incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione o di presa visione degli allegati trasmessi via PEC, legate all’utilizzo dello strumento telematico, onde fornirgli la possibilità di rimediare all’inconveniente, sicché all’inerzia consegue il perfezionamento della notifica.

E ancora, chiarisce Sez. 6-3, n. 03164/2020, Gianniti, Rv. 657013-01, che la notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l’operatore attesta di avere rinvenuto la cd. casella PEC del destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l’inadeguata gestione dello spazio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto regolare la costituzione del resistente nel giudizio di legittimità, avvenuta con controricorso depositato in cancelleria dopo notifica telematica non andata a buon fine per saturazione della casella di posta elettronica del ricorrente).

Precisa, altresì, Sez. 6-5, n. 03965 /2020, Dell’Orfano, Rv. 656990-01, che la mancata consegna all’avvocato della comunicazione o notificazione inviatagli a mezzo posta elettronica certificata (c.d. P.E.C.) produce effetti diversi a seconda che gli sia o meno imputabile: nel primo caso, le notificazioni/comunicazioni saranno eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria; nel secondo, attraverso l’utilizzo delle forme ordinarie previste dal codice di rito.

Sempre con riferimento alla tematica del perfezionamento della notificazione, di significativo interesse è quanto affermato da Sez. 6-1, n. 04712/2020, Meloni, Rv. 657243-01, secondo cui in tema di notificazione di atti processuali, dichiarata l’illegittimità costituzionale, con sentenza n. 75 del 2019, dell’art. 16-septies del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. nella l. n. 221 del 2012 - nella parte in cui prevedeva che la notificazione eseguita con modalità telematiche, la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24, si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione della predetta ricevuta -, trova applicazione anche in questa ipotesi il principio di scissione soggettiva degli effetti della notificazione.

Infine, secondo Sez. 1, n. 20039/2020, Vella, Rv. 658823-01, in caso di notificazione della sentenza a mezzo PEC, la copia analogica della ricevuta di avvenuta consegna, completa di attestazione di conformità, è idonea a certificare l’avvenuto recapito del messaggio e degli allegati, salva la prova contraria, di cui è onerata la parte che solleva la relativa eccezione, dell’esistenza di errori tecnici riferibili al sistema informatizzato.

6. Mediazione obbligatoria.

In tema di mediazione obbligatoria ex art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010, si segnalano due pronunce di carattere generale, relative, rispettivamente, alla improcedibilità per il mancato esperimento di tale procedimento ed alle conseguenze in caso di omessa indicazione da parte del giudice del termine per la presentazione della relativa domanda.

In particolare, Sez. 3, n. 25155/2020, Graziosi, Rv. 659412 - 01, ha chiarito che il preventivo esperimento del procedimento di mediazione obbligatoria è condizione di procedibilità della domanda, ma l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza; ove ciò non avvenga, il giudice d’appello può disporre la mediazione, ma non vi è obbligato, neanche nelle materie indicate dallo stesso art. 5, comma 1-bis, atteso che in grado d’appello l’esperimento della mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda solo quando è disposta discrezionalmente dal giudice, ai sensi dell’art. 5, comma 2.

Con la seconda pronuncia, Sez. 6 - 2, n. 02775/2020, Oliva Rv. 657251 - 01 ha ritenuto inficiato da mera irregolarità formale il provvedimento giudiziale che, nel disporre l’esperimento del procedimento di mediazione obbligatoria, abbia omesso l’indicazione del termine per la presentazione della relativa domanda, posto che ciò non determina alcuna incertezza in capo alle parti essendo la durata di detto termine stabilita in misura fissa dalla legge.

Altre due pronunce emesse nell’anno in rassegna hanno riguardato in particolare le controversie soggette a mediazione obbligatoria in materia di condominio e quelle introdotte con richiesta di decreto ingiuntivo.

Con riferimento alle prime, Sez. 6 - 2, n. 10846/2020, Scarpa, Rv. 657890 - 01, ha in primo luogo chiarito che, ai sensi del comma 3 dell’art. 71-quater disp. att. c.c. l’amministratore di condominio è legittimato a partecipare alla procedura di mediazione obbligatoria solo previa delibera assembleare di autorizzazione, non rientrando tra le sue attribuzioni, in assenza di apposito mandato, il potere di disporre dei diritti sostanziali rimessi alla mediazione. Sulla base di tale premessa, ha quindi affermato che la condizione di procedibilità delle “controversie in materia di condominio” non può dirsi realizzata qualora l’amministratore partecipi all’incontro davanti al mediatore sprovvisto della previa delibera assembleare, da assumersi con la maggioranza di cui all’art. 1136, comma 2, c.c., non essendo in tal caso possibile iniziare la procedura di mediazione e procedere al relativo svolgimento, come suppone il comma 1 dell’art. 8 del d.lgs. n. 28 del 2010.

Riguardo ai giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, Sez. U., n. 19596/2020, Cirillo F.M., Rv. 658634, pronunciando su una questione di massima di particolare importanza, ha chiarito che, una volta instaurato il giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, l’onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta, con la conseguenza che, ove essa non si attivi, alla pronuncia di improcedibilità di cui all’art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010 conseguirà la revoca del decreto ingiuntivo.

Il problema affrontato dalle Sezioni Unite era stato già oggetto di una specifica pronuncia, cioè Sez. 3, n. 24629/2015, Vivaldi, Rv. 638006 - 01, la quale, invece, aveva affermato che nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo l’onere di esperire il tentativo obbligatorio di mediazione è da porre a carico della parte opponente. A tale conclusione quest’ultima sentenza era giunta attraverso una serie di considerazioni incentrate sulla natura deflattiva del procedimento di mediazione, sulla particolare struttura del procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo (che può consentire di pervenire anche in tempi brevi ad un accertamento definitivo) e sulla ravvisata opportunità di porre l’onere di instaurare il procedimento di mediazione a carico della parte che ha l’effettivo interesse ad introdurre il giudizio di merito a cognizione piena, attraverso lo strumento dell’opposizione al decreto; giudizio che il creditore opposto avrebbe viceversa inteso evitare attraverso l’utilizzo del più agile strumento del decreto ingiuntivo.

L’impostazione data dalla citata sentenza n. 24629 del 2015, pur seguita da qualche altra pronuncia della Suprema Corte, non aveva raccolto l’unanime consenso degli uffici giudiziari di merito, i quali si erano divisi su posizione tra loro inconciliabili.

Una parte di essi, infatti, aveva seguito l’orientamento di legittimità, un’altra parte aveva consapevolmente adottato la soluzione contraria, ponendo l’onere di promuovere il procedimento di mediazione a carico del creditore opposto. Vi erano, poi, soluzioni intermedie, come quella di chi sosteneva che l’onere di instaurazione del procedimento di mediazione dovesse gravare sulla parte opponente o su quella opposta a seconda che il decreto ingiuntivo avesse ottenuto, o meno, la provvisoria esecutività; oppure quella secondo la quale l’onere poteva essere posto a carico dell’opponente solo se questi aveva proposto domanda riconvenzionale.

A fronte della spaccatura creatasi nella giurisprudenza di merito, l’intervento delle Sezioni Unite è stato quanto mai opportuno, soprattutto al fine di assicurare l’effetto di prevedibilità delle decisioni giudiziarie, richiamato come “valore prezioso da preservare” dalle stesse Sezioni Unite.

La risoluzione della questione, come sopra già evidenziato, è stata nel senso che non potesse essere confermato l’orientamento inaugurato dalla citata sentenza n. 24629 del 2015 e che il contrasto esistente nella giurisprudenza andasse composto stabilendo che l’onere di attivare il procedimento di mediazione nel giudizio di opposizione. A tale conclusione le SS.UU. sono giunte partendo dal dato normativo, ed in particolare dagli artt. 4, comma 2 e 5, comma 1-bis e comma 6, del d.lgs. n. 28 del 2010, ed osservando che le tre norme citate sono univoche nel senso che l’onere di attivarsi per promuovere la mediazione debba essere posto a carico del creditore, che è appunto l’opposto. Hanno poi acutamente rilevato l’esistenza anche di argomenti di ordine logico e sistematico, fondati sulla ricostruzione sistematica del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e sul confronto delle diverse conseguenze derivanti dall’inerzia delle parti a seconda che si aderisca all’una o all’altra soluzione, nonché di rilevanza costituzionale..

7. Nullità degli atti e della sentenza.

Riguardo al caso in cui sia stata omessa la comunicazione al procuratore costituito dello spostamento d’ufficio dell’udienza già fissata, Sez. 3, n. 25861/2020 , Olivieri, Rv. 659783 - 01, ha ribadito che tale evenienza determina la nullità di tutti gli atti successivi del processo e della sentenza che lo conclude per violazione del principio del contraddittorio, il quale è dettato nell’interesse pubblico al corretto svolgimento del processo e non nell’interesse esclusivo delle parti; ed ha ulteriormente precisato che, trattandosi di nullità assoluta e non relativa, non può ravvisarsi nella mancata tempestiva attivazione della parte una decadenza dall’eccezione di nullità per tacita rinuncia ex art. 157, comma 2, c.p.c., ma la successiva condotta processuale può eventualmente rilevare al fine di accertare l’insussistenza di un effettivo pregiudizio inferto al diritto di difesa.

Con riferimento alla sentenza, Sez. 2, n. 06307/2020, Giuseppe Grasso, Rv. 657129 - 01, ha chiarito che, in mancanza di un’espressa comminatoria, non è configurabile la nullità della sentenza nell’ipotesi di mera difficoltà di comprensione e lettura del testo stilato in forma autografa dall’estensore, atteso che la sentenza non può ritenersi priva di uno dei requisiti di validità indispensabili per il raggiungimento dello scopo della stessa. Sez. 2, n. 06307/2020, Giuseppe Grasso, Rv. 657129 - 01.

Neppure dà luogo ad una nullità, secondo Sez., n. 05408/2020, Spena, Rv. 656943 - 01, il caso in cui vi sia stata l’erronea dichiarazione di contumacia di una delle parti, la quale non incide sulla regolarità del processo e non determina un vizio della sentenza, deducibile in sede di impugnazione, se non abbia provocato, in concreto, alcun pregiudizio allo svolgimento dell’attività difensiva.

La nullità è stata invece rilevata da Sez. 1, n. 05232/2020, Oliva, Rv. 657032 - 01, nell’ipotesi di inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale, la quale costituisce, per effetto del rinvio operato dall’art. 50-quater c.p.c., al successivo art. 161, comma 1, c.p.c. un’autonoma causa di nullità della decisione, che si converte in motivo di impugnazione, con la conseguenza che rimane ferma la validità degli atti che hanno preceduto la pronuncia della sentenza nulla e resta esclusa la rimessione degli atti al primo giudice, ove quello dell’impugnazione sia anche giudice del merito. La stessa decisione precisa inoltre che, quando peraltro il procedimento applicato dal giudice di merito abbia di fatto privato il ricorrente di un grado di giudizio, impedendogli la deduzione del vizio di composizione del giudice quale motivo di impugnazione davanti ad altro giudice di merito, l’accoglimento del ricorso per cassazione deve comportare la remissione della causa al primo giudice per un nuovo esame della domanda. (Fattispecie in materia di protezione umanitaria, erroneamente trattata dal tribunale in composizione collegiale, nelle forme del rito speciale camerale previsto per la protezione internazionale, anziché con quello ordinario, in composizione monocratica, suscettibile di gravame in appello).

Un’ulteriore ipotesi di nullità è stata dichiarata da Sez. 1, n. 04255/2020, Scotti Rv. 657073 - 01 con riferimento all’ipotesi in cui non vi sia perfetta corrispondenza tra il collegio giudicante dinanzi al quale le parti hanno rassegnato le definitive conclusioni, ed ha assunto la causa in decisione, e quello che delibera la decisione, non potendo essere sostituito un componente nella fase compresa tra l’udienza di precisazione delle conclusioni ed il deposito della sentenza, se non previa rinnovazione di detta udienza, a pena di nullità della sentenza per vizio di costituzione del giudice. La decisione ha altresì precisato che tale principio è estensibile anche al giudice monocratico e vale per tutte le attività preliminari rispetto alla decisione e quindi non soffre deroga in caso di “incidente decisorio”, allorché il giudice emetta ordinanza ex art. 101, comma 2, c.p.c. ritenendo di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, stante il dovere costituzionale del rispetto del contraddittorio e il divieto di decisioni cd. della “terza via”. In particolare, la peculiare fattispecie esaminata dalla S.C. riguardava un caso in cui, assunta la causa in decisione, un collegio diversamente composto aveva concesso termine alle parti per memorie su una questione rilevata d’ufficio, sebbene la sentenza fosse stata poi pronunciata dal medesimo collegio che aveva riservato la decisione.

Meritano infine di essere segnalate due decisioni di segno analogo, Sez. 6 - 1, n. 02020/2020, Vella, Rv. 656713 - 01 e Sez. 6 - 2, n. 2766/2020, Besso Marcheis, Rv. 657250 - 01, le quali hanno ritenuto affetta da nullità insanabile, rilevabile d’ufficio in sede d’impugnazione con conseguente rimessione dell’intero processo al primo giudice, la sentenza emessa nei confronti delle parti del giudizio ma con motivazione e dispositivo relativi a causa diversa, concernente altri soggetti.

7.1. Duplice iscrizione della causa a ruolo.

Una particolare ipotesi di nullità si verifica, come affermato da Sez. 3, n. 24974/2020, Fiecconi, Rv. 659579 - 01, qualora vi sia stata una duplice iscrizione a ruolo della medesima causa e siano entrambe proseguite senza essere riunite,

In proposito la decisione citata ricorda che l’iscrizione della causa a ruolo avviene, a norma degli artt. 168 c.p.c. e 72 disp. att. (applicabili anche al giudizio dinanzi al giudice di pace), su iniziativa del convenuto solo se questi si costituisce quando non si è costituito l’attore, onde l’iscrizione non può essere effettuata su richiesta della parte convenuta qualora l’attore si sia già costituito ed abbia presentato la nota di iscrizione a ruolo, determinando la formazione del fascicolo di ufficio, al quale va unito il fascicolo del convenuto che si costituisce successivamente. Tale previsione processuale comporta che, in caso di duplice iscrizione della causa a ruolo, ove le due udienze di prima comparizione ed il giudice istruttore non vengano a coincidere e i due processi non vengano riuniti, l’unica iscrizione che dà luogo a un processo regolare è quella effettuata dall’attore per prima, in quanto solo rispetto a questa il meccanismo processuale consente una valida instaurazione del contraddittorio e l’esercizio del diritto di difesa. Pertanto, qualora non venga disposta la riunione e il procedimento iscritto per secondo prosegua fino alla sentenza in assenza dell’attore, erroneamente considerato non costituito, sono nulle l’attività processuale compiuta e la sentenza emanata.

8. La mutatio e la emendatio libelli. Preclusioni processuali

La modificazione della domanda ex art. 183 c.p.c. è consentita sempre che rimangano immutate le parti del giudizio, nonché la vicenda sostanziale oggetto dello stesso.

In termini generali, il divieto di proporre domande nuove nel corso del processo deve ritenersi violato solo se la parte fa valere una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, attraverso l’immutazione dell’oggetto della domanda o dei fatti posti a fondamento di essa, e non anche quando essa precisi una domanda implicitamente compresa in quella originaria, come presupposto indispensabile o come logica conseguenza immediata e diretta del suo accoglimento, o formuli un’istanza resa necessaria da una nuova e imprevedibile eccezione della controparte (in questi termini Sez. 2, n. 02093/2018, Abete).

Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015, hanno chiarito che la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali.

Principio, quest’ultimo, recentemente ribadito da Sez. 6-2, n. 20898/2020, Mauro, Rv. 659230-01, secondo cui l’art. 183, comma 6, c.p.c. non esclude la possibilità della modifica del petitum o della causa petendi della domanda originariamente formulata, purché rimanga immutata la situazione sostanziale dedotta in giudizio e non sia provocata alcuna compromissione delle potenzialità difensive della controparte o l’allungamento dei tempi del processo.

Nel solco di questa impostazione si sono inserite, nell’anno in rassegna, alcune interessanti pronunce.

Segnatamente, secondo Sez. 3, n. 09692/2020, Gorgoni, Rv. 657690-01, nell’azione risarcitoria esperita nei confronti del proprietario di un’unità condominiale (nella specie, per danni conseguenti a perdite idriche provenienti da tubazioni), la successiva deduzione della qualità di condomino del convenuto costituisce una modificazione della domanda ammissibile ai sensi e nei limiti dell’art. 183, comma 6, c.p.c. e non incorre nel divieto di formulazione di nuove domande, in quanto l’elemento identificativo soggettivo delle personae è immutato e la domanda modificata, relativa alla stessa vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l›atto introduttivo, non modifica le potenzialità difensive della controparte ed è connessa a quella originaria in termini di «alternatività».

Chiarisce, altresì, Sez. 6-1, n. 18546/2020, Campese, Rv. 658999-01, che nel processo civile di cognizione, ciò che rende ammissibile l’introduzione in giudizio da parte dell’attore di un diritto diverso da quello originariamente fatto valere oltre la barriera preclusiva segnata dall’udienza ex art. 183 c.p.c. è il carattere della teleologica “complanarità”, dovendo pertanto tale diritto attenere alla medesima vicenda sostanziale già dedotta, correre tra le stesse parti, tendere alla realizzazione (almeno in parte) dell’utilità finale già avuta di mira con l’originaria domanda (salva la differenza tecnica di petitum mediato) e rivelarsi di conseguenza incompatibile con il diritto per primo azionato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione impugnata, che, in un giudizio promosso per la declaratoria di inefficacia di alcuni pagamenti ex art. 44 l.fall., aveva ritenuto ammissibile l’ulteriore domanda di adempimento formulata dall’attore, in via gradata, nella prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c.).

Del resto, già Sez. U, n. 22404/2018, Scrima, Rv. 650451-01, aveva affermato che nel processo introdotto mediante domanda di adempimento contrattuale è ammissibile la domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento formulata, in via subordinata, con la prima memoria ai sensi dell’art. 183, comma 6, c.p.c., qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa per incompatibilità con quella originariamente proposta.

Da ultimo, meritano di essere segnalate le seguenti ulteriori pronunce sul versante delle preclusioni processuali.

In particolare, sotto il profilo delle allegazioni fattuali afferma Sez. 3, n. 08525/2020, Iannello, Rv. 657810-02, che in tema di preclusioni processuali occorre distinguere tra fatti principali, posti a fondamento della domanda, e fatti secondari, dedotti per dimostrare i primi, l’allegazione dei quali non è soggetta alle preclusioni dettate per i fatti principali, ma trova il suo ultimo termine preclusivo in quello eventualmente concesso ex art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c., anche se richiesto ai soli fini dell’indicazione dei mezzi di prova o delle produzioni documentali. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione impugnata - riguardante un’azione di responsabilità promossa contro un avvocato che, secondo il suo assistito, aveva determinato, con la sua inerzia, la mancata soddisfazione coattiva del credito azionato - ritenendo che il giudice di merito avesse erroneamente considerato tardivo il riferimento, effettuato per la prima volta nella memoria istruttoria, ad una iscrizione ipotecaria di terzi sui beni del debitore del cliente, avvenuta proprio nel periodo durante il quale il difensore era rimasto inattivo, mentre, invece, si trattava di un’allegazione avente finalità probatoria, volta a dimostrare la riduzione, in quell’arco di tempo, della garanzia patrimoniale del credito poi rimasto insoddisfatto).

Con riguardo, poi, al tema della separazione dei giudizi, chiarisce Sez. 6-3, n. 18274/2020, Cricenti, Rv. 658769-01, che in tema di processo civile, la causa separata è mera prosecuzione della causa da cui origina e, quindi, le eccezioni fatte in quest’ultima valgono anche per l’altra; ne consegue che la tempestività dell’eccezione di prescrizione è rispettata se essa è contenuta nella comparsa di costituzione e risposta depositata nel giudizio originario, non occorrendo una reiterazione di tale eccezione in quello separato nei termini di cui all’art. 180 c.p.c.

Infine, sul versante delle preclusioni correlate alla costituzione in giudizio, Sez. 3 - n. 02394/2020, Tatangelo, Rv.657137-01, precisa che il differimento della prima udienza ex art. 168-bis, comma 5, c.p.c. intervenuto dopo la scadenza del termine per la costituzione del convenuto ex art. 166 c.p.c. non determina la rimessione in termini dello stesso convenuto ai fini della sua tempestiva costituzione e, di conseguenza, restano ferme le decadenze già maturate a suo carico ai sensi dell’art. 167 c.p.c.

8.1. Il differimento della prima udienza.

Frequente è il caso di differimento della prima udienza ex art. 168-bis, comma 5, c.p.c., il quale tuttavia, come affermato da Sez. 3, n. 02394/2020, Tatangelo, Rv. 657137 - 01, ove sia intervenuto dopo la scadenza del termine per la costituzione del convenuto ex art. 166 c.p.c., non determina la rimessione in termini dello stesso convenuto ai fini della sua tempestiva costituzione e, di conseguenza, restano ferme le decadenze già maturate a suo carico ai sensi dell’art. 167 c.p.c.

9. La rimessione in termini.

Da tempo la rimessione in termini è diventata un rimedio restitutorio di carattere generale - non limitato alla fase istruttoria del procedimento ordinario di cognizione -, che si aggiunge agli speciali rimedi già previsti per specifiche situazioni (si pensi, a titolo esemplificativo, all’art. 294 c.p.c. per la rimessione in termini del convenuto contumace, all’art. 208 c.p.c. per la revoca dell’ordinanza di decadenza della prova, all’art. 104 disp. att. c.p.c. per la revoca dell’ordinanza che ha dichiarato la decadenza dall’assunzione della prova testimoniale). Pertanto, trova applicazione, alla luce dei principi costituzionali di tutela delle garanzie difensive e del giusto processo, non solo con riguardo alla decadenza dai poteri processuali interni al giudizio, ma anche a situazioni esterne al suo svolgimento, quale la decadenza dal diritto di impugnazione (Sez. 5, n. 03277/2012, Virgilio, Rv. 622005 - 01).

Va ulteriormente precisato che, come più recentemente precisato da Sez. U, n. 04135/2019, Lamorgese, Rv. 652852 - 03, la rimessione in termini per causa non imputabile, in entrambe le formulazioni che si sono succedute (artt. 184-bis e 153 c.p.c.), ossia per errore cagionato da fatto impeditivo estraneo alla volontà della parte, che presenti i caratteri dell’assolutezza e non della mera difficoltà e si ponga in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza, non è invocabile in caso di errori di diritto nell’interpretazione della legge processuale, pur se determinati da difficoltà interpretative di norme nuove o di complessa decifrazione, in quanto imputabili a scelte difensive rivelatesi sbagliate.

Questi principi sono ormai consolidati e, nell’anno in rassegna, sono stati riaffermati da Sez. 6 - 5, n. 04585/2020, Dell’Orfano, Rv. 657317 - 01, la quale ha escluso l’applicazione dell’istituto della rimessione in termini in un caso in cui la parte, essendo decaduta dall’impugnazione per l’avvenuto decorso del termine di cui all’art. 327 c.p.c., aveva dedotto la non tempestiva comunicazione della sentenza da parte della cancelleria, e ciò sul rilievo che il predetto termine decorre dalla pubblicazione della sentenza e non dalla sua comunicazione e che dunque la decadenza dall’impugnazione nella specie era conseguente ad un errore di diritto.

In termini generali, secondo l’orientamento più rigoroso ed allo stato prevalente, il presupposto della rimessione in termini è che la parte dimostri di essere incorsa nella decadenza per causa non solo ad essa non imputabile (perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà), ma anche assoluta, non essendo sufficiente la prova di un’impossibilità relativa, cioè della semplice difficoltà, ovvero dell’impedimento che possa comunque essere superato, anche se con una intensità di sforzo o di diligenza superiore alla norma. Da ciò deriva che, di fatto, la causa non imputabile coincide con il caso fortuito e la forza maggiore, vale a dire con quegli accadimenti imprevedibili ed inevitabili con una diligenza superiore al normale.

Sez. 3, n. 25289/2020, Guizzi, Rv. 659779 - 01, ha ulteriormente precisato che, qualora sia ravvisabile una causa non imputabile alla parte che è incorsa nella decadenza, la rimessione in termini, sia nella norma dettata dall’art. 184-bis c.p.c. che in quella di più ampia portata contenuta nell’art. 153, comma 2, c.p.c., presuppone altresì che la stessa parte si attivi con tempestività e, cioè, in un termine ragionevolmente contenuto e rispettoso del principio della durata ragionevole del processo. In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva rimesso in termini l’appellante principale, la cui mancata tempestiva costituzione era dipesa dall’illegittimo rifiuto di iscrizione a ruolo opposto dalla cancelleria, anche in considerazione del fatto che la scadenza del termine di costituzione si era verificata durante le festività natalizie.

Infine, merita di essere segnalata Sez. 6 - 5, n. 23834/2020, Conti, Rv. 659359 - 01, la quale ha chiarito che non costituisce presupposto per la rimessione in termini della parte che sia incorsa nella preclusione o nella decadenza la pronuncia delle Sezioni Unite che componga il contrasto sull’interpretazione di una norma processuale, atteso che una tale pronuncia non configura un’ipotesi di overruling avente il carattere di imprevedibilità e, di conseguenza.

10. Il litisconsorzio, l’intervento e la chiamata in causa.

In linea generale, come chiarisce Sez. 3, n. 03692 del 13/02/2020, Guizzi, Rv. 656899 - 01, il litisconsorzio necessario, la cui violazione è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, ricorre, oltre che per motivi processuali e nei casi espressamente previsti dalla legge, quando la situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in giudizio debba essere decisa in maniera unitaria nei confronti di tutti coloro che ne siano partecipi, onde non privare la pronuncia dell’utilità connessa con l’esperimento dell’azione proposta, il che non può mai verificarsi per esigenze probatorie, ma solo ove tale azione tenda alla costituzione o al mutamento di un rapporto plurisoggettivo unico oppure all’adempimento di una prestazione inscindibile incidente su una situazione pure inscindibile comune a più soggetti.

In ogni caso, è consolidato il principio, riaffermato da Sez. L, n. 05679/2020, Bellè, Rv. 657513 - 01 (nello stesso senso già Sez. 2, 25810/2013, C.A. Proto, Rv. 628300 - 01), secondo il quale la parte che deduce la non integrità del contraddittorio ha l’onere di indicare i litisconsorti pretermessi e di dimostrare i motivi per i quali è necessaria l’integrazione, senza, peraltro, che sia impedito al giudice di rilevare d’ufficio la questione, sia pure a seguito di sollecitazione di parte.

Ancora in termini generali, Sez. 2, n. 23315/2020, Tedesco, Rv. 659380 - 01, ha affermato che, quando risulta integrata la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, non rilevata né dal giudice di primo grado, che non ha disposto l’integrazione del contraddittorio, né da quello di appello, che non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354, comma 1, c.p.c., resta viziato l’intero processo e s’impone, in sede di giudizio di cassazione, l’annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, comma 3, c.p.c. ().

Quanto all’individuazione della natura del rapporto dedotto in giudizio, la casistica giurisprudenziale è varia.

Tra le pronunce che hanno ritenuto la sussistenza di un litisconsorzio necessario con riferimento a determinate controversie sono intervenute due pronunce.

La prima pronuncia, Sez. 3, n. 07755/2020, Dell’Utri, Rv. 657502 - 01, in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, ha affermato che, nella procedura di risarcimento diretto di cui all’art. 149 del d.lgs. n. 209 del 2005, promossa dal danneggiato nei confronti del proprio assicuratore, sussiste litisconsorzio necessario rispetto al danneggiante responsabile, analogamente a quanto previsto dall’art. 144, comma 3, dello stesso decreto, sicché, ove il proprietario del veicolo assicurato non sia stato citato in giudizio, il contraddittorio deve essere integrato ex art. 102 c.p.c. e la relativa omissione, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, comporta l’annullamento della sentenza ai sensi dell’art. 383, comma 3, c.p.c.

La seconda pronuncia, Sez. 6 - 3, n. 09648/2020, Cigna, Rv. 657742 - 01, con specifico riferimento all’azione revocatoria ordinaria avente per oggetto l’atto di dotazione patrimoniale del trust, ha affermato che il trustee, è sempre litisconsorte necessario, in quanto titolare dei diritti conferiti nel patrimonio vincolato e unica persona di riferimento nei rapporti con i terzi, non già quale legale rappresentante, bensì come soggetto che dispone del diritto, sia pure in funzione della realizzazione del programma stabilito nell’atto istitutivo dal disponente a vantaggio dei beneficiari.

È stato invece esclusa la sussistenza del litisconsorzio necessario tra il candidato alla carica di sindaco e gli altri candidati della lista, in quanto l’azione popolare elettorale ha ad oggetto la condizione personale del candidato eletto, incidendo sul suo diritto soggettivo all’elettorato passivo e sul diritto all’elettorato attivo dell’attore, non rilevando che altri consiglieri eletti possano eventualmente subire effetti, riflessi e indiretti, dalla adottanda decisione (Sez. 1, n. 21582/2020, Acierno, Rv. 659273 - 03).

A sua volta, Sez. 6 - 2, n. 12325/2020, Giannaccari, Rv. 658461 - 01, ha escluso la sussistenza del litisconsorzio necessario e la conseguente necessità di integrazione del contraddittorio, tra comproprietari nell’ipotesi di azione introdotta da uno di essi a tutela della proprietà comune al fine di far valere l’osservanza delle distanze legali.

Con riferimento al procedimento cautelare, si segnala Sez. 6 - 2, n. 20020/2020, Oliva, Rv. 659227 - 01, che ha chiarito come la mancata partecipazione di un litisconsorte necessario in sede di reclamo cautelare, non rilevata dal giudice di primo grado, che non ha disposto l’integrazione del contraddittorio, non costituisce una delle ipotesi tassative previste dall’art. 354, comma 1, c.p.c. per le quali resta viziato l’intero processo e impone, in sede di appello, l’annullamento, anche d’ufficio, della pronuncia emessa ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, comma 3, c.p.c., trattandosi di procedimento inidoneo ad incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale e ininfluente nel successivo giudizio di merito.

In tema di intervento volontario, Sez. 3, n. 11085/2020, Francesco Maria Cirillo Rv. 658095 - 01 ha chiarito che il diritto che, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.c., il terzo può far valere in un giudizio pendente tra altre parti deve essere relativo all’oggetto sostanziale dell’originaria controversia, da individuare con riferimento al petitum ed alla causa petendi, ovvero dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo a fondamento della domanda giudiziale originaria, restando irrilevante la mera identità di alcune questioni di diritto, la quale, configurando una connessione impropria, non consente l’intervento del terzo nel processo, ferma restando la facoltà del giudice di merito, in caso di bisogno, di disporre la separazione successivamente all’intervento, allo scopo di evitare cause congestionate dal numero eccessivo delle parti.

Infine, con riguardo alla chiamata in causa di un terzo su istanza di parte, Sez. 3, n. 03692/2020, Guizzi, Rv. 656899 - 02, ha affermato che, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario, è discrezionale il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo; ne consegue che, sebbene sia stata tempestivamente chiesta dal convenuto tale chiamata ex art. 269 c.p.c., in manleva o in regresso, il giudice può rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del detto terzo.

11. La sospensione del processo.

Sez. 6 - 3, n. 18082/2020, Iannello, Rv. 658515 - 01, ponendosi nel solco di un orientamento inaugurato da S.U. n. 27846/2013, Petitti, Rv. 628456 - 01 (seguito, tra le altre, da Sez. 6-1, n. 19056/2017, Marulli, Rv. 645684 - 01; Sez. 6-3, n. 15981/2018, Olivieri, Rv. 649429 - 01), ha ribadito che la sospensione prevista dall’art. 295 c.p.c. presuppone la pendenza davanti allo stesso o ad altro giudice di una controversia avente ad oggetto questioni pregiudiziali necessariamente diverse rispetto a quelle dibattute nel giudizio da sospendere, mentre, ove si verta in ipotesi di identità di questioni in discussione innanzi al giudice del processo del quale si chiede la sospensione ed in altra, diversa sede, detto giudice conserva il potere di pronunciare sul thema decidendum devoluto alla sua cognizione, potendo soltanto configurarsi gli estremi per far luogo o alla riunione dei procedimenti o ad una declaratoria di litispendenza o di continenza di cause.

Durante la sospensione del processo, come affermato da Sez. 3, n. 01580/2020, Dell’Utri, Rv. 656649 - 01 (dando continuità ad un principio enunciato da Sez. U., n. 23836/2004, Vitrone, Rv. 581549 - 01, seguite, tra le altre, da Sez. 2, n. 3718/2013, Bertuzzi, Rv. 624941 - 01) non possono essere compiuti, ai sensi dell’art. 298, comma 1, c.p.c., atti del procedimento, con la conseguenza che è inefficace, poiché funzionalmente inidonea a provocare la riattivazione del giudizio e motivo di nullità per derivazione di tutti gli eventuali atti successivi, l’istanza di riassunzione proposta prima della cessazione della causa di sospensione, ovvero anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza che abbia definito la controversia pregiudiziale, senza che rilevi, al fine del superamento di detta sanzione, il sopravvenuto venire meno della medesima causa.

Sulla scia di Sez. 3, n. 6185/2009, Frasca, Rv. 607661 - 01, Sez. 6 - 3, n. 9066/2020, Rubino, Rv. 657663 - 01, ha ribadito che la sospensione necessaria del processo civile ai sensi dell’art. 75, comma 3, c.p.p. presuppone che il danneggiato abbia prima esercitato l’azione civile in sede penale mediante la costituzione di parte civile e, successivamente, proposto la medesima azione in sede civile, non trovando applicazione detta norma quando il danneggiato agisca in sede civile non solo contro l’imputato, ma anche contro altri coobbligati al risarcimento.

Riguardo alla sospensione del processo ex art. 337, comma 2, c.p.c. Sez. 6 - 1 n. 17623/2020, Valitutti, Rv. 658720 - 01 ha precisato che è solo facoltativa, perché può essere disposta in presenza di un rapporto di pregiudizialità in senso lato tra la causa pregiudicante e quella pregiudicata, senza che la statuizione assunta nella prima abbia effetto di giudicato nella seconda, né richiede che le parti dei due giudizi siano identiche, mentre quella disciplinata dall’art. 295 c.p.c. è sempre necessaria, essendo finalizzata ad evitare il contrasto tra giudicati nei casi di pregiudizialità in senso stretto e presuppone altresì l’identità delle parti dei procedimenti.

Con riferimento invece al rapporto fra il giudizio di impugnazione di una sentenza parziale e quello che sia proseguito davanti al giudice che ha pronunciato detta sentenza, Sez. 6 - 3, n. 08664/2020, Tatangelo, Rv. 657832 - 01, ribadendo un consolidato orientamento di legittimità, ha nuovamente puntualizzato che l’unica possibilità di sospensione di quest’ultimo giudizio é quella su richiesta concorde delle parti ex art. 279, comma 4, c.p.c., che trova applicazione anche nel caso di sentenza parziale sul solo an debeatur, restando esclusa sia la sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c. sia quella di cui al comma 2 dell’art. 337 c.p.c., per l’assorbente ragione che il giudizio é unico e che, per tale ragione, la sentenza resa in via definitiva é sempre soggetta alle conseguenze di una decisione incompatibile sulla statuizione oggetto della sentenza parziale.

Infine, di particolare interesse è Sez. 6 - 1, n. 25660/2020, Tricomi, Rv. 659892 - 01 che, con riguardo all’ipotesi in cui nel corso di un procedimento introdotto con il rito sommario di cognizione emerga la pendenza di un altro giudizio che abbia ad oggetto questioni pregiudiziali, ha osservato che in tale evenienza si determina la necessità di una istruzione non sommaria del procedimento e, quindi, il giudice non può adottare un provvedimento di sospensione ex art. 295 c.p.c., ma deve disporre il passaggio al rito della cognizione piena, come previsto dall’art. 702 ter, comma 3, c.p.c.

12. L’interruzione del processo.

Sez. 3, n. 1574/2020, Scrima, Rv. 656637 - 01, ha ribadito il principio (già enunciato, da Sez. 3, n. 25234/2010, Urban, Rv. 615157 - 01 e da altre pronunce) secondo il quale la morte dell’unico difensore della parte costituita, che intervenga nel corso del giudizio, determina automaticamente l’interruzione del processo, anche se il giudice e le altre parti non ne abbiano avuto conoscenza, e preclude ogni ulteriore attività processuale, con la conseguente nullità degli atti successivi e della sentenza eventualmente pronunciata; ove, tuttavia, il processo sia irritualmente proseguito, nonostante il verificarsi dell’evento morte, la causa interruttiva può essere dedotta e provata in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., mediante la produzione dei documenti necessari, ma solo dalla parte colpita dal predetto evento, a tutela della quale sono poste le norme che disciplinano l’interruzione, non potendo essere rilevata d’ufficio dal giudice, né eccepita dalla controparte come motivo di nullità della sentenza.

Con riferimento all’ipotesi di cancellazione volontaria del difensore dall’albo ed alla questione se essa possa costituire una causa di interruzione del processo, al pari della morte del difensore, Sez. 6 - 3, n. 21359/2020, Cricenti, Rv. 659158 - 01, ha in primo luogo ricordato che tale questione, controversa in passato, ha trovato una soluzione nella decisione di Sez. U, n. 3702/2017, Manna, Rv. 642537 - 01, secondo cui “un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 301, comma 1, c.p.c. porta ad includere la cancellazione volontaria suddetta tra le cause di interruzione del processo, con la conseguenza che il termine di impugnazione non riprende a decorrere fino al relativo suo venir meno o fino alla sostituzione del menzionato difensore volontaria dall’albo possa costituire una causa di interruzione del processo, al pari della morte del difensore”. Sulla base di tale premessa la citata Sez. 6-3, n. 21359/2020 ha affermato che la cancellazione volontaria del difensore dall’albo degli avvocati, ancorché avvenuta dopo la notifica della citazione in appello, comporta la perdita dello “status” di avvocato e procuratore legalmente esercente, così integrando una causa di interruzione del processo. Ne consegue la nullità degli atti successivi e della sentenza eventualmente pronunciata, che può essere dedotta e provata in sede di legittimità mediante la produzione dei documenti necessari, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., solo dalla parte colpita dal detto evento, a tutela della quale sono poste le norme che disciplinano l’interruzione, non potendo questa essere rilevata d’ufficio dal giudice né eccepita dalla controparte.

Come precisato da Sez. 6 - 3, n.. 18279/2020, Cricenti, Rv. 658770 - 01), la soppressione di un ente pubblico, anche per incorporazione in altro, equivale ad estinzione ed è causa di interruzione del processo.

Infine, Sez. 3, n. 25859/2020, Olivieri, Rv. 659587 - 01, in relazione alla interruzione “automatica” del processo ex art. 43, comma 3, l.fall., ha chiarito che la conoscenza del fallimento da parte del procuratore di più parti è produttiva del medesimo effetto conoscitivo legale (rilevante ai fini del decorso del termine perentorio ex art. 305 c.p.c.) anche nei confronti delle altre parti del medesimo processo rappresentate da quello stesso difensore, unico destinatario esclusivamente legittimato a ricevere la notizia dell’evento interruttivo con riferimento al giudizio nel quale quest’ultimo è destinato ad esplicare efficacia.

13. La riassunzione del processo interrotto.

L’atto di riassunzione del processo non introduce un nuovo procedimento, avendo la funzione di consentire la prosecuzione di quello già pendente; da ciò consegue, come affermato da Sez. 1, n. 06193/2020, Scotti, Rv. 657418 - 01, che ai fini della sua validità il giudice deve solo verificarne la concreta idoneità ad assicurare la ripresa del processo, discendendo la nullità dell’atto di riassunzione non dalla mancanza di uno tra i requisiti di cui all’art. 125 disp. att. c.p.c., bensì dall’impossibilità di raggiungere il suo scopo.

Riguardo alla decorrenza del termine, Sez. 2, n. 00138/2020, Carbone, Rv. 656822 - 01, ha chiarito che il termine di un anno entro il quale il processo interrotto per morte della parte può essere riassunto, a norma dell’art. 303, comma 2, c.p.c., con atto notificato collettivamente e impersonalmente agli eredi nell’ultimo domicilio del defunto, ha natura processuale, e come tale è soggetto all’ordinaria sospensione feriale.

Quanto alla prova della qualità di erede, nel giudizio riassunto a seguito di interruzione del processo per morte di una parte, Sez. 3, n. 13851/2020, Graziosi, Rv. 658300 - 01 ha affermato che, in forza del principio della prossimità della prova, spetta ai chiamati all’eredità del deceduto, convenuti in riassunzione, allegare e dimostrare di non essere divenuti eredi.

Nell’ipotesi di nullità della notifica dell’atto di riassunzione del processo di primo grado che sia stato interrotto, per la quale occorre disporre la rinnovazione della notificazione stessa, Sez. 3, n. 13860/2020, Guizzi, Rv. 658303 - 01, ha precisato che, se il destinatario non si è costituito, si ha la nullità del relativo giudizio, con la conseguenza che il giudice di appello o, in mancanza, quello di legittimità devono rimettere le parti dinanzi al primo giudice, in applicazione analogica dell’art. 354 c.p.c

La questione relativa all’estinzione del processo per irritualità della riassunzione del processo interrotto ha carattere preliminare rispetto all’eventuale eccezione di incompetenza, atteso che, come affermato da Sez. 3, n. 14607/2020, Cigna, Rv. 658326 - 01), la cognizione della controversia ad opera del giudice, incluso il profilo della competenza, è possibile solo a condizione che il processo sia correttamente uscito dallo stato di quiescenza in cui era entrato per effetto di detta interruzione.

In tema di litisconsorzio facoltativo, quale quello che si determina nel giudizio promosso verso più coobbligati solidali, Sez. 3, n. 04684/2020, Olivieri, Rv. 656912 - 02, ha enunciato il principio secondo cui, verificatasi una causa di interruzione nei confronti di uno di essi, ove il giudice non si avvalga del potere di disporre la separazione delle cause ex art. 103 c.p.c., la mancata riassunzione della lite nel termine fissato dall’art. 305 c.p.c. non impedisce l’ulteriore prosecuzione del processo relativamente ai litisconsorti non colpiti dall’evento interruttivo.

Sulla stessa scia, Sez. 3, n. 08123/2020, Fiecconi, Rv. 657575 - 01, ha precisato che, in caso di cumulo di cause scindibili, l’evento interruttivo relativo ad una delle parti (nella specie, apertura del fallimento ex art. 43, comma 3, l.fall.) non spiega effetti nei confronti delle altre, le quali, pertanto, anche laddove il giudice non disponga la separazione delle cause, non sono tenute a riassumere il processo; conseguentemente, qualora la riassunzione non sia stata tempestivamente effettuata nell’interesse della parte colpita dal suddetto evento, l’estinzione si verifica nei soli confronti di quest’ultima, continuando il processo nei confronti degli altri litisconsorti.

Ancora in tema di cumulo di cause scindibili, Sez. 6 - 3, n. 08975/2020, Iannello, Rv. 657937 - 02, ha affermato che, qualora il giudice - a fronte di un evento che concerna uno solo dei soggetti coinvolti nelle diverse vertenze - interrompa l’intero processo, la riassunzione, effettuata, nel termine indicato dall’art. 305 c.p.c., esclusivamente da una delle parti interessate, notificando il ricorso e il decreto di fissazione di udienza a tutti i contraddittori, deve ritenersi tempestiva rispetto a ognuna delle parti e non può essere dichiarata, con riferimento a costoro, l’estinzione parziale del processo, considerato anche che chi pone in essere la detta riassunzione non ha il potere di sciogliere il menzionato cumulo (notificando l’atto riassuntivo unicamente ad alcuni dei contraddittori), giacché, in presenza di un processo cumulato per iniziativa delle parti, il potere di separazione compete al giudice.

Nella specifica ipotesi di interruzione per intervenuto fallimento dell’opponente del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, quest’ultimo rimane inopponibile alla massa, mentre è interesse e onere del debitore fallito riassumere il processo nei confronti del creditore opposto, onde evitare che il provvedimento monitorio consegua la definitiva esecutorietà per mancata o intempestiva riassunzione, divenendo opponibile nei suoi confronti una volta tornato in bonis (Sez. 1, n. 22047/2020, Falabella, Rv. 658984 - 01).

Infine, con riferimento al dies a quo di decorrenza del termine per la riassunzione, n caso d’interruzione del processo determinata, ai sensi dell’art. 43, comma 3, l.fall., dalla dichiarazione di fallimento di una delle parti, Sez. 1, n. 17944/2020, Mercolino, Rv. 658569 - 01, ha puntualizzato che il termine per la riassunzione non decorre dalla data dell’evento interruttivo, ma da quella in cui la parte interessata ne ha avuto conoscenza legale, per tale dovendosi intendere quella acquisita non già in via di mero fatto, ma attraverso una dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell’evento stesso, assistita da fede privilegiata.

13.1. Eccezione di estinzione per tardiva riassunzione.

L’eccezione di estinzione del giudizio per tardiva riassunzione dello stesso dopo un’interruzione risponde, ai sensi dell’art. 307, comma 4, c.p.c., all’esclusivo interesse dei soggetti chiamati a succedere o a sostituire la capacità della parte nei cui confronti si è verificato l’evento interruttivo; da ciò deriva, secondo Sez. 3, n. 04684/2020, Olivieri, Rv. 656912 - 01, che compete al giudice, anche di ufficio, accertare se tale eccezione sia stata sollevata dalla parte legittimata. (Nella specie, trovava applicazione il testo dell’art. 307, comma 4, c.p.c. nella versione anteriore alle modifiche introdotte dalla l. n. 69 del 2009).

14. La fase decisoria.

Nella giurisprudenza di legittimità è consolidato il principio secondo il quale la parte che si sia vista rigettare dal giudice di primo grado le proprie richieste istruttorie ha l’onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni, poiché, diversamente, le stesse dovranno ritenersi abbandonate e non potranno essere riproposte in appello (cfr. Sez. 3, n. 25157/2008, Segreto, Rv. 605482 - 01; conformi Sez. 3 n. 16290/2016, Scrima, Rv. 642097 - 01; Sez. 3,. n. 19352/2017, Sestini, Rv. 645492 - 01; Sez. 2, n. 05741/2019, Criscuolo M., Rv. 652770 - 02; Sez. 2 n. 15029/2019, Abete, Rv. 654190 - 0; anche Sez. 6-2 n. 10748/2012, Proto C.A., Rv. 623121 - 01 e S. 6-3, n. 3229/2019, Scarano, Rv. 653001 - 01).

Altrettanto consolidata è l’affermazione che, nell’ipotesi in cui il procuratore della parte non si presenti all’udienza di precisazione delle conclusioni o, presentandosi, non le precisi o le precisi in modo generico, vale la presunzione che la parte abbia voluto tenere ferme le conclusioni precedentemente formulate» (cfr. Sez. 3, n. 409/2006, Durante, Rv. 586206 - 01; Sez. 6 - 1, n. 22360/2013, Bernabai, Rv. 627928 - 01, Sez. 6-1, n. 11222/2018, Terrusi, Rv. 586206 - 01).

Coordinando questi due pacifici principi, Sez. 3, n. 26523/2020, Sestini, Rv. 659790 - 01 ha ulteriormente precisato che in caso di mancata partecipazione del procuratore di una parte all’udienza di precisazione delle conclusioni, debbono intendersi richiamate le richieste precedentemente formulate, ivi comprese le istanze istruttorie che la parte abbia reiterato dopo che ne sia stata rigettata l’ammissione.

Una volta rimessa la causa in decisione, come ribadito da Sez. 1, n. 02976/2020, Scotti, Rv. 657028 - 01, la parte può depositare la memoria di replica prevista dall’art. 190 c.p.c. anche se prima non ha depositato la comparsa conclusionale, non essendovi alcuna norma nel codice di rito che condizioni il diritto di replica all’avvenuta illustrazione delle proprie difese mediante la detta comparsa (nello stesso senso, in precedenza, Sez. 3, n. 6439 del 2009, Spagna Musso, Rv. 607123 - 01).

Sez. 6 - 3, n. 04125/2020, Iannello Rv. 657021 - 01 ha ribadito che la sentenza pronunciata dal giudice di primo grado prima della scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito delle conclusionali o delle memorie di replica è affetta da nullità (cfr., in precedenza, Sez. 2, n. 26883/2019, Oliva, Rv. 655666 - 01; Sez. 6 - 3, n. 20180/2015, Vivaldi, Rv. 637461 - 01), precisando che la parte non è tenuta ad indicare, al momento dell’impugnazione, se e quali argomenti non svolti nei precedenti atti difensivi avrebbe potuto sviluppare ove detto deposito fosse stato consentito; tuttavia, ha altresì ribadito la decisione in discorso, il giudice di appello, una volta constatata tale nullità, non può rimettere la causa al primo giudice, ai sensi dell’art. 354 c.p.c., ma è tenuto a decidere la causa nel merito, nei limiti delle doglianze prospettate (già in passato, nello stesso senso,, Sez. 3, n. 5590/2011; Frasca, Rv. 617408 - 01).

Con riguardo alla motivazione della decisione, Sez. 3, n. 11308/2020, Scrima, Rv. 658167 - 01 ha affermato che l’omessa indicazione alle parti di una questione di fatto oppure mista di fatto e di diritto, rilevata d’ufficio, sulla quale si fondi la decisione, priva le parti del potere di allegazione e di prova sulla questione decisiva e, pertanto, comporta la nullità della sentenza (cd. “della terza via” o “a sorpresa”) per violazione del diritto di difesa tutte le volte in cui la parte che se ne dolga prospetti, in concreto, le ragioni che avrebbe potuto fare valere qualora il contraddittorio sulla predetta questione fosse stato tempestivamente attivato.

Per quanto attiene al giudice, Sez. 6 - 2, n. 02779/2020, Oliva Rv. 657252 - 01 ha enunciato il principio secondo il quale la sentenza emessa da un magistrato diverso da quello che, a seguito della precisazione delle conclusioni, ha trattenuto la causa in decisione, deve ritenersi nulla, perché deliberata da un soggetto che è rimasto estraneo alla trattazione della causa. La medesima decisione ha aggiunto che, qualora si renda necessario procedere alla sostituzione del magistrato che ha già trattenuto la causa in decisione, non è sufficiente un decreto del capo dell’Ufficio che dispone la sostituzione, ma il nuovo giudice nominato deve convocare le parti dinanzi a sé perché precisino nuovamente le conclusioni.

Ancora con riferimento alla coincidenza tra il giudice dell’udienza di assunzione della causa in decisione e quello che emetta la sentenza, peculiare è il caso esaminato da Sez. 2, n. 08782/2020, Scarpa, Rv. 657699 - 01, in cui si denunciava la corrispondenza testuale tra la decisione impugnata ed altre sentenze rese, con riferimento ad ulteriori soggetti coinvolti nella stessa vicenda sostanziale, da diversi collegi della medesima corte di appello. La decisione citata ha escluso che tale circostanza fosse sufficiente a sovvertire la presunzione di corrispondenza tra i giudici presenti alla discussione della causa e collegio deliberante, evidenziando come l’assoluta similitudine delle fattispecie decise rendesse del tutto comprensibile, se non addirittura opportuna, una uniformazione dei diversi estensori in sede di successiva stesura delle rispettive motivazioni. Secondo tale pronuncia, dunque, l’identità della motivazione di sentenze pronunciate da diversi collegi, appartenenti al medesimo ufficio giudiziario, con riferimento a fattispecie analoghe, simili o addirittura identiche non rappresenta un motivo sufficiente per ritenere che la decisione sia stata deliberata in camera di consiglio da un collegio diverso da quello che ha assistito alla discussione della causa, né infirma l’attribuibilità, ai rispettivi giudici che le abbiano emesse, delle decisioni e delle ragioni che le sostengono né, ancora, lascia ragionevolmente supporre alcuna indebita influenza sul procedimento di formazione della volontà espressa nelle pronunce adottate, dovendo la paternità della decisione essere attribuita esclusivamente al collegio che abbia elaborato la decisione stessa, quale emergente dall’epigrafe della sentenza-documento, ove il nominativo dei giudici ivi riprodotto coincida con quello, risultante dal verbale di udienza - fidefacente fino a querela di falso - di coloro che abbiano assistito all’udienza di discussione ed abbiano trattenuto la causa in decisione.

In tema di decisione della causa ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c., Sez. 3, n. 11116/2020, De Stefano, Rv. 658146 - 02 ha affermato che la facoltà delle parti di chiedere un differimento dell’udienza di discussione può essere esercitata esclusivamente dopo la pronuncia dell’ordine del giudice di discussione orale, poiché solo in tale momento e non prima si determina l’avvio del relativo subprocedimento e si attivano i corrispondenti poteri delle parti, i quali intanto hanno ragione di estrinsecarsi in quanto il magistrato si sia indotto a procedere con la definizione immediata.

Sempre con riguardo alla sentenza pronunciata ex art. 281-sexies c.p.c., Sez. 2, n. 19338/2020, Consentino, Rv. 659127 - 01 ha ribadito che, qualora la pronuncia sia avvenuta senza l’osservanza delle forme previste dal codice non può essere dichiarata nulla, ove sia stato raggiunto lo scopo dell’immodificabilità della decisione e della sua conseguenzialità rispetto alle ragioni ritenute rilevanti dal giudice all’esito della discussione, trattandosi, in ogni caso, di sanzione neppure comminata dalla legge (cfr., nello stesso senso, Sez. 1, n. 10453/2014, Di Amato, Rv. 631257 - 01

Da ultimo, di interesse è il principio enunciato da Sez. 1, n. 10097/2020, Terrusi, Rv. 657775 - 01, secondo l’ordinanza ex art. 186-quater c.p.c. che abbia pronunciato solo su alcune domande o capi della domanda, se non è richiesta dalla parte intimata la pronuncia della sentenza, produce gli effetti di una sentenza definitiva sull’intero oggetto del giudizio; ne consegue che le parti possono impugnarla in ragione del loro interesse a una diversa pronuncia, ed il giudice di secondo grado, se richiesto, deve provvedere anche sulle domande o sui capi della domanda per i quali è mancata una decisione di merito, mentre la sentenza successivamente pronunciata dal tribunale nello stesso giudizio è nulla, ma l’appello su quest’ultima decisione, limitato a contestare soltanto tale vizio processuale e non il merito della sentenza, deve essere dichiarato inammissibile, perché l’errore denunciato non potrebbe comportare una rimessione al primo giudice ai sensi degli artt. 353 e 354 c.p.c.

14.1. Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato trova la sua collocazione nell’art. 112 c.p.c. ai sensi del quale “il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti”. Attraverso la norma in esame si stabilisce in termini generali: a) la stretta relazione fra la pronuncia giudiziale e quanto dedotto in giudizio dalle parti, sia con la domanda che con le relative eccezioni, di qui il fondamento del dovere decisorio; b) ai fini del vincolo del giudice a quanto dedotto, è necessario che la volontà delle parti sia formalizzata attraverso la formulazione di una vera e propria domanda giudiziale o un’eccezione, di qui la stretta correlazione con il principio della domanda enunciato dall’art 99 c.p.c.; c) una volta che la volutans partium si sia formalizzata nei termini di una domanda o di un’eccezione, a ciò va rapportato il dovere decisorio del giudice, anche al fine di verificare se la sua pronuncia sia o meno viziata per ultrapetizione od omissione di pronuncia.

Nel corso del 2020 la S.C. è più volte intervenuta, in diverse fattispecie concrete, a perimetrare la portata del richiamato principio nelle sue diverse declinazioni.

In particolare, secondo Sez. 2, n. 11466/2020, San Giorgio, Rv. 658263-03, non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorché il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto. Ne consegue che, proposta in primo grado una domanda di risoluzione per inadempimento di contratto preliminare, e di conseguente condanna del promittente venditore alla restituzione del doppio della caparra ricevuta, non pronunzia ultra petita il giudice il quale ritenga che il contratto si sia risolto non già per inadempimento del convenuto, ma per impossibilità sopravvenuta di esecuzione derivante dalle scelte risolutorie di entrambe le parti (ex art. 1453, comma 2, c.c.) e condanni il promittente venditore alla restituzione della sola caparra (la cui ritenzione è divenuta sine titulo) e non del doppio di essa.

Sotto altro profilo, afferma Sez. 5, n. 07662/2020, Fracanzani, Rv. 657462-01, che non ricorre il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata, in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, non occorrendo una specifica argomentazione in proposito. È quindi sufficiente quella motivazione che fornisce una spiegazione logica ed adeguata della decisione adottata, evidenziando le prove ritenute idonee a suffragarla, ovvero la carenza di esse, senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non accolte o la disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi.

E ancora, chiarisce Sez. 5, n. 02153/2020, Fracanzani, Rv. 656681-01 che non ricorre il vizio di omessa pronuncia quando la motivazione accolga una tesi incompatibile con quella prospettata, implicandone il rigetto, dovendosi considerare adeguata la motivazione che fornisce una spiegazione logica ed adeguata della decisione adottata, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse, senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non accolte o la particolare disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto adeguata la motivazione di una sentenza della CTR, che, a fronte della specifica eccezione relativa all’applicazione della presunzione di cui all’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 51 d.P.R. n. 633 del 1972 a tutti i movimenti bancari, si era limitata a richiamare l’orientamento della corte di cassazione secondo cui la presunzione legale di cui alle predette norme poteva essere vinta solo con una giustificazione analitica sui singoli movimenti, non con argomenti generici).

Affermazione, questa, che si pone sostanzialmente in linea con quanto precisato da Sez. 6-1, n. 02334/2020, Mercolino, Rv. 656762-01, secondo cui in tema di provvedimenti del giudice, l’assorbimento in senso improprio - configurabile quando la decisione di una questione esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre - impedisce di ritenere sussistente il vizio di omessa pronuncia, il quale è ravvisabile solo quando una questione non sia stata, espressamente o implicitamente, ritenuta assorbita da altre statuizioni della sentenza. (Nella specie la S.C. ha escluso il vizio di omessa pronuncia nella sentenza del giudice di appello che confermando la statuizione di primo grado di inammissibilità dell’atto di intervento, ha ritenuto assorbite le questioni sulla legittimazione passiva e sulla integrità del contraddittorio sollevate dallo stesso interveniente appellante).

Da ultimo, sul versante dell’attività di interpretazione, pare utile segnalare quanto puntualizzato da Sez. 3, n. 07747/2020, Fiecconi, Rv. 657596-01, secondo cui il giudice di merito non può, avvalendosi della propria facoltà di interpretare la domanda, ricavare dal solo comportamento processuale della parte che, in origine, aveva agito per ottenere una condanna al risarcimento del danno, con espressa limitazione, però, della stessa all’an debeatur, una implicita rinuncia a tale limitazione, correttamente richiesta e reiterata al momento della precisazione delle conclusioni, per poi procedere, di conseguenza, anche a quantificare il detto danno. (Nella specie, la S.C., nel cassare la decisione di appello, che aveva liquidato il danno nonostante l’attore si fosse riservato di agire in separata sede per la sua quantificazione, ha rilevato che il comportamento processuale della parte, che aveva allegato e chiesto di provare il pregiudizio patito, era compatibile con la sua domanda di condanna generica e non poteva farla ritenere implicitamente rinunciata poiché, pure nel giudizio limitato all’an della pretesa risarcitoria, non è sufficiente accertare l’illegittimità della condotta, essendo altresì necessario verificarne la portata o potenzialità lesiva).

14.2. Le sentenze non definitive.

In termini generali (cfr. Sez. 3, n. 16289/2019, Pellecchia, Rv. 654349 - 02; v. altresì Sez. 2, n. 05443/2002, Triola, Rv. 553752 - 01), è da considerarsi definitiva la sentenza con la quale il giudice si pronunci su una (o più) delle domande o su capi autonomi della domanda, mentre è da considerarsi non definitiva, agli effetti della riserva di impugnazione differita, la sentenza resa su questioni preliminari alla decisione finale e che non contenga quegli elementi formali sulla base dei quali va operata la distinzione, cioè la pronuncia sulle spese o un provvedimento relativo alla separazione dei giudizi.

Nel corso dell’anno in rassegna, Sez. 6 - 2, n. 10067/2020, Tedesco, Rv. 658015 - 01, ha altresì affermato il principio secondo il quale le statuizioni contenute nella sentenza non definitiva possono essere riformate o annullate solo in sede d’impugnazione, non con la sentenza definitiva successivamente resa. Nella richiamata pronuncia la S.C: ha dato applicazione al principio in un giudizio di divisione, ove una pronuncia non definitiva aveva accertato la comproprietà del bene e il diritto allo scioglimento della comunione, ciò non consentendo di mettere in discussione quanto già deciso nella successiva fase del processo, volta allo svolgimento delle operazioni divisionali.

Lo stesso principio è stato applicato da Sez. 2, n. 21258/2020, Besso Marcheis, Rv. 659315 - 01 con riferimento alla sentenza non definitiva che abbia accertato l’esistenza di un inadempimento contrattuale e del conseguente danno; la pronuncia citata ha infatti affermato che una sentenza non definitiva di tale tenore preclude allo stesso giudice la possibilità, al momento della liquidazione del danno nella sentenza definitiva, di negare la sussistenza del danno medesimo per mancanza di prove, trattandosi di affermazione in contrasto con quella, resa in sede di sentenza non definitiva, circa la loro esistenza e tale discrasia può essere rilevata anche d’ufficio in sede di legittimità. Ne consegue che, a fronte della difficoltà di prova del danno, il giudice, non vincolato agli esiti della consulenza tecnica, deve esercitare il proprio potere discrezionale di liquidazione di esso in via equitativa, secondo la cd. equità giudiziale correttiva o integrativa.

15. La correzione dei provvedimenti giudiziali.

In termini generali è stato da tempo affermato il principio, ribadito nell’anno in rassegna da Sez. L, n. 16877/2020, Lorito, Rv. 658775 - 01, secondo cui il procedimento per la correzione degli errori materiali di cui all’articolo 287 c.p.c. è esperibile per ovviare ad un difetto di corrispondenza fra l’ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione grafica, chiaramente rilevabile dal testo stesso del provvedimento mediante il semplice confronto della parte del documento che ne è inficiata con le considerazioni contenute in motivazione, senza che possa incidere sul contenuto concettuale e sostanziale della decisione (nello stesso senso, in precedenza, Sez. 3, n. 00816/2000, Segreto, Rv. 533133 - 01; Sez. 6 - L, n. 572/2019, Ghinoy, Rv. 652132 - 01).

A sua volta, Sez. 6 - 2, n. 12184/2020, Falaschi, Rv. 658456 - 01), ha data continuità ad un altro consolidato principio relativo al procedimento di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 e 391-bis c.p.c., affermando che all’esito dello stesso non è ammessa alcuna statuizione sulle spese processuali, trattandosi di procedimento di natura amministrativa senza una parte soccombente in senso proprio (già in precedenza, tra le molte, Sez. U. n. 9438/2002, Roselli, Rv. 555429 - 01; Sez. 3, n. 10203/2009, Frasca, Rv. 608122 - 01; 6 -2, n. 21213/2013, Proto CA, Rv. 627802 - 01).

In ordine agli effetti del provvedimento che conclude il procedimento di correzione, Sez. 6 - 3, n. 26047/2020, Rossetti, Rv. 659921 - 01, ha puntualizzato che l’ordinanza con cui sia stata rigettata l’istanza di correzione dell’errore materiale è inutilizzabile ai fini dell’integrazione o dell’interpretazione del provvedimento che ne è oggetto, posto che è solo l’ordinanza di accoglimento a divenire parte integrante del provvedimento corretto.

La casistica dell’anno 2020 offre decisioni che hanno ravvisato un mero errore materiale per omissione, emendabile con il procedimento di correzione di errore materiale.

In tal senso Sez. 2, n. 28309/2020, Tedesco, Rv. 659742 - 01, che, con riferimento agli esborsi sostenuti dalle parti per consulenze, ha affermato che la mancata determinazione nella sentenza del compenso spettante al consulente tecnico d’ufficio integra un mero errore materiale per omissione, suscettibile di correzione da parte del giudice d’appello con riferimento all’importo della liquidazione effettuata in favore del consulente.

Analogamente, Sez. 1, n. 28323/2020, Falabella, Rv. Rv. 660004 - 01) ha ritenuto suscettibili di correzione con l’apposito procedimento di cui agli artt. 287 e ss. c.p.c. sia la mancata liquidazione nel provvedimento degli accessori di legge, sia l’omessa indicazione delle parti beneficiarie della liquidazione.

Sulla stessa scia si è pronunciata Sez. 6 - 2, n. 25078/2020, Tedesco, Rv. 659704 - 01), con riferimento alla omessa indicazione, nel dispositivo di una sentenza resa all’esito di un giudizio di divisione, della statuizione impositiva concernente il conguaglio in denaro in favore di una parte, già previsto e quantificato nella motivazione del provvedimento.

Peculiare, infine, la fattispecie esaminata da Sez. 3, n. 25541/2020, Vincenti, Rv. 659781 - 01, che ha affermato il principio secondo il quale, nel caso in cui ad un provvedimento integralmente e ritualmente formato risulti, per un mero disguido materiale, affogliato di seguito alla sua ultima pagina la copia del dispositivo riferibile ad una diversa causa, in calce alla quale sia stata apposta l’attestazione della data del deposito, il vizio in cui la decisione può incorrere è dato dalla coesistenza di due dispositivi; ne consegue che, qualora, per la diversità dei nomi delle parti e dell’oggetto della controversia nell’ulteriore dispositivo riportati, emerga che quest’ultimo dispositivo non atteneva alla causa cui era riferibile la pronuncia, tale vizio non può assurgere a nullità di carattere sostanziale ed è emendabile con la procedura di correzione di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c.

  • interesse ad agire

CAPITOLO XII

LE IMPUGNAZIONI IN GENERALE

(di Giovanni Fanticini )

Sommario

1 Profili generali. - 2 L’interesse all’impugnazione. - 3 La soccombenza e il raddoppio del contributo unificato. - 4 I termini di impugnazione: a) il termine cd. breve. - 4.1 (Segue) b) il termine cd. lungo. - 4.3 (Segue) Profili comuni ai due termini di impugnazione. - 5 Le impugnazioni incidentali. - 6 La pluralità di parti in primo grado: effetti sull’impugnazione. - 7 Effetti dell’accoglimento dell’impugnazione.

1. Profili generali.

L’art. 323 c.p.c. elenca i mezzi per impugnare le sentenze (e, più in generale, le decisioni giurisdizionali) individuandoli nel regolamento di competenza, nell’appello, nel ricorso per cassazione, nella revocazione e nell’opposizione di terzo.

In base al combinato disposto degli artt. 324, 325, 326 e 327 c.p.c. i mezzi di impugnazione si distinguono in (a) ordinari - proponibili fino al passaggio in giudicato della decisione che intendono censurare e volti a evitare il formarsi della cosa giudicata (regolamento di competenza, appello, ricorso per cassazione, revocazione “ordinaria” per i motivi indicati nei nn. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c. e opposizione di terzo ordinaria) - e (b) straordinari, insensibili al passaggio in giudicato(revocazione “straordinaria” per i motivi indicati nei nn. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c. e opposizione di terzo revocatoria).

Indipendentemente dalla disciplina specifica dettata per ciascuno dei predetti mezzi di impugnazione, il codice di rito definisce alcune regole comuni (artt. 323-338 c.p.c.), applicabili a tutti i mezzi di impugnazione, nonché, in quanto compatibili, anche al contenzioso tributario, come previsto dall’art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 (“alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto”).

Rinviando agli specifici capitoli per ciò che concerne i singoli mezzi di impugnazione, ci si soffermerà, nella presente trattazione, sulle regole “delle impugnazioni in generale”.

2. L’interesse all’impugnazione.

L’esercizio della facoltà di impugnazione presuppone l’esistenza un “interesse ad impugnare” (species dell’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.) che consiste in un interesse, concreto e attuale, alla proposizione del mezzo di gravame: in altri termini, è condizione dell’impugnazione una “soccombenza” sostanziale, la quale si concretizza nel pregiudizio derivante alla parte dalla decisione, da apprezzarsi in relazione all’utilità giuridica che dall’eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla parte che lo propone e non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi sulla decisione adottata e che non spieghi alcuna influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte (Sez. 2, n. 28307/2020, Giannaccari, Rv. 659838 - 01).

Infatti, come ribadito anche nel 2020, l’interesse giuridicamente tutelabile (il cui difetto è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo) si identifica nella concreta utilità derivante dalla rimozione della pronuncia censurata, non essendo sufficiente l’esistenza di un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica (Sez. 6-5, n. 03991/2020, Crolla, Rv. 656787-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto dalla parte vittoriosa che lamentava l’erronea pronuncia della compensazione delle spese di lite, nonostante la sua mancata costituzione nel giudizio di appello).

Allo stesso modo, è inammissibile il ricorso per cassazione col quale si denunci l’erroneità della motivazione della sentenza impugnata - di cui è chiesta la modifica, fermo restando il dispositivo - perché non finalizzato alla rimozione di una pronuncia sfavorevole (Sez. L, n. 17159/2020, Pagetta, Rv. 658829-02; Sez. 2, n. 28307/2020, Giannaccari, Rv. 659838 - 01), così come il ricorso con cui si deduca la violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, prive di qualsivoglia influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte, essendo diretto all’emanazione di una pronuncia senza alcun rilievo pratico. (Sez. 6-1, n. 12678/2020, Ferro, Rv. 658061-01).

In particolare, la deduzione di una violazione delle norme processuali può essere dedotta come motivo di impugnazione solo se la parte indichi il concreto pregiudizio inferto alle sue prerogative: pertanto, nell’inosservanza della disciplina relativa all’introduzione della causa mediante il rito c.d. Fornero non può ravvisarsi un pregiudizio consistente nella privazione di “una fase processuale”, considerato che il rito ordinario (nella specie seguito) rappresenta la massima espansione della cognizione integrale, idonea a consentire il migliore esercizio del diritto di difesa (Sez. L, n. 06754/2020, Raimondi, Rv. 657434-01).

È carente di interesse, perché manca un concreto rilievo pratico potenzialmente derivante dall’impugnazione, il ricorrente per cassazione che, riproponendo censure già svolte in sede di appello, miri alla declaratoria di nullità della sentenza di primo grado, posto che l’accoglimento comporterebbe null’altro che la trattazione nel merito della causa da parte del giudice di appello (Sez. 2, n. 21943/2020, Varrone, Rv. 659364-01).

L’opponente è privo di interesse anche quando prospetta che la sentenza impugnata, nel rigettare l’opposizione, abbia omesso di rilevare il difetto di una delle condizioni originarie di ammissibilità del decreto ingiuntivo, poiché la sentenza che decide il giudizio deve accogliere la domanda del creditore istante quando sussistono i fatti costitutivi del diritto fatto valere in sede monitoria, pur se non sussistenti al momento della proposizione del ricorso o della emissione del decreto, bensì in quello, successivo, della decisione (Sez. 1, n. 15224/2020, Scalia, Rv. 658261-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione mediante il quale l’originario opponente si limitava a contestare la sussistenza dei caratteri della liquidità ed esigibilità del credito all’epoca della proposizione della domanda monitoria).

Al fine di consentire alla S.C. di valutare l’interesse all’impugnazione ex art. 100 c.p.c. consistente in un prospettato diverso esito della lite, la denuncia della violazione, da parte del giudice di merito, dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, per avere rigettato la domanda di protezione internazionale senza indicare le fonti di informazione da cui ha tratto le conclusioni, implica l’onere di allegare anche l’esistenza di COI (Country of Origin Informations) aggiornate e attendibili che il giudice avrebbe dovuto tenere in conto (Sez. 1, n. 21932/2020, Rossetti, Rv. 659234-01; conforme, Sez. 1, n. 22769/2020, Amatore, Rv. 659276-01).

Analogamente, posto che l’interesse tutelato che la parte può far valere rispetto al terzo - parte del giudizio di primo grado su ordine del giudice, ma non chiamato in appello ad integrare il contraddittorio - consiste nell’ottenere una pronuncia di merito e non una sentenza di mero rito, non è ammissibile (difettando l’utilità giuridica dell’eventuale accoglimento del gravame) l’impugnazione della decisione d’appello qualora, nel successivo giudizio di rinvio, il ricorrente non possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole rispetto a quella impugnata (Sez. 1, n. 02966/2020, Scalia, Rv. 656996-01, ha escluso l’interesse a dedurre l’error in procedendo del giudice di appello, che aveva omesso di integrare il contraddittorio, essendo nelle more fallito il terzo chiamato in causa, il che avrebbe comunque determinato l’improcedibilità della domanda nei suoi confronti).

La legittimazione a proporre l’impugnazione, o a resistere ad essa, spetta solo a chi abbia assunto la veste di parte nel giudizio di merito, secondo quanto risulta dalla decisione impugnata, tenendo conto sia della motivazione che del dispositivo (Sez. 6-5, n. 15356/2020, Luciotti, Rv. 658530-01), ma proprio dall’art. 100 c.p.c. si evince che non è sufficiente la qualità di parte per giustificare l’impugnazione: così, l’avversario della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato manca di interesse ad impugnare la decisione che riformi il provvedimento di revoca dell’ammissione, perché il rapporto obbligatorio derivante dall’ammissione si instaura con il Ministero della giustizia (Sez. 6-1, n. 22281/2020, Scalia, Rv. 659247-01).

Nel rapporto obbligatorio la solidarietà passiva è prevista nell’interesse del creditore e serve a rafforzare il diritto di quest’ultimo, mentre non ha alcuna influenza nei rapporti interni tra condebitori solidali (fra i quali l’obbligazione si divide secondo quanto risulta dal titolo o, in mancanza, in parti uguali), sicché la condanna di uno solo dei debitori convenuti in giudizio, con esclusione del rapporto di solidarietà prospettato dall’attore, non aggrava la posizione del debitore condannato al pagamento all’intero e non pregiudica il suo eventuale diritto di rivalsa, rendendolo così privo di interesse ad impugnare la sentenza qualora non abbia dedotto in giudizio il rapporto interno con gli altri debitori (Sez. 3, n. 00542/2020, Cigna, Rv. 656631-01).

L’interesse all’impugnazione va, invece, ritenuto sussistente qualora la pronuncia contenga una statuizione contraria all’interesse della parte medesima suscettibile di formare il giudicato (Sez. 2, n. 28307/2020, Giannaccari, Rv. 659838 - 01, cassando la pronuncia gravata, ha ritenuto sussistente in capo all’appellante l’interesse ad impugnare la pronuncia di primo grado che, con statuizione suscettibile di passare in giudicato, gli aveva riconosciuto la posizione di mero detentore dell’immobile controverso, anziché di possessore).

Peculiare è il caso deciso da Sez. L, n. 20250/2020, Di Paolantonio, Rv. 658912-01, che ha riconosciuto l’interesse della P.A. all’impugnazione del provvedimento di instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato, disposta in ottemperanza ad un provvedimento giudiziale, anche quando lo stesso si sia concluso per scadenza del termine in pendenza della lite, poiché l’accertamento della legittimità degli atti adottati in tema di reclutamento del personale e di utilizzo delle forme flessibili di assunzione discende, in via generale, dai principi di imparzialità, trasparenza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa.

L’interesse all’impugnazione può venir meno nel corso del processo, come nel caso di raggiungimento della maggiore età del figlio in un giudizio avente ad oggetto l’affidamento del minore ad uno degli ex coniugi a seguito di cessazione degli effetti civili del matrimonio (Sez. 1, n. 27235/2020, Iofrida, Rv. 659748-01).

Un’altra fattispecie di sopravvenuta carenza di interesse alla decisione dell’impugnazione è stata individuata da Sez. 2, n. 18130/2020, Scarpa, Rv. 658964-01, che ha pronunciato l’inammissibilità del ricorso per cassazione della sentenza di appello che era stata nel frattempo annullata dal giudice a quo, in accoglimento di un’opposizione di terzo proposta ai sensi dell’art. 404 c.p.c.

Non può escludersi, invece, la permanenza dell’interesse all’impugnazione in caso di esecuzione spontanea di un provvedimento giudiziario (nella specie, pagamento di interessi e spese maturati dopo la formazione del titolo esecutivo), a meno che non si possa ravvisare un riconoscimento - anche implicito purché inequivoco - della fondatezza dell’avversaria domanda (Sez. 3, n. 01588/2020, Scoditti, Rv. 656692-01, non ha ravvisato tale riconoscimento nell’adempimento del titolo provvisoriamente esecutivo).

3. La soccombenza e il raddoppio del contributo unificato.

La soccombenza si pone quale presupposto dell’ammissibilità stessa del gravame (individuando i soggetti legittimati alla sua proposizione), ma rileva anche per l’applicazione, nei procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, disposizione che prevede l’obbligo, in capo all’impugnante, del pagamento di una somma pari al doppio del contributo unificato “quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile” e che il giudice debba dare “atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente”.

Sulla natura tributaria del raddoppio si è esplicitamente pronunciata, conformemente a numerosi precedenti di legittimità, Sez. U, n. 04315/2020, Lombardo, Rv. 657198-02, affermando che esso partecipa della natura del contributo unificato iniziale ed è volto a ristorare l’amministrazione della Giustizia dei costi sopportati per la trattazione della controversia, con la conseguenza che la questione circa la sua debenza è estranea alla cognizione della giurisdizione civile ordinaria, spettando invece alla giurisdizione del giudice tributario.

La norma si basa, dunque, su due presupposti: il primo, di natura processuale, costituito dall’adozione di una pronuncia di integrale rigetto o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, che è oggetto dell’attestazione resa dal giudice; il secondo attiene, invece, al diritto sostanziale tributario e concerne l’obbligo di versamento del contributo unificato iniziale, il cui accertamento spetta all’amministrazione (Sez. U, n. 04315/2020, Lombardo, Rv. 657198-03), tenendo conto di cause di esenzione o di prenotazione a debito, originarie o sopravvenute, e del loro eventuale venir meno (Sez. U, n. 04315/2020, Lombardo, Rv. 657198-05).

Così, mentre è doverosa l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio quando la pronuncia adottata è inquadrabile nei tipi previsti dalla norma (integrale rigetto, inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) - anche quando il contributo non sia stato inizialmente versato per una causa suscettibile di venire meno (come nel caso di ammissione della parte al patrocinio a spese dello Stato) -, il giudice non è tenuto a dare atto dell’insussistenza di tale presupposto quando la pronuncia non rientra in alcuna di suddette fattispecie oppure quando la debenza del contributo unificato iniziale è esclusa dalla legge in modo assoluto e definitivo (Sez. U, n. 04315/2020, Lombardo, Rv. 657198-04 e Rv. 657198-06).

Conformemente a tale indirizzo interpretativo, Sez. 3, n. 11116/2020, De Stefano, Rv. 658146-01, ha ritenuto che l’attualità dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato o il venir meno della stessa non assuma rilievo ai fini della pronuncia di raddoppio del contributo unificato, posto che la questione sull’originario obbligo di versarlo va accertata nelle sedi competenti, con la conseguenza che il raddoppio non potrà concretamente operare consentito fin dall’inizio ne fosse escluso anche il pagamento.

Il fatto che le università statali siano difese dall’Avvocatura dello Stato non esclude l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, perché l’esenzione normativa relativa al suo pagamento riguarda le sole amministrazioni dello Stato e non gli enti pubblici autonomi (Sez. L, n. 20682/2020, Di Paolantonio, Rv. 658919-01); per speculari ragioni, l’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 non si applica nelle controversie agrarie. (Sez. 3, n. 00537/2020, Valle, Rv. 656571-02).

Tra le controversie aventi natura di impugnazione nelle quali trova applicazione l’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 si deve annoverare il regolamento di competenza (Sez. 6-2, n. 13636/2020, Cosentino, Rv. 658724-01, ha infatti statuito che il suo rigetto comporta il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato), mentre va esclusa l’opposizione all’ordinanza-ingiunzione per sanzioni amministrative irrogate dalla CONSOB, che è proposta dinanzi alla Corte d’appello, ma introduce un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa (Sez. 2, n. 13150/2020, Abete, Rv. 658283-01).

Qualora il difensore difetti di valida procura speciale nel giudizio di cassazione, all’inammissibilità del ricorso consegue l’obbligo, a carico del medesimo difensore (come se avesse agito egli stesso), di pagare la somma pari al doppio del contributo unificato (Sez. 1, n. 25304/2020, Nazzicone, Rv. 659574-01).

4. I termini di impugnazione: a) il termine cd. breve.

Le impugnazioni ordinarie, come detto, sono soggette, ai fini della loro ammissibilità, al rispetto dei termini perentori dettati dagli artt. 325 ss. c.p.c., nel senso che il decorso di questi ultimi - per il cui computo devono essere inclusi i giorni festivi intermedi (Sez. 6-3, n. 10036/2020, Vincenti, Rv. 657748-01, con riguardo alla necessità di considerare anche una giornata di sabato non coincidente con il giorno di scadenza del termine) - determina il passaggio in giudicato del provvedimento, con conseguente chiusura, in rito, del giudizio di gravame.

I termini in questione sono sostanzialmente di due tipi: a) uno cd. “breve” (ex artt. artt. 325 e 326 c.p.c.) - di trenta giorni per il regolamento di competenza, l’appello, la revocazione e l’opposizione di terzo revocatoria e di sessanta giorni per il ricorso per cassazione - avente un dies a quo differente a seconda della tipologia di impugnazione; b) uno cd. “lungo” (ex art. 327 c.p.c.), attualmente di sei mesi (di un anno, prima della modifica apportata dall’art. 46, comma 17, l. 18 giugno 2009, n. 69) con decorrenza dalla pubblicazione della sentenza.

Il termine cd. breve decorre, di regola, dalla notificazione ad istanza di parte, ai sensi degli artt. 285 e 286 c.p.c., del provvedimento suscettibile di impugnazione, la quale deve essere eseguita, a garanzia del diritto di difesa del destinatario, nei confronti del procuratore della controparte o della controparte presso il suo procuratore, nel domicilio eletto o nella residenza dichiarata, in ragione della competenza tecnica del difensore nella valutazione dell’opportunità della condotta processuale più conveniente da porre in essere ed in relazione agli effetti decadenziali derivanti dalla notificazione; in base a tale principio, Sez. U, n. 20866/2020, De Stefano, Rv. 658856-01, ha ritenuto che la notifica alla parte, priva dell’espressa menzione del suo procuratore quale destinatario, non sia idonea a far decorrere il termine breve di impugnazione, nemmeno se effettuata in luogo coincidente con la sede della pubblica amministrazione e della sua avvocatura interna e, nel contempo, col domicilio eletto per il giudizio.

Coerentemente con la predetta statuizione, Sez. 6-2, n. 10355/2020, Tedesco, Rv. 657819-01, ha deciso che anche la notifica della sentenza d’appello presso il domiciliatario, anziché in via telematica al difensore presso l’indirizzo di posta elettronica, sia inidonea a far decorrere il termine breve di impugnazione, quando il procuratore della parte, oltre all’elezione di domicilio ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934, abbia pure specificato una casella di p.e.c. senza circoscriverne la portata alle sole comunicazioni.

Di contro, sortisce l’effetto di far decorrere il termine la notifica della effettuata presso lo studio del procuratore domiciliatario senza l’indicazione, quale destinatario, del nominativo del procuratore ad litem, purché questo possa evincersi dalla stessa pronuncia notificata (Sez. 3, n. 02396/2020, Olivieri, Rv. 657138-01), rimanendo poi irrilevante - anche ai fini della rimessione in termini ex art. 153, comma 2, c.p.c. - la mancata comunicazione, ad opera del domiciliatario, dell’avvenuta notificazione del provvedimento, trattandosi di impedimento riconducibile esclusivamente alla patologia del rapporto intercorso con il professionista incaricato della domiciliazione (Sez. U, n. 27773/2020, Giusti, Rv. 659663-02); al contrario, non è idonea a tale scopo la notifica indirizzata a un Comune «in persona del sindaco rappresentato e difeso dall’avvocato», dal momento che l’ambiguità della formula utilizzata impedisce di stabilire se il destinatario fosse la parte o il suo difensore (Sez. 6-3, n. 26050/2020, Rossetti, Rv. 659922 - 01).

Giova osservare che, proprio perché il procuratore è l’unico destinatario delle notificazioni da eseguirsi nel corso del procedimento (ex art. 170, comma 1, c.p.c.), al fine della decorrenza del termine per avanzare l’impugnazione (nella specie, per la proposizione del ricorso incidentale), è valida la notifica effettuata a mani proprie del procuratore costituito, ancorché in luogo diverso da quello in cui la parte abbia, presso il medesimo, eletto domicilio (Sez. U, n. 07454/2020, Conti, Rv. 657417-02).

Difatti, la notifica della sentenza alla parte personalmente è idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione soltanto quando essa non sia regolarmente costituita in giudizio (Sez. 1, n. 06478/2020, Iofrida, Rv. 657085-01), sicché, qualora il destinatario sia un ente rimasto contumace in primo grado e soppresso ex lege in corso di causa, la notifica deve essere effettuata nei confronti dell’ente succeduto a quello ormai estinto (Sez. 1, n. 06478/2020, Iofrida, Rv. 657085-02).

Non è sufficiente, tuttavia, una qualsivoglia trasmissione della pronuncia per la decorrenza del termine ex art. 325 c.p.c., ma, piuttosto, occorre che la notifica della sentenza costituisca espressione della volontà di porre fine al processo, attraverso il compimento di un atto chiaramente preordinato a far decorrere i termini per l’impugnazione nei confronti sia del notificato sia del notificante (Sez. U, n. 01717/2020, Mercolino, Rv. 656766-01, con riguardo all’inidoneità della mera inclusione di una copia della sentenza d’appello nell’atto di riassunzione della causa innanzi al giudice di primo grado, di per sé non sintomatica di un intento acceleratorio); tale scopo si deve rinvenire nella notificazione della sentenza d’appello, diretta alla parte ma presso il suo procuratore costituito domiciliatario ex lege, risultando irrilevante che il provvedimento sia stato notificato in forma esecutiva (Sez. 1, n. 02974/2020, Scotti, Rv. 656997-01).

Allo scopo di dimostrare l’avvenuta notificazione della sentenza, ai fini del termine breve per l’impugnazione, occorre produrre la relata di notifica e l’eventuale avviso di ricevimento (in caso di notifica a mezzo posta), a meno che non sia lo stesso destinatario ad ammettere, con un’esplicita dichiarazione o per facta concludentia, che la suddetta notificazione è avvenuta nella data indicata dalla controparte (Sez. 6-3, n. 24415/2020, F.M. Cirillo, Rv. 659953 - 01). Per la notifica a persone residenti in un altro Stato membro dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 14 del Regolamento (CE) n. 1393/2007, si può provvedere direttamente tramite il servizio postale mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento o «con mezzo equivalente», ma tale modalità è ammessa solo se offra garanzie - di certezza e affidabilità in ordine alla ricezione dell’atto - paragonabili a quelle della raccomandata con ricevuta di ritorno (Sez. 1, n. 11351/2020, Fidanzia, Rv. 658072-01).

In caso di riserva di impugnazione differita della sentenza non definitiva, il termine breve decorre dalla notificazione della sentenza definitiva, ancorché quella non definitiva non sia stata notificata, posto che il termine per la proposizione del gravame, necessariamente unitario, dipende da quello utile per l’impugnazione del provvedimento definitivo (Sez. 6-2, n. 11857/2020, Abete, Rv. 658452-01).

È equivalente alla notificazione della sentenza - sia per il notificante che per il destinatario - la notifica di una prima impugnazione (Sez. 3, n. 26427/2020, Porreca, Rv. 659861 - 01), anche se quest’ultima non sia stata iscritta a ruolo, perché essa evidenzia la conoscenza legale del provvedimento impugnato, ma - per il notificante - il dies a quo decorre solo dal momento del perfezionamento del procedimento di notificazione nei confronti del destinatario, atteso che, da un lato, il principio di scissione soggettiva opera esclusivamente per evitare al notificante effetti pregiudizievoli derivanti da ritardi sottratti al suo controllo e, dall’altro lato, la conoscenza legale rientra tra gli effetti bilaterali e deve, quindi, realizzarsi per entrambe le parti nello stesso momento. (Sez. 6-3, n. 16015/2020, Positano, Rv. 658514-01).

Un termine breve di trenta giorni decorrente dalla comunicazione ad opera della cancelleria, anziché dalla notificazione, è previsto dall’art. 702-quater c.p.c. per la proposizione dell’appello avverso l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione; la questione di legittimità costituzionale - per asserita violazione degli artt. 24 e 117, comma 1, Cost. in relazione agli artt. 47 della Carta di Nizza e 6 della CEDU - è stata ritenuto manifestamente infondata, poiché lo schema procedimentale, che risponde allo scopo di garantire la stabilità delle decisioni non impugnate entro un determinato termine (adeguato ai fini di una ponderata determinazione della parte interessata), non è incompatibile con il principio di effettività della tutela giurisdizionale (Sez. 3, n. 02467/2020, Olivieri, Rv. 656727-01).

Altrettanto peculiare è la fattispecie relativa ai giudizi disciplinari nei confronti degli avvocati, poiché, ai sensi dell’art. 36, commi 4 e 6, della l. n. 247 del 2012, il termine di trenta giorni per impugnare la sentenza del CNF decorre dalla notifica della stessa a richiesta d’ufficio eseguita nei confronti dell’interessato personalmente, poiché il soggetto sottoposto a procedimento disciplinare che si difende personalmente è un professionista in condizione di valutare autonomamente gli effetti della notifica della decisione (Sez. U, n. 27773/2020, Giusti, Rv. 659663-01, dove si precisa che la notificazione va effettuata alla parte presso l’avvocato domiciliatario e non direttamente alla parte, secondo le regole ordinarie, quando il professionista incolpato è assistito da un altro avvocato, presso il quale abbia eletto domicilio).

Specifici termini di decorrenza delle impugnazioni, diversi dalla data di notificazione o pubblicazione o comunicazione della sentenza, si applicano nel caso di

(a) revocazione straordinaria ex art. 395, nn. 1, 2, 3, e 6, relativamente alla quale il termine di 30 giorni decorre, alternativamente, dal giorno in cui è stato scoperto il dolo di una delle parti a danno dell’altra (Sez. 1, n. 01102/2020, Lamorgese, Rv. 656873-01, secondo cui il momento della conoscenza dell’evento costituisce oggetto di un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, non censurabile per cassazione), dal giorno in cui è stata scoperta la falsità delle prove (in caso di sentenza pronunciata in base a prove riconosciute o dichiarate false), dal giorno in cui è stato recuperato il documento decisivo non precedentemente prodotto per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario, dal giorno in cui è passata in giudicato la sentenza che ha accertato il dolo del giudice,

(b) revocazione da parte del pubblico ministero ex art. 397 c.p.c. (rispetto alla quale il termine di 30 giorni decorre dal giorno in cui il pubblico ministero ha avuto notizia della sentenza, qualora essa sia stata pronunciata senza che egli sia stato sentito; o dal giorno in cui egli ha scoperto la collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge),

(c) di opposizione di terzo revocatoria ex art. 404, comma 2 c.p.c. (nel qual caso il termine di 30 giorni decorre dal giorno in cui è stata scoperto il dopo o la collusione delle parti in danno dei propri creditori e aventi causa).

Riguardo al termine per proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza fatta oggetto di revocazione, il testo vigente dell’art. 398, comma 4, c.p.c. esclude che l’impugnazione per revocazione sospenda automaticamente il termine per proporre il ricorso per cassazione o il relativo procedimento, essendo necessario un apposito provvedimento del giudice della revocazione, in mancanza del quale i due giudizi procedono in via autonoma, potendo il ricorso per cassazione essere discusso anche prima che giunga la decisione sull’istanza di sospensione. (Sez. U, n. 09776/2020, M. Di Marzio, Rv. 657684-01).

4.1. (Segue) b) il termine cd. lungo.

Quanto al termine cd. lungo, esso decorre dalla pubblicazione della sentenza a norma dell’art. 133 c.p.c. (“La sentenza è resa pubblica mediante deposito nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata. Il cancelliere dà atto del deposito in calce alla sentenza e vi appone la data e la firma, ed entro cinque giorni, mediante biglietto contenente il testo integrale della sentenza, ne dà notizia alle parti che si sono costituite”) e non dalla data di comunicazione dell’avvenuto deposito della sentenza alla parte costituita (art. 133, comma 2, ult. parte, c.p.c.: “La comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’articolo 325”).

Tuttavia, Sez. 6-2, n. 09546/2020, Falaschi, Rv. 658011-01, ha precisato che, per il provvedimento giudiziale in formato cartaceo, il dies a quo coincide con l’attestazione dell’avvenuto deposito, mentre per le sentenze redatte in formato elettronico esso va individuato nel momento di trasmissione per via telematica (tramite PEC) del provvedimento, poiché a quella data esso diviene irretrattabile e legalmente noto.

Qualora, con riguardo a una sentenza “analogica”, risulti un’impropria scissione tra il momento di deposito e quello di pubblicazione con l’apposizione in calce alla sentenza di due diverse date, occorre verificare - ai fini della decorrenza del termine d’impugnazione e della tempestività dell’impugnazione - quando la sentenza è divenuta effettivamente conoscibile attraverso il deposito ufficiale in cancelleria, il quale determina l’inserimento di essa nell’elenco cronologico delle sentenze e l’attribuzione del relativo numero identificativo (Sez. 2, n. 09958/2020, De Marzo, Rv. 657755-01, ha ritenuto erronea la decisione del tribunale di individuare la data di deposito del provvedimento del giudice di pace con riferimento a quella posta in calce al documento, dato che l’attestazione del suo deposito in cancelleria in una data successiva rendeva evidente che solo allora la pronuncia era stata resa pubblica, ai sensi dell’art. 133, comma 1, c.p.c.).

La decadenza dall’impugnazione determinata da un errore di diritto sulla decorrenza del termine ex art. 327 c.p.c. (nella specie, la parte aveva dedotto la non tempestiva comunicazione della sentenza da parte della cancelleria, ma, come detto, il termine decorre dalla pubblicazione) impedisce la rimessione in termini prevista dall’art. 153, comma 2, c.p.c. (Sez. 6-5, n. 04585/2020, Dell’Orfano, Rv. 657317-01; analogamente, ma con riguardo all’inosservanza del termine ex art. 702-quater c.p.c., Sez. 1, n. 14411/2020, Marulli, Rv. 658257-01).

Il termine annuale di decadenza dal gravame - previsto dall’art. 327, comma 1, c.p.c. nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla l. 18 giugno 2009, n. 69 - va calcolato ex nominatione dierum, prescindendo cioè dal numero dei giorni da cui è composto ogni singolo mese o anno, ai sensi dell’art. 155, comma 2, c.p.c., aggiungendo poi il periodo di sospensione dei termini processuali nel periodo feriale; se esso viene così a cadere in un giorno festivo, è prorogato di diritto al primo giorno seguente non festivo, ai sensi dell’art. 155, comma 3, c.p.c. (Sez. 6-2, n. 02763/2020, Falaschi, Rv. 657249-01).

Ribadisce lo stesso principio anche Sez. 6-1, n. 17640/2020, Caiazzo, Rv. 658722-01, secondo cui, nel computo dei termini processuali mensili o annuali (compreso quello ex art. 327 c p.c.), si osserva il sistema della computazione civile non ex numero bensì ex nominatione dierum, nel senso che il decorso del tempo si ha, indipendentemente dall’effettivo numero dei giorni compresi nel rispettivo periodo, allo spirare del giorno corrispondente a quello del mese iniziale; analogamente si deve procedere quando il termine di decadenza interferisca con il periodo di sospensione feriale dei termini, perché al termine annuale di decadenza dal gravame ex art. 327, comma 1, c.p.c. devono aggiungersi 46 giorni [oggi 30] computati ex numeratione dierum, ai sensi del combinato disposto degli artt. 155, comma 1, c.p.c. e 1, comma 1, della l. n. 742 del 1969 (nella formula vigente ratione temporis), non dovendosi tener conto dei giorni compresi tra il primo agosto e il quindici settembre [oggi 30 agosto] di ciascun anno per effetto della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (Sez. 5, n. 15029/2020, Nicastro, Rv. 658424-01, osserva che si verifica il doppio computo del periodo feriale nell’ipotesi in cui, dopo una prima sospensione, il termine iniziale non sia decorso interamente al sopraggiungere del nuovo periodo feriale).

In caso di deposito della decisione durante il cd. periodo feriale, l’inizio del termine per l’impugnazione è differito, ex art. 1 l. n. 742 del 1969, alla fine del periodo stesso e comincia a decorrere il primo giorno utile dopo la sospensione feriale e, cioè, il 1° settembre di ogni anno, che va quindi computato (Sez. 6-3, n. 14147/2020, Scrima, Rv. 658415-01, aggiunge che il termine finale - da calcolarsi non ex numero, bensì ex nominatione dierum - spira il corrispondente giorno del mese di scadenza del semestre: il 1° marzo dell’anno successivo).

Con riguardo all’incidenza della sospensione feriale sul termine lungo di impugnazione, Sez. 2, n. 18485/2020, Carrato, Rv. 659170-01, ha ritenuto manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 16 del d.l. n. 132 del 2014, conv. con modif. nella l. n. 162 del 2014, norma che ha determinato l’abbreviazione del periodo di sospensione da 46 a 31 giorni, escludendo che la disposizione abbia determinato una compressione del diritto di difesa delle parti e del principio del giusto processo.

La procedura di definizione agevolata delle liti fiscali ex art. 39, comma 12, d.l. n. 98 del 2011, conv. in l. n. 111 del 2011 stabiliva un periodo di sospensione legale - dal 6 luglio 2011 al 30 giugno 2012 - del termine per impugnare di cui all’art. 327 c.p.c., al quale non si cumula il periodo di sospensione feriale (dal 1° agosto al 15 settembre 2011), essendo quest’ultimo già interamente assorbito dalla concorrente sospensione stabilita in via eccezionale (Sez. 5, n. 10252/2020, Cataldi, Rv. 657875-01).

Quando in un giudizio vi è connessione per pregiudizialità fra una domanda pregiudicante non soggetta alla sospensione feriale dei termini e una o più domande pregiudicate ad essa assoggettate, fino a che l’impugnazione non scioglie la connessione esso resta interamente soggetto alla esclusione della sospensione (Sez. 6-3, n. 15449/2020, Porreca, Rv. 658507-01); ha però precisato Sez. 6-2, n. 10661/2020, Criscuolo, Rv. 657821-01, che nel giudizio di opposizione all’esecuzione, la domanda di risarcimento danni da responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. non ha natura autonoma, ma meramente accessoria alla domanda di opposizione, sicché, ove l’appello avverso la sentenza di primo grado abbia ad oggetto unicamente la domanda dell’opponente di accertamento della responsabilità dell’opposta a tale titolo, l’esenzione dalla sospensione feriale dei termini prevista, per la natura della causa, per l’opposizione esecutiva, è applicabile anche alla domanda accessoria, stante la prevalenza del regime previsto per la causa principale, in conseguenza del rapporto di accessorietà necessaria intercorrente tra le due domande.

Al fine di individuare la durata del termine prevista dall’art. 327 c.p.c. ratione temporis applicabile, nel giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo ex art. 548 c.p.c. si deve avere riguardo alla notifica dell’atto di citazione, non assumendo alcun rilievo né la data di pubblicazione del titolo esecutivo azionato, né quella di avvio di un’altra precedente procedura esecutiva rimasta infruttuosa (Sez. 6-3, n. 19104/2020, D’Arrigo, Rv. 659015-01).

Il termine semestrale dalla pubblicazione della decisione ex art. 327 c.p.c. riguarda anche le controversie in materia di protezione internazionale (celebrate secondo il rito sommario introdotto dal d.lgs. n. 150 del 2011, ratione temporis applicabile), sicché il ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello va proposto entro sei mesi da tale evento, non essendovi disposizioni particolari che riguardino l’impugnazione delle pronunce di gravame all’esito di un procedimento sommario, e non trovando applicazione il disposto dell’art. 702-quater c.p.c., attinente alla proposizione dell’appello contro le ordinanze di primo grado (Sez. 1, n. 14821/2020, Rossetti, Rv. 658259-01).

Analogamente, Sez. 6-2, n. 04735/2020, Criscuolo, Rv. 657263-01, ha statuito che al ricorso per cassazione avverso l’ordinanza che ha deciso l’opposizione ex art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002 al provvedimento di liquidazione del compenso del consulente o del perito si applica - in assenza di notificazione dell’ordinanza, la quale comporta il decorso del termine breve ex art. 739 c.p.c. (Sez. 6-2, n. 05990/2020, Criscuolo, Rv. 657576-01) - il termine lungo ex art. 327 c.p.c., proprio della disciplina del ricorso straordinario ex art. 111 Cost., e non già la previsione del procedimento sommario di cognizione (secondo cui l’appello avverso l’ordinanza ex art. 702-ter c.p.c. va proposto nel termine di trenta giorni dalla sua comunicazione), trattandosi di decisione non altrimenti impugnabile che incide con carattere di definitività su diritti soggettivi.

Il termine “lungo” semestrale non decorre dalla pubblicazione della sentenza, in assenza di notifica, per la parte contumace che dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa o degli atti di cui all’art. 292 c.p.c.: per evitare la decadenza dall’impugnazione, il contumace deve dimostrare la sussistenza, oltre che del presupposto oggettivo della nullità della notificazione, di quello soggettivo della mancata conoscenza del processo a causa di detta nullità, senza che rilevi la conoscenza legale dello stesso, essendo sufficiente quella di fatto (Sez. 3, n. 00532/2020, Gorgoni, Rv. 656583-02). Il convenuto contumace non può invocare l’iscrizione a ruolo eseguita dall’attore prima della notificazione della citazione introduttiva della lite quale causa della mancata conoscenza del processo, ai fini della proposizione dell’impugnazione dopo il decorso del termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., potendosi derogare alla regola generale nei soli casi tassativamente previsti dal secondo comma della citata disposizione (Sez. 6-3, n. 19118/2020, Iannello, Rv. 658771-01).

4.3. (Segue) Profili comuni ai due termini di impugnazione.

L’inammissibilità dell’impugnazione per tardività (così come l’improcedibilità della stessa) è oggetto di verifica ex officio anche da parte del giudice di legittimità, sempre che ciò non comporti accertamenti in fatto incompatibili col giudizio di cassazione (Sez. 3, n. 11204/2019, Olivieri, Rv. 653709-01); infatti, l’eccezione di inammissibilità non può essere sollevata per la prima volta nel giudizio di cassazione, allorché il suo esame implichi un accertamento in fatto (nella specie, l’esame di documenti riguardanti la notifica dell’atto impositivo in relazione alla data d’inoltro del ricorso) rimesso al giudice di merito (Sez. 5, n. 17363/2020, Giudicepietro, Rv. 658701-01).

Nell’ipotesi in cui il ricorrente per cassazione non alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, la S.C. deve ritenere che lo stesso ricorrente abbia esercitato il diritto di impugnazione entro il cd. termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., procedendo all’accertamento della sua osservanza.

Al contrario, qualora lo stesso ricorrente indichi che il provvedimento impugnato era stato notificato ai fini del decorso del termine di impugnazione, l’art. 369, comma 2, c.p.c. impone il deposito, a pena di improcedibilità del ricorso (rilevabile d’ufficio e non sanabile attraverso la non contestazione da parte del controricorrente), della copia autentica della sentenza impugnata con la relata di notifica, allo scopo di consentire al giudice dell’impugnazione, sin dal momento del deposito del ricorso, di accertarne la tempestività del gravame in relazione al termine di cui all’art. 325, comma 2, c.p.c. (Sez. L, n. 03466/2020, Raimondi, Rv. 656775-01).

Infatti, in tema di protezione internazionale, Sez. 1, n. 14839/2020, Ferro, Rv. 658390-01, ha statuito che il ricorrente per cassazione è tenuto ad allegare l’avvenuta comunicazione del decreto impugnato (o la mancata esecuzione di tale adempimento), producendo, a pena d’improcedibilità, copia autentica del provvedimento unitamente alla relazione di comunicazione, munita di attestazione di conformità delle ricevute PEC; tuttavia, il mancato deposito di tale relazione è irrilevante sia quando il ricorso è comunque notificato entro trenta giorni dalla pubblicazione del decreto (cd. prova di resistenza), sia quando essa risulti comunque nella disponibilità della Corte di cassazione, perché prodotta dalla parte controricorrente ovvero acquisita a seguito dell’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio, sempre che l’acquisizione sia stata in concreto effettuata e che da essa risulti l’avvenuta comunicazione, non spettando alla Corte attivarsi per supplire all’inosservanza della parte al precetto posto dalla succitata disposizione (in senso conforme, Sez. 6-1, n. 22324/2020, Marulli, Rv. 659414-01).

Non determina l’improcedibilità del ricorso per cassazione il tempestivo deposito di copia analogica della decisione impugnata predisposta in originale telematico e notificata a mezzo PEC priva di attestazione di conformità del difensore ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter, l. n. 53 del 1994, a condizione che il controricorrente depositi a sua volta copia analogica della decisione ritualmente autenticata ovvero non disconosca, ex art. 23, comma 2, d.lgs. n. 82 del 2005, la conformità della copia informale all’originale notificatogli (Sez. U, n. 08312/2019, Tria, Rv. 653597-01).

Ad ogni buon conto, l’attestazione di conformità della copia analogica della sentenza impugnata (redatta in formato digitale) predisposta ai fini del ricorso per cassazione può essere eseguita, in forza delle disposizioni sopra menzionate, anche dal difensore che ha assistito la parte nel precedente grado di giudizio, i cui poteri processuali e di rappresentanza permangono finché il cliente non conferisca il mandato alle liti per il giudizio di legittimità ad un altro difensore (Sez. 1, n. 06907/2020, Rossetti, Rv. 657478-01, ha dichiarato improcedibile il ricorso, perché l’attestazione di conformità della sentenza impugnata era stata redatta dal difensore in grado di appello successivamente al conferimento ad altro difensore della procura speciale per il giudizio di legittimità).

L’atto di impugnazione impedisce la formazione del giudicato se il gravame viene intrapreso entro il termine (breve o lungo) con la proposizione dell’atto introduttivo prescritto dalla legge.

In proposito, Sez. 6-3, n. 14150/2020, Gorgoni, Rv. 658509-01, ha statuito che la mancata indicazione delle generalità della parte impugnante che abbia richiesto la notificazione dell’atto processuale non comporta la sua nullità, a meno che non si determini un’incertezza assoluta, che si verifica soltanto quando da detto atto non sia possibile in alcun modo ricavare il soggetto richiedente la notificazione.

Analogamente, secondo Sez. 6-L, n. 27567/2020, Esposito, Rv. 659824-01, la notifica di una impugnazione contenente un errore sulle generalità del destinatario dell’atto impedisce la formazione del giudicato se l’errore (nella specie, riguardante l’indicazione del prenome del destinatario dell’atto di appello) è irrilevante e l’impugnazione è comunque idonea al raggiungimento dello scopo.

In caso di mancato perfezionamento della notificazione dell’atto di impugnazione entro il termine perentorio ex artt. 325 o 327 c.p.c. a causa di circostanze non imputabili al richiedente, quest’ultimo, una volta appreso l’esito negativo della notifica, al fine di conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria ha l’onere di riattivare autonomamente il procedimento notificatorio entro un termine ragionevolmente contenuto (cfr. Sez. U, n. 14594/2016, Curzio, Rv. 640441-01), ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa (Sez. L, n. 17577/2020, Calafiore, Rv. 658886-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione che, spedito a mezzo PEC alle 20.21 dell’ultimo giorno utile per la proposizione, non era stato accettato immediatamente ma il giorno successivo, senza che il notificante si fosse attivato per la ripresa del procedimento notificatorio).

La notifica dell’impugnazione va effettuata al procuratore nel precedente grado di giudizio dove la parte abbia eletto domicilio e, dunque, il ricorso per cassazione deve essere indirizzato al difensore in appello e tale notifica è valida anche quando questi sia privo di abilitazione al patrocinio innanzi le magistrature superiori, perché l’abilitazione è essenziale soltanto per impugnare la pronuncia in cassazione (Sez. 5, n. 13067/2020, P. Di Marzio, Rv. 658105-01).

La circostanza che il procuratore esercente il proprio ufficio fuori della circoscrizione del tribunale al quale è assegnato abbia mancato di eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria procedente, consente alla controparte, ex art. 82, comma 2, del r.d. n. 37 del 1934, di effettuare le notificazioni degli atti del processo presso la cancelleria di detto giudice, ma la citata disposizione non comporta affatto la nullità della notificazione effettuata al domicilio eletto dalla controparte presso lo studio del difensore esercente fuori del circondario, la quale, anzi, in siffatta forma vale ancora più a fare raggiungere all’atto lo scopo previsto dalla legge (Sez. 6-3, n. 14616/2020, D’Arrigo, Rv. 658511-01).

È parimenti valida la notifica dell’atto di impugnazione effettuata a mani della persona “addetta al ritiro”, seppur in luogo diverso da quello indicato dal procuratore domiciliatario e in assenza di alcuna indicazione del destinatario negli atti processuali, in quanto il riferimento personale prevale su quello topografico ai fini della notifica dell’impugnazione ai sensi dell’art. 330 c.p.c., sicché l’elezione di domicilio presso lo studio del procuratore assume la mera funzione di indicare la sede di questo ed è priva di una sua autonoma rilevanza (Sez. 6-5, n. 04914/2020, Luciotti, Rv. 657320-01).

Di contro, è nulla (ma non inesistente), per violazione delle prescrizioni dell’art. 330, commi 1 e 3, c.p.c., la notificazione dell’impugnazione ad un avvocato condividente lo studio del difensore della parte ed eseguita presso il domicilio professionale esistente ed eletto al momento della costituzione in giudizio, ma il vizio può essere sanato dalla costituzione in giudizio del destinatario, a condizione che non sia medio tempore passata in giudicato la sentenza impugnata (Sez. 3, n. 06164/2020, Scarano, Rv. 657152-01).

Nel caso di morte della parte vittoriosa, l’atto di impugnazione della sentenza deve essere rivolto agli eredi, anche in forma collettiva ed impersonale, purché entro l’anno dalla pubblicazione (comprensivo dell’eventuale periodo di sospensione feriale), nell’ultimo domicilio della parte defunta ovvero, nel solo caso di notifica della sentenza ad opera della parte deceduta dopo l’avvenuta notificazione, nei luoghi di cui al primo comma dell’art. 330 c.p.c. (Sez. 5, n. 22180/2020, D’Oriano, Rv. 659614-01). È invece radicalmente nulla l’impugnazione (nella specie, ricorso per cassazione) che, anziché nei confronti dell’erede, sia proposto e notificato (mediante il rilascio di copia nel domicilio eletto dal procuratore) alla parte deceduta e del cui decesso il ricorrente aveva già avuto conoscenza legale, salva l’eventuale sanatoria derivante dalla costituzione in giudizio dell’erede prima del passaggio in giudicato dell’impugnata sentenza (Sez. 2, n. 11466/2020, San Giorgio, Rv. 658263-01).

La proposizione di impugnazioni nei confronti di pubbliche amministrazioni segue regole peculiari.

Così, la notificazione dell’appello all’amministrazione delegata a stare in giudizio e non a quella che ebbe ad emettere l’ordinanza ingiunzione non è inesistente, ma nulla (Sez. 2, n. 20418/2020, Oliva, Rv. 659191-01).

Nel giudizio di cassazione avverso la convalida del decreto di espulsione emesso dal Prefetto, il contraddittorio con l’Amministrazione va instaurato mediante notifica del ricorso al Ministero dell’interno (atteso che la legittimazione degli organi periferici del predetto Ministero a stare in giudizio per mezzo di propri funzionari costituisce una mera facoltà dell’Amministrazione) da effettuarsi presso l’Avvocatura generale dello Stato (Sez. 2, n. 24582/2020, Picaroni, Rv. 659666-01).

Tuttavia, qualora il ricorso sia notificato all’Avvocatura distrettuale dello Stato anziché all’Avvocatura Generale dello Stato, il vizio della notifica è sanato, con efficacia ex tunc, dalla costituzione in giudizio del destinatario del ricorso (Sez. 6-3, n. 12410/2020, Scrima, Rv. 658064-01).

Non opera l’ultrattività del mandato originariamente conferito al difensore dell’agente della riscossione, nominato e costituito nel giudizio concluso con la sentenza oggetto di ricorso per cassazione, ai fini della ritualità della notifica del ricorso avverso la sentenza pronunciata nei confronti dell’agente della riscossione che era parte in causa, poiché la cessazione di questo e l’automatico subentro del successore sono disposti da una norma di legge (art. 1 d.l. n. 193 del 2016); pertanto, la notifica del ricorso destinata al successore ex lege (Agenzia dell’entrate - Riscossione) ed eseguita nei confronti di detto originario difensore è invalida, ma tale invalidità integra una mera nullità, suscettibile di sanatoria, o per effetto della spontanea costituzione dell’Agenzia stessa, o a seguito della rinnovazione dell’atto introduttivo ai sensi dell’art. 291 c.p.c. (Sez. U, n. 02087/2020, De Stefano, Rv. 656705-01).

È consolidato il principio di ultrattività del rito secondo cui l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile deve avvenire in base al principio dell’apparenza, cioè con riguardo esclusivo alla qualificazione, anche implicita, dell’azione e del provvedimento compiuta dal giudice (Sez. 3, n. 23390/2020, Moscarini, Rv. 659244-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto, in luogo dell’appello, avverso la sentenza con la quale il tribunale aveva qualificato la domanda come azione risarcitoria ordinaria ex art. 2043 c.c., per lesione dei diritti all’identità personale ed alla reputazione, piuttosto che come ricorso inquadrabile nello schema dell’art. 152 del d.lgs. n. 196 del 2003).

Inoltre, se il primo grado del giudizio di opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada, regolato dall’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, è stato erroneamente trattato nelle forme ordinarie (per non essere stato disposto il mutamento di rito entro la prima udienza di comparizione delle parti ai sensi dell’art. 4, comma 2, del citato decreto), il rito si consolida anche con riguardo alla forma dell’impugnazione e, conseguentemente, la tempestività dell’appello deve essere verificata prendendo come riferimento la data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notificazione, anziché quella del suo deposito in cancelleria. (Sez. 3, n. 09847/2020, D’Arrigo, Rv. 657717-01).

5. Le impugnazioni incidentali.

Gli artt. 333 e 334 c.p.c. disciplinano, rispettivamente, l’impugnazione incidentale tempestiva e tardiva (sebbene il codice di rito detti specifiche disposizioni per l’appello incidentale - art. 343 c.p.c. - e per il ricorso per cassazione incidentale - art. 371 c.p.c.), tradizionalmente contrapposte, in via di definizione, a quella principale: il carattere, principale o incidentale, dell’impugnazione deriva, peraltro, da una questione meramente cronologica, nel senso che è principale l’impugnazione proposta per prima, mentre è incidentale quella successiva.

Alla base della disciplina in esame si pone, da un lato, l’esistenza di una situazione di soccombenza reciproca (che ha luogo ogni qual volta le parti abbiano visto solo parzialmente accolte le proprie conclusioni) e, dall’altro, il cd. principio di unità del giudizio di impugnazione, che trova esplicitazione anche nel successivo art. 335 c.p.c., in virtù del quale va disposta la riunione di tutte le impugnazioni proposte separatamente al fine di scongiurare la possibilità di frammentazione del giudicato.

Proprio in base al principio dell’unicità del processo di impugnazione si è stabilito che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbano essere proposte in via incidentale nello stesso processo e, quindi, nel giudizio di cassazione, con l’atto contenente il controricorso; la forma, però, non assume rilievo essenziale, sicché ogni ricorso successivo al primo si converte in ricorso incidentale, ancorché proposto con atto a sé stante (Sez. 2, n. 00448/2020, Bellini, Rv. 656830-01). La suesposta regola della “conversione dell’impugnazione” trova applicazione anche nell’appello soggetto al rito del lavoro, sicché l’appello principale successivo ad altro appello si converte in appello incidentale, purché sia rispettato il termine per l’appello incidentale ex art. 436 c.p.c. (Sez. L, n. 03830/2020, Blasutto, Rv. 656926-01).

L’ordine di trattazione delle impugnazioni, principali e incidentali, avverso lo stesso provvedimento è oggetto di Sez. 5, n. 15582/2020, Crucitti, Rv. 658403-01: qualora vengano iscritti due ricorsi per cassazione di identico contenuto, proposti dalla stessa parte contro la medesima sentenza, uno in via principale e l’altro in via incidentale rispetto al ricorso principale di un’altra parte contemporaneamente notificato, deve essere data priorità di esame a quello iscritto per primo, e, se esso sia ammissibile e procedibile, la sua decisione rende inammissibile, in via sopravvenuta, l’altro ricorso.

Con specifico riguardo all’esigenza di assicurare il simultaneus processus di impugnazione della medesima pronuncia, Sez. 3, n. 13849/2020, Olivieri, Rv. 658299-01, ha statuito che, in caso di separata proposizione dell’impugnazione - in via principale, anziché incidentale - da parte del destinatario dell’impugnazione altrui, il giudice deve essere posto in grado di conoscere la pendenza dei due procedimenti, al fine di provvedere alla loro riunione ex art. 335 c.p.c.; in difetto, la mancata riunione delle due impugnazioni non incide sulla validità della pronuncia relativa alla prima, ma rende improcedibile la seconda, risultando ormai impossibile il simultaneus processus, il che costituisce impedimento all’esame degli ulteriori gravami, stante la decadenza ex art. 333 c.p.c.

La distinzione tra impugnazione incidentale tempestiva (con riguardo all’appello incidentale, da proporre con la costituzione dell’appellato, almeno venti giorni prima - calcolati, in quanto termine a ritroso, con esclusione del giorno iniziale - dell’udienza di comparizione indicata nell’atto di citazione, secondo l’arresto di Sez. 6-3, n. 06386/2020, Gorgoni, Rv. 657292-01) e tardiva non è di poco conto, giacché quest’ultima (e non anche la prima) è processualmente dipendente, ai sensi dell’art. 334, comma 2, c.p.c., da quella principale, la cui inammissibilità determina anche l’inefficacia del gravame incidentale.

Così, mentre l’impugnazione incidentale in senso stretto (proveniente, cioè, dalla parte contro cui è stata proposta l’impugnazione) è ammissibile, se ritualmente proposta, anche se è decorso il termine o la parte ha fatto acquiescenza alla decisione, il ricorso di una parte che abbia contenuto adesivo a quello principale soggiace alla disciplina dell’art. 325 c.p.c. (Sez. 3, n. 17614/2020, Sestini, Rv. 658685-01, ha ritenuto inammissibile l’impugnazione incidentale tardiva proposta contro il ricorrente principale, ritenendo l’interesse all’impugnazione sorto già in conseguenza dell’emanazione della sentenza di appello e non per effetto del ricorso principale; nello stesso senso, Sez. U, n. 23903/2020, Scarpa, Rv. 659289-02, ha statuito che, poiché l’azione esercitata contro più soggetti solidalmente responsabili del danno erariale inserisce in un unico giudizio più cause scindibili e indipendenti, una volta che sia stato proposto ricorso per cassazione da uno dei condebitori solidali, gli altri non possono giovarsi dell’impugnazione incidentale tardiva dopo il decorso del temine breve).

L’interesse alla proposizione dell’impugnazione incidentale tardiva ha però formato oggetto di diverse decisioni.

Secondo un primo orientamento, essa è sempre ammissibile quando l’impugnazione principale abbia messo in discussione l’assetto di interessi derivante dalla sentenza che, in mancanza dell’altrui gravame, sarebbe stato accettato dalla parte; di conseguenza, può essere proposta anche con riguardo ad un capo della sentenza diverso da quello investito dall’impugnazione principale (Sez. 3, n. 14596/2020, Rossetti, Rv. 658319-01, ha confermato l’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva proposta contro l’impugnante principale, ma avverso un capo di sentenza diverso da quello investito dall’impugnazione principale, ravvisando l’interesse della parte, dato che il gravame di uno dei litisconsorti, se accolto, avrebbe comportato un pregiudizio per l’impugnante incidentale tardivo dando luogo ad una sua soccombenza totale o, comunque, più grave di quella stabilita nella decisione gravata); secondo Sez. 3, n. 25285/2020, Porreca, Rv. 659582-01, l’impugnazione incidentale tardiva è ammissibile anche se investe lo stesso capo della decisione che è oggetto del gravame principale, ma per motivi diversi da quelli già fatti valere, atteso che l’interesse ad impugnare sorge dall’eventualità che l’accoglimento dell’impugnazione principale modifichi l’assetto giuridico al quale la parte avrebbe prestato acquiescenza (nello stesso senso si era espressa anche Sez. 6-3, n. 14094/2020, Positano, Rv. 658412-01).

In senso contrario, si è affermato che l’interesse alla proposizione dell’impugnazione tardiva deve insorgere per effetto dell’impugnazione principale e non essere, invece, preesistente a quella come nel caso di gravame che investa un capo della sentenza non impugnato o lo investa per motivi diversi da quelli fatti valere con il ricorso principale (Sez. 3, n. 17614/2020, Sestini, Rv. 658685-01); conseguentemente, può giovarsi del disposto dell’art. 334 c.p.c. relativo all’impugnazione incidentale tardiva la parte contro la quale è stata proposta l’impugnazione principale o quella chiamata ad integrare il contraddittorio a norma dell’art. 331 c.p.c. (Sez. U, n. 23903/2020, Scarpa, Rv. 659289-02) e, dunque, nelle cause scindibili o indipendenti, l’appello incidentale tardivo non può determinare un’estensione soggettiva del giudizio a parti diverse da quelle che hanno proposto l’impugnazione in via principale, nei confronti delle quali deve ritenersi formato il giudicato interno (Sez. 6-2, n. 05989/2020, Criscuolo, Rv. 657270-01).

Sulla stessa questione, Sez. L, n. 26164/2020, Tricomi, Rv. 659545-01, ha affermato che la parte parzialmente soccombente può proporre appello incidentale tardivo anche in riferimento ai capi della sentenza di merito non oggetto di gravame con l’impugnazione principale, a condizione che si tratti di impugnazioni proposte in relazione ad unico rapporto, mentre, qualora si tratti di distinti rapporti dedotti nello stesso giudizio, ovvero in cause diverse poi riunite, ciascuna parte deve proporre impugnazione per i capi della sentenza che la riguardino nei termini decadenziali ex artt. 325 e 327 c.p.c.

La parte appellata può avanzare l’impugnazione incidentale tardiva anche relativamente alla sentenza non definitiva, alla duplice e congiunta condizione che il soccombente sia stato autore della riserva di gravame differito e che, essendo risultato parzialmente vittorioso per effetto della sentenza definitiva, veda le statuizioni di questa, a lui favorevoli, impugnate in via principale dalla controparte (Sez. 2, n. 19514/2020, Criscuolo, Rv. 659133-01).

In ogni caso, la statuizione che provvede sulle spese di giudizio costituisce un capo autonomo della decisione, che va impugnato in via autonoma e non con l’impugnazione incidentale tardiva (Sez. 5, n. 04845/2020, D’Ovidio, Rv. 657370-01).

6. La pluralità di parti in primo grado: effetti sull’impugnazione.

Quando la sentenza di prime cure è stata pronunciata in una situazione di litisconsorzio (cioè nei confronti di più parti), occorre stabilire quali parti devono partecipare al giudizio di impugnazione.

Difatti, la verifica della corretta instaurazione del contraddittorio, quanto alla chiamata in giudizio dei litisconsorti necessari, riguardando la valida costituzione del rapporto processuale, ha carattere preliminare rispetto all’esame dei motivi di impugnazione (Sez. 6-2, n. 07040/2020, Scarpa, Rv. 657283-01, in tema di litisconsorzio tra i comproprietari del fondo destinatari di actio negatoria servitutis), anche quando il giudice d’appello provveda ai sensi dell’art. 348-ter, comma 1, c.p.c., dato che la disposizione prevede l’obbligo di previa audizione delle parti (Sez. 3, n. 01288/2020, Olivieri, Rv. 658020-01).

Al fine di consentire la verifica dell’integrità del contraddittorio ed eventualmente ordinarne l’integrazione ai sensi dell’art. 331 c.p.c. (nella specie, nei confronti di tutti i creditori procedenti o intervenuti al momento della proposizione dell’opposizione esecutiva, fra i quali sussiste litisconsorzio processuale necessario), il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità ex art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., l’esatta indicazione dei litisconsorti necessari (Sez. 3, n. 11268/2020, D’Arrigo, Rv. 658143-01).

Il difetto di un integro contraddittorio nel secondo grado determina la nullità assoluta dell’intero processo di impugnazione e della sentenza che lo ha concluso, rilevabile di ufficio in ogni stato e grado e, quindi, pure in sede di legittimità, ove la non integrità del contraddittorio emerga ex se dagli atti senza necessità di nuovi accertamenti (Sez. 6-3, n. 24639/2020, Positano, Rv. 659916-01; Sez. 6-2, n. 07040/2020, Scarpa, Rv. 657283-01). Quando, invece, la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario si sia verificata in primo grado e il giudice d’appello, pur rilevandola, abbia omesso di rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354, comma 1, c.p.c., l’intero processo resta viziato e, in sede di legittima, si impone l’annullamento, anche ex officio, delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure (Sez. 2, n. 23315/2020, Tedesco, Rv. 659380-01).

Il codice di rito distingue a seconda del vincolo che ha determinato il litisconsorzio, prevedendo che (a) quando si tratti di cause inscindibili o tra loro dipendenti, il giudizio di impugnazione si deve svolgere nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato alla precedente fase (art. 331 c.p.c.), mentre (b) nella diversa ipotesi di plurime cause che avrebbero potuto essere trattate separatamente (e, solo per motivi contingenti, le cause - scindibili - sono state trattate in un solo processo) il giudizio di impugnazione non richiede necessariamente la partecipazione di ognuno dei contendenti (art. 332 c.p.c.).

Tale diversità di disciplina implica che, nel primo caso, l’omessa impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti non determina ex se l’inammissibilità del gravame, ma la necessità per il giudice d’ordinare l’integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., nei confronti della parte pretermessa; tuttavia, in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, se non può farsi ricadere sul ricorrente, che abbia tempestivamente avviato il procedimento di notificazione, l’esito negativo del medesimo dovuto a circostanze indipendenti dalla sua volontà e non prevedibili, occorre d’altro canto considerare che il termine per l’integrazione del contraddittorio non viene concesso soltanto per iniziare il procedimento, ma anche per svolgere le necessarie indagini anagrafiche per la corretta notificazione del ricorso (Sez. 3, n. 03318/2020, Guizzi, Rv. 656893-01).

L’art. 331 c.p.c. trova applicazione non solo alle fattispecie in cui la necessità del litisconsorzio in primo grado derivi da ragioni di ordine sostanziale, ma anche a quelle di “cd. litisconsorzio necessario processuale”, che si verificano quando la presenza di più parti nel giudizio di primo grado debba necessariamente persistere in sede di impugnazione, al fine di evitare possibili giudicati contrastanti in ordine alla stessa materia e nei confronti di quei soggetti che siano stati parti del giudizio. Pertanto, è necessario provvedere all’integrazione del contraddittorio nei confronti di ciascuno degli eredi della parte, ancorché contumace in primo grado, deceduta nel corso del giudizio, perché la morte determina la trasmissione della sua legittimazione processuale attiva e passiva agli eredi, litisconsorti necessari per ragioni processuali indipendentemente, cioè, dalla scindibilità o meno del rapporto sostanziale (Sez. 6-3, n. 24639/2020, Positano, Rv. 659916-01).

Quanto all’individuazione della natura del rapporto dedotto in giudizio, la casistica giurisprudenziale è varia.

Così, ad esempio, secondo Sez. 6-2, n. 15994/2020, Scarpa, Rv. 658787-01, i creditori iscritti e coloro che hanno acquistato diritti sull’immobile in virtù di atti trascritti hanno diritto ad intervenire nella divisione ex art. 1113, comma 1, c.c., ma non ne sono parti necessarie e non assumono la veste di litisconsorti, con conseguente necessità d’integrazione del contraddittorio nei loro confronti nel giudizio di appello.

Non si applica l’art. 331 c.p.c. nemmeno in caso di impugnazione della sentenza, formalmente unica, relativa alla domanda proposta da più lavoratori nei confronti dello stesso datore di lavoro, perché il cumulo delle loro istanze dà luogo a un litisconsorzio facoltativo improprio, nel quale permane l’autonomia dei titoli e l’unitario provvedimento finale consta, in realtà, di tante pronunce quante sono le cause riunite (Sez. L, n. 24928/2020, Cavallaro, Rv. 659268-01).

Parimenti, la solidarietà attiva e passiva tra più soggetti agenti o convenuti nel giudizio di risarcimento del danno non comporta inscindibilità delle cause in fase di impugnazione e non dà luogo all’applicazione dell’art. 331 c.p.c., in quanto ogni danneggiato, come può agire separatamente dagli altri danneggiati e nei confronti di ciascuno dei danneggianti per ottenere l’integrale risarcimento, così può proseguire il giudizio senza gli ulteriori danneggiati o contro uno solo dei danneggianti (Sez. 6-3, n. 10596/2020, Dell’Utri, Rv. 657995-01).

Il vincolo di dipendenza tra la causa principale e quella di garanzia impropria, con la quale il convenuto voglia essere tenuto indenne dal garante per quanto sarà eventualmente condannato a pagare all’attore, permane anche nel giudizio di impugnazione, a meno che quest’ultima attenga esclusivamente al rapporto di garanzia, senza investire la domanda principale (Sez. 6-1, n. 12174/2020, Terrusi, Rv. 658074-01; specularmente, Sez. 6-3, n. 21366/2020, Dell’Utri, Rv. 659563-01, che la causa sia scindibile quando il chiamato non abbia contestato la fondatezza della domanda proposta contro il proprio chiamante e l’attore non abbia presentato domande verso il chiamato).

Al contrario, il rapporto processuale instaurato nel giudizio di legittimità (rescindente) determina un litisconsorzio necessario fra le parti nel processo di cassazione e comporta, nel giudizio di rinvio (rescissorio), la loro necessaria partecipazione, senza che abbia rilievo alcuno la natura inscindibile o scindibile della causa (Sez. 6-2, n. 00975/2020, Scarpa, Rv. 657245-02).

Peculiare è la fattispecie della causa di revocatoria ordinaria avente per oggetto l’atto di dotazione patrimoniale del trust, in cui il trustee è sempre litisconsorte necessario e nei suoi confronti deve essere integrato il contraddittorio, ex art. 331 c.p.c., nel giudizio d’impugnazione (Sez. 6-3, n. 09648/2020, Cigna, Rv. 657742-01; nello stesso senso, Sez. 3, n. 12887/2020, Olivieri, Rv. 658020-02).

La distinzione tra cause scindibili e inscindibili è significativa non solo per l’introduzione dell’impugnazione, ma anche per la trattazione e decisione del gravame.

Infatti, la notificazione dell’impugnazione a parti diverse da quelle dalle quali o contro le quali è stata proposta ai sensi dell’art. 332 c.p.c. non ha la stessa natura della notificazione prevista dall’art. 331 c.p.c., che concerne l’integrazione del contraddittorio in cause inscindibili e realizza la vocatio in jus; nelle cause scindibili, la notifica integra una litis denuntiatio con la quale si avvertono coloro che hanno partecipato al giudizio della necessità di proporre le impugnazioni, non ancora precluse, nel processo già instaurato; in quest’ultima ipotesi, l’omessa notificazione (o il mancato ordine di notificazione) del gravame alle altre parti ha come unico effetto la stasi e quiescenza del processo fino alla decorrenza dei termini stabiliti dagli artt. 325 e 327 c.p.c. e la sentenza non può essere utilmente emessa sino alla loro scadenza, ma essa è annullabile soltanto se al momento della decisione non siano già decorsi i termini per l’appello, perché, altrimenti, l’inosservanza dell’art. 332 c.p.c. non produce alcun effetto (Sez. 6-2, n. 07031/2020, Abete, Rv. 657280-02).

Analogamente, in base alla ratio dell’art. 332 c.p.c., Sez. 6-3, n. 00804/2020, Porreca, Rv. 656588-01, ha statuito che, in caso di litisconsorzio facoltativo in cause scindibili e di omessa esecuzione dell’ordine del giudice di eseguire la notificazione nei confronti delle altre parti, l’estinzione del processo di secondo grado può riguardare soltanto i soggetti destinatari del rinnovo della notifica, senza alcun riflesso sugli altri.

7. Effetti dell’accoglimento dell’impugnazione.

L’art. 336 c.p.c. disciplina il cd. effetto espansivo della sentenza riformata o cassata: per l’effetto espansivo interno (primo comma), l’accoglimento del gravame può riverberarsi sulle parti della decisione che sono da esso dipendenti anche se non investite dall’impugnazione, posto che rispetto ad esse non si verifica acquiescenza se sono in nesso di conseguenza con quelle intercettate dalla statuizione del giudice superiore o se in esse rinvengono il loro presupposto (Sez. 2, n. 12649/2020, Giannaccari, Rv. 658277-01, secondo cui si può formare la cosa giudicata su un capo della sentenza per mancata impugnazione solo con riferimento ai capi completamente autonomi, in quanto fondati su distinti presupposti di fatto e di diritto); l’effetto espansivo esterno (secondo comma), invece, si ripercuote sui provvedimenti e sugli atti dipendenti dalla riforma o dalla cassazione della sentenza impugnata.

Anche nel corso del 2020 è stata più volte esaminata la questione relativa alla restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza poi riformata.

Sez. 3, n. 24171/2020, Gorgoni, Rv. 659527-01, ha affermato che il giudice dell’impugnazione, riformando la decisione gravata, ha il potere - ma non l’obbligo - di pronunciarsi d’ufficio sui conseguenti effetti restitutori e/o ripristinatori (sempre che non siano necessari accertamenti implicanti un ampliamento del thema decidendum).

Di conseguenza, nel giudizio d’appello la parte interessata può proporre la relativa domanda - che non integra una domanda nuova ex art. 345 c.p.c., in quanto conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, e può essere formulata in qualunque momento, anche nell’udienza di discussione della causa, in sede di precisazione delle conclusioni, oppure nella comparsa conclusionale (Sez. 1, n. 23972/2020, Nazzicone, Rv. 659603-01) - e in tal caso il giudice è tenuto a pronunciarsi su di essa (Sez. 6-2, n. 15457/2020, Casadonte, Rv. 658733-01).

In alternativa, la parte interessata può anche instaurare un autonomo giudizio (Sez. 3, n. 24171/2020, Gorgoni, Rv. 659527-01).

Altra frequente ipotesi di effetto espansivo interno concerne le spese di lite del precedente grado di giudizio: il potere del giudice d’appello di procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, in quanto il relativo onere deve essere attribuito e ripartito in relazione all’esito complessivo della lite; al contrario, il rigetto del gravame preclude la modifica della statuizione sulle spese di lite in difetto di una specifica impugnazione sul punto (Sez. 1, n. 14916/2020, Caradonna, Rv. 658671-01).

  • prova

CAPITOLO XIII

L’APPELLO

(di Giovanni Fanticini )

Sommario

1 Caratteri generali del processo d’appello. - 2 I provvedimenti appellabili. - 3 Forme e termini dell’impugnazione. - 4 L’oggetto dell’impugnazione. - 5 L’effetto devolutivo e l’onere di riproposizione ex art. 346 c.p.c. - 6 Le parti e il contraddittorio. - 7 I nova in appello. - 7.1 (Segue) Nuovi mezzi di prova in appello. - 8 La decisione e trattazione dell’appello.

1. Caratteri generali del processo d’appello.

Con la riforma introdotta dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, il legislatore ha inteso trasformare il giudizio di appello da novum iudicium (da intendersi quale mezzo per sottoporre nuovamente al secondo giudice, in tutto o in parte, l’oggetto della lite svoltasi in prime cure) a revisio prioris instantiae (e, cioè, a strumento di controllo degli errori di diritto o di fatto contenuti nel provvedimento impugnato, così come denunciati dalle parti).

Anche se già in precedenza si riteneva che il giudice d’appello potesse esercitare il proprio sindacato entro la griglia di soluzioni proposte dall’appellante sui capi e sulle questioni specificamente devolute, l’effetto devolutivo tracciato dalla riforma risulta maggiormente definito entro i limiti delle contrapposte iniziative delle parti, le quali - con un appello necessariamente motivato (ex artt. 342 e 434 c.p.c.) o attraverso la riproposizione delle questioni (ex art. 346 c.p.c.) o con l’appello incidentale (ex artt. 343 e 436 c.p.c.) - delineano i confini del gravame e, nel contempo, così sanciscono l’abbandono delle domande e delle eccezioni non riproposte (ex art. 346 c.p.c.) e segnano i margini dell’acquiescenza parziale (ex art. 329, comma 2, c.p.c.).

Nel solco di Sez. U, n. 27199/2017, Cirillo F.M., Rv. 645991-01 - che ha respinto l’orientamento, formalistico e restrittivo, in base al quale l’ammissibilità dell’appello doveva essere subordinata ad un “progetto alternativo di decisione” - la S.C. ha ribadito, pure nel 2020, che l’oggetto dell’impugnazione è costituito dall’originario rapporto dedotto in primo grado e che i motivi di impugnazione sono sufficientemente specifici (come prescritto dall’art. 342 c.p.c.) anche se l’appellante prospetta le medesime ragioni originariamente addotte, non essendo necessaria l’allegazione di profili fattuali e giuridici aggiuntivi, a condizione che l’appello contenga una critica adeguata e precisa della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure rivolte al primo giudice (Sez. 2, n. 23781/2020, De Marzo, Rv. 659392-01).

Così, qualora l’impugnazione investa la valutazione (asseritamente erronea) del materiale probatorio, per l’ammissibilità dell’appello è sufficiente l’enunciazione dei punti sui quali si chiede, nel secondo grado del giudizio, il riesame delle risultanze istruttorie e un nuovo e autonomo sindacato sulle stesse, non essendo necessaria una puntuale analisi critica delle considerazioni e conclusioni del giudice di prime cure (Sez. 3, n. 24464/2020, Guizzi, Rv. 659759 - 01).

La specificità dei motivi dell’appello è richiesta anche dall’art. 53, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992, norma speciale rispetto all’art. 342 c.p.c. (come rilevato, ex multis, da Sez. 6-5, n. 24641/2018, L. Napolitano, Rv. 650818-01): nonostante le diversità che caratterizzano il rito tributario, Sez. 5, n. 15519/2020, Putaturo Donati Viscido Di Nocera, Rv. 658400-01, ha statuito che l’appello è ammissibile, benché formulato in modo sintetico, se gli elementi di specificità dei motivi possono essere ricavati, anche per implicito, dall’atto di impugnazione nel suo complesso (comprese le premesse in fatto, la parte espositiva e le conclusioni), poiché la disposizione, eccezionale in quanto limitativa dell’accesso alla giustizia, va interpretata in senso restrittivo al fine di consentire l’effettività del sindacato sul merito dell’impugnazione.

Il difetto di specificità dei motivi d’appello ai sensi dell’art. 342 c.p.c., qualora non rilevato d’ufficio dal giudice del gravame, può essere proposto come motivo di ricorso per cassazione dalla parte appellata, ancorché essa non abbia sollevato la relativa eccezione nel giudizio di secondo grado, poiché si tratta di questione che, afferendo alla stessa ammissibilità dell’impugnazione e, quindi, alla formazione del giudicato, è rilevabile anche d’ufficio (Sez. 6-L, n. 17268/2020, Riverso, Rv. 658936-01, che, però, ha ritenuto assolto l’onere di specificazione dei motivi d’appello in quanto il rinvio dell’appellante al contenuto della comparsa conclusionale di primo grado non era un mero richiamo per relationem, ma era stato coniugato con un’espressa censura delle argomentazioni poste a fondamento dell’impugnata sentenza).

2. I provvedimenti appellabili.

Le sentenze di primo grado sono, di regola, suscettibili di impugnazione con appello, a meno che la legge non disponga diversamente.

Una rilevante eccezione si rinviene nell’art. 617 c.p.c., norma che trova applicazione anche nelle controversie in tema di distribuzione del ricavato dalla vendita forzata (ex art. 512 c.p.c.), sia quando la causa petendi concerne questioni formali relative al titolo esecutivo di uno dei creditori concorrenti, sia in caso di contestazioni relative ai rapporti sostanziali tra le parti del processo esecutivo; ne consegue che il giudizio introdotto con l’impugnazione del provvedimento del giudice dell’esecuzione riguardante la controversia distributiva è destinato a concludersi, in ogni caso, con una sentenza non appellabile (Sez. 6-3, n. 19122/2020, D’Arrigo, Rv. 658772-01).

In tema di protezione internazionale, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 6, comma 1, lett. g), del d.l. n. 13 del 2017, conv. dalla l. n. 46 del 2017, i procedimenti giudiziari instaurati dopo la data del 17 agosto 2017 - stante la disciplina transitoria dettata dall’art. 21 del citato d.l. - sono disciplinati dall’art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, il quale prevede l’inappellabilità del decreto del tribunale concernente l’impugnazione dei provvedimenti delle Commissioni territoriali (Sez. 3, n. 20488/2020, Dell’Utri, Rv. 659240-01).

Un ulteriore limite all’appellabilità in ragione del rito applicabile è previsto per il procedimento di liquidazione dei compensi professionali spettanti agli avvocati: sulla scorta di Sez. U, n. 04485/2018, Frasca, Rv. 647316-01 - secondo cui la controversia ex art. 28 della l. n. 794 del 1942, come sostituito dall’art. 14 d.lgs. n. 150 del 2011, dà luogo ad un procedimento sommario “speciale” (disciplinato dagli artt. 3, 4 e 14 del menzionato d.lgs.) anche in caso di opposizione a decreto ingiuntivo - Sez. 6-2, n. 10648/2020, Giannaccari, Rv. 657888-01, ha statuito che la decisione adottata all’esito di opposizione al provvedimento monitorio non è appellabile qualora il relativo giudizio, sebbene irritualmente introdotto con atto di citazione e deciso in forma di sentenza, si sia in concreto svolto secondo le regole del citato art. 14, per effetto del mutamento del rito da ordinario a sommario, seguito dalla trasmissione della causa al Presidente del Tribunale e dalla nomina del giudice relatore che, all’esito dell’istruttoria, abbia rimesso le parti al collegio.

Anche l’art. 339, comma 2, c.p.c. sancisce l’inappellabilità delle sentenze pronunciate secondo equità, ma il successivo comma 3 della citata disposizione prevede - quale “eccezione alla eccezione” - la proponibilità dell’appello avverso le decisioni del giudice di pace pronunciate secondo equità in cause di valore non eccedente Euro 1.100,00, ma soltanto per specifici motivi e, cioè, per violazione a) delle norme sul procedimento, b) di norme costituzionali, c) di disposizioni comunitarie oppure d) dei principi regolatori della materia; riguardo alle sentenze pronunciate dal giudice di pace nell’ambito del limite della sua giurisdizione equitativa necessaria, l’appello “a motivi limitati” è l’unico rimedio impugnatorio ordinario ammesso (oltre alla revocazione ordinaria), essendo inutilizzabile il ricorso per cassazione (Sez. 6-2, n. 10063/2020, Cosentino, Rv. 657759-01).

Non è ammissibile, poi, l’appello e, più in generale, l’impugnazione di provvedimenti aventi natura meramente preparatoria ed ordinatoria, che non statuiscono sulla pretesa sostanziale dedotta in giudizio e non definiscono il processo, tra i quali si deve annoverare l’ordinanza interruttiva del processo, che comporta soltanto un temporaneo stato di quiescenza del processo fino alla sua riassunzione o, in mancanza, fino all’estinzione (Sez. 3, n. 09255/2020, Scarano, Rv. 657634-01).

È invece peculiare il regime d’impugnazione della decisione del Tribunale regionale delle acque pubbliche per omessa pronuncia: in tale fattispecie, come disposto dall’art. 204 del r.d. n. 1775 del 1933 (t.u. delle acque), recante un rinvio recettizio ai casi previsti dall’art. 517 del codice di rito del 1865, il rimedio esperibile non è l’appello, bensì il ricorso per rettificazione, da proporre al medesimo Tribunale regionale, della sentenza che «abbia omesso di pronunciare sopra alcuno dei capi della domanda» (Sez. U, n. 00157/2020, Genovese, Rv. 656509-02).

La proposizione dell’appello avverso un provvedimento inappellabile - e, dunque, l’erronea individuazione del mezzo di impugnazione - preclude la translatio iudicii in favore del giudice competente a decidere il corretto mezzo di impugnazione, in ragione della radicale ed insanabile inammissibilità dell’impugnazione erroneamente proposta ad un giudice funzionalmente incompetente per grado (Sez. 6-3, n. 05712/2020, D’Arrigo, Rv. 657298-01, e Sez. 6-3, n. 10419/2020, D’Arrigo, Rv. 657991-01, entrambe riguardanti l’impossibilità di convertire in ricorso per cassazione l’appello proposto contro una sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 617 c.p.c.).

Diversamente, nell’ambito dei procedimenti di volontaria giurisdizione, Sez. 6-2, n. 15463/2020, Abete, Rv. 658735-01, ha ritenuto che l’impugnazione proposta davanti al giudice incompetente non sia inammissibile, bensì suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della translatio iudicii (nella specie, il provvedimento di rigetto dell’istanza di dilazione per l’accettazione dell’eredità era stato reclamato non già davanti al tribunale in composizione collegiale ex art. 749, comma 3, c.p.c., ma alla corte d’appello, che lo aveva dichiarato inammissibile, pronuncia censurata con regolamento di competenza innanzi alla S.C. che ha rimesso le parti davanti al giudice competente).

3. Forme e termini dell’impugnazione.

I termini per la proposizione dell’appello sono stabiliti, nel rito ordinario, dagli artt. 325 e 327 c.p.c., per il rito del lavoro, dall’art. 434 c.p.c. e, nel procedimento sommario di cognizione, dall’art. 702-quater c.p.c.

Il termine “lungo” semestrale decorre dalla pubblicazione della sentenza, in assenza di notifica, salvo che per la parte contumace che dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa o degli atti di cui all’art. 292 c.p.c.: per evitare la decadenza dall’impugnazione, il contumace deve dimostrare la sussistenza, oltre che del presupposto oggettivo della nullità della notificazione, di quello soggettivo della mancata conoscenza del processo a causa di detta nullità, senza che rilevi la conoscenza legale dello stesso, essendo sufficiente quella di fatto (Sez. 3, n. 00532/2020, Gorgoni, Rv. 656583-02, ha ritenuto che l’intimato contumace avesse acquisito conoscenza materiale del procedimento per convalida di licenza per finita locazione, idonea a fare decorrere il termine per l’appello, nel momento in cui era stata data esecuzione alla pronuncia di sfratto). Il convenuto contumace non può invocare l’iscrizione a ruolo eseguita dall’attore prima della notificazione della citazione introduttiva della lite quale causa della mancata conoscenza del processo, ai fini della proposizione dell’impugnazione dopo il decorso del termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., potendosi derogare alla regola generale nei soli casi tassativamente previsti dal secondo comma della citata disposizione (Sez. 6-3, n. 19118/2020, Iannello, Rv. 658771-01).

Per il provvedimento giudiziale in formato cartaceo, il dies a quo di decorrenza del termine semestrale di decadenza ex art. 327 c.p.c. coincide con l’attestazione dell’avvenuto deposito, mentre per le sentenze redatte in formato elettronico va individuato nel momento di trasmissione per via telematica (tramite PEC) del provvedimento, poiché a quella data esso diviene irretrattabile e legalmente noto (Sez. 6-2, n. 09546/2020, Falaschi, Rv. 658011-01).

Il termine “breve” ex art. 325 c.p.c. decorre, invece, dalla notificazione della sentenza - quale espressione della volontà di porre fine al processo, attraverso il compimento di un atto acceleratorio (Sez. U, n. 01717/2020, Mercolino, Rv. 656766-01) -, a cui equivale, sia per il notificante che per il destinatario, la notificazione dell’impugnazione (Sez. 3, n. 26427/2020, Porreca, Rv. 659861 - 01, ha cassato senza rinvio la decisione d’appello, che non aveva rilevato la tardività dell’impugnazione proposta dopo l’istanza di regolamento di competenza, sebbene fosse decorso il termine breve per appellare, computato a partire dalla comunicazione della decisione sul regolamento). In caso di riserva di impugnazione differita della sentenza non definitiva, il termine breve decorre dalla notificazione della sentenza definitiva, ancorché la sentenza non definitiva non fosse stata notificata, posto che il termine per la proposizione del gravame, necessariamente unitario, dipende da quello utile per l’impugnazione della sentenza definitiva (Sez. 6-2, n. 11857/2020, Abete, Rv. 658452-01).

Per la decorrenza del termine breve è indispensabile che la sentenza sia notificata alla parte presso l’indirizzo di posta elettronica certificata dalla stessa indicato, anche quando questa abbia eletto domicilio ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934, (Sez. 6-2, n. 10355/2020, Tedesco, Rv. 657819-01); inoltre, qualora il destinatario sia un ente rimasto contumace in primo grado e soppresso ex lege in corso di causa, la notifica deve essere effettuata nei confronti dell’ente succeduto a quello ormai estinto. (Sez. 1, n. 06478/2020, Iofrida, Rv. 657085-02).

Allo scopo di dimostrare l’avvenuta notificazione della sentenza, ai fini del termine breve per l’impugnazione, occorre produrre la relata di notifica e l’eventuale avviso di ricevimento (in caso di notifica a mezzo posta), a meno che non sia lo stesso destinatario ad ammettere, con un’esplicita dichiarazione o per facta concludentia, che la suddetta notificazione è avvenuta nella data indicata dalla controparte (Sez. 6-3, n. 24415/2020, F.M. Cirillo, Rv. 659953 - 01).

L’art. 702-quater c.p.c. stabilisce che l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione è appellabile entro il termine breve di trenta giorni dalla sua comunicazione ad opera della cancelleria: l’inosservanza del predetto termine determina l’inammissibilità dell’appello, senza che errori afferenti ad accadimenti estranei al processo (nella specie, il nuovo difensore dell’appellante aveva asserito che il primo difensore non aveva dato corso al mandato difensivo di proporre tempestivamente il gravame) possa giustificare una rimessione in termini della parte (Sez. 1, n. 14411/2020, Marulli, Rv. 658257-01).

Con riferimento alla brevità del termine, Sez. 3, n. 02467/2020, Olivieri, Rv. 656727-01, ha ritenuto che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 702-quater c.p.c. - per asserita violazione degli artt. 24 e 117, comma 1, Cost. in relazione agli artt. 47 della Carta di Nizza e 6 della CEDU - sia manifestamente infondata, poiché lo schema procedimentale, che risponde allo scopo di garantire la stabilità delle decisioni non impugnate entro un determinato termine (adeguato ai fini di una ponderata determinazione della parte interessata), non è incompatibile con il principio di effettività della tutela giurisdizionale.

In caso di contumacia di una parte in primo grado, il termine breve per la proposizione dell’appello decorre solo nel caso in cui l’altra parte abbia notificato la decisione, applicandosi in mancanza il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., perché il disposto dell’art. 702-quater c.p.c., secondo il quale l’ordinanza del giudice deve essere appellata entro trenta giorni dalla sua notificazione o comunicazione, opera solo nei confronti della parte costituita (Sez. 1, n. 32961/2019, Oliva, Rv. 656499-01, in tema di controversia di protezione internazionale regolata dalla disciplina previgente al d.l. n. 13 del 2017, conv. con modif. dalla l. n. 46 del 2017); conseguentemente, ai fini del decorso del termine breve, la notifica dell’ordinanza che decide la controversia in primo grado deve essere regolarmente eseguita alla parte contumace in primo grado (Sez. 6-1, n. 17624/2020, Valitutti, Rv. 658721-01, ha considerato nulla la notifica effettuata nei confronti di un funzionario del Ministero dell’interno in violazione dell’art. 11 r.d. n. 1611 del 1933 e ha ritenuto applicabile il termine semestrale di impugnazione ex art. 327 c.p.c.).

Nei giudizi di appello soggetti al rito del lavoro, il mancato rispetto del termine di dieci giorni entro il quale l’appellante deve notificare all’appellato il ricorso tempestivamente depositato in cancelleria nel termine previsto per l’impugnazione, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza di discussione (ex art. 435, comma 2, c.p.c.), non ha carattere perentorio e la sua inosservanza non produce alcuna conseguenza pregiudizievole per la parte, a condizione che sia rispettato il termine che, ai sensi dell’art. 435, commi 3 e 4, c.p.c., deve intercorrere tra il giorno della notifica e quello dell’udienza di discussione (Sez. 2, n. 24034/2020, Besso Marcheis, Rv. 659607-01). È, invece, radicalmente improcedibile l’appello nel rito del lavoro, qualora l’appellante ometta di notificare il ricorso introduttivo e il decreto di fissazione dell’udienza, né il giudice può assegnare un termine perentorio per provvedervi (Sez. L, n. 27079/2020, Bellè, Rv. 659547-01).

L’appello incidentale deve essere proposto, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta (art. 343 c.p.c.): il termine “a ritroso” per la sua proposizione, non definito come “libero” dalla normativa, va calcolato con esclusione del giorno dell’udienza di comparizione indicata nell’atto di citazione o della data dell’udienza differita di ufficio dal giudice ex art. 168-bis, comma 5, c.p.c. (non rileva, invece, il rinvio ai sensi dell’art. art. 168-bis, comma 4, c.p.c.; Sez. 2, n. 08638/2020, Criscuolo, Rv. 657693-01) e con computo, invece, di quello finale, cioè del ventesimo giorno precedente l’udienza stessa; pertanto, è inammissibile l’appello incidentale che non rispetti detto termine, a nulla rilevando che per l’appellante non sia ancora spirato il termine per impugnare di cui agli artt. 325 o 327 c.p.c. (Sez. 6-3, n. 06386/2020, Gorgoni, Rv. 657292-01).

È speciale, però, e prevale sugli artt. 166 e 343 c.p.c. la disposizione dell’art. 4 della l. n. 1078 del 1930 che - nel giudizio di appello in materia di usi civici - fissa la preclusione della facoltà di proporre appello incidentale all’inizio dell’udienza di discussione fissata dal presidente, cioè dalla comparizione della parte (Sez. 2, n. 09373/2020, San Giorgio, Rv. 657751-01).

Ex art. 334 c.p.c., la proposizione di appello incidentale tardivo è consentita alle parti contro le quali è stata proposta impugnazione nonostante il decorso del termine, ma non è permessa al soccombente parziale, in riferimento ai capi della sentenza di merito non oggetto del gravame principale, qualora si tratti di distinti rapporti dedotti nello stesso giudizio (ovvero in cause diverse poi riunite), dovendo essere avanzata l’impugnazione, per detti capi della sentenza, nei termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c. (Sez. L, n. 26164/2020, Tricomi, Rv. 659545-01).

È principio generale - anche del processo del lavoro - quello secondo cui la prima impugnazione costituisce il processo nel quale debbono confluire le eventuali impugnazioni di altri soccombenti: l’appello principale successivo ad altro appello si converte in appello incidentale, purché sia rispettato, nel rito giuslavoristico, il termine per l’appello incidentale ex art. 436 c.p.c. (Sez. L, n. 03830/2020, Blasutto, Rv. 656926-01).

Non è univoco l’orientamento in ordine alle conseguenze dell’erronea scelta del rito per l’impugnazione.

Secondo un recente precedente giurisprudenziale, l’impugnazione dell’ordinanza ex art. 702-ter c.p.c. può essere proposta esclusivamente nella forma ordinaria dell’atto di citazione, ma l’introduzione dell’appello con ricorso può essere sanata se l’atto è stato non solo depositato nella cancelleria del giudice competente, ma anche notificato alla controparte nel termine perentorio di cui all’art. 325 c.p.c. (Sez. 2, n. 24379/2019, Casadonte, Rv. 655255-01).

Al contrario - in caso di appello dell’ordinanza conclusiva del giudizio sommario di cui all’art. 702-ter c.p.c. introdotto con ricorso (anziché con atto di citazione e, dunque, nella forma ordinaria, necessariamente da impiegare per il secondo grado di giudizio) - è stata esclusa la possibilità di salvare gli effetti dell’impugnazione mediante lo strumento del mutamento del rito previsto dall’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 150 del 2011 (Sez. 6-3, n. 06318/2020, Scrima, Rv. 657291-01; nello stesso senso si era pronunciata anche Sez. 1, n. 08757/2018, De Chiara, Rv. 648884-01).

In base al principio di ultrattività del rito, qualora una controversia sia stata erroneamente trattata in primo grado con il rito ordinario (anziché con quello speciale), le forme di tale rito devono essere rispettate anche per la proposizione dell’appello (da introdursi, quindi, con atto di citazione); specularmente, se la controversia è stata regolata con rito speciale (ad esempio, il rito del lavoro) in primo grado (anziché con quello ordinario), l’impugnazione deve seguire le forme della cognizione speciale.

L’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile deve avvenire in base al principio dell’apparenza, cioè con riguardo esclusivo alla qualificazione (giusta od errata che sia) dell’azione e del provvedimento compiuta dal giudice (Sez. 3, n. 23390/2020, Moscarini, Rv. 659244-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto, in luogo dell’appello, avverso la sentenza con la quale il tribunale aveva qualificato la domanda come azione risarcitoria ordinaria ex art. 2043 c.c., per lesione dei diritti all’identità personale ed alla reputazione, piuttosto che come ricorso inquadrabile nello schema dell’art. 152 del d.lgs. n. 196 del 2003).

Parimenti - se il primo grado del giudizio di opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada, regolato dall’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, è stato erroneamente trattato nelle forme ordinarie (per non essere stato disposto il mutamento di rito entro la prima udienza di comparizione delle parti ai sensi dell’art. 4, comma 2, del citato decreto) - il rito si consolida anche con riguardo alla forma dell’impugnazione e, conseguentemente, la tempestività dell’appello deve essere verificata prendendo come riferimento la data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notificazione, anziché quella del suo deposito in cancelleria. (Sez. 3, n. 09847/2020, D’Arrigo, Rv. 657717-01).

La legittimazione a proporre l’appello o a resistere all’impugnazione spetta soltanto al soggetto che ha assunto la veste di parte in base alla decisione impugnata, a prescindere dalla sua correttezza e corrispondenza alle risultanze processuali nonché alla titolarità del rapporto sostanziale (Sez. 6-5, n. 15356/2020, Luciotti, Rv. 658530-01, ha ritenuto che l’Agenzia delle entrate, pur non avendo partecipato al giudizio di primo grado, fosse comunque legittimata a proporre appello in ragione della sua qualificazione come parte desumibile dalla sentenza impugnata).

L’iniziativa dell’impugnazione può essere assunta anche dal creditore della parte che, in surroga (art. 2900 c.c.) del debitore inerte, proponga appello della pronuncia sfavorevole (Sez. 6-3, n. 26049/2020, Rossetti, Rv. 659929 - 01; nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva dichiarato inammissibile l’appello, proposto in via surrogatoria dal terzo danneggiato, della pronuncia di rigetto della domanda di garanzia avanzata dal responsabile civile nei confronti della società assicuratrice).

L’appello deve essere proposto al giudice competente, per territorio o grado, che può rilevare, anche d’ufficio oltre che su eccezione di parte, la propria incompetenza: tuttavia, il regime delle preclusioni prescritto dall’art. 38 c.p.c. trova applicazione anche nel secondo grado, sicché il potere della parte convenuta di eccepire l’incompetenza del giudice del gravame deve ancorarsi alla comparsa di risposta tempestivamente depositata, così come quello del giudice si deve ritenere collegato all’omologo in appello dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. e, dunque, all’udienza ex art. 350 c.p.c. (Sez. 3, n. 11118/2020, Fiecconi, Rv. 658140-01).

Il limite preclusivo dell’art. 38, comma 3, c.p.c. trova applicazione anche nelle ipotesi di regolamento di competenza d’ufficio proposto dal giudice di secondo grado ai sensi dell’art.45 c.p.c., dovendo il regolamento essere richiesto entro il termine di esaurimento delle attività di trattazione contemplate dall’art.350 c.p.c. (Sez. U, n. 11866/2020, Carrato, Rv. 658035-01).

L’atto di appello deve essere notificato al difensore della controparte nel domicilio eletto, non già ad un avvocato condividente il medesimo studio; il vizio che affligge una simile notificazione non determina l’esistenza della stessa (in quanto effettuata nel domicilio indicato, comune ad entrambi gli avvocati e, dunque, non in luogo privo di qualsiasi riferimento con il destinatario), ma piuttosto la sua nullità, suscettibile di sanatoria con la costituzione in giudizio, sempreché nel frattempo non sia passata in giudicato la sentenza impugnata (Sez. 3, n. 06164/2020, Scarano, Rv. 657152-01, ha cassato senza rinvio la pronuncia che, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, aveva considerato il vizio della notifica sanato dalla costituzione in appello della parte).

Riguardo al contenuto dell’atto di citazione in appello, il rinvio alle norme dettate per il procedimento di primo gradi innanzi al tribunale (ex art. 359 c.p.c.) implica la necessaria presenza dei requisiti stabiliti dall’art. 163 c.p.c., ivi compresi gli elementi integranti la vocatio in jus.

Tuttavia, la notifica di un atto di appello contenente un irrilevante errore sulle generalità del destinatario dell’atto impedisce la formazione del giudicato, qualora l’impugnazione sia comunque idonea al raggiungimento dello scopo (Sez. 6-L, n. 27567/2020, Esposito, Rv. 659824-01, ha cassato con rinvio la sentenza che aveva ritenuto passata in giudicato la decisione impugnata in ragione dell’erronea indicazione del prenome del destinatario dell’appello, nonostante il tenore complessivo dell’impugnativa, l’allegazione della pronuncia di primo grado e le risultanze della relata). Allo stesso modo, l’erronea indicazione del legale rappresentante dell’ente nell’atto di appello non determina l’inammissibilità del gravame, trattandosi di indicazione ultronea rispetto alla valida instaurazione del rapporto processuale, ai cui fini è sufficiente che il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato sia stato autorizzato ex art. 43 r.d. n. 1611 del 1933 e che in capo al difensore consti la qualità di avvocato dello Stato (Sez. L, n. 22675/2020, Marotta, Rv. 659260-01).

La procura al difensore conferita per l’appello, se nulla, non comporta l’inammissibilità del gravame, qualora la parte abbia rilasciato in primo grado una procura alle liti valida per tutti i gradi del giudizio (Sez. 3, n. 06162/2020, Scarano, Rv. 657159-01).

L’applicazione delle regole del primo grado e, in particolare, delle norme sulla sanatoria dell’atto introduttivo viziato è confermata anche da Sez. 6-3, n. 09650/2020, Cigna, Rv. 657743-01: il mancato rispetto del termine ex art. 163-bis c.p.c. tra la notifica dell’atto di citazione in appello e l’udienza di comparizione comporta la nullità dell’atto ai sensi dell’art. 164, comma 1, c.p.c., suscettibile di sanatoria, in caso di mancata costituzione del convenuto, attraverso la rinnovazione entro un termine perentorio (Sez. 1, n. 11549/2019, Pazzi, Rv. 653767-01), ma - qualora la nullità non sia rilevata d’ufficio dal giudice, né sanata - in ipotesi di contumacia dell’appellato la sentenza è nulla.

L’ordine di rinnovare la citazione in appello reputata invalida deve contenere l’indicazione di un termine perentorio entro il quale la notificazione deve essere eseguita: in mancanza, il termine coincide con quello dell’art. 163-bis c.p.c., da calcolare in base alla data dell’udienza di rinvio, sempre che detto termine non sia inferiore ad un mese o superiore a sei mesi (tre, nella formulazione successiva alla l. n. 69 del 2009) rispetto alla data del provvedimento che ordina la rinnovazione, stante il disposto dell’art. 307, comma 3, ultimo inciso, c.p.c. (Sez. 2, n. 04965/2020, Picaroni, Rv. 657117-01).

Nel rito ordinario, una volta notificato l’atto di impugnazione, l’appellante deve costituirsi entro il termine di dieci giorni, iscrivendo il gravame al ruolo generale civile.

Può essere rimesso in termini l’appellante la cui mancata tempestiva costituzione sia dipesa dall’illegittimo rifiuto di iscrizione a ruolo opposto dalla cancelleria, purché lo stesso avanzi l’istanza ex art. 153, comma 2, c.p.c. con tempestività e, cioè, in un termine ragionevolmente contenuto e rispettoso del principio della durata ragionevole del processo (Sez. 3, n. 25289/2020, Guizzi, Rv. 659779-01, con riguardo a scadenza del termine di costituzione verificatasi durante le festività natalizie).

L’iscrizione a ruolo di un atto diverso da quello che si sarebbe dovuto iscrivere non determina l’improcedibilità dell’impugnazione, ma dà luogo ad una nullità insanabile, stante la radicale inidoneità al raggiungimento dello scopo, nemmeno attraverso la successiva “sostituzione” dell’atto introduttivo originario con una versione emendata dello stesso (Sez. 3, n. 01160/2020, D’Arrigo, Rv. 656885-01).

Al momento della costituzione in secondo grado, l’appellante deve inserire nel proprio fascicolo copia della sentenza appellata, ai sensi dell’art. 347, comma 2, c.p.c.: tale incombente, però, non è richiesto a pena di inammissibilità o di improcedibilità dell’appello, né costituisce adempimento formale indispensabile alla rituale costituzione in giudizio la produzione dei documenti e, in particolare, del fascicolo di primo grado (Sez. 3, n. 24461/2020, Olivieri, Rv. 659757-01).

La costituzione della parte appellata contumace può avvenire, ai sensi dell’art. 293, comma 2, c.p.c., anche mediante «comparizione all’udienza», dizione che, tuttavia, non si riferisce alla comparizione personale del medesimo contumace, ma a quella del suo difensore munito di valida procura, né la costituzione nel solo subprocedimento relativo ai provvedimenti sull’esecuzione provvisoria della sentenza (ex art. 283 c.p.c.) può valere per la fase di merito (Sez. 3, n. 07020/2020, Di Florio, Rv. 657156-01).

4. L’oggetto dell’impugnazione.

Oltre alle questioni di merito, possono formare oggetto dell’impugnazione anche questioni di rito, ma il riscontro del vizio comporta la rimessione al primo giudice soltanto nei limitati casi previsti dagli artt. 353 e 354 c.p.c.; altrimenti, il giudice d’appello è tenuto a decidere nel merito la controversia nei limiti delle doglianze prospettate, anche nel caso di sentenza di primo grado nulla perché pronunciata prima della scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito delle conclusionali o delle memorie di replica (Sez. 6-3, n. 04125/2020, Iannello, Rv. 657021-01).

La regola dell’art. 354 c.p.c. trova applicazione anche in caso di nullità della notifica (per la quale occorre disporre la rinnovazione) dell’atto di riassunzione del processo di primo grado che sia stato interrotto, sicché, se il destinatario non si è costituito, il giudice di appello, rilevata la nullità del giudizio, deve rimettere le parti dinanzi al primo giudice (Sez. 3, n. 13860/2020, Guizzi, Rv. 658303-01).

Rientra tra le ipotesi di rimessione dell’intero processo al primo giudice la nullità insanabile che affligge il provvedimento emesso dal tribunale nei confronti delle parti in lite, ma con motivazione e dispositivo relativi a causa diversa concernente altri soggetti (Sez. 6-1, n. 02020/2020, Vella, Rv. 656713-01, ha cassato con rinvio al tribunale la sentenza d’appello, che aveva deciso nel merito un ricorso in tema di protezione internazionale, ancorché avesse rilevato la nullità dell’ordinanza definitoria del giudizio di primo grado in quanto pronunciata nei confronti di un soggetto diverso dallo straniero richiedente).

Se, invece, la decisione in primo grado è stata assunta dal giudice successivamente alla sua cessazione dal servizio, il vizio - non equiparabile a quello della radicale mancanza di sottoscrizione - impedisce la rimessione delle parti al primo giudice (Sez. 6-3, n. 10430/2020, D’Arrigo, Rv. 658028-01).

Parimenti, pur essendo affetta da nullità per vizio di costituzione del giudice ex art. 158 c.p.c. la sentenza pronunciata da un giudice monocratico diverso da quello dinanzi al quale sono state precisate le conclusioni, l’emersione del vizio in appello non consente la rimessione della causa al primo giudice (Sez. 6-3, n. 14144/2020, Scrima, Rv. 658414-01).

Nella particolare ipotesi di erronea declaratoria di competenza da parte del primo giudice, il giudice investito dell’appello, nel ravvisare l’incompetenza, deve dichiararla e non può trattenere la causa e deciderla nel merito, salvo che non coincida con quello competente per il primo grado e sussista apposita istanza per la decisione della controversia, con instaurazione di regolare contraddittorio sul punto. (Sez. 6-3, n. 13439/2020, Rubino, Rv. 658379-01).

5. L’effetto devolutivo e l’onere di riproposizione ex art. 346 c.p.c.

Le parti del processo di impugnazione - che costituisce pur sempre una revisio prioris istantiae - nel rispetto dell’autoresponsabilità e dell’affidamento processuale sono tenute, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia, a riproporre ai sensi dell’art. 346 c.p.c. le domande e le eccezioni non accolte in primo grado in quanto rimaste assorbite (Sez. U, n. 07700/2016, Frasca, Rv. 639281-01), a meno che si tratti di domande o di eccezioni esaminate e rigettate, anche implicitamente, dal primo giudice, per le quali è necessario proporre appello incidentale ex art. 343 c.p.c. (Sez. U, n. 11799/2017, Frasca, Rv. 644305-01).

La riproposizione ex art. 346 c.p.c. delle domande e delle eccezioni non accolte in primo grado può essere effettuata in qualsiasi forma idonea ad evidenziare la volontà di riaprire la discussione e sollecitare la decisione su di esse, purché in modo specifico, non essendo al riguardo sufficiente un generico richiamo alle difese svolte ed alle conclusioni prese davanti al primo giudice. (Sez. 6-3, n. 22311/2020, Dell’Utri, Rv. 659416-01; Sez. 3, n. 25840/2020, D’Arrigo, Rv. 659852 - 01).

I principî sopra menzionati trovano applicazione anche nel rito del lavoro, dove vige l’onere di dedurre nuovamente le domande ed eccezioni non accolte nella memoria di costituzione entro il termine prescritto dall’art. 436 c.p.c. (Sez. 2, n. 19571/2020, Gorjan, Rv. 659188-01), e pure nel reclamo previsto dall’art. 1, comma 57, della l. n. 92 del 2012 (c.d. rito Fornero) che è, nella sostanza, un appello (Sez. L, n. 15412/2020, Cinque, Rv. 658491-01).

Non richiede, invece, una espressa formulazione nell’atto di appello - né una esplicita riproposizione - la questione che possa costituire oggetto di rilievo officioso in secondo grado, come la tardività di un’eccezione in senso stretto (nella specie, di prescrizione) non rilevata né dalla controparte, né d’ufficio dal primo giudice (Sez. 3, n. 04689/2020, Cricenti, Rv. 656914-01).

La parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, difettando di interesse al riguardo, non ha l’onere di proporre appello incidentale per ribadire le eccezioni - superate o non esaminate in quanto assorbite o anche esplicitamente respinte, qualora l’eccezione fosse volta a paralizzare una domanda comunque respinta per altre ragioni - non accolte nella sentenza di primo grado, ma è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello (Sez. 1, n. 11653/2020, Scalia, Rv. 658137-01); medesima riproposizione è richiesta all’appellato, la cui domanda principale sia stata accolta dal giudice di prime cure, con riguardo alla domanda subordinata, rimasta non esaminata (Sez. 1, n. 13721/2020, Pazzi, Rv. 658135-01, ha ritenuto come rinunciata la domanda di protezione umanitaria non riproposta dal ricorrente in appello in un giudizio in cui il giudice di primo grado aveva accolto la sua richiesta di protezione umanitaria, ma la corte territoriale aveva poi riformato la decisione).

Allo stesso modo, è sufficiente riproporre, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., al giudice investito del gravame sulla domanda principale (rigettata in primo grado), la domanda condizionata di garanzia (rimasta assorbita) senza che sia necessario un appello incidentale (Sez. 3, n. 00121/2020, Olivieri, Rv. 656628-01).

In applicazione del principio dell’idoneità dell’atto al raggiungimento dello scopo ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c., il giudice dell’impugnazione può riqualificare l’atto d’appello con cui un’eccezione di merito respinta in primo grado è stata erroneamente indicata, dalla parte comunque vittoriosa per altre ragioni, come meramente riproposta e non come oggetto di gravame incidentale condizionato (Sez. 3, n. 24456/2020, Valle, Rv. 659756-01).

6. Le parti e il contraddittorio.

Già si è detto che il giudice dell’appello deve trattenere la causa e deciderla, anche se sulle questioni dedotte non vi sia stata una pronunzia di merito da parte del giudice di primo grado, essendo eccezionali e tassative le ipotesi di “regressione” al primo grado previste dagli artt. 353 e 354 c.p.c., i quali riguardano, rispettivamente, la riforma della sentenza con cui il giudice ordinario di prime cure abbia declinato la propria giurisdizione e le specifiche fattispecie di nullità della notificazione della citazione introduttiva, di non integrità del contraddittorio in primo grado, di nullità della sentenza priva della sottoscrizione del primo giudice o di erronea sentenza di estinzione del processo.

Fa concreta applicazione dell’art. 354 c.p.c. Sez. 6-2, n. 04697/2020, Scarpa, Rv. 657260-01, rilevando che la domanda di accertamento negativo della qualità di condomino, in quanto inerente all’inesistenza del rapporto di condominialità ex art. 1117 c.c., impone la partecipazione, quali legittimati passivi, di tutti i condomini in una situazione di litisconsorzio necessario e che, conseguentemente, la mancata integrità del contraddittorio di tutti gli interessati in primo grado comporta, in appello, la rimessione della causa al primo giudice (nella fattispecie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che, a fronte di una domanda di accertamento negativo dell’appartenenza ad un condominio di alcune unità immobiliari, aveva dichiarato la nullità della sentenza di primo grado, con rimessione della causa al giudice di prime cure, per non aver quest’ultimo disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini).

Parimenti, nell’actio negatoria servitutis sussiste un’ipotesi di litisconsorzio necessario quando il fondo, nel quale sono state realizzate le opere di cui si chieda la rimozione, appartiene a più soggetti, sicché in appello, è necessaria la partecipazione di tutte le parti originarie, soggetta a verifica officiosa del giudice del gravame (preliminarmente ad ogni altra pronuncia), in difetto della quale si determina la nullità, rilevabile di ufficio pure in sede di legittimità, dell’intero processo di secondo grado e della sentenza che lo ha concluso (Sez. 6-2, n. 07040/2020, Scarpa, Rv. 657283-01).

Poiché la morte di una parte, ancorché contumace in primo grado, nel corso del giudizio di primo grado determina la trasmissione della sua legittimazione processuale attiva e passiva agli eredi, questi vengono a trovarsi nella posizione di litisconsorti necessari per ragioni processuali (indipendentemente, cioè, dalla scindibilità o meno del rapporto sostanziale), sicché nei confronti di ciascuno di essi deve essere ordinata d’ufficio l’integrazione del contraddittorio in appello (Sez. 6-3, n. 24639/2020, Positano, Rv. 659916 - 01).

Al contrario, non costituisce una delle ipotesi tassative previste dall’art. 354, comma 1, c.p.c. - per le quali resta viziato l’intero processo e si impone, in appello, l’annullamento, con rinvio della causa al giudice di prime cure - la mancata partecipazione di un litisconsorte necessario in sede di reclamo cautelare, non rilevata dal giudice di primo grado, che non ha disposto l’integrazione del contraddittorio, trattandosi di un procedimento inidoneo ad incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale e ininfluente nel successivo giudizio di merito (Sez. 6-2, n. 20020/2020, Oliva, Rv. 659227-01).

All’omesso rilievo - da parte del giudice di primo grado, che non ha disposto l’integrazione del contraddittorio, e di quello di appello, che non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354, comma 1, c.p.c. - della violazione delle norme sul litisconsorzio necessario deve provvedere la S.C. perché l’intero processo resta viziato e s’impone, in sede di giudizio di cassazione, l’annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, comma 3, c.p.c. (Sez. 2, n. 23315/2020, Tedesco, Rv. 659380-01).

7. I nova in appello.

Ai sensi dell’art. 345, comma 1, c.p.c., “nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio”.

La violazione del divieto di proporre in appello domande nuove è rilevabile in sede di legittimità anche d’ufficio, senza che possa spiegare alcuna influenza l’accettazione del contraddittorio, trattandosi di un divieto posto a tutela di interessi di natura pubblicistica (Sez. U, n. 00157/2020, Genovese, Rv. 656509-03).

Una domanda è nuova - e, come tale, inammissibile in appello, quando concerne e un diritto cd. eterodeterminato (o non autoindividuante) e i fatti storici allegati in primo grado a sostegno dell’azione vengono sostituiti o integrati da fatti nuovi e diversi, dedotti con i motivi di gravame (Sez. 3, n. 19186/2020, Olivieri, Rv. 658987-01: nella specie, era stata introdotta in primo grado un’azione di risarcimento del danno per responsabilità extracontrattuale di una operatrice sanitaria per omessa vigilanza su una persona non autosufficiente, il giudice d’appello non aveva limitato la sua statuizione alla qualificazione giuridica della fattispecie, ma, errando, aveva ravvisato una responsabilità di natura contrattuale in base a circostanze di fatto dedotte per la prima volta con l’impugnazione). Per le predette ragioni, la domanda di arricchimento senza causa può essere proposta anche per la prima volta in appello, purché prospettata sulla base delle medesime circostanze di fatto fatte valere in primo grado (Sez. 2, n. 26694/2020, Oliva, Rv. 659722-01).

È inammissibile - perché comporta novità della domanda - la modificazione della causa petendi quando il diverso titolo giuridico della pretesa, dedotto innanzi al giudice di secondo grado, è impostato su presupposti di fatto e su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado e comporta il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato oppure, introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, altera l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa da avanzata in primo grado (Sez. 5, n. 15730/2020, Putaturo Donati Viscido Di Nocera, Rv. 658550-01). Ad esempio, si è ritenuto che la qualificazione data dalla parte in primo grado di un pegno di cose fungibili come irregolare - con facoltà per il creditore pignoratizio di disporre del bene oggetto della garanzia - precluda in grado d’appello la diversa qualificazione del pegno come regolare, posto che verrebbe altrimenti ad introdursi in sede di gravame una nuova causa petendi (Sez. 1, n. 22096/2020, Caradonna, Rv. 659420-01).

Il divieto ex art. 345 c.p.c. non riguarda le eccezioni in senso lato, le quali consistono nell’allegazione o rilevazione di fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto dedotto in giudizio ai sensi dell’art. 2697 c.c., con cui sono opposti nuovi fatti o temi di indagine non compresi fra quelli indicati dall’attore e non risultanti dagli atti di causa; essendo rilevabili d’ufficio, sono sottratte al succitato divieto, a condizione che riguardino fatti principali o secondari emergenti dagli atti, dai documenti o dalle altre prove ritualmente acquisite al processo e anche se non siano state oggetto di espressa e tempestiva attività assertiva (Sez. 3, n. 08525/2020, Iannello, Rv. 657810-01).

Infatti, conformemente a quanto già statuito da Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633509-01, il giudice di appello è tenuto a procedere al rilievo officioso di una nullità contrattuale nonostante sia mancata la rilevazione in primo grado e l’eccezione di nullità sia stata sollevata in sede di gravame, venendo in rilievo un’eccezione in senso lato, come tale proponibile anche in appello (Sez. 6-1, n. 19161/2020, Falabella, Rv. 658837-01).

Anche la deduzione relativa all’applicabilità di uno specifico termine di prescrizione (nella specie, quello indicato al comma 3 dell’art. 2947 c.c.) integra una controeccezione in senso lato e, se è basata su fatti storici già allegati entro i termini di decadenza propri del procedimento ordinario a cognizione piena, la sua proposizione è ammissibile pure in appello, dove non costituisce questione nuova inammissibile (Sez. 3, n. 24260/2020, Sestini, Rv. 659846 - 01).

Sulla scorta di analoghe argomentazioni, si è ritenuto che, nel contratto di apertura di credito in conto corrente, ove il cliente agisca per la ripetizione di importi relativi ad interessi non dovuti e la banca sollevi l’eccezione di prescrizione, la questione della natura solutoria o ripristinatoria delle rimesse, rilevante ai fini della decorrenza della prescrizione decennale dell’azione, possa essere sollevata per la prima volta in appello (Sez. 6-1, n. 14958/2020, Falabella, Rv. 658366-01).

In deroga al divieto di mutatio libelli contenuto nell’art. 345 c.p.c., la parte contrattuale non inadempiente che abbia agito per l’esecuzione del contratto può, in sostituzione della originaria pretesa, legittimamente chiedere, anche in grado di appello, il recesso dal contratto a norma dell’art. 1385, comma 2, c.c., atteso che lo ius variandi previsto dall’art. 1453 c.c. può essere esercitato in ogni stato e grado (Sez. 6-2, n. 08048/2020, Criscuolo, Rv. 657606-01).

Diverso è il caso in cui il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno: in tale fattispecie, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell’intervenuto recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del suo doppio), sia perché la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso non sono omogenee, sia perché sono tra loto incompatibili la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento (Sez. 6-2, n. 21971/2020, Oliva, Rv. 659397-01).

È eccezionalmente consentita dall’art. 345 c.p.c. la proposizione della domanda di risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza impugnata, purché sia stata avanzata in primo grado una domanda risarcitoria e che gli ulteriori pregiudizi dedotti in appello trovino la loro fonte nella stessa causa e siano della medesima natura di quelli già accertati in primo grado (Sez. 6-3, n. 18526/2020, Guizzi, Rv. 659035-01, ha altresì precisato che, qualora la nuova pretesa non rispetti tali requisiti, la domanda è da ritenersi nuova e inammissibile, implicando nuove indagini in ordine alle ragioni poste a base della domanda iniziale e ampliamento del relativo petitum).

Non costituisce domanda nuova quella con la quale in appello i danneggiati chiedano la condanna dell’assicuratore per la responsabilità civile da circolazione dei veicoli al versamento della differenza tra danno liquidato e superamento del massimale di polizza, poiché la domanda di condanna dell’assicuratore al risarcimento del danno per mala gestio cosiddetta impropria deve ritenersi implicitamente formulata tutte le volte in cui la vittima abbia domandato la condanna al pagamento di interessi e rivalutazione, anche senza riferimento al superamento del massimale o alla condotta renitente dell’assicuratore (Sez. 6-3, n. 14494/2020, Pellecchia, Rv. 658419-01).

Nemmeno le contestazioni alla stima del valore del bene da dividere formulate per la prima volta nell’appello del giudizio di divisione costituiscono domande o eccezioni nuove, perché mirano semplicemente a verificare la legittimità dello svolgimento delle operazioni divisionali, e precisamente l’esattezza della stima del bene comune, ma sempre in vista del perseguimento del risultato cui mirava la proposizione della domanda originaria (Sez. 2, n. 08194/2020, Criscuolo, Rv. 657641-01).

Non costituisce domanda vietata dall’art. 345 c.p.c. la richiesta formulata dai coeredi di liquidazione pro quota del credito spettante al de cuius deceduto in corso di causa, posto che anch’essa determina una modificazione della causa petendi, né introduce un diverso titolo della pretesa del diritto azionato (Sez. 3, n. 01148/2020, Positano, Rv. 656815-01).

Sulla scorta di un consolidato orientamento, la domanda di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado non può considerarsi “nuova” perché è consequenziale alla richiesta di modifica della decisione impugnata e il relativo diritto sorge, ai sensi dell’art. 336 c.p.c., per il solo fatto della riforma della sentenza: Sez. 1, n. 23972/2020, Nazzicone, Rv. 659603-01, ha specificato che, ove il pagamento sia intervenuto durante il giudizio di impugnazione, la predetta istanza può essere formulata in qualunque momento, anche nell’udienza di discussione della causa, in sede di precisazione delle conclusioni, oppure nella comparsa conclusionale.

Il divieto di domande nuove è previsto, nel contenzioso tributario, dall’art. 57, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 e si applica anche nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, che non può, innanzi al giudice d’appello, mutare i termini della contestazione deducendo motivi diversi a fondamento giustificativo dell’atto impositivo (Sez. 5, n. 05160/2020, Federici, Rv. 657338-01, la S.C. ha ritenuto che integrasse domanda nuova, per diversità di petitum e causa petendi, la qualificazione, operata dall’Agenzia nel giudizio di appello, dei costi di pubblicità, la cui inerenza era stata contestata, come spese di rappresentanza).

7.1. (Segue) Nuovi mezzi di prova in appello.

Con riguardo ai mezzi istruttori, l’art. 345 c.p.c., nella sua attuale formulazione, stabilisce che in appello “non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”.

Tuttavia, nei giudizi iniziati in epoca anteriore al 30 aprile 1995 continua a trovare applicazione l’art. 345 c.p.c. nella risalente formulazione risultante dall’art. 36 della l. n. 581 del 1950 e, quindi, nella versione precedente alle modifiche di cui alla l. n. 353 del 1990 (Sez. 2, n. 17595/2020, Varrone, Rv. 658900-02).

L’art. 345, comma 3, c.p.c., nella versione modificata dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, escludeva l’ammissibilità di nuovi mezzi di prova, ivi compresi i documenti, salvo che, nel quadro delle risultanze istruttorie già acquisite, a meno che non fossero ritenuti indispensabili (le parole «il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che» sono poi state soppresse dall’art. 54, dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 134), perché dotati di un’influenza causale più incisiva rispetto a quella delle prove già rilevanti sulla decisione finale della controversia; su tale attitudine, positiva o negativa, della nuova produzione a dissipare lo stato di incertezza il giudice d’appello è tenuto a fornire un’espressa motivazione (Sez. 2, n. 15488/2020, Carrato, Rv. 658677-01).

La richiesta di rinnovare la consulenza tecnica d’ufficio, le cui valutazioni siano state fatte proprie dal giudice di primo grado, non incorre nel divieto previsto dall’art. 345 c.p.c., poiché non viene chiesta l’ammissione di un nuovo mezzo di prova (Sez. 2, n. 26709/2020, Criscuolo, Rv. 659724-01), né la mancata prospettazione al consulente tecnico di ufficio di rilievi critici entro il secondo termine previsto dall’art. 195, comma 3, c.p.c. (così come modificato dalla l. n. 69 del 2009) preclude alla parte di arricchire e meglio specificare le contestazioni difensive in sede di gravame (Sez. L, n. 18657/2020, Pagetta, Rv. 658596-01).

L’art. 345 c.p.c. vieta in appello l’acquisizione di prove nuove e, quindi, di documenti non introdotti prima dell’introduzione del gravame: il divieto non riguarda i documenti contenuti nel fascicolo di parte di primo grado, ove prodotti nell’osservanza delle preclusioni probatorie di cui agli artt. 165 e 166 c.p.c., restando irrilevante la perentorietà del termine, operante solo nella fase decisoria di primo grado, dell’art. 169, comma 2, c.p.c. (Sez. 2, n. 21571/2020, Bellini, Rv. 659323-01); anzi, è onere dell’appellante produrre o ripristinare in appello, se già prodotti in primo grado, i documenti sui quali si basa il gravame o comunque attivarsi perché tali documenti possano essere sottoposti all’esame del giudice di appello, senza che gli stessi possano qualificarsi come “nuovi” (Sez. 6-2, n. 16340/2020, Scarpa, Rv. 658791-01).

Nel rito del lavoro, l’esercizio dei poteri istruttori da parte del giudice d’appello, che può essere utilizzato a prescindere dalla maturazione di preclusioni probatorie in capo alle parti ai sensi e nei limiti dell’art. 437 c.p.c., ha quali presupposti la ricorrenza di una semiplena probatio e l’individuazione ex actis di una “pista probatoria”, la quale può rinvenirsi pure nell’indicazione di un teste de relato in primo grado (Sez. L, n. 26597/2020, Bellè, Rv. 659625-01).

Non costituisce violazione dell’art. 437 c.p.c. - e, quindi, del divieto di ingresso di nuovi mezzi di prova - l’acquisizione in appello di conteggi di parte, posto che tale attività contabile ben potrebbe essere svolta dal medesimo o affidata ad un consulente tecnico d’ufficio (Sez. L, n. 22670/2020, Spena, Rv. 659333-01).

Il principio iura novit curia - dal quale si evince l’estraneità delle norme giuridiche al divieto ex art. 345 c.p.c. - non riguarda le disposizioni secondarie e gli atti amministrativi, sicché i regolamenti concernenti le norme di sicurezza degli impianti sportivi, atti volti a disciplinare le attività sportive di associazioni private e ispirati alla “Regolamentazione del CONI”, devono essere considerati alla stregua di documenti e sottoposti al regime preclusivo dettato dalla disposizione succitata (Sez. 3, n. 03997/2020, Di Florio, Rv. 656902-01, in una controversia riguardante un incidente verificatosi su un campo di calcetto durante una partita dilettantistica, ha ritenuto inammissibile la produzione - effettuata per la prima volta in appello - dei predetti regolamenti).

8. La decisione e trattazione dell’appello.

L’ordinanza di inammissibilità dell’appello, ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., deve essere pronunciata dal giudice competente prima di procedere alla trattazione della causa, a pena di nullità del provvedimento, anche nel rito del lavoro; dovendo la pronuncia collocarsi prima di ogni altra attività, immediatamente dopo la verifica della regolare costituzione delle parti nel giudizio di appello (Sez. L, n. 10409/2020, Negri Della Torre, Rv. 657870-01).

Infatti, il giudice d’appello è sempre tenuto a procedere alla preliminare verifica della corretta instaurazione del contraddittorio, anche quando - a norma dell’art. 348-ter, comma 1, c.p.c. - all’udienza di cui all’articolo 350 debba dichiarare inammissibile l’appello anteriormente alla trattazione: la locuzione «sentite le parti» deve essere interpretata in modo da dare effettivo significato all’obbligo di previa audizione, sicché, se dall’esame degli atti risultano vizi di invalidità della notifica dell’atto di appello o risulta che sia stata pretermessa la notifica dell’impugnazione a taluno dei litisconsorti necessari o delle altre parti che abbiano interesse a contraddire, il giudice è tenuto ad adottare i provvedimenti di cui all’art. 350, comma 2, c.p.c., in difetto dei quali l’ordinanza di inammissibilità è affetta da vizio di nullità processuale insanabile (Sez. 3, n. 12887/2020, Olivieri, Rv. 658020-01, ha cassato la pronuncia del giudice del gravame che, in un’azione revocatoria dell’atto di dotazione del trust, aveva dichiarato l’inammissibilità dell’appello ex art. 348-ter c.p.c. senza previamente disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti del trustee, litisconsorte necessario).

L’ordinanza di inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. non presuppone lo scambio di memorie, attività non prevista da alcuna norma di legge e contraria alla ratio legis, volta a semplificare e a ridurre i tempi necessari per la definizione delle cause civili (Sez. 2, n. 09225/2020, Giannaccari, Rv. 657700-01).

Il procedimento di decisione “semplificato” ex artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. non può essere impiegato qualora sia stata proposta una querela di falso, in via principale o incidentale, poiché in tal caso è previsto l’intervento obbligatorio del P. M. e, pertanto, la causa rientra fra quelle di cui all’art. 70, comma 1, c.p.c., alle quali non si applica il c.d. “filtro in appello” (Sez. 3, n. 12920/2020, D’Arrigo, Rv. 658178-01).

Alla deliberazione della decisione «possono partecipare soltanto i giudici che hanno assistito alla discussione» ai sensi dell’art. 276, comma 1, c.p.c., sicché, in grado di appello, il collegio deliberante deve essere composto dagli stessi magistrati dinanzi ai quali è stata compiuta l’ultima attività processuale e, cioè, la discussione o la precisazione delle conclusioni (in base alla disciplina di cui al novellato art. 352 c.p.c.), a pena di nullità della sentenza per vizio di costituzione del giudice (Sez. 6-2, n. 15660/2020, Criscuolo, Rv. 658777-01); pertanto, in base al menzionato principio (estensibile anche al giudice monocratico), non potendo essere sostituito un componente nella fase compresa tra l’udienza di precisazione delle conclusioni ed il deposito della sentenza, se non previa rinnovazione di detta udienza, è nulla la pronuncia emessa da un collegio composto diversamente da quello che aveva assunto la causa in decisione, anche se emessa in seguito alla concessione, ex art. 101, comma 2, c.p.c., di termine alle parti per memorie su una questione rilevata d’ufficio (Sez. 1, n. 04255/2020, Scotti, Rv. 657073-01).

Anche negli appelli già pendenti alla data di entrata in vigore della modifica dell’art. 352 c.p.c. introdotta dall’art. 27, comma 1, l. n. 183 del 2011, il giudice del gravame ha facoltà, al termine della discussione, di redigere immediatamente il dispositivo e la concisa motivazione della sentenza ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c. norma applicabile, in assenza di un’espressa previsione che ne limiti l’operatività, pure nel secondo grado di giudizio. (Sez. 6-3, n. 00344/2020, Scrima, Rv. 656551-01).

  • giudizio
  • procedimento giudiziario

CAPITOLO XIV

IL GIUDIZIO DI CASSAZIONE

(di Salvatore Saija )

Sommario

1 Il nuovo giudizio di cassazione. Evoluzione applicativa. - 2 Il procedimento. - 3 Il giudizio di rinvio.

1. Il nuovo giudizio di cassazione. Evoluzione applicativa.

Come sempre, il tema dell’accesso al giudizio di legittimità e del suo svolgimento, anche per il 2020, è stato centrale nell’attività della S.C. Non mancano, infatti, numerose pronunce che, attraverso una incessante opera di cesellatura, contribuiscono a via via definire e cristallizzare l’esatta portata di quelle norme - si pensi alla modifica dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., apportata dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito in l. n. 134 del 2012, in tema di motivi di ricorso per cassazione, ovvero alla creazione del rito camerale disposta dal d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito con modificazioni con la l. 25 ottobre 2016, n. 197 - dettate negli ultimi anni per incrementare la produttività e, ad un tempo, per smaltire il grave arretrato che affligge la stessa S.C.

Com’è noto, il percorso di ogni nuovo ricorso per cassazione, per effetto di tale ultimo intervento normativo - premessa la consueta tripartizione dei ricorsi relativamente alla destinazione, ossia a) quelli destinati ab origine alle Sezioni Unite, b) i regolamenti di competenza e di giurisdizione e c) ogni altro ricorso (alla Sezione ordinaria) - vede per questi ultimi il sistema del “triplo binario”.

Infatti, da un lato è stata accentuata la cameralizzazione del procedimento (già prevista, com’è noto, dall’art. 375 c.p.c. e regolata dall’art. 380-bis c.p.c.), prevedendosi: a) una procedura camerale di definizione accelerata (e senza partecipazione delle parti) per i ricorsi destinati alla declaratoria di inammissibilità o improcedibilità, ovvero manifestamente fondati o infondati, da definirsi in sesta sezione civile (c.d. sezione “filtro”); b) una procedura camerale di sezione semplice (anche qui, senza partecipazione delle parti), per i ricorsi di rilevanza non nomofilattica, ossia quelli in cui vengano in rilievo solo elementi attinenti allo ius litigatoris; c) la pubblica udienza per i ricorsi a rilevanza nomofilattica, ove cioè si presentino questioni attinenti allo ius constitutionis.

Tale assetto è stato poi intercettato, seppur marginalmente, dalla disciplina emergenziale derivante dalla pandemia da Covid-19, che ha purtroppo influito - come del resto in ogni aspetto della vita quotidiana - anche sul regolare svolgimento dell’attività giudiziaria, compresa quella della S.C.

Così, Sez. T, n. 26480/2020, Guida, Rv. 659507-01, ha affermato che la causa può essere trattata, anziché in pubblica udienza, con il nuovo rito camerale “non partecipato”, ai sensi degli artt. 375 e 380-bis.1 c.p.c., in presenza di particolari ragioni giustificative, purché obiettive e razionali, tra cui rientra l’esigenza di evitare, nel periodo di emergenza epidemiologica da Covid-19, assembramenti all’interno degli uffici giudiziari e contatti ravvicinati tra le persone, alla luce sia dell’art. 221, comma 4, del d.l. n. 34 del 2020, conv., con modif., in l. n. 77 del 2020 - che consente, fino a cessata emergenza sanitaria, la trattazione scritta delle cause civili (cd. udienza cartolare) - sia delle misure organizzative adottate dal Primo presidente della Cassazione, con propri decreti, al fine di regolamentare l’accesso ai servizi. Sempre sul tema, in relazione alle problematiche derivanti dal rinvio d’ufficio di adunanze camerali già fissate, in applicazione della legislazione emergenziale conseguente alla pandemia da Covid-19, Sez. L, n. 18960/2020, Garri, Rv. 658909-01, ha statuito doversi fissare una nuova udienza nel rispetto dei termini di cui all’art. 380-bis.1 c.p.c. e che le parti possono depositare memorie telematicamente, ai sensi dell’art. 83, comma 11-bis, del d.l. n. 18 del 2020, conv. in l. n. 27 del 2020, nel rispetto dei termini di legge, pur se non si siano avvalse di detta facoltà rispetto all’udienza poi rinviata d’ufficio, in armonia con l’esigenza di illustrare le difese già svolte in prossimità dell’adunanza fissata per la decisione.

Allo stato, non risultano pubblicate altre pronunce sul tema. Sono andati, invece, delineandosi alcuni orientamenti affermati negli anni più recenti.

Così, in linea con Sez. U, n. 01914/2016, Di Iasi, Rv. 638368-01, la recente Sez. 2, n. 09225/2020, Giannaccari, Rv. 657700-01, ha affermato che l’ordinanza che pronunci l’inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. non è impugnabile con ricorso ordinario per cassazione, allorché vengano lamentate la mancata concessione di un termine per lo scambio di memorie e l’omessa relazione da parte del giudice relatore e del presidente, giacché le stesse, da un lato, non sono previste da alcuna norma di legge e, dall’altro, tali adempimenti sono contrari alla “ratio” dell’art. 348-ter c.p.c., che mira a semplificare e a ridurre i tempi necessari per la definizione delle cause civili. Con specifico riferimento al rito del lavoro, Sez. L, n. 10409/2020, Negri della Torre, Rv. 657870-01, ha affermato che l’ordinanza di inammissibilità dell’appello, ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., deve essere pronunciata dal giudice competente prima di procedere alla trattazione della causa, sicché la stessa, ove emessa successivamente, risultando viziata per violazione della legge processuale, è affetta da nullità. Ciò vale, per l’appunto, anche nel rito del lavoro, giacché, da un lato, l’art. 436-bis c.p.c., nell’estendere all’udienza di discussione la disciplina degli artt. 348-bis e ter c.p.c., non contiene alcuna proposizione che faccia riferimento ad una misura di compatibilità di detta disciplina con i tratti peculiari del rito speciale e, dall’altro, l’udienza di discussione, pur nella sua formale unicità, può scindersi in frazioni o segmenti successivi ordinatamente volti a configurare momenti distinti, ciascuno connotato da una specifica funzione processuale, con l’effetto di definire il luogo del compimento, da parte del giudice, di singole attività.

Sez. 3, 12887/2020, Olivieri, Rv. 658020-01, ha poi stabilito che il giudice d’appello, prima di emettere l’ordinanza di inammissibilità ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., è in ogni caso tenuto a procedere alla preliminare verifica della corretta instaurazione del contraddittorio, solo così potendo darsi effettivo significato all’obbligo di previa audizione delle parti; pertanto, se dall’esame degli atti risultano vizi di invalidità della notifica dell’atto di appello o risulta che sia stata pretermessa la notifica dell’impugnazione a taluno dei litisconsorti necessari (nella specie, del trustee, in tema di revocatoria dell’atto di dotazione di un trust) o delle altre parti che abbiano interesse a contraddire, il giudice è tenuto ad adottare i provvedimenti di cui all’art. 350, comma 2, c.p.c., in difetto dei quali l’ordinanza di inammissibilità, affetta da vizio di nullità processuale insanabile, è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione.

Quanto al contenuto del ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 348-ter, comma 3, c.p.c., Sez. 6-3, n. 21369/2020, Dell’Utri, Rv. 659564-01, ha affermato che, trovando applicazione le disposizioni di cui agli artt. 329 e 346 dello stesso c.p.c., la parte deve fornire l’indicazione che la questione sollevata in sede di legittimità era stata devoluta, quale specifico motivo di appello, al giudice del gravame dichiarato inammissibile ex art. 348-bis c.p.c. In termini per certi versi analoghi, Sez. 1, n. 27703/2020, Tricomi, Rv. 659884-02, ha infine affermato che in caso di ricorso proposto “per saltum” avverso la sentenza di primo grado, l’atto d’appello e la relativa ordinanza d’inammissibilità, pronunciata ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c., costituiscono requisiti processuali speciali di ammissibilità; ne deriva che, ai sensi dell’art. 366, n. 3, c.p.c., è necessario che nel ricorso per cassazione sia fatta espressa menzione sia dei motivi di appello, sia della motivazione dell’ordinanza ex art. 348-bis c.p.c., al fine di evidenziare l’insussistenza di un giudicato interno sulle questioni sottoposte al vaglio del giudice di legittimità e già prospettate al giudice del gravame.

Viene poi in rilievo la questione della c.d. “doppia conforme in facto”, che come è noto, ai sensi dell’art. 348-ter, commi 4 e 5, c.p.c., determina la non proponibilità del ricorso per cassazione limitatamente al motivo di censura di cui al riformulato art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.; in proposito, va segnalata la recente Sez. L, n. 24395/2020, Cavallaro, Rv. 659540-01, secondo cui la preclusione in discorso vale a maggior ragione laddove si denunci un preteso travisamento della prova - che presuppone la constatazione di un errore di percezione o ricezione della prova da parte del giudice di merito - dapprima valutabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio logico di insufficienza della motivazione, non più deducibile a seguito della novella apportata all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 134 del 2012, che ha reso inammissibile la censura per insufficienza o contraddittorietà della motivazione.

Dal punto di vista del regime intertemporale, ossia, avuto riguardo ai giudizi già pendenti alla data di entrata in vigore dell’art. 380-bis.1 c.p.c. (30 ottobre 2016), sembra essersi dissolto il contrasto giurisprudenziale in atto circa il diritto delle parti costituitesi tardivamente (nei giudizi già pendenti) di depositare memorie scritte, nel termine di cui all’art. 380-bis.1 c.p.c., in favore dell’orientamento estensivo e maggioritario, che si fonda sulla necessità di evitare disparità di trattamento rispetto ai processi trattati in pubblica udienza, in attuazione dei principi del giusto processo. Così, Sez. T, n. 05508/2020, Perrino, Rv. 657368-01, ha ribadito che per i ricorsi già depositati alla data del 30 ottobre 2016 e per i quali venga successivamente fissata adunanza camerale, la parte intimata che non abbia provveduto a notificare e a depositare il controricorso nei termini di cui all’art. 370 c.p.c. ma che, in base alla pregressa normativa, avrebbe ancora la possibilità di partecipare alla discussione orale, per sopperire al venir meno di siffatta facoltà può presentare memoria, munita di procura speciale, nei medesimi termini entro i quali può farlo il controricorrente, trovando in tali casi applicazione l’art. 1 del Protocollo di intesa sulla trattazione dei ricorsi presso le Sezioni civili della Corte di cassazione, intervenuto in data 15 dicembre 2016 tra il Consiglio Nazionale Forense, l’Avvocatura generale dello Stato e la Corte di cassazione. In senso conforme s’è anche espressa Sez. T, 22362/2020, Nonno, Rv. 659083-01.

Per quanto invece concerne la facoltà di deposito della memoria in discorso “a regime” (ossia, per i ricorsi notificati dal 30 ottobre 2016 in poi), Sez. L, n. 23921/2020, Bellé, Rv. 659281-02, ha senz’altro affermato che nell’ambito del procedimento camerale di cui all’art. 380-bis.1 c.p.c., l’inammissibilità del controricorso tardivo rende inammissibili anche le memorie depositate dalla parte intimata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., in quanto, divenuta la trattazione camerale la regola e quella in udienza pubblica l’eccezione, deve trovare comunque applicazione la preclusione dell’art. 370 c.p.c., di cui la parte inosservante delle regole del rito non può che subire le conseguenze pregiudizievoli, salvo il parziale recupero delle difese orali nel caso in cui sia fissata udienza di discussione, con la conseguenza che venuta a mancare tale udienza alcuna attività difensiva è più consentita.

Ancora, riguardo al nuovo procedimento camerale “non partecipato”, Sez. 1, n. 08216/2020, Caiazzo, Rv. 657566-01, ha ribadito che le memorie ex art. 380-bis c.p.c., se depositate a mezzo posta, devono essere dichiarate inammissibili e il loro contenuto non può essere esaminato, non essendo applicabile per analogia il disposto dell’art. 134, comma 5, disp. att. c.p.c., che riguarda esclusivamente il ricorso e il controricorso.

Assai interessante è Sez. 2, n. 18127/2020, Scarpa, Rv. 658962-01, secondo cui l’art. 380-bis.1 c.p.c. consente alle parti di depositare le loro memorie non oltre dieci giorni prima dell’adunanza in camera di consiglio, sicché non può intendersi preclusa alla medesima parte, nel rispetto dell’anzidetto termine, la presentazione di più memorie, senza che il deposito di una prima memoria implichi la consumazione del potere di difesa scritta.

Quanto alle modalità di produzione in giudizio, Sez. T, n. 27672/2020, Nicastro, Rv. 659534-01, ha precisato che è legittimamente esaminabile la memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c. depositata telematicamente dal ricorrente mediante l’invio - dall’indirizzo PEC indicato dal difensore in sede di costituzione in giudizio - all’indirizzo PEC della cancelleria della sezione e da questa tempestivamente ricevuta, considerati sia l’equiparazione della PEC alla raccomandata stabilita dal vigente art. 6, comma 1, secondo periodo, d.lgs. n. 82 del 2005 (già art. 48, comma 2, del medesimo decreto), recante il Codice dell’amministrazione digitale, sia i principi generali della strumentalità delle forme degli atti processuali e del raggiungimento dello scopo degli stessi. In senso sostanzialmente conforme, Sez. T, n. 28174/2020, Condello, Rv. 659986 - 01, nonché Sez. T, n. 28175/2020, Condello, non massimata.

Sempre riguardo al rito camerale “non partecipato”, Sez. L, n. 11699/2020, Bellé, Rv. 657977-01, ha ribadito che la produzione di documenti, ex art. 372 c.p.c., effettuata dalla parte che abbia depositato tardivamente il controricorso, al quale i predetti documenti siano stati allegati, è valida ed efficace, a condizione che la parte medesima si avvalga della facoltà di presentare memorie in vista dell’adunanza camerale.

Per quanto concerne il ricorso per cassazione «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», come oggi previsto dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito in l. n. 134 del 2012, deve evidenziarsi il contrasto di giurisprudenza circa la denunciabilità, col mezzo predetto, di errori o omissioni concernenti le risultanze della CTU.

In particolare, Sez. 6-3, n. 18598/2020, Scrima, Rv. 659088-01 ha ribadito che detto vizio può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., risolvendosi nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Secondo tale pronuncia, detto vizio può ricorrere anche nel caso in cui nel corso del giudizio di merito siano state espletate più consulenze tecniche, in tempi diversi e con difformi soluzioni prospettate, ed il giudice si sia uniformato alla seconda consulenza omettendo il confronto con le eventuali censure di parte senza giustificare la propria preferenza, limitandosi ad un’acritica adesione ad essa, ovvero si sia discostato da entrambe le soluzioni senza alcuna indicazione dei criteri probatori e degli elementi di valutazione specificamente seguiti.

In senso diametralmente opposto si pone, invece, la stessa sottosezione con altra pronuncia. Sez. 6-3, n. 12387/2020, Vincenti, Rv. 658062, infatti, ha affermato che il “nuovo” art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione circa l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui ambito non è inquadrabile la consulenza tecnica d’ufficio, in quanto essa costituisce mero elemento istruttorio da cui è possibile trarre il “fatto storico”, rilevato e/o accertato dal consulente. Di conseguenza, la S.C. ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso con cui ci si era limitati a denunciare una omessa valutazione delle risultanze della CTU, senza però evidenziare quale “fatto storico” decisivo il giudice d’appello avesse omesso di esaminare.

In materia di “filtro” (si rammenta che la sesta sezione civile, cui è demandato il compito di effettuare l’esame preliminare, è stata istituita a seguito della modifica apportata all’art. 376 c.p.c. dall’art. 47 della l. 18 giugno 2009, n. 69), Sez. 6-2, n. 02720/2020, Scarpa, Rv. 657246-01, ha ribadito che non ricorre l’obbligo di astensione di cui all’art. 51, n. 4, c.p.c., in capo al giudice relatore autore della proposta di cui al primo comma dell’art. 380-bis c.p.c., in quanto detta proposta non riveste carattere decisorio, essendo destinata a fungere da prima interlocuzione fra il relatore e il presidente del collegio, senza che risulti in alcun modo menomata la possibilità per il collegio stesso, all’esito del contraddittorio scritto con le parti e della discussione in camera di consiglio, di confermarla o modificarla, infine precisando che né il contenuto e la funzione di tale disposizione sono mutati all’esito del Protocollo di intesa tra la Corte di cassazione, il Consiglio Nazionale Forense e l’Avvocatura generale dello Stato sull’applicazione del “nuovo rito” ai giudizi civili di cassazione, intervenuto in data 15 dicembre 2016, che ha previsto l’”informazione circa le ragioni dell’avvio del ricorso alla trattazione in adunanza camerale”.

Sez. 6-3, n. 17893/2020, Rossetti, Rv. 658757-01, ha poi confermato che la memoria di cui all’art. 380-bis c.p.c. non può contenere nuove censure, ma solo illustrare quelle già proposte.

Di sicuro interesse è anche Sez. 6-3, n. 26056/2020, De Stefano, Rv. 659924-01, secondo cui è pienamente ammissibile la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. pure ove si imponga la necessità di cassare senza rinvio la sentenza gravata ai sensi dell’art. 382, comma 3, secondo periodo, c.p.c., ancorché si tratti di ipotesi non prevista testualmente dall’art. 375 c.p.c. Inducono a tale conclusione sia ragioni di economia processuale, desumibili dall’interpretazione costituzionalmente orientata della norma secondo il canone della ragionevole durata del processo, sia l’assenza di pregiudizio per il diritto di difesa delle parti, in quanto poste in grado di interloquire preventivamente sulla questione con le memorie di cui all’art. 380-bis c.p.c., sia per l’identità strutturale del vizio di improseguibilità del processo rispetto a quelli, parimenti in rito, per cui è prevista la pronuncia camerale.

Infine, va segnalata Sez. 2, n. 29629/2020, De Marzo, Rv. 659979, che - benché adottata nell’ambito del procedimento camerale di sezione semplice, e non già nell’ambito del “filtro” demandato alla sezione sesta - ha ribadito l’insegnamento di Sez. U., n. 07155/2017, Didone, Rv. 643549-01, secondo cui lo scrutinio ex art. 360-bis, n. 1, c.p.c., da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334, comma 2, c.p.c., sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”.

2. Il procedimento.

Di seguito, raggruppate per argomento, si segnalano le più rilevanti pronunce su questioni attinenti al procedimento.

a) La notificazione del ricorso (o del controricorso) e il successivo deposito. Sul piano generale, va anzitutto segnalata Sez. T, n. 13067/2020, P. Di Marzio, Rv. 658105-01, secondo cui la notifica effettuata al difensore in grado d’appello presso cui il contribuente abbia eletto domicilio è valida anche quando questi sia privo di abilitazione al patrocinio innanzi le magistrature superiori; detta abilitazione è viceversa essenziale quando la parte soccombente intenda impugnare la pronuncia sfavorevole in cassazione, in quanto funzionale ad investire il difensore designato del potere di proporre tale gravame.

Assai interessante è Sez. T, n. 16807/2020, Putaturo Donati Viscido di Nocera, Rv. 658773-02, secondo cui nel giudizio dinanzi alla Corte di cassazione, il decreto del Ministro della giustizia che, attestando il periodo di mancato funzionamento di un pubblico ufficio, disponga la proroga dei termini per la notificazione del ricorso, deve essere prodotto nel rispetto delle regole valevoli per i documenti il cui deposito è ammissibile in sede di legittimità e, in particolare, in ossequio all’art. 372 c.p.c., trattandosi di atto avente natura amministrativa meramente ricognitivo delle circostanze a cui la legge ricollega la proroga, come tale privo di valore normativo e perciò sottratto all’operatività del principio iura novit curia.

Del tutto peculiare è poi la pronuncia di Sez. 1, n. 25437/2020, Scotti, Rv. 659658-01, secondo cui, ove la stessa parte abbia proposto due ricorsi avverso la medesima decisione con il ministero di due distinti difensori, senza che l’ultimo risulti designato in sostituzione dell’altro, è ammesso l’esame del solo ricorso notificato per primo, perché nell’ordinamento processuale civile vige il principio della consumazione del potere di impugnazione, per effetto del quale, una volta che tale potere venga esercitato, si esaurisce la facoltà di critica della decisione pregiudizievole, salvo che tale ricorso non sia stato già dichiarato inammissibile o improcedibile e che quello successivamente notificato rispetti il termine di decadenza previsto dalla legge.

Diversa è, però, la fattispecie esaminata da Sez. T, n. 15582/2020, Crucitti, Rv. 658403-01. Si è infatti stabilito che nell’ipotesi in cui vengano iscritti due ricorsi per cassazione di identico contenuto, proposti dalla stessa parte (e col ministero del medesimo difensore) contro la medesima sentenza, uno in via principale e l’altro in via incidentale rispetto al ricorso principale di un’altra parte, qualora la loro notificazione sia stata coeva, in sede di loro riunione, deve essere data priorità di esame a quello iscritto per primo, e, se esso sia ammissibile e procedibile, la sua decisione rende inammissibile, in via sopravvenuta, l’altro ricorso.

Sez. 6-3, n. 27610/2020, Tatangelo, Rv. 660052 - 01, ha ribadito che ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, qualora l’originale dell’atto rechi la firma del difensore munito di procura speciale e l’autenticazione, ad opera del medesimo, della sottoscrizione della parte che la procura ha conferito, la mancanza di tale firma e dell’autenticazione nella copia notificata non determinano l’invalidità del ricorso, purché la copia stessa contenga elementi, quali l’attestazione dell’ufficiale giudiziario che la notifica è stata eseguita ad istanza del difensore del ricorrente, idonei ad evidenziare la provenienza dell’atto dal difensore munito di mandato speciale.

Quanto in particolare al controricorso, Sez. T, n. 05500/2020, Fuochi Tinarelli, Rv. 657367-01, ha affermato che esso deve essere notificato nel domicilio eletto dal ricorrente e non presso il procuratore non domiciliatario, senza che la nullità che ne consegue possa ritenersi sanata in caso di assenza di repliche, da parte del ricorrente, riferite al contenuto dell’atto, che ne dimostrino l’avvenuta piena conoscenza da parte sua.

In ambito tributario, Sez. T, n. 06855/2020, Zoso, Rv. 657394-01, ha statuito che la notificazione degli atti dell’Amministrazione finanziaria può essere effettuata a mezzo di messo, ai sensi dell’art. 16 del d.lgs. n. 546 del 1992, soltanto in primo grado e in appello, ma non anche nel giudizio di cassazione, per il quale vale la regola di cui all’art. 137 c.p.c., stante l’applicabilità di tale disposizione anche in materia tributaria per effetto dell’integrale rinvio alle norme codicistiche operato dall’art. 62 del d.lgs. n. 546 del 1992, sicché la notificazione eseguita in tale sede dal messo anziché dall’ufficiale giudiziario ne determina la nullità (ma non l’inesistenza).

Ancora in ambito tributario, Sez. T, n. 27976/2020, P. Di Marzio, Rv. 659819-01 (in conformità con Sez. T, n. 01954/2020, Mucci, Rv. 656778-01), ha ribadito che la notifica del ricorso per cassazione può essere effettuata dal contribuente, alternativamente, tanto presso la sede centrale dell’Agenzia delle Entrate, quanto presso i suoi uffici periferici, considerati sia il carattere unitario dell’Ufficio, sia il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi di inammissibilità, sia il carattere impugnatorio del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato.

La questione del subentro di Agenzia delle Entrate-Riscossione alle società del Gruppo Equitalia continua poi ad occupare, sotto vari profili, la S.C. Così, con ordinanza interlocutoria, Sez. U, n. 02087/2020, De Stefano, Rv. 656705-01, si è statuito che l’ultrattività del mandato in origine conferito al difensore dell’agente della riscossione, nominato e costituito nel giudizio concluso con la sentenza oggetto del ricorso per cassazione, non opera, ai fini della ritualità della notifica del ricorso avverso la sentenza pronunciata nei confronti dell’agente della riscossione originariamente parte in causa, poiché la cessazione di questo e l’automatico subentro del successore sono disposti da una norma di legge, quale il d.l. n. 193 del 2016; pertanto, la notifica del ricorso eseguita al suo successore ex lege, cioè l’Agenzia delle Entrate-Riscossione, nei confronti di detto originario difensore è invalida ma tale invalidità integra una mera nullità, suscettibile di sanatoria, vuoi per spontanea costituzione dell’agenzia stessa, vuoi a seguito della rinnovazione dell’atto introduttivo del giudizio da ordinarsi - in caso carenza di attività difensiva della parte intimata - ai sensi dell’art. 291 c.p.c. presso la competente avvocatura dello Stato da indentificarsi nell’Avvocatura generale in Roma.

Sez. U, n. 07454/2020, Conti, Rv. 657417-01, ha affermato che il termine, di complessivi quaranta giorni, di cui agli art. 369 e 370 c.p.c., per il deposito del controricorso per cassazione con contestuale ricorso incidentale decorre, nel caso di notifica reiterata nei confronti della medesima parte, dalla data della prima notifica, a meno che detta notifica non sia viziata da nullità, nel qual caso il termine stesso decorrerà dalla data della seconda notifica. Ne consegue che la reiterazione della notifica del ricorso per cassazione alla stessa parte, una volta che il procedimento notificatorio si sia già validamente perfezionato, non vale a segnare una nuova decorrenza del termine per la proposizione del controricorso.

Ancora, per il caso in cui il ricorso per cassazione sia notificato all’Avvocatura distrettuale dello Stato anziché all’Avvocatura Generale dello Stato, Sez. 6-3, n. 12410/2020, Scrima, Rv. 658064-01, ha affermato che il vizio della notifica è sanato, con efficacia ex tunc, dalla costituzione in giudizio del destinatario del ricorso, da cui si può desumere che l’atto abbia raggiunto il suo scopo; tuttavia, poiché la sanatoria è contestuale alla costituzione del resistente, deve ritenersi tempestiva la notifica del controricorso ancorché intervenuta oltre il termine di cui all’art. 370 c.p.c., non avendo tale termine iniziato il suo decorso in ragione dell’inefficacia della notifica dell’atto introduttivo.

D’altra parte, sempre nel caso di notifica del ricorso per cassazione presso l’Avvocatura distrettuale, anziché presso l’Avvocatura generale dello Stato, secondo Sez. 1, n. 06924/2020, Scalia, Rv. 657479-01, la declaratoria di inammissibilità del ricorso esonera la S.C. dal disporre la rinnovazione della notificazione dello stesso nulla, in applicazione del principio della ragionevole durata del processo che impone al giudice, ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c., di evitare e impedire i comportamenti che ostacolino una sollecita definizione del giudizio, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuale e in formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo.

Diversi provvedimenti sono stati adottati in tema di notifica del ricorso per cassazione, o del controricorso, a mezzo del servizio di posta elettronica certificata (PEC).

Così, Sez. 6-3, n. 03164/2020, Gianniti, Rv. 657013-01, ha affermato che la notificazione di un atto (nella specie, controricorso) eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l’operatore attesta di avere rinvenuto la cd. casella PEC del destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l’inadeguata gestione dello spazio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi.

In relazione al tema della tempestività della notifica del ricorso, Sez. 6-2, n. 10355/2020, Tedesco, Rv. 657819-01, ha affermato che l’indicazione compiuta dalla parte, che pure abbia eletto domicilio ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934, di un indirizzo di posta elettronica certificata, senza che ne sia circoscritta la portata alle sole comunicazioni, implica l’obbligo di procedere alle successive notificazioni nei confronti della stessa parte esclusivamente in via telematica; ne consegue che, a fronte di siffatta indicazione, la notifica della sentenza d’appello presso il domiciliatario, anziché presso l’indirizzo di posta elettronica, è inidonea a far decorrere il termine breve di impugnazione per la proposizione del ricorso per cassazione. Pertanto, la S.C. ha considerato, nella specie, tempestivamente proposto il ricorso per cassazione (notificato oltre il termine c.d. breve), per non essere stata la sentenza di appello notificata all’indirizzo PEC indicato nell’atto di citazione in appello, ove la parte aveva peraltro precisato di voler ricevere “le comunicazioni e notificazioni nel corso del giudizio”.

Ancora, è stato ribadito il principio dell’onere di ripresa della notificazione anche in tema di notifiche a mezzo PEC. Sez. L, n. 17577/2020, Calafiore, Rv. 658886-01, ha infatti affermato che in caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria, deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa. Pertanto, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione che, spedito a mezzo PEC alle ore 20.21 dell’ultimo giorno utile per la proposizione, non era stato accettato immediatamente ma il giorno successivo, senza che il notificante si fosse attivato per la ripresa del procedimento notificatorio.

E ancora, Sez. 2, n. 23951/2020, Fortunato, Rv. 659394-01, ha ribadito che il ricorso in origine analogico, successivamente riprodotto in formato digitale ai fini della notifica telematica ex art. 3-bis l. n. 53 del 1994, munito dell’attestazione di conformità all’originale, non richiede la firma digitale dei difensori (che, invece, deve essere presente in calce alla notifica effettuata a pezzo PEC), perché è sufficiente che la copia telematica rechi la menzionata attestazione di conformità, redatta secondo le disposizioni vigenti “ratione temporis”, non assumendo peraltro rilievo la circostanza che il file digitale rechi il formato “pdf” anziché “p7m”.

Quanto alle attività successive alla notifica del ricorso e del controricorso, va qui anzitutto segnalata Sez. L, n. 03466/2020, Raimondi, Rv. 656775-01, che ha ribadito che il ricorso per cassazione, proposto nel termine breve di sessanta giorni dalla notifica della sentenza impugnata, è improcedibile se il ricorrente, unitamente alla copia autentica della sentenza, non deposita - nei termini di cui all’art. 369, comma 1, c.p.c. - anche la relazione di notificazione della stessa, né il vizio, rilevabile d’ufficio, è sanabile dalla non contestazione da parte del controricorrente.

Sez. L. n. 00104/2020, Ghinoy, Rv. 656500-01, ha anche affermato che il tardivo deposito dell’originale del ricorso ne comporta l’improcedibilità, indipendentemente dall’avvenuta sua trasmissione in via telematica nei termini di cui all’art. 369 c.p.c., né sussistono i presupposti per una rimessione in termini fondata sull’errore scusabile (nella specie ingenerato dalla ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna dell’invio telematico), atteso che la normativa vigente non ammette ancora i depositi in via telematica nei giudizi innanzi alla Corte di Cassazione.

In senso sostanzialmente conforme, Sez. U, n. 06074/2020, Mercolino, Rv. 657219-03, ha quindi precisato che nel giudizio di legittimità, il deposito del ricorso non può aver luogo mediante trasmissione per posta elettronica certificata, ai sensi dell’art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 221 del 2012, atteso che l’operatività della disciplina del processo telematico resta attualmente limitata, ai sensi del d.m. 19 gennaio 2016, alle sole comunicazioni e notificazioni effettuate dalle cancellerie delle sezioni civili, non essendo stato ancora emanato il decreto ministeriale previsto dal comma 6 del citato art. 16-bis, il quale, previo accertamento della funzionalità dei servizi di comunicazione, fa decorrere il termine per l’applicabilità, agli uffici giudiziari diversi dai tribunali, della disciplina dettata dai primi quattro commi della medesima disposizione.

A tale ultimo proposito, va peraltro evidenziato che, in forza del Protocollo d’intesa siglato il 15 ottobre 2020 tra il Ministero della Giustizia, la Corte di cassazione, la Procura Generale presso la Corte di cassazione, l’Avvocatura dello Stato, il Consiglio Nazionale Forense e l’Organismo Congressuale Forense si è convenuto che - previa emanazione del d.m. di cui all’art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012, conv. in l. n. 221 del 2012 - si dia avvio al processo civile telematico di cassazione con deposito facoltativo degli atti introduttivi a partire dal 15 gennaio 2021, e con passaggio alla fase obbligatoria dal 17 aprile 2021 in poi.

Tornando alle modalità di deposito, poi, Sez. 3, n. 08513/2020, Scrima, Rv. 657809-01, ha ribadito che il ricorso per cassazione, che sia inoltrato a mezzo di corriere privato e pervenga alla cancelleria dopo il decorso del termine indicato dall’art. 369 c.p.c., deve essere dichiarato improcedibile poiché le disposizioni in materia di trasmissione di atti a mezzo del servizio postale e, in particolare, l’art. 3 della l. n. 59 del 1979, secondo cui il deposito si ha per avvenuto alla data della spedizione, non sono estensibili agli altri strumenti di consegna.

Infine, Sez. 2, n. 29092/2020, Dongiacomo, non massimata, ha ribadito che il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notifica, di copia analogica del ricorso per cassazione predisposto in originale telematico e notificato a mezzo PEC, senza attestazione di conformità del difensore ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della l. n. 53 del 1994 o con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non ne comporta l’improcedibilità ove il controricorrente (anche tardivamente costituitosi) depositi copia analogica del ricorso ritualmente autenticata ovvero non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all’originale notificatogli ex art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 82 del 2005. Viceversa, ove il destinatario della notificazione a mezzo PEC del ricorso nativo digitale rimanga solo intimato (così come nel caso in cui non tutti i destinatari della notifica depositino controricorso) ovvero disconosca la conformità all’originale della copia analogica non autenticata del ricorso tempestivamente depositata, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità sarà onere del ricorrente depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica sino all’udienza di discussione o all’adunanza in camera di consiglio.

Il principio è stato nuovamente affermato anche da Sez. U, n. 29175/2020, Stalla, Rv. 660009 - 01.

b) L’onere di deposito della copia conforme della sentenza impugnata a pena di improcedibilità ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c. Strettamente connesso al tema del deposito del ricorso in cancelleria è quello del deposito di copia conforme della sentenza, la cui mancanza determina anch’essa l’improcedibilità del ricorso.

Sul piano generale, va segnalata Sez. 1, n. 14347/2020, Scrima, Rv. 658386-01, che ha ribadito che la produzione di copia incompleta della sentenza impugnata è causa di improcedibilità del ricorso per cassazione ex art. 369 c.p.c. solo ove non consenta di dedurre con certezza l’oggetto della controversia e le ragioni poste a fondamento della pronuncia. Pertanto, la S.C. ha nella specie escluso la declaratoria di improcedibilità, a causa della mancanza nella copia depositata di una pagina del provvedimento impugnato, giacché da detta copia erano pienamente evincibili sia l’oggetto della controversia che le ragioni della decisione.

Nel corso del 2020, non risultano massimate pronunce specificamente attinenti al problema del deposito della sentenza redatta o notificata con modalità telematica, in prosecuzione dell’insegnamento di Sez. U, n. 08312/2019, Tria, Rv. 653597-01, 02, 03 e 04 - comunque ribadita da Sez. U, n. 29175/2020, Stalla, 660009 - 01 - fatta eccezione per la peculiare questione decisa da Sez. 1, n. 06907/2020, Rossetti, Rv. 657478-01, che ha affermato che qualora la sentenza impugnata sia stata redatta in formato digitale, l’attestazione di conformità della copia analogica predisposta ai fini del ricorso per cassazione può essere redatta, ai sensi dell’art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della legge n. 53 del 1994, dal difensore che ha assistito la parte nel precedente grado di giudizio, i cui poteri processuali e di rappresentanza permangono, anche nel caso in cui allo stesso fosse stata conferita una procura speciale per quel singolo grado, sino a quando il cliente non conferisca il mandato alle liti per il giudizio di legittimità ad un altro difensore.

Con specifico riferimento all’ambito della protezione internazionale, poi, Sez. 1, n. 14839/2020, Ferro, Rv. 658390-01, ha affermato che il ricorrente per cassazione che agisca ai sensi dell’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008 è tenuto ad allegare l’avvenuta comunicazione del decreto impugnato (o la mancata esecuzione di tale adempimento), producendo, a pena d’improcedibilità, copia autentica del provvedimento unitamente alla relazione di comunicazione, munita di attestazione di conformità delle ricevute PEC, fermo restando che il mancato deposito di tale relazione é irrilevante non solo nel caso in cui il ricorso sia comunque notificato entro trenta giorni dalla pubblicazione del decreto (cd. prova di resistenza), ma anche quando essa risulti comunque nella disponibilità della Corte di cassazione, perché prodotta dalla parte controricorrente ovvero acquisita a seguito dell’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio, sempre che l’acquisizione sia stata in concreto effettuata e che da essa risulti l’avvenuta comunicazione, non spettando alla Corte attivarsi per supplire, attraverso tale via, all’inosservanza della parte al precetto posto dall’art. 369, comma 2, c.p.c. (conf. Sez. 6-1, n. 22324/2020, Marulli, Rv. 659414-01).

Sempre sul tema, infine, Sez. 1, n. 08768/2020, Solaini, Rv. 657798-01, Rv. 657798-01, ha stabilito che il ricorso contro la pronuncia della Corte d’appello che abbia rigettato la domanda di protezione internazionale deve essere proposto, ai sensi dell’art. 369, comma 2, c.p.c., con il deposito, a pena di improcedibilità, della copia autentica del provvedimento impugnato.

c) L’interesse ad impugnare. Sez. 6-T, n. 03991/2020, Crolla, Rv. 656787-01, ha ribadito che l’interesse all’impugnazione - inteso quale manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire e la cui assenza è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo - deve essere individuato in un interesse giuridicamente tutelabile, identificabile nella concreta utilità derivante dalla rimozione della pronuncia censurata, non essendo sufficiente l’esistenza di un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica. Pertanto, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto dalla parte che, pur vittoriosa in appello benché non costituita, lamentava l’erronea pronuncia circa la compensazione delle spese di lite. Analogamente, Sez. 6-1, n. 12678/2020, Ferro, Rv. 658061-01, ha dichiarato l’inammissibilità del motivo di impugnazione con cui si deduca la violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, priva di qualsivoglia influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte, essendo diretto in definitiva all’emanazione di una pronuncia senza alcun rilievo pratico e difettando, quindi, il relativo interesse. Nello stesso senso, Sez. 1, n. 15524/2020, Scalia, Rv. 658261-01, in tema di opposizione a decreto ingiuntivo, ha affermato che l’opponente è privo di interesse a dolersi del fatto che la sentenza impugnata, nel rigettare l’opposizione, non abbia tenuto conto del difetto di una delle condizioni originarie di ammissibilità del decreto ingiuntivo (ossia, la liquidità ed esigibilità del credito ingiunto), quando tale condizione, in realtà, sia maturata immediatamente dopo e comunque prima della definizione del giudizio di opposizione.

Con specifico riferimento al giudizio di legittimità, va poi segnalata Sez. L., n. 17159/2020, Pagetta, Rv. 658829-02, secondo cui il ricorso per cassazione proposto al solo scopo di modificare la motivazione della sentenza impugnata - fermo restando il dispositivo - deve ritenersi inammissibile per difetto di un interesse attuale ad ottenere la rimozione di una pronuncia sfavorevole, tanto più ove risulti investita, come nel caso di specie, la motivazione in diritto, che può essere autonomamente corretta dalla Corte di cassazione, ex art. 384, comma 2, c.p.c. E ancora, Sez. 2, n. 21943/2020, Varrone, Rv. 659364-01, ha dichiarato l’inammissibilità, per carenza d’interesse, del ricorso per cassazione diretto ad ottenere - mediante la riproposizione di censure già svolte in sede di appello - la declaratoria di nullità della sentenza di primo grado, giacché una decisione di accoglimento non comporterebbe altro che la trattazione nel merito della causa da parte del giudice di appello.

Decisamente peculiare, poi, la questione decisa da Sez. 3, n. 24172/2020, Fiecconi, Rv. 659528-01, secondo cui in tema di impugnazioni, il condebitore solidale soccombente in un rapporto obbligatorio scindibile, il quale sia chiamato a succedere ad altro coobbligato, che abbia partecipato al medesimo giudizio e nei cui confronti la sentenza sia passata in giudicato, è tenuto a dimostrare, mediante una dichiarazione asseverata da terzi, la permanenza del suo interesse ad impugnare.

Riepilogativamente, dunque, Sez. 2, n. 28307/2020, Giannaccari, Rv. 659838-01, dopo aver ribadito che il principio di cui all’art. 100 c.p.c. si applica anche al giudizio di impugnazione, dovendo detto interesse desumersi dall’utilità giuridica che dall’eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla parte che lo propone e non potendo esso consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi sulla decisione adottata e che non spieghi alcuna influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte, ha evidenziato che, per un verso, deve ritenersi normalmente escluso l’interesse della parte integralmente vittoriosa ad impugnare una sentenza al solo fine di ottenere una modificazione della motivazione, ove non sussista la possibilità, per la parte stessa, di conseguire un risultato utile e giuridicamente apprezzabile; per altro verso, che l’interesse all’impugnazione va ritenuto sussistente qualora la pronuncia contenga una statuizione contraria all’interesse della parte medesima suscettibile di formare il giudicato. Nella fattispecie, dunque, la S.C. ha ritenuto sussistente in capo all’appellante l’interesse ad impugnare la pronuncia di primo grado che, con statuizione suscettibile di passare in giudicato, gli aveva riconosciuto la posizione di mero detentore dell’immobile controverso, anziché di possessore.

Con specifico riguardo all’impugnazione incidentale, Sez. 3, n. 11270/2020, Guizzi, Rv. 658152-02, ha ribadito che è inammissibile per carenza di interesse il ricorso incidentale condizionato allorchè proponga censure che non sono dirette contro una statuizione della sentenza di merito bensì a questioni su cui il giudice di appello non si è pronunciato ritenendole assorbite, atteso che in relazione a tali questioni manca la soccombenza che costituisce il presupposto dell’impugnazione, salva la facoltà di riproporre le questioni medesime al giudice del rinvio, in caso di annullamento della sentenza.

Circa la carenza d’interesse sopravvenuta in corso di giudizio, vanno qui segnalate Sez. 2, n. 18130/2020, Scarpa, Rv. 658964-01, secondo cui nel caso in cui la sentenza di appello impugnata con il ricorso per cassazione sia stata annullata dal giudice “a quo”, in accoglimento di un’opposizione di terzo proposta ai sensi dell’art. 404 c.p.c., deve ritenersi venuto meno l’interesse alla decisione del ricorso medesimo, con conseguente dichiarazione di inammissibilità di quest’ultimo. Nonché, Sez. L, n. 25625/2020, Di Paolantonio, Rv. 659543-01, secondo cui nel giudizio di cassazione, la dichiarazione di sopravvenuto difetto di interesse alla definizione del ricorso, resa dal difensore munito di mandato speciale, non può comportare la cessazione della materia del contendere - che presuppone che le parti si diano atto reciprocamente del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio e sottopongano al giudice conclusioni conformi in tal senso -, ma deve essere equiparata alla rinuncia ex art. 390 c.p.c., con la conseguenza che, in mancanza dei requisiti previsti dal comma 3 di tale disposizione, la predetta dichiarazione, pur inidonea a determinare l’estinzione del processo, comporta la sopravvenuta inammissibilità del ricorso, atteso che l’interesse posto a fondamento di quest’ultimo deve sussistere non soltanto al momento dell’impugnazione, ma anche successivamente fino alla decisione della causa.

Sostanzialmente in linea con la precedente pronuncia si pone Sez. U, n. 28182/2020, De Stefano, Rv. 659710-01, secondo cui nel giudizio di legittimità, il ricorrente può rinunciare al ricorso, ai sensi dell’art. 390 c.p.c., fino a quando non sia cominciata la relazione all’udienza, o sino alla data dell’adunanza camerale, o finché non gli siano state notificate le conclusioni scritte del Procuratore generale nei casi di cui all’art. 380-ter c.p.c.; in caso di rinuncia tardiva, l’atto, benché invalido, esprime tuttavia in modo univoco la sopravvenuta carenza d’interesse del ricorrente alla decisione, con conseguente sopravvenuta inammissibilità del ricorso.

Infine, Sez. 1, n. 27235/2020, Iofrida, Rv. 659748-01, ha affermato che quando, nelle more del giudizio di legittimità avente ad oggetto l’affidamento di figlio minore ad uno degli ex coniugi a seguito di cessazione degli effetti civili del matrimonio, sopravvenga la maggiore età del figlio, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente all’impugnazione.

d) La legittimazione attiva. Sez. 6-2, n. 12320/2020, G. Grasso, Rv. 658459-01, ha statuito che in tema di patrocinio a spese dello Stato, la legittimazione a ricorrere per cassazione avverso il provvedimento che abbia rigettato o solo parzialmente accolto l’opposizione del difensore avverso il decreto di liquidazione del compenso spetta esclusivamente al difensore medesimo, che agisce in forza di un’autonoma legittimazione a tutela di un diritto soggettivo patrimoniale, non anche al patrocinato, il quale non può considerarsi soccombente nel procedimento, né ha interesse a dolersi dell’esiguità della liquidazione.

Sez. 6-3, n. 08975/2020, Iannello, Rv. 657937-01, ha poi ribadito che il successore a titolo particolare nel diritto controverso è legittimato a impugnare la sentenza resa nei confronti del proprio dante causa allegando il titolo che gli consenta di sostituire quest’ultimo, essendo a tal fine sufficiente la specifica indicazione dell’atto nell’intestazione dell’impugnazione, qualora il titolo sia di natura pubblica e, quindi, di contenuto accertabile, e sia rimasto del tutto incontestato o non idoneamente contestato dalla controparte. In particolare, nel giudizio di cassazione, il fatto che il controricorrente non abbia sollevato alcuna eccezione in ordine alla legittimazione del ricorrente e si sia solo difeso nel merito dell’impugnazione vale come riconoscimento implicito della dedotta legittimazione attiva e ne preclude la rilevabilità con la successiva memoria ex art. 378 c.p.c. Sostanzialmente in linea con la precedente è Sez. 6-1, n. 24798/2020, Terrusi, Rv. 659464-01, secondo cui la parte che agisca affermandosi successore a titolo particolare del creditore originario, in virtù di un’operazione di cessione in blocco ai sensi dell’art. 58 del d.lgs. n. 385 del 1993, ha anche l’onere di dimostrare l’inclusione del credito medesimo in detta operazione, in tal modo fornendo la prova documentale della propria legittimazione sostanziale, a meno che il resistente non l’abbia esplicitamente o implicitamente riconosciuta.

e) L’impugnazione incidentale. Sul piano generale, Sez. 2, n. 00448/2020, Bellini, Rv. 656830-01, ha ribadito che il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso; quest’ultima modalità, tuttavia, non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte in ricorso incidentale, indipendentemente dalla forma assunta e ancorché proposto con atto a sé stante. Costituisce estrinsecazione di detto principio quello ulteriormente affermato da Sez. 3, n. 08873/2020, Di Florio, Rv. 657865-01, secondo cui un controricorso ben può valere come ricorso incidentale, ma, a tal fine, per il principio della strumentalità delle forme - secondo cui ciascun atto deve avere quel contenuto minimo sufficiente al raggiungimento dello scopo - occorre che esso contenga i requisiti prescritti dall’art. 371 c.p.c. in relazione ai precedenti artt. 365, 366 e 369 c.p.c. e, in particolare, la richiesta, anche implicita, di cassazione della sentenza, specificamente prevista dal n. 4 dell’art. 366 c.p.c.

Ciò posto, richiamata la già citata Sez. U, n. 07454/2020, Conti, Rv. 657417-01, circa il calcolo del termine di deposito del controricorso, contenente ricorso incidentale (v. supra, par. a), va qui poi evidenziata Sez. 3, n. 13849/2020, Olivieri, Rv. 658299-01, che ha precisato che la parte cui sia stata notificata l’altrui impugnazione (nella specie, ricorso per cassazione), qualora proponga la propria avverso la medesima sentenza separatamente, in via principale anziché incidentale, deve porre il giudice in grado di conoscere la simultanea pendenza dei due procedimenti, affinché possa provvedere alla loro riunione, ai sensi dell’art. 335 c.p.c.; in difetto, la mancata riunione delle due impugnazioni, mentre non incide sulla validità della pronuncia relativa alla prima, rende improcedibile la seconda, atteso che, risultando ormai impossibile il “simultaneus processus”, si verifica un impedimento all’esame degli ulteriori gravami, in ragione della decadenza con la quale l’art. 333 c.p.c. sanziona la prescrizione dell’incidentalità delle impugnazioni successive alla prima.

Sulla impugnazione incidentale tardiva, non risulta ancora sopito il contrasto in essere circa la portata dell’art. 334 c.p.c. Infatti, in ambito giuslavoristico, aderisce all’orientamento più liberale Sez. L, n. 12444/2020, Bellé, Rv. 658102-01, secondo cui in tema di impiego pubblico privatizzato, le controversie sul rapporto di lavoro che coinvolgano questioni destinate ad avere effetto sull’inquadramento previdenziale individuano, qualora introdotte contestualmente nei riguardi del datore di lavoro e dell’ente di previdenza presso il quale si assume debbano avvenire i versamenti contributivi, una causa inscindibile in sede di impugnazione. Conseguentemente il lavoratore che riceva l’impugnazione proposta dall’ente di previdenza è legittimato a proporre impugnazione incidentale tardiva, ai sensi dell’art. 334 c.p.c., anche nei confronti di parte diversa dall’impugnante principale e quindi del datore di lavoro, con riferimento alle ragioni sostanziali comuni al rapporto di lavoro ed a quello previdenziale. Sul piano più generale, esprime ampiamente detto principio Sez. 3, n. 14596/2020, Rossetti, Rv. 658319-01, che ha affermato che l’impugnazione incidentale tardiva è sempre ammissibile tutte le volte che quella principale metta in discussione l’assetto di interessi derivante dalla sentenza che l’impugnato, in mancanza dell’altrui gravame, avrebbe accettato e, conseguentemente, può essere proposta sia nei confronti del ricorrente principale, anche con riguardo ad un capo della sentenza diverso da quello investito dall’impugnazione principale, sia nelle forme dell’impugnazione adesiva rivolta contro parti processuali diverse dall’impugnante principale, tutte le volte che, nel caso concreto, il gravame di uno qualsiasi dei litisconsorti, se accolto, comporterebbe un pregiudizio per l’impugnante incidentale tardivo poiché darebbe luogo ad una sua soccombenza totale o, comunque, più grave di quella stabilita nella decisione gravata.

In senso contrario, Sez. 3, n. 17614/2020, Sestini, Rv. 658685-01, ha però affermato, seguendo l’orientamento restrittivo, che le regole sull’impugnazione tardiva, sia ai sensi dell’art. 334 c.p.c., che in base al combinato disposto di cui agli artt. 370 e 371 c.p.c., si applicano esclusivamente a quella incidentale in senso stretto e, cioè, proveniente dalla parte contro cui è stata proposta l’impugnazione, mentre per il ricorso di una parte che abbia contenuto adesivo a quello principale si deve osservare la disciplina dell’art. 325 c.p.c., cui è altrettanto soggetto qualsiasi ricorso successivo al primo, che abbia valenza d’impugnazione incidentale qualora investa un capo della sentenza non impugnato o lo investa per motivi diversi da quelli fatti valere con il ricorso principale.

Tuttavia, deve registrarsi un più recente intervento che potrebbe dirimere una volta per tutte la diatriba. Infatti, seppur delibando una questione di giurisdizione (e quindi, intervenendo non a composizione del descritto contrasto), Sez. U, n. 23903/2020, Scarpa, Rv. 659289-02, ha aderito all’interpretazione restrittiva, affermando che l’azione per risarcimento del danno erariale esercitata contro più soggetti solidalmente responsabili inserisce in un unico giudizio più cause scindibili e indipendenti; ne consegue che, proposto ricorso per cassazione da uno dei condebitori solidali, gli altri, per i quali sia ormai decorso il relativo temine, non possono giovarsi dell’impugnazione incidentale tardiva, ai sensi dell’art.334 c.p.c., operando le forme e i termini stabiliti da questa norma esclusivamente per l’impugnazione incidentale in senso stretto, ossia per quella proveniente dalla parte “contro” la quale è stata proposta l’impugnazione principale, o per quella chiamata ad integrare il contraddittorio a norma dell’art. 331 c.p.c.

f) I requisiti di forma e contenuto del ricorso e del controricorso. L’inammissibilità. Il tema dei requisiti di contenuto-forma del ricorso e del controricorso, previsti in via generale dagli artt. 365, 366 e 370 del codice di rito, impegna abitualmente la S.C. in numerose pronunce, trattandosi in definitiva di vagliare la sussistenza o meno delle più tipiche cause di inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, oppure del primo atto responsivo dell’intimato. Ed in proposito, è opportuno qui ribadire che il rispetto dei requisiti di contenuto-forma previsti dall’art. 366 c.p.c. non è fine a se stesso, ma è strumentale al dispiegamento della funzione che è propria di detti requisiti (così, Sez. T, n. 01150/2019, Saija, Rv. 652710-02), sicché l’atto è da considerare inammissibile quando non soltanto non rispetti i requisiti in discorso, ma quando dal loro mancato rispetto discende l’irrealizzabilità del loro fine.

Ciò premesso, sul piano generale, si segnala anzitutto Sez. L, n. 00027/2020, Pagetta, Rv. 656364-01, che ha ribadito che la disciplina del ricorso per cassazione non contrasta con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, sancito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nella parte in cui prevede - all’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. - requisiti di ammissibilità di contenuto-forma, giacché essi sono individuati in modo chiaro (tanto da doversi escludere che il ricorrente in cassazione, tramite la difesa tecnica, non sia in grado di percepirne il significato e le implicazioni) ed in armonia con il principio della idoneità dell’atto processuale al raggiungimento dello scopo, sicchè risultano coerenti con la natura di impugnazione a critica limitata propria del ricorso per cassazione e con la strutturazione del giudizio di legittimità quale processo sostanzialmente privo di momenti di istruzione.

Ancora, secondo Sez. 6-1, n. 15333/2020, Dolmetta, Rv. 658367-01, sussiste la responsabilità aggravata del ricorrente, ex art. 96, comma 3, c.p.c., per la redazione da parte del suo difensore di un ricorso per cassazione contenente motivi del tutto generici ed indeterminati, in violazione dell’art. 366 c.p.c., rispondendo il cliente delle condotte del proprio avvocato, ex art. 2049 c.c., ove questi agisca senza la diligenza esigibile in relazione ad una prestazione professionale particolarmente qualificata, quale è quella dell’avvocato cassazionista.

Sempre sul piano generale, ma con specifico riferimento a questioni inerenti alla giurisdizione, Sez. U, n. 19169/2020, Lamorgese, Rv. 658633-01, ha affermato che il ricorso per eccesso di potere giurisdizionale, con cui si denuncia il superamento dei limiti della giurisdizione da parte del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, dev’essere intrinsecamente ammissibile, secondo le modalità redazionali di cui all’art. 366 c.p.c. ed i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, ai fini dell’ammissibilità estrinseca delle singole censure.

Riguardo all’indicazione delle parti, requisito previsto dall’art. 366, comma 1, n. 1, c.p.c., va segnalata Sez. 2, n. 11466/2020, San Giorgio, Rv. 658263-01, secondo cui è nullo, nel suo valore sostanziale, l’atto introduttivo del giudizio per cassazione allorché esso, per errata identificazione del soggetto passivo della vocatio in ius, invece che nei confronti dell’erede, sia proposto e notificato (mediante il rilascio di copia nel domicilio eletto dal procuratore) alla parte deceduta e del cui decesso il ricorrente abbia già avuto conoscenza legale, restando una tale nullità, tuttavia, sanata dalla costituzione in giudizio dell’erede, avvenuta prima del passaggio in giudicato dell’impugnata sentenza.

Riguardo all’onere di esposizione sommaria dei fatti di causa, prescritto dall’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., sul piano generale va anzitutto segnalata Sez. T, n. 08425/2020, Guida, Rv. 658196-01, secondo cui, ai fini del rispetto dei limiti contenutistici di cui all’art. 366, comma 1, nn. 3) e 4), c.p.c., il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità al dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva, dovendo il ricorrente selezionare i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.; l’inosservanza di tale dovere (nella specie ravvisata dalla S.C. a fronte di ricorso per cassazione di 239 pagine, nonostante la semplicità della questione giuridica alla base della decisione impugnata, illustrata in due pagine) pregiudica l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e, pertanto, comporta la declaratoria di inammissibilità del ricorso, ponendosi in contrasto con l’obiettivo del processo, volto ad assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa (art. 24 Cost.), nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali del giusto processo (artt. 111, comma 2, Cost. e 6 CEDU), senza gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui.

Sempre sul piano generale, interessante è Sez. 1, n. 24432/2020, Terrusi, Rv. 659427-01, secondo cui per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366, comma 1, n. 3 c.p.c., il ricorso per cassazione deve indicare, in modo chiaro ed esauriente, sia pure non analitico e particolareggiato, i fatti di causa, da cui devono risultare le reciproche pretese delle parti con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano in modo da consentire al giudice di legittimità di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto senza dover ricorrere ad altre fonti e atti del processo, dovendosi escludere, peraltro, che i motivi, essendo deputati ad esporre gli argomenti difensivi possano ritenersi funzionalmente idonei ad una precisa enucleazione dei fatti di causa.

Per quanto concerne l’onere di trascrivere (o di riassumere) il contenuto di atti processuali o documenti rilevanti ai fini della decisione, va segnalata Sez. 2, n. 17310/2020, G. Grasso, Rv. 658895-01, secondo cui nel giudizio di legittimità, la parte ricorrente che deduca l’inesistenza del giudicato esterno invece affermato dalla Corte di appello deve, per il principio di autosufficienza del ricorso ed a pena d’inammissibilità dello stesso, riprodurre in quest’ultimo il testo integrale della sentenza che si assume essere passata in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il richiamo a stralci della motivazione.

Con specifico riferimento alla materia dell’espropriazione forzata, e delle opposizioni esecutive in particolare, Sez. 3, n. 11268/2020, D’Arrigo, Rv. 658143-01, ha affermato che il ricorso per cassazione deve essere proposto nei confronti di tutti i creditori procedenti o intervenuti al momento della proposizione dell’opposizione, fra i quali sussiste litisconsorzio processuale necessario, sicché il ricorso medesimo deve contenere, a pena di inammissibilità ex art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., l’esatta indicazione dei litisconsorti necessari, al fine di consentire la verifica dell’integrità del contraddittorio ed eventualmente ordinarne l’integrazione ai sensi dell’art. 331 c.p.c.

Riguardo invece alla protezione internazionale, Sez. 1, n. 22769/2020, Amatore, Rv. 659276-01, ha affermato che il ricorrente per cassazione che deduce la violazione del dovere di cooperazione istruttoria per l’omessa indicazione delle fonti informative dalle quali il giudice ha tratto il suo convincimento, ha l’onere di indicare le COI che secondo la sua prospettazione avrebbero potuto condurre ad un diverso esito del giudizio, con la conseguenza che, in mancanza di tale allegazione, non potendo la Corte di cassazione valutare la teorica rilevanza e decisività della censura, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Ancora sul tema, Sez. 1, n. 25312/2020, Terrusi, Rv. 659577-01, ha precisato che il ricorso per cassazione con il quale sia dedotta, in mancanza di videoregistrazione, l’omessa audizione del richiedente che ne abbia fatto espressa istanza, deve contenere l’indicazione puntuale dei fatti che erano stati dedotti avanti al giudice del merito a sostegno di tale richiesta, avendo il ricorrente un preciso onere di specificità della censura.

Quanto alla tecnica di redazione del ricorso, merita segnalazione Sez. L, n. 26837/2020, Bellé, Rv. 659630-01, che ha ribadito che il ricorso per cassazione redatto mediante l’affastellamento di una serie di documenti integralmente riprodotti è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza, il quale postula che l’enunciazione dei motivi e delle relative argomentazioni sia espressa mediante un discorso linguistico organizzato in virtù di un concatenazione sintattica di parole, frasi e periodi, sicché, senza escludere radicalmente che nel contesto dell’atto siano inseriti documenti finalizzati alla migliore comprensione del testo, non può essere demandato all’interprete di ricercarne gli elementi rilevanti all’interno dei menzionati documenti, se del caso ricostruendo una connessione logica tra gli stessi, non esplicitamente affermata dalla parte.

Ancora, Sez. 1, n. 27702/2020, Tricomi, Rv. 659930-01, ha affermato che ove sia denunciato il vizio di motivazione, la parte che si duole di carenze o lacune nella decisione del giudice di merito per aver questi disatteso le risultanze degli accertamenti tecnici eseguiti, non può limitarsi a censure apodittiche di erroneità o di inadeguatezza della motivazione od anche di omesso approfondimento di determinati temi di indagine, prendendo in considerazione emergenze istruttorie asseritamente suscettibili di diversa valutazione e traendone conclusioni difformi da quelle alle quali è pervenuto il giudice “a quo”, ma, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed il carattere limitato di tale mezzo di impugnazione, è per contro tenuta ad indicare, riportandole per esteso, le pertinenti parti della consulenza ritenute erroneamente disattese, ed a svolgere concrete e puntuali critiche alla contestata valutazione, condizione di ammissibilità del motivo essendo che il medesimo consenta al giudice di legittimità (cui non è dato l’esame diretto degli atti se non in presenza di errores in procedendo) di effettuare, preliminarmente, al fine di pervenire ad una soluzione della controversia differente da quella adottata dal giudice di merito, il controllo della decisività della risultanza non valutata, delle risultanze dedotte come erroneamente od insufficientemente valutate, e un’adeguata disamina del dedotto vizio della sentenza impugnata; dovendosi escludere che la precisazione possa viceversa consistere in generici riferimenti ad alcuni elementi di giudizio, meri commenti, deduzioni o interpretazioni, che si traducono in una sostanziale prospettazione di tesi difformi da quelle recepite dal giudice di merito, di cui si chiede a tale stregua un riesame, inammissibile in sede di legittimità. Per quanto concerne la specificità dei motivi di ricorso, requisito prescritto dall’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., va anzitutto segnalata Sez. 6-1, n. 04905/2020, Marulli, Rv. 657230-01, che ha ribadito che essendo il giudizio di cassazione un rimedio a critica vincolata, il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi aventi i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, sicché è inammissibile il ricorso nel quale non venga precisata la violazione di legge nella quale sarebbe incorsa la pronunzia di merito, né essendo al riguardo sufficiente un’affermazione apodittica non seguita da alcuna dimostrazione. Pertanto, secondo Sez. 6-2, n. 28452/2020, Falaschi, Rv. 659995 - 01, nel ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza emessa nel giudizio di revocazione non sono deducibili censure diverse da quelle previste dall’art. 360 c.p.c., e, in particolare, non sono denunciabili ipotesi di revocazione ex art. 395 c.p.c., non rilevando in contrario la circostanza che la sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione non possa essere a sua volta impugnata per revocazione.

Assai peculiare è anche Sez. U, 06691/2020, De Stefano, Rv. 657220-01, che ha affermato che il ricorso per cassazione deve essere proposto, a pena di inammissibilità, con unico atto avente i requisiti di forma e contenuto indicati dalla pertinente normativa di rito, sicché è inammissibile un nuovo atto (nella specie, di costituzione di ulteriore difensore) con articolazione di altri motivi di censura rispetto a quelli in origine dedotti, essendo invece possibile, nell’osservanza del principio di consumazione dell’impugnazione e dei relativi termini, la proposizione di un nuovo ricorso in sostituzione del primo che non sia stato ancora dichiarato inammissibile. In senso sostanzialmente conforme, quanto all’ultimo inciso, Sez. 1, n. 08552/2020, Parise, Rv. 657901-01.

Sez. T, n. 15517/2020, Putaturo Donati Viscido di Nocera, Rv. 658556-01, ha poi ribadito che la proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso, risolvendosi in un “non motivo”. L’esercizio del diritto di impugnazione, infatti, può considerarsi avvenuto in modo idoneo solo qualora i motivi con i quali è esplicato si traducano in una critica alla decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, da considerarsi in concreto e dalle quali non possano prescindere, dovendosi pertanto considerare nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo il motivo che difetti di tali requisiti. Ancora, Sez. L, n. 17224/2020, Patti, Rv. 658539-01, ha affermato che il principio di specificità di cui all’art. 366, comma 1, n. 4 c.p.c. richiede per ogni motivo l’indicazione della rubrica, la puntuale esposizione delle ragioni per cui è proposto nonché l’illustrazione degli argomenti posti a sostegno della sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo, come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della pronunzia

Per quanto concerne la procura speciale, che deve essere indicata ex art. 366, comma 1, n. 5, c.p.c., e di cui deve essere comunque munito l’avvocato che sottoscrive il ricorso o il controricorso, ex artt. 365 e 370 c.p.c., si segnala anzitutto Sez. 1, n. 00214/2020, Iofrida, Rv. 656515-01, secondo cui la procura apposta a margine del ricorso contenente espressioni generiche, che tuttavia non escludono univocamente la volontà della parte di proporre ricorso per cassazione, deve - nel dubbio - ritenersi “speciale”, in applicazione del principio di conservazione dell’atto giuridico, di cui è espressione in materia processuale l’art. 159 c.p.c. Interessante è Sez. 2, n. 27302/2020, Scarpa, Rv. 659726-02, secondo cui il mandato apposto in calce o a margine del ricorso per cassazione è, per sua natura, mandato speciale, senza che occorra per la sua validità alcun specifico riferimento al giudizio in corso ed alla sentenza contro la quale l’impugnazione si rivolge, sempre che dal relativo testo sia dato evincere una positiva volontà del conferente di adire il giudice di legittimità, il che si verifica certamente quando la procura al difensore forma materialmente corpo con il ricorso o il controricorso al quale essa inerisce, risultando, in tal caso, irrilevanti gli eventuali errori materiali della procura circa gli estremi della sentenza impugnata e del relativo giudizio di merito.

Quanto ai requisiti soggettivi del difensore, Sez. L. n. 17317/2020, Patti, Rv. 658641-01, ha ribadito che ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 365 c.p.c., è necessario che lo stesso sia sottoscritto da avvocato iscritto nell’apposito albo speciale, munito di mandato a margine o in calce all’atto, o comunque a questo allegato, rilasciato dopo la pubblicazione della sentenza impugnata e prima della notificazione del ricorso stesso, senza, tuttavia, che sia prescritto che di tale iscrizione venga fatta espressa menzione nel ricorso. Sez. 1, n. 04069/2020, Dell’Orfano, Rv. 657063-01, ha ribadito l’inammissibilità del ricorso per cassazione quando la relativa procura speciale è conferita su foglio separato rispetto al ricorso, privo di data successiva al deposito della sentenza d’appello e senza alcun riferimento al ricorso introduttivo, alla sentenza impugnata o al giudizio di cassazione, ossia al consapevole conferimento, da parte del cliente, dell’incarico al difensore per la proposizione del giudizio di legittimità, così risultando incompatibile con il carattere di specialità di questo giudizio. In senso conforme, Sez. 6-3, n. 16040/2020, Scrima, Rv. 658752-01. Al contrario, Sez. 6-2, n. 06122/2020, Cosentino, Rv. 657276-01, ha affermato che quando la procura al difensore è apposta sul retro della prima pagina del ricorso per cassazione, seguita dalle pagine successive, secondo il principio di conservazione degli atti il requisito della specialità resta assorbito dal contesto documentale unitario, derivando direttamente dalla relazione fisica tra la delega e il ricorso. Ancora, Sez. 6-1, n. 07137/2020, Caiazzo, Rv. 657556-01, ha affermato che non può considerarsi speciale, come l’art. 365 c.p.c. prescrive, la procura conferita a margine del foglio in bianco, in quanto di data anteriore alla stesura del ricorso, la quale non contenga richiami alla fase processuale di legittimità, ma specifici riferimenti a fasi e poteri propri esclusivamente del giudizio di merito, oltre che l’elezione di domicilio in luogo diverso da Roma; in tal caso, invero, la procura non è un “tutt’uno” con il ricorso e, quindi, non può attribuirsi alla parte la volontà, in contrasto con le espresse indicazioni contenute nella procura, compresa l’elezione di domicilio, di promuovere un giudizio di cassazione. Classica è poi la questione affrontata da Sez. 6-3, n. 13263/2020, Rossetti, Rv. 658373-01, secondo cui è inammissibile, per difetto della prescritta procura speciale, il ricorso per cassazione proposto sulla base della procura rilasciata dal ricorrente al proprio difensore nell’atto d’appello, essendo quest’ultima inidonea allo scopo perché conferita con atto separato in data anteriore alla sentenza da impugnare in sede di legittimità e, pertanto, in contrasto con l’obbligo di rilasciare la procura successivamente alla pubblicazione del provvedimento impugnato e con specifico riferimento al giudizio di legittimità. Analogamente, Sez. 6-3, n. 17901/2020, Valle, Rv. 658572-01, ha ribadito che la procura per il ricorso per cassazione ha carattere speciale ed è valida solo se rilasciata in data successiva alla sentenza impugnata, attesa l’esigenza di assicurare, in modo giuridicamente certo, la riferibilità dell’attività svolta dal difensore al titolare della posizione sostanziale controversa. Ne consegue che il ricorso è inammissibile qualora la procura sia conferita a margine dell’atto introduttivo di primo grado, ancorché per tutti i gradi di giudizio.

Sempre attuale è poi il tema affrontato da Sez. L, n. 01392/2020, Raimondi, Rv. 656536-01, secondo cui il ricorso per cassazione proposto dall’ex rappresentante di società estinta è inammissibile, perché per la sua proposizione occorre la procura speciale, sicchè non può valere l’ultrattività di procure in precedenza rilasciate e nemmeno può esserne rilasciata una nuova, stante la necessità che il relativo conferimento provenga da un soggetto esistente e capace di stare in giudizio; ne consegue la condanna alle spese in proprio del detto rappresentante, in quanto, salvo che particolari condizioni o circostanze o elementi anche indiziari non lo richiedano, non corrisponde ad uno specifico dovere professionale dell’avvocato, che si limita ad autenticarne la sottoscrizione, verificare costantemente la persistenza della qualità di legale rappresentante della persona fisica che gli conferisce il mandato, che ha invece l’onere di conoscere la cessata persistenza dei propri poteri e di renderne preventivamente ed adeguatamente edotto il suo difensore.

Con specifico riferimento alla protezione internazionale, Sez. 1, n. 15211/2020, Oliva, Rv. 658251-01, ha statuito che, poiché l’art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008 stabilisce che la data della procura speciale a ricorrere in cassazione sia espressamente certificata dal difensore, deve essere dichiarato inammissibile il ricorso ove la procura ad esso relativa, ancorché rilasciata su un foglio materialmente congiunto al medesimo ricorso e recante una data successiva al deposito del decreto impugnato, non indichi gli estremi di tale provvedimento, né altri elementi idonei ad identificarlo, come il numero cronologico ovvero la data del deposito o della comunicazione, poiché tale procura non soddisfa il requisito della specialità richiesto dall’art. 365 c.p.c. Nello stesso senso, Sez. 1, n. 01043/2020, Ferro, Rv. 656872-01, nonché Sez. 6-1, n. 02342/2020, Pazzi, Rv. 656643-01, e ancora Sez. 1, n. 25304/2020, Nazzicone, Rv. 659574-01.

Quanto poi al contenzioso tributario, Sez. T, n. 23865/2020, Federici, Rv. 659619-01, ha statuito che l’Avvocatura dello Stato, per proporre ricorso per cassazione in rappresentanza dell’Agenzia delle Entrate, deve avere ricevuto da quest’ultima il relativo incarico, del quale, però, non deve farsi specifica menzione nel ricorso, atteso che l’art. 366, n. 5, c.p.c., inserendo tra i contenuti necessari del ricorso “l’indicazione della procura, se conferita con atto separato”, fa riferimento esclusivamente alla procura intesa come negozio processuale attributivo dello ius postulandi, peraltro non necessario quando il patrocinio sia assunto dall’Avvocatura dello Stato e non invece al negozio sostanziale attributivo dell’incarico professionale al difensore.

Tornando al piano generale, infine, Sez. 3, n. 07751/2020, Olivieri, Rv. 657500-01, ha ribadito che la revoca della “procura ad litem”, quale espressione dell’autonomia negoziale della parte, attuata mediante l’esercizio del diritto potestativo di recesso dal rapporto professionale con il difensore, non integra una causa interruttiva del processo, che prosegue senza la necessità di alcun particolare adempimento, mentre, in caso di morte dell’unico difensore dopo il deposito del ricorso e prima dell’udienza di discussione, sebbene non operi l’interruzione del processo, tuttavia, trattandosi di evento sottratto alla disponibilità della parte, la Corte ha il potere di differire l’udienza, disponendo la comunicazione del provvedimento alla parte personalmente, per consentire la nomina di un nuovo difensore, salvo il caso in cui la stessa parte risulti essere stata già informata del detto evento e, nonostante il congruo tempo a sua disposizione, non abbia provveduto ad effettuare tale nomina. Venendo, per ultimo, al requisito di autosufficienza del ricorso, di matrice giurisprudenziale, ma di cui si rinviene oggi la fonte normativa nell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., va evidenziato che spesse volte il requisito in parola viene trasposto sul piano della esposizione sommaria dei fatti, processuali e sostanziali, di cui all’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., già esaminato, la cui funzione è però quella di rendere immediatamente intellegibili le censure mosse alla decisione impugnata. La funzione del requisito dell’autosufficienza, invece, attiene al piano più propriamente probatorio, mirando essenzialmente alla dimostrazione, da parte del ricorrente, della tempestività della produzione del documento invocato a sostegno dell’impugnazione nel giudizio di merito (salvo che non si tratti di documento producibile, per la prima volta, nel giudizio di legittimità, ex art. 372 c.p.c.), fermo lo scopo illustrativo-descrittivo del contenuto del documento stesso (in ciò, i requisiti di cui ai nn. 3 e 6 dell’art. 366 c.p.c. finiscono spesso con il sovrapporsi).

Ciò chiarito, deve anzitutto segnalarsi, sul punto, Sez. 2, n. 00134/2020, Falaschi, Rv. 656823-01, che ha affermato che quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, ed in particolare un vizio afferente alla nullità dell’atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell’oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione sul punto, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purché la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dagli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c.

Sez. L, n. 17070/2020, Buffa, Rv. 658796-01, ha affermato che ove il lavoratore richieda un inquadramento superiore, con le consequenziali ricadute in termini economici, per soddisfare il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, egli deve riportare integralmente il contenuto della norma di natura negoziale collettiva volta a fondare la pretesa, il cui accoglimento impone la puntuale comparazione tra le mansioni effettivamente svolte con quelle richieste dalla fonte negoziale, ai fini della attribuzione della qualifica richiesta. Interessante, ancora, è Sez. 1, n. 28184/2020, M. Di Marzio, Rv. 660090 - 01, secondo cui la specifica indicazione, intesa quale «localizzazione» degli atti e/o dei documenti, lungi dal presentarsi quale accanimento formalistico, manifesta un’attitudine di segno esattamente opposto, non essendo da un lato necessaria l’integrale trascrizione degli atti o dei documenti, ma essendo invece consentito un sintetico ma completo resoconto del loro contenuto. Infine, Sez. 1, n. 29495/2020, Amatore, Rv. 660190 - 01, ha ribadito che il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione vale anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali si denuncino errori da parte del giudice di merito; ne consegue che, ove il ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte.

Con specifico riferimento al settore tributario, va ulteriormente segnalata Sez. T, n. 23871/2020, Fasano, non massimata, che ha ribadito che in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., nel giudizio tributario, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo del vizio di motivazione nel giudizio sulla congruità della motivazione dell’avviso di accertamento, è necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso.

g) I vizi denunciabili. Rinviando, quanto alle questioni di giurisdizione e di competenza, ai relativi capitoli di questa Rassegna, si procederà di seguito ad indicare le più significative pronunce sui restanti vizi proponibili con ricorso ordinario, ai sensi dell’art. 360, comma 1, c.p.c.

Iniziando dalla violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., Sez. 1, n. 16700/2020, Mercolino, Rv. 658610-01, ha ribadito che detto vizio dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Ancora, Sez. L, n. 17570/2020, Arienzo, Rv. 658544-01, ha affermato che quando nel ricorso per cassazione è denunziata violazione o falsa applicazione di norme di diritto, il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche mediante specifiche argomentazioni, intese a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità. Nello stesso senso, ancor più chiaramente, Sez. U, n. 23745/2020, Lombardo, Rv. 659448-01, ha ribadito che l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare - con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni - la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa.

Ancora sul piano generale, Sez. 6-2, n. 05991/2020, Criscuolo, Rv. 657577-01, ha affermato che il ricorso per cassazione avverso la pronuncia del giudice di pace adottata secondo equità e non suscettibile di appello, anche a seguito della riforma introdotta dalla l. n. 40 del 2006, ove si deducano errores in iudicando, non è ammissibile per violazione o falsa applicazione di legge; i motivi d’impugnazione in tal caso devono denunciare il mancato rispetto delle regole processuali, per violazione di norme costituzionali e comunitarie, in quanto di rango superiore alla legge ordinaria, ovvero per violazione dei principi informatori della materia, e per carenza assoluta o mera apparenza della motivazione o di radicale ed insanabile contraddittorietà. Nello stesso senso, Sez. 6-2, n. 10063/2020, Cosentino, Rv. 657759-01.

Con riferimento al settore giuslavoristico, interessante è Sez. 6-L, n. 04460/2020, Ponterio, Rv. 657302-01, secondo cui il sindacato di legittimità sui contratti collettivi aziendali di lavoro può essere esercitato soltanto con riguardo ai vizi di motivazione del provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (nella specie, nel testo antecedente al d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella l. n. 134 del 2012 “ratione temporis” applicabile), ovvero ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, per violazione delle norme di cui agli artt. 1362 e segg. c.c., a condizione, per detta ipotesi, che i motivi di ricorso non si limitino a contrapporre una diversa interpretazione rispetto a quella del provvedimento gravato, ma prospettino, sotto molteplici profili, l’inadeguatezza della motivazione anche con riferimento alle norme del codice civile di ermeneutica negoziale come canone esterno di commisurazione del’esattezza e congruità della motivazione stessa. Più nel dettaglio, riguardo al tema della valutazione delle prove, si segnala Sez. U, n. 20867/2020, De Stefano, Rv. 659037-02, secondo cui la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa - secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione. Correlativamente, la medesima Sez. U, n. 20867/2020, De Stefano, Rv. 659037-01, ha affermato che per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.

Diverse pronunce affrontano, poi, il tema del travisamento della prova, da tenere distinto da quello del travisamento del fatto. Così, Sez. 3, n. 01163/2020, Guizzi, Rv. 656633-02, ha affermato che il travisamento della prova non implica una valutazione dei fatti, ma una constatazione o un accertamento che un’informazione probatoria, utilizzata dal giudice ai fini della decisione, è contraddetta da uno specifico atto processuale, così che, a differenza del travisamento del fatto, può essere fatto valere mediante ricorso per cassazione, ove incida su un punto decisivo della controversia, occorrendo invece proporre, nella seconda ipotesi, la revocazione. Allo stesso modo, Sez. 1, n. 03796/2020, Caradonna, Rv. 657055-01, ha ribadito che ove il ricorrente abbia lamentato un travisamento della prova, solo l’informazione probatoria su un punto decisivo, acquisita e non valutata, mette in crisi irreversibile la struttura del percorso argomentativo del giudice di merito e fa escludere l’ipotesi contenuta nella censura; infatti, il travisamento della prova implica non una valutazione dei fatti, ma una constatazione o un accertamento che quella informazione probatoria, utilizzata in sentenza, è contraddetta da uno specifico atto processuale. Tuttavia, la già citata (v. supra, par. 1) Sez. L, n. 24395/2020, Cavallaro, Rv. 659540-01, si pone in posizione divergente, avendo affermato che il travisamento della prova, che presuppone la constatazione di un errore di percezione o ricezione della prova da parte del giudice di merito, ritenuto valutabile in sede di legittimità qualora dia luogo ad un vizio logico di insufficienza della motivazione, non è più deducibile a seguito della novella apportata all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 134 del 2012, che ha reso inammissibile la censura per insufficienza o contraddittorietà della motivazione, sicché a fortiori se ne deve escludere la denunciabilità in caso di cd. “doppia conforme”, stante la preclusione di cui all’art. 348-ter, ultimo comma, c.p.c.

Quanto al ricorso, da parte del giudice di merito, alle nozioni di comune esperienza, che riguardano fatti acquisiti alla conoscenza della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabili ed incontestabili, e non anche elementi valutativi che implicano cognizioni particolari ovvero nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, vanno segnalate Sez. 6-3, n. 18101/2020, Gorgoni, Rv. 659034-01, secondo cui ove il giudice del merito abbia posto alla base della decisione un fatto qualificandolo come notorio, tale fatto e la sua qualificazione sono denunciabili in sede di legittimità sotto il profilo della violazione dell’art. 115, comma 2, c.p.c. e la Corte di cassazione esercita il proprio controllo ripercorrendo il medesimo processo cognitivo dello stato di conoscenza collettiva operato dal giudice del merito.

Assai peculiare è, poi, Sez. T, n. 27810/2020, Mondini, Rv. 659816-01, concernente la procedura catastale Docfa, essendosi affermato che non costituiscono fatto notorio, ai fini della valutazione di un immobile adibito a parcheggio, le tariffe comunali vigenti nello stesso, essendo il fatto notorio caratterizzato dall’essere conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo. Esso peraltro svincola dall’onere della prova, ma non anche dall’onere della sua allegazione, sicché il contribuente, che lamenti in sede di legittimità la sua mancata valutazione da parte del giudice del merito, è tenuto, ai sensi degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c., a indicare il come e il quando dell’avvenuta sua deduzione in giudizio e la sua decisività.

Interessante, infine, in tema di ius superveniens, è Sez. 2, n. 29099/2020, Casadonte, Rv. 660115 - 01, che ha ribadito che nel giudizio di cassazione, la censura ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. può concernere anche la violazione di disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, ove retroattive e, quindi, applicabili al rapporto dedotto, avendo ad oggetto il giudizio di legittimità non l’operato del giudice (e quindi un suo errore), ma la conformità della decisione adottata all’ordinamento giuridico.

Per quanto riguarda la nullità della sentenza o del procedimento, ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., va qui anzitutto richiamata Sez. 3, n. 24258/2020, Scarano, Rv. 659845-02, che per l’ipotesi in cui vengano denunciati con il ricorso per cassazione errores in procedendo, ha ribadito che la Corte di legittimità diviene anche giudice del fatto (processuale) ed ha, quindi, il potere-dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali. Occorre però preliminarmente appurare l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali.

Quanto alla violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ex art. 112 c.p.c., Sez. T, n. 02153/2020, Fracanzani, Rv. 656681-01, ha affermato che non ricorre il vizio di omessa pronuncia quando la motivazione accolga una tesi incompatibile con quella prospettata, implicandone il rigetto, dovendosi considerare adeguata la motivazione che fornisce una spiegazione logica ed adeguata della decisione adottata, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse, senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non accolte o la particolare disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi. Analogamente, Sez. 3, n. 24953/2020, Scoditti, Rv. 659772-01, ha affermato che non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione di merito sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicché il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione.

Con specifico riferimento al vizio di nullità della sentenza, deve qui richiamarsi, anzitutto, Sez. L, n. 03819/2020, Cinque, Rv. 656925-02, secondo cui il vizio di motivazione previsto dall’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito.

Ancora, Sez. 6-1, n. 05279/2020, Tricomi, Rv. 657231-01, ha affermato che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo.

Assai peculiare è Sez. 6-3, n. 10430/2020, D’Arrigo, Rv. 658029-01, secondo cui la circostanza che la decisione della causa in primo grado sia stata assunta dal giudice successivamente alla sua cessazione dal servizio integra un vizio che non è equiparabile a quello della radicale mancanza di sottoscrizione e, quindi, non determina la rimessione delle parti al primo giudice. In questo caso, pertanto, trova applicazione il principio secondo il quale il ricorrente per cassazione che impugni la sentenza di appello per non avere dichiarato la nullità della decisione di prime cure ha l’onere, nell’ipotesi in cui il vizio dedotto non avrebbe comportato la restituzione della controversia al primo giudice, di indicare, in concreto, quale pregiudizio sia derivato dalla nullità processuale e quale diverso e migliore risultato avrebbe potuto conseguire in assenza del vizio denunciato.

Inoltre, è noto che la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., operata dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito in l. n. 134 del 2012, ha ridimensionato il vizio motivazionale denunciabile in sede di legittimità, riportandolo nell’alveo del c.d. “minimo costituzionale” (si veda, in particolare, Sez. U, n. 08053/2014, Botta, Rv. 629830-01). In continuità con il consolidato principio così affermato, Sez. 1, n. 13248/2020, Gori, Rv. 658088-01, ha ribadito che la motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione deve ritenersi apparente quando pur se graficamente esistente ed, eventualmente, sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regola la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 comma 6 Cost.

Anche nel corso del 2020, non risulta massimata nessuna pronuncia concernente il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nel testo oramai non più in vigore dal 11 settembre 2012, e ciò sebbene risultino decisi 880 ricorsi iscritti nel 2012 (restando peraltro confermato il trend in diminuzione). Si rinvia pertanto al par. 1, quanto alle pronunce concernenti la nuova formulazione della norma.

h) Ulteriori questioni procedurali. Riguardo al termine per la proposizione del ricorso ordinario, si segnala anzitutto Sez. 1, n. 02974/2020, Scotti, Rv. 656997-01, che ha affermato che la notificazione della sentenza d’appello, diretta alla parte ma presso il suo procuratore costituito domiciliatario ex lege, è idonea a determinare la decorrenza del termine breve per la proposizione del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 325, comma 2, c.p.c., risultando irrilevante che il provvedimento sia stato notificato in forma esecutiva.

Va poi richiamata la già citata (v. supra, par. 1) Sez. 6-2, n. 10355/2020, Tedesco, Rv. 657819-01, che ha statuito che l’indicazione compiuta dalla parte, che pure abbia eletto domicilio ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934, di un indirizzo di posta elettronica certificata, senza che ne sia circoscritta la portata alle sole comunicazioni, implica l’obbligo di procedere alle successive notificazioni nei confronti della stessa parte esclusivamente in via telematica; ne consegue che, a fronte di siffatta indicazione, la notifica della sentenza d’appello presso il domiciliatario, anziché presso l’indirizzo di posta elettronica, è inidonea a far decorrere il termine breve di impugnazione per la proposizione del ricorso per cassazione. Pertanto, la S.C. ha considerato, nella specie, tempestivamente proposto il ricorso ricorso per cassazione (notificato oltre il termine c.d. breve), per non essere stata la sentenza di appello notificata all’indirizzo PEC indicato nell’atto di citazione in appello, ove la parte aveva peraltro precisato di voler ricevere “le comunicazioni e notificazioni nel corso del giudizio”.

Sempre in linea generale, la già citata (v. supra, par. 1) Sez. L, n. 17577/2020, Calafiore, Rv. 658886-01, ha affermato che in caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria, deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa. Pertanto, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione che, spedito a mezzo PEC alle ore 20.21 dell’ultimo giorno utile per la proposizione, non era stato accettato immediatamente ma il giorno successivo, senza che il notificante si fosse attivato per la ripresa del procedimento notificatorio.

Quanto alla protezione internazionale, Sez. 1, n. 14821/2020, Rossetti, Rv. 658259-01, ha affermato che nelle relative controversie celebrate “ratione temporis” secondo il rito sommario introdotto dal d.lgs. n. 150 del 2011, il ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello deve essere proposto nel termine di sei mesi dalla pubblicazione della decisione, come previsto in via generale dall’art. 327, comma 1, c.p.c., non essendovi disposizioni particolari che riguardino l’impugnazione delle pronunce di gravame all’esito di un procedimento sommario, e non trovando applicazione il disposto dell’art. 702-quater c.p.c., che attiene alla proposizione dell’appello contro le ordinanze di primo grado. Ne deriva, pertanto,che, ai fini del decorso di tale termine, non assume alcun rilievo la tardiva comunicazione del deposito della decisione impugnata da parte della cancelleria.

Per quanto concerne la tematica della successione nel processo di legittimità, ove - com’è noto - non opera l’istituto dell’interruzione, stante il suo carattere officioso, deve segnalarsi Sez. 6-3, n. 08973/2020, Iannello, Rv. 657936-01, che ha statuito che poiché l’applicazione della disciplina di cui all’art. 110 c.p.c. non è espressamente esclusa per il processo di legittimità, né appare incompatibile con le forme proprie dello stesso, il soggetto che ivi intenda proseguire il procedimento, quale successore a titolo universale di una delle parti già costituite, deve allegare e documentare, tramite le produzioni consentite dall’art. 372 c.p.c., tale sua qualità, attraverso un atto che, assumendo la natura sostanziale di un intervento, sia partecipato alla controparte - per assicurarle il contraddittorio sulla sopravvenuta innovazione soggettiva consistente nella sostituzione della legittimazione della parte originaria - mediante notificazione, non essendone, invece, sufficiente il semplice deposito nella cancelleria della Corte, come per le memorie ex artt. 378 e 380-bis c.p.c., poiché l’attività illustrativa che si compie con queste ultime è priva di carattere innovativo.

Relativamente allo ius postulandi, ed in particolare riguardo alla questione della successione di Agenzia delle Entrate-Riscossione alle società del Gruppo Equitalia, ai sensi dell’art. 1 del d.l. n. 193 del 2016, convertito in legge n. 225 del 2016, va qui evidenziato che Sez. 6, n. 17710/2020, Amendola, non massimata, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per investire ulteriormente le Sezioni Unite circa la necessità di verificare: «a) se, entrata in vigore la riforma del settore di cui al d.l. 22 ottobre 2016, n. 193, conv. con modif. in I. 1 dicembre 2016, n. 225, sia rituale l’instaurazione del contraddittorio per il giudizio di legittimità mediante notifica del ricorso al procuratore o difensore costituito per l’estinta società del gruppo Equitalia nel grado concluso con la sentenza impugnata, anziché alla neoistituita Agenzia delle Entrate - Riscossione: e, in particolare, se debba applicarsi la regola generale, oppure l’eccezione, prevista da Cass. Sez. U. 04/07/2014, n. 15295 (seguita, quanto alla prima, dalla giurisprudenza successiva, tra cui, da ultimo, Cass. ord. 09/10/2018, n. 24845) e, così, se possa considerarsi validamente ultrattivo il mandato conferito al professionista, oppure se debba ritenersi, con l’estinzione di questo o per altra causa, malamente evocata in giudizio una parte non corrispondente a quella giusta, trattandosi di soggetto formalmente e notoriamente estinto; b) se sia poi legittimo e su quali presupposti ed entro quali termini, viepiù ove ne vada confermata la qualificazione di successione a titolo particolare già data dalla giurisprudenza della sezione tributaria di questa Corte (nonostante la lettera dell’art. 1, co. 3, del d.l. n. 193 del 2016, conv. con modif. in l. 225 del 2016: Cass. ord. 15/06/2018, n. 15869; Cass. ord. 09/11/2018, n. 28741; Cass. ord. 24/01/2019, n. 1992; Cass. ord. 15/04/2019, n. 10547), il dispiegamento di attività difensiva nel giudizio di legittimità ad opera della detta Agenzia - secondo le regole sul patrocinio in giudizio come precisate da Cass. Sez. U. 19/11/2019, n. 30008, che nella specie sono comunque rispettate - mediante notifica di controricorso a seguito della notifica del ricorso alla singola società dante causa, agente della riscossione». La discussione è stata fissata per l’udienza del 9 marzo 2021. Per quanto concerne la rinuncia al ricorso per cassazione, deve anzitutto segnalarsi Sez. 1, n. 09474/2020, Falabella, Rv. 657640-01, che ha affermato che, quando alla rinuncia non abbia fatto seguito l’accettazione dell’altra parte, pur estinguendosi il processo, non opera l’art. 391, comma 4, c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 40 del 2006, che esclude la condanna alle spese in danno del rinunciante, spettando al giudice il potere discrezionale di negarla solo in presenza di specifiche circostanze meritevoli di apprezzamento, idonee a giustificare la deroga alla regola generale della condanna del rinunciante al rimborso delle spese sostenute dalle altre parti. Nello stesso senso, Sez. T, n. 10140/2020, Succio, Rv. 657723-01, che ha precisato che la rinuncia al ricorso per cassazione produce l’estinzione del processo anche in assenza di accettazione, non avendo tale atto carattere “accettizio” per essere produttivo di effetti processuali e, determinando il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, comporta il venir meno dell’interesse a contrastare l’impugnazione, fatta salva, comunque, la condanna del rinunciante alle spese del giudizio.

Sez. 6-3, n. 17893/2020, Rossetti, Rv. 658757-02, ha poi precisato che la rinuncia ad uno o più motivi di ricorso, che rende superflua una decisione in ordine alla fondatezza o meno di tali censure, è efficace anche in mancanza della sottoscrizione della parte o del rilascio di uno specifico mandato al difensore nel caso in cui, all’esito di un accertamento a posteriori, risulti implicare una valutazione tecnica in ordine alle più opportune modalità di esercizio della facoltà d’impugnazione e non comporti la disposizione del diritto in contesa, essendo così rimessa alla discrezionalità del difensore stesso e, quindi, sottratta alla disciplina di cui all’art. 390 c.p.c. per la rinuncia al ricorso.

Infine, la già citata (v. supra) Sez. U, n. 28182/2020, De Stefano, Rv. 659710-01, ha precisato che il ricorrente può rinunciare al ricorso, ai sensi dell’art. 390 c.p.c., fino a quando non sia cominciata la relazione all’udienza, o sino alla data dell’adunanza camerale, o finché non gli siano state notificate le conclusioni scritte del Procuratore generale nei casi di cui all’art. 380-ter c.p.c.

Sul tema della produzione documentale, va qui segnalata Sez. 3, n. 09685/2020, Di Florio, Rv. 657689-01, che ha ribadito che nel giudizio di legittimità possono essere prodotti, dopo la scadenza del termine di cui all’art. 369 c.p.c. e ai sensi dell’art. 372 c.p.c., solo i documenti che attengono all’ammissibilità del ricorso e non anche quelli concernenti l’allegata fondatezza del medesimo. Inoltre, Sez. 1, n. 28004/2020, Acierno, Rv. 659933-01, ha ritenuto l’inammissibilità della produzione documentale effettuata ai sensi dell’art. 369 c.p.c. in quanto, all’esito dell’accesso agli atti, consentito in funzione del controllo da svolgere, non è risultato che i medesimi documenti fossero stati depositati nella fase di merito.

Quanto ai poteri della Corte di cassazione, va anzitutto segnalata la già citata Sez. 3, n. 24258/2020, Scarano, Rv. 659845-02, che per l’ipotesi in cui vengano denunciati con il ricorso per cassazione errores in procedendo, ha ribadito che la Corte di legittimità diviene anche giudice del fatto (processuale) ed ha, quindi, il potere-dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali. Occorre però preliminarmente appurare l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali.

Interessante è, poi, Sez. 1, n. 27704/2020, Tricomi, Rv. 659931-01, che ha ribadito che il giudice di legittimità può ritenere fondata la questione sollevata nel ricorso anche per una ragione giuridica diversa da quella indicata dalla parte ed individuata d’ufficio, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come accertati nelle fasi di merito e senza confliggere con il principio di monopolio della parte nell’esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto, con la conseguenza che resta escluso che la S.C. possa rilevare l’efficacia giuridica di un fatto se ciò comporta la modifica della domanda per come definita nelle fasi di merito o l’integrazione di un’eccezione in senso stretto.

Infine, Sez. U, n. 29172/2020, Rv. 660029 - 01, ha ribadito che l’istanza di sospensione del giudizio, in attesa della definizione di altra controversia, è inammissibile se proposta per la prima volta in Cassazione, in quanto il provvedimento richiesto esula dalla funzione istituzionale della Corte Suprema, cui è demandato soltanto il sindacato di legittimità delle anteriori decisioni di merito.

Quanto alle conseguenze del mutamento di giurisprudenza, Sez. 6-T, n. 23834/2020, Conti, Rv. 659359-01, ha ribadito che la pronuncia delle Sezioni Unite che componga il contrasto sull’interpretazione di una norma processuale non configura un’ipotesi di overruling avente il carattere di imprevedibilità e, di conseguenza, non costituisce presupposto per la rimessione in termini della parte che sia incorsa nella preclusione o nella decadenza.

In relazione all’errore materiale contenuto nelle pronunce della S.C., va anzitutto segnalata Sez. 6-2, n. 12185/2020, Scarpa, Rv. 658457-01, secondo cui nel giudizio di cassazione è ammissibile il ricorso per la correzione di errore materiale avverso il provvedimento di condanna alle spese della parte intimata che non si sia ivi costituita, in quanto la violazione dell’art. 91 c.p.c., integra un errore, ai sensi dell’art. 287 e 391-bis c.p.c., rilevabile ictu oculi dal testo del provvedimento. Tuttavia, per Sez. 6-3, n. 24417/2020, F.M. Cirillo, Rv. 659912-01, l’attività di specificazione o di interpretazione di una sentenza della Corte di cassazione non può essere oggetto né del procedimento di correzione di errore materiale né di quello per revocazione di cui all’art. 391-bis c.p.c. (fattispecie in cui la parte condannata alla rifusione delle spese processuali nei confronti di “ciascuna parte controricorrente” aveva chiesto venisse specificato che per “parte controricorrente” doveva intendersi ogni parte processuale, vale a dire “ogni parte assistita dal medesimo difensore”).

In linea con Sez. T, n. 29634/2019, Saija, Rv. 655742-01, quanto al mancato inserimento - nel fascicolo d’ufficio - del controricorso, la procedura di correzione di errore materiale promossa d’ufficio innanzi alla Corte di cassazione è stata ritenuta inammissibile da Sez. 6-1, n. 19994/2020, Di Marzio M., Rv. 659144-01, perché tale fattispecie è da qualificarsi come errore di fatto sul contenuto degli atti processuali, che va dedotto dalla parte con ricorso per revocazione entro l’ordinario termine di sessanta giorni dalla notificazione del provvedimento, ovvero di sei mesi dalla sua pubblicazione.

Sul piano procedurale, Sez. 6-3, n. 12983/2020, Iannello, Rv. 658229-02, ha precisato che l’istanza di correzione per errore materiale di un’ordinanza della S.C. è improcedibile quando il ricorrente non depositi la copia autentica del provvedimento, poiché l’art. 391-bis c.p.c., rinviando alla disciplina dettata dagli artt. 365 ss. c.p.c., richiede l’osservanza di quanto prescritto nell’art. 369, comma 2, n. 2, del medesimo codice.

Relativamente al regime delle spese, richiamata la già citata (v. supra) Sez. L, n. 01392/2020, Raimondi, Rv. 656536-01, secondo cui, ove il ricorso per cassazione sia inammissibilmente proposto dall’ex rappresentante di società estinta, ne consegue la condanna alle spese in proprio del detto rappresentante, deve segnalarsi Sez. L., n. 14813/2020, Tricomi, Rv. 658182-02, secondo cui nel giudizio di cassazione, nel caso di rigetto sia del ricorso che della domanda, meramente accessoria, proposta ex art. 96 c.p.c. dal controricorrente, non ha luogo una ipotesi di pluralità di domande effettivamente contrapposte idonea a determinare una soccombenza parziale o reciproca.

Avuto poi riguardo al regime di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (c.d. raddoppio del contributo unificato), nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, l. n. 228 del 2012, va anzitutto segnalata Sez. U, n. 04315/2020, Lombardo, Rv. 657198-02, 03, 04, 05 e 06, che ha sistematizzato le questioni aperte. Nell’ordine, è stato affermato che: 1) Rv. 657198-02: l’ulteriore importo del contributo unificato (c.d. doppio contributo) che la parte impugnante è obbligata a versare allorquando ricorrano i presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, ha natura di debito tributario, in quanto partecipa della natura del contributo unificato iniziale ed è volto a ristorare l’amministrazione della Giustizia dei costi sopportati per la trattazione della controversia; ne consegue che la questione circa la sua debenza è estranea alla cognizione della giurisdizione civile ordinaria, spettando invece alla giurisdizione del giudice tributario; 2) Rv. 657198-03: la debenza dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato (c.d. doppio contributo) pari a quello dovuto per l’impugnazione è normativamente condizionata a due presupposti: il primo, di natura processuale, costituito dall’adozione di una pronuncia di integrale rigetto o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, la cui sussistenza è oggetto dell’attestazione resa dal giudice dell’impugnazione ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002; il secondo, di diritto sostanziale tributario, consistente nell’obbligo della parte impugnante di versare il contributo unificato iniziale, il cui accertamento spetta invece all’amministrazione giudiziaria; 3) Rv. 657198-04: il giudice dell’impugnazione deve rendere l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, quando la pronuncia adottata è inquadrabile nei tipi previsti dalla norma (integrale rigetto, inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione), mentre non è tenuto a dare atto dell’insussistenza di tale presupposto quando la pronuncia non rientra in alcuna di suddette fattispecie; 4) Rv. 657198-05: in tema di raddoppio del contributo unificato a carico della parte impugnante ex art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, l’attestazione del giudice dell’impugnazione della sussistenza del presupposto processuale per il versamento dell’importo ulteriore (c.d. doppio contributo) può essere condizionata all’effettiva debenza del contributo unificato iniziale, che spetta all’amministrazione giudiziaria accertare, tenendo conto di cause di esenzione o di prenotazione a debito, originarie o sopravvenute, e del loro eventuale venir meno; ed infine 5) Rv. 657198-06: il giudice dell’impugnazione che emetta una delle pronunce previste dall’art. 13, comma 1-, del d.P.R. n. 115 del 2002, è tenuto a dare atto della sussistenza del presupposto processuale per il versamento dell’importo ulteriore del contributo unificato (c.d. doppio contributo) anche quando esso non sia stato inizialmente versato per una causa suscettibile di venire meno (come nel caso di ammissione della parte al patrocinio a spese dello Stato), potendo invece esimersi dal rendere detta attestazione quando la debenza del contributo unificato iniziale sia esclusa dalla legge in modo assoluto e definitivo.

Ancora, Sez. 6-2, n. 13636/2020, Cosentino, Rv. 658724-01, ha statuito che in ragione della natura impugnatoria del ricorso per regolamento di competenza, ove lo stesso venga integralmente rigettato il ricorrente può essere obbligato al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ex art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, introdotto, con riferimento ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012. Infine, Sez. L. n. 20682/2020, Di Paolantonio, Rv. 658919-01, ha precisato che le Università statali, quand’anche difese dall’Avvocatura dello Stato, sono tenute al pagamento del raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, perché l’esenzione prevista dal richiamato decreto opera per le sole amministrazioni dello Stato e non per gli enti pubblici autonomi, categoria cui appartengono le Università.

3. Il giudizio di rinvio.

Numerose pronunce, infine, hanno riguardato il giudizio di rinvio. Di seguito le più significative. Anzitutto, in linea con consolidato orientamento, Sez. 2, n. 00448/2020, Bellini, Rv. 656830-02, ha ribadito che i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384, comma 1, c.p.c., al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua potestas iudicandi, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità. Nello stesso senso, Sez. 3, n. 10549/2020, Olivieri, Rv. 658016-01.

Il principio è stato anche ribadito, sotto diversa prospettiva, da Sez. U, n. 18303/2020, Tria, Rv. 658632-02, che ha affermato che in caso di ricorso per cassazione avverso la pronuncia del giudice di rinvio per violazione della precedente statuizione di annullamento, il sindacato della S.C. si risolve nel controllo dei poteri propri del suddetto giudice, poteri che, nell’ipotesi di rinvio per vizio di motivazione, si estendono non solo alla libera valutazione dei fatti già accertati, ma anche alla indagine su altri fatti, con il solo limite del divieto di fondare la decisione sugli stessi elementi già censurati del provvedimento impugnato e con la preclusione rispetto ai fatti che il principio di diritto eventualmente enunciato presuppone come pacifici o accertati definitivamente.

Sez. 6-3, n. 03527/2020, Gianniti, Rv. 657015-02, ha ribadito che la domanda di restituzione delle somme pagate in esecuzione di una sentenza, successivamente cassata in sede di legittimità, ancorché proposta in via autonoma, è devoluta alla competenza esclusiva del giudice del rinvio. Peraltro, la stessa pronuncia, Rv. 657015-01, ha precisato che l’omessa pronuncia del giudice di rinvio sulla domanda di restituzione delle somme pagate in esecuzione di una sentenza di appello cassata in sede di legittimità non preclude l’autonoma proposizione della domanda in un separato giudizio, nemmeno se tale omissione di pronuncia non sia stata impugnata con ricorso per cassazione, essendosi formato su di essa un giudicato di mero rito.

Sempre sul tema, Sez. 3, n. 09245/2020, Positano, Rv. 657686-01, ha statuito che l’azione di restituzione proposta, a norma dell’art. 389 c.p.c., dalla parte vittoriosa nel giudizio di cassazione, in relazione alle prestazioni eseguite in base alla sentenza d’appello poi annullata, non è riconducibile allo schema della ripetizione d’indebito ed è soggetta all’ordinario termine decennale di prescrizione.

Peculiare è poi Sez. L, n. 17315/2020, Bellé, Rv. 658543-01, secondo cui, nel caso di cassazione della sentenza impugnata per violazione dell’art. 101, comma 2, c.p.c., la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c., solo se le questioni dibattute siano di puro diritto, mentre, qualora siano coinvolte questioni di fatto, è inevitabile l’annullamento con rinvio.

Quanto al regolamento delle spese, Sez. 6-3, n. 18108/2020, Tatangelo, Rv. 658518-01, ha affermato che in caso di accoglimento del ricorso per cassazione di una sentenza di secondo grado proposto con riguardo al solo capo relativo alle spese di lite, nel giudizio di rinvio - ai fini della liquidazione delle spese di legittimità e dello stesso rinvio - deve ritenersi vittoriosa la parte la cui doglianza sulle spese sia stata accolta, indipendentemente dall’esito della controversia.

Interessante è poi Sez. 6-3, n. 20345/2020, Guizzi, Rv. 659252-01, secondo cui la riassunzione del giudizio innanzi alla sezione distaccata della corte d’appello individuata dalla S.C. quale giudice del rinvio non viola il disposto dell’art. 383 c.p.c., anche se la stessa sezione distaccata aveva emesso la decisione poi cassata, non sussistendo un vizio di competenza funzionale, che non può riguardare la ripartizione interna degli affari tra sezioni (come nel caso del rapporto fra sede distaccata e principale di una corte di appello) o le persone fisiche dei magistrati, purché nessuno dei componenti del nuovo collegio giudicante abbia partecipato alla pronuncia del provvedimento cassato; tuttavia la prova del difetto di alterità, da cui deriva la nullità della sentenza pronunciata, grava sul ricorrente che la impugni per cassazione all’esito del giudizio di rinvio.

Allo stesso modo interessante è, ancora, Sez. 6-T, n. 22407/2020, Russo, Rv. 659358-01, secondo cui, quanto all’incidenza dello “ius superveniens” sul giudizio di rinvio, mentre nell’ipotesi di rinvio cd. prosecutorio (o proprio) ex art. 383, comma 1, c.p.c., il giudice non deve tener conto delle modifiche processuali “medio tempore” intervenute, vertendosi in una fase ulteriore dell’originario procedimento (introdotto secondo le regole in quel momento vigenti), nel caso rinvio cd. restitutorio (o improprio) ex art. 383, comma 3, c.p.c., le sopravvenienze normative incidono, invece, sul nuovo processo che si svolge dinanzi al primo giudice, cui la causa sia stata rimessa in conseguenza dell’annullamento dell’intero procedimento. Pertanto, la stessa pronuncia, Rv. 659358-02, ha affermato che nel caso di annullamento dell’intero giudizio di merito, da parte della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 383, comma 3, c.p.c., non trova applicazione il principio del tempus regit processum - secondo cui, in ossequio alle regole del giusto processo civile (art. 111 Cost.), vanno mantenute le norme vigenti al momento della proposizione della domanda iniziale -, dal momento che esso presuppone l’esistenza di atti processuali validi, compiuti nel previgente regime, mentre nell’ipotesi suddetta, insieme con l’atto originario, cade anche il collegamento col precedente regime processuale e il nuovo giudizio che si instaura a seguito di rinvio restitutorio è sottoposto alle regole vigenti (nella specie relative al termine lungo per impugnare) nel momento in cui, con la riassunzione, si rinnova l’atto introduttivo nullo, in virtù del giustapposto principio del tempus regit actum.

Sotto diverso ma concorrente profilo, Sez. 3, n. 25877/2020, Porreca, Rv. 659855-01, ha affermato che nell’ipotesi di rinvio c.d. prosecutorio alla corte d’appello - che si verifica quando la sentenza impugnata sia entrata nel merito della controversia, se del caso accogliendo la domanda risarcitoria e quantificando i danni - la corte territoriale, diversamente da quanto accade nel caso di rinvio c.d. improprio o restitutorio, soggiace al divieto di “reformatio in peius”, che costituisce conseguenza delle norme, dettate dagli artt. 329 e 342 c.p.c. in tema di effetto devolutivo dell’impugnazione di merito e di acquiescenza, che presiedono alla formazione del “thema decidendum” in appello, per cui, una volta stabilito il “quantum devolutum”, l’appellato non può giovarsi della reiezione del gravame principale per ottenere effetti che solo l’appello incidentale gli avrebbe assicurato e che, invece, in mancanza, gli sono preclusi dall’acquiescenza prestata alla sentenza di primo grado.

Per quanto concerne la riassunzione, Sez. 6-2, n. 00975/2020, Scarpa, Rv. 657245-02, ha affermato che in conseguenza della cassazione con rinvio, tra il giudizio rescindente e quello rescissorio deve esservi perfetta correlazione quanto al rapporto processuale, che non può costituirsi davanti al giudice di rinvio senza la partecipazione di tutti i soggetti nei cui confronti è stata emessa la pronuncia rescindente e quella cassata; la citazione in riassunzione davanti a detto giudice si configura, infatti, come atto di impulso processuale, in forza del quale la controversia dà luogo ad un litisconsorzio necessario fra coloro che furono parti nel processo di cassazione, senza che abbia rilievo alcuno la natura inscindibile o scindibile della causa, né l’ammissibilità di una prosecuzione solo parziale del giudizio di sede di rinvio.

Sez. 3, n. 08891/2020, Cricenti, Rv. 657842-01, ha poi precisato che la mancata riassunzione del giudizio di rinvio determina, ai sensi dell’art. 393 c.p.c., l’estinzione dell’intero processo, con conseguente caducazione di tutte le attività espletate, salva la sola efficacia del principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione, non assumendo rilievo che l’eventuale sentenza d’appello, cassata, si sia limitata a definire in rito l’impugnazione della decisione di primo grado ovvero abbia rimesso la causa al primo giudice e, dunque, manchi un effetto sostitutivo rispetto a quest’ultima pronuncia, poiché tale disciplina risponde ad una valutazione negativa del legislatore in ordine al disinteresse delle parti alla prosecuzione del procedimento.

In applicazione del suddetto principio, nell’ambito fallimentare, Sez. 1, 03022/2020, Terrusi, Rv. 657053-01, ha quindi affermato che, ove la sentenza di rigetto del reclamo contro la sentenza dichiarativa, di cui all’art. 18 l.fall., sia stata cassata con rinvio e il processo non sia stato riassunto nel termine prescritto, trova piena applicazione la regola generale di cui all’art. 393 c.p.c., alla stregua della quale alla mancata riassunzione consegue l’estinzione dell’intero processo e, quindi, anche l’inefficacia della sentenza di fallimento.

In ambito tributario, inoltre, Sez. T, n. 03250/2020, Catallozzi, Rv. 656965-01, ha stabilito che nel giudizio di rinvio successivo alla cassazione della sentenza impugnata, la riassunzione della causa deve essere preceduta, a pena di inammissibilità, dal deposito di copia autentica della sentenza di legittimità o dell’ordinanza decisoria che definisce il giudizio, dovendosi interpretare l’art. 63 del d.lgs. n. 546 del 1992 (nel testo “ratione temporis” vigente) alla luce delle successive modifiche al codice di rito hanno elevato l’ordinanza a modello decisionale dei giudizi di legittimità.

Quanto al giudizio di rinvio dinanzi alla corte d’appello civile nel caso venga disposta la cassazione della sentenza penale ai soli effetti civili, ex art. 622 c.p.p., Sez. 1, n. 15041/2020, Scalia, Rv. 658250-01, ha affermato che la cognizione del giudice civile può estendersi all’intera pretesa risarcitoria, sia per l’aspetto inerente al fondamento della stessa che per quello dell’eventuale determinazione dell’ammontare risarcitorio, a meno che non vi sia stata la formazione di un giudicato penale di assoluzione, destinato ad avere effetti in sede civile ai sensi dell’art. 652 c.p.p.

  • principio generale del diritto
  • amministratore
  • famiglia

CAPITOLO XV

IL RICORSO STRAORDINARIO PER CASSAZIONE E L’ENUNCIAZIONE DEL PRINCIPIODI DIRITTO NELL’INTERESSE DELLA LEGGE

(di Eleonora Reggiani, Raffaele Rossi* )

Sommario

1 Premessa. - 2 La presentazione del ricorso straordinario per cassazione. - 3 Gli atti impugnabili. - 4 Alcuni provvedimenti adottati nel corso del processo. - 5 La pronuncia di inammissibilità dell’appello ex art. 348 ter c.p.c. - 6 I provvedimenti in materia di famiglia e minori. - 7 La statuizione sulla sospensiva in materia di protezione internazionale. - 8 I provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori. - 9 La revoca dell’amministratore di condominio. - 10 Le sentenze secondo equità del giudice di pace. - 11 La decisione sull’opposizione alla liquidazione dei compensi ex art. 170 d.P.R. n. 115 del 2002. - 12 La revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. - 13 I provvedimenti relativi all’esecuzione forzata. - 14 I provvedimenti nelle procedure fallimentari e concorsuali in genere. - 15 L’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge. - 16 La richiesta del Procuratore Generale. - 17 Il potere officioso della Corte.

1. Premessa.

Anche quest’anno viene dedicato un unico capitolo alle statuizioni della S.C. che hanno esaminato le ipotesi di ricorso straordinario per cassazione e a quelle che hanno enunciato principi di diritto nell’interesse della legge.

Ciò che accomuna i due istituti è il preponderante rilievo attribuito al controllo di legalità svolto dalla Corte di cassazione.

Com’è noto, l’art. 111, comma 7, Cost., contiene una norma dalla portata immediatamente precettiva, assicurando che «Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge».

Tuttavia, come avviene con il ricorso ordinario per cassazione, lo ius constitutionis si attua per il tramite dello ius litigatoris.

Il solo ius constitutionis è invece esaltato nella disciplina contenuta nell’art. 363 c.p.c. (come sostituito dall’art. 4 d.lgs. n. 40 del 2006), in forza della quale è consentito alla S.C. di enunciare il principio di diritto, su richiesta del P.G. e in alcuni casi anche d’ufficio, senza però che tale pronuncia abbia effetto nel giudizio di merito che ha dato occasione alla pronuncia.

Viene, in questo caso, potenziata la pura funzione di garanzia dell’uniforme applicazione del diritto, attribuita alla S.C. dall’art. 65 r.d. n. 12 del 1941, che, prescindendo completamente dalla tutela delle parti coinvolte nel processo, si sostanzia nella stessa enunciazione del principio.

L’ambito applicativo di tali istituti è estremamente variegato, ma l’esame delle statuizioni anno per anno adottate contribuisce a delineare con sempre maggiore chiarezza le rispettive caratteristiche, esaltandone l’importanza in termini di solidità e di coerenza interna del sistema.

2. La presentazione del ricorso straordinario per cassazione.

Come appena evidenziato, in virtù dell’art. 111, comma 7, Cost., il ricorso straordinario per cassazione è ammesso contro le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale «per violazione di legge».

L’art. 2 d.lgs. n. 40 del 2006, nel sostituire l’art. 360 c.p.c., risolvendo ogni dubbio interpretativo, ha precisato che il ricorso straordinario per cassazione si può proporre per gli stessi motivi previsti per il ricorso ordinario («Le disposizioni di cui al primo comma e terzo comma si applicano alle sentenze ed ai provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge»).

In tale ottica, con riferimento alle statuizioni adottate dal Tribunale superiore delle acque pubbliche, nelle materie oggetto di cognizione diretta ex art. 143 r.d. n. 1775 del 1933, Sez. U, n. 07833/2020, Stalla, Rv. 657603-01, ha precisato che il ricorso alle Sezioni Unite è esperibile, oltre che per i vizi indicati dall’art. 201 del citato r.d. (incompetenza ed eccesso di potere), per ogni violazione di legge, sostanziale e processuale, e non per soli motivi inerenti alla giurisdizione, essendo tale limitazione operante, a norma dell’art. 111 Cost., unicamente per le pronunce del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.

In ordine ai termini per la presentazione del ricorso ex art. 111, comma 7, Cost., Sez. 6-2, n. 04735/2020, Criscuolo, Rv. 657263-01, pronunciandosi sull’impugnazione dell’ordinanza relativa all’opposizione ex art. 170 d.P.R. n. 115 del 2002, ha affermato che tale ricorso può essere proposto entro il termine lungo stabilito dall’art. 327 c.p.c., non trovando applicazione la previsione, relativa al procedimento sommario di cognizione, secondo la quale l’appello deve essere esperito nel termine di trenta giorni dalla sua comunicazione, ma la disciplina del ricorso straordinario, venendo in rilievo un provvedimento non altrimenti impugnabile, che incide con carattere di definitività su diritti soggettivi.

Sempre con riferimento all’impugnazione dell’ordinanza ex art. 170 d.P.R. n. 115 del 2002, Sez. 6-2, n. 05990/2020, Criscuolo, Rv. 657576-01, ha aggiunto che il termine breve per proporre il ricorso straordinario per cassazione decorre dalla notificazione del provvedimento, fermo restando che, in assenza di tale notificazione, deve reputarsi applicabile il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c..

Tali statuizioni, relative ai tempi di proposizione del ricorso in esame, si pongono in linea con un orientamento consolidato, di recente ribadito, in termini generali, da Sez. 6-2, n. 16938/2019, Sabato, Rv. 654345-01, ove la Corte ha affermato che al ricorso straordinario per cassazione si applica il termine di sessanta giorni di cui all’art. 325, comma 2, c.p.c. decorrente dalla data della notificazione del provvedimento o, in mancanza di tale notificazione, il termine di decadenza previsto dall’art. 327 c.p.c., con la precisazione che la comunicazione da parte della cancelleria del testo integrale del provvedimento depositato non è idonea a far decorrere il termine breve di cui all’art. 325 c.p.c., così come chiarito dal nuovo testo dell’art. 133 c.p.c., modificato dall’art. 45, comma 1, lett. b), d.l. n. 90 del 2014, conv. con modif. in l. n. 114 del 2014.

Per quanto riguarda la forma del ricorso straordinario per cassazione, merita di essere menzionata Sez. U, n. 06074/2020, Mercolino, Rv. 657219-01, ove si evidenzia che l’art. 24 d.lgs. n. 109 del 2006, nella parte in cui dichiara applicabili i termini e le forme previsti dal codice di procedura penale al ricorso per cassazione contro i provvedimenti della Sezione disciplinare del CSM, si riferisce alla sola impugnazione delle decisioni della menzionata Sezione disciplinare, senza estendersi ai ricorsi contro le sentenze e le ordinanze emesse, in sede di impugnazione, dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione. Da ciò consegue che tali provvedimenti non possono essere impugnati ex art. 111, comma 7, Cost. (o per revocazione) personalmente dall’incolpato mediante il semplice deposito del ricorso in cancelleria, essendo, invece, necessaria la rappresentanza di un difensore, iscritto nell’albo degli avvocati abilitati al patrocinio dinanzi alle magistrature superiori, munito di procura speciale, ed anche la notifica del ricorso al Ministero della giustizia e alla Procura generale della Repubblica presso la Corte di cassazione.

Infine, sempre in tema di proposizione del ricorso straordinario per cassazione, Sez. 6-1, n. 19162/2020, Falabella, Rv. 658838-01, ha rilevato che contro una sentenza di primo grado, e in assenza di accordo tra le parti per omettere l’appello, non è ipotizzabile il rimedio del ricorso straordinario per cassazione, in quanto l’art. 111, comma 7, Cost. ha la finalità di ammettere tale mezzo di impugnazione solo contro provvedimenti per i quali la legge non prevede o limita il ricorso per cassazione, con esclusione di quelli per i quali è possibile l’appello.

3. Gli atti impugnabili.

Ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., il ricorso straordinario, in materia civile, è ammesso contro le «sentenze» degli organi giurisdizionali.

La S.C. si è tuttavia da subito orientata nel senso di consentire l’esperibilità di tale rimedio impugnatorio non solo nei confronti dei provvedimenti che hanno la forma della sentenza e non sono assoggettati ai normali mezzi d’impugnazione (v. ad esempio le ipotesi disciplinate dall’art. 618 c.p.c.), ma anche nei confronti di ogni altro provvedimento, anche se adottato in forma diversa, che abbia comunque carattere decisorio, incidendo su diritti soggettivi, e definitivo, in quanto non altrimenti impugnabile.

Tale principio, non posto successivamente in discussione, è stato sancito da Sez. U, n. 02593/1953, Duni, Rv. 881234-01, ove si è affermato che il ricorso straordinario per cassazione è esperibile con riguardo a tutti i provvedimenti che, a prescindere dalla forma che assumono, decidono in modo definitivo il merito di una controversia, la cui eventuale ingiustizia resterebbe irreparabilmente e definitivamente priva di controllo.

L’interpretazione estensiva, operata dalla giurisprudenza di legittimità, ha ricevuto l’avallo del legislatore che, come evidenziato, nel novellare il disposto dell’art. 360 c.p.c. con l’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006, ha espressamente fatto richiamo ai «provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge».

È dunque ammesso il ricorso straordinario per cassazione contro tutti i provvedimenti, comprese le ordinanze ed i decreti, connotati dal duplice requisito della decisorietà (nel senso che incidano su diritti o status) e della definitività (nel senso che non possano essere rimessi in discussione in nessun modo e a nessuna condizione).

Nel corso degli anni, la giurisprudenza di legittimità ha svolto il compito di verificare, con riferimento alle diverse tipologie di provvedimenti, la presenza dei requisiti della decisorietà e della definitività, in alcuni casi manifestando un orientamento sempre più consolidato e in altri casi mostrando opinioni discordanti ed anche mutevoli.

Nell’esaminare l’attività svolta nell’anno in rassegna, vengono prima di tutto illustrate le decisioni in cui la Corte di cassazione ha esaminato la possibilità di impugnare ex art. 111, comma 7, Cost. alcuni provvedimenti adottati nel corso del processo civile. Successivamente vengono richiamate le pronunce che hanno riguardato il ricorso a tale rimedio in specifici settori o in determinati procedimenti.

4. Alcuni provvedimenti adottati nel corso del processo.

Con riguardo all’ordinanza che dichiara l’interruzione del processo, Sez. 3, n. 09255/2020, Scarano, Rv. 657634-01, ha evidenziato che tale provvedimento ha natura meramente preparatoria ed ordinatoria, poiché non statuisce sulla pretesa sostanziale fatta valere in giudizio né definisce il processo, comportando soltanto un temporaneo stato di quiescenza del procedimento fino alla sua riassunzione o, in mancanza, fino all’estinzione.

È per questo che, secondo la S.C., avverso tale provvedimento sono inammissibili l’appello e il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., avendo la parte interessata la possibilità di recuperare pienamente la tutela giudiziale attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione, i quali sono idonei a far valere ogni possibile doglianza nei confronti del giudice che, una volta proseguito o riassunto il giudizio nel termine perentorio stabilito dalla legge, disattenda le sue difese e si pronunci sul merito della domanda o sui relativi presupposti processuali (conf. Sez. 1, n. 17531/2014, Genovese, Rv. 632543-01).

In tema di espressioni sconvenienti e offensive utilizzate negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati davanti al giudice, Sez. 6-3, n. 27616/2020, Tatangelo, Rv. 660056-01, ha ritenuto che l’ordine di cancellazione di tali espressioni costituisce un potere valutativo discrezionale del giudice di merito, volto alla tutela di interessi diversi da quelli oggetto di contesa tra le parti, tant’è che il suo esercizio, anche ufficioso, si sottrae all’obbligo di motivazione e il relativo provvedimento, presentando carattere ordinatorio (e non decisorio), non è suscettibile di impugnazione e non è sindacabile in sede di legittimità (conf. Sez. 3, n. 14659/2015, Scrima, Rv. 636164-01).

Infine, con riguardo alle statuizioni adottate a seguito della presentazione dell’istanza di ricusazione, Sez. 1, n. 18611/2020, Parise, Rv. 659232-01, ha affermato che l’ordinanza di rigetto di tale istanza non è impugnabile con il ricorso straordinario per Cassazione, perché, pur avendo natura decisoria - dal momento che statuisce su un’istanza diretta a far valere concretamente l’imparzialità del giudice, la quale costituisce, non soltanto un interesse generale dell’amministrazione della giustizia, ma anche (se non soprattutto) un diritto soggettivo della parte - manca del necessario carattere della definitività, tenuto conto che il contenuto di tale provvedimento è suscettibile di essere riesaminato nel corso dello stesso processo, attraverso il controllo sulla pronuncia resa dal (o col concorso del) iudex suspectus e l’eventuale vizio, causato dalla incompatibilità del giudice invano ricusato, è causa di nullità dell’attività da quest’ultimo spiegata e, pertanto, si converte in motivo di gravame della sentenza emessa.

5. La pronuncia di inammissibilità dell’appello ex art. 348 ter c.p.c.

Guardando agli accertamenti preliminari che il giudice dell’appello è chiamato ad effettuare, Sez. 3, n. 12887/2020, Olivieri, Rv. 658020-01, ha ritenuto che la disposizione dell’art. 348 ter, comma 1, c.p.c. deve essere interpretata nel senso che il giudice è, in ogni caso, tenuto a procedere alla preliminare verifica della corretta instaurazione del contraddittorio, perché solo in questo modo può darsi effettivo significato all’obbligo di audizione delle parti prima di dichiarare l’inammissibilità dell’appello. Pertanto, qualora dall’esame degli atti emergano vizi di invalidità della notifica dell’atto introduttivo del gravame o risulti pretermessa la notifica dell’impugnazione a taluno dei litisconsorti necessari (o delle altre parti che abbiano interesse a contraddire), il giudice è tenuto ad adottare i provvedimenti di cui all’art. 350, comma 2, c.p.c., in difetto dei quali l’ordinanza di inammissibilità, affetta da vizio di nullità processuale insanabile, è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione (nella specie, la S.C. ha cassato la decisione impugnata che, in un’azione revocatoria dell’atto di dotazione del trust, aveva dichiarato l’inammissibilità dell’appello ex art. 348 ter c.p.c., senza previamente disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti del trustee litisconsorte necessario).

Inoltre, ribadendo un orientamento condiviso, Sez. 6-3, n. 26915/2020, Porreca, Rv. 659927-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si contesti un error in iudicando contro l’ordinanza di manifesta infondatezza dell’appello ex artt. 348 ter c.p.c., per il sol fatto che essa, pur condividendo le ragioni della decisione appellata, contenga anche proprie argomentazioni, diverse da quelle prese in considerazione dal giudice di primo grado, perché tale possibilità è consentita dall’art. 348 ter, comma 4, c.p.c., che permette, in tal caso, l’impugnazione della sentenza di primo grado anche per vizi della motivazione, esclusi solo se le ragioni delle decisioni di primo e secondo grado siano identiche quanto al giudizio di fatto (conf. Sez. 1, n. 13835/2019, Falabella, Rv. 654258-01).

6. I provvedimenti in materia di famiglia e minori.

Tenuto conto del diverso orientamento di molti giudici di merito, grande rilievo assume Sez. 1, n. 08432/2020, Mercolino, Rv. 657610-01, ove la Corte di cassazione ha ritenuto ammissibile il ricorso straordinario per cassazione contro la statuizione sulle spese, adottata dalla corte d’appello in sede di reclamo avverso l’ordinanza emessa dal presidente del tribunale ai sensi dell’art. 708, comma 3, c.p.c., precisando che tale statuizione non deve essere assunta, poiché, trattandosi di provvedimento cautelare adottato in pendenza della lite, spetta al giudice del merito provvedere, anche su tali spese, con la sentenza che conclude il giudizio.

In motivazione, la Corte ha precisato che, nel procedimento di separazione personale dei coniugi, il decreto con cui la corte d’appello decide sul reclamo contro l’ordinanza presidenziale non è impugnabile con il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., nella parte che attiene ai provvedimenti temporanei ed urgenti adottati nell’interesse dei coniugi e della prole, perché tali provvedimenti, pur incidendo su posizioni di diritto soggettivo, non statuiscono in modo definitivo, ma hanno carattere interinale, provvisorio e strumentale al giudizio di merito, potendo essere sempre revocati o modificati dal giudice istruttore, ed essendo destinati a rimanere assorbiti nella decisione finale (così Sez. 1, n. 01841/2011, Forte, Rv. 616541-01; con riferimento al reclamo contro l’ordinanza adottata dal giudice istruttore, v. Sez. 6-1, n. 14141/2014, Dogliotti, Rv. 631515-01; in ordine all’impugnazione del provvedimento presidenziale in tema di divorzio, v. Sez. 6-1, n. 11788/2018, Mercolino, Rv. 649064-01).

La medesima Corte ha, tuttavia, aggiunto che la menzionata impugnazione deve essere ammessa qualora, come nel caso esaminato, abbia ad oggetto il capo della decisione, recante il regolamento delle spese processuali, il quale si configura come una statuizione riguardante posizioni giuridiche soggettive di debito e di credito che discendono da un rapporto obbligatorio autonomo, ed è idonea ad acquistare autorità di giudicato.

Con rifermento ai provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, si deve prima di tutto menzionare Sez. 6-1, n. 01668/2020, Mercolino, Rv. 656983-01, ove la S.C. ha affermato che il decreto della corte d’appello, che si pronunci sul reclamo proposto contro la statuizione del tribunale per i minorenni, è impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione, perché, al pari del provvedimento reclamato, ha carattere decisorio e definitivo, incide su diritti di natura personalissima e di primario rango costituzionale e - essendo modificabile, e revocabile, soltanto in caso di sopravvenienza di nuove circostanze di fatto - deve ritenersi idoneo ad acquistare efficacia di giudicato, sia pure rebus sic stantibus, anche quando non viene emesso a conclusione del procedimento, ma è pronunciato in via non definitiva, sempre che non sia adottato a titolo provvisorio ed urgente (principio affermato in un giudizio in cui il tribunale per i minorenni aveva sospeso l’esercizio della responsabilità genitoriale del padre e demandato al servizio sociale di individuare i tempi e le modalità di frequentazione di con il figlio, oltre che di procedere, insieme ad un centro specializzato, alla valutazione del minore unitamente al contesto familiare).

Successivamente Sez. 1, n. 28724/2020, Caradonna, Rv. 659934-01, ha ribadito che, nei procedimenti disciplinati dall’art. 336 c.c., il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. non è ammesso contro i provvedimenti adottati in via provvisoria nel corso di detti procedimenti (nella specie, il decreto con il quale i servizi sociali erano stati autorizzati a sospendere gli incontri tra genitore e figlio).

La S.C. ha, infatti, rilevato che tali provvedimenti sono privi dei caratteri della decisorietà (essendo sprovvisti, in quanto provvisori, dell’attitudine al giudicato rebus sic stantibus) ed anche della definitività (non essendo emessi a conclusione del procedimento) e sono suscettibili di essere revocati, modificati o riformati dallo stesso giudice che li ha emessi, anche in assenza dell’intervento di elementi nuovi.

In motivazione, la Corte ha richiamato la sentenza delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 32359/2018, Sambito, Rv. 651820-02), che ha affermato l’attitudine al giudicato, sia pure rebus sic stantibus dei provvedimenti de potestate, ricorribili pertanto per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., ma ha anche aggiunto che tali caratteristiche sono proprie solo dei provvedimenti assunti all’esito dei relativi procedimenti, in quanto decisori e definivi, e non anche di quelli pronunciati in via provvisoria, che non contengono un accertamento di merito sull’esistenza dei presupposti della decadenza o della limitazione della responsabilità genitoriale (cui è specificamente finalizzato il giudizio) e possono essere revocati, modificati o riformati dallo stesso giudice che li ha emessi, anche in assenza di sopravvenienze.

7. La statuizione sulla sospensiva in materia di protezione internazionale.

Nell’anno in rassegna, la S.C. ha esaminato la questione della proponibilità del ricorso straordinario per cassazione contro la decisione relativa alla richiesta di sospensione dell’esecutività del provvedimento adottato dal tribunale sulla domanda di protezione internazionale.

In particolare, Sez. 1, n. 11756/2020, Acierno, Rv. 657955-01, ha, prima di tutto affermato che, nel procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale, la Corte di cassazione non è competente a pronunciarsi sulla richiesta di sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato, poiché l’art. 35 d.lgs. n. 25 del 2008 attribuisce tale potere in via esclusiva al giudice che ha adottato detto provvedimento - come già previsto in via generale dall’art. 373, comma 1, c.p.c. - aggiungendo, poi, che davanti al giudice di legittimità non può essere impugnato il rigetto della menzionata richiesta pronunciato dal giudice di merito, trattandosi di provvedimento non definitivo a contenuto cautelare, in relazione al quale è inammissibile il ricorso straordinario ex art. 111 Cost.

Nello stesso senso ha statuito Sez. 1, n. 18801/2020, Solaini, Rv. 658814-01, ritenendo non suscettibile di ricorso straordinario per cassazione la decisione sulla richiesta di sospensione degli effetti del decreto del tribunale che si sia pronunciato sulla domanda di protezione internazionale, non trattandosi di provvedimento di natura decisoria, posto che, anche in caso di mancata sospensione degli effetti del decreto di rigetto della menzionata domanda, la sfera giuridica del richiedente non rimane compromessa in via definitiva, ma solo temporanea, potendo egli beneficiare integralmente, in caso di esito favorevole del giudizio di legittimità, dell’eventuale riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria o di quella umanitaria.

8. I provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori.

In materia di repressione della condotta antisindacale, si deve menzionare Sez. L, n. 25401/2020, Spena, Rv. 659542-01, che assume grande importanza, soprattutto per i principi generali posti a fondamento della decisione.

La S.C. ha, infatti, ritenuto che, nel caso in cui, in luogo dell’opposizione, sia proposto reclamo al collegio contro il decreto che decide sul ricorso ex art. 28 st.lav., il provvedimento collegiale che dichiari l’inammissibilità del reclamo non può essere impugnato con il ricorso per cassazione, ma deve esserlo mediante appello, giacché il criterio della prevalenza della sostanza degli atti sulla loro forma consente, nelle ipotesi in cui dalla qualificazione formalmente operata dal giudice derivi la inoppugnabilità della decisione adottata, l’esperibilità del mezzo di impugnazione corrispondente alla sostanza degli atti processuali (in applicazione del suddetto principio, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso - in cui era stato dedotto che il reclamo proposto doveva essere qualificato come opposizione - sul rilievo che il provvedimento emesso in sede di reclamo non era impugnabile ai sensi degli artt. 111 Cost. e 360 c.p.c. e che il criterio sostanzialistico comportava il diritto della parte a proporre appello, quale mezzo di impugnazione esperibile avverso la decisione resa sull’opposizione).

In motivazione, la Corte ha rilevato che in alcune pronunce di legittimità si è affermato che il criterio dell’apparenza (che tiene conto della qualificazione giuridica dell’azione effettuata dal giudice nel provvedimento impugnato, a prescindere dalla sua esattezza o dalle indicazioni della parte) è idoneo, per sua natura, a regolare la scelta del mezzo d’impugnazione tra i vari astrattamente percorribili, ma non anche a regolare la decisione sull’impugnabilità o meno del provvedimento giudiziale, che invece deve essere retta dall’opposto criterio (quello della prevalenza della sostanza degli atti processuali sulla loro forma), tenuto conto che soltanto tale criterio consente - nelle ipotesi in cui dalla qualificazione formalmente operata dal giudice derivi, come nel caso esaminato, l’inoppugnabilità della decisione adottata - di garantire alla parte il diritto di impugnazione, altrimenti pregiudicato dall’eventuale errore di qualificazione commesso dal giudice, rispettando il diritto di difesa ed i canoni del giusto processo.

Ovviamente, ha precisato la Corte, il criterio sostanzialistico non abilita la parte a proporre senz’altro ricorso per cassazione, benché il provvedimento non rientri tra quelli impugnabili, neppure ai sensi dell’art. 111 Cost., consentendo piuttosto di esperire, nonostante l’apparente inoppugnabilità del provvedimento in base alla qualificazione adottata dal giudice, il mezzo di impugnazione che corrisponde alla sostanza degli atti processuali.

9. La revoca dell’amministratore di condominio.

In questa materia, le pronunce adottate nell’anno in rassegna si pongono in linea con un orientamento oramai consolidato.

In particolare, Sez. 6-2, n. 15995/2020, Scarpa, Rv. 658464-01, ha affermato che, in tema di condominio negli edifici, non è ammesso il ricorso straordinario per cassazione contro il decreto della corte di appello che, in sede di reclamo, abbia provveduto sulla domanda di revoca dell’amministratore, al fine di proporre, sotto forma di vizi in iudicando o in procedendo, censure che rimettano in discussione la sussistenza o meno di gravi irregolarità nella gestione (nella specie, riconducibili alla mancata convocazione dell’assemblea), perché tale statuizione, adottata all’esito di un procedimento di volontaria giurisdizione, è priva di efficacia decisoria e non incide su situazioni sostanziali di diritti o status, potendo invece il decreto essere impugnato davanti al giudice di legittimità limitatamente alla statuizione sulle spese di giudizio, concernente posizioni giuridiche soggettive di debito e credito, che discendono da un autonomo rapporto obbligatorio.

Nello stesso senso v. da ultimo Sez. 6-2, n. 07623/2019, Scarpa, Rv. 653375-01.

Per quanto riguarda la statuizione sulle spese di lite, Sez. 6-2, n. 25682/2020, Scarpa, Rv. 659707-01, ha ribadito che contro il provvedimento della corte d’appello che, nel decidere sull’istanza ex art. 1129 c.c., condanni una parte al pagamento delle spese è ammissibile il ricorso per cassazione, in applicazione del criterio generale della soccombenza, il quale si riferisce ad ogni tipo di processo senza distinzioni di natura e di rito e, pertanto, anche al procedimento camerale azionato in base agli artt. 1129, comma 11, c.c. e 64 disp. att. c.c..

La pronuncia è conforme a numerosi precedenti tra cui Sez. 6-2, n. 09348/2017, Scarpa, Rv. 643815-01 e Sez. 6-2, n. 02986/2012, F. Manna, Rv. 621556-01.

Entrambi i principi sono stati affermati anche dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione.

Si deve, in particolare, menzionare Sez. U, n. 20957/2004, Napoletano, Rv. 577887-01, che ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. proposto contro il decreto con il quale la corte di appello abbia provveduto sul reclamo avverso il decreto del tribunale sulla revoca dell’amministratore di condominio, evidenziando che si tratta di provvedimento di volontaria giurisdizione (sostitutivo della volontà assembleare, per l’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela dell’interesse alla corretta gestione dell’amministrazione condominiale in ipotesi tipiche di compromissione della stessa) che, pur incidendo sul rapporto di mandato tra condomini ed amministratore, non ha carattere decisorio, non precludendo la richiesta di tutela giurisdizionale piena, in un ordinario giudizio contenzioso, del diritto su cui il provvedimento incide, anche se, per l’amministratore eventualmente revocato, la tutela non potrà mai essere in forma specifica, ma soltanto risarcitoria o per equivalente (non esistendo un suo diritto alla stabilità dell’incarico).

Nella stessa pronuncia, le Sezioni Unite hanno anche affermato l’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso la statuizione, contenuta nel provvedimento ex art. 1129 c.c., relativa alla condanna alle spese del procedimento, la quale, inerendo a posizioni giuridiche soggettive di debito e credito discendenti da un rapporto obbligatorio autonomo rispetto a quello in esito al cui esame è stata adottata, ha i connotati della decisione giurisdizionale e l’attitudine al passaggio in giudicato, indipendentemente dalle caratteristiche del provvedimento cui accede.

10. Le sentenze secondo equità del giudice di pace.

Com’è noto, l’art. 339, comma 3, c.p.c. (come sostituito dall’art. 1 d.lgs. n. 40 del 2006), stabilisce che le decisioni assunte dal giudice di pace secondo equità, ai sensi dell’art. 113, comma 2, c.p.c., sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia.

Con riguardo alla possibilità di proporre ricorso per cassazione contro tali statuizioni, Sez. 6-2, n. 10063/2020, Cosentino, Rv. 657759-01, ha ritenuto che dall’assetto scaturito dalla riforma di cui al d.lgs. n. 40 del 2006 si ricava che, riguardo alle sentenze pronunciate dal giudice di pace nell’ambito del limite della sua giurisdizione equitativa necessaria, l’appello a motivi limitati, sopra richiamato, è l’unico rimedio impugnatorio ordinario ammesso (se si esclude la revocazione per motivi ordinari).

Tale conclusione è giustificata, oltre che da ragioni di coerenza del sistema, anche dalla lettera dell’art. 360 c.p.c., che prevede la possibilità di esperire il ricorso per cassazione solo contro le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado, così escludendo le sentenze equitative del giudice di pace.

La S.C. ha così escluso la possibilità di esperire contro tali decisioni il ricorso per cassazione per il motivo di cui all’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., sulla base dell’ultimo comma del nuovo testo dello stesso articolo (che ammette il ricorso straordinario per cassazione contro le sentenze ed i provvedimenti diversi dalla sentenza per tutti i motivi indicati nell’art. 360, comma 1, c.p.c.), poiché la sentenza del giudice di pace, pronunciata nell’ambito della giurisdizione equitativa, sfugge all’applicazione dell’art. 111, comma 7, Cost., che riguarda le sentenze ed ai provvedimenti aventi natura di sentenza in senso c.d. sostanziale, per i quali non sia previsto alcun mezzo di impugnazione, e non attiene alle statuizioni nei confronti delle quali un mezzo di impugnazione vi sia (l’appello, appunto), anche se limitato a taluni motivi, e la decisione riguardo ad esso possa poi essere assoggettata a ricorso per cassazione (con adattamento dei motivi di ricorso nell’ambito di quelli devolvibili all’appello).

Sez. 6-2, n. 05991/2020, Criscuolo, Rv. 657577-01, ha poi esaminato la questione con riguardo alle decisioni equitative del giudice di pace che non sono appellabili, neppure per i limitati motivi previsti dall’art. 339, comma 3, c.p.c. (si è trattato di una pronuncia sulla richiesta di pagamento di compensi per prestazioni professionali di avvocato nei giudizi civili ex art. 14 d.lgs. n. 150 del 2011), evidenziando che, pur essendo ammissibile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., esso non può riguardare la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, poiché i motivi d’impugnazione consentiti devono attenere esclusivamente al mancato rispetto delle regole processuali, per violazione di norme costituzionali e comunitarie, in quanto di rango superiore alla legge ordinaria, ovvero per violazione dei principi informatori della materia, e per carenza assoluta o mera apparenza della motivazione o di radicale ed insanabile contraddittorietà.

11. La decisione sull’opposizione alla liquidazione dei compensi ex art. 170 d.P.R. n. 115 del 2002.

Com’è noto, l’art. 170 d.P.R. n. 115 del 2002 prevede che contro il decreto di pagamento emesso a favore dell’ausiliario del magistrato, del custode e delle imprese private a cui è affidato l’incarico di demolizione e riduzione in pristino il beneficiario e le parti processuali, compreso il pubblico ministero, possono proporre opposizione, entro venti giorni dall’avvenuta comunicazione, al Presidente dell’Ufficio giudiziario competente.

A tale mezzo d’impugnazione rinvia anche l’art. 84 d.P.R. cit., con riferimento al decreto che dispone il pagamento del compenso al difensore, all’ausiliario del magistrato e al consulente tecnico di parte, ove vi sia ammissione al patrocinio a spese dello Stato (nel processo civile, penale, amministrativo, contabile e tributario).

Il procedimento è regolato dall’art. 15 d.lgs. n. 150 del 2011, che richiama, per quanto non espressamente disciplinato, le norme sul processo ordinario di cognizione.

In proposito, Sez. 6-2, n. 18239/2020, Abete, Rv. 659218-01, ha affermato che la disciplina prevista dall’art. 170 d.P.R. cit. si applica anche al provvedimento di liquidazione del compenso in favore del curatore dell’eredità giacente - il quale, ai sensi dell’art. 3, lett. n), d.P.R. n. 115 del 2002, è un ausiliario del magistrato - aggiungendo che contro tale provvedimento, suscettibile di essere opposto, non può essere proposto il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., difettando il requisito della definitività (conf. Sez. 2, n. 10328/2009, D’Ascola, Rv. 608196 - 01).

Invece, contro la decisione adottata all’esito dell’opposizione, Sez. 6-2, n. 05990/2020, Criscuolo, Rv. 657576-01, ha ammesso il ricorso straordinario per cassazione, perché si tratta di provvedimento che incide con carattere di definitività su diritti soggettivi, non essendo altrimenti esperibile alcun altro mezzo di impugnazione, come stabilito dall’art. 14, comma 4, d.lgs. n. 150 del 2011 (sui termini per impugnare v. supra, al § 2.).

Infine, con riguardo all’impugnazione della liquidazione del compenso spettante al consulente tecnico del P.M., nominato nel corso delle indagini peritali, Sez. 6-2, n. 05996/2020, Fortunato, Rv. 657273-01, ha precisato che l’ordinanza del tribunale, resa in esito al giudizio di opposizione, è ricorribile per cassazione da parte del Pubblico Ministero, poiché quest’ultimo è litisconsorte necessario nel giudizio di opposizione ed è, dunque, legittimata ad impugnare la relativa decisione, a prescindere dal fatto che intervenga spontaneamente in quel giudizio o sia chiamata in causa per integrazione del contraddittorio.

12. La revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

Nell’anno in rassegna sono state adottate numerose pronunce sul tema della revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato e alcune di esse hanno interessato, sia pure di riflesso, la questione dell’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione.

In particolare, Sez. 1, n. 16117/2020, Acierno, Rv. 658601-01, ha affermato che il provvedimento di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, comunque pronunciato (sia con separato decreto che all’interno della statuizione che definisce il giudizio), deve essere sempre considerato autonomo rispetto alla decisione di merito e assoggettato al diverso regime di impugnazione di cui all’art. 170 d.P.R. n. 115 del 2002, precisando che contro l’ordinanza che provvede su tale impugnazione può essere proposto ricorso straordinario per cassazione, mentre è escluso che della revoca irritualmente disposta dal giudice (unitamente alla statuizione che definisce il giudizio davanti a lui) possa essere subito investita la Corte di cassazione in sede di ricorso avverso tale statuizione (nella specie, la S.C. ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per cassazione contro la revoca dell’ammissione, proposto unitamente all’impugnazione della statuizione di rigetto della domanda di protezione sussidiaria ed umanitaria).

La pronuncia si pone in linea con Sez. 1, n. 10487/2020, Liberati, Rv. 657893-01, ove la S.C. ha ritenuto che il provvedimento di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, adottato con la pronuncia che definisce il giudizio di merito, anziché con separato decreto, come previsto dall’art. 136 d.P.R. n. 115 del 2002, non comporta mutamenti nel regime impugnatorio, che resta quello, ordinario e generale, dell’opposizione ex art. 170 d.P.R. cit., dovendosi pertanto escludere che quel provvedimento sia impugnabile immediatamente con il ricorso per cassazione.

13. I provvedimenti relativi all’esecuzione forzata.

Il ricorso straordinario per cassazione è rimedio di gravame avverso le sentenze rese sulle opposizioni agli atti esecutivi, attesa la espressa non impugnabilità sancita dall’art. 618 del codice di rito.

Il differente regime di impugnazione delle sentenze sulle opposizioni all’esecuzione (ordinariamente appellabili) importa la necessità di stabilire un criterio di individuazione del gravame esperibile dalla parte.

Al riguardo, è ferma nella giurisprudenza di nomofilachia l’affermazione del principio dell’apparenza, secondo cui ai fini predetti assume esclusivo rilievo la qualificazione data dal giudice a quo all’azione proposta (così, nell’anno in rassegna, Sez. 6-3, n. 18005/2020, De Stefano, non massimata); da ciò discende che in caso di proposizione uno actu di opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. ed ai sensi dell’art. 617 c.p.c., ove siano decisi solo i motivi di opposizione agli atti esecutivi, la denunzia di omessa pronunzia sugli altri motivi, integranti opposizione all’esecuzione, va sollevata mediante appello e non già con ricorso straordinario per cassazione (Sez. 6-3, n. 03722/2020, Tatangelo, Rv. 657020-01).

La richiamata diversità tra i rimedi impugnatori delle sentenze pronunciate nelle diverse tipologie di opposizioni esecutive rende non configurabile una conversione (o translatio iudicii) in ricorso per cassazione dell’appello erroneamente spiegato avverso una sentenza emessa all’esito di una controversia ex art. 617 c.p.c., siccome strumento processuale inidoneo, anche soltanto in astratto, a configurare l’instaurazione di un regolare rapporto processuale, vieppiù tenendo conto della radicale disomogeneità strutturale del ricorso di legittimità ex art. 111, comma 7, Cost., integrante mezzo di impugnazione a critica vincolata (così Sez. 6-3, n. 05712/2020, D’Arrigo, Rv. 657298-01; conforme Sez. 6-3, n. 10419/2020, De Stefano, non massimata).

Con riferimento ai provvedimenti emessi nell’ambito della procedura esecutiva, Sez. 6-3, n. 27614/2020, Tatangelo, Rv. 660055 - 01, ha escluso, per difetto del requisito della definitività, la praticabilità del ricorso straordinario per cassazione nei confronti tanto dell’ordinanza di estinzione dell’esecuzione, nella parte recante regolamento delle spese del processo estinto (in quanto reclamabile al collegio ex art. 630 c.p.c.) quanto dei provvedimenti conseguenti all’estinzione adottati dal giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 632, secondo comma, c.p.c. (siccome suscettibili di opposizione agli atti esecutivi).

L’assenza di carattere decisorio e definitivo è ragione della inammissibilità del ricorso ex art. 111, comma 7, Cost. avverso: l’ordinanza pronunciata in sede di reclamo ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c. contro il provvedimento che decide sulla istanza di sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 624 c.p.c. (Sez. 3, n. 10817/2020, Rossetti, non massimata); l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che decide sul ricorso ex art. 591 ter avverso gli atti del professionista delegato (Sez. 6-3, n. 19124/2020, D’Arrigo, non massimata); l’ordinanza collegiale resa sul reclamo spiegato, nelle forme di cui all’art.669 terdecies c.p.c., avverso i provvedimenti del giudice dell’esecuzione ex art. 591 ter c.p.c. (Sez. 6-3, n. 15441/2020, Tatangelo, non massimata).

14. I provvedimenti nelle procedure fallimentari e concorsuali in genere.

Questioni sull’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione si pongono frequentemente nell’ambito delle varie tipologie di procedure di liquidazione concorsuale, caratterizzate da incidenti di cognizione, assai differenti tra loro, decisi con provvedimenti in forma diversa dalla sentenza.

Ben saldo appare (e la giurisprudenza dell’anno in rassegna ne costituisce ulteriore conferma) il criterio di individuazione del perimetro applicativo del rimedio ex art. 111 Cost., esperibile, secondo un principio generale oramai consolidato, avverso i provvedimenti, in qualsivoglia forma resi, per i quali non sia previsto uno specifico mezzo di impugnazione e che siano connotati dal duplice requisito della decisorietà (cioè a dire della incidenza su diritti soggettivi o su status) e della definitività (ovvero della idoneità a fornire la disciplina concreta, non più suscettibile di essere messa in discussione, della situazione controversa).

Il descritto discrimen giustifica la non esperibilità del ricorso straordinario avverso i provvedimenti aventi natura meramente ordinatoria e non decisoria.

Per questa ragione è stato negato l’impiego del ricorso diretto per cassazione contro il decreto emesso dal tribunale in sede di reclamo ex art. 26 l.fall. avverso il provvedimento reso dal giudice delegato in ordine all’impugnativa del programma di liquidazione adottato dal curatore, in quanto non incidente con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale ma avente funzione di controllo sull’esercizio del potere amministrativo del curatore, estrinsecato in un atto a valenza pianificatrice e di indirizzo (Sez. 1, n. 04346/2020, Amatore, Rv. 657080-01).

Il requisito della decisorietà (e la conseguente proponibilità del rimedio di cui all’art. 111, comma 7, Cost.) è stato invece ravvisato nel decreto del tribunale fallimentare pronunciato in sede di reclamo avverso il provvedimento del giudice delegato di autorizzazione alla vendita, ma limitatamente alle statuizioni incidenti sui diritti soggettivi di natura sostanziali e non nella parte in cui decida su questioni meramente processuali, connesse alla regolarità formale della liquidazione dell’attivo (in base a tale principio, Sez. 6-1, n. 21963/2020, Pazzi, Rv. 659006-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso il decreto che autorizzava la liquidazione di un immobile acquisito all’attivo fallimentare, dacché tale decreto, involgendo il mero controllo sul regolare svolgimento della procedura, non provvedeva direttamente sulle sorti del bene da liquidare, producendo riflessi solo indiretti sulla posizione del fallito).

Del pari denunciabili con il ricorso straordinario per cassazione sono le nullità del decreto di liquidazione del compenso al curatore fallimentare (Sez. 1, n. 03871/2020, Ferro, Rv. 657057-01) e del decreto di liquidazione del compenso al commissario giudiziale del concordato preventivo (Sez. 6-1, n. 26894/2020, Ferro, Rv. 659991 - 01) cagionate dalla mancanza di motivazione (ovvero da motivazione meramente apparente) in ordine alle opzioni discrezionali demandate dall’art. 39 l.fall. al giudice sui parametri di quantificazione applicati.

Analoghi criteri discretivi informano pronunce della S.C. circa la ricorribilità ex art. 111, comma 7, Cost. di provvedimenti adottati nel contesto di procedure di concordato preventivo.

Sul rilievo dell’assenza di decisorietà e definitività è stata esclusa l’impugnabilità con ricorso straordinario per cassazione: del decreto della Corte di appello di reiezione del reclamo avverso il provvedimento del tribunale di assegnazione del termine ex art. 161, commi 2 e 3, l.fall. per il deposito della proposta, del piano e della documentazione relativi ad un concordato c.d. in bianco, assolvendo siffatto provvedimento (privo di efficacia di giudicato) una funzione unicamente processuale, propedeutica al successivo svolgimento della procedura, con conseguente deducibilità di eventuali vizi di esso mediante l’impugnazione del provvedimento conclusivo della procedura concordataria o, in via alternativa, tramite l’impugnazione della dichiarazione di fallimento (Sez. 1, n. 25445/2020, Campese, Rv. 659735-01); del decreto del tribunale di rigetto del reclamo proposto avverso il provvedimento del giudice delegato sulla richiesta del debitore di sospensione o scioglimento di un contratto in corso, costituendo atto di esercizio del potere di amministrazione e gestione dei beni del debitore e delle funzioni di direzione della procedura concorsuale, non deputato a risolvere controversie su diritti (Sez. 1, n. 11524/2020, Fidanzia, non massimata nella parte d’interesse); del decreto del tribunale di rigetto del reclamo avverso il provvedimento del giudice delegato che abbia disatteso l’istanza di estinzione della procedura concordataria formulata dal curatore dell’eredità giacente del debitore nelle more deceduto (Sez. 1, n. 26567/2020, Vella, non massimata nella parte d’interesse).

In materia di concordato fallimentare, ad avviso di Sez. 1, n. 25316/2020, Ferro, Rv. 659732-01, il provvedimento del tribunale che in sede di reclamo confermi il decreto di rigetto della domanda di concordato emesso dal giudice delegato (esercitando il potere sostitutivo a quest’ultimo spettante rispetto al prescritto parere del comitato dei creditori) manca del carattere della decisorietà e definitività, siccome non preclusivo della riproposizione della proposta, ed è pertanto non impugnabile con ricorso straordinario per cassazione.

15. L’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge.

Finalizzato a consentire un compiuto esercizio della funzione di nomofilachia istituzionalmente riservata alla Corte di cassazione (ovvero assicurare «quale organo supremo di giustizia, l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge», come recita l’art. 65 r.d. n. 12 del 1941), il ricorso nell’interesse della legge, come concepito nell’originario dettato dell’art. 363 c.p.c., ha trovato raro impiego nei primi sessant’anni di vigenza del codice di rito.

Nell’intento di dare nuova linfa all’istituto, il d.lgs n. 40 del 2006, oltre a mutare la rubrica dell’art. 363 c.p.c. (significativamente ora intestata «principio di diritto nell’interesse della legge»), ha apportato innovazioni tutte orientate ad estendere la possibilità della Suprema Corte di pronunciarsi “nell’interesse della legge”, cioè a dire affermare, a fronte di un provvedimento di merito erroneo, il principio di diritto astrattamente applicabile alla fattispecie, ma senza cassazione del provvedimento stesso o produzione di effetti o conseguenze per le parti.

In tal senso, in primis, alla iniziativa del Procuratore generale presso la Corte (necessaria nel previgente regime) si è affiancato un potere officioso del giudice di legittimità, esercitabile in caso di inammissibilità del ricorso allorquando la questione (che avrebbe dovuto essere) decisa si profili di particolare importanza.

In secondo luogo, il ricorso del Procuratore generale è ora esperibile non solo in caso di provvedimenti passati in cosa giudicata (per omessa proposizione di ricorso nei termini di legge ad opera delle parti o per rinuncia allo stesso) ma anche «quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile», cioè a dire in ipotesi di provvedimenti privi del carattere della decisorietà e definitività, come, ad esempio, quelli di natura camerale e cautelare, al fine di permettere il sindacato di legittimità anche in relazione a statuizioni altrimenti destinate, in ragione della loro natura, a sfuggire all’indirizzo nomofilattico.

16. La richiesta del Procuratore Generale.

La richiesta di enunciazione del principio di diritto formulata dal Procuratore Generale presso la Suprema Corte - ben distinta, anche sotto l’aspetto terminologico adoperato dal legislatore, dal ricorso che lo stesso P.G. può, in qualità di parte, proporre per la cassazione di un provvedimento - ha la (unica) finalità di far correggere una erronea affermazione in iure contenuta in una pronuncia di merito, senza alcuna conseguenza o effetto sulla pronuncia stessa o sui diritti delle parti interessati dalla lite.

La sollecitazione del P.G., come acutamente precisato da Sez. U, n. 23469/2016, De Stefano, Rv. 641536-01, non configura un mezzo di impugnazione, ma l’atto di impulso di un procedimento autonomo, teso a consentire il controllo sulla corretta osservanza ed uniforme applicazione della legge, da svolgersi in assenza del contraddittorio con le parti, prive di legittimazione a partecipare al procedimento perché carenti di un interesse attuale e concreto alla decisione, non risultando inciso il provvedimento presupposto.

I requisiti cui è condizionata l’enunciazione del principio di diritto su iniziativa del P.G. sono stati così individuati (in specie, da Sez. U, n. 01946/2017, Giusti, Rv. 642009-01): nell’avvenuta pronuncia di uno specifico provvedimento non impugnato o non impugnabile; nella reputata illegittimità del provvedimento stesso, quale indefettibile momento di collegamento con una concreta e determinata fattispecie, onde evitare richieste a carattere preventivo o esplorativo; nell’interesse della legge, generale e trascendente quello delle parti, all’affermazione di un principio di diritto per la ritenuta importanza di una sua formulazione espressa.

Correlato e strumentale ad una funzione di nomofilachia nel senso più proprio ed “alto” del termine, differente dalla funzione giurisdizionale, il potere attribuito al P.G. risponde, in ultima analisi, allo scopo di permettere alla Corte di cassazione lo svolgimento del ruolo di matrice del diritto vivente anche in materie di regola sottratte al sindacato di legittimità oppure in contesti in cui si palesi la necessità di interventi nomofilattici tempestivi e solleciti, con la formazione di un precedente di legittimità su tematiche oggetto di contrasti ermeneutici nella giurisprudenza di merito, di contenziosi seriali o comunque di rilevante impatto sociale.

17. Il potere officioso della Corte.

A mente dell’art. 363, comma 3, c.p.c., ove il ricorso presentato dalle parti sia dichiarato inammissibile, la Corte, qualora ritenga la questione prospettata con lo stesso di particolare importanza, può di ufficio formulare il principio di diritto regolante la vicenda, anche in tal caso senza alcuna conseguenza o effetto sulla pronuncia stessa o sulle situazioni giuridiche delle parti coinvolte nella lite.

Siffatto discrezionale potere, esercitabile in tutte le ipotesi di inammissibilità dell’impugnazione, da qualsiasi ragione cagionata, postula unicamente la valutazione (apprezzabile sotto ogni possibile profilo) sulla “particolare importanza” della quaestio iuris involta e rappresenta manifestazione più autentica della funzione di nomofilachia, in grado di indirizzare efficacemente, con l’autorità del precedente di legittimità, le decisioni dei giudici di merito.

E di tale facoltà, nel solco della traccia segnata negli anni pregressi dagli orientamenti della terza sezione civile in materia di esecuzione forzata riconducibili al c.d. “Progetto Esecuzioni”, si sono avvalse, nell’anno in rassegna, tanto le sezioni unite quanto le sezioni semplici della Corte.

Limitando l’illustrazione alle fattispecie più significative (e, al contempo, al fine di documentare l’estesa latitudine della pratica), principi di diritto nell’interesse della legge sono stati ex officio enunciati, tra le altre, sulle questioni: della sussunzione sub specie iuris del patto di attribuzione del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” su una porzione di cortile condominiale, qualificabile, in base all’esegesi del titolo negoziale, come trasferimento del diritto di proprietà, come costituzione di un diritto reale d’uso ex art. 1021 c.c. oppure come concessione di un uso esclusivo e perpetuo di natura obbligatoria (Sez. U, n. 28972/2020, Di Marzio M., Rv. 659712-01); della immediata efficacia, ai fini della trascrizione dell’acquisto e della purgazione del bene dai relativi gravami, del decreto di trasferimento immobiliare ex art. 586 c.p.c., reso nell’espropriazione singolare e in quella concorsuale, con conseguente obbligo del Conservatore dei Registri immobiliari di procedere alla cancellazione delle formalità pregiudizievoli insistenti sul cespite indipendentemente dal decorso dei termini di proponibilità delle opposizioni agli atti esecutivi avverso siffatto decreto (Sez. U, n. 28387/2020, De Stefano, Rv. 659870-01); della improcedibilità (e non improponibilità) della domanda formulata in controversie tra utenti e organismi di telecomunicazione, in caso di mancato previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione (Sez. U, n. 08241/2020, Rubino, Rv. 657615-02); della possibilità per il cessionario di un credito di agire in via risarcitoria nei confronti del cedente, ancor prima dell’escussione del debitore garantito, quando il credito non risulti assistito dalle garanzie reali promesse, nonché della individuazione dei criteri di liquidazione del relativo danno da diminuzione del valore di circolazione del credito ceduto (Sez. 3, n. 11583/2020, D’Arrigo, Rv. 658160-01 e Rv. 658160-02); delle modalità di esecuzione del pignoramento di somme giacenti su libretto di deposito bancario vincolato all’ordine del giudice dell’esecuzione (Sez. 3, n. 08877/2020, De Stefano, Rv. 657838-01); dell’onere di rinnovazione del ricorso per dichiarazione di fallimento, gravante sul ricorrente una volta che la notificazione, a cura della cancelleria all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore sia risultata impossibile o non abbia avuto esito positivo (Sez. 1, n. 10511/2020, Di Marzio M., Rv. 657895-01); dell’applicabilità, in via analogica, dell’art. 12 l.fall. alla procedura di concordato preventivo a natura liquidatoria, qualora nel corso di essa sopravvenga la morte del debitore concordatario, con la conseguente prosecuzione della procedura nei confronti degli eredi del debitore ovvero, nel caso previsto dall’art. 528 c.c., del curatore dell’eredità giacente (Sez. 1, n. 26567/2020, Vella, Rv. 659744-01); dell’applicabilità, ancora in tema di concordato preventivo, dello scioglimento ex art. 169-bis l.fall. al contratto-quadro di anticipazione bancaria contro cessione di credito o mandato all’incasso ed annesso patto di compensazione e, per converso, dell’inapplicabilità dello stesso istituto alla singola operazione di anticipazione bancaria in conto corrente contro cessione di credito o mandato all’incasso con annesso patto di compensazione in corso al momento dell’apertura del concordato (Sez. 1, n. 11524/2020, Fidanzia, Rv. 658126-01 e Rv. 658126-02); del termine di prescrizione dell’azione intentata dal dipendente pubblico assunto a tempo determinato per il riconoscimento dello stesso trattamento retributivo previsto per i contratti a tempo indeterminato (Sez. L, n. 10219/2020, Torrice, Rv. 657720-01).

  • falsità in atti

CAPITOLO XVI

GLI ALTRI MEZZI DI IMPUGNAZIONE

(di Valeria Pirari )

Sommario

1 Premessa. - 2 Revocazione. - 2.1 Falsità delle prove. - 2.2 Errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. - 2.3 Contrasto tra sentenze. - 3 Revocazione delle pronunce della Corte di cassazione. - 4 Questioni procedimentali. - 5 L’opposizione di terzo.

1. Premessa.

Nel corso del 2020, nella produzione giurisprudenziale in materia di revocazione e opposizione di terzo, si segnalano diverse pronunce che hanno ulteriormente specificato l’ambito applicativo dei predetti istituti, chiarendone portata e limiti di ammissibilità.

2. Revocazione.

La revocazione, quale mezzo di impugnazione a carattere eccezionale e a critica vincolata, può essere ordinaria, quando riguardi vizi che possono essere rilevati sulla base della sola sentenza (ipotesi di cui ai n. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c.), ovvero straordinaria, quando gli elementi di turbativa del giudizio possano essere conosciuti anche molto tempo dopo la sentenza, sì da dover essere sottratti a limitazioni temporali (casi di cui ai n. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c.), e può aggiungersi o sovrapporsi agli ordinari strumenti di gravame allorché emergano circostanze che possono avere inciso, deviandolo, sull’esito del giudizio, il quale, senza di esse, sarebbe stato differente.

Il procedimento per revocazione, in uno con quello d’appello a motivi limitati ex art. 339, terzo comma, c.p.c., costituisce, ad avviso di Sez. 6-2, n. 10063/2020, Cosentino, Rv. 657759-01, l’unico rimedio impugnatorio ordinario ammesso avverso le sentenze pronunciate dal giudice di pace nell’ambito del limite della sua giurisdizione equitativa necessaria, stante l’assetto scaturito dalla riforma di cui al d.lgs. n. 40 del 2006. Si è ritenuto, infatti, che tale conclusione, oltre che per ragioni di coerenza, si giustifichi anche in forza dell’art. 360 c.p.c., che prevede, al primo comma, l’esperibilità del ricorso per cassazione soltanto contro le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado e non anche contro la sentenza equitativa del giudice di pace. Né, d’altro canto è ipotizzabile la configurabilità del ricorso per cassazione per il motivo di cui al n. 5 dell’art. 360, sulla base dell’ultimo comma del nuovo testo dello stesso articolo che ammette il ricorso per cassazione contro le sentenze ed i provvedimenti diversi dalla sentenza per i quali, a norma del settimo comma dell’art. 111 Cost., è ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge per tutti i motivi di cui al primo comma e, quindi, anche per quello di cui al n. 5 citato; la sentenza del giudice di pace, pronunciata nell’ambito della giurisdizione equitativa, sfugge, infatti, all’applicazione del suddetto settimo comma, che riguarda le sentenze ed ai provvedimenti aventi natura di sentenza in senso c.d. sostanziale, per cui non sia previsto alcun mezzo di impugnazione, e non riguarda i casi nei quali un mezzo di impugnazione vi sia, ma limitato a taluni motivi e la decisione riguardo ad esso possa poi essere assoggettata a ricorso per cassazione.

I motivi di revocazione sono tipizzati nell’elenco di cui all’art. 395 c.p.c. e si riferiscono al dolo di una delle parti (n. 1), alla falsità di prove acclarata e conosciuta successivamente (n. 2), all’acquisizione di documenti non prodotti per causa di forza maggiore o per fatto della controparte (n. 3), all’errore di fatto risultante dagli atti e documenti della causa in relazione ad un fatto non controverso (n. 4), alla contrarietà della sentenza ad altra precedente avente tra le parti l’autorità di cosa giudicata (5) e al dolo del giudice accertato con sentenza passata in giudicato (n. 6).

2.1. Falsità delle prove.

L’art. 395, n. 2), c.p.c., si riferisce, come si è detto, ai casi in cui il giudizio sia stato espresso sulla base di prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza (o quantomeno, riconosciute o dichiarate false anche prima della sentenza senza che però ne fosse consapevole la parte soccombente) e costituisce, perciò, uno strumento straordinario di impugnazione in quanto, diversamente, la falsità si sarebbe potuta rilevare in corso di giudizio o con l’impugnazione ordinaria.

Rientra in tale fattispecie, ad esempio, l’ipotesi in cui il giudice di merito, nel giudizio tributario, abbia posto a fondamento della decisione impugnata documenti la cui eventuale falsità sia stata definitivamente accertata. La falsità dei predetti documenti, secondo Sez. 5, n. 24846/2020, D’Orazio, Rv. 659694-01, può infatti essere fatta eventualmente valere, nelle forme e nei limiti consentiti all’ordinamento processuale generale e tributario, come motivo di revocazione della sentenza impugnata, ai sensi del combinato disposto degli artt. 64 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 395 n. 2 c.p.c., ma non anche attraverso la querela di falso, la quale può viceversa essere proposta (ed essere rilevante) nel giudizio di cassazione soltanto quando concerna documenti attinenti al relativo procedimento.

2.2. Errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa.

L’art. 395, n. 4), si riferisce ai casi in cui la sentenza sia l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa, perché fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità sia incontrastabilmente esclusa, oppure sulla supposizione di inesistenza di un fatto la cui verità sia positivamente stabilita, se detto fatto non abbia costituito un punto controverso oggetto della pronuncia.

Pertanto, nel caso in cui il giudice d’appello dichiari l’inammissibilità del gravame sull’erroneo presupposto della non corretta notifica del suo atto introduttivo, la parte, secondo Sez. 2, n. 20113/2020, Varrone, Rv. 659138-01, ha l’onere di impugnare la sentenza con la revocazione ordinaria e non col ricorso per cassazione ove l’errore dipenda da una falsa percezione della realtà ovvero da una svista obiettivamente ed immediatamente rilevabile (nella specie, l’omesso esame dell’avviso di ricevimento), la quale abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo, incontestabilmente escluso dagli atti e documenti, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo, che dagli atti o documenti stessi risulti positivamente accertato, e che in nessun modo coinvolga l’attività valutativa del giudice di situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività. Allo stesso modo, secondo Sez. L., n. 24395/2020, Cavallaro, Rv. 659540-02, il ricorso deve essere proposto per revocazione ex art. 395, primo comma, n. 4, c.p.c. e non per cassazione ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., quando l’errore sia determinato dall’inesatta percezione da parte del giudice di merito di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento, in contrasto con quanto risulta dagli atti del processo, consistendo esso in una falsa percezione della realtà o in una svista materiale che ha portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso, oppure l’inesistenza di un fatto positivamente accertato dagli atti o documenti di causa, senza che su quel fatto, non «controverso» tra le parti, il giudice abbia reso un qualsiasi giudizio.

2.3. Contrasto tra sentenze.

L’art. 395, n. 5, c.p.c., stabilisce, infine, che costituisce motivo di revocazione il fatto che la sentenza impugnata con tale mezzo sia contraria ad altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata, purché non vi sia stata pronuncia sulla relativa eccezione.

Ad avviso di Sez. 3, n. 08114/2020, Valle, Rv. 657598-01, non rientra nell’ambito applicativo della norma in esame il caso in cui, cassata la sentenza di merito di accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo e omessa la riassunzione del processo nel termine prescritto, sia stata erroneamente dichiarata l’esecutorietà del decreto ingiuntivo divenuto inefficace. In tal caso, infatti, trova applicazione non già l’art. 653 c.p.c., secondo cui, in seguito all’estinzione del processo di opposizione, il decreto che non ne sia munito acquista efficacia esecutiva, bensì il disposto dell’art. 393 c.p.c., alla stregua del quale all’omessa riassunzione consegue l’estinzione dell’intero procedimento e, quindi, anche l’inefficacia del provvedimento monitorio, sicché l’erroneità della declaratoria di esecutorietà del decreto ingiuntivo inefficace deve essere fatta valere con l’opposizione all’esecuzione e non con la revocazione ex art. 395, primo comma, n. 5, c.p.c., strumento utilizzabile quando il provvedimento revocando sia in contrasto col giudicato precedente e non con quello formatosi successivamente.

3. Revocazione delle pronunce della Corte di cassazione.

L’art. 391-bis c.p.c. ammette la correzione o la revocazione della sentenza o dell’ordinanza pronunciata dalla Corte di cassazione che sia affetta da errore materiale o di calcolo ai sensi dell’art. 287 c.p.c. ovvero da errore di fatto ai sensi dell’art. 395, n. 4, consentendo alla parte di proporre a tal fine ricorso ai sensi degli artt. 365 e ss., nel termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione o di sei mesi dalla pubblicazione del provvedimento, o alla stessa Corte di provvedervi d’ufficio in ogni tempo.

Secondo Sez. 1, n. 17179/2020, Nazzicone, Rv. 658566-01 (in senso conforme vedi anche Sez. 6-5, n. 20635/2020, Iofrida, Rv. 645048-01), la configurabilità dell’errore revocatorio presuppone un errore di fatto, il quale è ravvisabile quando la decisione sia fondata sull’affermazione di esistenza od inesistenza di un fatto che la realtà processuale induce ad escludere o ad affermare, non anche quando la decisione della Corte sia conseguenza di una pretesa errata valutazione od interpretazione delle risultanze processuali, essendo esclusa dall’area degli errori revocatori la sindacabilità di errori di giudizio formatisi sulla base di una valutazione (come in caso di giudizio espresso dalla sentenza di legittimità impugnata sulla violazione del principio di autosufficienza in ordine a uno dei motivi di ricorso, per omessa indicazione e trascrizione dei documenti non ammessi dal giudice d’appello). Né può essere oggetto di procedimento di correzione di errore materiale o di revocazione ex art. 391-bis c.p.c. , secondo Sez. 6-3, n. 24417/2020, Cirillo, Rv. 659912- 01, l’attività di specificazione o di interpretazione di una sentenza della Corte di cassazione, come nel caso in cui la parte, condannata alla rifusione delle spese processuali nei confronti di “ciascuna parte controricorrente”, chieda, mediante ricorso per correzione di errore materiale, di specificare che per “parte controricorrente” doveva intendersi ogni parte processuale, assistita dal medesimo difensore, domanda questa che è stata perciò reputata dalla Corte inammissibile.

Il termine per la proposizione del ricorso per revocazione delle sentenze della Corte di cassazione - ridotto da un anno a sei mesi, in sede di conversione del d.l. n. 168 del 2016, dalla l. n. 197 del 2016 - si applica, infine, ad avviso di Sez. U., n. 08091/2020, Scrima, Rv. 657534-01, ai soli provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore della stessa (30 ottobre 2016), in difetto di specifica disposizione transitoria e in applicazione del principio generale di cui all’art. 11 delle preleggi.

4. Questioni procedimentali.

Quanto alla procura alle liti, si osserva come per la riferibilità della stessa all’impugnazione per revocazione, secondo Sez. 5, n. 08591/2020, Fraulini, Rv. 657624-01, è sufficiente la sua apposizione a margine dell’atto, a prescindere dalle espressioni utilizzate, sicché non può dirsi inesistente quella costituita da un prototipo per il giudizio ordinario privo di riferimenti alla proposta impugnazione per revocazione. Soltanto in caso di inesistenza della procura, invero, deriva la condanna del difensore della parte al pagamento in proprio delle spese processuali, mentre in caso di sua nullità il rapporto processuale viene validamente instaurato, gravando sul giudice, qualora ne rilevi il vizio, dell’onere di ordinarne la sua rinnovazione sanante.

Nel caso in cui il giudizio di revocazione abbia ad oggetto sentenze e ordinanze emesse, in sede di impugnazione di un provvedimento della Sezione disciplinare del C.S.M., dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, poi, il relativo ricorso non può essere proposto personalmente dall’incolpato e mediante suo deposito in cancelleria, risultando invece necessarie, ad avviso di Sez. U., n. 06074/2020, Mercolino, Rv. 657219-01, sia la rappresentanza di un difensore iscritto nell’albo degli avvocati abilitati al patrocinio dinanzi alle magistrature superiori, munito di procura speciale, sia la notificazione del ricorso al Ministero della giustizia e alla Procura generale della Repubblica presso la Corte di cassazione. Si è detto infatti che, in tema di procedimento disciplinare dei magistrati, l’art. 24 del d. lgs. n. 109 del 2006, nel dichiarare applicabili, ai fini del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti della Sezione disciplinare del CSM, i termini e le forme previsti dal codice di procedura penale, si riferisce alla sola impugnazione delle decisioni adottate dalla predetta Sezione, mentre per il ricorso per revocazione, così come per quello straordinario e in generale per gli altri mezzi di impugnazione, operano le forme previste dal codice di procedura civile.

Proseguendo oltre nella disamina del procedimento per revocazione, si osserva come, con la proposizione della revocazione, non vengano sospesi in automatico i termini per presentare ricorso per cassazione o quelli riguardanti il relativo procedimento, avendo l’art. 398, quarto comma, c.p.c. attribuito al riguardo al giudice la facoltà di provvedervi, su richiesta della parte, fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla revocazione, qualora ritenga non manifestamente infondata la revocazione proposta. In questi termini si sono infatti espresse, nell’anno in rassegna, Sez. U., n. 09776/2020, Di Marzio, Rv. 657684-01, allorché, escluso ogni automatismo al riguardo, hanno reputato necessaria, ai fini della sospensione, l’adozione di un apposito provvedimento del giudice della revocazione, in mancanza del quale i due giudizi procedono in via autonoma, potendo il ricorso per cassazione essere discusso anche prima che giunga la decisione sull’istanza di sospensione. Quando il giudice accolga l’istanza di sospensione del termine per proporre ricorso per cassazione, l’effetto sospensivo (o l’eventuale sospensione del corso del giudizio di cassazione, se frattanto introdotto) si produce, ad avviso di Sez. 2, n. 18913/2020, Varrone, Rv. 659125-01 (conformemente a Sez. U., n. 21874/2019, Frasca, Rv. 655037-01) soltanto dal momento della comunicazione del relativo provvedimento, non avendo la proposizione dell’istanza alcun immediato effetto sospensivo sebbene condizionato al provvedimento positivo del giudice.

Quanto all’oggetto del procedimento per revocazione, Sez. 5, n. 19450/2020, Saija, Rv. 658872-01, pronunciandosi in relazione al giudizio tributario, ha chiarito che l’atto introduttivo con cui la parte domanda la revocazione della sentenza d’appello ricomprende anche la richiesta di pronuncia sul merito della controversia, quand’anche quest’ultima non sia formulata in modo esplicito (nella specie, la S.C. ha infatti cassato la sentenza della CTR che aveva dichiarato inammissibile il ricorso agenziale in revocazione, non contenente anche l’espressa domanda di pronuncia sul giudizio rescissorio, avendo la parte chiesto la mera revocazione - per errore di fatto - della decisione impugnata).

Se la domanda di revocazione concerne una parte autonoma della sentenza d’appello, invece, il relativo accoglimento determina, in aderenza alle regole dell’impugnazione parziale e dell’effetto espansivo interno, la rescissione di quella parte soltanto, nonché delle parti che dipendano dalla parte rescissa, mentre conservano la loro efficacia le parti autonome e indipendenti, sicché, nel giudizio di cassazione pendente su queste ultime, la pronuncia di revocazione non fa cessare la materia del contendere (in tal senso Sez. 2, n. 08773/2020, Carbone, Rv. 657697-01).

Inoltre, nella fase rescindente del giudizio di revocazione, il giudice, verificato l’errore di fatto (sostanziale o processuale) esposto ai sensi del n. 4 dell’art. 395 c.p.c., deve valutarne la decisività alla stregua del solo contenuto della sentenza impugnata, operando un ragionamento di tipo controfattuale che, sostituita mentalmente l’affermazione errata con quella esatta, provi la resistenza della decisione stessa; ove tale accertamento dia esito negativo, nel senso che la sentenza impugnata risulti, in tal modo, priva della sua base logico-giuridica, il giudice deve procedere alla fase rescissoria attraverso un rinnovato esame del merito della controversia, che tenga conto dell’effettuato emendamento (vedi Sez. 6-2, n. 08051/2020, Criscuolo, Rv. 657579-01).

5. L’opposizione di terzo.

L’art. 404, c.p.c. prevede, al primo comma, che un terzo possa fare opposizione contro la sentenza, passata in giudicato o comunque esecutiva, pronunciata tra altre persone quando questa pregiudichi i suoi diritti e, al secondo comma, che gli aventi causa e i creditori di una delle parti possano fare opposizione alla sentenza, quando sia l’effetto di dolo o collusione a loro danno. Il relativo procedimento è disciplinato dagli artt. 405 e ss. c.p.c.

Dall’accoglimento di un’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c., deriva il venir meno dell’interesse ad ottenere una decisione sul ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza annullata in quella sede, con conseguente declaratoria di inammissibilità dello stesso (in tal senso Sez. 2, n. 18130/2020, Scarpa, Rv. 658964-01).

Quanto alla legittimazione ad agire, si è detto che l’opposizione di terzo a norma dell’art. 404, primo comma, c.p.c., costituendo un’impugnazione della decisione contro la quale è proposta, comporta il litisconsorzio necessario fra tutte le parti del giudizio conclusosi con la sentenza impugnata, sicché, applicandosi all’opposizione di terzo le disposizioni generali sul luogo di notifica dell’impugnazione, non può considerarsi validamente costituito il contraddittorio quando ad una delle parti l’opposizione sia stata notificata, dopo un anno dalla pubblicazione della sentenza opposta, presso il domicilio eletto per il precedente giudizio (vedi Sez. 2, n. 26704/2020, Scarpa, Rv. 659833 - 01).

È invece privo di legittimazione ad esercitare detta azione, ad avviso di Sez. L., n. 18683/2020, Garri, Rv. 658844-01, il datore di lavoro con riguardo alla sentenza relativa alla spettanza ai lavoratori del beneficio contributivo da esposizione all’amianto, di cui all’art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992, atteso che, dall’accertamento relativo al rischio morbigeno e al suo protrarsi per un consistente periodo di tempo, non discende alcuna immediata conseguenza nei suoi confronti, né risulta pregiudicato il diritto alla tutela della sua immagine, potendone allegare in concreto il pregiudizio in altra sede, ove non è escluso che si possa procedere ad un nuovo accertamento dello stato dei luoghi.

Quanto alla competenza del giudice, Sez. 3, n. 11289/2020, D’Arrigo, Rv. 658156-01, ha distinto tra l’ipotesi in cui la sentenza impugnata davanti al giudice d’appello abbia ad oggetto un rapporto sostanziale unico, il quale non può esistere che in un solo modo rispetto a tutti i partecipanti, e quella in cui il terzo, rimasto estraneo alla lite, intenda, invece, fare valere un proprio diritto indipendente, che risulti incompatibile con quelli vantati dalle altre parti. Nel primo caso, deve essere disposta la rimessione della causa al giudice di primo grado, traendo fondamento la legittimazione dell’opponente dal fatto di essere stato un litisconsorte necessario pretermesso, mentre nel secondo caso gli accertamenti relativi alla situazione legittimante del terzo ed alla caducazione della sentenza opposta devono essere compiuti dal medesimo giudice di appello (nella specie, i ricorrenti avevano proposto la loro opposizione di terzo assumendo di essere titolari di un diritto autonomo - l’acquisto della proprietà di un bene immobile per usucapione - rispetto alla situazione giuridica accertata nella sentenza passata in giudicato - simulazione assoluta di due compravendite - e la S.C. ha giudicato corretta la scelta operata dalla Corte d’appello, che ha deciso sull’ opposizione nel merito, rigettandola, senza provvedere alla remissione della causa al giudice di primo grado).

Con riferimento all’oggetto del giudizio, Sez. 3, n. 09720/2020, Rossetti, Rv. 657769-01, ha chiarito che deve ricorrersi all’istituto in esame quando il terzo alleghi di avere maturato l’usucapione su un bene, di cui sia stata ordinata la demolizione, anteriormente alla formazione del titolo esecutivo costituito dalla pronuncia resa in un giudizio svoltosi tra altri soggetti, trattandosi di una pretesa incompatibile con la sentenza azionata, mentre deve proporsi l’opposizione all’esecuzione di cui all’art. 615 c.p.c., qualora il terzo alleghi che l’usucapione sia maturata successivamente alla formazione del titolo giudiziale e costituisca pertanto un fatto impeditivo della pretesa esecutiva. Secondo Sez. 2, n. 21851/2020, De Marzo, Rv. 659326-01, poi, i presupposti dell’usucapione possono costituire direttamente oggetto di verifica nel giudizio introdotto, ex art. 404, primo comma, c.p.c., ad opera di chi deduca che il proprio diritto, in tal modo acquistato, sia stato pregiudicato dalla sentenza resa inter alios, stante, da un lato, la natura meramente dichiarativa della sentenza che accerta l’usucapione e, dall’altro, la funzione rescindente della prima fase del giudizio di opposizione di terzo, la quale è diretta anzitutto ad accertare che la dedotta situazione legittimante sia effettivamente esistente.

L’opposizione di terzo ex art. 404, primo comma, c.p.c., non può invece esperirsi avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, in quanto detto rimedio è assorbito in quello di carattere generale previsto dall’art. 18 l.fall., proponibile oltre che dal debitore fallito anche da “qualunque interessato” (vedi Sez. 1, n. 04786/2020, Di Marzio, Rv. 657031-01).

  • competenza giurisdizionale
  • giurisdizione
  • controversia di lavoro

CAPITOLO XVII

IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE

(di Giovanni Maria Armone )

Sommario

1 La giurisdizione nelle controversie di lavoro e previdenziali. - 1.1 Giurisdizione e vicende del rapporto d’impiego pubblico. - 1.2 Pubblico impiego privatizzato e giurisdizione contabile. - 2 La competenza. - 3 Il giudizio di primo grado. La fase introduttiva. - 3.1 I poteri officiosi istruttori del giudice. - 3.2 La sentenza di primo grado. - 4 Le impugnazioni. - 5 Il procedimento ex art. 28 st.lav. - 6 Il cd. rito Fornero. - 7 Il procedimento di accertamento pregiudiziale sui contratti collettivi. - 8 Il processo previdenziale e assistenziale. - 9 L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio ex art. 445-bis c.p.c.

1. La giurisdizione nelle controversie di lavoro e previdenziali.

La materia lavoristica e previdenziale genera frequenti questioni di giurisdizione.

Nei rapporti tra giudice ordinario del lavoro e giudice amministrativo, incertezze sul riparto sono determinate dalla non completa privatizzazione del pubblico impiego, dall’assoggettamento delle controversie di natura concorsuale alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001, ma solo in presenza di determinate condizioni, dalla natura spesso ibrida degli enti-datori di lavoro.

Sul confine con la giurisdizione del giudice contabile, poi, l’attrazione esercitata dalla Corte dei conti sulle controversie pensionistiche pubbliche ex artt. 13 e 62 del r.d. n. 1214 del 1934, non sempre è intesa correttamente.

1.1. Giurisdizione e vicende del rapporto d’impiego pubblico.

A proposito delle procedure concorsuali nel pubblico impiego, la S.C. ha ribadito anche nel 2020 che sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie inerenti ad ogni fase del rapporto di lavoro, incluse quelle concernenti l’assunzione al lavoro ed il conferimento di incarichi dirigenziali, mentre la riserva in via residuale alla giurisdizione amministrativa, contenuta nel comma 4 del citato art. 63, concerne esclusivamente le procedure concorsuali strumentali alla costituzione del rapporto con la P.A., le quali possono essere anche interne, purché configurino “progressioni verticali novative” e non meramente economiche oppure comportanti, in base alla contrattazione collettiva applicabile, il conferimento di qualifiche più elevate, ma comprese nella stessa area, categoria o fascia di inquadramento.

L’occasione è stata offerta alla Corte dapprima da una controversia avente per oggetto la domanda di una dipendente volta all’annullamento, tra l’altro, del provvedimento di conferimento ad altro lavoratore di un incarico dirigenziale di natura temporanea, revocabile anche prima della scadenza prevista e non comportante una progressione verticale novativa. (Sez. U, n. 07218/2020, Torrice, Rv. 657217-01). In seguito, la giurisdizione del giudice ordinario è stata riaffermata a proposito di una procedura di mobilità esterna per passaggio diretto tra pubbliche amministrazioni, atteso che nell’ambito di essa non viene in rilievo la costituzione di un nuovo rapporto lavorativo a seguito di procedura concorsuale, ma una mera modificazione soggettiva del rapporto preesistente con il consenso di tutte le parti e, quindi, una cessione del contratto. (Sez. U, n. 16452/2020, D’Antonio, Rv. 658337-01). Infine, appartiene al giudice ordinario del lavoro la causa inerente alla determinazione con cui il direttore di un’Azienda Sanitaria Locale, per affidare l’incarico di dirigente di struttura complessa, ai sensi dell’art. 15 ter del d.lgs. n. 502 del 1992, indìca un nuovo avviso pubblico invece di procedere allo scorrimento nell’ambito della terna selezionata in esito a precedente procedura: al riguardo, Sez. U, n. 19668/2020, Torrice, Rv. 658852-01, ha osservato come si tratti di un atto adottato in base alla capacità ed ai poteri propri del datore di lavoro privato, trattandosi di scelta essenzialmente fiduciaria.

In materia di procedura di trasferimento e mobilità del personale docente, la controversia avente ad oggetto la domanda di annullamento dell’ordinanza del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca dell’8 aprile 2016, n. 241, adottata ex art. 462, comma 6, d.lgs. n. 297 del 1994, nella parte in cui non consente la valutazione del servizio pre-ruolo presso le scuole paritarie, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, in quanto l’ordinanza in questione, lungi dal dettare le linee fondamentali di organizzazione degli uffici o dal determinare le dotazioni organiche complessive, si limita alla previsione di norme di dettaglio circa i termini e le modalità di presentazione delle domande relative alle procedure di mobilità - che non possono essere ascritte alla categoria delle procedure concorsuali per l’assunzione, né equiparate all’ipotesi di passaggio da un’area funzionale ad altra - come definite dalla contrattazione collettiva integrativa nazionale, sicché il petitum sostanziale dedotto involge un atto di gestione della graduatoria, incidente in via diretta sulla posizione soggettiva dell’interessato e sul suo diritto al collocamento nella giusta posizione nell’ambito della graduatoria medesima (Sez. U, n. 04318/2020, Doronzo, Rv. 657195-01).

A proposito invece della fase di cessazione del rapporto, Sez. U, n. 23597/2020, Tricomi I., Rv. 65916401, ha affermato la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario, e non quella del giudice amministrativo, sulla controversia relativa alla domanda dell’INPS volta ad ottenere il risarcimento del danno conseguente alla mancata percezione di interessi sulle somme dovute da un dipendente pubblico per il riscatto dei periodi utili alla determinazione della indennità di buonuscita, danno che si assume derivato dalla tardiva trasmissione all’ente previdenziale, da parte della P.A. ex datrice di lavoro, della documentazione necessaria all’istruttoria della domanda di riscatto. In tal caso, infatti, secondo la prospettazione dell’attore, il danno non deriva dall’inosservanza del termine di conclusione di un procedimento amministrativo nei confronti del destinatario del provvedimento finale, con conseguente giurisdizione esclusiva del g.a. ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a), c.p.a., ma costituisce una possibile conseguenza della definizione della procedura di riscatto, coinvolgendo aspetti inerenti ai rapporti tra l’ente previdenziale e il datore di lavoro, rispetto ai quali la vicenda provvedimentale costituisce una semplice occasione, ossia un mero presupposto di fatto non controverso che fa da sfondo al “petitum” sostanziale.

In altre occasioni, le questioni di giurisdizione sorgono in ragione della natura dell’ente da cui il pubblico impiegato dipende e dell’interferenza con i criteri dettati dal codice del processo amministrativo. È infatti noto che il d.lgs. n. 165 del 2001 ha escluso dalla privatizzazione alcune categorie di lavoratori (art. 3), devolvendo le relative controversie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, incluse quelle attinenti ai diritti patrimoniali (art. 63, comma 4). L’art. 133, comma 1, lett. l), c.p.a. ha tuttavia stabilito per alcuni enti - in parte coincidenti con quelli nominativamente elencati dall’art. 3 - che la giurisdizione esclusiva comprenda tutti i provvedimenti adottati, tranne quelli concernenti i rapporti d’impiego privatizzati. Ci si è chiesti dunque se l’art. 133 abbia la capacità di derogare alle norme generali.

La risposta negativa, già fornita da Sez. U, n. 16156/2018, D’Antonio, Rv. 649309 - 01, a proposito dei dipendenti dell’AGCM, è stata ribadita da Sez. U, n. 05591/2020, Doronzo, Rv. 657204-01 per i lavoratori dell’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni (IVASS).

Benché l’IVASS sia uno degli enti espressamente menzionati dall’art. 3, il fatto che la fonte di regolamentazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti sia costituita da un atto normativo di competenza del Consiglio dell’Istituto e non già dal contratto collettivo, nonché la circostanza che esso goda di ampia autonomia dall’esecutivo non possono non riflettersi anche sul momento conformativo del rapporto di lavoro del personale. A parte i rapporti espressamente di diritto privato, la giurisdizione è dunque del giudice amministrativo.

Tali condizioni non ricorrono (Sez. U, n. 08633/2020, D’Antonio, Rv. 657632-01) per il rapporto di lavoro del personale universitario con l’azienda sanitaria, poiché l’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 517 del 1999 distingue il rapporto di lavoro dei professori e ricercatori con l’università da quello instaurato dagli stessi con l’azienda ospedaliera (anche qualora quest’ultima non si sia ancora trasformata in azienda ospedaliero-universitaria) e dispone che, sia per l’esercizio dell’attività assistenziale, sia per il rapporto con le aziende, si applichino le norme stabilite per il personale del servizio sanitario nazionale; pertanto, qualora la parte datoriale si identifichi nell’azienda sanitaria, la qualifica di professore universitario funge da mero presupposto del rapporto lavorativo e l’attività svolta si inserisce nei fini istituzionali e nell’organizzazione dell’azienda, determinandosi, perciò, l’operatività del principio generale di cui all’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 che sottopone al giudice ordinario le controversie dei dipendenti delle aziende e degli enti del servizio sanitario nazionale.

Un caso particolare è quello dei dipendenti del Corpo Forestale alle dipendenze delle Regioni. Benché resti un corpo militare, in astratto rientrante tra le categorie dell’art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001, in ambito regionale il rapporto di lavoro degli appartenenti è privatistico e dunque assoggettato alla giurisdizione del giudice ordinario (Sez. U, n. 25210/2020, Tria, Rv. 659294-01).

1.2. Pubblico impiego privatizzato e giurisdizione contabile.

In tema di rapporti con la giurisdizione contabile, va anzitutto menzionata Sez. U, n. 00415/2020, Scarano, Rv. 656660-01, con cui è stato precisato che l’azione ex art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, esercitata dal Procuratore della Corte dei conti nei confronti di dipendente della P.A. che abbia omesso di versare alla propria Amministrazione i corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato, rimane attratta alla giurisdizione del giudice contabile, anche se la percezione dei compensi si è avuta in epoca precedente all’introduzione del comma 7-bis del medesimo art. 53. Tale ultima norma non ha portata innovativa, vertendosi in ipotesi di responsabilità erariale, che il legislatore ha tipizzato non solo nella condotta, ma annettendo, altresì, valenza sanzionatoria alla predeterminazione legale del danno, al fine di tutelare la compatibilità dell’incarico extraistituzionale in termini di conflitto di interesse e il proficuo svolgimento di quello principale in termini di adeguata destinazione di energie lavorative verso il rapporto pubblico; una volta che il procuratore contabile abbia promosso l’azione di responsabilità in relazione alla tipizzata fattispecie legale, è precluso alla P.A. l’esercizio di quella volta a far valere l’inadempimento degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, dovendosi escludere - stante il divieto del bis in idem - una duplicità di azioni attivate contestualmente che, seppure con la specificità propria di ciascuna di esse, siano volte a conseguire, dinanzi al giudice munito di giurisdizione, lo stesso identico “petitum” in danno del medesimo soggetto obbligato in base ad un’unica fonte legale.

Importante è poi la puntualizzazione fornita da Sez. U, n. 12863/2020, Mancino, Rv. 658038-01, nell’ambito di una controversia promossa dal coniuge superstite di dipendente privato avente ad oggetto la domanda di ricongiunzione di periodi pregressi di contribuzione presso una gestione statale. Le Sezioni Unite hanno affermato la giurisdizione del giudice ordinario e non già quella della Corte dei conti, poiché la predetta controversia non presenta alcuna attinenza con questioni relative al mancato accredito o all’inesatta contabilizzazione di contributi previdenziali dovuti in riferimento ad un rapporto di pubblico impiego, venendo invece in rilievo il nesso inscindibile tra la sommatoria dei periodi assicurativi e la liquidazione dell’unica pensione che si pretende di commisurare al coacervo contributivo, con la conseguenza che al predetto giudice ordinario, deputato a conoscere del diritto e della misura della predetta pensione, compete anche la giurisdizione sull’eventuale sommatoria dei distinti periodi assicurativi.

Peculiare è invece la vicenda affrontata e risolta da Sez. U, n. 07830/2020, D’Antonio, Rv. 657527-01, in un caso di accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c. introdotto dal pubblico dipendente per l’accertamento delle condizioni sanitarie preordinate al riconoscimento dell’assegno di invalidità. In quanto strumentale all’adozione del provvedimento amministrativo di attribuzione della prestazione pensionistica, la domanda appartiene alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti, che ricomprende tutte le controversie funzionali e connesse al diritto alla pensione dei pubblici dipendenti.

Esula invece dalla giurisdizione contabile, secondo quanto deciso da Sez. U, n. 22807/2020, Doronzo, Rv. 659049-01, la domanda avente ad oggetto il risarcimento del danno da mancata attuazione della previdenza complementare per il personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico, riservata alla concertazione-contrattazione, ai sensi delle disposizioni degli artt. 26, comma 20, della l. n. 448 del 1998, e 3, comma 2, del d.lgs. n. 252 del 2005. Essa è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, attenendo all’inadempimento di prestazioni di contenuto strettamente inerenti al rapporto di pubblico impiego, non già a materia riguardante un trattamento pensionistico a carico dello Stato.

2. La competenza.

In tema di competenza nel processo del lavoro, una pronuncia di carattere generale è Sez. 6- L, n. 21849/2020, Ponterio, Rv. 659350-01, con cui la S.C. ha chiarito come, nel rito del lavoro, ove non è prevista un’udienza di precisazione delle conclusioni ed ogni udienza è destinata alla discussione orale e alla conseguente pronuncia della sentenza mediante lettura del dispositivo, al fine di conferire natura decisoria ai provvedimenti sulla competenza, in funzione della relativa impugnazione mediante lo strumento di cui all’art. 42 c.p.c., è sufficiente che il giudice abbia preventivamente invitato le parti alla discussione ex art. 420, comma 4, c.p.c.: è dunque inammissibile il regolamento di competenza proposto avverso una ordinanza meramente confermativa di un precedente provvedimento, con cui il giudice del lavoro aveva affermato la propria competenza funzionale sulla domanda riconvenzionale del resistente, avente già natura decisoria perché pronunciato a seguito della discussione orale preceduta dal deposito di note scritte sulla questione.

Varie sono poi le questioni che sorgono in materia di competenza territoriale.

Sez. 6-L, n. 21648/2020, De Felice, Rv. 659017-01, ha ribadito che, ai fini della individuazione del giudice territorialmente competente ai sensi dell’art. 413 c.p.c., il criterio del luogo della azienda o della dipendenza cui è addetto il lavoratore ha carattere temporaneo, sicché, in caso di cessazione o di trasferimento dell’azienda o della dipendenza, esso non opera più, salvo che la domanda venga proposta entro i successivi sei mesi. Ha invece carattere duraturo il concorrente criterio del luogo in cui il rapporto è sorto, con la conseguenza che, decorsi sei mesi dalla cessazione o dal trasferimento dell’azienda, la domanda va necessariamente proposta davanti a tale giudice, la cui competenza preclude il ricorso ai fori generali di cui all’art. 18 c.p.c., il cui utilizzo è previsto dall’art. 413, comma 4, c.p.c., soltanto in via sussidiaria.

Il termine di sei mesi previsto dall’art. 413, comma 3, entro il quale la domanda può essere proposta al giudice del luogo dove avevano sede l’azienda o dove si trovava la sua dipendenza, prima della loro cessazione o del loro trasferimento, riguarda però solo l’ultimo criterio di collegamento fissato dal comma 2, ossia quello della dipendenza cui era addetto il dipendente al momento della fine del suo rapporto lavorativo. Ne consegue (come ribadito da Sez. L, n. 27684/2020, Marchese, Rv. 660062 - 01) che, in caso di cessazione del rapporto di lavoro che si svolgeva presso una dipendenza, rimasta però operativa e non trasferita, la domanda può essere proposta al giudice del luogo dove essa si trova oltre il termine semestrale.

Una conferma del criterio della prospettazione è stata poi fornita da Sez. 6-L, n. 11023/2020, Riverso, Rv. 657997-01: la competenza territoriale ex art. 413 c.p.c. è determinata sulla base del contenuto della domanda giudiziale, senza che rilevino le deduzioni del convenuto, con la conseguenza che, laddove il lavoratore deduca l’esistenza di un pregresso rapporto di lavoro quale presupposto per il sorgere del diritto alla costituzione di un successivo rapporto, i criteri di identificazione della competenza territoriale, di cui alla norma citata, si radicano in relazione al luogo in cui il rapporto già eseguito deve continuare ad esserlo sulla base della prospettazione contenuta nella domanda, stante il collegamento funzionale sussistente tra questo e quello da costituire, a nulla rilevando l’eccezione del convenuto circa l’inesistenza di un rapporto di lavoro in atto e di una sede nel luogo in cui lo stesso deve essere ripristinato.

Nel settore previdenziale, infine, un’importante precisazione è stata data da Sez. 6-L, n. 03338/2020, Esposito L., Rv. 656782-01, secondo cui le controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie, nel cui ambito vanno ricomprese, ai sensi dell’art. 442 c.p.c., tutte quelle “derivanti dalla applicazione” di norme di natura previdenziale, sono di competenza del tribunale, in funzione di giudice del lavoro, nella cui circoscrizione ha residenza l’attore; tale previsione, di natura speciale, prevale anche sulla regola del foro erariale, applicabile nel caso di partecipazione al processo di una P.A., essendo l’ordinamento orientato verso un favor nei confronti dell’assistito connesso all’esigenza di facilitare l’accesso al giudice della parte più bisognosa di assistenza (il caso concerneva il risarcimento del danno da ritardo nella riattivazione delle provvidenze assistenziali sospese, ai sensi dell’art. 2, comma 58, della l. n. 92 del 2012).

Di carattere molto specifico è infine la fattispecie esaminata da Sez. L, n. 10988/2020, F. Amendola, Rv. 657925-01. L’art. 412-quater c.p.c. prevede che il lodo emanato a conclusione di un arbitrato irrituale sia impugnabile nelle forme e nei modi ordinari, ma in unico grado innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro, la cui sentenza è ricorribile per cassazione. Da ciò consegue l’inammissibilità dell’eventuale impugnazione in appello e, trattandosi di incompetenza per grado, la non operatività del principio in forza del quale la decadenza dalla impugnazione è impedita dalla proposizione del gravame ad un giudice incompetente.

3. Il giudizio di primo grado. La fase introduttiva.

Nel rito del lavoro, il rapido formarsi delle preclusioni assertive e istruttorie impone una delimitazione attenta delle nozioni di eccezione in senso stretto e mera difesa.

Così, l’eccezione di prescrizione costituisce eccezione in senso stretto, soggetta alla preclusione di cui all’art. 416 c.p.c., con la conseguenza che la tardività della relativa deduzione può essere rilevata dal giudice anche d’ufficio. Tuttavia, ove manchi tale rilievo officioso, la parte interessata è tenuta - in forza di quanto si evince dall’art. 161 c.p.c., per cui tutti i motivi di nullità della sentenza si convertono in motivi di impugnazione, tranne l’omessa sottoscrizione della sentenza da parte del giudice - a denunciare il vizio in sede di gravame, pena il formarsi del giudicato interno sul punto e la preclusione sia della sua rilevabilità d’ufficio da parte del giudice d’appello, sia della sua deducibilità nei successivi gradi di giudizio (Sez. 6-L, n. 17643/2020, Ponterio, Rv. 658937-01).

Anche Sez. L, n. 22984/2020, Bellè, Rv. 659058-01, si è occupata degli effetti della proposizione dell’eccezione di prescrizione, ma rispetto ai coobbligati solidali. La Corte ha ribadito l’insegnamento classico, secondo cui l’eccezione non giova agli altri coobbligati, ancorché chiamati nel medesimo processo, a meno che le cause riguardanti gli obblighi solidali, intentate unitariamente nei confronti dei coobbligati, siano tra loro ulteriormente connesse, come accade nell’ipotesi di riproposizione in sede di impugnazione di temi comuni ai predetti coobbligati o quando siano state instaurate azioni di regresso o manleva tra i convenuti, nel qual caso nella fase di impugnazione sussiste un litisconsorzio necessario cd. processuale e sorge la necessità di un’unitaria pronuncia nei confronti di tutte le parti in causa (la fattispecie riguardava il dipendente di una università distaccato presso un’azienda ospedaliera, che aveva convenuto nello stesso giudizio entrambi gli enti, chiedendone la condanna solidale al pagamento dell’indennità perequativa prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 761 del 1979; la S.C. ha negato che la domanda di manleva dell’università fosse stata ritualmente proposta e ha dunque escluso che la università stessa potesse beneficiare degli effetti dell’eccezione di prescrizione sollevata dall’azienda).

In un giudizio concernente la spettanza degli assegni familiari, si è invece affermato che la titolarità del rapporto di lavoro rappresenta un elemento costitutivo del diritto fatto valere in giudizio, rilevabile d’ufficio dal giudice, la cui contestazione da parte del convenuto integra una mera difesa, come tale non soggetta a decadenza ex art. 416, comma 2, c.p.c. (Sez. L, n. 24606/2020, Ghinoy, Rv. 659428-01).

3.1. I poteri officiosi istruttori del giudice.

L’art. 421 c.p.c. è norma che conserva portata radicalmente innovativa, ma la cui collocazione sistematica richiede alla S.C. continue precisazioni.

Resta fermo l’insegnamento risalente a Sez. U, n. 11353/2004, Vidiri, Rv. 574225-01, ripreso poi da altre pronunce successive, secondo cui nel rito del lavoro vi è la necessità di un contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti.

Si tratta di un’esigenza che trova origine nel rilievo costituzionale delle situazioni soggettive coinvolte (Sez. 6-L, n. 12573/2020, Riverso, Rv. 658466-01), ma che ha trovato importanti applicazioni anche al di fuori della materia lavoristica, nei settori cui si applica il rito del lavoro (nella materia degli incidenti stradali ex art. 3 della l. n. 102 del 2006, “ratione temporis” applicabile, v. Sez. 3, n. 17683/2020, Olivieri, Rv. 658623-01).

Sono dunque banditi inutili formalismi, con la conseguenza che, qualora nell’atto introduttivo del giudizio la parte abbia richiesto una prova testimoniale, articolando i relativi capitoli senza indicare le generalità dei testi, l’omissione non determina decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreta mera irregolarità, che, ai sensi dell’art. 421, comma 1, c.p.c., consente al giudice ad assegnare alla parte un termine perentorio per porre rimedio alla riscontrata irregolarità (Sez. 6-L, n. 12573/2020, Riverso, Rv. 658466-01).

Certo, l’art. 421 non consente surrettizie rimessioni in termini della parte decaduta (Sez. L, n. 23605/2020, Leo, Rv. 659262-01), ma i presupposti (necessari e anche sufficienti) dell’esercizio del potere-dovere istruttorio officioso, non impedito dalla maturazione di preclusioni probatorie in capo alle parti, sono solo la ricorrenza di una semiplena probatio e l’individuazione di una pista probatoria; ne consegue che, in appello, un simile spunto d’indagine ben può essere costituito dalla indicazione, in primo grado, di un teste de relato, secondo una ipotesi prevista in via generale dall’art. 257, comma 1, c.p.c. che, al ricorrere dei requisiti di cui agli artt. 421 e 437 c.p.c., resta assorbita (Sez. L, n. 26597/2020, Bellè, Rv. 659625-01).

In altre occasioni, poi, ci si colloca al di sotto della soglia dell’art. 421, non venendo in rilievo i poteri istruttori officiosi, bensì la normale dialettica processuale tra giudice e parte che ha origine nel principio di oralità del processo civile e che trova attuazione ad esempio nelle norme sull’interrogatorio libero e nel potere di direzione del processo. Pertanto, come rimarcato da Sez. L, n. 22670/2020, Spena, Rv. 659333-01, l’acquisizione di conteggi di parte ad opera del giudice (nella specie d’appello) non integra violazione delle norme sulla prova (nella specie art. 437 c.p.c.), perché attraverso detta acquisizione il giudice non dà ingresso d’ufficio a nuovi mezzi di prova, ma invita la parte a compiere un’attività contabile che ben potrebbe essere svolta dal medesimo o affidata ad un consulente tecnico d’ufficio.

3.2. La sentenza di primo grado.

Nella sezione dedicata alla fase decisoria del processo del lavoro, ci si deve occupare della questione della rivalutazione monetaria e degli interessi, attesa la scelta del legislatore del 1973 di dettare nell’art. 429, comma 3, c.p.c. la disciplina degli accessori dei crediti pecuniari del lavoratore.

È noto come, secondo un indirizzo consolidato (si veda ad es. Sez. L, n. 10236/2009, Picone, Rv. 608214-01), tale disciplina speciale si applichi a tutti i crediti di lavoro, inclusi quelli risarcitori, atteso che l’art. 429, nell›utilizzare la più ampia locuzione «crediti di lavoro», ha inteso riferirsi a tutti i crediti connessi al rapporto di lavoro e non soltanto a quelli strettamente retributivi.

Sez. L, n. 13624/2020, Blasutto, Rv. 658188-01 e 658188-02, ne ha tratta la conseguenza che anche la regola derogatoria all’art. 429 - ossia il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi, previsto dall’art. 22, comma 36, della l. n. 724 del 1994, per gli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale spettanti ai dipendenti pubblici in attività di servizio o in quiescenza - si applichi ai crediti risarcitori, nella specie derivanti da omissione contributiva.

Non vale al riguardo invocare la sentenza della Corte costituzionale n. 459 del 2000, per la quale il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi non opera per i crediti retributivi dei dipendenti privati, ancorché maturati dopo il 31 dicembre 1994. La pronuncia non può trovare applicazione per i rapporti di lavoro privatistico alle dipendenze di un’Amministrazione statale nell’ambito della sua attività istituzionale (nella specie, custode addetto a una scuola italiana all’estero, legato da un rapporto di natura privatistica con il Ministero degli affari esteri), atteso che anche per tali rapporti ricorrono le “ragioni di contenimento della spesa pubblica” che sono alla base della disciplina differenziata, secondo la ratio decidendi prospettata dal giudice delle leggi.

4. Le impugnazioni.

Le pronunce rilevanti nel 2020 in tema di impugnazioni e rito del lavoro appaiono le seguenti.

Anzitutto, vi è stata Sez. L, n. 24932/2020, Spena, Rv. 659444-01, che ha offerto un’importante puntualizzazione su una forma di notifica che, nella materia del lavoro pubblico e della previdenza, assume una certa frequenza. La S.C. ha affermato che, ove il difensore di un ente pubblico abbia eletto domicilio presso la direzione territoriale dell’ente stesso (nella specie, direzione provinciale dell’INPS), è valida la notificazione della sentenza di primo grado eseguita mediante consegna al direttore di tale articolazione, poiché, ai sensi dell’art. 141, comma 3, c.p.c., la consegna della copia dell’atto nelle mani del capo dell’ufficio presso il quale è stato eletto domicilio equivale a consegna nelle mani del destinatario.

Nel caso, non raro, in cui ci si trovi di fronte a un cd. organo-ente, ossia a un ente che, pur svolgendo funzioni strumentali al perseguimento degli interessi generali e pur inserito nell’organizzazione statale, sia dotato di autonoma personalità giuridica (nella specie, si trattava di un istituto tecnico statale), la notifica della sentenza deve essere effettuata presso l’ufficio dell’Avvocatura erariale individuato ex art. 11, comma 2, della l. n. 1611 del 1933. Lo ha affermato Sez. L, n. 27424/2020, Di Paolantonio, Rv. 659793-01, reputando irrilevante che l’ente fosse rimasto contumace nel giudizio, atteso che la domiciliazione è prevista per legge e spiega efficacia indipendentemente dalla scelta discrezionale di costituirsi o meno (la fattispecie riguardava l’idoneità della notifica presso la sede legale dell’istituto a far decorrere il termine breve per impugnare con ricorso per cassazione).

Com’è noto, la questione della improcedibilità dell’appello per mancata notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza è stata risolta da Sez. U, n. 20604/2008, Vidiri, Rv. 604555-01, in termini netti.

Sez. L, n. 27079/2020, Bellè, Rv. 659547-01, vi è tornata per chiarire che la possibilità per il giudice di assegnare un termine perentorio per provvedere alla notifica non si riapre per il fatto che la notificazione sia stata eseguita nel periodo intermedio fra la prima e la seconda udienza, cui la causa sia stata rinviata ai sensi dell’art. 348 c.p.c. per mancata comparizione delle parti; il ricorrente non può giovarsi di tale ulteriore inerzia al fine di ottenere in altro modo una rimessione in termini che l’ordinamento, in virtù di un’interpretazione costituzionalmente orientata imposta dal principio della cd. ragionevole durata del processo ex art. 111, comma 2, Cost., non consente di riconnettere ad una notificazione puramente e semplicemente omessa.

Invece, Sez. 2, n. 24034/2020, Besso Marchies, Rv. 659607- 01, ha ribadito che il termine di dieci giorni entro il quale l’appellante, ai sensi dell’art. 435, comma 2, c. p.c., deve notificare all’appellato il ricorso tempestivamente depositato in cancelleria nel termine previsto per l’impugnazione, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza di discussione, non ha carattere perentorio; la sua inosservanza non produce alcuna conseguenza pregiudizievole per la parte, perché non incide su alcun interesse di ordine pubblico processuale o su di un interesse dell’appellato, sempre che sia rispettato il termine che, in forza del medesimo art. 435, commi 3 e 4, c.p.c., deve intercorrere tra il giorno della notifica e quello dell’udienza di discussione.

Sul tema delle plurime impugnazioni nei processi plurisoggettivi, Sez. L, n. 03830/2020, Blasutto, Rv. 656926-01, ha statuito che la regola secondo la quale la prima impugnazione costituisce il processo nel quale debbono confluire le eventuali impugnazioni di altri soccombenti, sicché l’appello principale successivo ad altro appello si converte in appello incidentale, è principio generale e si estende al processo del lavoro, anche in questo rito operando la conversione dell’impugnazione, purché sia rispettato il termine per l’appello incidentale ex art. 436 c.p.c. La stessa sentenza ha precisato che resta ammissibile, peraltro, ai sensi dell’art. 334 c.p.c., l’impugnazione tardiva, anche a tutela di un interesse autonomo dell’impugnante incidentale, sempre entro il termine di cui all’art. 436 c.p.c.

Sez. L, n. 24928/2020, Cavallaro, Rv. 659268-01, ha invece riaffermato il principio per cui la domanda proposta da più lavoratori nei confronti dello stesso datore di lavoro dà luogo a un litisconsorzio facoltativo improprio, nel quale permane l’autonomia dei titoli; la sentenza finale, formalmente unica, consta in realtà di tante pronunce quante sono le cause riunite, per loro natura scindibili, con la conseguenza che l’impugnazione proposta solo da alcune delle parti non coinvolge la posizione delle parti non impugnanti e rende inapplicabile l’art. 331 c.p.c.

Sez. L, n. 10409/2020, Negri della Torre, Rv. 657870-01, si è invece dedicata al problema dell’ordinanza di inammissibilità dell’appello, ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., affermando che essa deve essere pronunciata dal giudice competente prima di procedere alla trattazione della causa, sicché la stessa, ove emessa successivamente, risultando viziata per violazione della legge processuale, è affetta da nullità. Tale principio si applica anche nel rito del lavoro - nel quale la pronuncia dell’ordinanza in questione deve collocarsi prima di ogni altra attività, immediatamente dopo la verifica della regolare costituzione delle parti nel giudizio di appello - giacché, da un lato, l’art. 436-bis c.p.c., nell’estendere all’udienza di discussione la disciplina degli artt. 348-bis e ter c.p.c., non contiene alcuna proposizione che faccia riferimento ad una misura di compatibilità di detta disciplina con i tratti peculiari del rito speciale e, dall’altro, l’udienza di discussione, pur nella sua formale unicità può scindersi in frazioni o segmenti successivi ordinatamente volti a configurare momenti distinti, ciascuno connotato da una specifica funzione processuale, con l’effetto di definire il luogo del compimento, da parte del giudice, di singole attività.

Il tema sul quale si è invece soffermata Sez. 2, n. 19571/2020, Gorjan, Rv. 659188-01, è quello della necessità, per la parte vittoriosa in prime cure, di riproporre esplicitamente in appello le questioni non esaminate dal giudice di primo grado. La S.C. ha osservato come, nel procedimento soggetto al rito del lavoro, operi la presunzione di rinuncia da parte del soggetto vittorioso in prime cure alle domande ed eccezioni non accolte, traendone la conseguenza che questi in appello deve dedurle nuovamente nella memoria di costituzione entro il termine prescritto dall’art. 436 c.p.c.

Infine, merita di essere ricordata Sez. L, n. 21889/2020, Arienzo, Rv. 659053-01, con la quale si è osservato che, nel rito del lavoro, il mancato rispetto del termine di cui all’art. 436, comma 3, seconda parte, c.p.c. da parte dell’appellante incidentale determina un vizio della vocatio in ius che, anche in ipotesi di prolungata inerzia che si sostanzi nella richiesta di avvio alla notifica del gravame incidentale dopo la scadenza del termine di legge, si traduce in nullità della notificazione, e non già in inesistenza od omissione della stessa. Pertanto, per il giudice del gravame è possibile autorizzarne la rinnovazione o concedere un differimento dell’udienza a fronte rispettivamente della richiesta dell’appellante incidentale di procedere a rinotifica dell’impugnazione o dell’istanza, da parte dell’appellante principale, di differimento dell’udienza di discussione.

5. Il procedimento ex art. 28 st.lav.

Nel corso degli anni, il contenzioso in materia di repressione delle condotte antisindacali è diminuito, ma l’art. 28 st.lav. continua a generare questioni interpretative di una certa complessità.

Si veda ad esempio il caso deciso da Sez. L, n. 25401/2020, Spena, Rv. 659542-01, in cui il decreto emesso dal giudice ai sensi del comma 1 dell’art. 28 era stato impugnato non già con l’opposizione davanti allo stesso giudice di primo grado, ai sensi del comma 3, bensì con un improprio reclamo al collegio, quasi si trattasse di un provvedimento cautelare, e in cui avverso l’ordinanza collegiale di inammissibilità era stato proposto ricorso per cassazione.

La S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso, sul rilievo che il provvedimento emesso in sede di reclamo non rientrasse tra quelli impugnabili ai sensi degli artt. 111 Cost. e 360 c.p.c. e che il criterio sostanzialistico comportasse il diritto della parte a proporre appello, quale mezzo di impugnazione esperibile avverso la decisione resa sulla opposizione: il criterio della prevalenza della sostanza degli atti sulla loro forma consente, nelle ipotesi in cui dalla qualificazione formalmente operata dal giudice derivi la inoppugnabilità della decisione adottata, l’esperibilità del mezzo di impugnazione corrispondente alla sostanza degli atti processuali.

Più classica la questione risolta da Sez. L, n. 00001/2020, Arienzo, Rv. 656650-01, in cui si discuteva della legittimazione attiva a esperire il procedimento ex art. 28, dove si fa riferimento alle “associazioni sindacali nazionali”. Per poter essere inquadrati in tale categoria, è necessario e sufficiente lo svolgimento di un’effettiva azione sindacale non su tutto, ma su gran parte del territorio nazionale, senza che sia indispensabile che l’associazione faccia parte di una confederazione, né che sia maggiormente rappresentativa o che abbia stipulato contratti collettivi a livello nazionale (è stata così confermata la decisione di merito che aveva ritenuto la legittimazione attiva dello S.L.A.I. Cobas, desumendola da una serie di elementi, quali la costituzione di comitati provinciali su circa la metà del territorio nazionale e lo svolgimento di attività di rilievo nazionale, come la presentazione del “referendum” popolare sull’art. 19 st. lav. o la richiesta di ripristino degli automatismi della contingenza).

6. Il cd. rito Fornero.

Il rito introdotto dalla l. n. 92 del 2012 continua a porre questioni interpretative, anche se le nuove pronunce di rilievo sono perlopiù destinate a fornire una specificazione di alcuni principi che possono dirsi ormai consolidati.

Così, l’affermazione per cui detto rito si applica anche alla domanda proposta nei confronti di un soggetto diverso dal formale datore di lavoro, rispetto al quale si chiede di accertare la effettiva titolarità del rapporto, era già presente nella recente giurisprudenza di legittimità. In tal senso si era espressa Sez. L, n. 29889/2019, Boghetich, Rv. 655858-01, che aveva attribuito al giudice il compito di individuare la fattispecie secondo il canone della prospettazione, con il solo limite di quelle artificiose, chiarendo che una volta azionata dal lavoratore una impugnativa di licenziamento con riconoscimento delle tutele previste dall’art. 18 della l. n. 300 del 1970, il procedimento speciale deve trovare ingresso a prescindere dalla fondatezza delle allegazioni, senza alcun effetto preclusivo in ragione della veste formale assunta dalle relazioni giuridiche tra le parti.

Nell’anno in rassegna, la Corte ha ribadito il principio in parola a proposito di una vicenda di particolare delicatezza e complessità, quella della cessione d’azienda che ha visto coinvolta la compagnia aerea di bandiera nel 2014.

Sez. L, n. 10415/2020, F. Amendola, Rv. 657871-01, ha confermato che il rito speciale è utilizzabile anche quando il lavoratore, impugnando il licenziamento, chieda di essere reintegrato presso un soggetto diverso dal datore di lavoro che lo ha adottato. L’ampiezza della formula utilizzata dall’art. 1, comma 47, della l. n. 92 del 2012 consente di far operare il rito speciale ogni qualvolta la domanda miri, secondo la prospettazione attorea non palesemente artificiosa, a ottenere una tutela rientrante nella sfera dell’art. 18 st.lav. novellato, anche quando dunque presupponga una dissociazione tra autore del licenziamento e destinatario del provvedimento di reintegrazione. Solitamente utilizzato per le ipotesi di dedotta interposizione fittizia, questo allargamento vale a fortiori per le ipotesi di cessione d’azienda, in cui la dissociazione dipende non da frodi realizzate in sede di costruzione del rapporto di lavoro, ma da illegittimità connesse a un trasferimento che di per sé rimane valido. A ben vedere, l’impugnativa di licenziamento e l’azione di tutela conseguente, reale o indennitaria poco importa, sono domande diverse, solitamente indirizzate nei confronti dello stesso soggetto; qualora però questa coincidenza non vi sia, le due domande restano tra loro connesse e sono fondate sugli identici fatti costitutivi del rapporto di lavoro e del licenziamento, con conseguente piena applicabilità dell’art. 1, comma 48, terzo periodo.

Analogamente, nel ribadire - sulla scia di Sez. L, n. 0945/2019, Leone, Rv. 653605-01 e di altre precedenti - che il giudizio di primo grado di tale rito è unico a composizione bifasica, con una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore, e una seconda fase a cognizione piena che della precedente costituisce prosecuzione, la S.C. ne ha tratto conseguenze in più direzioni: Sez. L, n. 14976/2020, Negri della Torre, Rv. 658191-01, ha precisato che l’attività istruttoria svolta in entrambe le fasi del giudizio di primo grado va valutata unitariamente, senza che si possano scindere per fasi gli adempimenti richiesti alle parti in tema di formazione della prova, sicché nel giudizio di opposizione la parte conserva integra ogni opzione istruttoria, a prescindere dalle scelte processuali in precedenza operate; Sez. L, n. 02364/2020, F. Amendola, Rv. 656695-01, ha statuito che l’unico rimedio esperibile avverso il provvedimento conclusivo della fase sommaria, anche quando in mero rito, è il ricorso in opposizione previsto dall’art. 1, comma 51, della l. n. 92 del 2012, e non il reclamo che, ove proposto, va dichiarato inammissibile.

Sempre sul versante delle impugnazioni del rito Fornero, Sez. L, n. 15412/2020, Cinque, Rv. 658491-01, ha avuto cura di chiarire che il reclamo previsto dall’art. 1, comma 57, della l. n. 92 del 2012 è nella sostanza un appello, con la conseguenza che, per tutti i profili non regolati da disposizioni specifiche, si applicano le norme sull’appello del rito del lavoro, che realizza il ragionevole equilibrio tra celerità e affidabilità; in particolare, a) la disciplina dell’atto introduttivo è quella dell’art. 434 c.p.c.; b) il reclamante ha l’onere, a pena di decadenza, di riprodurre le domande non accolte o rimaste assorbite nella sentenza di primo grado, in assenza di specifiche disposizioni in contrasto con l’art. 346 c.p.c.; c) il giudice del gravame può conoscere della controversia dibattuta in primo grado solo attraverso l’esame delle specifiche censure mosse dal reclamante, la cui formulazione consuma il diritto di impugnazione.

In termini generali, vi è poi Sez. L, n. 06754/2020, Raimondi, Rv. 657434-01, per la quale la violazione della disciplina relativa all’introduzione della causa mediante il rito c.d. Fornero può essere dedotta come motivo di impugnazione solo se la parte indichi il concreto pregiudizio alle prerogative processuali derivatole dalla mancata adozione del predetto rito, con conseguente interesse alla relativa rimozione, non potendosi ravvisarsi tale pregiudizio nella privazione di “una fase processuale”, considerato che il rito ordinario (nella specie seguito) rappresenta la massima espansione della cognizione integrale, idonea a consentire il migliore esercizio del diritto di difesa.

7. Il procedimento di accertamento pregiudiziale sui contratti collettivi.

Gli artt. 420-bis c.p.c. e 64 del d.lgs. n. 165 del 2001 contemplano uno speciale procedimento volto all’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, la validità e l’interpretazione dei contratti collettivi, rispettivamente nel settore privato e in quello del pubblico impiego.

Non utilizzato con frequenza, nel corso dell’anno in rassegna il procedimento ha dato luogo a un’importante pronuncia, Sez. L, n. 29455/2020, Bellè, Rv. 660027 - 01, relativa all’interpretazione del c.c.n.l. comparto scuola del 4 agosto 2011.

Per il versante processuale, che qui interessa, la sentenza ha affermato due importanti principi.

Il primo è che rispetto al ricorso immediato per cassazione previsto dall’art. 64, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, non opera il limite stabilito dall’art. 360, comma 3, c.p.c., secondo cui non sono impugnabili con ricorso per cassazione le sentenze che decidono su questioni, senza definire il giudizio. La S.C. lascia intendere che la parola “questione” è utilizzata in due diverse accezioni nelle due disposizioni, ma che, anche se non fosse così, il ricorso immediato costituirebbe comunque una deroga espressamente definita dalla legge, dunque ammissibile. A riprova, la sentenza cita l’indirizzo giurisprudenziale che considera inammissibile il ricorso immediato contro una sentenza che abbia deciso la questione pregiudiziale sui contratti collettivi unitamente al merito.

Con il secondo principio la Cassazione ha dato risposta a un interrogativo circa il significato della locuzione “non impugnabile”, contenuta nel comma 1 dell’art. 64 e riferita all’ordinanza con cui il giudice di merito fissa l’udienza di discussione, segnalando alle parti la questione da dibattere.

L’inimpugnabilità di quest’ordinanza impedisce alla Cassazione di valutare la pertinenza di quanto oggetto del giudizio rispetto alle fattispecie per le quali è consentito il ricorso allo speciale procedimento di cui all’art. 64?

La risposta negativa data dalla sentenza si basa sull’efficacia rafforzata che la decisione della Corte ha non solo sul giudizio a quo, ma anche sui giudizi futuri, ai sensi del comma 7 dell’art. 64. Se infatti la Cassazione, adita con il ricorso per saltum, fosse vincolata a quanto statuito con l’ordinanza di fissazione dell’udienza e dovesse esprimersi sulla questione pregiudiziale prospettata anche qualora ritenesse che essa esuli dal perimetro tracciato dall’art. 64, si attribuirebbe di fatto al giudice di merito il potere di estendere la suddetta efficacia rafforzata (che non costituisce un vincolo, ma comunque un forte indirizzo) a ipotesi non previste dalla legge.

Pertanto, la non impugnabilità deve intendersi limitata al subprocedimento interno al giudizio davanti al tribunale e non impedisce alla Corte di cassazione di esercitare anche un controllo di legittimità sulla riconducibilità della questione decisa alla fattispecie astratta (nella specie, la sentenza n. 29455/2020 ha ritenuto che la questione decisa dal Tribunale di Torino, riguardante la nullità di una clausola del c.c.n.l., non attenesse a una semplice nullità di diritto interno, come tale accertabile con il procedimento speciale dell’art. 64, ma ponesse un problema di potenziale contrasto della clausola con il diritto eurounitario, con la mediazione della norma nazionale, ove interpretata restrittivamente).

8. Il processo previdenziale e assistenziale.

Le pronunce di maggior rilievo in questa materia sono state quelle in cui la S.C. ha portato a compimento la propria giurisprudenza sulla partecipazione dell’ente previdenziale al processo instaurato dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro per omissioni contributive.

Per lungo tempo, la Corte si era orientata nel senso che la domanda di condanna al pagamento dei contributi, proposta dal lavoratore senza il coinvolgimento dell’ente, dovesse essere dichiarata semplicemente inammissibile, attesa l’impossibilità di pronunciare una domanda a favore di un terzo estraneo al giudizio (da ultimo v. Sez. 6-L, n. 14853/2019, De Felice, Rv. 654024-01).

Nel 2020, la strada non è più apparsa percorribile alla Cassazione, che ha affermato il litisconsorzio necessario con l’ente previdenziale anche nelle azioni ordinarie di regolarizzazione contributiva.

L’indirizzo è stato inaugurato da Sez. L, n. 08956/2020, Cavallaro, Rv. 657651-02, nell’ipotesi più settoriale delle controversie promosse dai dipendenti delle aziende di credito, volte ad ottenere la condanna del datore di lavoro al versamento al Fondo di solidarietà per il sostegno al reddito, istituito presso l’INPS, per essere poi esteso da Sez. L, n. 17320/2020, Calafiore, Rv. 658831-01 alle controversie più frequenti tra lavoratore e datore di lavoro in cui l’ente previdenziale da coinvolgere è direttamente l’INPS.

Due le fondamentali ragioni del nuovo corso: da un lato, occorreva rendere omogenea la fattispecie in questione (riconducibile all’azione risarcitoria ex art. 2116, 2° comma, c.c.) rispetto a quella in cui il lavoratore agisca per la costituzione della rendita vitalizia ex art. 13, 5º comma, l. 12 agosto 1962 n. 1338, fattispecie quest’ultima in cui il litisconsorzio era stato affermato come necessario già da Sez. U, n. 03678/2009, Balletti, Rv. 607443-01; dall’altro lato, vi era la necessità di dare seguito alla ricorrente affermazione della giurisprudenza, secondo la quale il litisconsorzio necessario “ricorre, oltre che per motivi processuali e nei casi espressamente previsti dalla legge, quando la situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in giudizio debba essere necessariamente decisa in maniera unitaria nei confronti di ogni soggetto che ne sia partecipe, onde non privare la decisione dell’utilità connessa con l’esperimento dell’azione proposta” (da ultimo v. Sez. 3, n. 03692/2020, Guizzi, Rv. 656899-01).

Quest’ultima ratio, strettamente legata al principio di effettività della tutela giurisdizionale e del giudicato, non poteva non essere applicata all’azione del lavoratore, che si trova alle prese con un inadempimento che proviene sì dalla sua controparte datoriale, ma la cui sanzione richiede comunque la partecipazione dell’ente pubblico previdenziale, notoriamente poco reattivo. Le altre soluzioni ipotizzate o praticate - inammissibilità della domanda o pronuncia di mero accertamento - non appaiono infatti in grado di garantirlo adeguatamente. L’inammissibilità costringe il lavoratore a ripartire da zero, la sentenza di accertamento gli consegna un titolo esecutivo non spendibile.

Su un tema ben più specifico, ma comunque in linea con l’orientamento appena sintetizzato, si è espressa Sez. L, n. 21299/2020, Cinque, Rv. 658989-01.

Nella controversia instaurata dal lavoratore per ottenere, per effetto dell’applicazione dei benefici combattentistici, il riconoscimento di un aumento fittizio di anzianità contributiva, sia al fine del compimento dell’anzianità necessaria per conseguire il diritto a pensione, sia ai fini della quantificazione della pensione stessa, il contraddittore principale è l’ente previdenziale, ma il datore di lavoro è parte necessaria del giudizio stesso in quanto è interessato a contrastare la suddetta pretesa, essendo tenuto a versare all’ente previdenziale il “corrispettivo in valore capitale dei benefici” in argomento.

Non vi è invece litisconsorzio necessario nel giudizio relativo al debito contributivo dell’impresa coltivatrice diretta, determinato in relazione al lavoro dei familiari del titolare, tra quest’ultimo ed i predetti familiari, atteso che l’obbligo contributivo nei confronti dell’istituto previdenziale grava sul titolare dell’impresa e non sui lavoranti nella stessa (Sez. L, n. 19983/2020, Buffa, Rv. 658847-01).

Sempre in tema di legittimazione alla partecipazione al processo previdenziale, ma al di fuori del litisconsorzio necessario, si colloca il problema dell’opposizione ordinaria di terzo, proposta dal datore di lavoro avverso la sentenza relativa alla spettanza ai lavoratori del beneficio contributivo da esposizione all’amianto, di cui all’art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992: Sez. L, n. 18683/2020, Garri, Rv. 658844-01, ha negato la legittimazione, atteso che dall’accertamento relativo al rischio morbigeno, ed al suo protrarsi per un consistente periodo di tempo, non discende alcuna immediata conseguenza nei suoi confronti, né risulta pregiudicato il diritto alla tutela della sua immagine, potendone allegare in concreto il pregiudizio in altra sede, ove non è escluso che si possa procedere ad un nuovo accertamento dello stato dei luoghi.

Sulla decadenza per la l’impugnazione di provvedimenti amministrativi in materia di invalidità civile, ai sensi dell’art. 42, comma 3, del d.l. n. 269 del 2003, importanti precisazioni sono state fornite da Sez. L, n. 26845/2020, Cavallaro, Rv. 659633-01 e 02: il termine di decadenza opera sia con riguardo all’ipotesi in cui il diniego in sede amministrativa dipenda da ragioni sanitarie, sia quando il rigetto dipenda da ragioni diverse, sempre che il provvedimento sia esplicito e venga comunicato all’interessato; lo stesso termine non opera invece quando si intenda contestare il provvedimento con cui, a seguito della revoca di un beneficio assistenziale, sia comunicata all’interessato la sussistenza di un indebito, dal momento che l’eventuale indebito trova una disciplina autonoma nel sistema normativo della ripetizione in materia assistenziale e che, in ogni caso, le norme sulla decadenza sono di stretta interpretazione e insuscettibili di applicazione analogica.

In tema di decadenza, ma relativa alla domanda volta a ottenere l’indennizzo previsto dalla l. n. 210 del 1992 in favore dei danneggiati da emotrasfusioni, Sez. L, n. 29453/2020, Bellè, Rv. 660065 - 01, ha ribadito che il termine decadenziale decorre dal momento in cui, secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica e con l’ordinaria diligenza, l’emotrasfuso acquisisca la consapevolezza del nesso tra l’emotrasfusione e la patologia contratta.

Merita poi di essere rammentata Sez. L, n. 16676/2020, Calafiore, Rv. 658638-01, con cui la S.C. ha affermato un principio destinato a produrre rilevanti effetti sui giudizi di merito. Interrogata sulla portata dell’esenzione dal pagamento delle spese del giudizio ex art. 152 disp. att. c.p.c., la Cassazione ha affermato che - data l’eccezionalità dell’istituto e dunque la non estendibilità ai casi non espressamente indicati - l’esenzione opera in relazione ai giudizi promossi per il conseguimento di prestazioni previdenziali o assistenziali in cui il diritto alla prestazione sia l’oggetto diretto della domanda introdotta in giudizio e non solo la conseguenza indiretta ed eventuale di un diverso accertamento (nella specie, si trattava di una domanda volta ad ottenere la condanna dell’istituto previdenziale alla reiscrizione della parte ricorrente negli elenchi dei lavoratori agricoli).

Sul tema dell’infermità da causa di servizio, va segnalata anzitutto Sez. L, n. 28408/2020, Marotta, Rv. 659957-01: la questione era se, per un’infermità accertata e liquidata prima dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 461 del 2001, una domanda di aggravamento proposta in epoca successiva al citato d.P.R. dovesse essere valutata con i vecchi o con i nuovi criteri; la S.C. ha respinto il ricorso dell’ente previdenziale, affermando che il procedimento per l’aggravamento dell’equo indennizzo costituisce una fase di un procedimento unitario e che dunque devono trovare applicazione le regole vigenti al momento della domanda iniziale.

Il rapporto tra la domanda avente per oggetto la dipendenza dell’infermità da causa di servizio e quella volta all’accertamento dello status di soggetto equiparato alle vittime del dovere, ai sensi dell’art. 1, comma 564, della l. n. 266 del 2005, è stata invece indagata da Sez. 6-L, n. 28696/2020, Ponterio, Rv. 659882-01: la Corte ha negato che tra le due domande vi sia un nesso di pregiudizialità logico-giuridica, atteso che la seconda è ancorata a presupposti costitutivi diversi dalla prima, rappresentati dall’aver contratto l’infermità in particolari condizioni ambientali od operative, a seguito dell’esposizione a un rischio eccedente quello che caratterizza le ordinarie modalità di svolgimento dei compiti di istituto; pertanto, non vi sono le condizioni per la sospensione facoltativa del giudizio ex art. 337, comma 2, c.p.c.

9. L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio ex art. 445-bis c.p.c.

A distanza di nove anni dall’inizio della sua operatività, il procedimento di accertamento tecnico preventivo obbligatorio ha ormai acquisito una fisionomia ben definita.

Nel corso dell’anno in rassegna, le pronunce d’interesse sembrano così essersi limitate o a ribadire orientamenti consolidati in chiave deflattiva o a prendere posizione su questioni processuali particolari.

Al primo filone appartiene Sez. 6-L, n. 02587/2020, Doronzo, Rv. 656753-01, che ha ribadito che l’ammissibilità dell’accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c. presuppone, come proiezione dell’interesse ad agire ai sensi dell’art. 100 c.p.c., che l’accertamento medico-legale, richiesto in vista di una prestazione previdenziale o assistenziale, risponda ad una concreta utilità per il ricorrente - la quale potrebbe difettare ove siano manifestamente carenti, con valutazione prima facie, altri presupposti della predetta prestazione -, al fine di evitare il rischio della proliferazione smodata del contenzioso sull’accertamento del requisito sanitario. Questo non vuol dire però che l’accertamento con cui si conclude il procedimento ex art. 445-bis riguardi il diritto alla prestazione: come chiarito da Sez. L, n. 17787/2020, Mancino, 658546 - 01, la pronuncia ha per oggetto l’accertamento del requisito sanitario e, dunque, solo un elemento della fattispecie costitutiva, di talché quanto in essa deciso non può contenere un’efficace declaratoria sul diritto alla prestazione, essendo essa destinata a sopravvenire solo in esito ad accertamenti relativi agli ulteriori requisiti socio-economici.

Del secondo tipo appare invece Sez. L, n. 24134/2020, Calafiore, Rv. 659266-01, con cui la Cassazione ha ricordato che, qualora sia proposta una domanda volta a ottenere una delle prestazioni indicate dall’art. 445-bis, comma 1, c.p.c., senza che il previo esperimento dell’accertamento tecnico preventivo obbligatorio, il giudice, davanti al quale sia tempestivamente sollevata l’eccezione di improcedibilità, è tenuto ad assegnare alle parti il termine di quindici giorni per la sua presentazione, previsto dal comma 2 dello stesso art. 445-bis; è invece nulla, poiché determina un concreto impedimento all’accesso alla tutela giurisdizionale della parte istante, l’ordinanza con cui il giudice dichiari il ricorso immediatamente improcedibile. Da parte sua, il giudice d’appello è tenuto, in una simile ipotesi e in ossequio al principio di cui all’art. 162 c.p.c., a rinnovare l’atto procedendo esso stesso all’assegnazione del termine, non potendo né limitarsi a una pronuncia di mero rito dichiarativa della nullità, né rimettere la causa al primo giudice.

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CAPITOLO XVIII

IL PROCESSO DI ESECUZIONE

(di Raffaele Rossi )

Sommario

1 Condizioni dell’azione esecutiva. - 2 Titolo esecutivo. - 3 Precetto. - 4 Intervento dei creditori. - 5 Espropriazione mobiliare ed espropriazione presso terzi: ambiti applicativi. - 6 Espropriazione di crediti presso terzi: oggetto, soggetti, effetti. - 6.1 (segue) Ordinanza di assegnazione. - 7 Espropriazione immobiliare. - 7.1 (segue) Gli esiti della fase liquidativa. - 8 Espropriazione di beni indivisi: giudizio di divisione. - 9 Espropriazione contro il terzo proprietario. - 10 Opposizioni esecutive: profili comuni. - 11 Opposizione all’esecuzione. - 12 Opposizione agli atti esecutivi. - 13 Opposizione di terzo all’esecuzione. - 14 Controversie in sede di distribuzione del ricavato. - 15 Stabilità degli effetti dell’esecuzione forzata. - 16 Estinzione dell’esecuzione.

1. Condizioni dell’azione esecutiva.

Secondo l’impostazione tradizionalmente accolta, condizione necessaria e sufficiente dell’azione esecutiva è l’esistenza di un titolo esecutivo, valido ed efficace, che incorpori un diritto certo, liquido ed esigibile: lo scopo dell’esecuzione forzata è la realizzazione di tale diritto mediante l’utilizzo degli opportuni strumenti coercitivi, esulando dai compiti del giudice dell’esecuzione ogni attività di accertamento della sussistenza dell’obbligazione di cui si invoca l’attuazione.

Ma il processo esecutivo, in tutte le sue diversificate tipologie, è anche una forma di attività giurisdizionale, come tale permeata dai (anzi, soggiacente ai) principi di grado sovraordinato che conformano ogni controversia: la correttezza e la buona fede quale regola di condotta delle parti, il giusto processo, la durata ragionevole dei giudizi.

Sono questi, al fondo, i prodromi argomentativi che hanno condotto il giudice della nomofilachia a negare l’esperibilità della tutela esecutiva se volta a soddisfare bisogni o conseguire beni giuridicamente irrilevanti, attribuendo all’interesse ad agire valenza di condizione dell’azione esecutiva esterna ed autonoma (abbisognevole cioè di verifica in concreto) e non già elemento implicito nel titolo esecutivo, in re ipsa ravvisabile per il solo fatto della sussistenza di un titolo, valido ed efficace, e di un diritto di credito non ancora estinto.

Principio ribadito, nell’anno in rassegna, da Sez. 3, n. 24691/2020, De Stefano, Rv. 659765-01: qualora il credito, di natura esclusivamente patrimoniale, sia di entità economica oggettivamente minima, difetta, ex art. 100 c.p.c., l’interesse a promuovere l’espropriazione forzata, dovendo la tutela del diritto di azione assicurata dall’art. 24 Cost. essere contemperata, per esplicita od anche implicita disposizione di legge, con le regole di correttezza e buona fede, nonché con i principi del giusto processo e della durata ragionevole dei giudizi ex art. 111 Cost. e art. 6 CEDU.

Il principio, costituzionalmente garantito, del giusto processo e l’imprescindibile osservanza degli obblighi di buona fede e correttezza giustificano pure una limitazione al possibile esercizio dell’azione esecutiva qualora l’iniziativa del creditore configuri un abuso dello strumento processuale: tanto si verifica quando, indiscussa l’astratta legittimità del cumulo dei mezzi di espropriazione, il creditore intraprenda una seconda azione esecutiva nei confronti del medesimo debitore ed in virtù dello stesso titolo, pur avendo già conseguito un provvedimento satisfattivo della propria pretesa.

Per contro, come chiarito da Sez. 6-3, n. 08151/2020, D’Arrigo, Rv. 657581-01, non viola gli obblighi di correttezza e buona fede e non contravviene al divieto di abuso degli strumenti processuali il creditore di due o più debitori solidali che, in forza del medesimo titolo, promuova un’azione esecutiva nei confronti di uno di essi dopo aver ottenuto, nei confronti di un altro condebitore, un’ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c., fintanto che quest’ultima non sia adempiuta dal terzo pignorato sino all’integrale concorrenza del credito azionato, fermo restando il divieto - la cui inosservanza va eventualmente dedotta con opposizione esecutiva - di conseguire importi superiori all’ammontare del credito.

2. Titolo esecutivo.

Compete al giudice dell’esecuzione verificare se l’intrapresa esecuzione forzata sia fondata su un provvedimento giudiziale o su un atto stragiudiziale sussumibile nel catalogo, tassativo e tipico, dei titoli esecutivi delineato dall’art. 474 c.p.c. e da altre specifiche disposizioni di legge (c.d. extravagantes).

Quanto ai titoli di formazione stragiudiziale, l’indagine del giudice sull’idoneità esecutiva concerne (non soltanto la forma ma innanzitutto) il contenuto del documento: così, al fine di accertare se un contratto di mutuo possa essere utilizzato quale titolo esecutivo, occorre verificare, attraverso la sua interpretazione integrata con quanto previsto nell’atto di erogazione e quietanza o di quietanza a saldo ove esistente, se esso contenga pattuizioni volte a trasmettere con immediatezza la disponibilità giuridica della somma mutuata, e che entrambi gli atti, di mutuo ed erogazione, rispettino i requisiti di forma imposti dalla legge (Sez. 3, n. 06174/2020, Porreca, Rv. 657110-01).

Circa i titoli di matrice giudiziale, l’elaborazione pretoria ha chiarito che per le sentenze la qualità di titolo esecutivo postula il carattere condannatorio della pronuncia: pertanto, la sentenza di mero accertamento di una servitù o della sua inesistenza non costituisce, in difetto di statuizioni di condanna, titolo esecutivo per richiedere al giudice dell’esecuzione misure idonee a far cessare impedimenti, turbative o molestie (Sez. 6-3, n. 09637/2020, D’Arrigo, Rv. 657741-01).

Ancora con riferimento ai titoli giudiziali, l’individuazione del provvedimento idoneo alla coattiva realizzazione del dictum deve essere compiuta in consonanza con i principi che governano il sistema delle impugnazioni: in primo luogo, con l’effetto sostitutivo proprio di alcuni rimedi impugnatori.

È questa la ragione per cui, cassata con rinvio la sentenza di appello di annullamento della sentenza di condanna resa in primo grado, la qualità di titolo esecutivo va attribuita alla sentenza pronunziata in sede di rinvio e non a quella di prime cure, privata di efficacia a seguito dell’annullamento intervenuto in appello; tuttavia, poiché il titolo esecutivo giudiziale non si identifica né si esaurisce nel documento giudiziario, è ammissibile il richiamo espresso della sentenza emessa dal giudice di appello in sede di rinvio alla condanna operata in primo grado, anche se contenuta in una pronuncia dichiarata nulla con l’impugnazione (Sez. L, n. 26935/2020, Ponterio, Rv. 659822-01).

É infatti devoluta al giudice dell’esecuzione (o, in caso di opposizione ex art. 615 c.p.c., a quello dell’opposizione) l’attività di interpretazione del titolo esecutivo giudiziale, onde determinarne l’esatta portata precettiva sulla scorta della lettura congiunta del dispositivo e della motivazione.

Ove il contenuto del titolo si presenti obiettivamente incerto o ambiguo è altresì consentita una interpretazione extratestuale, operata cioè mediante ricorso agli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato ed a condizione di non sovrapporre una diversa valutazione in fatto o in diritto a quella svolta dal giudice di merito (Sez. 3, n. 10806/2020, D’Arrigo, Rv. 658033-02); il contrasto del tenore del titolo rispetto ad elementi extratestuali oggettivamente discordanti non è però suscettibile di soluzione o composizione in sede esecutiva, potendo invece essere eventualmente emendato, secondo i rispettivi presupposti e limiti temporali, con il procedimento di correzione dallo stesso giudice che ha emesso il provvedimento o con l’impugnazione per revocazione (Sez. L, n. 05049/2020, Bellé, Rv. 656939-01).

Resta in ogni caso preclusa al giudice dell’esecuzione (e al giudice dell’opposizione all’esecuzione) qualsiasi integrazione o correzione del titolo esecutivo, per essere quest’ultimo di necessità e per principio autosufficiente, cioè a dire ex se bastevole a definire il bene giuridico da conseguire o l’obbligo da realizzare in via forzata, senza necessità di ulteriori attività di accertamento cognitivo.

Spettando al giudice dell’esecuzione l’attuazione del comando contenuto nel titolo esecutivo, senza poteri di cognizione sulla fattispecie sostanziale concreta, qualora il provvedimento giudiziale azionato in executivis ometta di indicare la specie degli interessi accordati sul capitale, limitandosi ad una generica qualificazione degli stessi in termini di «interessi legali» o «di legge», devono ritenersi liquidati soltanto gli interessi di cui all’art. 1284 c.c., in ragione della portata generale di questa disposizione, rispetto alla quale le altre ipotesi previste da norme di legge hanno natura speciale (Sez. 3, n. 08128/2020, Tatangelo, non massimata).

3. Precetto.

Ai requisiti di contenuto-forma del precetto previsti, in linea generale e sotto comminatoria di nullità dell’atto, dall’art. 480 c.p.c. (tra i quali la data di notifica dell’ingiunzione), l’art. 654, secondo comma, c.p.c. aggiunge, in caso di intimazione formulata in virtù di decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo, un ulteriore elemento, e cioè la «menzione del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e dell’apposizione della formula», in funzione sostitutiva della (quindi con dispensa per il creditore dalla) notificazione del provvedimento monitorio spedito in forma esecutiva.

Lungi dal costituire manifestazione di sterile formalismo, siffatte prescrizioni vanno riguardate, come precisato da Sez. 3, n. 01928/2020, Rossetti, Rv. 656889-01, quale espressione della funzione dell’atto: consentire all’intimato l’individuazione inequivoca del titolo azionato e dell’obbligazione da adempiere. Da ciò consegue che l’omissione di uno o più degli elencati requisiti (nel caso esaminato dalla S.C., la mancata indicazione della data di notifica del decreto ingiuntivo) non cagiona la dichiarazione di nullità del precetto qualora, facendo applicazione della regola generale sancita dall’art. 156, terzo comma, c.p.c., sia egualmente raggiunto lo scopo dell’atto, e cioè il debitore sia stato messo in condizione di conoscere con esattezza chi sia il creditore, quale sia il credito che si chiede di soddisfare e quale il titolo che lo sorregge.

4. Intervento dei creditori.

Modo di declinazione dell’azione esecutiva, alternativo rispetto al pignoramento, è l’intervento del creditore nella procedura esecutiva (dallo stesso o da altro creditore) intrapresa in danno di un soggetto suo debitore.

In quanto recante istanza di partecipazione alla distribuzione del ricavato dell’espropriazione, l’intervento (che si compie con il deposito di un ricorso) è equiparabile alla «domanda proposta nel corso di un giudizio» idonea, a mente dell’art. 2943, secondo comma, c.c., ad interrompere la prescrizione dal giorno del deposito del ricorso ed a sospenderne il corso sino all’approvazione del progetto di distribuzione del ricavato della vendita (Sez. 3, n. 14602/2020, Porreca, Rv. 658323-01).

L’intervento di creditori assume rilievo pure nel subprocedimento di conversione del pignoramento introdotto dal debitore.

Più specificamente, nella determinazione delle somme da versare ai fini della liberazione dei beni staggiti dal vincolo espropriativo, occorre tener conto anche dei creditori intervenuti successivamente all’istanza di conversione del debitore e fino all’udienza nella quale il giudice provvede (ovvero si riserva di provvedere) sulla medesima con l’ordinanza di cui dell’art. 495, terzo comma, c.p.c.; tali interventi, peraltro, non incidono ex post sull’entità dell’importo che deve accompagnare l’istanza di conversione (a pena di inammissibilità della stessa), importo che va rapportato all’ammontare dei crediti insinuati nell’espropriazione all’epoca di presentazione dell’istanza (Sez. 6-3, n. 00411/2020, D’Arrigo, Rv. 656553-01).

Benché svolto con identiche modalità, radicalmente differente dall’intervento in esame è la domanda di sostituzione esecutiva disciplinata dall’art. 511 c.p.c. (usualmente denominato intervento in sostituzione), con la quale il creditore istante non fa valere una pretesa nei confronti dell’esecutato bensì nei confronti di altro creditore, pignorante o intervenuto.

Le caratteristiche dell’istituto sono state compiutamente tracciate da Sez. 6-3, n. 26054/2020, De Stefano, Rv. 659907-01.

Premesso che la domanda di sostituzione esecutiva ex art. 511 c.p.c. realizza il subingresso di uno o più creditori del creditore dell’esecutato nella sua posizione processuale e nel diritto al riparto della somma ricavata dall’esecuzione, con funzione esclusivamente satisfattiva e con facoltà surrogatorie del creditore subcollocato circoscritte al mero esercizio della c.d. azione distributiva, si è esclusa la titolarità in capo al creditore subcollocato di poteri di impulso della procedura contro il debitore originario, sicché la domanda di sostituzione non impedisce che alla rinuncia all’esecuzione formulata dal creditore sostituito consegua l’effetto tipico della estinzione del processo esecutivo.

5. Espropriazione mobiliare ed espropriazione presso terzi: ambiti applicativi.

La parziale sovrapponibilità dell’oggetto del pignoramento mobiliare e del pignoramento presso terzi, positivamente individuato (nell’ordine, dagli artt. 513 e 543 del codice di rito) nelle «cose del debitore» (ovvero, più precisamente, nei beni mobili di proprietà del debitore) ha reso in alcune ipotesi non agevole l’individuazione delle corrette modalità con cui svolgere l’azione esecutiva.

Del problema, con riferimento alle fattispecie di più frequente verificazione, si è fatto carico il giudice della nomofilachia con alcune pronunce dell’anno in rassegna.

Nel descritto contesto si colloca, in primo luogo, Sez. 6-3, n. 20338/2020, Tatangelo, Rv. 659253-01, chiara nell’affermare che il pignoramento di un diritto di credito, incorporato in un titolo di credito emesso da un terzo (nella specie, effetti cambiari), va effettuato, giusta l’art. 1997 c.c., nelle forme del pignoramento diretto a carico del debitore in possesso del titolo. Qualora erroneamente compiuto nei modi dell’espropriazione di crediti presso terzi, il terzo pignorato, debitore cartolare, è portatore di un interesse (derivante dalla congiunta soggezione del non dover disporre della somma oggetto del credito portato dal titolo al rischio di vedersi chiedere il pagamento da chi del titolo sia in possesso) a dolersi dell’illegittimità formale del pignoramento: siffatta contestazione va sollevata con il mezzo dell’opposizione agli atti esecutivi ed è invece preclusa nell’ambito del subprocedimento di accertamento dell’obbligo del terzo, non profilandosi il rischio del doppio pagamento per il terzo pignorato, avendo in tale evenienza il processo esecutivo ad oggetto il rapporto causale sottostante, non quello cambiario.

Nonostante l’apparente analogia con i titoli di credito, ben diversa è la modalità di aggressione esecutiva delle somme giacenti su libretto di deposito bancario vincolato all’ordine del giudice dell’esecuzione (nonché, per identità di funzione, sul libretto di deposito postale c.d. giudiziario, tuttora regolato dal r.d. n. 149 del 1910).

Costituendo il libretto di deposito un mero documento di legittimazione alla richiesta di pagamento ed alla riscossione, il pignoramento non investe il corpus mechanicum che dà prova dell’avvenuto deposito del contante bensì il credito del debitore esecutato nei confronti dell’amministrazione emittente e depositaria (titolare della proprietà degli importi per effetto del deposito e tenuta alla relativa restituzione), sicchè esso va eseguito nelle forme dell’espropriazione presso terzi ex art. 543 c.p.c. (Sez. 3, n. 08877/2020, De Stefano, Rv. 657838-01).

Con l’ulteriore precisazione, operata dal medesimo arresto (Sez. 3, n. 08877/2020, De Stefano, Rv. 657838-02), che nella procedura espropriativa di somme giacenti su libretto di deposito vincolato all’ordine del giudice in tal guisa esperita il terzo pignorato deve identificarsi, in via esclusiva, nel «soggetto presso il quale è stato acceso tale libretto mediante deposito delle dette somme, unico debitore della loro restituzione, benché all’ordine del giudice del processo nel cui corso o al cui fine il deposito ha avuto luogo, il quale è il solo a poterne disporre, mentre titolare del diritto alla restituzione, sia pure dietro il citato ordine, resta colui che ne ha effettuato il deposito, fino a differente provvedimento di quello stesso giudice», da ciò infine derivando «la radicale illegittimità del pignoramento presso terzi nei confronti dell’ufficio giudiziario ove è custodito il libretto in questione o all’ordine del quale può disporsi degli importi giacenti, non potendo esso qualificarsi debitore né del documento in sé né dei menzionati importi».

Tra le cose appartenenti al debitore che si trovano nella disponibilità di un terzo, da sottoporre a vincolo espropriativo alla stregua della sequenza procedimentale disegnata dagli artt. 543 e seguenti del codice di rito, rientrano anche i titoli obbligazionari affidati ad un terzo, dei quali pertanto il giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 552 c.p.c., è tenuto a disporre la vendita ex artt. 529 e ss. c.p.c., a prescindere dalla loro agevole liquidabilità, salva la possibilità per il terzo, a cui favore i titoli siano costituti in pegno, di far valere il proprio privilegio sul ricavato dalla vendita (Sez. 3, n. 09872/2020, D’Arrigo, Rv. 657718-01).

6. Espropriazione di crediti presso terzi: oggetto, soggetti, effetti.

Nella procedura di espropriazione di crediti presso terzi la soddisfazione dei crediti azionati avviene, di solito, attraverso una modalità peculiare, diversa dalle altre tipologie espropriative: non già con l’attribuzione del ricavato della vendita forzata del bene staggito o con l’assegnazione di una res determinata, bensì con il trasferimento al creditore agente della titolarità del credito (che costituisce l’oggetto del pignoramento) vantato dal debitore esecutato nei confronti del terzo pignorato.

L’esatta entità del credito staggito nell’espropriazione presso terzi è determinata dalla legge (precisamente, dall’art. 546, primo comma, c.p.c.) in misura corrispondente all’importo del credito precettato aumentato della metà, con la conseguenza che, in difetto di rituale estensione del pignoramento, il successivo intervento in procedura di un creditore (quand’anche lo stesso procedente) non consente il superamento di detto limite e, quindi, l’assegnazione di crediti in misura maggiore (Sez. 6-3, n. 09054/2020, Tatangelo, Rv. 657740-01).

Imprescindibile in siffatta espropriazione, siccome momento perfezionativo del pignoramento, fattispecie a formazione progressiva, è la verifica dell’esistenza (e dell’entità) del credito staggito, realizzabile, con efficacia endoprocedimentale, attraverso tre possibili (tra di loro alternative) sequenze: mediante la dichiarazione di quantità resa dal terzo pignorato nella veste di ausiliario dell’ufficio esecutivo; per effetto della fictio iuris di non contestazione integrata dalla duplice e qualificata mancata cooperazione del terzo; all’esito del subprocedimento incidentale, a carattere contenzioso, di accertamento dell’obbligo del terzo.

Centrale, in detto contesto, la posizione del terzo pignorato.

In funzione di ausiliario del giudice dell’esecuzione, egli ben può emendare (e finanche revocare) la dichiarazione di quantità resa con altra corretta, ma soltanto se l’errore sia a lui non imputabile (o comunque scusabile) e a condizione che ciò avvenga entro l’udienza finalizzata all’emissione dell’ordinanza di assegnazione; la (così) tempestiva emenda (sub specie di revoca o mera rettifica) della dichiarazione costituisce presupposto necessario perché il terzo possa esperire opposizione agli atti esecutivi avverso l’ordinanza di assegnazione del credito pronunciata dal giudice dell’esecuzione nonostante o in difformità della dichiarazione di quantità corretta (Sez. 6-3, n. 18109/2020, Tatangelo, Rv. 658767-01).

Ancora in funzione ausiliaria dell’ufficio esecutivo, il terzo è assoggettato, dal momento e per effetto della notifica dell’atto di pignoramento, agli obblighi di custodia del bene staggito, sicché, a pena di inefficacia nei confronti del ceto creditorio, gli è inibito il compimento di atti che comportino l’estinzione del credito (quale il pagamento) o che attengano al trasferimento del credito ad altri soggetti (quale l’accettazione della cessione).

La premessa assiologica sorregge le conclusioni cui la S.C è pervenuta in alcune pronunce meritevoli di segnalazione.

In ordine all’anteriorità di atti estintivi del credito pignorato, Sez. 3, n. 14599/2020, D’Arrigo, Rv. 658332-01 (decidendo su un’espropriazione promossa da un condomino pignorando i crediti vantati dal debitore esecutato nei confronti del proprio condominio), ha chiarito che la quietanza di pagamento priva di data certa anteriore al pignoramento è, a mente dell’art. 2704 c.c., inopponibile al creditore procedente (dacché terzo estraneo al rapporto da cui origina l’oggetto del pignoramento); in ogni caso, detta quietanza, ove opponibile al creditore procedente, non gode del valore probatorio privilegiato di cui all’art. 2702 c.c. ma ha natura di prova atipica con efficacia indiziaria, liberamente contestabile dal creditore stesso.

Quanto alla partecipazione del terzo in eventuali parentesi oppositive da altri promosse, elemento discretivo è l’interesse del terzo alla decisione, sussistente in relazione alle vicende processuali che, concernendo la legittimità o la validità del pignoramento, possano comportare la sua liberazione da tale vincolo.

In applicazione del criterio ora enunciato, è stata riconosciuta al terzo pignorato la qualità di litisconsorte necessario (con necessità, in caso di mancata evocazione in lite, di ordine officioso di integrazione del contraddittorio) nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi promosso dal creditore pignorante avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione dichiarativa dell’inefficacia dell’eseguito pignoramento (Sez. 3, n. 03899/2020, Tatangelo, Rv. 656901-01) e nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi avverso l’ordinanza di assegnazione dei crediti, ravvisandosi un interesse giuridicamente rilevante all’accertamento della misura dell’assegnazione (Sez. 3, n. 10813/2020, Porreca, Rv. 657920-01).

Le facoltà e gli oneri del terzo pignorato sono stati altresì vagliati da Sez. 3, n. 14597/2020, D’Arrigo, Rv. 658320-01 con riferimento ad una vicenda (del tutto singolare) di pignoramento avente ad oggetto un credito già in precedenza azionato in sede esecutiva. In tale evenienza, la S.C. ha affermato che, a seconda dei tempi delle due procedure, il terzo può proporre opposizione ex art. 615 c.p.c. avverso l’espropriazione intentata ai suoi danni, al fine di dedurre il definitivo venir meno della titolarità del credito in capo al proprio creditore, ma solo se sia stata già pronunciata l’ordinanza di assegnazione implicante la sostituzione del proprio creditore con i creditori che quel credito hanno pignorato, oppure ha l’onere di dichiarare quella circostanza, ai sensi dell’art. 547 c.p.c., nella procedura di espropriazione presso terzi, rimanendo altrimenti esposto al rischio di restare obbligato sia nei confronti del proprio creditore originario sia del creditor creditoris; quest’ultimo, a sua volta, apprendendo notizia dell’azione esecutiva promossa dal suo debitore, può sostituirsi ad esso in forza dell’ordinanza di assegnazione del credito oppure mediante istanza di sostituzione ai sensi dell’art. 511 c.p.c..

Con riguardo all’incidente endoesecutivo di accertamento dell’obbligo del terzo, come disegnato dagli artt. 548 e 549 c.p.c. nella versione novellata dalle riforme degli anni 2012 e 2014, Sez. 3, n. 26185/2020, Porreca, Rv. 659590-01 ha ritenuto il debitore esecutato litisconsorte necessario, in quanto interessato all’accertamento del rapporto di credito oggetto di pignoramento (benché la pronuncia non faccia stato nei suoi confronti), precisando, tuttavia, che l’esigenza di tutelare l’integrità del contraddittorio si avverte solamente nell’eventuale opposizione agli atti esecutivi avverso l’ordinanza che decide sull’accertamento, atteso che nella fase sommaria il debitore esecutato già partecipa al processo di espropriazione.

Delle incidenze degli atti dell’espropriazione presso terzi sul corso della prescrizione dei diritti sostanziali nella stessa coinvolti si è occupata Sez. 3, n. 06170/2020, Tatangelo, Rv. 657153-01, 657153-02 e 657153-03, con una compiuta ricostruzione in chiave sistematica, i cui principi di diritto hanno richiesto l’elaborazione delle massime contrassegnate dai numeri ora trascritti.

L’articolato ragionamento muove dalla considerazione che l’atto di pignoramento di crediti presso terzi costituisce esercizio in giudizio del diritto di credito, quello contemplato dal titolo esecutivo, fatto valere dal creditore procedente nei confronti del debitore esecutato: in relazione ad esso opera, ai sensi del secondo e del terzo comma dell’art. 2945 c.c., l’effetto interruttivo istantaneo e, se del caso, anche quello permanente della prescrizione conseguente all’azione giudiziale, a seconda degli esiti del procedimento esecutivo.

Quanto sopra non esclude che i singoli atti della procedura siano altresì idonei a spiegare effetti interruttivi della prescrizione del diritto di credito spettante al debitore verso il terzo, che della procedura rappresenta l’oggetto.

In primis, effetto interruttivo istantaneo della prescrizione del credito pignorato va attribuita, ai sensi dell’art. 2943, ultimo comma, c.c., alla notificazione al terzo dell’atto di pignoramento ex art. 543 c.p.c., «quale atto di esercizio del diritto stesso, sul piano sostanziale, effettuato dal creditore procedente in surroga del debitore esecutato»; del pari, la prescrizione deve considerarsi (nuovamente) interrotta, sempre con effetti interruttivi istantanei, dalla dichiarazione di quantità positiva resa dal terzo pignorato, equiparabile ad «un sostanziale atto di riconoscimento del proprio debito da parte del terzo» e dall’accertamento giudiziale dell’obbligo del terzo, ma non invece dalla ordinanza di assegnazione del credito pignorato, siccome non integrante un provvedimento di accertamento di siffatto credito.

Ancora con riferimento al credito pignorato, infine, il termine di prescrizione di esso non decorre, ai sensi dell’art. 2935 c.c., nel periodo compreso tra la notifica dell’atto di pignoramento presso terzi e la dichiarazione di quantità positiva del terzo (o l’accertamento giudiziale del suo obbligo) e tra quest’ultimo evento e l’assegnazione, atteso che il diritto non può essere fatto valere né dal creditore procedente, né dal debitore esecutato; la prescrizione riprende il suo corso dal momento in cui il diritto di credito può essere esercitato dal creditore assegnatario e, cioè, di regola, dalla pronuncia dell’ordinanza di assegnazione (se emessa in udienza) ovvero dal suo deposito (se resa fuori udienza).

6.1. (segue) Ordinanza di assegnazione.

Atto conclusivo del procedimento di espropriazione presso terzi è l’ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c., determinante il trasferimento (rectius, la cessione coattiva) del credito pignorato dal debitore esecutato al creditore procedente, ovvero la modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio dal lato attivo, mutando, con la sostituzione dell’assegnatario all’originario creditore, il soggetto nei cui confronti il debitore è tenuto all’adempimento.

Se la definizione della procedura coincide con la pronuncia di detta ordinanza, dal punto di vista sostanziale, invece, ai sensi dell’art. 2928 c.c., il diritto dell’assegnatario verso il debitore si estingue soltanto con la effettiva riscossione del credito assegnato, operando il descritto trasferimento con efficacia pro solvendo.

Sulla base di queste argomentazioni (e valorizzando la natura di atto esterno all’espropriazione del pagamento effettuato dal terzo pignorato), Sez. 3, n. 10820/2020, Rossetti, Rv. 657965-01 ha ritenuto che la dichiarazione di fallimento del debitore esecutato emessa successivamente alla pronuncia dell’ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c. e nelle more del giudizio di opposizione agli atti esecutivi contro di essa proposto dal terzo pignorato, non comporti né la caducazione dell’ordinanza di assegnazione, né la cessazione ipso iure della materia del contendere nella controversia oppositiva, non spettando al giudice di questa stabilire se gli eventuali pagamenti compiuti dal terzo pignorato in esecuzione dell’ordinanza di assegnazione siano o meno efficaci, ai sensi dell’art. 44 l.fall., in considerazione del momento in cui vennero effettuati.

L’ordinanza di assegnazione ha efficacia di titolo esecutivo a favore del creditore assegnatario e nei confronti del terzo pignorato.

Quando siffatto provvedimento contenga l’espresso addebito al debitore esecutato - oltre che dei crediti azionati in executivis e delle spese di procedura - del costo di registrazione dell’ordinanza, il relativo importo deve essere annoverato tra le spese di esecuzione liquidate in favore del creditore, sicché esso può essere preteso in sede di escussione del terzo, ma nei limiti della capienza del credito assegnato, in forza dell’art. 95 c.p.c. (norma secondo cui la liquidazione delle spese operata dal giudice dell’esecuzione ha mera efficacia strumentale alla distribuzione, per cui dette spese, se e nella misura in cui restino insoddisfatte, sono irripetibili dal creditore: Sez. 6-3, n. 01004/2020, Tatangelo, Rv. 657012-02).

Di conseguenza, sussiste difetto di interesse del creditore procedente ad ottenere un ulteriore titolo esecutivo da far valere contro il suo originario debitore per la ripetizione delle spese di registrazione dell’ordinanza (così Sez. 6-3, n. 15447/2020, Porreca, Rv. 658506-01 e Sez. 6-3, n. 03720/2020, Tatangelo, Rv. 657019-01); e ciò anche qualora al momento della richiesta di pagamento al terzo debitor debitoris le spese di registrazione non fossero state pretese o riscosse per non aver all’epoca ancora registrato l’ordinanza (e quindi anticipato il relativo esborso): trattandosi infatti di importo rientrante in quello oggetto di assegnazione ai sensi dell’art. 553 c.p.c., la pretesa può essere avanzata dal creditore anche successivamente, in sede esecutiva e direttamente verso il terzo (Sez. 6-3, n. 01004/2020, Tatangelo, Rv. 657012-01).

7. Espropriazione immobiliare.

Il pignoramento avente ad oggetto un diritto reale su un bene immobile si definisce come una fattispecie complessa a formazione progressiva che contempla, quali elementi strutturali, le attività, differenti per funzioni ma tra di loro complementari, della notificazione dell’atto al debitore esecutato e della sua trascrizione nei registri immobiliari, quest’ultima condizione di efficacia nei confronti dei terzi (preordinata alla opponibilità ad essi della vendita o dell’assegnazione) ma anche presupposto imprescindibile per la messa in vendita del bene.

Invalidità del pignoramento possono scaturire dalla erronea indicazione nell’atto degli elementi identificativi del cespite staggito: in tal caso, tuttavia, come precisato da Sez. 6-3, n. 19123/2020, D’Arrigo, Rv. 658885-01, si configura nullità soltanto quando l’inesatta menzione (relativa, nel caso, al dato catastale della particella) generi incertezza assoluta in ordine alla concreta identificazione del bene pignorato.

Fatti salvi andamenti peculiari determinanti un diverso esito (ad esempio, la conversione del pignoramento), il momento centrale della espropriazione forzata immobiliare è rappresentato dalla fase liquidativa, ovvero la trasformazione del bene staggito in denaro da distribuire al ceto creditorio per soddisfare le pretese azionate.

La vendita forzata dell’immobile pignorato (tanto nella espropriazione forzata codistica quanto nella riscossione coattiva a mezzo ruolo regolata dal d.P.R. n. 602 del 1973) non ha natura negoziale, ma è e resta attività che si svolge nell’ambito di un processo e sotto la direzione di un giudice, sicché né il creditore (nella procedura ordinaria) né l’agente della riscossione (nella speciale procedura di cui al d.P.R. n. 602 del 1973) assumono obbligazioni dirette, di natura contrattuale o precontrattuale, nei confronti dell’aggiudicatario; con la ulteriore conseguenza che, in ipotesi di mancato trasferimento del bene aggiudicato, non è configurabile una loro responsabilità contrattuale ex artt. 1218 e ss. c.c. o precontrattuale ex artt. 1337 e 1338 c.c., fermo restando il dovere di neminen laedere sancito dall’art. 2043 c.c. e sanzionato con la risarcibilità dell’interesse negativo - e non di quello contrattuale positivo - in relazione all’acquisto del bene aggiudicato (Sez. 3, n. 17814/2020, Tatangelo, Rv. 658690-01).

Inquadrata sistematicamente la vendita forzata come un trasferimento coattivo che partecipa della natura pubblicistica del procedimento in cui si inserisce, ogni questione relativa alla validità ed efficacia della vendita forzata (e della correlata aggiudicazione) deve essere fatta valere, tanto dalle parti dell’espropriazione quanto dall’aggiudicatario, nell’ambito del procedura stessa e attraverso i rimedi impugnatori ad essa connaturali (principalmente, mediante l’opposizione agli atti esecutivi).

L’ora illustrato principio generale fonda l’inammissibilità:

- di un’autonoma azione di ripetizione - anche soltanto parziale - del prezzo di aggiudicazione nei confronti dei creditori che abbiano partecipato al riparto o del debitore al quale sia stato attribuito il residuo (Sez. 3, n. 22854/2020, Tatangelo, Rv. 659410-01, in relazione ad un caso di discrepanza tra la superficie reale dell’immobile venduto e quella indicata nella perizia di stima prodromica alla vendita);

- di un’opposizione all’esecuzione per rilascio intrapresa in forza di decreto di trasferimento e volta a dedurre vizi della procedura espropriativa immobiliare (Sez. 3, n. 12920/2020, D’Arrigo, Rv. 658178-02).

Scopo della fase liquidativa è quello di pervenire alla vendita dell’immobile pignorato ad un prezzo “giusto”: tale è il significato del disposto dell’art. 586, primo comma, c.p.c., laddove conferisce al giudice dell’esecuzione un potere discrezionale, alternativo rispetto all’emissione del decreto di trasferimento, di sospendere la vendita «quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto».

A delimitare la portata operativa dell’istituto ha provveduto, dando continuità a precedenti arresti nomofilattici (in particolare, Sez. 3, n. 18451/2015, Frasca, Rv. 636807-01), Sez. 3, n. 11116/2020, De Stefano, Rv. 658146-03.

Essendo legittima la reiterazione degli esperimenti di vendita pure con successivi ribassi del prezzo base e senza ricorso all’amministrazione giudiziaria, non integra un prezzo ingiusto di aggiudicazione, idoneo a giustificare la sospensione prevista dall’art. 586 c.p.c., quello che sia anche sensibilmente inferiore al valore posto originariamente a base della vendita, ove questa abbia avuto luogo in corretta applicazione delle norme di rito, né si deducano gli specifici elementi perturbatori del corretto funzionamento dei meccanismi processuali deputati alla determinazione del prezzo (fatti nuovi successivi all’aggiudicazione; interferenze illecite di natura criminale che abbiano influenzato il procedimento, ivi compresa la stima stessa; determinazione del prezzo fissato nella stima quale frutto di dolo scoperto dopo l’aggiudicazione; fatti o elementi conosciuti da una sola delle parti prima dell’aggiudicazione, non conosciuti né conoscibili dalle altre parti prima di essa, purché costoro li facciano propri), elementi perturbatori tra i quali non si possono annoverare l’andamento o le crisi, sia pure di particolare gravità, del mercato immobiliare.

7.1. (segue) Gli esiti della fase liquidativa.

Atto conclusivo del subprocedimento di vendita è il decreto di trasferimento ex art. 586 c.p.c., munito altresì di una duplice valenza sostanziale, siccome produttivo dell’effetto traslativo del diritto staggito in favore dell’acquirente e dell’effetto (usualmente chiamato purgativo) di estinguere pesi e gravami insistenti sull’immobile (pignoramenti, ipoteche, privilegi, sequestri conservativi).

Sulla immediata trascrivibilità del decreto di trasferimento (sia nelle procedure di espropriazione individuale che in quelle concorsuali) con cancellazione delle formalità pregiudizievoli gravanti sul bene si è espressa, risolvendo questione di particolare importanza e dietro sollecitazione del P.M., Sez. U., n. 28387/2020, De Stefano, Rv. 659870-01.

Illustrati in premessa i principi informatori, quanto a struttura e funzione, del processo esecutivo (l’effettività della tutela giurisdizionale del diritto del creditore consacrato nel titolo esecutivo; l’autoritatività dei provvedimenti del giudice da attuarsi, senza discrezionalità nell’an e nel quomodo, dalla pubblica amministrazione; la tutela dell’affidamento sulla correttezza e serietà delle vendite giudiziarie; la natura ordinatoria, non decisoria, dei provvedimenti del giudice dell’esecuzione), le Sezioni Unite hanno fondato la decisione sulla intrinseca definitività ab origine di tutti gli atti ed i provvedimenti del giudice dell’esecuzione «in quanto necessariamente funzionalizzati all’ordinato sviluppo della sequenza procedimentale in cui si inseriscono».

Un concetto di definitività tipico e proprio dell’esecuzione forzata, ben differente da quello legato all’esaurimento dei gradi ordinari di impugnazione connotante il giudizio di cognizione, e non inficiato dalla previsione di un sistema di rimedi, assistiti da rigorosi termini decadenziali, interni alla procedura (l’opposizione agli atti esecutivi) né dalla normale revocabilità dei provvedimenti del giudice dell’esecuzione.

Una intrinseca definitività, in sintesi, che rende «in astratto inesigibile un’attestazione di conseguita inoppugnabilità per i provvedimenti del giudice dell’esecuzione», in particolare per il decreto di trasferimento, produttivo in via immediata (e cioè a dire sin dall’epoca della sua venuta a giuridica esistenza) tanto dell’effetto traslativo del diritto staggito quanto della liberazione dello stesso dai pesi e dai gravami positivamente individuati dall’art. 586 del codice di rito.

Ragionamento articolato ed approfondito, compendiato nella massima così formulata dall’Ufficio: «Il decreto di trasferimento immobiliare ex art. 586 c.p.c., tanto nell’espropriazione individuale che in quella concorsuale che si svolga sul modello della prima, implica l’immediato e indifferibile trasferimento del bene purgato e libero dai pesi indicati dalla norma o ricavabili dal regime del processo esecutivo, con conseguente obbligo per il Conservatore dei Registri immobiliari (o, secondo l’attuale definizione, Direttore del Servizio di pubblicità immobiliare dell’Ufficio provinciale del territorio istituito presso l’Agenzia delle entrate) di procedere alla cancellazione di questi immediatamente, incondizionatamente e, in ogni caso, indipendentemente dal decorso dei termini previsti per la proposizione delle opposizioni agli atti esecutivi avverso il provvedimento traslativo in parola».

Contenuto necessario del decreto di trasferimento è, a mente del secondo comma dell’art. 586 c.p.c., «l’ingiunzione al debitore o al custode di rilasciare l’immobile venduto».

Detta statuizione configura il decreto di trasferimento come un titolo legittimante l’esecuzione per rilascio nei modi stabiliti dagli artt. 605 e seguenti del codice di rito: un titolo, come puntualizzato da Sez. 3, n. 11285/2020, Rossetti, Rv. 658081-01, opponibile erga omnes, ovvero nei confronti di chiunque si trovi nella detenzione o nel possesso del bene, talché colui che intenda proporre opposizione non può limitarsi ad invocare la nullità del decreto, ma deve dimostrare di essere titolare di un diritto reale o personale di godimento su tale bene, che ne giustifichi il possesso o la detenzione, così esplicitando il proprio interesse ad agire.

Sul fisiologico andamento dell’espropriazione di beni immobili possono incidere vicende estranee alla procedura, inerenti al suo oggetto, ostative al perfezionarsi della vendita forzata o del trasferimento del bene staggito: tra esse, in primis, la confisca di quest’ultimo disposta in sede penale.

Sulla questione - cui non sempre la giurisprudenza ha offerto risposte univoche - una parola chiarificatrice si rinviene in Sez. 3, n. 28242/2020, De Stefano, Rv. 659887-01: la speciale disciplina dettata dall’art. 55 d.lgs. n. 159 del 2011 (cd. codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), come modificata dalla legge n. 161 del 2017, è applicabile esclusivamente alle ipotesi di confisca ivi previste o da norme che esplicitamente vi rinviano (art. 104-bis disp. att. c.p.p.), con prevalenza della misura penalistica sui diritti reali dei terzi che, solo se di buona fede, possono vedere tutelate le loro ragioni in sede di procedimento di prevenzione o di esecuzione penale; viceversa tale disciplina non trova operatività in via analogica per tipologie di confisca diverse, alle quali si applica, nei rapporti con le procedure esecutive civili, il principio generale della successione temporale delle formalità nei pubblici registri previsto dall’art. 2915 c.c., da ciò derivando che l’opponibilità del vincolo penale al terzo acquirente dipende dalla trascrizione del sequestro (art. 104 disp. att. c.p.p.) la quale, ove successiva al pignoramento immobiliare, ne impedisce la confisca tenuto conto che il bene deve ritenersi appartenere al terzo pleno iure.

L’esito della fase liquidativa può poi rivelarsi infausto, cioè a dire in toto inidoneo a soddisfare le ragioni creditorie fatte valere in via esecutiva: per tale eventualità, l’art. 164 delle disposizioni di attuazione del codice di rito prescrive la chiusura anticipata del processo esecutivo per infruttuosità.

Nell’intento di definire gli scopi dell’istituto e delimitarne i concreti presupposti di operatività (invero, alquanto generici nella previsione normativa richiamata) Sez. 3, n. 11116/2020, De Stefano, Rv. 658146-04 ha chiarito che il provvedimento di chiusura anticipata va disposto ove, invano applicati o tentati ovvero motivatamente esclusi tutti gli istituti processuali tesi alla massima possibile fruttuosità della vendita del bene pignorato, risulti - in base ad un giudizio prognostico fondato su dati obiettivi anche raccolti nell’andamento pregresso del processo - che il bene sia in concreto invendibile o che la somma ricavabile nei successivi sviluppi della procedura possa dar luogo ad un soddisfacimento soltanto irrisorio dei crediti azionati oppure, a maggior ragione, se possa consentire soltanto la copertura dei successivi costi di esecuzione; la relativa valutazione ad opera del giudice dell’esecuzione non deve espressamente avere luogo prima di ogni rifissazione della vendita (specie qualora il numero ne sia stato stabilito con l’ordinanza di vendita), essendo invece necessaria una motivazione espressa in caso di esplicita istanza di uno dei soggetti del processo oppure quando si verifichino o considerino fatti nuovi rispetto a quanto posto a base dell’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 569 c.p.c..

8. Espropriazione di beni indivisi: giudizio di divisione.

Sviluppo normale dell’espropriazione della quota di un diritto reale in comunione tra il debitore esecutato ed altri soggetti, il giudizio di divisione ha natura di parentesi cognitiva, cioè a dire di processo di cognizione ordinario, svolto nelle forme del libro secondo del codice di rito, oggettivamente e soggettivamente autonomo rispetto alla procedura esecutiva ma ad essa funzionalmente correlato, siccome strumentale alla liquidazione del compendio pignorato.

Da ciò, per Sez. 6-2, n. 21218/2020, Criscuolo, Rv. 659310-01, consegue che ove il giudizio di esecuzione venga dichiarato estinto e la relativa pronuncia sia stata impugnata, è possibile disporre la sospensione del giudizio di divisione ai sensi dell’art. 337, secondo comma, c.p.c., in attesa del passaggio in giudicato di tale pronuncia.

9. Espropriazione contro il terzo proprietario.

Sulla peculiare sequenza procedimentale connotante l’espropriazione promossa contro il terzo proprietario ex artt. 602 e ss. c.p.c., degni di menzione sono alcuni arresti dell’anno in rassegna, tutti relativi ad esecuzioni su beni immobili gravati di ipoteca a garanzia di un debito altrui.

Con riferimento agli atti prodromici all’espropriazione, Sez. 6-3, n. 07249/2020, Porreca, Rv. 657300-01 ha ravvisato in capo al terzo datore di ipoteca difetto di interesse a proporre opposizione a precetto (a lui notificato, giusta il disposto dell’art. 603 c.p.c.) finalizzata ad accertare di non essere obbligato a corrispondere la somma indicata nel precetto, qualora dal contenuto del precetto stesso si evinca che l’intimazione non postuli l’obbligazione diretta del terzo né l’intenzione del creditore di procedere esecutivamente nei suoi confronti su beni diversi da quelli ipotecati.

Ribadita la necessità della notificazione del titolo esecutivo e del precetto sia al terzo proprietario del bene sia al debitore («poiché il secondo è tenuto ad adempiere ed il primo risponde, col bene ipotecato, dell’eventuale inadempimento»), Sez. 3, n. 10808/2020, D’Arrigo, Rv. 658034-01 ha precisato che unico legittimato passivo all’espropriazione è il terzo proprietario, per cui solo nei suoi confronti va notificato l’atto di pignoramento e compiuti i successivi atti esecutivi. Anche il debitore diretto, tuttavia, partecipa, pur in veste diversa, al procedimento espropriativo, in quanto per la regola dettata dall’art. 604, secondo comma, c.p.c., egli deve essere sentito ogni qual volta le norme prevedano l’audizione del terzo proprietario: e l’omissione di tale garanzia del contraddittorio integra un vizio della procedura che, finquando essa non sia conclusa, il debitore può far valere con l’opposizione agli atti esecutivi.

La circostanza che il debitore diretto sia comunque parte dell’espropriazione forzata intentata ai sensi dell’art. 602 c.p.c. fa sì che anche nei suoi confronti (e purché egli venga sentito nei casi previsti dall’art. 604, secondo comma, c.p.c. o il creditore gli abbia comunque dato notizia dell’esistenza del processo esecutivo) si produce l’effetto di interrompere la prescrizione del credito azionato (art. 2943, primo comma, c.c.), e di sospenderne il decorso (art. 2945, secondo comma, c.c.), fermo restando che l’effetto sulla prescrizione sarà solamente interruttivo ma non sospensivo nel caso di estinzione del procedimento ex art. 2945, terzo comma, c.c. (così ancora Sez. 3, n. 10808/2020, D’Arrigo, Rv. 658034-02).

Nelle parentesi cognitive incidentali all’espropriazione, e segnatamente nelle opposizioni esecutive in cui si contesti la sussistenza o l’entità del credito per cui si agisce (o si minaccia di agire), sussiste litisconsorzio necessario tra creditore, debitore diretto e terzo proprietario (Sez. 6-3, n. 12970/2020, De Stefano, non massimata).

10. Opposizioni esecutive: profili comuni.

Frutto di una progressiva elaborazione in via pretoria (culminata nella basilare Sez. 3, n. 25170/2018, Tatangelo, Rv. 651161-01), è oramai ius receptum l’articolazione delle opposizioni esecutive (con tale locuzione intendendosi le opposizioni proposte dopo l’inizio della procedura esecutiva) in giudizi unitari a cadenza bifasica, scanditi cioè da una preliminare e necessaria fase sommaria innanzi al giudice dell’esecuzione seguita da una meramente eventuale, fase di merito a cognizione piena.

Alla dettagliata definizione dello statuto di disciplina di detta bifasicità concorrono alcune pronunce dell’anno in disamina.

Anzitutto, concernenti l’ordinanza resa dal giudice dell’esecuzione a conclusione della fase sommaria: essa (disponga la prosecuzione innanzi a sé del procedimento di opposizione o la rimessione al giudice ritenuto competente) ha natura di atto ordinatorio di direzione del processo esecutivo e non ha contenuto decisorio (nemmeno implicito) sulla competenza, sicché avverso tale provvedimento non è esperibile il regolamento di competenza, tanto su impugnazione della parte (Sez. 6-3, n. 12378/2020, Graziosi, Rv. 658029-01) quanto su richiesta di ufficio (Sez. 6-3, n. 08044/2020, D’Arrigo, Rv. 657580-01).

Sul contenuto e sugli effetti di siffatta ordinanza è intervenuta inoltre Sez. 3, n. 10806/2020, D’Arrigo, Rv. 658033-01: ove il giudice, all’esito della fase sommaria, erroneamente assegni alle parti un termine per instaurare il giudizio di merito maggiore rispetto a quello di tre mesi previsto dall’art. 307, terzo comma, c.p.c., non incorre in decadenza la parte che promuova tale controversia oltre lo spirare dei tre mesi ma entro il termine in concreto assegnatogli, poiché la legge rimette al giudice di determinare un termine di decadenza entro un limite minimo e massimo, ma non fissa essa stessa un termine perentorio, sostitutivo di quello giudiziario.

La indefettibile sequenzialità tra i due momenti delle opposizioni esecutive postula la regolare instaurazione del contraddittorio sin dal primo segmento.

Premesso che il decreto con il quale il giudice dell’esecuzione fissa davanti a sé l’udienza per la fase sommaria non è soggetto a comunicazione, a cura della cancelleria, al ricorrente, Sez. 3, n. 11291/2020, D’Arrigo, Rv. 658098-01 ha affermato che l’inosservanza del termine in tal guisa accordato al ricorrente per la notifica del ricorso introduttivo della prima fase importa la declaratoria di inammissibilità dell’opposizione (da pronunciarsi in sede di cognizione piena); nel caso, invece, di regolare notificazione del ricorso originario, la mancata comparizione delle parti all’udienza innanzi il giudice dell’esecuzione non incide sull’ammissibilità della domanda e non preclude la possibilità di pervenire ad una pronuncia nel merito all’esito della seconda fase del giudizio.

Altro elemento comune alle diverse tipologie di opposizioni esecutive è la non applicabilità dell’istituto della sospensione feriale dei termini processuali.

L’esonero dalla sospensione feriale dei giudizi oppositivi (operante anche se l’esecuzione sia iniziata in virtù di un titolo stragiudiziale di cui si chieda accertare l’invalidità: Sez. 6-3, n. 03542/2020, Rossetti, Rv. 657017-01) si estende alle domande, formulate nella medesima controversia, aventi carattere accessorio rispetto all’opposizione (quale l’istanza risarcitoria per responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c.: Sez. 6-2, n. 10661/2020, Criscuolo, Rv. 657821-01) oppure connesse per pregiudizialità alla stessa (quale la domanda di restituzione delle somme riscosse in sede di esecuzione: Sez. 6-3, n. 15449/2020, Porreca, Rv. 658507-01).

Circa il regime di impugnazione delle sentenze conclusive dei giudizi di opposizione, è stata ribadita l’esperibilità di distinti ed autonomi gravami avverso un’unica sentenza in ragione dei plurimi contenuti della stessa: appello per la parte riferibile ad opposizione all’esecuzione, ricorso per cassazione per la parte riferibile a opposizione agli atti (Sez. 6-3, n. 03166/2020, Porreca, Rv. 656752-01).

Al riguardo, è altresì pacifica l’affermazione del principio dell’apparenza, secondo cui ai fini predetti assume esclusivo rilievo la qualificazione data dal giudice a quo all’azione proposta (Sez. 6-3, n. 18005/2020, De Stefano, non massimata); da ciò discende che in caso di proposizione uno actu di opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. ed ai sensi dell’art. 617 c.p.c., ove siano decisi solo i motivi di opposizione agli atti esecutivi, la denunzia di omessa pronunzia sugli altri motivi, integranti opposizione all’esecuzione, va sollevata mediante appello e non già con ricorso straordinario per cassazione (Sez. 6-3, n. 03722/2020, Tatangelo, Rv. 657020-01).

La richiamata diversità tra i rimedi impugnatori delle sentenze pronunciate nelle diverse tipologie di opposizioni esecutive rende non configurabile una conversione (o translatio iudicii) in ricorso per cassazione dell’appello erroneamente spiegato avverso una sentenza emessa all’esito di una controversia ex art. 617 c.p.c., siccome strumento processuale inidoneo, anche soltanto in astratto, a configurare l’instaurazione di un regolare rapporto processuale, vieppiù tenendo conto della radicale disomogeneità strutturale del ricorso di legittimità ex art. 111, settimo comma, Cost., integrante mezzo di impugnazione a critica vincolata (così Sez. 6-3, n. 05712/2020, D’Arrigo, Rv. 657298-01; conforme Sez. 6-3, n. 10419/2020, De Stefano, non massimata).

11. Opposizione all’esecuzione.

Non di rado questioni relative all’individuazione del giudice competente si pongono nelle opposizioni all’esecuzione proposte in via preventiva ai sensi dell’art. 615, primo comma, c.p.c. (usualmente chiamate opposizioni a precetto).

Sull’argomento vanno rimarcate:

- Sez. 6-3, n. 21009/2020, Pellecchia, Rv. 659154-01, a mente della quale l’opposizione a precetto ex art. 615 c.p.c. promossa dall’imprenditore in bonis che, in corso di giudizio, sia stato dichiarato fallito non rientra, ai sensi dell’art. 24 l.fall., nella competenza funzionale del tribunale fallimentare, trattandosi di un’azione inerente ad un diritto già esistente nel patrimonio del fallito anteriormente alla declaratoria della sua insolvenza, che si sottrae alle regole della concorsualità;

- Sez. 6-3, n. 20356/2020, Tatangelo, Rv. 659089-01, secondo cui il Comune nel quale il creditore abbia, con l’atto di precetto, dichiarato la propria residenza od eletto il suo domicilio, ai sensi dell’art. 480, terzo comma, c.p.c., deve ritenersi coincidente con quello in cui ha sede il giudice dell’esecuzione e, pertanto, vale a determinare la competenza territoriale sull’opposizione al precetto medesimo proposta prima dell’instaurazione del procedimento esecutivo (artt. 26 e 27 c.p.c.); l’eventuale contestazione di tale coincidenza (ad esempio, per non esservi in quel Comune beni appartenenti all’esecutando), può essere sollevata soltanto dall’opponente, al fine di invocare la competenza del diverso giudice del luogo ove è stato notificato il precetto, e non anche dallo stesso creditore, che resta vincolato alla suddetta dichiarazione od elezione.

La limitata estensione del thema decidendum dell’opposizione proposta avverso l’esecuzione minacciata (o intrapresa) in forza di un titolo esecutivo di formazione giudiziale è nota: sono esclusi dal novero dei motivi deducibili i fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto a procedere anteriori alla formazione del titolo stesso (e segnatamente i fatti anteriori al maturarsi delle preclusioni processuali per la loro allegazione nel giudizio di cognizione che ha portato alla formazione del titolo: Sez. 6-3, n. 03716/2020, Tatangelo, Rv. 657019-01).

Tra i fatti impeditivi della pretesa esecutiva formulabili con il rimedio di cui all’art. 615 c.p.c., Sez. 3, n. 09720/2020, Rossetti, Rv. 657769-01 ricomprende l’usucapione di un immobile maturata successivamente alla formazione del titolo giudiziale dedotta dal terzo nei cui confronti sia stata azionata la sentenza (inter alios resa) di condanna alla demolizione di opere edificate sul bene, precisando che il perfezionarsi della usucapione in epoca anteriore alla formazione del titolo integra invece ragione di opposizione di terzo ordinaria ai sensi dell’art. 404 del codice di rito.

L’operare dei principi del giudicato che copre il dedotto e il deducibile e dell’assorbimento dei vizi di nullità in motivi di gravame preclude l’allegazione in sede di opposizione ex art. 615 c.p.c. di doglianze inerenti al contenuto intrinseco del titolo giudiziale e dei vizi del procedimento di sua formazione, ferma restando la deducibilità di ragioni di inesistenza del titolo, quale, ad esempio, l’inesistenza della notificazione del decreto ingiuntivo (Sez. 6-3, n. 09050/2020, Tatangelo, Rv. 657739-01).

Non senza qualche oscillazione iniziale, la giurisprudenza di nomofilachia, sulla scia di Sez. U., n. 23225/2016, Charini, Rv. 641764-02 e Rv. 641764-03, è univoca nel ritenere sollevabile in sede di opposizione all’esecuzione l’eccezione di compensazione giudiziale avente ad oggetto un controcredito certo (perché definitivamente verificato giudizialmente o incontestato) oppure un credito illiquido di importo sicuramente superiore al credito fatto valere in via esecutiva (potendo la entità del controcredito opposto essere accertata, senza dilazioni nella procedura esecutiva, nel merito del giudizio di opposizione).

La validità dell’assunto è stata ribadita da Sez. 3, n. 09686/2020, Porreca, Rv. 657716-01 anche nell’ipotesi di espropriazione forzata promossa per la soddisfazione del credito al mantenimento del coniuge separato, ritenendo non applicabile la disposizione dell’art. 447, secondo comma, c.c., per la ontologica diversità di siffatto credito (avente fonte legale nel diritto all’assistenza materiale inerente al vincolo coniugale e non nello stato di bisogno di una persona priva di autonomia economica) rispetto al credito alimentare.

L’ampliamento della materia del contendere nelle controversie di opposizione all’esecuzione può verificarsi per effetto di domande riconvenzionali formulate dal creditore opposto, ammissibili in quanto connesse, per l’oggetto e/o per il titolo, a quelle spiegate con l’opposizione: così Sez. 3, n. 03697/2020, Tatangelo, Rv. 656728-01, in un’opposizione ex art. 615 c.p.c. argomentata sull’esistenza di un vincolo di impignorabilità del bene espropriato derivante da un determinato atto negoziale, ha valutato ammissibile la domanda riconvenzionale dell’opposto diretta ad ottenere, ai sensi dell’art. 2901 c.c., la dichiarazione di inefficacia dell’atto negoziale posto a base dell’opposizione.

12. Opposizione agli atti esecutivi.

Rimedio di natura generale e sussidiaria, l’opposizione agli atti esecutivi ha ad oggetto il vaglio di regolarità formale di atti o provvedimenti dell’esecuzione per i quali non sia previsto altro strumento di reazione.

Con riferimento agli atti provenienti da organi lato sensu riconducibili all’ufficio esecutivo, l’impugnativa ex art. 617 c.p.c. è circoscritta agli atti ed ai provvedimenti riferibili al giudice dell’esecuzione, unico titolare del potere di impulso e controllo del processo esecutivo, con derivante inammissibilità dell’opposizione spiegata avverso atti provenienti da ausiliari del giudice, quali l’ufficiale giudiziario (Sez. 3, n. 08150/2020, Cricenti, non massimata) e il professionista delegato al compimento delle operazioni di vendita (Sez. 3, n. 14603/2020, Porreca, non massimata nella parte d’interesse).

Caratteristica tipizzante l’opposizione agli atti, espressione della sua funzione di meccanismo di stabilizzazione degli effetti dell’esecuzione, è il rigoroso limite temporale previsto, a pena di decadenza, per l’esperibilità del rimedio, decorrente dalla conoscenza, legale o di fatto, dell’atto che si assume viziato oppure dalla conoscenza di un atto successivo che necessariamente lo presuppone (Sez. 3, n. 27957/2020, Tatangelo, non massimata).

Ma dalla proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi può sortire anche un’efficacia sanante del vizio dedotto dall’opponente, in applicazione del principio generale di sanatoria della nullità degli atti per raggiungimento dello scopo.

È quanto si verifica per il vizio della notificazione dell’atto di pignoramento, di regola sanato dalla proposizione dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. (indice dell’avvenuta conoscenza, ad opera del debitore, dell’avvio dell’esecuzione), salvo che l’opponente non deduca un concreto pregiudizio al diritto di difesa verificatosi prima che egli abbia avuto conoscenza dell’espropriazione forzata, oppure rilevi la radicale inesistenza della notificazione; diversamente, il vizio di notificazione dell’atto di precetto non è sanato dalla semplice proposizione dell’opposizione se, prima che l’intimato ne abbia avuto comunque conoscenza, il creditore abbia intrapreso l’esecuzione forzata (Sez. 3, n. 11290/2020, D’Arrigo, Rv. 658097-01).

13. Opposizione di terzo all’esecuzione.

Quantunque testualmente posta a tutela della proprietà o di altro diritto reale sui beni pignorati, l’opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. è strumento adoperabile dal soggetto, diverso dal terzo pignorato, per affermare la titolarità (e, quindi, contestare l’appartenenza al debitore esecutato) del credito staggito in una procedura di espropriazione presso terzi (così Sez. 3, n. 02868/2020, Rubino, Rv. 656761-01, negando la legittimazione a proporre opposizione agli atti esecutivi di detto terzo, in quanto non assoggettato direttamente all’esecuzione).

La struttura della procedura espropriativa presso terzi, conclusa dall’ordinanza di assegnazione del credito e mancante (a differenza dell’espropriazione mobiliare ed immobiliare) di una fase di distribuzione del ricavato successiva alla vendita esclude tuttavia, sempre ad avviso di Sez. 3, n. 02868/2020, Rubino, Rv. 656761-02, l’ammissibilità nell’espropriazione presso terzi di un’opposizione di terzo tardiva ex art. 620 c.p.c., proposta cioè dopo l’adozione dell’ordinanza di assegnazione.

14. Controversie in sede di distribuzione del ricavato.

Del modus procedendi delle controversie sorte in fase distributiva si è occupata Sez. 6-3, n. 19122/2020, D’Arrigo, Rv. 658772-01).

Dal rinvio all’art. 617, secondo comma, c.p.c. operato dall’art. 512 c.p.c. sulla base della sola natura della lite (e non delle ragioni di essa), si è desunto che tutte le controversie distributive vadano introdotte e trattate nelle forme dell’opposizione agli atti esecutivi, a prescindere dalla circostanza che la causa petendi sia costituita dalla denuncia di vizi formali del titolo esecutivo di uno dei creditori partecipanti alla distribuzione ovvero da ogni altra questione (anche relativa ai rapporti sostanziali) in tale sede deducibile; il giudizio introdotto ex art. 512 c.p.c. (con l’impugnazione del provvedimento del giudice dell’esecuzione), pertanto, si conclude in ogni caso con sentenza non appellabile, ma impugnabile con ricorso straordinario per cassazione.

15. Stabilità degli effetti dell’esecuzione forzata.

La irretrattabilità dei risultati dell’esecuzione forzata è principio immanente dell’ordinamento.

Volta a salvaguardare la funzionalità del sistema delle esecuzioni forzate, la stabilità dell’assetto di interessi delineato dal provvedimento finale delle procedure esecutive è il precipitato del complesso dei rimedi interni al procedimento (le varie tipologie di opposizioni ma anche le istanze di revoca o modifica), apprestati dall’ordinamento a tutela delle parti e degli altri soggetti coinvolti nel processo esecutivo lesi dagli atti dello stesso, rimedi il cui esperimento rappresenta una facoltà ma anche un onere, dacché strumentale a conseguire, con l’operare della preclusione, un esito sostanziale non più modificabile.

In altri termini, la conclusione del processo esecutivo non tollera, in linea tendenziale, la sopravvivenza di pretese di tutela dagli effetti pregiudizievoli dei suoi atti, nemmeno solo risarcitorie, ulteriori rispetto alle azioni tipiche a tanto destinate al suo interno.

Posto che il provvedimento che chiude il procedimento esecutivo, pur non avendo efficacia di giudicato, è caratterizzato da una definitività insita nella chiusura di un procedimento esplicato col rispetto delle forme atte a garantire gli interessi delle parti ed incompatibile con ogni sua revocabilità, il soggetto espropriato non può dunque esperire, dopo la chiusura dell’esecuzione forzata e sul presupposto dell’illegittimità per motivi sostanziali della stessa, azione di ripetizione di indebito contro il creditore per ottenere la restituzione di quanto costui abbia riscosso. Come ha specificato Sez. 3, n. 12127/2020, Cigna, Rv. 658174-01, l’irretrattabilità del progetto di distribuzione della somma ricavata attiene al rapporto tra le parti del processo esecutivo (e cioè tra l’esecutato e il creditore) e non già al diverso rapporto tra il creditore ed il suo difensore antistatario (in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva respinto la domanda del creditore volta alla restituzione dei compensi del suo difensore, percepiti, con distrazione a suo favore, in un processo esecutivo conclusosi con l’approvazione del piano di riparto in cui le spettanze professionali erano state quantificate e liquidate).

La intangibilità dell’atto finale della procedura espropriativa per le descritte ragioni va comunque armonizzato, secondo quanto puntualizzato da Sez. 3, n. 14601/2020, D’Arrigo, Rv. 658322-01, con le regole che governano l’esecuzione condotta sulla base di titolo giudiziale non definitivo, cioè di un «titolo solo provvisoriamente munito di forza esecutiva ed azionato a suo rischio dal creditore procedente».

In detta ipotesi, la caducazione del titolo giudiziale avvenuta in un momento successivo alla conclusione del processo esecutivo, seppur non determinante la cessazione degli effetti degli atti della espropriazione, genera un distinto obbligo restitutorio a carico del soggetto che abbia percepito somme, «per l’attuazione del quale colui che voglia recuperare quanto gli è stato espropriato deve munirsi, a sua volta, di un titolo esecutivo».

Si è così affermato il seguente principio di diritto: «Nel caso di azione esecutiva intrapresa in forza di un titolo giudiziale provvisoriamente esecutivo, la caducazione dello stesso in epoca successiva alla fruttuosa conclusione dell’esecuzione forzata legittima il debitore che l’abbia subita a promuovere nei confronti del creditore procedente un autonomo giudizio per la ripetizione dell’indebito che, avendo ad oggetto un credito fondato su prova scritta, può assumere le forme del procedimento d’ingiunzione».

16. Estinzione dell’esecuzione.

Chiarimenti sull’individuazione (non di rado motivo di contrasti esegetici) dei mezzi di impugnazione esperibili avverso i provvedimenti resi in sede di estinzione dell’esecuzione si rinvengono in Sez. 6-3, n. 27614/2020, Tatangelo, Rv. 660055 - 01.

Esclusa (per difetto di definitività) la praticabilità del ricorso straordinario per cassazione, la S.C. ha ritenuto esperibile il rimedio del reclamo al collegio ex art. 630, ultimo comma, c.p.c., contro l’ordinanza che dichiari l’estinzione nelle ipotesi tipiche previste dalla legge, estendendo il rimedio anche alla statuizione - in essa contenuta - regolante le spese del processo estinto; ha invece considerato suscettibili di opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. i provvedimenti consequenziali all’estinzione, adottati dal giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 632, secondo comma, c.p.c. (quali la liquidazione - o il diniego di liquidazione - delle spese del processo emessa dopo la sua estinzione).

Nello stesso ordine di idee e con più esteso ambito operativo, Sez. 3, n. 08404/2020, Tatangelo, Rv. 657602-01 ha affermato che i provvedimenti con cui viene dichiarata l’estinzione del processo esecutivo per ragioni diverse da quelle tipizzate dal codice (più propriamente denominati come provvedimenti di chiusura anticipata) sono impugnabili esclusivamente con l’opposizione agli atti esecutivi e non già col reclamo di cui all’art. 630 c.p.c., il quale, ove proposto, deve essere dichiarato inammissibile, anche d’ufficio.

Regula iuris ribadita da Sez. 3, n. 14604/2020, Porreca, Rv. 658325-01 con riguardo ad un’ordinanza di liquidazione delle spese a carico del debitore accessoria alla declaratoria di estinzione atipica di un procedimento per esecuzione di obblighi di fare e di non fare, ordinanza reputata impugnabile con l’opposizione agli atti esecutivi (quale strumento generale di contestazione dei provvedimenti del giudice dell’esecuzione regolanti l’andamento del processo) e non già nelle forme dell’opposizione a decreto ingiuntivo.

  • sequestro di beni
  • spesa
  • tutela

CAPITOLO XIX

I PROCEDIMENTI SPECIALI

(di Andrea Penta )

Sommario

1 Il procedimento d’ingiunzione: la competenza. - 2 Notificazione ed inefficacia del d.i. - 3 La mediazione obbligatoria ed il tentativo di conciliazione. - 4 Il giudizio di opposizione a d.i. - 5 I poteri processuali dell’opponente. - 6 Il giudizio di opposizione in ambito condominiale. - 7 I rapporti con il fallimento. - 8 L’opposizione tardiva a d.i. - 9 L’esecutorietà del d.i. - 10 La tutela cautelare. - 11 Il sequestro giudiziario. - 12 I procedimenti di istruzione preventiva. - 13 Il procedimento sommario di cognizione: le preclusioni. - 13.1 L’impugnazione dell’ordinanza conclusiva. - 13.2 Alcuni procedimenti speciali. - 14 I procedimenti in materia di famiglia. - 14.1 I provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni. - 14.2 La modifica dei provvedimenti relativi alla separazione dei coniugi. - 15 I provvedimenti di interdizione, di inabilitazione e di amministrazione di sostegno. - 16 I procedimenti in camera di consiglio: il regime impugnatorio. - 16.1 L’istruttoria e le spese. - 16.2 La revocabilità dei provvedimenti.

1. Il procedimento d’ingiunzione: la competenza.

Sez. 6 - 2, n. 11796/2020, Abete, Rv. 658450 - 01, ha ribadito (n. 15052 del 2011, Rv. 618576 - 01) che l’art. 645 c.p.c., disponendo che l’opposizione a decreto ingiuntivo deve essere proposta dinanzi all’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto, ha stabilito una competenza funzionale e non derogabile, neanche per ragioni di continenza o di connessione. Ne consegue che, qualora nel corso del giudizio di opposizione sia stata formulata una domanda di garanzia impropria nei confronti di un’amministrazione dello Stato, domanda appartenente, ai sensi dell’art. 25 c.p.c., alla competenza territoriale inderogabile di altro giudice, il giudice dell’opposizione deve disporre la separazione delle cause, trattenendo il procedimento di opposizione e rimettendo l’altra al giudice territorialmente competente, salva la successiva applicazione, da parte di quest’ultimo, dei principi in materia di sospensione dei processi.

È stato ritenuto, da Sez. 6 - 3, n. 13426/2020, Rubino, Rv. 658502 - 01 (conf. n. 22297 del 2016, Rv. 641679-01), inammissibile il regolamento di competenza con il quale si deduca che il giudice, nel dichiarare la propria incompetenza, abbia omesso di revocare il decreto ingiuntivo opposto, sia perché la pronuncia di incompetenza contiene necessariamente, ancorché implicita, la declaratoria di invalidità e di revoca del decreto stesso, con conseguente carenza di interesse alla formulazione di una tale doglianza, sia in quanto quest’ultima non ricade tra quelle previste dall’art. 42 c.p.c., non integrando una questione di competenza.

Quest’ultima decisione sembra porsi in contrasto con la recente Sez. 6 - 2, n. 15579/2019, Orilia, Rv. 654344 - 01, secondo cui, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, il provvedimento recante la dichiarazione di incompetenza del giudice che ha emanato il decreto monitorio non è una decisione soltanto sulla competenza, ma presenta un duplice contenuto, di accoglimento in rito dell’opposizione e di caducazione, per nullità, del decreto. Viceversa, la stessa si porrebbe in linea con Sez. 6 - 3, n. 16089/2018, Graziosi, Rv. 649430 - 01, a tenore della quale la sentenza di primo grado che abbia dichiarato la nullità del decreto ingiuntivo opposto in quanto emesso da giudice territorialmente incompetente avrebbe natura di decisione esclusivamente sulla competenza, essendo la dichiarazione di nullità un mero effetto di diritto di tale declaratoria. Tuttavia, in senso contrario, la pronuncia da ultimo menzionata ritiene che siffatta declaratoria sarebbe impugnabile solo con regolamento necessario di competenza, ex art. 42 c.p.c., e non mediante appello, la cui inammissibilità, se non dichiarata dal giudice di secondo grado, sarebbe rilevabile anche d’ufficio in sede di legittimità.

2. Notificazione ed inefficacia del d.i.

Sez. 1, n. 07917/2020, Falabella, Rv. 657608 - 01, ha colto l’occasione per chiarire che, qualora la società ricorrente si estingua in seguito al deposito del ricorso, ma anteriormente alla pubblicazione del decreto ingiuntivo, la notifica di questo a cura del difensore della creditrice ingiungente è da reputarsi valida in virtù dell’ultrattività del suo mandato. In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza d’appello, la quale aveva ritenuto che la notifica effettuata da parte del difensore della società cancellata dal registro delle imprese nelle more dell’emanazione del decreto monitorio invocato col ricorso fosse valida e idonea a far decorrere il termine perentorio per l’opposizione.

3. La mediazione obbligatoria ed il tentativo di conciliazione.

Molto attesa era la pronuncia con la quale le Sezioni Unite (Sez. U, n. 19596/2020, Cirillo F.M., Rv. 658634 - 01), ponendo fine ad un contrasto di orientamenti, ha statuito che nelle controversie soggette a mediazione obbligatoria ai sensi dell’art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010, i cui giudizi vengano introdotti con richiesta di decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, l’onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta; ne consegue che, ove essa non si attivi, alla pronuncia di improcedibilità di cui al citato comma 1-bis conseguirà la revoca del decreto ingiuntivo.

Non è stato, quindi, condiviso l’indirizzo (propugnato da Sez. 3, n. 24629/2015, Vivaldi, Rv. 638006 - 01), secondo cui l’onere di esperire il tentativo obbligatorio di mediazione graverebbe sulla parte opponente, indirizzo che era fondato sull’assunto per il quale l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 dovrebbe essere interpretato in conformità alla sua “ratio” e, quindi, al principio della ragionevole durata del processo, sulla quale potrebbe incidere negativamente il giudizio di merito che l’opponente ha interesse ad introdurre.

Sez. U, n. 08240/2020, Rubino, Rv. 657614 - 01, hanno, a loro volta, precisato, in tema di controversie tra le società erogatrici dei servizi di telecomunicazioni e gli utenti, che non è soggetto all’obbligo di esperire il preventivo tentativo di conciliazione, previsto dall’art. 1, comma 11, della l. n. 249 del 1997, chi intenda richiedere un provvedimento monitorio, essendo il preventivo tentativo di conciliazione strutturalmente incompatibile con i procedimenti privi di contraddittorio o a contraddittorio differito. In tal guisa statuendo, le Sezioni Unite si sono poste nel solco di n. 25611 del 2016, Rv. 642334 - 01.

4. Il giudizio di opposizione a d.i.

Sez. 1, n. 15224/2020, Scalia, Rv. 658261 - 01, ha confermato (n. 06421 del 2003, Rv. 562391 - 01) che l’opposizione al decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione teso all’accertamento dell’esistenza del diritto di credito azionato dal creditore con il ricorso, sicché la sentenza che decide il giudizio deve accogliere la domanda del creditore istante, rigettando conseguentemente l’opposizione, quante volte abbia a riscontrare che i fatti costitutivi del diritto fatto valere in sede monitoria, pur se non sussistenti al momento della proposizione del ricorso o della emissione del decreto, sussistono tuttavia in quello successivo della decisione. Ne consegue che l’opponente è privo di interesse a dolersi del fatto che la sentenza impugnata, nel rigettare l’opposizione, non abbia tenuto conto che difettava una delle condizioni originarie di ammissibilità del decreto ingiuntivo, quando tale condizione, in realtà, sia maturata immediatamente dopo e comunque prima della definizione del giudizio di opposizione. La S.C. ha, pertanto, dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione mediante il quale l’originario opponente si era limitato a contestare la sussistenza dei caratteri della liquidità ed esigibilità del credito all’epoca della proposizione della domanda monitoria.

Ciò in quanto il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo si atteggia come un procedimento il cui oggetto non è ristretto alla verifica delle condizioni di ammissibilità e di validità del decreto stesso, ma si estende all’accertamento, con riferimento alla situazione di fatto esistente al momento della pronuncia della sentenza, dei fatti costitutivi del diritto in contestazione.

5. I poteri processuali dell’opponente.

Premesso che, come si è visto, l’opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione, nel quale il giudice deve accertare la fondatezza della pretesa fatta valere dall’opposto, che assume la posizione sostanziale di attore, mentre l’opponente, il quale assume la posizione sostanziale di convenuto, ha l’onere di contestare il diritto azionato con il ricorso, facendo valere l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda o l’esistenza di fatti estintivi o modificativi di tale diritto, Sez. 2, n. 06091/2020, Varrone, Rv. 657127 - 02, ha avallato l’orientamento secondo cui l’opponente può proporre domanda riconvenzionale, a fondamento della quale può anche dedurre un titolo non strettamente dipendente da quello posto a fondamento della ingiunzione, quando non si determini in tal modo spostamento di competenza e sia pur sempre ravvisabile un collegamento obiettivo tra il titolo fatto valere con l’ingiunzione e la domanda riconvenzionale, tale da rendere opportuna la celebrazione del “simultaneus processus”.

Dal canto suo, Sez. 6 - 2, n. 16336/2020, Scarpa, Rv. 658465 - 01, ha nuovamente affermato il principio secondo cui, l’opponente che intenda chiamare in causa un terzo non può direttamente citarlo per la prima udienza, ma deve chiedere al giudice, nell’atto di opposizione, di essere a ciò autorizzato, perché in tale giudizio non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti e l’opponente conserva la veste di convenuto anche per quanto riguarda i poteri e le preclusioni processuali, fermo restando che, qualora quest’ultimo, pur avendo citato direttamente il terzo, abbia in via gradata tempestivamente richiesto l’autorizzazione di cui all’art. 269 c.p.c., rimane impedita la decadenza dalla chiamata, la quale deve, anzi, ritenersi implicitamente autorizzata, ove il giudice pronunci nel merito anche nei confronti del terzo. Sul punto, Sez. 2, n. 21706/2019, Scarpa, Rv. 655233 - 01, già aveva affermato che il provvedimento con il quale il giudice autorizza o nega la chiamata in causa di un terzo ad istanza di parte, ove non si verta in ipotesi di litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., coinvolge valutazioni assolutamente discrezionali che, come tali, non possono formare oggetto di appello né di ricorso per cassazione.

6. Il giudizio di opposizione in ambito condominiale.

Il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo per contributi condominiali ha ad oggetto l’intera situazione giuridica controversa, sicché è al momento della decisione che occorre avere riguardo per la verifica della sussistenza delle condizioni dell’azione e dei presupposti di fatto e di diritto per l’accoglimento della domanda di condanna del debitore; ne consegue, per Sez. 2, n. 18129/2020, Scarpa, Rv. 658949 - 01, che l’annullamento della delibera di riparto, su cui era radicato il decreto ingiuntivo, non preclude al giudice dell’opposizione di pronunciare sul merito della pretesa, emettendo una sentenza favorevole, ove l’amministratore dimostri che il credito azionato sussiste, è esigibile ed il condominio ne è titolare, ai sensi degli artt. 1123 e ss. c.c.

Sempre in tema di opposizione a decreto ingiuntivo per crediti condominiali, Sez. 6 - 2, n. 16340/2020, Scarpa, Rv. 658791 - 01, ha chiarito che, in caso di cassazione con rinvio al giudice di appello, è onere del condominio appellante produrre o ripristinare in appello, se già prodotti in primo grado, i documenti sui quali si basa il gravame, o comunque attivarsi perché tali documenti possano essere sottoposti all’esame del giudice di appello, senza che gli stessi (nella specie, quelli relativi alla fase monitoria) possano, peraltro, qualificarsi come nuovi agli effetti dell’art. 345 c.p.c.

Da ultimo, Sez. 6 - 2, n. 15696/2020, Scarpa, Rv. 658784 - 01, ha ribadito (Cass. n. 07569 del 1994, Rv. 48778501) che, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo concernente il pagamento di contributi per spese, il condominio soddisfa l’onere probatorio su esso gravante con la produzione del verbale di assemblea condominiale in cui sono state approvate le spese, nonché dei relativi documenti.

7. I rapporti con il fallimento.

In caso di interruzione per intervenuto fallimento dell’opponente del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, quest’ultimo rimane inopponibile alla massa, mentre è interesse e onere del debitore fallito riassumere il processo nei confronti del creditore opposto, onde evitare che il provvedimento monitorio consegua la definitiva esecutorietà per mancata o intempestiva riassunzione, divenendo opponibile nei suoi confronti una volta tornato in bonis. In applicazione di tale principio, Sez. 1, n. 22047/2020, Falabella, Rv. 658984 - 01, ha cassato con rinvio la sentenza della corte d’appello di conferma della pronuncia di primo grado, che aveva dichiarato inammissibile l’opposizione a decreto ingiuntivo riassunta dal debitore dichiarato fallito.

Nell’ipotesi di dichiarazione di fallimento intervenuta nelle more del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo proposto dal debitore ingiunto poi fallito, la domanda è contrassegnata da improcedibilità rilevabile d’ufficio, senza che vada integrato il contraddittorio nei confronti della curatela fallimentare, in quanto il creditore opposto è tenuto a far accertare il proprio credito nell’ambito della verifica del passivo ai sensi degli artt. 92 e ss. l.fall., in concorso con gli altri creditori. In applicazione del principio, Sez. 1, n. 06196/2020, Marulli, Rv. 657035 - 01, ha rigettato il ricorso avverso la pronuncia con la quale erano stati condannati al pagamento di somme i soli fideiussori dell’impresa debitrice poi fallita, escludendo che dovesse integrarsi il contraddittorio nei confronti della procedura concorsuale.

8. L’opposizione tardiva a d.i.

Sez. 2, n. 04448/2020, Carrato, Rv. 657112 - 01, ha ritenuto ammissibile l’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo di cui all’art. 650 c.p.c., allorquando - per causa riconducibile ad un evento oggettivo e non prevedibile, successivo all’emissione del decreto monitorio, integrante un caso fortuito (nella specie, l’invio, per un mero disguido della cancelleria, del fascicolo monitorio ad un altro ufficio prima della scadenza del termine previsto dall’art. 641, comma 1, c.p.c., con la sua successiva restituzione oltre detto termine), secondo la portata assunta dalla citata norma a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 1976 - l’ingiunto non abbia potuto avere conoscenza, senza sua colpa, entro il termine di quaranta giorni dalla notificazione del decreto ingiuntivo dei documenti contenuti nel fascicolo monitorio (posti a fondamento del ricorso ex art. 633 c.p.c. e da restare depositati in cancelleria, unitamente all’originale del ricorso e dell’emesso decreto), così rimanendo impedita l’esercitabilità del suo pieno ed effettivo diritto di difesa, costituzionalmente garantito, ai fini della proposizione dell’opposizione al decreto ingiuntivo.

9. L’esecutorietà del d.i.

In tema di esecuzione forzata intrapresa sulla base di un decreto ingiuntivo, Sez. 6 - 3, n. 09050/2020, Tatangelo, Rv. 657739 - 01, ha distinto tra l’ipotesi di deduzione della inesistenza della relativa notificazione da quella in cui se ne deduce viceversa la nullità: nel primo caso è proponibile il rimedio dell’opposizione all’esecuzione a norma dell’art. 615 c.p.c.; nel secondo caso, invece, quello dell’opposizione tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c., da esperirsi entro il termine di cui al terzo comma.

Qualora la sentenza di merito di accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo sia cassata con rinvio, in caso di mancata riassunzione del processo nel termine prescritto non trova applicazione l’art. 653 c.p.c., secondo cui a seguito dell’estinzione del processo di opposizione il decreto che non ne sia munito acquista efficacia esecutiva, bensì il disposto dell’art. 393 c.p.c., alla stregua del quale all’omessa riassunzione consegue l’estinzione dell’intero procedimento e, quindi, anche l’inefficacia del provvedimento monitorio; in tale ipotesi, secondo Sez. 3, n. 08114/2020, Valle, Rv. 657598 - 01, l’erroneità della declaratoria di esecutorietà del decreto ingiuntivo inefficace deve essere fatta valere con l’opposizione all’esecuzione e non con la revocazione ex art. 395, comma 1, n. 5, c.p.c., strumento utilizzabile quando il provvedimento revocando sia in contrasto col giudicato precedente e non con quello formatosi successivamente.

È merito di Sez. 6 - 2, n. 15457/2020, Casadonte, Rv. 658733 - 01, l’aver chiarito che la richiesta di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo poi riformato non costituisce domanda nuova, sicché incorre nell’omessa pronuncia il giudice che non provveda sulla stessa.

Sez. 3, n. 01928/2020, Rossetti, Rv. 656889 - 01, ha confermato (n. 06536 del 1987, Rv. 454790 - 01; n. 15316 del 2017, Rv. 644737 - 01; Sez. 1, n. 04705/2018, Falabella, Rv. 647433 - 01) che il precetto fondato su decreto ingiuntivo divenuto esecutivo per mancata opposizione non deve essere preceduto da un’ulteriore notifica del provvedimento monitorio, ma deve fare menzione del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e dell’apposizione della formula esecutiva (ex art. 654, comma 2, c.p.c.), nonché della data di notifica dell’ingiunzione (ex art. 480, comma 2, c.p.c.). I suddetti elementi formali sono prescritti, a pena di nullità dell’atto di precetto, allo scopo di consentire all’intimato l’individuazione inequivoca dell’obbligazione da adempiere e del titolo esecutivo azionato, sicché la loro omissione (nella specie, dell’indicazione della data di notificazione del decreto ingiuntivo) non comporta l’invalidità dell’intimazione, qualora sia stato comunque raggiunto lo scopo dell’atto e, cioè, il debitore sia stato messo in condizione di conoscere con esattezza chi sia il creditore, quale sia il credito di cui si chiede conto e quale il titolo che lo sorregge.

In proposito va ricordato che, nell’espropriazione forzata minacciata ex art. 654 c.p.c. in virtù di decreto ingiuntivo esecutivo, la omessa menzione nell’atto di precetto del provvedimento di dichiarazione di esecutorietà del provvedimento monitorio comporta la nullità - deducibile con opposizione agli atti esecutivi - del precetto stesso, non potendo l’indicazione di tale provvedimento evincersi dalla menzione dell’apposizione della formula esecutiva (Sez. 3, n. 24226/2019, Porreca, Rv. 655175 - 01).

10. La tutela cautelare.

Con riferimento alla fase di instaurazione del giudizio, l’omessa rilevazione dell’incompetenza (derogabile od inderogabile) da parte del giudice o l’omessa proposizione della relativa eccezione ad opera delle parti nel procedimento cautelare ante causam non determina il definitivo consolidamento della competenza in capo all’ufficio adìto anche ai fini del successivo giudizio di merito, non operando nel giudizio cautelare il regime delle preclusioni relativo alle eccezioni e al rilievo d’ufficio dell’incompetenza, stabilito dall’art. 38 c.p.c., in quanto applicabile esclusivamente al giudizio a cognizione piena. In quest’ottica, per Sez. 6 - 3, n. 12403/2020, D’Arrigo, Rv. 658063 - 01 (in ciò preceduta da n. 02505 del 2010, Rv. 611615 - 01), il giudizio proposto ai sensi degli artt. 669-octies e novies c.p.c., all’esito della fase cautelare ante causam, può essere validamente instaurato davanti al giudice competente, ancorché diverso da quello della cautela.

In ordine all’ampiezza del thema decidendum e all’ambito soggettivo, è consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte l’orientamento secondo cui, poiché il giudizio di merito è autonomo rispetto a quello cautelare, non solo nel primo possono essere formulate domande nuove rispetto a quanto dedotto nella fase cautelare, ma nemmeno vi è necessaria coincidenza soggettiva tra le parti del primo e quelle del secondo, con la conseguenza che nella fase di merito ben possono partecipare ulteriori soggetti, sia volontariamente in via adesiva o autonoma, sia a seguito di chiamata in causa, a condizione, sì come precisato da Sez. 2, n. 28197/2020, Carrato, Rv. 659837 - 01, che le loro pretese siano collegate al rapporto dedotto in giudizio (v., altresì, Cass. n. 22830/2010). Del resto, la procura alle liti conferita in termini ampi ed onnicomprensivi è idonea, in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa processuale attuativa dei principi di economia processuale, di tutela del diritto di azione, nonché di difesa della parte ex artt. 24 e 111 Cost., ad attribuire al difensore il potere di esperire tutte le iniziative atte a tutelare l’interesse del proprio assistito, ivi inclusa la chiamata del terzo al quale ritenga comune la causa (cfr. Cass. SU n. 4909/2016). Nel solco di questa impostazione, la citata Sez. 2, n. 28197/2020, ha affermato il principio di diritto in base al quale la procura alle liti conferisce al difensore il potere di proporre tutte le domande che non eccedano l’ambito della lite originaria, sicché in essa rientra anche la facoltà di chiamare un terzo in causa, quale corresponsabile o responsabile esclusivo dell’evento dannoso ovvero di altra situazione collegata con la domanda originaria nel suo ambito oggettivo.

L’estinzione del giudizio amministrativo per perenzione determina la caducazione automatica, a ogni effetto, del provvedimento cautelare eventualmente emesso nel suo ambito, in virtù di un principio generale del diritto processuale. E così, in una fattispecie relativa al caso di una psicologa equiparata ai medici psichiatri con provvedimento cautelare amministrativo emesso prima della privatizzazione del pubblico impiego, Sez. L, n. 13629/2020, Marotta, Rv. 658483 - 01, ha confermato la decisione del giudice del lavoro che, adito dopo l’estinzione del giudizio di merito amministrativo e in epoca successiva alla privatizzazione, aveva negato il diritto della lavoratrice a mantenere lo “status” giuridico ed economico derivante dall’equiparazione.

Quanto al regime impugnatorio, Sez. 2, n. 28607/2020, Carrato, Rv. 659840 - 01, ha sostenuto che, in tema di procedimento cautelare o equiparato (nella specie, possessorio), avverso il provvedimento di condanna alle spese non è proponibile il ricorso per cassazione, ma trova applicazione l’art. 669 septies, comma 3, c.p.c., nella formulazione ratione temporis vigente (prima della modifica introdotta con l’art. 50, comma 1, della legge n. 69 del 2009), sicchè la condanna alle spese, anche se emessa all’esito del reclamo, è opponibile ai sensi degli artt. 645 e seguenti c.p.c., avendo tale norma una valenza generale, volta, com’è, a ricondurre al sistema oppositorio menzionato ogni statuizione sulle spese adottata in sede di procedimento cautelare.

11. Il sequestro giudiziario.

Sez. 6 - 2, n. 05709/2020, Tedesco, Rv. 657267 - 01, ha ribadito (n. 03127 del 1984, Rv. 435172 - 01) che il custode dei beni oggetto di sequestro giudiziario può stare in giudizio come attore o convenuto nelle controversie concernenti l’amministrazione dei beni, ma non in quelle che attengono alla proprietà od altro diritto reale degli stessi. Conseguentemente, il custode dei beni ereditari non ha legittimazione in controversia con la quale terze persone, assumendo la loro qualità di legittimari, facciano valere pretese sui beni stessi, incidendo siffatte pretese sulla titolarità di diritti reali, senza riferimento ai compiti di conservazione e di amministrazione del custode.

Del resto, per Sez. 2, n. 16057/2019, Casadonte, Rv. 654228 - 01, il custode di beni sottoposti a sequestro giudiziario, in quanto rappresentante di ufficio, nella sua qualità di ausiliario del giudice, di un patrimonio separato, costituente centro di imputazione di rapporti giuridici attivi e passivi, risponde direttamente degli atti compiuti in tale veste, anche se in esecuzione di provvedimenti del giudice ai sensi dell’art. 676 c.p.c., ed è pertanto legittimato a stare in giudizio, attivamente e passivamente, limitatamente alle azioni relative a tali rapporti, attinenti alla custodia ed amministrazione dei beni sequestrati.

12. I procedimenti di istruzione preventiva.

L’accertamento tecnico preventivo può essere chiesto prima dell’instaurazione della causa o in corso di essa. Se il provvedimento, a mezzo del quale è disposto, è emesso fuori dell’udienza, deve essere comunicato alle parti in modo che esse possano partecipare all’atto di istruzione preventiva e svolgere le proprie opportune difese; altrimenti nei loro confronti l’accertamento è nullo. Se, però, è disposto prima che il soggetto acquisti la qualità di parte del processo, come avviene quando egli non sia stato ancora chiamato in causa, l’accertamento, pienamente valido nel confronti delle parti, non è a lui opponibile (Cass. 4986/2012). Nel ribadire questo principio, Sez. 3, n. 24981/2020, Fiecconi, Rv. 659580 - 01, ne ha tratto l’ulteriore conseguenza che, nel caso di accertamento disposto prima dell’inizio della causa, l’opponibilità del risultato probatorio presuppone che il soggetto nei cui confronti è utilizzato venga citato a partecipare.

Sez. 2, n. 08637/2020, Varrone, Rv. 657694 - 02, ha ribadito (n. 03357 del 2016, Rv. 638685 - 01) che l’accertamento tecnico preventivo rientra nella categoria dei giudizi conservativi e, pertanto, la notificazione del relativo ricorso con il pedissequo decreto giudiziale determina, ai sensi dell’art. 2943 c.c., l’interruzione della prescrizione, che si protrae fino alla conclusione del procedimento, ritualmente coincidente con il deposito della relazione del consulente nominato. Qualora il procedimento si prolunghi oltre tale termine con autorizzazione al successivo deposito di una relazione integrativa, esso si trasforma in un procedimento atipico, con la conseguenza che la permanenza dell’effetto interruttivo della prescrizione non è più applicabile.

A sua volta, Sez. 6 - 2, n. 09735/2020, Giannaccari, Rv. 658013 - 01, ha confermato (n. 14268 del 2017, Rv. 644644 - 01) che le spese dell’accertamento tecnico preventivo ante causam devono essere poste, a conclusione della procedura, a carico della parte richiedente, in virtù dell’onere di anticipazione e del principio di causalità, e devono essere prese in considerazione, nell’eventuale successivo giudizio di merito, come spese giudiziali, da regolare in base agli ordinari criteri di cui agli artt. 91 e 92 c.p.c.

13. Il procedimento sommario di cognizione: le preclusioni.

In tema di procedimento sommario di cognizione, Sez. 3, n. 13879/2020, Scarano, Rv. 658308 - 01, ha affermato che le preclusioni maturate nel corso dello stesso non si applicano al giudizio ordinario a cognizione piena che si instaura all’esito della conversione del rito, poiché l’art. 702-bis c.p.c. non dispone nulla al riguardo, mentre l’art. 702-ter c.p.c. prevede espressamente che il giudice, in seguito alla detta conversione, fissi l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., con conseguente necessità di osservare i termini ex artt. 163-bis, comma 1, c.p.c. e 166 c.p.c. a tutela del diritto di difesa del convenuto.

Qualora nel corso di un procedimento introdotto con il rito sommario di cognizione insorga una questione di pregiudizialità rispetto ad altra controversia, che imponga un provvedimento di sospensione necessaria ai sensi dell’art. 295 c.p.c. (o venga invocata l’autorità di una sentenza resa in altro giudizio e tuttora impugnata, ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c.), si determina la necessità di un’istruzione non sommaria e, quindi, il giudice non può adottare un provvedimento di sospensione, ma deve, a norma dell’art. 702-ter, comma 3, c.p.c., disporre il passaggio al rito della cognizione piena (Cass. n. 31801 del 07/12/2018): ne consegue che, secondo Sez. Sez. 1, n. 25660/2020, L. Tricomi, Rv. 659892 - 01, risulta illegittima l’adozione del provvedimento di sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c. o dell’art. 337, comma 2, c.p.c. (così anche Cass. n. 00003 del 2/1/2012; Cass. n. 22605 del 24/10/2014; Cass. n. 21914 del 27/10/2015; Cass. n. 02272 del 30/01/2017).

In questo contesto si inserisce la sentenza n. 253 del 26 novembre 2020, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 702-ter, comma 2, ultimo periodo, c.p.c., nella parte in cui consente di dichiarare inammissibile la domanda riconvenzionale soggetta a riserva di collegialità, quand’anche legata da un nesso di pregiudizialità-dipendenza “forte” con la domanda principale, senza garantire la trattazione unitaria, dovendo invece, in siffatta evenienza, il giudice adito disporre il mutamento del rito (come nell’ipotesi, prevista dal comma 3 dell’art. 702-ter c.p.c., in cui le difese svolte dalle parti richiedano un’istruzione non sommaria) e fissare l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. (così indirizzando la cognizione delle due domande congiuntamente nello stesso processo secondo il rito ordinario). In quest’ottica, anche se la parte convenuta nel procedimento sommario, che proponga una domanda riconvenzionale soggetta a riserva di collegialità, legata a quella principale da un nesso di pregiudizialità, non ha diritto al simultaneus processus, neppure quest’ultimo le può essere precluso dalla pronuncia di inammissibilità prevista dall’art. 702-ter, comma 2, ultimo periodo c.p.c.. La decisione della Consulta è chiaramente finalizzata ad evitare gli inconvenienti della trattazione separata della causa pregiudicata, con procedimento sommario, e della causa pregiudicante, con procedimento ordinario, fino, talora, all’estremo del conflitto di giudicati.

13.1. L’impugnazione dell’ordinanza conclusiva.

Per Sez. 6 - 3, n. 06318/2020, Scrima, Rv. 657291 - 01, l’impugnazione dell’ordinanza conclusiva del giudizio sommario di cui all’art. 702 ter c.p.c. può essere proposta esclusivamente nella forma ordinaria dell’atto di citazione, non essendo espressamente prevista dalla legge per il secondo grado di giudizio l’adozione del rito sommario quale modalità alternativa al rito ordinario; né è possibile, in caso di appello introdotto mediante ricorso, la salvezza degli effetti dell’impugnazione, mediante lo strumento del mutamento del rito previsto dall’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 150 del 2011.

La pronuncia si pone in contrasto con Sez. 2, n. 24379/2019, Casadonte, Rv. 655255 - 01, la quale, pur condividendo il primo assunto, ritiene che, ove l’appello sia stato introdotto con ricorso, la sanatoria è ammissibile solo se l’atto sia stato non solo depositato nella cancelleria del giudice competente, ma anche notificato alla controparte nel termine perentorio di cui all’art. 325 c.p.c.

Va, in proposito, ricordato che l’errato nomen juris di sentenza attribuito al provvedimento conclusivo di merito con cui viene accolta (o rigettata) una domanda proposta ai sensi degli artt. 702-bis e ss. c.p.c., all’esito di un giudizio interamente svoltosi secondo le regole del procedimento sommario di cognizione, senza che risulti una consapevole scelta del giudice di qualificare diversamente l’azione o di convertire il rito in ordinario, non comporta, secondo Sez. 2, n. 30850/2019, Scarpa, Rv. 656192 - 01, l’applicazione del termine d’impugnazione di sei mesi, previsto dall’art. 327 c.p.c., restando comunque l’appello soggetto al regime suo proprio di cui all’art. 702-quater c.p.c.

È inammissibile per inosservanza del termine ex art. 702-quater c.p.c. l’appello proposto oltre il termine di trenta giorni dalla notificazione dell’ordinanza impugnata, trattandosi di sanzione che risponde alle finalità di assicurare la certezza ai diritti e la buona amministrazione della giustizia, ove venga invocato l’errore scusabile in ordine ad accadimenti obiettivamente estranei al processo. In applicazione di questo principio, Sez. 1, n. 14411/2020, Marulli, Rv. 658257 - 01, a fronte della affermazione del nuovo difensore della parte appellante secondo cui il primo difensore non avrebbe dato corso al mandato difensivo di proporre tempestivamente l’appello avverso la decisione sfavorevole di primo grado, non ha ritenuto applicabile la rimessione in termini.

Sez. 3, n. 02467/2020, Olivieri, Rv. 656727 - 01, ha reputato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale - per asserita violazione degli artt. 24 e 117, comma 1, Cost. in relazione agli artt. 47 della Carta di Nizza e 6 della CEDU, quali norme interposte - dell’art. 702-quater c.p.c., nella parte in cui stabilisce che l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione è appellabile entro il termine breve di trenta giorni dalla sua comunicazione ad opera della cancelleria, trattandosi di schema procedimentale che, rispondendo allo scopo di garantire la stabilità delle decisioni non impugnate entro un determinato termine, ritenuto dall’ordinamento nazionale adeguato ai fini di una ponderata determinazione della parte interessata, non è incompatibile con il principio di effettività della tutela giurisdizionale.

13.2. Alcuni procedimenti speciali.

In tema di liquidazione del compenso ai periti, Sez. 6 - 2, n. 04735/2020, Criscuolo, Rv. 657263 - 01, ha affermato che il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza che abbia deciso sull’opposizione ex art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002 può essere proposto entro il termine lungo ex art. 327 c.p.c., non trovando applicazione la previsione, relativa al procedimento sommario di cognizione, secondo la quale l’appello avverso l’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c. deve essere proposto nel termine di trenta giorni dalla sua comunicazione, ma la disciplina del ricorso straordinario ex art. 111 Cost., venendo in rilievo un provvedimento non altrimenti impugnabile che incide con carattere di definitività su diritti soggettivi.

14. I procedimenti in materia di famiglia.

Sez. 1, n. 08432/2020, Mercolino, Rv. 657610 - 01, ha colto l’occasione per chiarire che, nel corso del giudizio di separazione personale dei coniugi, la corte d’appello adita in sede di reclamo avverso l’ordinanza emessa dal presidente del tribunale ai sensi dell’art. 708, comma 3, c.p.c., non deve statuire sulle spese del procedimento, poiché, trattandosi di provvedimento cautelare adottato in pendenza della lite, spetta al tribunale provvedere sulle spese, anche per la fase di reclamo, con la sentenza che conclude il giudizio.

14.1. I provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni.

In tema di rapporti con la prole, il diritto-dovere di visita del figlio minore spettante al genitore non collocatario non è suscettibile di coercizione neppure nelle forme indirette previste dall’art. 614-bis c.p.c., trattandosi di un “potere-funzione” che, non essendo sussumibile negli obblighi la cui violazione integra una grave inadempienza ex art. 709-ter c.p.c., è destinato a rimanere libero nel suo esercizio, quale esito di autonome scelte che rispondono anche all’interesse superiore del minore ad una crescita sana ed equilibrata. In applicazione di tale principio, Sez. 1, n. 06471/2020, Scalia, Rv. 657421 - 01, ha cassato il provvedimento del giudice di merito, che aveva condannato il genitore non collocatario al pagamento di una somma in favore dell’altro genitore, per ogni inadempimento all’obbligo di visitare il figlio minore.

14.2. La modifica dei provvedimenti relativi alla separazione dei coniugi.

Nei giudizi aventi ad oggetto le modifiche alle statuizioni consequenziali alla separazione personale ed al divorzio, in applicazione del principio rebus sic stantibus, possono essere proposte domande in corso di causa ove siano giustificate da sopravvenienze fattuali, ma nel rispetto del principio del contraddittorio, sicché risulta inammissibile la richiesta di un contributo per il mantenimento del figlio introdotta soltanto nelle note conclusive del giudizio di appello, senza alcuna possibilità di interlocuzione per la controparte. Sez. 1, n. 19020/2020, Acierno, Rv. 658881 - 01, ha espresso il principio in relazione alla domanda, tardivamente proposta dal marito, di gravare la moglie di un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne ma non autosufficiente, il quale era andato a convivere con il padre nel corso del giudizio.

Sez. 1, n. 11636/2020, De Marzo, Rv. 657949 - 01, ha escluso che il procedimento di modifica delle condizioni di separazione dei coniugi, il cui thema decidendum è rappresentato dall’esistenza di rilevanti mutamenti di fatto delle condizioni poste a base della decisione, comporti anche un accertamento con efficacia di giudicato sull’assenza dell’avvenuta riconciliazione dei coniugi, ove la questione non sia stata posta da alcuna delle parti processuali.

Da ultimo, Sez. 6 - 1, n. 15421/2020, Acierno, Rv. 658370 - 01, ha ribadito (n. 25636 del 2016, Rv. 641906 - 01) che le controversie che hanno ad oggetto la revisione dei provvedimenti relativi all’affidamento ed al mantenimento dei minori, ancorché contenuti in una pronuncia di separazione personale o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, devono essere radicate nel luogo di residenza abituale dei minori, nel rispetto delle regole dettate dal diritto internazionale convenzionale e ribadite nel nostro ordinamento positivo dall’art. 709 ter c.p.c., suscettibile di interpretazione estensiva, essendo il nuovo regime derivante dalla riforma della filiazione introdotta dalla l. n. 219 del 2012 e dal d.lgs. n. 154 del 2013, teso ad assicurare l’uniformità di regolazione giuridica della responsabilità genitoriale in sede separativa, divorzile ed in relazione ai figli nati fuori dal matrimonio.

15. I provvedimenti di interdizione, di inabilitazione e di amministrazione di sostegno.

Sez. U, n. 04250/2020, Sambito, Rv. 657194 - 01, risolvendo un contrasto di vedute, ha definitivamente statuito che nei procedimenti di interdizione o inabilitazione, i parenti e gli affini dell’interdicendo o dell’inabilitando - i quali, a norma dell’art. 712 c.p.c., devono essere indicati nel ricorso introduttivo - non hanno qualità di parti in senso tecnico-giuridico, né sono litisconsorti, ma svolgono funzioni “consultive”, essendo fonti di informazione per il giudice, sicchè la loro partecipazione al giudizio va inquadrata nell’ambito dell’intervento volontario a carattere necessariamente adesivo (delle ragioni dell’istante o del soggetto della cui capacità si discute); ne consegue che costoro, non essendo assimilabili al convenuto in giudizio, non sono legittimati ad eccepire il difetto di giurisdizione, e ciò in riferimento sia all’art. 11 della l. n. 218 del 1995 che alle disposizioni generali di cui all’art. 268 c.p.c.

D’altra parte, nel giudizio di interdizione, regolato - per quanto non derogato da norme speciali - dai principi propri del processo ordinario di cognizione, lo stesso interdicendo, convenuto in lite, può eccepire il difetto di giurisdizione ex art. 11 della l. n. 218 del 1995 soltanto ove non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana. E così sempre Sez. U, n. 04250/2020, Sambito, Rv. 657194 - 02, ha ritenuto inammissibile l’eccezione di difetto di giurisdizione proposta da un interdicendo dopo che, nella comparsa di costituzione, si era difeso nel merito senza sollevare la questione.

Nel caso in cui il beneficiario dell’amministrazione di sostegno si trovi in stato di detenzione in esecuzione di una sentenza definitiva di condanna, la competenza territoriale va riconosciuta al giudice del luogo in cui il detenuto aveva la sua dimora abituale prima dell’inizio dello stato detentivo, non potendo trovare applicazione il criterio legale che individua la residenza (con la quale coincide, salva prova contraria, la dimora abituale) nel luogo in cui è posta la sede principale degl’interessi e degli affari della persona, dal momento che tale criterio, implicando il carattere volontario dello stabilimento, postula un elemento soggettivo la cui sussistenza resta esclusa per definizione nel caso in cui l’interessato, essendo sottoposto a pena detentiva, non possa fissare liberamente la propria dimora. In applicazione di questo principio, in una fattispecie relativa al reclamo proposto dal detenuto contro il provvedimento di cessazione dell’amministrazione di sostegno, Sez. 6 - 1, n. 07241/2020, Mercolino, Rv. 657558 - 02, ha regolato la competenza in base alla residenza anteriore all’inizio della detenzione, non risultando il mutamento della sede principale degli affari e interessi per effetto della detenzione e, in particolare, per il trasferimento del ricorrente, intervenuto nel frattempo, ad altra casa di reclusione.

Sempre in tema di amministrazione di sostegno, ancora Sez. 6 - 1, n. 07241/2020, Mercolino, Rv. 657558 - 01, ha confermato (n. 06861 del 2013, Rv. 625625 - 01) che l’istanza di regolamento di competenza può essere sottoscritta anche dalla parte personalmente, atteso che il relativo procedimento, a differenza di quelli d’interdizione o inabilitazione, non richiede il ministero di un difensore, almeno nelle ipotesi, corrispondenti al modello legale tipico, in cui l’emanando provvedimento abbia ad oggetto esclusivamente l’individuazione di singoli atti, o categorie di essi, in relazione ai quali è richiesto l’intervento dell’amministratore e non incida sui diritti fondamentali della persona attraverso la previsione di effetti, limitazioni o decadenze analoghi a quelli previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o per l’inabilitato.

Infine, in tema di reclamo contro il provvedimento di chiusura dell’amministrazione di sostegno, sempre Sez. 6 - 1, n. 07241/2020, Rv. 657558 - 03, ha avuto modo di chiarire che, ai fini dell’instaurazione del rapporto processuale, deve considerarsi irrilevante la mancata notificazione del ricorso al P.M. presso il giudice a quo, avendo l’impugnazione ad oggetto un provvedimento emesso all’esito di un procedimento unilaterale in cui l’unica parte necessaria è il beneficiario dell’amministrazione, con la conseguenza che la mancata partecipazione del P.M. non comporta la pretermissione di un litisconsorte necessario, costituendo tale notificazione un requisito di ammissibilità dell’impugnazione esclusivamente per i giudizi contenziosi o, comunque, per i procedimenti con pluralità di parti, e non è estensibile al procedimento in esame, nel quale non è individuabile un interesse diverso da quello del soggetto istante, dal momento che in tal caso non esiste una controparte cui notificare il ricorso, non potendosi legittimamente qualificare come parte il P.M.

16. I procedimenti in camera di consiglio: il regime impugnatorio.

L’impugnazione proposta davanti al giudice incompetente, anche nell’ambito dei procedimenti di volontaria giurisdizione, non è inammissibile, in quanto comunque idonea ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della translatio iudicii; ne consegue che, avverso il provvedimento che erroneamente dichiari l’inammissibilità dell’impugnazione, è esperibile il rimedio del regolamento necessario di competenza. Nell’enunciare il principio, in una fattispecie in cui il provvedimento di rigetto dell’istanza di dilazione per l’accettazione dell’eredità era stato reclamato non già davanti al tribunale in composizione collegiale ex art. 749, comma 3, c.p.c., ma alla corte d’appello, che lo aveva dichiarato inammissibile, Sez. 6 - 2, n. 15463/2020, Abete, Rv. 658735 - 01, investita con regolamento di competenza, ha censurato la decisione nella parte relativa all’inammissibilità, rimettendo le parti davanti al giudice competente. Così statuendo, si è posta in linea con n. 08155 del 2018, Rv. 648698 - 01, e, ancor prima, con Sezioni Unite n. 18121 del 2016, Rv. 641081 - 01, ma in contrasto con Sez. 6 - 1, n. 05092/2018, Scaldaferri, Rv. 649140 - 01, secondo cui l’appello erroneamente proposto ad un giudice diverso da quello legittimato a riceverlo esula dalla nozione di competenza dettata dal codice di procedura civile per il giudizio di primo grado, sicchè l’ipotesi non è riconducibile all’art. 50 c.p.c. e alla regola della translatio udicii, ponendosi, l’erronea individuazione del giudice dell’impugnazione, come questione attinente non ai poteri cognitivi dell’organo giudicante adito, bensì alla mera valutazione delle condizioni di proponibilità o ammissibilità del gravame che, pertanto, va dichiarato precluso se prospettato ad un giudice diverso da quello individuato per legge.

Sez. 6 - 1, n. 02414/2020, M. Di Marzio, Rv. 656985 - 01, ha ribadito (n. 14731 del 2016, Rv. 640717 - 01) che, nei procedimenti di impugnazione che si svolgono con rito camerale, il gravame è ritualmente proposto con il tempestivo deposito del ricorso in cancelleria, mentre la notifica dello stesso e del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza risponde esclusivamente alla finalità di assicurare l’instaurazione del contraddittorio, sicché la scadenza del termine all’uopo fissato, non preceduta dalla notifica o dalla presentazione di un’istanza di proroga, non comporta alcuna preclusione, ma implica soltanto la necessità di fissare un nuovo termine per notificare, a meno che la controparte non si sia costituita in giudizio sanando ogni vizio con efficacia ex tunc.

Secondo Sez. 6 - 2, n. 05990/2020, Criscuolo, Rv. 657576 - 01, l’ordinanza del tribunale che abbia deciso sull’opposizione avverso il decreto di liquidazione dei compensi spettanti al c.t.u. incide con carattere di definitività su diritti soggettivi; non essendo altrimenti impugnabile, anche in virtù del disposto di cui all’art. 14, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, essa è soggetta a ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., il cui termine breve di proposizione decorre, a norma dell’art. 739 c.p.c., dalla notificazione dell’ordinanza; in assenza di tale notificazione, deve reputarsi applicabile il termine lungo d’impugnazione di cui all’art. 327 c.p.c.

16.1. L’istruttoria e le spese.

In tema di protezione internazionale (per una cui analisi a 360° si rinvia alla parte prima, cap. III, § 1), nel procedimento camerale di cui all’art. 35-bis, d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, connotato dalle medesime esigenze di celerità e sommarietà delle indagini proprie del procedimento camerale applicato a diritti soggettivi, trova applicazione il principio generale immanente al rito ordinario secondo cui un giudice può essere delegato dal collegio alla raccolta di elementi probatori o ad altri incombenti da sottoporre, successivamente, alla piena valutazione dell’organo collegiale. In applicazione di tale principio, Sez. 2, n. 18787/2020, Varrone, Rv. 659121 - 01, ha ritenuto legittima l’audizione del richiedente da parte del giudice relatore su delega del collegio.

Sez. 1, n. 16736/2020, Iofrida, Rv. 658967 - 01, ha precisato che l’art. 96 c.p.c., nei suoi due commi, disciplina la responsabilità per i danni causati dall’attività di parte in qualsiasi tipo di processo e, quindi, non soltanto nei processi cognitivi, cautelari ed esecutivi, ma anche nei procedimenti di volontaria giurisdizione.

16.2. La revocabilità dei provvedimenti.

In tema di condominio negli edifici, Sez. 6 - 2, n. 15995/2020, Scarpa, Rv. 658464 - 01, ha ritenuto non ammissibile il ricorso straordinario per cassazione contro il decreto della Corte di appello che, in sede di reclamo, abbia provveduto sulla domanda di revoca dell’amministratore, al fine di proporre, sotto forma di vizi “in iudicando” o “in procedendo”, censure che rimettano in discussione la sussistenza o meno di gravi irregolarità nella gestione (nella specie, riconducibili alla mancata convocazione dell’assemblea), perché tale statuizione, adottata all’esito di un procedimento di volontaria giurisdizione, è priva di efficacia decisoria e non incide su situazioni sostanziali di diritti o “status”, potendo invece il decreto essere impugnato davanti al giudice di legittimità limitatamente alla statuizione sulle spese di giudizio, concernente posizioni giuridiche soggettive di debito e credito, che discendono da un autonomo rapporto obbligatorio.

A ben vedere, già in precedenza Sez. 6 - 2, n. 07623/2019, Scarpa, Rv. 653375 - 01, aveva evidenziato che il decreto con il quale la corte di appello provvede sul reclamo in ordine alla domanda di revoca dell’amministratore di condominio non è ricorribile in cassazione ex art. 111 Cost., perché privo dei caratteri di definitività e decisorietà; ai sensi dell’art. 742 c.p.c., tuttavia, può essere revocato o modificato dalla stessa corte di appello per preesistenti vizi di legittimità o per un ripensamento sulle ragioni che indussero ad adottarlo, mentre resta attribuita al tribunale, quale giudice di primo grado, la competenza a disporne la revisione sulla base di fatti sopravvenuti.

  • contratto
  • ordine pubblico
  • giurisdizione
  • clausola compromissoria
  • pubblica amministrazione

CAPITOLO XX

L’ARBITRATO

(di Fabio Antezza )

Sommario

1 Premessa. - 2 Convenzione d’arbitrato: interpretazione, potestas iudicandi e suoi limiti, vessatorietà e collegamento negoziale. - 3 (segue) Contratto ad effetti processuali: autonomia e contratto preliminare. - 4 Rapporti con statuto di società di persone, potestas iudicandi e limiti alla rilevabilità d’ufficio della nullità. - 5 La clausola compromissoria tra indisponibilità del diritto controverso e inderogabilità delle norme. - 6 Arbitrato, arbitraggio, perizia contrattuale e assicurazione contro i danni. - 7 Pubblica Amministrazione e arbitrato (irrituale e rituale) nella materia dell’appalto di opere pubbliche. - 8 Anticipazione delle spese ed arbitrato amministrato ex art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006. - 9 Arbitrato irrituale in materia di lavoro privato. - 10 Rapporti tra potestas iudicandi, verifica del Giudice dell’impugnazione e sindacato di legittimità. - 11 L’impugnazione delle deliberazioni di aumento del capitale sociale. - 12 Ordine pubblico e regole di diritto sostanziale e processuale nella decisione degli arbitri. - 13 Impugnazione per nullità. - 14 (segue) Natura e conseguenze. - 15 L’interesse ad impugnare nella violazione del contraddittorio e la fase rescissoria nel difetto della potestas iudicandi. - 16 Il termine per impugnare. - 17 L’impugnazione immediata del lodo parziale. - 18 Questioni di giurisdizione e di merito, rapporti con il G.A., regolamento di competenza e poteri della S.C. - 19 Il riconoscimento del lodo arbitrale estero.

1. Premessa.

Nel corso del 2020, anche argomentando dalla natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario propria degli arbitri rituali, sono state emesse dalla S.C. numerose decisioni in ordine all’interpretazione del patto compromissorio ed alla relativa portata, alla validità della convenzione di arbitrato ed al c.d. “arbitrato societario”, ed all’impugnazione delle delibere di aumento del capitale sociale.

Sono stati altresì diversi i principi sanciti e confermati in merito ai rapporti con l’appalto di opere pubbliche, con l’autorità giudiziaria ordinaria, con il G.A. nonché in tema di procedimento arbitrale, di impugnabilità del lodo per errori di diritto oltre che di riconoscimento di lodo arbitrale estero.

2. Convenzione d’arbitrato: interpretazione, potestas iudicandi e suoi limiti, vessatorietà e collegamento negoziale.

L’art. 808-quater c.p.c., in materia di interpretazione della convenzione d’arbitrato, dispone che, nel dubbio, essa debba essere interpretata nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce.

Sicché, per Sez. 6-3, n. 03523/2020, Scoditti, Rv. 657294-01, ove tale clausola sia stata inserita nell’atto di cessione ad una società delle quote di capitale di una s.r.l., in seguito sottoposte a sequestro nell’ambito di una misura di prevenzione, spetta all’Autorità giudiziaria e non agli arbitri la cognizione della controversia, relativa al successivo accordo con il quale i precedenti titolari delle quote in questione e l’Amministrazione giudiziaria interessata hanno assunto, in favore delle due società coinvolte nel menzionato atto, un obbligo di garanzia di alcuni crediti specificamente indicati. In particolare, è esclusa l’esistenza di una fonte legale di responsabilità dei venditori delle dette quote poiché anche nella società semplice l’art. 2290 c.c., nel prevedere una siffatta responsabilità verso i terzi per le obbligazioni sociali anteriori alla cessione, non la estende nei confronti della società o dei cessionari, salvo che una simile garanzia non sia stata pattuita.

La S.C. fa esplicita applicazione della costante giurisprudenza di legittimità per la quale la clausola compromissoria, che si riferisce genericamente alle controversie nascenti dal contratto cui inerisce, in mancanza di espressa volontà contraria, deve essere interpretata nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte le controversie che si riferiscono a pretese aventi la loro causa petendi nel contratto medesimo. Essa chiarisce che, in ragione della circostanza per la quale il deferimento di una controversia al giudizio degli arbitri comporta una deroga alla giurisdizione dell’Autorità giudiziaria, la clausola compromissoria deve essere espressa in modo chiaro ed univoco con riguardo alla precisa determinazione dell’oggetto delle future controversie e, in caso di dubbio in ordine all’interpretazione della portata della clausola compromissoria, deve preferirsi un’interpretazione restrittiva di essa e affermativa della giurisdizione statuale. Deve peraltro escludersi che, tramite la clausola compromissoria contenuta in un determinato contratto, la deroga alla giurisdizione dell’Autorità giudiziaria e il deferimento agli arbitri si estendano a controversie relative ad altri contratti, ancorché collegati al contratto principale, cui accede la predetta clausola. In tal senso si veda altresì la precedente Sez. 3, n. 00941/2017, Cirillo, Rv. 642703-01, in fattispecie di collegamento di un contratto di sublocazione ad uno di locazione al quale ineriva la convenzione di arbitrato, che ha concluso in termini sostanzialmente conformi a Sez. I, n. 02598/2006, Ceccherini, Rv. 586803-01.

La citata statuizione del 2020, peraltro, è in linea con la precedente Sez. 1, n. 03795/2019, Lamorgese, Rv. 652416-01, che ha ribadito il principio per il quale la clausola compromissoria, in mancanza di espressa volontà contraria, deve essere interpretata nel senso di ascrivere agli arbitri tutte le controversie (civili o commerciali) attinenti a diritti disponibili nascenti dal contratto cui essa accede, quindi inerenti pretese aventi causa petendi in esso, sicché, anche quelle (controversie) riferibili al periodo antecedente alla stipulazione della convenzione d’arbitrato. La fattispecie era caratterizzata da clausola rimettente alla decisione degli arbitri “tutte le questioni che potessero sorgere durante la concessione o successivamente sulla validità, interpretazione ed esecuzione” della stessa convenzione e la Suprema Corte ha chiarito che, correttamente, l’interpretazione della clausola compromissoria da parte del Giudice dell’impugnazione del lodo non fosse stata soggetta alle restrizioni valevoli per le interpretazioni delle altre clausole contrattuali, trattandosi di circoscrivere la stessa potestas iudicandi degli arbitri.

In argomento, con particolare riferimento a rapporti tra clausola compromissoria e collegamento negoziale, Sez. 1, n. 29332/2020, Terrusi, Rv. 660187 - 02, ribadisce che la deroga alla competenza del giudice ordinario non può essere affermata tramite la clausola compromissoria contenuta in un determinato contratto ove si tratti di controversie relative ad altri contratti, ancorché collegati al principale cui accede la clausola (in merito si veda, ex plurimis, Sez. 3, n. 00941/2017, Cirillo, Rv. 642703-01).

Tuttavia, prosegue Sez. 1, n. 29332/2020, quanto innanzi non opera con riferimento alle pattuizioni aggiuntive o modificative del contratto originario enucleabili nel contesto di un medesimo programma negoziale. In tali casi, ove si discuta cioè di atti aggiuntivi finalizzati a meri adeguamenti progettuali, non può sostenersi che la clausola compromissoria non si estenda alle controversie così insorte (ex plurimis, Sez. 1, n. 05371/2001, Cafiero, Rv. 545821-01) ove la clausola contempli tutte le controversie originate dal contratto al quale lo stesso atto aggiuntivo funzionalmente accede; circostanza, quest’ultima, da valutarsi all’esito di una interpretazione funzionale (art. 1363 c.c.) tesa all’individuazione della concreta comune intenzione delle parti ex art. 1362 c.c. (previa indagine, nella specie, sul significato della relatio tra le prestazioni, quella dell’atto aggiuntivo e quella prevista dalla convenzione originaria).

In tema di rapporti tra vessatorietà della clausola compromissoria per arbitrato rituale (nella specie sottoscritta dal solo conduttore nella locazione ultranovennale e non anche dal locatore), specifica approvazione per iscritto ex art. 1342 c.c. ed art. 829 c.p.c., Sez. 1, n. 02730/2020, Iofrida, non massimata, applica un consolidato principio in tema di clausole vessatorie (sul quale si veda, ex plurimis, Sez. 2, n. 06753/2018, Carrato, Rv. 647858-01). Possono difatti qualificarsi come contratti “per adesione”, rispetto ai quali sussiste l’esigenza della specifica approvazione scritta delle clausole vessatorie, soltanto quelle strutture negoziali destinate a regolare una serie indefinita di rapporti, tanto dal punto di vista sostanziale (se, cioè, predisposte da un contraente che esplichi attività contrattuale all’indirizzo di una pluralità indifferenziata di soggetti), quanto dal punto di vista formale (ove, cioè, predeterminate nel contenuto a mezzo di moduli o formulari utilizzabili in serie), mentre esulano da tale categoria i contratti, come quello di cui alla fattispecie, predisposti da uno dei due contraenti in previsione e con riferimento ad una singola, specifica vicenda negoziale, rispetto ai quali l’altro contraente può, del tutto legittimamente, richiedere ed apportare le necessarie modifiche dopo averne liberamente apprezzato il contenuto, nonché, a maggior ragione, quelli in cui il negozio sia stato concluso a seguito e per effetto di trattative tra le parti. La citata ordinanza del 2020 esclude comunque che l’usufruttuario dell’immobile subentrato all’originario locatore nel rapporto di locazione possa far valere la mancata specifica sottoscrizione della clausola compromissoria da parte del locatore predisponente il contratto. Ciò, in applicazione del principio per il quale in tema di condizioni generali di contratto, essendo la specifica approvazione per iscritto delle clausole cosiddette vessatorie, ai sensi dell’art. 1341, comma 2, c.c., requisito per l’opponibilità delle clausole medesime al contraente aderente, quest’ultimo è il solo legittimato a farne valere l’eventuale mancanza, sicché la nullità di una clausola onerosa senza specifica approvazione scritta dell’aderente non può essere invocata dal predisponente (ex plurimis, Sez. 2, n. 20205/2017, Proto, Rv. 645230-01; in senso difforme, pero, Sez. 3, n. 16394/2009, Filadoro, 609141-01). Quanto da ultimo è stato però statuito dalla S.C. dopo aver esplicitamente escluso che, nella specie, il motivo di ricorso per cassazione investisse la questione della successione a titolo particolare nel rapporto di locazione di Enpam con il conseguente trasferimento del vincolo nascente dalla clausola compromissoria che impegnava le parti originarie a deferire ad arbitri rituali ogni e qualsiasi controversia tra loro insorta circa l’attuazione, l’interpretazione e la risoluzione del contratto.

3. (segue) Contratto ad effetti processuali: autonomia e contratto preliminare.

La clausola compromissoria contenuta in un preliminare di compravendita sopravvive alla sua mancata riproduzione nel contratto definitivo, trattandosi di negozio autonomo ad effetti processuali, avente funzione distinta dal contratto preliminare cui accede; ne consegue che le parti possono porla nel nulla solo mediante una manifestazione di volontà specificamente diretta a tale effetto.

Sez. 6-2, n. 01439/2020, Fortunato, Rv. 656867-01, ribadisce in particolare che la clausola compromissoria costituisce un contratto ad effetti processuali a sé stante, sia rispetto al contratto in cui sia inserita sia rispetto al contratto successivo che costituisca attuazione degli obblighi assunti con il primo negozio (in merito si vedano ex plurimis: Sez. 1, n. 17711/2014, De Marzo, Rv. 632468-01).

Tale principio trova conferma nell’art. 808, comma 3, c.p.c. (come novellato dalla l. n. 25 del 1994), per il quale la validità della clausola compromissoria deve essere valutata in modo autonomo rispetto al contratto al quale essa si riferisce (ex plurimis: Sez. 3, n. 04842/2000, Segreto, Rv. 535697-01; Sez. 1, n. 09162/1995, Rordorf, Rv. 493811-01). Sicché, proprio in ragione di tale autonomia, “la clausola contenuta nel preliminare non viene meno per effetto della … conclusione del definitivo”, a prescindere dalla sua mancata riproduzione in tale ultimo contratto, rilevando, ai fini della sua operatività, che la specifica controversia rientri tra quelle che le parti abbiano inteso rimettere al giudizio degli arbitri.

La citata statuizione del 2020 non ritiene invece risolutivo il richiamo all’orientamento giurisprudenziale secondo cui il contratto definitivo, una volta stipulato, costituisce l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni assunte dalle parti, poiché ciò vale per il rapporto sostanziale (nella specie di compravendita), ossia per l’assetto che le parti abbiano dato ai propri interessi mediante il definitivo, non anche per il distinto rapporto scaturente dal negozio compromissorio (in questi esatti termini, anche Sez. 1, n. 22608/2011, Scaldaferri, Rv. 620462-01). Diversamente, l’efficacia della clausola compromissoria verrebbe posta automaticamente nel nulla alla stipula definitivo, in pregiudizio della sua autonomia, potendo invece le parti porla nel nulla solo mediante una manifestazione di volontà specificamente diretta a tale effetto.

4. Rapporti con statuto di società di persone, potestas iudicandi e limiti alla rilevabilità d’ufficio della nullità.

La clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società di persone, che preveda la nomina di un arbitro unico ad opera dei soci e, nel caso di disaccordo, ad opera del presidente del tribunale su ricorso della parte più diligente, è affetta, sin dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2003, da nullità sopravvenuta rilevabile d’ufficio - ove non fatta valere altra e diversa causa di illegittimità in via d’azione - con la conseguenza che la clausola non produce effetti e la controversia può essere introdotta solo davanti al giudice ordinario.

Argomentando nei termini di cui innanzi Sez. 1, n. 16556/2020, Lamorgese, Rv. 658602-02, ha escluso la rilevabilità d’ufficio della predetta nullità in quanto il ricorrente aveva infondatamente denunciato, nel giudizio impugnatorio, una diversa causa di inesistenza della potestas iudicandi degli arbitri, dunque di illegittimità o inoperatività della clausola, in relazione al profilo del difetto di legittimazione degli eredi ad avvalersene (in senso conforme, ex plurimis, la precedente Sez. 1, n. 10132/2006, Del Core, Rv. 589466-01).

5. La clausola compromissoria tra indisponibilità del diritto controverso e inderogabilità delle norme.

In tema di arbitrato, non può e non deve confondersi l’area della inderogabilità delle norme, che gli arbitri devono applicare per risolvere la controversia, con l’area dell’indisponibilità del diritto controverso.

Ne consegue, che la validità ed efficacia della clausola compromissoria non è esclusa dalla natura inderogabile delle norme che regolano il rapporto giuridico che ne integra l’oggetto, ove i diritti delle parti abbiano natura disponibile, determinandosi esclusivamente l’effetto di ampliare il sindacato giurisdizionale sul lodo anche all’error in iudicando. Così potendo, come statuito nella specie da Sez. 6-1, n. 20462/2020, Terrusi, Rv. 659145-01, costituire oggetto di clausola compromissoria il pagamento degli oneri consortili.

6. Arbitrato, arbitraggio, perizia contrattuale e assicurazione contro i danni.

Nell’assicurazione contro i danni, la previsione della perizia contrattuale, rendendo inesigibile il diritto all’indennizzo fino alla conclusione delle operazioni peritali, sospende fino a tale momento la decorrenza del relativo termine di prescrizione ex art. 2952, comma 2, c.c., sempre che, tuttavia, il sinistro sia stato denunciato all’assicuratore entro il termine di prescrizione del diritto all’indennizzo, decorrente dal giorno in cui si è verificato, in questo modo potendosi attivare la procedura di accertamento del diritto ed evitandosi che la richiesta del menzionato indennizzo sia dilazionata all’infinito (Sez. 3, n. 03961/2012, Lanzillo, Rv. 621404-01).

Proprio in applicazione del detto principio, Sez. 6-3, n. 08973/2020, Iannello, Rv. 657936-01, ha cassato la pronuncia di merito che, nonostante il sinistro fosse stato denunciato entro il termine - ratione temporis vigente - di un anno dalla relativa verificazione, aveva ritenuto prescritto il diritto all’indennizzo sul presupposto che la dichiarazione di volersi avvalere della procedura arbitrale fosse stata fatta dall’assicurato oltre un anno dopo la suddetta denuncia, senza tener conto dell’effetto sospensivo determinato dalla previsione della perizia contrattuale.

Sovviene dunque la tradizionale distinzione tra arbitrato, arbitraggio e perizia contrattuale.

Con la clausola di arbitraggio, inserita in un negozio incompleto in uno dei suoi elementi, le parti demandano ad un terzo arbitratore la determinazione della prestazione, impegnandosi ad accettarla. Il terzo arbitratore, a meno che le parti si siano affidate al suo “mero arbitrio”, deve procedere con equo apprezzamento alla determinazione della prestazione, adottando cioè un criterio di valutazione ispirato all’equità contrattuale, che in questo caso svolge una funzione di ricerca in via preventiva dell’equilibrio mercantile tra prestazioni contrapposte e di perequazione degli interessi economici in gioco.

Pertanto l’equo apprezzamento si risolve in valutazioni che, pur ammettendo un certo margine di soggettività, sono ancorate a criteri obbiettivi, desumibili dal settore economico nel quale il contratto incompleto si iscrive, in quanto tali suscettibili di dare luogo ad un controllo in sede giudiziale circa la loro applicazione nel caso in cui la determinazione dell’arbitro sia viziata da iniquità o erroneità manifesta. Ciò si verifica quando sia ravvisabile una rilevante sperequazione tra prestazioni contrattuali contrapposte, determinate attraverso l’attività dell’arbitratore.

Costituisce fonte di integrazione contrattuale anche la perizia contrattuale. Essa ricorre quando le parti deferiscono ad uno o più soggetti, scelti per la loro particolare competenza tecnica, il compito di formulare un accertamento tecnico che esse preventivamente si impegnano ad accettare come diretta espressione della loro volontà contrattuale. La perizia contrattuale si distingue però dall’arbitraggio perché l’arbitro-perito non deve ispirarsi alla ricerca di un equilibrio economico, secondo un criterio di equità mercantile, ma deve attenersi a norme tecniche ed ai criteri tecnico-scientifici propri della scienza, arte, tecnica o disciplina nel cui ambito si iscrive la valutazione che è stato incaricato di compiere.

La distinzione nei termini di cui innanzi è propria di Sez. 3, n. 13954/2005, Preden, Rv. 582573-01, la quale ne ha fatto conseguire, peraltro, l’esclusione, nel caso di perizia contrattuale, della tutela tipica prevista dall’art. 1349 c.c. per manifesta erroneità o iniquità della determinazione del terzo, trattandosi di rimedio circoscritto all’arbitraggio, in quanto presuppone l’esercizio di una valutazione discrezionale e di un apprezzamento secondo criteri di equità mercantile, inconciliabili con l’attività strettamente tecnica dell’arbitro-perito.

Si ha invece arbitrato irrituale quando le parti conferiscono all’arbitro il compito di definire in via negoziale le contestazioni insorte o che possano insorgere tra loro in ordine a determinati rapporti giuridici mediante una composizione amichevole riconducibile alla loro volontà. Per converso, si ha perizia contrattuale quando le parti devolvono al terzo, scelto per la particolare competenza tecnica, non la risoluzione di una controversia giuridica, ma la formulazione di un apprezzamento tecnico che preventivamente si impegnano ad accettare come diretta espressione della loro determinazione volitiva. L’inquadramento del mandato conferito agli arbitri nell’una o nell’altra fattispecie non incide sul regime impugnatorio delle relative decisioni, restando nell’un caso e nell’altro la decisione degli arbitri sottratta all’impugnazione per nullità ai sensi dell’art. 828 c.p.c. (Sez. 1, n. 10705/2007, Luccioli, Rv. 596994-01).

Sicché, circa i rapporti con il giudizio di legittimità, come ribadito da Sez. 1, n. 07198/2019, Campese, Rv. 653224-01, al fine di qualificare l’arbitrato come rituale o irrituale, la Corte di cassazione opera come giudice del fatto ed ha, dunque, il potere di accertare direttamente, attraverso l’esame degli atti e degli elementi acquisiti al processo, la volontà delle parti espressa nella clausola compromissoria, in quanto la relativa qualificazione incide sull’ammissibilità dell’impugnazione della decisione arbitrale.

Nell’esercizio di tale attività di accertamento, peraltro, il criterio discretivo tra le due figure consiste nel fatto che nell’arbitrato rituale le parti vogliono la pronuncia di un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c., con le regole del procedimento arbitrale, mentre nell’arbitrato irrituale esse intendono affidare all’arbitro la soluzione di controversie solo attraverso lo strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla loro stessa volontà.

In questi ultimi termini ha statuito la citata Sez. 1, n. 07198/2019, oltre che la precedente Sez. 1, n. 24558/2015, De Marzo, Rv. 637984-01, per la quale ne consegue che ha natura di arbitrato irrituale quello previsto da una clausola compromissoria che enunci l’impegno delle parti di considerare il carattere definitivo e vincolante del lodo, al pari del negozio concluso e quindi come espressione della propria personale volontà. Per converso restano di contro irrilevanti sia la previsione della vincolatività della decisione, anche se firmata solo dalla maggioranza degli arbitri (dato che pure l’arbitrato libero ammette tale modalità), sia la previsione di una decisione secondo diritto, senza il rispetto delle forme del codice di rito, ma nel rispetto del contraddittorio, attesa la sua compatibilità con l’arbitrato libero e il necessario rispetto anche in quest’ultimo del principio del contraddittorio, in ragione dello stretto collegamento tra l’art. 101 c.p.c. e gli artt. 2, 3 e 24 Cost. ed in linea con l’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.

Nel sintetizzato solco interpretativo si era già inserita Sez. 3, n. 28511/2018, Gianniti, Rv. 651576-01.

Per essa, infatti, nel caso in cui le parti di un contratto di assicurazione affidino ad un terzo l’incarico di esprimere una valutazione tecnica sull’entità delle conseguenze di un evento, al quale è collegata l’erogazione dell’indennizzo, impegnandosi a considerare tale valutazione come reciprocamente vincolante ed escludendo dai poteri del terzo la soluzione delle questioni attinenti alla validità ed efficacia della garanzia assicurativa, il relativo patto esula sia dall’arbitraggio che dall’arbitrato (rituale od irrituale) ed integra piuttosto una perizia contrattuale.

Nella fattispecie di cui innanzi, infatti, viene negozialmente conferito al terzo non già il compito di definire le contestazioni insorte o che possono insorgere tra le parti in ordine al rapporto giuridico ma la semplice formulazione di un apprezzamento tecnico che esse si impegnano ad accettare come diretta espressione della loro determinazione volitiva. Ne consegue la non applicabilità delle norme relative all’arbitrato, restando impugnabile la perizia contrattuale per i vizi che possono vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale (errore, dolo, violenza, incapacità delle parti).

7. Pubblica Amministrazione e arbitrato (irrituale e rituale) nella materia dell’appalto di opere pubbliche.

La P.A. non può avvalersi, per la risoluzione delle controversie derivanti da contratti conclusi con privati (nella specie, transazione relativa a contratto di affitto agrario), dell’arbitrato irrituale (o libero) poiché, in tal modo, il componimento della vertenza verrebbe ad essere affidato a soggetti (gli arbitri irrituali) che, oltre ad essere individuati in difetto di qualsiasi procedimento legalmente determinato e, pertanto, senza adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta, sarebbero pure destinati ad operare secondo modalità parimenti non predefinite e non corredate dalle dette garanzie.

Sez. 3, n. 07759/2020, Cigna, Rv. 657509-01, in particolare ribadisce che benché la P.A., nel suo operare negoziale, si trovi su un piano paritetico a quello dei privati, ciò non significa che vi sia una piena ed assoluta equiparazione della sua posizione a quella del privato, poiché l’Amministrazione è comunque portatrice di un interesse pubblico cui il suo agire deve in ogni caso ispirarsi. A tale riguardo si vedano, ex plurimis, Sez. U, n. 08987/2009, Rordorf, Rv. 607501-01, e, tra le successive conformi, Sez. 6-1, n. 28533/2018, Mercolino, Rv. 651499-01, per la quale è valida la clausola compromissoria di deferimento ad arbitri della soluzione della controversia riguardante contratti stipulati tra la P.A. e terzi purché si verta in tema di diritti disponibili e non di interessi legittimi, l’arbitrato abbia carattere rituale e sia escluso il potere di decidere secondo equità.

In applicazione del principio la citata statuizione del 2020 ritiene invalida l’apposta clausola di arbitrato in quanto, nella specie, irrituale, essendo stata agli arbitri affidata la soluzione della controversia unicamente su base negoziale, mediante una composizione amichevole riconducibile alla volontà delle parti stesse, le quali si sono impegnate a considerare la decisione arbitrale come espressione della loro Volontà. L’arbitrato rituale, invece, poggia anch’esso su un’originaria manifestazione di volontà negoziale delle parti, ed ha perciò anch’esso natura privata, ma è destinato a svolgersi con l’osservanza del regime formale del procedimento arbitrale, e comporta che si pervenga ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti previsti dal codice di rito.

In tema di appalto di opere pubbliche, ogni qualvolta si faccia questione della risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltante (o, in generale, dell’invalidità del contratto o della sua estinzione), la relativa domanda, arbitrale (o giudiziaria), non è soggetta alla decadenza prevista per l’inosservanza dell’onere della riserva, sussistente solo con riferimento alle pretese dell’appaltatore che si riflettono sul corrispettivo a lui dovuto.

Quanto innanzi, tuttavia, ribadisce Sez. 3, n. 08517/2020, Valle, Rv. 657781, non esclude che - ove il prospettato inadempimento consista nell’illegittima disposizione o protrazione della sospensione dei lavori - assuma rilievo la mancata contestazione, da parte dell’appaltatore, dei presupposti giustificativi del provvedimento nel verbale di sospensione ovvero di ripresa dei lavori (a seconda del carattere originario o sopravvenuto delle ragioni di illegittimità e del tempo in cui l’appaltatore ha potuto averne consapevolezza), ai fini della verifica (non già della decadenza, bensì) della gravità dell’inadempimento del committente, che deve essere tale da giustificare la risoluzione del contratto (in senso conforme anche Sez. 1, n. 00388/2006, Salvato, Rv. 586521-01).

Sez. 6-3, n. 24641/2020, Guizzi, Rv. 659917 - 01, interviene in merito alle clausole contenute in contratti pubblici stipulati in epoca anteriore all’entrata in vigore dell’art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012, chiarendo che la loro inefficacia sopravvenuta, per mancanza della preventiva autorizzazione da parte dell’organo di governo dell’amministrazione, diversamente dalla nullità che può essere rilevata anche d’ufficio, deve formare oggetto di tempestiva deduzione, non potendo essere dedotta con successive difese, allorché venga eccepito il difetto di competenza in favore di collegio arbitrale.

In merito già Sez. 6-1, n. 29255/2017, Mercolino, Rv. 647024-01, aveva evidenziato che la clausola compromissoria contenuta in un contratto di appalto stipulato in epoca anteriore all’entrata in vigore della l. n. 190 del 2012, pur restando valida, è colpita da inefficacia sopravvenuta per mancanza della previa autorizzazione motivata dell’organo di governo della P.A., introdotta dall’art. 1, comma 19, della predetta legge, la quale tuttavia non esclude la possibilità del ricorso all’arbitrato, ove la predetta autorizzazione - comunque non desumibile da atti o comportamenti concludenti di organi o soggetti diversi, inidonei, in quanto tali, ad esprimere le ragioni della scelta di derogare alla giurisdizione ordinaria - intervenga successivamente. In applicazione del principio. la S.C. aveva ritenuto l’eccezione di incompetenza, sollevata dal difensore dell’ente pubblico, insufficiente a giustificare il superamento dell’inefficacia della clausola compromissoria, in quanto atto imputabile a soggetto diverso dagli organi competenti a manifestare la volontà dell’ente e non implicante un’apposita determinazione di questi.

Sez. 6-1, n. 28871/2020, Scotti, Rv. 659899-01, ribadisce che in tema di arbitrato cd. amministrato di lavori pubblici, la norma transitoria di cui all’art. 253, comma 34, del d.lgs. n. 163 del 2006 dispone, quanto alla disciplina dell’arbitrato di cui agli artt. 241, 242 e 243 del medesimo codice dei contratti pubblici, la salvezza delle clausole compromissorie e delle procedure arbitrali antecedenti alla sua entrata in vigore, nei soli casi ivi specificamente previsti ed alla condizione che i collegi arbitrali risultino già costituiti entro tale data. Ne consegue l’immediata applicabilità delle nuove disposizioni, aventi carattere inderogabile, riguardo ai collegi arbitrali relativi ad appalti non ricadenti nel d.P.R. n. 1063 del 1962. In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione dei giudici d’appello che aveva trascurato la tardività dell’impugnazione, ancorché l’abrogazione dell’art. 15, comma 6, del d.lgs. n. 53 del 2010, ad opera del d.l. n. 40 del 2010, comportasse l’applicabilità all’impugnazione dei lodi pronunciati successivamente all’eliminazione della disciplina transitoria dei termini previsti dall’art. 241, comma 15-bis, d.lgs. n. 163 del 2006. In termini sostanzialmente conformi si veda Sez. 1, n. 04719/2018, Mucci, Rv. 647630-02, che, nella specie, ha condiviso la decisione della Corte di Appello di ritenere legittima la nomina del terzo arbitro, in funzione di presidente del collegio arbitrale, da parte della camera arbitrale e non del Presidente del Tribunale.

8. Anticipazione delle spese ed arbitrato amministrato ex art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006.

All’arbitrato amministrato in materia di controversie su diritti soggettivi derivati dall’esecuzione dei contratti pubblici (previsto dall’art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006) è applicabile l’art. 816 septies, comma 2, c.p.c., in tema di inefficacia della convenzione nel caso in cui le parti non provvedano all’anticipazione delle spese nel termine fissato, non in via analogica ma in forza del diretto richiamo contenuto nel citato art. 241 che, al comma 2, stabilisce che «ai giudizi arbitrali si applicano le disposizioni del codice di procedura civile», quali sono quelle pertinenti in tema di arbitrato con il solo limite delle eventuali disposizioni incompatibili («salvo quanto disposto dal presente codice») che, tuttavia, non sussistono.

Nel predetto codice degli appalti infatti, prosegue Sez. 6-1, n. 29192/2020, Lamorgese, Rv. 660148 - 01, non si ravvisano disposizioni incompatibili con la (o che precludano l’operatività della) citata disposizione processualcivilistica concernente l’inefficacia della convenzione arbitrale nel caso in cui le parti non provvedano ad effettuare il deposito delle somme dovute a norma dell’art. 243, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006. Tale non è, in particolare, la previsione secondo cui l’anticipazione dell’acconto cui si riferisce il sesto comma citato è disposta da un organo amministrativo (la camera arbitrale), diversamente dall’art. 816 septies c.p.c. che prevede che l’anticipazione sia disposta dagli arbitri, non giustificandosi nei due casi conseguenze radicalmente diverse per l’ipotesi di inosservanza dell’obbligo di anticipazione. Per la citata ordinanza del 2002, peraltro, il riferimento all’applicabilità delle disposizioni del codice di procedura civile non è tale da intendersi rivolto alle sole norme del «giudizio arbitrale» inteso come procedimento validamente in corso, atteso che per «giudizio arbitrale» deve considerarsi anche quello che non è in grado di proseguire il suo corso per effetto della sopravvenuta causa di inefficacia della convenzione arbitrale che diviene non più «vincolante» per le parti.

Per gli appalti stipulati da enti pubblici diversi dallo Stato, il d.P.R. n. 1063 del 1962 non ha valore normativo vincolante; esso può trovare applicazione soltanto per effetto di un espresso rinvio formulato dalle parti ai fini della disciplina del singolo rapporto contrattuale, ovvero in virtù di una specifica disposizione di legge che ne estenda espressamente l’applicazione all’ente o al contratto in questione (ex plurimis, Sez. 1, n. 00812/2016, Di Virgilio, Rv. 638482-01).

Ribadito il principio di cui innanzi, Sez. 1, n. 29332/2020, Terrusi, Rv. 660187 - 01, ritiene che la mancata previa ricognizione dell’alternativa fonte di ordine convenzionale o legale a ciò legittimante rende nella specie ingiustificata l’affermazione della Corte territoriale circa l’applicabilità delle norme del capitolato generale di appalto, essendosi in presenza di un contratto stipulato da ente pubblico (il Consorzio) dotato di propria autonomia. Trattandosi di contratto concluso da un ente diverso dallo Stato, pur considerando Corte cost. n. 152 del 1996 (che ha reso facoltativo l’arbitrato dichiarando incostituzionale l’art. 47 del d.P.R. n. 1063 del 1962, nel testo sostituito dall’art. 16 della I. n. 741 del 1981), per valutare l’applicabilità della clausola compromissoria occorreva nella specie esaminare il tenore esatto del contratto e della clausola, sotto un duplice profilo: per stabilire, innanzi tutto, se ci fosse stato il richiamo al capitolato generale e poi per stabilire se, attraverso tale richiamo, le parti avessero voluto limitarsi a identificare la disciplina legale concretamente applicabile oppure avessero inteso recepire il contenuto della normativa generale relativa agli appalti dello Stato, conferendo alla stessa un valore negoziale tale da renderla insensibile alle modifiche normative intervenute successivamente alla stipulazione (Sez. 1, n. 29332/2020, cit.; in senso conforme, ex plurimis, Sez. 1, n. 26007/2018, Mercolino, Rv. 651299-01).

9. Arbitrato irrituale in materia di lavoro privato.

Nelle procedure di arbitrato irrituale in materia di lavoro privato, il lodo non è impugnabile nelle forme e nei modi ordinari ma, ai sensi dell’art. 412-quater c.p.c., in unico grado innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro, la cui sentenza è ricorribile in cassazione. Ne consegue l’inammissibilità dell’eventuale impugnazione in appello e, trattandosi di incompetenza per grado, la non operatività del principio in forza del quale la decadenza dalla impugnazione è impedita dalla proposizione del gravame ad un giudice incompetente.

Nei termini di cui innanzi, sostanzialmente ribadendo Sez. L, n. 19182/2013, Tria, Rv. 628337-01, statuisce Sez. L, n. 10988/2020, Amendola, Rv. 657925-01, dopo aver premesso che la differenza tra l’arbitrato rituale e quello irrituale - aventi entrambi natura privata - va ravvisata nel fatto che nell’arbitrato rituale, le parti mirano a pervenire ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c., con l’osservanza delle regole del procedimento arbitrale, mentre nell’arbitrato irrituale esse intendono affidare all’arbitro (o agli arbitri) la soluzione di controversie (insorte o che possano insorgere in relazione a determinati rapporti giuridici) soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle parti stesse, le quali si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà (ex plurimis, Sez. L, n. 19182/2013, Tria, Rv. 628337-01).

10. Rapporti tra potestas iudicandi, verifica del Giudice dell’impugnazione e sindacato di legittimità.

Il difetto di potestas iudicandi del collegio decidente, comportando un vizio insanabile del lodo, può essere rilevato di ufficio nel giudizio di impugnazione, anche in sede di legittimità, con il solo limite del giudicato, indipendentemente dalla sua precedente deduzione nella fase arbitrale (soltanto) qualora derivi dalla nullità del compromesso o della clausola compromissoria.

Sez. 1, n. 16556/2020, Lamorgese, 658602-02, in particolare, dopo aver fatto riferimento alla rilevabilità d’ufficio del difetto della detta potestas in fase di impugnazione ed in sede di legittimità, ha ulteriormente chiarito che è comunque precluso al giudice dell’impugnazione di rilevare d’ufficio la nullità negoziale, la cui validità sia stata, anche implicitamente, statuita nel processo con efficacia di giudicato (in senso conforme Sez. 1, n. 10132/2006, del Core, Rv. 589466-01).

Sempre in tema di rapporti tra impugnazione del lodo e giudizio di legittimità, Sez. 6-1, n. 15820/2020, Terrusi, Rv. 658711-01, ha chiarito che, il ricorrente, ove censuri la statuizione di inammissibilità dell’impugnazione del lodo arbitrale per difetto di specificità, ha l’onere di precisare nel ricorso per cassazione le ragioni dell’assunta erroneità della statuizione e della specificità, invece, del motivo di gravame sottoposto al giudice d’appello, non potendo limitarsi a rinviare all’atto di gravame ma dovendo piuttosto riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità.

11. L’impugnazione delle deliberazioni di aumento del capitale sociale.

La controversia avente ad oggetto l’esecuzione della delibera di aumento del capitale sociale di una società è compromettibile in arbitri, ai sensi dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 5 del 2003, poiché, come ribadito da Sez. 6-1, n. 04956/2020, Dolmetta, Rv. 657009-01, relativa a diritti inerenti al rapporto sociale inscindibilmente correlati alla partecipazione del socio. Sicché, nel caso di fallimento della società, la clausola compromissoria statutaria resta opponibile al curatore fallimentare che agisca per l’esecuzione dell’aumento deliberato. In senso conforme si è espressa la precedente Sez. 1, n. 24444/2019, Terrusi, Rv. 655346-01, riconoscendo la competenza arbitrale nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso su richiesta del curatore dal giudice delegato, ex art. 150 l.fall., nei confronti di un socio della fallita per i versamenti ancora dovuti.

In tema di c.d. “arbitrato societario”, quindi, la citata statuizione del 2020 si pone nel solco interpretativo della precedente giurisprudenza di legittimità per la quale le controversie aventi ad oggetto la validità delle delibere assembleari, tipicamente riguardanti i soci e la società in relazione ai rapporti sociali, sono compromettibili in arbitri ai sensi dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, qualora abbiano ad oggetto diritti disponibili (ex plurimis, Sez. 6-1, n. 17283/2015, Cristiano, Rv. 636505-01, che, nella specie, aveva riconosciuto la competenza arbitrale in relazione ad una controversia avente ad oggetto l’impugnativa di una delibera assembleare di aumento di capitale e la conseguente domanda di risarcimento del danno).

12. Ordine pubblico e regole di diritto sostanziale e processuale nella decisione degli arbitri.

Non costituisce causa di nullità del lodo per contrasto con l’ordine pubblico la circostanza che l’arbitro abbia statuito circa il risarcimento del danno derivante da un contratto di mediazione concluso con un soggetto non iscritto al ruolo dei mediatori. La nozione di ordine pubblico cui rinvia l’art. 829, comma 3, c.p.c., precisa Sez. 2, n. 21850/2020, Besso Marcheis, Rv. 659325-01, coincide con le norme fondamentali dell’ordinamento, tra cui non rientra la regola organizzativa posta dall’art. 6 della l. n. 39 del 1989.

Preclusa, ai sensi dell’art. 829, comma 2, ultima parte, c.p.c., è l’impugnazione per nullità del lodo di equità per violazione delle norme diritto sostanziale, o, in generale, per errores in iudicando, che non si traducano nell’inosservanza di norme fondamentali e cogenti di ordine pubblico, dettate a tutela di interessi generali e perciò non derogabili dalla volontà delle parti, né suscettibili di formare oggetto di compromesso (Sez. 1, n. 16553/2020, Parise, Rv. 658802-01).

L’inammissibilità dell’impugnazione del lodo arbitrale per inosservanza di regole di diritto, ai sensi dell’art 829, comma 2, c.p.c., nel caso in cui le parti abbiano autorizzato gli arbitri a decidere secondo equità, sussiste, peraltro, come ribadito dalla citata Sez. 1, n. 16553/2020, Parise, Rv. 658802-02, anche qualora gli arbitri abbiano in concreto applicato norme di legge, ritenendole corrispondenti alla soluzione equitativa della controversia, non risultando, per questo, trasformato l’arbitrato di equità in arbitrato di diritto (in senso conforme anche, ex plurimis: Sez. 1, n. 23544/2013, Macioce, Rv. 628290-01; Sez. 1, n. 01183/2006, Del Core, Rv. 586053-01).

La denuncia di nullità del lodo per inosservanza delle regole di diritto in iudicando è comunque ammissibile solo se circoscritta entro i medesimi confini della violazione di legge opponibile con il ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., come ribadito da Sez. 1, n. 16559/2020, Nazzicone, Rv. 658604-01 (in senso conforme anche, ex plurimi, Sez. 1, n. 21802/2006, Schirò, Rv. 594366-01). Tale denuncia, peraltro, in quanto ancorata agli elementi accertati dagli arbitri, postula l’allegazione esplicita dell’erroneità del canone di diritto applicato rispetto a detti elementi, e non è, pertanto, proponibile in collegamento con la mera deduzione di lacune d’indagine e di motivazione, che potrebbero evidenziare l’inosservanza di legge solo all’esito del riscontro dell’omesso o inadeguato esame di circostanze di carattere decisivo (Sez. 1, n. 05633/1999, Graziadei, Rv. 527193-01).

Con riferimento alle regole di diritto processuale, invece, Sez. 1, n. 28189/2020, Fidanzia, Rv. 660043 - 01, ribadisce che nell’arbitrato rituale, ove le parti non abbiano vincolato gli arbitri all’osservanza delle norme del codice di rito, è consentito alle medesime di modificare ed ampliare le iniziali domande, senza che trovino applicazione le preclusioni di cui all’art. 183 c.p.c. civ., salvo il rispetto del principio del contraddittorio (conforme, ex plurimis, Sez. 1, n. 02717/2007, De Chiara, Rv. 596369-01). Con la conseguenza, prosegue la citata ordinanza del 2020, che è loro interdetta soltanto una vera e propria modifica dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, tale da introdurre nel processo un tema di indagine e di decisione nuovo e da disorientare la controparte, così vulnerandone il diritto di difesa. Né la circostanza che il collegio arbitrale conceda un termine per il solo deposito di memorie istruttorie - come sarebbe avvenuto nel caso di specie - appare comunque inidonea a disconoscere il diritto di una parte a precisare e modificare comunque le proprie domande, ove tale modifica, in difetto di un provvedimento che la vieti espressamente, avvenga in tempi e con modalità che non determinano una lesione del principio del contraddittorio.

13. Impugnazione per nullità.

Il giudizio di impugnazione del lodo arbitrale ha ad oggetto unicamente la verifica della legittimità della decisione resa dagli arbitri, non il riesame delle questioni di merito ad essi sottoposte, sicché, l’accertamento in fatto compiuto dagli arbitri, qual è quello concernente l’interpretazione del contratto oggetto del contendere, non è censurabile nel giudizio di impugnazione del lodo, salvo che la motivazione sul punto sia completamente mancate od assolutamente carente (Sez. 1, n. 19602/2020, Scotti, Rv. 659021-01, in senso conforme la precedente Sez. 1, n. 13511/2007, Del Core, Rv. 600401-01).

Per Sez. 1, n. 16553/2020, Parise, Rv. 658802-03, la valutazione dei fatti dedotti dalle parti nel giudizio arbitrale e delle prove acquisite nel corso del procedimento non può essere contestata per mezzo della detta impugnazione, in quanto rimessa alla competenza istituzionale degli arbitri. Sul punto si vedano, in senso conforme, Sez. 1, n. 13968/2011, Campanile, Rv. 618515-01, e Sez. 1, n. 17097/2013, Forte, Rv. 627222-01. Per quest’ultima statuizione, peraltro, non è preclusa l’impugnazione del lodo per nullità con riguardo all’errore di diritto (nella specie, circa la qualificazione di un disciplinare come contratto c.d. quadro) concernente l’esistenza e gli effetti di un contratto per prestazioni professionali per le quali si nega il pagamento. Per la stessa ratio è stata altresì ritenuta non contestabile a mezzo dell’impugnazione per nullità del lodo arbitrale la mancata ammissione, da parte degli arbitri, di determinati mezzi di prova per la ritenuta inidoneità probatoria o superfluità di particolari fatti e circostanze per come articolati dal deducente, trattandosi di una valutazione negozialmente rimessa alla competenza istituzionale degli arbitri medesimi (Sez. 1, n. 23597/2006, Giusti, Rv. 592718-01).

Il mero decorso del termine per la pronuncia del lodo, anche a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 40 del 2006, ai sensi dell’art. 829, comma 1, n. 6 c.p.c., non è, di per sé sufficiente a determinare la nullità, essendo necessaria, ai sensi dell’art. 821 c.p.c., una manifestazione della volontà diretta a far valere la decadenza la quale costituisce oggetto di un vero e proprio onere posto a carico della parte interessata il cui adempimento non si risolve in una mera eccezione da proporsi nell’ambito del procedimento arbitrale trattandosi, invece, di un atto di disposizione in merito alla nullità, in difetto del quale quest’ultima non può essere fatta valere (Sez. 6-1, n. 27364/2020, Mercolino, Rv. 659897-01; in merito si veda anche Sez. 1, n. 00089/2012, Campanile, Rv. 621142-01).

Nel giudizio, a critica vincolata e proponibile entro i limiti stabiliti dall’art. 829 c.p.c., di impugnazione per nullità del lodo arbitrale vige la regola della specificità della formulazione dei motivi, attesa la sua natura rescindente e la necessità di consentire al giudice, ed alla controparte, di verificare se le contestazioni proposte corrispondano esattamente a quelle formulabili alla stregua della suddetta norma.

Così statuendo Sez. 1, n. 27321/2020, Iofrida, Rv. 659749-01, si inserisce sostanzialmente nel solco di Sez. 1, n. 23675/2013, Salvago, Rv. 627973-01. Quest’ultima prosegue chiarendo che, in sede di ricorso per cassazione avverso la sentenza conclusiva di quel giudizio, il sindacato di legittimità, diretto a controllarne l’adeguata e corretta sua giustificazione in relazione ai motivi di impugnazione del lodo, va condotto soltanto attraverso il riscontro della conformità a legge e della congruità della motivazione stessa. Pertanto, le censure proposte in cassazione non possono esaurirsi nel richiamo a principi di diritto, con invito a controllarne l’osservanza da parte degli arbitri e della corte territoriale, ma esigono un pertinente riferimento ai fatti ritenuti dagli arbitri, per rendere autosufficiente ed intellegibile la tesi per cui le conseguenze tratte da quei fatti violerebbero i principi medesimi, nonché l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito.

Nell’impugnativa per nullità, ai sensi degli artt. 828 e ss. c.p.c., la Corte di appello non può altresì rilevare di ufficio motivi non dedotti con l’atto di impugnazione - salvo la nullità del compromesso e della clausola compromissoria - trattandosi di un gravame rigorosamente limitato e vincolato, nell’effetto devolutivo al giudice che ne è investito, sia in astratto, dalla tipicità dei vizi deducibili, sia in concreto, da quelli espressamente e specificamente dedotti (Sez. 1, n. 28191/2020, Fidanzia, Rv. 659751-01, sostanzialmente conforme a Sez. 1, n. 02307/2000, Felicetti, Rv. 534518-01)

14. (segue) Natura e conseguenze.

L’impugnazione per nullità del lodo non introduce un giudizio di primo grado sul rapporto, bensì un giudizio di impugnazione avverso un provvedimento avente natura giurisdizionale, sicché la competenza, stante il disposto di cui all’art. 828, comma 1, c.p.c., spetta al giudice entro il cui ambito territoriale opera l’arbitro che abbia emesso la decisione di primo grado, restando irrilevante la materia oggetto del contendere devoluta all’organo arbitrale.

In applicazione del principio, Sez. 6-1, n. 19993/2020, Di Marzio, Rv. 659004-01, ha respinto la tesi per la quale la Corte d’appello competente avrebbe dovuto essere individuata in quella ove aveva sede la sezione specializzata in materia di imprese, avendo la controversia ad oggetto una materia devoluta alla sua cognizione, affermando invece la competenza della Corte territoriale nel cui distretto aveva sede il collegio arbitrale.

Il percorso logico-giuridico muove dall’art. 828, comma 1, c.p.c. ai sensi del quale «L’impugnazione per nullità si propone... davanti alla Code d’appello nel cui distretto è la sede dell’arbitrato». La ratio di questa previsione risiede in ciò, che l’impugnazione per nullità non introduce un giudizio di primo grado sul rapporto, bensì un giudizio di impugnazione avverso un provvedimento avente natura giurisdizionale (v. art. 824-bis c.p.c.), di guisa che la competenza al riguardo non può che spettare - secondo una logica ed un conseguente congegno sovrapponibili a quelli dettati dall’articolo 341 c.p.c. per l’appello - al giudice entro il cui ambito territoriale opera l’organo della giurisdizione, l’arbitro o il collegio arbitrale, che abbia emesso la decisione di primo grado: senza che tale criterio di radicamento della competenza, attesa l’univocità del dato normativo, possa rimanere influenzato, tra l’altro, dalla materia oggetto del contendere.

15. L’interesse ad impugnare nella violazione del contraddittorio e la fase rescissoria nel difetto della potestas iudicandi.

La giurisprudenza di legittimità a più riprese ha chiarito il diverso modo di atteggiarsi del contraddittorio nel procedimento arbitrale rispetto al giudizio innanzi al giudice ordinario.

Gli approdi di legittimità in tema di contraddittorio arbitrale necessitano però di essere letti alla luce del diritto di difesa, del principio del giusto processo, anche in termini di sua ragionevole durata (art. 111 Cost.), oltre che del corollario costituito dall’interesse, attuale ed effettivo, ad impugnare.

La questione della violazione del contraddittorio deve difatti essere esaminata non sotto il profilo formale ma nell’ambito di una ricerca volta all’accertamento di una effettiva lesione della possibilità di dedurre e contraddire, onde verificare se l’atto abbia egualmente raggiunto lo scopo di instaurare un regolare contraddittorio e se, comunque, l’inosservanza non abbia causato pregiudizio alla parte.

Per Sez. 1, n. 18600/2020, Parise, Rv. 658811-01, consegue dunque che la nullità del lodo e del procedimento devono essere dichiarate solo ove nell’impugnazione, alla denuncia del vizio idoneo a determinarle, segua l’indicazione dello specifico pregiudizio che esso abbia arrecato al diritto di difesa.

Nel giudizio arbitrale, difatti, al pari di quanto avviene in quello ordinario, l’omessa osservanza del contraddittorio - il cui principio si riferisce non solo agli atti ma a tutte quelle attività del processo che devono svolgersi su un piano di paritaria difesa delle parti - non è difatti un vizio formale ma di attività; sicché la nullità che ne scaturisce ex art. 829, n. 9, c.p.c., e che determina, con l’invalidità dell’intero giudizio, quella derivata della pronuncia definitiva, origina da una concreta compressione del diritto di difesa della parte processuale, soggiacendo, inoltre, alla regola della sanatoria per raggiungimento dello scopo (Sez. 1, n. 02201/2007, Del Core, Rv. 594915-01).

Quanto al modo d’atteggiarsi della dei rapporti tra difetto di potestas decidendi e fase rescissoria, la Suprema Corte ha chiarito che in caso di inesistenza del lodo arbitrale, per mancanza del compromesso o della clausola compromissoria, ovvero perché la materia affidata alla decisione degli arbitri è estranea a quelle suscettibili di formare oggetto di compromesso, alla Corte d’appello è precluso il passaggio alla fase rescissoria, mancando in radice la potestas decidendi degli arbitri, mentre le eventuali difformità dai requisiti e dalle forme del giudizio arbitrale possono provocare la dichiarazione di nullità del lodo, con la conseguenza che il giudice dell’impugnazione è tenuto a pronunciare nel merito, senza possibilità di distinguere tra le varie ipotesi che abbiano dato luogo alla rilevata censura.

Così statuendo Sez. 1, n. 19604/2020, Scotti, Rv. 659022-01, ha sostanzialmente confermato l’orientamento consolidato in materia (ex plurimis, sez., 1, n. 22083/2009, Cultrera, Rv. 610314-01), anche per il caso di nullità del lodo per violazione di norme inderogabili sulla composizione del collegio arbitrale, non potendo seguire a quella rescissoria la fase rescindente presupponendo la competenza in merito un lodo emesso da arbitri investiti effettivamente di potestas iudicandi (ex plurimis, Sez. 1, n. 21355/2018, Lamorgese, Rv. 650399-01, e Sez. 1, n. 20128/2013, Mercolino, Rv. 627741-01). Ove detto presupposto manchi, come nel caso di avvenuta declinatoria della competenza arbitrale, all’esito della dichiarazione di illegittimità costituzionale (nella specie dell’art. 16 della legge n. 741 del 1981 ad opera di Corte cost. n. 152 del 1996), il lodo deve difatti considerarsi privo di qualsiasi efficacia ed alla dichiarazione di nullità di siffatta pronuncia non può far seguito la fase rescissoria (Sez. 1, n. 16977/2006, Luccioli, Rv. 591432-01). Parimenti, la clausola compromissoria che stabilisca un modo di nomina degli arbitri di impossibile attuazione pratica, nulla ai sensi dell’art. 809, commi 2 e 3, c.p.c., non comporta l’inesistenza del lodo arbitrale con la conseguente sussistenza della detta potestas decidendi ed esclusione di ipotesi di usurpazione di potere (Sez. 1, n. 19994/2004, Salvago, Rv. 577559-01). In presenza di una volontà compromissoria validamente espressa, peraltro, salva diversa volontà contraria di tutte le parti, ex art. 830 c.p.c. la Corte d’appello, dichiarata la nullità del lodo, è tenuta a pronunciare sul merito (Sez. 1, n. 19025/2003, Proto, Rv. 568821-01).

16. Il termine per impugnare.

Su sollecitazione di Sez. 1, n. 20104/2020, Scotti, non massimata, è stata rimessa alle Sezioni Unite la questione di massima di particolare importanza con la quale ci si chiede, in tema di impugnazione per nullità del lodo, se il termine c.d. «lungo» di un anno, di cui all’art. 828, comma 2, c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis (successivo alla riforma del 1994 ma le considerazioni non cambierebbero con riferimento a quello successivo alla novella del 2006) debba decorrere non dall’ultima sottoscrizione dell’atto bensì dalla comunicazione alle parti della sua intervenuta sottoscrizione.

Per la citata ordinanza interlocutoria la questione in oggetto sembrerebbe suscettibile di una pluralità di soluzioni, dall’incostituzionalità della norma, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. (non sussistendo un dies a quo facilmente conoscibile dalle parti), alla possibile lettura costituzionalmente orientata (intendendo il termine come decorrente dalla comunicazione del lodo alle parti) ovvero ad una tesi intermedia tra l’incompatibilità costituzionale e la perfetta aderenza ai dettami della Costituzione, decurtando dal termine annuale decorrente dall’ultima sottoscrizione arbitrale i dieci giorni concessi dalla legge - art. 825 c.p.c. ante riforme del 2006 e art, 824 post riforma del 2006 - agli arbitri per la comunicazione del lodo alle parti.

17. L’impugnazione immediata del lodo parziale.

Il lodo parziale è immediatamente impugnabile, ai sensi dell’art. 827, comma 3, c.p.c., solo nel caso in cui, decidendo su una o più domande, abbia definito il giudizio relativamente ad esse, attesa l’esecutività che il lodo stesso può assumere in questa ipotesi; viceversa, l’immediata impugnabilità deve essere esclusa quando il lodo abbia deciso questioni preliminari di merito senza definire il giudizio (Sez. 1, n. 28190/2020, Fidanzia, Rv. 660044 - 01; conforme a Sez. 2, 16963/2014, Migliucci, Rv. 631855-01, fattispecie nella quale si trattava di decisione di mero rigetto di eccezione di prescrizione senza definizione del giudizio).

Al fine di stabilire se si versi o meno in ipotesi di lodo che decide parzialmente il merito della controversia, occorre avere riguardo alla verifica dell’esaurimento della funzione giurisdizionale dinanzi agli arbitri, di guisa che, con riguardo all’immediata impugnabilità, deve essere considerato un lodo parziale, nonostante la formulazione della norma di cui all’art. 827, comma 3, c.p.c., anche quello che, pur senza pervenire allo scrutinio del merito del giudizio, abbia comunque in parte esaurito la funzione decisoria devoluta al collegio arbitrale.

In applicazione del principio di cui innanzi, Sez. 6-1, n. 18507/2020, Di Marzio, Rv. 658835-01, in linea con quanto statuito da Sez. U, n. 23463/2016, Nappi, Rv. 641625-01, ha confermato la decisione d’inammissibilità dell’impugnazione del lodo in quanto, con esso, gli arbitri si erano limitati a pronunziare sulle questioni pregiudiziali e preliminari, senza definire neppure in parte la controversia. Le citate Sezioni Unite, difatti, avevano già chiarito che alla stregua dell’art. 827, comma 3, c.p.c., è immediatamente impugnabile, perché parzialmente decisorio del merito della controversia, il lodo recante una condanna generica, ex art. 278 c.p.c., o che decida una o alcune domande proposte senza definire l’intero giudizio, ma non quello che decida questioni pregiudiziali (nella specie la validità della convenzione arbitrale) o preliminari.

18. Questioni di giurisdizione e di merito, rapporti con il G.A., regolamento di competenza e poteri della S.C.

La non deferibilità della controversia al giudizio arbitrale, per essere la stessa devoluta alla giurisdizione di legittimità o esclusiva del giudice amministrativo, non dà luogo ad una questione di giurisdizione in senso tecnico, bensì ad una questione di merito attinente alla validità del compromesso o della clausola compromissoria, nell’ambito delle previsioni di cui all’art. 829, n. 1, c.p.c.

Sicché, ribadisce Sez. 1, n. 07405/2020, Scalia, Rv. 657493-01, ponendosi la questione di giurisdizione solo in funzione di tale accertamento, essa non può essere sollevata in ogni stato e grado del processo con il solo limite del giudicato interno, esplicito o implicito, ma, trattandosi di una questione di merito, può essere sottoposta all’esame del giudice di legittimità solo se sia stata dibattuta e decisa come motivo di nullità del lodo (si vedano, ex plurimis: Sez. U, n. 17205/2003, Vitrone, Rv. 568168-01; Sez. U, n. 09070/2003, Proto, Rv. 563981-01).

In detta materia, Sez. 6-3, n. 08660/2020, Rubino, Rv. 657830-01 ribadisce che il potere della Corte di cassazione di dichiarare d’ufficio che l’azione non poteva essere proposta, previsto dall’art. 382, comma 3, secondo inciso, c.p.c., può essere esercitato anche in sede di regolamento di competenza, ove la declaratoria di competenza di uno dei giudici di merito determinerebbe un inutile ritardo nella definizione del giudizio, inevitabilmente destinato a concludersi con una successiva pronuncia d’inammissibilità (in senso conforme Sez. 6-3, n. 27305/2013, Frasca, Rv. 629323-01).

La statuizione di cui innanzi muove dall’assunto per il quale la Sezioni Unite hanno stabilito il principio secondo cui l’attività degli arbitri rituali, anche alla stregua della disciplina complessivamente ricavabile dalla l. n. 5 del 1994 e dal d.lgs. n. 40 del 2006, ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza (Sez. U, n. 24153/2013, Segreto, Rv. 627786-01). Trattasi di principio enunciato in conformità all’indirizzo fatto proprio dalla Corte costituzionale (Corte cost., n. 223 del 2013) secondo cui sia dalla giurisprudenza costituzionale sia dalla disciplina positiva dell’arbitrato risultante dalla riforma del 2006, si desume che il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità in materia, ha strutturato l’ordinamento processuale in maniera tale da configurare l’arbitrato come una modalità di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziale (in tal senso già Corte cost., n. 376 del 2001). Ne consegue, nel caso di specie di cui alla citata statuizione del 2020, che avverso la sentenza del Tribunale declinatoria della propria competenza a favore degli arbitri rituali, poiché l’attività di questi ultimi ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, avrebbe dovuto essere proposto il regolamento di competenza e non, come è avvenuto, l’appello (si veda in merito anche Sez. 1, n. 17908/2014, Didone, Rv. 632217-01).

L’ordinanza del 2020 in considerazione conclude poi ritenendo di non poter giungere a diversa conclusione allorché, come nella specie, si sia contestata la natura del procedimento arbitrale previsto nel contratto e quindi la validità della clausola contrattuale: il primo e diretto oggetto di contestazione era pur sempre la declinatoria di competenza conseguente alla affermazione della competenza degli arbitri.

In tema di concessioni di pubblici servizi, per Sez. U, n. 33691/2019, Lamorgese, Rv. 657657-01 le controversie relative alla fase esecutiva del rapporto successiva all’aggiudicazione, ivi comprese le questioni inerenti agli adempimenti ed alle relative conseguenze indennitarie (nella specie, le domande aventi ad oggetto il pagamento delle indennità e dei corrispettivi per la gestione del servizio e la risoluzione per eccessiva onerosità della convenzione), sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, venendo in discussione il profilo paritario e meramente patrimoniale del rapporto concessorio e non già l’esercizio di poteri autoritativi della pubblica amministrazione, sicché possono essere compromesse in arbitrato rituale con conseguente validità della relativa clausola compromissoria.

Sez. U, n. 23418/2020, Vincenti, Rv. 659285-02, ha statuito che, in tema di concessioni per l’esercizio di scommesse ippiche, la controversia introdotta per ottenere la condanna della P.A. concedente al risarcimento del danno derivato ai concessionari dal sopravvenuto mutamento delle condizioni economiche poste a base della convenzione (per il venir meno di fatto della riserva esclusiva pubblica della relativa gestione a seguito dell’ingresso illegale nel mercato di operatori esteri), nonché dalla mancata attivazione di sistemi di accettazione di scommesse a quota fissa e per via telefonica e telematica, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario. In tale ipotesi, difatti, ci controverte in merito alla fase di attuazione del rapporto concessorio e vengono in considerazione profili che attengono, non già all’esercizio di poteri autoritativi incidenti sul momento funzionale dello stesso rapporto, ma all’accertamento dell’inadempimento, da parte della P.A. concedente, alle obbligazioni sostanzianti il rapporto giuridico convenzionale a carattere paritetico, con la conseguente compromettibilità in arbitrato rituale.

La citata Sez. U, n. 23418/2020, Vincenti, Rv. 659285-01 in esame ha altresì ribadito che l’attività degli arbitri rituali, anche alla stregua della disciplina complessivamente ricavabile dalla l. n.25 del 1994 e dal d.lgs. n.40 del 2006, ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza, mentre il sancire se una lite appartenga alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario e, in tale ambito, a quella sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo o contabile, dà luogo ad una questione di giurisdizione. Ne consegue che la questione circa l’eventuale non compromettibilità ad arbitri della controversia, per essere la stessa riservata alla giurisdizione del giudice amministrativo, integra una questione di giurisdizione che, ove venga in rilievo, il giudice dell’impugnazione del lodo arbitrale è tenuto ad esaminare e decidere anche d’ufficio.

Per converso, l’eccezione di devoluzione della controversia agli arbitri rituali, configurandosi tale devoluzione (anche nel regime previgente al d.lgs. n. 40 del 2006) come rinuncia alla giurisdizione dello Stato attraverso la scelta di una soluzione della controversia con uno strumento di natura privatistica, deve ritenersi propria od in senso stretto, in quanto avente ad oggetto la prospettazione di un fatto impeditivo dell’esercizio della giurisdizione statale, con la conseguenza che va proposta dalle parti nei tempi e nei modi propri delle eccezioni di merito non rilevabili d’ufficio.

Tuttavia, ha proseguito Sez. 1, n. 19823/2020, Scotti, Rv. 659114-01, la proposizione dell’eccezione contestualmente alla domanda riconvenzionale nella comparsa di risposta non implica la necessità di subordinare espressamente la seconda al rigetto della prima, onde evitare che essa sia ritenuta rinunciata, in quanto l’esame della domanda riconvenzionale è ontologicamente condizionato al mancato accoglimento dell’eccezione di compromesso (in senso conforme Sez. 1, n. 12684/2007, Felicetti, 596871-01).

L’eccezione di compromesso sollevata innanzi al giudice ordinario, adito nonostante che la controversia sia stata deferita ad arbitri, pone una questione che attiene al merito, e non alla giurisdizione o alla competenza, in quanto i rapporti tra giudici ed arbitri non si pongono sul piano della ripartizione del potere giurisdizionale tra giudici, e l’effetto della clausola compromissoria consiste proprio nella rinuncia alla giurisdizione ed all’azione giudiziaria. Ne consegue che, ancorché formulata in termini di accoglimento o rigetto di una eccezione di incompetenza, la decisione con cui il giudice, in presenza di una eccezione di compromesso, risolvendo la questione così posta, chiude o non chiude il processo davanti a sé, va considerata come decisione pronunciata su questione preliminare di merito, in quanto attinente alla validità o all’interpretazione del compromesso o della clausola compromissoria (Sez. 2, n. 26696/2020, Oliva, Rv. 659723-01; in senso conforme, ex plurimis, Sez. 2, n. 24681/2006, Mazziotti Di Celso, Rv. 593910-01)

19. Il riconoscimento del lodo arbitrale estero.

In tema di riconoscimento del lodo arbitrale estero, la produzione del compromesso, in originale o in copia autentica, contestualmente alla proposizione della domanda, prescritta dall’art. 4 della Convenzione di New York del 10 giugno 1958 (resa esecutiva con la l. n. 62 del 1968) e dall’art. 839 c.p.c., configura non già una condizione dell’azione ma un presupposto processuale necessario per la valida instaurazione del giudizio che deve pertanto sussistere, quale requisito formale di procedibilità della domanda al momento dell’instaurazione del procedimento, e deve essere rilevato d’ufficio dal giudice.

In applicazione del principio, Sez. 1, n. 16701/2020, Mercolino, Rv. 658611-01, ha cassato la sentenza impugnata che in mancanza della produzione del compromesso aveva ritenuto sufficiente il richiamo ai ricorsi proposti ex art. 839 c.p.c. ove si dava atto della produzione di copia conforme dei contratti di vendita stipulati tra le parti.

L’orientamento di cui innanzi si pone nel solco segnato da Sez. 1, n. 17291/2009, Tavassi, Rv. 609415-01 che, argomentando sempre dalla natura di presupposto processuale necessario riconosciuta alla produzione del compromesso (in originale o in copia autentica), aveva già chiarito che la produzione di cui innanzi non sarebbe stata integrabile mediante il deposito del documento nel giudizio di opposizione al decreto emesso dal presidente della Corte d’appello, non essendo soggetta alla disciplina dettata dall’art. 184 c.p.c. per la produzione di documenti. In applicazione di tale principio, la Suprema Corte, in particolare, cassò la sentenza impugnata, che aveva rigettato l’opposizione al decreto, in quanto la Corte d’appello, rilevato che al ricorso era stata allegata una copia del compromesso recante una certificazione di conformità all’originale proveniente da persona non identificabile, aveva rimesso la causa in istruttoria, per consentire all’opposto la produzione dell’originale o di una copia conforme.

Sempre in argomento, Sez. 1, n. 27322/2020, Iofrida, Rv. 659832-01, ha chiarito che in forza degli articoli 4 e 5 della Convenzione di New York del 1958 la parte richiedente la delibazione del lodo ha soltanto l’onere di produrre, in originale o in copia autentica, la decisione arbitrale straniera delibanda e la convenzione scritta contenente l’assunzione dell’obbligo di deferire agli arbitri la risoluzione della controversia, mentre incombe alla parte nei cui confronti il lodo viene invocato l’onere di provare, fra l’altro, l’eventuale invalidità della nomina degli arbitri o l’impossibilità di far valere le proprie difese e, in particolare, ove deduca l’inidoneità del mezzo di comunicazione usato, di dimostrare che questo, per sé o in ragione delle concrete modalità di impiego, non gli ha consentito di venire tempestivamente a conoscenza del procedimento arbitrale o dei momenti essenziali del suo sviluppo. Le relative indagini svolte dal giudice della delibazione, peraltro, costituiscono accertamenti di fatto non suscettibili di sindacato in sede di legittimità, se congruamente motivati.