PARTE PRIMA QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE --- SEZIONE I - LA PENA

  • giurisdizione penale
  • prescrizione della pena
  • sospensione di pena

CAPITOLO I

SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA E CONDIZIONI APPLICATIVE

(di Andrea Nocera )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’ammissibilità della subordinazione della sospensione condizionale alle restituzioni in favore della vittima in assenza di costituzione di parte civile. - 3 La possibilità di integrazione delle statuizioni in tema di sospensione condizionale subordinata all’adempimento di obblighi risarcitori o di ripristino. - 4 La verifica della possibilità di adempimento dell’obbligo risarcitorio cui è condizionalmente sospesa la condanna. - 5 Revoca di diritto della sospensione condizionale e decorrenza del termine di prescrizione della pena. - 6 Sospensione condizionale e confisca per equivalente. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

La sospensione condizionale della pena ha ormai assunto una proiezione finalistica di carattere sanzionatorio, quale concreta alternativa alle pene principali nel complessivo sistema sanzionatorio.

La condanna a pena sospesa, ai sensi dell’art. 165 cod. pen., infatti, consente la imposizione di obblighi e adempimenti che arricchiscono la funzione retributiva della sanzione, connotandola di uno specifico profilo risarcitorio e ripristinatorio delle posizioni soggettive lese dall’illecito, che finisce per sostituirsi alla pena. L’imposizione di obblighi e prescrizioni, spesso onerosi e particolarmente punitivi, orientati verso la realizzazione coatta degli obblighi risarcitori verso le persone offese risponde alla medesima funzione di prevenzione generale e speciale (sub specie di individualizzazione) della pena principale, atteso che all’adempimento degli incombenti imposti con la condanna a pena sospesa consegue l’estinzione del reato, mentre l’inottemperanza agli stessi dà luogo alla revoca della sospensione, così confermando, in funzione ripristinatoria, la pena che si era originariamente ritenuta non applicabile.

Quanto al contenuto delle prescrizioni, la norma prevede un ampio ventaglio di soluzioni, di contenuto restitutorio, di ripristino, anche per equivalente, del danno, di misure volte a neutralizzare le conseguenze del reato, oltre ad accentuare la rilevanza delle ragioni della vittima, sia essa un individuo o una collettività, in una prospettiva di ricomposizione del rapporto conflittuale che ha dato luogo all’azione illecita.

La formula polimorfa dell’art. 165 cod. pen., suscettibile di ulteriore espansione, consente al giudice di comporre, secondo un modello di tipo correzionale, gli adempimenti condizionali che possono essere imposti dal giudice del merito - e, in taluni casi, dal giudice dell’esecuzione - anche in modo alternativo o cumulativo in relazione ai casi di prima concessione o meno, secondo tempi e modi definiti in sentenza.

2. L’ammissibilità della subordinazione della sospensione condizionale alle restituzioni in favore della vittima in assenza di costituzione di parte civile.

Nel dibattito giurisprudenziale si è riproposto il contrasto interpretativo in ordine alla possibilità di subordinare la sospensione condizionale della pena ad un adempimento dicarattere risarcitorio dei danni prodotti dall’agire penalmente illecito in favore della vittima del reato che non si sia costituita parte civile e, dunque, abbia fatto valere le proprie pretese in sede penale.

In particolare, Sez. 2, n. 23917 del 15/07/2020, Mansi, Rv. 279550 - 01, ha affermato il principio così massimato: «in tema di sospensione condizionale della pena, il giudice, in difetto della costituzione di parte civile, non può subordinare il beneficio all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni di beni conseguiti per effetto del reato, perché queste, come il risarcimento, riguardano solo il danno civile e non anche il danno criminale, che si identifica con le conseguenze di tipo pubblicistico che ineriscono alla lesione o alla messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma penale e che assumono rilievo, a norma dell’art. 165 cod. pen., solo se i loro effetti non sono ancora cessati». Nel caso di specie la Corte, con riferimento ad una condanna per truffa aggravata in danno di ente previdenziale, ha annullato la sentenza impugnata nella parte cui aveva subordinato la concessione del beneficio alla restituzione dell’importo erogato indebitamente a titolo di indennità di disoccupazione.

L’arresto ha inteso dare continuità all’orientamento giurisprudenziale espresso pochi mesi prima dalla medesima Sezione (Sez. 2, n. 45854 del 13/09/2019, Cappello Rv. 27763201) con riferimento ad analoga fattispecie di truffa aggravata in danno dell’INPS e, ancor prima, da Sez. 2, n. 3858 del 18/12/2013 (dep. 2014), Olivieri, Rv. 258045-01.

Tale opzione interpretativa individua la costituzione di parte civile come presupposto necessario per la concessione della sospensione condizionale della pena subordinata all’adempimento dell’obbligo di risarcimento del danno e delle restituzioni, di cui all’art. 165, comma primo, prima parte, cod. pen.; ciò a differenza della nulla incidenza che, di contro, la costituzione in giudizio della parte civile assume per la concessione del beneficio subordinato all’eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose del reato, ai sensi della seconda parte del primo comma dell’art. 165 cod. pen. La ratio normativa risiede nella differenza degli effetti determinati dalla perpetrazione del reato, distinguendosi il cd. danno criminale, di natura pubblicistica, consistente in «quelle conseguenze che ineriscono alla lesione o alla messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma penale violata», dal danno civilistico, che «la persona offesa subisce in quanto vittima del reato», di natura «esclusivamente privatistica e che può essere fatto valere dalla persona offesa anche in sede penale» (cfr. sul tema, la citata Sez. 2, “Olivieri”).

La conclusione affonda le proprie radici nell’excursus legislativo che ha portato all’attuale formulazione dell’art. 165, comma primo, cod. pen. Inizialmente il testo della norma prevedeva che «la sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno o provvisoriamente assegnata sull’ammontare di esso e alla pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno». Con la legge n. 689 del 1981, è stata aggiunta la possibilità di subordinare il beneficio, «salvo che la legge disponga altrimenti, all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna». Infine, con legge n. 145 del 2004, è stata ampliata la possibilità di subordinare il beneficio all’adempimento di obblighi di natura sociale («se il condannato non si oppone, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore alla durata della pena sospesa»). L’ampliamento del ventaglio applicativo della norma inizialmente dettata nell’esclusivo interesse della parte civile di vedere subordinato il beneficio della sospensione condizionale della pena, concesso al condannato, all’adempimento delle obbligazioni civilistiche - in virtù delle ulteriori declinazioni apportate dal legislatore in termini di subordinazione del beneficio sia alla eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose del reato, sia alla prestazione di attività non retribuite a favore della collettività, si propone come risposta alla necessità di riparare non più soltanto il danno civile, cioè il pregiudizio economicamente apprezzabile e risarcibile arrecato alla persona offesa, ma anche il danno criminale, cioè il pregiudizio causato al bene giuridico protetto dalla norma penale violata.

Resta netta, secondo la tesi in esame, la distinzione tra le due ipotesi di subordinazione del beneficio previste dall’art, 165, comma primo, l’una ricollegata alla riparazione del danno civile e l’altra alla riparazione del danno criminale, tale da rende impraticabile qualsiasi possibilità di includere l’obbligo restitutorio (civilistico) alla più generale locuzione «eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato» di cui all’art. 165, comma primo, seconda parte, cod. pen. Di qui, la soluzione che consente la possibilità di subordinare la sospensione condizionale della pena all’adempimento di un obbligo risarcitorio o restitutorio in favore della parte offesa solo nel caso in cui quest’ultima abbia esercitato l’azione civile nel processo penale. In assenza di una istanza della parte interessata deve ritenersi, infatti, preclusa al giudice del merito la possibilità di prevedere adempimenti a carico del condannato, che dovranno essere limitati alla eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose del reato, ossia al danno criminale.

Una diversa interpretazione che privilegi la piena trasponibilità dei due differenti obblighi, oltre a contrastare sul piano esegetico le innovazioni «aggiuntive e non modificative» dell’art. 165 cod. pen. apportate nel tempo dal legislatore, dà luogo ad «una inutile duplicazione della norma», in evidente contrasto «con il canone interpretativo del c.d. principio economico o regola della non ridondanza, che inibisce all’interprete di attribuire a due disposizioni appartenenti al medesimo ambito normativo significati identici» (cfr. Sez. 2, Olivieri).

In linea di continuità con l’orientamento in esame si pone Sez. 2, n. 12895 del 5/03/2015, Pulpo, Rv. 262932-01, che ha ribadito pedissequamente il principio espresso da Sez. 2, “Olivieri”, in applicazione del quale la Corte, con riferimento ad una condanna per appropriazione indebita di denaro, ha annullato la sentenza impugnata nella parte cui aveva subordinato la concessione del beneficio alla restituzione della somma di denaro indebitamente riscossa.

L’illustrata Sez. 2, “Mansi”, ha inteso porsi in consapevole contrasto con un orientamento, parzialmente difforme, maturato in seno alla medesima Sezione (da ultimo, Sez. 2, n. 42583 del 24/09/2019, De Vivo, Rv. 277631-01) anch’esso caratterizzato da continuità nel tempo.

Con tale orientamento, in una fattispecie in tema di truffa aggravata - del tutto sovrapponibile a quello oggetto di Sez. 2, “Mansi” - la medesima Seconda Sezione ha ritenuto legittima la subordinazione del beneficio alla restituzione in favore dell’INPS delle somme indebitamente riscosse dall’imputato, pur in assenza di costituzione di parte civile dell’ente previdenziale, trattandosi di somme corrispondenti all’illecito profitto del reato e, quindi, all’evento penalmente rilevante, tale da determinare il c.d. danno penale, non necessariamente coincidente con l’ulteriore pregiudizio civilistico cagionato all’ente stesso, del quale non avrebbe potuto essere disposto il risarcimento in assenza di domanda di parte. In motivazione la Corte ha evidenziato che, dal testo normativo dell’art. 165, comma primo, cod. pen., «risulta evidente che le due ipotesi previste dalla norma - l’adempimento dell’obbligo delle restituzioni e quella del pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno sono state intese dal legislatore in termini di separazione, dovendosi, quindi, distinguere le stesse» e che «il vincolo costituito dalla necessità della esistenza di una preventiva domanda giudiziale, spiegata nel giudizio penale tramite la costituzione di parte civile del danneggiato, riguardi solamente l’ipotesi in cui la subordinazione della sospensione condizionale della pena concerna espressamente, in tutto od in parte, il preventivo adempimento dell’obbligo di risarcimento del danno e non anche quello delle restituzioni».

La Corte distingue l’obbligo delle restituzioni da quello risarcitorio del danno, termini che non rappresentano una endiadi. La subordinazione della sospensione condizionale della pena all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni prescinde da una espressa domanda giudiziale, rappresentando lo strumento idoneo non soltanto a rendere percepibile la rimozione degli effetti dannosi attraverso una condotta riparatoria, ma anche a consentire di intravedere nel condannato quella resipiscenza necessaria ai fini della concessione del beneficio di legge in questione.

Tale diverso orientamento era stato espresso in precedenza da Sez. 3, n. 1324 del 24/06/2014 (dep. 2015), Volturno, Rv. 261778, secondo cui, in relazione ad una fattispecie di condanna per omesso versamento di contributi previdenziali, «la concessione della sospensione condizionale della pena può legittimamente essere subordinata alla eliminazione delle conseguenze dannose del reato mediante l’adempimento dell’obbligo di restituzione, anche qualora manchi una richiesta in tal senso per la mancata costituzione di parte civile della persona offesa», essendo irrilevante a tal fine la mancata costituzione di parte civile dell’ente previdenziale.

Sez. 3, “Volturno”, osserva che il dato testuale dell’art.165, comma primo, cod. pen., nella parte in cui dispone «che la sospensione condizionale della pena possa essere subordinata all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno o provvisoriamente assegnata sull’ammontare di esso», manifesta l’intento del legislatore di separare e distinguere l’ipotesi di adempimento dell’obbligo delle restituzioni da quella del pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno, così potendosi ritenere ragionevole «che il vincolo costituito dalla necessità della esistenza di una preventiva domanda giudiziale spiegata nel giudizio penale tramite la costituzione di parte civile del danneggiato, concerna solamente l’ipotesi in cui la subordinazione della sospensione condizionale della pena» riguardi «espressamente, in tutto od in parte, il preventivo adempimento dell’obbligo di risarcimento del danno e non anche quello delle restituzioni» orientato, invece, alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato (in senso conforme, Sez. 3, n. 45250 del 12/06/2018, Frattolin, che ammette la possibilità che la concessione della sospensione condizionale della pena sia subordinata alla eliminazione delle conseguenze dannose del reato mediante l’adempimento dell’obbligo di restituzione, anche qualora manchi una richiesta in tal senso per la mancata costituzione di parte civile della persona offesa).

La distinzione tra obbligazioni restitutorie e risarcitorie era stata già affermata dalla più remota Sez. 2, n. 16629 del 29/03/2007, Baglivo, Rv. 236655-01, secondo cui «la subordinazione della concessione della sospensione condizionale all’adempimento dell’obbligo risarcitorio presuppone, a differenza della subordinazione all’obbligo delle restituzioni, la costituzione di parte civile, perché solo in tal caso il giudice penale può prendere in esame, per l’individuazione degli adempimenti imponibili, gli accadimenti lesivi connessi causalmente al reato». In continuità con tale principio, inoltre, Sez. 2, n. 41376 del 28/09/2010, Trenti, Rv. 248924-01, ha ritenuto che «rientra nella nozione di condotte di eliminazione delle conseguenze dannose del reato di circonvenzione di persona incapace, a cui può essere subordinata la sospensione condizionale della pena irrogata anche in assenza di una richiesta in tal senso conseguente alla mancata costituzione di parte civile, la restituzione delle somme di denaro illegittimamente percepite in relazione al fatto criminoso». In applicazione di tale principio la Corte ha rigettato il ricorso proposto avverso la decisione di condanna per il delitto di circonvenzione di persona incapace con la quale, in assenza di costituzione di parte civile, il beneficio della sospensione condizionale della pena irrogata era stato subordinato alla restituzione del denaro transitato dal patrimonio della vittima a quello del ricorrente, sul presupposto che la somma di denaro, in quanto strettamente collegata alla configurazione stessa del reato, rappresentasse l’accadimento lesivo collegato al fatto, eliminabile con l’adempimento di «prestazioni certe e determinate» orientate non «alla tutela degli interessi civili del danneggiato, bensì al reinserimento sociale del reo».

3. La possibilità di integrazione delle statuizioni in tema di sospensione condizionale subordinata all’adempimento di obblighi risarcitori o di ripristino.

La possibilità di imporre specifici obblighi risarcitori o ripristinatori in sede di condanna a pena condizionalmente sospesa, al fine di realizzare le istanze delle parti civili, riguarda la definizione dei margini di intervento del giudice della esecuzione in tema di revoca del beneficio. La scelta degli adempimenti condizionali da imporre e la determinazione in concreto dei contenuti, dei modi e tempi di adempimento, quale espressione qualificata di giurisdizione vede, infatti, coinvolto anche il giudice della esecuzione.

In via generale la Corte ha dichiarato «illegittima la revoca “in executivis” della sospensione condizionale della pena riconosciuta in violazione dell’art. 164, quarto comma, cod. pen., in presenza di una causa ostativa nota al giudice d’appello, anche se non sia stato investito dell’impugnazione o da formale sollecitazione del pubblico ministero in ordine all’illegittimità del beneficio, non essendo precluso al giudice dell’impugnazione il potere di revoca, esercitabile anche d’ufficio» (Sez. 5, n. 23133 del 09/07/2020, Bordonaro, Rv. 279906 - 01, con riferimento alla rilevata presenza nel fascicolo di appello del certificato penale dell’imputato che riportava i suoi precedenti penali).

Nella pronuncia si richiama il principio espresso dalle Sezioni Unite, n. 37345 del 23/04/2015, Longo, Rv. 264381-01, ove non solo si afferma che al giudice dell’esecuzione non è consentita la revoca della sospensione condizionale della pena nel caso in cui le cause ostative al beneficio fossero documentalmente note al giudice della cognizione (in senso conforme, Sez. 1, n. 19457 del 16/01/2018, Signoretto, Rv. 272832 - 01), ma si precisa che tale condizione negativa è integrata anche laddove il dato sia stato oggetto di una valutazione implicita in sede di cognizione, che è da ritenersi integrata nel fatto che la causa ostativa, documentata agli atti e pertanto conoscibile, risulti oggettivamente compresa nel perimetro di quel giudizio.

La Corte precisa, inoltre, che il tema della mancanza di impugnazione o sollecitazione rivolta dal pubblico ministero alla corte di appello sul punto non rileva ai fini della insussistenza della preclusione, così superando, in ossequio all’indirizzo espresso dalle Sezioni Unite, la «isolata pronuncia di legittimità» di Sez. 1, n. 3709 del 10/05/2019, Coccia, Rv. 276504-01, in ragione del potere di revoca d’ufficio riconosciuto in capo al giudice di secondo grado e della doverosità della verifica giudiziale sul punto, che prevede la possibilità di acquisire gli atti necessari per la decisione.

Due ulteriori questioni hanno investito il tema dei poteri di intervento del giudice della esecuzione.

La prima attiene alla possibilità della individuazione, da parte del giudice dell’esecuzione, del termine, qualora non sia stato stabilito dalla sentenza, entro il quale il condannato deve adempiere alla prestazione - nella specie, il pagamento di una somma di danaro a titolo di risarcimento per equivalente liquidata con sentenza provvisionale - cui il giudice, ai sensi dell’art. 165 cod. pen., ha condizionato l’operatività del beneficio della sospensione condizionale della pena.

La revoca del beneficio presuppone l’accertamento di un inadempimento colpevole. A tal fine, la sentenza di condanna a pena sospesa condizionata deve necessariamente prevedere la determinazione del termine di adempimento dell’obbligo condizionante, la cui omissione, ove non rilevata mediante gli ordinari mezzi di impugnazione - e non deducibile aliunde dal complesso della decisione di merito - è destinata ad essere emendata in fase di esecuzione. Ciò che apre la possibilità alla valutazione da parte del giudice della esecuzione della concessione di un termine congruo per l’adempimento, in luogo dell’imposizione dell’immediato adempimento al momento del passaggio in giudicato della sentenza.

Sulla questione, con una serie di pronunce (Sez. 1, n. 23742 del 08/07/2020, Priori, Rv. 279458-01; Sez. 1, n. 10867 del 16/01/2020, Cirota, Rv. 278693 - 01; Sez. 1, n. 6368 del 28/01/2020, Incalacaterra, Rv. 278075 - 01), la Corte ha ribadito il principio, ritenuto espressione di orientamento prevalente, secondo cui «in caso di sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento di una somma liquidata a titolo di provvisionale in favore della parte civile, il termine entro il quale l’imputato deve provvedere all’adempimento dell’obbligo risarcitorio, qualora non sia stato fissato in sentenza, coincide con quello del passaggio in giudicato della stessa, trattandosi di obbligazione pecuniaria immediatamente esigibile» (in senso conforme, in precedenza, Sez. 1, n. 47649 del 22/11/2019, Pucci, Rv. 277458 - 01, in tema di assegno di mantenimento del coniuge separato, Sez. 1, n. 47650 del 18/04/2019, Agostini, Rv. 278460 - 01; Sez. 5, n. 40480 del 24/06/2019, P., Rv. 278381 - 01). Tale principio è stato posto in discussione dal non remoto arresto di Sez. 5, n. 9855 del 08/11/2018, dep. 2009, Perticari, Rv. 275502 - 01 (e ancor prima, da Sez. 1, n. 42109 del 19/06/2013, Damiano, Rv. 256765-01) secondo cui in caso di subordinazione del beneficio della sospensione condizionale della pena alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, la omissione della indicazione del termine entro il quale gli obblighi, ai quali il beneficio risulta condizionato, devono essere adempiuti non comporta la nullità della clausola, ma solo la sua integrazione con il termine legale di sospensione condizionale della pena previsto dal comma primo dell’art. 163 cod. pen. (due o cinque anni a seconda che trattasi di contravvenzione o delitto).

A sostegno dell’assunto, Sez. 1, “Priori” evidenzia, da un lato, la diversa ratio del termine di cui all’art. 163 cod. pen. e, dall’altro, la previsione legale di specifici termini di adempimento degli obblighi rientranti nella previsione di cui all’art. 165 cod. pen. In particolare, in tema di obbligazione pecuniaria, l’art. 1183 cod. civ. stabilisce che «se non è determinato il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita il creditore può esigerla immediatamente», salvi i casi in cui «in virtù degli usi o per la natura della prestazione ovvero per il modo o il luogo dell’esecuzione, sia necessario un termine», che «in mancanza di accordo delle parti è stabilito dal giudice». La condanna al pagamento di provvisionale fa sorgere un’obbligazione pecuniaria immediatamente esigibile dal suo creditore, se non è stato apposto uno specifico termine di adempimento, con la conseguenza che l’omessa previsione in sentenza di un termine per l’adempimento dell’obbligo di corrispondere una somma di denaro determina l’applicazione dell’art. 1183 cod. civ., che prevede l’immediata esigibilità della prestazione.

Un ulteriore argomento a sostegno della tesi espressa da Sez. 1, “Priori”, si rinviene nel fatto che, ove l’adempimento condizionale sia il pagamento di una provvisionale, per la natura di credito certo, liquido ed esigibile, potrebbe venire in essere il presupposto per la revoca di diritto della sospensione condizionale ai sensi dell’art. 168, primo comma, n. 1, cod. pen. già dopo la sentenza di primo grado. Si prospetterebbe un inadempimento “colpevole” del reo, anche in assenza di un titolo divenuto definitivo, che, peraltro, dipenderebbe dalle scelte discrezionali della parte civile.

Una seconda questione riguarda l’aspetto - non controverso - dei limiti al potere del giudice di appello di disporre d’ufficio la subordinazione della sospensione condizionale della pena al pagamento delle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno.

Sulla questione Sez. 2, n. 12789 del 13/02/2020, Vinci, Rv. 279033 ha affermato che è illegittima, perché peggiorativa per l’imputato ed adottata in violazione dell’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., la statuizione, adottata d’ufficio dal giudice di appello, in assenza di impugnazione della parte pubblica sul punto, con la quale il già concesso beneficio della sospensione condizionale sia condizionato al pagamento delle somme dovute per il risarcimento dei danni in favore della parte civile. Nel caso di specie, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla introdotta subordinazione all’obbligo risarcitorio, con la quale il giudice di appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva subordinato la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena al pagamento delle somme liquidate a titolo di risarcimento alla parte civile, confermando la condanna per il delitto di tentata estorsione. In senso conforme, Sez. 3, n. 30557 del 15/07/2011, Di Martino ed altri, Rv. 251041 - 01 ha ritenuto illegittima la statuizione d’ufficio della corte distrettuale con la quale il beneficio veniva subordinato all’abbattimento del manufatto abusivo, perché emessa, n palese violazione del principio del divieto della reformatio in pejus, in assenza di specifica impugnazione del p.m.

4. La verifica della possibilità di adempimento dell’obbligo risarcitorio cui è condizionalmente sospesa la condanna.

Al giudice della esecuzione può essere affidata, inoltre, la valutazione della concreta possibilità di adempiere da parte del condannato, momento che realizza pur sempre la finalità rieducativa della pena.

L’art. 165 cod. pen. consente al giudice di individualizzare gli effetti della sospensione condizionale della pena, fornendo un contenuto positivo che supera la classica funzione di una rinuncia alla punizione, così modellando l’opportunità di irrogare la sanzione in prospettiva della prevenzione speciale.

La giurisprudenza ha avvertito l’esigenza di valutare l’eccessiva onerosità della prescrizione degli adempimenti risarcitori anche in relazione alle concrete condizioni economiche del reo.

La previsione di obblighi ai quali è subordinato l’effetto tipico della sospensione condizionale della pena non può essere infatti di ostacolo all’attuazione della funzione rieducativa della pena, in relazione alla quale deve, invece, rappresentare un ampliamento delle soluzioni sanzionatorie.

Si è, dunque, riproposto il contrasto, mai sopito, sulla sussistenza o meno dell’obbligo del giudice della cognizione di procedere all’accertamento delle condizioni economiche dell’imputato, al fine di sancire la esigibilità dell’adempimento, nel caso in cui la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena sia subordinato all’adempimento dell’obbligo risarcitorio o al pagamento di una somma a titolo di provvisionale. Ciò, ancor più quando sin dal processo emergano (o siano allegate dalla difesa) situazioni che facciano dubitare della capacità economica di adempiere ovvero nelle quali siano forniti dalla parte interessata elementi che inducano a ritenere una tale incapacità.

La Quarta Sezione, con la sentenza n. 4626 dell’08/11/2019 (dep. 2020), Sgrò, Rv. 278290 - 01, ha affermato il principio di diritto così massimato: «in tema di sospensione condizionale della pena, nel caso in cui il beneficio venga subordinato all’adempimento dell’obbligo risarcitorio, il giudice della cognizione non è tenuto a svolgere alcun accertamento sulle condizioni economiche dell’imputato, atteso che la verifica dell’eventuale impossibilità di adempiere del condannato rientra nella competenza del giudice dell’esecuzione». Nel caso di specie, la sospensione condizionale della pena per il reato di lesioni colpose derivante dalla violazione delle norme antinfortunistiche è stata subordinata alla corresponsione delle somme liquidate a favore della parte civile, avuto riguardo al fatto che il lavoratore non aveva ottenuto alcun risarcimento per l’incidente occorsogli.

La sentenza ripropone l’orientamento espresso, tra le altre, da due conformi pronunce della Quinta Sezione (Sez. 5, n. 12614 del 09/12/2015, Fanella, Rv. 266873 - 01 e Sez. 5, n. 15800 del 17/11/2015, Foddi, Rv. 266690 - 01) ove si è evidenziato che l’istituto della sospensione condizionale della pena è ispirato a criteri che trascendono la limitata sfera dell’interesse particolare dell’imputato, ciò che esclude che il giudice della cognizione debba svolgere una indagine sulle sue condizioni economiche in caso di subordinazione della concessione della sospensione condizionale al risarcimento del danno. Del resto, all’obbligato non può derivare alcun grave e irreparabile danno in ipotesi d’incolpevole inadempimento del predetto obbligo, non comportando l’inosservanza dello stesso la revoca automatica del beneficio ed essendo fatta salva la possibilità, in sede di esecuzione, di allegare la comprovata assoluta impossibilità dell’adempimento ai fini della valutazione circa l’attendibilità e la rilevanza dell’impedimento dedotto.

Inoltre, l’accertamento sulle condizioni economiche dell’imputato in sede di merito, avendo ad oggetto la capacità economica di questi, comporterebbe la necessità di una istruttoria nel contraddittorio delle parti che potrebbe rivelarsi inutile, non essendo precluso al soggetto interessato di dimostrare, in sede esecutiva, la modifica peggiorativa della propria situazione economica, oltre che in concreto non attuabile, sussistendo la possibilità, nei casi in cui l’imputato sia assente o contumace, che il giudice della cognizione non abbia a disposizione elementi per verificare tale capacità economica (in senso conforme, sul punto, la coeva Sez. 5, n. 31606 del 21/07/16 Desogus).

Con la sentenza Sez. 4, “Sgro”, la Corte si è mossa nell’intento di superare il patente conflitto giurisprudenziale in atto, privilegiando l’accertamento in sede esecutiva delle concrete possibilità di adempimento delle obbligazioni risarcitorie da parte del condannato. Ciò in consapevole contrasto con la recente Sez. 5, n. 40041 del 18/06/2019, Peron, Rv. 277604- 01, che, con riferimento ad un caso di documentata situazione di difficoltà economica esposta dalla difesa dell’imputato nel corso del giudizio di appello, ha affermato l’opposto principio secondo cui «il giudice che intenda subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena al risarcimento del danno (nella specie, al pagamento della provvisionale stabilita) ha l’obbligo di valutare le reali condizioni economiche del condannato in ogni caso e, ancor di più, quando vi sia un accenno di prova dell’incapacità di questo di sopportare l’onere del pagamento risarcitorio» (in adesione, gli arresti di Sez. 5, n. 21557 del 2/2/2015, Solazzo, Rv. 263675-01; Sez. 5, n. 4527 del 03/11/2010, dep. 2011, Rizk, Rv. 249248 - 01 e Sez. 2, n. 22342 del 15/02/2013, Cafagna, Rv. 255665-01).

Il citato contrario orientamento fa leva sulla necessità di preferire un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 165 cod. pen. In tal senso si richiamano le indicazioni fornite da C. Cost. n. 49 del 1975 che, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma, nella parte in cui consente di subordinare la sospensione condizionale della pena al risarcimento del danno, ha sottolineato che spetta comunque al giudice la valutazione, caratterizzata da un apprezzamento motivato pur se discrezionale, della capacità economica del condannato e della sua concreta possibilità di sopportare l’onere del risarcimento del danno. Il dovere di sondare le effettive possibilità del condannato di fruire del beneficio della sospensione condizionale subordinandolo ad un obbligo risarcitorio che egli possa realmente assolvere è coerente con il principio costituzionale di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e con la funzione rieducativa della pena prevista dall’art. 27 Cost., così da evitare che si realizzi sin dal momento della condanna, un trattamento di sfavore a carico dell’imputato in disagiate condizioni economiche.

In realtà, dall’esame delle fattispecie oggetto delle citate divergenti decisioni, il contrasto emergente nei più recenti interventi della Corte sembra solo apparente: anche quando si demanda al giudice dell’esecuzione l’accertamento sulle condizioni economiche dell’imputato, si ammette in via di eccezione che esso possa essere anticipato alla fase di merito, quando emergano situazioni che facciano dubitare della capacità economica di adempiere ovvero quando tali elementi siano forniti dalla parte interessata. L’indirizzo, che tenta la composizione del contrasto, è espresso da Sez. 2, n. 26958 del 24/07/2020, Valente, Rv. 279648 -01, secondo cui «in tema di sospensione condizionale della pena subordinata al risarcimento del danno, il giudice, pur non essendo tenuto a svolgere un preventivo accertamento delle condizioni economiche dell’imputato, deve tuttavia effettuare un motivato apprezzamento di esse se dagli atti emergano elementi che consentano di dubitare della capacità di soddisfare la condizione imposta ovvero quando tali elementi vengano forniti dalla parte interessata in vista della decisione». Nel caso di specie la Corte ha ritenuto «votate all’irricevibilità» le doglianze relative all’omessa verifica da parte del giudice di merito della possibilità per l’imputato di pagare la provvisionale, in assenza di specifiche deduzioni difensive in ordine alla pretesa incapienza dello stesso, trattandosi di «professionista con studio legale in una prestigiosa zona della città». In senso conforme, si richiamano Sez. 2, n. 45405 del 25/09/2019, Caserta; Sez. 5, n. 5500 del 20/12/2018, dep. 2019, Toto e Sez. 2, n. 1148 del 6/12/2018, dep. 2019, Barile; Sez. 6, n. 11371, del 15/02/2018 C., Rv. 272544 - 01; Sez. 5, n. 48913, del 01/10/2018 Asllani, Rv. 274599 - 01 e Sez. 5, 24/06/2019 n. 40480, P., Rv. 278381-02, in cui si precisa che la mera circostanza dell’ammissione al gratuito patrocinio non può costituire situazione che induce a dubitare della capacità economica dell’imputato di adempiere all’obbligazione risarcitoria).

In linea di continuità Sez. 5, n. 11299 del 09/12/2019, Gullino, Rv. 278799-01, ha affermato che «in tema di sospensione condizionale della pena subordinata al risarcimento del danno, il giudice, pur non essendo tenuto a svolgere un preventivo accertamento delle condizioni economiche dell’imputato, deve tuttavia effettuare un motivato apprezzamento di esse se dagli atti emergano elementi che consentano di dubitare della capacità di soddisfare la condizione imposta ovvero quando tali elementi vengano forniti dalla parte interessata in vista della decisione.» Nella specie, la Corte ha annullato con rinvio la decisione del giudice di merito che, senza operare una effettiva verifica della capacità economica del condannato, aveva subordinato al pagamento di una provvisionale la concessione del beneficio della sospensione della pena, nonostante risultasse dagli atti che il destinatario del provvedimento era stato dichiarato fallito in proprio dopo la sentenza di condanna di primo grado e spogliato dei suoi beni, venduti all’asta.

L’ambito del potere discrezionale del giudice ex art. 165 cod. pen. circa la possibilità di subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena al risarcimento del danno o al pagamento di una determinata somma è, del resto, definito dai parametri di cui all’art. 164 cod. pen., che, rinviando all’art. 133 cod. pen., implicano una valutazione anche delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale dell’imputato.

Tali conclusioni, ad una verifica concreta della fattispecie, sembrano non antinomiche rispetto all’approdo più rigido di Sez. 4, “Sgrò”, che ha escluso la valutazione in sede di merito circa la possibilità di subordinazione del beneficio della sospensione condizionale della pena al risarcimento del danno patito dal lavoratore in ragione del fatto che la difesa del ricorrente non aveva indicato elementi nè fornito allegazioni dai quali desumere una particolare condizione di disagio economico che determinasse l’impossibilità di adempimento dell’obbligo risarcitorio.

5. Revoca di diritto della sospensione condizionale e decorrenza del termine di prescrizione della pena.

L’art. 163, comma primo, cod. pen. prevede un termine legale di sospensione condizionale della pena (due o cinque anni a seconda che trattasi di contravvenzione o delitto), il cui decorso ne determina l’estinzione.

La previsione di un termine di prescrizione della pena è suscettibile di incidere sulla possibilità di revoca di diritto della stessa nei casi di inadempimento colpevole ai sensi dell’art. 168, primo comma, n. 1, cod. pen. per aver il condannato commesso un delitto o una contravvenzione per la quale sia irrogata condanna a pena detentiva.

Sul tema degli effetti della revoca della sospensione condizionale, Sez. F, n. 27328 del 02/09/2020, Francavilla, Rv. 279759-01 ha affermato il principio così massimato: «Il termine di decorrenza della prescrizione della pena, divenuta eseguibile in ragione del verificarsi delle condizioni per la revoca del beneficio della sospensione condizionale, ha inizio nel momento in cui diviene definitiva la decisione di accertamento della causa della revoca e non in quello in cui sia adottato dal giudice dell’esecuzione il provvedimento di revoca». Nel caso di specie, a fronte della richiesta della difesa del reo di dichiarazione dell’estinzione della pena condizionalmente sospesa per effetto del decorso del termine di legge eseguibilità della pena, il giudice dell’esecuzione aveva ritenuto che il beneficio dovesse essere revocato, ai sensi dell’art. 168, comma primo n. 1, cod. pen., perché nel quinquennio successivo, il condannato aveva commesso un ulteriore delitto per il quale aveva riportato condanna. La Corte, nel condividere la decisione del primo giudice, laddove, ai sensi dell’art. 172, comma quinto, cod. pen., ha ritenuto la decorrenza del termine di prescrizione dalla data in cui era intervenuta la causa di revoca del beneficio, con conseguente eseguibilità della pena inflitta, trattandosi di condanna con il beneficio della sospensione condizionale della pena, ha precisato che la pronuncia (del giudice della esecuzione) che rileva l’operatività di una causa di revoca di diritto della sospensione condizionale della pena ha natura meramente dichiarativa.

La decisione conferma il consolidato indirizzo giurisprudenziale che ricollega gli effetti della revoca all’accertamento del presupposto e non al provvedimento formale (del giudice della esecuzione). Sul punto, Sez. 1, n. 11156 del 02/12/2015 (dep. 2016), Ouledfares, Rv. 266343 - 01, ha affermato che «il termine di decorrenza della prescrizione della pena, per sopravvenuta eseguibilità in ragione del verificarsi delle condizioni per la revoca del beneficio della sospensione condizionale, ha inizio nel momento in cui diviene definitiva la decisione di accertamento della causa della revoca e non in quello in cui sia adottato dal giudice dell’esecuzione il provvedimento di revoca» (in senso conforme, Sez. 1, Sentenza n. 21008 del 24/01/2012, Mignemi, Rv. 253548 - 01 e Sez. 1, n. 5689 del 10/06/2014 (dep. 2015), Mercurio, Rv. 262462 - 01, secondo cui «il “dies a quo” del termine di prescrizione della pena oggetto di sospensione condizionale poi revocata coincide con il giorno in cui è passata in giudicato la decisione che ha disposto la revoca del beneficio e non dal momento in cui è stato commesso il reato che ha dato luogo alla revoca»).

Il principio espresso da Sez. F, “Francavilla”, ribadisce la soluzione maggioritaria adottata dalla Corte secondo cui il dies a quo della decorrenza del termine di prescrizione coincide con il momento di verificazione dei presupposti da cui la legge fa derivare la revoca del beneficio, mentre il successivo provvedimento di revoca ha mera funzione ricognitiva della condizione risolutiva e i relativi effetti si producono ex tunc, retroagendo al momento in cui la condizione si è verificata. La revoca della sospensione condizionale della pena consegue, come si rileva dal dettato dell’art. 168, primo comma, numero 1, cod. pen. alla fattispecie complessa, costituita dalla commissione del reato (fatto storico), nel quinquennio di osservazione (requisito cronologico) e dalla inflizione per il ridetto reato di una pena detentiva (evento giuridico). Non è sufficiente, infatti, il dato fattuale della commissione di un reato entro il previsto termine quinquennale, essendo indispensabile l’accertamento della relativa responsabilità con sentenza irrevocabile di condanna, da cui la revoca consegue. Il momento in cui la sentenza di condanna, per effetto della revoca del beneficio, diviene eseguibile va, dunque, individuato in quello in cui è perfezionata la causa di revoca, e dunque nella data di irrevocabilità della condanna, a pena detentiva, per il nuovo reato, e non nella data di commissione del reato, che è elemento necessario, ma non sufficiente ad integrare la causa di revoca.

La soluzione adottata risponde alla ratio sottesa alla disciplina della prescrizione, ispirata all’esigenza di certezza delle situazioni giuridiche, e, soprattutto, si pone in sintonia con il principio espresso dalle Sezioni Unite (Sez. U., n. 2 del 30/10/2014 (dep. 2015), Maiorella, Rv. 261399-01), in materia di revoca dell’indulto, secondo cui «nel caso in cui l’esecuzione della pena sia subordinata alla revoca dell’indulto, il termine di prescrizione della pena decorre dalla data d’irrevocabilità della sentenza di condanna, quale presupposto della revoca del beneficio» e non dalla data del provvedimento di revoca del condono. L’anticipazione del tempo dell’esecuzione della pena al momento certo dell’avveramento della condizione risolutiva è, del resto, coerente con i parametri costituzionali di cui agli artt. 3, 27, secondo comma, e 111 Cost. e con i principi convenzionali di ragionevole durata, sollecita definizione e minor sacrificio esigibile, evincibili dalle norme degli artt. 5 e 6 CEDU. La ricostruzione in termini di fattispecie complessa della causa di revoca della sospensione condizionale della pena di cui all’art. 168, primo comma, numero 1, cod. pen., è implicitamente affermata anche da Sez. 5, n. 11759 del 22/11/2019 Cc. (dep. 2020), Greco, Rv. 279015-01, così massimata: «in tema di sospensione condizionale della pena, il concetto di commissione del reato, dal quale la legge fa dipendere l’ostacolo all’effetto estintivo del reato, è ancorato alla data di consumazione dello stesso con riferimento al quinquennio, ma l’effetto ostativo di tale evenienza è subordinato all’accertamento definitivo del reato medesimo, in ragione della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, comma 1, Cost.» (in senso conforme, Sez. 1, n. 17878 del 30/01/2017, Manno, Rv. 269824 - 01, che, ai fini dell’accoglimento dell’istanza di estinzione del reato ex art. 167 cod. pen. per il quale l’imputato è stato condannato a pena condizionalmente sospesa, ha escluso che ostino le pendenze giudiziarie non definitive, in quanto la condizione, cui è sottoposta in tali casi l’estinzione del reato, è unicamente la mancata commissione di un nuovo reato nel termine di cinque anni, commissione che deve essere accertata con sentenza irrevocabile).

Il principio della decorrenza del termine di prescrizione della pena condizionalmente sospesa dal momento dell’accertamento della causa di revoca del beneficio si applica alle cause di revoca previste dai nn. 1 e 2 del primo comma dell’art. 168 cod. pen., che riguardano, rispettivamente, il caso in cui il condannato «commetta un delitto ... per cui venga inflitta una pena detentiva ...» (n. 1) ovvero il fatto che il condannato «riporti un’altra condanna per un delitto anteriormente commesso ... (n. 2). Nel primo caso la causa di revoca è integrata al passaggio in giudicato della condanna che infligge la pena detentiva per il delitto, o per la contravvenzione della stessa indole, commesso nel quinquennio dal passaggio in giudicato della sentenza che ha riconosciuto il beneficio, mentre nel secondo la causa di revoca si realizza con la irrevocabilità della condanna, sopravvenuta nel quinquennio, per delitto anteriormente commesso.

Di contro, nel caso in cui la revoca del beneficio sia disposta, nella cognizione, dal giudice che pronuncia la condanna per il reato commesso nel quinquennio (art. 168 n. 1 cod. pen.) ovvero anteriormente commesso (art. 168 n. 2 cod. pen.) si avrà coincidenza tra la pronuncia che revoca di diritto il beneficio e il verificarsi della causa della revoca.

Deve evidenziarsi, del resto, che nei casi di revoca obbligatoria e di diritto della sospensione condizionale della pena previsti dall’art. 168, comma primo, cod. pen., sussiste piena fungibilità tra il giudice di merito e quello dell’esecuzione. La Corte ha affermato che, nei casi di revoca di diritto della sospensione condizionale della pena, si configura «un obbligo di provvedere in capo al giudice dell’esecuzione, a prescindere dal fatto che la sussistenza della causa di revoca di diritto del beneficio fosse o meno rilevabile dagli atti in possesso del giudice della cognizione, semplicemente facoltizzato alla revoca» (Sez. 1, n. 14853 del 12/02/2020 Jandoubi Kamel, Rv. 279053-01). Si è in tal modo data continuità all’indirizzo espresso da Sez. 1, n. 34237 del 29/05/2015, Are, Rv. 264156-01. L’ipotesi contemplata nel primo comma dell’art. 168 cod. pen. si inquadra nella fisiologia dell’istituto della sospensione condizionale in quanto la temporanea sospensione dell’esecuzione della pena è per la sua stessa essenza giuridica sottoposta alle condizioni risolutive stabilite dalla legge, in carenza delle quali trova attuazione la prospettiva premiale della estinzione del reato. A questa è del tutto estranea la revoca prevista dall’art. 168, comma terzo, cod. pen., che è preordinata alla eliminazione della patologia occorsa nella concessione del beneficio elargito in violazione della legge a colui al quale non doveva essere concesso. L’affermazione non si pone in contrasto con i limiti al potere di intervento del giudice della esecuzione individuati da Sez. U, n. 37345 del 23/04/2015, PM in proc. Longo, Rv. 264381 - 01, che riguarda ipotesi affatto diversa, in cui si afferma il seguente principio di diritto: «Il giudice dell’esecuzione può revocare il beneficio della sospensione condizionale della pena concesso in violazione dell’art. 164, comma quarto, cod. pen. in presenza di cause ostative, a meno che tali cause non fossero documentalmente note al giudice della cognizione. A tal fine il giudice dell’esecuzione acquisisce, per la doverosa verifica al riguardo, il fascicolo del giudizio».

6. Sospensione condizionale e confisca per equivalente.

Le plurime modalità applicative del beneficio della sospensione condizionale della pena, nella richiamata ottica di prevenzione generale e speciale che realizza il complesso sistema repressivo, consente di individuare nell’istituto una funzione sanzionatoria, che va ben al di là della caducazione della minaccia edittale per effetto dell’atto di fiducia, revocabile con il ritorno alla pena commisurata in concreto, verso il reo, potendo essere arricchito da precipui obblighi e prescrizioni. Funzione intrinsecamente punitiva è quella espressa dai doveri risarcitori che si sovrappongono al pagamento della riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater, cod. proc. pen. La riparazione pecuniaria, infatti, si cumula con gli effetti della confisca, anche per equivalente, e non incide con il diritto ad ulteriore risarcimento del danno, secondo quanto disposto dall’art. 2, l. 27 maggio 2015 n. 69 e, successivamente, dall’art. 1, comma 1, lett. g), l. 9 gennaio 2019, n. 3.

Se appare pacifica la cumulabilità tra prescrizioni riparatorie imposte in funzione della sospensione condizionale e confisca, per la comune natura sanzionatoria delle misure, appare incerta la possibilità che il beneficio della sospensione condizionale possa estendere i propri effetti a detta misura ablatoria accessoria.

Costituisce approdo condiviso della dottrina la finalità recuperatoria - e non sanzionatoria - della confisca per equivalente, che si configura come una modalità alternativa di esecuzione della confisca diretta, in funzione semplificativa del procedimento, avendo ad oggetto un bene fungibile ed immediatamente reperibile nel patrimonio del destinatario della misura, in luogo del bene direttamente connesso alla perpetrazione del reato. Tale alternatività, che incide sull’oggetto della misura, non altera la funzione di recupero tipica della confisca, alla cui realizzazione è volta la apprensione del bene.

La confisca per equivalente condivide le finalità proprie delle pene principali, di carattere dissuasivo ed afflittivo, mentre quella diretta persegue lo scopo di ripristinare lo status quo ante e di prevenzione in senso lato. Tuttavia, non mutua la funzione di prevenzione propria della confisca diretta, quale misura di sicurezza, pur condividendo con questa la natura sanzionatoria. Né il riconoscimento di una funzione eminentemente sanzionatoria della confisca per equivalente si traduce in una totale equiparazione alla pena principale.

La specificità sanzionatoria della confisca per equivalente ha indotto la dottrina e la giurisprudenza in modo univoco ad escludere la possibilità di estendere gli effetti della sospensione condizionale della pena principale alla confisca per equivalente, non ravvisandosi una piena parificazione ad una pena accessoria.

Sul tema, Sez. 2, n. 8538 del 3/03/2020, De Gregorio, Rv. 278241, ha affermato che la confisca per equivalente, pur avendo funzione sanzionatoria, non può essere equiparata in toto alla sanzione penale, con la conseguente esclusione dell’applicabilità della sospensione condizionale della pena, evidenziando come tale forma di ablazione patrimoniale non può essere parificata né ad una pena accessoria, in assenza della funzione preventiva tipica di questa, né alla pena principale, in quanto non è definita in proporzione alla gravità della condotta ed alla colpevolezza del reo e, piuttosto che “affliggere”, mira a “ripristinare” la situazione patrimoniale preesistente alla consumazione del reato. Nel caso di specie, in sede di applicazione della pena con la concessione del beneficio della sospensione condizionale, il giudice aveva ordinato la confisca di una somma di denaro e, in subordine, per equivalente dei beni del ricorrente fino alla concorrenza del medesimo valore. La confisca per equivalente si configura, infatti, come presidio ripristinatorio autonomo, connotato da obbligatorietà ed assenza di discrezionalità nella determinazione del quantum, rispetto alle sanzioni principali ed accessorie.

L’arresto si pone in continuità con il principio espresso in un caso analogo da Sez. 2, n. 45324 del 14/10/2015, Soddu, Rv. 264958, secondo cui «la sospensione condizionale della pena non estende i propri effetti alla confisca per equivalente, non potendosi essa parificare ad una “pena accessoria”, ponendo l’accento sul diverso regime di operatività e la differente disciplina.»

La Corte rinvia alla definizione della natura della confisca per equivalente elaborata dalla Corte costituzionale, qualificata come misura che attinge beni non intrinsecamente pericolosi e che non sono in rapporto di diretta pertinenzialità (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) con il reato per cui si procede, il che esclude la riconducibilità dell’istituto alla categoria delle misure di sicurezza e consente di assegnare alla misura ablatoria una connotazione prevalentemente afflittiva e una natura “eminentemente sanzionatoria” tale da impedire l’applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale della retroattività delle misure di sicurezza, sancito dall’art. 200 cod. pen. (C. Cost., sentenza n. 97 del 2009).

L’orientamento della Corte costituzionale porta ad operare una netta distinzione tra i due tipi di confisca: la confisca diretta e obbligatoria del prezzo o del profitto del reato, ex art. 240, secondo comma, n. 1 cod. pen., costituisce misura di sicurezza patrimoniale con effetto ripristinatorio, che va disposta anche nei casi di sentenza che dichiara estinto il reato per intervenuta prescrizione, mentre in questi casi la confisca indiretta non può essere disposta, proprio per la sua diversa natura.

Le Sezioni Unite (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami e altro, Rv. 255037) hanno affermato che «la confisca per equivalente, introdotta per i reati tributari dall’art. 1, comma 143, l. n. 244 del 2007 ha natura eminentemente sanzionatoria e, quindi, non essendo estensibile ad essa la regola dettata per le misure di sicurezza dall’art. 200 cod. pen., non si applica ai reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge».

Proprio in ragione del carattere afflittivo e sanzionatorio della misura, le Sezioni Unite hanno, inoltre, escluso che il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, possa disporre la confisca per equivalente delle cose che ne costituiscono il prezzo o il profitto atteso (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264435). La confisca del profitto del reato non costituisce pena accessoria, bensì misura ablatoria con finalità ripristinatoria (diretta o per equivalente, a seconda dell’oggetto del profitto), con la conseguenza che, qualora l’istanza di applicazione venga proposta in fase esecutiva, il giudice dell’esecuzione decide ai sensi dell’art. 676 cod. proc. pen. con ordinanza impugnabile solo con l’opposizione ex art. 667, comma 4, cod. proc. pen. Sul tema, Sez. 3, Sentenza n. 43397 del 10/09/2015, Lombardo, Rv. 265093 - 01, ha precisato che l’eventuale ricorso per cassazione erroneamente proposto non deve essere dichiarato inammissibile, ma qualificato come opposizione e trasmesso al giudice competente.

Peraltro, l’estensione degli effetti della sospensione condizionale della pena principale alle misure di sicurezza, prevista dall’art. 164, comma 3, cod. pen., esclude espressamente la confisca del profitto del reato ex art. 240 cod. pen., sicché, in caso di sospensione condizionale della pena principale, gli effetti di tale provvedimento non si estendono, né alla confisca diretta, per specifica previsione normativa, né alla confisca indiretta, non essendo questa riconducibile alle pene accessori.

L’approdo non è posto in discussione dal principio espresso da Sez. 1, n. 282 del 11/12/2019 (dep. 2020), Primiterra, Rv. 278464 - 01 (conf., Sez. 1, n. 23716 del 15/12/2016- dep. 2017, Soddu, Rv. 270112), che ammette in sede di esecuzione, in forza del disposto di cui all’art. 676 cod. proc. pen., la possibilità di disporre la confisca per equivalente del profitto del reato di cui all’art. 640-bis cod. pen., qualora la sentenza irrevocabile di applicazione della pena non vi abbia provveduto.

Si evidenzia, infatti, che la confisca per equivalente non può essere equiparata alle pene accessorie. La citata misura differisce «dalle pene accessorie perché persegue lo scopo di ripristinare la situazione economica del reo, qual era prima della violazione della legge penale, privandolo delle utilità ricavate dal crimine commesso e sottraendogli beni di valore ad esse corrispondenti senza esplicare alcuna funzione preventiva, diversamente da quanto accade per le pene accessorie e le misure di sicurezza, compresa la stessa confisca diretta del prezzo o profitto del reato» si tratta dunque di uno «strumento ablatorio ripristinatorio dal carattere affittivo», applicabile anche in sede esecutiva pur non essendo catalogabile tra le pene accessorie (in tal senso, la citata Sez. 1, “Soddu”).

Del resto, in una coeva pronuncia la Corte ha affermato che la confisca per equivalente ha «natura “omologa” alle sanzioni penali principali», sicché in caso di dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice la sentenza deve essere revocata ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen. anche nella parte relativa alla confisca, salvo che questa non abbia ancora avuto esecuzione, con restituzione dei beni all’avente diritto (Sez. 3, n. 38857 del 10/05/2016 - dep. 20/09/2016, Maffei, Rv. 267696, che, nella specie, ha ritenuto “per equivalente” la confisca di somme di danaro disposta contestualmente alla sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 10-ter, d.lgs. n. 74 del 2000; Sez. 3, n. 44912 del 07/04/2016, Bernasconi, Rv. 268773 - 01, che, in tema di associazione per delinquere finalizzata alla truffa ed alla evasione fiscale, in mancanza di beni materialmente apprensibili costituenti il profitto del reato, ha ritenuto ammissibile il sequestro preventivo funzionale alla successiva confisca per equivalente di somme di denaro depositate su conto corrente bancario dell’indagato). Sez. 2, “De Gregorio”, in modo schematico, ha riassunto quelli che sono gli approdi della giurisprudenza sul tema, rilevando come la confisca per equivalente: «(a) non sia assimilabile ad una misura di sicurezza in quanto non si riferisce a cose “pericolose” in sé, sicché non è retroattiva; b) non sia assimilabile ad una sanzione accessoria, dato che è assente la funzione preventiva tipica di tali misure; (c) non sia assimilabile alla sanzione principale in quanto non è definita in proporzione alla gravità della condotta ed alla colpevolezza del reo, e piuttosto che “affliggere”, mira a “rispristinare” la situazione patrimoniale preesistente alla consumazione del reato».

Sulla scorta di tali valutazioni, definisce i caratteri della confisca per equivalente come «misura (a) “rigida” in quanto il quantum da confiscare non è sottoposto a valutazioni discrezionali, ma dipende solo dall’accertamento del profitto e del prezzo del reato; (b) “obbligatoria” e non gestibile, come attraverso l’accordo delle parti (che ove vi sia può anche essere disatteso)».

Da quanto sopra emerge la natura ibrida della confisca indiretta, che non può essere qualificata, né come pena accessoria, né come misura di sicurezza.

Dal profilo eminentemente sanzionatorio della misura in esame deriva la non piena equiparabilità alla sanzione principale, perché carente della tipica funzione repressiva, o alle sanzioni accessorie, non essendo riconoscibile la tipica funzione “preventiva” di tali sanzioni satellite. Ne deriva la inapplicabilità della sospensione condizionale, che pacificamente investe solo le sanzioni stricto sensu intese.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze dalla Corte di cassazione

Sez. 2, n. 16629 del 29/03/2007, Baglivo, Rv. 236655-01

Sez. 2, n. 41376 del 28/09/2010, Trenti, Rv. 248924-01

Sez. 5, n. 4527 del 03/11/2010, dep. 2011, Rizk, Rv. 249248 Sez. 3, n. 30557 del 15/07/2011, Di Martino Rv. 251041 Sez. 1, n. 21008 del 24/01/2012, Mignemi, Rv. 253548-01

Sez. 1, n. 42109 del 19/06/2013, Damiano, Rv. 256765

Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami e altro, Rv. 255037 Sez. 2, n. 22342 del 15/02/2013, Cafagna, Rv. 255665

Sez. 2, n. 3858 del 18/12/2013 (dep. 2014), Olivieri, Rv. 258045-01

Sez. 1, n. 5689 del 10/06/2014 (dep. 2015), Mercurio, Rv. 262462

Sez. 3, n. 1324 del 24/06/2014 (dep. 2015), Volturno, Rv. 261778

Sez. 2, n. 45324 del 14/10/2015, Soddu, Rv. 264958

Sez. 3, n. 43397 del 10/09/2015, Lombardo, Rv. 265093 - 01 Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264435

Sez. U, n. 37345 del 23/04/2015, Longo, Rv. 264381 - 01

Sez. U., n. 2 del 30/10/2014 (dep. 2015), Maiorella, Rv. 261399-01 Sez. 1, n. 34237 del 29/05/2015, Are, Rv. 264156

Sez. U, n. 37345 del 23/04/2015, Longo, Rv. 264381-01

Sez. 5, n. 12614 del 09/12/2015, Fanella, Rv. 266873

Sez. 2, n. 12895 del 5/03/2015, Pulpo, Rv. 262932-01

Sez. 1, n. 23716 del 15/12/2016 - dep. 2017, Soddu, Rv. 270112

Sez. 3, n. 38857 del 10/05/2016, Maffei, Rv. 267696

Sez. 3, n. 44912 del 07/04/2016, Bernasconi, Rv. 268773 - 01 Sez. 5, n. 31606 del 21/07/16 Desogus

Sez. 1, n. 17878 del 30/01/2017, Manno, Rv. 269824 Sez. 5, n. 5500del 20/12/2018, dep. 2019, Toto

Sez. 2, n. 1148 del 6/12/2018, dep. 2019, Barile

Sez. 5, n. 48913, del 01/10/2018 Asllani, Rv. 274599

Sez. 6, n. 11371, del 15/02/2018 C., Rv. 272544

Sez. 5, n. 9855 del 08/11/2018, dep. 2009, Perticari, Rv. 275502

Sez. 1, n. 19457 del 16/01/2018, Signoretto, Rv. 272832 - 01 Sez. 3, n. 45250 del 12/06/2018, Frattolin

Sez. 2, n. 42583 del 24/09/2019, De Vivo, Rv. 277631-01

Sez. 1, n. 47649 del 22/11/2019, Pucci, Rv. 277458

Sez. 4, n. 4626 dell’08/11/2019 (dep. 2020), Sgrò, Rv. 278290 Sez. 2, n. 45405 del 25/09/2019, Caserta

Sez. 5, n. 40480 del 24/06/2019, P., Rv. 278381

Sez. 1, n. 3709 del 10/05/2019, Coccia, Rv. 276504-01

Sez. 1, n. 47650 del 18/04/2019, Agostini, Rv. 278460

Sez. 2, n. 45854 del 13/09/2019, Cappello Rv. 277632-01

Sez. 5, n. 40480 del 24/06/2019 P., Rv. 278381-02

Sez. 5, n. 40041 del 18/06/2019, Peron, Rv. 277604

Sez. 2, n. 23917 del 15/07/2020, Mansi, Rv. 279550 - 01

Sez. 5, n. 23133 del 09/07/2020, Bordonaro, Rv. 279906 - 01

Sez. 1, n. 23742 del 08/07/2020, Priori, Rv. 279458

Sez. 2, n. 12789 del 13/02/2020, Vinci, Rv. 279033

Sez. 1, n. 6368 del 28/01/2020, Incalacaterra, Rv. 278075

Sez. 1, n. 10867 del 16/01/2020, Cirota, Rv. 278693

Sez. 2, n. 26958 del 24/07/2020, Valente, Rv. 279648

Sez. F, Sentenza n. 27328 del 02/09/2020, Francavilla, Rv. 279759 Sez. 1, n. 14853 del 12/02/2020 Jandoubi Kamel, Rv. 279053

Sez. 5, n. 11759 del 22/11/2019 Cc. (dep. 2020), Greco, Rv. 279015 Sez. 2, n.8 8538 del 3/03/2020, De Gregorio, Rv. 278241,

Sez. 1, n. 282 del 11/12/2019 (dep. 2020), Primiterra, Rv. 278464 - 01

  • giurisdizione penale
  • procedura penale

CAPITOLO II

LA RILEVABILITÀ D’UFFICIO, NEI GIUDIZI DI IMPUGNAZIONE, DELLA ILLEGALITÀ DELLA PENA FAVOREVOLE ALL’IMPUTATO.

(di Paola Proto Pisani )

Sommario

1 La notizia di decisione delle Sezioni Unite Acquistapace. - 2 Il contrasto. - 3 La giurisprudenza della Corte di cassazione sui rapporti tra principio devolutivo, divieto di reformatio in peius, e disposizione di cui all’art. 597, comma 4, cod. proc. pen. - 4 La giurisprudenza delle Sezioni Unite sui rapporti tra effetto parzialmente devolutivo dell’appello, giudicato, e questioni rilevabili d’ufficio. - 5 La giurisprudenza di legittimità relativa alla nozione di illegalità della pena e al fondamento e ai limiti della sua rilevabilità d’ufficio oltre i limiti del devoluto. - 5.1 La nozione di pena illegale “ab origine” sviluppata nella giurisprudenza della Corte, al fine di riconoscerne la rilevabilità d’ufficio, oltre i limiti del devolutum: la sola pena illegale “di sfavore”. - 5.2 La nozione di pena illegale elaborata dalla giurisprudenza della Corte ai fini della definizione dell’ambito della sindacabilità della sentenza ex art. 444 cod. proc. pen.: la pena illegale sia di favore che di sfavore, nei limiti del devolutum. - 6 La giurisprudenza di legittimità sulla prevalenza del principio costituzionale di legalità della pena sul giudicato. - 6.1 L’individuazione di un rimedio in executivis all’illegalità “sopravvenuta” della pena per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione relativa al trattamento sanzionatorio. - 6.2 L’estensione del rimedio in executivis alla pena illegale ab origine, in senso sfavorevole all’imputato. - 6.3 La giurisprudenza relativa alla rilevabilità d’ufficio dell’illegalità della pena inflitta in malam partem, in caso di inammissibilità dell’impugnazione. - 6.4 Le Sezioni unite “Jazouli” e “Sebbar”: la precisazione e l’ampliamento della nozione di illegalità sopravvenuta della pena, e la sua rilevabilità d’ufficio anche nel caso di inammissibilità del ricorso. - 7 La sentenza delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. La notizia di decisione delle Sezioni Unite Acquistapace.

Nell’anno in rassegna le Sezioni Unite della Corte, con sentenza in data 17/12/2020, Acquistapace, di cui ad oggi è nota solo la notizia di decisione, hanno risolto in senso affermativo la seguente questione controversa loro rimessa: «Se il giudice di appello, investito dell’impugnazione del solo imputato che, giudicato con il rito abbreviato per reato contravvenzionale, lamenti l’illegittima riduzione della pena ai sensi dell’art. 442 cod. proc. pen. nella misura di un terzo anziché della metà, debba applicare detta diminuente nella misura di legge pur quando la pena irrogata dal giudice di primo grado sia illegale perché in violazione delle previsioni edittali, e di favore per l’imputato».

2. Il contrasto.

La questione controversa decisa dalla Sezioni unite Acquistapace attiene alla configura- bilità o meno di un potere del giudice d’appello, a fronte di una pena illegalmente determinata a vantaggio dell’imputato dalla sentenza di primo grado, di negare gli effetti di ulteriore favore sulla pena conseguenti all’accoglimento dell’appello dell’imputato. Secondo un primo orientamento, ove la pena inflitta dalla sentenza di primo grado sia illegale in senso favorevole al condannato, le pretese dell’imputato, fatte valere con l’atto di impugnazione e volte a ottenere una riduzione della pena complessiva, non meriterebbero considerazione: ciò in quanto l’accoglimento della domanda di parte finirebbe per aggravare la condizione di illegalità della pena, con la conseguenza paradossale per cui la correzione di un errore aggraverebbe le conseguenze di un altro (Sez. 5, n. 51615 del 17/10/2017, Pala, Rv. 271604; Sez. 4, n. 6966 del 20/11/2012 dep. 2013 -, Martinelli, Rv. 254538; Sez. 3, n. 39882 del 03/10/2007, Costanzo, Rv. 238009; Sez. 3, n. 7306 del 25/01/2007, Bougataya Assan). In base a tale orientamento, quindi, il meccanismo della riduzione di pena, previsto dall’art. 597, comma 4, cod. proc. pen. per il caso di accoglimento dell’appello dell’imputato in punto di reato concorrente o circostanze, opererebbe a condizione che la pena complessivamente irrogata in primo grado sia stata determinata in modo legale. E la mancata impugnazione del pubblico ministero per ricondurre la pena alla misura legale impedirebbe correzioni officiose in ragione del divieto di reformatio in peius, ma non giustificherebbe la perpetrazione di un errore. Tale orientamento – secondo l’ordinanza di rimessione - si porrebbe in contrasto con il consolidato orientamento per il quale il giudice, in mancanza di impugnazione del pubblico ministero sul punto, non potrebbe modificare la sentenza che abbia irrogato la pena illegale di favore, essendo il rilievo d’ufficio dell’illegalità della pena riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità nel solo caso di pena illegale sfavorevole al condannato (Sez. 3, n. 34139 del 07/06/2018, Xhixha, Rv 273677; Sez. 6, n. 49858 del 20/11/2013, G., Rv. 257672; Sez. 4, n. 49404 del 21/11/2013, Colombini, Rv. 258128; Sez. 5, n. 771 del 15/02/2000, Bosco, Rv. 215727). Ciò in quanto l’inibizione, nel caso di pena illegale di favore, dell’applicazione dell’art. 597, comma 4, cod. proc. pen. – che rappresenta uno strumento permeato dalla stessa ratio sottesa al divieto di reformatio in peius - costituisce un aggiramento del principio dell’immodificabilità della pena illegale di favore ad opera del giudice dell’impugnazione in mancanza di impugnazione del pubblico ministero sul punto.

La questione controversa sembra attenere all’interpretazione dell’art. 597, comma 4, cod. proc. pen. ed in particolare alla sua applicabilità o meno ove la pena da diminuire sia illegale in senso favorevole all’imputato, perché inferiore ai minimi edittali del trattamento sanzionatorio che conseguirebbe all’accoglimento dell’appello dell’imputato.

In tali termini la questione è posta, infatti, dall’orientamento maggioritario che nega, nel caso considerato, l’applicabilità della disposizione in esame.

Tuttavia, l’ordinanza di rimessione individua quale termine del contrasto il consolidato orientamento della Corte secondo cui, se non vi è stato appello del pubblico ministero sulla statuizione della sentenza di primo grado relativa alla pena illegale di favore, quest’ultima resta «immodificabile da parte del giudice dell’impugnazione», il quale non si basa su una diversa interpretazione dell’art. 597, comma 4, cod. proc. pen., bensì sulla preclusione della rilevabilità d’ufficio della pena illegale di favore derivante dall’effetto parzialmente devolutivo dell’appello e dal divieto di reformatio in peius. Ed effettivamente il giudice d’appello che, investito dall’appello del solo imputato su una circostanza o su un reato concorrente, ritenga di non dover diminuire la pena corrispondentemente all’accoglimento di tale appello perché la pena base su cui dovrebbe operare la riduzione è stata determinata dal giudice di primo grado in contrasto con la legge in senso favorevole all’imputato, sembra, a seconda dei casi concreti (e/o della nozione di “punto della decisione che si accolga):

o estendere la sua cognizione oltre il “punto” del trattamento sanzionatorio devoluto alla sua cognizione dall’appello dell’imputato, e quindi esercitare un potere di rilievo d’ufficio che espande la sua cognizione oltre il devolutum;

o, ove anche tale punto sia stato (o si ritenga) devoluto dall’appello del solo imputato (ma per motivi diversi dall’illegalità della pena di favore), esercitare un potere di rilievo d’ufficio nell’ambito del devoluto, che incide sull’esercizio dei suoi poteri decisori per come configurati, nel caso di appello del solo imputato, dai commi 3 e 4 dell’art. 597 cod. proc. pen.

La questione controversa sembra, pertanto, non potersi esaurire nell’interpretazione dell’art. 597, comma 4, cod. proc. pen., coinvolgendo anche il tema della compatibilità del rilievo d’ufficio dell’illegalità della pena di favore con l’effetto parzialmente devolutivo dell’appello e con il divieto di reformatio in peius espresso dai commi 3 e 4 dell’art. 597 cod. proc. pen., nonché quello del fondamento di un potere di rilievo d’ufficio, del giudice dell’impugnazione, dell’illegalità della pena di favore.

La questione controversa sembra, infatti, porre il problema se la negazione dell’applicabilità dell’art. 597, comma 4, cod. proc. pen., nel caso in cui la pena inflitta in primo grado - che andrebbe diminuita in conseguenza della fondatezza dell’appello del solo imputato vertente su un punto del trattamento sanzionatorio diverso da quello illegalmente determinato a suo vantaggio – sia illegale in senso favorevole all’imputato, integri una deroga al principio devolutivo e/o al divieto di reformatio in peius, e, in tal caso, quale sia il fondamento giuridico di tale deroga.

Si pone, quindi, preliminarmente la questione se – e in che misura – l’effetto parzialmente devolutivo dell’appello e il divieto di reformatio in peius possano essere considerate regole generali.

Si pone altresì la questione se, nell’ambito del trattamento sanzionatorio, possano individuarsi diversi punti della decisione o se invece la statuizione relativa alla determinazione della pena complessivamente irrogata costituisca un unico punto della decisione.

D’altra parte, fondandosi tale tesi su una interpretazione restrittiva dell’art. 597, comma 4, cod. proc. pen., appare rilevante la giurisprudenza della Corte relativa al rapporto tra tale norma e quella di cui al comma 3 del medesimo art. 597.

Stante la configurazione del contrasto operata dall’ordinanza di rimessione sembra assumere rilevanza anche il tema della configurabilità, in mancanza di una norma che lo prevede espressamente, del potere del giudice dell’impugnazione di rilevare d’ufficio l’illegalità della pena di favore, al pari di quello riconosciuto dalla Corte, di rilevare, oltre il devolutum, l’illegalità della pena inflitta in malam partem.

3. La giurisprudenza della Corte di cassazione sui rapporti tra principio devolutivo, divieto di reformatio in peius, e disposizione di cui all’art. 597, comma 4, cod. proc. pen.

In ordine ai rapporti tra principio devolutivo, divieto di reformatio in peius, e disposizione di cui all’art. 597, comma 4, cod. proc. pen., sulla base delle pronunce delle Sezioni unite Pellizzoni (Sez. U, n. 5978 del 12/05/1995, P., Rv. 201034), Morales (Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, Morales, Rv. 232066), Papola (Sez. U, n. 33752 del 18/04/2013, Papola, Rv. 255660) C. (Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258652), Magotti (Sez. U, n. 7346 del 16/03/1994, Magotti, Rv. 197700) e Punzo (Sez. U, n. 12872 del 19/01/2017, Punzo Rv. 269125) può ritenersi acquisito nella giurisprudenza di legittimità che:

- la norma di cui all’art. 597, comma 4, cod. proc. pen. è stata introdotta nel codice del 1988 al fine di ovviare ad un indirizzo interpretativo affermatosi nella giurisprudenza della Corte di legittimità sotto il codice previgente che, riferendo il divieto di reformatio in peius alla sola pena complessiva irrogata in primo grado, riteneva che il giudice di appello potesse confermare tale pena, nonostante l’applicazione di circostanze attenuanti o l’eliminazione di circostanze aggravanti o di reati concorrenti, così vanificando – nella sostanza

- l’operatività del divieto stesso (Sezioni unite Pellizzoni e Morales, cit.);

- pertanto, la norma di cui all’art. 597, comma 4, cod. proc. pen. costituisce, un rafforzamento del divieto di reformatio in peius, aggiungendo, al limite ai poteri del giudice previsti dal comma 3 dell’art. 597 cod. proc. pen., il dovere di diminuire “la pena complessiva irrogata” in misura corrispondente all’accoglimento dell’impugnazione, nei casi previsti dall’art. 597, comma 4, cod. proc. pen.; e ciò anche quando, oltre all’imputato, sia appellante il pubblico ministero, il cui gravame può avere effetti di aumento sugli elementi della pena ai quali si riferisce, ma non impedire le diminuzioni corrispondenti all’accoglimento dei motivi dell’imputato (Sezioni unite Pellizzoni cit.);

- il divieto in questione concerne non soltanto l’entità complessiva della pena ma tutti gli elementi autonomi che concorrono a determinarla (Sezioni unite Morales, cit.), ed è pertanto violato nel caso in cui il giudice dell’impugnazione, pur ritenendo fondato il motivo d’appello dell’imputato relativo a uno di tali elementi, non diminuisca corrispondentemente la pena irrogata dalla sentenza impugnata (Sezioni unite Pellizzoni cit.);

- nel caso in cui il giudice d’appello eluda tale obbligo di diminuzione della pena, aumentando altro elemento che concorre alla determinazione della pena complessiva, non investito da un motivo d’appello del pubblico ministero, si ha una violazione del principio dell’effetto parzialmente devolutivo dell’appello, in forza del quale il giudice d’appello non può intervenire su elementi di pena relativi a capi o a punti in nessun modo coinvolti nell’impugnazione (Sezioni unite Pellizzoni, Morales, e Papola cit.);

- il divieto di reformatio in peius, essendo correlato e coerente con l’effetto parzialmente devolutivo dell’appello (Sezioni unite Morales, Papola e C cit.), ha carattere non eccezionale, ed è, pertanto, applicabile anche nel giudizio di rinvio, sebbene espressamente previsto per il solo giudizio d’appello (Sezioni unite “C” cit. e Sez. U, n. 17050 del 11/04/2006, Maddaloni, Rv. 233729);

- l’obbligo di “corrispondente” diminuzione della pena previsto all’art. 597, comma 4, cod. proc. pen., «è limitato ad ipotesi interessate da un metodo di calcolo comportante mere operazioni di aggiunta od eliminazione di entità autonome di pena rispetto alla pena-base» con esclusione dei casi in cui, in conseguenza dell’accoglimento dell’impugnazione della parte, il giudice debba riesercitare poteri discrezionali (Sezioni unite “Papola” e “C.” cit.);

- conseguentemente, il principio parzialmente devolutivo dell’appello e il divieto di reformatio in peius, nel caso di impugnazione di una sentenza di condanna per più reati unificati dalla continuazione, hanno effetti profondamente diversi a seconda che i motivi di impugnazione investano la responsabilità o la pena in relazione: ai soli reati satelliti, nel qual caso la fondatezza dell’impugnazione comporta la necessaria riduzione della pena complessiva, attraverso l’eliminazione o la riduzione dell’aumento di pena per la continuazione stabilito dalla sentenza di primo grado, senza che il giudice d’appello possa intervenire a modificare la pena base per il reato più grave, trattandosi di “punto” (rectius: “capo”) della sentenza non devoluto alla sua cognizione (Sezioni unite Pellizzoni, cit.); oppure al reato ritenuto più grave dal giudice di primo grado, o all’individuazione stessa del reato più grave tra quelli riconosciuti in continuazione, caso in cui la fondatezza dell’impugnazione non comporta la necessaria riduzione della pena complessiva, ben potendo il giudice d’appello riesercitare il potere di determinazione della pena ex art. 81 cod. pen., essendogli (implicitamente) devoluta la cognizione anche sul punto della pena inflitta per i reati satelliti, trattandosi di punto dipendente (o “in connessione essenziale”) da quello relativo alla determinazione della pena base (Sezioni unite C., cit.);

- che le norme (come l’art. 597, comma 5, cod. proc. pen.) che ampliano il potere di cognizione del giudice d’appello oltre quanto devoluto dalle parti con i motivi di impugnazione, e attribuiscono poteri d’ufficio al giudice d’appello, hanno carattere eccezionale (con conseguente inammissibilità di una loro interpretazione estensiva o applicazione analogica) in quanto rappresentano deroghe alla regola dell’effetto parzialmente devolutivo dell’appello posta dal comma 1 dell’art. 597 cod. proc. pen. (Sezioni unite Papola, Magotti e Punzo cit.).

Pur non spingendosi a dichiararlo espressamente, le Sezioni unite, nelle sentenze “Pellizzoni” “Morales” e “Papola” - riferendo il divieto di reformatio in peius ai singoli elementi che concorrono a determinare il complessivo trattamento sanzionatorio inflitto dalla sentenza di primo grado, e ritenendo violato il principio dell’effetto parzialmente devolutivo dell’appello nel caso in cui il giudice eluda l’obbligo di diminuzione di pena previsto dal comma 4, dell’art. 597 cod. proc. pen. aumentando altro elemento che concorre alla determinazione della pena complessiva, non investito da un motivo d’appello del pubblico ministero - hanno posto le basi per configurare i singoli elementi del calcolo della pena quali autonomi punti della decisione impugnata.

Sui singoli elementi del calcolo della pena la cognizione del giudice d’appello è stata infatti ritenuta preclusa in ragione dell’effetto parzialmente devolutivo di tale mezzo di impugnazione, e del fatto che, in tal modo, si elude il divieto di reformatio in peius.

Tali premesse sono state sviluppate dalla giurisprudenza successiva che ha riconosciuto la possibilità di enucleare diversi punti nell’ambito del tema del trattamento sanzionatorio in coerenza con il principio della specificità dei motivi di impugnazione, desumibile dal combinato disposto degli artt. 581, comma 1, lett. c), 591, comma 1, lett. c) e 597, comma 1, cod. proc. pen. In particolare le Sezioni unite, nella citata sentenza Punzo, escludendo il carattere omnicomprensivo della devoluzione del tema del trattamento sanzionatorio - in quanto in contrasto con il principio della specificità dei motivi di impugnazione - hanno ritenuto l’autonomia del punto della decisione relativo alla concessione delle pene sostitutive rispetto a quello relativo al trattamento sanzionatorio, devoluto censurando il giudizio di bilanciamento delle circostanze. (Nel senso della possibilità di distinguere diversi punti nell’ambito del trattamento sanzionatorio si vedano anche, senza pretesa di esaustività: Sez. 6, n. 20275 del 07/05/2013, M., Rv. 257010; Sez. 6, n. 800 del 06/12/2011 – dep. 2012 -, Bidognetti, Rv. 251529; Sez. 6, n. 37461 del 8/07/2010, Fontana).

Peraltro, la necessità della specificità dei motivi d’appello è stata valorizzata dalle Sezioni unite nella sentenza Galtelli (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016 - dep. 2017- , Galtelli, Rv. 268822), nell’ambito di una configurazione dell’effetto parzialmente devolutivo dell’appello in linea con le tesi sostenute dalla dottrina contemporanea (secondo cui i motivi di impugnazione limitano i soli poteri di cognizione del giudice d’appello, ai punti a cui si riferiscono, ma non anche i poteri di decisione, che trovano la loro disciplina nei commi 2, 3 e 4 dell’art. 597 cod. proc. pen.) ma attenta ai temi del frequente uso meramente dilatorio dell’appello dell’imputato, della limitatezza delle risorse della giustizia, e della ragionevole durata del processo.

Le sezioni unite Galtelli, infatti, pur riconoscendo la pienezza dei poteri del giudice

d’appello nell’ambito del devolutum, hanno accentuato il carattere di strumento di controllo sulla decisione di primo grado dell’appello, affermando che la «la piena cognitio che caratterizza i poteri del giudice d’appello, privo di vincoli rispetto sia al contenuto dei motivi di ricorso, sia alle argomentazioni svolte dal primo giudice, viene in rilievo solo se e nei limiti in cui questo sia stato legittimamente investito di quei poteri: ciò che può avvenire solo a seguito di un’impugnazione che risulti rispettosa anche delle previsioni di cui all’art. 581 cod. proc. pen., funzionali alla tutela di esigenze sistematiche che assumono rilievo costituzionale», quali quella della ragionevole durata del processo, realizzabile tramite la configurazione del giudizio d’appello come strumento di controllo, su specifici punti e per specifiche ragioni, della decisione impugnata ed evitando «le iniziative meramente dilatorie che pregiudicano il corretto utilizzo delle risorse giudiziarie, limitate e preziose».

4. La giurisprudenza delle Sezioni Unite sui rapporti tra effetto parzialmente devolutivo dell’appello, giudicato, e questioni rilevabili d’ufficio.

In ordine al tema dei rapporti tra principio dispositivo, effetto parzialmente devolutivo delle impugnazioni, giudicato e questioni rilevabili d’ufficio da parte del giudice dell’impugnazione, in base alle sentenze delle Sezioni unite Cellerini (Sez. U, n. 4460 del 19/01/1994, Cellerini, Rv. 196890) Tuzzolino (Se. U, n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216238) Michaeler (Sez. U, n. 10251 del 17/10/2006 - dep. 2007 -, Michaeler, Rv. 235699) Magotti e Punzo cit., nonché Ricci (Sez. U., n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818), Bracale (Sez. U., n. 23428 del 22/3/2005, Bracale, Rv. 231164), Cavalera (Sez. U., n. 33542 del 27/6/2001, Cavalera, Rv. 219532), De Luca (Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266) e Aiello (Sez. U., n. 6903 del 27/5/2016, Aiello, Rv. 268965) può ritenersi acquisito:

- la stretta correlazione tra l’effetto parzialmente devolutivo dell’impugnazione e il principio della disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni (“disponibilità del rapporto processuale in sede di gravame”), nel senso che il primo è diretta conseguenza del secondo (Sezioni unite Cellerini, Tuzzolino, Michaeler, cit.);

- le nozioni di capo della sentenza (da intendersi, nella sentenza plurima o cumulativa, come «ciascuna decisione emessa relativamente ad uno dei reati attribuiti all’imputato… tale da poter costituire da sola, anche separatamente, il contenuto di una sentenza») e punto della decisione, cui fa espresso riferimento l’art. 597, comma 1, cod. proc. pen., («che ha una portata più ristretta, in quanto riguarda tutte le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione necessarie per ottenere una decisione completa su un capo»), correlate, rispettivamente, a quella di giudicato parziale e di preclusione conseguente all’effetto parzialmente devolutivo dell’appello (Sezioni unite Tuzzolino e Michaeler cit.);

- la possibilità di distinguere diversi punti nell’ambito del trattamento sanzionatorio (Sezioni unite Punzo cit.);

- la configurazione dei poteri decisori d’ufficio del giudice dell’impugnazione, previsti dagli artt. 129, 597, comma 5, 609, comma 2, cod. proc. pen., come una deroga alla regola del principio devolutivo che amplia, oltre i limiti del devoluto, l’ambito in cui il giudice può esercitare i suoi poteri decisori officiosi, salvo il giudicato parziale (Sezioni unite Tuzzolino Magotti e Punzo cit.);

- la preclusione dell’esercizio dei poteri officiosi del giudice dell’impugnazione (con specifico riguardo a quelli di cui all’art. 129 cod. proc. pen.) nel caso di giudicato sostanziale, ritenuto configurabile sia nel caso giudicato parziale sul singolo capo (Sezioni unite Tuzzolino, cit..) sia nel caso di inammissibilità dell’impugnazione (Sezioni unite Ricci, Bracale, Cavalera, De Luca cit.), anche sul singolo capo della decisione (Sezioni unite Aiello);

- la legittimità, invece, dell’esercizio dei poteri officiosi del giudice dell’impugnazione, in tutti i casi di inammissibilità dell’impugnazione (eccettuato quello per tardività della stessa) limitatamente alla rilevabilità d’ufficio dell’abolitio criminis o della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice in ragione dell’eccezionale possibilità di agire “in executivis” sul provvedimento in relazione al quale si è formato il giudicato (Sezioni unite De Luca e Bracale, cit.).

5. La giurisprudenza di legittimità relativa alla nozione di illegalità della pena e al fondamento e ai limiti della sua rilevabilità d’ufficio oltre i limiti del devoluto.

L’analisi della giurisprudenza di legittimità relativa alla nozione di illegalità della pena, e al fondamento e ai limiti della sua rilevabilità d’ufficio oltre i limiti del devoluto, e addirittura oltre il giudicato, sostanziale e formale, appare rilevante al fine di comprendere se sia individuabile un fondamento giuridico alla rilevabilità d’ufficio della illegalità della pena anche quando tale illegalità si risolva in un vantaggio per l’imputato, che giustifichi una deroga alla regola dell’effetto parzialmente devolutivo dell’appello o al divieto di reformatio in peius, e se tale potere officioso sia coerente con il sistema delle impugnazioni delineato dalla giurisprudenza della Corte.

La nozione di pena illegale è frutto di una lunga e progressiva elaborazione giurisprudenziale (in tal senso si veda Sez. U, n. 40986 del 19/07/2018, P., Rv. 273934) che è stata svolta:

- dapprima, nella prospettiva di riconoscere al giudice dell’impugnazione il potere di rilievo d’ufficio dell’illegalità della pena irrogata in senso sfavorevole all’imputato, oltre i limiti del devolutum (cd. illegalità originaria della pena, in malam partem, oltre i limiti del devoluto);

- poi, nell’ottica della definizione dei limiti di sindacabilità, quanto alla determinazione della pena, della sentenza resa ex art. 444 cod. proc. pen (cd. illegalità originaria della pena, in malam e in bonam partem, entro i limiti del devoluto);

- successivamente, al fine di evitare l’esecuzione di una pena illegittima, nel caso in cui, dopo che la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile, intervenga una pronuncia della Corte costituzionale che dichiari l’illegittimità costituzionale della norma, diversa da quella incriminatrice, attinente al trattamento sanzionatorio, sulla cui base è stata inflitta la pena da eseguire o in esecuzione (cd. illegalità sopravvenuta della pena, in malam partem, prevalente sul giudicato sostanziale e formale);

- quindi al fine di evitare l’esecuzione di una pena illegittima anche nel caso di pena illegale ab origine, in malam partem;

- poi al fine di consentire il rilievo d’ufficio, anche in caso di inammissibilità dell’impugnazione (e quindi oltre il giudicato sostanziale), dell’illegalità cd. originaria della pena, infllitta in malam partem;

- più recentemente, al fine di consentire la rideterminazione, in sede di cognizione, della pena inflitta sulla base di una norma relativa al trattamento sanzionatorio successivamente dichiarata incostituzionale, anche nel caso in cui tale pena rientri nei diversi e più favorevoli limiti edittali “ripristinati” a seguito dell’intervento del giudice delle leggi;

- infine, onde consentire, in sede di impugnazione - anche nel caso di inammissibilità del ricorso, per cause diverse dalla tardività - il rilievo d’ufficio dell’illegalità della pena commisurata in base ai parametri edittali sfavorevoli per l’imputato, previsti da una disposizione relativa al trattamento sanzionatorio successivamente dichiarata incostituzionale, e la conseguente rideterminazione del trattamento sanzionatorio alla luce della più favorevole cornice edittale applicabile in conseguenza della reviviscenza della precedente disciplina.

La nozione di pena illegale, così elaborata dalla giurisprudenza della Corte, secondo prospettive e fini profondamente diversi, comprende dunque:

- sia la pena illegale “ab origine”, cioè la pena non corrispondente per specie o per quantità (sia in eccesso che in difetto) a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice e dalle altre disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio;

- sia la pena determinata dal giudice in base a una norma successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima, con conseguente applicabilità di un trattamento sanzionatorio più favorevole (c.d. “illegalità sopravvenuta” della pena).

Dalla disanima della giurisprudenza della Corte emerge che i poteri di rilievo d’ufficio, oltre il devolutum, e oltre il giudicato, dell’illegalità della pena (tanto originaria, quanto sopravvenuta) sono stati sempre circoscritti alla sola pena illegale di sfavore, trovando il loro fondamento nella necessità di assicurare il principio costituzionale di legalità della pena, inteso quale garanzia del principio di libertà personale, idonea a giustificare una deroga non soltanto alla preclusione derivante dal principio devolutivo ma addirittura a quella derivante dal giudicato.

La più ampia nozione di pena illegale comprensiva della pena illegale di favore, viene invece in rilievo nella giurisprudenza di legittimità solo entro i limiti del devolutum, nell’ottica dell’individuazione dei vizi della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti deducibili tramite il ricorso per cassazione, ben diversa da quella del riconoscimento di poteri di rilievo d’ufficio del giudice dell’impugnazione in deroga alla regola dell’effetto parzialmente devolutivo dell’impugnazione.

5.1. La nozione di pena illegale “ab origine” sviluppata nella giurisprudenza della Corte, al fine di riconoscerne la rilevabilità d’ufficio, oltre i limiti del devolutum: la sola pena illegale “di sfavore”.

La nozione di pena illegale è stata elaborata dalla giurisprudenza in un primo tempo nella prospettiva di riconoscere al giudice dell’impugnazione un potere decisorio, in bonam partem, oltre il devolutum.

Tale potere officioso è stato riconosciuto al giudice dell’impugnazione in applicazione analogica prima dell’art. 152 del codice di rito previgente (Sez. 2, n. 595 del 22/01/1988 – dep. 1989 - Gualano, Rv. 180210; Sez. 2, n. 11230 del 04/07/1985, Gioffrè, Rv. 171202; Sez. 5 n. 6280 del 21/03/1985, De Negri, Rv. 169897; Sez. 4, n. 3369 del 22/01/1985, Laranga, Rv. 168651) e poi dell’art. 129 del codice del 1988 (Sez. 3, n. 3877 del 14/11/1995, Prati, Rv. 203205; Sez. 4, n. 39631 del 24/09/2002, Gambini, Rv. 225693; Sez. 5, n. 3945 del 13/11/2002 - dep. 2003, De Salvo, Rv. 224220; Sez. 2, n. 44667 del 08/07/2013, Aversano, Rv. 257612), in ragione di «un fondamentale principio di giustizia ricollegato a quello di tutela della libertà del cittadino» e della necessità di evitare la lesione del valore costituzionale della legalità della pena di cui all’art. 25 Cost., che prevale sul principio devolutivo di cui all’art. 597 cod. proc. pen. «per i fondamentali principi costituzionali di libertà che ne sono sottesi, e per il principio del favor rei che, altrimenti, risulterebbe in concreto vanificato» (Sez. 5, n. 10054 del 22/05/1980, Taormina, Rv. 146121; Sez. 2, n. 12991 del 19/02/2013, Stagno, Rv. 255197; Sez. 1, n. 8405 del 21/01/2009, Porreca, Rv. 242973)

In tale ambito, conformemente con la ratio posta alla base della sua rilevabilità d’ufficio, la pena illegale rilevabile d’ufficio è quella irrogata dal giudice di merito «superiore ai limiti edittali ovvero in genere o specie più grave di quella prevista in astratto» (Sez. 3, n. 3877 del 14/11/1995, Prati, Rv. 203205).

La pena illegale di favore per l’imputato non viene, invece ritenuta rilevabile d’ufficio, in mancanza dell’articolazione di un corrispondente motivo di impugnazione del pubblico ministero, né nel giudizio d’appello (Sez. 3, n. 34139 del 07/06/2018, Xhixha, Rv 273677), né in quello di legittimità (Sez. 4, n. 49404 del 21/11/2013, Colombini, Rv. 258128; Sez. 5, n. 44897 del 30/09/2015, Galiza Lima, Rv. 265529 e Sez. 6, n. 49858 del 20/11/2013, G., Rv. 257672), in ragione:

- della preclusione derivante alla cognizione del giudice dell’impugnazione dall’effetto devolutivo della stessa;

- del divieto di reformatio in peius della sentenza impugnata dall’imputato che non riguarda solo l’entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione;

- del fatto che, in caso di illegalità della pena in senso favorevole all’imputato, non vengono in gioco il valore costituzionale di legalità della pena di cui all’art. 25 Cost. né il principio della funzione rieducativa della pena, di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., che stanno a fondamento del potere di rilievo d’ufficio della pena illegale sfavorevole.

5.2. La nozione di pena illegale elaborata dalla giurisprudenza della Corte ai fini della definizione dell’ambito della sindacabilità della sentenza ex art. 444 cod. proc. pen.: la pena illegale sia di favore che di sfavore, nei limiti del devolutum.

In una prospettiva completamente diversa, volta a definire i limiti di sindacabilità in sede di legittimità della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti quanto alla determinazione della pena, la nozione di pena illegale è stata estesa dalla giurisprudenza anche alla pena illegale di favore.

Si tratta di un’ottica differente perché non è volta a riconoscere alla Corte di cassazione un potere officioso oltre il devolutum, ma a circoscrivere - a fronte di impugnazione dell’imputato o del pubblico ministero - il sindacato del giudice di legittimità in relazione alla determinazione della pena applicata ex art. 444 cod. proc. pen., cioè la deducibilità con il ricorso per cassazione dei vizi inerenti la legalità della pena.

In tale diversa ottica, viene in gioco una nozione più ampia di pena illegale che comprende non soltanto la pena diversa per genere o specie, in senso sfavorevole all’imputato (Sez. 5, n. 13589 del 19/02/2015, B., Rv. 262943; Sez. 2, n. 24411 del 09/06/2010, Calandra, Rv. 247856; Sez. 5, n. 24054 del 23/05/2014, Restaino, Rv. 259894; Sez. 5, n. 5018 del 19/10/1999 - dep. 2000, Rezel D, Rv. 215673; Sez. 1, n. 17108 del 18/02/2004, Merlini, Rv. 228650; Sez. 1, n. 2174 del 14/03/1997, Salvatori, Rv. 207246; Sez. 1, n. 2322 del 22/05/1992, Riccardi, Rv. 191362) ma anche la pena illegale in senso favorevole all’imputato perché inferiore rispetto a quella astrattamente irrogabile (Sez. 4, n. 10688 del 05/03/2020, Tonoli, Rv. 278970; Sez. 5, n. 49546 del 21/09/2018, Antinori, Rv. 274600; Sez. 6, n. 44336 del 05/10/2004, Mastrolorenzi, Rv. 230252; Sez. 6, n. 18173 del 04/11/2002 - dep. 2003 -, Broccolo, Rv. 225186; Sez. 5, n. 1749 del 19/04/1999, Schirra, Rv. 213211; Sez. 1, n. 5313 del 26/09/1997, Nisi, Rv. 208971; Sez. 3, n. 29985 del 03/06/2014, Lan, Rv. 260263; Sez. 3, Sentenza n. 1883 del 22/09/2011 - dep. 2012, La Sala, Rv. 251796; Sez. 5, n. 46790 del 25/10/2005, Grifantini, Rv. 233033; Sez. 5, Sentenza n. 40840 del 20/09/2004, Terzetti, Rv. 230216; Sez. 6, n. 4917 del 03/12/2003 - dep. 2004, Pianezza, Rv. 229995; Sez. 5, n. 1743 del 19/04/1999, Fracasso, Rv. 213210; Sez. 3 n. 34302 del 14/06/2007, Catuogno, Rv. 237124; Sez. 5, n. 1411 del 22/09/2006 - dep. 2007 - , Braidich, Rv. 236033; Sez. 1, n. 16766 del 07/04/2010, Ndiaye, Rv. 246930), o diversa in senso favorevole all’imputato rispetto a quella prevista dalla legge (Sez. 1, n. 4828 del 12/11/1993 - dep. 1994, Boccanera, Rv. 196088).

Tale più ampia nozione di pena illegale, comprensiva della pena illegale di favore, viene in rilievo nell’ambito del (e non in deroga al) principio devolutivo, consentendosi il sindacato della Corte di cassazione sulla pena illegale di favore per l’imputato, in relazione allo (e in ragione dello) specifico motivo di ricorso proposto sul punto dal pubblico ministero. Al riguardo si segnala che, proprio in tema di sindacato in sede di legittimità sulla legalità della pena applicata su accordo delle parti, la Corte, nella già citata sentenza Bosco (Sez. 5, n. 771 del 15/02/2000, Bosco, Rv. 215727, pronunciatasi sul ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero - avverso una sentenza che su accordo delle parti aveva applicato la pena di “giorni sei di reclusione” - con cui era stato dedotto un vizio di motivazione della sentenza, ma non l’illegalità della pena applicata), pur dando atto dell’illegalità della pena in quanto inferiore al minimo edittale, ha ritenuto che tale illegalità, in quanto favorevole all’imputato, non potesse essere rilevata d’ufficio, in quanto la possibilità di correggere in sede di legittimità la illegalità della pena, in osservanza all’art. 1 cod. pen. ed in forza del compito istituzionale proprio della Corte di cassazione di correggere le deviazioni da tale disposizione, è limitata all’ipotesi in cui l’errore sia avvenuto a danno e non in vantaggio dell’imputato, essendo anche in detta sede non superabile il limite del divieto della reformatio in peius (enunciato per il giudizio di appello, ma espressione di un principio generale, valevole anche per il giudizio di cassazione).

Solo in una isolata e risalente pronuncia (Sez. 1, n. 1711 del 14/04/1994, Marchese, Rv. 197464) la Corte risulta, per vero, avere affermato la rilevabilità d’ufficio della violazione del principio di legalità della pena pur se non dedotta nei motivi di impugnazione, in una fattispecie in cui la pena inflitta su accordo delle parti era stata determinata in misura inferiore ai minimi edittali, e in cui il ricorso per cassazione del pubblico ministero concerneva profili diversi da quello dell’entità della pena.

Nell’ambito del controllo di legittimità della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, e sempre nei limiti del devoluto, la nozione di pena illegale è stata estesa anche al caso di «pena determinata attraverso una riduzione per il patteggiamento non consentita per la mancanza dei presupposti richiesti dalla legge per l’accesso al rito speciale» (Sez. 3, n. 552 del 10/07/2019 – dep. 2020, Bentivogli, Rv. 278014; Sez. 2, n. 23548 del 30/04/2019, P., Rv. 276120; Sez. 6, n. 3828 del 10/01/2019, Taha Bouzekri, Rv. 274981 e Sez. 2, n. 54958 del 11/10/2017, D’Onofrio, Rv. 271526)

L’illegalità della pena viene, in tal caso, riconosciuta partendo dal dato secondo cui, sebbene l’illegalità originaria sia in linea di massima riconducibile all’applicazione di una pena diversa da quella stabilita per un reato ovvero inferiore o superiore ai relativi limiti edittali, tuttavia «l’illegalità deve essere più in generale valutata con riguardo a tutti i limiti che presiedono alla sua concreta determinazione, tali per cui l’eventuale superamento debba ritenersi contra legem», ivi compresi i limiti previsti per il rito speciale di cui all’art. 444 cod. proc. pen. tra cui «quello della reclusione non superiore ad anni cinque, contemplato dal primo comma, e quello della reclusione non superiore ad anni due, contemplato dal comma 1-bis. Il superamento di un siffatto limite, che inerisce al contenuto intrinseco dell’accordo e dunque alla pena applicata, ne determina l’illegalità, in quanto non consentita nel quadro applicativo del rito speciale, illegalità pertanto deducibile ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen.» (Sez. 6, n. 3828 del 10/01/2019, Taha Bouzekri, Rv. 274981).

6. La giurisprudenza di legittimità sulla prevalenza del principio costituzionale di legalità della pena sul giudicato.

La nozione di illegalità della pena è venuta poi in rilievo, nella elaborazione della giurisprudenza di legittimità, nell’ottica di evitare l’esecuzione della pena illegale inflitta in malam partem con sentenza irrevocabile, e di individuare quindi, un rimedio che consenta l’intervento, in sede esecutiva, sul giudicato formale, per la riconosciuta prevalenza, sui valori ad esso sottesi, del principio costituzionale di legalità della pena, in ragione della funzione di garanzia della libertà individuale ad esso riconosciuta.

In tale prospettiva il problema si è posto, dapprima, con riferimento alla pena inflitta in base a una disposizione, relativa al trattamento sanzionatorio, dichiarata incostituzionale dopo l’intervenuta irrevocabilità della sentenza, con conseguente applicabilità di un trattamento sanzionatorio più favorevole.

In tale ambito è emersa la nozione della c.d. illegalità “sopravvenuta” della pena, ed è stata individuata la soluzione della rideterminazione della pena in executivis, in ragione della riconosciuta prevalenza del principio costituzionale di legalità della pena sul giudicato formale.

La soluzione della rideterminazione della pena in executivis è stata poi estesa, per la medesima ragione, dalla giurisprudenza della Corte anche ai casi di pena illegale “ab origine” inflitta in malam partem, con sentenza irrevocabile.

Quindi, si è iniziato a riconoscere la prevalenza del principio costituzionale di legalità della pena anche sul giudicato sostanziale, consentendo il rilievo d’ufficio dell’illegalità della pena di sfavore in sede di cognizione, anche nel caso di inammissibilità dell’impugnazione, per cause diverse dalla tardività.

Infine, con riguardo alla cd. illegalità sopravvenuta della pena, è stata estesa la nozione di pena illegale anche a quella determinata sulla base di parametri edittali dichiarati incostituzionali, pur se rientrante nei più favorevoli limiti edittali “ripristinati” per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale.

Tanto al fine di consentire la rideterminazione, in sede di cognizione, della pena determinata sulla base di una norma dichiarata incostituzionale con conseguente applicabilità di un più favorevole regime sanzionatorio, dando rilievo, nell’ambito della nozione di pena illegale, non più soltanto al “risultato finale” della commisurazione giudiziale della pena, ma anche allo stesso procedimento giudiziale di commisurazione, allorchè si sia fondato su parametri dichiarati costituzionalmente illegittimi, stante la rilevanza costituzionale del principio di proporzionalità della pena.

6.1. L’individuazione di un rimedio in executivis all’illegalità “sopravvenuta” della pena per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione relativa al trattamento sanzionatorio.

La nozione di illegalità della pena è stata estesa dalle Sezioni unite della Corte (Sez. U., n. 18821 del 24/10/2013, Ercolano Rv. 258649- 258650- 258651; Sez. U., n. 42858 del 29/05/2014, Gatto Rv. 260695 - 260696 – 260697- 260698 – 260699 -260700 e Sez. U., n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264859) anche alla pena inflitta in base a una disposizione, relativa al trattamento sanzionatorio, dichiarata incostituzionale dopo l’intervenuta irrevocabilità della sentenza, con conseguente applicabilità di un trattamento sanzionatorio più favorevole, nella prospettiva di evitare l’esecuzione di una pena costituzionalmente illegittima, e di individuare un rimedio all’irrevocabilità delle decisioni penali volto a ripristinare la legalità della pena.

In tale prospettiva, la nozione di illegalità della pena viene estesa, non venendo più limitata all’illegalità cd. “originaria” (integrata nel caso di pena non corrispondente per specie o per quantità - sia in eccesso che in difetto - a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice) ma comprendendosi anche la cd. “illegalità sopravvenuta”, integrata dalla pena inflitta in base a una disposizione relativa al trattamento sanzionatorio, successivamente dichiarata incostituzionale, con conseguente applicabilità di un trattamento sanzionatorio più favorevole.

Si verte, tuttavia, sempre intorno all’individuazione di un rimedio alla pena inflitta in malam partem, sebbene l’illegalità della pena non dipenda dal suo essere stata inflitta “extra o contra legem”, bensì dall’intervento, dopo il giudicato formale, di una declaratoria di illegittimità costituzionale che abbia reso applicabile un trattamento sanzionatorio in senso lato (comprensivo della riduzione per il rito: si vedano le Sezioni unite Ercolano) di maggior favore.

Con le sentenze delle Sezioni unite “Ercolano”, “Gatto” e “Marcon” emerge, quindi, la nozione di “illegalità sopravvenuta della pena”, perché inflitta sulla base di una norma dichiarata costituzionalmente illegittima successivamente al giudicato formale, che non può avere esecuzione non essendo legittimata da una legge conforme alla Costituzione (artt. 13, comma secondo, 25, comma secondo) e non potendo assolvere alla funzione rieducativa imposta dall’art. 27, comma terzo, Cost.

L’ostacolo all’esecuzione della pena determinata sulla base di una norma dichiarata incostituzionale (il “divieto di dare esecuzione a una pena illegittima”, quale principio costituzionale) viene individuato nella necessità, derivante dagli artt. 13, comma secondo, 25, comma secondo Cost., che la restrizione della libertà personale del condannato sia legittimata, durante l’intero arco della sua durata, da una legge conforme alla Costituzione; con la conseguenza che il diritto fondamentale alla libertà personale, e più in generale dei diritti della persona, prevalgono sul valore del giudicato, in relazione al quale viene riconosciuta copertura costituzionale soltanto nella sua dimensione di garanzia dell’individuo (“ne bis in idem”), e non anche per le esigenze di certezza dei rapporti giuridici, proprie della collettività, che pure gli sono sottese.

Emerge, quindi, da tali sentenze, che il principio di legalità della pena, che impedisce di dare esecuzione alla pena illegale, è quello inteso nell’accezione costituzionale di garanzia dell’individuo, volto, in ultima analisi, a garantire la libertà personale, e che la pena illegale che non può ricevere esecuzione è conseguentemente soltanto quella inflitta in malam partem, al pari di quella rilevabile d’ufficio oltre il devolutum.

6.2. L’estensione del rimedio in executivis alla pena illegale ab origine, in senso sfavorevole all’imputato.

La prevalenza del valore della legalità della pena sulla intangibilità del giudicato, con conseguente possibilità di rideterminare la pena in sede esecutiva - consacrata dalle Sezioni unite Ercolano e Gatto con riferimento alla pena inflitta in base a una disposizione relativa al trattamento sanzionatorio dichiarata incostituzionale dopo l’irrevocabilità della sentenza - è stata successivamente ribadita dalle Sezioni unite, nella sentenza Basile (Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, Basile, Rv. 262327 - 262328) riguardo alle pene accessorie applicate “extra o contra legem” e nella sentenza, Butera (Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265106), anche con riferimento alla pena illegale “ab origine” perché non prevista dall’ordinamento giuridico ovvero, per specie e quantità, eccedente il limite legale (sia pure in un obieter dictum, che avalla i principi espressi sul punto dalle Sezioni semplici: Sez. 1, n. 1436 del 25/06/1982, Carbone, Rv 156173; Sez. 5, n. 809 del 29/04/1985, Lattanzio, Rv 169333; Sez. 1, n. 4869 del 06/07/2000, Colucci, Rv 216746; Sez. 1, n. 12453 del 03/03/2009, Alfieri, Rv 243742; Sez. 4, n. 26117 del 16/05/2012, Toma, Rv 253562; Sez. 1, n. 38712 del 23/01/2013, Villirillo, Rv 256879; Sez. 1, n. 14677 del 20/01/2014, Medulla, Rv 259733).

Ciò in ragione del divieto di dare esecuzione alla pena illegale, espressione del principio di legalità della pena, che informa in sé tutto il sistema penale e non può ritenersi operante solo in sede di cognizione, e che vieta, pertanto, che una pena che non trovi fondamento in una norma di legge, anche se inflitta con sentenza non più soggetta ad impugnazione ordinaria, possa avere esecuzione, essendo avulsa da una pretesa punitiva dello Stato.

Il rilievo costituzionale del principio di legalità della pena - volto a dare «fondamento legale alla potestà punitiva del giudice» e a evitare «che il potere discrezionale del giudice si trasformi in arbitrio» - palesemente violato nel caso di pena determinata in contrasto con il dato normativo, viene ritenuto prevalente sul valore costituzionale intrinseco all’intangibilità del giudicato, per la necessità di tutela della libertà personale, garantita costituzionalmente.

6.3. La giurisprudenza relativa alla rilevabilità d’ufficio dell’illegalità della pena inflitta in malam partem, in caso di inammissibilità dell’impugnazione.

La Corte, a Sezioni unite, ha ritenuto che l’inammissibilità dell’impugnazione per tardività preclude la rilevabilità d’ufficio dell’illegalità della pena, essendosi il giudicato sostanziale già trasformato in giudicato formale in conseguenza del decorso del termine previsto per l’impugnazione (Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265106; lo stesso principio è stato ritenuto applicabile al caso di inammissibilità per tardività dell’appello da Sez. 5, n. 37931 del 05/05/2017, T., Rv. 270824).

Nel caso di ricorso inammissibile per cause diverse dalla tardività, l’illegalità della pena inflitta in malam partem, è stata ritenuta rilevabile d’ufficio sia in relazione alla pena determinata in misura superiore al massimo edittale (Sez. 5, n. 46122 del 13/06/2014, Oguekemma, Rv. 262108; Sez. 4, n. 17221 del 02/04/2019, Iacovelli, Rv. 275714; Sez. 1, n. 15944 del 21/03/2013, Aida, Rv. 255684), sia in relazione all’applicazione di una circostanza aggravante entrata in vigore successivamente al fatto commesso (Sez. 5, n. 27945 del 17/05/2018, Bonavita, Rv. 273234), sia relativamente all’illegalità della pena accessoria (Sez. 2, n. 7188 del 11/10/2018 - dep. 2019 - Elgendy Ashraf Ahmed Aly, Rv. 276320 e Sez. 3, n. 6997 del 22/11/2017 - dep. 2018, C., Rv. 272090).

Con riferimento alla rilevabilità d’ufficio, in caso di inammissibilità dell’impugnazione, dell’illegalità della pena connessa all’omessa applicazione delle sanzioni previste per i reati di competenza del giudice di pace, si registrano, tuttavia, orientamenti diversi nella giurisprudenza della Corte: se alcune sentenze, infatti, ne affermano la rilevabilità d’ufficio (Sez. 5, n. 24128 del 27/04/2012, Di Cristo, Rv. 253763; Sez. 5, n. 51726 del 12/10/2016, Sale, Rv. 268639; Sez. 5, n.552 del 07/07/2016, - dep. 2017-, Jomle, Rv. 268593), tuttavia, in senso contrario, si è ritenuto che l’inammissibilità dell’impugnazione, impedendo il passaggio del procedimento all’ulteriore grado di giudizio, preclude sempre l’esercizio del potere del giudice dell’impugnazione di cognizione e decisione su qualsiasi questione, e quindi anche su quelle rilevabili d’ufficio, quale quella dell’illegalità della pena inflitta in malam partem (Sez. 5 n. 24926 del 03/12/2003 – dep. 2004, Marullo, Rv. 229812 e Sez. 5, n. 36293 del 09/07/2004, Raimo, Rv. 230636).

Secondo un ulteriore, diverso, orientamento, invece, la rilevabilità d’ufficio dell’illegalità della pena, nel giudizio di legittimità, in caso di inammissibilità del ricorso per ragioni diverse dalla tardività, dipende dalla deducibilità o meno, in sede di esecuzione, della specifica causa di illegalità (Sez. 5, n. 15817 del 18/02/2020, Di Rocco, Rv. 279252, che ha escluso la rilevabilità di ufficio, ai sensi dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., della illegalità della pena derivante dalla erronea applicazione delle pene in tema di reati di competenza del giudice di pace, conformemente a quanto affermato, in un obiter dictum, dalle citate Sezioni unite Butera in punto di non emendabilità, in sede esecutiva, di tale ipotesi di illegalità della pena).

6.4. Le Sezioni unite “Jazouli” e “Sebbar”: la precisazione e l’ampliamento della nozione di illegalità sopravvenuta della pena, e la sua rilevabilità d’ufficio anche nel caso di inammissibilità del ricorso.

La nozione di illegalità sopravvenuta della pena è stata recentemente approfondita e ampliata dalle Sezioni unite della Corte (Sez. U., n. 33040 del 26/2/2015, Jazouli, Rv. 264207 e Sez. U., n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263717) nell’ottica di consentire la rideterminazione, in sede di cognizione, della pena inflitta sulla base di una norma relativa al trattamento sanzionatorio successivamente dichiarata incostituzionale, anche nel caso in cui tale pena rientri nei diversi e più favorevoli limiti edittali “ripristinati” a seguito dell’intervento del giudice delle leggi.

Le Sezioni unite Jazouli e Sebbar come è noto, si sono pronunciate in occasione della rimessione delle questioni interpretative postesi in relazione alle ricadute della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 che, come è noto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, introdotti dalla legge di conversione 21 febbraio 2006, n. 49, (nota come “legge Fini-Giovanardi”, che aveva eliminato la differenza di trattamento sanzionatorio tra droghe cd. “leggere” e droghe cd. “pesanti”) determinando la reviviscenza dell’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nell’originaria formulazione che prevede pene più miti per le droghe leggere.

Il problema riguardava l’applicabilità della disciplina penale più favorevole soggetta a “reviviscenza”, per effetto della pronuncia della Consulta, nei processi in corso per i fatti commessi nella vigenza della legge n. 49 del 2006, nel caso in cui il giudice di merito, pur avendo usato per il calcolo i limiti edittali dichiarati incostituzionali, avesse in concreto inflitto una sanzione rientrante nei rinnovati limiti edittali.

In tale prospettiva, viene approfondita la nozione di pena illegale in malam partem derivante da vizio sopravvenuto di incostituzionalità della norma sulla cui base è stato determinato il trattamento sanzionatorio: si evidenzia come anche l’“illegalità sopravvenuta della pena” sia un’illegalità originaria, nel senso che quella che sopravviene è la declaratoria di illegittimità costituzionale che però rileva un vizio che è originario (Sezioni unite Jazouli). Inoltre, viene ampliata la nozione di illegalità della pena inflitta in malam partem, rilevabile d’ufficio in sede di impugnazione, oltre il caso della pena inflitta “extra o contra legem”, in relazione alla quale la giurisprudenza della Corte aveva sempre predicato la rilevanza del solo “risultato finale”.

La pena complessivamente legittima, ma determinata secondo un percorso argomentativo viziato, non viene, infatti, ritenuta illegale né nella prospettiva della rilevabilità d’ufficio oltre il devolutum (tra le altre, Sez. 5, n. 8639 del 20/1/2016, De Paola, Rv. 266080; Sez. 6, n. 32243 del 15/07/2014, Tanzi, Rv. 260326; Sez. 2, n. 12991 del 07/05/2013, Stagno, Rv. 255197; Sez. 2, n. 22136 del 19/02/2013, Nisi, Rv. 255729; Sez. 6, n. 20275 del 07/05/2013, M., Rv. 257010; Sez. 2, n. 22136 del 19/02/2013, Nisi, Rv. 255729; Sez. 6, n. 20275 del 07/05/2013, M., Rv. 257010), né in quella dei limiti dell’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, quando vengano dedotti motivi attinenti al trattamento sanzionatorio (Sez. 6, n. 44907 del 30/10/2013; Marchisella, Rv. 257151; Sez. 3, n. 28641 del 28/05/2009, Fontana, Rv. 244582; Sez. 4, n. 1853 del 17/11/2005 dep. 2006, Federico, Rv. 233185; Sez. 4, n. 518 del 28/01/2000, Carrello, Rv. 216881; Sez. 5, n. 5047 del 21/10/1999, Paulon, Rv. 214602; Sez. 5, n. 3351 del 29/05/1998 - dep. 1999, Carli, Rv. 212379; nello stesso senso, anche dopo l’introduzione dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103, Sez. 5, n. 18304 del 23/01/2019, Rosettani, Rv. 275915.

Ispirata allo stesso principio, sebbene inespresso, sembrerebbe anche Sez. 2, n. 400 del 25/01/2000, Foschi, Rv. 215409).

Le Sezioni unite Jazouli estendono, invece, la nozione di pena illegale di sfavore - rilevabile d’ufficio in sede di impugnazione, oltre il devolutum – ricomprendendovi anche il caso di pena determinata in base ad una cornice edittale prevista da una norma dichiarata incostituzionale, (e quindi in base a una cornice edittale sostanzialmente mai esistita) anche se rientrante nella cornice edittale ripristinata: tale pena è illegale in quanto in contrasto del principio costituzionale di proporzione tra offesa e pena, con conseguente rilevanza della illegalità non soltanto del risultato finale, ma anche del procedimento di commisurazione della pena (Sezioni unite Jazouli).

La nozione di pena illegale di sfavore, rilevabile d’ufficio in sede di impugnazione, oltre il devolutum, viene, inoltre, estesa anche al caso in cui, in base alla norma dichiarata incostituzionale, sia stato determinato il solo aumento per la continuazione, in relazione al meno grave reato satellite, richiamando un più ampio concetto di “pena legale”, che comprende non soltanto la pena prevista – tra un minimo e un massimo – per le singole fattispecie penali, ma, «anche quella risultante dalle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio», quali sono, appunto, tra le altre, quelle concernenti il reato continuato (Sezioni unite “Sebbar”).

L’illegalità sopravvenuta della pena così individuata (cioè l’illegalità della pena inflitta in base ai parametri edittali sfavorevoli per l’imputato previsti da una disposizione relativa al trattamento sanzionatorio, successivamente dichiarata incostituzionale, con reviviscenza di limiti edittali più favorevoli) viene, infine, ritenuta dalle Sezioni unite rilevabile d’ufficio anche nel caso di inammissibilità del ricorso, per cause diverse dalla tardività (Sezioni unite Jazouli) in ragione:

- della contiguità della situazione in cui la declaratoria di incostituzionalità riguardi la pena con quella in cui la declaratoria di incostituzionalità riguardi la norma incriminatrice, «dovendo il reato essere inteso nella sua dimensione globale, considerando tutti gli elementi normativi che lo conformano», e quindi anche la sanzione;

- e del fatto che anche nel caso di declaratoria di incostituzionalità di norma relativa al trattamento sanzionatorio (così come in quello di declaratoria di incostituzionalità della norma incriminatrice) è consentito l’intervento in sede di esecuzione, ai fini di rideterminare la pena in favore del condannato, così come statuito dalle già citate Sezioni unite Gatto.

7. La sentenza delle Sezioni Unite.

Da quanto è desumibile dalla notizia di decisione sembra che le Sezioni Unite della Corte, con la sentenza del 17/12/2020, Acquistapace – riconoscendo il dovere del giudice d’appello di applicare la diminuente di rito nella misura di legge nel caso in cui ritenga fondato l’appello proposto dal solo imputato sul punto, anche allorquando la pena irrogata dal giudice di primo grado sia illegale perché in violazione dei limiti edittali, e di favore per l’imputato - si siano poste in linea di continuità con l’elaborazione della giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte in tema di rapporto tra principio della disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni, regole dell’effetto parzialmente devolutivo delle impugnazioni e del divieto di reformatio in peius, in tema di rapporto tra tale divieto e norma di cui all’art. 597, comma 4, cod. proc. pen., in tema di natura eccezionale dei poteri di rilievo d’ufficio riconosciuti dalla legge al giudice dell’impugnazione oltre il devoluto, e in punto di limitazione del potere (non previsto dalla legge) di rilievo d’ufficio dell’illegalità della pena nei soli casi di illegalità in malam partem, in ragione del fondamento di tale potere, ravvisato nel principio costituzionale di legalità della pena quale garanzia posta a presidio della libertà personale.

Si attende il deposito della motivazione per comprendere se vi sia stata anche l’adesione, da parte delle Sezioni Unite, alla tesi espressa nella giurisprudenza delle Sezioni semplici secondo cui la statuizione relativa al trattamento sanzionatorio è suscettibile, ai fini della devoluzione in sede di impugnazione, di suddivisione in una pluralità di punti della decisione.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 5, n. 10054 del 22/05/1980, Taormina, Rv. 146121

Sez. 4, n. 3369 del 22/01/1985, Laranga, Rv. 168651 Sez. 5 n. 6280 del 21/03/1985, De Negri, Rv. 169897 Sez. 2, n. 11230 del 04/07/1985, Gioffrè, Rv. 171202

Sez. 2, n. 595 del 22/01/1988 – dep. 1989 - Gualano, Rv. 180210

Sez. 1, n. 2322 del 22/05/1992, Riccardi, Rv. 191362

Sez. 1, n. 4828 del 12/11/1993 - dep. 1994 -, Boccanera, Rv. 196088 Sez. U, n. 4460 del 19/01/1994, Cellerini, Rv. 196890

Sez. U, n. 7346 del 16/03/1994, Magotti, Rv. 197700 Sez. 1, n. 1711 del 14/04/1994, Marchese, Rv. 197464 Sez. U, n. 5978 del 12/05/1995, P., Rv. 201034

Sez. 3, n. 3877 del 14/11/1995, Prati, Rv. 203205

Sez. 1, n. 2174 del 14/03/1997, Salvatori, Rv. 207246

Sez. 1, n. 5313 del 26/09/1997, Nisi, Rv. 208971

Sez. 5, n. 3351 del 29/05/1998 - dep. 1999, Carli, Rv. 212379

Sez. 5, n. 1749 del 19/04/1999, Schirra, Rv. 213211

Sez. 5, n. 1743 del 19/04/1999, Fracasso, Rv. 213210

Sez. 5, n. 5018 del 19/10/1999 - dep. 2000 -, Rezel, Rv. 215673

Sez. 5, n. 5047 del 21/10/1999, Paulon, Rv. 214602 Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216238 Sez. 2, n. 400 del 25/01/2000, Foschi, Rv. 215409

Sez. 4, n. 518 del 28/01/2000, Carrello, Rv. 216881

Sez. 5, n. 771 del 15/02/2000, Bosco, Rv. 215727 Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 Sez. U., n. 33542 del 27/6/2001, Cavalera, Rv. 219532

Sez. 6, n. 18173 del 04/11/2002 - dep.2003 -, Broccolo, Rv. 225186 Sez. 6, n. 4917 del 03/12/2003 - dep. 2004 -, Pianezza, Rv. 229995

Sez. 1, n. 17108 del 18/02/2004, Merlini, Rv. 228650

Sez. 5, n. 40840 del 20/09/2004, Terzetti, Rv. 230216

Sez. 6, n. 44336 del 05/10/2004, Mastrolorenzi, Rv. 230252 Sez. U., n. 23428 del 22/3/2005, Bracale, Rv. 231164

Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, Morales, Rv. 232066 Sez. 5, n. 46790 del 25/10/2005, Grifantini, Rv. 233033

Sez. 4, n. 1853 del 17/11/2005 - dep. 2006 -, Federico, Rv. 233185 Sez. U, n. 17050 del 11/04/2006, Maddaloni, Rv. 233729

Sez. 5, n. 1411 del 22/09/2006 - dep. 2007 -, Braidich, Rv. 236033 Sez. U, n. 10251 del 17/10/2006 - dep. 2007 -, Michaeler, Rv. 235699 Sez. 3, n. 7306 del 25/01/2007, Bougataya Assan

Sez. 3 n. 34302 del 14/06/2007, Catuogno, Rv. 237124

Sez. 3, n. 39882 del 03/10/2007, Costanzo, Rv. 238009

Sez. 1, n. 8405 del 21/01/2009, Porreca, Rv. 242973

Sez. 3, n. 28641 del 28/05/2009, Fontana, Rv. 244582

Sez. 1, n. 16766 del 07/04/2010, Ndiaye, Rv. 246930

Sez. 2, n. 24411 del 09/06/2010, Calandra, Rv. 247856 Sez. 6, n. 37461 del 8/07/2010, Fontana

Sez. 3, n. 1883 del 22/09/2011 - dep. 2012 -, La Sala, Rv. 251796 Sez. 6, n. 800 del 06/12/2011 – dep. 2012 -, Bidognetti, Rv. 251529 Sez. 4, n. 6966 del 20/11/2012 - dep.2013 -, Martinelli, Rv. 254538 Sez. 2, n. 12991 del 19/02/2013, Stagno, Rv. 255197

Sez. 2, n. 22136 del 19/02/2013, Nisi, Rv. 255729

Sez. U, n. 33752 del 18/04/2013, Papola, Rv. 255660 Sez. 6, n. 20275 del 07/05/2013, M., Rv. 257010

Sez. 2, n. 12991 del 07/05/2013, Stagno, Rv. 255197

Sez. 6, n. 20275 del 07/05/2013, M., Rv. 257010

Sez. 6, n. 44907 del 30/10/2013; Marchisella, Rv. 257151

Sez. U., n. 18821 del 24/10/2013, Ercolano Rv. 258649- 258650- 258651

Sez. 6, n. 49858 del 20/11/2013, G., Rv. 257672

Sez. 4, n. 49404 del 21/11/2013, Colombini, Rv. 258128 Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258652

Sez. 5, n. 24054 del 23/05/2014, Restaino, Rv. 259894 Sez. U., n. 42858 del 29/05/2014, Gatto Rv. 260695 Sez. 3, n. 29985 del 03/06/2014, Lan, Rv. 260263

Sez. 6, n. 32243 del 15/07/2014, Tanzi, Rv. 260326

Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, Basile, Rv. 262327 - 262328 Sez. 5, n. 13589 del 19/02/2015, B., Rv. 262943

Sez. U., n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264859 Sez. U., n. 33040 del 26/2/2015, Jazouli, Rv. 264207 Sez. U., n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263717 Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265106

Sez. 5, n. 44897 del 30/09/2015, Galiza Lima, Rv. 265529

Sez. U., n. 12602 del 17/12/2015 - dep. 2016 -, Ricci, Rv. 266818 Sez. 5, n. 8639 del 20/1/2016, De Paola, Rv. 266080

Sez. U., n. 6903 del 27/5/2016, Aiello, Rv. 268965

Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016 - dep. 2017 -, Galtelli, Rv. 268822 Sez. U, n. 12872 del 19/01/2017, Punzo, Rv. 269125

Sez. 2, n. 54958 del 11/10/2017, D’Onofrio, Rv. 271526

Sez. 5, n. 51615 del 17/10/2017, Pala, Rv. 271604

Sez. 3, n. 34139 del 07/06/2018, Xhixha, Rv 273677

Sez. 5, n. 49546 del 21/09/2018, Antinori, Rv. 274600

Sez. 6, n. 3828 del 10/01/2019, Taha Bouzekri, Rv. 274981 Sez. 5, n. 18304 del 23/01/2019, Rosettani, Rv. 275915

Sez. 2, n. 23548 del 30/04/2019, P., Rv. 276120

Sez. 3, n. 552 del 10/07/2019 – dep. 2020 -, Bentivogli, Rv. 278014

Sez. 4, n. 10688 del 05/03/2020, Tonoli, Rv. 278970

SEZIONE II CAUSE DI NON PUNIBILITÀ E DI GIUSTIFICAZIONE

  • giurisdizione penale
  • nucleo familiare
  • circostanza attenuante
  • convivenza

CAPITOLO I

L’APPLICABILITÀ DELLA CAUSA DI NON PUNIBILITÀ DI CUI ALL’ART. 384, COMMA 1, COD. PEN. AL CONVIVENTE MORE UXORIO.

(di Debora Tripiccione )

Sommario

1 Premessa - 2 La natura della causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1, cod. pen. - 3 L’orientamento che esclude l’applicabilità della causa di non punibilità al convivente more uxorio. - 3.1 La non estensibilità dell’art. 384, comma 1, cod. pen. al convivente more uxorio nella giurisprudenza della Corte costituzionale. - 4 L’orientamento favorevole ad un’interpretazione estensiva “in bonam partem” della norma. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa

L’art. 384, comma 1, cod. pen., prevede la non punibilità dei reati contro l’amministrazione della giustizia specificamente contemplati (si tratta dei reati di omessa denuncia di reato di cui agli artt. 361, 362 , 363 e 364 cod. pen., omissione di referto, rifiuto di uffici legalmente dovuti, autocalunnia, false informazioni al pubblico ministero o al Procuratore della Corte penale internazionale, false dichiarazioni al difensore, falsa testimonianza, falsa perizia o interpretazione, frode processuale e favoreggiamento personale) qualora commessi dal soggetto per la necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto (c.d. soccorso di necessità) da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore.

La ratio di tale disposizione viene comunemente individuata nella rilevanza attribuita dal legislatore, da un lato, all’istinto di conservazione della libertà e dell’onore proprio – secondo il principio del nemo tenetur se detegere – e, dall’altro, nel riconoscimento della forza incoercibile dei sentimenti familiari.

Il secondo comma dell’art. 384 cod. pen. prevede, invece, un’ipotesi d’irresponsabilità penale per i reati di false informazioni al pubblico ministero o al Procuratore della Corte penale internazionale (art. 371-bis cod. pen.), false dichiarazioni al difensore (art. 371-ter cod. pen.), falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) e falsa perizia o interpretazione (art. 373 cod. pen.), se commessi da chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni ai fini delle indagini o assunto come testimone, perito, consulente tecnico o interprete ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni, testimonianza, consulenza o interpretazione. A seguito delle sentenze additive della Corte costituzionale n. 416 del 1996 e n. 75 del 2009 è, altresì, esclusa la punibilità per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal renderle a norma dell’art. 199 cod. proc. pen. e da chi non avrebbe potuto essere obbligato a renderle o, comunque, a rispondere, in quanto persona indagata per reato probatoriamente collegato, a norma dell’art. 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen., a quello, commesso da altri, cui le dichiarazioni stesse si riferiscono.

Il rapporto tra le due ipotesi contemplate dall’art. 384 cod. pen. è stato esaminato da Sez. U., n. 7208 del 29/11/2007, Genovese, Rv. 238383 con riferimento al delitto di falsa testimonianza. In tale occasione, la Corte ha escluso che la causa di non punibilità prevista dal primo comma sia applicabile anche nel caso in cui il testimone abbia deposto il falso pur essendo stato avvertito della facoltà di astenersi. Secondo il Supremo Consesso, infatti, vi è una strettissima connessione tra l’istituto sostanziale previsto dall’art. 384 cod. pen. e la prescrizione processuale di cui all’art. 199 cod. proc. pen.: il primo, infatti, trova la propria giustificazione nell’istinto di conservazione della propria libertà e del proprio onore (nemo tenetur se detegere) e nell’esigenza di tener conto, agli stessi fini, dei vincoli di solidarietà familiare che è anche alla base del riconoscimento della facoltà di astensione in capo ai prossimi congiunti prevista dall’art. 199 cod. proc. pen., la cui ratio viene unanimemente ravvisata nell’esigenza di tutela del sentimento familiare e nel riconoscimento del conflitto che si può determinare, in colui che è chiamato a testimoniare, tra il dovere di deporre e dire la verità e la volontà di non danneggiare il prossimo congiunto. Quanto ai rapporti tra i due commi dell’art. 384 cod. pen., il Supremo Consesso ha chiarito che il primo comma si riferisce chiaramente ai casi in cui il dichiarante non ha facoltà di astenersi, come si desume dalla considerazione che la causa di non punibilità riguarda in primo luogo chi ha commesso il fatto per salvare sé medesimo da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore. Diversamente, l’ambito di applicazione del secondo comma dell’art. 384 cod. pen. riguarda, invece, le persone che non avrebbero dovuto essere assunte come testimoni che «non sono punibili, quale che sia la dichiarazione falsa e la ragione che l’ha determinata.»

La definizione di “prossimi congiunti”, rilevante ai fini della perimetrazione dell’ambito di applicabilità del primo comma, è contenuta all’art. 307, comma 4, cod. pen. che, sebbene inserita nella norma relativa al reato di assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata, secondo quanto si legge nei lavori preparatori al Codice penale, vale per tutti i casi in cui la legge penale si serve di tale formula per designare le persone legate tra loro da vincoli di parentela o di affinità. La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 237 del 1986, ha considerato l’art. 307, comma 4, cod. pen. quale norma di integrazione generale del sistema legislativo penale della nozione di “prossimi congiunti”.

La norma considera tali solo i soggetti legati da un rapporto di coniugio, parentela (ascendenti, discendenti, fratelli, sorelle, zii e nipoti) o affinità (nello stesso grado).

La latitudine applicativa della nozione di prossimo congiunto è stata successivamente estesa alla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso dall’art.1, comma 1, lett. a), d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6.

La lettera della norma non contempla la posizione del convivente more uxorio, che, per converso, rileva ai fini dell’applicabilità della causa di non punibilità prevista dal secondo comma dell’art. 384 cod. pen. dal momento che lo stesso rientra tra i soggetti cui l’ordinamento processuale riconosce la facoltà di astenersi dal deporre (art. 199 cod. proc. pen.).

La questione relativa alla possibile estensione del perimetro applicativo del primo comma anche al convivente more uxorio ha suscitato opposte soluzioni ermeneutiche sia in dottrina che in giurisprudenza. A tale dibattito non è rimasta insensibile la giurisprudenza di legittimità in seno alla quale, soprattutto a seguito della riforma introdotta dalla legge 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. legge Cirinnà), è emerso un orientamento favorevole ad “estendere” l’ambito di applicabilità del primo comma dell’art. 384 cod. pen. anche al convivente more uxorio.

Il contrasto con il consolidato orientamento ermeneutico che, anche sulla scorta di numerose pronunce della Corte costituzionale, ha adottato una lettura in chiave restrittiva e tassativa della norma, è stato rimesso alle Sezioni Unite con ordinanza n. 1825 del 19/12/2019 della Sesta sezione (ric. Fialova).

La questione è stata esaminata dal Supremo Consesso all’udienza del 26/11/2020 all’esito della quale, secondo quanto si legge nell’informazione provvisoria, la Corte ha adottato la soluzione favorevole all’applicabilità della causa di non punibilità anche al convivente more uxorio.

2. La natura della causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1, cod. pen.

La natura giuridica della causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1, cod. pen. costituisce oggetto di dibattito dottrinario.

Secondo una prima e risalente impostazione, rappresenta una causa di esclusione dell’antigiuridicità del fatto che bilancia due contrapposti interessi: da un lato, la prevenzione dei reati contro l’amministrazione della giustizia, e, dall’altro, l’onore e la libertà del soggetto deponente o la salvaguardia dell’istituzione familiare. Nell’ambito di tale impostazione ermeneutica, si è, inoltre, ipotizzata l’estensione all’esimente in esame dei requisiti propri dello stato di necessità, (quale, ad esempio, la proporzione tra il fatto e il nocumento) tenendo conto della Relazione di accompagnamento al codice che qualifica la norma come una species dell’art. 54 cod. pen.

L’orientamento prevalente in dottrina ritiene, invece, che la norma in esame attiene al piano della colpevolezza, configurandosi come una scusante ovvero quale causa di inesigibilità della condotta, basata non sul bilanciamento di interessi in conflitto, ma sulla riconosciuta rilevanza alla situazione soggettiva del soggetto agente di conflitto interiore fra l’obbligo giuridico di collaborare con la giustizia, da un lato, e l’istinto di autoconservazione o il dovere morale di tutelare la propria vita familiare, dall’altro. In base a tale diversa opzione ermeneutica, dunque, l’esimente in esame, pur non escludendo il disvalore oggettivo del fatto, rende inesigibile una condotta conforme alla norma. Si esclude, dunque, la rimproverabilità soggettiva dell’individuo dal quale l’ordinamento non potrebbe “esigere” una condotta diversa da quella tenuta.

Tale impostazione ermeneutica è condivisa anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità che qualifica l’esimente in esame come causa di esclusione della colpevolezza, e non già dell’antigiuridicità della condotta, in quanto connessa alla particolare situazione soggettiva in cui viene a trovarsi l’agente che rende inesigibile un comportamento conforme alle norme indicate al comma primo dello stesso art. 384 cod. pen., pur non escludendo il disvalore oggettivo del fatto tipico realizzato (Sez. 6, n. 37398 del 16/6/2011, Galbiati, Rv. 250878; Sez. 5, n.18110 del 12/03/2018, Esposito, Rv. 273181; Sez. 5, n. 57032 del 22/10/2018 Della Santina; Sez. 6, n. 53939 del 20/11/2018, Bonfiglio, Rv. 274583; Sez. 6, n. 15327 del 14/2/2019, Quaranta, Rv. 275320; Sez. 6, n. 51910 del 29/11/2019, Buonaiuto, Rv. 278062).

In particolare, Sez. 5, n.18110 del 12/03/2018, Esposito, Rv. 273181 ha osservato che la non punibilità dell’agente non consegue al bilanciamento di interessi in conflitto che caratterizza la ratio delle scriminanti - attesa la profonda eterogeneità e conseguente incomparabilità tra il bene individuale della libertà o dell’onore e quello collettivo dell’amministrazione della giustizia. Pertanto, ad avviso della Corte, la norma non esprime una preferenza per l’interesse individuale a scapito di quello pubblico, ma, più riduttivamente, uno spazio di impunità dipendente dalla irragionevolezza della pretesa di un comportamento conforme alle aspettative. In altri termini, essa tipicizza una situazione di alterazione del normale processo motivazionale del soggetto, spinto ad agire per lo scopo di salvamento indicato dalla norma.

Tale inquadramento dogmatico consente, dunque, di applicare la causa di non punibilità anche quando la situazione di pericolo per la libertà e l’onore, dell’autore del reato o di un suo prossimo congiunto, sia stata da questo determinata o volontariamente prodotta (Sez. 6, n. 51910/2019). In tale situazione, invece, l’orientamento più risalente della giurisprudenza di legittimità escludeva l’applicabilità dell’esimente in esame mutuandone le caratteristiche dalla scriminante dello stato di necessità (tra le tante, Sez. 1, n. 2001 del 10/7/1976, Milone, Rv. 135245; Sez. 1, n. 8845 del 4/5/1981, Albanese, Rv, 150477; Sez. 5, n. 8632 del 23/5/1995, Nizzola, Rv. 202567; Sez. 6, n. 10654 del 20/2/2009, Ranieri, Rv. 243076).

3. L’orientamento che esclude l’applicabilità della causa di non punibilità al convivente more uxorio.

L’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità esclude l’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1, cod. pen. al convivente “more uxorio”, ritenendo che quest’ultimo non può rientrare nella definizione di “prossimi congiunti” di cui all’art. 307 cod. pen. (Sez. 2, n. 7684 del 9/3/1982, Turatello, Rv. 154880; Sez. 6, n. 6365 del 20/2/1988, Melilli, Rv. 178467; Sez. 1, n. 9475 del 5/5/1989, Creglia, Rv. 181759; Sez. 6, n. 132 del 18/1/1991, Izzo, Rv. 187017; Sez. 6, n. 35967 del 28/9/2006, Cantale, Rv. 234862; Sez. 2, n. 20827 del 17/2/2009, Agate, Rv. 244725; Sez. 5, n. 41139 del 22/10/2010, Migliaccio, Rv. 248903; Sez. 7, n. 41498 del 22/6/2017, Irollo). Tale opzione ermeneutica esclude, dunque, l’assimilabilità del rapporto di fatto al vincolo coniugale richiamando a sostegno di tale conclusione la giurisprudenza della Corte costituzionale che, in più occasioni, ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 384 cod. pen., sollevate in relazione agli artt. 2, 3, e 29 Cost., in virtù della diversità tra la convivenza di fatto - fondata su una affectio in ogni momento liberamente revocabile e tutelata dall’art. 2 Cost. - ed il rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità e reciprocità di diritti e doveri, tutelato dall’art. 29 Cost. (tra le altre, vengono richiamate Corte Cost. n. 8 del 1996, n. 121 del 2004 e n. 140 del 2009).

In particolare, con la sentenza n. 35967 del 2006 la Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 384 cod. pen. sollevata dal ricorrente, richiamando, a tal fine, le considerazioni già espresse dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 8 del 1996 e 121 del 2004, in cui, pur prendendo atto della trasformazione della coscienza e dei costumi sociali sul fenomeno delle convivenza di fatto, il Giudice delle Leggi ha ritenuto l’inammissibilità di analoga questione, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., in considerazione della diversa copertura costituzionale del rapporto di convivenza e di quello coniugale, la cui piena assimilazione, con tutte le conseguenze anche in malam partem, rientra nelle sfera di discrezionalità del legislatore.

Nel medesimo arresto n. 35967 del 2006 la Corte ha, inoltre, escluso la possibilità di pervenire in via interpretativa ad una equiparazione del convivente al coniuge ai fini dell’estensione dell’applicabilità della causa di non punibilità dell’art. 384 cod. pen., considerando le possibili conseguenze negative nei casi in cui il vincolo familiare rilevi ai fini della configurabilità di talune fattispecie di reato.

3.1. La non estensibilità dell’art. 384, comma 1, cod. pen. al convivente more uxorio nella giurisprudenza della Corte costituzionale.

L’orientamento giurisprudenziale appena esaminato richiama spesso a fondamento delle proprie conclusioni la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale che, più volte investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 384 cod. pen. (in alcuni casi unitamente all’art. 307, comma 4, cod. pen.), ha escluso profili di contrasto con gli artt. 2, 3 e 29 Cost., considerando la non equiparabilità della convivenza more uxorio alla famiglia legittima fondata sul matrimonio e ritenendo che spetti alla sola discrezionalità del legislatore l’estensione alla prima della causa di non punibilità di cui all’art. 384 cod. pen. (Corte Cost. sentenze nn. 8 del 1996, 237 del 1986, 352 del 1989, 121 del 2004, 140 del 2009).

Le ragioni che hanno determinato la Corte a ritenere l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sono sostanzialmente riconducibili ai seguenti principi: a) la diversità tra la convivenza more uxorio e il rapporto coniugale; b) l’incompatibilità dei risultati conseguenti alla dedotta assimilazione delle due situazioni con i poteri spettanti alla Corte costituzionale in relazione alla discrezionalità riservata al legislatore.

Quanto al primo aspetto, la Corte costituzionale pur riconoscendo la rilevanza costituzionale della convivenza more uxorio, quale formazione sociale tutelata dall’art. 2 Cost. (Corte Cost. n. 237 del 1986), ha affermato che la trasformazione del costume e della coscienza sociale, con l’affermazione e l’accettazione della convivenza more uxorio, «non autorizza la perdita dei contorni caratteristici delle due figure, collocandole in una visione unificante secondo la quale la convivenza di fatto rivestirebbe connotazioni identiche a quelle nascenti dal rapporto matrimoniale, sicché le due situazioni differirebbero soltanto per il dato estrinseco della sanzione formale del vincolo.» (Corte Cost. n. 140 del 2009). Si afferma, dunque, che, lungi dal configurare la convivenza come forma minore del rapporto coniugale, le due situazioni sono tra loro diverse e trovano nella Costituzione una differente tutela negli art. 2, quanto alla prima, e nell’art. 29, quanto al secondo, ponendosi così le premesse per una considerazione giuridica dei rapporti personali e patrimoniali di coppia nelle due diverse situazioni, che, fermi restando i diritti e doveri verso i figli e verso i terzi, riconosca nella convivenza un maggiore spazio alla soggettività individuale dei conviventi e dia, invece, maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, ossia come “stabile istituzione sovraindividuale”, nel rapporto di coniugio (Corte Cost., sentenze, nn. 8 del 1996 e n. 140 del 2009). Oltre ad escludere che il matrimonio possa essere ridotto al rango di mero elemento formale, si sottolinea, inoltre, la diversità tra il rapporto coniugale - caratterizzato da stabilità e certezza e dalla reciproca assunzione di diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio - e la convivenza di fatto, fondata, invece, sull’affectio quotidiana, liberamente e in ogni istante revocabile da ciascuna parte (Corte cost. n. 8 del 1996). Pertanto, il solo aspetto dei comuni sentimenti affettivi viene ritenuto inidoneo a superare le diversità tra le due situazioni che, ad avviso della Corte, giustifica, invece, il trattamento non omogeneo previsto dalla legge.

Quanto al secondo ordine di motivi, la Corte ha affermato che:

a) l’estensione delle cause di non punibilità, che costituiscono deroghe a norme penali generali, comporta un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti – in primo luogo quelli che sorreggono la norma generale e quelle che viceversa sorreggono la norma derogatoria, che spetta alla discrezionalità del legislatore (Corte Cost. nn. 8 del 1996 e 140 del 2009). In particolare, la Corte, con la sentenza n. 8 del 1996, ha collocato le cause di non punibilità tra le disposizioni di carattere eccezionale che, come tali, non sono suscettibili di interpretazione analogica ai sensi dell’art. 14 preleggi.

b) Nel bilanciamento degli opposti interessi della efficacia della funzione giudiziaria penale e di tutela dei beni afferenti la vita familiare, non è detto che tali ultimi beni debbano avere lo stesso peso in caso di famiglia legittima e di famiglia di fatto (Corte Cost. n. 8 del 1996; Corte Cost. n. 140 del 2009) in quanto, nel primo caso, accanto all’esigenza di tutela delle relazioni affettive individuali e dei rapporti di solidarietà familiare «può sommarsi quella di tutela dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale è la stabilità di un bene che i coniugi ricercano attraverso il matrimonio, mentre i conviventi affidano al solo loro impegno bilaterale quotidiano.» (Corte Cost. nn. 8 del 1996 e 140 del 2009). Pur riconoscendo che anche la posizione del convivente merita tutela, si afferma, pertanto, che detta tutela non deve necessariamente coincidere con quella del coniuge.

c) Una eventuale dichiarazione di incostituzionalità, avuto riguardo all’art. 307, comma 4, cod. pen., comporterebbe ricadute che trascendono l’ambito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale (Corte cost. n. 121 del 2004) anche in malam partem, nei casi in cui i vincoli familiari rilevano ai fini della legge penale (Corte cost. n. 8 del 1996).

d) Anche l’argomento relativo al confronto con la facoltà di astensione dall’obbligo di deporre riconosciuta al convivente dall’art. 199 cod. proc. pen. costituisce, ad avviso della Corte, la conferma che allorché il legislatore ha inteso attribuire rilevanza alla convivenza di fatto, anziché intervenire sulla nozione di “prossimi congiunti” contenuta all’art. 307, comma 4, cod. pen. includendovi anche il convivente, ha operato delle scelte selettive e mirate a determinati casi, limitando, pertanto, l’assimilazione a singole situazioni anziché procedere ad un “allineamento” generale ed indiscriminato dei due rapporti (Corte cost. n. 140 del 2009).

4. L’orientamento favorevole ad un’interpretazione estensiva “in bonam partem” della norma.

L’orientamento favorevole all’estensione della causa di non unibilità anche al convivente more uxorio è stato affermato in epoca più recente da Sez. 2, n. 34147 del 30/4/2015, Agostino, Rv. 264630 e Sez. 6, n. 11476 del 19/9/2018, Cavassa, Rv. 275206. In precedenza, il medesimo principio era stato affermato, senza un particolare approfondimento della questione, da Sez. 6, n. 22398 del 22/1/2004, Esposito, Rv. 229676 in cui la Corte sembra prospettare una possibile applicazione analogica dell’art. 384 cod. pen.

Tale soluzione è stata disattesa dalla sentenza Agostino che, richiamando al riguardo quanto sostenuto in dottrina, ha sottolineato che gli istituti previsti dall’art. 384 cod. pen. e dall’art. 649 cod. pen. (in cui si è posta una questione analoga a quella in esame) hanno natura giuridica di cause speciali di non punibilità e, come tali, hanno carattere eccezionale che ne preclude l’applicazione analogica.

La soluzione ermeneutica adottata dalla sentenza Agostino si fonda, invece, sull’adozione di una nozione di “famiglia” e di “coniugio” in linea con i mutamenti sociali che questi istituti hanno avuto negli ultimi decenni del secolo scorso «perché incontestabilmente oggi famiglia e matrimonio hanno un significato diverso e più ampio rispetto a quello che veniva loro attribuito all’epoca dell’entrata in vigore del codice penale ancora vigente e la stabilità del rapporto, con il venir meno dell’indissolubilità del matrimonio, non costituisce più caratteristica assoluta e inderogabile ed anzi spesso caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio». Proprio in considerazione di tale più ampia nozione di “famiglia” la Corte ha affermato che la causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1, cod. pen. in favore del coniuge opera anche in favore del convivente more uxorio. Tale soluzione ermeneutica, riprendendo gli spunti argomentativi che già in precedenza avevano indotto Sez. 4, n. 32190 del 21 maggio 2009, Trasatti, Rv. 244692 ad estendere al convivente more uxorio la causa di non punibilità di cui all’art. 649 cod. pen., muove dall’analisi delle interpretazioni giurisprudenziali che, con riferimento a singoli istituti e con effetti, ora, in bonam partem, ora, in malam partem, hanno sostanzialmente parificato il convivente more uxorio al coniuge. In particolare, quanto agli aspetti negativi, si richiamano:

a) gli arresti che, ancor prima delle modifiche normative, hanno ritenuto configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno del convivente more uxorio (tra le tante, Sez. 6, n. 20647 del 29/1/2008, Rv. 239726);

b) gli arresti che, in tema di ammissione al patrocinio a spese dello Stato considerano tra i redditi degli altri familiari conviventi anche quello del convivente more uxorio (si veda, ad esempio, Sez. 4, n. 109 del 26/1/2005, Curatolo, Rv. 232787).

Quanto agli effetti in bonam partem, la sentenza Agostino ha considerato due ulteriori arresti: uno in tema di riconoscimento dell’attenuante della provocazione (Sez. 6, n. 12477 del 18/10/1985, Cito, Rv. 172450); l’altro in tema di estensione della causa di non punibilità dell’art. 649 cod. pen. anche al convivente more uxorio (Sez. 4, n. 32190 del 21/5/2009, Trasatti, Rv. 244692).

La Corte ha, inoltre, considerato talune modifiche normative che hanno esteso la disciplina penalistica ai conviventi di fatto e alla famiglia in genere, quali:

- la legge 15 febbraio 1996, n. 66, che, in più parti, prende in considerazione la figura del convivente di fatto del genitore, equiparandola a quella del coniuge (si richiamano, al riguardo, gli artt. 609-quater, co. 2 e 609-septies, co. 4, n. 2, cod.pen.);

- la legge 3 agosto 1998, n. 269, che ha introdotto l’art 600-sexies cod.pen. (tale norma è stata abrogata dalla legge 1/10/2012, n. 172 che ha inserito la relativa aggravante nell’art. 602-ter cod. pen.) a norma del quale i fatti previsti da alcune norme preesistenti – artt. 600, 601e 602 cod.pen - o di nuova introduzione – artt. 600-bis e 600-ter cod.pen. - sono aggravati se commessi dal coniuge o dal convivente dell’ascendente o del genitore adottivo;

- la legge 4 aprile 2001, n. 154, che, introducendo la misura cautelare coercitiva dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis cod. proc. pen.), ne consente l’applicazione anche al convivente;

- il d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito nella legge 23 aprile 2009, n. 38, il cui art. 7 ha introdotto l’art. 612-bis cod. pen. che disciplina gli atti persecutori ed equipara, ai fini dell’esistenza dell’aggravante di cui al secondo comma, la posizione del coniuge legalmente separato o divorziato a quella della «persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa», qualità il cui ampio ambito di applicazione appare idoneo a ricomprendere anche la convivenza more uxorio.

A sostegno della soluzione ermeneutica accolta, la sentenza Agostino ha, infine, considerato il possibile contrasto tra la rilevanza, agli effetti penali, della convivenza more uxorio e l’ampia nozione di famiglia accolta dall’art. 8 CEDU, come interpretato dalla Corte Edu, comprendente anche i legami di fatto particolarmente stretti, fondati su una stabile convivenza (si richiama Corte Edu, 13/6/1979, Marckx c. Belgio. Tale principio è stato successivamente ribadito da Corte Edu, 13/12/2007, Emonet e altri c. Svizzera che ha considerato come elementi ulteriormente valutabili anche la durata della convivenza e l’eventuale nascita di figli).

Ad avviso della Corte, tale evidente contrasto può essere risolto in via interpretativa in quanto il necessario adeguamento della normativa interna a quella sovranazionale (nel senso della completa equiparazione in bonam partem, ad ogni effetto penale, della famiglia pleno iure a quella di fatto) non risulta contrario ai principi costituzionali fondamentali interni, tenuto, altresì, conto dell’insussistenza di un diritto vivente assolutamente ostativo. La soluzione ermeneutica adottata dalla sentenza Agostino è stata successivamente ribadita, senza ulteriori argomentazioni, da Sez. 4, n. 23118 del 21/3/2017, De Paola e da Sez. 3, n. 6218 del 12/1/2018, Giancono.

Nel medesimo solco ermeneutico della sentenza Agostino si colloca anche Sez. 6, n. 11476 del 19/9/2018, Cavassa, Rv. 275206 così massimata: La causa di non punibilità prevista dall’art. 384 cod. proc. pen. è applicabile anche nei confronti dei componenti di una famiglia di fatto e dei loro prossimi congiunti, dovendosi recepire un’interpretazione “in bonam partem” che consenta la parificazione, sul piano penale, della convivenza “more uxorio” alla famiglia fondata sul matrimonio. (In motivazione, la Corte ha precisato che l’equiparazione ai coniugi dei soli componenti di un’unione civile, prevista dal d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, non esclude l’estensione della causa di non punibilità ai conviventi “more uxorio”, trattandosi di soluzione già consentita dal preesistente quadro normativo, oltre che dalla nozione di famiglia desumibile dall’art. 8 CEDU, ricomprendente anche i rapporti di fatto).

Nell’arresto in esame, la Corte ha esaminato le ricadute nel diritto penale della legge 20 maggio 2016, n. 76, nota come legge Cirinnà, che ha istituito l’unione civile tra persone dello stesso sesso - quale specifica formazione sociale sostanzialmente attratta nello statuto penale della famiglia legittima - ed ha, altresì, introdotto una disciplina delle convivenze di fatto. Quanto allo statuto penale delle unioni civili, si segnala, in particolare:

- la costituzione in capo alle parti dell’unione civile di una posizione di garanzia ex art. 40, comma 2, cod. pen. (analoga a quella istituita per i coniugi dall’art. 143 cod. civ.) derivante dall’art. 1, comma 1, in base al quale dall’unione civile deriva l’obbligo dell’assistenza morale e materiale e alla coabitazione;

- la modifica, ad opera del d.lgs. n. 6 del 2017, della nozione legale di prossimi congiunti, contenuta all’art. 307, comma 4, cod. pen., con l’inclusione della parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso. Da tale modifica consegue, dunque, quanto agli effetti “in bonam partem”, l’applicabilità delle circostanze attenuanti per la procurata evasione (art. 386, comma 4, cod. pen.) e per la procurata inosservanza di pene o misure di sicurezza (artt. 390, comma 2, e 391, comma 1, cod. pen.) nonché delle cause di non punibilità di cui agli artt. 307, comma 3, e 384 cod. pen.

- l’introduzione, ad opera del citato d.lgs., dell’art. 574-ter cod. pen, (rubricato “Costituzione di un’unione civile agli effetti della legge penale”) secondo cui “agli effetti della legge penale il termine matrimonio si intende riferito anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso. Quando la legge penale considera la qualità di coniuge come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato essa si intende riferita anche alla parte di un un’unione civile tra persone dello stesso sesso”.

- l’estensione dell’ambito di applicabilità della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 649 cd. pen. anche alla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.

L’assenza di una analoga disciplina di coordinamento del diritto penale con lo statuto delle convivenze more uxorio, fatta eccezione per l’estensione ai conviventi di fatto dei diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario (art. 1, comma 38), ha indotto la Corte a chiedersi se la legge Cirinnà abbia determinato un arresto, o addirittura un’inversione, del processo di tendenziale parificazione del convivente al coniuge cui anche la Corte costituzionale non è rimasta indifferente.

A tale interrogativo la Corte ha dato una risposta negativa, escludendo che la novità legislativa possa «costituire un insormontabile impedimento per estendere a ogni altra forma di convivenza la disciplina che si ricava, in tema di equivalenza della figura del convivente a quella del coniuge, dal complesso quadro storico-evolutivo della materia». Si fa, in particolare, riferimento alla sentenza Agostino in relazione all’art. 384 cod. pen., alla analoga estensione dell’art. 649 cod. pen. ad opera di Sez. 4, n. 32190 del 2009 ed alla sentenza della Corte costituzionale n. 416 del 1996 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 384, comma 2, cod. pen. nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria fornite da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal renderle a norma dell’art. 199 cod. proc. pen. e, dunque, anche del convivente more uxorio, per i fatti verificatisi o appresi durante la convivenza.

Ad avviso della Corte, dunque, anche dopo la legge Cirinnà ed il successivo decreto di attuazione, diviene particolarmente stringente l’esigenza di una verifica dell’attuale ragionevolezza - in relazione al mutamento della situazione di fatto e del relativo complesso di norme regolatrici - della disciplina derogatoria prevista dalle varie norme al principio di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, fondata sul dato formale del vincolo matrimoniale. Il tema, ad avviso della Corte, è di particolare rilievo con riferimento alle disposizioni penali in bonam partem (attenuanti, scusanti, cause di non punibilità) rispetto alle quali la parificazione di un consolidato rapporto di fatto – che deve essere dimostrato in maniera rigorosa - a quello di coniugio potrebbe essere risolta con una previsione di carattere generale, sebbene sia indubbio, prosegue ancora la Corte, che «già prima della legge 76/2016, sia il legislatore, con riguardo a situazioni di convivenza non occasionali, costituite dai partners senza formalità, che la stessa giurisprudenza, ordinaria e costituzionale, abbiano equiparato, ai fini penali, e con effetti “in bonam partem” il convivente al coniuge». Ad avviso della Corte, una diversa soluzione, fondata sul dato letterale, ma non coordinata con il sistema normativo di riferimento, quanto meno con gli istituti in cui si è pervenuti a tale parificazione “in bonam partem”, presenta profili di incerta compatibilità costituzionale, con riferimento all’art. 3 Cost., per quanto attiene alla diversificazione delle tutele offerte alla parte dell’unione civile rispetto al convivente di fatto. Si tratta, infatti, di rapporti, prosegue ancora la Corte, rispetto ai quali, quanto agli effetti di favore della parificazione del convivente al coniuge, è possibile tendere ad una parità di trattamento sul terreno penale con una tendenziale riconduzione ad unità del binomio famiglia giuridica-famiglia di fatto.

Riprendendo le argomentazioni già svolte dalla sentenza Agostino, si afferma, infine, che tale interpretazione (con la completa equiparazione in bonam partem, ad ogni effetto penale, della famiglia legittima a quella di fatto) consente di superare l’evidente contrasto con l’art. 8 CEDU che tutela anche i rapporti di fatto (in termini evidentemente maggiori rispetto al livello garantito dalla Costituzione italiana), in quanto ricompresi nell’ampia nozione di famiglia adottata dalla Corte Edu con le sentenza Marckx c. Belgio e Emonet e altri c. Svizzera.

La soluzione ermeneutica adottata dalla sentenza Cavassa è stata da ultimo ribadita da Sez. 1, n. 40122 del 16/5/2019, Balice (massimata per altro). In tal caso la Corte ha escluso l’applicabilità della causa di non punibilità per difetto di prova della stabilità della convivenza, rispetto alla quale, nel caso concreto, difettavano gli elementi del rapporto di coabitazione e di comunanza di vita (si è, a tal fine, richiamato l’art. 1, comma 37 della legge Cirinnà ove si prevede che “..per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4 e alla lettera b) del comma 1 dell’art. 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 230 maggio 1989, n. 223”.

. Indice delle sentenze citate

Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 6, n. 1825 del 19/12/2019, Fialova

Sez. 6, n. 51910 del 29/11/2019, Buonaiuto, Rv. 278062 Sez. 1, n. 40122 del 16/5/2019, Balice

Sez. 6, n. 15327 del 14/2/2019, Quaranta, Rv. 275320

Sez. 6, n. 53939 del 20/11/2018, Bonfiglio, Rv. 274583 Sez. 5, n. 57032 del 22/10/2018 Della Santina

Sez. 6, n. 11476 del 19/9/2018, Cavassa, Rv. 275206 Sez. 5, n.18110 del 12/03/2018, Esposito, Rv. 273181 da Sez. 3, n. 6218 del 12/1/2018, Giancono

Sez. 7, n. 41498 del 22/6/2017, Irollo Sez. 4, n. 23118 del 21/3/2017, De Paola

Sez. 2, n. 34147 del 30/4/2015, Agostino, Rv. 264630

Sez. 6, n. 37398 del 16/6/2011, Galbiati, Rv. 250878

Sez. 5, n. 41139 del 22/10/2010, Migliaccio, Rv. 248903

Sez. 4, n. 32190 del 21/5/2009, Trasatti, Rv. 244692

Sez. 6, n. 10654 del 20/2/2009, Ranieri, Rv. 243076

Sez. 2, n. 20827 del 17/2/2009, Agate, Rv. 244725

Sez. 6, n. 20647 del 29/1/2008, B., Rv. 239726

Sez. U., n. 7208 del 29/11/2007, Genovese, Rv. 238383 Sez. 6, n. 35967 del 28/9/2006, Cantale, Rv. 234862

Sez. 4, n. 109 del 26/1/2005, Curatolo, Rv. 232787

Sez. 6, n. 22398 del 22/1/2004, Esposito, Rv. 229676

Sez. 5, n. 8632 del 23/5/1995, Nizzola, Rv. 202567

Sez. 6, n. 132 del 18/1/1991, Izzo, Rv. 187017

Sez. 1, n. 9475 del 5/5/1989, Creglia, Rv. 181759

Sez. 6, n. 6365 del 20/2/1988, Melilli, Rv. 178467

Sez. 6, n. 12477 del 18/10/1985, Cito, Rv. 172450

Sez. 2, n. 7684 del 9/3/1982, Turatello, Rv. 154880

Sez. 1, n. 8845 del 4/5/1981, Albanese, Rv, 150477

Sez. 1, n. 2001 del 10/7/1976, Milone, Rv. 135245

Sentenze della Corte costituzionale Corte Cost., sent. n. 140 del 2009 Corte Cost., sent. n. 121 del 2004 Corte Cost., sent. n. 352 del 2000 Corte Cost., sent. n. 8 del 1996 Corte Cost., sent. n. 352 del 1989 Corte Cost., sent. n. 423 del 1988 Corte Cost., sent. n. 237 del 1986

Sentenze della Corte EDU

Corte Edu, 13/12/2007, Emonet e altri c. Svizzera Corte EDU, 13/6/1979, Marckx c. Belgio

  • inviolabilità del domicilio
  • legittima difesa
  • reato colposo

CAPITOLO II

LA LEGITTIMA DIFESA DOMICILIARE

(di Bruno Giordano )

Sommario

1 L’ulteriore riforma della legittima difesa nel sistema normativo delle scriminanti. - 2 La proporzione tra offesa e difesa. Giudizio relativistico e gerarchia dei valori costituzionali. - 3 La presunzione di proporzionalità, la necessità della difesa e l’attualità del pericolo: un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata. - 4 Il pericolo attuale nell’art. 52, comma 4, cod. pen. - 5 L’uso di un’arma e la proporzione che “sussiste sempre”. I requisiti aggiuntivi della legittima difesa domiciliare. - 6 I nuovi requisiti della legittima difesa domiciliare e la successione di leggi penali nel tempo. - 7 La disciplina dell’eccesso colposo di legittima difesa domiciliare: l’esclusione dell’imputazione colposa. - 8 Il grave turbamento e il duplice nesso causale. - 9 Le conseguenze sul piano civile. - Indice delle sentenze citate

1. L’ulteriore riforma della legittima difesa nel sistema normativo delle scriminanti.

La giurisprudenza di legittimità nell’arco dell’anno 2020 pone una specifica attenzione ai casi che ricadono nella c.d. legittima difesa domiciliare, come introdotta dalla legge 13 febbraio 2006, n. 59, e da ultimo riformata dalla legge 26 aprile 2019, n. 36.

Nel 2006, infatti, il legislatore interviene con una prima riforma che scardina la struttura originaria della legittima difesa prevista dall’art. 52 cod. pen., in vigore dal 1930, notoriamente riconosciuta quale causa di giustificazione più ricorrente, dopo l’esercizio del diritto, e considerata archetipo normativo di tutta la categoria delle cause di giustificazione.

Tradizionalmente invero gli elementi strutturali della legittima difesa - quali sono il contrasto tra il diritto minacciato e il prevalente diritto difeso, la proporzione della reazione all’offesa temuta, il bilanciamento tra i beni giuridici - sono stati considerati elementi costitutivi comuni a tutte le cause di giustificazione, tanto da considerare naturalmente automatico – senza ricorrere ad un’applicazione analogica - l’operatività dei medesimi elementi alle altre cause di giustificazione, quali veri e propri principi generali dell’area della non punibilità per l’elisione dell’antigiuridicità.

Le riforme del 2006 e ancor più quella del 2019 inseriscono nella disciplina della legittima difesa nuovi elementi che mutano il meccanismo scriminante con specifico riguardo ai reati commessi introducendosi o trattenendosi all’interno del domicilio privato o di un luogo adibito ad attività commerciale, professionale o imprenditoriale.

Tali modifiche, in particolare quelle recentemente introdotte con la legge n. 36 del 2019, portano nel 2020 la Corte di cassazione ad occuparsi dei nuovi tratti salienti della c.d. legittima difesa domiciliare. I casi all’attenzione del giudice di legittimità si riferiscono ovviamente a fatti commessi nel vigore della disciplina precedente.

I nuovi contorni della disciplina, indubbiamente innovativi e volti ad allargare, nella voluntas legis, l’ambito di operatività della reazione armata dentro il proprio domicilio, hanno ridefinito sia l’area di applicazione della legittima difesa domiciliare sia la non punibilità in caso di eccesso colposo nelle condizioni previste dalla legge.

2. La proporzione tra offesa e difesa. Giudizio relativistico e gerarchia dei valori costituzionali.

Il principale elemento strutturale della legittima difesa, modificato dalla riforma del 2006 e ulteriormente ridefinito dalla l. 26 aprile 2019, n. 36 riguarda il requisito della proporzione tra la difesa e l’offesa temuta, quale primo elemento di giustificazione della reazione; in particolare la riforma del requisito della proporzionalità tra il bene giuridico minacciato dall’aggressore e quello inciso dall’azione difensiva riguarda non tanto la misura della reazione al pericolo quanto la gerarchia valoriale dei beni giuridici rispettivamente minacciati e difesi.

La nuova fattispecie, introdotta nel 2006 e riformata nel 2019, presume che in presenza di una violazione di domicilio, come definita dall’art. 614, commi 1 e 2, cod. pen., o di altro luogo ove si eserciti un’attività professionale, commerciale, imprenditoriale, l’uso di un’arma legittimamente detenuta è sempre proporzionato per difendere l’incolumità personale propria o altrui ovvero i beni, quando non v’è desistenza o ci sia pericolo di aggressione (art. 52, commi secondo e terzo cod. pen.) o per respingere l’intrusione violenta, con minaccia di armi da parte di una o più persone.

Non v’è dubbio che la presunzione di proporzionalità - che per la nuova disciplina “sussiste sempre” nei casi sopra menzionati - tra la difesa della persona e/o dei beni patrimoniali nel domicilio (o luogo equiparato) pone vari temi interpretativi su cui la Corte ha avviato la prima giurisprudenza dopo la riforma del 2019.

Al fine di valorizzare il requisito della proporzione nelle ipotesi ordinarie di legittima difesa, la Corte di cassazione interviene con la sentenza della Sez. 5, n. 32414 del 24/09/2020, Di Pietro, Rv. 279777-01, sul rapporto tra offesa e difesa, confermando una stabile linea giurisprudenziale.

Il caso posto all’attenzione del giudice di legittimità riguarda, si badi, una condotta estranea alla legittima difesa domiciliare in cui l’imputato volontariamente e violentemente sbatteva più volte sul petto, sulla spalla e sulla mano della vittima lo sportello lato guida del veicolo aziendale in uso alla stessa reagendo in tal modo al contestuale tentativo di quest’ultima di strappare un’apparecchiatura di controllo installata dall’imputato sul veicolo. È evidente che trattasi di un caso di conflitto tra la difesa del patrimonio e l’offesa all’incolumità fisica della vittima, nel caso concreto di un lavoratore dipendente dell’imputato.

La Corte, escludendo la sussistenza dell’esimente in relazione alla condotta, evidenzia innanzi tutto che il requisito della proporzione deve essere valutato con giudizio ex ante, ponendo a confronto i mezzi usati e quelli a disposizione dell’aggredito nonché i beni giuridici, personali o patrimoniali in conflitto.

Ne consegue che tale proporzione viene comunque meno nel caso di beni eterogenei in conflitto, quando la consistenza dell’interesse leso, quale la vita e l’incolumità della persona, sia enormemente più rilevante, sul piano della gerarchia dei valori costituzionali e di quelli penalmente protetti, dell’interesse patrimoniale difeso.

Ai nostri fini si noti l’obiter dictum della motivazione della Corte secondo cui tale elemento costitutivo della legittima difesa, è presunto soltanto nel caso di violazioni al domicilio e ai luoghi a questo equiparati (art. 52 comma secondo c.p.).

La decisione rileva proprio perché si riferisce direttamente ad un’ipotesi ordinaria di legittima difesa e ci aiuta a definire la regola per comprenderne a contrariis l’eccezione.

Non c’è dubbio, infatti, che la presunzione valoriale che porta alla giustificazione della legittima difesa domiciliare si fonda sull’esatto tracciamento del discrimen tra regola ed eccezione. A tale riguardo la Corte ribadisce che “in tutti i casi diversi dalla legittima difesa domiciliare, purché vi sia pericolo di aggressione, si richiede di regola che i beni posti a confronto siano di pari rango, o che comunque l’intensità della lesione del bene sovraordinato, sacrificato con l’azione difensiva, sia contenuta”, laddove non può in assoluto escludersi la legittimità del sacrificio di beni personali quale l’incolumità fisica, per salvaguardare il patrimonio, ma deve restare fermo il rispetto del principio di proporzione (oltre che di necessità dell’azione difensiva).

Le considerazioni offerte dalla Corte circa l’apprezzamento della proporzione tra offesa e difesa sono utili proprio per comprendere meglio la presunzione dei commi secondo e quarto dell’art. 52 cod. pen. Il giudice di legittimità sottolinea infatti che la valutazione della proporzione di regola deve formularsi con un giudizio ex ante, che deve essere “qualitativo e relativistico”.

Da tale passaggio motivazionale si desume che, nel raffronto tra il bene dell’aggressore e il bene dell’aggredito, “il requisito della proporzione venga meno, nel caso di beni eterogenei in conflitto, quando la consistenza dell’interesse leso, quale la vita e l’incolumità della persona, sia enormemente più rilevante, sul piano della gerarchia dei valori costituzionali e di quelli penalmente protetti, dell’interesse patrimoniale difeso, ed il male inflitto all’aggredito abbia una intensità di gran lunga superiore a quella del male minacciato”.

Giudizio relativistico, quindi, e gerarchia dei valori costituzionali sono i parametri della legittima difesa ordinaria che vengono a scemare nella legittima difesa domiciliare laddove la presunzione di legge dell’art. 52, commi secondo e quarto, cod. pen. sottrae al giudice la valutazione e ponderazione di tali valori.

3. La presunzione di proporzionalità, la necessità della difesa e l’attualità del pericolo: un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata.

Alla luce degli argomenti esposti circa il giudizio qualitativo e relativistico e la gerarchia dei valori costituzionali, nella cui ricerca il giudice svolge un ruolo marginale per via della presunzione di proporzionalità, assume particolare rilievo il dictum di Sez. 5, n. 19065 del 12/12/2019, dep. 2020, Di Domenico, Rv. 279344, che si sofferma su una condotta di introduzione o trattenimento di altri nel proprio domicilio e sulla presunzione di proporzionalità della reazione. In particolare, il caso portato all’attenzione della Corte è relativo a un omicidio commesso mediante l’esplosione di colpi di fucile verso la vittima disarmata che, dopo aver minacciato di morte l’agente ed i suoi familiari, tentava di scavalcare il cancello esterno dell’abitazione.

La Corte, pur riconoscendo l’ambito domiciliare della dinamica del fatto, esclude la configurabilità della scriminante in parola non ravvisando l’attualità del pericolo di offesa, per il contesto specifico, la distanza e la reciproca posizione dei soggetti.

In proposito l’attenzione del Collegio si pone su un altro requisito per l’applicazione della legittima difesa domiciliare, che viene colto nella sussistenza della necessità difensiva, atteso che nella fattispecie concreta l’aggressore (divenuto vittima) non ha impiegato violenza o prospettato la minaccia di uso di un’arma o di altri strumenti di coazione fisica. Il caso offre la possibilità di chiarire che nella c.d. legittima difesa domiciliare la presunzione di proporzionalità della reazione difensiva si fonda pur sempre e innanzi tutto sulla necessità ed inevitabilità della difesa. Rimane pertanto fermo il requisito fondante la ratio essendi della legittima difesa: la reazione è legittima perché innanzi tutto, per sottrarsi all’aggressione e salvare il proprio bene giuridico, è indispensabile, improcrastinabile, non altrimenti evitabile, ledere, neutralizzare o almeno respingere l’aggressore.

In proposito, con osservazioni riguardanti la procedura parlamentare di approvazione della legge n. 36 del 2019, nella motivazione della sentenza della Sez. 1, n. 21794 del 20/02/2020, Barbieri, Rv. 279340, si evidenzia che “la necessità della reazione ad un’offesa in atto e la necessità e inevitabilità della reazione è stata rimarcata anche nella lettera, inviata dal Presidente della Repubblica ai Presidenti della Camera e del Senato ed al Presidente del Consiglio, che ha accompagnato la promulgazione della novella: la legittima difesa, anche nel domicilio, è e resta una facoltà eccezionale di autodifesa riconosciuta dall’ordinamento quando la difesa da parte delle forze dell’ordine non è in concreto possibile”. Infatti nel comunicato si legge che “la nuova normativa non indebolisce né attenua la primaria ed esclusiva responsabilità dello Stato nella tutela dell’incolumità e della sicurezza dei cittadini, esercitata attraverso l’azione generosa delle Forze di Polizia” e che “il fondamento costituzionale” dell’esclusione della responsabilità penale “a favore di chi reagisce legittimamente a un’offesa ingiusta, realizzata all’interno del domicilio e dei luoghi ad esso assimilati... è rappresentato dall’esistenza di una condizione di necessità” che, come tale, resta rimessa all’apprezzamento del giudice e non può essere presuntivamente ritenuta.

A ciò si giustappone, il requisito dell’attualità del pericolo dell’offesa, quale ulteriore precondizione della legittimità della reazione.

È importante evidenziare, inoltre, che secondo i giudici di legittimità la facoltà eccezionale di autodifesa (non “del” ma) “nel” domicilio non deve essere altrimenti contenibile (per mezzi, forza, circostanze di tempo e di luogo) e giustifica l’aggressione solo quando la tutela pubblica non sia in concreto possibile.

Necessità della difesa, inevitabilità della reazione, attualità del pericolo, e impraticabilità di una difesa pubblica o privata, costituiscono pur sempre elementi costituivi, inerenti alla struttura essenziale di ogni forma di legittima difesa, e quindi indefettibili anche in quella c.d. domiciliare.

Tale rigoroso accertamento è rimesso all’apprezzamento del giudice che pertanto recupera il ruolo di interprete non della gerarchia dei valori ma della dinamica del fatto; accertamento che non può essere presuntivamente ritenuto.

In definitiva la Corte, per definire l’ipotesi eccezionale con cui si scrimina la lesione dell’aggressore che si sia illecitamente introdotto, o illecitamente si trattenga, all’interno del domicilio o dei luoghi a questo equiparati, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, prospetta una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata dell’art. 52, comma quarto, cod. pen., introdotto dalla legge 26 aprile 2019, n. 36.

Tale lettura di certo ha conseguenze sul piano sistematico in quanto ristabilisce il rapporto di genus ad speciem tra l’art. 52 comma 1 cod. pen. di cui conserva gli elementi costitutivi (tranne la proporzionalità) e gli altri commi del medesimo articolo. E sviluppa peraltro una serie di effetti anche sul piano probatorio in quanto evita che la presunzione ope legis di proporzionalità cancelli l’onere di provare comunque la necessità della difesa, l’inevitabilità della reazione, l’attualità del pericolo, e l’impraticabilità di una difesa pubblica o privata. Tutti elementi non derogati nell’ipotesi di legittima difesa domiciliare.

4. Il pericolo attuale nell’art. 52, comma 4, cod. pen.

Il requisito dell’attualità del pericolo, in particolare, è al centro degli argomenti sviluppati da Sez. 5, n. 12727 del 19/12/2019 dep. 2020, Morabito, Rv. 278861 – 01.

Anche in tale decisione, sempre in una prospettiva ermeneutica costituzionalmente orientata, la Corte mitiga l’ampiezza semantica in cui sembra spaziare la lettera della norma e confina la portata del novum legislativo entro i tradizionali limiti interni della scriminante, tra i quali l’attualità del pericolo.

In primo luogo, la Corte ribadisce che il pericolo deve essere attuale in tema di legittima difesa, anche nell’attuale formulazione successiva alle modifiche introdotte dalla legge 26 aprile 2019, n. 36.

Per ritenersi legittima la reazione nell’ambito domiciliare rispetto ad una condotta aggressiva o minacciosa in essere, l’imminente pericolo - compreso quello cui fa riferimento l’art. 52, comma quarto, cod. pen., derivante dall’intrusione realizzata con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica deve essere attuale in relazione all’aggressione che si sta palesando.

Non basta, quindi, aver visto o avvertito un’introduzione abusiva nel proprio domicilio (o luogo ad esso equiparato secondo l’art. 52, comma 3, cod. pen.) per consentire una qualsiasi reazione che colpisca, respinga, neutralizzi l’aggressore; ma occorre comunque che la reazione sia inevitabile, necessaria, rispetto a un pericolo attuale non altrimenti eliminabile. Invero nella fattispecie concreta la Corte esclude la configurabilità della scriminante in un caso in cui l’imputato, avendo visto dal balcone un soggetto prelevare alcuni utensili presenti nel cortile e lanciarli ad un complice all’esterno, era sceso e lo aveva colpito con un pugno, in ragione dell’assenza dell’attualità del pericolo per essersi già consumato il reato di furto. Si noti che la pur avvenuta consumazione del furto esclude cronologicamente, psicologicamente e topograficamente che il soggetto attivo delle percosse abbia reagito nell’imminenza o nell’attualità del pericolo, in quanto si era già verificato il danno al patrimonio e la reazione difensiva del proprio patrimonio si è rivelata solo successivamente alla consumazione del furto.

5. L’uso di un’arma e la proporzione che “sussiste sempre”. I requisiti aggiuntivi della legittima difesa domiciliare.

La locuzione “sempre” utilizzata per derogare al requisito della proporzione e per affermarne la presunzione di sussistenza pone il tema dell’assolutezza della prevalenza della tutela del domicilio rispetto ad altri beni giuridici del soggetto che viola il domicilio.

Il nodo ermeneutico è dato non tanto dal significato semantico da dare all’avverbio di tempo “sempre” che indica una costante temporale o una ripetitività abituale ma dal valore sistematico e funzionale da riconoscere a un termine voluto dal legislatore del 2019, con una precisa ratio: rendere comunque e permanentemente prevalente la tutela dei beni custoditi nel domicilio privato (o di luogo ad esso equiparato) o dell’incolumità propria o di terzi, rispetto all’incolumità o alla vita stessa dell’aggressore. Non v’è dubbio infatti che la difesa è costituita da una reazione che colpisce fisicamente l’aggressore, ancorché si tratti di una causalità non prevista dalla legge specificamente in ordine all’incolumità personale dell’aggressore.

Ci si deve porre il dubbio se il termine “sempre” è realmente innovativo o meramente rafforzativo della deroga al principio di proporzionalità, come già introdotto nel 2006 con la legge n. 59.

A parere della Corte (Sez. 1, n. 13191 del 15/01/2020, Galluccio, Rv. 278935 – 01) l’avverbio “sempre”, introdotto dalla legge 26 aprile 2019, n. 36, nell’art. 52, comma secondo, cod. pen. non ha il significato di porre una presunzione assoluta di proporzionalità della difesa armata all’offesa perpetrata nel domicilio o in luoghi equiparati, ma semplicemente di rafforzare la presunzione di proporzione già prevista dalla norma a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 13 febbraio 2006, n. 59.

Pertanto il termine “sempre” non soltanto è sostanzialmente confermativo, e non innovativo, ma indica che l’introduzione o il trattenimento di altri nel proprio domicilio consente l’uso di un’arma, legittimamente detenuta, sempre che si stia reagendo a un pericolo di offesa attuale di un’aggressione personale; non solo, si esige anche che l’impiego dell’arma sia, in concreto, necessario a difendere l’incolumità, propria o altrui, ovvero i beni presenti in tali luoghi. E infine si esige che non siano praticabili condotte alternative lecite o meno lesive.

È evidente che la lettura del termine de quo è ben lontana dall’autorizzare un uso indiscriminato di un’arma per difendere, nel proprio domicilio o altro luogo equiparato, sempre e comunque la proprietà o l’incolumità propria o di terzi, rispetto all’incolumità dell’aggressore.

Infatti secondo Sez. 1, n. 21794 del 20/02/2020, Barbieri, Rv. 279340 - 01 “l’aggiunta dell’avverbio “sempre” appare pleonastica, in quanto l’operatività della presunzione, già posta dalla norma, resta comunque subordinata all’accertamento degli altri elementi costitutivi della fattispecie scriminante, che non consente una indiscriminata reazione nei confronti dell’autore dell’illecita intrusione o dell’illecito intrattenimento, ma presuppone un attacco, nell’ambiente domestico o nei luoghi ad esso assimilati, alla propria o altrui incolumità o quanto meno un pericolo di aggressione”.

Proprio sui c.d. “requisiti aggiuntivi” della legittima difesa domiciliare, rispetto all’originaria formulazione dell’art. 52 cod. pen., la medesima decisione interviene con l’inquadramento della nuova fattispecie normativa delineando nitidamente i presupposti e le condizioni di operatività dell’esimente speciale.

La Corte condivide l’esclusione della legittima difesa circa la condotta dell’imputato che, constatata l’intrusione nel proprio domicilio commerciale in orario di chiusura mentre si trovava nella soprastante abitazione, aveva prelevato la pistola legittimamente detenuta, raggiunto il negozio ed esploso due colpi in aria, tre colpi all’indirizzo della autovettura dei malviventi mettendola fuori uso, alcuni colpi contro l’ingresso del negozio e all’indirizzo del soggetto che ne era uscito.

In proposito la Corte ha nettamente evidenziato che i requisiti aggiuntivi, per poter applicare l’ipotesi esimente sono individuati: a) nella commissione di una violazione di domicilio da parte dell’aggressore; b) nella presenza legittima dell’agente nei luoghi dell’illecita intrusione predatoria o dell’illecito trattenimento; c) in uno specifico animus defendendi; d) nel pericolo attuale di un’offesa ingiusta, non altrimenti neutralizzabile se non con la condotta difensiva effettivamente attuata.

6. I nuovi requisiti della legittima difesa domiciliare e la successione di leggi penali nel tempo.

Una importante pronuncia dell’anno 2020 deve affrontare il tema della successione di leggi penali nel tempo con particolare riferimento al novum legislativo introdotto dalla legge n. 36 del 2019.

Si noti che per mero fatto cronologico la giurisprudenza – anche degli anni a venire – dovrà occuparsi di fatti storici accaduti prima dell’entrata in vigore della legge n. 36 e analizzare l’applicabilità dei nuovi limiti della legittima difesa domiciliare a fatti pregressi.

Una prima decisione ci giunge da Sez. 1, n. 14161 del 20/02/2020, Abico, Rv. 278973 – 01, che si occupa dell’ampliamento dell’area di operatività della scriminante de qua davanti al giudice dell’esecuzione al fine di stabilirne i poteri in relazione alla possibile retroattività della norma più favorevole rispetto ad una sentenza di condanna frattanto divenuta irrevocabile.

In particolare, il caso è rappresentato da una sentenza di condanna pronunciata prima dell’entrata in vigore della modifica legislativa apportata dalla legge 28 aprile 2019, n. 36, che ha ampliato la sfera di operatività della legittima difesa introducendo l’art. 52, comma quarto, cod. pen.

La Corte ha così affrontato il tema della rivisitazione in sede esecutiva dei casi - non infrequenti - in cui v’è stata una reazione all’aggressione realizzata nelle condizioni che ora sono previste dal comma 4 dell’art. 52 cod. pen. e che prima della riforma non sarebbero rientrate nell’alveo della scriminante.

In breve si tratta dei casi in cui si è giunti ad una condanna irrevocabile e che sarebbero giunti ad un’assoluzione se fossero stati giudicati alla luce della nuova normativa, cioè delitti privi di proporzione tra offesa e difesa in cui l’introduzione o l’intrattenimento all’interno del domicilio è avvenuto con violenza, minaccia di uso di armi (o altri mezzi di coazione fisica) che secondo la lettera della nuova disposizione costituiscono “sempre” legittima difesa e invece così non era sotto il vigore della disciplina previgente.

In proposito il giudice di legittimità innanzi tutto ritiene che rientri tra le attribuzioni del giudice dell’esecuzione il potere di verificare la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione retroattiva della scriminante ai sensi dell’art. 2, comma secondo, cod. pen., che, com’è noto, è una ipotesi di retroattività che travolge anche il giudicato stabilendo la cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali.

Al tempo stesso la Corte, però, considera che non si versa in ipotesi di abolitio criminis derivante da abrogazione o da dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, con la conseguenza che il giudice dell’esecuzione non ha il potere di revocare la sentenza di condanna ex art. 673 cod. proc. pen.

7. La disciplina dell’eccesso colposo di legittima difesa domiciliare: l’esclusione dell’imputazione colposa.

Nella disciplina della legittima difesa domiciliare il legislatore con l’art. 2 della legge 26 aprile 2019, n. 36 ha aggiunto il comma 2 all’art. 55 cod. pen. in tema di eccesso colposo stabilendo la non punibilità per chi ha commesso il fatto nelle condizioni della legittima difesa domiciliare per la salvaguardia della propria o altrui incolumità agendo nelle condizioni che hanno ostacolato la difesa pubblica o privata (come previste dall’art. 61, primo comma, n. 5 cod. pen.) ovvero “in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”.

Tra le prime questioni portate all’attenzione della Corte circa la legittima difesa domiciliare di cui all’art. 52, commi secondo e quarto e del correlato art. 55, comma secondo, cod. pen., nella formulazione introdotta dalla legge 26 aprile 2019 n. 36, si deve evidenziare la fattispecie in cui la Corte ha escluso l’eccesso colposo per l’insussistenza del qualificato profilo di necessità o di inevitabilità altrimenti dell’azione asseritamente difensiva.

Con la decisione di Sez. 5, n. 19065 del 12/12/2019 dep. 2020, Di Domenico, Rv. 279344 - 02 la Corte analizza il rapporto tra l’art. 52 cod. pen. e la riformulazione dell’eccesso colposo su cui la riforma ha innestato il nuovo comma secondo dell’art. 55 cod. pen. Si osservi che quest’ultimo novum legislativo detta una disciplina speciale rispetto alla tradizionale regola dell’eccesso colposo di cui all’art. 55, comma primo, cod. pen. attraverso una specifica disposizione dedicata alla legittima difesa domiciliare.

Gli effetti riguardano non soltanto il rapporto con gli elementi costitutivi della scriminante in parola ma più specificamente il rapporto con la colpa impropria di cui l’istituto dell’eccesso colposo rappresenta un’indiscussa esemplificazione.

La nuova disposizione viene interpretata dalla sentenza in parola come “una fattispecie di per sé certamente antigiuridica, per difetto della necessità della reazione in concreto tenuta, strutturalmente configurabile quale reato colposo rispetto al quale sussiste un profilo di rimproverabilità della condotta (altrimenti, il soggetto agente andrebbe già esente da responsabilità ai sensi della previsione di cui al primo comma).”

A tal riguardo la Corte valorizza il ruolo degli elementi costitutivi della scriminante della legittima difesa domiciliare.

In particolare, l’attenzione del giudice di legittimità si concentra sui requisiti della legittima difesa, costituiti dalla necessità di contrastare o rimuovere il pericolo, dall’attualità del pericolo di un’aggressione e da una reazione proporzionata ed adeguata.

La mancanza di tali elementi costituivi della legittima difesa impedisce di ravvisare l’eccesso colposo, che invece si caratterizza per l’erronea valutazione del pericolo e dell’adeguatezza dei mezzi usati per reagire alla temuta aggressione.

Di talché in assenza anche solo di uno di tali requisiti non v’è l’elemento fondante la colpa che è alla base della reazione eccessiva, non v’è il presupposto del superamento dei limiti esterni della legittima difesa in quanto sostanzialmente ne mancano i limiti interni.

L’analisi della Corte muove dalla considerazione - non scontata - che la nuova disposizione non ha codificato un’ulteriore scriminante, in aggiunta a quelle previste dagli artt. 50-54 cod. pen. ma “declina, invece, una situazione che, inserendosi nell’ambito di applicazione di una scriminante esistente, esclude la soggettiva imputabilità all’agente di condotte antigiuridiche colpose rispetto alle quali sia già stata accertata la violazione di una regola cautelare, operante - come sostenuto anche in dottrina - sul piano dell’inesigibilità”.

In breve la fattispecie del’art.55, comma secondo, cod. pen., esclude l’imputazione per colpa di una condotta reattiva che ha violato la regola cautelare ma altrimenti inesigibile. Gli argomenti utilizzati dalla Corte, infatti, depongono a favore di una collocazione sistematica della nuova fattispecie tra le cause di inesigibilità di un comportamento diverso. Pertanto, con riferimento all’aspetto in parola dell’eccesso nella legittima difesa domiciliare, circoscritto alle sole ipotesi richiamate dal comma secondo dell’art. 55 cod. pen., si tratterebbe specificamente di un eccesso ope legis non colposo.

Peraltro, all’interno del suddetto campo di applicazione, lo spazio concesso a tale anomala forma di eccesso colposo, risultante dal combinato disposto degli artt. 52, commi secondo e terzo, e 55, comma secondo, cod. pen. si concede uno spazio operativo limitato a chi abbia “commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità”, da ritenersi comprensiva dei casi di eccesso colposo commessi in legittima difesa di beni propri o altrui quando sia ragionevolmente ipotizzabile quel pericolo di aggressione personale considerato dall’art. 52, secondo comma, lett. b), cod. pen..

La conseguenza di tale lettura è rappresentata dalla considerazione che anche nel domicilio, e nei luoghi ad esso equiparati, l’uso dell’arma scrimina se v’è la necessità della difesa. Pertanto, secondo l’autorevole insegnamento della Corte con la decisione in parola, “la causa di non punibilità prevista dall’art. 55, comma secondo, cod. pen, come introdotto dalla legge n. 36 del 2019, per chi abbia agito in condizioni di minorata difesa o in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto, è configurabile quando l’azione difensiva illecita, ascrivibile a titolo di eccesso colposo, sia determinata dall’intento di salvaguardare la propria o altrui incolumità o, nel caso di cui all’art. 52, comma secondo, lett. b), cod. pen., sia comunque ipotizzabile il pericolo di aggressione personale”.

Com’è evidente l’analisi del giudice di legittimità porta a conclusioni restrittive rispetto all’uso indiscriminato di un’arma, pur legittimamente detenuta, nell’ambito del proprio domicilio.

8. Il grave turbamento e il duplice nesso causale.

Uno dei fattori causali della non punibilità prevista dall’art. 55, comma secondo, cod. pen. è individuato nello “stato di grave turbamento” dovuto all’aggressione quale presupposto, in alternativa alla minorata difesa pubblica e privata, per l’applicazione della causa di non punibilità. Quest’ultima formula ha meritato l’attenzione di Sez. 4, n. 34345 del 10/11/2020, Setti, Rv. 279964 – 01 che evidenzia innanzi tutto l’associazione causale tra lo stato di grave turbamento che deve essere conseguenza della situazione di pericolo in atto. La considerazione che il pericolo attuale debba essere la causa del grave turbamento porta innanzi tutto a selezionare i fattori causali idonei a far insorgere lo stato di grave turbamento. Ne consegue, sottolinea la Corte, l’irrilevanza di stati d’animo che abbiano cause preesistenti o diverse.

Il nesso causale tra pericolo e grave turbamento, pertanto, è un requisito imprescindibile per l’applicazione dell’ipotesi speciale di eccesso colposo di legittima difesa domiciliare e merita alcune brevi riflessioni.

Il requisito della causalità tra pericolo e turbamento esige una necessaria, approfondita, indagine da parte del giudice su tutti gli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie storica: infatti, in primo luogo, occorre accertare sia l’attualità sia la concretezza e univocità del pericolo che si presenta con l’aggressione in atto.

In secondo luogo, è necessario verificare se tale concreto e attuale pericolo abbia ingenerato un turbamento, abbia costituito la condizione causale necessaria e determinante di uno sconvolgimento emotivo negativo idoneo a modificare le determinazioni dell’aggredito. Il termine turbamento - atecnico, generico e incerto per la scienza psicologica - sul piano semantico, infatti, deve riferirsi a uno stato emotivo tutto nuovo rispetto a quello che aveva il soggetto aggredito prima che insorgesse il pericolo e, comunque, tale da indurlo a determinarsi per un’azione reattiva con l’uso di un’arma (o altro mezzo di coazione fisica) che prima non avrebbe verosimilmente adottato.

In breve il pericolo attuale deve essere provato come la determinante causale unica dell’emotività che si estrinseca in paura, istinto di salvezza, reazione energica, forza fisica. (Utile ricordare che la Corte nel 2019 ha altresì indicato quali utili parametri, per la valutazione del turbamento, la maggiore o minore lucidità e freddezza che hanno contraddistinto l’azione difensiva, vedi Sez. 3, n. 49883 del 10/10/2019, Capozzo, Rv. 277419 – 03).

È evidente che la formula legislativa “grave turbamento” è talmente elastica da indurre necessariamente verso un accertamento fattuale accurato, approfondito, sondando l’emotività e lo sconvolgimento psicologico provocato dagli eventi.

Indubbiamente il tipo di aggressione, la consapevolezza di un pericolo, la disponibilità di un altro tipo di difesa, le condizioni di vulnerabilità sono i connotati che dal pericolo concreto fanno sorgere un grave turbamento che legittima la non punibilità in caso di eccesso dai limiti interni della scriminante.

Invero, Sez. 5, n. 19065 del 12/12/2019 dep. 2020, Di Domenico, Rv. 279344 – 01 (ancorché la massima si riferisca ad altro profilo) in motivazione evidenzia un duplice nesso causale: “il necessario accertamento di un duplice rapporto causale, in virtù del quale il turbamento deve essere l’effetto derivante dalla situazione di pericolo in atto e, nel contempo, la causa dell’eccesso difensivo”.

Il pericolo attuale provoca un grave turbamento che a sua volta porta alla reazione non punibile. La linea logica pericolo-turbamento-reazione costituisce pertanto il percorso causale che porta la norma a configurare l’inesigibilità di una diversa reazione.

Infine si noti che non ogni turbamento rileva per la non punibilità ma soltanto quello che assume un certo indice di gravità, il cui parametro di determinazione è rimesso all’interprete.

Si noti che la Corte indica come la gravità si debba misurare sul piano dell’inesigibilità di un comportamento che conduca a quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa che costituisce oggetto del rimprovero mosso a titolo di colpa.

Solo il grave turbamento, così come delineato, è quindi assenza di colpa.

L’eccesso di legittima difesa domiciliare non è punibile perché è inesigibile e quindi non colposo. Un eccesso ope legis non colposo, se ne sussistono i requisiti di legge.

Invero nella sentenza Setti la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza di condanna dell’imputato che, intervenuto in una normale lite tra madre e figlio, aveva cagionato lesioni personali alla donna, essendosi escluso che da tale lite potesse essere derivato nel soggetto agente un turbamento nei termini richiesti dalla norma.

Al riguardo si legga ancora Sez. 5, n. 19065 del 12/12/2019 dep. 2020, Di Domenico, Rv. 279344 – 01 (la massima si riferisce ad altro profilo) laddove in motivazione si ribadisce che “lo stato di grave turbamento, che funge da presupposto, in alternativa alla minorata difesa, per l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 55, comma secondo, cod. pen., come introdotto dalla legge n. 36 del 2019, richiede che esso sia prodotto dalla situazione di pericolo in atto, rendendo, di conseguenza, irrilevanti stati d’animo che abbiano cause preesistenti o diverse e necessario, invece, da parte del giudice, un esame di tutti gli elementi della situazione di specie, per accertare se la concretezza e gravità del pericolo in atto possa avere ingenerato un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa, che costituisce oggetto del rimprovero mosso a titolo di colpa”.

9. Le conseguenze sul piano civile.

La medesima decisione, in un obiter dictum, che merita qui evidenza, coglie un importante spunto dagli effetti della riforma anche sul piano civilistico.

Infatti sotto il profilo civile ai sensi dell’art. 2044, ultimo comma, cod. civ., introdotto dall’art. 7 legge n. 36 del 2019, (e pertanto nello stesso contesto riformatore) la condotta continua ad essere fonte di responsabilità sia pur nella forma attenuata dell’indennizzo, piuttosto che in quella, piena, del risarcimento del danno.

Dalla considerazione che sul piano civilistico si prevede il diritto ad un indennizzo – tipico ristoro riconosciuto a chi subisce un decremento da atto legittimo – la Corte desume che sul piano penale la condotta “viene ritenuta non punibile poiché i limiti imposti dalla necessità della reazione sono stati (colpevolmente) superati per avere il soggetto agito in stato di minorata difesa, ovvero di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”.

Pertanto una volta positivamente compiuto il giudizio di soggettiva rimproverabilità effettuato con riguardo all’agente modello, ferme le altre condizioni, l’agente non sarà punibile laddove, alternativamente, ricorra una delle due, distinte, situazioni codificate.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 3, n. 49883 del 10/10/2019, Capozzo, Rv. 277419 – 03

Sez. 5, n. 19065 del 12/12/2019, dep. 2020, Di Domenico, Rv. 279344-01

Sez. 5, n. 12727 del 19/12/2019 dep. 2020, Morabito, Rv. 278861 – 01

Sez. 1, n. 13191 del 15/01/2020, Galluccio, Rv. 278935 – 01

Sez. 1, n. 21794 del 20/02/2020, Barbieri, Rv. 279340

Sez. 5, n. 32414 del 24/09/2020, Di Pietro, Rv. 279777-01, Sez. 4, n. 34345 del 10/11/2020, Setti, Rv. 279964 – 01

SEZIONE III REATI DEL CODICE PENALE - DELITTI CONTRO LA PERSONALITÀ DELLO STATO

  • lotta contro la criminalità
  • terrorismo
  • criminalità organizzata

CAPITOLO I

ASSOCIAZIONE CON FINALITÀ DI TERRORISMO EX ART. 270-BIS COD.PEN.

(di Marzia Minutillo Turtur )

Sommario

1 Premessa. - 2 Quadro giuridico internazionale ed europeo. - 3 La condotta di partecipazione nell’associazione di terrorismo internazionale, cenni introduttivi. - 3.1 L’inclusione progressiva nell’associazione. - 3.2 La condotta posta in essere dai c.d. “lupi solitari”. - 3.3 La condotta di partecipazione rappresentata dalla scelta di combattere come Foreign Terrorist Fighters. - 3.4 Il richiamo alla necessaria verifica degli elementi sintomatici della partecipazione all’associazione costituita a fine di terrorismo a matrice idologico religiosa. - 4 L’evoluzione più recente della giurisprudenza: mera adesione psicologica e condotta di partecipazione, il necessario discrimine rispetto alle organizzazioni terroristiche interne, il rapporto “smaterializzato” con l’organizzazione “madre”. - 4.1 La condotta di partecipazione, adesione ideologica supportata da seri propositi criminali, la natura di reato di pericolo presunto dell’art. 270-bis cod. pen. - 5 L’arruolamento passivo: è sufficiente la dimostrazione dell’incondizionata disponibilità al compimento di atti terroristici? - 6 Art. 270-quinquies cod. pen., gli elementi caratterizzanti le due figure di addestratore e informatore. - 7 L’attività di apologia. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Il tema dell’associazione terroristica ex art. 270-bis cod. pen. rappresenta uno dei principali ambiti di elaborazione interpretativa della giurisprudenza di legittimità degli ultimi anni, tenuto conto della particolare diffusività del fenomeno, dell’emersione di modalità nuove e sempre diverse di manifestazione della condotta che integra la partecipazione a tali associazioni, con particolare riferimento al terrorismo connotato da una matrice ideologica e religiosa.

Il tema della specifica individuazione della soglia comportamentale alla quale ancorare la condotta partecipativa, nella fattispecie ex art. 270-bis cod. pen., rappresenta il momento centrale di riflessione delle decisioni intervenute negli ultimi due anni, che affrontano temi già accennati dalle sentenze della giurisprudenza di legittimità oggetto di commento in precedenti contributi dell’Ufficio su questo tema, sebbene con precipua considerazione, all’epoca, dei requisiti necessari per ritenere correttamente contestata e valutata la fattispecie in fase cautelare.

La considerazione del tema oggetto di questo contributo richiede un necessario collegamento, oltre che una considerazione riepilogativa, quanto ad alcune decisioni degli anni precedenti, che rappresentano il sostrato interpretativo imprescindibile per intendere l’approdo ermeneutico recente della Corte, incentrato sull’effettivo riconoscimento della peculiarità della struttura associativa in questione, quando relativa a terrorismo connotato da una matrice ideologico - religiosa, non composta come le organizzazioni criminali e terroristiche interne da persone, mezzi e luoghi di incontro, ma caratterizzata invece da “un’adesione, aperta anche se non indiscriminata, realizzata con modalità informatizzata su base planetaria, propugnando la diffusione del credo religioso e politico attraverso cellule - figlie che, aderendo al programma, svolgono, sia pure attraverso un rapporto del tutto smaterializzato con l’organizzazione madre, un ruolo strumentale per la realizzazione del fine criminoso” (Sez. 2, n. 7808 del 04/12/2019, dep. 27/02/2020, El Khalfi, Rv. 278680- 02, 278680-05).

La necessità di considerare le effettive caratteristiche dell’associazione nel suo atteggiarsi concreto è elemento centrale della più recente interpretazione della Corte, al fine di poter riscontrare, mediante una serie di indici costanti e ricorrenti, un’effettiva partecipazione del singolo alla stessa. Il tema si collega da una parte alla necessità che, nella valutazione della condotta, sia rispettato il principio di offensività, attesa l’evidente anticipazione della soglia di rilevanza penale introdotta dal legislatore rispetto a tali delitti, dall’altra al necessario rispetto di diritti umani fondamentali e dello stato di diritto, come sanciti dalle fonti internazionali, nonché dei principi costituzionali interni, in particolare quanto alla piena libertà di espressione, di riunione e di credo religioso.

2. Quadro giuridico internazionale ed europeo.

La disciplina introdotta con gli artt. 270-bis e segg. cod. pen., quanto alla sostanziale anticipazione della soglia di rilevanza penale della condotta di partecipazione, ha come presupposto, quanto allo standard di tutela apprestato dal nostro ordinamento, il quadro di strumenti giuridici internazionali ed europei, che nella loro diversa portata hanno condotto all’introduzione e specificazione delle fattispecie in esame. Il tema di riflessione è stato da sempre quello di cercare di arginare la radicalizzazione, di apprestare strumenti preventivi, ma anche repressivi, adeguati nel momento in cui la radicalizzazione si manifesti in attività concretamente riscontrabili, volte a sovvertire le strutture democratiche con il mezzo della violenza; violenza diretta indiscriminatamente verso obiettivi civili, piuttosto che verso gli obiettivi istituzionali, che con l’associazione ex art. 270-bis cod. pen., caratterizzata dalla matrice ideologico - religiosa, si vogliono destrutturare. In tal senso, il terrorismo, anche se non qualificato come finalità dall’art. 270-bis cod. pen., non costituisce solo un obiettivo illecito, ma un vero e proprio “modus operandi”, uno strumento di lotta e di pressione efferato che colpisce persone e beni non identificabili con l’avversario istituzionale (Sez. 1, n. 31344 del 06/10/2020, Abo Robeih Tarif).

Appare opportuno quindi - per sottolineare come l’anticipazione della tutela penale realizzata dal legislatore trovi una base giuridica vincolante e comune agli altri Stati democratici e agli impegni in tal senso assunti dal nostro paese - un rapido richiamo ai principali strumenti che hanno delimitato il quadro giuridico internazionale ed europeo in tema di terrorismo, ritenuto un’oggettiva minaccia per la pace e la sicurezza internazionale.

a) Le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite n. 2178 (2014), 2354 e 2396 (2017), che hanno evidenziato come il controllo dell’estremismo violento che può favorire il terrorismo, ivi compresa la prevenzione della radicalizzazione, il reclutamento, la mobilitazione in gruppi di aspiranti terroristi, e la loro trasformazione in gruppi terroristici combattenti stranieri, rappresenta un elemento essenziale per affrontare la minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, con invito agli Stati membri ad intensificare ogni sforzo per evitare questo tipo di terrorismo. In tal senso, è apparso decisivo richiedere un concreto e coordinato sviluppo di strumenti di valutazione dei rischi per identificare persone che mostrano segni di radicalizzazione alla violenza, evitando profilazioni basate su motivi discriminatori vietati dal diritto internazionale; - il piano d’azione del Segretario delle Nazioni Unite, successivamente adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con il quale è stata evidenziata l’insufficienza di misure per contrastare il terrorismo basate esclusivamente su una tutela della sicurezza, mirando a prevenire, anche nella considerazione delle fattispecie incriminatrici, comportamenti “sintomatici” della radicalizzazione volta a finalità di terrorismo nell’ambito di un quadro di collaborazione internazionale unitario.

b) Le determinazioni del Consiglio d’Europa nel realizzare la cooperazione degli Stati contro il terrorismo, cercando così di prevenire la radicalizzazione nell’ambito di un quadro comune, il cui limite è sempre rappresentato dal rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto, con particolare riferimento: - alla Convenzione EDU (diritto ad un equo processo anche nel caso di reati di terrorismo, tenendo conto del peso dell’interesse pubblico nelle indagini e applicando l’art. 6 in modo da non implicare difficoltà sproporzionate per le autorità di polizia nell’adottare misure efficaci per contrastare il terrorismo o altri reati gravi nell’adempimento dei loro obblighi di cui agli art. 2, 3, e 5 della Convenzione, al fine di proteggere il diritto alla vita e alla sicurezza fisica dei cittadini) ; - alla Convenzione sulla criminalità informatica (ETS no.185, il primo trattato internazionale sui reati commessi via internet e su altri reti informatiche), che, contenendo anche indicazioni in tema d’intercettazione sui flussi, ha svolto un ruolo rilevante in tema di terrorismo, atteso l’uso essenziale di internet e social network al fine di favorire una radicalizzazione globalizzata, massiccia ed anonima (l’uso di spazi on line per la diffusione di ideologia radicale, estremismo, violenza e terrore, è contrastato dal protocollo addizionale alla convenzione, che stabilisce limiti alla libertà di espressione e di parola); - Convenzione europea per la repressione del terrorismo (ETS no.090), che facilita l’estradizione dei soggetti che hanno commesso atti di terrorismo;

- il Protocollo alla Convenzione d’Europa per la repressione del terrorismo, che qualifica come reato la commissione di una serie di atti come la partecipazione ad un’associazione o un gruppo a fini terroristici, il ricevere un addestramento a fini terroristici, i viaggi all’estero a fini terroristici, il finanziamento e l’organizzazione di tali viaggi, e prevede la creazione di una serie di punti di contatto internazionale per uno scambio proficuo di informazioni; in tale ambito emerge la piena rilevanza penale dei c.d. “atti preparatori”, contemplando nuovi fatti di reato direttamente collegati al fenomeno dei combattenti terroristi stranieri (Foreign Terrorist Fighters FTF), con evidente collegamento di tali condotte alla previa radicalizzazione dei soggetti coinvolti nei viaggi; - la Convenzione di estradizione del Consiglio d’Europa (ETS no. 024, con correlati primo, secondo, terzo e quarto protocollo addizionale) al fine di alimentare l’azione penale anche quando si tratti di reati transnazionali.

c) Gli strumenti direttamente riferibili all’Unione Europea, tenuto conto del disposto di cui all’art. 67, paragrafo 3, del TFUE, che sancisce che l’Unione si adopera per garantire un livello adeguato di sicurezza attraverso misure di prevenzione e di lotta, contro la criminalità, il razzismo e la xenofobia; nonché attraverso misure di coordinamento e cooperazione tra forze di polizia e autorità giudiziarie ed infine tramite il riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie penali. La cooperazione penale conseguente rappresenta la base per l’Unione al fine di combattere efficacemente il terrorismo e porre un argine anche ai comportamenti che rappresentano piena adesione agli scopi delle associazioni a delinquere con finalità di terrorismo. In particolare: - la Direttiva UE 2017/541 sulla lotta al terrorismo, che sostituisce la decisione quadro 2002/475/GAI del Consiglio e modifica la decisione 2005/671/GAI del Consiglio (concernente lo scambio di informazioni e la cooperazione in materia di reati terroristici); - Decisione quadro 2008/978/GAI del Consiglio relativa al mandato europeo di ricerca delle prove diretto all’acquisizione di documenti, oggetti e dati da utilizzare nei procedimenti penali; - Direttiva 2014/41/UE relativa all’ordine europeo di indagine penale; - Direttiva UE 2016/681 sull’utilizzo del codice di prenotazione (PNR), a fini di prevenzione, accertamento e indagine penale nei confronti dei reati di terrorismo e dei reati gravi; - Decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio relativa al mandato di arresto europeo e alle procedure di consegna tra gli stati membri.

Infine, occorre considerare, come ultima riflessione introduttiva, il ruolo della Corte EDU, che pur non avendo competenza sui reati terroristici in sé, ha tuttavia in diverse occasioni affermato principi fondamentali sul come contrastare il terrorismo e tenere conto nella valutazione dei c.d. “reati preparatori” del rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto. Un’ampia elaborazione di principi e di indicazioni al fine di combattere legittimamente la radicalizzazione e il conseguente avvicinamento alle associazioni terroristiche. In tal senso, vale la pena ricordare la decisione della Corte EDU, Kasymakunov e Saybalatov c. Russia, 26261/05 e 26377/06.

La Corte EDU ha chiarito che il cambiamento della legge o delle strutture costituzionali di uno stato è possibile a condizione che: - i mezzi utilizzati a tal fine siano legali e democratici; - il cambiamento proposto sia compatibile con i principi democratici fondamentali; ne conseguiva, nel caso concreto, l’impossibilità di ritenere compatibile con le strutture democratiche ed europee di un regime basato sulla Shaaria, per diversi aspetti, tra i quali il principale è l’invadenza di precetti religiosi in tutti gli ambiti della vita privata e pubblica dei cittadini, oltre alla radicale limitazione dello status giuridico della donna.

Ricorrono, dunque, in questa decisione, elementi ampiamente considerati dalla stessa giurisprudenza di legittimità della Corte di cassazione, che ha affermato che le condotte terroristiche, in linea con quanto affermato dall’art. 270-sexies cod. pen., puntano a sovvertire con modalità violente gli ordinamenti economici e sociali di uno Stato, ovvero a sopprimere il suo assetto politico e giuridico, senza che occorra l’immediata concretizzazione di tali propositi criminosi (Sez. 1, n. 31344 del 06/10/2020, Abo Robeih Tarif, che richiama il principio di diritto affermato da Sez. 2, 14704 del 22/04/2020, Bekay, Rv. 279408-01, ed anche Sez. 2, n. 24994 del 25/05/2006, Bouhrama, Rv. 234345-01), sicché ciò che assume rilievo decisivo ai fini della loro rilevanza penale è la natura violenta delle relative condotte, “espressiva di un metodo antidemocratico”.

Tale considerazione ha ampiamente ispirato il quadro giuridico internazionale ed europeo, che, tenuto conto delle associazioni terroristiche in questione, ha anche ritenuto imprescindibile la piena individuazione delle caratteristiche con cui i soggetti appartenenti a tali associazioni, che si connotano per l’oggettiva portata planetaria, comunicano tra di loro. Con conseguente invito agli Stati a prevedere e disciplinare particolari forme di accesso ai data base e sistemi informatici per evitare tutte quelle attività consistenti in “incitamento all’odio” che rappresentano una delle forme principali per realizzare attività di proselitismo e reclutamento a fini di terrorismo. Tali normative devono rispondere a precisi requisiti e, in particolare, nell’effettuare il controllo e la conservazione dei dati, è necessario che sia presente un’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, con mezzi di ricorso giurisdizionale contro di essa. Ciò premesso, considerata l’evidente incidenza di tale disciplina nel suo complesso sulla legislazione in tema di associazione per finalità di terrorismo ex art. 270-bis cod. pen., occorre anche richiamare quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 225 del 2008, che ha evidenziato come rientri nella piena discrezionalità del legislatore optare per forme di tutela avanzata, che colpiscano “l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché correlativamente l’individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva, nel rispetto del principio di necessaria offensività ex art. 25 Cost., considerato dalla Corte costituzionale in astratto, acclarando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo, e ove tale condizione risulti soddisfatta, il compito di omologare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa, resta affidato al giudice ordinario, nell’esercizio del proprio potere ermeneutico (offensività in concreto), essendo lo stesso chiamato ad una lettura teleologicamente orientata degli elementi della fattispecie, ancor più penetrante quando le formule utilizzate dal legislatore appaiano in sé anodine o polisense, al fine di evitare che l’area di operatività dell’incriminazione si espanda fino a ricomprendere condotte prive di un apprezzabile potenzialità lesiva” (Sez. 2, n. 22163 del 21/02/2019, PG c/ Antar Hakim Moustafa, Rv. 276065 - 01). In tale contesto appare opportuno richiamare, infine, anche la sentenza n. 65 del 1970 della Corte cost., che, seppure in relazione a diverso ambito, ha delineato i limiti del diritto costituzionalmente garantito dall’art. 21 Cost. quanto alla legittima manifestazione del pensiero, nel senso dell’esigenza di prevenire e far cessare turbamenti della sicurezza pubblica, la cui tutela costituisce una finalità immanente del sistema.

3. La condotta di partecipazione nell’associazione di terrorismo internazionale, cenni introduttivi.

Nel riprendere il tema dei reati commessi con finalità di terrorismo nella considerazione della giurisprudenza della Corte di cassazione, appare opportuno richiamare i precedenti contributi di questa stessa rassegna negli anni 2016, 2017 e 2018, quanto: - all’identificazione e normazione con l’introduzione dell’art. 270-sexies cod. pen. della nozione di terrorismo (con l’art. 15 del d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito con modifiche nella legge 31 luglio 2005, n. 155), nonché quanto alla predisposizione normativa di un meccanismo di rinvio dinamico e formale idoneo ad assicurare, con automatismo, l’armonizzazione degli ordinamenti degli Stati che compongono la collettività internazionale per predisporre, come evidenziato nel paragrafo 2, gli strumenti necessari al fine dell’effettiva repressione della criminalità terroristica internazionale; - infine, quanto al profilo soggettivo delle condotte terroristiche, per passare, quindi, all’analisi degli approdi ermeneutici della giurisprudenza di legittimità relativi alla condotta di partecipazione nell’associazione con finalità di terrorismo internazionale, con particolare riferimento al terrorismo connotato da matrice ideologico-religiosa.

In tal senso, sono necessari brevi richiami a decisioni recenti, che rappresentano un precedente significativo, un passaggio interpretativo rilevante nella soluzione di questioni ermeneutiche, al fine di giungere alla puntuale individuazione della condotta associativa, così come nella definizione del concetto di partecipazione.

Le diverse decisioni che saranno analizzate evidenziano che la condotta partecipativa - rispetto alla quale era stato segnalato il rischio di un eccessivo ampliamento dell’ambito applicativo, con sostanziale possibilità di uno svuotamento del controllo giurisdizionale relativo la necessaria materialità ed offensività della stessa - è da valutare tenendo conto del paradigma tipico di tale speciale associazione, anche per come disegnato dagli strumenti giuridici internazionali ed europei e, conseguentemente, dal legislatore interno, sicché si è affermato che, a meno di evitare “torsioni interpretative eccessive”, non può essere valutata e analizzata nei suoi elementi significativi alla stregua delle associazioni a delinquere tradizionali e, segnatamente, di stampo mafioso. (Sez. 2, n. 14704 del 22/04/2020, Bekaj, Rv. 279408-02, 279408-03).

Deve essere, quindi, richiamata l’elaborazione giurisprudenziale, per come già approfonditamente analizzata dal contributo su questo stesso tema della rassegna dell’Ufficio del massimario e del ruolo dell’anno 2018, con particolare riferimento alle decisioni che di recente hanno delimitato l’ambito applicativo nel perimetro del quale poter ritenere integrata la condotta di partecipazione (in particolare Sez. 1, n. 1072 del 11/10/2006, Bouyahia Maher, Rv. 235289-01, Sez. 5, n. 2651 del 08/10/2015, dep. 2016, Nasr Osama, Rv. 265924-01, Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012, Chachoub, Rv. 253943-01, Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, Rv. 271645-01, 271646-01, 271647-01, Sez. 6, n. 14503 del 19/12/2017, dep. 2018, Mes- saoudi, Rv. 272730-01, 272731-01, Sez. 6, n. 40348 del 23/02/2018, Afli Nafaa, Rv. 274217-02, Sez. 2, n. 38208, del 27/04/2018, Waqas).

Il punto centrale di riflessione, che appare opportuno richiamare, è quello relativo alle apparentemente differenti considerazioni che hanno caratterizzato Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, Rv. 271645-01, 271646-01, 271647-01 da una parte e Sez. 6, n. 14503 del 19/12/2017, dep. 2018, Messaoudi, Rv. 272730 -01, 272731-01, Sez. 6, n. 40348 del 23/02/2018, Afli Nafaa, Rv. 274217-02 dall’altra.

Questi precedenti vengono costantemente citati e considerati dalle decisioni più recenti, che, tuttavia, ne realizzano una lettura coordinata ed evolutiva, rilevando che se è necessario, come affermato in Sez. 6, n. 14503 del 19/12/2017, dep. 2018, Messaoudi, Rv. 272730- 01, che “che l’azione del singolo si innesti nella struttura organizzata, cioè che esista un contatto operativo, un legame, anche flebile, ma concreto tra il singolo e l’organizzazione che, in tal modo, abbia consapevolezza, anche indiretta, dell’adesione da parte del soggetto agente”, tuttavia tale legame non può prescindere in concreto e nell’accertamento, anche ai fini di offensività, rimesso al giudice di merito dal fatto che: “la partecipazione ad una associazione terroristica di ispirazione jiahadista può manifestarsi anche attraverso modalità di adesione “aperte” e spontaneistiche, che non implicano l’accettazione da parte del gruppo, ma che comportano di fatto una inclusione progressiva dei partecipi.”, nonché che: l’esistenza di un sodalizio criminoso avente le caratteristiche di cui all’art. 270-bis cod. pen. non può escludersi per il fatto che esso sia imperniato su di un nucleo culturale che si richiama all’integralismo religioso islamico, perché, i rapporti ideologico-religiosi, sommandosi al vincolo associativo che si propone il compimento di atti di violenza con finalità terroristiche, lo rendono ancor più pericoloso, per la sua forte valenza aggregante.” (Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, Rv. 271645 - 01, 271646 - 01, 271647 - 01).

Si tende, dunque, nelle decisioni più recenti, che saranno esaminate in seguito, a dare una lettura coordinata dei principi affermati da queste sentenze che, è bene ricordarlo, sono state pronunziate in relazione al vaglio di legittimità circa la ricorrenza di gravi indizi di colpevolezza a fini cautelari, per giungere ad un’applicazione degli stessi in modo integrato nella valutazione degli elementi che, nel merito, hanno portato alla decisione, considerando le caratteristiche specifiche di queste associazioni, le loro modalità di manifestarsi mediante l’utilizzo, da ritenere elemento centrale e caratterizzante, della rete informatica, la particolare rilevanza dei gruppi chiusi on line, che si presentano come strumenti di indottrinamento, piuttosto che di mera propaganda, con una chiara valenza costitutiva del ricorso ai social media.

Tale evoluzione interpretativa richiede, comunque, per una comprensione dei più recenti approdi ermeneutici, un breve richiamo ad alcune delle decisioni che hanno apportato ulteriori argomenti alle considerazioni che precedono.

3.1. L’inclusione progressiva nell’associazione.

In particolare, il tema della connotazione della condotta rilevante per poter ritenere integrato il reato ex art. 270-bis cod. pen. è al centro della decisione della Quinta sezione penale (Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, Rv. 271645 - 01, 271646 - 01, 271647 - 01) che, con una approfondita ricostruzione, riporta a sistema gli approdi interpretativi precedenti della giurisprudenza di legittimità in materia, per affermare e chiarire che proprio la ricorrenza di una condivisione e partecipazione di diversi soggetti quanto ai valori dell’integralismo religioso islamico in senso radicale rappresenta la base materiale sulla quale si incardina il sodalizio criminoso di cui all’art. 270-bis cod. pen.

Il tema della portata del radicalismo religioso islamico, come elemento-base per l’associazione del singolo all’organizzazione criminale autoproclamatasi IS, è al centro anche della successiva Sez. 2, n. 38208, del 27/04/2018, Waqas, richiamata nel contributo del 2018 come portatrice di una sorta di posizione intermedia, che, tuttavia, in modo ancora più esplicito, sottolinea come la finalità del radicalismo religioso citato rappresenta l’essenza stessa del reato contestato, considerato che la finalità espressa di tale ideologia, e di coloro che vi aderiscono, è effettivamente quella di eliminare tutto ciò (persone, luoghi e cose) che si mostri contrario ai principi affermati, con l’uso quindi del metodo violento e antidemocratico sopra considerato.

La sentenza Bekaj richiama l’interpretazione progressiva della Corte di cassazione in ordine al reato di cui all’art. 270-bis cod. pen., in considerazione delle svariate modalità con le quali la condotta si può materializzare in concreto, integrando questa fattispecie un reato pacificamente ritenuto di pericolo presunto (Sez. 2, n. 24994 del 25/05/2006, Bouhrama, Rv. 234345- 01, che ha precisato che proprio in considerazione della natura di reato di pericolo presunto non è necessario che abbia inizio la materiale esecuzione del programma criminale). A tal fine si è precisato che:

- il delitto è integrato in presenza di una struttura organizzativa con un grado di effettività tale da rendere possibile l’attuazione del programma criminoso, pur non essendo necessaria la specifica predisposizione di un programma di azioni terroristiche (Sez. 5, n. 2651 del 08/10/2015, dep. 2016, Nasr Osama, Rv. 265924 - 01, Sez. 1, n. 1072 del 11/10/2006, Bouyahia Maher, Rv. 235289 -01), sicché ciò che caratterizza tale forma di associazione non è la finalità perseguita, nonostante la dizione letterale della previsione normativa, ma “le modalità e la natura terroristica della violenza che si intende esercitare o si prefigura”;

- il delitto è integrato in presenza di una struttura organizzata di “carattere assolutamente rudimentale e da un’adesione ideologica ai valori dell’islamismo radicale connotata dalla oggettiva serietà dei propositi criminali terroristici”, rappresentando tale contesto e la diffusività dell’ideologia, con la sua minaccia esplicita di sopprimere tutto ciò che si discosti dai suoi affermati principi, uno degli elementi caratterizzanti e tipici del reato ex art. 270-bis cod. pen. (Sez. 6, n. 25863 del 08/05/2009, Scherillo, Rv. 244367 -01, Sez. 1, n. 22673 del 22/04/2008, Di Nucci, Rv. 240085-01);

- “la necessità di considerare questo fenomeno criminale in modo autonomo ed indipendente in relazione al suo manifestarsi, superando gli ordinari paradigmi interpretativi” utilizzati nella valutazione di condotte rientranti nel c.d. “terrorismo storico”, che ha caratterizzato e connotato la vita sociale nel nostro paese in epoca relativamente recente, “o ancora basati sui caratteri della associazione a delinquere “classica”, semplice o mafiosa che sia”, con la conseguenza che appare necessario prendere atto del “carattere estremamente flessibile di tali forme associative, spesso a struttura cellulare, in grado di modularsi a seconda delle esigenze del caso concreto, operando in modo globalizzato e transnazionale, con contatti sporadici e a carattere progressivo tra i componenti dell’associazione, in considerazione della ricorrenza accertata di reclutamenti nell’ambito di struttura ampiamente consolidata a livello internazionale”;

- l’oggettiva dinamicità di tale struttura associativa, caratterizzata da una fitta rete di collegamento, anche transnazionale, flessibile, variabile e discontinua anche nei contatti tra i suoi componenti, anche nel caso in cui realizzi una sola delle condotte di supporto funzionale all’attività terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali (proselitismo, diffusione di documenti di propaganda, assistenza agli associati, finanziamento, predisposizione o acquisizione di armi);

- la necessità di avere ben presente che l’anticipazione della soglia di punibilità non può mai sottrarsi ad una valutazione di offensività in concreto (Sez. 5, n. 48001 del 14/07/2016, Hosni, Rv. 268164 -01).

Questo perché, appunto, l’adesione a tali valori, l’esclusività dei valori di riferimento, l’identificazione dei soggetti credenti negli stessi in antagonismo con coloro che sono ritenuti infedeli, può rappresentare un “collante fondamentale”, che “aggiunto al vincolo associativo e agli elementi di riscontro esterni e materiali, che non possono mai mancare”, è estremamente significativo nel concreto atteggiarsi della condotta integrante il reato di cui all’art. 270-bis cod. pen. Se, dunque, ricorre il “collante fondamentale”, rappresentato dall’adesione ad una ideologia religiosa estremista ed esclusiva, tuttavia questo elemento deve essere sempre valutato in correlazione con il necessario riscontro di una serie di elementi materiali e di condotta minimi, volti a concretizzare il reato contestato, sempre tenendo conto delle caratteristiche tipiche di tali associazioni (spontaneismo, flessibilità, rudimentalità, progressività) ed anche delle modalità anomale ed innovative con le quali vengono perseguiti e spesso attuati attentati stragisti. Questa conclusione è stata condivisa anche dalle decisioni più recenti, che hanno ritenuto imprescindibile momento di valutazione degli elementi sintomatici una piena consapevolezza delle caratteristiche con le quali si manifesta il contributo e contatto del singolo alla associazione, spesso in forma “smaterializzata”. (Sez. 2, n. 7808 del 04/12/2019, dep. 27/02/2020, El Khalfi, Rv. 278680-02).

Proprio il distacco da connotazioni classiche del modello associativo porta la Corte a ritenere possibile la partecipazione ad associazioni terroristiche, con modalità di adesione spontaneistiche ed aperte, che non possono essere ricondotte a canoni tradizionali e classici, quali quelli che impongono una accettazione formale del negozio sociale da parte della struttura base dell’associazione principale (come con la messa a disposizione in tema di associazioni di stampo mafioso), poiché di fatto il contatto con la casa madre, pur esistente, si articola in maniera decisamente diversa ed evoluta rispetto ai canoni interpretativi utilizzati per le associazioni a delinquere di stampo tradizionale. Ciò anche in considerazione dei più recenti arresti giurisprudenziali in tema associativo, che hanno ripetutamente sottolineato, in materia di associazione a delinquere per fini di terrorismo, che la prova della partecipazione può essere desunta anche da un contributo causale derivante dal mero inserimento nell’associazione e nella sua struttura, quali che ne siano le caratteristiche, perché tale inserimento già di per sé rafforza la associazione criminale di riferimento a causa della progressiva maggiore disponibilità di adepti (Sez. 2, n. 14704 del 22/04/2020, Bekaj, Rv. 279408-02).

3.2. La condotta posta in essere dai c.d. “lupi solitari”.

In questo complessivo ed articolato panorama è poi intervenuta la pronuncia della Sez. 2, n. 38208, del 27/04/2018, Waqas, costantemente citata anche nelle decisioni più recenti come antecedente interpretativo necessario per la considerazione dell’effettiva prova della condotta di partecipazione. Tale decisione ha analizzato ed approfondito, sui motivi dei ricorrenti, la nozione giuridica di partecipazione all’associazione con finalità di terrorismo. Anche in questo caso le doglianze delle difese si sono incentrate sul peso eccessivo ed incongruo attribuito dalla decisione di merito al mero aspetto psichico della partecipazione al sodalizio criminale. Il dato principale di analisi è rappresentato dalla rilevanza del contributo fornito anche da soggetti singolarmente considerati (i c.d. “lupi solitari”), a prescindere da un loro sia pur minimo inquadramento in cellule. Sono, quindi, stati riscontrati i “dati sintomatici” espressivi della qualità e della natura del contributo assicurato dagli imputati al programma criminale terroristico dell’ISIS, proprio tenendo conto delle peculiarità che caratterizzano l’apparato associativo in esame.

Si è in tal senso affermato che:

- il fenomeno associativo, nella sua declinazione nelle associazioni con finalità terroristiche, assume rilevanza quando manifesti caratteri tali da rendere non ipotetico, né meramente eventuale il pericolo che la norma intende contrastare, ciò secondo alcuni indici tipicamente sintomatici individuati dalla giurisprudenza (esistenza di un apparato organizzativo, mezzi e persone allo scopo, possibilità di attuare il programma di esecuzione di atti di violenza con finalità indicate dall’art. 270-sexies cod. pen.);

- la necessaria determinatezza della fattispecie, garantita dal requisito minimo dell’organizzazione, che deve così presentarsi come soggetto in grado di compiere effettivamente gli atti di violenza per finalità di terrorismo;

- la tipicità del fatto, tuttavia connotato dall’evidente volontà del legislatore di realizzare un’anticipazione di tutela rispetto alla commissione dei singoli atti di violenza che formano l’oggetto dell’accordo tra gli associati, sicché emerge la ratio della disciplina apprestata dal legislatore, che ha ritenuto che le esigenze di tutela della collettività possano essere pregiudicate sin dalla mera costituzione dell’associazione a prescindere dalla predisposizione di un programma di azioni terroristiche;

- la necessaria correlazione della fattispecie con il principio della personalità della responsabilità penale, il che comporta una puntuale determinazione e interpretazione della nozione di partecipazione del singolo alla associazione, inquadrate nell’ambito dei reati a forma libera, per cui assumono rilievo “in ragione del coefficiente di idoneità causale della condotta” e, dunque, del contributo alla realizzazione della finalità dell’associazione.

La Seconda sezione rileva come, nella multiforme categoria in questione, non sia possibile delineare una struttura tipica, fissa e ricorrente in modo obiettivo, di associazione, mentre in realtà “è l’interprete a dover ricondurre il fenomeno storico in una determinata categoria giuridica, riscontrandone gli elementi tipizzanti.”.

Appare, quindi, necessario per la Corte muovere dal contenuto e dalle peculiarità dell’accordo su cui è fondata l’esistenza dell’associazione per individuare in modo specifico le modalità (ove esistenti) di adesione dell’associazione, le regole che disciplinano i rapporti tra gli associati, i mezzi e gli strumenti, anche finanziari, impiegati per il raggiungimento degli scopi propri della stessa, in un’ottica che recepisce evidentemente anche le indicazioni del quadro giuridico internazionale ed europeo sopra richiamato. Partendo da questa riflessione, viene, quindi, condivisa la caratterizzazione da parte del giudice di secondo grado dell’autoproclamato Stato Islamico (IS) nella sua vocazione stragista e terroristica. Questo è un approdo interpretativo significativo, recepito in modo esplicito in moltissime sentenze di merito e, in seguito, anche da numerose decisioni della Corte di cassazione.

ISIS, dunque, come associazione con finalità di terrorismo di riferimento rispetto al contributo dei singoli associati, anche non prossimi territorialmente al campo di azione dell’autoproclamato Stato Islamico, che trova la sua fonte costitutiva proprio nel carattere religioso, con accentuata connotazione ideologica, di tipo radicale ed estremizzante, da cui deriva una sorta di “imposizione esterna” dell’atto costitutivo dell’associazione. Imposizione che, di fatto, risulta necessitata dalla concezione religiosa, caratterizzata da tratti palesi di fanatismo, che non tollera dissenso o indipendenza rispetto all’unico credo religioso, “imponendo la soppressione fisica di tutti coloro che non aderiscono all’ideologia religiosa riconosciuta come unica valida”.

Quest’associazione si caratterizza “nell’ambito di un programma essenziale e generico, pienamente riconoscibile all’esterno, per la volontà di raggiungere con condotte violente un chiaro e semplice obiettivo, ovvero l’eliminazione di persone cose o segni che si ispirano a culture e religioni diverse dall’islamismo radicale”. A tal fine sono, dunque, richieste condotte violente, che risultano sollecitate e giustificate dal “valore ideale del “martirio” (Jihad) al quale sono chiamati tutti gli associati, anche singolarmente. E, in tale contesto, si è chiarito come il profilo dell’adesione al programma dell’associazione e l’acquisizione della qualità di associato “non richiede il ricorso a rituali o ad attività specificamente individuate, essendo allo scopo necessaria e sufficiente la condivisione del messaggio politico e religioso”.

Ciò posto, ai fini della verifica del requisito normativo, dovrà essere accertato materialmente “se la trasposizione in concreto di tale adesione si colga attraverso fatti sintomatici, di vera e propria partecipazione, dotati di carattere non equivoco, efficienti allo scopo di attuare il programma criminale dell’associazione, evidentemente sintomatici anche dell’esposizione a pericolo degli interessi dello Stato e del contributo dato dal singolo associato”.

Quest’associazione si differenzia poi, nella interpretazione fornita dalla Seconda sezione, dai canoni classici di interpretazione per alcune specifiche caratteristiche del sodalizio, con riflessi immediati quanto alle modalità esecutive per la realizzazione degli obiettivi della stessa, e questo perché non ricorre la tipologia dell’associazione strutturata in senso “verticale”, ma invece una organizzazione di tipo “orizzontale”, a rete, capace di adattamenti proprio in considerazione del suo carattere elastico, anche in campo transnazionale e globalizzato, “nonché per i particolari mezzi di comunicazione e trasferimento sul territorio, tanto evoluti da rendere spesso difficile una reale attività di prevenzione”.

Si evidenzia la necessità di distinguere:

- il collegamento tra la chiamata generalizzata al Jihad e le forme di “partecipazione” dei singoli all’associazione, che è ovviamente cosa diversa dalle forme e struttura dell’associazione;

- il conseguente significato univoco anche delle iniziative dei singoli, una volta che si sia manifestata l’adesione al Jihad, quando pongano in essere iniziative “autonome” che rientrino nel piano terroristico dell’associazione, pronta poi a rivendicarne l’esito.

Il dato dell’adesione all’associazione, in funzione della generalizzata chiamata al martirio, che l’ISIS offre in modo capillare e con mezzi di comunicazione ampi e svariati, rappresenta, dunque, per la Corte, un momento di “pura condivisione e accettazione delle regole fondanti dell’associazione”, e tale elemento dipende proprio dalle forme e dalla struttura associativa dell’ISIS, caratterizzata dal suo ambito “globale e globalizzato”, che consente di stabilire connessioni tra coloro che aderiscono superando distanze geografiche ed ostacoli fisici e che, proprio per questo, non “impone altre formalità per la partecipazione al sodalizio se non la decisione del singolo di rispondere a quella chiamata manifestando la propria adesione alla ideologia del Califfato”.

Tale adesione rappresenta il punto di partenza per giungere a provare, “insieme ad altri elementi materiali”, il ruolo di partecipe all’associazione; “ne è tuttavia presupposto indispensabile”, poiché dal momento dell’adesione si colgono tutte le premesse che sono alla base delle determinazioni, programmi e predisposizioni di attività per compiere violenza in attuazione del programma criminoso.

Dunque, la risposta alla chiamata al Jihad non costituisce da sola la prova della condotta di partecipazione, ma rappresenta il momento in cui si instaura il legame tra il singolo e l’associazione. Sulla base di tale adesione devono essere lette e interpretate le successive condotte che il singolo pone in essere in attuazione del patrimonio ideologico culturale e di condivisione di tecniche terroristiche, che costituisce uno degli elementi caratterizzanti dell’ISIS. In tal senso, tenuto conto della portata diffusiva su vasta scala delle direttive ideologiche dell’ISIS, sia mediante indicazioni operative per la realizzazione di atti violenti che mediante la globalizzazione e transnazionalità del messaggio trasmesso, si deve ritenere che “anche le condotte dei singoli poste in essere in attuazione di tali direttive siano indicative della partecipazione e inserimento nella associazione”.

Considerata, inoltre, la peculiarità dell’associazione in questione, “il dato dell’inserimento nella stessa deve essere considerato del tutto peculiare”, ed infatti si atteggia, secondo la valutazione della Seconda sezione, in modo assolutamente diverso dalle categorie tradizionali della partecipazione alle associazioni conosciute.

Non è, quindi, di certo necessario e indispensabile un contatto diretto tra i vertici (promotori, dirigenti e organizzatori) dell’associazione e i singoli aderenti, né si può ipotizzare che per ciascun associato siano preventivabili ruoli e incarichi.

Ne consegue, secondo le conclusioni della Corte, che l’effettivo inserimento del singolo nell’attività e finalità dell’associazione potrà essere desunto logicamente dalle condotte poste in essere dallo stesso, da cui risulti senza incertezza l’adesione al programma dell’associazione (in questo stesso senso Sez. 5, n. 31389 del 11/06/2008, Bouyahia, Rv. 241174 -01, 241175 -01). Dunque “l’organizzazione terroristica transnazionale va pensata, più che come una struttura statica, come una rete, in grado di mettere in relazione persone assimilate da un comune progetto criminale, che funge da catalizzatore dell’affectio societatis e costituisce lo scopo sociale del sodalizio”. La Corte analizza anche la sentenza della Sez. 6, n. 14503 del 19/12/2017, dep. 2018, Messaoudi, Rv. 272730-01, in diverse occasioni richiamata dalle difese degli imputati per contestare il requisito effettivo dell’adesione all’associazione con finalità di terrorismo. L’affermazione della Sesta sezione non può essere intesa correttamente, secondo il Collegio, se non considerando il caso concreto sottoposto all’esame, nell’ambito del quale il giudice al quale è stata rinviata la decisione sulla misura cautelare impugnata, aveva omesso di considerare la rilevanza di alcuni elementi oggettivi, chiaramente sintomatici di un coinvolgimento nell’associazione (in particolare, una serie di contatti tra l’indagato ed esponenti di punta tunisini dell’associazione al momento del suo rientro in patria, così come l’aver lo stesso inneggiato al successo dell’attentato di Sousse, posto in essere in data 26 giugno 2015 in Tunisia). La conclusione seguita dalla Sesta sezione non escluderebbe, dunque, in alcun modo, la validità dell’impostazione secondo la quale già la vocazione al martirio indica una condivisione degli obiettivi dell’associazione (che si devono poi concretizzare, come detto, in atti materiali di partecipazione), ma semplicemente propone in modo diverso (forse a causa del condizionamento derivante dall’utilizzo di diversi schemi interpretativi del modulo associativo), la necessaria correlazione tra l’adesione all’associazione nella sua vasta diffusività e la prova dell’effettiva partecipazione nel realizzarne gli obiettivi (ad esempio richiamando lo schema associativo ex art. 416-bis cod. pen. e, in tal senso, inserendo elementi di caratterizzazione del tutto distinti rispetto all’associazione di tipo terroristico, che richiede, nell’interpretazione costante della precedente giurisprudenza di legittimità, l’utilizzo di strumenti di valutazione del tutto autonomi proprio per la particolarità del fenomeno in questione).

E, d’altra parte, la ricorrenza di quel legame flessibile, ma concreto e consapevole, appare certamente desumibile, a parere del Collegio, dalla vocazione al martirio e dalla piena condivisione dei messaggi ideologici e religiosi dell’associazione, apparendo necessario declinare, in modo consapevole e coordinato con l’atteggiarsi materiale di tali associazioni, rispetto a tale ormai consolidata costruzione, la richiesta necessità di avere conoscenza della messa a disposizione, al fine di poter contare su un determinato soggetto, anche indirettamente; a meno di non voler intendere il concetto di conoscenza indiretta della messa a disposizione come un caso di conoscenza a posteriori. Una diversa, e più formalistica, lettura di questa decisione rappresenterebbe, secondo la Corte, un serio ostacolo alla ratio dichiarata del legislatore, nel quadro giuridico internazionale ed interno, nella previsione del reato in questione.

Determinerebbe l’oggettiva impossibilità di considerare come significative tutte le condotte poste in essere, “anche individualmente”, da soggetti collocati in zone del mondo occidentale del tutto distinte, e senza alcun punto di contatto con la zona asseritamente di riferimento per la struttura principale dell’associazione con finalità di terrorismo (dato questo a sua volta difficilmente riscontrabile e di complicata prova, considerato che l’as- sociazione in questione si caratterizza per clandestinità e diffusività capillare in diversi continenti, per cui non appare chiaro, a parte il caso concreto, verso quale ambito e in che condizioni il requisito richiesto si potrebbe ritenere soddisfatto).

Proprio l’identificazione nei valori religiosi dell’islamismo estremista, che trova il suo presupposto nella radicalizzazione, anche “autoindotta”, sembra rappresentare la fonte costitutiva dell’associazione, con la realizzazione di quella che è stata definita una sorta di imposizione esterna dell’atto costitutivo dell’associazione stessa. Molto rilevante appare, secondo tale prospettiva ermeneutica, la necessità conseguente di distinguere il momento dell’adesione ad una tale associazione con compartecipazione dei valori identificativi fondanti, ampiamente diffusi, conoscibili e conosciuti, con i successivi atti di partecipazione, che, nella valutazione giurisprudenziale, intanto rileveranno in quanto ci sia stata pregressa adesione, ma si siano poi caratterizzati in modo concreto per la loro inequivoca direzione alla realizzazione di attività a carattere terroristico o di supporto alla associazione (Sez. 5, n. 48001 del14/07/2016, Hosni, Rv. 268164 -01).

L’interpretazione richiamata tende, dunque, a garantire e soddisfare, nel rispetto del criterio di offensività e tipicità, quell’esigenza di tutela che il legislatore ha apprestato con la previsione dell’art. 270-bis cod. pen., che tuttavia non può prescindere dai caratteri di queste attività, dall’evoluzione delle forme di interconnessione e dalla globalizzazione dei contatti, nonché delle istruzioni, che questo tipo di associazione caratterizzano, dando così significativa rilevanza al “valore obiettivizzante di tutti i dati materiali” che valgono a colorare il concetto di partecipazione nell’interpretazione più recente della Corte di cassazione.

3.3. La condotta di partecipazione rappresentata dalla scelta di combattere come Foreign Terrorist Fighters.

Anche Sez. 1, n. 49728 del 16/04/2018, Sergio Marianna, si presenta come un apporto rilevante nella ricostruzione ed elaborazione della fattispecie di cui all’art. 270-bis cod. pen., nonché quanto alla caratterizzazione della condotta di partecipazione, rappresentata dalla scelta di partire come combattente nell’interesse e al fine di sostenere l’autoproclamato stato islamico. La decisione in questione propone una completa analisi ricostruttiva circa la natura del reato in questione, delimitandone tra l’altro l’ambito rispetto alle diverse fattispecie di cui agli artt. 270-quater e 270-quater.1 cod. pen.

La contestazione, relativa a più imputati, in parte riferibili ad uno stesso nucleo familiare (due sorelle italiane radicalizzate, una delle quali sposata con un albanese combattente e partito per la Siria insieme alla donna italiana, con la quale era stato combinato un matrimonio a tal fine; i genitori delle due donne, pronti a seguire le due figlie in Siria e parenti di diverso grado del marito albanese di una delle due), era relativa all’essersi associati tra loro e con altre persone, anche non identificate nella struttura terroristica sovranazionale denominata “stato islamico”. Il fenomeno analizzato ha riguardato, principalmente, la figura dei c.d. foreign terrorist fighters (FTF) e le dinamiche che sono alla base del loro reclutamento. Le indagini avevano sostanzialmente dimostrato la presenza di veri e propri disciplinari di comportamento e la sussistenza all’interno dell’organizzazione di diverse competenze (amministrative, religiose, scientifiche e tecniche), la creazione di una moneta da parte di quella che doveva essere considerata a tutti gli effetti un’entità terroristica, organizzata però alla stregua di uno Stato, che portava avanti un programma chiaro, e noto universalmente, al fine di sovvertire gli stati democratici. Ciò premesso, doveva essere ritenuta la piena riconoscibilità della presenza di un’associazione terroristica alla quale gli imputati si erano associati anche grazie all’ausilio di persone che, anche in Italia, svolgevano funzioni specifiche correlate all’associazione terroristica, come quelle di coordinatori e facilitatori, “senza che tuttavia fosse necessario intrattenere un rapporto diretto, ma anzi più spesso mediato da diversi soggetti con ruoli di intermediazione”, con i futuri foreign fighters, mentre era rilevata “la sufficienza del collegamento consapevole con uno degli snodi della rete terroristica”.

Nel definire il perimetro tipico della condotta di partecipazione, segnando con chiarezza il discrimine dalle pure adesioni intimistiche a precetti comportamentali e religiosi, la Corte ha chiarito che per raggiungere una definizione certa in tal senso non si può prescindere dalla nozione di terrorismo, postulato dal fatto tipico ed elemento normativo “specializzante” della fattispecie in esame. La definizione legislativa di terrorismo deve, dunque, essere rinvenuta nella disposizione di cui all’art. 270-sexies cod. pen., considerando che la disposizione in realtà “appresta tutela contro il programma che ne caratterizza la struttura e non contro l’idea sottostante e ispiratrice la spinta a delinquere anche nei casi in cui essa ideologia assuma i connotati tipici d’un motore esecutivo dell’azione deviante”. È fondamentale, tuttavia, che “l’idea, cui si collega la corrispondente ed eventuale manifestazione del pensiero, per assumere rilevanza penale, deve obiettivizzarsi in programmi o segmenti fattuali prodromici alla realizzazione di comportamenti violenti”.

L’idea si deve, dunque, accompagnare “a progetti concreti e attuali di violenza” che dovranno necessariamente essere riscontrati nella loro portata materiale dal giudice, nonostante la natura di reato di pericolo presunto dell’art. 270-bis cod. pen., e sebbene non sia necessaria la realizzazione dei singoli reati che diano una concretizzazione fenomenica al programma associativo stesso.

Richiamando le sentenze Nasr Osama, Meesaoudi e Bekay (Sez. 5, n. 2651 del 08/10/2015, dep. 2016, Nasr Osama, Rv. 265924 - 01, Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, Rv. 271645 - 01, 271646 - 01, 271647 - 01, Sez. 6, n. 14503 del 19/12/2017, dep. 2018, Messaoudi, Rv. 272730 - 01, 272731 - 01), la Prima sezione ribadisce il principio che richiede la ricorrenza di una sia pur elementare struttura, che abbia un minimo di effettività e idoneità a porre in essere i singoli fatti e atti di violenza con finalità di terrorismo, anche se non è richiesta la specifica programmazione dei singoli atti terroristici, sicché le azioni già poste in essere possono ben costituire elementi di prova del reato contestato. Anche in questa decisione (come nei precedenti citati, Bekay, Bouyahia, Nasr Osama, Chabchoub, Hosni) si chiarisce che l’indagine da effettuare per la verifica dei connotati di partecipazione deve concentrarsi “sulla rilevanza dell’apporto concreto alla struttura associativa”, “al fine di appurare, se e in che misura, il contributo offerto non sia limitato alla mera manifestazione del pensiero e si sia piuttosto risolto nell’adesione alla struttura attraverso la condivisione del metodo violento per la realizzazione degli scopi associativi”, nonché per la realizzazione di un contributo a “valenza causale rilevante ed efficiente a indurre la vita e la sopravvivenza” dell’associazione, “anche in termini di puro rafforzamento” della stessa. E tali caratteristiche sussistono anche nel caso di cellule a matrice islamica, caratterizzate da flessibilità interna e in grado di modularsi secondo le esigenze concrete, mediante adesione progressiva ed aperta anche transnazionale.

La Corte, ribadisce, quindi, il principio affermato dalla sentenza Bekay (Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, Rv. 271645 - 01, 271646 - 01, 271647 - 01), che ha evidenziato come la partecipazione ad un’associazione terroristica di ispirazione jihadista può manifestarsi anche attraverso modalità di adesione aperte e spontaneistiche “che non implicano l’accettazione da parte del gruppo, ma che comportano di fatto una inclusione progressiva dei partecipi”. La partecipazione si connota, dunque, nell’ermeneusi proposta, per apporti materiali idonei causalmente a rendere esistente la struttura e ad assicurarne la sopravvivenza, con “efficienza causale rispetto all’evento di pericolo che la costituzione dell’associazione e l’adesione del singolo concorrente inducono… e in tal senso la spiegazione causale assume, nello scrutinio oggettivo della fattispecie concorsuale un profilo determinante, poiché l’aggregazione diventa ex se evento giuridico, rilevante perché volto a realizzare un programma illecito con violenza e per finalità di terrorismo”. Tutto ciò, tuttavia, “non richiede formali accettazioni da parte del nucleo centrale, ammissioni, solenni o investiture che facciano del singolo un elemento noto al gruppo, percepito come tale da tutti gli altri aderenti”. In altri termini, si chiarisce che, avendo l’associazione di tipo terroristico conformazione a base orizzontale, in questo caso, può discostarsi dai modelli tradizionali che sono stati oggetto dell’esperienza giudiziaria e tradizionalmente legati al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., considerato che gli obiettivi da realizzare “non sono limitati territorialmente e si caratterizzano per la loro globalità, pervasività per imporre violenza in termini globali”. In tale ambito, come già affermato dalle precedenti decisioni, secondo la Corte il discrimine della stessa partecipazione è certamente dato dall’atteggiamento psicologico, e prima ancora, dall’estrinsecazione di comportamenti che assumano efficienza causale per la sopravvivenza del gruppo stesso, unito dall’apporto causale di contributi anche “isolati e unilateralmente offerti ad essa dai singoli aderenti che abbiano inteso compenetrarsi ad essa condividendone non solo gli scopi, ma i metodi di violenza attraverso cui essi devono essere realizzati”.

3.4. Il richiamo alla necessaria verifica degli elementi sintomatici della partecipazione all’associazione costituita a fine di terrorismo a matrice idologico religiosa.

Nella considerazione della complessiva ermeneusi della Corte di cassazione, volta a definire gli elementi caratterizzanti la condotta di partecipazione all’associazione ex art. 270-bis cod. pen. devono inoltre essere richiamate a fini di completezza altre decisioni.

Il tema della necessaria considerazione dell’atteggiarsi in concreto del comportamento degli associati emerge in Sez. 1, n. 51564 del 09/10/2018, Rahman, Rv. 274985 - 01, che ha affermato che la partecipazione al ISIS o a simili organizzazioni internazionali, rispondenti ad un modello “polverizzato” di articolazione, può essere desunta dall’individuazione appunto di “proiezioni concrete della condivisione ideologica delle finalità dell’associazione in cui si sostanzia la messa a disposizione del singolo verso l’associazione e si struttura il suo rapporto con il gruppo criminale”.

La Corte ha, quindi, affermato, tenuto conto del caso concreto (un cittadino straniero responsabile di un centro culturale islamico in Foggia, che aveva prestato assistenza ad un terrorista ceceno, lo aveva supportato nel rinnovo dei documenti, lo aveva ospitato, aveva condiviso con lo stesso il giuramento al califfato, aveva partecipato alla gestione di documentazione che invitava al Jihad, aveva condiviso sui social network link relativi all’emittente radiofonica Al Bayan, utilizzava il servizio telefonico justpaste ed era in possesso di video indirizzati all’addestramento e all’arruolamento) che “per cogliere i contenuti di condotta del vincolo partecipativo bisogna porre attenzione alla struttura associativa, perché soltanto il modo in cui essa si configura tratteggia il ruolo del partecipe”; in questo contesto, certamente, occorre attribuire, secondo il Collegio, una particolare rilevanza, indicativa della volontà di associarsi alla “chiamata individualizzata al Jihad”, che trova il proprio sbocco in una struttura fluida, che consente, dunque, la più ampia affiliazione e “non si qualifica per articolazioni organizzative statiche, ma facendo leva sull’intensità della cifra ideologica… da realizzare non già attraverso una pianificazione centralizzata di atti violenti, per mezzo di scelte autonome del singolo quanto all’individuazione del luogo e degli strumenti di commissione del fatto e alle vittime da colpire, qualificate soltanto dall’essere infedeli”.

Il giudice, secondo il Collegio, nel considerare tale caratterizzazione, deve sempre individuare un nucleo di fatto nell’attribuzione del disvalore penale della condotta di adesione e, quindi, di partecipazione. La decisione in esame ha richiamato i precedenti di legittimità Nasr Osama e Messaoudi ed ha individuato il legame concreto, richiamato dalla Messaoudi, nella detenzione di “materiale jihadista, di propaganda, di indottrinamento e arruolamento, acquisito da canali non accessibili da chiunque, ma soltanto da quanti sono in possesso delle chiavi di accesso”.

L’accesso a canali riservati, la disponibilità di chiavi informatiche, la capacità di navigare nel deep e dark web, secondo capacità di ricerca specifiche e complesse, a fini di indottrinamento e arruolamento, evidenziano quel nucleo di fatto sintomatico del pieno inserimento nell’associazione, che della propaganda sul web ha fatto un privilegiato strumento di azione, sicché è possibile affermare che “la partecipazione a tal tipo di associazione fa a meno di forme rituali di affiliazione, ma ciò non significa che non si possano individuare gli atti che segnano l’iniziale adesione al gruppo”, sicché “non è dunque necessario verificare se all’adesione abbia corrisposto un’accettazione ad opera dei vertici associativi, proprio perché, il ricorrente, come affermato dal giudice di merito ha aderito ad una sorta di proposta pubblica lanciata dall’Isis attraverso i canali mediatici di propaganda.”

Sez. 5, n. 1970 del 26/09/2018, dep. 2019, Halili, Rv. 276453 - 02, ha affermato che il delitto di partecipazione è integrato dalla condotta di chi, travalicando i confini della mera adesione interiore ed ideologica alla causa della “jihad”, per essa si attivi fattivamente, “seppur singolarmente”, non solo prodigandosi in un’opera di indottrinamento e proselitismo, ma realizzando, altresì, un’attività di autoaddestramento (c.d. lupo solitario), sia pure teorica, alla preparazione ed esecuzione di attentati terroristici, nonché intrattenendo contatti operativi con persone intranee al “network” internazionale del terrore. La Quinta sezione ha, anche in questo caso, considerato nota ed assodata l’esistenza dell’associazione terroristica Daesh, nonché la partecipazione concreta alla predetta associazione, espressione del c.d. stato islamico, dell’imputato, quanto ai gravi indizi di colpevolezza. Le censure dedotte si incentravano tutte sull’asserita assenza di contatti operativi con la struttura associativa, valorizzati come elemento essenziale secondo la difesa dalla Sez. 6, n. 14503 del 19/12/2017, dep. 2018, Messaoudi, Rv. 272730 - 01.

La Quinta sezione ha chiarito come il principio affermato dalla sentenza Messaoudi, debba essere letto considerando che, ai fini di una appropriata qualificazione delle condotte di partecipazione, l’associazione in questione si caratterizza per specifiche peculiarità, rappresentate da modelli “organizzativi ispirati a flessibilità, interna ed esterna, da una vocazione internazionale della lotta jihadista, e da una struttura reticolare non piramidale, in grado di mettere in relazione soggetti fisicamente anche molto distanti, legati da un comune progetto politico-militare e finalizzata alla commissione di singoli reati con finalità terroristica”. Richiamata, dunque, la tipica struttura cellulare o a rete delle associazioni con finalità di terrorismo internazionale come già descritte dalle sentenze Chabchoub e Bouyahia (Sez. 5, n. 31389 del 11/06/2008, Bouyahia, Rv. 241175 - 01, Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012, Chabchoub, Rv. 253943 -01), la Corte ha sottolineato come il concetto di contatto operativo debba essere valutato tenendo conto della caratteristiche di queste strutture, in grado di operare contemporaneamente in più paesi con contatti fisici, ma “soprattutto informatici e telematici”, anche discontinui o sporadici tra i vari gruppi presenti nella rete; condotte mediante le quali si realizza un effettivo supporto alla sopravvivenza dell’organizzazione attraverso proselitismo, reclutamento, diffusione di documenti di propaganda, nonché con il tramite indicazioni per fornire assistenza agli associati. Si ribadisce, quindi, al fine della configurazione della condotta di partecipazione, il principio affermato dalla sentenza Bekay (Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, Rv. 271645 - 01, 271646 - 01, 271647 - 01), rilevando la possibilità di adesione con formule spontaneistiche ed aperte.

Il tema della particolare diffusività dell’associazione terroristica Islamic State (IS), della sua dimensione spaziale globale, che si avvale di strutture dislocate in vari paesi, alla quale riferire nella sua materiale estrinsecazione la condotta di partecipazione di singoli o cellule protese alla realizzazione del Jihad è stato oggetto della decisione della Sez. 5, n. 10380 del 08/03/2019, Khoraichi, Rv. 277239 - 01, che ha affermato che la natura di associazione terroristica si ricava non solo dall’inclusione dell’organizzazione negli elenchi delle associazioni terroristiche stilati da organismi sovranazionali, ma anche dalla disamina in concreto del manifestarsi dell’organizzazione stessa alla stregua degli indici descrittivi e fattuali enucleati dall’art. 270-sexies cod. pen.

Il momento più rilevante della riflessione della Corte è rappresentato proprio dalla “riconoscibilità” del c.d. Stato Islamico come organizzazione terroristica, intesa nella sua dimensione spaziale e globale. Si richiama la necessità di una piena considerazione da parte del giudice dei diversi piani dell’indagine nella valutazione della condotta, ovvero:

- presenza riconosciuta dell’organizzazione terroristica internazionale;

- adesione, mediante condivisione dei valori radicali dell’islamismo combattente sia di singoli, che di cellule disponibili al Jihad e al combattere nei territori occupati dallo sedicente stato islamico;

- necessità per il giudice, tenuto conto delle caratteristiche e modalità con le quali si atteggia questa associazione (spontaneistiche e ad adesione progressiva), di valutare in concreto gli elementi sintomatici della partecipazione. L’elemento centrale di tale valutazione è rappresentato, come già evidenziato dalle altre sentenze citate, dalla scelta consapevole di aderire e partecipare ad una associazione caratterizzata dall’uso degli strumenti della violenza stragista per destabilizzare i pilastri di ordinamenti democratici e costituzionali. Anche in questa decisione vengono ampiamente richiamate le sentenze Chabchoub, Bouyahia, Nasr Osama e Bekay, e si ribadisce in particolare il principio affermato da Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, Rv. 271645 01, 271646 01, 271647 - 01.

Nel caso concreto è, dunque, stata riscontrata proprio la presenza di una cellula operativa ispirata alla condivisione e propaganda dell’ideologia estremista jihadista, con concreta disponibilità degli aderenti a compiere attentati sul territorio italiano ed estero, mediante condotte di addestramento e autoaddestramento caratterizzate dall’uso della violenza (Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, Rv. 271645 - 01, 271646 - 01, 271647 - 01, Sez. 5, n. 2651 del 08/10/2015, dep. 2016, Nasr Osama, Rv. 265924 - 01).

Sez. 1, n. 26633 del 19/02/2019, Brigande, affronta il tema della necessaria definizione del confine tra atti preparatori e condotta di partecipazione all’associazione terroristica. La Corte ha richiamato gli approdi univoci della giurisprudenza di legittimità, sottolineando che “l’affermazione di penale responsabilità dell’agente, a titolo di partecipazione, postuli la dimostrazione dell’effettivo inserimento del medesimo nella struttura organizzata, rivelata da condotte univocamente sintomatiche, le quali possono consistere, oltre che nell’assunzione di un ruolo operativo specifico nell’organigramma criminale, anche nello svolgimento di attività preparatorie rispetto all’esecuzione del programma”. Se, dunque, non è sufficiente l’adesione ad un’astratta ideologia, tuttavia si evidenzia che l’adesione ideologica diventa “elemento sintomatico di partecipazione”, quando riferendosi ad una struttura organizzata, come il c.d. stato islamico, si sostanzi in seri propositi criminali diretti alla realizzazione delle finalità dell’associazione. L’individuazione del contatto operativo, flebile, ma concreto con l’organizzazione (Sez. 6, n. 40348 del 23/02/2018, Afli Nafaa, Rv. 274217 - 02), emerge in presenza di “condotte univocamente sintomatiche”, che possono consistere anche “nel solo svolgimento di attività preparatorie”, attesa la natura di reato di pericolo presunto “a tutela anticipata” dell’art. 270-bis cod. pen. (preparativi concreti di trasferimento sul luogo teatro dell’azione terroristica, disponibilità prestata da soggetto militarmente attrezzato, reclutamento da parte di persona intranea e con ruolo di vertice nella associazione).

Infine, Sez. 1, n. 32566 del 03/11/2020, Caprioli, nel valutare il provvedimento del tribunale del riesame, relativo ad una contestazione ex art. 270-bis cod. pen. a carattere interno, anarchico e antagonista, ha richiamato esplicitamente i principi di Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, ritenendo sufficiente, ai fini della configurabilità del delitto in questione, in presenza di struttura organizzata, che la condotta di adesione ideologica del soggetto si sostanzi in seri propositi criminali volti a realizzare una delle finalità associative, senza che sia necessario, data la natura di reato di pericolo presunto, l’inizio della materiale esecuzione del programma criminale. La decisione ha, inoltre, affermato che per le associazioni di matrice anarchica occorre la costituzione di una cellula, o di un c.d. gruppo di affinità al quale risultino riconducibili le azioni delittuose poste in essere. Anche in questo caso, è stato ritenuto fondamentale il rilievo del riscontro in concreto della gemmazione di cellule anarchiche collegate alle finalità terroristiche oggetto di comune adesione all’ideologia anarchica, non potendo essere applicati schemi verticistici tipici delle ordinarie associazioni a delinquere.

4. L’evoluzione più recente della giurisprudenza: mera adesione psicologica e condotta di partecipazione, il necessario discrimine rispetto alle organizzazioni terroristiche interne, il rapporto “smaterializzato” con l’organizzazione “madre”.

Nel 2019 e 2020 la Corte di cassazione è tornata ad occuparsi ampiamente del tema della partecipazione all’associazione ex art. 270-bis cod. pen., per giungere ad un orientamento che si può ritenere consolidato quanto ai criteri di valutazione e identificazione della condotta di partecipazione.

In tal senso un primo e rilevante arresto è rappresentato da Sez. 2, n. 22163 del 21/02/2019, Antar, Rv. 276065 - 01, che ha chiarito che “integra il delitto di partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo internazionale ex art. 270-bis cod. pen., e non il delitto di istigazione a delinquere ex art. 414 cod. pen., la condotta di soggetti che, aperti sostenitori del c.d. stato islamico e rispondenti alla chiamata al jihad, abbiano posto in essere condotte strumentali al consolidamento ed al rafforzamento dell’organizzazione sia mediante atti di propaganda apologetica rilevanti sul piano della concreta incentivazione dell’adesione al progetto criminoso (nella specie, uso del “web” e dei “social media” con pubblicazione di video relativi a gravi attentati terroristici per divulgare la chiamata al jihad; partecipazione a gruppi chiusi di condivisione dell’ideologia jihadista; adesione espressa alla rivista “on line” “Dabiq News” che fornisce consigli sui bersagli da colpire in occidente, sulla fabbricazione di armi e sulle modalità di emigrazione verso i territori conquistati dal c.d. stato islamico), sia con condotte volte ad agevolare il reclutamento e l’autoradicalizzazione (nella specie, evidenziando la conoscenza ed i pregressi contatti con soggetti combattenti nelle zone di guerra e fornendo ausilio a chi intendeva unirsi alle milizie jihadiste), nonché il convogliamento di risorse economiche-finanziarie verso l’organizzazione di matrice islamica”. La Corte ha evidenziato in motivazione che al c.d. autoproclamato Stato Islamico deve essere riconosciuta la natura di vera e propria organizzazione terroristica, che realizza una minaccia globale e senza precedenti alla sicurezza internazionale. Indicativa, secondo il collegio, deve ritenersi la dinamica legislativa che ha portato all’introduzione della previsione dell’art. 270-sexies cod. pen, con la definizione degli atti compiuti per finalità di terrorismo. Anche in questo caso si è sottolineato come ricorra una “sostanziale impossibilità di automatica traslazione alla specificità del fenomeno jihadista dei collaudati canoni interpretativi elaborati in materia di criminalità organizzata e formazioni eversive interne”.

Ciò ha reso necessario, in presenza di una “siderale distanza” tra le esperienze associative criminali interne e il fenomeno jihadista, sottolineare le “criticità e frizioni di sistema” che si “frappongono alla mera trasposizione nel campo delle associazioni terroristiche di criteri ermeneutici elaborati con riferimento al modello criminale dell’associazione mafiosa che, quantunque tentacolare e pervasivo, resta ancorato ad una dimensione territoriale e ad una struttura organizzativa piramidale.. che consente di misurare la partecipazione secondo efficaci griglie interpretative”. È stata, dunque, considerata la vocazione statalista di questa diversa associazione, così come la pubblica professione delle proprie strategie stragiste, che non aggrega per cooptazione, ma in ragione dell’adesione ad una visione radicale ed integralista della religione mussulmana, per affermarne la “primazia in maniera violenta, anche a livello individuale”, per scardinare istituzioni e assetti politici antagonisti rispetto a tale ideologia. Tale modello criminale, per dimensioni e diffusività, non ha utili termini di comparazione in pregresse esperienze criminose internazionali. Proprio la specificità di questo fenomeno richiede che l’affiliazione e la partecipazione, nel rispetto del principio di offensività, debbano essere valutate tenendo conto proprio della particolarità del fenomeno, mediante considerazione dell’effettivo superamento della soglia di messa in pericolo dei beni tutelati dalla norma ex art. 270-bis cod. pen.

Nel definire la condotta di partecipazione il collegio ha richiamato approcci consolidati e condivisi della giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, n. 31389 del 11/06/2008, Bouyahia, Rv. 241174 - 01, 241175 - 01, Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012, Chahchoub, Rv. 253943 - 01) quanto all’integrazione del reato anche in caso di sodalizi connotati da strutture organizzative cellulari o a rete, mediante contatti sporadici ed anche telematici tra i vari gruppi in rete, considerata altresì la correlazione tra soggetti assimilati da un comune progetto politico-militare, bastando a tal fine la realizzazione anche di una sola delle condotte di supporto funzionale all’attività terroristica di associazioni riconosciute, come già evidenziato da Sez. 2, n. 38208, del 27/04/2018, Waqas.

Le caratteristiche del fenomeno jihadista, richiedono, comunque, il riscontro del raccordo del contributo del singolo all’entità associativa nella sua interezza, sia pure attraverso organizzazioni decentrate.

Richiamate le decisioni Sez. 6, n. 14503 del 19/12/2017, dep. 2018, Messaoudi, Rv. 272730 - 01, 272731 - 01 Sez. 6, n. 40348 del 23/02/2018, Afli Nafaa, Rv. 274217 - 02, Sez. 6, n. 51218 del 12/06/2018, El Khalfi, Rv. 274290 - 01, il Collegio ha chiarito che sebbene la sola adesione ideologica non possa essere ritenuta elemento giuridicamente sufficiente a dare la prova del ruolo di partecipe all’associazione, tuttavia occorre considerare come la chiamata alla lotta santa e al compimento del martirio “segna il momento in cui si instaura un legame qualificato tra il singolo e l’associazione, alla luce del quale vanno lette le condotte che il singolo pone in essere, richiamandosi ed utilizzandosi il patrimonio ideologico, culturale e di condivisione delle tecniche terroristiche, che costituisce il sostrato comune dell’associazione denominata ISIS”. L’interpretazione del collegio convalida e ribadisce il principio articolatamente espresso da Sez. 2, n. 38208, del 27/04/2018, Waqas.

Tenuto conto degli elementi concreti emersi, della diffusività delle attività poste in essere dagli imputati e della strumentalità di tali attività al consolidamento dell’attività terroristica, la Corte ha escluso la ricorrenza dell’art. 414 cod. pen., fattispecie di confine che delimita la condotta partecipativa dal basso, che disciplina nella sua duplice declinazione l’istigazione intesa quale sollecitazione all’insorgenza, ovvero al rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, nonché l’apologia, consistente nell’esaltazione di un singolo fatto criminoso al fine di determinarne l’emulazione. In altri termini, è apparsa assai rilevante la considerazione delle modalità concrete con le quali tali associazioni si manifestano e dei mezzi dalle stesse utilizzati, caratterizzati dall’assoluta centralità della rete internet e dei social media, destinati non solo alla propaganda, ma soprattutto al fine dell’effettivo reclutamento, oltre che dell’autoradicalizzazione, così condividendo istruzioni tecniche per atti di jihad individuale. Emerge, in sostanza, il rilevo cruciale, come elemento caratterizzante dell’associazione, della comunicazione e dell’esportazione globale del progetto terroristico.

Tenuto conto di queste caratteristiche, la riqualificazione dei fatti descritti in imputazione ai sensi dell’art. 414 cod. pen. è stata ritenuta riduttiva, essendo state svalutate condotte materiali estremamente significative (partecipazione a gruppi chiusi on line di condivisione dell’ideologia jihadista, promozione del sostegno finanziario al c.d. stato islamico, pubblicazione di materiale propagandistico, adesione a rivista on line che curava i problemi della emigrazione al fine di combattimento per l’associazione terroristica). Emergono, dunque, nella ricostruzione della seconda sezione “comportamenti che non si esauriscono nell’esaltazione dell’organizzazione terroristica e nell’invito ad aderirvi, ma proiettano l’azione nell’ambito della concreta attività di supporto al sodalizio”, tenuto conto in particolare “della valenza costitutiva del ricorso ai social media”.

La Corte richiama, a livello metodologico, la centralità della prova logica nell’accertamento della condotta di partecipazione e sottolinea la necessità di un “esame delle singole condotte criminose, ciascuna delle quali può non essere dimostrativa del vincolo associativo” per approdare ad una valutazione che deve essere necessariamente “complessiva e sinergica”. In tal senso, elemento di necessaria delimitazione delle condotte concretamente sanzionabili è rappresentato dalla previsione di cui all’art. 270-sexies cod. pen., con particolare considerazione del “contesto” nell’ambito del quale le condotte maturano.

In altre parole, emerge, anche in questo caso, una piena considerazione delle caratteristiche specifiche di quest’associazione e si pone particolare attenzione al fenomeno riscontrato della “smaterializzazione” della condotta. Non viene, quindi, richiesta una fenomenologia che incida necessariamente la realtà fisica, ma i fatti delittuosi si manifestano invece attraverso “pervasivi strumenti di manipolazione comunicativa”. In tal senso, a sostegno della ricostruzione effettuata dalla Seconda sezione, appare particolarmente rilevante il richiamo ad altre fattispecie che evidenziano come tale modalità di manifestazione del delitto non sia estranea al delitto penale (adescamento dei minori via internet, frode informatica, casi di condotte smaterializzate, ma di innegabile offensività).

I principi affermati dalla sentenza Antar sono stati pienamente ribaditi e condivisi da Sez. 2, n. 7808 del 27/02/2020, El Khalfi, Rv. 278680-01, Rv.278680- 02, che ha evidenziato, quanto alle caratteristiche delle associazioni internazionali costituite con finalità di terrorismo che Al Qaeda, proprio quale organizzazione terroristica, ha mutato la sua struttura tradizionale e si è evoluta in un “movimento di resistenza jihadista globale”, che si caratterizza più per il “metodo”, che per la “struttura”, attesa la sua funzione principale di guida ideologica e operativa per l’attuazione del “jihad”, che si esplica attraverso attività di propaganda e di radicalizzazione, alla quale si affianca un’attività di natura informativa e didattica per la concreta preparazione di attentati. Conseguentemente, si è affermato che Al Qaeda si pone come “casa madre” nei confronti delle singole cellule “figlie” aderenti al suo programma, “nonostante il rapporto tra le stesse sia del tutto smaterializzato”.

Nel caso analizzato dalla Seconda sezione, la Corte di assise d’appello, in sede di rinvio (a seguito di annullamento della Corte di cassazione), confermava la condanna dell’imputato per il delitto di cui all’art. 270-bis cod. pen. per essersi associato insieme a numerosi altri soggetti, costituendo una cellula estremista finalizzata al Jihad, cellula gerarchicamente organizzata - con scopo di supporto della associazione terroristica Al Qaeda - al fine di compiere atti di violenza con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico internazionale, anche mediante l’apertura di un sito web di matrice jihadista (“Ashaq Al Hur”, riconosciuto con l’acronimo “I7ur”), attivo nella propaganda, nell’arruolamento e addestramento. In particolare, all’imputato veniva riconosciuto il ruolo di vertice nella cellula, essendo stata riscontrata la sua attività di organizzazione, finanziamento, oltre al suo ruolo di membro attivo, quale coordinatore e moderatore di un forum esterno al fine di reclutare nuovi adepti.

Anche in questo caso, la questione involge il tema della definizione della condotta di partecipazione e l’ermeneusi sul punto proposta dalla Seconda sezione si caratterizza per ulteriori profili di riflessione rispetto ai temi già evidenziati. Si richiamano elementi molto rilevanti, al fine di giungere ad un inquadramento sistematico integrato dell’interpretazione della Corte di cassazione, a ciò giungendo mediante la considerazione progressiva di diversi punti, ovvero:

- le attuali caratteristiche strutturali di questo tipo di associazioni (nel caso di specie Al Qaeda);

- gli elementi identificativi della c.d. “messa a disposizione”, proprio avendo riguardo alle caratteristiche tipiche ed in continua evoluzione di queste organizzazioni, centrate principalmente su contatti telematici;

- i conseguenti rapporti tra cellule “figlie” e casa “madre”, con connotazione del relativo rapporto nel senso di una “smaterializzazione” dello stesso;

- il riscontro relativo alle forme di partecipazione e adesione informatizzata, le nuove tecniche di contatto e la creazione di effettive strutture telematiche collegate tra loro anche gerarchicamente;

- il metodo di valutazione della prova, per questo genere di reati, con particolare attenzione all’incidenza e rilevanza da una parte della prova logica, nel giungere ad una considerazione complessiva di diversi elementi acquisiti, e dall’altra all’art. 270-sexies cod. pen., considerato il ruolo descrittivo e indicativo della previsione in questione al fine di delimitare e individuare le diverse condotte rilevanti per ritenere provata la partecipazione all’associazione.

Si è, conseguentemente, affermato che Al Qaeda si pone come “casa madre” nei confronti delle singole cellule “figlie” aderenti al suo programma, nonostante il rapporto tra le stesse sia del tutto “smaterializzato”. Quest’affermazione della Corte si caratterizza per particolare significatività riconducendo a sistema, sintetizzandone gli elementi principali, quegli approdi ermeneutici che hanno da diversi punti di vista descritto le condotte di partecipazione e hanno sottolineato, come sopra evidenziato, la natura flessibile, a rete, orizzontale e cellulare di tale organizzazione, la transnazionalità, la loro estrema variabilità, seppure in presenza di una costante possibilità di contatti telematici.

Nell’analizzare la condotta contestata all’imputato - gestore e mediatore di un forum esterno volto al proselitismo e alla diffusione di elementi di conoscenza utili al fine di porre in essere condotte terroristiche (e, dunque, a realizzare i fini della associazione), nonché deputato all’inserimento di materiali propagandistici originali provenienti dal Al Qaeda, e dalla stessa inviati per il tramite dei c.d. “canali indipendenti”, in posizione di superiorità gerarchica nei confronti dell’imputato - la Corte ha affermato una serie di principi in tema di partecipazione, nonché circa i criteri di prova che devono guidare il giudice di merito nella sua valutazione.

In particolare, si è chiarito che l’organizzazione Al Qaeda si caratterizza per un “proselitismo di tipo informatizzato”, su base planetaria, “ad adesione aperta, anche se non indiscriminata”, per la diffusione del suo messaggio politico e religioso attraverso cellule “figlie”, che, aderendo al programma, svolgono un “ruolo del tutto strumentale” per la realizzazione del fine criminoso. Ne consegue che le cellule “figlie” consentono, concretamente, la più efficace forma di proselitismo - fornendo supporti didattici operativi quanto all’individuazione di obiettivi sensibili, utilizzazione di bombe o esplosivi, suggerimenti per rendere credibile il rischio di attentati - allo scopo di realizzare le finalità criminose dell’organizzazione. Si evidenzia in modo esplicito il “ruolo” servente e “strumentale” delle cellule “figlie” rispetto alla casa madre, ponendo particolare attenzione al mezzo che le caratterizza, ovvero la possibilità di un “proselitismo di tipo informatizzato su base planetaria”. Tale tipo di proselitismo è sintomatico dell’efficacia e portata incisiva dell’attività delle singole cellule figlie che, per il tramite di specifico materiale fornito dalla casa madre, mediante un progressivo inserimento dell’aderente in contesti e meccanismi di controllo e fidelizzazione, rende esponenziale le potenzialità dell’associazione e la possibilità di rendere effettiva la realizzazione di condotte che ne concretizzino i fini.

Chiarendo, inoltre, il concetto di “messa a disposizione” nell’ambito delle associazioni con finalità di terrorismo, con particolare riferimento a quella a matrice ideologico religiosa, il collegio propone un’ermeneusi volta a precisare e connotare precipuamente, al fine del reale rispetto del principio di offensività, i comportamenti significativi di chi decide di aderire e poi partecipare attivamente all’associazione.

Le conclusioni raggiunte dalla Seconda sezione hanno una particolare rilevanza, tenuto conto dei principi affermati dalla sentenza Messaoudi, che ha richiamato, come sopra evidenziato, la necessità di un contatto diretto, sia pur flebile, con la casa madre per poter ritenere l’effettiva partecipazione all’associazione ex art. 270-bis cod. pen. anche in osservanza dei criteri di cui alla Sez. U. Mannino (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231673 -01). La Corte ha tenuto conto delle diversità oggettive tra le condotte caratterizzanti i due fenomeni associativi. Nel tentativo di ricondurre, dunque, la condotta in un alveo più tipicamente riferibile alle associazioni con finalità di terrorismo internazionale, il Collegio ha affermato che la “messa a disposizione”, intesa come assenso preventivo ed incondizionato a prestare la propria attività nell’interesse dell’associazione, presenta caratteristiche del tutto peculiari da riferire, da una parte, all’adesione all’appello volto ad attuare la dottrina propugnata da Al Qaeda, usufruendo degli strumenti operativi e didattici forniti dall’organizzazione, dall’altra, all’attuazione di questo programma “anche solo per via telematica”, mediante collegamenti internet, partecipazioni a forum, con successivi momenti di indottrinamento e adesione di ulteriori adepti per attuare i fini della associazione stessa.

Ricorre, dunque, un’effettiva messa a disposizione da una parte aderendo all’appello della dottrina propugnata da Al Qaeda, volta alla realizzazione del jihad (proprio mediante gli strumenti didattici e operativi che sono fatti circolare, con garanzia di autenticità, dalla casa madre), dall’altra si resta a disposizione non solo essendo disponibili direttamente ad atti di tipo terroristico, ma anche ponendo in essere la costellazione di condotte che caratterizza questa modalità, nuova, evoluta, e costantemente in contatto a livello transnazionale, di condotta illecita. Il passaggio argomentativo vale, dunque, ad introdurre e specificare il tema di come effettivamente si possa articolare il necessario contatto tra aderente e casa madre, al fine di valutare la partecipazione.

E tale valutazione non può prescindere dai connotati specifici del nuovo mondo, delle innovative tecnologie, che caratterizzano questi contesti, sicché si può ritenere effettivamente possibile l’attuazione del programma dell’organizzazione anche solo per via telematica, proprio perché le condotte poste in essere determinano una sostanziale e costante influenza al fine di preparare i singoli all’attuazione degli obiettivi della stessa associazione. Proprio in considerazione di queste premesse, il Collegio ha osservato, conformemente agli orientamenti costanti della Corte sopra richiamati, che la mera adesione ideologica alla dottrina integralista islamica non è elemento sufficiente ad integrare la prova del ruolo di partecipe alla stessa, non potendosi prescindere dalla necessità di raccordare il contributo individuale del singolo con l’entità associativa, occorrendo, tuttavia, al fine di riscontrare un’effettiva partecipazione, “una meditata analisi delle concrete caratteristiche dell’associazione e dei comportamenti dei singoli, onde coglierne la specifica portata incriminante”. Dunque, nel valutare la portata della singola condotta, sempre ritenuta l’insufficienza della mera adesione ideologica nel rispetto di diritti fondamentali tutelati dall’art. 21 della Cost., la Corte ha chiarito che occorre raggiungere necessariamente una visione d’insieme, una considerazione di contesto del contributo individuale, rispetto alle caratteristiche dell’associazione.

In questo senso, analizzando il caso concreto, è stata condivisa la ricostruzione effettuata dalla Corte di assise di appello, in sede di rinvio, che ha ritenuto provata la partecipazione quanto alla condotta tenuta dall’imputato che (insieme ad altri soggetti, anche con ruoli diversi), mediante un collegamento “strutturale e biunivoco” con la casa madre Al Qaeda - collegamento realizzato attraverso soggetti accreditati e in posizione di superiorità gerarchica, incaricati della distribuzione del materiale propagandistico, mediante i c.d. “canali indipendenti” Al - Fajr e GIMF, garanti dell’autenticità del materiale stesso, ulteriormente diffuso mediante diversi forum di discussione interna, quali al - Fidaa, As - Ansar e al - Shumuk - gestiva un forum esterno, denominato “I7ur” con rigida selezione e controllo per la partecipazione di nuovi adepti ed inserimento di post dal contenuto inequivoco a sostegno dell’organizzazione terroristica provenienti dai predetti “canali indipendenti”, al fine di realizzare il programma di diffusione della stessa all’esterno.

La Seconda sezione ha ritenuto che il giudice abbia correttamente e complessivamente risposto alle censure che avevano determinato l’annullamento con rinvio e, nel richiamare gli elementi oggetto di valutazione, ha evidenziato la ricorrenza di una “vera e propria struttura verticistica e organizzata, con compiti e competenze specifiche, nella gestione del più potenziale mezzo di proselitismo, ovvero la diffusione informatizzata del messaggio, delle istruzioni, dei mezzi e possibilità con le quali realizzare gli obiettivi della stessa”.

In tal senso, è stata ritenuta adeguatamente e correttamente riscontrata la presenza di un collegamento “strutturale e biunivoco” tra la casa madre e la cellula costituita dall’imputato e da altri soggetti nella gestione di un potente strumento di proselitismo, rappresentato da un forum esterno.

È stata considerata la presenza di una serie di elementi significativi, ovvero i diversi livelli dell’organizzazione, la particolare incidenza della sua struttura interna, caratterizzata da passaggi di materiale e competenze specifiche e in particolare: - in primo luogo la gestione da parte della casa “madre” del materiale originale a finalità di proselitismo, apologetiche e di propaganda, nonché del materiale didattico e di istruzione per la commissione di delitti collegati al programma dell’organizzazione; - produzione, gestione e trasmissione di materiale che viene riferito a strutture organizzate e articolate denominate “canali indipendenti”(sempre informatizzati), con la precipua funzione di produrre materiali di propaganda al fine di proselitismo e acquisizione di nuovi adepti, materiali che sono, con sistema specifico, garantiti quanto alla loro autenticità di provenienza e origine; - la successiva strutturazione e realizzazione di forum interni, ristretti e non accessibili dall’esterno (sostanzialmente ad accesso riservato e quasi sommersi), per la diffusione del materiale predetto e la formazione di adepti, con la configurazione per i gestori di ruoli sostanzialmente dirigenziali e funzione organizzativa dell’associazione, mediante una rigida selezione e verifica di affidabilità degli stessi; - la creazione, allo scopo di consolidare i rapporti e la formazione del personale poi destinato a diversi ruoli, anche esterni, di forum interni per la diffusione del materiale originale e autentico nel modo più pervasivo possibile; - la successiva creazione di forum esterni gestiti da soggetti, come l’imputato, in posizione di vertice, con ruolo di controllo e gestione per raggiungere il maggior numero possibile di proseliti, verificarne attività e affidabilità, fornire con l’inserimento di materiali propagandistici autentici indicazioni e strumenti per la realizzazione di attentati.

Tale considerazione complessiva e sinergica delle diverse condotte poste in essere descrive in modo puntuale e aderente la realtà, il collegamento, diretto, seppur flebile, tra colui che partecipa effettivamente e la casa “madre”. Tale collegamento non può essere considerato esclusivamente come collegamento fisico, ma anzi deve essere compreso in relazione al nuovo “metodo” dell’associazione, centrata sulla attività a carattere telematico, alla quale consegue quella che viene definita l’oggettiva “smaterializzazione” del contributo.

La Corte precisa come la “smaterializzazione” del contributo, le sue diverse caratteristiche, comunque indicative della partecipazione del singolo ai fini dell’associazione, debba essere correttamente inteso.

Richiama, in tal senso, quanto già affermato da Sez. 2, n. 22163 del 21/02/2019, PG c/ Antar Hakim Moustafa, Rv. 276065 - 01, sul tema della smaterializzazione del contributo del partecipe, in caso di associazione ex art. 270-bis cod. pen., ed afferma, ribadendo i principi ivi affermati, come non si possa ritenere che la condotta che si caratterizzi per propaganda, apologia, e proselitismo sconti un deficit di materialità che possa far ritenere la stessa come “destrutturata” ed “inidonea a varcare la soglia della punibilità”, atteso che dette attività ideologiche non si risolvono in una semplice manifestazione di opinioni, che i partecipanti si scambiano per misurare i termini del reciproco consenso o dissenso, ma devono invece essere ritenute manifestazioni inequivoche da parte di “aggregazioni virtuali che, sulla base della manipolazione comunicativa, hanno creato emulazione, indirizzato il consenso, incitato alla violenza, rafforzandone - tramite capillare divulgazione, il proposito criminoso propagandato.”

Il collegio condivide, quindi, l’affermazione precedente della Sez. 2, n. 22163 del 21/02/2019, PG c/ Antar Hakim Moustafa, Rv. 276065 - 01, secondo la quale la “smaterializzazione”, intesa quale mero deficit di ricaduta nel mondo fisico degli effetti della condotta, e non quale illecito esaurito dalla sola volizione, costituisce il portato di modalità di estrinsecazione dei fatti delittuosi che non postulano necessariamente una fenomenologia che incida la realtà fisica, ma la veicolano attraverso pervasivi strumenti di manipolazione comunicativa.

Ci si trova, dunque, di fronte a condotte che trovano nel “mezzo telematico” lo “strumento elettivo” di esecuzione, con correlativa configurazione di condotte illecite la cui manifestazione è di per sé smaterializzata, ma pur tuttavia con specifica e incontestabile offensività in ragione della lesione arrecata ai beni giuridici protetti.

Condivisa l’interpretazione che, pur a fronte di una smaterializzazione della condotta, ne riscontra comunque un’effettiva offensività, il collegio sottolinea come lo stesso sistema penale in generale non ignori condotte partecipative che prescindono da un apporto materiale all’illecito, e in tal senso richiama il concorso di persone nel reato, ravvisabile anche in presenza di un contributo agevolatore che abbia reso più facile la consumazione del reato, che può atteggiarsi come mera partecipazione morale, di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso già esistente o di sostegno psicologico alla altrui attività.

Quanto al caso concreto, la decisione considera una serie di condotte che non si esauriscono nella mera esaltazione ideologica dell’organizzazione terroristica (e nell’invito ad aderirvi), ma che invece proiettano l’azione della struttura periferica in un progetto più ampio, finalizzato alla realizzazione dell’atto terroristico finale, in una prospettiva di supporto al sodalizio “madre”, sul presupposto della condivisione degli obiettivi indicati. Ricorre in questi casi una vera e propria adesione, che travalica il sostegno “morale” all’ideologia jihadista per “sfociare nella consapevole volontà di condividerne operativamente, a qualsiasi costo, gli obiettivi”. In tal senso, la valutazione non può che far leva, secondo il collegio, sul dolo specifico proprio della fattispecie ex art. 270-bis cod. pen., da valorizzare al fine della più efficace tipizzazione delle condotte, tenendo conto del rapporto strumentale di mezzo a fine che qualifica il rapporto tra i singoli atti partecipativi e lo scopo tipico. In questa prospettiva, è stata ritenuta decisiva la “valenza costituiva del ricorso ai social media”, così come la funzionalità delle condotte apologetiche, informative e propagandistiche in relazione all’incentivazione, in modo potenzialmente illimitato, di adesioni al progetto criminoso, dell’agevolazione, del reclutamento e dell’auto - radicalizzazione, nonché del finanziamento della stessa casa madre.

Infine, occorre richiamare l’indicazione che il collegio fornisce in tema di valutazione della prova, conferendo particolare rilievo al tema della prova logica (di fatto in senso a sua volta conforme a quanto affermato in proposito della sentenza Antar). Si è in tal senso richiamata la centralità della prova logica, mediante esame delle singole condotte (ciascuna della quali può non essere dimostrativa del vincolo associativo), nonché tramite la valutazione della consistenza di ciascun elemento acquisito, così da giungere ad una considerazione complessiva e sinergica quanto alla riconducibilità delle stesse all’alveo della partecipazione. In tale ambito, l’art. 270-sexies cod. pen. dà rilievo, mediante il riferimento al “contesto” di realizzazione delle stesse, alle condotte concretamente sanzionabili, con un richiamo che agisce “in funzione di ampliamento della disposizione incriminatrice”, nonché di perimetrazione della stessa, al fine di riscontrare l’effettiva messa in pericolo del bene protetto, sicché il contributo individuale deve essere valutato nella concreta interazione di tutte le forze finalizzate all’evento. Infine, occorre ricordare che la Corte ha precisato che, conseguentemente, ricorre il pericolo del “grave danno” anche quando questo non dipenda solo dall’azione individuale considerata, ma sia piuttosto il “frutto dell’innesto della stessa in una più ampia serie causale, non necessariamente controllata dall’agente, fermo restando che questi deve rappresentarsi e volere tale interazione.” -

4.1. La condotta di partecipazione, adesione ideologica supportata da seri propositi criminali, la natura di reato di pericolo presunto dell’art. 270-bis cod. pen.

Sempre la Seconda sezione (Sez. 2, n. 14704 del 22/04/2020, Bekaj, Rv. 279408 - 02, Rv. 279408 - 03, Rv. 279408- 04) nell’ultimo anno, è tornata sul tema della condotta integrante partecipazione all’associazione ex art. 270-bis cod. pen., affermando rilevanti principi di diritto, che valgono a consolidare in senso uniforme, l’interpretazione progressivamente avanzata anche in ordine alla prova della stessa. L’opzione ermeneutica proposta dal Collegio ha chiarito che, ai fini della configurabilità del delitto di partecipazione ad un’associazione con finalità di terrorismo, anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico, di cui all’art. 270-bis cod. pen., è sufficiente in presenza di una struttura organizzata, che la condotta di adesione ideologica del soggetto si sostanzi in seri propositi criminali volti a realizzare una delle finalità associative, senza che sia necessaria, data la natura di reato di pericolo presunto, l’inizio della materiale esecuzione del programma criminale. La Corte ha, inoltre, affermato che ai fini del riconoscimento della natura terroristica di una cellula periferica dell’organizzazione denominata ISIS “non è necessario che la stessa si caratterizzi con le medesime modalità proprie della struttura centrale” attraverso la predisposizione di un preciso piano di attacchi terroristici, poiché è proprio l’ISIS, ovvero il c.d. autoproclamato stato islamico, nella sua espressione politico territoriale, la struttura in relazione alla quale devono essere valutati i caratteri organizzativi e la consistenza del programma alla cui attuazione i sodali, singolarmente o in gruppo, si propongono di prestare ausilio sulla base della condivisione degli scopi.

Anche in questo caso, si propone, in senso conforme alle altre sentenze richiamate, il tema della necessaria considerazione dei caratteri della associazione madre, come primo punto di analisi, per valutare poi la condotta di partecipazione, caratterizzata da fluidità, spontaneità, adesione progressiva, anche da parte di singoli, per giungere, infine, ad una valutazione della stessa sulla base di una considerazione di insieme dei molteplici dati concreti emersi, al fine di riscontrare l’effettivo pericolo di danno sancito dalla definizione di cui all’art. 270-sexies cod. pen. La Corte, nel rigettare i ricorsi degli imputati, ha:

- richiamato la natura di reato di pericolo presunto del delitto di cui all’art. 270-bis cod. pen. (Sez. 1, n. 35427 del 21/06/2005, Drissi, Rv. 232280 -01, Sez. 2, n. 24994 del 25/05/2006, Bouhrama, Rv. 234345-01, Sez. 5, n. 2651 del 08/10/2015, dep. 2016, Nasr Osama, Rv. 265924 - 01);

- ribadito l’impossibilità di una “automatica traslazione alla specificità del fenomeno jihadista dei collaudati canoni interpretativi elaborati in materia di criminalità organizzata e formazioni eversive interne in considerazione della radicale distanza che separa le esperienze criminali nazionali dalla latitudine globale e del tutto peculiare del terrorismo di matrice islamica”, poiché ciò determinerebbe evidenti criticità ermeneutiche e frizioni di sistema, ed evidenti torsioni interpretative, considerata la portata del fenomeno criminale in questione che “reclama la natura di stato universalista includente tutti i mussulmani che delle proprie strategie violente fa pubblica professione”;

- ha ribadito la piena condivisibilità dei principi costantemente affermati dalla Corte di legittimità quanto alla struttura spontaneistica e ad adesione progressiva dell’associazione “in grado di rimodularsi secondo le pratiche esigenze che di volta in volta si presentano, in condizione di operare anche contemporaneamente in più stati, ovvero anche in tempi diversi, con contatti fisici, telefonici o comunque a distanza tra gli adepti, anche connotati da marcata sporadicità, considerato che i soggetti possono essere arruolati di volta in volta con una sorta di adesione progressiva ed entrano, comunque a far parte di una struttura associativa saldamente costituita”;

- ha ribadito in senso conforme i principi affermati dalle sentenze della Sez. 5, n. 31389 del 11/06/2008, Bouyahia, Rv. 241174 -01, 241175 -01, Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012,

Chabchoub, Rv. 253943 - 01, nonché, sottolineandone la particolare portata, di Sez. 2, n. 38208, del 27/04/2018, Waqas, nel senso della capacità espansiva orizzontale e versatilità del fenomeno terroristico in questione, sebbene sempre valutato mediante la considerazione della “necessità di raccordare il contributo dell’agente all’entità associativa nella sua interezza, sia pure attraverso articolazioni decentrate” (Sez. 6, n. 40348 del 23/02/2018, Afli Nafaa, Rv. 274217 - 02, Sez. 6, n. 14503 del 19/12/2017, dep. 2018, Messaoudi, Rv. 272730 - 01, 272731 - 01, Sez. 6, n. 51218 del 12/06/2018, El Khalfi, Rv. 274290 - 01);

- ha ribadito, nel considerare tale raccordo, la portata significativa della risposta alla chiamata alla lotta santa e al jihad, come “il momento in cui si instaura un legame qualificato tra il singolo e l’associazione, alla luce del quale vanno lette le condotte che il singolo pone in essere, richiamando ed utilizzando il patrimonio ideologico, culturale e di condivisione delle tecniche terroristiche, che costituisce il sostrato comune dell’associazione denominata ISIS” (nello stesso senso di Sez. 2, n. 38208, del 27/04/2018, Waqas);

- ha sottolineato come il discrimine con l’adesione ideologica e il concreto contributo causale deve essere dunque “individuato in relazione alle specifiche vicende indagate, tenendo conto della c.d. notorietà bilaterale, quale concreto indice del raccordo dell’azione del singolo a quello della rete organizzativa ISIS”, che si manifesta con “carattere necessariamente flessibile e multiforme ed è compatibile anche con comportamenti di esteriorizzazione ed attualizzazione (secondo il parametro della offensività in concreto) di percorsi individuali di radicalizzazione e non postula di necessità una militanza consacrata dalla conoscenza e consapevolezza dei vertici associativi”, con ciò allineandosi ai principi già espressi da Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, Rv. 271645 - 01, 271646 - 01, 271647 - 01, Sez. 2, n. 38208, del 27/04/2018, Waqas, Sez. 2, n. 22163 del 21/02/2019, PG c/ Antar Hakim Moustafa, Rv. 276065 - 01, Sez. 2, n. 7808 del 27/02/2020, El Khalfi, Rv. 278680-01, Rv. 278680- 02, ma anche da Sez. 1, n. 26633 del 19/02/2019, Brigande, Sez. 1, n. 51564 del 09/10/2018, Rahman, Rv. 274985 - 01, Sez. 5, n. 1970 del 26/09/2018, dep. 2019, Halili, Rv. 276453 - 02, Sez. 5, n. 10380 del 08/03/2019, Khoraichi, Rv. 277239 - 01);

- ha analizzato in senso conforme alla giurisprudenza sopra citata la portata del giuramento al califfo, quale “atto individuale che viaggia sulla rete attraverso gruppi chiusi o chat clandestine senza alcun recepimento formale o investitura da parte degli esponenti apicali dell’associazione, soliti alla generale sollecitazione al martirio e alla rivendicazione postuma delle associazioni terroristiche”.

Nel considerare la decisione di appello, la Corte ha affermato come i giudici si siano attenuti ai principi enunciati e condivisi dal collegio, valutando con rigore, congiuntamente e complessivamente, le condotte tenute dagli imputati e l’estrema significatività delle stesse anche alla luce dei complessivi strumenti internazionali apprestati per la lotta al terrorismo. Valutato il contesto nel quale maturavano le condotte degli imputati, il Collegio, nel richiamare il processo conoscitivo che deve caratterizzare l’attività del giudice e dell’interprete a fronte di reati di pericolo, ne ha sottolineato la natura “squisitamente prognostica e non già diagnostica”, ribadendo come non si possa condividere la tesi proposta dalla difesa secondo la quale dovrebbe essere inserito nella struttura del delitto “l’elemento non previsto dell’inizio dell’esecuzione dell’attività”, mentre “in presenza di una struttura organizzata, cui l’indagato partecipi, è sufficiente, per configurare il delitto in esame, che l’adesione ideologica si sostanzi in seri propositi criminali, volti a realizzare una delle indicate finalità, pur senza la loro materiale iniziale esecuzione, che supererebbe il limite tipico del pericolo presunto”.

In altri termini, il collegio chiarisce come non possano essere accolte obiezioni che tendano a sovrapporre al “giudizio prognostico di pericolo proprio delle fattispecie a tutela anticipata i principi della causalità materiale, richiedendo per l’integrazione della fattispecie in esame non la concreta attitudine lesiva delle condotte ascritte secondo una proiezione probabilistica, sebbene la specifica incidenza lesiva sul bene tutelato propria dei delitti d’evento”. Dall’insieme degli elementi valutati è, infatti, emersa un’attività degli imputati che non si era limitata alla mera espressione e condivisione di posizioni ideologiche, sebbene a carattere estremo; difatti, si riscontrava, con plurime attività di indagine, una militanza adesiva al programma criminoso di Daesh, autoaddestrandosi in gruppo e studiando le modalità da seguire per la commissione di azioni cruente già poste in essere da militanti islamici al fine di replicarle, procacciandosi a tal fine armi e finanziando l’organizzazione madre, elementi questi che secondo il collegio “sconfinando dalle fattispecie di apologia, integrano gli estremi costitutivi d’ordine materiale e psicologico propri della partecipazione alla fattispecie contestata”.

Anche in questo caso è stata, dunque, affermata, sulla base della considerazione sinergica ed unitaria di una serie di elementi concreti, la ricorrenza di un contributo utile al mantenimento, alla realizzazione al rafforzamento degli scopi del sodalizio, sempre con riferimento al ruolo fondamentale della rete internet e dei social media, volti ad agevolare il reclutamento e l’auto-radicalizzazione al fine dell’esportazione globale delle finalità dell’associazione terroristica, come dimostra la “creazione di un apposito consiglio dei media che sviluppa la produzione propagandistica del califfato e la sua diffusione tramite social network”.

Gli stessi principi risultano espressi da Sez. 1, n. 31344 del 06/10/2020, Abo Robeih Tarif. Nell’accogliere il ricorso proposto dal Procuratore generale, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza della Corte di assise di appello di Catanzaro che aveva assolto l’Abo dall’imputazione ascritta ex art. 270-bis cod. pen. perché il fatto non sussiste. La Corte di assise d’appello aveva escluso che ricorresse la condotta contestata poiché l’attività contestata all’imputato si era limitata, a parere del giudice di merito, alla mera acquisizione di informazioni di contenuto bellico, senza compiere un vero e proprio addestramento militare, senza esprimere opinioni che evidenziassero il proprio orientamento a commettere atti di matrice terroristica. La prima sezione richiamati fatti concreti oggetto di contestazione, emersi oggettivamente nel corso del giudizio di merito (indagini avviata sui cellulari in possesso dell’imputato dopo il suo sbarco clandestino sulle coste calabresi a bordo di un’imbarcazione proveniente dalla Turchia, contestazione allo stesso del ruolo di scafista, contiguità con ambienti dell’estremismo islamico con particolare riferimento all’organizzazione Jabbat Al Nusra, acquisizione di consistente quantità di materiale telematico, ripostato su facebook, richiamo in captazioni della scelta adesiva alla lotta jihiadista, rinvenimento di materiale audiovisivo funzionale all’addestramento bellico) affermava l’inserimento della fattispecie contestata in un ambito sistematico articolato e fondato su identità di ratio con riferimento anche alle condotte illecite sanzionate dall’art. 270-quinquies, 302, 304, 414 cod. pen.

Ribadito come principio cardine della materia, nella considerazione dell’imprescindibile collegamento tra art. 270-bis e 270-sexies cod. pen., quanto affermato da Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, Rv. 271645 - 01, 271646 - 01, 271647 - 01, nel senso della sufficienza, in presenza di una struttura organizzata, che la condotta di adesione ideologica del soggetto si sostanzi in “seri propositi criminali volti a realizzare una delle finalità associative, senza che sia necessario data la natura di reato di pericolo presunto, l’inizio della materiale esecuzione del programma criminale”, la Corte ha precisato che ciò che assume rilievo decisivo è “la natura violenta delle condotte, espressiva di un metodo antidemocratico”.

Tale precisazione trova il proprio riscontro nell’art. 49 della Cost., norma di riferimento per la disciplina dei diritti associativi, che di fatto consente e sancisce la possibilità, l’aspirazione dei singoli al mutamento degli assetti istituzionali di uno Stato, ma solo ove si concorra democraticamente a determinare la politica nazionale. La Prima sezione, dunque, individua in tale disciplina il limite esterno alla configurazione dei delitti contro la personalità dello Stato. In tal senso vengono richiamati, quanto alla libertà di credo religioso e di associazione, gli art. 18 e 19 della Cost., che si ritengono superati e lesi dalle condotte che, come quella terroristica, utilizzino la violenza come propria cifra identificativa al fine di far valere i propri obiettivi. È, quindi, necessario tenere conto di tali dati nel valutare gli elementi emersi in giudizio, considerando la natura di reati di pericolo concreto delle fattispecie connotate da finalità terroristiche. Il collegio ha, quindi, affermato che in presenza di un’organizzazione centrale, riconosciuta come tale a carattere terroristico (Sez. 2, n. 14704 del 22/04/2020, Bekaj, Rv. 279408 -01), i comportamenti del singolo devono essere valutati complessivamente ed unitariamente nella loro portata concreta. La Corte ha, in particolare, osservato che le carenze motivazionali erano da riferire precipuamente alla mancata considerazione non solo delle condotte materiali poste in essere dall’imputato, ma anche dal notevole e continuato utilizzo di strumenti telematici, che il giudice di merito non aveva considerato quanto alla portata diffusiva di tali numerosissimi messaggi, inviati su svariate piattaforme telematiche. Comportamenti questi che, avvicinati alle attività di reclutamento tradizionale poste in essere dall’imputato, potevano effettivamente configurare una lesione dei beni giuridici protetti dall’art. 270-bis cod. pen. È stato in tal senso ribadito il principio affermato da Sez. 2, n. 7808 del 27/02/2020, El Khalfi, Rv. 278680-01, Rv.278680-02, quanto alle modalità di adesione e partecipazione a tali associazioni, caratterizzata da forme aperte “anche se non indiscriminate, realizzata con modalità informatizzata su base planetaria, propugnando la diffusione del credo religioso e politico attraverso cellule figlie, che aderendo al programma, svolgono, sia pure attraverso un rapporto del tutto dematerializzato con l’organizzazione madre un ruolo strumentale per la realizzazione del fine criminoso, consentendone da un lato l più efficace forma di proselitismo e dall’altro fornendo i supporti didattici operativi per la realizzazione delle finalità dell’organizzazione”.

Il mero richiamo da parte della Corte di assise di appello all’utilizzo di mezzi telematici per escludere la rilevanza penale della condotta posta in essere dall’imputato non è, dunque, stata ritenuta giuridicamente corretta dalla Prima sezione, proprio in considerazione del principio di diritto sopra richiamato, secondo il quale la partecipazione alla consorteria jihadista non richiede forme particolari, potendo il reclutamento essere effettivamente realizzato anche attraverso la rete telematica, mediante il semplice incitamento dei potenziali affiliati (Sez. 2, n. 7808 del 27/02/2020, El Khalfi, Rv. 278680-01, Rv.278680-02). Secondo il collegio avrebbe dovuto essere, comunque, considerata anche una eventuale portata apologetica di tali condotte, ove si fosse effettivamente esclusa una condotta di partecipazione.

5. L’arruolamento passivo: è sufficiente la dimostrazione dell’incondizionata disponibilità al compimento di atti terroristici?

Sul tema dell’arruolamento passivo per finalità di terrorismo, anche internazionale, disciplinato dall’art. 270-quater cod. pen. è da segnalare Sez. 2, n. 23168 del 14/03/2019, Jrad, Rv. 276425 - 01, che, in consapevole contrasto con precedente orientamento, ha affermato che ai fini dell’integrazione del delitto di arruolamento passivo con finalità di terrorismo anche internazionale, di cui all’art. 270-quater, comma secondo, cod. pen., “non è necessaria la prova di un serio accordo” con l’associazione (nella specie, Al Qaeda), ma è sufficiente la dimostrazione della concreta ed incondizionata disponibilità del neo arruolato al compimento di atti terroristici, anche a progettazione individuale, funzionali al raggiungimento degli scopi eversivi di matrice jihadista propagandati dall’organizzazione criminale. In motivazione, la Corte ha precisato che, nella fattispecie in esame, la condotta si caratterizza per la sua connotazione “individuale” ed in quanto l’adesione alla richiesta di arruolamento proveniente dalla rete terroristica non presuppone la prova della sua accettazione da parte della stessa, mentre si verte nella differente ipotesi di cui all’art. 270-bis cod. pen. nel caso in cui il soggetto rivesta un preciso ruolo nell’organigramma dell’associazione terroristica, centrale o delocalizzata che sia, e, dunque, sussista la prova di un contatto operativo, anche flessibile ma concreto, tra il singolo e l’organizzazione che, in tal modo, abbia consapevolezza, anche indiretta, dell’adesione da parte del soggetto agente.

Tale previsione normativa, come noto, caratterizzata dalla clausola di riserva (“chiunque al di fuori dei casi di cui all’art. 270-bis cod. pen.”), sanziona la condotta di coloro, che operando sul suolo italiano, arruolano persone destinate a svolgere attività delittuose specificamente indicate dalla norma. La caratteristica di questa previsione è quella di incriminare tutte le condotte volte a finalità di terrorismo, ancor prima della partecipazione all’associazione ex art. 270-bis cod. pen. (sabotaggio di servizi pubblici essenziali con finalità di terrorismo anche se rivolti contro uno stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale).

La norma, introdotta dall’art. 15 del d.l. n. 144 del 2005 è volta a contrastare esplicitamente il fenomeno del terrorismo di matrice jihadista al fine di colpire chi recluta combattenti da inviare in campi di addestramento in paesi stranieri. Sez. 1, n. 49728 del 16/04/2018, Sergio Marianna, nel delineare i confini tra 270-bis e 270-quater cod. pen. ha richiamato la rilevante portata della clausola di riserva posta dal legislatore (con l’introduzione dell’art. 15, comma 1, del d.l. 27/07/2005 n. 144, conv. nella l. 31/07/2005, n. 155 e art. 1, comma 2, del d.l. 18/02/2015, n. 2 conv. nella l. 17/04/2015, n. 43), evidenziando che tali fattispecie hanno portata residuale e si caratterizzano per una “tipicità ristretta” rispetto al delitto di partecipazione ad associazione di tipo terroristico. Le attività di arruolamento e di organizzazione di trasferimenti con finalità di terrorismo possono, dunque, essere poste in essere solo quando non ricorra l’adesione alla struttura centrale nei termini sopra richiamati, mentre qualora tali attività siano realizzate da soggetti già incardinati nella struttura terroristica le condotte risulteranno assorbite nella fattispecie ex art. 270-bis cod. pen., “concorrendo ad integrare segmenti del fatto tipico che contraddistingue il modello di incriminazione”.

Il principio affermato su questo tema da Sez. 2, n. 23168 del 14/03/2019, Jrad, Rv. 276425 - 01 si pone in consapevole difformità rispetto al principio di diritto in precedenza espresso da Sez. 1, n. 40699 del 09/09/2015, PM c. Elezi, Rv. 264719 -01 (di recente in senso conforme anche Sez. 6, n. 23828 del 07/05/2019, Veapi Ajhan, Rv. 276724 - 02), secondo la quale la nozione di “arruolamento” è equiparabile a quella di “ingaggio”, per esso intendendosi il raggiungimento di un serio accordo tra soggetto che propone il compimento, in forma organizzata, di più atti di violenza ovvero di sabotaggio con finalità di terrorismo e soggetto che aderisce. Sostanzialmente, si era mutuata la considerazione del concetto di arruolamento quale ingaggio di armati, evidenziando come tale condotta fosse connessa ad una sorta di inserimento del soggetto in una struttura militare, regolare o irregolare, che implichi un rapporto gerarchico fra comandanti e subordinati, come già parte della dottrina aveva osservato, richiamando anche interpretazioni relative alle previsioni di cui agli artt. 244 e 288 cod. pen. Con l’art. 1 del d.l. n. 7 del 2015 è stato disposto che anche la persona arruolata è punita.

La Seconda sezione, nell’affermare il principio sopra riportato, ha voluto segnatamente marcare la distanza tra la fattispecie in esame e quella ex art. 270-bis cod. pen., giungendo ad rigetto del ricorso proposto avverso la sentenza della Corte di appello, che aveva ritenuto la piena prova della ricorrenza del delitto contestato a prescindere dalla prova effettiva del serio accordo tra arruolato e arruolante, non essendo emersa, a parere del giudice di merito, esclusivamente la volontà di condividere l’ideologia della rete integralista facente capo ad Al Qaeda e la sua disponibilità a fiancheggiarla, a prescindere dall’identificazione del soggetto arruolante.

Si afferma, dunque, che è sufficiente la prova dell’integrale disponibilità al compimento di tutte le azioni necessarie al raggiungimento degli scopi eversivi propagandati da Al Qaeda, caratterizzata dalla “costante tensione verso l’arruolamento di individui che condividono il progetto eversivo di matrice jihadista”. Richiamata, quindi, anche la normativa internazionale di riferimento (risoluzione adottata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite n. 2178/2014), si è sottolineato come una finalità tipica perseguita dalla risoluzione è quella di incidere in modo efficace rispetto al movimento di individui sospetti, prevedendo così condotte di reato riferibili a tipici atti preparatori, quale quello del viaggio al fine di partecipare o commettere atti terroristici, che, appunto, precedono la commissione di un atto terroristico. L’arruolamento si deve, dunque, caratterizzare perché finalizzato al compimento di atti violenti caratterizzati dalla finalità di terrorismo, per come identificate dalla disposizione di cui all’art. 270-sexies cod. pen. Il Collegio ha evidenziato che la previsione amplia di molto il perimetro delle condotte rilevanti in quanto caratterizzate da finalità di terrorismo, al fine di “contrastare l’incessante assorbimento nella rete terroristica di individui che si rendono disponibili alla consumazione di atti stragisti, non necessariamente progettati e delegati dagli organi dell’associazione centrale, ma spesso ideati e realizzati isolatamente dall’arruolato, che li percepisce come un necessario tributo alla causa jihadista e alla militanza nella rete facente capo ad Al Qaeda”. In tal senso si è osservato che ciò che caratterizza la condotta di arruolamento, sanzionata dal comma secondo del cod. pen., “è pertanto la incondizionata messa disposizione dell’arruolato per la commissione di atti funzionali al raggiungimento degli obiettivi della jihad”.

Il segno distintivo della condotta sanzionata è identificato nella sua “connotazione individuale”, che lo distingue in modo netto dalla consapevole condotta di partecipazione, che presuppone un collegamento, seppur indiretto e flebile con l’associazione principale. (Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, Rv. 271645 - 01, 271646 - 01, 271647 - 01, Sez. 6, n. 40348 del 23/02/2018, Afli Nafaa, Rv. 274217 - 02, Sez. 6, n. 14503 del 19/12/2017, dep. 2018, Messaoudi, Rv. 272730 - 01, 272731 - 01). Anche in questo caso, un elemento di specificazione rilevante è rappresentato dall’osservazione per cui “per meglio inquadrare la condotta di arruolamento deve essere chiarito che la richiesta di adesione proveniente da Al Qaeda o dalle sue cellule delocalizzate non è assimilabile alle proposte di reclutamento che provengono da associazioni criminali classiche”. Tale associazione si caratterizza, infatti, per la sua capacità di accrescimento con modalità liquide, “attraverso una richiesta di adesione, diffusa in modo globale e capillare, per lo più attraverso canali telematici”. Il collegio sottolinea, infatti, la particolare portata del mezzo telematico, la diffusività del messaggio inviato a persone che, senza necessità di raggiungere un serio accordo, sono tuttavia disponibili a compiere atti a finalità terroristica, sebbene ancora non siano da ritenere associati e partecipi all’associazione terroristica madre. Se si ragionasse in termini diversi, si giungerebbe, a parere del collegio, ad un’impropria sovrapposizione tra la condotta a portata residuale dell’art. 270-quater cod. pen. e la condotta di partecipazione all’associazione ex art. 270-bis cod. pen., limitando le finalità del legislatore volte all’ampliamento dell’area del penalmente rilevante rispetto a condotte che, appunto, non integrano la partecipazione all’associazione terroristica, con ciò realizzando quella particolare discrezionalità del legislatore nell’individuazione delle condotte alle quali collegare sia una presunzione assoluta di pericolo, sia della soglia di pericolosità alla quale fare riferimento, purché non risultino arbitrarie o irrazionali, come evidenziato già dalla Corte cost. con la sentenza n. 333 del 1991.

Il collegio ha in tal senso evidenziato che la stessa relazione illustrativa, quanto alla previsione in questione, chiarisce la portata e l’ambito applicativo dell’art. 270-quater (obbedienza anche a prescindere dall’assunzione di un ruolo funzionale, anche al fine di partire e raggiungere i luoghi ove si consumano le azioni terroristiche). Una previsione che tende, dunque, a reprimere principalmente la dimensione individuale della condotta, da considerare sempre in modo compatibile e rispettoso del principio di offensività, rilevando non la mera condivisione dell’ideologia jihadista, quanto la concreta disponibilità a compiere atti con finalità terroristica. La “disponibilità ad impegnarsi in concreto nella consumazione di atti con finalità terroristica”.

Come già accennato in precedenza, Sez. 6, n. 23828 del 07/05/2019, Veapi Ajhan, Rv. 276724 - 02, si è espressa in senso difforme, ribadendo invece il principio enunciato da Sez. 1, n. 40699 del 09/09/2015, PM c. Elezi, Rv. 264719 - 01, secondo il quale “In tema di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale, la nozione di “arruolamento” è equiparabile a quella di “ingaggio”, per esso intendendosi il raggiungimento di un serio accordo tra soggetto che propone il compimento, in forma organizzata, di più atti di violenza ovvero di sabotaggio con finalità di terrorismo e soggetto che aderisce.”

La Sesta sezione, affrontando un caso particolare, ovvero quello del concorso di un terzo nell’attività di arruolamento in considerazione della sua particolare funzione (nel caso di specie quale consigliere del centro islamico di Pordenone), ha annullato con rinvio la decisione della Corte d’assise di appello che aveva condannato l’imputato per il delitto di cui agli art. 110 e 270-quater, comma primo, cod. pen. Nel rilevare, sostanzialmente, una carenza motivazionale quanto al ruolo svolto dall’imputato e all’effettivo riscontro dell’apporto causalmente efficiente all’attività di arruolamento sulla base delle emergenze processuali, la Sesta sezione ha fornito delle indicazioni rilevanti nel delimitare l’area di operatività della previsione ex art. 270-quater cod. pen.

Richiamata la clausola di riserva rispetto all’art. 270-bis cod. pen., si è considerata la ratio della disposizione volta ad ampliare l’area di azione della tutela penale, in quanto destinata a colpire condotte con finalità di terrorismo anche internazionale commesse in Italia da soggetti che non risultano aderenti ad un’associazione ex art. 270-bis cod. pen., così come la finalità di evitare che in presenza di condotte di arruolamento che non espongano a pericolo lo Stato italiano, possano rimanere senza pena coloro che tuttavia svolgono materialmente tale azione, senza integrare gli estremi dei reati di cui all’art. 244 e 288 cod. pen., né quello di reclutamento di cui all’art. 4 della legge n. 210 del 1995.

Analizzando la disposizione oggetto di contestazione, il collegio ha osservato che il legislatore della novella ha inteso distinguere la condotta di arruolamento da quella di reclutamento, e proprio per questo è necessario definirne i contorni applicativi. In tal senso si è affermato che “ l’attività di reclutamento, cui fa riferimento il citato preesistente art. 4 della l. n. 210 del 1995 è configurabile laddove, non solo sia stata raggiunta un’intesa per l’inserimento in una struttura militare o paramilitare di un soggetto disponibile al compimento delle relative operazioni ivi descritte, ma vi sia stato anche l’inquadramento, una presa di servizio del reclutato nella struttura militare”, mentre “l’arruolamento deve ritenersi fondatamente indicare qualcosa di meno, cioè solo il mero raggiungimento di un accordo finalizzato all’inserimento di tale soggetto nella struttura militare terroristica: reato, dunque configurabile, prescindendo dall’effettivo successivo inserimento dell’arruolato in quella struttura”.

Fatta questa premessa, si rileva come occorra, comunque, che il bene giuridico protetto sia concretamente messo in pericolo, ed è per questo che solo in presenza del raggiungimento di “un serio accordo tra il soggetto che propone il compimento, in forma organizzata, di più atti di violenza ovvero il sabotaggio con finalità di terrorismo e il soggetto che aderisce all’intesa” si può ritenere integrata quella soglia di pericolosità che caratterizza la previsione penale, in mancanza della quale sarebbe al massimo possibile giungere all’applicazione di una misura di sicurezza ex art. 115 cod. pen. È rilevante, in tal senso, la considerazione di tale disposizione come “reato di evento a forma libera”, che richiede, per la sua configurazione, che si realizzi un risultato ben tipizzato, senza che, tuttavia, siano state indicate specificamente le modalità di produzione.

Nel passare all’analisi del caso concreto, ovvero la possibilità del concorso di un terzo nel delitto in esame, la Corte ha precisato come solo con il d.l. n. 7 del 2015, con l’introduzione del secondo comma dell’art. 270-quater cod. pen., è stata prevista la responsabilità penale del soggetto arruolato (al fine di far rientrare nell’alveo della previsione penale anche le condotte pericolose di soggetti, come i foreign fighters, che avessero aderito all’accordo di arruolamento senza essere parte dell’associazione terroristica), sicché prima della data di entrata in vigore della predetta previsione “una responsabilità a titolo di concorso morale o materiale è ipotizzabile solamente con riferimento alla condotta tipica del solo arruolatore”. Ciò posto, il collegio ha richiamato analiticamente la funzione del concorso di persone nel reato ed ha precisato che, occorrendo in questi casi che la condotta del terzo non diretto arruolatore o arruolato sia “legata in maniera strumentale alla condotta degli altri agenti che ne hanno tratto vantaggio o beneficio”, è possibile che del delitto di cui all’art. 270-quater cod. pen. sia chiamato a rispondere non solo colui che è parte diretta del serio accordo di ingaggio, ma anche colui che, pur “non potendo essere tecnicamente qualificato come arruolatore o arruolato, pone in essere una condotta consapevole e volontaria, che si inserisce in maniera funzionalmente strumentale nella trama complessiva del fatto di cui gli altri concorrenti traggono vantaggio o beneficio e che, perciò, può considerarsi anch’essa causa di quell’evento”. La decisione è stata, dunque, annullata con rinvio occorrendo chiarire e definire quale fosse stato effettivamente il ruolo che nella vicenda aveva avuto il ricorrente.

6. Art. 270-quinquies cod. pen., gli elementi caratterizzanti le due figure di addestratore e informatore.

Sez. 1, n. 7898 del 12/12/2019, dep. 27/02/2020, Hamil Mehdi, Rv. 278499 - 02, Rv. 278499 -03, Rv. 278499 -04, ha affrontato il tema dell’addestramento con finalità di terrorismo, anche internazionale, annullando con rinvio la sentenza della Corte di assise e rilevando una carenza motivazionale quanto ad una mancata o inadeguata considerazione di una serie di comunicazioni telefoniche, nonché quanto alla mancata verifica di credibilità soggettiva di uno dei testimoni.

Come è noto, si è a lungo discusso, anche in dottrina, circa la portata delle condotte incriminate, ovvero l’addestrare o il fornire istruzioni per la preparazione o uso di esplosivi o varie armi e sostanze chimiche. In tal senso, si è rilevato come la norma non fornisca un reale chiarimento sulla specifica definizione dell’ambito delle due condotte. Si è, infatti, sostenuto che una differenza potrebbe risiedere nel fatto che nell’addestramento vi sarebbe un contatto fra il soggetto che trasmette le istruzioni e il soggetto che le riceve, consentendo, dunque, un’interazione tra i due soggetti, mentre nel secondo caso chi fornisce istruzioni non entrerebbe in rapporto diretto con chi le acquisisce, incentrandosi l’elemento caratterizzante di questa fattispecie nella diffusione a soggetti indeterminati delle istruzioni (sebbene si sia chiarito da parte della dottrina che tali istruzioni per ricoprire effettiva offensività dovrebbero pur sempre fornire un evidente insegnamento, con consegna di un bagaglio di conoscenze tecniche altrimenti non disponibili non integranti una mera manifestazione ideologica).

Le modifiche introdotte con la l. n. 43 del 2015, ovvero la previsione dell’aggravante della diffusione per addestrare o istruire perché commessa con mezzi telematici e la punibilità dell’addestrato, chiariscono la particolare rilevanza attribuita dal legislatore a tali condotte prodromiche. Emerge la possibilità che la condotta sia diretta verso un destinatario indeterminato, prendendo, dunque, atto della diffusività e portata del mezzo telematico, sicché anche l’autodidatta, che ha acquisito autonomamente le informazioni per compiere atti di cui all’art. 270-sexies cod. pen. rientra nell’ambito della disciplina, sempre che ricorrano elementi materiali esterni e riscontrati.

Nel caso concreto oggetto di imputazione all’imputato era stato contestato nel periodo intercorrente tra il luglio 2015 e gennaio 2016 di aver posto in essere, mediante una serie di contatti con ambienti del terrorismo islamico, attività finalizzata ad acquisire addestramento militare, nonché a compiere atti di terrorismo nell’ambito dell’organizzazione denominata ISIS. L’imputato veniva segnalato dalla Questura di Roma una volta rientrato dalla Turchia, dove non gli era stato consentito l’ingresso nel paese per motivi di sicurezza pubblica. Ne conseguivano una serie di accertamenti, sui dispositivi mobili, oltre che quanto ai numerosi accessi a diverse reti telematiche. In sostanza, si documentava la continua consultazione da parte dell’Hamil di documentazione riferibile all’attività dell’Isis; venivano anche accertati collegamenti tra il ricorrente e settori contigui al radicalismo islamico, ai quali conseguiva anche l’esplicita adesione del Hamil al jihad e ai principi dell’integralismo islamico durante la sua detenzione. La violenza e determinazione dell’imputato rispetto alla commissione di atti con finalità di terrorismo veniva segnalata da alcuni detenuti nello stesso carcere in cui lo stesso si trovava ad essere stato detenuto, oltre che riscontrata da una serie di captazioni con i suoi familiari in sede di colloquio. Si riteneva quindi che l’Hamil non avesse semplicemente acquisito informazioni di contenuto bellico, avendo invece proceduto ad un vero addestramento militare e a programmare viaggi per recarsi all’estero a combattere, proposito che non si realizzava solo a causa del respingimento da parte della Turchia.

La Corte, richiamata la portata dell’art. 270-quinquies, da leggere congiuntamente all’art. 270-sexies cod. pen., ha osservato che quello che assume rilievo decisivo al fine della loro rilevanza penale è la “natura violenta” delle loro condotte, espressiva di un “metodo antidemocratico”.

L’elemento caratterizzante dell’art. 270-quinquies cod. pen., ovvero il suo essere un reato di pericolo concreto, che sanziona atti prodromici al compimento di condotte connotate da finalità terroristiche, richiede la “certezza del superamento della soglia minima di punibilità richiesta dalla norma incriminatrice, che deve essere acquisita sulla base delle emergenze del caso concreto; accertamento questo che presuppone la corretta individuazione delle finalità terroristiche perseguite dal soggetto attivo del reato e non può mai essere disgiunto da precisi parametri soggettivi, ancorati al dolo specifico richiesto dalla fattispecie in esame”. Il Collegio ha, quindi, sottolineato la valenza altamente sintomatica degli elementi acquisiti, ma ha ritenuto non adeguatamente valutati con la motivazione da parte della Corte di assise di appello gli altri elementi materiali che avrebbero carattere indicativo del superamento della soglia di punibilità minima richiesta (valutazione delle chiamate con utenze turche, quanto ai titolari delle stesse e al loro ruolo, nonché quanto alle dichiarazioni di testimone che riferiva della concreta diffusione durante la carcerazione da parte del Hamil di idee riconducibili all’estremismo jihadista). Anche in questo caso, così come per la considerazione della condotta di partecipazione nell’art. 270-bis cod. pen., si evidenzia l’opzione ermeneutica della Corte che richiede la ricorrenza di comportamenti significativi, concretamente riscontrabili, quanto alle finalità di terrorismo perseguite con l’attività di addestramento.

In tale contesto Sez. 1, n. 15089 del 06/03/2019, Campione, Rv. 276390 - 01, ha affermato che “le due figure soggettive dell’addestratore e dell’informatore si differenziano per la diversa qualità e intensità delle condotte, entrambe divulgative e implicanti l’esistenza di destinatari, in quanto solo la prima si connota di una idoneità formativa, che mira all’obiettivo di far acquisire non solo istruzioni e notizie tecniche, specie d’ordine bellico e militare, quanto di realizzare, in coloro che si giovano dell’addestramento, la capacità di porre in essere le condotte di tipo terroristico; l’informatore, invece, si limita a trasmettere istruzioni tecniche, senza curarsi se il destinatario sia nelle condizioni di recepirle, elaborarle e quindi sfruttarle in azioni di tipo terroristico.”. Richiamando i principi già affermati da Sez. 1, n. 38220 del 12/07/2011, Korchi, Rv. 251363 - 01, la Corte ha chiarito come l’addestratore abbia il fine di far acquisire idoneità complessiva, di tipo sostanzialmente professionale, mentre l’informatore si limita a trasmettere istruzioni tecniche, senza curarsi se il destinatario sia nelle condizioni di recepirle, elaborarle e sfruttarle in azioni di tipo terroristico. Il momento di reale discrimine tra le due condotte è, dunque, rappresentato, piuttosto che da relazioni qualificate docente/discente, dai “contenuti dell’attività con cui si diffondono conoscenze”.

In sostanza, l’interpretazione della Prima sezione chiarisce che la diversità qualitativa dell’impegno divulgativo caratterizza il diverso atteggiarsi delle relazioni con i fruitori della divulgazione, e proprio per ciò - considerato che l’addestramento implica una vera e propria interazione tra addestratore e addestrato, una costanza di impegno alla quale deve corrispondere la disponibilità alla ricezione non episodica delle nozioni, che invece manca nell’informato, che si caratterizza quale mero occasionale percettore di informazioni al di fuori di un rapporto, sia pure informale di apprendimento che è stata introdotta la previsione di punibilità della sola persona addestrata e non anche della persona informata, atteso il ruolo meramente passivo dello stesso, la occasionalità della sua condotta, che si traduce in un giudizio di irrilevanza penale. Nel caso concreto, la Corte ha ritenuto correttamente qualificata la condotta dell’imputato Campione quale condotta informativa, a seguito di suo autonomo auto-addestramento (all’epoca non punibile), mediante divulgazione di documenti inneggianti alla c.d. lotta santa, tradotti dall’arabo in italiano, trasmissione ad un numero indeterminato di persone della rivista Inspire, contenente l’istruzione sull’uso di armi ed esplosivi, così come l’enciclopedia della jihad, contenente a sua volta istruzioni dettagliate per la costruzione di ordigni, con allegazione anche di una serie di link che evidenziavano un insieme di regole utili per l’aspirante mujaheddin. Proprio tali condotte, relative alla diffusione di notizie di ordine tecnico su come comporre e usare ami e ordigni, costituiscono l’oggetto specifico ed esclusivo delle condotte informative, oltre che per un indottrinamento di ispirazione jihadista, ideologico e di tipo integralista, che nell’ambito di una costruzione di una “visione pesudo-religiosa in cui l’affermazione di fede passa ad una concezione violenta del rapporto con l’altro che, in quanto non appartenente allo stesso credo, diviene per ciò solo nemico e testimone di infedeltà”.

In tal senso indicativi l’espressione della volontà del Campione di affermare i precetti integralisti islamici mediante atti di violenza sui civili occidentali e di terrorismo, l’esaltazione della violenza contro i civili, l’indicazione del martirio quale azione di lotta violenza verso gli infedeli. Tali elementi sono stati ritenuti indicativi dell’attività di indottrinamento che caratterizza il progetto formativo in questo dato contesto terroristico. Si è, quindi, condiviso il principio espresso da Sez. 6, n. 29670 del 20/07/2011, Garouan, Rv. 250517-01, secondo la quale l’addestramento si realizza sia attraverso dimostrazioni pratiche, sia attraverso dimostrazioni teoriche, alternate a letture o prediche sul valore religioso del martirio e sui vantaggi post mortem, completando così un’opera di totale condizionamento mentale. Il principio risulta confermato anche dalla più recente Sez. 5, n. 22066 del 06/07/2020, Barhoumi, Rv.279595 - 02, che ha affermato che “ai fini della configurabilità del reato di addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale, commesso dalla persona che abbia acquisito autonomamente informazioni strumentali al compimento di atti con la suddetta finalità, è comunque necessario che il soggetto agente ponga in essere comportamenti significativi sul piano materiale, univocamente diretti alla commissione delle condotte di cui all’art. 270-sexies cod. pen., senza limitarsi ad una mera attività di raccolta di dati informativi o a manifestare le proprie scelte ideologiche”

La Corte, nel rigettare il ricorso dell’imputato, ha ritenuto configurabile in sede cautelare il reato di cui all’art. 270-quinquies cod. pen. sulla base di molteplici indici fattuali concreti, tra i quali sono stati ritenuti estremamente significativi il possesso da parte dell’imputato di video ed immagini riconducibili alla propaganda terroristica per il c.d. stato islamico, o illustrativi di tecniche per la preparazione di ordigni esplosivi, scaricati con elevata frequenza nell’arco di un significativo periodo di tempo, nonché di appunti manoscritti riproducenti la celebrazione di simboli e delle pratiche terroristiche dell’ ISIS e in cui l’indagato si proclamava “servo di allah” votato al martirio, la partecipazione a chat di gruppo e canali di propaganda jihadista, creati in diversi territori a livello internazionale, nei quali venivano manifestati propositi terroristici e di esaltazione del martirio e della guerra santa contro gli infedeli, il rinvenimento all’interno della sua abitazione di materiale destinato alla fabbricazione di un ordigno rudimentale. La necessità di un’effettiva realizzazione da parte dell’agente di comportamenti significativi e strumentali per il compimento delle attività di cui all’art. 270-sexies cod. pen. è stata considerata come correttamente valutata in sede cautelare, non ricorrendo nel caso in esame una mera raccolta di dati informativi o una mera manifestazione delle proprie scelte ideologiche (Sez. 5, n. 6061 del 19/07/2016, Hamil, Rv. 269501 - 01, Sez. 1, n. 7898 del 12/12/2019, dep. 2020, Hamil, Rv. 2784099 - 04). In questo senso la Corte ha ritenuto altamente sintomatico l’aver il Barhoumi scaricato numerosi video che illustravano le modalità per la costruzione di bombe, una sorta di manuale con oltre 200 consigli per sfuggire ai controlli, anche telematici e disarmare l’avversario, per commettere azioni violente, anche da kamikaze, decisamente univoche rispetto alla commissione di condotte terroristiche, oltre alla rilevanza di una serie di manoscritti riferibili al ricorrente nella quale lo stesso manifestava senza alcuna incertezza la propria volontà di immolarsi per la guerra santa, i numerosi contatti telefonici e soprattutto telematici tenuti a livello internazionale, partecipando a gruppi di propaganda radicalizzata per finalità jihadiste, che indicavano anche possibili obiettivi dell’azione violenta in Italia.

7. L’attività di apologia.

Come già evidenziato dai precedenti contributi su questo tema, la giurisprudenza di legittimità ha, in diverse occasioni, ribadito il principio per cui per aversi apologia non è sufficiente la mera esternazione di un giudizio positivo su un episodio criminoso, pur nella sua oggettiva riprovevolezza, ma occorre che per il suo contenuto intrinseco, per le condizioni dell’autore e per le circostanze in cui si presenta, il comportamento del soggetto agente deve determinare il rischio concreto della consumazione di altri reati, sostanzialmente lesivi degli stessi interessi offesi e lesi dal crimine esaltato (Sez. 1, n. 8779 del 05/05/1999, Oste, Rv. 214645 -01, nello stesso senso di recente Sez. 6, n. 31562 del 18/04/2019, PG c. Di Marco, Rv. 276468 - 01 e, quanto all’art. 302 cod. pen. proprio con riferimento all’art. 270-bis cod. pen. Sez. 2, n. 51942 del 16/11/2018, Messaoudi, Rv. 275551 - 01). Nessun dubbio circa la possibilità di riferire l’apologia anche a reati associativi come l’art. 270-bis cod. pen., soprattutto ove si consideri la potenzialità del mezzo telematico, che, come evidenziato precedentemente, è ormai ritenuto dalla giurisprudenza costante un elemento che caratterizza questo tipo di condotta, proprio per l’alta esposizione a rischio che determina rispetto al bene della sicurezza pubblica tutelato da queste previsioni.

In questo senso si è espressa di recente Sez. 5, n. 1970 del 26/09/2018, dep. 16/01/2019, Halili, Rv. 276453 - 01, che ha appunto affermato che integra il reato di apologia di delitti di terrorismo, previsto dall’art. 414, comma quarto, cod. pen., la diffusione di documenti di contenuto apologetico - nella specie consistenti in tre “playlist” inneggianti al martirio per il c.d. stato islamico (IS), alle attività terroristiche dell’Isis ed alla figura del suo portavoce Al Adnani - mediante il loro inserimento sulla piattaforma internet denominata “Soundcloud”, in considerazione sia della natura di organizzazioni terroristiche, rilevanti ai sensi dell’art. 270-bis cod. pen., delle consorterie di ispirazione jihadista operanti su scala internazionale, sia della potenzialità diffusiva indefinita di tale modalità comunicativa.

Anche in questo caso la motivazione della sentenza si pone in linea di continuità con la giurisprudenza della Corte nel ricostruire le caratteristiche dell’associazione a delinquere ex art. 270-bis cod. pen., quando siano caratterizzate da finalità di terrorismo internazionale, nella specie di matrice ideologico-religiosa. Si richiamano le sentenze Bouhrama, Chabchoub, Bouyahia e Bekay (2017), sottolineando sia la rilevanza dell’associazione in sé come associazione terroristica, che le modalità spontaneistiche ed aperte di adesione.

Quanto alla posizione del ricorrente, la Corte nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha rilevato l’esauriente valutazione in sede cautelare dei molteplici elementi indiziari a carico dello stesso per il delitto contestato, ad esito di una lunga indagine caratterizzata principalmente dalla captazione di colloqui telefonici e flussi telematici di notevole consistenza. Di fatto, il ricorrente era inoltre stato sottoposto a misura cautelare sempre per condotte di propaganda terroristica nel 2015 per le quali era stata applicata ex art. 444 cod. proc. pen. la pena di due anni di reclusione. Dall’insieme dei comportamenti tenuti dallo stesso successivamente, emergevano costanti contatti con soggetti intranei alla rete terroristica, e, dopo aver reperito e assimilato in modo sistematico materiale propagandistico del c.d. stato islamico, ha, a parere della Corte travalicato i confini della mera adesione interiore ed ideologica per un’attivazione fattiva in favore della causa jihadista, prodigandosi in attività di indottrinamento di diversi soggetti e diffondendo la “teoria della complicità”, per giustificare la direzione degli atti terroristici verso i cittadini civili degli stati ritenuti nemici, anche mediante traduzione in italiano dei contenuti dogmatici ed interattivi ricevuti da canali qualificati e riferibili al c.d. stato islamico, così come in una attività di addestramento teorico, alla preparazione ed esecuzione di attentati terroristici, mediante l’accesso al canale segreto Ahwaal Ummat, così dimostrata la ricorrenza di veri e propri contatti operativi con la struttura reticolare dell’associazione terroristica (tattiche del terrore, sequestro di ostaggi, modalità per procurarsi armi e istruzioni per colpire gli obiettivi nei modi più diversi). Ancora rilevanti, in tal senso, è stata ritenuta la ricorrenza di contatti operativi con la casa madre e la consultazione del canale ufficiale di informazione dello stato islamico “muslim prisoners”. In conclusione, si è escluso che tale attività rappresentasse una mera consultazione ideologica di materiale propagandistico, “in quanto i contenuti, immediatamente operativi, denotano la natura di vero e proprio addestramento alla jihad e alle tattiche militari del lupo solitario”.

La stessa pluralità di condotte, con portata del tutto idonea a suscitare partecipazione ad organizzazioni terroristiche di matrice islamica radicale emerge anche, quale elemento qualificante del delitto ex art. 414 cod. pen. dalla ampia motivazione, descrittiva delle condotte in tal senso rilevanti, realizzata da Sez. 1, n. 41628 del 15/04/2019, El Hanaoui. Anche in questo caso, le attività svolte in forma telematica dall’imputato erano assolutamente rilevanti, ed organizzate proprio per sostenere le finalità dell’associazione terroristica riferibile al c.d. stato islamico. La diffusione di video riferibili ad uccisioni violente, ad incitamento all’odio nei confronti degli ebrei, indicative in modo esplicito della prevalenza di metodi violenti e antidemocratici sull’ordine sul rispetto delle regole legali, la minaccia di compiere azioni ritorsive e temibili a carattere diffuso sono stati ritenuti significativi ed idonei a sollecitare l’adesione all’organizzazione terroristica in questione, nonché a stimolare la realizzazione di varie attività con finalità di terrorismo, proprio “al fine di reclutare nuovi adepti, disposti ad intraprendere la lotta armata, cruenta e terroristica”.

Nel senso della pacifica riferibilità dell’azione istigatoria anche all’attività con finalità di terrorismo internazionale anche Sez. 1, n. 43830 del 25/09/2019, Hmidi Saber, che ha sottolineato come non sia sufficiente l’esternazione di idee apologetiche al fine di ritenere integrato il delitto di cui all’art. 302 cod. pen., occorrendo necessariamente che il comportamento del soggetto attivo sia tale da determinare, per le sue connotazioni soggettive ed oggettive, il rischio concreto della realizzazione di altri delitti lesivi della sicurezza dello Stato. Caratteri questi ritenuti ricorrenti nel caso in esame. La Corte ha, infatti, rigettato il ricorso, attesa la significatività degli elementi in tal senso acquisiti (riscontrata presenza del dolo istigatorio, tentativo di convincere diversi soggetti della necessità di applicare e realizzare anche con la violenza i precetti del Corano, ricorrendo alla militanza religiosa combattente, espressione pubblica e diffusa di radicalismo islamico e attività di proselitismo al fine di realizzare la lotta armata di matrice jihadista, utilizzando a tal fine “strumenti idonei a diffondere telematicamente messaggi e comunicazioni che possedevano alla luce della giurisprudenza di legittimità una connotazione istigatrice incontroversa “(Sez. 1, n. 51654 del 09/10/2018, Rahman, Rv. 274895 - 01, Sez. 1, n. 24103 del 04/04/2017, Dibrani, Rv. 270604 - 01). Il Collegio ha richiamato, in tal senso, come elementi del tutto univoci e indicativi, gli esiti dei controlli sul materiale informatico archiviato nel personal computer del Hmidi Saber (collegamenti con soggetti legati alla predicazione dell’estremismo religioso, account diversi riferibili allo stesso, accesso a canali segreti, archiviazione di files di predicazione del gruppo terroristico Al Tafkir wa l-hijra, oltre a diverso altro materiale indicativo dell’autoaddestramento bellico dello stesso ricorrente).

L’utilizzazione della rete e dei social media, come metodo per realizzare l’esaltazione della violenza per raggiungere gli obiettivi del c.d. stato islamico, è oggetto della decisione della Sez. 1, n. 2442 del 08/01/2020, Elhammami ed altri. La Corte, nel rigettare il ricorso degli imputati, ha ritenuto infondati i rilievi della difesa avverso la sentenza della Corte di assise di appello che li aveva condannati, ciascuno autonomamente, per il reato di cui all’art. 414 cod. pen. per avere pubblicamente inneggiato e fomentato sentimenti antidemocratici, di odio religioso, di esaltazione del martirio al fine di sostenere l’adesione di altre persone e l’espansione del c.d. stato islamico. Anche in questa decisione è stato richiamato l’orientamento costante della Corte di cassazione quanto all’esistenza dell’organizzazione terroristica denominata ISIS e alle caratteristiche organizzative della stessa, unitamente al riferimento alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU. La Corte ha ritenuto correttamente valutati gli elementi concreti, indicativi dell’effettiva offensività dei comportamenti posti in essere dagli imputati, integranti nel caso concreto istigazione a delinquere a carattere apologetico, mediante utilizzo dei social media e, dunque, aggravato dall’uso di tali mezzi.

Il contenuto di tali messaggi, la loro oggettiva idoneità a sollecitare in altri la volontà di commissione di delitti di violenza terroristica, ha effettivamente portato al riscontro che la lotta santa rappresentava e doveva essere l’unica via per un mussulmano, con esaltazione della dottrina radicale. Tutti i soggetti coinvolti in tali comunicazioni e condivisioni sono risultati accumunati dall’interesse per la lotta santa intrapresa dall’ISIS, con piena adesione ideologica ai principi professati in tale ambito. La decisione di merito è apparsa alla Corte condivisibile e motivata anche con particolare riferimento ad una delle osservazioni della difesa, ovvero la circostanza che gli imputati non fossero buoni mussulmani perché dediti al consumo di alcoolici o sostanze stupefacenti. In tal senso si è osservato come tale condizione potesse non emergere dai post e, comunque, non escludeva o depotenziava la capacità istigatoria dei messaggi condivisi.

Al contrario, si è osservato, e condiviso, come il messaggio violento di tipo terroristico a matrice ideologico-religiosa ha spesso attecchito in soggetti mussulmani caratterizzati da una condizione di marginalità sociale, di disadattamento, che proprio grazie a questi messaggi portava alla loro radicalizzazione e ad una volontà esplicitata in tal senso in termini di riscatto sociale e ribellione. Si è, dunque, ritenuto pienamente riscontrato il comportamento dell’agente nel senso di determinare un rischio effettivo della consumazione di altri reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal crimine esaltato, con ciò ribadendo il principio espresso di recente anche da Sez. 6, n. 31562 del 18/04/2019, PG c Di Marco, Rv. 276468 - 01.

La Corte ha, quindi, condiviso anche la considerazione nel caso concreto della piena consapevolezza, e conseguentemente della piena prova, circa l’elemento soggettivo del reato, atteso che gli imputati si dichiaravano soldati dell’ISIS, con piena condivisione, emersa dai post realizzati, delle caratteristiche di tale associazione e delle sue finalità, passando in concreto da una attività iniziale di contatto e collegamento con altri soggetti sulla base di più semplici social media come facebook (modalità pubblica della comunicazione a fini di istigazione ed apologia, Sez. 1, n. 24103 del 04/04/2017, Dibrani, Rv. 270604-01) a forme di comunicazione criptata per cercare di eludere i controlli nei loro confronti (nello stesso senso, anche se con riferimento all’art. 302 cod. pen. , anche Sez. 2, n. 51942 del 19/10/2018, Messaoudi, Rv. 275515-01, nel senso che l’ordinanza impugnata, che aveva applicato all’indagato, la misura della custodia cautelare in carcere, aveva accuratamente rilevato e dimostrato come l’adesione sollecitata dal Messaoudi verso i suoi interlocutori non era affatto soltanto teorica, avendo lo stesso cercato di convincerli non solo della necessità di conoscere i precetti della religione islamica, ma anche di applicarli, imponendoli con violenza ai miscredenti e ricorrendo così alla militanza combattente).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 8779 del 05/05/1999, Oste, Rv. 214645 -01

Sez. 1, n. 35427 del 21/06/2005, Drissi, Rv. 232280 -01 Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231673 -01

Sez. 2, n. 24994 del 25/05/2006, Bouhrama, Rv. 234345 - 01

Sez. 1, n. 1072 del 11/10/2006, Bouyahia Maher, Rv. 235289 - 01 Sez. 1, n. 22673 del 22/04/2008, Di Nucci, Rv. 240085-01)

Sez. 5, n. 31389 del 11/06/2008, Bouyahia, Rv. 241174 - 01, 241175 - 01

Sez. 6, n. 25863 del 08/05/2009, Scherillo, Rv. 244367 - 01

Sez. 1, n. 38220 del 12/07/2011, Korchi, Rv. 251363 - 01

Sez. 6, n. 29670 del 20/07/2011, Garouan, Rv. 250517 - 01

Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012, Chahchoub, Rv. 253943 - 01

Sez. 1, n. 40699 del 09/09/2015, PM c. Elezi, Rv. 264719 - 01

Sez. 5, n. 2651 del 08/10/2015, dep. 2016, Nasr Osama, Rv. 265924 - 01

Sez. 5, n. 6061 del 19/07/2016, Hamil, Rv. 269501 - 01

Sez. 5, n. 48001 del14/07/2016, Hosni, Rv. 268164 - 01

Sez. 1, n. 24103 del 04/04/2017, Dibrani, Rv. 270604 - 01

Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, Rv. 271645 - 01, 271646 - 01, 271647 - 01

Sez. 6, n. 14503 del 19/12/2017, dep. 2018, Messaoudi, Rv. 272730 - 01, 272731 - 01

Sez. 6, n. 40348 del 23/02/2018, Afli Nafaa, Rv. 274217 - 02 Sez. 2, n. 38208, del 27/04/2018, Waqas

Sez. 6, n. 51218 del 12/06/2018, El Khalfi, Rv. 274290 - 01

Sez. 5, n. 1970 del 26/09/2018, dep. 2019, Halili, Rv. 276453 - 02

Sez. 1, n. 51564 del 09/10/2018, Rahman, Rv. 274985 - 01

Sez. 2, n. 51942 del 16/11/2018, Messaoudi, Rv. 275551 - 01

Sez. 5, n. 1970 del 26/09/2019, dep. 16/01/2019, Halili, Rv. 276453 - 01 Sez. 1, n. 26633 del 19/02/2019, Brigande

Sez. 2, n. 22163 del 21/02/2019, PG c/ Antar Hakim Moustafa, Rv. 276065 - 01 Sez. 1, n. 15089 del 06/03/2019, Campione, Rv. 276390 - 01

Sez. 5, n. 10380 del 08/03/2019, Khoraichi, Rv. 277239 - 01

Sez. 2, n. 23168 del 14/03/2019, Jrad, Rv. 276425 - 01

Sez.1, n. 41628 del 15/04/2019, El Hanaoui

Sez. 6, n. 31562 del 18/04/2019, PG c. Di Marco, Rv. 276468 - 01

Sez. 6, n. 23828 del 07/05/2019, Veapi Ajhan, Rv. 276724 -02 Sez. 1, n. 43830 del 25/09/2019, Hmidi Saber

Sez. 1, n. 7898 del 12/12/2019, dep. 2020, Hamil Mehdi, Rv. 278499

Sez. 2, n. 7808 del 27/02/2020, El Khalfi, Rv. 278680-01, Rv.278680- 02

Sez. 2, 14704 del 22/04/2020, Bekay, Rv. 279408 -01, - 02, -03, -04

Sez. 5, n. 22066 del 06/07/2020, Barhoumi, Rv.279595 - 02 Sez. 1, n. 31344 del 06/10/2020, Abo Robeih Tarif

Sez. 1, n. 2442 del 08/01/2020, Elhammami

Sez. 1, n. 32566 del 03/11/2020, Caprioli, Rv. 279737 - 01

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost. n. 65 del 1970

Corte cost. n. 333 del 1991 Corte cost., ord. n.450 del 1995 Corte cost. n. 225 del 2008 Corte. cost., sent. n.265 del 2010 Corte cost., sent. n.57 del 2011 Corte cost., sent. n.231 del 2011 Corte cost., sent. n.110 del 2012 Corte cost., sent. n.132 del 2013 Corte cost., sent. n. 48 del 2015 Corte cost., ord. n.136 del 2017

SEZIONE III REATI DEL CODICE PENALE - DELITTI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

  • corruzione

CAPITOLO I

CORRUZIONE FUNZIONALE E CORRUZIONE PROPRIA

(di Stefania Riccio )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’evoluzione normativa dell’istituto e le interpretazioni della giurisprudenza. - 3 I rapporti tra le due figure di corruzione: l’indirizzo della giurisprudenza che si pone in continuità con il precedente. - 4 L’anticipazione della tutela: il reato di pericolo. - 5 Delitti di corruzione e discrezionalità amministrativa. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Tra le pronunce succedutesi nell’anno decorso, Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, (dep. 2020), Bolla, Rv. 279555, offre una ricostruzione puntuale della fattispecie incriminatrice del reato di corruzione per l’esercizio della funzione, di cui disegna l’ambito applicativo in relazione alla contigua fattispecie criminosa della corruzione cd. propria, facendo luce su un problematico rapporto nel tempo variamente inteso dalla giurisprudenza della Corte regolatrice.

2. L’evoluzione normativa dell’istituto e le interpretazioni della giurisprudenza.

Come noto, nella formulazione anteriore alla riforma attuata con la legge 6 novembre 2012, n. 190, il reato di corruzione si connotava per uno schema di tipo mercantile, poiché oggetto di incriminazione era la pattuizione avente ad oggetto la compravendita di un atto amministrativo. Il discrimen tra le distinte ipotesi, di corruzione propria o per atti contrari ai doveri d’ufficio, punita dall’art. 319 cod. pen., e di corruzione impropria o per atto d’ufficio, di cui all’art. 318 cod. pen., era individuato nella conformità o meno dell’atto ai doveri d’ufficio.

Il sistema così delineato evidenziava tuttavia la sua inadeguatezza a fronte dell’emersione di nuovi moduli corruttivi, per la difficoltà di apprestare una adeguata risposta sanzionatoria ai rapporti di corruttela di lunga durata, o di tipo sistemico, i quali, prescindendo dal vincolo sinallagmatico con un atto d’ufficio determinato, si risolvono in una svendita della funzione in favore degli interessi privati; rapporti, cioè, di tipo “clientelare”, espressione di collateralismo, che vedono il pubblico agente “a libro paga” del privato corruttore.

Di qui l’interpretazione estensiva della fattispecie incriminatrice operata negli anni dal diritto vivente, che passa, come vedremo, attraverso la progressiva “dematerializzazione” dell’atto di ufficio. Risultato che veniva conseguito da un lato dilatando la nozione stessa di “atto d’ufficio”, nella quale si è finito per includere, forzando il dato testuale, anche i comportamenti (e ciò sul presupposto che l’atto oggetto della pattuizione criminosa ben potesse essere individuato anche solo nel genere); dall’altro, ampliando il predicato della “contrarietà ai doveri d’ufficio”, che è stata ravvisata anche nei casi in cui, pur risultando formalmente legittimo, l’atto perseguisse finalità diverse da quelle pubbliche e fosse imputabile al pubblico agente essenzialmente la violazione del doveri d’imparzialità (Sez. 6, n. 21192 del 24/02/2007, Eliseo, Rv. 236624; Sez.6, n. 20046 del 16/01/2008, Bevilacqua, Rv. 241184; Sez. 6, n. 34417 del 15/05/2008, Leini, Rv. 241081).

Nella versione riformulata dalla legge n. 190 del 2012, che ha recepito le istanze sottese a tale indirizzo ermeneutico e riportato il sistema in equilibrio con il principio di legalità, muta significativamente la fisionomia dell’art. 318 cod. pen., che viene espressamente intitolato alla corruzione nell’esercizio della funzione.

Tra gli elementi di diversità rispetto al passato, la soppressione del riferimento all’atto, adottato o da adottare da parte del pubblico ufficiale, giacchè oggetto dell’accordo corruttivo diviene, appunto, l’esercizio dei poteri o delle funzioni.

Il fulcro della nuova fattispecie incriminatrice è sempre dunque il sinallagma, ossia la pattuizione implicante uno scambio tra un privato ed un soggetto qualificato (mentre non è decisiva la sua esecuzione, che può indifferentemente precedere o seguire l’intesa), ma, lì dove nella corruzione propria la “presa in carico” di interessi privati si realizza con il compimento di un dato atto contrario ai doveri di ufficio, nella corruzione per l’esercizio della funzione consiste nell’asservimento del pubblico agente, e la condotta può propagarsi, con varie e non sempre prevedibili modalità attuative, in un indeterminato tempo futuro.

Alla luce della nuova disciplina normativa, la giurisprudenza ha poi ritenuto di ravvisare un reato eventualmente permanente in relazione a plurime dazioni indebite che trovino una loro causa giustificativa ed unificante nell’asservimento della funzione pubblica (Sez. 6, n. 3043 del 27/12/2015 (dep. 2016), Esposito, Rv. 265619; Sez. 6, n. 49226 del 25/9/2014, Chisso, Rv. 261355).

3. I rapporti tra le due figure di corruzione: l’indirizzo della giurisprudenza che si pone in continuità con il precedente.

La sentenza Bolla analizza dunque il rapporto tra le due fattispecie risultanti dalla novella, come si è andato disegnando nell’analisi dottrinaria e giurisprudenziale.

Secondo un primo orientamento, pure autorevolmente sostenuto in dottrina, esse sarebbero oggi non più in relazione di alterità, bensì di specialità unilaterale per specificazione. A fronte della norma di genere, costituita dall’art. 318 cod. pen., quella di cui all’art. 319 cod. pen. avrebbe carattere speciale, ed il reato di corruzione propria sarebbe configurabile solo in presenza di uno specifico atto, individuato o individuabile, oggetto dell’accordo corruttivo.

Un diverso indirizzo ipotizza l’applicazione del principio di sussidiarietà in ragione del differente disvalore del fatto: tutelando le due norme lo stesso bene giuridico, dovrebbe trovare applicazione quella che realizza l’offesa maggiore.

In definitiva, si delineano due ambiti diversificati: 1) il primo, riferibile all’art. 319 cod. pen., in cui il patto corruttivo ha ad oggetto uno specifico atto, determinato o determinabile, che il funzionario si sia impegnato a compiere (o abbia compiuto) a favore del privato;

2) il secondo, relativo al nuovo art. 318 cod. pen., riguarda tutti i casi in cui la pattuizione prevede la messa a disposizione “da parte del pubblico funzionario” della sua funzione o dei suoi poteri in relazione al compimento di possibili, futuri e non specificati atti vantaggiosi e favorevoli per il privato.

Rispetto al tratteggiato quadro di riferimento, non è venuta meno la tendenza della giurisprudenza a valorizzare maggiormente, sul piano applicativo, il reato di corruzione propria. Si è rilevato, difatti, che anche dopo l’introduzione della fattispecie criminosa della corruzione per la funzione, continuano ad essere ricondotti al reato di corruzione propria tutti quei fatti che, sulla base del diritto vivente antecedente alla legge n. 190 del 2012, erano ricondotti all’art. 319 cod. pen. in ragione dell’ermeneusi ampliativa sostenuta dalla Corte regolatrice - di cui si è detto supra - pur quando il pubblico ufficiale fosse a “libro paga” del corruttore, mentre la nuova fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen. è stata ancora interpretata come se la lettera della disposizione fosse rimasta invariata, nel senso che si è ritenuto configurabile il reato solo in presenza di atti conformi ai doveri d’ufficio (ex multis, Sez. 6, n. 51765 del 13/07/2018, Ozzimo, Rv. 277562 - 01).

Tra gli argomenti addotti a sostegno di tale linea ricostruttiva, si è valorizzata, anzitutto, la genericità del dato testuale, giacchè la preposizione finalistica “per”, correlata all’esercizio delle funzioni e dei poteri del pubblico ufficiale, non definisce - in un senso o nell’altro - il contenuto dell’accordo corruttivo.

In secondo luogo, si è inizialmente ritenuto che il divario tra le pene previste dalle due fattispecie potesse dar luogo, sostenendo un’interpretazione diversa, a rilievi in termini di graduazione dell’offensività, di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.).

Difatti, almeno fino all’entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019, n. 3, cd. “spazza corrotti”, la quale ha incrementato la forbice edittale per il reato di cui all’art. 318 - portata da 3 a 8 anni - e reso più omogenee alle ulteriori fattispecie criminose di corruzione le relative pene (pur nella permanenza della maggiore severità di quelle previste per la corruzione propria), l’assetto normativo risultava disarmonico, potendo accadere che fosse più severamente punito il pubblico agente il quale avesse “venduto” un solo suo atto contrario all’ufficio, rispetto alla condotta, connotata da più intenso disvalore, di un pubblico funzionario stabilmente infedele, che ponesse la sua funzione ed i suoi poteri al servizio di interessi privati per un tempo prolungato, per atti contrari alla funzione non predefiniti o nemmeno specificamente individuabili ex post.

Quanto precede spiega perché si è a lungo ritenuto che, ai fini della integrazione del delitto di cui all’art. 319, non fosse necessaria l’individuazione di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio oggetto del mercimonio, a condizione che dal comportamento dell’agente emergesse comunque un atteggiamento in violazione dei doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici che su di lui incombono (Sez. 6, n. 22301 del 24/05/2012, Saviolo, Rv. 254055 che richiama, tuttavia, Sez. 6, n. 34417 del 15/05/2008, Leoni, Rv. 241081; Sez. 6, n. 20046 del 16/01/2008, Bevilacqua, Rv. 241184; Sez. 6, n. 21192 del 26/02/2007, Eliseo, Rv. 236624; pronunce precedenti alla introduzione della fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen., nuovo conio). Di contro, una diffusa tendenza, ancora rappresentata, ritiene che l’art. 318 abbia un ambito di operatività residuale, potendo ravvisarsi la corruzione funzionale solo nella ipotesi in cui la vendita della funzione abbia ad oggetto il mercimonio di un atto conforme ai doveri di ufficio (Sez. 6, n. 51765 del 13.8.2018, Ozzimo, Rv. 277562), ovvero un atto non determinato (ex ante o ex post), ovvero non determinabile.

L’indirizzo in esame si pone, dunque, in continuità con l’assunto per il quale, ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 319 cod. pen., sarebbe sufficiente la mera possibilità di individuare il genus di atti da compiere, evincibile dalla sfera di competenza del pubblico ufficiale, ovvero dal suo raggio di azione e di intervento (Sez. 6, n. 30058 del 16/05/2012, Di Giorgio, Rv. 253216; Sez.6, n. 2818 del 02/10/2006, Bianchi, Rv. 235727).

4. L’anticipazione della tutela: il reato di pericolo.

Secondo la sentenza qui in rassegna, quella a lungo affermata dalla giurisprudenza è un’interpretazione conservativa dell’art. 318 cod. pen. che non può essere ragionevolmente avallata, perché svaluta la modifica intervenuta nella lettera della legge, determinando la sostanziale marginalizzazione della relativa fattispecie incriminatrice.

Piuttosto, il rapporto tra i due reati sarebbe riconducibile allo schema della progressione criminosa.

Se è vero che, attraverso l’art. 318 cod. pen., il legislatore ha inteso punire di per sé la condotta del pubblico ufficiale che, dietro compenso di danaro o di altra utilità, “prenda in carico” un interesse privato a prescindere dalla previsione del compimento di un atto del proprio ufficio, l’incriminazione risponde allora alla logica della anticipazione della tutela del bene protetto dalla norma - e, in particolare, della imparzialità dell’agire amministrativo - secondo il paradigma del reato di pericolo.

La fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen. rivela, dunque, una offensività diversa e probabilmente - ridotta rispetto al reato di corruzione propria, che è fondato, invece, sul danno in concreto arrecato e sull’accertamento di un nesso strumentale tra la dazione-promessa e il compimento di un determinato o comunque ben determinabile atto contrario ai doveri d’ufficio.

Accedendo a tale ricostruzione, tra le due ipotesi corruttive sussiste una relazione di progressione criminosa (che giustifica la differente risposta punitiva): da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione), meno grave, ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l’individuazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio).

Nel primo caso, la dazione indebita condiziona la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, ponendo in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell’altro, la dazione, connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, costituito, primariamente, dalla imparzialità dell’azione amministrativa, meritando, quindi, una pena più rigida (così, Sez. 6, n. 4486 del 11/12/2018 (dep. 2019), Palozzi, Rv. 274984; nello stesso senso, Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso, Rv. 261353, e sostanzialmente, Sez. 6, n. 33828 del 26/04/2019, Masobrio, Rv. 276783; Sez. 6, n. 32401 del 20/06/2019, Monaco, Rv. 276801).

La riformulazione dell’art. 318 cod. pen., operata nel 2012, ha dunque inciso notevolmente la struttura della fattispecie incriminatrice: lì dove, nella precedente versione, il reato era costruito come reato di danno, connesso alla compravendita di un atto d’ufficio (non contrario ai doveri), nella nuova tipizzazione il legislatore ha inteso ricomprendere tutte le forme di “compravendita della funzione” non connesse causalmente al compimento di uno specifico atto contrario ai doveri di ufficio.

Il ridotto gradiente di offensività, rispetto, alla corruzione propria, giustifica una risposta sanzionatoria che resta comunque, nonostante il tendenziale riallineamento perseguito dalla legge n 3 del 2019, meno severa.

Alla luce di tale mutata impostazione, deve allora ritenersi che la norma sanzioni l’intesa programmatica - ossia l’assunzione dell’impegno da parte del pubblico ufficiale a curare interessi indebiti senza la previa individuazione di alcuno specifico atto da compiere con la finalità di prevenire la compravendita degli atti d’ufficio, a garanzia del corretto funzionamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione.

In tale ottica, il consistente inasprimento sanzionatorio apportato all’art. 318 dalla legge n. 3 del 2019 ha eliso una delle argomentazioni addotte a supporto dell’indirizzo che riconduce comunque all’art. 319 cod. pen. “la messa a libro paga”.

Sviluppando l’opzione interpretativa preferita, la sentenza Bolla precisa che se la fattispecie di reato di cui all’art. 319 cod. pen. è in rapporto di specialità rispetto a quella di cui all’art. 318 cod. pen., è necessario che l’atto contrario ai doveri d’ufficio sia specificamente individuato o individuabile, altrimenti il fatto non potrà che essere sussunto nella fattispecie generale, cioè nell’art. 318 cod. pen., ed assumerà, al riguardo, decisiva valenza, non il mero riferimento astratto ed onnicomprensivo alla competenza dell’ufficio cui appartiene il pubblico agente, quanto, piuttosto, il contenuto del patto corruttivo.

Resta allora decisivo l’accertamento probatorio, che dovrà disvelare senso e natura dell’accordo, anche quando sia in apparenza “muto”, determinando il contenuto delle obbligazioni assunte dal pubblico funzionario alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, avuto riguardo, in particolare, al movente ed alle specifiche aspettative del privato, alla condotta serbata dall’agente pubblico ed alle modalità di corresponsione del prezzo della corruttela.

Al contrario, ove non sia accertato il contenuto del patto corruttivo, e pur in presenza di sistematiche dazioni da parte del privato in favore del pubblico agente, la condotta dovrà essere ricondotta nell’ambito della corruzione per l’esercizio della funzione ex art. 318 cod. pen.

In tale ambito rientrano, a titolo esemplificativo, i casi in cui, a fronte della dazione di denaro da parte del privato corruttore - ancorchè ripetuta a cadenze temporali fisse -, il pubblico ufficiale assuma solo l’impegno “di vigilare” che gli interessi del privato, presi indebitamente “in carico”, non siano danneggiati nel corso del procedimento amministrativo.

Da tutto quanto precede scaturisce, come argomentato da autorevole dottrina, che l’asservimento o vendita della funzione è nozione che, non positivizzata, trova riscontro normativo in entrambe le figure disciplinate negli artt. 318 e 319 cod. pen., le quali si differenziano per il diverso grado di determinatezza dell’accordo corruttivo.

5. Delitti di corruzione e discrezionalità amministrativa.

La qualificazione giuridica dei reati di corruzione diviene più complessa nei casi in cui oggetto del mercimonio sia l’attività amministrativa di natura discrezionale, ossia non rigidamente predeterminata nell’ an, nel quomodo, nel quando.

Il tema del rapporto tra corruzione ed esercizio della discrezionalità amministrativa involge l’interpretazione del sintagma “atto contrario ai doveri d’ufficio”, contenuto nell’art. 319 cod. pen., ed assume rilievo perché non tutte le regole che presiedono all’esercizio della funzione amministrativa discrezionale hanno lo stesso grado di precettività.

Nella giurisprudenza della Corte di cassazione è diffusa l’affermazione secondo la quale, ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 319 cod. pen., sono contrari ai doveri d’ufficio non solo gli atti illeciti o illegittimi perché assunti in violazione di norme giuridiche riguardanti la loro validità ed efficacia, ma anche quelli che, pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico agente, dall’osservanza dei doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, tra i quali sono compresi i doveri di correttezza e di imparzialità (Sez. 6, n. 46492 del 15/09/2017, Argenziano, Rv. 271383; Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, dep. 2017, Bonanno, Rv. 269347; Sez. 6, n. 29267 del 05/04/2018, Baccari, Rv. 273448).

In altri termini, gli atti discrezionali, pur rispondenti ai requisiti normativi e dunque formalmente legittimi, possono integrare il reato di corruzione propria in quanto siano adottati per la realizzazione di interessi privati diversi da quelli istituzionali (Sez. 6, n. 29267 dei 05/04/2018, cit.).

In tal senso si è ritenuto che integri il reato di cui all’art. 319 cod. pen. la condotta del dipendente comunale, addetto a istruire pratiche relative a gare d’appalto, che abbia percepito da un privato denaro o altre utilità al fine di “velocizzare” la liquidazione di fatture nell’interesse di quest’ultimo, poiché è l’accettazione di una indebita retribuzione, pur se riferita ad un atto legittimo, a configurare comunque una violazione del principio d’imparzialità (Sez. 6, n. 22707 del 11/04/2014, Lo Cricchio, Rv. 260275).

Ma gli estremi della corruzione propria ricorrerebbero solo nelle ipotesi in cui il soggetto agente abbia accettato dietro compenso di non esercitare la discrezionalità che gli è stata attribuita dall’ordinamento, rinunciando ad una imparziale valutazione comparativa degli interessi in gioco, oppure di usare tale discrezionalità in modo distorto, alterandone consapevolmente i fondamentali canoni di esercizio, perché solo in tale evenienza egli pone in essere una attività contraria ai doveri di ufficio.

Si è ritenuto, ancora, che l’elargizione di un indebito compenso, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulti coincidere, ex post, con l’interesse pubblico, realizza la compravendita della discrezionalità accordata dalla legge (Sez. 6, n. 5577 del 03/02/2016, Maggiore Rv. 267187, Sez. 6, n. 4454 del 24/11/2016, dep. 2017, Fiorani, Rv. 269613, Sez. 6, n. 7903 del 17/01/2018, Morace).

Si tratta di un’interpretazione che la sentenza Bolla ritiene di dovere esplicitare nei termini che seguono.

Il profilo che rileva ai fini della integrazione del reato non è tanto la illegittimità dell’atto amministrativo, in relazione al quale non è certo richiesto al giudice penale di compiere un sindacato sovrapponibile a quello che compie il giudice amministrativo; piuttosto, l’atto è lo strumento di cui l’agente si serve per consumare la condotta corruttiva e rileva se ed in quanto sia sintomatico di una condotta arbitraria ed abusiva. Retrocedere l’atto a fatto, come è necessario fare secondo autorevole dottrina, significa riconoscere che il sindacato del giudice penale investe pur sempre una condotta umana, e cioè l’atteggiarsi del pubblico ufficiale rispetto alla funzione pubblica di cui è investito.

Ove si ritenga che la retribuzione del pubblico ufficiale implichi di per sé la violazione del dovere di imparzialità, il reato di corruzione propria sarebbe integrato a prescindere dalla concreta offesa della funzione amministrativa.

Di contro, la Corte invita a rivedere il presupposto, di tipo “presuntivo psicologico”, secondo cui, una volta concluso l’accordo corruttivo, il successivo esercizio del potere pubblico non potrà non essere contaminato dall’interesse privato.

In realtà, va correttamente osservato che, ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria, rileva la violazione delle regole che presiedono all’esercizio del potere discrezionale, i cui canoni devono essere stati consapevolmente alterati, ed è altresì necessario verificare se l’interesse pubblico sia stato in concreto condizionato dalla esigenza di soddisfare gli interessi del privato corruttore; mentre nel caso in cui l’atto discrezionale, nonostante l’accordo corruttivo, realizzi egualmente l’interesse pubblico, si configurerà la fattispecie meno grave di cui all’art. 318 cod. pen.

Al riguardo la Corte si era già espressa, in un passato più risalente, nel senso che, ove il privato si rivolga ad un funzionario non per esserne pregiudizialmente favorito, ma per assicurarsi che la valutazione non sia condizionata da pregiudizi in suo danno o da indebite interferenze altrui, non potrà prospettarsi alcuna violazione dei doveri diversa da quella inerente all’indebita ricezione di un’utilità non dovuta (Sez. 6, n. 9927 del 10/07/1995, Caliciuri, Rv. 202877; Sez. 6, n. 11462 del 12/06/1997, Albini, Rv. 209699; Sez. 6, n. 1319 del 28/11/1997, Gilardino, Rv. 210442; Sez. 6, n. 3945 del 15/02/1999, Di Pinto, Rv. 213885).

Conclusivamente - nella impostazione della sentenza Bolla - la mera accettazione da parte del pubblico agente di un’indebita utilità a fronte del compimento di un atto discrezionale non integra necessariamente il reato di corruzione propria, dovendosi verificare, in concreto, l’incidenza che tale elargizione abbia avuto, secondo una relazione di causa-effetto; detto altrimenti, deve verificarsi che l’esercizio dell’attività sia stato condizionato dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore, e si sia tradotto nella violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare; di contro, se l’interesse perseguito sia ugualmente sussumibile nell’interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, la condotta viene ad integrare il meno grave reato di corruzione per l’esercizio della funzione.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze dalla Corte di cassazione

Sez. 6, n. 9927 del 10/07/1995, Caliciuri, Rv. 202877

Sez. 6, n. 11462 del 12/06/1997, Albini, Rv. 209699

Sez. 6, n. 1319 del 28/11/1997, Gilardino, Rv. 210442 Sez. 6, n. 3945 del 15/02/1999, Di Pinto, Rv. 213885 Sez. 6, n. 21192 del 24/02/2007, Eliseo, Rv. 236624

Sez. 6, n. 20046 del 16/01/2008, Bevilacqua, Rv. 241184

Sez. 6 n. 34417 del 15/05/2008, Leini, Rv. 241081

Sez. 6, n. 30058 del 16/05/2012, Di Giorgio, Rv. 253216

Sez. 6, n. 9883 del 15/10/2013, (dep. 2014), Terenghi, Rv.258521 Sez. 6, n. 22707 del 11/04/2014, Lo Cricchio, Rv. 260275

Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso, Rv. 261353

Sez. 6, n. 49226 del 25/9/2014, Chisso, Rv. 261355

Sez. 6, n. 3043 del 27/12/2015 (dep. 2016), Esposito, Rv. 265619

Sez. 6, n. 5577 del 03/02/2016, Maggiore Rv. 267187

Sez. 6, n. 15959 del 23/2/2016, Caiazzo, Rv. 266735 Sez.6, n. 2818 del 02/10/2006, Bianchi, Rv. 235727

Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, dep. 2017, Bonanno, Rv. 269347

Sez. 6, n. 4454 del 24/11/2016, dep. 2017, Fiorani, Rv. 269613

Sez. 6, n. 46492 del 15/09/2017, Argenziano, Rv. 271383 Sez. 6, n. 7903 del 17/01/2018, Morace

Sez. 6, n. 29267 del 05/04/2018, Baccari, Rv. 273448

Sez. 6, n. 51765 del 13/07/2018, Ozzimo, Rv. 277562 - 01

Sez. 6, n. 4486 del 11/12/2018 (dep. 2019), Palozzi, Rv. 274984

Sez. 6, n. 33828 del 26/04/2019, Masobrio, Rv. 276783

Sez. 6, n. 32401 del 20/06/2019, Monaco, Rv. 276801

Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, Bolla, Rv. 279555

  • corruzione
  • traffico illecito

CAPITOLO II

QUESTIONI IN TEMA DI TRAFFICO DI INFLUENZE

(di Gennaro Sessa )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le pronunzie relative alla continuità normativa tra l’abrogato delitto di millantato credito e il delitto di traffico di influenze illecite. - 3 Le pronunzie relative agli elementi differenziali tra il delitto di traffico di influenze illecite e i delitti di corruzione. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

Molteplici sono state le pronunzie relative al delitto di traffico di influenze rese dalla Corte di cassazione nel corso dell’anno 2020. Quelle maggiormente significative, in ragione della materia trattata, possono essere inquadrate in due gruppi diversi, distinguendosi pronunzie relative alla continuità normativa tra l’abrogato delitto di millantato credito e il delitto di traffico di influenze illecite e pronunzie relative agli elementi differenziali tra il delitto di traffico di influenze illecite e i delitti di corruzione.

2. Le pronunzie relative alla continuità normativa tra l’abrogato delitto di millantato credito e il delitto di traffico di influenze illecite.

Nel novero delle pronunzie inquadrabili nel primo dei gruppi dianzi indicati si segnala la sentenza Sez. 6, n. 5221 del 18/09/2019, dep. 07.02.2020, Impeduglia, Rv. 278451- 01, in cui si è affermato che non sussiste continuità normativa tra il delitto di millantato credito di cui all’art. 346, comma secondo, cod. pen., abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), l. 9 gennaio 2019, n. 3, e quello di traffico di influenze illecite di cui al novellato art. 346-bis cod. pen., in quanto in tale ultima fattispecie non è ricompresa la condotta di chi, mediante raggiri o artifici, riceva o si faccia dare o promettere danaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il pubblico ufficiale o impiegato o doverlo comunque remunerare, condotta che integra, invece, il delitto di truffa, di cui all’art. 640, comma primo, cod. pen. Nello specifico, la Corte ha premesso che di recente, con riguardo a un caso in cui il giudizio verteva sull’ipotesi delittuosa in precedenza disciplinata dall’art. 346, comma primo, cod. pen., si è affermato che sussiste continuità normativa tra il delitto di millantato credito, formalmente abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), della l. 9 gennaio 2019, n. 3 e quello di traffico di influenze di cui al novellato art. 346-bis cod. pen., atteso che, in quest’ultima fattispecie, risultano ricomprese le condotte in precedenza previste nell’altra norma, incluse quelle di chi, vantando un’influenza, effettiva o meramente asserita, presso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, si faccia dare denaro ovvero altra utilità quale prezzo della propria mediazione (così Sez. 6, n. 17980 del 14/03/2019, Nigro, Rv. 275730-01). Hanno, tuttavia, chiarito i giudici di legittimità che l’ipotesi di cui all’art. 346, comma secondo, cod. pen. integrava una fattispecie di reato autonoma rispetto a quella di cui al comma primo, ricalcata sullo schema della truffa, aggiungendo che, secondo parte della giurisprudenza, il delitto di truffa doveva ritenersi assorbito in quello di millantato credito, previsto dall’art. 346, comma secondo, cod. pen., a cagione dell’impossibilità di configurare il concorso formale tra i due reati. Ha rilevato ancora la Corte che la ragione per cui la fattispecie già prevista dall’art. 346, comma secondo, cod. pen. è stata sempre ritenuta quale ipotesi autonoma rispetto a quella di cui al comma primo risiede nel fatto che la norma in esame censura penalmente la condotta di chi si fa dare o promettere per sé o per altri «denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare», condotta che, diversamente da quella ricompresa nella fattispecie di cui al comma primo, non può che realizzarsi attraverso gli artifici e i raggiri propri della truffa. Alla stregua di tali osservazioni, la Corte ha sostenuto che, pur essendo evidente che l’intento del legislatore era quello di inglobare le fattispecie di cui all’art. 346, commi primo e secondo, cod. pen. in quella di cui all’art. 346-bis cod. pen. attraverso l’enunciazione dei distinti sintagmi che evocano il contenuto di detta norma, sussistono plurimi elementi che militano per la discontinuità tra la vecchia figura delittuosa di cui all’art. 346, comma secondo, e quella di cui all’attuale art. 346-bis cod. pen. (norma inserita dall’art. 1, comma 75, lett. r), della l. 6 novembre 2012, n. 190, e modificata, previa abrogazione dell’art. 346 cod. pen., dall’art. 1, comma 1, lett. t), n. 1, della l. 9 gennaio 2019, n. 3). Ha, quindi, evidenziato che il legislatore, attraverso la nuova ipotesi di reato, ha inteso anticipare la soglia di punibilità rispetto a condotte che difficilmente avrebbero potuto integrare il delitto di corruzione, circostanza indicativa del fatto che la tutela apprestata sia eminentemente volta alla salvaguardia dell’attività della pubblica amministrazione. Al contempo, ha posto in rilievo che depone per la discontinuità normativa la non esatta corrispondenza tra la condotta in precedenza sanzionata dalla norma abrogata e quella attualmente inglobata nell’art. 346-bis, comma primo, cod. pen., nella parte in cui è stato riprodotto il sintagma «sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’art. 322-bis cod. pen., indebitamente fa dare o promettere a sé o ad altri, denaro o altra utilità ... per remunerarlo in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri». Orbene, la mancata riproposizione del termine “pretesto” contenuto nella precedente figura delittuosa o di altro di natura equipollente che fondava il carattere autonomo della fattispecie di cui all’art. 346, comma secondo, cod. pen., riconducendola a una particolare ipotesi di truffa fa ritenere che non vi sia identità tra la norma abrogata e quella oggi prevista dall’art. 346-bis cod. pen. per come modificata dalla l. 9 gennaio 2019, n. 3. Conclude pertanto la Corte che deve escludersi continuità normativa tra l’abrogata ipotesi di millantato credito, già prevista dall’art. 346, comma secondo, cod. pen., e quella del traffico di influenze illecite, prevista nell’art. 346-bis cod. pen., nella parte in cui sanziona il faccendiere che, sfruttando o vantando relazioni asserite con l’agente pubblico, si faccia dare o promettere indebitamente denaro o altra utilità per remunerare il predetto agente pubblico in relazione all’esercizio delle sue funzioni, dal che discende che la condotta dell’agente che riceve o fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il pubblico ufficiale o l’impiegato o di doverlo comunque remunerare, a fronte dell’intervenuta abrogazione dell’art. 346, comma secondo, cod. pen., finisce con l’integrare il delitto di cui all’art. 640, comma primo, cod. pen., allorché l’agente stesso, mediante artifici o raggiri, induca in errore la parte offesa, che si determini a corrispondere denaro o altra utilità a colui che vanti rapporti neppure ipotizzabili con il pubblico agente. Come dianzi anticipato, non può ritenersi apertamente contrastante con la pronunzia in oggetto, la precedente decisione della Corte - Sez. 6, n. 17980 del 14/03/2019, Nigro, Rv. 275730-01 - in cui s’è, invece, affermato che sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito, formalmente abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), della l. 9 gennaio 2019, n. 3 e quello di traffico di influenze di cui al novellato art. 346-bis cod. pen., in quanto in quest’ultima fattispecie risultano attualmente ricomprese le condotte di chi, vantando un’influenza, effettiva o meramente asserita, presso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, si faccia dare denaro ovvero altra utilità quale prezzo della propria mediazione. È d’uopo, infatti, ribadire che il giudizio cui afferisce la pronunzia de qua verteva sull’ipotesi delittuosa già prevista dall’art. 346, comma primo, cod. pen., rispetto alla quale nessuna discontinuità normativa è stata individuata dalla sentenza supra scrutinata. E analoga enunciazione si rinviene ancora in un’ulteriore pronunzia della Suprema Corte, del pari precedente a quella sopra scrutinata. Ci si riferisce, in specie, a Sez. 6, n. 51124 del 19/06/2019, Duccoli, Rv. 277569-01, in cui il giudice di legittimità, con precipuo riguardo al diritto al risarcimento in favore di colui che, al momento della commissione del fatto, era da considerarsi parte lesa del delitto di millantato credito, ha affermato che la modifica introdotta dall’art. 1, comma 1, lett. s), della l. 9 gennaio 2019, n. 3, non ne ha determinato il venir meno, sussistendo continuità normativa fra tale fattispecie e quella di traffico di influenze illecite, di cui al novellato art. 346-bis cod. pen. e non incidendo le vicende relative alla punibilità sulla qualificazione giuridica di un fatto quale illecito civile, in quanto trova applicazione l’art. 11 disp. prel. cod. civ., secondo cui, agli effetti civili, la legge non dispone che per l’avvenire, e non l’art. 2 cod. pen. Va poi soggiunto che a conclusioni conformi sono pervenute anche due ulteriori pronunzie della Corte, depositate nell’anno 2020. In particolare, Sez. 6, n. 9946 del 26/02/2020, Arnoni, ha ribadito, con formula più generica, che sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito, formalmente abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), della l. 9 gennaio 2019, n. 3 e quello di traffico di influenze di cui al novellato art. 346-bis cod. pen., aggiungendo che in quest’ultima fattispecie risultano attualmente ricomprese le condotte di chi, in base a una vantata influenza, effettiva o meramente asserita, presso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, si faccia dare denaro ovvero altra utilità quale prezzo della propria mediazione. Sez. 6, n. 28946 del 16/09/2020, Lattanzi, dal canto suo, ha affermato più specificamente che vi è continuità normativa con il novellato disposto dell’art. 346-bis cod. pen. solo per le ipotesi di millantato credito riconducibili al primo comma dell’abrogato art. 346 cod. pen., dovendosi escludere la medesima soluzione per quelle di cui al comma 2 della stessa disposizione.

3. Le pronunzie relative agli elementi differenziali tra il delitto di traffico di influenze illecite e i delitti di corruzione.

Nel novero delle pronunzie relative agli elementi differenziali tra il delitto di traffico di influenze illecite e i delitti di corruzione si segnala, invece, la sentenza Sez. 6, n. 18125 del 22.10.2019, dep. 12.06.2020, Bolla, Rv. 279555-08. La pronunzia in questione, collocata in un filone giurisprudenziale di cui già costituiva espressione Sez. 6, n. 4113 del 14.12.2016, dep. 27/01/2017, Rigano, Rv. 269736-01 (decisione resa antecedentemente alla novellazione dell’art. 346-bis cod. pen.), ha chiarito che la fattispecie del traffico di influenze illecite si differenzia, dal punto di vista strutturale, dalle fattispecie di corruzione per la connotazione causale del prezzo, essendo questo finalizzato a retribuire soltanto l’opera di mediazione compiuta da chi si adopera per promuovere un accordo corruttivo, al quale resta tuttavia estraneo. In particolare, la Corte ha affermato che risponde di concorso in corruzione propria, ai sensi degli artt. 110 e 319 cod. pen., e non di traffico di influenze illecite, ai sensi dell’art. 346-bis cod. pen., il collaboratore di un pubblico ufficiale che, dietro indebita promessa o corresponsione di una retribuzione da parte di un terzo, abbia realizzato un’attività di collegamento tra questi e il pubblico ufficiale, funzionale all’accordo corruttivo, essendo in tal caso la retribuzione dell’agente causalmente orientata alla realizzazione dell’accordo stesso e non meramente limitata a remunerare l’opera di mediazione compiuta da chi si attiva per promuovere un accordo corruttivo al quale resta tuttavia estraneo. Nell’articolato motivazionale si è evidenziato poi che, attraverso l’introduzione del reato di traffico di influenze illecite, si è intesa sanzionare penalmente la condotta del mediatore che compia atti diretti a mettere in contatto il pubblico ufficiale e il privato, sì da creare le condizioni per la commissione di delitti di corruzione propria e di corruzione in atti giudiziari, aggiungendosi che la clausola di sussidiarietà con la quale esordisce la formulazione letterale della fattispecie incriminatrice «fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter» dimostra che il legislatore ha inteso sanzionare una condotta in certo modo meramente preparatoria, tenuta da chi resta esterno rispetto alla conclusione del patto corruttivo. Giova ricordare che in punto di sussidiarietà del delitto di traffico di influenze illecite la Corte, con due pronunzie “gemelle” di poco successive Sez. 6, n. 12095 del 19/02/2020, De Bonis Cristalli e Sez. 6, n. 12096 del 19/02/2020, Di Lascio ha avuto modo di chiarire che l’anzidetta fattispecie è caratterizzata da una clausola di sussidiarietà espressa, in forza della quale la stessa sfuma ed è assorbita, ove sia invece configurabile un vero e proprio patto corruttivo, riconducibile alle fattispecie di cui agli artt. 318, 319, 319-ter o ai reati di cui all’art. 322-bis, aggiungendo, con precipuo riguardo alla tematica in disamina, che deve conseguentemente escludersi la configurabilità del delitto di cui all’art. 346-bis cod. pen. allorché la promessa o la dazione siano volte a remunerare il pubblico ufficiale e questo sia direttamente attratto nel patto, divenendone partecipe, quale beneficiario diretto o indiretto del denaro o dell’utilità. Sul piano strettamente probatorio, la Corte ha altresì chiarito che la relazione di sussidiarietà rispetto alle ipotesi di corruzione implica che, in presenza di elementi di per sé coerenti con la sussunzione nella fattispecie del traffico di influenze, il delitto di corruzione può dirsi prevalente solo in quanto sia non solo genericamente prospettato ma anche concretamente suffragato, in ragione del fatto che il prezzo sia stato ab origine causalmente destinato al soggetto qualificato e non sia stato finalizzato a compensare una mediazione o che, comunque, il soggetto qualificato sia stato effettivamente reso partecipe del patto, quale beneficiario della dazione o della promessa in relazione all’esercizio delle sue funzioni, essendo per contro insufficiente la mera consegna sine titulo di somme a un intermediario, in mancanza di elementi idonei a dimostrare che si fosse consumato un episodio corruttivo. Successivamente, si è soffermata ancora sulla distinzione tra le fattispecie in oggetto Sez. 6, n. 12975 del 06/02/2020, Ceriani, che, focalizzando l’attenzione sulla figura dell’intermediario, ha ribadito che risponde del più grave delitto di corruzione propria, e non di quello di traffico di influenze illecite, colui che pone in essere un’attività di intermediazione strumentale alla realizzazione di un collegamento tra corruttore e corrotto, essendo caratterizzata la figura criminosa di cui all’art. 346-bis cod. pen. da una connotazione causale del prezzo, che è finalizzato esclusivamente a retribuire l’attività di mediazione e, pertanto, non può essere destinato, neppure in parte, all’agente pubblico. L’asserto della pronunzia testè menzionata risulta confermato, da ultimo, da Sez. 6, n. 23602 del 06/08/2020, Gelormini, in cui la Corte ha ribadito ancora una volta che il delitto di traffico di influenze, di cui all’art. 346-bis cod. pen., si differenzia, dal punto di vista strutturale, dalle fattispecie di corruzione per la connotazione causale del prezzo, finalizzato a retribuire soltanto l’opera di mediazione e insuscettibile, quindi, di essere destinato, anche in parte, all’agente pubblico.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di Cassazione:

Sez. 6, n. 4113 del 14.12.2016, dep. 27/01/2017, Rigano, Rv. 269736-01

Sez. 6, n. 17980 del 14/03/2019, Nigro, Rv. 275730-01

Sez. 6, n. 51124 del 19/06/2019, Duccoli, Rv. 277569-01

Sez. 6, n. 5221 del 18/09/2019, dep. 07.02.2020, Impeduglia, Rv. 278451-01

Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 12.06.2020, Bolla, Rv. 279555-08

Sez. 6, n. 9946 del 26/02/2020, Arnoni

Sez. 6, n. 12095 del 19/02/2020, De Bonis Cristalli Sez. 6, n. 12096 del 19/02/2020, Di Lascio

Sez. 6, n. 12975 del 06/02/2020, Ceriani e altri Sez. 6, n. 23602 del 06/08/2020, Gelormini Sez. 6, n. 28946 del 16/09/2020, Lattanzi

  • imposta
  • pubblico ufficiale
  • servizio pubblico

CAPITOLO III

CONFIGURABILITÀ DEL PECULATO ED OMESSO VERSAMENTO DEL PRELIEVO UNICO ERARIALE.

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite. - 2 La tesi favorevole alla configurabilità del peculato. - 2.1 Le indicazioni provenienti dalle Sezioni Unite civili. - 2.2 La giurisprudenza della Corte dei Conti. - 3 L’orientamento contrario. - 4 La soluzione accolta dalle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite.

L’organizzazione di giochi con vincite in denaro da parte dello Stato prevede, sia pur con forme e modalità non omogenee, l’intervento di soggetti privati che concorrono alla gestione, alla raccolta delle scommesse, al pagamento dei premi ed al versamento della quota - variamente denominata - spettante all’erario.

Tale sistema implica necessariamente l’ingerenza di soggetti privati nella gestione di somme di denaro che, almeno in parte, sono destinate a confluire nelle casse erariali. Proprio per effetto di tale maneggio di denaro “pubblico”, si è tradizionalmente posta la questione della qualificabilità in termini di peculato delle eventuali condotte appropriative poste in essere dal gestore cui è demandato, sulla base di rapporti concessori, l’esercizio del gioco rientrante nell’ambito del monopolio statale.

L’impostazione tradizionalmente accolta dalla giurisprudenza tende a ritenere i suddetti soggetti privati quali esercenti un pubblico servizio, con la conseguente configurabilità del delitto di peculao nel caso di mancato riversamento nelle casse dello Stato delle somme percepite.

In ordine alla correttezza di tale qualificazione, sono emerse posizioni giurisprudenziali differenziate con specifico riferimento all’attività di gestione del gioco lecito mediante gli apparecchi da intrattenimento disciplinati dall’art.110, comma 6, TULPS.

Rispetto a tale settore, infatti, la legislazione prevede che il gestore è tenuto a versare all’Amministrazione Auonoma dei Monopoli di Stato una quota fissa calcolata sull’ammon- tare delle scommesse, denominata Prelievo Unico Erariale (PREU) che, apparentemente, si atteggia come un vero e proprio tributo ricadente sul gestore.

Si è posto, pertanto, il dubbio che l’eventuale omesso versamento del PREU non integre- rebbe il delitto di peculato, ma al più un mero inadempimento di un tributo.

Al fine di risolvere il contrasto emerso in giurisprudenza, la Sesta sezione, con ord. n.997 depositata il 12 dicembre 2019, ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite della questione «Se l’omesso versamento del prelievo unico erariale dovuto sull’importo delle giocate al netto delle vincite erogate, da parte del gestore degli apparecchi da gioco con vincita in denaro o del “concessionario” per l’attivazione e la conduzione operativa della rete per la gestione telematica del gioco lecito, costituisca il delitto di peculato».

2. La tesi favorevole alla configurabilità del peculato.

Nell’ambito di un più vasto panorama giurisprudenziale, tendenziale incline a ricono- scere la natura pubblica delle somme raccolte da privati abilitati allo svolgimento di svariate tipologie di giochi autorizzati, la specifica questione concernente il prelievo erariale unico è stata compiutamente affrontata da Sez.6, n.49070 del 05/10/2017, Corsino, Rv. 271498, secondo cui « Riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio il sub-concessionario per la gestione dei giochi telematici, trattandosi di un soggetto che, in virtù di una facoltà riconosciuta al concessionario dall’ Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS), è investito contrattualmente dell’esercizio dell’attività di agente contabile addetto alla riscossione ed al successivo versamento del prelievo erariale unico sulle giocate previ- sto dall’art. 2, lett. g), del d.m. 12 marzo 2004 (In motivazione la Corte ha precisato che la natura privatistica del contratto non incide sulla qualifica conferita al sub-concessionario il quale è privo di autonomia nella gestione e nell’esercizio del gioco che è tenuto a svolgere nel puntuale rispetto dei termini della concessione fra l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato ed il concessionario)».

La citata sentenza ha esaminato una fattispecie del tutto sovrapponibile a quella rimessa all’esame delle Sezioni unite, infatti, anche in quel caso il delitto di peculato era stato con- testato nei confronti del sub-concessionario abilitato (nella normativa di settore indicato quale “gestore”), in virtù di una convenzione di natura privatistica stipulata con il conces- sionario, ad esercitare il gioco mediante apparecchi di intrattenimento, assumendo l’ob- bligo di riversare le somme dovute a titolo di PREU.

La Cassazione ha ritenuto che il concessionario statale della gestione dei giochi telematici e, per derivazione, anche il “gestore”, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio in quanto “agente contabile”, atteso che il denaro che riscuote è fin da subito di spettanza della P.A.

A tale conclusione la Corte è giunta evidenziando come il decreto 12.03.2004 del Mini- stro dell’Economia e delle Finanze, “recante regolamento concernente disposizioni per la gestione telematica degli apparecchi da divertimento e intrattenimento, ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 640, e successive modificazioni ed integrazioni”, all’articolo 2 lett. g) prevede che il concessionario “contabilizza, per gli apparecchi collegati alla rete telematica affidatagli, il prelievo erariale unico ed esegue il versamento del prelievo stesso, con modalità definite con decreto di AAMS”.

Da tale presupposto consegue che la natura privatistica del contratto, mediante il quale la concessionaria, avvalendosi della facoltà appositamente concessale dall’AAMS, demanda ad altro soggetto l’esercizio dell’attività di agente contabile, non incide in alcun modo sulla veste di incaricato di pubblico servizio che viene in tal modo conferita a detto soggetto, in quanto esattamente funzionale alla riscossione del prelievo erariale unico sulle giocate. Il soggetto investito della subconcessione non esercita alcun potere indipendente ed auto- nomo nella gestione e nell’esercizio del gioco, che è invece tenuto ad esplicare nel rispetto puntuale dei termini della concessione fra l’AAMS e la concessionaria.

A supporto di tale decisione, la Corte ha anche richiamato i principi affermati con riguardo alla posizione del concessionario dell’attività di raccolta delle giocate del lotto, ritenuta del tutto corrispondente a quella in esame, rispetto alla quale la giurisprudenza - in maniera concorde e consolidata - ritiene configurabile il delitto di peculato.

Tale impostazione risulta condivisa anche da Sez.6, n.15860 del 10/4/2018, Cilli, n.m., che affrontando la questione in sede cautelare, ha ritenuto corretta la contestazione di peculato a fronte della condotta appropriativa del PREU posta in essere dal gestore, sotto- lineando, altresì, che la configurabilità del reato non è esclusa dall’eventuale esistenza di contestazioni tra il gestore ed il concessionario circa le somme da riversare all’erario. Inol- tre, la Corte ha anche precisato che la sussistenza del reato in capo al gestore, non è nep- pure esclusa per effetto dell’adempimento dell’obbligo fiscale da parte del concessionario.

2.1. Le indicazioni provenienti dalle Sezioni Unite civili.

La problematica concernente la qualificazione del concessionario e del gestore degli apparecchi da gioco è stata oggetto di approfondimento anche da parte delle Sezioni unite civili, a più riprese chiamate a pronunciarsi in ordine alla possibilità che tali soggetti rientrino nellla nozione di “agente contabile”. Occorre premettere che si definisce “agente contabile” colui che è preposto allo svolgimento ed alla cura delle operazioni contabili previste e regolate dall’art. 74 del r.d. n. 2440, del 18 novembre 1923, contenente “nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato”, nonchè, dall’art. 44 del r.d. n. 1214, del 12 luglio 1934, con il quale è stato approvato il Testo Unico delle leggi sulla Corte dei conti.

Le Sezioni Unite civili si sono occupate essenzialmente di stabilire se tali soggetti fos- sero o meno tenuti a sottostare alle regole della contabilità pubblica ma, per risolvere tale problematica, hanno dovuto necessariamente affrontate punti rilevanti in ordine alla quali- ficazione dell’attività e, soprattutto, dell’appartenenza delle somme riscosse all’erario fin dal momento in cui le singole giocate vengono poste in essere.

Secondo la più recente pronuncia intervenuta sul tema - Sez.U. civ., n.14697 del 29/05/2019, Rv. 653988 - «Il concessionario per l’attivazione e la conduzione operativa della rete telematica pubblica, destinata alla gestione del gioco lecito mediante gli apparecchi di cui all’art. 110, comma 6, r.d. n. 773 del 1931, riveste la qualifica di agente contabile e, come tale, è tenuto a presentare il conto giudiziale, dovendo assicurare la corretta conta- bilizzazione del flusso di denaro proveniente dalle giocate, trattandosi di somme di diretta appartenenza pubblica, senza che assuma rilievo, in senso contrario, la disciplina fiscale, ove soggetto passivo del prelievo erariale unico (PREU) è il concessionario, atteso che tale disciplina, limitata al rapporto di natura tributaria, non incide sulla funzione di agente di riscossione comunque svolta da quest’ultimo».

La decisione è stata resa a seguito della contestazione, da parte del concessionario per la gestione telematica del gioco di cui all’art.110, comma 6, T.U.L.P.S., dell’obbligo di deposito dei conti giudiziali, ricadente su tutti i soggetti che rivestono la qualifica di agenti contabili. Le Sezioni unite, pur analizzando la problematica da tale peculiare punto di vista, hanno stabilito principi che sono di immediata rilevanza al fine di stabilire, in sede penale, se il denaro ricevuto dal concessionario sia o meno di proprietà erariale fin dal momento in cui avviene la giocata.

Secondo la tesi sostenuta dal privato concessionario e che non è stata recepita dalle Sezioni unite, il PREU costituirebbe un obbligo diretto e proprio del concessionario, quale soggetto passivo d’imposta e non un versamento di denaro altrui, riscosso dal concessionario per conto dell’erario. Non sarebbe corretto, pertanto, affermare che le somme riscosse dalle concessio- narie dei giochi pubblici da intrattenimento siano pagate in nome e per conto dello Stato, così confondendosi la categoria dei giochi in esame con quelli “centralizzati”, come il lotto o gli altri a totalizzatore nazionale. L’obbligo della resa del conto varrebbe solo per quest’ultima categoria di giochi ma non invece per quelli fondati sull’autonomia del concessionario.

Tale prospettazione - peraltro già non accolta in precedenti pronunce (Sez.U.civ., n.13330 del 01/06/2010, Rv. 613290 e Sez.U.civ., n.14891 del 21/06/2010) -è stata ritenuta infondata dalla più recente pronuncia del massimo organo nomofilattico.

Le Sezioni unite civili hanno in primo luogo chiarito come l’art. 22 della l.n. 289 del 2002 recante il titolo “Misure di contrasto dell’uso illegale di apparecchi e congegni di diverti- mento e intrattenimento” attribuisce all’esclusiva potestà statale la delimitazione dell’ambito del gioco lecito mediante “apparecchi e congegni d’intrattenimento e divertimento”.

La gestione del gioco è consentita solo ed esclusivamente in virtù dell’autorizzazione rilasciata dall’AAMS e previa verifica della conformità degli apparecchi, con l’obbligo garan- tire un collegamento in rete che consenta la gestione telematica degli apparecchi ed un controllo continuativo ed in tempo reale della liceità dell’attività svolta.

Prosegue la Corte affermando che «L’assunzione del modulo concessorio costituisce, di conseguenza, in questo peculiare rapporto giuridico, lo strumento mediante il quale si attua l’esercizio di una funzione che, nei rigidi limiti della liceità, l’autorità statuale ha assunto sotto il suo diretto controllo mediante la rete telematica, senza la quale, come stabilito nel citato comma 6 dell’art. 110 T.U.L.P.S., l’attività non si può esercitare in quanto illecita. La previsione di una remunerazione variamente modulata ma rigidamente predeterminata costituisce la conseguenza della prefigurazione di un rapporto concessorio ed impone la individuazione di un sistema di prelievo fiscale».

Nell’ambito di tale sistema, pertanto, i concessionari gestiscono l’attività di gioco nell’am- bito di un continuo controllo realizzato per il tramite del collegamento alla rete telematica dei singoli apparecchi di gioco. Proprio tale «sistema di collegamento diretto, rivolto in particolare al flusso di denaro, riscosso in conseguenza del gioco lecito, ed alle sue destinazioni (vincite, canone di concessione, deposito cauzionale, obbligazioni tributarie, compenso del concessio- nario) così come previste dalla legge, ne evidenzia la diretta appartenenza pubblica».

La tesi secondo cui il denaro provento delle giocate è di immediata appartenenza pubblica non è contraddetta neppure dal particolare regime fiscale adottata dal legislatore, lì dove il PREU viene qualificato quale prelievo di natura tributaria (come riconosciuto anche da Corte. cost., sent. n.334 del 2006) ed il concessionario è indicato quale soggetti passivo di imposta.

Secondo le Sezioni unite, infatti, la natura tributaria del PREU non esclude la « funzione di agente della riscossione di denaro pubblico derivante dalla configurazione complessiva dell’attività di gioco lecito mediante apparecchi o congegni elettronici, caratterizzata dalla predeterminazione dettagliata delle modalità di svolgimento dell’attività e della funzione del concessionario rispetto agli esercenti, in particolare sotto il profilo del controllo perio- dico della destinazione delle somme riscosse».

In conclusione, le Sezioni unite civili propendono dichiaratamente nel senso di ritenere che il denaro provento delle giocate, a prescindere dalla specifica destinazione pro quota dello stesso, è di “diretta appartenenza pubblica”.

Tale affermazione assume una valenza potenzialmente dirimente della questione concer- nente la configurabilità del delitto di peculato, ove si condivida l’originaria e diretta “appar- tenenza pubblica” del denaro raccolto dal “gestore”, si dovrebbe ritenere che l’omesso riversamento all’AAMS integra il reato di cui all’art.314 cod.pen.

2.2. La giurisprudenza della Corte dei Conti.

La soluzione recepita dalle Sezioni unite civili è in linea con la consolidata giurisprudenza della Corte dei Conti, competente ad esercitare il controllo sui concessionari in virtù della loro qualificazione quali “agenti contabili”. Il problema che ora è chiamato ad affrontare la giurispru- denza penale, infatti, si era già ampiamente posto dinanzi al giudice contabile, sostanzialmente nei medesimi termini circa l’esatta qualificazione del PREU come un’entrata erariale qualificabile come tale ab origine, piuttosto che come un ordinario tributo rispetto al quale il concessionario non poteva assumere il ruolo di agente contabile, ma solo quello di soggetto passivo d’imposta. Nella sentenza resa da Corte dei Conti, Sez. I App., Sent., n. 1086 del 18-09-2014, si è affermato che «la società appellata è concessionaria dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli dello Stato per la attivazione e la conduzione operativa della rete per la gestione telematica del gioco lecito. Essa assicura, perciò, che la rete telematica affidatale, contabilizzi le somme giocate, le vincite ed il prelievo erariale unico, nonché la trasmissione periodica di tali informazioni al sistema centrale. La società - inoltre - contabilizza, per gli apparecchi collegati alla rete telematica affidatale, il prelievo erariale unico e ne esegue il versamento. Tanto precisato, essa riveste la qualifica di agente della riscossione (agente contabile), tenuto al versamento di quanto riscosso e, dunque, al conto giudiziale degli introiti complessivamente derivanti dalla gestione telematica del gioco lecito, compreso il compenso del concessionario». La pronuncia, peraltro, si confronta espressamente anche con la presunta incompatibilità tra la qualifica di agente contabile, derivante dalla riscos- sione di denaro pubblico, rispetto alla disciplina tributaria del PREU.

Si afferma, infatti, che «la sottoposizione del concessionario al prelievo erariale unico (PREU) non incide sulla sua natura di agente contabile, stante che tale prelievo è solo la modalità con cui l’Amministrazione ottiene il versamento da parte del concessionario di somme dovute da calcolarsi, però, su conti da rendersi da chi rivesta la qualifica di con- tabile, per avere maneggio delle somme di denaro su cui anche il PREU deve calcolarsi».

L’appartenenza del denaro oggetto di PREU all’erario è esplicitata in maniera ancor più netta da Corte Conti Lazio, sez. reg. giurisd., n. 2110 del 05/11/2010, secondo cui «è proprio la gestione in via esclusiva di un’attività propria del soggetto pubblico con attribuzione di poteri pubblici al concessionario ed imposizione di particolari obblighi a determinare la nascita di un soggetto che ha la disponibilità materiale di beni, materie e valori di perti- nenza pubblica. Lo stesso denaro raccolto con l’utilizzo di apparecchiature collegate alla rete telematica della P.A. deve ritenersi, quindi, denaro pubblico e ciò, ovviamente, non tanto in ragione della sua provenienza, che è squisitamente privata, ma in forza del titolo di legittimazione alla giocata che rende lecito un gioco d’azzardo altrimenti vietato. Ed allora, se il privato deve utilizzare l’apposito canale pubblico rappresentato dalle apparecchiature elettroniche collegate alla rete telematica della Pubblica Amministrazione per effettuare la sua giocata, ne consegue che il denaro impiegato diventa denaro pubblico, soggetto alle regole pubbliche di rendicontazione e il cui maneggio genera ex se l’imprescindibile obbligo dell’agente a rendere giudiziale ragione della gestione attraverso un documento contabile che dia contezza della stessa e delle sue risultanze».

3. L’orientamento contrario.

La tesi favorevole alla configurabilità del delitto di peculato è stata recentemente con- traddetta da Sez.6, n.21318 del 5/4/2018, Poggianti, Rv.272951, che ha sviluppato un diverso percorso interpretativo, fondato essenzialmente sull’esame della disciplina di settore che qualifica il PREU quale obbligazione di natura tributaria, individuando nel concessionario il soggetto passivo d’imposta.

La fattispecie esaminata dalla Corte riguardava il caso - analogo a quello all’attenzione delle Sezioni Unite - del privato convenzionato con il concessionario dell’AAMS che, agendo quale terzo raccoglitore del denaro proveniente dalle giocate mediante apparecchi del tipo di quelli descritti all’art.110, commi 6 e 7, T.U.L.P.S, non riversava all’erario le somme a que- sto spettanti, secondo la percentuale fissa prevista per il PREU.

In quel caso, l’appropriazione è avvenuta previo occultamento delle somme effettiva- mente riscosse, sicchè si è posto il problema di verificare se tale condotta integrasse il pecu- lato, ovvero il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, utilizzando quale elemento di discrimine tra le due fattispecie la natura ab origine erariale delle somme riscosse, ovvero la loro debenza in ragione di una ordinaria pretesa tributaria.

Con la pronuncia in esame, la Sesta sezione ha affermato che «il denaro incassato all’atto della puntata, e a causa di questa, deve ritenersi non immediatamente di proprietà, pro quota, dell’erario (all’epoca dei fatti in misura pari al 12 % degli introiti), bensì interamente della società che dispone del congegno da gioco, anche per la parte corrispondente all’importo da versare a titolo di prelievo unico erariale. Questo perché la giocata genera un ricavo di impresa sul quale è calcolato l’importo che la società deve corrispondere a titolo di debito tributario; quindi, l’impresa che gestisce il congegno da gioco non incassa neppure in parte denaro già in quel momento dell’erario, e, di conseguenza, quando non corrisponde le somme dovute a titolo di prelievo erariale unico, non si appropria di una cosa altrui, ma omette di versare denaro proprio all’Amministrazione finanziaria in adempimento di un’obbligazione tributaria».

La Corte giunge a tale conclusione sulla base dell’esegesi del d.l. 24 novembre 2003, n.326, dal quale emerge che:

- il soggetto passivo di imposta non è individuato nel giocatore, ma nei concessionari della rete (art.39, commi 13 e 13-bis), con i quali i terzi incaricati della raccolta (i cd. gestori) sono solidamente responsabili (art.39-sexies);

- l’unità temporale di riferimento per il calcolo finale del PREU è riferita all’anno solare (art.39, comma 13-bis), mediante un versamento finale a saldo dei versamenti periodici;

- il PREU è dovuto su tutte le somme giocate tramite apparecchi e congegni che erogano vincite in denaro, anche se questi siano esercitati al di fuori di qualunque autorizzazione e non siano collegati alla rete telematica (art.39-quater).

La specifica disciplina, dettata per la categoria di apparecchi da gioco in esame, consen- tirebbe di affermare che il soggetto passivo dell’imposta non è il giocatore, bensì il conces- sionario ed il terzo incaricato della raccolta, sicchè, ove il denaro non venga riversato all’A- AMS, non si configurerebbe l’appropriazione di somme già appartenenti all’erario, bensì un tipico caso di omesso versamento di un tributo (nel caso di specie il PREU).

Corollario di tale affermazione è che il denaro raccolto mediante le giocate altro non è che il ricavo di un’attività commerciale, che a prescindere dal fatto che sia svolta in forma lecita o illecita, genera in ogni caso l’insorgere dell’obbligazione tributaria.

Né si ritiene di poter giungere a diverse conclusioni sulla base del disposto dell’art.3 lett.g), D.M. 12 marzo 2004, in base al quale il concessionario «contabilizza, per gli appa- recchi collegati alla rete telematica affidatagli, il prelievo erariale unico ed esegue il versa- mento del prelievo stesso, con modalità definite con decreto di AAMS». Invero, tale norma per come formulata, non sembra implicare necessariamente che le somme incassate per le giocate siano da ritenersi, pro quota, di immediata titolarità dell’erario, ma soprattutto, è dettata da una fonte regolamentare di attuazione della disciplina legislativa di cui agli artt. 39, 39-bis, 39-ter, 39-quater, 39-quinquies e 39-sexies del dl. 30 settembre 2003, n. 269 e, quindi, deve essere interpretata alla luce di questa regolamentazione sovraordinata.

Conclude la Corte affermando che il «soggetto che incassa le somme delle giocate non ha il possesso o la disponibilità di denaro altrui, ovviamente per la parte da versare all’Am- ministrazione finanziaria a titolo di prelievo erariale unico, ma, diversamente, è debitore nei confronti di questa in relazione ad una obbligazione pecuniaria commisurata all’entità del denaro percepito».

4. La soluzione accolta dalle Sezioni Unite.

Il descritto contrasto giurisprudenziale ha trovato soluzione a seguito della pronuncia resa in data 24 settembre 2020, hanno accolto la tesi maggioritaria in giurisprudenza, ritenendo configurabile il delitto di peculato nel caso di omesso versamento del PREU da parte del gestore.

Allo stato, essendo disponibile la sola informazione provvisoria, non è dato conoscere quali siano state le motivazioni recepite dalle Sezioni Unite.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di Cassazione

Sez.6, n.21318 del 5/4/2018, Poggianti, Rv.272951 Sez.6, n.15860 del 10/4/2018, Cilli

Sez.6, n.49070 del 05/10/2017, Corsino, Rv. 271498

Sentenze delle Sezioni unite civili

Sez.U. civ., n.14697 del 29/05/2019, Rv. 653988

Sez.U.civ., n.14891 del 21/06/2010

Sez.U.civ., n.13330 del 01/06/2010, Rv. 613290

Sentenze della Corte Costituzionale

Corte.cost., sent. n.334 del 2006

Sentenze della Corte dei Conti

Corte dei Conti, Sez. I App., Sent., n. 1086 del 18-09-2014 Corte Conti Lazio, sez. reg.

giurisd., n. 2110 del 05/11/2010

SEZIONE III REATI DEL CODICE PENALE - DELITTI CONTRO L’ECONOMIA PUBBLICA, L’INDUSTRIA E IL COMMERCIO

  • violenza
  • concorrenza

CAPITOLO I

ILLECITA CONCORRENZA CON VIOLENZA O MINACCIA, LA PORTATA DELLA CONDOTTA.

(di Marzia Minutillo Turtur )

Sommario

1 Il principio di diritto enunciato da Sez. U, n. 13178 del 28/11/2019, dep. 28/04/2020, Guadagni, Rv. 278735 - 01. - 2 La vicenda processuale. - 3 I motivi di ricorso. - 4 L’ordinanza di rimessione. - 5 La giurisprudenza di legittimità sul tema. - 6 Accenni alla disciplina civilistica. - 7 Casistica recente. - 8 La decisione delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. Il principio di diritto enunciato da Sez. U, n. 13178 del 28/11/2019, dep. 28/04/2020, Guadagni, Rv. 278735 - 01.

Nell’ambito del risalente e costante confronto interpretativo che ha ampiamente interessato il tema dell’identificazione della portata della condotta, delle sue caratteristiche, al fine di poter ritenere integrato il reato di illecita concorrenza con violenza e minaccia, è intervenuta la decisione delle Sez. U, n. 13178 del 28/11/2019, dep. 28/04/2020, Guadagni, Rv. 278735 – 01, che ha affermato il seguente principio di diritto: “Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513–bis cod. pen. è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente.(In motivazione la Corte ha sottolineato la centralità, ai fini dell’ermeneusi della norma, del principio di libera concorrenza come discendente, oltre che dall’art. 41, comma 1, Cost., dalla normativa di riferimento, sia interna che euro-unitaria).”

2. La vicenda processuale.

Con decreto di giudizio immediato gli imputati venivano rimessi dinnanzi al Tribunale per rispondere del reato di cui all’art. 513-bis cod. pen. commesso in concorso tra loro. Agli stessi veniva contestato di aver posto in essere un’aggressione nei confronti di persona che si trovava ad effettuare lavori di spurgo, in una zona che ritenevano di loro esclusiva competenza territoriale. La parte offesa veniva colpita violentemente con calci e pugni e venivano pronunziate nei suoi confronti frasi minacciose, con le quali le si intimava un immediato allontanamento dal luogo dei lavori. I due imputati venivano fermati dagli agenti operanti poco dopo i fatti, riconosciuti dalla parte offesa e da alcuni testimoni che avevano assistito all’aggressione. Gli imputati, anche in sede d’indagine, fornivano una diversa ricostruzione dei fatti, sostenendo che lo scontro con la parte offesa era stato causato da questioni di viabilità, poiché era stato loro impedito il transito a causa di un parcheggio non consentito. Il litigio in particolare sarebbe derivato, a detta degli imputati, dal fatto che il Brucci stava sversando liquami in zona non consentita. Il Tribunale di Nola ha dichiarato gli imputati responsabili del reato agli stessi ascritto, osservando come l’art. 513-bis cod. pen. debba essere ritenuto disposizione di portata generale, che, secondo l’impostazione della giurisprudenza prevalente, consiste nel compimento di atti di concorrenza caratterizzati dalla violenza e dalla minaccia, posti in essere nell’esercizio dell’attività imprenditoriale nei confronti di aziende operanti nello stesso settore, che si traduce nella turbativa recata al libero mercato in un clima di intimidazione con metodi violenti. Tutti elementi di fatto riscontrati, secondo il Tribunale, e giustificati dalla volontà degli imputati di assicurarsi una situazione di monopolio nell’attività di spurgo da effettuare nel territorio di Pomigliano d’ Arco.

La Corte d’appello di Napoli ha confermato, ex art. 605 cod. proc. pen., la sentenza di primo grado, richiamando la corretta qualificazione data alla condotta contestata ai sensi dell’art. 513-bis cod. pen., essendo emersa una prova piena delle azioni violente e minacciose poste in essere al fine di preservare la platea dei propri clienti, ponendo in fuga e minacciando operatori che effettuavano lavori in zona territoriale ritenuta di loro esclusiva competenza.

3. I motivi di ricorso.

Gli imputati hanno proposto, tramite il loro difensore, ricorso per cassazione articolando due motivi. Con il primo motivo, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., hanno dedotto violazione di legge in relazione all’omessa valutazione di un teste della difesa. Con il secondo motivo è stata eccepita la violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) in relazione all’art. 513-bis cod. pen. ritenendone l’erronea applicazione, poiché punirebbe esclusivamente condotte “tipicamente concorrenziali”, come il boicottaggio, lo storno di dipendenti e il rifiuto di contrattare, attuate con coartazione, che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale, con esclusione quindi dei meri atti intimidatori finalizzati a contrastare o ostacolare l’altrui libera concorrenza. Secondo i ricorrenti la fattispecie di cui all’art, 513-bis cod. pen. non sarebbe applicabile agli atti, come quelli in contestazione, di violenza o minaccia, in relazione ai quali la limitazione della concorrenza è solo la mira teleologica dell’agente.

4. L’ordinanza di rimessione.

La Terza sezione, cui era stato assegnato il ricorso, ha evidenziato che è da tempo radicato, nell’ambito della giurisprudenza della Corte, un contrasto circa il perimetro applicativo della fattispecie ex art. 513–bis cod. pen., relativo al “se essa intenda reprimere solamente le condotte tipicamente concorrenziali, come definite dall’art. 2598 cod. civ., poste in essere con violenza o minaccia nell’esercizio dell’attività commerciale, ovvero se essa abbracci anche gli atti intimidatori comunque idonei ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della propria attività imprenditoriale”. Il collegio rimettente ha richiamato un primo orientamento, più aderente alla lettera della norma, secondo il quale l’elemento oggettivo del reato consiste nella repressione delle sole condotte illecite tipicamente concorrenziali e competitive (quali il boicottaggio, lo storno di dipendenti, il rifiuto di contrattare), realizzate con atti di violenza o minaccia, che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale, non rientrando invece nella fattispecie astratta quelle condotte intimidatorie finalizzate ad ostacolare e contrastare l’altrui libera concorrenza, e però poste al di fuori dell’attività concorrenziale, come nel caso di diretta aggressione ai beni dell’imprenditore concorrente o della sua persona (Sez. 2, n. 49365 del 08/11/2016, Prezioso, Rv. 268515, Sez. 6, n. 44698 del 22/09/2015, Cannizzaro Rv. 265358, Sez. 2, n. 9763 del 10/02/2015, Amadoro, Rv. 263299, Sez. 2, n. 29009 del 27/05/2014, Ciliberti, Rv. 260039, Sez. 3, n. 16195 del 06/03/2013, Fammilume, Rv. 255398, Sez. 1, Sez. 2 n. 6541 del 02/02/2012, Aquino, Rv. 252435, Sez. 1, n. 9750 del 03/02/2010, P.G.c/ Bongiorno, Rv. 246515, Sez. 2, n. 35611 del 27/06/2007, Tarantino, Rv. 237801, Sez.3, n. 46756 del 03/11/2005, Mannone, Rv. 232650). L’interpretazione richiamata si concentra sulla ratio della norma, intesa come tutela diretta e piena della libera concorrenza, sicché ai fini dell’integrazione del reato, si ritengono atti di concorrenza soltanto quelle condotte concorrenziali ritenute illecite da un punto di vista civilistico, realizzate con metodi di coartazione volti ad ostacolare la normale dinamica imprenditoriale. Tale interpretazione trova il proprio principale supporto nel necessario rispetto del principio di legalità e tassatività, poiché ai fini della ricostruzione del fatto non può essere eliminato proprio ciò che rappresenta l’elemento oggettivo dell’incriminazione e il nucleo fondamentale, ovvero la realizzazione di un atto di concorrenza, che non può essere considerato coincidente, né ricorrente in caso di meri atti di intimidazione, di per sé valutabili tuttavia come violenza o minaccia. Non può dunque giungersi ad un’applicazione dell’art. 513-bis cod. pen. rispetto ad atti di violenza o minaccia, in relazione ai quali la limitazione della concorrenza rappresenta esclusivamente la mira teleologica dell’agente. È stato, quindi, richiamato un secondo orientamento invece ritiene configurabile il delitto previsto dall’art. 513-bis cod. pen. ogni qualvolta sia realizzato un comportamento che, attraverso l’uso strumentale della violenza o della minaccia, sia idoneo ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva. In tal senso atti di concorrenza illecita sono tutti quei comportamenti sia “attivi” che “impeditivi” dell’altrui concorrenza, che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, sono idonei a falsare il mercato e a consentirgli di acquisire, in danno dell’imprenditore minacciato, illegittime posizioni di vantaggio, senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa (Sez. 2, n. 18122 del 13/04/2016, Gencarelli, Rv. 266847, Sez. 3, n. 3868 del 10/12/2015, Inguì, Rv. 266180). Questa diversa opzione ermeneutica trova il proprio fondamento nella voluntas legislatoris, che con l’art. 513-bis cod. pen., introdotto dall’art. 8 della legge 13 settembre 1982, n. 646, ha inteso reprimere forme di intimidazione che, nello specifico ambiente della criminalità organizzata, specie di stampo mafioso, tendono a controllare e/o a condizionare le attività commerciali e produttive, sebbene il riferimento alle condotte tipiche della criminalità organizzata intenda non già delimitare e dimensionare l’ambito di applicabilità della norma, ma solamente caratterizzare i comportamenti punibili con il ricorso ad un significativo parallelismo (Sez. 3, n. 450 del 15/02/1995, Tamborrini, Rv. 201578). Deve inoltre essere considerato il portato dell’art. 2598 cod. civ. come elemento-guida extrapenale nella definizione della condotta penalisticamente rilevante che, se da una parte prevede ai numeri 1) e 2) casi tipici di concorrenza sleale parassitaria, ovvero attiva, dall’altra al numero 3) contempla una norma di chiusura, secondo la quale sono atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai principi della correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda. Da ciò consegue che possono essere ritenuti ricompresi nella previsione non solo le condotte tipicamente concorrenziali, ma anche tutti quegli atti intimidatori che siano finalizzati a contrastare o ad ostacolare l’altrui libertà di concorrenza (Sez. 6, n. 50084 del 12/07/2018, Terracciano, Rv. 274288, Sez. 6, n. 38551 del 05/06/2018, D., Rv. 274101, Sez. 2, n. 30406 del 19/06/2018, P.M. in proc. Sergi, Rv. 273374, Sez. 2, n. 9513 del 18/01/2018, Ietto, Rv. 272371, Sez. 2, n. 18122 del 13/04/2016, Gencarelli, Rv. 266847, Sez. 6, n. 24741 del 05/05/2015, Iacopino, Rv. 265603, Sez. 3, n. 3868 del 10/12/2015, Inguì, Rv. 266180, Sez. 2, n. 15781 del 26/03/2015, Arrichiello, Rv. 263530, Sez.3, n. 44169 del 22/10/2008, Di Nuzzo, Rv. 241683, Sez. 3, n. 44169 del 22/10/2008, Di Nuzzo, Rv. 241683).

5. La giurisprudenza di legittimità sul tema.

Il contrasto sottoposto all’esame delle Sezioni Unite è risalente, caratterizzato da diverse sfumature ed evoluzioni interpretative, anche tenendo conto dell’introduzione nel nostro ordinamento della disciplina sulla concorrenza e delle previsioni del TFUE. L’analisi dell’elaborazione della giurisprudenza di legittimità ha evidenziato una decisa complessità della questione, risultando, in una prima fase temporale, due orientamenti più nettamente contrapposti (ovvero da un lato ritenendosi necessaria, nella realizzazione della condotta, al fine di integrare il delitto ex art. 513-bis cod. pen., la materiale realizzazione di atti di concorrenza in senso stretto, commessi con coartazione, e dall’altro, invece, ritenendosi integrato il delitto anche in presenza di atti di violenza e minaccia per così dire autonomi e puri, purché finalizzati ad ostacolare o impedire del tutto la libera determinazione imprenditoriale del concorrente imprenditore), mentre in una seconda e più recente fase, che trova la sua base di partenza nella decisione della Sez. 3, n. 44169 del 22/10/2008, Di Nuzzo, Rv. 241683 - 01, emerge un orientamento di mediazione, che tende a comporre il contrasto insorto, giungendo ad un’interpretazione orientata anche alla luce delle disposizioni del TFUE e della legge 10 ottobre 1990, n. 287 in tema di concorrenza. In tal senso, a partire dalla decisione della Sez. 3, n. 3868 del 10/12/2015, Inguì, Rv. 266180 - 01, può dirsi consolidato anche un terzo orientamento, che, trovando il proprio fondamento ermeneutico di partenza nel primo orientamento (che richiede la necessaria commissione di atti di concorrenza sleale tipici, commessi con coartazione), arriva a proporre una interpretazione evolutiva del concetto di atti di concorrenza, inteso in senso non restrittivo (anche in considerazione della atipicità della previsione civilistica) e basato sulla clausola presente nella previsione di cui all’art. 2598 n. 3) cod. civ. Si ritiene conseguentemente integrata la condotta di cui all’art. 513-bis cod. pen. anche nel caso di “atti impeditivi” dell’altrui libera determinazione imprenditoriale, che determinino l’acquisizione di aree di mercato non correlate alla capacità imprenditoriale del soggetto agente (nello stesso senso di recente e in modo articolato Sez. 2, n. 30406 del 19/06/2018, Sergi, Rv. 273374 -01, Sez. 6 , n. 50084 del 12/07/2018, Terracciano, Rv. 274288 -01, Sez. 6, n. 50094 del 12/07/2018, Rv. 275717 -01). Un ulteriore profilo oggetto di considerazione nell’elaborazione della giurisprudenza, che si caratterizza per essere trasversale ai diversi orientamenti, è poi quello relativo alla riferibilità o meno delle condotte violente e minacciose esclusivamente all’ambito delle associazioni a delinquere di stampo mafioso o meno. La riflessione trae spunto dalla voluntas del legislatore, espressa chiaramente anche nella relazione di accompagnamento alla legge Rognoni – La Torre e nell’originaria proposta di legge, di porre argine con tale disposizione a tutti quei classici comportamenti intimidatori in campo imprenditoriale riconducibili al metodo mafioso (danneggiamenti, incendi ed altro). La previsione normativa, nella sua definitiva formulazione, ha eliminato il riferimento specifico alle modalità di azione delle associazioni di stampo mafioso, e, dunque, si è concordemente considerato il campo di incidenza della previsione ex art. 513–bis cod. pen. in senso ampio e relativo a qualsiasi tipo di attività imprenditoriale, a prescindere dalla sua connotazione mafiosa o meno, purché caratterizzata dall’imprenditorialità del contesto. Nell’ambito di questa ricostruzione non appare tuttavia superfluo ricordare come il materiale riscontro dell’utilizzo di metodi tipicamente mafiosi, in zone caratterizzate da forte infiltrazione di associazioni di tal genere, ha determinato la formulazione di gran parte delle imputazioni ex art. 513–bis cod. pen., a riprova dell’incidenza e rilevanza della problematica segnalata, durante i lavori preparatori, già nella legge Rognoni – La Torre. La particolare pervasività di questo fenomeno ha poi nel tempo portato ad un’ampia considerazione, nel ritenere l’effettiva integrazione del reato, del capitale di intimidazione e minaccia accumulato dalle c.d. “mafie storiche”, con la necessaria valutazione dell’evolversi del fenomeno anche per il tramite di c.d. minacce “implicite”, percepite come tali proprio per notorietà e pervasività di dette mafie. Ciò ha determinato anche un’evoluzione interpretativa in ordine al contenuto e portata del comportamento minaccioso, inizialmente ritenuto assolutamente necessario al fine di integrare il delitto in questione, in seguito considerato in prospettive diverse e più articolate, anche quanto al potenziale di intimidazione appunto delle mafie storiche (in questo senso Sez. 6, n. 24741 del 05/05/2015, Iacopino, Rv. 265603 – 01).

6. Accenni alla disciplina civilistica.

La particolare dimensione del tema proposto alle Sezioni Unite richiede una riflessione e un richiamo circa la portata delle previsioni del TFUE; in tal senso occorre ricordare come la giurisprudenza di legittimità penale abbia richiamato gli artt. 101, 102 e 120 (quest’ultimo articolo in generale è considerato il presidio dell’economia di mercato aperta e in libera concorrenza), al fine di definire la portata del concetto di atti di concorrenza, anche tenendo conto della identificazione del concetto di mercato e concorrenza fornita dalla giurisprudenza civile di legittimità con la sentenza della Sez. 1 civ., n. 14394 del 10/08/2012, Rv. 624016 - 01.

La decisione, richiamata dalla giurisprudenza penale di legittimità più recente, è così massimata: “Nel regime anteriore all’entrata in vigore del Regolamento comunitario n.1 del 2003 - il quale, sostituendo il precedente Regolamento n. 4 del 1962, ha introdotto una maggiore integrazione tra gli ordinamenti nazionali in relazione alle azioni risarcitorie conseguenti a violazione delle normativa “antitrust” - era già consentito al giudice nazionale, alla luce degli artt. 85, 86, 89 e 90 del Trattato dell’Unione europea e della legge 10 ottobre 1990, n. 287, interpretare ed applicare le norme sulla concorrenza sleale - in particolare l’art. 2598 cod. civ. - assumendo come valore di riferimento la tutela della concorrenza. Ne consegue che era possibile allegare quale fonte di danno ingiusto, nell’ambito di un giudizio interindividuale, fattispecie tipiche del diritto “antitrust”; tuttavia, poiché il sistema non vieta, di per sé, il raggiungimento di una posizione dominante, bensì l’abuso della medesima, la dimostrazione che, mediante un certo contratto, è stata raggiunta tale posizione non è prova sufficiente dell’esistenza dell’illecito. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale aveva ritenuto che l’esistenza di un contratto di distribuzione esclusiva per l’Italia non fosse prova sufficiente dell’esistenza di un disegno monopolistico).” Nell’ambito di una controversia tra imprese la Corte ha affermato che: “La dimensione giuridica della concorrenza ha assunto nel nostro sistema la funzione di “valore di riferimento”, giacché gli artt. 85 ed 86 del Trattato hanno imposto limiti nuovi, mirati a proteggere la struttura concorrenziale del mercato anche indipendentemente dall’atteggiamento del soggetto leso. Da ciò il rilievo giuridico qualitativo dei presupposti, apparentemente solo quantitativi, dell’applicazione di tale novità giuridica, quali il “mercato rilevante”, ed il “pregiudizio agli scambi dei paesi aderenti al Trattato”. (Sez. 3 civ., n. 993 del 21/01/2010, Rv. 611386 - 01). Il mercato, dunque, nella nozione introdotta dal Trattato, si identifica con quello concorrenziale. Bene giuridico da tutelare è la competitività. Conseguentemente, già prima del nuovo testo dell’art. 117 Cost., e dunque nel vigore del Trattato, e quindi ancora a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 287 del 1990, si può dire certa nel nostro sistema giurisprudenziale la necessità di leggere la disciplina del codice civile parallelamente a quella del Trattato, ovvero considerandone parte integrante la logica “antitrust.”

La giurisprudenza di legittimità penale ha richiamato quanto evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità civile e, in particolare, la necessità di realizzare una piena integrazione tra le fonti comunitarie e la disciplina penale, anche alla luce del disposto dell’art. 2598 cod. civ.

L’art. 101 del TFUE afferma che sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese, e tutte le pratiche concorrenziali che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno. Vengono elencati una serie di comportamenti in tal senso rilevanti, nessuno dei quali, occorre sottolinearlo, si caratterizza per l’esercizio di una azione violenta o minacciosa per il raggiungimento dell’obiettivo anticoncorrenziale. L’obiettivo della normativa (recepito negli stessi termini dalla l. 287 del 1990) è quello che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno, al fine di incrementare il benessere dei consumatori e realizzare l’integrazione dei mercati nazionali tramite la creazione di un mercato unico. Come è noto gli artt. 101 e 102 del TFUE producono effetti diretti nei rapporti tra i singoli e attribuiscono agli interessati dei diritti che i giudici nazionali devono tutelare, anche perché questi articoli contengono disposizioni di ordine pubblico che devono essere applicate di ufficio dai giudici nazionali. La previsione dell’art. 101 tutela non solo la concorrenza attuale tra imprese, ma anche la concorrenza potenziale di e tra imprese, e non solo la concorrenza tra imprese che abbiano concluso un accordo, ma anche tra queste e imprese terze estranee all’accordo. Questa disciplina, come quella dell’art. 102, si applica a “comportamenti di imprese”. La nozione di impresa, in diritto della concorrenza, si fonda su criteri di carattere economico, ed include qualsiasi soggetto, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento, cui possa ascriversi un’attività economica consistente nella fornitura di beni o servizi su un determinato mercato.

La definizione contenuta nell’art. 513-bis cod. pen. quanto alle caratteristiche del soggetto agente sembra di fatto avvicinarsi a tale definizione. È imprescindibile la riferibilità all’attività d’impresa e ai vantaggi che deriverebbero dalla commissione di comportamenti sleali nell’ambito dello stesso contesto territoriale.

In campo comunitario si è tuttavia costantemente precisato che un’attività che per sua natura esuli dalla sfera degli scambi economici sfugge alle regole di concorrenza dell’Unione. La caratteristica comune a tutti i comportamenti vietati dall’art. 101 TFUE, siano essi accordi, pratiche concordate o decisioni di associazioni di imprese, è che essi richiedono comunque il concorso della volontà di due o più imprese e i comportamenti vietati ricomprendono normalmente forme di collusione aventi la medesima natura, che si distinguono unicamente per la loro intensità e per le forme in cui si manifestano. Sembra dunque emergere una descrizione di comportamenti che, nella generalità dei casi, si dovrebbero caratterizzare per l’uso di un mezzo fraudolento e non di un mezzo violento. Tutta la casistica relativa all’applicazione del disposto dell’art. 101 TFUE richiama la ricorrenza di una serie di accordi a carattere fraudolento per restringere o escludere la concorrenza, ma sempre e solo con riferimento ad attività tipicamente imprenditoriali (accordi restrittivi per oggetto, per effetto, accordi verticali, cooperazioni orizzontali), mai caratterizzata, anche nelle decisioni della Corte di giustizia, dall’esercizio di violenza o minaccia per il raggiungimento dello scopo anticoncorrenziale. L’art. 102 del TFUE vieta l’abuso di posizione dominante da parte di una o più imprese sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo. In particolare, si sanziona lo sfruttamento abusivo di tale posizione sul mercato, non essendo di per sé incompatibile con il mercato la ricorrenza di una posizione dominante, ma l’uso scorretto che della stessa si faccia, per pregiudicare l’ordinario andamento del mercato. La finalità è quella di arginare ogni tipo di pratica che non solo provochi un danno al consumatore, ma anche pregiudichi la sussistenza di una concorrenza effettiva. Si è definita dominante la posizione di potenza economica grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato in questione ed abbia la possibilità di tenere comportamenti del tutto indipendenti nei confronti dei concorrenti, dei clienti, e, in ultima analisi, dei consumatori. Dall’analisi della giurisprudenza e dei casi che si sono proposti al giudizio della Corte di giustizia emergono plurimi comportamenti di abuso, con caratteri diversi, ma sempre e restrittivamente riferiti ad attività imprenditoriale e con considerazione di violazioni in tema di ordine pubblico, da riferire però sempre al settore del libero mercato.

Tra l’altro è da ricordare che la tutela rispetto a tale previsione si basa su un fondamentale termine di analisi e comparazione che è il concetto di “mercato rilevante”, sicché è necessario esaminare la struttura del mercato, i suoi fattori condizionanti e la situazione concorrenziale su detto mercato, per poter ritenere la ricorrenza di un abuso di posizione dominante. La definizione del mercato rilevante, normalmente, è il frutto della valutazione del combinato disposto di diversi e numerosi fattori, e, in particolare, dalla combinazione del mercato del prodotto e del mercato geografico rilevante. Su tali elementi-base di valutazione si inserisce poi una serie numerosa di altri fattori, come, ad esempio, la sostituibilità dei prodotti dal punto di vista del consumatore, la sostituibilità sul versante dell’offerta e l’analisi della variazione dei prezzi, per citarne solo alcuni. Una disciplina, dunque, fortemente connotata tecnicamente, che, per avere effettiva rilevanza, deve essere valutata alla luce di parametri economici ed econometrici di sistema. I fattori isolatamente considerati potrebbero essere non decisivi, ma proprio una considerazione d’insieme, e tecnica, di questi elementi potrebbe far ritenere come ricorrente l’abuso. La valutazione dell’insieme degli elementi caratterizzanti gli artt. 101 e 102 TFUE evidenzia l’estremo tecnicismo dei dati che possono portare ad una effettiva limitazione della concorrenza. Si riscontra un campo di azione assai distante dai casi concreti in generale analizzati dalla giurisprudenza di legittimità penale. Sebbene si sia in generale ritenuto che rientri nel campo di applicazione dell’art. 102 “qualsiasi comportamento” atto ad ostacolare il mantenimento e lo sviluppo del grado di concorrenza su un mercato (nel quale, a causa della presenza di impresa posizione dominante, il mercato libero sia già sminuito), occorre rilevare, come già anticipato, che nell’ambito della casistica appare non essersi affrontato il caso di condotte poste in essere con violenza o minaccia (mentre ricorrono ad esempio: fissazione di prezzi ingiusti, attività di isolamento artificiale dei mercati nazionali, condizioni di transazione non eque, approvvigionamento esclusivo mediante imposizione di impegni in tal senso, sconti fedeltà, sconti quantitativi, riduzione selettiva dei prezzi, prezzi discriminatori, prezzi predatori, vendite abbinate o aggregate).

Ciò premesso, e considerata la sostanziale omogeneità di previsioni sul punto da parte della l. n. 287 del 1990, occorre portare la riflessione sull’ulteriore dato interpretativo, rappresentato dalla portata dell’art. 2598, n. 3) cod. civ., disposizione che, al fine di piena tutela del libero mercato e della concorrenza, sanziona in via residuale anche tutti i comportamenti, ovvero ogni atto che, in quanto non conforme alla correttezza professionale, sia idoneo, con esame da condurre caso per caso, a danneggiare l’altrui azienda.

In questo senso si è espressa con una decisione non recente la Corte di cassazione civile, Sez. 1, n. 10684 del 11/08/2000, Rv. 539494, che ha affermato che: “Nella valutazione dei comportamenti anticoncorrenziali occorre tener conto degli interessi collettivi concorrenti alla dinamica economica, in adesione ai principi ed ai limiti di cui all’art. 41 della Costituzione, finalizzati a garantire che il mercato conservi la qualità strutturale di luogo della libertà di iniziativa economica per tutti i suoi partecipi, ovvero per chiunque pretenda di esercitare tale iniziativa. A tal riguardo la disposizione di cui al n. 3 dell’art. 2598 cod. civ. sanziona, in modo residuale rispetto alle ipotesi specifiche contemplate e descritte ai nn. 1 e 2, ogni atto che, in quanto non conforme alla correttezza professionale, sia idoneo - come da esame da condurre caso per caso - a danneggiare l’altrui azienda.”

La formulazione della massima, e il richiamo in generale alla dizione “ogni atto”, sembra poter lasciare spazio ad un’interpretazione finalistica dell’art. 513-bis cod. pen. Tuttavia occorre considerare come, nella motivazione, la Corte abbia precisato che: “in via di principio è esatto ciò che la corte milanese afferma in ordine alla insussistenza della equazione: illecito di cui all’art. 2598 c.c., n. 3, e violazione di norme pubblicistiche. La Corte Suprema da tempo ha chiarito che nella valutazione dei comportamenti anticoncorrenziali occorre tener conto degli interessi collettivi concorrenti alla dinamica economica, in adesione ai principi ed ai limiti di cui all’art. 41 della Costituzione, finalizzati a garantire che il mercato conservi la qualità strutturale di luogo della libertà di iniziativa economica per tutti i suoi partecipi, ovvero per chiunque pretenda di esercitare tale iniziativa” (Sez.1 civ., n. 2634 del 16/04/1983, Rv. 427520 e Sez. 1 civ., n.11859 del 26/11/1997, Rv. 510405). Orbene le diverse fattispecie di cui all’art. 2598 cod.civ. si collegano a distinte situazioni di fatto, e ciò vale in particolare per quella di cui al n. 3 di tale norma, che sanziona, in modo residuale rispetto alle fattispecie di cui ai nn. 1 e 2, ogni atto che in quanto non conforme alla correttezza professionale, è idoneo a danneggiare l’altrui azienda. Il riferimento ad un parametro snello adeguabile ai mutamenti del costume del mercato impone all’interprete di stabilire se un comportamento ancorché non previsto da nn.1 e 2, e ferme restando le eccezioni delle privative, realizzi attualmente o potenzialmente la stessa dannosità anticoncorrenziale” (Sez. 1 civ., n.1712 del 27/02/1985, Rv. 439671). Il criterio della correttezza professionale se non viene più spiegato in base ad una concezione corporativa deve, dunque, essere tratto dalla posizione della concorrenza nel sistema. La concorrenza libera viene lesa ogni volta che l’equilibrio delle condizioni del mercato è compromesso ed il carattere residuale della previsione consente di evitare che l’obiettivo anticoncorrenziale venga raggiunto con comportamenti che presentano lo stesso disvalore di quelli come tali considerati dal legislatore storico. Consegue la necessità di esaminare caso per caso se il comportamento allegato costituisce illecito, dia esso luogo, o meno, anche a violazione di norme pubblicistiche. Non rientrando siffatte ipotesi dentro una fattispecie astratta a sé stante. Da sottolineare il punto in cui il collegio ha affermato che: “il criterio della correttezza professionale se non viene più spiegato in base ad una concezione corporativa deve dunque essere tratto dalla posizione della concorrenza nel sistema”. Dunque, anche se l’art. 2598 cod. civ. al n. 3 sembra aprire ad una congerie di casi diversi da quelli tipici, sembra che tali atti diversi si debbano comunque e sempre ritenere inerenti e interni alla concorrenza “nel sistema”, secondo finalità tipiche anticoncorrenziali perseguite da imprenditori in posizione di antagonismo gli uni con gli altri. Deve quindi emergere un effettivo riscontro che l’atto, seppur atipico rispetto ai n. 1) e 2) dell’art. 2598 cod. civ., sia non solo contrario alla correttezza professionale, ma anche idoneo a danneggiare l’altrui azienda secondo una valutazione tipica concorrenziale (mercato di riferimento e ambito geografico, come già evidenziato). Si è, dunque, sottolineata, in ordine alla concorrenza sleale e ai principi di correttezza professionale, la natura di disciplina a carattere oggettivo, come emerge dalla ricorrenza di parametri economici e di mercato quanto alla scorrettezza del comportamento tenuto e, pur evidenziando che una fattispecie abusiva possa essere effettivamente sleale anche sul piano dei rapporti concorrenziali individuali, è affermazione condivisa che la comune finalità della previsione dell’art. 2598 cod. civ. è quella di garantire una sostanziale par condicio fra gli imprenditori in entrambi gli ambiti descritti dai numeri 1) e 2), da una parte, e dal numero 3), dall’altra. Tale previsione deve necessariamente essere letta ed interpretata nel necessario raccordo tra la previsione del codice civile e la disciplina antitrust, in applicazione del superiore principio sancito dall’art. 41 della Costituzione.

Ne consegue che dalla correttezza professionale e dall’ordinamento antitrust emerge un divieto di attività escludenti, predatorie o ingannevoli che, sul lato tanto individuale che economico, non comportino benefici al consumatore, al mercato comune e alla collettività. Ci si è quindi interrogati sul come valutare e considerare la violazione di norme pubblicistiche, quanto al mancato rispetto da parte dell’imprenditore dei principi di correttezza professionale. Si è ritenuto che una lettura ampia, condizionata dalla possibile lesione dei più interessi - economia pubblica e libera determinazione dell’imprenditore - protetti dalle previsioni penalistiche, potrebbe portare a far ritenere compresi in tale violazione anche atti di minaccia e intimidazione, tuttavia è sempre presente la tendenza orientata a limitare l’ambito di rilevanza di dette norme pubblicistiche al contesto applicativo conseguente alla previsione dell’art. 41 della Costituzione. Se, infatti, la disciplina della concorrenza sleale intende mantenere la potenziale par condicio tra imprese, evitando sviamenti di clientela o illegale articolazione dei fattori produttivi, queste norme pubblicistiche devono essere necessariamente riferite al libero mercato ed ai principi che lo regolano, con una chiara delimitazione di campo in tal senso quanto ai comportamenti rilevanti (in sostanza par condicio e diritto alla lealtà competitiva tra imprese).

7. Casistica recente.

Un ulteriore dato, di natura descrittiva, è stato ritenuto indicativo della particolarità della questione rimessa alle Sezioni Unite, richiamando le specifiche condotte che sono state oggetto di valutazione, in epoca recente, da parte della Corte a seguito di motivi proposti proprio quanto alla ricorrenza o meno di atti di concorrenza ex art. 513-bis cod. pen. In tal senso, occorre ricordare che diverse decisioni hanno affrontato la contestazione relativa ad una serie di attività poste in essere dagli imputati per favorire, nella gestione dei servizi funebri ospedalieri, in territorio di Lamezia Terme, alcune imprese collegate ad associazioni di stampo mafioso e inserite di fatto nel contesto delle stesse. Tale obiettivo, secondo le contestazioni elevate, veniva perseguito mediante una serie di aggressioni fisiche e minacce - avvalendosi del supporto di soggetti pregiudicati legati alla ‘ndrangheta - poste in essere nei confronti degli operatori sanitari, occupando spazi interni ospedalieri con mezzi delle imprese che si volevano favorire nella gestione delle onoranze funebri, accedendo senza alcuna legittimazione ai data-base ospedalieri (Sez. 6, n. 39372 del 18/04/2019, Mauceri; Sez. 6, n. 29903 del 27/03/2019, Putrino; Sez. 6, n. 19946 del 27/03/2019, Di Spena). In questi casi la Corte ha ritenuto non ricorrente la violazione dell’art. 513–bis cod. pen., aderendo al primo orientamento interpretativo. In altri casi simili è stata invece ritenuta la ricorrenza degli elementi costitutivi del delitto ex art. 513–bis cod. pen.: in particolare Sez. 2, n. 7011 del 05/11/2018, depositata 2019, Belfiore, ha affrontato il caso di imprese addette al trasporto di degenti da e per il nosocomio di Aversa, che imponevano la loro presenza mediante minacce, violenze e atti di intimidazione. La Corte ha in questo caso ritenuto corretta la contestazione ex art. 513-bis cod. pen. in adesione al secondo orientamento. Altre decisioni hanno considerato le attività volte a realizzare una gestione monopolistica dell’installazione di macchine da gioco (slot machine), con imposizione di fornitori, mediante minaccia posta in essere da soggetti collegati ad associazioni camorristiche; ciò al fine di creare un mercato totalmente controllato dalle organizzazioni criminali, riscontrando una sorta di boicottaggio, realizzato con tipiche forme di intimidazione mafiosa (Sez. 2, n. 8031 del 06/11/2018, Marciano; Sez. 2, n. 24710 del 06/11/2019, Marciano; Sez. 1, n. 2362/2019 del 11/10/2018, Martino, nonchè Sez. 5, n. 45839 del 05/06/2018, Lo Boido; Sez. 5, n. 27756 del 24/05/2019, Capicchiano, ed ancora Sez. 6, n. 38551 del 06/06/2018, D’Angelo; medesimo tema per Sez. 2, n. 29387 del 31/05/2018, Cuzzocrea; Sez. 2, n. 57811 del 07/12/2018, Cuzzocrea, relative all’eliminazione del concorrente dell’imputato quanto alla fornitura di frutta nel territorio ritenuto di esclusiva competenza dello stesso, con aggressioni fisiche dirette anche nei confronti dei familiari del concorrente).

Atri casi hanno considerato il vasto campo dell’affidamento di appalti di gestione o per la realizzazione di lavori pubblici (Sez. 2, n. 7867 del 22/01/2019, De Masi, Sez. 2, n. 55228 del 27/11/2018, Fava, Sez. 2, n. 4217/2019 del 05/12/2018, Bartolo, Sez. 2, n. 4436/2019 del 18/12/2018, Anello, Sez. 2, n. 44321/2019 del 04/12/2018, Matera; Sez. 2, n. 948/2019 del 21/11/2018, D’Agostino, Sez. 2, n. 57826 del 07/12/2018, PM in proc. Giardino, Sez. 6, n. 49933 del 07/06/2018, Spadafora; Sez. 1, n. 46113 del 16/03/2018, Acri; Sez. 6, n. 39992 del 20/06/2018, Spadafora; Sez. 6, n. 39934 del 06/07/2018, Spadafora, - Sez. 6, n. 57879 del 25/10/2018, Bosta; Sez. 6, n. 49851 del 04/07/2018, Lavorato, Sez. 6, n. 51986 del 25/09/2018, Flotta, Sez. 1, n. 51503 del 11/10/2018, Ferraro, Sez. 6, n. 50096 del 12/07/2018, PM in proc. Alati, Sez. 5, n. 45334 del 12/07/2018, Traini, Sez. 2, n. 41022 del 19/04/2018, Pelle, Sez. 2, n. 28193 del 16/05/2018, PM in proc. Gencarelli, Sez. 2, n. 12205 del 20/02/2018, Sergi; Sez. 2, n. 35454 del 19/04/2018, Sergi.

8. La decisione delle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, a composizione del contrasto, hanno proposto una soluzione, che tenuto conto della disciplina comunitaria e nazionale, rappresenta un’evoluzione interpretativa autonoma rispetto al terzo orientamento, concentrata sulla puntuale identificazione degli elementi caratterizzanti la fattispecie di cui all’art. 513–bis cod. pen., con particolare riferimento al principio di tipicità.

In tal senso, si è affermato come i primi due orientamenti giurisprudenziali muovano da impostazioni ricostruttive sensibilmente differenti, delineando percorsi argomentativi che in “entrambi i casi giungono a soluzioni non condivisibili”.

L’analisi delle Sezioni Unite evidenzia, infatti, come la prima interpretazione dell’art. 513–bis cod. pen., con tipizzazione delle condotte riferita ad un parametro normativo preciso, delinea una potenzialità applicativa della norma estremamente limitata, rendendola di fatto inapplicabile, senza esplorare la possibilità di una collocazione della norma incriminatrice e del bene giuridico tutelato in una visione ampia e complessiva dei presupposti della libertà di concorrenza nella sua più consistente dimensione euro-unitaria.

La seconda opzione ermeneutica, pur mostrando maggiore sintonia con le finalità e le ragioni di politica criminale che hanno portato all’introduzione dell’art. 513–bis cod. pen., realizza una valorizzazione della prospettiva teleologica dell’azione, sicché il carattere concorrenziale dell’atto è rinvenuto non nella sua natura materiale, ma in relazione alla sua finalità. Tale opzione non è stata ritenuta condivisibile dalla Corte, perché si finirebbe necessariamente con l’equiparare l’atto violento e minaccioso, finalizzato ad inibire la concorrenza, non ravvisabile nel dato normativo, e l’atto di concorrenza commesso con violenza e minaccia. Ne consegue, a parere della Corte, un rischio consistente di compressione del principio di tassatività e determinatezza della legge penale.

Le Sezioni Unite hanno sottolineato come l’origine del contrasto vada ricercata nell’ambiguità della formulazione dell’art. 513–bis cod. pen. e hanno chiarito come, nonostante il contesto nell’ambito del quale si è giunti alla introduzione della disposizione con la legge Rognoni – La Torre, la struttura della fattispecie sia stata congegnata dal legislatore in maniera del tutto indipendente dalla riferibilità esclusiva ad associazioni di stampo mafioso, in assenza di connotazione specializzante dal punto di vista soggettivo, come dimostra la possibile realizzazione della condotta da parte di “chiunque”, sia pure nell’esercizio di una attività commerciale, industriale o produttiva.

Ciò premesso, viene, dunque, ritenuta di maggior interesse la prospettiva proposta dalla soluzione di mediazione, relativa al terzo orientamento ermeneutico, nell’ambito del quale si propone di ridefinire la tipicità della fattispecie assegnando al concetto di “atti di concorrenza” una rinnovata centralità, mediante collocazione adeguata nel contesto della pertinente normativa di riferimento interna e di origine euro-unitaria. Una prospettiva ermeneutica che porta in sé rilevanti elementi di novità, che deve tuttavia essere approfondita nell’ambito di un contesto normativo profondamente mutato e caratterizzato da fonti multilivello.

Le Sezioni Unite hanno, quindi, analizzato tale sistema di fonti multilivello, evidenziando che l’art. 41 Cost. rappresenta l’imprescindibile canone di riferimento per un corretto inquadramento della condotta disciplinata dall’art. 513-bis cod. pen., considerato che il principio di libera concorrenza, pur in assenza di una esplicita menzione, è evidentemente tutelato a livello costituzionale dall’art. 41, comma primo, Cost., il quale afferma che l’iniziativa economica privata è libera, sicché ogni individuo è libero di esercitare un’attività economica con i limiti espressamente dettati dal secondo comma dell’art. 41 Cost.

L’accelerazione del processo d’integrazione europea, e la scelta espressa in favore di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, ha sensibilmente inciso sulla portata del principio costituzionale stabilito nell’art. 41 Cost, imprimendo connotazioni nuove. La libertà di concorrenza è stata progressivamente considerata come una naturale espressione della libertà di iniziativa economica privata, formalmente consacrata nella nuova disposizione dell’art. 117, comma secondo, lett. e) della Cost.

La libertà di concorrenza si è imposta come un bene costituzionalmente rilevante, la cui tutela è rimessa alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, nel rispetto dei vincoli comunitari o derivanti da obblighi internazionali.

Dalla libertà dell’iniziativa economica deriva quale naturale corollario quello del principio di uguaglianza nei rapporti economici, e, proprio in relazione a tale declinazione del principio di uguaglianza, deve essere dato rilievo alla repressione delle forme di concorrenza sleale, per tutelare l’esercizio dell’altrui libertà di iniziativa economica, oltre che l’economia nazionale in generale.

Le Sezioni Unite richiamano, quindi, con un’ampia e approfondita disamina, la portata della disciplina europea in tema di tutela della libertà di concorrenza, sottolineando come il principio cardine derivante dai diversi divieti imposti (ex art. 101 e 102 TFUE) è quello secondo cui la libertà di iniziativa economica e la competizione tra le imprese non possono tradursi in atti e comportamenti pregiudizievoli per la struttura concorrenziale del mercato, richiamando conseguentemente la previsione di cui all’art. 2598, n. 3, cod. civ. per il quale costituisce atto di concorrenza sleale ogni altro mezzo utilizzato in modo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.

Si precisa, tuttavia, come il giudizio sul canone della correttezza professionale non esaurisce la considerazione dell’illecito concorrenziale, il “cui retto svolgimento poggia, altresì, sul criterio, parimenti rilevante, dell’idoneità dell’atto a recare danno all’altrui attività imprenditoriale”.

Occorre, secondo l’ermeneusi proposta dalle Sezioni Unite, che ricorra una capacità offensiva “specifica”, e più intensa, rispetto a quella connaturata a qualsiasi atto di concorrenza, proprio perché volta a sottrarre uno spazio di mercato occupato o gestito dall’impresa concorrente.

Sulla base dell’insieme delle considerazioni esposte, si evidenzia come, in assenza di una definizione, anche penalistica, del concetto giuridico di concorrenza, l’interpretazione del sintagma “atti di concorrenza”, elemento centrale della fattispecie incriminatrice, deve necessariamente tener conto della normativa euro-unitaria ed interna che disciplina i presupposti e le regole di funzionamento della libertà di concorrenza.

La tipicità della fattispecie deve, dunque, essere inquadrata sia alla luce del superiore divieto costituzionale posto dall’art. 41, comma secondo, Cost., secondo cui qualsiasi forma di competizione concorrenziale, riconducibile alla libera estrinsecazione dell’iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da recare danno a situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente tutelate (come diritti di libertà, sicurezza, e dignità umana), sia dell’esigenza di rispetto dei limiti stabiliti dalla legge ordinaria (ex art. 2595 cod. civ.), per lo svolgimento della libera concorrenza, così come risultanti dal raccordo tra i diversi livelli della normativa euro-unitaria, dalle disposizioni del codice civile e della legislazione speciale (Legge n. 287 del 1990).

Considerata, dunque, l’elaborazione della giurisprudenza della Corte costituzionale e della giurisprudenza civile della Corte di cassazione, si richiama la considerazione secondo la quale la dimensione giuridica della concorrenza ha assunto la funzione di valore di riferimento, al fine di proteggere la struttura concorrenziale del mercato, anche indipendentemente dall’atteggiamento del soggetto leso.

Nel giungere, quindi, ad una precisa delimitazione del contenuto precettivo della fattispecie, le Sezioni Unite, al fine della corretta soluzione del contrasto, chiariscono che la condotta descritta si inserisce “all’interno di un’attività imprenditoriale e poggia essenzialmente sulla qualità materiale degli atti che vi danno corpo, ossia sulla loro qualificazione in senso concorrenziale e non sulla loro direzione teleologica”.

Si sottolinea la scelta del legislatore di impiegare nella descrizione degli elementi tipici della condotta la locuzione “atti di concorrenza” al plurale, scelta da ritenere non casuale, poiché, se, naturalmente, può essere ammessa la possibilità di un atto di concorrenza isolato ed istantaneo, nella gran parte dei casi ricorre un’attività continuata di concorrenza, e gli atti, seppur apparentemente e singolarmente considerati leciti, devono pur tuttavia essere oggetto di un apprezzamento complessivo ai fini della loro valutazione rispetto ai principi della correttezza professionale.

In sostanza, la combinazione di più atti apparentemente leciti può essere rivelatrice della manovra ordita ai danni del concorrente.

Viene, quindi, analizzata la struttura della fattispecie da ricondurre all’interno di una dialettica concorrenziale, che presuppone, con il richiamo al compimento di atti di concorrenza nell’esercizio di attività commerciale, industriale o comunque produttiva, sia la qualità di imprenditore in capo al soggetto che direttamente, o indirettamente, pone in essere la condotta, sia l’esistenza di un rapporto di competizione economica nei confronti del soggetto che ne subisce le conseguenze. Dunque, il soggetto attivo e quello passivo devono tendenzialmente offrire nello stesso ambito di mercato beni o servizi che siano destinati a soddisfare lo stesso bisogno dei consumatori, anche in via succedanea, o comunque bisogni supplementari ed affini, potendo il rapporto di concorrenza instaurarsi anche tra operatori che operano a livelli economici diversi.

Le Sezioni Unite chiariscono come la delimitazione dei soggetti attivi o passivi del reato non vada intesa in senso meramente formale, non occorrendo la qualità di commerciante, industriale o produttore, ma semplicemente l’espletamento in concreto di attività che si inseriscono nella dinamica commerciale, industriale o produttiva (Sez. 6, n. 6055 del 24/06/2014, Amato, Rv. 263164-01, Sez. 2, n. 26918 del 16/05/2001, Monaco, Rv. 219804-01), a prescindere dai requisiti di professionalità ed organizzazione tipici della figura civilistica dell’imprenditore e fatte salve le ipotesi di compartecipazione criminosa nella realizzazione della condotta punibile, qualora vengano dimostrati la conoscenza da parte dell’extraneus della qualità di intraneus del soggetto agente e il contributo del primo alla commissione del fatto (Sez. 6, n. 7627 del 31/01/1996, Alleruzzo, Rv. 206603- 01). Allo stesso modo gli atti di concorrenza illecita non devono essere necessariamente diretti nei confronti dell’imprenditore, tale caratteristica non è richiesta dalla norma e le condotte possono ben indirizzarsi anche nei confronti di persone diverse (Sez. 6, n. 37520 del 18/04/2019, Rocca, Rv. 276725 -01).

Particolare rilevanza, nel considerare i profili di contrasto emersi e nella definizione della portata della fattispecie, viene attribuita al contenuto e alle finalità del bene giuridico protetto dalla norma, considerata l’introduzione di reato “plurioffensivo orientato non solo verso la tutela di un più ampio interesse al corretto funzionamento del sistema economico, inteso come bene finale, ma anche alla protezione di un diverso interesse da intendersi quale bene strumentale, più direttamente inerente ad una esigenza di garanzia della sfera soggettiva della libertà di ciascuno di autodeterminarsi nell’esercizio di un attività commerciale, industriale o comunque produttiva”. (Nello stesso senso Sez. 3, n. 46756 del 03/11/2005, Mannone, Rv. 232650 - 01 e Sez. 3 n. 44169 del 22/10/2008, Di Nuzzo, Rv. 241683 – 01). Si osserva, infatti, come la volontà del soggetto passivo della condotta di illecita concorrenza con minaccia o violenza “non opera infatti liberamente, in quanto viene condizionata rispettivamente, dalla prospettazione di un male ingiusto, ovvero dalla costrizione fisica a determinarsi nel senso impostogli dall’agente”.

Ciò premesso, le Sezioni Unite osservano che la “dialettica del rapporto concorrenziale entro cui può fisiologicamente dispiegarsi il libero esercizio dell’attività di impresa delinea, unitamente ai contenuti del bene protetto, il contesto giuridico entro cui si inserisce, e come tale va riconosciuta, la tipicità della condotta oggettivamente distorsiva degli ordinari meccanismi di competizione economica: condotta che, in quanto illecitamente connotata dal ricorso ai mezzi della violenza o della minaccia, assume rilievo penale integrando la fattispecie incriminatrice senza che si renda necessaria la reale intimidazione del soggetto passivo ovvero una effettiva alterazione degli equilibri di mercato”.

Emerge, dunque, da tale impostazione ricostruttiva, la scelta operata dal legislatore nel configurare i tratti tipici della condotta punibile, attribuendo alla duplicità dei mezzi alternativamente impiegabili nell’esercizio delle attività economiche (violenza o minaccia) il “vero tratto di disvalore penale di una condotta in sé altrimenti legittima, come l’atto posto in essere nell’esercizio di una libertà riconosciuta e tutelata dall’ordinamento”.

Elemento caratterizzante la fattispecie di cui all’art. 513–bis cod. pen. è, dunque, l’intima connessione tra gli atti di esercizio della libertà di concorrenza all’interno di un rapporto di competizione economica, anche solo potenziale, e le specifiche “note modali”, rappresentate dall’uso della violenza o della minaccia, così da determinare un fattore distorsivo delle regole di quella che dovrebbe essere una paritaria contesa commerciale o imprenditoriale, superando di fatto il limite rappresentato dall’atto di concorrenza anche nel “suo stigma di slealtà”. La condotta si caratterizza per il fatto di innestarsi su un atto di esercizio di una libertà (ex art. 41 Cost.), e per l’illecita componente oggettiva della “contestuale compressione, quando non addirittura della negazione, della corrispondente, e parimenti tutelata, possibilità di autodeterminazione del concorrente nello svolgimento delle diverse attività produttive richiamate nella predetta disposizione”.

La soluzione del contrasto si basa, in conclusione, sulla considerazione da parte delle Sezioni Unite delle “componenti oggettive della violenza e della minaccia”, che non possono essere intese come elementi finalisticamente orientati, ma bensì come elementi costitutivi della condotta, che concorrono a delinearne la tipicità attraverso una previsione in forma alternativa del suo aspetto modale, sul quale ruota la sfera di offensività dell’intera fattispecie.

In questo senso deve, infatti, essere inteso il riferimento da parte del legislatore, anche nella rubrica della norma, ad una condotta di illecita concorrenza, e, dunque, ad un atto di concorrenza “non semplicemente sleale, ma necessariamente caratterizzato dalla peculiare natura dei mezzi adoperati, che a loro volta ne accompagnano la realizzazione e ne giustificano, al contempo, il giudizio di meritevolezza della tutela penale”.

L’analisi della portata della norma in senso tipizzante evidenzia, per le Sezioni Unite, come la libertà di concorrenza non si traduca esclusivamente nella libertà di svolgere attività di impresa in competizione con una pluralità di soggetti operanti nel mercato, ma anche nella libertà da illecite interferenze e condizionamenti che ne ostacolino o contrastino l’esercizio, con conseguente rilevanza di quei comportamenti competitivi posti in essere sia in forma attiva che impeditiva dell’altrui libertà di concorrenza.

Tali illecite modalità di concorrenza, per come incriminate dall’art. 513–bis cod. pen., sono idonee a rimuovere le precondizioni necessarie all’esplicarsi della stessa libertà di funzionamento del mercato, incidendo contemporaneamente sulla libertà delle persone di autodeterminarsi nello svolgimento di attività produttive.

Nel risolvere il contrasto, le Sezioni Unite hanno, quindi, affermato che è l’idoneità a recare pregiudizio all’impresa concorrente, contrastandone o ostacolandone la libertà di autodeterminazione, a connotare la fattispecie dell’art. 513–bis cod. pen. nella sua materialità; ne rappresenta infatti un elemento oggettivo della condotta, a sua volta “accompagnata dalla coscienza e volontà di compiere un atto di concorrenza inficiato dal ricorso ai mezzi della violenza e della minaccia, ossia di determinare una situazione di concorrenzialità illecita che rischia obiettivamente di alterare o compromettere l’ordine giuridico del mercato”.

Infine, le Sezioni Unite hanno delimitato l’ambito e il rapporto del delitto di cui all’art. 513-bis cod. pen. rispetto al più grave delitto di estorsione, precisando che, proprio gli elementi che concorrono a descrivere la tipicità del reato di illecita concorrenza, impediscono di ritenerne assorbita la condotta nell’estorsione in base al criterio di specialità. I due reati rientrano, infatti, in una diversa collocazione sistematica, offendono beni giuridici diversi, incidendo nel secondo caso sul patrimonio del soggetto passivo al fine di ottenere un ingiusto profitto con altrui danno, senza tradursi in una violenta manipolazione dei meccanismi di funzionamento dell’attività economica concorrente, sicché ove ricorrano elementi costitutivi di entrambi i delitti si dovrà ritenere il concorso formale degli stessi.

In senso conforme alla decisione delle Sez. U, si è espressa di recente Sez. 2, n. 34214 del 15/10/2020, Capriati che ha affrontato un caso molto simile a quelli già evidenziati nella casistica recente uniformandosi all’ermeneusi delle Sez. U. con particolare riferimento al valore fondante dell’art. 41 Cost. nell’analisi della libertà di concorrenza. In tal senso il collegio ha richiamato l’importanza delle garanzie poste a presidio di uno spazio produttivo che viene utilizzato anche in favore della collettività, dove la libertà di concorrenza non viene solo regolata e promossa, ma deve anche potersi attuare lecitamente. Nel caso concreto, molto simile ai casi richiamati nel paragrafo precedente sulla casistica recente, si è riscontrata la portata anticoncorrenziale della condotta tenuta da un imprenditore colluso con un clan mafioso, che proprio in virtù di uno specifico accordo con il clan, e conseguentemente all’intimidazione diretta ed ambientale posta in essere nei confronti degli altri imprenditori ed esercenti di pubblici esercizi proprio dal clan, riusciva ad ottenere una posizione di oggettivo monopolio quanto all’installazione di “slot machine” nel territorio ed are di influenza della associazione di stampo mafioso di riferimento. Il collegio ha quindi affermato il principio di diritto secondo il quale integra il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia, ex art. 513-bis cod. pen., l’acquisizione di una posizione dominante in un determinato settore economico conseguente all’accordo intercorso tra l’imprenditore ed un clan di stampo mafioso, che si sia manifestato con condotte violente e minatorie, anche di carattere implicito o “ambientale” sia a livello della domanda, che a carattere diffuso, determinando l’interposizione di barriere all’ingresso di altri concorrenti su un certo mercato o su una zona “contrattualmente” stabilita. Ne consegue che l’installazione in via esclusiva da parte di un imprenditore di “slot machine” presso pubblici esercizi insistenti sul territorio d’influenza di un’associazione di stampo mafioso, resa possibile, proprio grazie all’intermediazione del clan nei confronti degli esercenti, integra l’elemento oggettivo della condotta sanzionata dall’art. 513-bis cod. pen., determinando tale illecita concorrenza “ambientale” , un’occupazione forzosa da parte dell’imprenditore colluso di tutti gli spazi di mercato relativi a tale attività, non in considerazione delle qualità dell’imprenditore nell’offrire il prodotto, ma proprio in quanto “riservati” per intervento del clan. La Corte ha, in tal senso, precisato che tale condotta determina un sostanziale e forzoso boicottaggio in danno degli altri operatori del settore. È rilevante, inoltre, richiamare quanto affermato dal collegio, nel senso che “quanto alla minaccia costitutiva dell’intimidazione anticoncorrenziale, questa ben può essere, al pari di quella del delitto di estorsione, implicita o ambientale, non necessitando di manifestazioni eclatanti, purché sia idonea ad incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alle condizioni soggettive della vittima e della situazione in cui opera.” Anche in questo caso, come in molte decisioni richiamate nella casistica recente, si è evidenziato che la norma non richiede che l’atto di concorrenza con violenza o minaccia si rivolga agli altri concorrenti in senso stretto (nella specie i fornitori di macchinette), potendo configurarsi anche quando tale atto si diriga verso altri soggetti (gli esercenti, che la vicenda vede coinvolti in prima istanza sebbene non esclusiva).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 6, n. 3492 del 09/01/1989, Spano, Rv. 180706 – 01

Sez. 1, n. 11993 del 14/11/1995, Di Mauro, Rv. 203050 – 01

Sez. 3, n. 450 del 15/02/1995, Tamborrini, Rv. 201578 – 01

Sez. 1, n. 2224 del 01/02/1995, Buzzone Rv. 203900 – 01

Sez. 6, n. 7627 del 31/01/1996, Alleruzzo, Rv. 206603-01

Sez. 2, n. 26918 del 16/05/2001, Monaco, Rv. 219804 -01

Sez. 2, n. 14467 del 28/02/2004, Arangio, Rv. 228719 - 01

Sez. 6, n. 13691 del 15/03/2005, De Noia Mecenero, Rv. 231129 - 01

Sez. 3, n. 46756 del 03/11/2005, Mannone, Rv. 232650 - 01

Sez. 2, n. 35611 del 27/06/2007, Tarantino, Rv. 237801 - 01

Sez. 3, n. 44169 del 22/10/2008, Di Nuzzo, Rv. 241683 – 01

Sez. 2, n. 20647 del 11/05/2010, Corniani, Rv. 247272 - 01

Sez. 1, n. 9750 del 03/02/2010, Bongiorno, Rv. 246515 - 01

Sez. 1, n. 6541 del 02/02/2012, Aquino, Rv. 252435 - 01

Sez. 3, n. 16195 del 06/03/2013, Fammilume, Rv. 255398 - 01

Sez. 2, n. 29009 del 27/05/2014, Ciliberti, Rv. 260039 – 01

Sez. 6, n. 6055 del 24/06/2014, Amato, Rv. 263164 01

Sez. 2, n. 9763 del 10/02/2015, Amadoro, Rv. 263299 - 01

Sez. 2, n. 15781 del 26/03/2015, Arrichiello, Rv. 263530 - 01

Sez. 6, n. 24741 del 05/05/2015, Iacopino, Rv. 265603 – 01

Sez. 3, n. 3868 del 10/12/2015, Inguì, Rv. 266180 – 01

Sez. 6, n. 44698 del 22/09/2015, Cannizzaro Rv. 265358 - 01

Sez. 3, n. 3868 del 10/12/2015, Inguì, Rv. 266180 - 01

Sez. 2, n. 18122 del 13/04/2016, Gencarelli, Rv. 266847 - 01

Sez. 2, n. 49365 del 08/11/2016, Prezioso, Rv. 268515 - 01

Sez. 2, n. 9513 del 18/01/2018, Ietto, Rv. 272371 – 01

Sez. 2, n. 12205 del 20/02/2018, Sergi Sez. 1, n. 46113 del 16/03/2018, Acri Sez. 2, n. 41022 del 19/04/2018, Pelle Sez. 2, n. 35454 del 19/04/2018, Sergi

Sez. 2, n. 28193 del 16/05/2018, Gencarelli Sez. 2, n. 29387 del 31/05/2018, Cuzzocrea Sez. 5, n. 45839 del 05/06/2018, Lo Boido

Sez. 6, n. 38551 del 05/06/2018, D., Rv. 274101 - 01

Sez. 6, n. 38551 del 06/06/2018, D’Angelo Sez. 6, n. 49933 del 07/06/2018, Spadafora

Sez. 2, n. 30406 del 19/06/2018, Sergi, Rv. 273374 - 01

Sez. 6, n. 39992 del 20/06/2018, Spadafora Sez. 6, n. 49851 del 04/07/2018, Lavorato

Sez. 6, n. 39934 del 06/07/2018, Spadafora Sez. 5, n. 45334 del 12/07/2018, Traini

Sez. 6, n. 50084 del 12/07/2018, Terracciano, Rv. 274288 – 01 Sez. 6, n. 50096 del 12/07/2018, Alati

Sez. 6, n. 50094 del 12/07/2018, Alati, Rv. 275717 – 01

Sez. 6, n. 51986 del 25/09/2018, Flotta

Sez. 1, n. 2362/2019 del 11/10/2018, Martino Sez. 1, n. 51503 del 11/10/2018, Ferraro

Sez. 6, n. 57879 del 25/10/2018, Bosta

Sez. 2, n. 7011 del 05/11/2018, dep. 2019, Belfiore

Sez. 2, n. 8031, del 06/11/2018, dep. 2019, Marciano Sez. 2, n. 55228 del 27/11/2018, Fava

Sez. 2, n. 44321 del 13/09/2018, Matera Sez. 2, n. 4217 del 05/12/2018, Bartolo Sez. 2, n. 57811 del 07/12/2018, Cuzzocrea Sez. 2, n. 57826 del 07/12/2018, Giardino

Sez. 2, n. 4436/2019 del 18/12/2018, Anello Sez. 2, n. 7867 del 22/01/2019, De Masi Sez. 6, n. 19946 del 27/03/2019, Di Spena Sez. 6, n. 29903 del 27/03/2019, Putrino

Sez. 6, n. 37520 del 18/04/2019, Rocca, Rv. 276725 -01

Sez. 6, n. 39372 del 18/04/2019, Mauceri Sez. 5, n. 27756 del 24/05/2019, Capicchiano Sez. 2, n. 4710 del 06/11/2019, Marciano Sez. 2, n. 34214 del 15/10/2020, Capriati

SEZIONE III REATI DEL CODICE PENALE - DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO

  • reato
  • violenza
  • concorso nel reato

CAPITOLO I

ESERCIZIO ARBITRARIO DELLE PROPRIE RAGIONI CON VIOLENZA O MINACCIA ALLE PERSONE: NATURA, DISTINZIONE CON L’ESTORSIONE, CONCORSO DEL TERZO.

(di Alessandro D’Andrea )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le questioni controverse. - 3 La natura di reato proprio non esclusivo dei delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. - 4 Il criterio di distinzione tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione: i diversi orientamenti giurisprudenziali. - 4.1 La soluzione delle Sezioni Unite. - 5 La configurabilità del concorso del terzo nel reato ex art. 393 cod. pen. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in particolar modo nella più grave configurazione disciplinata dall’art. 393 cod. pen., è stato sotto oggetto di diverse significative enunciazioni da parte delle Sezioni Unite nella sentenza n. 29541 del 16/07/2020, dep. 23/10/2020, Filardo.

Risolvendo specifiche questioni giuridiche rimesse al proprio vaglio, infatti, il Supremo Collegio ha pronunciato tre differenti principi di diritto, con cui ha, rispettivamente, precisato che: 1) i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni hanno natura di reato proprio non esclusivo; 2) il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie; 3) il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità.

2. Le questioni controverse.

Le superiori affermazioni hanno, in particolare, dato soluzione ad alcune peculiari problematiche rimesse all’esame delle Sezioni Unite dall’ordinanza della Seconda sezione n. 50696 del 25/09/2019.

Chiamata a dare corretto inquadramento giuridico alla condotta ascritta agli imputati - condannati per il reato di tentata estorsione aggravata dall’utilizzo del metodo mafioso, per aver minacciato le persone offese al fine di ottenere l’immediato adempimento di una prestazione obbligazionaria senza attendere gli esiti di una causa civile pendente -, in potenza configurabile sia la fattispecie ex art. 629 cod. pen. che quella prevista dall’art. 393 cod. pen., la Seconda sezione aveva ritenuto necessario richiedere l’adozione della soluzione nomofilattica in ordine alla controversa questione riguardante l’individuazione degli esatti criteri di distinzione tra i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione, con riguardo alle sole ipotesi in cui - al pari di quella in esame - l’aggressione alla persona fosse funzionale al soddisfacimento di un diritto tutelabile dinanzi all’autorità giudiziaria. Era stato ricordato, in particolare, come in proposito rilevassero due macro-orientamenti ermeneutici, che distinguevano le suddette fattispecie valorizzando, rispettivamente, le differenze esistenti sotto il profilo della materialità ovvero quelle rilevanti sotto il profilo dell’elemento psicologico.

Nello sviluppo argomentativo, quindi, la Seconda sezione, tenuta a valutare un caso in cui la minaccia era stata espressa pure da parte di imputati terzi non creditori, aveva ritenuto indispensabile coinvolgere il Supremo Collegio anche per chiedergli di dirimere l’esistente contrasto ermeneutico riguardante la possibilità di configurazione del concorso del terzo non titolare della pretesa giuridicamente tutelabile nel delitto previsto dall’art. 393 cod. pen., previamente stabilendo, quale relativo presupposto, se l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni dovesse essere considerato, o meno, come reato proprio esclusivo, e cioè come figura la cui condotta tipica è integrabile solo da parte del soggetto titolare della posizione “qualificata”.

Conclusivamente, pertanto, le Sezioni Unite erano state investite delle controverse questioni riguardanti: «se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all’elemento oggettivo, in particolare con riferimento al grado di gravità della violenza o della minaccia esercitate, o, invece, in relazione al mero elemento psicologico, e, in tale seconda ipotesi come debba essere accertato tale elemento» e «se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni debba essere qualificato come reato proprio esclusivo e, conseguentemente, in quali termini si possa configurare il concorso del terzo non titolare della pretesa giuridicamente tutelabile».

3. La natura di reato proprio non esclusivo dei delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

Le Sezioni Unite hanno in primo luogo esaminato, per evidenti ragioni di ordine logico, la preliminare questione riguardante l’individuazione del soggetto attivo dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (artt. 392 e 393 cod. pen.).

Ricostruite le ragioni storiche di genesi del reato proprio e quelle relative all’incriminazione della condotta di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, è stato dato conto del contrasto ermeneutico esistente tra l’interpretazione della dottrina tradizionale e di una parte minoritaria di quella più recente, per cui i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni sono reati comuni (desumendo, in particolare, ciò dall’utilizzo negli artt. 392 e 393 cod. pen. del termine “chiunque” per indicare il soggetto attivo), e quella della dottrina dominante più recente, per cui le fattispecie di ragion fattasi hanno natura di reato proprio, in quanto unicamente integrabili: dal titolare del preteso diritto; dal soggetto che in sua vece esercita legittimamente tale diritto; dal negotiorum gestor.

È stato precisato, altresì, che, ai fini della configurazione dei delitti in esame, il terzo non titolare del preteso diritto che ne reclami arbitrariamente soddisfazione deve necessariamente possedere un particolare legame con il creditore ed essere assolutamente privo di un interesse proprio. Tale orientamento ha trovato riscontro in diverse pronunce della giurisprudenza di legittimità, per le quali è necessario che nei reati ex artt. 392 e 393 cod. pen. vi sia sempre il coinvolgimento del titolare del preteso diritto azionato (così, in particolare: Sez. 6, n. 8434 del 30/04/1985, Chiacchiera, Rv. 170533-01; Sez. 2, n. 8778 del 09/04/1987, Schiera, Rv. 176469-01; Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, Paiano, Rv. 188123-01; Sez. 6, n. 14334 del 16/03/2001, Federici, Rv. 218728-01; Sez. 6, n. 15972 del 05/04/2001, Corieri, Rv. 218668-01; Sez. 6, n. 1257 del 03/11/2003, dep. 2004, Paoli, Rv. 228415-01; Sez. 6, n. 23322 del 08/03/2013, Anzalone, Rv. 256623-01).

Aderendo a tale ultima interpretazione, le Sezioni Unite hanno risolto la questione giuridica configurando i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reati propri.

Il Supremo Collegio ha ricordato come, per assumere rilievo penale, le condotte debbano necessariamente essere commesse (rispettivamente) con violenza sulle cose o con violenza o minaccia alle persone. Più precisamente, nel delitto ex art. 392 cod. pen. quasi sempre ricorrono gli estremi del fatto di danneggiamento, mentre nel reato ex art. 393 cod. pen. rilevano gli elementi del delitto di violenza privata. Le fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni sono, tuttavia, punite meno gravemente dei reati in esse contenuti, il che, per le Sezioni Unite, trova giustificazione nel fatto che il soggetto attivo agisce nella convinzione di esercitare un proprio diritto, ragion per cui, anche in conformità al comune sentire della coscienza sociale, è da considerarsi opportuna l’attenuazione di pena prevista.

Per le Sezioni Unite non costituisce ostacolo alla qualificazione di tali delitti come reati propri la circostanza che negli artt. 392 e 393 cod. pen. il soggetto attivo sia indicato con il termine “chiunque”, atteso che esso è presente pure in disposizioni (come, ad esempio, in quelle degli artt. 372 e 564 cod. pen.) che in modo indubbio si riferiscono a reati propri. Il “chiunque” degli artt. 392 e 393 cod. pen. è, quindi, soltanto il soggetto che potrebbe ricorrere al giudice al fine di esercitare un preteso diritto.

Accertatane la natura giuridica di reati propri, le Sezioni Unite hanno affrontato la consequenziale questione finalizzata a chiarire se i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni siano, o meno, reati propri esclusivi (o di mano propria).

L’orientamento giurisprudenziale dominante si è reiteratamente espresso in termini affermativi, ritenendo tali reati integrabili solo da parte di “chiunque si faccia ragione da sé medesimo”, per cui soggetto attivo potrebbe unicamente essere il soggetto “qualificato”, e giammai un estraneo al rapporto obbligatorio su cui si fonda la pretesa azionata (in tal senso Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360-01; ma anche, sia pur implicitamente: Sez. 5, n. 52241 del 20/06/2014, D’Ambrosio, Rv. 261381-01; Sez. 2, n. 41433 del 27/04/2016, Bifulco, Rv. 268630-01; Sez. 2, n. 31725 del 05/04/2017, Arnone, Rv. 271760-01; Sez. 2, n. 5092 del 20/12/2017, dep. 2018, Gatto, Rv. 272017-01).

Tale interpretazione non è stata, tuttavia, condivisa dalle Sezioni Unite, che hanno, invece, qualificato i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reati propri non esclusivi. È stato affermato, a conforto, che la necessità, normativamente indicata, che il soggetto titolare del preteso diritto “si faccia ragione da sé medesimo” presenta, in realtà, un contenuto solo descrittivo e meramente pleonastico, al pari di quanto conformemente ritenuto dalla consolidata esegesi dottrinaria.

4. Il criterio di distinzione tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione: i diversi orientamenti giurisprudenziali.

Il Supremo Collegio ha, quindi, affrontato la principale tematica rimessa al suo esame, riguardante l’individuazione del criterio di distinzione tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione, così da poter dare soluzione al conflitto giurisprudenziale insorto sul tema. In primo luogo, infatti, il tradizionale e prevalente filone esegetico ha individuato il criterio di differenziazione tra i delitti di cui agli artt. 629 e 393 cod. pen. nell’elemento intenzionale, in quanto nel primo il soggetto attivo agisce per procurarsi un ingiusto profitto, mentre nel secondo agisce al fine di conseguire un’utilità, che ritiene spettargli, senza adire l’autorità giudiziaria. Per tale orientamento, pertanto, i due delitti si distinguono in relazione all’elemento psicologico, atteso che nel reato ex art. 393 cod. pen. l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella ragionevole convinzione, in ipotesi anche infondata, di esercitare un diritto giudizialmente azionabile, mentre nell’estorsione persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza di non averne diritto (così: Sez. 2, n. 9121 del 19/04/1996, Platania, Rv. 206204-01; Sez. 2, n. 12329 del 04/03/2010, Olmastroni, Rv. 247228-01; Sez. 2, n. 22935 del 29/05/2012, Di Vuono, Rv. 253192-01; Sez. 2, n. 51433 del 04/12/2013, P.M. e Fusco, Rv. 257375-01; Sez. 2, n. 705 del 01/10/2013, dep. 2014, Traettino, Rv. 258071-01; Sez. 2, n. 24292 del 29/05/2014, Ciminna, Rv. 259831-01; Sez. 2, n. 31224 del 25/06/2014, Comite, Rv. 259966-01; Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014, Cacciola, Rv. 260344-01; Sez. 2, n. 42940 del 25/09/2014, Conte, Rv. 260474-01; Sez. 2, n. 23765 del 15/05/2015, P.M. in proc. Pellicori, Rv. 264106-01; Sez. 2, n. 44674 del 30/09/2015, Bonaccorso, Rv. 265190- 01; Sez. 2, n. 46628 del 03/11/2015, Stradi, Rv. 265214-01; Sez. 2, n. 42734 del 30/09/2015, Capuozzo, Rv. 265410-01; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360-01; Sez. 2, n. 1901 del 20/12/2016, dep. 2017, Di Giovanni, Rv. 268770-01; Sez. 1, n. 6968 del 20/07/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Rottino, Rv. 272285-01; Sez. 2, n. 56400 del 22/11/2018, Iannuzzi, Rv. 274256-01). Tale convincimento è stato unanimemente affermato anche in seno alla dottrina, sia tradizionale che recente, che ha sempre distinto i due reati in ragione della finalità perseguita dall’agente. A fronte di tale interpretazione si è contrapposto un altro indirizzo ermeneutico, per il quale il criterio di distinzione tra i due reati è da individuarsi nella materialità del fatto, per cui si configura il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone quando la condotta violenta o minacciosa non risulti fine a se stessa, ma sia strutturalmente connessa all’obiettivo dell’agente di far valere il preteso diritto, ragion per cui essa non può mai esprimersi in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza. Conseguentemente, quando la minaccia o la violenza si estrinsechino in forme di forza intimidatoria e di sistematica pervicacia tali da eccedere ogni ragionevole intento di far valere un diritto, la coartazione dell’altrui volontà risulta finalizzata a conseguire un profitto che già di per sé assume i caratteri dell’ingiustizia, così configurando il reato di estorsione (in tal senso, in particolare: Sez. 1, n. 10336 del 02/12/2003, dep. 2004, Preziosi, Rv. 228156-01; Sez. 2, n. 47972 del 01/10/2004, Caldara, Rv. 230709-01; Sez. 2, n. 14440 del 15/02/2007, Mezzanzanica, Rv. 236457-01; Sez. 2, n. 35610 del 27/06/2007, Della Rocca, Rv. 237992- 01; Sez. 5, n. 28539 del 14/04/2010, P.M. in proc. Coppola, Rv. 247882-01; Sez. 6, n. 32721 del 21/06/2010, Hamidovic, Rv. 248169-01; Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Straface, Rv. 248736-01; Sez. 5, n. 19230 del 06/03/2013, Palazzotto, Rv. 256249-01; Sez. 1, n. 32795 del 02/07/2014, Donato, Rv. 261291-01; Sez. 2, n. 9759 del 10/02/2015, Gargiuolo, Rv. 263298- 01; Sez. 6, n. 17785 del 25/03/2015, Pipitone, Rv. 263255-01; Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, Brudetti, Rv. 265320-01; Sez. 2, n. 44657 del 08/10/2015, Lupo, Rv. 265316-01; Sez. 2, n. 1921 del 18/12/2015, dep. 2016, Li, Rv. 265643-01; Sez. 6, n. 11823 del 07/02/2017, P.M. in proc. Maisto, Rv. 270024-01; Sez. 2, n. 33712 del 08/06/2017, Michelini, Rv. 270425-01; Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018, Maspero, Rv. 273837-01; Sez. 2, n. 55137 del 03/07/2018, Arcifa, Rv. 274469-01; Sez. 5, n. 35563 del 15/07/2019, Russo, Rv. 277316-01). Nell’ambito di tale esegesi il Supremo Collegio ha collocato anche un sotto-orientamento, per il quale ricorre il delitto di estorsione quando la condotta minacciosa o violenta, anche se finalisticamente orientata al soddisfacimento di un preteso diritto, si estrinsechi nella costrizione della vittima attraverso l’annullamento della capacità volitiva; si configura, invece, il delitto ex art. 393 cod. pen. quando il diritto giudizialmente azionabile venga soddisfatto attraverso condotte minacciose o violente che abbiano un epilogo “non costrittivo”, ma “più blandamente persuasivo” (il principio è stato, in particolare, espresso in: Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267123-01; Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018, Maspero, Rv. 273837-01; Sez. 2, n. 55137 del 03/07/2018, Arcifa, Rv. 274469-01).

4.1. La soluzione delle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite si sono espresse sull’indicato contrasto aderendo al primo orientamento ermeneutico, affermando che il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in ragione dell’elemento soggettivo. Il Supremo Collegio ha, in proposito, osservato che la materialità delle due fattispecie non risulta perfettamente sovrapponibile, considerato che solo in quella di estorsione è normativamente richiesto il verificarsi di un effetto di “costrizione” della vittima, conseguente alla violenza o alla minaccia, tale da indurre il soggetto passivo, di cui è compressa la libertà di autodeterminazione, all’adozione della prestazione patrimoniale in suo danno. La considerazione, poi, che sia l’art. 393, comma 3, cod. pen. che l’art. 629, comma 2, cod. pen. prevedano, in maniera analoga, un aumento di pena in caso di violenza o minaccia commessa con armi, ha indotto le Sezioni Unite a ritenere che sia stata normativamente prevista la possibilità di integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone aggravato dall’uso di un’arma, e quindi la qualificazione ai sensi dell’art. 393 cod. pen. di condotte in cui la violenza o la minaccia risultino connotate da una particolare gravità “costrittiva”, sproporzionata rispetto al fine perseguito. Tale aspetto è per il Supremo Collegio di decisivo rilievo al fine di escludere ogni possibile condivisione dell’interpretazione resa dal secondo indirizzo ermeneutico, per il quale, invece, le indicate condotte integrerebbero sempre gli estremi del delitto di estorsione. Tale assunto, d’altro canto, sembra trovare conforto anche nella Relazione del Guardasigilli al progetto del Codice penale - che genericamente qualifica la fattispecie ex art. 393 cod. pen. come “comprensiva d’ogni specie di violenza, fisica o morale” - e nel dettato delle stesse due disposizioni normative in esame, che non contengono gradazione alcuna delle modalità espressive della condotta violenta o minacciosa. Conclusivamente, quindi, per le Sezioni Unite i delitti previsti dagli artt. 393 e 629 cod. pen., pur caratterizzati da materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono per l’elemento psicologico, nel senso che: nel primo, l’agente tende al conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia. Il Supremo Collegio ha, infine, arricchito l’indicata conclusione precisando che: ai fini dell’integrazione del delitto ex art. 393 cod. pen., la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve corrispondere in modo esatto all’oggetto della tutela concretamente apprestata dall’ordinamento giuridico, e non risultare in alcun modo più ampia (essendo peculiarità di tale fattispecie la sostituzione dello strumento di tutela pubblico con quello privato); la pretesa vantata dal soggetto attivo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone deve essere non del tutto arbitraria, ovvero sfornita di una possibile base legale, ma deve potenzialmente costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente apprezzabili possibilità di successo; configura il delitto di estorsione, e non quello di cui all’art. 393 cod. pen. (come invece ritenuto da un risalente orientamento), la condotta con cui l’agente eserciti la pretesa con violenza o minaccia in danno di un terzo estraneo al rapporto obbligatorio, per costringere il debitore a adempiere; l’elemento piscologico del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello del delitto di estorsione devono essere accertati secondo le ordinarie regole probatorie, per cui la speciale veemenza con cui viene perpetrato il comportamento violento o minaccioso può avere valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione; la circostanza aggravante del c.d. “metodo mafioso” non è incompatibile con il reato previsto dall’art. 393 cod. pen., per cui l’art. 416-bis.1 cod. pen. non si applica in via esclusiva al delitto di estorsione (come invece affermato da altro orientamento).

5. La configurabilità del concorso del terzo nel reato ex art. 393 cod. pen.

Le Sezioni Unite hanno, infine, affrontato l’ultima questione rimessa al loro esame, riguardante le modalità attraverso cui è configurabile il concorso di persone del terzo non titolare della pretesa giuridicamente tutelabile nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone. Il Supremo Collegio ha, in proposito, enunciato i principi del tradizionale orientamento giurisprudenziale, per cui, in caso di condotta tipica posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, si ha concorso nel reato di esercizio delle proprie ragioni allorquando il terzo commetta il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare. Laddove, invece, il terzo agisca in piena autonomia, per il perseguimento di propri interessi, la condotta integra gli estremi del concorso nel reato di estorsione (così, in particolare: Sez. 2, n. 4681 del 21/03/1997, Russo, Rv. 207595-01; Sez. 5, n. 29015 del 12/07/2002, Aligi, Rv. 222292-01; Sez. 2, n. 12982 del 16/02/2006, Caratozzolo, Rv. 234117-01; Sez. 5, n. 22003 del 07/03/2013, Accarino, Rv. 255651-01). Le Sezioni Unite hanno affermato di condividere l’indicata interpretazione, in quanto coerente con i principi giuridici in precedenza enunciati. L’elemento di discrimine è, infatti, rappresentato dalla finalità con cui i terzi concorrenti non creditori intervengono a tutela del preteso diritto del titolare, configurandosi il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone nei soli casi in cui il terzo si limiti a perseguire l’interesse del creditore, contribuendo alla realizzazione della sua pretesa, senza avere nessuna ulteriore e diversa finalità. È stato precisato, ancora, che, così stabilita la distinzione tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 cod. pen., non residua possibilità alcuna di configurazione di un concorso formale tra di essi, risultando le due fattispecie solo alternative tra loro, in ragione della natura propria del rispettivo elemento psicologico. Nel caso di concorso in estorsione, infatti, l’eventuale fine di soddisfazione di un diritto del preteso creditore resta assorbito nel concorrente scopo di profitto illecito perseguito da parte dei terzi concorrenti.

. Indice delle sentenze citate

Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di Cassazione

Sez. 6, n. 8434 del 30/04/1985, Chiacchiera, Rv. 170533-01

Sez. 2, n. 8778 del 09/04/1987, Schiera, Rv. 176469-01

Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, Paiano, Rv. 188123-01

Sez. 2, n. 9121 del 19/04/1996, Platania, Rv. 206204-01

Sez. 2, n. 4681 del 21/03/1997, Russo, Rv. 207595-01

Sez. 6, n. 14334 del 16/03/2001, Federici, Rv. 218728-01

Sez. 6, n. 15972 del 05/04/2001, Corieri, Rv. 218668-01

Sez. 5, n. 29015 del 12/07/2002, Aligi, Rv. 222292-01

Sez. 6, n. 1257 del 03/11/2003, dep. 2004, Paoli, Rv. 228415-01

Sez. 1, n. 10336 del 02/12/2003, dep. 2004, Preziosi, Rv. 228156-01

Sez. 2, n. 47972 del 01/10/2004, Caldara, Rv. 230709-01

Sez. 2, n. 12982 del 16/02/2006, Caratozzolo, Rv. 234117-01

Sez. 2, n. 14440 del 15/02/2007, Mezzanzanica, Rv. 236457-01 Sez. 2, n. 35610 del 27/06/2007, Della Rocca, Rv. 237992-01 Sez. 2, n. 12329 del 04/03/2010, Olmastroni, Rv. 247228-01

Sez. 5, n. 28539 del 14/04/2010, P.M. in proc. Coppola, Rv. 247882-01 Sez. 6, n. 32721 del 21/06/2010, Hamidovic, Rv. 248169-01

Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Straface, Rv. 248736-01 Sez. 2, n. 22935 del 29/05/2012, Di Vuono, Rv. 253192-01

Sez. 5, n. 19230 del 06/03/2013, Palazzotto, Rv. 256249-01

Sez. 5, n. 22003 del 07/03/2013, Accarino, Rv. 255651-01

Sez. 6, n. 23322 del 08/03/2013, Anzalone, Rv. 256623-01

Sez. 2, n. 705 del 01/10/2013, dep. 2014, Traettino, Rv. 258071-01

Sez. 2, n. 51433 del 04/12/2013, Fusco, Rv. 257375-01

Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014, Cacciola, Rv. 260344-01

Sez. 2, n. 24292 del 29/05/2014, Ciminna, Rv. 259831-01

Sez. 5, n. 52241 del 20/06/2014, D’Ambrosio, Rv. 261381-01

Sez. 2, n. 31224 del 25/06/2014, Comite, Rv. 259966-01

Sez. 1, n. 32795 del 02/07/2014, Donato, Rv. 261291-01

Sez. 2, n. 42940 del 25/09/2014, Conte, Rv. 260474-01

Sez. 2, n. 9759 del 10/02/2015, Gargiuolo, Rv. 263298-01

Sez. 6, n. 17785 del 25/03/2015, Pipitone, Rv. 263255-01

Sez. 2, n. 23765 del 15/05/2015, Pellicori, Rv. 264106-01

Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, Brudetti, Rv. 265320-01

Sez. 2, n. 42734 del 30/09/2015, Capuozzo, Rv. 265410-01

Sez. 2, n. 44674 del 30/09/2015, Bonaccorso, Rv. 265190-01

Sez. 2, n. 44657 del 08/10/2015, Lupo, Rv. 265316-01

Sez. 2, n. 46628 del 03/11/2015, Stradi, Rv. 265214-01

Sez. 2, n. 1921 del 18/12/2015, dep. 2016, Li, Rv. 265643-01

Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267123-01

Sez. 2, n. 41433 del 27/04/2016, Bifulco, Rv. 268630-01

Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360-01

Sez. 2, n. 1901 del 20/12/2016, dep. 2017, Di Giovanni, Rv. 268770-01

Sez. 6, n. 11823 del 07/02/2017, Maisto, Rv. 270024-01

Sez. 2, n. 31725 del 05/04/2017, Arnone, Rv. 271760-01

Sez. 2, n. 33712 del 08/06/2017, Michelini, Rv. 270425-01

Sez. 1, n. 6968 del 20/07/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Rottino, Rv. 272285-01 Sez. 2, n. 5092 del 20/12/2017, dep. 2018, Gatto, Rv. 272017-01

Sez. 2, n. 55137 del 03/07/2018, Arcifa, Rv. 274469-01

Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018, Maspero, Rv. 273837-01

Sez. 2, n. 56400 del 22/11/2018, Iannuzzi, Rv. 274256-01

Sez. 5, n. 35563 del 15/07/2019, Russo, Rv. 277316-01

Sez. 2, ord. n. 50696 del 25/09/2019, Filardo ed altri Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo e altri

  • traffico illecito
  • riciclaggio di denaro

CAPITOLO II

RICICLAGGIO E AUTORICICLAGGIO

(di Elena Carusillo )

Sommario

1 Riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, autoriciclaggio: l’evoluzione normativa. - 2 Le condotte di riciclaggio: il trasferimento del bene in luogo in cui è difficile individuarne la provenienza delittuosa. - 3 Autoriciclaggio e irrilevanza della condotta di mero trasferimento occasionale del bene. - 4 Concorso tra autoriciclaggio e bancarotta. - 5 Il prodotto, il profitto e il prezzo dei reati di riciclaggio ed autoriciclaggio. - 6 Impiego del profitto illecito derivante da violazione finanziaria e clausola di esonero. - 7 Capacità dissimulatoria della condotta e sua valutazione ex ante. - Indice delle sentenze citate.

1. Riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, autoriciclaggio: l’evoluzione normativa.

L’ingresso nel nostro sistema penale del delitto di riciclaggio, avvenuto con l’inserimento nel codice dell’art. 648-bis ad opera dell’art. 3 del d.l. 21 marzo 1978, n. 59, convertito nella l. 18 maggio 1978, n. 191 del 1978 (sostituzione di denaro e valori provenienti da rapina aggravata, estorsione aggravata e sequestro di persona a scopo di estorsione) non raccoglieva consensi unanimi in ragione del numero limitato di reati presupposto e tanto induceva il legislatore ad intervenire sostituendone la disciplina con l’art. 23 della legge n. 55 del 1990 che, da un lato, estendeva il catalogo dei reati presupposto anche a quelli concernenti la produzione e il traffico illecito di sostanze stupefacenti, dall’altro lato, abbandonata la struttura del reato a condotta anticipata, richiedeva anche un’effettiva attività di sostituzione del provento del delitto o una concreta attività di ostacolo all’identificazione della sua provenienza ed, infine, ampliava l’individuazione dell’oggetto del reato non più rappresentato soltanto da “altro denaro o altri valori”, ma da “denaro, beni o altre utilità”. A pochi anni di distanza, il legislatore nuovamente interveniva con l’art. 4 della l. 9 agosto 1993, n. 328 operando una riformulazione dell’art. 648-bis cod. pen. che, caratterizzata dall’estensione dei reati presupposto a tutti i delitti non colposi, rendeva superflua la necessità di una dettagliata elencazione della tipologia degli stessi e individuava quale comune denominatore delle condotte tutte le operazioni volte ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa di “denaro, beni o altre utilità”.

Contestualmente alla prima modifica, attuata con l’art. 24 della legge n. 55 del 1990, poi sostituito dall’art. 5 della l. 9 agosto 1993, n. 328, il legislatore introduceva nel codice, all’art. 648-ter cod. pen., il delitto di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, attenzionando il settore delle attività economiche e finanziarie.

Le ipotesi delittuose di riciclaggio e di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita subivano un’ulteriore modifica legislativa ad opera dell’art. 3 della l. 15 dicembre 2014 (Disposizioni in materia di emersione e rientro di capitali detenuti all’estero nonché per il potenziamento della lotta all’evasione fiscale. Disposizioni in materia di riciclaggio), in merito al quantum della pena.

Con l’art. 3, comma 3, della l. 15 dicembre 2014 si dava corso anche all’inserimento nel sistema penale del delitto di autoriciclaggio di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen. in forza del quale, superata la prospettiva del c.d. privilegio dell’autoriciclaggio, si attribuiva rilevanza penale all’attività di riciclaggio o reimpiego dei proventi ad opera dell’autore del reato presupposto, fino a quel momento esclusa dalla clausola di riserva contenuta negli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen.

Il legislatore attraverso la nuova figura delittuosa realizzava una sorta di fusione della fattispecie di riciclaggio con quella di reimpiego, senza tuttavia ricomprendere l’intero novero delle condotte punibili ai sensi delle norme incriminatrici preesistenti. Infatti, l’autoriciclaggio si distingue dall’art. 648-bis cod. pen. che punisce anche i comportamenti diversi dalla sostituzione e dal trasferimento che ostacolano la rintracciabilità del provento e si distingue dal delitto di cui all’art. 648-ter cod. pen. che non contempla profili di necessaria decettività della condotta.

2. Le condotte di riciclaggio: il trasferimento del bene in luogo in cui è difficile individuarne la provenienza delittuosa.

La fattispecie criminosa di riciclaggio, come da ultimo modificata, richiede che la condotta sia caratterizzata da un tipico effetto dissimulatorio ravvisabile non solo in attività volte ad ostacolare in modo definitivo l’accertamento o l’individuabilità dell’origine delittuosa del denaro, dei beni o delle altre utilità, ma anche in comportamenti finalizzati solo a rendere difficile l’accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità, attraverso un qualsiasi espediente. Infatti, il delitto di riciclaggio, costruito come reato di mera condotta a forma libera, è posto a tutela dell’interesse dell’ordine pubblico economico la cui lesione si ravvisa non solo nella condotta materiale di sostituzione di beni, ma anche nell’attività di movimentazione di proventi illeciti attraverso operazioni di collocamento tali da ostacolarne l’identificazione, intesa anche come mera difficoltà nell’accertamento della provenienza.

Sul solco tracciato da quella giurisprudenza secondo la quale integra il delitto di riciclaggio la condotta volta ad ostacolare la tracciabilità del percorso dei beni di provenienza illecita, anche solo in termini di mera difficoltà nell’accertamento e indipendentemente dalla circostanza che la stessa sia effettivamente impedita (Sez. 5, n. 21295 del 17/04/2018, Ratto, Rv. 273183; Sez. 2, n. 43881 del 09/10/2014, Matarrese, Rv. 260694 e Sez. 2, n. 3397 del 16/11/2012, Anemone, Rv. 254314), Sez. 2, n. 23774 del 13/07/2020, Aatifi Faycal, Rv. 279586, ha affermato che è sufficiente ad integrare il delitto di riciclaggio anche il mero trasferimento di un bene da un luogo ad un altro, ove idoneo a rendere di fatto più difficoltosa l’identificazione della sua provenienza delittuosa e, quindi, il compimento di operazioni che, pur tracciabili, siano di ostacolo all’identificazione della provenienza del bene, sicché ai fini della integrazione del delitto, non è necessario che l’accertamento o l’astratta tracciabilità del percorso dei beni provento di reato sia impedito in termini di impossibilità assoluta e definitiva, non costituendo, questo, l’evento del reato.

Nel caso al vaglio della Corte, l’imputato era stato condannato per due episodi di riciclaggio relativi al trasferimento in Africa di veicoli provento del delitto di appropriazione indebita consumata da terzi ai danni di due società di leasing. Secondo la tesi difensiva il possesso da parte dell’imputato dei documenti relativi ai veicoli e delle procure speciali per la conduzione dei mezzi all’estero, sottoscritte dagli autori materiali dei delitti di appropriazione indebita, rappresentavano circostanze dalle quali desumere agevolmente il contributo offerto dall’imputato nel delitto presupposto e, pertanto, la sua responsabilità a titolo di concorso nel medesimo; era, peraltro, da escludere che, in assenza di operazioni di ripulitura, il solo spostamento da un luogo ad un altro dei veicoli potesse, di per sé, rappresentare un’operazione in grado di ostacolarne la identificazione come beni provenienti da reato.

Nel suo percorso motivazionale, la Corte ha chiarito in primo luogo che il criterio per distinguere la responsabilità in ordine al delitto di riciclaggio di denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, dalla responsabilità a titolo di concorso nel reato presupposto - che escluderebbe la prima - non può essere solo quello temporale, ossia il momento in cui si perfeziona l’accordo, ma richiede la verifica del “peso” rappresentato dall’assicurazione, manifestata ed offerta preventivamente dall’autore del reato principale all’autore materiale del reato presupposto, della propria collaborazione nel trasferimento dei veicoli all’estero in termini di determinazione o quantomeno di rafforzamento della decisione del detentore del veicolo di appropriarsene indebitamente ed “uti dominus”. Sulla base di tale premessa, la Corte ha concluso che, in assenza di ulteriori elementi sintomatici, il rilascio all’imputato della procura speciale per l’imbarco e la conduzione dei veicoli da parte dell’autore del reato presupposto, così come la consegna dei documenti dei veicoli necessari alla loro corretta movimentazione, rappresentano elementi neutri ed asintomatici di un pregresso accordo, ben potendo questo intervenire in un momento successivo alla “già consumata” appropriazione indebita.

Quanto, poi, alla tesi difensiva secondo la quale il mero trasferimento dei veicoli in Africa in assenza di condotte di alterazione materiale degli stessi avrebbe potuto, al più, integrare il delitto di ricettazione, la Corte ha sottolineato come nella formulazione della norma incriminatrice di cui all’art. 648-bis cod. pen., il legislatore abbia tipizzato come condotta causalmente produttiva dell’evento anche l’attività materiale di trasferimento del bene qualora idonea a rendere di fatto più difficoltosa l’identificazione dell’origine illecita del medesimo, situazione certamente ravvisabile nel caso di spostamento di beni in un paese estero, in particolare in uno stato extracomunitario, in ragione del pericolo rappresentato dalla “oggettiva diminuzione delle probabilità di risalire al reato presupposto ed all’avente diritto, dovuta alla recisione del collegamento con il luogo di provenienza”.

In termini si è posta, da ultimo, anche Sez. 2, n. 35022 del 09/10/2020, Bouchab Abdelhadi, affermando che è configurabile il delitto di riciclaggio e non quello di ricettazione anche in presenza di semplici attività di occultamento e, dunque, in assenza di condotte di alterazione materiale dei beni. Il caso che ha originato queste conclusioni riguardava l’occultamento di alcuni ciclomotori provento di furto, sistemati tra masserizie varie all’interno di un furgone condotto dall’imputato nell’area di imbarco di una motonave diretta in Marocco. La Corte, superando le osservazioni difensive, volte ad evidenziare come la circostanza che la polizia giudiziaria all’esito del rinvenimento dei mezzi avesse agevolmente rintracciato i proprietari fosse sufficiente a dimostrare l’assenza di una condotta dell’imputato tesa ad impedire l’identificazione della loro provenienza, ha chiarito che, secondo la testuale dizione contenuta nella norma di cui all’art. 648-bis cod. pen., il delitto di riciclaggio è integrato non soltanto dalle condotte tipiche di sostituzione o trasformazione del bene di origine illecita, ma anche da ogni altra operazione diretta ad ostacolare l’identificazione dell’origine delittuosa della res senza incidere direttamente, mediante alterazione dei dati esteriori, sulla cosa in quanto tale. La Corte ha, quindi, concluso nel senso della sussumibilità nel delitto di riciclaggio della condotta dell’imputato che non si era limitato alla semplice ricezione dei beni, punibile secondo lo schema di cui all’art. 648 cod.pen., ma aveva frapposto ostacoli concreti alla identificazione degli stessi quale provento di precedente delitto occultandoli, sicché la piena riuscita dell’operazione avrebbe impedito l’identificazione dei veicoli illecitamente sottratti.

3. Autoriciclaggio e irrilevanza della condotta di mero trasferimento occasionale del bene.

In merito alla valutazione della idoneità della condotta volta ad ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni, con recente decisione, Sez. 2, n. 7265 del 14/01/2020, Toia, Rv. 277967 ha escluso che la cessione temporanea a terzi, per singoli incontri di calcio, di abbonamenti nominativi ottenuti da una società sportiva attraverso modalità estorsive, integri il delitto di autoriciclaggio non ricorrendo una con- dotta idonea ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni stessi.

Nella specie, il pubblico ministero aveva proposto ricorso avverso l’ordinanza del tribunale del riesame che, a suo avviso, aveva erroneamente escluso che il trasferimento a terzi di venticinque abbonamenti per la stagione calcistica, intestati ai cd. striscionisti (tifosi che si occupano di esporre gli striscioni nella curva della tifoseria di appartenenza) e da questi ottenuti, seppur dietro pagamento, a seguito di minacce rivolte alla società calcistica, potesse integrare una condotta rilevante ai sensi dell’art. 648-ter. 1 cod. pen., in quanto non qualificabile come attività finanziaria, economica o imprenditoriale. Ad avviso del pubblico ministero, invece, la condotta di cessione degli abbonamenti rappresentava null’altro che una modalità di reimmissione nel circuito legale di beni di provenienza delittuosa, realizzata in modo da ostacolarne l’identificazione dell’origine attraverso la rivendita, per singole partite, da parte di un soggetto terzo che si interponeva “schermo” tra la condotta estorsiva e il suo prodotto, ossia gli abbonamenti, e consentirne il rientro nel circuito economico in favore di soggetti inconsapevoli.

La Corte, ritenendo corretto il percorso argomentativo del giudice della cautela, ha escluso, invece, che il trasferimento per singole partite di abbonamenti nominativi dai soggetti titolari a terzi soggetti possa integrare quella condotta idonea a “ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa” richiesta dalla norma, in ragione sia della intestazione nominativa degli abbonamenti, sia della comunicazione alla società sportiva dell’avvenuta rivendita, necessaria per consentire ai terzi acquirenti l’ingresso allo stadio. Ad avviso della Corte, inoltre, la predisposizione dello “schermo”, ossia del soggetto rivenditore, si poneva, rispetto alla ipotizzata condotta di autoriciclaggio, come antecedente rivelatore della sola volontà di perseguire un profitto economico dalla vendita dei beni e non anche della volontà di ostacolarne l’individuazione dell’origine.

4. Concorso tra autoriciclaggio e bancarotta.

Il tema del rapporto tra il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale e per dissipazione e il delitto di autoriciclaggio, nel 2020, è stato affrontato con la sentenza n. 1203 del 14/11/2019, dep. 2020, Hu Shaojing, Rv. 277854 dalla Quinta sezione che, riprendendo le argomentazioni già espresse dalla stessa sezione nella decisione n. 8851 del 01/02/2019, Petricca, Rv. 275495, ha ravvisato il possibile concorso tra i due reati a condizione che l’impiego dei beni dell’impresa fallita o del loro ricavato in attività a questa estranee avvenga con modalità idonee a renderne obiettivamente difficoltosa l’individuazione dell’origine delittuosa e che, quindi, non si risolva nel mero utilizzo o godimento personale dell’agente. Nel caso di specie, la Corte, esclusa la ricorrenza di elementi ostativi al concorso tra il delitto presupposto di bancarotta fraudolenta per distrazione prefallimentare o postfallimentare e il delitto di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen., semprechè di quest’ultimo ricorrano tutti gli elementi costitutivi, ha pregevolmente sottolineato che la finalità primaria che ha indotto il legislatore all’introduzione del delitto di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen. è stata quella di colmare il vuoto determinato dalle fattispecie di riciclaggio e, quindi, di punire anche l’attività dell’autoriciclatore o di colui che ha concorso nel delitto presupposto, allorquando questa si risolva in condotte di impiego, di sostituzione e di trasferimento di denaro, beni o altre utilità provenienti dalla commissione del delitto presupposto in settori economici, finanziari, imprenditoriali o speculativi, comprensivi non solo di attività produttive in senso stretto, ma anche di scambi e distribuzione di beni nel mercato del consumo, idonee a realizzare la reimmissione delle utilità provenienti ex delicto in canali economici legali.

Ad avviso della Quinta sezione, la condotta di reimmissione, seppur non riconducibile ai canoni degli artifici o raggiri, deve essere concretamente idonea ad ostacolare, anche solo in termini di obiettiva difficoltà e non necessariamente di assoluto impedimento, l’identificazione della provenienza delittuosa del denaro, dei beni o delle altre utilità, sicchè per configurare il concorso tra il delitto di bancarotta per distrazione dei beni dell’impresa, poi fallita, o del loro ricavato verso finalità estranee all’impresa medesima, e il delitto di autoriciclaggio non è sufficiente il mero impiego di quegli stessi beni in attività imprenditoriali, ma occorre un quid pluris (nella specie individuato nella “polverizzazione” del patrimonio utilizzato per la creazione di nuove società “cloni” della prima, poi fallita) che denoti l’attitudine concretamente simulatoria della condotta, diversamente finendosi per sanzionare due volte la stessa attività sottrattiva.

Con la citata decisione, la Corte ha inoltre affermato che ricorre il delitto di autoriciclaggio del provento del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione anche nel caso in cui le condotte distrattive dell’agente originariamente consistite in attività di indebita appropriazione siano poi evolute, in una progressione criminosa terminata con la dichiarazione di fallimento della società a danno della quale sono state realizzate, nelle condotte di bancarotta di cui all’art. 216 legge fall. (Sez. 5, n. 2295 del 3/07/2015, Marafiori, Rv. 266018).

5. Il prodotto, il profitto e il prezzo dei reati di riciclaggio ed autoriciclaggio.

Un tema sempre attenzionato dalla giurisprudenza è quello relativo al prodotto, al profitto o al prezzo del delitto di riciclaggio, sul quale la Corte si è espressa anche di recente. Dando continuità a quella giurisprudenza secondo la quale, raggiunta la prova che il riciclatore si sia avvantaggiato del solo prezzo del reato e che, quindi, non sia ipotizzabile un concorso tra l’autore del reato presupposto ed il riciclatore, la confisca nei confronti di quest’ultimo non possa ricomprendere anche il profitto conseguito dall’autore del reato presupposto, Sez. 2, n. 30899 del 15/07/2020, Ambrosini è intervenuta per correggere la decisione di confisca per equivalente che aveva riguardato il patrimonio del riciclatore in misura pari all’intera somma riciclata della quale, in realtà, si era avvantaggiato solo l’autore del reato presupposto, affermando che la misura ablatoria può riguardare soltanto il prezzo del reato, come determinato in sede di accertamento giudiziale e, dunque, solo l’effettivo vantaggio economico derivato all’autore dalla commissione del delitto di cui all’art. 648-bis cod. pen.

Nella sentenza “Ambrosini”, la Corte ha evidenziato come la disciplina della confisca per equivalente di cui all’art. 648-quater, comma 2, cod. pen. che ricomprende, a differenza di quanto previsto al comma 1 della stessa norma per la confisca diretta, tra i beni aggredibili non soltanto il prodotto o il profitto, ma anche il prezzo del reato, abbia operato un ampliamento, non di poco conto, del catalogo dei frutti dell’attività illecita, imponendo al giudice la corretta ed esatta individuazione di ciò che si intende sequestrare al riciclatore: il prodotto, ovvero il risultato ottenuto direttamente con l’azione criminosa; il profitto, ovvero l’accrescimento del patrimonio ottenuto attraverso l’attività illecita; il prezzo, ovvero il compenso che ha spinto l’interessato a commettere il reato o ne ha rafforzato il preesistente intento criminoso o, ancora, ne ha determinato l’insorgere. Sicché la Corte, in ossequio ai principi di proporzionalità e di corrispondenza fra importo confiscabile e vantaggio patrimoniale ricavato dal reato, ha ribadito quanto già affermato, sia pur in maniera incidentale, da Sez. 2, n. 10649 del 30/01/2020, Rabino, secondo cui, una volta provato che il vantaggio del riciclatore è rappresentato dal solo prezzo del reato, è solo su questo che la misura ablatoria potrà essere disposta e non anche sulla restante parte relativa al vantaggio conseguito dall’autore del reato presupposto (Sez. 2, n. 37590 del 30/04/2019, Giulivi, Rv. 277083; Sez. 2, n. 22020 del 10/04/2019, Scimone, Rv. 276501).

Sempre sul tema, è interessante la decisione di Sez. 2, n. 34218 del 04/11/2020, Bonino, che, in linea con quanto già sostenuto da Sez. F, n. 37120 del 01/08/2019, Cudia, Rv. 277288, individua il profitto dei reati di riciclaggio e di reimpiego di denaro nel valore delle somme oggetto delle operazioni dirette ad ostacolare la provenienza delittuosa, sul presupposto che, in assenza di quelle operazioni, tali somme sarebbero state definitivamente sottratte in quanto provento del delitto presupposto. La Corte, chiamata a pronunciarsi sul sequestro preventivo, disposto in relazione al delitto di riciclaggio aggravato ai sensi dell’art. 61-bis cod. pen. nei confronti dell’amministratore di fatto di una s.r.l. che aveva trasferito su conti esteri e nazionali il provento di truffe informatiche attuate con la tecnica del phishing, ha ritenuto corretta la decisione del giudice della cautela che aveva applicato la misura ablativa sulla sola somma di denaro (di gran lunga inferiore al valore del profitto delle truffe consumate) oggetto delle manovre dell’indagato, unico soggetto riciclante, volte ad ostacolarne l’illecita provenienza. La Corte, nel suo percorso motivazionale, ha precisato che la decisione assunta non si pone in posizione dissonante con il principio di diritto affermato da Sez. 2, n. 37590 del 30/04/2019, Giulivi, Rv. 277083, secondo cui la confisca di valore, avendo natura sanzionatoria, partecipa del regime delle sanzioni penali e quindi non può essere applicata per un valore superiore al profitto del reato, travalicando, in caso contrario, il confine della pena illegale, poiché nel caso affrontato nella decisione “Giulivi” non solo si era verificata una perfetta sovrapposizione, in termini numerici, tra il profitto del reato presupposto ed il profitto del riciclaggio, ma, nella specie, più soggetti avevano concorso nel reato di riciclaggio, sicché non era stato possibile stabilire il profitto dell’uno o dell’altro e la divaricazione concettuale tra il “bene riciclato” ed il “profitto” conseguito dall’autore del reato attraverso la sua attività criminosa, si era imposta.

In relazione all’individuazione del prodotto, del profitto o del prezzo del reato, questa volta con riferimento al delitto di autoriciclaggio, si è pronunciata Sez. 2, n. 27228 del 15/09/2020, Lolaico, Rv. 279650 - 02.

Nella specie, il direttore di una banca, padre del ricorrente, aveva sottratto somme di danaro a vari clienti, così rendendosi autore di delitti di truffa e appropriazione indebita, parte delle quali aveva trasferito sul conto intestato ad una s.a.s. nella quale il figlio, suo prestanome, rivestiva la carica di legale rappresentante. Sui beni intestati al ricorrente era stato disposto il sequestro finalizzato alla confisca ai sensi dell’art. 648-quater cod. proc. pen., in quanto ritenuti profitto del delitto di autoriciclaggio commesso dal padre che a nome della s.a.s., della quale era il reale gestore, aveva acquistato un’attività di ristorazione. Dissentendo dalla tesi difensiva, la Corte, in linea con la decisione di Sez. 6, n. 4953 del 20/11/2019, dep. 2020, Cilli, Rv. 278204, ha affermato che il prodotto, il profitto o il prezzo del reato di riciclaggio non coincide con il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dal reato presupposto, ma va individuato nei proventi conseguiti dall’impiego di questi ultimi in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative.

Il caso affrontato dalla sentenza “Cilli” aveva ad oggetto, per la parte che qui interessa, il ricorso proposto dal pubblico ministero avverso l’ordinanza con la quale il giudice del merito aveva accolto la richiesta di riesame proposta in relazione al sequestro preventivo di una somma di denaro, indicata come profitto del delitto di autoriciclaggio, disposto nei confronti di un soggetto indagato anche per il delitto di peculato, reato in relazione al quale, invece, il sequestro era stato confermato. Ad avviso del pubblico ministero ricorrente, l’errore in cui era incorso il giudice distrettuale consisteva nell’aver ritenuto che l’utilizzo del denaro, illecitamente acquisito dall’indagato con la condotta distrattiva di peculato, per il pagamento degli stipendi del personale dipendente dell’ente da lui gestito non fosse idoneo, in assenza di operazioni atte a ostacolarne la provenienza, ad escludere l’applicazione della clausola di esonero di cui all’art. 648-ter.1, comma quarto, cod. pen., laddove, diversamente, ad assumere significativo rilievo era proprio la circostanza che l’indagato fosse l’amministratore di fatto dell’ente e che l’operazione di trasferimento del denaro ex delicto fosse avvenuta con emissione di regolare fattura. La Sesta sezione, dissentendo dalle argomentazioni della pubblica accusa, ha condiviso la decisione del giudice del riesame in ragione dell’assenza di specifici elementi, solo astrattamente prospettati, volti a dimostrare che le operazioni compiute dall’indagato fossero dirette ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del denaro, sicchè, rebus sic stantibus, il sequestro si sarebbe risolto in una duplicazione della misura reale già disposta sulla somma quale profitto del delitto di peculato. Di fatto, la Corte, con la decisione “Lolaico”, si è posta sul solco segnato Sez. 2, n. 30401 del 07/06/2018, Ceoldo, Rv. 272970 che, intervenendo per correggere la decisione con la quale il giudice del merito aveva disposto il sequestro preventivo per equivalente, quale profitto del delitto di autoriciclaggio, delle somme provento del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti - già oggetto di sequestro finalizzato alla confisca ai sensi dell’art. 12 bis Dlgs 74/2000-, senza individuare esattamente il quantum di denaro che, una volta “ripulito”, era stato poi reinvestito in attività economiche inerenti a società, ha affermato che in tema di autoriciclaggio il prodotto, il profitto o il prezzo del reato non coincide con il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dal reato presupposto, consistendo invece nei proventi conseguiti dall’impiego di questi ultimi in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative. Nella motivazione della sentenza “Ceoldo”, i giudici hanno evidenziato che partendo dal dato fattuale che il delitto di autoriciclaggio si alimenta (in tutto o in parte) con il provento del delitto presupposto, si giunge necessariamente alla conclusione che il “prodotto, profitto o prezzo” del delitto di autoriciclaggio non può che essere un qualcosa di diverso ed ulteriore rispetto al provento del reato presupposto di cui l’autore ha già goduto; sicché, se il reato di autoriciclaggio, per essere configurabile, deve consistere nell’impiego, sostituzione, trasferimento “in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative” del denaro, dei beni o delle altre utilità provenienti dalla commissione del reato presupposto, allora il “prodotto, profitto o prezzo” del reato di autoriciclaggio confiscabile non può che consistere nel “prodotto, profitto o prezzo” conseguito solo a seguito dell’impiego, della sostituzione o del trasferimento «in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative» del denaro, dei beni o delle altre utilità derivanti dal reato presupposto. La conclusione, ad avviso della Corte, è coerente con la ratio legis del reato di autoriciclaggio che è quella di impedire all’agente, attraverso la sterilizzazione del profitto conseguito con il reato presupposto, di reinvestire il denaro nell’economia legale o di inquinare il libero mercato ledendo l’ordine economico, ratio legis che si rinviene anche nella clausola di esclusione di cui all’art. 648-ter.1, comma quarto, cod. pen., applicabile all’agente che pur resosi autore del reato presupposto, abbia destinato il denaro, i beni o le altre utilità esclusivamente al godimento personale. Sempre con la decisione n. 27228 del 15/09/2020, Lolaico, Rv. 279650 - 01, questa volta con riferimento al sequestro di un veicolo intestato alla s.a.s. amministrata dal ricorrente, ma di fatto gestita dal padre, la Seconda sezione ha ritenuto correttamente applicata la misura reale sul mezzo, in quanto strumentale alla compagine aziendale alimentata con capitali rivenienti dal truffe e appropriazioni indebite (commesse dal padre) attraverso condotte tali da rendere impossibile la distinzione e separazione tra parte lecita e parte illecita del capitale sociale.

6. Impiego del profitto illecito derivante da violazione finanziaria e clausola di esonero.

Di grande interesse e particolare pregio è l’apporto chiarificatore offerto dalla decisione di Sez. 2, n. 30889 del 09/09/2020, Renella, Rv. 279913 in relazione al significato e alla portata della locuzione “altre utilità” di cui all’art. 648-bis cod. pen. La Corte, nella specie, è intervenuta per correggere la decisione di condanna assunta dal giudice di merito che aveva ritenuto idonea ad integrare il delitto di riciclaggio la condotta dell’imputato che, ricevuti numerosi assegni bancari a lui intestati da parte dei clienti di un avvocato, aveva incassato i titoli poi restituendone gli importi al legale che, a sua volta, omettendone la dichiarazione ai fini fiscali, si era reso autore del reato presupposto di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000.

Nella sentenza, la Corte si è soffermata sull’evoluzione giurisprudenziale che, parallelamente a quella normativa, ha esteso il catalogo dei reati presupposti a tutti i reati dolosi e, quindi, anche alla frode fiscale, sul presupposto che il riferimento contenuto nell’art. 648-bis cod. pen. alle “altre utilità” ed il suo utilizzo come clausola di chiusura, certamente può ricomprendere anche il risparmio di spesa derivante dall’omesso versamento delle imposte dovute che, quanto, pur non determinando alcun accrescimento del patrimonio, ma producendo solo il mancato decremento dello stesso, comunque, di fatto, concretizza una utilità di natura economica per l’agente (Sez. 2, n. 6061/2012, Gallo, Rv. 252701). Su tale premessa, la Corte, nel dare positivo riscontro alla tesi difensiva secondo la quale la condotta del soggetto che si risolva in un’attività meramente strumentale e temporalmente anticipata rispetto al delitto fiscale da altri commesso, non integra il delitto di riciclaggio mancando la natura delittuosa del denaro oggetto di sostituzione, ha evidenziato che, in un’ottica non più soltanto finalizzata a contenere i fenomeni di illecito impiego del patrimonio individuale del soggetto privato dei propri beni, ma anche proiettata a garantire la tutela dell’ordine economico, non vi è dubbio che il presupposto normativo che accomuna le fattispecie di cui agli artt. 648, 648-bis, 648-ter e 648-ter.1 cod. pen. debba essere ravvisato nella necessità che la condotta dell’agente, per essere punibile, sia posta su beni o denaro provento di precedente delitto, sicché presupposto imprescindibile nel rapporto tra il delitto di riciclaggio e i profitti illeciti derivanti da reato fiscale (nella specie il delitto di cui all’art. 3, d.lgs n. 74 del 2000), rimane quello della precedente consumazione di tale ultimo reato. La Corte, dunque, ha ritenuto non configurabile il delitto di riciclaggio nell’attività di ricezione di assegni e di successiva monetizzazione degli stessi svolta dall’imputato prima della scadenza dell’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte del reale destinatario del denaro, poiché diretta su un profitto che, al momento della condotta, non era di origine delittuosa in quanto non identificabile neanche come risparmio di spesa per l’evasore. La Seconda sezione si è così allineata a quella giurisprudenza che nella nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto di cui al d.lgs. n. 74 del 2000 individua una netta inversione di rotta del legislatore, imperniata sulla repressione delle sole fattispecie connotate da rilevante offensività degli interessi connessi al prelievo fiscale anziché sulla repressione dei comportamenti prodromici e meramente strumentali alla realizzazione dell’illecito. In tema di rapporto tra delitto di autoriciclaggio e violazioni finanziarie, riveste interesse la decisione della Sez. 2, n. 9755 del 03/12/2019, dep. 2020, Zanellato, Rv. 278513 che nell’attività di pagamento di fatture emesse per operazioni inesistenti, con successiva retrocessione dei relativi importi in contanti, ha individuato una modalità di un impiego in attività economiche e finanziarie dell’utilità di provenienza illecita, integrante il delitto di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen. Il caso attenzionato alla Corte riguardava la decisione assunta dal giudice della cautela nei confronti di un soggetto indagato del delitto di associazione per delinquere finalizzata all’evasione dell’imposta sul valore aggiunto e all’autoriciclaggio dei relativi proventi, attuata attraverso l’utilizzo di società di comodo gestite di fatto dagli associati. Costoro si procuravano la disponibilità di beni (nella specie, veicoli e generi alimentari) con il sistema della lettera di intenti (che consente a particolari categorie di soggetti di acquistare e importare beni e servizi evitando l’assoggettamento a imposta, in regime di sospensione d’imposta), provvedendo, poi, a reiterate cessioni dei beni stessi tra le società di comodo che fatturavano le operazioni esponendo l’i.v.a., di fatto non pagata, ma portata in detrazione nelle dichiarazioni fiscali; ogni società tratteneva, poi, una percentuale dal ricavato delle vendite che veniva distribuito tra gli associati. La successiva attività di autoriciclaggio veniva realizzata attraverso la fatturazione, da parte una società olandese a carico di una società italiana gestita da tutti i consociati, di operazioni di compravendita inesistenti che, pagate tramite bonifici esteri, consentivano il rientro in Italia del denaro contante, consegnato agli associati attraverso corrieri. Diversamente da quanto ritenuto dalla difesa, la Corte ha chiarito che, attraverso la concordata emissione di fatture per operazioni inesistenti da parte della società olandese, la condotta dell’indagato e degli altri associati, consistita nel pagamento tramite bonifico degli importi regolarmente fatturati e nella successiva ricezione, a titolo di restituzione, delle stesse somme in forma contante, rientra nel concetto di attività economiche, finanziarie e imprenditoriali di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen., a nulla rilevando la circostanza che le operazioni fatturate fossero rappresentative di operazioni solo apparenti di compravendita di beni. Ad avviso della Corte infatti è indubitabile che l’emissione, da parte di una impresa commerciale, di documenti contabili di indubbia valenza economica per via della loro annotazione nei prescritti registri e fiscale, come pure il pagamento di tali documenti, integrino forme di attività economica o finanziaria (sol che si consideri, da un lato, la possibilità di utilizzare le fatture per ottenere aperture di credito e, dall’altro, la circostanza che l’annotazione dei bonifici rappresentativi di costi comporta l’abbattimento del ricavo dell’imprenditore) idonee all’occultamento della provenienza delittuosa del denaro, come dimostrato dalla modalità del rientro dei soldi.

Quanto poi alla prospettazione difensiva secondo la quale la suddivisione del denaro tra gli indagati fosse di per sé rappresentativa della sua destinazione a consumo personale e non ad investimento, la Corte nella decisione “Zanellato” ha escluso l’applicabilità della clausola di esonero di cui all’art. 648-ter.1, comma quarto, cod. pen. in ragione della complessa ed articolata attività di camuffamento realizzata con la falsa fatturazione a fini di evasione. In proposito, la Seconda sezione ha richiamato il contributo di Sez. 2, n. 30399 del 7/06/2018, Barbieri che, dopo una pregevole digressione sul dibattito dottrinario sorto all’indomani della introduzione nell’ordinamento del delitto di autoriciclaggio in merito al significato da attribuire alla locuzione “fuori dei casi di cui ai precedenti commi” di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen., ha precisato che la norma non solo è chiara nella sua ratio, che è quella di “limitare la non punibilità ai soli casi in cui i beni proventi del delitto restino cristallizzati - attraverso la mera utilizzazione o il godimento personale - nella disponibilità dell’agente del reato presupposto, perché solo in tale modo si può realizzare quell’effetto di “sterilizzazione” che impedisce - pena la sanzione penale - la reimmissione nel legale circuito economico, ma è anche opportuna perché “con la tassativa indicazione dei casi di non punibilità, contribuisce a delimitare, in negativo, l’area di operatività di cui al primo comma che, invece, descrive, in positivo, la condotta punibile”, sicchè l’incipit “fuori dei casi di cui ai commi precedenti” della clausola di non punibilità di cui all’art. 648-ter.1, comma quarto, cod. pen. va intesa ed interpretata “nel senso fatto palese dal significato proprio delle suddette parole e cioè nel senso che la fattispecie non si applica alle condotte descritte nei commi precedenti, con la conseguenza che l’agente può andare esente da responsabilità penale solo e soltanto nel caso in cui utilizzi o goda dei beni proventi del delitto presupposto in modo diretto e senza compiere su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa.

7. Capacità dissimulatoria della condotta e sua valutazione ex ante.

Se la ratio della norma di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen. è quella di evitare l’inquinamento dell’economia attraverso la reimmissione nel legale circuito di denaro, di beni e di altre utilità provenienti dalla commissione di un delitto non colposo, la verifica del carattere decettivo della condotta e, quindi, della sua idoneità a costituire ostacolo alla identificazione della provenienza delittuosa del bene deve avvenire ex ante, sicché deve escludersi che l’identificazione successiva delle operazioni dissimulatorie possa rappresentare una causa di esclusione della punibilità della condotta. In tali termini si è espressa Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep. 2020, Fabbri, Rv. 279407-01 evidenziando, in motivazione, che una conclusione di segno contrario comporterebbe l’irragionevole conseguenza di dover escludere l’applicabilità dell’art. 648-ter.1 cod. pen. per il solo fatto della successiva ricostruzione e verificazione della condotta stessa. Il caso al vaglio della Corte riguardava il vincolo reale su somme di denaro, quote sociali ed altri beni in relazione ai reati di contraffazione ed introduzione nello Stato di capi di abbigliamento con marchi contraffatti e di autoriciclaggio, disposto dal giudice del merito nei confronti di soggetti che avevano creato e commercializzato prodotti con segni contraffatti di note marche di abbigliamento, reinvestendo poi i profitti illeciti di tale attività nelle stesse aziende di produzione e commercializzazione ovvero movimentandoli tra le diverse società. Sosteneva la difesa che quanto transitato sui conti societari per effetto delle vendite dei capi di abbigliamento non era stato mai oggetto di condotte decettive atte ad rendere non tracciabili i proventi del delitto, come dimostrato dal fatto che tutte le operazioni erano accompagnate da regolare documentazione fiscale e contabile, sicché alla tracciabilità delle operazioni conseguiva l’inidoneità dell’azione per difetto di concreta capacità decettiva della condotta. Diversamente opinando, la Corte ha evidenziato che il criterio da seguire, a meno di non voler ritenere che l’art. 648-ter.1 cod. pen. prefiguri un’incriminazione impossibile, è quello della idoneità ex ante della condotta posta in essere a costituire un ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa del bene, attraverso una verifica che, operata sulla base di precisi elementi di fatto, consenta di accertare in concreto la sua astratta idoneità dissimulatoria. La verifica, dunque, deve avvenire indipendentemente dall’esito degli accertamenti successivi e dal disvelamento della condotta illecita, ai quali non può attribuirsi il significato di non idoneità della azione per difetto di concreta capacità decettiva. Sulla base di tale premessa, la Seconda sezione ha affermato che per essere punibile la condotta non deve necessariamente presentare i connotati dell’artificiosità, ma è sufficiente che sia tale da rendere anche solo obiettivamente difficoltosa l’identificazione della provenienza delittuosa del bene e che, affinchè le condotte di impiego, di sostituzione o di trasferimento assumano rilevanza al cospetto dell’autoriciclaggio, è necessario un quid pluris che denoti, in termini di concretezza, la loro attitudine dissimulatoria rispetto alla provenienza delittuosa del bene, ovvero un contegno che vada oltre la mera movimentazione del denaro, dei beni o delle altre utilità del delitto presupposto, nel caso di specie correttamente individuato nel reinvestimento del profitto illecito nelle svariate società gestite dagli indagati e, dunque, in una condotta che, determinando un mutamento nella titolarità giuridica del bene, ne aveva reso difficoltosa la individuazione.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 2, n. 6061 del 17/01/2012, Gallo, Rv. 252701

Sez. 2, n. 3397 del 16/11/2012, Anemone, Rv. 254314

Sez. 2, n. 43881 del 09/10/2014, Matarrese, Rv. 260694

Sez. 5, n. 2295 del 3/07/2015, Marafiori, Rv. 266018

Sez. 5, n. 21295 del 17/04/2018, Ratto, Rv. 273183 Sez. 2, n. 30399 del 7/06/2018, Barbieri

Sez. 2, n. 30401 del 07/06/2018, Ceoldo, Rv. 272970

Sez. 2, n. 22020 del 10/04/2019, Scimone, Rv. 276501

Sez. 2, n. 37590 del 30/04/2019, Giulivi, Rv. 277083 Sez. F, n. 37120 del 01/08/2019, Cudia, Rv. 277288

Sez. 5, n. 1203 del 14/11/2019, dep. 2020, Hu Shaojing, Rv. 277854

Sez. 6, n. 4953 del 20/11/2019, dep. 2020, Cilli, Rv. 278204

Sez. 2, n. 9755 del 03/12/2019, dep. 2020, Zanellato, Rv. 278513 Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep.2020, Fabbri, Rv. 279407-01 Sez. 2, n. 7265 del 14/01/2020, Toia, Rv. 277967

Sez. 2, n. 10649 del 30/01/2020, Rabino

Sez. 2, n. 23774 del 13/07/2020, Aatifi Faycal, Rv. 279586; Sez. 2, n. 30899 del 15/07/2020, Ambrosini

Sez. 2, n. 30889 del 09/09/2020, Renella, Rv. 279913

Sez. 2, n. 27228 del 15/09/2020, Lolaico, Rv. 279650 Sez. 2, n. 35022 del 09/10/2020, Bouchab Abdelhadi Sez. 2, n. 34218 del 04/11/2020, Bonino

SEZIONE III REATI DEL CODICE PENALE - DELITTI CONTRO L’ORDINE PUBBLICO

  • mafia
  • criminalità organizzata

CAPITOLO I

EVOLUZIONE DELLA GIURISPRUDENZA SULL’ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO ALLA LUCE DEL PROVVEDIMENTO DEL PRIMO PRESIDENTE AGGIUNTO IN DATA 17-23/07/2019

(di Andrea Antonio Salemme )

Sommario

1 Inquadramento: utilizzabilità del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto in data 17-23/07/2019 come schema di lettura. - 2 Antefatto: rimessione degli atti al Primo Presidente su un ritenuto contrasto tra la tesi della necessaria mafiosità in atto e la tesi della sufficienza di una mera mafiosità in potenza. - 3 Motivazione del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto: sintesi. - 4 Motivazione del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto: l’associazione di tipo mafioso in generale. - 4.1 Esegesi “causalmente orientata” delle condizioni di assoggettamento ed omertà: prospettive comuni alle due sentenze del 2020 su mafia capitale e sul clan Fasciani. - 4.2 Elementi motivazionali di differenziazione tra dette due sentenze. - 4.3 Orientamento opposto all’esegesi “causalmente orientata”: affermazioni di principio e temperamenti recenti. - 5 Motivazione del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto: delocalizzazioni ’ndranghetiste in particolare. - 5.1 (Segue). «Nuov[i] aggregat[i]»: distinzione tra quelli adottanti la «medesima metodica delinquenziale delle “mafie storiche”» e quelli costituenti «mer[e] articolazion[i] territorial[i] di una tradizionale organizzazione mafiosa». Il problema delle associazioni reviviscenti. - 5.2 Associazioni reviviscenti: tesi della necessaria esibizione di una concreta forza di intimidazione. - 5.3 Associazioni reviviscenti: tesi della sufficienza della dote di mafiosità. - 5.4 Associazioni distaccate da altre maggiori. - 5.5 Questioni di competenza territoriale. - 6 Ambito di riferimento del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto: strutture ’ndranghetiste attive in territori di storico radicamento. - 7 Ambito di riferimento del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto: strutture non ’ndranghetiste. - 8 Ambito di riferimento del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto: “nuove ed autonome associazioni di tipo mafioso”. - 8.1 Sentenza su mafia capitale in ordine all’equiparazione tra mafie storiche e “nuove ed autonome associazioni di tipo mafioso”. - 8.2 L’opposta tesi della «progressiva attenuazione della rilevanza giuridica delle ricadute esterne della metodologia associativa». - 9 Condivisione del contenuto del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto da parte di pronunce relative alla ’ndrangheta. - 9.1 Volti puliti della ’ndrangheta e cosche ’ndranghetiste di seconda generazione nei territori refrattari dell’Italia settentrionale. - 9.2 Condivisione del contenuto del provvedimento del P.P.A. da parte di una pronuncia relativa ad una “nuova ed autonoma associazione di tipo mafioso”. - 10 Possibile ricaduta sistematica della tesi della necessaria mafiosità in atto: dalla specialità all’alterità dell’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen. rispetto all’associazione di cui all’art. 416 cod. pen. - 11 Continuazione tra partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso e reati-fine e tra plurimi segmenti di condotta partecipativa ad una medesima associazione. - Indice delle sentenze citate.

1. Inquadramento: utilizzabilità del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto in data 17-23/07/2019 come schema di lettura.

La complessità della giurisprudenza più prossima sulle associazioni di tipo mafioso è attraversata da una luce, utilizzabile dall’interprete come faro nella navigazione tra le numerose pronunce in materia, risalente al provvedimento in data 17-23/07/2019, con cui il Primo Presidente Aggiunto (d’ora innanzi P.P.A.) - investito da Sez. 1, n. 15768 del 15/03/2019, Nesci e altro (Albanese), della richiesta di rimessione alle sezioni unite per dirimere un contrasto sui requisiti, ai fini della sussistenza di un’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen., tra le due tesi della necessaria mafiosità in atto e della mera sufficienza di una mafiosità anche solo in potenza, o inespressa (“rectius”, non ancora espressa), o silente - ha disposto la restituzione degli atti al giudice “a quo” ai sensi dell’art. 172 disp. att. cod. proc. pen.

Risale al 28/04/2015 - in relazione alla stessa vicenda storica ed agli stessi soggetti - un altro provvedimento del Primo Presidente, medesimamente di restituzione degli atti, in risposta alle richieste di rimessione di Sez. 2, nn. 15807 e 15808 del 25/03/2015, rispettivamente Nesci e Albanese, sul presupposto che «il panorama giurisprudenziale complessivamente considerato sembra[sse] convergere nell’affermazione di principio secondo cui “l’integrazione della fattispecie di associazione di tipo mafioso implica che un sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il sol fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obbiettivamente riscontrabile […]”».

Nondimeno, come rilevato, in motivazione, da Sez. 2, n. 24851 del 04/04/2017, P.G. in proc. Garcea e altri, Rv. 270442-01 (par. 4.1, p. 6), pur dopo detto anteriore provvedimento, gli orientamenti delle singole Sezioni hanno seguitato ad essere irriducibili ad unità.

2. Antefatto: rimessione degli atti al Primo Presidente su un ritenuto contrasto tra la tesi della necessaria mafiosità in atto e la tesi della sufficienza di una mera mafiosità in potenza.

Sez. 1, n. 15768 del 2019, era chiamata a giudicare della partecipazione ad una società attiva in Svizzera, a Frauenfeld, che, in tesi d’accusa, condivisa dai giudici di merito, doveva qualificarsi come ’ndranghetista, atteso che, sebbene non avesse compiuto, in territorio elvetico, delitti-fine, si caratterizzava per aver adottato rituali, forme ed organigramma ’ndranghetisti, viepiù vantando collegamenti con la casa-madre, costituita dal locale di Fabrizia, in territorio vibonese, e con il cd. “Crimine”, l’intervento del cui capo aveva tra l’altro invocato per contenere le mire espansionistiche del capo del vicino locale di Singen, in Germania, contrapposto alla società di Frauenfeld da inveterata rivalità.

La Sez. 1 aveva rilevato un contrasto, circa la qualifica di mafiosità di delocalizzazioni ’ndranghetiste, tra due orientamenti:

- secondo un primo, queste, per essere considerate di tipo mafioso, devono aver estrinsecato la propria forza di intimidazione sul nuovo territorio. In seno ad esso, merita di ricordare, non solo Sez. 5, n. 19141 del 13/2/2006, Bruzzaniti, Rv. 234403-01, che ha escluso la natura ’ndranghetista del sodalizio capeggiato dai Bruzzaniti nell’“hinterland” milanese, ma anche Sez. 2, n. 25360 del 15/05/2015, Concas e altri, Rv. 264120-01, peculiare in quanto relativa ad un autonomo clan veneto, dichiaratamente collegato ai casalesi, che utilizzava metodi violenti e si avvaleva della forza di intimidazione derivante dall’evocare tali legami;

- secondo un opposto orientamento, invece, è sufficiente che le delocalizzazioni ’ndranghetiste posseggano un capitale mafioso pur inespresso, atteggiantesi a carica intimidatoria in grado di detonare quando necessario. In seno ad esso, un posto particolare occupa Sez. 5, n. 47535 del 11/07/2018, N., Rv. 274138-01, la quale - nel ritenere la mafiosità della società di Frauenfeld - ha affermato che le «ipotesi di “delocalizzazione” delle c.d. “mafie storiche” […]», «in considerazione del collegamento con le componenti centrali (la c.d. “casa madre”, in Calabria[,] denominata “Provincia” o “Crimine”), e della fama criminale conseguita nei territori di origine, possono assumere anche la dimensione della c.d. “mafia silente”» (par. 2.3, p. 6), ragion per cui, il “proprium” «delle forme di “delocalizzazione” delle “mafie storiche”, e della ’ndrangheta in particolare […], risiede nella “intrinseca”, e non “implicita”, forza di intimidazione derivante dal collegamento con le componenti centrali dell’associazione mafiosa, dalla riproduzione sui territori delle tipiche strutture organizzative della ’ndrangheta, dall’avvalimento della fama criminale conseguita, nel corso di decenni, nei territori di storico ed originario insediamento» (par. 2.4, p. 9).

La questione controversa enunciata da Sez. 1, n. 15768 del 2019, era ritagliata sulla fattispecie, sollecitandosi l’intervento delle sezioni unite sul quesito «se sia configurabile il reato […] con riguardo a[d] una articolazione periferica (cd. “locale”) di un sodalizio mafioso, radicata in un’area territoriale diversa da quella di operatività dell’organizzazione “madre”, anche in difetto della esteriorizzazione, nel differente territorio di insediamento, della forza intimidatrice e della relativa condizione di assoggettamento e di omertà, qualora emerga la derivazione e il collegamento della nuova struttura territoriale con l’organizzazione e i rituali del sodalizio di riferimento» (p. 13, par. 13).

3. Motivazione del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto: sintesi.

Il provvedimento del 17-23/07/2019, con cui il P.P.A. non ha ravvisato il contrasto, riposa sulla seguente complessa motivazione (ff.gg. 1 e 2):

1) «il panorama giurisprudenziale appare consolidato nell’affermare che […] è necessaria una effettiva capacità intimidatrice del sodalizio criminale da cui derivino le condizioni di assoggettamento ed omertà di quanti vengano con esso effettivamente in contatto»;

2) rispetto a tale «effettiva capacità intimidatrice», quanto alle delocalizzazioni ’ndranghetiste, le soluzioni ermeneutiche adottate sono il risultato del differente presupposto cognitivo emerso nel giudizio di merito, in relazione al quale il tema della esteriorizzazione del metodo mafioso ha trovato differenti declinazioni»;

2.1) occorre distinguere tra «nuov[i] aggregat[i]» che si propongono «di adottare la medesima metodica delinquenziale delle “mafie storiche”» e nuovi aggregati che si pongono «come mer[e] articolazion[i] territorial[i] di una tradizionale organizzazione mafiosa»;

2.2) solo con riferimento ai primi è richiesta «la verifica di tutti i presupposti costitutivi del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e, dunque, l’esternazione del metodo mafioso con le sue ricadute nell’ambiente esterno in termini di assoggettamento e di omertà», dovendo invece i secondi, «in presenza di univoci elementi dimostrativi di un collegamento funzionale ed organico con la casa[-]madre», essere considerati «promanazion[i] dell’originaria struttura delinquenziale, di cui non [possono] che ripetere i tratti distintivi, compresa la forza di intimidazione e la capacità di condizionare l’ambiente circostante»;

2.3) tuttavia «la differenza […] non attiene alla capacità intimidatrice del sodalizio, che è, comunque, una precondizione necessaria per la configurabilità del reato, quanto alla forma di esteriorizzazione del metodo mafioso».

4. Motivazione del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto: l’associazione di tipo mafioso in generale.

Il provvedimento del P.P.A. si divide in una parte generale, avente ad oggetto l’associazione di tipo mafioso di per sé considerata, ed una specifica, avente ad oggetto le delocalizzazioni ’ndranghetiste.

Quanto alla prima, il «sodalizio criminale», per poter essere sussunto nel tipo mafioso, deve essere dotato di «effettiva capacità intimidatrice da cui derivino le condizioni di assoggettamento ed omertà di quanti vengano con esso effettivamente in contatto», risultando escluso che la capacità intimidatrice possa arrestarsi al livello anticipato della mera potenzialità. L’«effettiva capacità intimidatrice del sodalizio criminale» costituisce, non un elemento tipico della fattispecie, ma una «precondizione necessaria per la configurabilità del reato».

Tenuto presente che il comma 3 dell’art. 416-bis cod. pen. non ragiona di capacità intimidatrice dell’associazione, incentrando il tipo associativo mafioso sull’avvalimento, da parte degli associati, sia della «forza di intimidazione del vincolo associativo» sia della «condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva», l’«effettiva capacità intimidatrice», di cui al provvedimento, è suscettibile di aprire a questioni non soltanto linguistiche.

Rileva una capacità «effettiva», la quale, considerato che “effectivus” deriva da “efficere”, “compiere”, si traduce in un’idoneità tangibilmente efficiente ad un risultato, a sua volta costituito dalle «condizioni di assoggettamento ed omertà».

Il provvedimento pare dunque aderire ad un’esegesi “causalmente orientata” delle condizioni di assoggettamento ed omertà, in derivazione dalla capacità intimidatrice. Esso, nondimeno, considera tali condizioni, non in astratto, bensì, nuovamente, in concreto, in specifica correlazione con il novero di coloro i quali «vengano con [il sodalizio] effettivamente in contatto». L’assoggettamento e l’omertà, pertanto, non sono “predicati ambientali”, ossia, in certo qual modo, “territoriali”, ma “personali” o “relazionali”.

In punto di esegesi “causalmente orientata” delle condizioni di assoggettamento ed omertà, il provvedimento del P.A.A. “anticipatamente” sintetizza posizioni più elaborate che si leggono in due delle sentenze più ampie del 2020, entrambe relative a fenomeni associativi registrati in territorio romano, simili, come tosto si vedrà, nell’incedere argomentativo, ma divergenti negli esiti: Sez. 6, n. 18125 del 16-22/10/2019 (dep. 2020), Buzzi e altri, su mafia capitale, che ha disconosciuto l’emersione di elementi sufficienti per affermare l’esistenza di un’associazione di tipo mafioso imperante in Roma soprattutto nel settore dei rapporti con le amministrazioni comunali, e Sez. 2, n. 10255 del 29/11/2019 (dep. 2020), Fasciani Sabrina e altri, sul clan Fasciani di Ostia, che, invece, ha ritenuto esso integrare una tale associazione.

4.1. Esegesi “causalmente orientata” delle condizioni di assoggettamento ed omertà: prospettive comuni alle due sentenze del 2020 su mafia capitale e sul clan Fasciani.

Sez. 6, n. 18125 del 2020 che, negli enunciati in diritto, trova sintetici antecedenti persino letterali in Sez. 6, n. 13679 del 25/06/2019, P.G. Torino, Crea Adolfo e altri, e Sez. 6, n. 9001 del 02/07/2019, Demasi Roberto, sulle quali ci si soffermerà in seguito - focalizza l’attenzione principalmente sul tema dell’imprescindibilità che una qualsivoglia associazione, per assurgere al tipo mafioso, ad un tempo possegga ed esibisca una forza di intimidazione reale, concreta, financo materiale e dunque effettiva, nell’accezione ricostruttiva che si è ritenuto di attribuire a questo aggettivo a proposito del provvedimento del P.P.A.: alla stregua della quale accezione, in tanto detta forza può qualificare di mafiosità l’associazione, in quanto vi si riconnettano assoggettamento ed omertà, che, a loro volta, in un rapporto circolare, retroagiscono sulla forza stessa, confermandone l’esigenza di esteriorizzazione, giacché nessun effetto potrebbe mai derivare da un “quid” tutto interno al gruppo degli associati. Alla luce di ciò, secondo Sez. 6, n. 18125 del 2020, il metodo mafioso «costituisce il mezzo, lo strumento, il modo con cui l’associazione persegue gli scopi indicati dalla norma e per tale ragione è necessaria, sempre, la sua concreta manifestazione esterna»; proprio in rapporto al metodo mafioso, nondimeno, la Corte illustra la “catena delle derivazioni causali”, affermando che «ciò che è essenziale è che la fonte della forza di intimidazione derivi dall’associazione, cioè dal gruppo, dal suo prestigio criminale, dalla sua fama, dal vincolo associativo[,] e non dal prestigio criminale del singolo associato […]» (par. 2, p. 282).

“Incidenter tantum” ci si licenzia di osservare come, sul punto, analogamente, ma con riguardo ai profili di concreta operatività delinquenziale, Sez. 3, n. 17851 del 09/01/2019, Casamonica Giovannina, nel ritenere correttamente motivata l’ordinanza del tribunale del riesame confermativa di quella d’applicazione di misure cautelari emessa dal G.I.P. nei confronti di presunti appartenenti all’associazione di tipo mafioso nota, in territorio capitolino, come clan Casamonica, scriva che «le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia in ordine alla posizione associativa d[egli indagati] sono state abbondantemente riscontrate dalle dichiarazioni rese dalle vittime del clan […], che non hanno mai operato meri riferimenti alla perpetrazione di singoli reati da parte del medesimo soggetto, ma hanno descritto episodi di criminalità generalizzata[,] posti in essere con modalità “mobili” ed “interscambiabili” da parte di tutti gli indagati[,] a seconda delle specifiche circostanze che il sodalizio si trovava a dover fronteggiare» (par. 7.1, p. 13). In buona sostanza, l’impersonalità degli agiti nei confronti delle vittime del clan costituisce indice, non soltanto dell’esistenza dell’associazione, ma anche della sua caratterizzazione mafiosa, in funzione della riconducibilità della forza intimidatrice al complesso degli associati, anziché ad uno o a ciascuno di essi.

Ritornando alla “catena delle derivazioni causali” di cui a Sez. 6, n. 18125 del 2020, la Corte conclude che «la “forza d’intimidazione del vincolo associativo” determina come proiezione esterna “assoggettamento e[d] omertà” nei contesti ove opera il sodalizio. Secondo l’ormai consolidata elaborazione giurisprudenziale, la condizione di assoggettamento e di omertà correlata in rapporto di causa a effetto alla forza di intimidazione dell’associazione di tipo mafioso deve essere […] sufficientemente diffusa, anche se non generale […]» (ivi, p. 284).

Pertanto, risalendo “a ritroso” la “catena delle derivazioni causali”, si coglie che l’associazione è il primo essenziale motore della mafiosità.

Ancor più incisiva è Sez. 2, n. 10255 del 2020, incentrata preminentemente sulla ricostruzione dell’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen. come «reato associativo[,] non soltanto strutturalmente peculiare, ma, soprattutto, a gamma applicativa assai estesa, perché destinato a reprimere qualsiasi manifestazione associativa che presenti [le] caratteristiche di metodo e fini [previste dal comma 3]» (par. 2.1, p. 64). In tale prospettiva, che allinea l’associazione ex art. 416-bis cod. pen., alle analisi dottrinali secondo cui essa esibisce una struttura mista, e non pura, come quella della “normale” associazione per delinquere ex art. 416 cod. pen.,

- per un verso, il metodo mafioso si appresta ad assumere «connotazioni di pregnanza “oggettiva”, tali da qualificare non soltanto il “modo d’essere” dell[’] associazione […], ma anche il suo “modo di esprimersi” in un determinato contesto storico e ambientale (con la conseguenza «l’“affectio societatis” si radicherebbe attorno ad un programma non circoscritto ai fini ma coinvolgente anche il metodo»)»;

- per altro verso, «forza di intimidazione, vincolo di assoggettamento ed omertà rappresentano […] strumento ed effetto tipizzanti, in quanto concretamente utilizzati attraverso un “metodo” che, per esser tale, richiede una perdurante efficacia, anche, per così dire “di esibizione”, pur se priva di connotati eclatanti» (ivi, qualche riga di seguito). Conclusivamente, «“assoggettamento” ed “omertà” rappresentano, dunque, gli “eventi” che devono scaturire dall’intimidazione: “fatti”, quindi, che devono formare oggetto di prova, e che chiaramente fuoriescono da qualsiasi ambigua lettura di tipo sociologico o culturale» (ivi, p. 71).

Sovrapponendo le prospettive delle due sentenze in disamina, se assoggettamento ed omertà sono eventi causalmente riconducibili alla forza di intimidazione, che, a sua volta, è conseguenza del metodo mafioso sprigionante dal vincolo associativo, allora la natura di reato di pericolo dell’associazione di tipo mafioso si contiene entro il pericolo che per i beni giuridici finali il metodo mafioso rappresenta, ma si rapporta ad una logica di danno sul piano del già realizzatosi “vulnus” alla libera estrinsecazione delle attività dei consociati attraverso l’esercizio del metodo mafioso, da costoro percepito come tale.

A tale conclusione giungono entrambe le sentenze, che però adottano forme espositive diverse.

4.2. Elementi motivazionali di differenziazione tra dette due sentenze.

Ferme le comuni conclusioni dianzi illustrate, Sez. 6, n. 18125 del 2020, e Sez. 2, n. 10255 del 2020, tuttavia divergono nei rispettivi percorsi motivazionali.

Sez. 6, n. 18125 del 2020, seguita a porsi dall’angolo di visuale incentrato sulla necessaria mafiosità in concreto, sostenendo che «il reato di associazione di tipo mafioso è un reato di pericolo perché la esistenza dell’associazione pone in pericolo l’ordine pubblico, l’ordine economico, la libera partecipazione dei cittadini alla vita politica ed altri interessi ancora[,] ma […] ciò non consente affatto di ritenere che gli elementi costitutivi della fattispecie possano anche eventualmente manifestarsi, ovvero che, probabilmente, potrebbero manifestarsi, forse, se necessario, in futuro»; ciò in quanto, «diversamente dall’associazione per delinquere semplice, l’associazione mafiosa non è strutturata sulle “intenzioni”, ma su una rete di effettive derivazioni causali. Dunque, non un’associazione per delinquere, ma un’associazione che delinque; il metodo mafioso costituisce il mezzo, lo strumento, il modo con cui l’associazione persegue gli scopi indicati dalla norma e per tale ragione è necessaria, sempre, la sua concreta manifestazione esterna» (par. 2, p. 282 s.).

Sez. 2, n. 10255 del 2020, percorre invece la strada della dimostrazione che l’associazione di tipo mafioso possiede una «caratura “oggettiva” del metodo mafioso», solo in forza della quale è capace di proiettarsi fuori delle esperienze delle mafie tipiche, sostenendo che «è proprio il metodo di cui l’associazione per tipizzarsi deve “avvalersi” a convincere del fatto che l’intimidazione e l’assoggettamento omertoso, che ne devono derivare, rappresentano, in sé, un “fatto” che può prescindere dalla realizzazione degli ulteriori “danni” scaturenti dalla eventuale realizzazione di specifici reati-fine. [Invero,] che l’associazione mafiosa costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, l’ordine economico, quello sociale e quant’altro possa entrare nel programma della associazione è un fatto: ma ciò non toglie che il relativo metodo - per integrare la fattispecie incriminatrice - allorché attenga a struttura autonoma ed originale, caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche, debba andare al di là di una mera dichiarazione di intenti, altrimenti rischiando di far sconfinare il “tipo” normativo in connotazioni meramente soggettivistiche […]» (par. 2.1, p. 66 s.).

Ciò detto, le due sentenze ulteriormente divergono in ordine all’esito dell’applicazione dei descritti principi ai concreti fenomeni associativi oggetto di scrutinio, nelle consistenze risultanti dalle descrizioni dei giudici di merito.

Quanto al clan Fasciani, secondo Sez. 2, n. 10255 del 2020, la seconda sentenza d’appello (dopo l’annullamento con rinvio “in parte qua” disposto da Sez. 6, n. 57896 del 26/10/2017, P.G. Roma, Fasciani Carmine e altri, spec. par. 11.2 s., p. 38 s.), ha adeguatamente reso conto dell’“escalation” del gruppo delinquenziale consolidatosi, in territorio lidense, attorno alla figura carismatica del capo, dapprima come associazione per delinquere, dappoi come associazione di tipo mafioso, a partire dal momento in cui il capo è stato chiamato a svolgere funzioni da «paciere» da altre organizzazioni illecite, ruolo «tipico soltanto di chi si riconosce in una “comune cultura”, anche se di tipo criminale, generata dall’esistenza di regole mafiose condivise ed accettate, nonché garantite da “adeguate” sanzioni in caso di violazione» (par. 2.2, p. 76): «ne consegue che “il salto di qualità” coinvolge non soltanto la singola persona che vede aumentata la sua fama criminale, ma anche quel substrato di carattere familiare che ne costituiva l’originario nucleo storico [e] che, successivamente, si verrà ad arricchire in ragione del consolidamento del clan e dell’espansione delle sue mire illecite[:] ciò ha determinato che all’esterno il sodalizio fosse percepito come clan Fasciani e non come Carmine Fasciani più soci, in quanto la caratura criminale del capo ha strutturato intrinsecamente quella del gruppo e con essa ha finito per confondersi. In sostanza, il profondo radicamento sul territorio lidense acquisito dal sodalizio semplice sin dalla fine degli anni ‘90, con esercizio di condotte violente ed intimidatorie porta progressivamente a conoscere, temere e rispettare il nome di Carmine Fasciani, quale elemento di identificazione con il gruppo criminale omonimo, in virtù del compimento di successivi atti di intimidazione che emulano quelli dei clan mafiosi e dei metodi da essi utilizzati» (par. 2.2, p. 74 s.).

Quanto, invece, a mafia capitale, originariamente contestata ad imprenditori e pubblici ufficiali l’appartenenza ad un’unica associazione di tipo mafioso, mirante all’aggiudicazione di appalti pubblici ad un predefinito gruppo di società, sfruttando la forza di intimidazione derivante dal compimento, da parte del capo e di alcuni partecipi, di estorsioni violente in specie nel settore del recupero di crediti insoluti, ed effettuata dal primo giudice una riqualificazione dei fatti nel senso della partecipazione dei predetti, alternativamente o cumulativamente, a due distinte associazioni semplici ex art. 416 cod. pen., finalizzate l’una alla commissione di estorsioni e l’altra alla gestione delle aggiudicazioni attraverso l’impiego di metodi, non intimidatori, bensì corruttivi, secondo Sez. 6, n. 18125 del 2020, la sentenza della corte d’appello, che, in accoglimento dei gravami delle parti pubbliche, stimando corretta la contestazione del P.M., aveva ritenuto la sussistenza di una sola associazione avente natura mafiosa sulla base della riserva di violenza accumulata nel ramo dedito alle estorsioni ed attingibile anche dai sodali attivi nel ramo della gestione dei rapporti con i pubblici ufficiali corrotti attraverso il nodo di raccordo costituito dal capo, è incorsa in errore

- sia nel pretendere «di far derivare la capacità intimidatrice dell’associazione dal prestigio criminale [oltretutto] non mafioso di uno degli associati e non da quello impersonalmente riferibile al gruppo»;

- sia nel costruire «la fattispecie facendo riferimento a nozioni quali quelle di riserva di violenza ovvero di capacità potenziale di intimidazione, senza considerare che l’associazione mafiosa esiste solo se il sodalizio abbia conseguito, nel contesto - anche ridotto - di riferimento, una capacità intimidatrice effettiva, manifestata e obiettivamente riscontrabile, che può certo esteriorizzarsi anche con atti e comportamenti non connotati necessariamente da violenza o minaccia, [purché] evocativi del prestigio criminale del gruppo e come tale percepiti;

- sia nell’omettere di considerare «che la criminalità organizzata mafiosa si fonda sostanzialmente sul “metus” che deriva dalla violenza, dall’intimidazione, dalla costrizione, laddove, invece, la corruzione è un reato che si fonda sull’accordo illecito e paritario tra due persone», ragion per cui «l’omertà che deriva dalla manifestazione della capacità di intimidazione e che caratterizza l’associazione mafiosa è fondata sul timore[, mentre,] nella corruzione[,] l’omertà è […] fondata, come nel caso di specie, sulla convenienza reciproca» (par. 3, p. 325 s.).

4.3. Orientamento opposto all’esegesi “causalmente orientata”: affermazioni di principio e temperamenti recenti.

Tornando all’esegesi “causalmente orientata” delle condizioni di assoggettamento ed omertà, di cui al provvedimento del P.P.A., v’è da rilevare come essa entri in tensione con l’opposto avviso secondo cui «[…] la condizione di assoggettamento e di omertà costituisce [soltanto un] riflesso sociologico della metodologia associativa (storicamente ricorrente ma non causalmente obbligato) […]»: così, in motivazione, Sez. 2, n. 24851 del 2017, par. 5, p. 10).

Ci si attenderebbe che la tensione sia sfogata, o almeno in procinto di sfogare, in vera e propria frattura, a misura che si consideri che a Sez. 2, n. 24851 del 2017, risale l’enunciazione del principio per cui, per aversi un’associazione di tipo mafioso, «non è necessaria la prova che l’impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrato in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione, essendo sufficiente la prova di tale impiego munito della connotazione finalistica richiesta dalla suddetta norma incriminatrice» (Rv. 270442-01).

Invece nessuna frattura si è consumata, se è vero che detto principio, consolidatosi con Sez. 5, n. 44156 del 13/06/2018, S., Rv. 274120-01 (relativa al clan Spada di Ostia), è condiviso anche dalle due sentenze su mafia capitale e sul clan Fasciani, la quale ultima, anzi, risulta addirittura massimata sul punto (Rv. 278745-02).

Due i fattori che consentono di coniugare il principio enunciato da Sez. 2, n. 24851 del 2017, con l’esegesi “causalmente orientata” delle condizioni di assoggettamento ed omertà condivisa da Sez. 6, n. 18125 del 2020 e da Sez. 2, n. 10255 del 2020:

- come insegna Sez. 2, n. 10255 del 2020 - «le associazioni che non hanno una connotazione criminale qualificata sotto il profilo “storico”, dovranno essere analizzate nel loro concreto atteggiarsi, in quanto per esse “non basta la parola” (il “nomen” di mafia, camorra, ’ndrangheta, ecc.); ed è evidente, che, in questa opera di ricostruzione, occorrerà porre particolare attenzione alle peculiarità di ciascuna specifica realtà delinquenziale, in quanto la norma mette in luce un problema di “assimilazione” normativa alle mafie “storiche” che rende necessaria un’attività interpretativa particolarmente attenta a porre in risalto “simmetrie” fenomeniche tra realtà fattuali, sociali ed umane diverse fra loro» (par. 2.1, p. 64);

- come insegna Sez. 6, n. 18125 del 2020 - «la legalità delle operazioni di “riduzione della scala” del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., derivanti dalla necessità di adeguamento dei requisiti strutturali “storici” del reato al fine di “legare” ed “esportare” il modello in contesti diversi da quelli in cui si sono sviluppate le c.d. mafie tradizionali, si correla […] con la dimensione probatoria e di rigoroso accertamento dei fatti che, soli, possono scongiurare il rischio di una “bagatellizzazione” del reato di associazione di tipo mafioso e di una non consentita valorizzazione di un “metodo anticipato”, ridotto, presunto» (par. 3, p. 288).

5. Motivazione del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto: delocalizzazioni ’ndranghetiste in particolare.

Quanto alla parte specifica del provvedimento del P.P.A., riguardante le delocalizzazioni ’ndranghetiste, non nega esso essersi manifestate in giurisprudenza diverse sensibilità sul tema dell’«esteriorizzazione del metodo mafioso», in dipendenza, tuttavia, da differenti momenti di sintesi rispetto alle evidenze raccolte in istruttoria e “consegnate” alla Corte di cassazione dalle pronunce di merito. Un tema enucleato come “posterius” rispetto alla capacità intimidatrice del sodalizio, la quale deve sempre effettivamente sussistere affinché possa entrarsi nella sfera di applicazione dell’art. 416-bis cod. pen.: ragion per cui le ridette diverse sensibilità si concentrano soltanto sul segmento terminale dell’apprezzamento del metodo mafioso, involgente neppure l’esteriorizzazione, bensì la sua «forma». Sul punto osserva Sez. VI, n. 18125 del 2020, che «il profilo relativo alla necessità che la capacità intimidatrice sia esternata, obiettivamente percepita ed attuale si distingue da quello relativo alle modalità con cui tale capacità si manifesta» (par. 2, p. 285).

Nel “mare magnum” delle delocalizzazioni ’ndranghetiste, secondo il provvedimento, occorre distinguere tra due tipologie di «nuov[i] aggregat[i]» (ult. tre righe del fg. 1): quelli aventi di mira l’adozione della «medesima metodica delinquenziale delle “mafie storiche”» e quelli di per sé integranti «mer[e] articolazion[i] territorial[i] di una tradizionale organizzazione mafiosa».

La ragione della distinzione sta in ciò che «l’esternazione del metodo mafioso» deve costituire oggetto di specifica prova d’accusa con riguardo soltanto alle prime e non anche alle seconde. Talché sembrerebbe doversene trarre la conclusione che, in relazione a queste ultime, la precondizione dell’«effettiva capacità intimidatrice» sussista in ragione del legame che le avvince alla casa-madre. Così opinando, sarebbe tuttavia improprio parlare di una semplificazione dell’onere probatorio del pubblico ministero, atteso che questi resta comunque gravato di fornire la prova del fattore di traslazione dell’effettiva capacità intimidatrice dalla casa-madre alla singola concrezione oggetto di procedimento, rappresentato dal «collegamento funzionale ed organico» tra l’una e l’altra.

5.1. (Segue). «Nuov[i] aggregat[i]»: distinzione tra quelli adottanti la «medesima metodica delinquenziale delle “mafie storiche”» e quelli costituenti «mer[e] articolazion[i] territorial[i] di una tradizionale organizzazione mafiosa». Il problema delle associazioni reviviscenti.

La distinzione, da parte del provvedimento del P.P.A., tra i due «nuov[i] aggregat[i]» di cui si è detto impone una prima riflessione, riguardante gli aggregati, sia ’ndranghetisti sia, per estensione, anche non, che «nuovi» non sono.

La circostanza che il provvedimento verta su «nuov[i] aggregat[i]», infatti, delimita il campo di interesse alle sole concrezioni appena venute ad esistenza, parendo che debbano essere escluse quelle già manifestatesi in passato, ancorché abbiano attraversato un periodo pur lungo di quiescenza o finanche di vera e propria inattività, per poi dare segnali di un ritorno di fiamma con la ripresa di un “ménage” tipicamente mafioso.

Il ragionamento “implicito” sembra essere - proseguendo con la metafora - che le concrezioni reviviscenti differiscano da quelle di nuovo conio perché il periodo di quiescenza od inattività non ha in realtà spento il fuoco sotto la cenere, in attesa di ravvivarsi al primo alito di vento: la qual cosa - fuor di metafora - significa che i partecipi di concrezioni reviviscenti riprendono ad avvalersi di un serbatoio di mafiosità di cui esse già sono dotate in linea capitale, senza dover tornare a dimostrare di cosa sono capaci.

5.2. Associazioni reviviscenti: tesi della necessaria esibizione di una concreta forza di intimidazione.

A questo punto, trasposta l’analisi sul piano della giurisprudenza, emergono, in argomento, linee evolutive non uniformi.

Un primo orientamento non pare seguire il ragionamento “implicito” poc’anzi illustrato, in quanto, muovendo dalla portata generale della regola per cui tutte le associazioni di tipo mafioso devono esibire una concreta forza di intimidazione, non sottrae alla stessa anche le concrezioni reviviscenti.

All’orientamento di cui si tratta si ritiene debbano essere ascritte le già menzionate Sez. 6, n. 13679 del 2019, e Sez. 6, n. 9001 del 2019, degne di nota perché, in motivazione, anticipano sinteticamente le conclusioni sulla natura dell’associazione di tipo mafioso compiutamente attinte da Sez. 6, n. 18125 del 2020, con una vistosa differenza, però, dovuta al fatto che oggetto delle prime erano gruppi delinquenziali di marca ’ndranghetista tornati a manifestarsi, rispettivamente, in un territorio (forse non più ormai) refrattario come quello torinese e nella stessa Calabria, mentre oggetto dell’ultima era il fenomeno (impropriamente) appellato mafia capitale. Sez. 6, n. 13679 del 2019, dunque, ha ritenuto che gli elementi di fatto emersi in istruttoria consentissero di confermare la decisione dei giudici di merito in ordine alla sussistenza

- alla luce dell’imputazione - di un’«“articolazione della ’ndrangheta, attiva prevalentemente a Torino, resa nuovamente operativa quantomeno a far data dal giugno 2014, collegata con strutture organizzative insediate in Calabria e dotata di propria autonomia e capacità d’azione”» (par. 1, p. 3 del «Ritenuto in fatto»). Sottolinea in particolare la Corte come detti giudici avessero correttamente accertato,

- non soltanto che l’associazione era «una diretta derivazione della ’ndrangheta calabrese, della quale aveva mutuato regole, modelli, comportamenti, riti, e si pon[eva] in rapporto di obiettiva continuità con quella per la quale alcuni degli […] imputati [avevano] già riportato condanna definitiva nel procedimento c.d. Minotauro», essendo stata formata dai capi, tornati in libertà, non come «nuovo sodalizio, scisso ed autonomo da quello che durante la loro carcerazione aveva continuato ad operare», bensì come aggregato funzionale a riprendere «il controllo delle attività», «sempre sotto l’egida del gruppo di cui avevano fatto parte sino al loro arresto»;

- quanto soprattutto che essa, «oltre ad avvalersi del carisma criminale [dei capi,] soggetti già condannati per aver rivestito anche ruoli apicali nell’associazione mafiosa ’ndrangheta che in quel determinato territorio aveva già operato[, aveva] in concreto nuovamente manifestato all’esterno una reale capacità di intimidazione mafiosa», specialmente nel settore delle estorsioni, in presenza di «un chiaro programma criminoso[,] un’adeguata struttura organizzativa […], una ripartizione di compiti sufficientemente delineata, una chiara comunione di scopi» (par. 3.2, p. 24 s.).

Sez. 6, n. 9001 del 2019, invece, ha annullato con rinvio la sentenza d’appello che aveva ritenuto la natura mafiosa - notasi: in territorio reggino - della «cosca di ’ndrangheta denominata “Ruga-Metastasio-Loiero-Gallace-Novella”[,] dopo l’omicidio [del precedente capo] e l’ascesa [di suo] fratello», nel periodo da gennaio 2011 a dicembre 2014». La Corte - premesso che la «locuzione normativa “si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo” che descrive il c.d. metodo mafioso […] rende esplicita, ai fini della consumazione del reato, la necessità che il gruppo faccia un effettivo esercizio, un uso concreto della forza di intimidazione, non essendo sufficiente un semplice dolo intenzionale di farvi ricorso» (par. 2.2, p. 10) - rimprovera ai giudici di merito di aver fatto leva sostanzialmente solo sullo spessore delinquenziale del nuovo capo, in tal modo però apoditticamente ritenendo mafioso un gruppo formato soltanto da quattro persone; ritenuto costituire «derivazione dall’associazione mafiosa accertata sul piano giudiziario fino al 1993» sulla base di intercettazioni e dichiarazioni di collaboratori «sganciate tuttavia dal periodo in cui i fatti oggetto del processo si sarebbero verificati»; privo, al proprio interno, di una divisione di ruoli e di un’attribuzione di compiti di concreta operatività criminale; avulso, dal 2011 al 2014, sia da rapporti con altri gruppi mafiosi, riunioni operative e contatti con realtà esterne, sia anche sostanzialmente dal compimento di reati-fine, essendo stata esclusa, «per gli stessi episodi criminosi[di aggressione e minaccia] valorizzati in chiave accusatoria […], la circostanza aggravante della finalità di agevolazione mafiosa» (par. 2.3, p. 13 s.).

5.3. Associazioni reviviscenti: tesi della sufficienza della dote di mafiosità.

A fronte di quello descritto, v’è però anche un secondo orientamento che, al contrario, opina avere le concrezioni reviviscenti già in dote un serbatoio di mafiosità, senza dunque bisogno di esternare nuovamente il metodo mafioso. Ad un siffatto schema di ragionamento, nondimeno, la giurisprudenza fa ricorso in relazione segnatamente ad aggregati non ’ndranghetisti, che, invece, come visto, costituiscono l’oggetto precipuo del provvedimento P.P.A. da cui si è principiato il discorso.

Rispetto a questo secondo orientamento, nel 2020 vengono in linea di conto soprattutto due pronunce, relative, rispettivamente, ad un clan camorristico e ad un sodalizio della sacra corona unita tarantina, che non si occupano del caso “classico” della ripresa della mafiosità in forme violente, cui si accompagna “naturaliter” una dimensione intimidatoria per l’effetto medesimamente rinverdita, ma si occupano della reviviscenza di sodalizi tornati a manifestarsi (soprattutto) con sembianze imprenditoriali, nel contesto di attività formalmente lecite eppur riconducibili al programma associativo mafioso ai sensi del comma 3 dell’art. 416-bis cod. pen.: ragion per cui, in definitiva, si attaglia a detti sodalizi il “leitmotiv” della mafia silente, in un’accezione possibilmente ancor più problematica di quella usuale, facendo seguito il silenzio attuale al silenzio precedente.

Esplicitamente di mafia silente alla stregua di una connotazione intrinsecamente intimidatoria del metodo mafioso, sull’addentellato di Sez. F., n. 56598 del 03/09/2018, Balsebre, Rv. 274753-02 - ragiona Sez. 5, n. 31798 del 14/07/2020, Fabbrocino Giovanni e altri, che ha sancito la natura camorristica di un gruppo accertato come attivo in territorio vesuviano sotto la guida del figlio del capo-storico, attinto anni addietro da un provvedimento di carcerazione.

Alle censure della difesa secondo cui gli stessi giudici di merito avevano affermato trattarsi di un «nuovo gruppo delinquenziale», omettendo però erroneamente di qualificarlo come non mafioso in quanto non sufficientemente affermatosi all’esterno, risponde la S.C. che, «nell’evoluzione degli assetti strutturali del clan Fabbrocino», l’elemento di novità «allude […] non già ad un diverso sodalizio, ma alla “coagulazione” di nuovi sodali (rispetto allo storico organigramma) intorno alla figura del nuovo reggente» (par. 2.2.2, p. 19 s.).

Su tale premessa, che rende ragione di quanta parte nei procedimenti di criminalità organizzata giochi un’accurata ricostruzione storica del singolo fenomeno associativo, costituente esclusivo appannaggio dei giudici di merito, osserva la Corte come correttamente nella specie questi avessero evidenziato che la forza di intimidazione del clan rinnovato

- giovatosi di un’impresa costituita ad hoc per imporsi monopolisticamente sul mercato locale del calcestruzzo, non senza il compimento all’occorrenza di qualche azione estorsivo-intimidatoria - era «consistita, altresì, nello sfruttamento, anche attraverso atteggiamenti subdoli e/o allusivi, del prestigio criminale già conseguito dal sodalizio» in decenni di «egemonia criminale» espressa sul territorio di insistenza alla stregua di elementi accertati tra l’altro con sentenze irrevocabili (par. 2.2.4, p. 21 s.).

Ancor più complessa è la fattispecie su cui è intervenuta Sez. 5, n. 1554 dell’11/09/2019 (dep. 2020), Brunetti Raffaele e altri, riguardante la ricostituzione del clan D’Oronzo-De Vitis, in territorio tarantino, dopo la rimessione in libertà del capo, già condannato a cagione del ruolo parimenti verticistico ricoperto nel clan precedentemente ivi attivo in rivalità rispetto ad altro.

Anzitutto, in astratto, la ricostituzione denota una frattura, quantunque non una diversione, nella linea di continuità tra il “prima” ed il “dopo”, nel senso che un clan ricostituito riannoda i fili con quello precedente, il quale però “medio tempore” ha cessato di esistere.

Detto ciò, in concreto, l’elemento qualificante del ricostituito clan D’Oronzo-De Vitis era che lo stesso, “a latere” di una vicenda estorsiva, aspirava a mostrare una parvenza financo filantropica per acquisire diffuso consenso, in specie attraverso una società cooperativa che aveva assunto il controllo di un noto centro sportivo in città. Donde le censure di incongruenza della sentenza impugnata, che da un lato aveva qualificato come meramente silente la mafiosità del clan, ma dall’altro non ne aveva tratto le dovute conseguenze, escludendo la sussistenza nella specie di un’associazione di tipo mafioso. La Corte - prese le mosse, anche in questo caso, da Sez. F., n. 56598 del 2018 - ha ribadito la legittimità del paradigma della mafia silente allorquando intrinsecamente intimidatoria, ritenendo che «appare proprio questo il caso in esame, dal momento che, abbandonata la originaria struttura piramidale, le consorterie paiono aver scelto una strategia tesa all’inabissamento delle tradizionali attività criminali, ricercando invece il consenso sociale anche attraverso attività [“promozionali”,] tra cui, ad esempio, l’offerta di lavoro all’interno di aziende controllate dalla stessa organizzazione. Nella specie indubbiamente acquistano rilievo decisivo, al fine di riconoscere la natura mafiosa dell’associazione, la presenza tra gli affiliati di persone condannate per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. […], la disponibilità di armi e altre attività di stampo tipicamente mafioso, come le estorsioni e lo spaccio di sostanza stupefacente […. In particolare,] la presenza tra gli affiliati di persone già condannate per delitti di mafia acquista rilievo decisivo laddove la caratura mafiosa del soggetto abbia contagiato di sé l’intera struttura associativa […]» (par. 12.4, p. 46).

La medesima conclusione era stata raggiunta, pochi mesi prima, da Sez. 2, n. 27808 del 14/03/2019, Furnari, Rv. 276111-01, la cui massima, quanto alla «“ricostituzione” di un gruppo criminale[,] a distanza di tempo[,] da parte di noto capo-mafia, di dimostrata caratura criminale, inserito in ambito di mafie storiche (nel caso di specie “Cosa Nostra” [iniziali maiuscole nell’originale])», reputa “expressis verbis” non «necessaria un’esteriorizzazione della forza di intimidazione, considerato il capitale criminale della associazione mafiosa di riferimento e il diffuso riconoscimento della capacità di aggressione di persone e patrimoni da parte della stessa, anche nel caso di riferimento “implicito o contratto” alla forza criminale del sodalizio mafioso».

5.4. Associazioni distaccate da altre maggiori.

Per omogeneità di argomento, v’è da aggiungere che gli approdi della giurisprudenza sulle concrezioni reviviscenti e su quelle ricostituite si completano con riferimento a figure associative sicuramente nuove, in quanto appena venute ad esistenza, epperò attratte in un fascio di luce, non già scaturente dal passato, ma su di loro proiettato nell’attualità da altri aggregati di sicuro prestigio criminale.

Il fenomeno cui si allude è quello del distacco - con conseguente autonomizzazione - di una costola dal tronco di un’associazione maggiore. La costola, nel momento in cui - di per sé, senza spendere l’autorità dell’associazione maggiore - si affaccia al mondo delle attività delinquenziali, non ha ancora avuto modo, ovviamente, di dimostrare la sua mafiosità. Per tale ragione, nei processi che riguardano la partecipazione ad essa, suole invocarsi, in chiave difensiva, l’esclusione della configurabilità del delitto p. e p. dall’art. 416-bis cod. pen. per la ritenuta inidoneità della mafia silente ad attingere il piano della mafiosità tipica. Il paradigma appena descritto è esattamente quello che ha caratterizzato la discussione nel giudizio definito da Sez. 2, n. 20926 del 13/05/2020, Perna Domenico Ciro, con il riconoscimento di una franca natura camorristica del sodalizio sorto in Torre del Greco e limitrofi come costola del clan Gionta e noto come terzo settore. Le difese degli imputati «postula[vano, infatti,] che il sodalizio ruotante attorno alla figura del Perna Domenico Ciro fosse animato da un anelito “presenzialista” all’interno di un territorio già controllato da altri, ben sedimentati e “meglio conosciuti” aggregati, sicuramente annoverabili, per finalità e metodi criminali, tra i clan camorristici operanti nella zona di Torre del Greco (nella specie i clan Gionta da un lato e Gallo-Cavalieri dall’altro). Dunque, al più, il gruppo del Perna avrebbe costituito un “progetto” associativo ancora “in nuce”, non dotato di quelle connotazioni “tipizzanti” una vera e propria associazione mafiosa, mancando ancora quel tanto di “appariscenza” per aver creato un clima diffuso di assoggettamento omertoso, correlato e consequenziale ad una metodologia criminale improntata - e finalizzata - alla “presa in carico” di quel determinato ambito territoriale»; ciò tanto più alla luce della «contraddittorietà che rappresenterebbe l’insorgenza di un gruppo “concorrente”, senza che la relativa attività fosse stata nei fatti assentita dai gruppi egemoni, ai quali, già da tempo, si erano riconosciute le “stimmate” proprie dei clan camorristici» (par. 1.1, p. 12). Pregnanti sono le affermazioni con cui la Corte confuta le tesi difensive, facendo perno sulla differenza tra il gruppo in esame e sia le delocalizzazioni ’ndranghetiste sia le cd. «“nuove mafie locali”», per cui la giurisprudenza esige l’esteriorizzazione di una concreta forza di intimidazione: «nelle neoformazioni, infatti, è del tutto assente quella “assimilazione per rendita di posizione” o di utilizzo a propri fini[, da parte del gruppo dei Perna,] dell’avviamento criminale ascrivibile ai consessi [in Torre del Greco] insistenti, derivante dalla presenza sul territorio di associazioni nominativamente riconducibili al “genus” ed al paradigma di cui all’art. 416-bis cod. pen., nel cui alveo il “nuovo” gruppo si è formato e consolidato, condividendone gli scopi ed i metodi e realizzando la stessa tipologia di reati». Vero è - specifica la Corte, citando Sez. 6, n. 42369 del 17/07/2019, Danise Vincenzo, Rv. 277206-01, che riprende alla lettera Sez. 6, n. 27094 del 01/03/2017, Milite, Rv. 270736-01 - che «la costituzione di una nuova organizzazione, alternativa ed autonoma rispetto ai gruppi storici presenti sul territorio può essere desunta da plurimi indicatori fattuali[, tra cui il] riconoscimento, da parte dell’associazione storicamente egemone, di una paritaria capacità criminosa al gruppo emergente»; «ma se tutto ciò è vero in un ambito di concorrenzialità territoriale in cui l’esprimersi del nuovo sodalizio operi, o possa operare, come elemento di “disturbo” per i clan tradizionali, è evidente che la “continuità” e compresenza mafiosa sia assai più agevolmente dimostrabile laddove - come nella specie - la nuova realtà associativa sia controllata proprio da un elemento che al vecchio gruppo egemone faceva notoriamente riferimento (il Perna Domenico Ciro), e - soprattutto - da questo gruppo non sia stato in alcun modo “ostacolato” nei suoi iniziali propositi di dar vita ad una “propria” associazione, con un “nomen” distinto dai clan camorristici di più risalente “tradizione”, quali, in particolare, il clan Gionta, di cui il Perna era stretto e fidato sodale, e l’altro clan Gallo Cavalieri[,] pur insistente nel territorio di causa». Ne consegue - conclude la Corte - che la derivazione di una costola dall’associazione maggiore non è riconducibile «ad una novazione, bensì ad una successione a titolo particolare di un consesso che utilizza lo stesso metodo e si pone le medesime finalità criminali del precedente, nell’ambito di un “pactum” avente eguale natura - perfettamente riconducibile alla medesima “societatis sceleris” per modello e tipo - e destinato ad insistere in una realtà territoriale notoriamente già adusa a confrontarsi con realtà criminali di tal fatta. La stretta continuità di tipo delinquenziale si lega poi ad una riscontrata operatività interna ed esterna del gruppo, che dà ragionevolmente conto della ricaduta del “nomen” sulla realtà circostante e del clima che ad essa ne consegue» (ivi, pp. da 14 a 16, passim).

5.5. Questioni di competenza territoriale.

Per riannodare le fila del discorso sulla distinzione, nel provvedimento del P.P.A., tra «nuov[i] aggregat[i]» adottanti la «medesima metodica delinquenziale delle “mafie storiche”» e «nuov[i] aggregat[i]» costituenti «mer[e] articolazion[i] territorial[i] di una tradizionale organizzazione mafiosa», un’ulteriore riflessione riporta la trattazione nell’alveo proprio delle delocalizzazioni ’ndranghetiste, attingendo le diverse conseguenze che, in punto di competenza territoriale, sono suscettibili di derivare dalla loro sussunzione nel novero di quelle che si limitano ad adottare, imitandola, la «medesima metodica delinquenziale delle “mafie storiche”» ovvero nel novero di quelle che costituiscono vere e proprie «articolazion[i] territorial[i]» di ’ndrangheta.

Le prime sono autonome dalla ’ndrangheta come associazione complessiva, in quanto ripetono l’alone ’ndranghetista soltanto dall’adozione della «metodica delinquenziale» ’ndranghetista, ragion per cui si palesano come esclusive espressioni dei luoghi in cui sorgono ed operano, per l’effetto determinanti il radicamento della competenza territoriale.

Diversamente potrebbe, invece, ritenersi per le seconde, dal momento che esse traggono la legittimazione ’ndranghetista dall’essere e presentarsi alla stregua di propaggini decentrate della ’ndrangheta come associazione complessiva o quantomeno di quelle strutture ’ndranghetiste calabresi (ed in particolare reggine) fungenti, nei loro confronti, da case-madri.

Echi del tema in disamina si rinvengono in Sez. 2, n. 29189 del 29/09/2020, La Rosa Giuseppe e altri, confermativa della sentenza della Corte d’appello di Reggio di Calabria nella parte in cui, condividendo la sentenza di primo grado, aveva ritenuto la competenza dell’A.G. reggina con riferimento alle condotte del capo del locale di Giffone consistenti nell’avere, in territorio lecchese e comasco, nel corso di una storica riunione ripresa in diretta dagli inquirenti, conferito doti agli appartenenti dei locali di Calolziocorte e di Cermenate, dal primo dipendenti, senza consumazione di alcun’altra attività in territorio di Giffone. L’eccezione di incompetenza dei giudici reggini appariva tanto più ficcante in quanto era stato il giudice di Milano ad aver «poi giudicato tutti i presunti sodali, intervenuti nella riunione del 31 maggio 2014» (par. 2.2, p. 10). La S.C. l’ha tuttavia ritenuta inammissibile e comunque infondata dal momento che all’imputato «si addebita[va] di far parte, nella veste di capo con il rango di mammasantissima, [del] locale di Giffone, comune sito in provincia di Reggio [di] Calabria, dal quale dipendono le due cellule lombarde di Calolziocorte e [di] Cermenate, [… che], pur agendo con una certa autonomia, si configurano alla stregua di satelliti della cosca-madre di Giffoni, tanto che le eventuali nuove cariche devono essere conferite o ratificate dal predetto [imputato]» (ivi).

Ulteriormente, preme di sottolineare come la sentenza in commento non si fermi a considerare i rapporti tra la casa-madre ed i locali dipendenti ai fini della determinazione della competenza territoriale, ma si spinga sino ad assumere un punto di vista ancor più ampio ai fini del giudizio sulla partecipazione dell’imputato, non già al locale di Giffone, di cui la difesa aveva revocato in dubbio essere emerse un’obiettiva caratura ’ndranghetista ed una consistenza superiore ai tre partecipi, ma alla ’ndrangheta come associazione complessiva. Nel dettaglio, ad avviso della S.C., premesso che è stata giudizialmente accertata «l’esistenza dell’[unitaria] associazione mafiosa denominata ’ndrangheta […]», a rilevare è, «oltre alla fama criminale conseguita nei territori di origine, in quanto “mafia storica” (menzionata anche nell’art. 416-bis, comma 8, cod. pen.», l’«elemento organizzativo pregnante» della «criminalità organizzata calabrese», rappresentato dal «modulo di diffusione mediante riproduzione sui territori dove opera delle proprie strutture organizzative denominate “locali”»; pertanto, «pretendere che, in presenza di una simile caratterizzazione delinquenziale, con inconfondibile marchio di origine, sia necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento od omertà nel territorio in cui l’organizzazione è saldamente radicata è, certamente, un fuor d’opera»; conseguentemente, stante l’esercizio, da parte dell’imputato, di un ruolo di coordinamento tra la casa-madre ed i locali derivati, si apprezza la manifesta infondatezza delle censure, atteso che «la affiliazione anche singola all’[associazione mafiosa denominata ’ndrangheta] operante sul territorio calabrese non comporta la necessità di dimostrare di volta in volta le caratteristiche tipiche del sodalizio dettate dall’art. 416-bis cod. pen.» (par. 2.4, p. 12 ss.).

6. Ambito di riferimento del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto: strutture ’ndranghetiste attive in territori di storico radicamento.

Il provvedimento del P.P.A. ha precipuo riguardo alle delocalizzazioni ’ndranghetiste, stante l’oggetto del procedimento “a quo”, delimitante l’ambito del “devolutum” al P.P.A.

In disparte l’accenno alla dimensione territoriale di siffatte articolazioni, che trova ragion d’essere nel loro modo di manifestarsi alla luce della prevalente storiografia giudiziaria, ma che, sul piano non solo teorico, propone un disallineamento rispetto alla dimensione “personale”, o “relazionale”, dell’assoggettamento e dell’omertà, si apre il problema di stabilire l’ambito di riferimento del provvedimento.

Con riferimento “funditus” alle «articolazioni territoriali della ’ndrangheta», va facendosi strada l’affermazione che, dallo spettro di esso, esulino le strutture attive nei territori di storico radicamento del macro-tipo mafioso.

In tal senso, esplicita è Sez. 6, n. 12219 del 18/02/2020, Marchese Giuseppe Marco (par. 5, p. 7), in relazione ad «una struttura ’ndranghetista […] fortemente radicata nel terri torio di appartenenza [(nella specie, il basso catanzarese)] e pienamente operativa secondo le note condizioni enunciate nell’art. 416-bis cod. pen.», donde avulsa dalle «problematiche sui connotati della c.d. mafia silente»; sostanzialmente, quantunque implicitamente, negli stessi termini, Sez. 6, n. 12534 del 26/09/2019 (dep. 2020), Mongiardo Mario e altri (par. 1.2, p. 10), in relazione ad una frangia, attiva in San Sostene e limitrofi, del gruppo Gallace di Guardavalle, costituente una «prosecuzione di altra di cui già facevano parte [taluni] imputati […], secondo quanto accertato con sentenza definitiva»).

7. Ambito di riferimento del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto: strutture non ’ndranghetiste.

Ciò detto quanto alla ’ndrangheta, si è però ritenuto che il provvedimento fosse ex se invocabile anche al di fuori di essa, in relazione ad un’associazione replicante forme camorristiche alle porte di Roma, qualificata come di tipo mafioso.

Infatti, Sez. 2, n. 12737 del 17/02/2020, Cotugno e altri, ha esplicitamente ricondotto il «clan Pagnozzi» - «una nuova aggregazione criminale, insediatasi nella zona sud-est di Roma, operativa dalla fine del 2008 [s]ino al 2011, dotata di una propria struttura autonoma ed originale, che si propose di adottare, e di fatto adottò, la medesima metodica delinquenziale della “camorra” beneventana, di cui Domenico Pagnozzi [(trasferitosi in soggiorno obbligato a Roma)] era stato uno dei capi storici» (par. 4.1.3, p. 59) - ad una generalizzazione della categoria che il provvedimento per vero individua in rapporto alle delocalizzazioni ’ndranghetiste proponentisi di adottare la «medesima metodica delinquenziale delle “mafie storiche”», categoria rispetto alla quale - secondo la sentenza in disamina - «non sorgono problemi, proprio perché essa impone sempre e comunque la rigorosa verifica di tutti i presupposti costitutivi del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e postula l’esteriorizzazione del metodo mafioso» (par. 4.1.2, p. 59).

8. Ambito di riferimento del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto: “nuove ed autonome associazioni di tipo mafioso”.

Sez. 2, n. 12737 del 2020, offre il destro per verificare se la giurisprudenza abbia invocato il provvedimento del P.P.A. altresì in relazione alle associazioni di nuovo conio non costituenti segmenti o repliche né della mafia calabrese né per estensione di quella siciliana o campana o, volendo, pugliese e perciò definibili “nuove ed autonome associazioni di tipo mafioso”.

In linea di principio, sono esse accomunabili, ma non sovrapponibili, alle delocalizzazioni ’ndranghetiste che si propongono di adottare la «medesima metodica delinquenziale delle “mafie storiche”», in quanto anche le prime, come le seconde, pur con la variante di adottare metodiche delinquenziali non “collaudate” in stilemi storico-sociologici (donde la ridetta non sovrapponibilità), si volgono a penetrare “ex novo” il sostrato (territoriale o personale) di insistenza, in guisa da dover a maggior ragione sottostare alla regola della necessaria «verifica di tutti i presupposti costitutivi del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.», con particolare riguardo all’«esternazione del metodo mafioso».

Tale ragionamento informa di sé l’intera trattazione che Sez. 6, n. 18125 del 2020, riserva all’associazione di tipo mafioso, trovando un accenno di emersione laddove, a proposito de

«Le mafie delocalizzate e le “nuove” mafie», spiega che «le considerazioni [precedentemente] formulate» - circa «la necessità di esteriorizzazione della capacità di intimidazione» (par. 2, p. 285) in tutto il paradigma delle «operazioni di “riduzione della scala” del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.», rese necessarie dall’«adeguamento dei requisiti strutturali “storici” del reato al fine di “legare” ed “esportare” il modello in contesti diversi da quelli in cui si sono sviluppate le c.d. mafie tradizionali» (par. 3, p. 288) - «assumono rilievo in relazione [a]lle c.d. mafie delocalizzate e, come nel caso di specie, alle “nuove mafie”[,] la questione att[enendo] al se e [al] come i requisiti di tipicità della fattispecie debbano conformarsi davanti a fenomeni criminali come quelli indicati» (par. 4, p. 288 s.).

8.1. Sentenza su mafia capitale in ordine all’equiparazione tra mafie storiche e “nuove ed autonome associazioni di tipo mafioso”.

Quel che preme in questa sede di evidenziare è il passaggio dogmatico fondamentale attraverso il quale Sez. VI, n. 18125 del 2020, sospinge l’esposizione onde guadagnare la descritta conclusione sulle «“nuove” mafie».

Ritiene essa che la previsione dell’ultimo comma dell’art. 416-bis cod. pen. - a termini del quale «le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ’ndrangheta e[d] alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che[,] valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo[,] perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso», ove l’aggiunta della ’ndrangheta è stata effettuata (solo) dall’art. 6, comma 2, del decreto-legge 4 febbraio 2010, n. 4, convertito, con modificazioni, nella legge 31 marzo 2010, n. 50 - non valga a rompere l’unicità del paradigma dell’associazione di tipo mafioso, nonostante la ripetizione solo parziale del comma 3: precisamente con riguardo al solo avvalimento della forza intimidatrice del vincolo associativo - peraltro riferito direttamente all’aggregato delinquenziale, mentre invece il comma 3 lo riferisce «a coloro che ne fanno parte» - e non anche con riguardo alla «condizione di assoggettamento e di omertà» che - nell’architettura del comma 3 - «deriva» dalla «forza di intimidazione del vincolo associativo».

In buona sostanza, secondo Sez. 6, n. 18125 del 2020, l’idealtipo del comma 3 è l’unico predicabile di mafiosità, sia che si ragioni del prototipo sociologico rappresentato dalla mafia siciliana, ed in seno ad essa da cosa nostra, sia che si ragioni di camorra, ’ndrangheta od «altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere», sia che si ragioni di concrezioni di tipo mafioso emergenti, al di fuori delle mafie tipiche, storiche o tradizionali, in riduzione di scala. Invero, «prescindere dalla necessità che tutte le associazioni mafiose [- comprese dunque tanto le derivazioni delocalizzate di strutture storicamente radicate nelle regioni meridionali del Paese quanto «le nuove “altre” associazioni, come quella contestata nel presente processo» -] manifestino la propria capacità di intimidazione e determinino assoggettamento omertoso significa costruire in modo dicotomico la tipicità della stessa fattispecie incriminatrice; un’opzione interpretativa che non pare esente da dubbi di legittimità costituzionale, sotto il profilo del principio di tassatività e determinatezza» (par. 4.2, p. 293 s.).

8.2. L’opposta tesi della «progressiva attenuazione della rilevanza giuridica delle ricadute esterne della metodologia associativa».

L’avviso di Sez. 6, n. 18125 del 2020, non è, però, l’unico rintracciabile in giurisprudenza. In senso opposto scriveva Sez. 2, n. 24851 del 2017 - criticata da Sez. 6, n. 18125 del 2020 -che «l’assenza di riferimenti[, nell’ultimo comma dell’art. 416-bis cod. pen.,] alle ricadute in termini di stringente condizionamento delle aree di insediamento […] induce ad optare per un consapevole affrancamento da un elemento di fattispecie ritagliato sulla specificità della mafia siciliana […]. A ciò consegue che l’esternazione del metodo in ipotesi di strutture delocalizzate e di mafie atipiche non debba essere parametrata in termini giuridicamente necessitati alla valutazione dell’impatto ambientale determinato dal radicamento territoriale […]» (par. 5, p. 9 s.).

Né un simile insegnamento - di cui si apprezza la distanza, non solo da Sez. VI, n. 18125 del 2020, ma anche dal provvedimento del P.P.A. - può dirsi superato.

Infatti, Sez. 2, n. 24851 del 2017, è adesivamente richiamata, anzitutto, nelle motivazioni di Sez. 5, n. 22127 del 24/01/2019, Carneli Giovanni e altri, depositate solo pochi giorni dopo l’ordinanza con cui Sez. 1, n. 15768 del 2019, aveva sollecitato l’intervento delle sezioni unite. Sez. 5, n. 22127 del 2019, su cui si tornerà ancora tra poco, suggella la riconducibilità all’art. 416-bis cod. pen. del locale ’ndranghetista di Mariano Comense, seguitante ad esistere, secondo la Corte, in guisa ’ndranghetista, ancorché sostanzialmente solo “in filigrana”, nel cuore della Brianza comasca, nonostante il colpo infertogli con la carcerazione del capo carismatico nel procedimento “Infinito”.

Essa spicca per sostenere la tesi che non si dà un unico modello di associazione di tipo mafioso, giacché, «in sintesi, l’esternazione del metodo [mafioso] trova difforme declinazione e differente manifestazione a seconda della direzione finalistica delle condotte dei sodali e non può essere valutata secondo unitari e aprioristici moduli ermeneutici» (par. 4.2.6., p. 36). Orbene, a supporto di una simile conclusione, che si inscrive «nel solco di una progressiva attenuazione della rilevanza giuridica delle ricadute esterne della metodologia associativa» (ivi, p. 35), adduce la sentenza l’osservazione che, «in tema di corretta qualificazione della manifestazione del metodo mafioso, quale requisito specializzante della fattispecie ex art. 416-bis cod. pen., va ulteriormente sottolineato come la stessa interpretazione testuale della norma contribuisca a restringerne il campo. L’ultimo comma della citata disposizione […] richiama l’uso della forza intimidatrice del vincolo, senza menzionarne gli effetti in termini di assoggettamento e omertà, eliminando un elemento di fattispecie ritagliato sulla specificità della mafia siciliana, paradigma del precipitato storico della norma. A ciò consegue che l’esternazione del metodo, in ipotesi di strutture delocalizzate e di mafie atipiche, non debba essere parametrata in termini giuridicamente necessitati alla valutazione dell’impatto ambientale determinato dal radicamento territoriale» (par. 4.2.5, p. 33).

Più di recente, ma fuori dall’ambito delle delocalizzazioni ’ndranghetiste, Sez. 2, n. 24851 del 2017, è altresì condivisa da Sez. 2, n. 14943 del 24/01/2020, Attanasio Michele e altri (par. 2.5, p. 41), intesa a confermare - nella concorrenza di una “potenzialità” intimidatoria percepita all’esterno (cfr. ivi, p. 38: «[… quello di cui all’art. 416-bis cod. pen. è un] reato di pericolo risultando perciò sufficiente ad integrare la fattispecie concreta il fatto che il gruppo criminale considerato sia potenzialmente capace di esercitare intimidazione, e come tale sia percepito all’esterno ») - la natura camorristica di un neoemerso clan del salernitano, privo, secondo la tesi difensiva, di esternata mafiosità, come attestato dal fatto che «molti dei fatti estorsivi in cui la operatività del sodalizio si sarebbe manifestata erano rimasti allo stadio del tentativo[,] proprio in quanto le vittime, tutt’altro che intimidite, si erano invece immediatamente rivolte alle forze dell’ordine (par. 2.6, p. 44 s.). La tesi difensiva è disattesa dalla Corte sul rilievo che, in disparte dal non essere rimaste non denunciate altre estorsioni financo consumate, il clan si era coagulato attorno al capo, «personaggio ben conosciuto nella valle dell’Irno come soggetto proveniente da Pagani, già “intraneo” ad ambienti delinquenziali organizzati e particolarmente pericoloso, insediatosi in Mercato San Severino e ben presto circondatosi da un gruppo dedito alla commissione di reati che, in breve tempo, si era affermato come egemone anche a scapito di altri rispetto ai quali il sodalizio rivendicava esplicitamente il primato (cfr., infatti, come correttamente emblematica sia stata in tal senso considerata la affermazione per cui “qui comandiamo noi”, [volta] a sottolineare la definitiva acquisizione di una posizione di predominio)».

Infine, nell’ancora diverso ambito delle nuove ed autonome organizzazioni di tipo mafioso in territorio laziale, anche Sez. 1, n. 5445 del 07/11/2019 (dep. 2020), Ermini Giorgio e altri, cita Sez. 2, n. 24851 del 2017, onde sostenere «che è sufficiente che l’impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo sia munito della connotazione finalistica richiesta dalla norma incriminatrice, a prescindere dal grado di penetrazione nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione» (par. 3.1, p. 15). Su tale presupposto, Sez. 1, n. 5445 del 2020, conclude, in sede cautelare, nel senso della natura mafiosa di un nuovo gruppo delinquenziale (autoappellatasi “La Sicilia” o “I siciliani”) che, alla stregua della ricostruzione dei giudici di merito, operava nel pometino - accentrando l’imposizione della “protezione” agli operatori economici e le attività legate allo spaccio di droga, peraltro (diversamente rispetto al caso di Sez. 2, n. 14943 del 2020) in «assenza di denunce delle vittime di reati, anche gravi» (ivi, p. 13) - «con modalità ispirate a quelle praticate dalle cosche appartenenti a “cosa nostra catanese”[,] per il ruolo apicale svolto sin dalla fondazione [- similmente a quanto osservato in Sez. 2, n. 12737 del 2020, quanto al clan Pagnozzi -] da [uno degli indagati], uomo d’onore della famiglia Santapaola, da decenni stabilmente insediata nel capoluogo etneo[: …] la nuova struttura associativa, costituita […] nell’anno 2009, negli anni a seguire, aveva dapprima assoggettato gli spacciatori locali, costringendoli a cedere una quota dei loro guadagni, per poi esercitare un controllo esclusivo anche delle altre attività illecite nell’area […]» (par. 1.2, p. 3, del «Ritenuto in fatto»).

Affinità di argomento suggerisce che si ricordi anche Sez. 5, n. 26427 del 20/05/2019, Forieri, Rv. 276894-01, la quale - nel ritenere legittimo il giudizio di mafiosità espresso dal tribunale del riesame in ordine ad un sodalizio «affermatosi rapidamente ed in maniera aggressiva nel territorio viterbese quale “istituzione” criminale proiettata ad assumere nell’attualità un ruolo di spiccato rilievo ed a costituire una realtà con la quale ampi settori del tessuto economico, loro malgrado, si vedono costretti a confrontarsi in una posizione di soggezione» (par. 2.5, pp. 7 e 8) - proclama il principio secondo cui, «ai fini della configurabilità dell’associazione per delinquere di tipo mafioso, il requisito della forza intimidatrice promanante dal sodalizio non può essere escluso per il sol fatto che la sua percezione all’esterno non è generalizzata nel territorio di riferimento, o che un singolo non si è piegato alla volontà dell’associazione o, addirittura, ne ignori l’esistenza».

9. Condivisione del contenuto del provvedimento del Primo Presidente Aggiunto da parte di pronunce relative alla ’ndrangheta.

Nella seconda fase del procedimento in cui è maturata la richiesta di rimessione alle sezioni unite, Sez. 1, n. 51489 del 29/11/2019, Albanese Raffaele (e altro, ossia Nesci), Rv. 277913-01, senza direttamente evocare nei motivi della decisione il provvedimento del Primo Presidente Aggiunto, ha disconosciuto la sussumibilità nel tipo mafioso del locale di Frauenfeld, avendo ritenuto che il collegamento da questo esibito con la casa-madre si caratterizzasse come meramente interno, siccome limitato al piano dell’adozione di moduli organizzativi e rituali di adesione, e non come «organico-funzionale» e viepiù «dotato del carattere della riconoscibilità esterna», in guisa da far risaltare «una forza di intimidazione intrinseca[,] che […] non consiste nella mera potenzialità, non esercitata e quindi meramente presuntiva, dell’impiego della forza, ma nella spendita d’una vera e propria fama criminale ereditata dalla casa-madre». La Corte, in motivazione, ha ulteriormente chiarito che un «raccordo con la casa-madre non definito sul piano funzionale si esprimerebbe in forme di per sé insufficienti - appunto perché confinate nei cd. “interna corporis” del gruppo - a porsi come occasione per la proiezione all’esterno di una realtà criminale, impedendone la percezione sul territorio e quindi l’apprezzamento della capacità di condizionamento mafioso del contesto sociale ed economico» (par. 11.2, p. 15).

Sempre in tema di ’ndrangheta, ma questa volta in Lombardia, pressoché identica interpretazione del provvedimento del P.P.A., ancorché con esiti concretamente opposti, si reperta in Sez. 6, n. 11365 del 28/11/2019 (dep. 2020), Palermo Ernesto e altri, che però cambia registro linguistico e perviene all’ulteriore «conclusione [secondo cui] l’elemento caratterizzante della cd. “mafia silente” va identificato non già nella mera potenzialità di una non esercitata forza intimidatrice - come tale, unicamente presuntiva - bensì nella concreta spendita, in termini che possono assumere una qualsiasi consistenza, anche non eclatante, della fama criminale che la struttura delocalizzata ha, per così dire, ereditato». Alla luce di tale principio, la Corte osserva come il locale di ’ndrangheta di Lecco, di cui si discorreva in ricorso, costituisca «una vicenda mafiosa che, nata come “silente”, aveva progressivamente acquisito tratti di eloquente mafiosità [- “anche”, ma non principalmente, attraverso paradigmi estorsivi dettagliati dai giudici di merito -] riconducibile al clima di assoggettamento ed omertà di cui i sodali potevano giovarsi per agire indisturbati nel perseguimento dei propri scopi, leciti o illeciti» (parr. 6.5, p. 9, e 6.7, p. 10). Per vero, la mafiosità del locale in parola leggesi così eloquentemente riassunta in premessa al «Considerato in diritto» (par. 4, p. 5): «La stessa Corte territoriale aveva […] evidenziato come il capo-clan cercasse di evitare manifestazioni tradizionali dell’associazione di stampo mafioso, avvalendosi di uomini nuovi, […], ben inserit[i] nel contesto sociale e politico locale, e adottando nuove strategie per insinuarsi nel tessuto economico e amministrativo lecchese, agendo spesso l’intimidazione, in modo ancor più subdolo, nella fase successiva al coinvolgimento delle vittime o dei pubblici funzionari corrotti. A dimostrazione di tale assunto il giudice d’appello aveva illustrato specifiche condotte, oggetto dei reati-fine, contestati a[d uno degli imputati], là dove aveva affermato che[,] “quando le vittime si rendono conto che dietro i volti nuovi vi sono ‘i calabresi’[,] è troppo tardi” e specificando che “è ciò che accade ai corrotti, ma anche ai destinatari dei tentativi di estorsione, come […], che pur non avendo ceduto alle richieste di pagamento del pizzo, dopo i colpi di arma da fuoco che attingono le vetrine d[i un esercizio commerciale], si spaventano tanto che si guardano bene dal denunciare i responsabili”».

9.1. Volti puliti della ’ndrangheta e cosche ’ndranghetiste di seconda generazione nei territori refrattari dell’Italia settentrionale.

La storia del locale di Lecco, riguardata alla luce dell’affermazione del provvedimento del P.P.A. secondo cui la «capacità intimidatrice del sodalizio […] è […] una precondizione necessaria per la configurabilità del reato», rappresenta una realtà emblematica del “modus essendi” delle delocalizzazioni ’ndranghetiste in quelli che suole definire i territori refrattari dell’Italia settentrionale, beneficiari di condizioni economiche più “sofisticate” rispetto alla Calabria e perciò ritenuti meno esposti alla permeazione di metodi mafiosi tradizionalmente appariscenti.

L’osservazione di tali territori dimostra un’efficace capacità di adattamento dei sodalizi ’ndranghetisti, che, ivi nati “sottotraccia”, a tal punto che per anni non ci si è accorti della loro presenza, hanno seguitato a mimetizzarsi, recitando bensì l’intimidazione, ma in modo viscido, ingannatore, non immediatamente esibito, come invece si pensa accada secondo gli stilemi di solito impiegati per descrivere le associazioni di tipo mafioso alla stregua di associazioni che devono subito capitalizzare una riserva di intimidazione, per mettere anticipatamente in chiaro, in una visione aggettante sul futuro, quel che sono capaci di fare.

A ben guardare, Lecco aveva un punto in comune con Roma in mafia capitale: la corruzione di amministratori locali. A Lecco - secondo Sez. 6, n. 11365 del 2020 - è emerso che la ’ndrangheta «agiva», bensì, l’intimidazione, ma «nella fase successiva al coinvolgimento delle vittime o dei pubblici funzionari corrotti» e, «“quando le vittime si rend[eva]no conto che dietro i volti nuovi vi [erano] ‘i calabresi’[, era] troppo tardi”».

In ciò si rinvengono i tratti di uno dei volti nuovi, o presentabili, o puliti, delle delocalizzazioni ’ndranghetiste nell’Italia del nord.

Il problema dei volti puliti della ’ndrangheta è già di per se stesso grave, in quanto, celandosi la ’ndrangheta dietro di essi, necessitano le indagini e l’istruttoria di un supplemento di approfondimento volto a cogliere il disvelamento - peraltro solo dinamico, con conseguenti ulteriori difficoltà di rappresentazione in dibattimento - della realtà.

È tale problema grave in rapporto alle delocalizzazioni di prima generazione.

Ma la questione che comincia ad affacciarsi nell’esperienza giudiziaria, incrementando ancor di più il tasso di complessità del problema, è che ormai negli stessi territori refrattari, in specie lombardi, si assiste all’osservazione di delocalizzazioni di seconda generazione, spesso vive ed attive in modo silente nel periodo successivo al buon esito delle recenti operazioni di contrasto, riuscite (però solo) a colpire (e non purtroppo a debellare) quelle di prima generazione.

Lo studio di tale fenomeno impone di confrontarsi con una nuova dimensione della criminalità organizzata delocalizzata, che incentra sul singolo territorio per vero non più refrattario, in quanto già percorso dall’impronta ’ndranghetista, il “punto di approdo” dei collegamenti che la consorteria più recente esprime, conseguentemente da individuarsi, non più (sol)tanto nella casa-madre calabrese, quanto piuttosto (e soprattutto) nell’esperienza locale pregressa.

Tale è il caso del locale di Mariano Comense, da Sez. 5, n. 22127 del 2019, ritenuto un’«organizzazione ’ndranghetista circoscrizionale che ha resistito ed è sopravvissuta alla detenzione di Salvatore Muscatello, continuando ad esprimere, nel contesto di riferimento, una soggettività criminale riconoscibile e riconosciuta, nonostante la cifra silente delle sue manifestazioni estrinseche ed il necessario adattamento con l’ambiente» (par. 5.1, p. 37), sulla duplice premessa che non si trattava di verificare «se si [fosse] insediato a Mariano Comense un gruppo criminale che [fosse] modellato o [fosse] diretta filiazione della ’ndrangheta calabrese, bensì se [fosse] ancora operativo il gruppo criminale, sicuramente di ’ndrangheta, il cui insediamento [era] già stato definitivamente accertato», e che una simile verifica era «fortemente condizionat[a] dalla metamorfosi del fenomeno di infiltrazione mafiosa nel nord del Paese, giunta alla sua seconda e terza generazione, e […] non p[oteva pertanto] prescindere dal dato, ormai acquisito, dell’integrazione della criminalità organizzata nel nord Italia [e] della trasformazione delle modalità operative delle associazioni criminali mafiose sia nelle terre di origine (attraverso la c.d. sommersione) che nelle articolazioni esterne» (par. 3.2.3, p. 26).

9.2. Condivisione del contenuto del provvedimento del P.P.A. da parte di una pronuncia relativa ad una “nuova ed autonoma associazione di tipo mafioso”.

Aderisce inoltre apertamente alla prospettiva del provvedimento del P.P.A., fuori però dal contesto ’ndranghetista, Sez. 2, n. 12737 del 2020, che, come visto, fa derivare la conferma della mafiosità del clan romano Pagnozzi dalla constatazione della progressiva crescita della sua visibilità violenta: invero, alla stregua delle risultanze di merito, il capo-clan, trasferitosi a Roma dopo i trascorsi camorristici nel beneventano e circondatosi sin da subito di pochi ma fidi collaboratori, «indirizzò la principale attività del gruppo verso il commercio di sostanze stupefacenti, mediane la costituzione di un’apposita struttura organizzata […], affiancata dall’attività di “recupero crediti” che il sodalizio svolse sia in danno degli acquirenti di droga, insolventi, sia come servizio offerto a terzi creditori; con mire espansionistiche anche nei settori leciti dell’economia (commercio di orologi di pregio e installazione di “slot-machine”). Inizialmente l’associazione fece ricorso alla violenza anche quale strumento di affermazione sul “nuovo” territorio, gli interlocutori furono inizialmente perplessi per i metodi violenti introdotti dai “napoletani”, la preoccupazione fu diffusa ed effettiva, ma ben presto tutti si adeguarono alle nuove strategie violente perché percepite nel territorio come inevitabili» (par. 4.1.4, p. 60).

10. Possibile ricaduta sistematica della tesi della necessaria mafiosità in atto: dalla specialità all’alterità dell’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen. rispetto all’associazione di cui all’art. 416 cod. pen.

La tesi della necessaria mafiosità in atto, affinché possa ritenersi l’esistenza di una qualsiasi associazione di tipo mafioso, potrebbe rivelarsi foriera di un’eclatante ricaduta sistematica in punto di rapporti tra l’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen. e l’associazione di cui all’art. 416 cod. pen.

Tradizionalmente si ritiene che l’associazione di tipo mafioso si atteggi ad una “species” della comune associazione per delinquere, in relazione, da un lato, al perseguimento di «particolari obiettivi criminosi, costituiti non soltanto dalla perpetrazione di fatti antigiuridici, sibbene anche dalla gestione e dal controllo di settori di attività economiche», e, dall’altro, alla «particolare efficacia intimidatrice sprigionantesi dal sodalizio, nel senso che esso assume il connotato di mafioso allorché gli associati si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare le finalità indicate nel comma terzo dell’art. 416 bis [cod. pen.]» (Sez. 1, n. 14134 del 30/09/1986, Rv. 174636-01, Amerato).

Nondimeno, relativamente alla specialità dell’associazione di tipo mafioso rispetto all’associazione per delinquere, uno spunto critico di riflessione potrebbe sovvenire dalle affermazioni sistematizzate in Sez. 6, n. 18125 del 2020, relativa a mafia capitale, volta a rimarcare le profonde differenze tra l’una e l’altra associazione, tali da renderle irriducibili ad unità. In questa sentenza, infatti, si legge, pur al fine precipuo di sostenere che quello ex art. 416-bis cod. pen. «è un reato di pericolo [unicamente] perché l[’]esistenza dell’associazione pone in pericolo l’ordine pubblico, l’ordine economico, la libera partecipazione dei cittadini alla vita politica ed altri interessi ancora[, senza tuttavia che ciò significhi] che gli elementi costitutivi della fattispecie possano anche [solo] eventualmente manifestarsi […] in futuro»,

- in primo luogo, che «l’associazione mafiosa non è un reato associativo “puro”, che si perfeziona sin dal momento della costituzione di una organizzazione illecita che si limiti a programmare di utilizzare la propria forza di intimidazione e di sfruttare le conseguenti condizioni di assoggettamento e omertà per la realizzazione degli obiettivi indicati dalla norma;

- in secondo luogo che, «diversamente dall’associazione per delinquere semplice, l’associazione mafiosa non è strutturata sulle “intenzioni”, ma su una rete di effettive derivazioni causali. Dunque, non un’associazione per delinquere, ma un’associazione che delinque; il metodo mafioso costituisce il mezzo, lo strumento, il modo con cui l’associazione persegue gli scopi indicati dalla norma e per tale ragione è necessaria, sempre, la sua concreta manifestazione esterna» (par. 2, intitolato «L’associazione mafiosa come reato associativo», pp. 282 s.). Così opinando, l’associazione di tipo mafioso non è un’associazione per delinquere cui aggiunge la qualifica di mafiosità, ma un’associazione altra e diversa, che condivide con quella comune il solo tratto dell’entificazione e nulla più: in particolare, non condivide con essa l’attitudine ad anticipare la soglia della rilevanza penale delle condotte degli aderenti sino al livello della mera programmazione di un generico catalogo delittuoso, esigendo invece il concreto esercizio del metodo mafioso quale effetto del conseguimento, nell’ambiente di riferimento, di un’effettiva e palese capacità di intimidazione.

Le conseguenze suscettibili di essere tratte dal descritto mutamento di prospettiva potrebbero essere notevoli, specialmente quanto a correlazione tra imputazione e sentenza (art. 521 cod. proc. pen.), ma anche quanto a tutti gli altri ambiti - quale, ad esempio, in passato, quello legato alla norma incriminatrice applicabile - percorsi dall’affermazione di specialità dell’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen. rispetto all’associazione di cui all’art. 416 cod. pen.: un’affermazione che, peraltro, già allo stato attuale, si presenta poliedrica, esibendo declinazioni diverse in corrispondenza di diversi modi di concretamente ritenere i rapporti tra le due associazioni.

Nel dettaglio.

Secondo un indirizzo più recente, cui, in linea teorica, pare riconducibile Sez. 2, n. 10255 del 2020, laddove pone l’accento sulla «caratura “oggettiva” del metodo mafioso» quale elemento peculiarizzante l’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen. (par. 2.1, p. 66), «[…] il reato di associazione mafiosa costituisce […] un[’]ipotesi di delitto a condotta multipla, per cui, quando l’associazione risulta finalizzata alla commissione di delitti, l’elemento del metodo mafioso vale a caratterizzarla, rispetto all[’]associazione per delinquere “comune”, nella previsione speciale, ai sensi dell’art. 15 cod. pen.; mentre, nell’ipotesi in cui le finalità perseguite s[ia]no diverse, l’elemento stesso vale a costituire un titolo autonomo di reato, il cui evento va individuato nella situazione di pericolo per la libera espressione delle attività socio economiche - e nella specie dei diritti civili e politici - insita nel particolare vincolo associativo con quelle specifiche caratterizzazioni» (Sez. 2, n. 22989 del 30/04/2013, Gioffrè A. e altri, ultimo par. di p. 13 sino all’inizio di p. 14).

Di diverso avviso è invece un indirizzo più risalente, a termini del quale l’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen. descrive un “continuum” evolvente da quella di cui all’art. 416 cod. pen., “continuum” a sua volta da riguardare unitariamente alla luce della disciplina del reato permanente: poiché, dunque, in questo, «nel caso di successione di leggi più severe, qualora la permanenza si protragga sotto il vigore della nuova legge, è questa soltanto che deve trovare applicazione, in quanto vigente la nuova legge il reato è commesso con la realizzazione di tutti gli elementi costitutivi, né trova ingresso in questo caso il comma terzo dello art. 2 cod. pen.», aveva detto indirizzo concluso che, «a seguito dell’introduzione[,] con l’art. 1 [della] legge 13 settembre 1982[,] n. 646[,] della fattispecie criminosa dell’associazione di tipo mafioso nel codice penale (art. 416 bis), con natura di disposizione speciale rispetto alla fattispecie dell’associazione per delinquere comune (art. 416 cod. pen.), qualora la permanenza di una fattispecie associativa si [fosse protratta] dopo l’entrata in vigore della nuova legge, e [fosse] inquadrabile nella sua previsione, trova[va] applicazione soltanto la legge successiva anche se più severa» (Sez. 1, n. 11669 del 07/10/1987, Liccardo, Rv. 177071-01).

In relazione a questo secondo indirizzo, ragioni di affinità contenutistica inducono a rilevare che - pur al di fuori (per via del tempo ormai trascorso dalla legge Rognoni-La Torre) dal tema dei rapporti tra le due associazioni, con conseguente concentrazione dell’attenzione esclusivamente sull’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen. - la logica del “continuum” trova tutt’oggi seguito a proposito dell’individuazione del “dies ad quem” della condotta permanente quale fattore cui parametrare, per l’intera condotta, l’applicazione della legge “medio tempore” sopravvenuta, «anche se più severa» (come in allora specificato da Sez. 1, n. 11669 del 1987), senza che ciò integri violazione dell’art. 2 cod. pen. (in tal senso si esprime la massima estratta da Sez. 2, n. 20098 del 03/06/2020, Buono, Rv. 279476-01, da leggersi in uno all’ultimo cpv. di p. 16 delle motivazioni).

11. Continuazione tra partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso e reati-fine e tra plurimi segmenti di condotta partecipativa ad una medesima associazione.

“A latere” delle varie tesi sui rapporti tra associazione di tipo mafioso ed associazione per delinquere, corrisponde all’osservazione della realtà che anche l’associazione di tipo mafioso è generalmente un’associazione che compie reati-fine e che, pertanto, in questa declinazione parzialmente discosta da quella di Sez. 6, n. 18125 del 2020, delinque, viepiù in esecuzione - non dissimilmente da quel che accade in seno ad un’ordinaria associazione per delinquere - di un programma criminoso.

A mente di ciò, sovviene un primo problema - interessato da nuove evoluzioni nel 2020 - concernente i requisiti per la configurabilità della continuazione tra la partecipazione all’associazione di tipo mafioso ed i reati-fine.

Per rappresentare i termini del problema, ci si permette di suggerire che, in via di metafora, l’associazione sia immaginata come un treno in viaggio lungo i binari della delinquenza, su cui il partecipe può salire sin dalla stazione di partenza oppure, come spesso accade, in una fermata successiva.

In argomento, l’indirizzo più recente, predica la configurabilità della continuazione «a condizione che il giudice verifichi puntualmente che questi ultimi siano stati programmati al momento in cui il partecipe si è determinato a fare ingresso nel sodalizio», giacché, «ove si ritenesse sufficiente la programmazione dei reati-fine al momento della costituzione del sodalizio, si finirebbe per configurare una sorta di automatismo nel riconoscimento della continuazione e del conseguente beneficio sanzionatorio, in quanto tutti i reati commessi in ambito associativo dovrebbero ritenersi in continuazione con la fattispecie di cui all’art. 416-bis cod. pen.»: tale è la posizione di Sez. 1, n. 23818 del 22/06/2020, Toscano Francesco, Rv. 279430-01, che ribadisce pressoché alla lettera Sez. 1, n. 1534 del 09/11/2017 (dep. 2018), Giglia, Rv. 271984-01.

Si registra però anche un indirizzo contrario, volto a considerare rilevante la programmazione dei reati-fine al momento della costituzione dell’associazione.

La contrarietà, nondimeno, è meno spiccata di quanto sembra.

Il secondo indirizzo, in disparte che trova terreno fertile soprattutto con riguardo all’associazione per delinquere (cfr. ad es. Sez. 1, n. 40318 del 04/07/2013, Corigliano, Rv. 257253- 01), anche quando si occupa dell’associazione di tipo mafioso, lo fa sostanzialmente per escludere che possa ricondursi al programma associativo l’omicidio commesso dal partecipe come reazione punitiva dell’associazione (Sez. 5, n. 23370 del 14/05/2008, Pagliara, Rv. 240489-01; Sez. 6, n. 2960 del 27/09/1999, Ingarao, Rv. 214555-01), a nulla rilevando finanche che ne sia stata giudizialmente riconosciuta la natura aggravata ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 (come, alla luce della motivazione, nonostante il tenore della fattispecie riassunta in massima, nel caso di Sez. 1, n. 8451 del 21/01/2009, Vitale, Rv. 243199-01).

Talché il secondo indirizzo giunge in definitiva alla medesima conclusione del primo circa l’inesistenza di «[alc]una sorta di “presunzione di continuazione” [della partecipazione all’associazione] rispetto ai reati-fine», potendosi ammettere il vincolo «soltanto nella eccezionale ipotesi in cui risulti che[,] fin dalla costituzione del sodalizio criminoso o [- notasi -] dalla adesione ad esso, un determinato soggetto, nell’ambito del generico programma criminoso, abbia già individuato uno o più specifici fatti di reato, da lui poi effettivamente commessi» (Sez. 1, n. 6530 del 18/12/1998 (dep. 1999), Zagaria, Rv. 212348-01).

Talché pare cogliere nel segno la tesi che, peraltro in relazione tanto all’associazione per delinquere (Sez. 5, n. 44606 del 18/10/2005, Traina, Rv. 232797-01), quanto all’associazione di tipo mafioso (Sez. 6, n. 15889 del 02/03/2004, Drago, Rv. 228874-01, da cui sono tratte le citazioni a seguire), ritiene risolversi «il problema della configurabilità della continuazione tra reato associativo e reati-fine […] in una “quaestio facti” la cui soluzione è rimessa di volta in volta all’apprezzamento del giudice di merito». Contermine al problema della continuazione tra partecipazione all’associazione e reati-fine è quello del “discrimen” - nel caso di plurimi segmenti di condotta partecipativa ad una medesima associazione protratta nel tempo - tra configurabilità di un’unica complessiva condotta inglobante i singoli segmenti e configurabilità di tante condotte, eventualmente da avvincere in continuazione, quanti sono gli stessi.

Sez. 2, n. 680 del 19/11/2019 (dep. 2020), D’Alessandro Luigi, Rv. 277788-01, ribadisce l’avviso ricevuto che «l’accertamento contenuto nella sentenza di condanna delimita la protrazione temporale della permanenza del reato con riferimento alla data finale cui si riferisce l’imputazione ovvero alla diversa data ritenuta in sentenza, o, nel caso di contestazione c.d. aperta, alla data della pronuncia di primo grado, sicché la successiva prosecuzione della medesima condotta illecita oggetto di accertamento può essere valutata esclusivamente quale presupposto per il riconoscimento del vincolo della continuazione tra i vari episodi» [conf., in prec., Sez. 6, n. 3054 del 14/12/2017 (dep. 2018), P.G. in proc. Olivieri e altri, Rv. 272138-01, e Sez. 1, n. 38486 del 19/05/2011, Rinzivillo, Rv. 251364-01].

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 14134 del 30/09/1986, Rv. 174636-01, Amerato

Sez. 1, n. 11669 del 07/10/1987, Liccardo, Rv. 177071-01

Sez. 1, n. 6530 del 18/12/1998 (dep. 1999), Zagaria, Rv. 212348-01

Sez. 6, n. 2960 del 27/09/1999, Ingarao, Rv. 214555-01

Sez. 6, n. 15889 del 02/03/2004, Drago, Rv. 228874-01

Sez. 5, n. 44606 del 18/10/2005, Traina, Rv. 232797-01

Sez. 5, n. 19141 del 13/2/2006, Bruzzaniti, Rv. 234403-01

Sez. 5, n. 23370 del 14/05/2008, Pagliara, Rv. 240489-01

Sez. 1, n. 8451 del 21/01/2009, Vitale, Rv. 243199-01

Sez. 1, n. 38486 del 19/05/2011, Rinzivillo, Rv. 251364-01

Sez. 1, n. 40318 del 04/07/2013, Corigliano, Rv. 257253-01 Sez. 2, n. 22989 del 30/04/2013, Gioffrè A.

Sez. 2, n. 25360 del 15/05/2015, Concas e altri, Rv. 264120-01 Sez. 2, nn. 15807 e 15808 del 25/03/2015, Albanese

Sez. 2, nn. 15807 e 15808 del 25/03/2015, Nesci

Sez. 6, n. 3054 del 14/12/2017(dep. 2018), Olivieri, Rv. 272138-01

Sez. 1, n. 1534 del 09/11/2017 (dep. 2018), Giglia, Rv. 271984-01 Sez. 6, n. 57896 del 26/10/2017, Fasciani Carmine

Sez. 2, n. 24851 del 04/04/2017, Garcea e altri, Rv. 270442-01 Sez. 2, n. 24851 del 04/03/2017, Garcea

Sez. 6, n. 27094 del 01/03/2017, Milite, Rv. 270736-01

Sez. 5, n. 47535 del 11/07/2018, N., Rv. 274138-01

Sez. 5, n. 44156 del 13/06/2018, S., Rv. 274120-01

Sez. F., n. 56598 del 03/09/2018, Balsebre, Rv. 274753-02

Sez. 1, n. 51489 del 29/11/2019, Albanese Raffaele, Rv. 277913-01 Sez. 6, n. 42369 del 17/07/2019, Danise Vincenzo, Rv. 277206-01 Sez. 6, n. 9001 del 02/07/2019, Demasi Roberto

Sez. 6, n. 13679 del 25/06/2019, Crea Adolfo

Sez. 5, n. 26427 del 20/05/2019, Forieri, Rv. 276894-01 Sez. 1, n. 15768 del 15/03/2019, Nesci e altro (Albanese) Sez. 2, n. 27808 del 14/03/2019, Furnari, Rv. 276111-01 Sez. 5, n. 22127 del 24/01/2019, Carneli Giovanni e altri Sez. 3, n. 17851 del 09/01/2019, Casamonica Giovannina Sez. 2, n. 29189 del 29/09/2020, La Rosa Giuseppe

Sez. 5, n. 31798 del 14/07/2020, Fabbrocino Giovanni

Sez. 1, n. 23818 del 22/06/2020, Toscano Francesco, Rv. 279430-01 Sez. 2, n. 20098 del 03/06/2020, Buono, Rv. 279476-01

Sez. 2, n. 20926 del 13/05/2020, Perna Domenico Ciro

Sez. 6, n. 12219 del 18/02/2020, Marchese Giuseppe Marco

Sez. 2, n. 12737 del 17/02/2020, Cotugno

Sez. 2, n. 14943 del 24/01/2020, Attanasio Michele e altri Sez. 2, n. 10255 del 29/11/2019 (dep. 2020), Fasciani Sabrina Sez. 6, n. 11365 del 28/11/2019 (dep. 2020), Palermo Ernesto

Sez. 2, n. 680 del 19/11/2019 (dep. 2020), D’Alessandro Luigi, Rv. 277788-01 Sez. 1, n. 5445 del 07/11/2019 (dep. 2020), Ermini Giorgio e altri

Sez. 6, n. 18125 del 16-22/10/2019 (dep. 2020), Buzzi e altri Sez. 6, n. 12534 del 26/09/2019 (dep. 2020), Mongiardo Mario Sez. 5, n. 1554 dell’11/09/2019 (dep. 2020), Brunetti Raffaele

  • Corte europea dei diritti dell'uomo
  • diritti umani

CAPITOLO II

LE SEZIONI UNITE “GENCO” ED I LIMITI ALL’ESTENSIONE DELLE SENTENZE DELLA CORTE EDU.

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 L’origine della questione: la sentenza della Corte EDU sul caso “Contrada”. - 2 L’estensione del principio ai soggetti non ricorrenti in sede europea. - 3 La soluzione accolta dalle Sezioni unite: la natura della sentenza “Contrada”. - 4 I limiti all’obbligo di conformazione ai principi affermati nelle sentenze CEDU. - 5 Violazione dell’art.7 CEDU e verifica degli orientamenti giurisprudenziali in sede convenzionale. - 6 Il concorso esterno e la presunta “creazione giurisprudenziale” della fattispecie. - 7 Evoluzione giurisprudenziale ed “overruling” in malam partem. - Indice delle sentenze citate

1. L’origine della questione: la sentenza della Corte EDU sul caso “Contrada”.

Le Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla possibilità di estendere i principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, emessa in relazione al caso Contrada contro Italia, nei confronti di soggetti che possono vantare di trovarsi nella medesima situazione del ricorrente in sede europea. La suddetta pronuncia è intervenuta in ordine alla compatibilità della condanna emessa a carico del Contrada per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, riferita all’arco temporale intercorrente tra il 1979 ed il 1988, allorquando la giurisprudenza non era univoca in ordine alla configurabilità dell’ipotesi concorsuale nel reato associativo.

Il Contrada deduceva dinanzi alla Corte EDU la violazione dell’art.7 della convenzione, ritenendo che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa fosse una figura di creazione sostanzialmente giurisprudenziale e che, solo in epoca successiva ai fatti oggetto dell’imputazione, la giurisprudenza - con la sentenza delle Sezioni unite “Demitry” del 1994 - era pervenuta ad un’esatta ricostruzione della fattispecie.

A fronte della suddetta contestazione, il Governo italiano indicava la giurisprudenza di legittimità che aveva affermato la configurabilità del concorso esterno nel reato associativo, sia con riguardo alla specifica ipotesi dell’associazione di stampo mafioso, sia con riguardo a forme di criminalità organizzata di altro genere, sostenendo che la giurisprudenza - fin da epoca antecedente ai fatti contestati al Contrada - aveva ampiamente riconosciuto la figura del concorso esterno.

La Corte EDU, in risposta a tali argomentazioni, ha affermato che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso è una fattispecie di “creazione giurisprudenziale”, ritenendo che i contorni di tale reato, prima della sentenza “Demitry”, non erano compiutamente individuati e, quindi, conoscibili da parte del soggetto successivamente condannato per tale titolo di reato.

Proseguendo in tale ragionamento, la Corte è giunta alla conclusione che l’evoluzione giurisprudenziale in questa materia, posteriore ai fatti ascritti al ricorrente, dimostra che, all’epoca in cui tali fatti sarebbero avvenuti, il ricorrente non poteva ragionevolmente prevedere le conseguenze, in termini di sanzione, delle sue presunte azioni, in quanto l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso era oggetto di interpretazioni giurisprudenziali divergenti.

La Corte EDU ha affermato il principio secondo cui «la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questo requisito è soddisfatto se la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, se necessario con l’assistenza dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali e, se del caso, dopo aver avuto ricorso a consulenti illuminati, per quali atti e omissioni le viene attribuita una responsabilità penale e di quale pena è passibile per tali atti».

Valorizzando il ruolo che la giurisprudenza svolge nel chiarire la portata delle norme incriminatrici, la Corte EDU ha concluso nel senso che «è solo nella sentenza Demitry, pronunciata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione il 5 ottobre 1994, che quest’ultima ha fornito per la prima volta una elaborazione della materia controversa, esponendo gli orientamenti che negano e quelli che riconoscono l’esistenza del reato in questione e, nell’intento di porre fine ai conflitti giurisprudenziali in materia, ha finalmente ammesso in maniera esplicita l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno».

A seguito dell’accoglimento del ricorso in sede europea, il Contrada proponeva ricorso in cassazione avverso il rigetto dell’incidente di esecuzione con il quale aveva richiesto l’attuazione nell’ordinamento interno della decisione ottenuta in sede europea.

Il ricorso veniva deciso da Sez.1, n.43112 del 6/7/2017, Contrada, Rv.273905; in tale sentenza veniva riconosciuto l’obbligo di conformazione alle sentenze della Corte EDU, discendente dall’art.46 della convenzione, in base alla quale le parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte “nelle controversie nelle quali sono parti”.

In ordine alle modalità mediante le quali rimuovere il pregiudizio conseguente alla violazione della convenzione, si è affermato che la «sentenza pronunziata dalla Corte EDU nel caso Contrada contro Italia non impone interventi in executivis differenti da quelli legittimati dalle disposizioni degli artt. 666 e 670 cod. proc. pen. Non sussistendo, del resto, alcun limite letterale o sistematico all’applicazione al caso in esame di detti poteri, gli artt. 666 e 670 cod. proc. pen. non possono che essere interpretati nel senso di consentire l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti da una condanna emessa dal giudice italiano in violazione di una norma della Convenzione EDU, dovendosi ribadire che garante della legalità della sentenza in fase esecutiva è il giudice dell’esecuzione, cui compete, se necessario, di ricondurre la decisione censurata ai canoni della legittimità (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, cit.). In conclusione, non resta che riconoscere che, a seguito della decisione emessa dalla Corte EDU il 14/04/2015, che ha dichiarato che la sentenza di condanna emessa nei confronti di Bruno Contrada dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006, divenuta irrevocabile il 10/05/2007, violerebbe l’art. 7 CEDU, tale pronuncia non è suscettibile di ulteriore esecuzione e non è produttiva di ulteriori effetti penali.»

In definitiva, quindi, la sentenza della Prima sezione si è limitata a dichiarare ineseguibile ed improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna emessa nei confronti del Contrada in violazione dell’art.7 della CEDU, ritenendo che tale limitato effetto non richiede né la riapertura del processo, né consente l’adozione di una pronuncia in sede esecutiva equiparabile alla revoca della sentenza di condanna prevista ex art.673 cod.proc.pen.

2. L’estensione del principio ai soggetti non ricorrenti in sede europea.

A seguito della pronuncia della Corte EDU, si è posto il problema di verificare se e mediante quali strumenti processuali la sentenza dichiarativa della violazione dell’art.7 CEDU dovesse trovare esecuzione nell’ambito della giurisdizione nazionale anche nei confronti di quei soggetti che, pur non avendo adito la Corte EDU, si trovino nella medesima situazione di fatto che ha dato luogo all’accoglimento del ricorso in favore del Contrada.

Sulla questione sono intervenute plurime pronunce che, sia pur valorizzando aspetti diversi, hanno tendenzialmente escluso la possibilità di estendere ad altri il principio affermato dalla sentenza Contrada.

In estrema sintesi, sono individuabili tre distinti filoni giurisprudenziali, due dei quali contrari all’estensione ai cosiddetti “fratelli minori” della pronuncia adottata dalla Corte EDU.

Secondo un primo orientamento, inaugurato da Sez.1, n.44193 del 11/10/2016, Dell’Utri, Rv. 267861, (cui si è uniformata anche Sez. 1, n. 53610 del 10/04/2017, Gorgone) qualora l’incidente di esecuzione sia promosso per estendere gli effetti favorevoli della sentenza della Corte EDU ad un soggetto diverso da quello che l’aveva adita, è necessario anche che la predetta decisione (pur non adottata nelle forme della “sentenza pilota”) abbia una obiettiva ed effettiva portata generale, e che la posizione dell’istante sia identica a quella del caso deciso dalla Corte di Strasburgo.

Applicando tale principio al caso specifico della “prevedibilità” della condanna per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, pronunciata prima del 1994, la Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso all’incidente di esecuzione, in considerazione del fatto che la contestazione all’imputato di una condotta illecita in termini di sovrapponibilità a quella formulata a carico del Contrada, non implica necessariamente il medesimo giudizio di “imprevedibilità” della condanna, occorrendo una valutazione della vicenda processuale concreta, anche alla luce della linea difensiva assunta dall’imputato fin dal giudizio di merito.

Secondo un altro orientamento giurisprudenziale, ancor più nettamente contrario all’estensione della sentenza “Contrada”, quest’ultima non può avere una portata estensiva, in quanto fondata su un presupposto contraddetto dal principio di legalità formale recepito nell’ordinamento italiano. In tal senso si è espressa Sez.1, n.8661 del 12/1/2018, Esti, Rv.272797, secondo cui «I principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 nel procedimento Contrada contro Italia, in ordine alla natura di fattispecie di creazione giurisprudenziale del concorso esterno in associazione mafiosa, non possono essere estesi a casi diversi, in quanto, fermi restando gli obblighi di conformazione imposti dall’art. 46 CEDU, che operano limitatamente al caso di cui si controverte, il sistema penale nazionale è ispirato al modello della legalità formale in cui non solo non è ammissibile alcun reato di “origine giurisprudenziale”, ma la punibilità delle condotte illecite trova il suo fondamento nei principi di legalità e tassatività» (in senso conforme: Sez. 1, n. 36505 del 12/06/2018, Corso; Sez. 1, n. 36509 del 12/06/2018, Marfia, Rv. 273615; Sez. 1, n. 37 del 04/12/2018, dep. 2019, Grassia; Sez. 5, n. 55894 del 03/10/2018, P, Rv. 274170; Sez. 1, n. 15574 del 19/02/2019, Papa).

A fronte dei suddetti orientamenti, concordi nell’escludere l’estensione della sentenza “Contrada”, l’ordinanza di remissione alle Sezioni unite ha sottolineato come la decisione adottata dalla Corte EDU avrebbe evidenziato non già un deficit di “prevedibilità” soggettiva della decisione di condanna emessa in relazione al reato di concorso esterno, bensì una oggettiva carenza di determinatezza di tale ipotesi concorsuale.

Parimenti non è stata ritenuta condivisibile la tesi sostenuta nella sentenza “Esti”, sottolineando come la Corte EDU non aveva affatto affermato che il reato di concorso esterno fosse stato “creato” dalla giurisprudenza, in mancanza di un fondamento normativo, bensì si era limitata ad appuntare l’attenzione sul profilo della prevedibilità ed accessibilità del dato normativo (Sez.6, ord. n.21767 del 17/5/2019, Genco).

3. La soluzione accolta dalle Sezioni unite: la natura della sentenza “Contrada”.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 24 ottobre 2019, dep. 3 marzo 2020, n. 8544, Genco, Rv. 278054, nell’affrontare la questione di diritto in ordine al “se la sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia una portata generale, estensibile nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna e, conseguentemente, qualora sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile”, hanno preso le mosse dall’esame della natura giuridica della sentenza Contrada.

La Corte, sulla base di un ampio esame della giurisprudenza interna e convenzionale, ha individuato due ipotesi in cui è possibile estendere, a soggetti non ricorrenti in sede europea, i principi affermati dalla Corte EDU in relazione ad un determinato caso sottoposto al suo esame.

La prima ipotesi si verifica ove la decisione della Corte EDU abbia espressamente la veste di “sentenza pilota”, ai sensi dell’art.61 del regolamento CEDU. Tale tipologia di pronuncia presuppone che venga rilevata una violazione strutturale dell’ordinamento statale, causa della proposizione di una pluralità di ricorsi di identico contenuto, a fronte dei quali la Corte EDU adotta una sentenza che indichi allo Stato convenuto la natura della questione sistemica riscontrata e le misure riparatorie da adottare a livello generalizzato per conformarsi al decisum della sentenza stessa con eventuale rinvio dell’esame di tutti i ricorsi, fondati sulle medesime ragioni, in attesa dell’adozione dei rimedi indicati.

Le Sezioni unite hanno espressamente escluso che la sentenza “Contrada” possa qualificarsi quale “sentenza pilota”, non rientrando nello schema formale di tale tipologia di pronuncia,

L’ulteriore ipotesi in cui è possibile riconoscere una portata “estensiva” ed erga alios alle sentenze della Corte EDU, si verifica lì dove la «violazione dei diritti individuali del proponente il ricorso contiene in sè anche l’accertamento di lacune ed imperfezioni normative o di prassi giudiziarie, proprie dell’ordinamento interno scrutinato, contrarie ai precetti della Convenzione, che assumono rilevanza anche per tutti coloro che subiscano identica violazione, sicchè l’obbligo di adeguamento dello Stato convenuto trascende la posizione del singolo coinvolto nel caso risolto, ma investe tutti quelli caratterizzati dalla sussistenza di una medesima situazione interna a portata generale di contrarietà alle previsioni convenzionali».

Anche in relazione a quest’ultimo profilo, le Sezioni unite hanno escluso che la sentenza “Contrada” abbia individuato una carenza oggettiva e di portata generale dell’ordinamento interno, tale da far ritenere la sussistenza di una lesione delle garanzie di prevedibilità e conoscenza del precetto, in violazione dell’art.7 della CEDU, nei confronti di tutti i soggetti condannati per il delitto di concorso esterno, relativamente a condotte poste in essere prima della sentenza “Demitry” del 1994.

4. I limiti all’obbligo di conformazione ai principi affermati nelle sentenze CEDU.

Le Sezioni unite hanno compiutamente ricostruito i limiti dell’interpretazione conforme ai principi affermati nelle sentenze della Corte EDU, ribadendo in primo luogo quanto statuito nelle note “sentenze gemelle” della Corte costituzionale (sent. nn. 348 e 349 del 2007).

In base ai principi recepiti dalla Consulta, si è ribadito che l’obbligo conformativo per lo Stato condannato nel giudizio celebrato dinanzi la Corte sovranazionale sussiste solo in presenza di una statuizione contenuta in una sentenza pilota, oppure in quella che, seppur legata alla concretezza della situazione che l’ha originata, “tenda ad assumere un valore generale e di principio” (Corte Cost., sent. n. 236 del 2011; sent. n. 49 del 2015).

Ne consegue che il giudice interno, nel valutare le ricadute del principio affermato dalla Corte EDU rispetto a soggetti diversi dal ricorrente in sede europea, non solo a verificarne la conformità alla Costituzione, ma dovrà anche verificare se il principio affermato è espressimo di un “diritto consolidato”, mentre “nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo” (Corte Cost., sent. n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009).

In definitiva, l’estensione del principio affermato in sede europea può conseguire solo se l’affermazione, pur formalmente riferita al singolo caso esaminato dalla Corte EDU, sia espressione di un “diritto consolidato”.

Le Sezioni unite, nel richiamare i principi affermati dalla Corte costituzionale, hanno ribadito come «l’esigenza di rispettare indicazioni esegetiche conformi e costanti, stabili rispetto ad altre pronunce della stessa Corte sovranazionale, nasce dalla constatazione della vocazione casistica dei suoi interventi decisori, legati alla situazione concreta esaminata e del loro flusso continuo di produzione in riferimento ad una pluralità e varietà di corpi legislativi di riferimento; non dipende, pertanto, dalla negazione della natura vincolante delle pronunce emesse dalle singole sezioni, piuttosto che dalla Grande Camera, quanto dalla necessità di individuare un pronunciamento che non sia isolato o contraddetto da altri di segno diverso (Corte Cost., sent. n. 236 del 2011; n. 49 del 2015)».

Tale ragionamento ha posto le basi per la successiva risoluzione della questione rimessa alle Sezioni unite, dovendosi verificare se i principi affermati dalla sentenza “Contrada” corrispondano o meno al “diritto consolidato” della Corte EDU, atteso che - in caso di risposta contraria - verrebbe meno il presupposto stesso dell’estensione dei principi in questione a soggetti diversi dal ricorrente in sede europea.

5. Violazione dell’art.7 CEDU e verifica degli orientamenti giurisprudenziali in sede convenzionale.

La logica cui si è ispirata la sentenza delle Sezioni unite rende evidente come l’elemento centrale della decisione concerne l’esame della giurisprudenza della Corte EDU, finalizzato all’individuazione di un principio uniforme e costantemente applicato in relazione alla fattispecie de quo.

Nel condurre tale verifica, le Sezioni unite hanno compiuto un esaustivo vaglio delle plurime pronunce che sono state rese in ordine al principio di conoscibilità e prevedibilità della norma incriminatrice contenuto all’art.7 CEDU, giungendo alla conclusione che l’applicazione di tale norma contenuta nella sentenza “Contrada” non è espressione di un orientamento consolidato, come risultante dal fatto che, in altre pronunce, sono stati affermati principi di tutt’altro rigore e contenuto.

Le Sezioni unite partono dal presupposto per cui la sentenza “Contrada” non contiene l’affermazione, esplicita e chiaramente rintracciabile dall’interprete, della natura generale della violazione riscontrata. Al contrario, si sviluppa mediante l’esame del caso specifico ed analizza l’imputazione elevata al ricorrente nel processo celebrato a suo carico, la linea di difesa adottata, le risposte giudiziarie ottenute ed i relativi percorsi giustificativi, incentrati sul tema della definizione giuridica del fatto e della sua prevedibilità.

Esprime quindi il giudizio finale di violazione dell’art. 7 CEDU in termini strettamente individuali, ma senza specificare se la trasgressione rilevata riguardi il primo o il secondo periodo dell’art. 7, p. 1, ossia se risieda nell’accertamento in sè di responsabilità penale, oppure nel titolo e nella connessa punizione, come pare potersi dedurre dal seguente inciso conclusivo della motivazione, secondo cui “Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti”.

In buona sostanza, la sentenza “Contrada” opera una commistione tra il profilo oggettivo, in ordine alla sufficiente chiarezza del reato di concorso esterno, e quello soggettivo, incentrato sulla prevedibilità dell’incriminazione delle condotte poste in essere, ma tale elaborazione non consente di ritenere affermato un principio di generalizzata illegittimità convenzionale, per i fatti antecedenti al 1994, del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

La pronuncia della Corte EDU, pertanto, segue una via interpretativa che non si colloca nell’ambito di una consolidata elaborazione giurisprudenziale.

Le Sezioni unite hanno sottolineato l’esistenza di pronunce che hanno accolto una concezione soggettiva del requisito della prevedibilità, spesso ancorandolo alle qualifiche e competenze professionali del destinatario della norma, nonché alla materiale possibilità di conoscere l’illiceità penale poste in essere (Corte EDU, 01/09/2016, X e Y c. Francia; 6/10/2011, Soros c. Francia; 10/10/2006, Pessino c. Francia; 28/03/1990, Groppera Radio AG c. Svizzera).

In altri casi, la Corte EDU ha valorizzato l’elemento oggettivo e, quindi, il contenuto precettivo della legge, il grado di determinatezza del precetto e l’incidenza dell’elaborazione giurisprudenziale (Corte EDU, 26/04/1979, Sunday Times c. Regno Unito; 25/05/1993, Kokkinakis c. Grecia; GC, 15/11/1996, Cantoni c. Francia; GC, 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna).

A volte, invece, è stata valorizzata la consapevolezza dell’antigiuridicità di una determinata condotta, a prescindere dall’incertezza o, addirittura, della contrarietà del principio contenuto nel testo normativo (Corte EDU, 22/11/1995, S.W. c. Regno Unito e C.R. c. Regno Unito; 24/05/1988, Muller c. Svizzera).

In definitiva, dall’esame della giurisprudenza della Corte EDU emerge un quadro interpretativo non connotato da univocità del principio di prevedibilità e determinatezza di cui all’art.7 CEDU, rispetto al quale la sentenza “Contrada” si pone, per molti versi, in una posizione eccentrica.

Né si è ritenuto che il contrasto giurisprudenziale interno, esistente fino al 1994 in merito al reato di concorso esterno, sia un elemento dirimente.

È stato sottolineato, infatti, come in una precedente sentenza della Corte EDU, l’esistenza contestuale negli interpreti di visioni esegetiche difformi in ordine alla configurabilità di un reato, nella specie quello di genocidio nell’ambito dell’ordinamento tedesco, non disciplinato espressamente, ma tratto da norme internazionali pubbliche, non è stata ritenuta causa di violazione del principio di legalità, sebbene quella accolta nei confronti del ricorrente fosse stata l’interpretazione sfavorevole all’imputato, non restrittiva e mai applicata in precedenza (Corte EDU, 12/07/2007, Jorgic c. Germania).

Le Sezioni unite, pertanto, hanno affermato che «La sentenza Contrada rivela, come già detto, l’impiego di una combinazione di criteri, quello soggettivo incentrato sulla condotta processuale del ricorrente e quello, che è preponderante, propriamente oggettivo, basato sull’assenza di una norma precisa e chiara e di una interpretazione giurisprudenziale univoca, situazione superata soltanto da un intervento giudiziale delle Sezioni Unite successivo ai fatti accertati. Nel panorama delle decisioni della Corte dei diritti fondamentali l’inedito rigore col quale è stata risolta la vicenda Contrada, che avrebbe conseguito un ben diverso epilogo, se soltanto fosse stata apprezzata alla luce del criterio soggettivo o di quello basato sulla considerazione sociale, si contraddistingue, oltre che per il metro di apprezzamento della prevedibilità, anche per il fatto di avere superato i rilievi in precedenza ed anche in seguito espressi sul necessario ruolo evolutivo e specificativo da assegnare all’interpretazione giurisprudenziale, quale fattore ineliminabile di progressiva chiarificazione delle regole legislative e di possibile violazione dell’art. 7 CEDU soltanto quando non congruente con l’essenza del reato e sviluppo non conoscibile rispetto alla linea interpretativa già affermata».

In conclusione, la sentenza “Contrada” è stata ritenuta dalle Sezioni unite frutto di una interpretazione “anomala” rispetto ai parametri recepiti in precedenti pronunce, oltre che basata su presupposti di fatto - relativamente al contrasto esistente ante 1994 nella giurisprudenza interna - non correttamente percepiti.

Sulla base di tali osservazioni, si è ritenuto che «la statuizione adottata nei confronti del ricorrente Contrada dalla Corte EDU non è vincolante per il giudice nazionale al di fuori dello specifico caso risolto e non consente di affermare in termini generalizzati l’imprevedibilità dell’incriminazione per concorso esterno in associazione mafiosa per tutti gli imputati italiani condannati per avere commesso fatti agevolativi di un siffatto organismo criminale prima della sentenza Demitry e che non abbiano adito la Corte Europea, ottenendo a loro volta una pronuncia favorevole».

Si è, pertanto, affermato il principio di diritto secondo cui «In tema di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, i principi enunciati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, non si estendono a coloro che, pur trovandosi nella medesima posizione, non abbiano proposto ricorso in sede europea, in quanto la richiamata decisione del giudice sovranazionale non è una sentenza pilota e non può neppure ritenersi espressione di un orientamento consolidato della giurisprudenza europea» (Sez.U., 24 ottobre 2019, dep. 3 marzo 2020, n. 8544, Genco, Rv. 278054-01).

6. Il concorso esterno e la presunta “creazione giurisprudenziale” della fattispecie.

Una volta escluso che la pronuncia nel caso “Contrada” abbia natura di sentenza “pilota” o, comunque, di portata generale, con la conseguente impossibilità di un’applicazione generalizzata dei principi affermati, le Sezioni unite hanno affrontato le ulteriori problematiche collegate alla vicenda in esame.

In particolare, è stata esaminata la questione inerente alla affermata natura di reato di “creazione giurisprudenziale” del concorso esterno in associazione mafiosa, nonché dell’incidenza che i contrasti interpretativi e la loro risoluzione da parte del massimo organo nomofilattico possono determinare in merito alla conoscibilità del precetto penale ed alla prevedibilità della condanna.

L’affermazione contenuta nella sentenza “Contrada”, che maggiormente è stata percepita come difficilmente conciliabile con il sistema penale italiano, è quella secondo cui il reato di concorso esterno sarebbe una fattispecie di “creazione giurisprudenziale”. A tal riguardo, in particolare, la sentenza “Nesti” aveva nettamente respinto la ricostruzione operata dalla Corte EDU, ribadendo che la previsione costituzionale contenuta all’art.25 non consente in alcun modo l’emersione di ipotesi delittuose che non trovino sicuro fondamento normativo. La problematica è stata adeguatamente approfondita dalle Sezioni unite, lì dove si è sottolineato che « La configurabilità come reato del concorso esterno in associazione mafiosa non è stato l’esito di operazioni ermeneutiche originali e svincolate dal dato normativo, operate dalla giurisprudenza di legittimità ex abrupto in termini innovativi rispetto allo spettro delle soluzioni praticabili già affermate; al contrario, discende dall’applicazione in combinazione di due disposizioni già esistenti nel sistema codicistico della legge scritta, pubblicata ed accessibile a chiunque, ossia degli artt. 110 e 416-bis cod. pen., la prima norma generale sul concorso di persone, la seconda avente funzione più specificamente incriminatrice ed è l’approdo di un lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che si era svolto in parallelo anche sul tema sulla definizione della condotta punibile di partecipazione, rientrante nell’ipotesi di cui all’art. 416-bis cod. pen.». A tal proposito, sono stati richiamati i precedenti giurisprudenziali che - ben prima della pronuncia resa da Sezioni unite “Demitry” ed anche con riguardo a fattispecie diverse dall’art.415-bis cod.pen. - avevano già ammesso la configurabilità del concorso esterno nel reato associativo. Tale risalente elaborazione giurisprudenziale, lungi dal costituire fonte di una insormontabile incertezza, «costituivano il fondamento giuridico di un dovere di informazione mediante qualsiasi utile accertamento, e, nella persistenza dell’incertezza, di astensione in via prudenziale e precauzionale dalla commissione di comportamenti, che vi era il rischio incorressero nella contestazione dello stesso reato, rischio tanto più percepito con chiarezza dall’agente quanto più specifico il patrimonio di conoscenze ed esperienze individuali di tipo professionale e relazionale».

A ciò si aggiunge che, pur nell’obiettivo contrasto giurisprudenziale esistente in epoca antecedente al 1994, le condotte successivamente qualificate nell’ambito del concorso esterno non potevano essere ritenute penalmente lecite, in quanto il contrasto giurisprudenziale si fondava essenzialmente sulla loro riconducibilità alla nozione di partecipazione o ad altre ipotesi delittuose.

Sulla base di tali osservazioni, le Sezioni unite hanno precisato che in capo al concorrente nel reato associativo «non potevano residuare dubbi o insuperabili incertezze sul carattere illecito della condotta e sulla sua rilevanza penale, sicchè l’unico esito non prevedibile in quel contesto interpretativo della fattispecie era l’assoluzione, senza riflessi pregiudizievoli nemmeno sotto il profilo sanzionatorio, stante l’invariata punizione della partecipazione del concorrente necessario e dell’apporto del concorrente eventuale».

7. Evoluzione giurisprudenziale ed “overruling” in malam partem.

Lo sviluppo argomentativo della sentenza “Contrada” ha inevitabilmente posto il problema di valutare se ed in che misura il formante giurisprudenziale, lì dove conduca a soluzione ermeneutiche innovative ed in contrasto con l’elaborazione precedente, possa cagionare una lesione rispetto alla conoscibilità del precetto normativo ed alla prevedibilità delle decisioni.

La questione si pone in tutti quei casi in cui un’interpretazione giurisprudenziale, innovativa ed improvvisa, dia luogo ad una qualificazione giuridica in malam partem, comportando la riconduzione nell’ambito del penalmente rilevante di condotte in precedenza ritenute lecite, ovvero la configurabilità di un reato più grave.

Il fenomeno del c.d. overrulling giurisprudenziale è stato oggetto, oltre che di approfondimento da parte della giurisprudenza nazionale, anche di alcune pronunce della Corte EDU, alla luce delle quali le Sezioni unite hanno verificato se il contrasto giurisprudenziale e la successiva soluzione con la sentenza “Demitry” possano o meno rientrare nel concetto di mutamente sfavorevole ed imprevedibile.

Dall’esame dei precedenti, emerge come la Corte EDU, ha ritenuto non compatibili con le previsioni convenzionali soltanto gli interventi decisori dei giudici nazionali dissonanti rispetto ai precedenti costanti orientamenti, sia per il loro contenuto radicalmente innovativo, sia per gli effetti peggiorativi per l’imputato, frutto di un’applicazione in via retroattiva, non consentita dall’art. 7 della Convenzione (Corte EDU, GC, Del Rio Prada, § 116; 24/05/2007, Dragotoniu e Militaru-Pidhorni c. Romania, § 44; GC, 20/10/2005, Vasiliauskas c. Lituania, § 181; 05/05/1993, Kokkinakis c. Grecia, § 52).

Tali condizioni non sono state ravvisate nel caso del concorso esterno in associazione mafiosa, in quanto la sentenza “Demitry” non ha operato in via esegetica una ricostruzione in malam partem della fattispecie di reato in riferimento a comportamenti tenuti in un periodo temporale in cui gli stessi erano considerati leciti ed esenti da pena, ma ha recepito una delle possibili soluzioni, già nota ed ampiamente illustrata nel suo fondamento giuridico, quindi conoscibile e tale da avvertire il cittadino del rischio di punizione in sede penale.

Si tratta di una conclusione che trova riscontro anche nella giurisprudenza interna, essendosi rilevato come tale problematica si è più volte presentata, a seguito del superamento del contrasto tra le diverse interpretazioni, risolto dall’intervento delle Sezioni unite; in particolare, ciò è avvenuto in tema di imprescrittibilità della pena dell’ergastolo (Sez. U. n. 19756 del 24/09/2015, Trubia, Rv. 266329), di corretta interpretazione del delitto di cui all’art. 615-ter cod. pen. (Sez. U. n. 41210 del 18/05/2017, Savarese, Rv. 271061) e di inammissibilità dell’appello per genericità dei motivi (Sez. U. n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268822).

Per effetto dell’affermarsi dell’orientamento ritenuto corretto dalle Sezioni unite nelle singole vicende sopra richiamate, si è ritenuto che il mutamento giurisprudenziale determina una interpretazione retroattiva sfavorevole della norma penale solo qualora consista in una radicale innovazione della soluzione giurisprudenziale pregressa, inconciliabile con le precedenti decisioni, mentre non determina alcuna lesione dei diritti dell’imputato ove il mutamento si collochi nel solco di interventi già noti e risalenti, di cui costituisca uno sviluppo prefigurabile che di per sé rende l’esito conseguito comunque possibile, anche se non accolto dall’indirizzo maggioritario (Sez. 5, n. 13178 del 12/12/2018, dep. 2019, Galvanetti, Rv. 275623; Sez. 5, n. 41846 del 17/05/2018, Postiglione, Rv. 275105; Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, Fabbrizzi, Rv. 273876; Sez. 5, n. 47510 del 09/07/2018, Dilaghi, Rv. 274406; Sez. 5, n. 31648 del 17/06/2016, Falzone).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di Cassazione

Sez.U., n.8544 del 24/10/2019, dep.2020, Genco, Rv. 278054 Sez.6, ord. n.21767 del 17/5/2019, Genco

Sez. 1, n. 15574 del 19/02/2019, Papa

Sez.1, n.26686 del 10/04/2019, Marino, Rv. 276197 Sez. 5, n. 13178 del 12/12/2018, Galvanetti, Rv. 275623

Sez. 1, n. 37 del 04/12/2018, dep. 2019, Grassia

Sez. 5, n. 47510 del 09/07/2018, Dilaghi, Rv. 274406 Sez.1, 36509 del 12/6/2018, Marfia, Rv.273615

Sez. 5, n. 55894 del 03/10/2018, P, Rv. 274170;

Sez. 1, n. 36505 del 12/06/2018, Corso

Sez. 5, n. 41846 del 17/05/2018, Postiglione, Rv. 275105

Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, Fabbrizzi, Rv. 273876 Sez.1, n.8661 del 12/1/2018, Esti, Rv.272797

Sez.1, n.43112 del 6/7/2017, Contrada, Rv.273905 Sez. U. n. 41210 del 18/05/2017, Savarese, Rv. 271061 Sez.1, n.53610 del 10/4/2017, Gorgone, n.m.

Sez. U. n. 8825 del 27/10/2016, Galtelli, Rv. 268822 Sez.1, n.44193 del 11/10/2016, Dell’Utri, Rv. 267861 Sez. 5, n. 31648 del 17/06/2016, Falzone

Sez. U. n. 19756 del 24/09/2015, Trubia, Rv. 266329 Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv.260696 Sez.U, n.34472 del 24/10/2013, Ercolano, Rv.252933 Sez.U, n. 18288 del 12/01/2010, Beschi, Rv. 246651 Sez. U, n. 33478 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231671

Sentenze della Corte Costituzionale Corte cost., sent.n. 49 del 2015 Corte cost., sent. n. 236 del 2011 Corte cost., sent. n. 113 del 2011 Corte cost., sent. n. 93 del 2010 Corte cost., sent. n. 311 del 2009

Sentenze della Corte EDU

Corte EDU, sent. 01/09/2016, X e Y c. Francia Corte EDU, sent. 14/4/2015 Contrada c. Italia

Corte EDU, sent. 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna Corte EDU, 12/07/2007, Jorgic c. Germania

Corte EDU, sent. 10/10/2006, Pessino c. Francia

Corte EDU, sent. 24/05/2007, Dragotoniu e Militaru-Pidhorni c. Romania

Corte EDU, sent. 20/10/2005, Vasiliauskas c. Lituania Corte EDU, sent. 15/11/1996, Cantoni c. Francia Corte EDU, sent. 22/09/1995, S.W. c. Regno Unito Corte EDU, sent. 05/05/1993, Kokkinakis c. Grecia

Corte EDU, sent. 28/03/1990, Groppera Radio AG c. Svizzera Corte EDU, sent. 24/05/1988, Muller c. Svizzera

Corte EDU, sent. 26/04/1979, Sunday Times c. Regno Unito

  • mafia
  • circostanza aggravante

CAPITOLO III

LA NATURA DELL’AGGRAVANTE SPECIALE GIÀ PREVISTA DALL’ART. 7, D.L. 13 MAGGIO 1991, N..

(di Paola Proto Pisani )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il contrasto. - 3 La sentenza delle Sezioni Unite Chioccini. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

Nell’anno in rassegna le Sezioni Unite della Corte (Sez. U., n. 8545 del 19/12/2019 - dep. 2020 - Chioccini, Rv. 278734) hanno risolto il contrasto relativo alla natura (oggettiva o soggettiva) della circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa, (già prevista dall’art. 7 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991 n. 203, e oggi dall’art. 416- bis.1, primo comma, cod. pen.) e della disciplina ad essa applicabile in caso di concorso di persone nel reato, affermando il principio di diritto così massimato: «La circostanza aggravante dell’aver agito al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso ha natura soggettiva inerendo ai motivi a delinquere, e si comunica al concorrente nel reato che, pur non animato da tale scopo, sia consapevole della finalità agevolatrice perseguita dal compartecipe.».

2. Il contrasto.

In ordine agli orientamenti in contrasto (rinviando per un più approfondito esame e per il puntuale richiamo delle pronunce riconducibili ai diversi orientamenti al contributo di questo Ufficio pubblicato nella Rassegna della giurisprudenza di legittimità, Gli orientamenti delle sezioni penali, 2019, vol. I, 83 ss. ) in questa sede ci si limita a segnalare che un primo orientamento considerava di natura soggettiva la circostanza aggravante in questione, ritenendola integrata da un atteggiamento di tipo psicologico dell’agente, per lo più definito in termini di dolo specifico: si richiedeva, cioè che l’agente, oltre alla coscienza e volontà del fatto materiale integrante l’elemento oggettivo del reato base, agisse per un fine particolare (quello di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso), la cui realizzazione non era ritenuta necessaria per l’integrazione dell’aggravante stessa.

Così configurata, l’aggravante veniva ritenuta ascrivibile a quelle relative ai motivi a delinquere o all’intensità del dolo, contemplate dall’art. 118 cod. pen., e, quindi, non estensibile ai concorrenti nel reato che non avessero agito in base a tale finalità o comunque che non la avessero “condivisa e fatta propria”

Nell’ambito di tale orientamento molte sentenze ritenevano che l’aggravante non fosse esclusa dal fatto che l’agente perseguisse un diverso scopo, purché fosse consapevole di avvantaggiare l’associazione mafiosa, escludendo un’incompatibilità tra la finalità di perseguire un proprio utile e quella di avvantaggiare l’associazione, “giacché il doppio finalismo è insito nella condotta di chi, pur di perseguire uno scopo personale, reca concreti vantaggi all’associazione” di tipo mafioso (Sez. 5, n. 11101 del 04/02/2015, Platania, Rv. 262713).

Al riguardo si segnala che, mentre alcune sentenze ritenevano sufficiente, ai fini dell’integrazione dell’aggravante dell’agevolazione, che al fine dell’agente di trarre un vantaggio proprio dal delitto si accompagnasse la “consapevolezza di favorire la cosca” (Sez. 5, n. 11101 del 04/02/2015, Platania, Rv. 262713; Sez. 3, n. 36364 del 20/05/2015, Mancuso; Sez. 2, n. 53142 del 18/10/2018, Inzillo) altre richiedevano la “consapevolezza e volontà” di agevolare anche le attività dell’associazione di stampo mafioso, oltre al perseguimento di un profitto proprio dell’agente (Sez. 1, n. 49086 del 24/05/2012, Acanfora, Rv. 253962).

Il tema del concorso di un movente egoistico dell’azione delittuosa era stato approfondito in una pronuncia della Corte (Sez. 6, n. 29311 del 03/12/2014 - dep. 2015 -, Cioffo, Rv. 264082), che aveva ritenuto l’insufficienza sia di situazioni di mera accettazione del rischio di un effetto agevolatore, cioè del dolo eventuale, sia di “un dolo che potrebbe definirsi diretto, cioè fondato sulla sicurezza dell’evento di agevolazione, e tuttavia non indirizzato alla produzione dell’evento medesimo”, rilevando che la norma evoca un effetto intenzionale della condotta, riconducibile al piano del movente. In tale occasione era stato precisato che non occorre che l’agevolazione rappresenti il movente esclusivo od anche solo dominante dell’azione criminosa, ben potendo la stessa essere determinata anche da finalità diverse, cominciando da quella di lucro personale purché sia ravvisabile «un personale interesse dell’agente affinché sia prodotto un vantaggio a favore dell’ente, nella consapevolezza delle sue caratteristiche di “mafiosità”. È necessario, tuttavia, che l’effetto di favore per il gruppo criminale costituisca lo scopo almeno concorrente dell’agire delittuoso, cioè che ne costituisca un movente (non necessariamente il solo), non bastando che si tratti di una conseguenza accettata, in termini di maggiore o minore probabilità, del comportamento tenuto dall’agente. Il che corrisponde alla lettera della norma ed alla sua ratio di contrasto ai comportamenti di contiguità, la sola che giustifica un inasprimento sanzionatorio davvero assai rilevante.»

Nell’ambito del medesimo orientamento, inoltre, non era pacifico quale fosse il requisito necessario ai fini dell’applicazione della circostanza in caso di concorso di persone nel reato, ai sensi dell’art. 118 cod. pen., e cioè se fosse necessario individuare in capo a ciascun concorrente il dolo specifico richiesto dalla norma o se, invece, fosse sufficiente che il concorrente avesse arrecato il proprio contributo nella consapevolezza della finalità agevolatrice perseguita dall’agente.

Secondo molte sentenze, infatti, l’aggravante dell’agevolazione mafiosa poteva essere applicata al concorrente nel reato, in base all’art. 118 cod. pen., non soltanto quando risultasse che lo stesso avesse agito con lo scopo di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, ma anche quando avesse “conosciuto e fatta propria” tale finalità, perseguita da altro concorrente (Sez. 6, n. 25510 del 19/04/2017, Realmuto, Rv. 270158; Sez. 1, n. 19818 del 23/05/2017 - dep. 2019 -, Tagliavia, Rv. 276188; Sez. 6, n. 43890 del 21/06/2017, Aruta, Rv. 271098; Sez. 6, n. 11356 del 08/11/2017 - dep. 2018 -, Ardente, Rv. 272525; Sez. 2, n. 6021 del 29/11/2017 - dep. 2018 -, Lombardo, Rv. 272007; Sez. 1, n. 52505 del 20/12/2017 - dep. 2018 -, Lamanna, Rv. 276150; Sez. 6, n. 46007 del 06/07/2018, D’Ambrosca; Sez. 2, n. 53142 del 18/10/2018, Inzillo, Rv. 274685). Ciò in linea con quanto ritenuto per altre aggravanti di natura soggettiva, quali quelle del nesso teleologico, dei motivi abietti o futili o della premeditazione.

Sembrava, in tal modo, essere ritenuta sufficiente, ai fini dell’applicazione della circostanza al concorrente nel reato, la mera consapevolezza dell’altrui finalità agevolatrice.

Nell’ambito del medesimo orientamento, inoltre, era generalmente richiesta, ai fini del riconoscimento dell’aggravante, sia l’esistenza effettiva di un’associazione dotata dei caratteri indicati dall’art. 416-bis cod. pen., sia la necessaria presenza di un elemento di natura oggettiva, costituito dalla direzione o dall’idoneità della condotta ad agevolare l’associazione mafiosa.

Se tale requisito oggettivo era prevalentemente richiesto a fini di prova dell’elemento soggettivo che integra l’aggravante, tuttavia talora la Corte ne aveva evidenziato la necessità, quale ulteriore elemento costitutivo dell’aggravante, ai fini del rispetto del principio di offensività ( Sez. 6, n. 11008 del 07/02/2001, Trimigno, Rv. 218783).

Era stato altresì rilevato che la richiesta di un elemento di natura oggettiva, costituito dall’idoneità della condotta, secondo una valutazione “ex ante”, alla realizzazione della finalità di agevolazione, non escludeva la natura soggettiva della circostanza aggravante in esame, in quanto “il profilo del dolo specifico risulta sicuramente assorbente rispetto a quello attinente alle modalità di esecuzione dell’azione” (Sez. 6, n. 25510 del 19/04/2017, Realmuto, Rv. 270158).

Secondo un contrapposto orientamento, invece, l’aggravante è integrata da un elemento obiettivo, attinente alle modalità dell’azione, ed è quindi riconducibile tra quelle di natura oggettiva ai sensi dell’art. 70 cod. pen., non contemplate dall’art. 118 cod. pen., con conseguente estensibilità ai concorrenti, ai sensi dell’art. 59, comma secondo, cod. pen., purché conosciuta o conoscibile.

Le sentenze riconducibili all’orientamento che ritiene di natura oggettiva l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, per quanto è dato comprendere dalle succinte motivazioni, non ritengono tuttavia sufficiente, ai fini dell’integrazione della circostanza, un atteggiamento di ignoranza incolpevole.

L’ignoranza incolpevole, secondo tale orientamento, può essere infatti sufficiente ai fini dell’estensione della circostanza ai concorrenti nel reato, ma non per l’integrazione dell’aggravante, per la quale sembra richiesta la sussistenza, in capo ad almeno uno dei concorrenti, o del dolo specifico o della consapevolezza della funzionalizzazione della condotta all’agevolazione dell’associazione di tipo mafioso.

Secondo un ulteriore orientamento, infine, la natura dell’aggravante e la disciplina in caso di concorso di persone nel reato dipendono da come tale aggravante si atteggia in concreto e dal reato a cui la stessa accede (Sez. 2, n. 22153 del 11/12/2018 - dep. 2019 -, Gumari, non mass. sul punto; Sez. 6, n. 53646 del 04/10/2017, Aperi, Rv. 271685).

3. La sentenza delle Sezioni Unite Chioccini.

Le Sezioni Unite preliminarmente ricostruiscono il contrasto, diversamente da quanto prospettato nell’ordinanza di rimessione, ritenendolo ravvisabile in ordine all’individuazione:

- sia dell’elemento soggettivo necessario ad integrare l’aggravante, dovendosi stabilire se esso consista nel dolo specifico o nella mera consapevolezza della direzione (o idoneità) della condotta ad agevolare l’attività dell’organizzazione criminale (con la puntualizzazione che entrambe le tesi sono sostenute nell’ambito di ciascuno dei contrapposti orientamenti);

- sia del requisito necessario per l’“estensione” o l’applicabilità dell’aggravante ai concorrenti nel reato, individuato nel dolo specifico o nella consapevolezza dell’altrui finalità agevolatrice dalle sentenze riconducibili all’orientamento che la ritiene di natura soggettiva, ovvero (anche) nella mera ignoranza colposa dalle sentenze che la ritengono invece di natura oggettiva.

In proposito, per quanto attiene all’individuazione dell’elemento soggettivo integrante l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, le Sezioni unite rilevano che:

- nell’ambito dell’orientamento che ritiene soggettiva l’aggravante l’elemento psicologico necessario ad integrarla, per alcune sentenze, consiste nel dolo specifico, mentre, per altre, si esaurisce nella consapevolezza che la condotta sia funzionale ad agevolare l’organizzazione criminale;

- analogamente, anche nell’ambito del contrapposto orientamento che ritiene oggettiva l’aggravante, ai fini della sua integrazione, oltre all’elemento oggettivo inerente le modalità della condotta, è richiesto che in capo ad almeno uno dei concorrenti sia configurabile il dolo specifico, oppure la consapevolezza della oggettiva finalizzazione dell’azione all’agevolazione dell’attività dell’associazione mafiosa.

Per quanto riguarda, invece, l’individuazione della disciplina applicabile in caso di concorso di persone nel reato, le Sezioni unite rilevano che il contrasto non si riduce all’alternativa tra l’applicabilità dell’art. 59, secondo comma, cod. pen, ovvero dall’art. 118 cod. pen., in quanto nell’ambito dell’orientamento che ritiene l’aggravante di natura soggettiva, mentre alcune pronunce ritengono necessario ai fini dell’applicazione della circostanza al concorrente nel reato che anch’esso sia animato dal dolo specifico, altre ritengono sufficiente la mera consapevolezza della finalità perseguita dall’agente o addirittura la semplice ignoranza colposa dell’idoneità della condotta ad agevolare l’attività dell’associazione mafiosa.

Viene infine segnalato che il contrasto che si è aperto in giurisprudenza sulla natura dell’aggravante in esame non trova riscontro nella dottrina, la quale ne sostiene la natura soggettiva, sulla base del dato testuale della norma, limitandosi a richiedere che all’elemento soggettivo necessario per l’integrazione dell’aggravante si accompagnino elementi di fatto di natura oggettiva, al fine di evitare una punizione più severa in ragione di un elemento meramente intenzionale, e di collegare, invece, il maggiore rigore sanzionatorio a una concreta potenzialità offensiva della condotta.

Le Sezioni unite rilevano in primo luogo che il «senso della previsione dell’aggravante» è quello di «evitare effetti emulativi connessi all’esistenza del gruppo illecito» con i caratteri di cui all’art. 416-bis cod. pen., e di «colpire tutte le aree che attraverso le modalità della condotta, o attraverso la consapevole agevolazione, producano l’effetto del rafforzamento, se non concretamente della compagine, del pericolo della sua espansione, con la forza che le è tipica e la tacitazione di tutte le forze sociali che dovrebbero ad essa resistere».

Quindi affermano che la natura soggettiva della circostanza aggravante dell’agevolazione è imposta dal dato testuale della disposizione che la prevede, e altresì dall’esigenza di evitare il pericolo «di una individuazione postuma della finalità», cioè il rischio che la sussistenza dell’aggravante possa essere ravvisata «tutte le volte in cui una condotta illecita abbia di fatto prodotto, o abbia le potenzialità per produrre, vantaggi alla compagine», indipendentemente dalla consapevolezza dell’agente, malgrado il testuale richiamo al fine della condotta.

La circostanza aggravante in esame viene ricondotta pertanto dal Supremo consesso nell’ambito di quelle di natura soggettiva, e il fine agevolativo viene ritenuto costituire un motivo a delinquere.

Tuttavia, in ossequio al principio di offensività, le Sezioni unite richiedono ai fini dell’integrazione della circostanza anche un elemento di tipo obiettivo: «è necessario però, affinché il reato non sia privo di offensività, che tale rappresentazione si fondi su elementi concreti, inerenti, in via principale, all’esistenza di un gruppo associativo avente le caratteristiche di cui all’art. 416-bis cod. pen. ed alla effettiva possibilità che l’azione illecita si inscriva nelle possibili utilità, anche non essenziali al fine del raggiungimento dello scopo di tale compagine, secondo la valutazione del soggetto agente, non necessariamente coordinata con i componenti dell’associazione». Ciò in quanto si tratta di «un’aggravante che colpisce la maggiore pericolosità di una condotta, ove finalizzata all’agevolazione» con la conseguenza che «è necessario che la volizione che la caratterizza possa assumere un minimo di concretezza», sebbene non occorra che «il fine rappresentato sia poi nel concreto raggiunto, pur essendo presenti tutti gli elementi di fatto, astrattamente idonei a tale scopo».

La richiesta di elementi oggettivi a riscontro dell’offensività della condotta si giustifica in quanto quest’ultima «non assume alcuna pericolosità ulteriore ove non abbia alcuna possibilità o potenzialità di realizzazione».

Pur riconducendo l’elemento psicologico necessario all’integrazione dell’aggravante al «dolo specifico o intenzionale», le Sezioni unite ritengono che la finalità agevolativa non debba essere esclusiva «ben potendo accompagnarsi ad esigenze egoistiche quali, ad esempio, la volontà di proporsi come elemento affidabile al fine dell’ammissione al gruppo o qualsiasi altra finalità di vantaggio, assolutamente personale, che si coniughi con l’esigenza di agevolazione».

In proposito le Sezioni unite evidenziano che «nella forma del dolo specifico o intenzionale la volontà della condotta si accompagna alla rappresentazione dell’evento, che è tenuto di mira dall’agente e giustifica l’azione, ancorché non necessariamente in forma esclusiva; tale forma di atteggiamento psicologico si distingue dal dolo diretto per la specifica direzione della condotta rispetto all’evento, che nella forma diretta si limita alla rappresentazione e non alla volizione, oltre che dell’azione, delle sue conseguenze». E rilevano che «costituisce dato di comune esperienza che possano sussistere plurimi motivi che determinano all’azione che, ove accertati, non depotenziano la funzione intenzionale della condotta richiesta dalla norma specifica (per un’applicazione in tal senso cfr. Sez. U, n. 27 del 25/10/2000, Di Mauro, Rv. 217032; Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, dep. 1996, Fachini, Rv. 203770). È quindi possibile la presenza di una pluralità di motivi, mentre essenziale alla configurazione del dolo intenzionale è la volizione da parte dell’agente, tra i motivi della sua condotta, della finalità considerata dalla norma».

Per quanto riguarda l’individuazione della disciplina in caso di concorso di persone nel reato le Sezioni unite evidenziano che, stante la richiesta di elementi oggettivi a riscontro dell’offensività della condotta, «la ricostruzione ermeneutica impone un approccio alla fattispecie, che vada al di là della classificazione formale, per valutare l’estensibilità della circostanza al concorrente».

Individuata l’esigenza perseguita dalla novella contenuta nella legge 7 febbraio 1990 n. 19 - che ha riguardato gli artt. 59 e 118 cod. pen. e non ha toccato invece l’art. 70 cod. pen. che classifica le circostanze a seconda della loro natura soggettiva od oggettiva - in «quella di garantire l’eliminazione di qualsiasi riflesso di responsabilità oggettiva, anche su elementi non costitutivi del reato, per l’esigenza di ricollegare qualsiasi componente dell’illecito, costitutivo o circostanziale, alla volontà del soggetto agente, imposta dall’attuazione del criterio costituzionale della responsabilità personale», le Sezioni unite ritengono che «l’analisi storica della modifica porta a correggere l’assunto generalizzato secondo cui le circostanze soggettive devono essere escluse dall’estensione ai concorrenti, posto che, a ben vedere, tale esclusione, sancita solo dall’art. 118 cod. pen., è circoscritta a quelle aggravanti attinenti alle sole intenzioni dell’agente, pertanto potenzialmente non riconoscibili dai concorrenti» e non riguarda tutte le circostanze soggettive richiamate dall’art. 70 cod. pen.: in particolare non riguarda le circostanze inerenti le condizioni e le qualità personali del colpevole, o i rapporti fra il colpevole e l’offeso, elementi che, pur nella chiara connotazione soggettiva, possono essere percepite anche “ab externo”, e quindi astrattamente conoscibili dal coimputato.

Secondo le Sezioni unite «il discrimine, ai fini della possibilità di estensione delle circostanze, non sembra riguardare la natura, oggettiva o soggettiva della circostanza, secondo la classificazione contenuta nel codice, ma piuttosto la possibilità di estrinsecazione della circostanza all’esterno, cosicché rimane esclusa dall’attribuzione al compartecipe qualsiasi elemento, di aggravamento o di attenuazione della fattispecie, confinato all’intento dell’agente che, proprio in quanto tale, non può subire estensione ai concorrenti, perché da questi non necessariamente conoscibile». Con la conseguenza che «qualora si rinvengano elementi di fatto suscettibili di dimostrare che l’intento dell’agente sia stato riconosciuto dal concorrente, e tale consapevolezza non lo abbia dissuaso dalla collaborazione, non vi è ragione per escludere l’estensione della sua applicazione, posto che lo specifico motivo a delinquere viene in tal modo reso oggettivo, sulla base degli specifici elementi rivelatori che, per quanto detto, devono accompagnarne la configurazione, per assicurare il rispetto del principio di offensività».

La circostanza aggravante del fine di agevolare l’associazione mafiosa viene, quindi, ritenuta applicabile al concorrente nel reato che non condivida con il coautore la finalità agevolativa, ma sia consapevole della finalità del compartecipe, secondo la previsione generale dell’art. 59, secondo comma, cod. pen., che attribuisce all’autore del reato gli effetti delle circostanze aggravanti da lui conosciute.

Tale soluzione viene ritenuta dalle Sezioni unite già ampiamente acquisita nella giurisprudenza, con riferimento ad altre figure di aggravanti che riguardano altri motivi a delinquere o l’intensità del dolo, quali la premeditazione, i motivi abietti e futili e il nesso teleologico.

Viene inoltre precisato che per l’imputazione della circostanza aggravante della finalità di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso al concorrente nel reato non coinvolto nella finalità agevolatrice «è sufficiente il dolo diretto, che comprende anche le forme di dolo eventuale».

Viene, invece, escluso che l’aggravante in esame possa essere imputata al concorrente nel reato a titolo di colpa, secondo quanto previsto dall’art. 59, secondo comma, cod. pen., in quanto la natura soggettiva della circostanza «è incompatibile con un obbligo giuridico di conoscenza o di ordinaria prudenza, necessariamente ricollegabile all’imputazione colposa. Invero le situazioni contingenti, l’occasionalità della compartecipazione, l’ignoranza dell’esistenza di una compagine mafiosa o dei suoi collegamenti con l’occasionale partecipe, non potrebbe mai generare un obbligo giuridico di diligenza, suscettibile di sostenere le condizioni dell’imputazione colposa. La funzionalizzazione della condotta all’agevolazione mafiosa da parte del compartecipe in definitiva deve essere oggetto di rappresentazione, non di volizione, aspetto limitato agli elementi costitutivi del reato, e non può caratterizzarsi dal mero sospetto, poiché in tal caso si porrebbe a carico dell’agente un onere informativo di difficile praticabilità concreta».

Sotto il profilo dell’accertamento giudiziale della conoscenza da parte del concorrente nel reato della finalità agevolatrice perseguita da uno degli autori, le Sezioni unite hanno cura di precisare che la stessa può desumersi sia «dall’estrinsecazione espressa da parte dell’agente delle proprie finalità» che dalla «manifestazione dei suoi elementi concreti, quali particolari rapporti del partecipe con l’associazione illecita territoriale, o di altri elementi di fatto che emergano dalle prove assunte».

Infine, quanto alla ricostruzione dello spazio di autonomia tra la fattispecie aggravata dalla finalità agevolatrice ed il concorso esterno in associazione mafiosa, le Sezioni unite evidenziano che le due figure giuridiche hanno in comune il dato inerente alla esistenza dell’associazione territoriale illecita, ma si distinguono in quanto:

- il concorrente esterno, a differenza dell’autore dell’illecito aggravato, «ha un rapporto effettivo e strutturale con il gruppo, della cui natura e funzione ha una conoscenza complessiva, che gli consente di cogliere l’assoluta funzionalità del proprio intervento, ancorché unico, alla sopravvivenza o vitalità del gruppo», mentre, nella forma circostanziale l’utilità dell’intervento può essere anche valutata astrattamente solo da uno degli agenti, senza estensione ai componenti del gruppo;

- ai fini del perfezionamento della fattispecie del concorso esterno, a differenza di quella dell’illecito aggravato, occorre «che si verifichi il risultato positivo per l’organizzazione illecita, conseguente a tale intervento esterno, che si caratterizza per la sua infungibilità», mentre nella forma circostanziale, l’utilità dell’intervento è «del tutto estemporanea e fungibile rispetto all’attività delinquenziale programmata e, soprattutto, non necessariamente produttiva di effetti di concreta agevolazione».

. Indice delle sentenze citate.

Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 6, n. 11008 del 07/02/2001, Trimigno, Rv. 218783

Sez. 1, n. 49086 del 24/05/2012, Acanfora, Rv. 253962

Sez. 6, n. 29311 del 03/12/2014 - dep. 2015 -, Cioffo, Rv. 264082

Sez. 5, n. 11101 del 04/02/2015, Platania, Rv. 262713 Sez. 3, n. 36364 del 20/05/2015, Mancuso

Sez. 6, n. 25510 del 19/04/2017, Realmuto, Rv. 270158

Sez. 1, n. 19818 del 23/05/2017 - dep. 2019 -, Tagliavia, Rv. 276188

Sez. 6, n. 43890 del 21/06/2017, Aruta, Rv. 271098

Sez. 6, n. 53646 del 04/10/2017, Aperi, Rv. 271685

Sez. 6, n. 11356 del 08/11/2017 - dep. 2018 -, Ardente, Rv. 272525

Sez. 2, n. 6021 del 29/11/2017 - dep. 2018 -, Lombardo, Rv. 272007

Sez. 1, n. 52505 del 20/12/2017 - dep. 2018 -, Lamanna, Rv. 276150 Sez. 6, n. 46007 del 06/07/2018, D’Ambrosca

Sez. 2, n. 53142 del 18/10/2018, Inzillo, Rv. 274685 Sez. 2, n. 22153 del 11/12/2018 – dep. 2019 -, Gumari

Sez. U., n. 8545 del 19/12/2019 - dep. 2020 – Chioccini, Rv. 278734

SEZIONE III REATI DEL CODICE PENALE - DELITTI CONTRO L’ONORE

  • libertà di stampa
  • diffamazione

CAPITOLO I

QUESTIONI IN TEMA DI DIFFAMAZIONE

(di Alessandro D’Andrea )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’esimente del diritto di cronaca. - 3 Il diritto di critica. - 4 Questioni ulteriori. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

Il reato di diffamazione, in particolar modo nella forma aggravata di cui all’art. 595, comma 3, cod. pen., è stato reiteratamente oggetto di considerazione nella giurisprudenza della Corte ancora nell’anno di riferimento, durante il quale sono state pronunciate numerose decisioni sul tema.

La maggior parte di esse ha riguardato l’individuazione dei limiti ermeneutici entro cui consentire la configurazione delle esimenti putative del diritto di cronaca e del diritto di critica, idonee ad escludere la responsabilità penale per ipotesi di condotte diffamatorie commesse a mezzo stampa.

Si tratta di paradigmi interpretativi particolarmente significativi e rilevanti, in quanto sovente espressi al precipuo fine di contemperare il rispetto di libertà e di diritti costituzionalmente e convenzionalmente garantiti in possibile contrasto tra loro.

Altre significative questioni, di diversa natura, sono state pure oggetto di vaglio durante il decorso anno, di cui è opportuno dar conto in una panoramica necessariamente parziale e incompleta delle pronunce di legittimità dettate in materia di delitto di diffamazione.

2. L’esimente del diritto di cronaca.

Una prima decisione di interesse è la sentenza Sez. 5, n. 7008 del 18/11/2019, dep. 2020, Frignani, Rv. 278793-01, nella quale è stato precisato, in tema di reato di diffamazione a mezzo stampa, che, ai fini della configurabilità dell’esimente putativa del diritto di cronaca giudiziaria, sul giornalista incombe l’onere di allegare concreti elementi di fatto idonei a giustificare l’erroneo convincimento in ordine alla veridicità della notizia, non essendo a tal fine sufficiente fare riferimento ad un generico affidamento in buona fede ad una fonte informativa non meglio indicata, a nulla rilevando che essa sia stata utilizzata anche da altre fonti di informazione. In termini generali, infatti, il riconoscimento di una causa di giustificazione putativa presuppone sempre l’adempimento dell’onere di allegazione da parte dell’imputato di elementi di fatto concreti idonei a giustificare le ragioni del proprio erroneo convincimento, non potendo essere desunti essi da meri parametri soggettivi.

Nel caso di specie, in particolare, la Corte ha escluso l’applicabilità dell’esimente putativa in favore di imputati che avevano omesso di indicare in giudizio la fonte da cui avevano appreso la notizia riportata, in tal maniera impedendo ab initio ogni possibile vaglio in ordine alla credibilità ed attendibilità della fonte informativa.

La scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca, d’altro canto, è configurabile solo qualora, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il giornalista abbia assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare l’oggetto del suo narrato, così che la non veridicità del fatto non sia, comunque, imputabile ad una sua condotta colposa. Anche nel caso di affidamento ad una fonte informativa, pertanto, è necessario che il cronista abbia attentamente verificato i fatti narrati, offrendo la prova della cura posta negli accertamenti svolti per stabilire la veridicità dei fatti.

Per come ulteriormente chiarito nella suddetta sentenza, non può giustificare l’applicazione dell’esimente putativa la circostanza che la notizia falsa, di contenuto diffamatorio, sia stata riportata anche da parte di altri giornali, considerato che - alla stregua di quanto già precisato in Sez. 5, n. 35702 del 19/05/2015, Case, Rv. 265015-01 e Sez. 5, n. 45813 del 14/06/2018, S., Rv. 274123-01 - in tal caso l’agente si limita a confidare sulla correttezza e professionalità dei suoi colleghi, di fatto chiudendosi in un circuito autoreferenziale.

Nel solco del medesimo filone esegetico, la Corte ha, poi, osservato in Sez. 5, n. 14013 del 12/02/2020, Sasso, Rv. 278952-01, che il cronista che raccoglie notizie in via confidenziale dalle forze dell’ordine che hanno condotto un’operazione di polizia giudiziaria può invocare, qualora la notizia non risulti veritiera, la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca solo a condizione che abbia assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare l’informazione, offrendo la prova della cura posta negli accertamenti svolti per stabilire la veridicità dei fatti.

È stata, conseguentemente, ritenuta corretta l’affermazione di responsabilità di un cronista che, nel riportare la notizia di un arresto, aveva erroneamente indicato l’imputato come imparentato ad un esponente della criminalità organizzata, sulla scorta di un’informazione fornitagli confidenzialmente dall’ufficiale di polizia giudiziaria operante, senza, tuttavia, effettuare alcun successivo riscontro in ordine alla veridicità della notizia.

Il giornalista che riceve una confidenza da parte di un ufficiale di polizia giudiziaria, infatti, ha il preciso onere di accertare la veridicità dell’informazione acquisita, oltre che della sua rilevanza pubblica, atteso che la scriminante, anche solo putativa, del diritto di cronaca giudiziaria non gli può essere riconosciuta solo in ragione del presunto elevato livello di attendibilità della fonte confidenziale utilizzata, ove a ciò non si aggiunga il dovuto controllo della notizia ricevuta.

Sempre nella sentenza Sez. 5, n. 7008 del 18/11/2019, dep. 2020, Frignani, Rv. 278793-02, è stato, poi, affermato che non è configurabile l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca qualora, nel riportare un evento storicamente vero, vengano pubblicate inesattezze non marginali e non riguardanti semplici modalità del fatto, ma che siano, invece, idonee a modificare la struttura essenziale di esso. Il requisito del rispetto della veridicità dei fatti divulgati, che solo consente, unitamente a quelli della rilevanza sociale e della continenza espressiva, di rendere applicabile la scriminante ex art. 51 cod. pen., non può, quindi, considerarsi rispettato ove l’evento fattualmente vero venga modificato nella sua struttura essenziale da rilevanti inesattezze espositive riportate nell’articolo.

In ragione dell’indicato principio, la Corte ha ritenuto legittima l’esclusione dell’esimente del diritto di cronaca giudiziaria, almeno sotto il profilo putativo, in favore di un giornalista che, nel riferirsi ad un soggetto imputato e poi assolto, aveva erroneamente affermato che tale ultimo aveva avanzato una richiesta di patteggiamento, invece presentata da un altro individuo rinviato a giudizio per il medesimo fatto, nella ritenuta carenza del requisito della verità della notizia riportata, ritenendo che si trattasse di un’inesattezza non qualificabile come modesta e marginale, conseguenza di un errore riguardante semplici modalità del fatto, insuscettibile di modificarne la relativa struttura essenziale.

La pronuncia si conforma ad un orientamento esegetico già espresso in Sez. 5, n. 41099 del 20/07/2016, Carrassi, Rv. 268149-01, laddove era stata giudicata immune da censure la decisione che aveva negato la sussistenza dell’esimente dell’art. 51 cod. pen. nei confronti di un giornalista e di un direttore di giornale per la pubblicazione di un articolo che, nel riferirsi all’attività professionale di un medico veterinario, aveva falsamente esposto che questi aveva millantato un intervento chirurgico mai eseguito - in realtà, invece, effettuato, sia pur in maniera non corretta

Nello stesso senso, la Corte aveva ritenuto in Sez. 5, n. 28258 del 08/04/2009, Frignani, Rv. 244200-01, esente da censure la sentenza con cui il giudice di merito aveva riconosciuto la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca in favore di un giornalista e di un direttore di giornale per la pubblicazione di un articolo concernente l’applicazione della custodia cautelare nei confronti di un chirurgo per il reato di cessione di stupefacenti, nel quale gli era stata attribuita la paternità di una conversazione, non presente nel testo dell’ordinanza cautelare, del seguente tenore: “sbrigati, mi serve quella cortesia, non ho più tempo, devo operare”, considerato che l’ordinanza cautelare aveva descritto tale medico come assiduo assuntore di sostanze stupefacenti, facendo, inoltre, espresso riferimento ad operazioni chirurgiche effettuate sotto l’effetto dell’eroina, per cui la notizia doveva essere considerata vera e di sicura rilevanza pubblica, mentre le espressioni attribuite al medico non apparivano idonee a poterla stravolgere.

Per come ritenuto in Sez. 5, n. 13702 del 17/12/2010, dep. 2011, Bellavia e altro, Rv. 250256-01, invece, non è configurabile l’esimente del diritto di cronaca in favore di un giornalista che abbia riportato, contrariamente al vero, l’intervenuto esercizio dell’azione penale nei confronti di un soggetto soltanto sottoposto ad indagini preliminari.

Diversamente, la divergenza tra la notizia pubblicata ed il reale stato del procedimento è stata considerata come una circostanza solo inesatta, e quindi alla stregua di una mera difformità di natura secondaria, in Sez. 5, n. 15093 del 27/01/2020, Gramaglia, Rv. 279152-01, nella quale è stato precisato che non integra un’ipotesi di diffamazione a mezzo stampa la divulgazione di una notizia d’agenzia riportante l’erronea affermazione che taluno sia stato raggiunto da una richiesta di rinvio a giudizio anziché da un avviso di conclusione delle indagini preliminari, dal momento che, in tal caso, la divergenza tra quanto propalato e l’effettivo stato del procedimento costituisce una mera inesattezza su un elemento secondario del fatto storico, che non intacca la verità della notizia principale, secondo cui il procedimento, nella prospettiva della pubblica accusa, è approdato ad una cristallizzazione delle risultanze d’indagine funzionale alla sua progressione. Sebbene, infatti, l’avviso di conclusione delle indagini preliminari e la richiesta di rinvio giudizio si connotino per avere funzioni autonome e conseguenze distinte, rileva il fatto che trattasi, pur sempre, di atti processualmente “attigui”, per cui l’uno rappresenta il presupposto dell’altro, nel senso che dal primo tendenzialmente scaturisce la predisposizione del secondo.

Nella stessa linea interpretativa, la sentenza Sez. 5, n. 13782 del 29/01/2020, Kanellos, Rv. 278990-01, ha affermato, ad ulteriore precisazione, che, qualora la notizia venga mutuata da un provvedimento giudiziario, è configurabile l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria quando l’attribuzione del fatto illecito ad un soggetto sia rispondente a quella presente negli atti giudiziari e nell’oggetto dell’imputazione, sia sotto il profilo dell’astratta qualificazione che della sua concreta gravità, con la conseguenza che la causa di giustificazione non è invocabile ove il cronista attribuisca ad un soggetto un fatto diverso nella sua struttura essenziale rispetto a quello per cui si indaga, idoneo a cagionare una lesione della reputazione.

In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto non scriminata l’attribuzione ad un soggetto di una condotta di bancarotta fraudolenta nell’ambito di un’indagine relativa ad un fallimento del valore di circa 100 milioni di euro, a fronte di un’imputazione di ricettazione prefallimentare di beni del valore di 900 mila euro. In tal maniera, infatti, è stata attribuita una condotta sostanzialmente diversa da quella riscontrabile negli atti giudiziari e nell’oggetto dell’imputazione, sia sotto il profilo dell’astratta qualificazione che sotto quello della concreta gravità del fatto ascritto.

Con riferimento, invece, alla pubblicazione del contenuto di una denuncia-querela, la Corte ha chiarito, in Sez. 5, n. 15086 del 29/11/2019, dep. 2020, Pierantozzi, Rv. 279083- 01, che può essere configurata l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria nel caso in cui il giornalista, nel rispetto della verità e della continenza, si limiti a riferire, sia pure nel loro minimum storico, senza arbitrarie aggiunte o indebite insinuazioni, i fatti di cui alla denunzia, ponendosi, rispetto ad essi, quale semplice testimone, animato da dolus bonus e da ius narrandi. Ciò non si verifica, invece, nel caso in cui si ravvisi un uso strumentale del fatto ancora sub iudice da parte del cronista, come nell’ipotesi in cui costui, attraverso arbitrarie integrazioni, aggiunte, commenti, insinuazioni, fotografie corredate da didascalie, faccia apparire come vera o verosimile la notitia criminis.

L’esimente del diritto di cronaca è stata considerata, sotto altro profilo, nella sentenza Sez. 5, n. 29128 del 17/09/2020, Coppola, Rv. 279775-01, ove ne è stata riconosciuta la possibilità di applicazione in favore del giornalista che riporti fedelmente le dichiarazioni, oggettivamente lesive dell’altrui reputazione, rilasciate da un personaggio pubblico nel corso di un’intervista, indipendentemente dalla veridicità e continenza delle espressioni riportate, per il prevalente interesse pubblico a conoscere il pensiero dell’intervistato in relazione alla sua notorietà, che non deve necessariamente essere intesa come sinonimo di autorevolezza a priori, da cui desumere l’affidabilità delle dichiarazioni, ma deve essere valutata anche in ragione della notorietà della persona offesa e delle vicende oggetto di propalazione.

Il principio è stato espresso con riferimento ad una fattispecie riguardante la pubblicazione di dichiarazioni lesive dell’onore e della reputazione di un magistrato, rese dal protagonista di una vicenda economico finanziaria di rilievo nazionale, in cui la Corte ha annullato la decisione che, sminuendo la rilevanza pubblica della posizione sociale dell’intervistato, aveva escluso la scriminante del diritto di cronaca per gli intervistatori e i direttori delle testate giornalistiche.

Tale pronuncia si colloca nell’alveo di un filone interpretativo originato dalla sentenza Sez. U, n. 37140 del 30/05/2001, Galiero, Rv. 219651, per la quale la condotta del giornalista che, pubblicando il testo di un’intervista, vi riporti, anche se “alla lettera”, dichiarazioni del soggetto intervistato di contenuto oggettivamente lesivo dell’altrui reputazione, non è scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca, in quanto al giornalista stesso incombe il dovere di controllare la veridicità delle circostanze e la continenza delle espressioni riferite. Essa, tuttavia, è da ritenersi penalmente lecita quando il fatto in sé dell’intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto in cui le dichiarazioni sono rese, presenti profili di interesse pubblico all’informazione tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo e da giustificare l’esercizio del diritto di cronaca, l’individuazione dei cui presupposti è riservata alla valutazione del giudice di merito che, se sorretta da adeguata e logica motivazione, sfugge al sindacato di legittimità.

Nel caso, pertanto, di pubblicazione di un’intervista, la comparazione tra contrapposti interessi deve risolversi sempre nella prevalenza di quello pubblico qualora la qualità soggettiva dell’intervistato sia essa stessa, per autorevolezza o speciale conoscenza della materia trattata, d’interesse pubblico, così finendo per far recedere la posizione individuale incisa nell’onore. Facendo applicazione del superiore insegnamento, che rimette all’apprezzamento del giudice di merito la ponderazione degli indicati parametri, sono stati valorizzati nel tempo apporti individuali espressivi del patrimonio culturale e delle modalità comunicative di una determinata realtà sociale, la cui conoscenza sia risultata di interesse per la collettività - così, ad esempio, in: Sez. 5, n. 43451 del 24/09/2001, D’Orta, Rv. 220255-01; Sez. 5, n. 4009 del 16/12/2004, dep. 2005, Scalfari, Rv. 230719-01 -, ribadendo, a tal fine, il necessario accertamento correlato alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al contesto in cui le dichiarazioni sono state rese, altresì richiedendo, in caso di accertamento negativo, pure la dissociazione dell’intervistatore per quanto dichiarato in diretta - così in Sez. 5, n. 42755 del 17/05/2016, Castaldo, Rv. 267957 -, ovvero l’assunzione di una posizione di imparzialità, come in particolare ritenuto in Sez. 5, n. 29209 del 12/03/2018, Blasotta, Rv. 273172-01, allorquando è stato affermato che ai fini della responsabilità del giornalista per un articolo che riproduce il contenuto diffamatorio di un manifesto pubblico con finalità di critica politica, occorre accertare se egli, nel riportare la notizia, si sia posto con la prospettiva di “terzo osservatore” dei fatti, ovvero sia stato solo un dissimulato coautore della dichiarazione diffamatoria, agendo contro il diffamato.

I superiori concetti sono presenti anche nella pronuncia Sez. 5, n. 51235 del 09/10/2019, Marincola, Rv. 278299-01, nella quale è stato ritenuto che il giornalista che effettua un’intervista può beneficiare dell’esimente del diritto di cronaca con riferimento alle dichiarazioni a lui rilasciate, anche se oggettivamente lesive dell’altrui reputazione, qualora vi sia un interesse a conoscere il pensiero dell’intervistato, per la sua autorevolezza o per la speciale conoscenza della materia, tuttavia rispondendo secondo gli ordinari parametri di valutazione (veridicità della notizia, continenza espositiva e interesse pubblico) per i commenti e le espressioni, poste a latere o a margine dell’intervista, che non si limitino a riassumerne il contenuto o a commentarlo, ma che riportino fatti o opinioni diversi o anche antagonisti rispetto al contenuto delle dichiarazioni rilasciate.

Nella sentenza Sez. 5, n. 16959 del 21/11/2019, dep. 2020, Le Betulle Casa di Cura S.r.l. C/Tiengo, Rv. 279203-01, infine, è stato ulteriormente ribadito, in termini conformi, che il giornalista che effettua un’intervista può beneficiare dell’esimente del diritto di cronaca con riferimento al contenuto delle dichiarazioni ingiuriose o diffamatorie a lui rilasciate, se riportate fedelmente ed in modo imparziale, senza commenti e chiose capziose a margine - tali da renderlo dissimulato coautore - e sempre che l’intervista presenti profili di interesse pubblico all’informazione, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, al suo oggetto e al contesto delle dichiarazioni rilasciate.

3. Il diritto di critica.

Anche l’esimente del diritto di critica è stato oggetto di interessanti pronunce durante il decorso anno, sia applicative di pregressi insegnamenti che espositive di principi sostanzialmente originali.

La Corte, in primo luogo, si è occupata, in due distinte decisioni, della tematica dei limiti di continenza entro cui la critica può essere espressa, così da consentire il riconoscimento della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto, di cui all’art. 51, comma 1, cod. pen. È stato dapprima affermato, in Sez. 5, n. 15089 del 29/11/2019, dep. 2020, Cascio, Rv. 279084-01, che l’esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, pur tuttavia consentendosi l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, in quanto privi di equivalenti adeguati.

Il diritto di critica, pertanto, deve essere espresso utilizzando modalità formali sempre confinate nei limiti del rispetto e della correttezza, senza che da ciò derivi, tuttavia, l’assoluta impossibilità di attingere a terminologie che, anche se ex se irriguardose, siano comunque uniche ed insostituibili per consentire l’esercizio della critica.

Nell’applicare il concetto al caso di specie, la Corte ha ritenuto configurabile l’indicata scriminante, per non essere stati travalicati i limiti di esercizio della critica, in un caso di utilizzo, in una pagina Facebook, dell’epiteto “idiota” nei confronti di un poliziotto, non identificato nominativamente, che aveva sparato dei colpi di arma da fuoco in pieno centro cittadino per arrestare la fuga degli autori di un reato. Tale offesa non è stata considerata un’immotivata e gratuita aggressione all’altrui sfera personale, ed anzi è parsa in termini di stretta riferibilità e attinenza all’accadimento fattuale oggetto di critica, intendendosi con essa unicamente stigmatizzare l’uso eccessivo della forza, sproporzionato rispetto al reato e alle condizioni di tempo e di luogo in cui il fatto si era svolto. L’epiteto adoperato, non particolarmente aspro e pungente, è, in particolare, apparso non sproporzionato rispetto a quanto si era inteso rappresentare in relazione ad una situazione che, all’evidenza, si prestava ad essere oggetto di una qualche critica, presentando aspetti suscettibili di essere ritenuti gravi.

Il principio espresso si riferisce ad un orientamento ermeneutico reiteratamente affermato da parte della giurisprudenza della Corte.

Nella sentenza Sez. 5, n. 31669 del 14/04/2015, Marcialis, Rv. 264442-01, ad esempio, era stato ritenuto che l’utilizzo del termine “incompetente” nei confronti di un architetto, con riferimento al suo operato tecnico, non esorbitasse, di per sé, dai limiti della critica consentiti, dovendo il giudice di merito accertare se fosse possibile rilevare nei suoi confronti una carenza di capacità professionale di grave natura, alla quale sola va commisurata la portata dell’indispensabilità funzionale della critica così come formulata.

In termini analoghi, nella sentenza Sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016, C., Rv. 267866-01, era stato affermato che l’utilizzo del termine “puttaniere” in un contesto familiare, da parte di una donna nei confronti del coniuge dopo che la stessa ne aveva scoperto una convivenza more uxorio, non esorbitasse, di per sé, dai limiti della critica consentiti, avendo lo stesso un’accezione, comune per la lingua italiana, di “donnaiolo, playboy o uomo alla ricerca di avventure passeggere”, compatibile con il requisito della continenza.

Ancor prima, in Sez. 5, n. 11950 del 08/02/2005, Mercenaro ed altri, Rv. 231711-01, era stato precisato che il requisito della continenza delle espressioni utilizzate, indispensabile per la ravvisabilità dell’esimente del diritto di critica, presenta una sua necessaria elasticità e non è necessariamente escluso dall’uso di un epiteto infamante, dovendo la valutazione del giudice del merito soppesare se il ricorso ad aggettivi o frasi particolarmente aspri sia o meno funzionale all’economia dell’articolo, alla luce della eventuale assoluta gravità oggettiva della situazione rappresentata. Conformemente al principio, la Corte aveva ritenuto applicabile la causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen. ad un giornalista che aveva definito “bestiale e torturatore” un pubblico ministero, in ragione delle scelte effettuate con riguardo al trattamento di un detenuto, in presenza di un procedimento disciplinare conclusosi con sentenza di condanna.

Nella sentenza Sez. 5, n. 15060 del 23/02/2011, Dessì, Rv. 250174-01, era stato osservato, quindi, che il limite della continenza nel diritto di critica risulta superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato. Il contesto nel quale la condotta si colloca può essere valutato, pertanto, ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, ma non può in alcun modo scriminare l’uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest’ultimo in quanto tale. In applicazione di tale assunto, è stata considerata immune da censure la decisione con cui il giudice di merito aveva escluso la scriminante del diritto di critica in favore di imputati che avevano affisso nelle bacheche aziendali e diffuso con volantini un comunicato in cui, contestando la posizione dissenziente di un iscritto alla C.G.I.L., lo si era definito “notoriamente imbecille”.

In tale filone esegetico si colloca anche la seconda sentenza che, durante il trascorso anno, ha affrontato la questione dei limiti di continenza entro cui il diritto di critica può essere legittimamente esercitato.

Si tratta della pronuncia Sez. 5, n. 17243 del 19/01/2020, Lunghini, Rv. 279133-01, nella quale è stato, in particolare, ribadito che l’esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, ma non vieta l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, abbiano anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato. La Corte ha, conseguentemente, ritenuto di non poter considerare esorbitante rispetto ai limiti di una critica legittima l’accusa di “assoluta incapacità ad organizzare il reparto” rivolta al direttore di un Pronto Soccorso da un consigliere del comitato consultivo di un’Azienda Ospedaliera che, nell’esercizio delle proprie funzioni di controllo dell’attività e dell’organizzazione aziendale, aveva evidenziato reali disservizi organizzativi, sollecitando l’effettuazione dei dovuti controlli. In tal maniera, infatti, erano stati esposti fatti veri, di indubbio interesse pubblico, utilizzando un’espressione rivelatrice non di un attacco alla persona, o di una finalità meramente denigratoria, ma di una critica, per quanto aspra, alle capacità organizzative del direttore del reparto di Pronto Soccorso.

Un diverso insegnamento, di natura sostanzialmente innovativa, lo si rinviene in Sez. 5, n. 17259 del 06/03/2020, Mauro, Rv. 279114-01, in cui la Corte ha affermato che il diritto di critica del giornalista non può essere svilito, limitandolo alla esposizione dei fatti e alla loro puntuale, esatta riproduzione, sicché non può essere negato al cronista il diritto di ricercare e di riferire al lettore legami, rapporti e relazioni, dirette o indirette, immediate o mediate, quando questi elementi risultino oggettivamente sussistenti.

Il diritto di critica rappresenta un cardine dello Stato democratico, per cui la valenza offensiva di un’espressione utilizzata non può essere oggetto di immediata repressione, ma deve, invece, essere riferita al contesto globale in cui essa è stata pronunciata. La critica, infatti, è per la Corte espressione di un giudizio valutativo che, postulando l’esistenza di un fatto, necessita di un’immediata rappresentazione, purché ciò avvenga nel rispetto di una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da rendere. Anche il rispetto della verità del fatto finisce per assumere un rilievo maggiormente limitato rispetto al diritto di cronaca, osservato che la critica, quale espressione di un’opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che, per definizione, non può pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica.

Il diritto di critica, quale valore fondante fissato nella Costituzione, deve, pertanto, prevedere l’assoluta libertà di scelta dell’argomento su cui articolare l’esposizione del pensiero, per cui, sempre che esso rispetti il criterio della verità del fatto e della sussistenza dell’interesse sociale a conoscere la critica, deve ritenersi consentita l’esposizione di opinioni personali lesive dell’altrui reputazione, purché ciò avvenga attraverso un uso misurato del linguaggio.

Tale approccio ermeneutico, d’altro canto, si conforma ai principi espressi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha reiteratamente osservato come l’incriminazione per diffamazione costituisca, di per sé, un’interferenza con la libertà di espressione, che può essere tollerata solo nei limiti in cui essa venga prescritta espressamente per legge. La stampa deve essere libera ed ha il dovere ed il diritto di informare il pubblico su tutte le questioni di interesse generale.

In ultima analisi, una mera esatta riproduzione dei fatti finisce per svilire l’esercizio della critica, che, a differenza della cronaca, si concretizza proprio nella libera manifestazione di un’opinione. È vero che essa presuppone comunque un accadimento storico, ma il giudizio valutativo, in quanto tale, è diverso dal fatto da cui trae spunto e non lo si può censurare per difetto di “obiettività”, altrimenti realizzandosi un’interferenza sproporzionata, incoerente e non necessaria, nel diritto alla libera espressione degli organi di stampa.

Ancora in termini di rilievo, in Sez. 5, n. 31263 del 14/09/2020, Capozza, Rv. 279909-01, è stato affermato che ai fini della configurabilità dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica politica, che trova fondamento nell’interesse all’informazione dell’opinione pubblica e nel controllo democratico nei confronti degli esponenti politici o pubblici amministratori, è necessario che l’elaborazione critica non sia avulsa da un nucleo di verità e non trascenda in attacchi personali finalizzati ad aggredire la sfera morale altrui. La scriminante, cioè, può trovare applicazione solo ove ricorra il rispetto del requisito della verità del fatto storico posto a fondamento della elaborazione critica, con conseguente impossibilità del suo riconoscimento ove l’agente manipoli le notizie o le rappresenti in modo incompleto.

L’estensione del diritto di critica politica può perfino giungere a superare la necessità del riferimento a specifici fatti storici, ma non può mai prescindere dalla necessità di evitare qualsiasi travisamento o manipolazione di essi che ne determini una distorsione inaccettabile rispetto all’intento informativo dell’opinione pubblica che è alla base del riconoscimento dell’esimente, poiché quest’ultima radica le proprie basi ispiratrici nel consolidato principio che in democrazia a maggiori poteri corrispondono maggiori responsabilità e l’assoggettamento al controllo da parte dei cittadini, esercitabile anche attraverso il diritto di critica.

Conseguentemente, la Corte ha ritenuto corretta l’esclusione dell’esimente ex art. 51, comma 1, cod. pen., sia pure nell’ampia visione convenzionale del diritto alla libertà di espressione in contesti di critica politica, nel caso di un articolo di stampa che aveva attribuito ad un sindaco, senza alcun appiglio oggettivo e mediante travisamento o manipolazione dei fatti storici, il sospetto di mafiosità, per la gestione familiaristica e clientelare dell’amministrazione comunale.

4. Questioni ulteriori.

A conclusione della presente esposizione è opportuno dar conto anche di alcune ulteriori pronunce rese dalla Corte durante il decorso anno, riguardanti questioni di interesse non direttamente afferenti alle esimenti del diritto di cronaca e del diritto di critica.

In primo luogo, rilevante è la sentenza Sez. 5, n. 10967 del 14/11/2019, dep. 2020, Mauro, Rv. 278790-01, nella quale è stato affermato che deve escludersi il carattere diffamatorio di una pubblicazione quando essa sia incapace di ledere o mettere in pericolo l’altrui reputazione per la percezione che ne possa avere il lettore medio, ossia colui che non si fermi alla mera lettura del titolo e ad uno sguardo alle foto (lettore cd. “frettoloso”), ma esamini, senza particolare sforzo o arguzia, il testo dell’articolo e tutti gli altri elementi che concorrono a delineare il contesto della pubblicazione, quali l’immagine, l’occhiello, il sottotitolo e la didascalia.

In applicazione del principio, la Corte ha escluso, in assenza di offensività della pubblicazione, il carattere diffamatorio di un articolo che, riferendosi ad un medico condannato per falso, aveva riportato la foto di un altro medico che aveva posato per un servizio fotografico, ritenendo che si comprendesse agevolmente dall’articolo, dai sottotitoli e da un’intervista al presidente di un ordine dei medici riportata nella stessa pagina, che la foto effigiava un medico qualunque e non già quello specificamente condannato. Il lettore medio, infatti, solo ad un primo sguardo avrebbe potuto fraintendere l’identità della persona condannata, effettuando un’associazione tra il titolo e l’immagine pubblicata, mentre il complessivo contesto in cui fotografia e titolo erano inseriti avrebbe dovuto senz’altro indurre ad una lettura progressiva di tutti gli elementi utili a cogliere il reale significato della notizia.

Sempre in tema di diffamazione a mezzo stampa, la Corte ha precisato nella pronuncia Sez. 5, n. 8 del 12/11/2019, dep. 2020, Parovel, Rv. 278318-01, che le notizie e le valutazioni esternate con espressioni dubitative o interrogative, se non corrispondenti al vero, possono ledere l’altrui reputazione quando le frasi utilizzate nel contesto della comunicazione, in quanto allusive, insinuanti e suggestive, siano idonee ad ingenerare nel lettore il convincimento dell’effettiva rispondenza a verità del fatto adombrato.

Il principio è stato, in particolare, affermato con riferimento ad una fattispecie avente ad oggetto un articolo di stampa in cui, sia pure in termini ipotetici, era stato veicolato il messaggio che un sindaco avesse potuto avallare una speculazione privata illecita mercificando la propria funzione.

Si tratta di un’esegesi, invero, già presente nella giurisprudenza della Corte, in quanto espressa sia in Sez. 5, n. 41042 del 17/06/2014, Scancarello, Rv. 260772-01 che, ancor prima, in Sez. 5, n. 45910 del 04/10/2005, Fazzo ed altri, Rv. 233039-01, nella quale era stato pure affermato, in termini conformi, che la pubblicazione di una notizia falsa, ancorché espressa in forma dubitativa, può ledere l’altrui reputazione allorché le espressioni utilizzate nel contesto dell’articolo siano ambigue, allusive, insinuanti ovvero suggestionanti, e perciò idonee ad ingenerare nella mente del lettore il convincimento della effettiva rispondenza a verità dei fatti narrati, con la conseguenza che tale indagine è rimessa al giudice di merito e, se giustificata da adeguata motivazione, è incensurabile in sede di legittimità.

Nella sentenza Sez. 5, n. 26509 del 09/07/2020, Carchidi, Rv. 279468-01, è stato, invece, chiarito che spetta al giudice di merito accertare la ricorrenza dell’eccezionale gravità della condotta diffamatoria attributiva di un fatto determinato, che, secondo un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, sola giustifica l’applicazione della pena detentiva. La scelta di applicare la più grave sanzione, cioè, deve necessariamente passare per la valutazione della portata delle condotte diffamatorie ascritte all’imputato, allo scopo di apprezzare la presenza in esse, o meno, di quella eccezionale gravità che unicamente consente il ricorso alla pena detentiva.

Il superiore assunto trova, in particolare, autorevole riferimento nelle direttrici ermeneutiche indicate nella recente ordinanza della Corte costituzionale n. 132 del 2020, utili all’inquadramento dei limiti della compatibilità convenzionale della previsione, per la diffamazione a mezzo stampa, anche della pena detentiva, nell’ottica del rispetto dell’art. 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 10 della CEDU.

Conformemente all’indicato principio, la Corte ha, altresì, precisato che assumono connotati di eccezionale gravità, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, le condotte di diffamazione che implicano un’istigazione alla violenza ovvero convogliano messaggi d’odio.

Deve essere dato conto, infine, del principio affermato in Sez. 5, n. 10905 del 25/02/2020, Sala, Rv. 278742-01, per cui integra il delitto di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, depenalizzato ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. c), d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, e non quello di diffamazione, la condotta di chi pronunzi espressioni offensive mediante comunicazioni telematiche dirette alla persona offesa attraverso una video chat, alla presenza di altre persone in essa invitate, in quanto l’elemento distintivo tra i due reati è costituito dal fatto che nell’ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all’offeso, mentre nella diffamazione quest’ultimo resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l’offensore.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di Cassazione

Sez. U, n. 37140 del 30/05/2001, Galiero, Rv. 219651 Sez. 5, n. 43451 del 24/09/2001, D’Orta, Rv. 220255-01

Sez. 5, n. 4009 del 16/12/2004, dep. 2005, Scalfari, Rv. 230719-01

Sez. 5, n. 11950 del 08/02/2005, Mercenaro, Rv. 231711-01

Sez. 5, n. 45910 del 04/10/2005, Fazzo, Rv. 233039-01

Sez. 5, n. 28258 del 08/04/2009, Frignani e altro, Rv. 244200-01 Sez. 5, n. 13702 del 17/12/2010, dep. 2011, Bellavia, Rv. 250256-01

Sez. 5, n. 15060 del 23/02/2011, Dessì, Rv. 250174-01

Sez. 5, n. 41042 del 17/06/2014, Scancarello, Rv. 260772-01

Sez. 5, n. 31669 del 14/04/2015, Marcialis, Rv. 264442-01

Sez. 5, n. 35702 del 19/05/2015, Case, Rv. 265015-01

Sez. 5, n. 42755 del 17/05/2016, Castaldo, Rv. 267957

Sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016, C., Rv. 267866-01

Sez. 5, n. 41099 del 20/07/2016, Carrassi, Rv. 268149-01

Sez. 5, n. 29209 del 12/03/2018, Blasotta, Rv. 273172-01

Sez. 5, n. 45813 del 14/06/2018, S., Rv. 274123-01

Sez. 5, n. 51235 del 09/10/2019, Marincola, Rv. 278299-01

Sez. 5, n. 8 del 12/11/2019, dep. 2020, Parovel, Rv. 278318-01

Sez. 5, n. 10967 del 14/11/2019, dep. 2020, Mauro, Rv. 278790-01

Sez. 5, n. 7008 del 18/11/2019, dep. 2020, Frignani, Rv. 278793-01

Sez. 5, n. 7008 del 18/11/2019, dep. 2020, Frignani, Rv. 278793-02

Sez. 5, n. 16959 del 21/11/2019, dep. 2020, Le Betulle Casa di Cura S.r.l. C/Tiengo, Rv. 279203-01

Sez. 5, n. 15086 del 29/11/2019, dep. 2020, Pierantozzi, Rv. 279083-01

Sez. 5, n. 15089 del 29/11/2019, dep. 2020, Cascio, Rv. 279084-01

Sez. 5, n. 17243 del 19/01/2020, Lunghini, Rv. 279133-01

Sez. 5, n. 15093 del 27/01/2020, Gramaglia, Rv. 279152-01

Sez. 5, n. 13782 del 29/01/2020, Kanellos, Rv. 278990-01

Sez. 5, n. 14013 del 12/02/2020, Sasso, Rv. 278952-01

Sez. 5, n. 10905 del 25/02/2020, Sala, Rv. 278742-01

Sez. 5, n. 17259 del 06/03/2020, Mauro, Rv. 279114-01

Sez. 5, n. 26509 del 09/07/2020, Carchidi, Rv. 279468-01

Sez. 5, n. 31263 del 14/09/2020, Capozza, Rv. 279909-01

Sez. 5, n. 29128 del 17/09/2020, Coppola, Rv. 279775-01

SEZIONE III REATI DEL CODICE PENALE - DELITTI CONTRO LA PERSONA

  • pornografia
  • pedofilia
  • pornografia infantile

CAPITOLO I

QUESTIONI IN TEMA DI PEDOPORNOGRAFIA DOMESTICA

(di Maria Cristina Amoroso )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le Sezioni Unite in tema di pedopornografia domestica. - 3 La cessione e divulgazione non autorizzata del materiale pedopornografico autoprodotto destinato ad uso “privato”. - 4 La pronuncia della Terza Sezione n. 5522 del 21 novembre 2019, dep. 2020. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nell’anno in rassegna la Terza Sezione della Corte, con decisione 5522 del 21/11/2019, dep. 2020, G. Rv. 27809102 si è pronunciata in ordine al rilievo penale delle condotte aventi ad oggetto materiale pornografico autoprodotto da un minore nell’ambito di un rapporto privato.

L’impossessamento abusivo di autoscatti erotici di una minorenne, successivamente inviate ad una terza persona artefice di una ulteriore divulgazione, ha fornito alla Terza Sezione l’occasione per ribadire i principi affermati dalle Sezioni Unite n. 51815 del 31/05/2018, M., Rv. 27408701 e Rv. 27408701 in tema di produzione di pedopornografia domestica, e sottoporre a revisione critica quelli già enunciati in relazione al rilievo penale della condotta di diffusione non autorizzata di tale materiale.

2. Le Sezioni Unite in tema di pedopornografia domestica.

Per meglio delineare il contenuto della decisione in rassegna appare utile dare sinteticamente conto di due pronunce delle Sezione Unite che, sia pur facendo leva su argomenti differenti, hanno ridimensionato l’ambito di operatività dell’art. 600-ter cod. pen. nei casi di realizzazione di materiale pedopornografico destinato ad un uso “privato”.

Nella decisione del 31/05/2000, dep. 2000, n. 13, PM., Rv. 216338-01, il Supremo Consesso ha affermato la non configurabilità del reato di cui al comma 1 dell’art. 600-ter cod. pen., nell’ipotesi di fotografie pornografiche di un minore, nudo e con il pene in erezione, realizzate senza fine di lucro ma per ragioni “affettive”, sebbene perverse, o libidinose.

Nella motivazione si specifica che in assenza un concreto pericolo di diffusione, la pornografia domestica non può rientrare nel concetto di “produzione” di cui all’art. 600-ter, pur essendo la relativa detenzione una condotta sanzionabile ai sensi della fattispecie residuale del successivo art. 600-quater cod. pen.

Nella seconda decisione, la n. 51815 del 31/05/2018, Rv. 27408702, le Sezioni Unite, oltre a risolvere negativamente la questione di diritto «se, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 600-ter, primo comma, n. 1), cod. pen., con riferimento alla condotta di produzione di materiale pedopornografico, sia necessario, viste le nuove formulazioni della disposizione introdotte a partire dalla legge 6 febbraio 2006, n. 38, l’accertamento del pericolo di diffusione del suddetto materiale», atteso che la pervasiva influenza delle moderne tecnologie della comunicazione rende tale pericolo in re ipsa, hanno altresì ridimensionato l’ambito di operatività del medesimo articolo e dell’art. 600-quater cod. pen. relativamente alla condotta di chi realizza o detiene materiale pornografico afferente a minori, che abbiano raggiunto l’età del consenso sessuale, nei casi in cui tale materiale sia prodotto e posseduto con il loro consenso e unicamente a uso privato delle persone coinvolte».

In ossequio all’esigenza di evitare “ipercriminalizzazioni” non coerenti con le finalità proprie del diritto penale e con il contenuto delle fonti sovranazionali finalizzate a tutelare il minore dalla piaga della pornografia, le Sezioni Unite si sono soffermate sul concetto cardine di “utilizzazione del minore” di cui agli artt. 600-ter e quater cod. pen. chiarendo che sono incluse in tale nozione le condotte di produzione aventi un carattere abusivo per la posizione di supremazia rivestita dal soggetto agente nei confronti del minore o per modalità con le quali il materiale pornografico viene prodotto (ad esempio, minaccia, violenza, inganno) o per il fine commerciale che sottende la produzione, o per l’età dei minori coinvolti, qualora questa sia inferiore a quella del consenso sessuale.

Di contro, hanno specificato, vanno considerate penalmente irrilevanti le produzioni di immagini o di video pornografici che, valutate le circostanze del caso, siano avvenute in maniera scevra da alcun tipo di condizionamento e siano frutto di una libera scelta, come avviene, quindi, ad esempio, nell’ambito di una relazione paritaria tra minorenni e siano destinate ad un uso strettamente privato, poiché in tal caso dovrà essere esclusa la ricorrenza di quella “utilizzazione” che costituisce il presupposto del reato sopra richiamato.

3. La cessione e divulgazione non autorizzata del materiale pedopornografico autoprodotto destinato ad uso “privato”.

La pronuncia della Terza Sezione si inserisce in questo contesto interpretativo, ma, a differenza delle decisioni delle Sezioni Unite occupatesi di fattispecie di pedopornografia domestica, il c.d. sexting primario, affronta la questione del rilievo penale della diffusione non autorizzata del materiale liberamente prodotto dal minore per utilizzo “domestico”, il c.d. sexting secondario.

Prima di tale decisione, la stessa Terza Sezione, nelle pronunce del 18/02/2016, n. 11675, S. R. e altri, Rv. 26631901 e del 11/04/2017, R., Rv. 27071901, aveva escluso il rilievo penale della condotta di divulgazione sull’assunto che il dato testuale dei commi 2, 3 e 4, dell’art. 600-ter cod. pen. induce a ritenere che le condotte di commercio, distribuzione, divulgazione, diffusione, offerta e cessione, anche a titolo gratuito, del procurarsi o del detenere materiale pedopornografico siano punibili esclusivamente se riferite a materiale pornografico prodotto “utilizzando il minore”. In particolare nella sentenza del 2016 i Giudici di legittimità avevano affermato che il concetto di utilizzazione del minore presuppone che l’autore della condotta sia “soggetto altro e diverso” rispetto al minore da lui utilizzato, indipendentemente dal fine che lo anima e dall’eventuale consenso, del tutto irrilevante, che il minore stesso possa aver prestato all’altrui produzione del materiale o realizzazione degli spettacoli pornografici; alterità e diversità, quindi, non ravvisabile nel caso di materiale realizzato dallo stesso minore in modo autonomo, consapevole, non indotto o costretto, ostando a ciò la lettera e la ratio della disposizione come richiamata, sì che la fattispecie di cui all’art. 600-ter, comma l, cod. pen. non potrà essere configurata per difetto di un elemento costitutivo. Nello sviluppo della motivazione, la Terza Sezione elencava una serie di motivi a supporto di tale interpretazione: letterali, stante il rinvio del secondo, terzo e quarto comma al materiale pornografico prodotto come indicato dal primo comma; sistematici, perché l’art. 602-ter cod. pen., nel disciplinare le circostanze aggravanti relative ai delitti contro la personalità individuale ribadivano e presupponevano la necessaria alterità tra l’autore del reato e la persona offesa; teleologici, perché la ratio che permeava di sé tutto il testo dell’art. 600-ter cod. pen., compreso il quarto comma, presupponeva che la condotta di cessione del materiale pornografico, pur se a titolo gratuito, avesse quale necessario presupposto l’utilizzazione del minore da parte di un terzo. Quanto alla differente formulazione dell’art. 600-quater cod. pen., che sanzionava chiunque consapevolmente si procurava o deteneva materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni diciotto, i giudici di legittimità l’avevano ritenuta “una tipica fattispecie di chiusura”, che non negava l’interpretazione restrittiva e rispondeva ad esigenze di tecnica redazionale, peraltro ex se giustificata dall’applicazione su una norma distinta giacchè un richiamo sintetico al materiale del primo comma dell’art. 600-ter cod. pen. avrebbe rischiato di rendere la norma di difficile lettura. La detenzione o la messa a conoscenza di terzi di materiale pedopornografico prodotto dal minore nell’ambito di un rapporto paritario e per sua libera scelta vennero, pertanto ritenute dalla Terza Sezione condotte non punibili, difettando un elemento costitutivo del reato, e ciò anche qualora le esse siano effettuate contro la volontà del minore stesso. Il principio affermato nel 2016 venne ribadito l’anno successivo nella sentenza n. 34357 del 11/04/2017 citata in cui il Collegio, in un obiter dictum, ha tuttavia evidenziato il vuoto di tutela con riferimento alla repressione del sexting.

4. La pronuncia della Terza Sezione n. 5522 del 21 novembre 2019, dep. 2020.

La Terza Sezione nella decisione n. 5522 del 21 novembre 2019, (Sez. 3 n. 5522 del 21/11/2019, dep. 12/02/2020, G., Rv. 27809102), relativa ad una fattispecie sovrapponibile a quella decisa nel 2017, ha esplicitamente affermato la necessità di un ripensamento dei principi di diritto espressi nelle precedenti decisioni del 2016 e 2017 anche alla luce della di quanto affermato dalle Sezioni Unite n. 51815 del 31/05/2018.

In relazione al caso di specie, l’imputato, dopo essersi impossessato abusivamente di foto autoprodotte di una minorenne fotografando con il proprio cellulare i selfie erotici contenuti nel cellulare della ragazzina, aveva inviato gli scatti ad un amico, la Terza Sezione, ha affrontato il problema di diritto relativo all’interpretazione dell’art. 600-ter, quarto comma, cod. pen., in rapporto all’art. 600-ter, primo comma, cod. pen. chiarendo che la condotta di chi entri abusivamente nella disponibilità di foto pornografiche autoprodotte dal minore e presenti nel suo telefono cellulare, ne effettui la riproduzione fotografica e le offra o le ceda successivamente a terzi senza autorizzazione, integra l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 600-ter, quarto comma, cod. pen. La Corte, dopo un analitico excursus delle modifiche legislative che hanno determinato l’attuale formulazione della disposizione in esame e delle fonti sovranazionali che le hanno determinate, ha affermato che il principio della necessaria alterità tra l’agente autore di una delle varie condotte previste dal comma 1 dell’art. 600-ter cod. pen. ed il minore non è riferibile a tutte le ipotesi contemplate in questo articolo. Se infatti la realizzazione delle esibizioni o degli spettacoli pornografici, la produzione del materiale pornografico, il reclutamento o l’induzione dei minori di anni diciotto a partecipare alle esibizioni o agli spettacoli pornografici richiedono la condotta attiva di un soggetto “altro” dal minore, la terza delle condotte punite nella seconda ipotesi, cioè quella di chi trae profitto dalle esibizioni o dagli spettacoli pornografici, prescinde, a ben vedere, dall’auto o eteroproduzione del materiale pedopornografico, ben potendo tale disposizione riferirsi anche a spettacoli autoprodotti da minore. Non tutta la norma, quindi, secondo la Terza Sezione, è “informata alla nozione di materiale pedopornografico del primo comma inteso nella sua interezza”: nell’interpretazione del significato dei commi 2, 3 e 4, giova ricordare che la loro formulazione risale ad un momento storico in cui nell’art. 600-quater cod. pen. non era stata ancora inclusa la nozione di pornografia minorile, e tale considerazione consente di affermare che il richiamo al materiale di cui al primo comma, non va inteso quale riferimento al risultato dalla condotta delittuosa del comma 1, ovvero al materiale pedopornografico prodotto tramite l’utilizzazione del minore, ma all’oggetto materiale del reato: all’elemento sul quale incide la condotta criminosa e che forma la materia su cui cade l’attività fisica del reo e cioè il materiale pedopornografico in sé. Per i giudici di legittimità non è quindi un caso che la fattispecie prevista dal comma 4 dell’art. 600-ter cod. pen., non contenga più alcun riferimento alla modalità della produzione, auto o etero prodotta, l’omissione trova la sua ratio nella concomitante introduzione nell’ultimo comma dell’art. 600-ter cod. pen. della nozione di pornografia minorile che, di fatto, ha reso privo di funzione il richiamo alla condotta alla “utilizzazione” del minore. Questa interpretazione, osserva la Terza Sezione, è quella maggiormente in linea con le previsioni della Direttiva 2011/92/UE del parlamento e del Consiglio del 13 dicembre 2011, relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, poiché le condotte intenzionali indicate nei paragrafi da 2 a 6 per le quali, ai sensi dell’art. 5, gli stati membri devono adottare le relative misure sanzionatorie, sono riferite al materiale pedopornografico a prescindere dalle modalità della relativa produzione. Risponde, inoltre, anche all’esigenza, già palesata nella relazione di presentazione del disegno di legge della Camera dei deputati n. 4599, prodromico all’adozione della legge n. 38/2006, di evitare lacune nella repressione di tutti i possibili comportamenti dei pedofili, anche potenziali, posto che la disciplina della pornografia minorile è affidata esclusivamente al sistema chiuso degli art. 600-ter e seguenti; le più recenti innovazioni legislative costituite dalla l. 29 maggio 2017, n. 71, recante disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del cyber bullismo e l’art. 10 della l. 19 luglio 2019, n. 69 che ha introdotto il reato dell’art. 612-ter cod. pen. in tema di “revenge porn”, infatti, non recano alcun riferimento specifico alle condotte di diffusione di materiale pedopornografico. La decisione si chiude con l’osservazione che l’interpretazione data in ordine alla configurabilità del reato di cessione o offerta ad altri di materiale pedopornografico non integra nè un’applicazione in malam partem dell’art. 600-ter cod. pen., giacché il riferimento al “primo comma” va letto alla luce dell’inserimento nell’ultimo comma della definizione di materiale pornografico, né un overruling in malam partem, non solo perché l’orientamento opposto ha trovato espressione solo in due sentenze e non potendo, pertanto, ritenersi consolidato, ma anche perché si è trattato di una mera lettura aggiornata della norma.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze dalla Corte di cassazione

Sez. U. del 31/05/2000, dep. 2000, n. 13, PM., Rv. 21633801

Sez. 3 del 18/02/2016, n. 11675, S R e altri, Rv. 26631901 Sez. 3 del 11/04/2017, R., Rv. 27071901

Sez. U. n. 51815 del 31/05/2018, M., Rv. 27408701 e Rv. 27408701 Sez. 3, n. 5522 del 21/11/2019, dep. 2020, G. Rv. 27809102

  • abuso di potere
  • violenza sessuale

CAPITOLO II

L’ABUSO DI AUTORITÀ DI CUI ALL’ART. 609-BIS, COMMA PRIMO, COD. PEN.

(di Maria Cristina Amoroso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa. - 3 Le Sezioni Unite n. 27326 del 16/07/2020, C., Rv. 27952001. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

Nell’anno 2020 le Sezioni Unite sono state chiamate a risolvere la questione di diritto:

«Se, in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità di cui all’art. 609-bis, primo comma, cod. pen. presupponga nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico o, invece, possa riferirsi anche a poteri di supremazia di natura privata di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali».

2. La giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa.

La questione è stata rimessa alle Sezioni Unite dalla Terza Sezione, in ragione del contrasto interpretativo sorto sul significato del concetto di «abuso di autorità» relativo alla violenza sessuale c.d. «costrittiva» di cui all’art. 609-bis cod. pen.

Per un primo orientamento, l’abuso di autorità di cui all’art. 609-bis, comma 1, cod. pen. presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico.

In questi termini si sono pronunciate in via incidentale le Sez. U, n. 13 del 31/05/2000, Pm., Rv. 21633801, valorizzando la sostituzione da parte dell’art. 609-bis, primo comma, cod. pen. degli abrogati artt. 519, primo comma, 520 e 521 cod. pen., ritenendo l’abuso d’autorità coincidente con l’abuso della qualità di pubblico ufficiale già contemplato dall’art. 520 cod. pen.

Alla decisione delle Sezioni Unite si sono conformate Sez. 3, n. 32513 del 19/06/2002, P, Rv. 223101 e Sez. 3, n. 2283 del 26/10/2006, dep. 2007, C.

In quest’ultima decisione, la Corte, dopo aver riproposto le argomentazioni delle Sezioni Unite in tema di successione di leggi, ha osservato che optando per una nozione di abuso inclusiva di poteri di carattere privatistico, verrebbe meno la possibilità di distinguere l’ipotesi di reato contemplata dall’art. 609-bis, primo comma, cod. pen. dall’ipotesi di rapporto sessuale con abuso di potere parentale o tutorio ora previsto dall’art. 609-quater, secondo comma, cod. pen., e che, pertanto, l’unica interpretazione idonea a salvaguardare la coerenza normativa sarebbe quella che attribuisce carattere pubblicistico all’autorità considerata dalla prima delle richiamate disposizioni e carattere privatistico a quella considerata dalla seconda.

Altre successive pronunce, aventi ad oggetto violenze sessuali commesse da soggetti rivestenti la qualifica di pubblico ufficiale, hanno ribadito la natura formale e pubblicistica della posizione autoritativa dell’agente (Sez. 4, n. 6982 del 19/01/2012, M., Rv. 251955; Sez. 3, n. 47869 del 04/10/2012, M., Rv. 253870; Sez. 3, n. 40848 del 18/07/2012, B.; Sez. 3, n. 16107 del 24/03/2015, M., Rv. 263333; Sez. 3, n. 2681 del 11/10/2011, dep. 2012, R., Rv. 251885) e precisato, che l’abuso di autorità consiste nella strumentalizzazione del proprio potere, realizzato attraverso una subordinazione psicologica tale per cui la vittima viene costretta al rapporto sessuale, risolvendosi, pertanto, in una vera e propria costrizione che non può essere desunta, in via meramente presuntiva, sulla base della posizione autoritativa ricoperta dal soggetto agente (Sez. 3, n. 36595 del 22/05/2012, T., Rv. 253389). L’orientamento opposto, invece, propende per un concetto di abuso di autorità più ampio, comprensivo di ogni relazione, anche di natura privata, in cui l’autore del reato riveste una posizione di supremazia della quale si avvale per coartare la volontà della persona offesa.

Soggettivo attivo del reato, in questo senso, può essere chiunque rivesta una posizione di supremazia o autorità anche privata che eserciti una forma di influenza o suggestione sul soggetto passivo al fine di coartarne la volontà o condizionarne il comportamento.

A sostegno di tale interpretazione si evidenzia che anche l’art. 61, n. 11, cod. pen., configura, quale elemento di aggravamento comune situazioni che coinvolgono anche rapporti di diritto privato, riferendosi a chi commette un reato “con abuso di autorità” o “di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni d’ufficio, di prestazione di opera, di coabitazione o di ospitalità”.

Si osserva, inoltre, che quando il legislatore ha inteso riferirsi ad una situazione autoritativa di tipo pubblicistico, l’ha fatto esplicitamente, come nell’ipotesi di cui dell’art. 608 cod. pen., avente ad oggetto l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti.

Espressione di tale orientamento sono le decisioni (Sez. 3, n. 2119 del 3/12/2008, dep. 2009, M.A., Rv. 242306; Sez. 3, n. 19419 del 19/4/2012, I, Rv. 252768; Sez. 3, n. 37135 del 10/4/2013, G., Rv. 256849; Sez. 3, n. 36704 del 27/3/2014, A., Rv. 260172; Sez. 3, n. 49990 del 30/4/2014, G., Rv., 261594; Sez. 3, n. 33042 del 8/3/2016, P.G. in proc. F., Rv. 267453; Sez. 3, n. 33049 del 17/5/2016, B., Rv. 267402).

3. Le Sezioni Unite n. 27326 del 16/07/2020, C., Rv. 27952001.

Le Sezioni Unite n. 27326 del 16/07/2020, C., Rv. 27952001 hanno enunciato il principio di diritto così massimato: «in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità che costituisce, unitamente alla violenza o alla minaccia, una delle modalità di consumazione del reato previsto dall’art. 609-bis cod. pen., presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali». Il nucleo fondante della decisione è costituito dalla individuazione dell’origine della posizione autoritativa rilevante per la configurabilità del reato e del significato concreto della locuzione “abuso di autorità” nel contesto in cui è collocato. In quest’ottica la Corte distingue la violenza sessuale “costrittiva” da quella “induttiva” di cui al primo e secondo comma dell’art. 609-bis cod. pen. evidenziando come nella prima il soggetto passivo ponga in essere o subisca un evento non voluto poiché ne viene annullata o limitata la capacità di azione e di reazione coartandone la capacità di autodeterminazione, a differenza di quanto accade nella seconda in cui l’agente persuade la persona offesa a sottostare ad atti che, diversamente, non avrebbe compiuto, ovvero a subirli, strumentalizzandone la vulnerabilità e riducendola al rango di un mezzo per il soddisfacimento della sessualità. Chiarisce che l’abuso di autorità considerato dal primo comma è solo quello che determina una vera e propria sopraffazione della volontà della persona offesa che si risolve in una costrizione. Chiarito questo punto le Sezioni Unite, affermano che l’interpretazione della norma deve necessariamente tener conto della circostanza che la scelta del legislatore di collocare il delitto di violenza sessuale tra quelli contro la libertà personale è stata chiaramente quella di ampliare, e non di restringere l’ambito di operatività complessivo della fattispecie. Superando il proprio precedente orientamento del 2000, quindi, le Sezioni Unite affermano che l’attuale formulazione della nozione di abuso di autorità dell’art. 609-bis cod. pen. va intesa in una accezione diversa dal mero riferimento alla figura del pubblico ufficiale di cui all’abrogato art. 520 cod. pen., posto che, secondo la lettura della norma offerta dalla coeva giurisprudenza, per la configurabilità del reato non era richiesta la costrizione, bensì il solo nesso occasionale tra la posizione di pubblico ufficiale ed il fatto. La correttezza della soluzione prescelta dalle Sezioni unite viene corroborata dall’argomento di ordine testuale, impiegato dalla giurisprudenza fautrice della accezione meno restrittiva, secondo cui qualora la legge ha inteso riferirsi a soggetti che rivestono una posizione autoritativa formale, lo ha fatto espressamente, come nei casi previsti dagli artt. 608 cod. pen., 61, n. 11 cod. pen., l’abrogato art. 671 cod. pen., l’art. 600-octies, primo comma, cod. pen., che attualmente sanziona condotte analoghe e gli artt. 571, 600 e 601 cod. pen. A tutto quanto osservato la Corte aggiunge, infine, che accedendo alla tesi più restrittiva, la prevaricazione esercitata dall’agente sulla persona offesa sarebbe valutabile in sede penale solo se collocabile nell’ambito della minaccia o dell’abuso delle condizioni di inferiorità psichica, restandone esclusa qualora il compimento dell’atto sessuale con soggetto non consenziente avvenga in assenza dei presupposti caratterizzanti le suddette forme di coartazione o induzione. Esclusa la necessità della natura formale e pubblicistica dell’autorità di cui l’agente abusa nel commettere il reato di cui all’art. 609-bis cod. pen., le Sezioni Unite chiariscono che per autorità «privata» deve intendersi anche una autorità “di fatto”, poiché ciò che rileva è la coartazione della volontà della vittima e la strumentalizzazione della specifica qualità del soggetto agente, quale ne sia l’origine. Per la configurabilità del reato in esame, conclude infine la Corte, «occorre dunque dimostrare non soltanto l’esistenza di un rapporto di autorità tra autore del reato e vittima diverso dalla mera costrizione fisica e dalle richiamate ipotesi di minaccia ed induzione, ma anche che di tale posizione di supremazia l’agente abbia abusato al fine di costringere la persona offesa a compiere o subire un atto sessuale al quale non avrebbe in altro contesto consentito, dovendosi dunque escludere la possibilità di desumere la costruzione in via meramente presuntiva sulla base della posizione autoritativa del soggetto agente. Quanto in precedenza rilevato consente, infine, di ritenere rilevante, per la configurabilità del reato, la valenza coercitiva dell’abuso di autorità tanto nel caso in cui la posizione di preminenza dell’agente sia venuta meno, permanendo tuttavia una condizione di soggezione psicologica derivante dall’autorità da questi già esercitata, quanto in quello di relazione di dipendenza indiretta tra autore e vittima del reato, quando il primo, abusando della sua autorità, concorre con un terzo che compie l’atto sessuale non voluto dalla persona offesa».

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di Cassazione

Sez. 3, n. 32513 del 19/06/2002, P, Rv. 223101

Sez. 3, n. 2283 del 26/10/2006, dep. 2007, C.

Sez. 3, n. 2119 del 3/12/2008, dep. 2009, M.A., Rv. 242306

Sez. 3, n. 2681 del 11/10/2011, dep. 2012, R., Rv. 251885

Sez. 4, n. 6982 del 19/01/2012, M., Rv. 251955

Sez. 3, n. 47869 del 04/10/2012, M., Rv. 253870 Sez. 3, n. 40848 del 18/07/2012, B.

Sez. 3, n. 36595 del 22/05/2012, T., Rv. 253389

Sez. 3, n. 19419 del 19/4/2012, I, Rv. 252768

Sez. 3, n. 37135 del 10/4/2013, G., Rv. 256849

Sez. 3, n. 36704 del 27/3/2014, A., Rv. 260172

Sez. 3, n. 49990 del 30/4/2014, G., Rv., 261594

Sez. 3, n. 16107 del 24/03/2015, M., Rv. 263333

Sez. 3, n. 33042 del 8/3/2016, P.G. in proc. F., Rv. 267453 Sez. 3, n. 33049 del 17/5/2016, B., Rv. 267402

Sez. U. n. 27326 del 16/07/2020, C., Rv. 27952001

  • traffico di stupefacenti
  • circostanza attenuante

CAPITOLO III

L’ATTENUANTE DEL CONSEGUIMENTO DI UN LUCRO DI SPECIALE TENUITÀ E IL REATO DI CESSIONE DI SOSTANZE STUPEFACENTI

(di Maria Cristina Amoroso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La Giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa. - 3 Le Sezioni Unite n. 24990 del 30 gennaio 2020, Dabo Kabiru. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

Nell’anno 2020 le Sezioni Unite sono state chiamate a risolvere la questione di diritto:

«Se la circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. sia applicabile al reato di cessione di sostanze stupefacenti, e, in caso affermativo, se sia compatibile con l’autonoma fattispecie del fatto di lieve entità, prevista dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990».

2. La Giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa.

Con ordinanza n. 42731 del 10/10/2019, la Quarta sezione della Corte di cassazione, rilevando l’esistenza di un contrasto interpretativo in merito alla applicabilità della circostanza attenuante del conseguimento del lucro di speciale tenuità, di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. al reato di cessione di sostanze stupefacenti, e sulla compatibilità di detta attenuante con l’autonoma fattispecie del fatto di lieve entità prevista dall’art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990, ha rimesso la trattazione alle Sezioni Unite.

Per un primo orientamento, la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. non sarebbe applicabile ai reati in tema di stupefacenti, né, tantomeno, sarebbe compatibile con l’ipotesi di spaccio di cui al quinto comma dell’art. 73 del relativo testo unico.

Nelle pronunce che aderiscono a tale orientamento, l’incompatibilità viene sostenuta in base a due argomentazioni.

Da un lato, sulla premessa che a seguito della riforma operata dalla legge 7 febbraio 1990 n. 19, per la configurabilità dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. devono concorrere i due elementi dell’aver agito per conseguire, o l’aver comunque conseguito, un lucro di speciale tenuità e dell’essere l’evento dannoso o pericoloso di speciale tenuità, si sostiene che nei reati in materia di stupefacenti, l’evento non potrebbe essere in alcun caso qualificato in termini di “speciale tenuità”, atteso che le condotte contemplate e sanzionate dal Testo Unico sugli stupefacenti sono lesive dei valori costituzionali attinenti alla salute pubblica, alla salvaguardia del sociale, alla sicurezza dell’ordine pubblico, di fronte ai quali resterebbe del tutto irrilevante la ridotta valenza del lucro conseguito.

Dall’altro, si ritiene che al ricorrere dei due elementi sopra indicati, si verificherebbe sempre una coincidenza con i presupposti fattuali che condizionano il riconoscimento della fattispecie di “lieve entità” di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990, che induce ad escludere la loro compatibilità, poiché, diversamente ragionando, la sovrapposizione determinerebbe una duplice valutazione degli stessi fatti con una indebita duplicazione dei benefici sanzionatori.

Sono espressione di tale orientamento le decisioni: Sez. 3, n. 46447 del 10/10/2017, Mor, Rv. 272078; Sez. 1, n. 36408 del 26/06/2013, Lassad, Rv. 255958; Sez. 6, n. 23821 del 27/02/2013, Orlandi, Rv. 255663; Sez. 6, n. 41758 del 13/10/2009, Ntkaazouzt, Rv. 245019;

Sez. 6, n. 7830 del 30/03/1999, Chanovi, Rv. 214733; ed anche Sez. 3, n. 18013 del 5.2.2019, Loussaief, Rv. 275950, nella quale si è affermato che ai fini della configurabilità della circostanza attenuante prevista dall’art. 62, comma 1, n. 4, cod. pen., non si deve avere riguardo solo al valore venale del corpo del reato ma anche al pregiudizio complessivo ed al disvalore sociale recati con la condotta dell’imputato in termini effettivi e potenziali.

Per l’orientamento opposto, invece, l’attenuante del lucro di speciale tenuità, a seguito dell’ampliamento della sua latitudine applicativa ad opera della legge n. 19 del 1990, non sarebbe più riferibile ai soli reati contro il patrimonio, ma sarebbe applicabile a tutti i delitti determinati da motivi di lucro, senza limitazione alcuna, e quindi anche a quelli in tema di stupefacenti, purché la speciale tenuità riguardi congiuntamente l’entità del lucro (conseguendo o conseguito) e l’evento dannoso o pericoloso verificatosi.

Tale attenuante, secondo questa prospettiva interpretativa, dovrebbe ritenersi applicabile al reato di cessione di sostanze stupefacenti connotato da un ridotto grado di offensività o disvalore sociale, di cui al quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. 309/1990, richiedendo tale previsione, rispetto al “fatto lieve”, l’ulteriore elemento specializzante costituito dall’avere l’agente perseguito un lucro di speciale tenuità, ragione per la quale la sua eventuale applicazione non determinerebbe una duplice valutazione dei medesimi elementi ed una indebita duplicazione dei benefici sanzionatori.

In questi termini si pronunciano Sez. 6, n. 11363 del 31/1/2018, in proc. Ben Mohamed, Rv. 272519; Sez. 6, n. 36868, del 23/6/2017, Taboui, Rv. 270671; Sez. 6, n. 20937 del 18/01/2011, Bagoura, Rv. 250028; Sez. 6, n. 5812 del 24/11/2016, Samateh, Rv. 269032; Sez. 4, n. 5031 del 15/01/2019, Caruso, Rv 275265.

Con decreto del 19 novembre 2019 il Presidente Aggiunto della Corte di cassazione ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite affinchè risolvesse in quesito descritto.

3. Le Sezioni Unite n. 24990 del 30 gennaio 2020, Dabo Kabiru.

Le Sezioni Unite nella decisione Sez. U, n. 24990 del 30/01/2020, Rv. 27949901 e Rv. 27949902, hanno condiviso la soluzione prospettata dall’indirizzo giurisprudenziale più recente, secondo il quale la circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. è applicabile ai reati in materia di stupefacenti in presenza di un evento dannoso o pericoloso connotato anch’esso da speciale tenuità, ed è compatibile con l’autonoma fattispecie del fatto di lieve entità, prevista dall’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990.

L’applicabilità dell’attenuante in esame anche ai reati in materia di stupefacenti ad avviso della Suprema Corte si desume da una pluralità di elementi.

In primo luogo si osserva che la novella del 7 febbraio 1990, n. 19, ha aggiunto alla attenuante della speciale tenuità del danno cagionato alla persona offesa solo ai delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio di cui all’art. 62, n. 4 cod. pen., un’ ulteriore diminuente al ricorrere della duplice condizione che sia il lucro perseguito od effettivamente conseguito dal reo, sia l’evento dannoso o pericoloso siano caratterizzati da speciale tenuità, che, a differenza di quella preesistente, relativa non contiene alcuna selezione di categorie di reati operata in via astratta in relazione al bene giuridico protetto e senza considerare le specifiche caratteristiche del caso concreto.

In proposito nella relazione illustrativa del disegno di legge dal quale è stato originato il descritto intervento normativo si chiariva che esso rispondeva alla finalità di riformulare, per motivi di equità, l’art. 62, n. 4 cod. pen. in modo simmetrico all’art. 61, n. 7 cod. pen., che già prevedeva l’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità non solo per i reati contro il patrimonio, ma anche per quelli determinati da motivi di lucro, e che nel proporre tale allineamento, il Governo segnalava che «peraltro, attribuendosi rilievo ai motivi del reato, non è parso congruo eccepire, come delimitazione oggettiva dell’operatività dell’attenuante, il parametro del danno patrimoniale di speciale tenuità arrecato alla persona offesa, che ne avrebbe contenuto la portata in margini eccessivamente ristretti e generalmente riferibili ai soli delitti che tutelano, esclusivamente o in via cumulativa, il patrimonio», e fosse invece opportuno «prevedere che il danno (o il pericolo) di speciale tenuità che viene in rilievo non è quello patrimoniale bensì quello criminale», sicché, «così delineata, la diminuente viene a costituire un valido elemento a disposizione del giudice per una più equa correlazione della pena alla effettiva lesività della condotta criminosa».

Con riferimento specifico alla compatibilità dell’attenuante in esame con i reati in materia di stupefacenti la Corte esclude che ogni violazione della disciplina penale degli stupefacenti - cagionando la lesione o la messa in pericolo di beni giuridici di primaria importanza e costituzionalmente protetti, quali la salute della persona e la sicurezza pubblica - comporti necessariamente, per sua natura, un evento dannoso o pericoloso, diretto o mediato, di cui sia impossibile la qualificazione in termini di tenuità è, prim’ancora che affermazione indimostrata, un assunto smentito da plurimi indici normativi.

A tal fine rileva che l’esistenza della fattispecie di cui al quinto comma dell’art. 73 d.P.R. 309 del 1990, il quale prevede che una condotta punibile ai sensi dello stesso articolo possa connotarsi quale fatto “di lieve entità” dimostra, al contrario - tanto sulla base della pertinente disciplina giuridica che della quotidiana esperienza giudiziaria - che anche per i delitti in materia di stupefacenti è senz’altro configurabile una lesione o messa in pericolo dei beni giuridici protetti caratterizzata da lieve entità.

A tale considerazione la Corte aggiunge, inoltre, che la circostanza che la fattispecie delittuosa di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990 rientra nei limiti di applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen., indica che il legislatore ha ritenuto la violazione di quel precetto penale suscettibile di produrre un’offesa ai beni giuridici tutelati qualificabile in termini di particolare tenuità, andando essa, in tal caso, esente da pena.

Del resto, si evidenzia, proprio in relazione alla configurabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità dell’offesa le Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266589 hanno chiarito che «non esiste un’offesa tenue o grave in chiave archetipica», ma «è la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore».

Pertanto, non si dà tipologia di reato in cui sia inibita antologicamente l’applicazione dell’istituto di cui al citato art. 131-bis (Sez. U., Tushaj, cit.), ed anzi il legislatore ha espressamente, e significativamente, disposto che tale istituto trova applicazione anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante (art. 131-bis, comma 3, cod. pen.).

Il Supremo Consesso fornisce risposta affermativa anche al secondo quesito oggetto di contrasto, relativo alla compatibilità della circostanza attenuante in esame con l’autonoma fattispecie del fatto di lieve entità prevista dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.

Sul punto le Sezioni Unite condividono l’orientamento giurisprudenziale che ammette la compatibilità dell’attenuante del lucro e dell’offesa di speciale tenuità coll’ipotesi delittuosa del fatto di lieve entità - sull’assunto che la trasformazione dell’attenuante speciale originariamente prevista all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 in ipotesi di reato autonomo, come tale dotata di specifica cornice edittale, fa sì che l’attenuante comune in esame sia ormai destinata ad incidere sull’ordinario trattamento punitivo riservato a quelle condotte, sicché in tal caso non si verifica, come paventato dall’opposto indirizzo interpretativo, alcun cumulo di benefici sanzionatori tra loro concorrenti;

L’accoglimento della opposta tesi, preclusiva dell’applicazione dell’attenuante, comporterebbe, invece, ad avviso dei giudici di legittimità, un rigido limite nella modulazione della pena al fatto storico, e comporterebbe che, anche in presenza di un lucro e di un’offesa di speciale tenuità, l’imputato non possa beneficiare di un eventuale - e specificamente motivato - giudizio di bilanciamento con le aggravanti che fossero state contestate in relazione alla fattispecie di cui al citato art. 73, comma 5, determinando un effetto del tutto contrastante con la ratio dell’operata trasformazione normativa, espressamente volta a dare consistenza ai principi costituzionali di proporzionalità e adeguatezza della pena in materia di stupefacenti, conformando il sistema penale di settore alla multiforme varietà delle relative condotte e del loro effettivo disvalore ed emancipando il giudice, in tale ambito, da rigidi meccanismi di determinazione del trattamento sanzionatorio

Quando all’argomento secondo il quale il riconoscimento dell’attenuante del lucro e dell’offesa di speciale tenuità comporti, in caso di condanna per il delitto di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90, la duplice valutazione del medesimo elemento costituisce del resto assunto smentito dalla diversità dei presupposti necessari per l’integrazione del fatto di lieve entità rispetto a quelli conformativi dell’attenuante comune in esame.

Infatti, mentre la valutazione della “lieve entità” del fatto ai sensi dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 è relativa alla condotta - avuto riguardo ai mezzi, alla modalità e alle circostanze dell’azione - e all’oggetto materiale del reato - in relazione alla qualità e quantità delle sostanze -, la verifica della “speciale tenuità” rilevante per il riconoscimento dell’attenuante di cui alla seconda parte dell’art. 62, n. 4 cod. pen. attiene ai motivi a delinquere (lucro perseguito), al profitto (lucro conseguito) e all’evento (dannoso o pericoloso) del reato.

Si tratta quindi, contrariamente all’asserzione posta a fondamento della tesi restrittiva, di valutazioni focalizzate su elementi tra loro antologicamente distinti, ancorché in astratto suscettibili di convergere nell’accertamento del complessivo disvalore del fatto storico e di diversa natura e diverso grado: la prima, attinente alla “lieve entità del fatto”, è unitaria e complessiva, non scandita da un ordine gerarchico degli elementi allo scopo rilevanti, per ciascuno dei quali è possibile un giudizio di parziale o totale compensazione (così, da ultimo, con riferimento alla nuova fattispecie autonoma di reato, Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076); la seconda, relativa alla “speciale tenuità” del lucro e dell’offesa, indica due temi specifici e parametro di maggiore intensità e pregnanza rispetto a quello rilevante per l’integrazione della fattispecie “lieve”.

Sicché, anche sotto questo profilo, trova conferma l’indirizzo interpretativo secondo cui l’attenuante «richiede per la sua applicazione l’esistenza di un elemento ulteriore rispetto alla tenuità dell’offesa (comune alle due norme considerate) e come tale specializzante rispetto al “fatto lieve” di cui all’art. 73, comma 5.

Elemento consistente nell’essere il delitto determinato da motivi di lucro e nell’avere l’agente perseguito, o effettivamente conseguito, un lucro di speciale tenuità».

Esclusa l’incompatibilità logica e normativa tra la fattispecie di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 e l’attenuante del lucro/offesa di speciale tenuità, nella parte finale della motivazione, le Sezioni Unite concludono affermando che «il riconoscimento di tale attenuante nel caso concreto resta tuttavia affidato ad una puntuale ed esaustiva verifica, della quale il giudice di merito deve offrire adeguata giustificazione, che dia consistenza sia all’entità del lucro perseguito o effettivamente conseguito dall’agente, che alla gravità dell’evento dannoso o pericoloso prodotto dalla condotta considerata. Dovendosi tale ultimo elemento riferire alla nozione di evento in senso giuridico, esso è infatti idoneo a comprendere qualsiasi offesa penalmente rilevante, purché essa, come concretamente accertata, si riveli di tale particolare modestia da risultare “proporzionata” alla tenuità del vantaggio patrimoniale che l’autore del fatto si proponeva di conseguire o ha in effetti conseguito».

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di Cassazione

Sez. 6, n. 7830 del 30/03/1999, Chanovi, Rv. 214733

Sez. 6, n. 41758 del 13/10/2009, Ntkaazouzt, Rv. 245019

Sez. 6, n. 20937 del 18/01/2011, Bagoura, Rv. 250028

Sez. 1, n. 36408 del 26/06/2013, Lassad, Rv. 255958

Sez. 6, n. 23821 del 27/02/2013, Orlandi, Rv. 255663

Sez. 6, n. 5812 del 24/11/2016, Samateh, Rv. 269032 Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266589 Sez. 3, n. 46447 del 10/10/2017, Mor, Rv. 272078

Sez. 6, n. 36868, del 23/6/2017, Taboui, Rv. 270671

Sez. 6, n. 11363 del 31/1/2018, Mohamed, Rv. 272519 Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076 Sez. 3, n. 18013 del 5/2/2019, Loussaief, Rv. 275950

Sez. 4, n. 5031 del 15/01/2019, Caruso, Rv 275265

Sez. U. n. 24990 del 30/01/2020, Rv. 27949901 e Rv. 27949902

SEZIONE IV LEGISLAZIONE COMPLEMENTARE

  • traffico di stupefacenti
  • stupefacente

CAPITOLO I

COLTIVAZIONE DI PIANTE DA STUPEFACENTI E PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ

(di Stefania Riccio )

Sommario

1 L’ ordinanza di rimessione (Sez. 3, n. 35346, 11/06/2019). - 2 Le Sezioni Unite “Di Salvia”: i termini della questione. - 3 Gli indirizzi giurisprudenziali richiamati nell’ordinanza di rimessione. - 3.1 Il primo indirizzo: l’idoneità della coltivazione a produrre sostanza per il consumo. - 3.2 Le sentenze relative al ciclo di maturazione delle piantumazioni. - 3.3 L’ulteriore indirizzo: l’incremento della provvista di stupefacente e l’idoneità ad alimentare il mercato. - 4 La soluzione delle Sezioni Unite “Caruso”. - Indice delle sentenze citate.

1. L’ ordinanza di rimessione (Sez. 3, n. 35346, 11/06/2019).

Con sentenza n. 12348, resa all’udienza del 19 dicembre 2019 (dep. il 16 aprile 2020), ric. Caruso, le Sezioni Unite hanno affermato i principi di diritto massimati dall’Ufficio nei seguenti termini:

- “Non integra il reato di coltivazione di stupefacenti, per mancanza di tipicità, una condotta di coltivazione che, in assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale, denoti un nesso di immediatezza oggettiva con la destinazione esclusiva all’uso personale, in quanto svolta in forma domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui ricavare un modestissimo quantitativo di prodotto.” (Rv. 278624 - 01);

- “Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo estraibile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza ad effetto stupefacente.” (Rv. 278624 - 02).

La pronuncia trae impulso dall’ordinanza dell’11 giugno 2019, con cui la terza Sezione, registrando contrasti interpretativi nella giurisprudenza di legittimità, aveva posto il seguente quesito:

“Se, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, è sufficiente che la pianta, conforme al tipo botanico previsto, sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo, non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l’attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato.”

La questione attiene al tema della offensività del reato di coltivazione non autorizzata di stupefacenti, ritenendo la Sezione rimettente che dovesse dirimersi l’alternativa tra una opzione secondo la quale, posta la conformità delle piante al tipo botanico vietato, sarebbe stato sufficiente accertare, anche in relazione al grado di maturazione ed alle caratteristiche della coltivazione, la mera attitudine della stessa a produrre sostanza stupefacente o psicotropa per il consumo (e ciò in vista dell’obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della detta sostanza), ed altra, per cui la verifica dell’offensività avrebbe richiesto l’ulteriore accertamento sulla idoneità delle colture a ledere la salute, intesa come bene collettivo, mediante l’implementazione della provvista di droghe, suscettiva di alimentare il mercato.

2. Le Sezioni Unite “Di Salvia”: i termini della questione.

Le diverse prospettazioni trovano premessa nella pronuncia delle Sez. U. n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, di cui - per i profili che riguardano la definizione della condotta tipica di coltivazione - la pronuncia odierna rovescia l’assetto ricostruttivo.

Con essa furono definite due essenziali coordinate ermeneutiche nel 2008, così riportate nelle massime:

“Costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale (Conforme, Sez. U. 24 aprile 2008, Valletta). (Vedi Corte cost. n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996).” (Rv. 239920) “Ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l’offensività della condotta ovvero l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile. (Conf., Sez. U. 24 aprile 2008, Valletta). (Vedi Corte cost. n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996)” (Rv. 239921).

In sostanza, tale arresto da un lato escluse che la coltivazione potesse essere sottratta all’area della repressione penale, quale che sia la finalità di impiego del prodotto; dall’altro, pose l’accento sulla necessità di apprezzare, ai fini della punibilità, l’offensività in concreto della condotta, da intendersi quale idoneità delle piantumazioni a produrre un “effetto drogante rilevabile”.

Il percorso motivazionale della decisione si fonda:

- su un argomento testuale, atteso che, anche dopo le modifiche introdotte dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, l’attività di coltivazione non risulta essere richiamata dall’art. 73, comma 1-bis del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, né tra quelle sanzionate solo in ambito amministrativo dal successivo art. 75, comma 1; così come non trova riscontro nel dato normativo la distinzione tra coltivazione “tecnico-agraria” e coltivazione “domestica”, da taluni sostenuta per affermare che quest’ultima sia piuttosto assimilabile alla nozione di detenzione, la quale è penalmente irrilevante se finalizzata all’autoconsumo;

- su un argomento di carattere naturalistico, posto che coltivazione e detenzione si distinguono sul piano ontologico, nonché per essere la prima, quand’anche intrapresa con l’intento di soddisfare esigenze di consumo minime, suscettibile di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti. Di qui la deduzione, sul piano giuridico, della intrinseca maggiore pericolosità della coltivazione, che la Consulta aveva già evidenziato (sentenze n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996), affermando, per un verso, che tra coltivazione e consumo personale - a differenza che tra detenzione e consumo personale - difetta una relazione di immediatezza, così che restano puramente congetturali le valutazioni in merito alla destinazione della droga ad uso personale esclusivo del coltivatore, piuttosto che alla cessione a terzi; per altro verso che, non essendo stimabile a priori, con sufficiente grado di precisione, la potenzialità produttiva di una piantagione, essa ha in sé il rischio di incrementare il fenomeno degenerativo ed antisociale delle tossicomanie.

La scelta legislativa di anticipare la tutela penale, coerente con questa potenzialità diffusiva della coltivazione, deve tuttavia trovare temperamento - secondo quanto affermato dalla Consulta con riferimento a tutti i reati di pericolo presunto - in una lettura costituzionalmente orientata.

Nel dettaglio, le Sezioni Unite dell’epoca aderirono alla linea ricostruttiva - poi seguita anche dalle Sezioni Unite Caruso - per cui il principio di offensività (nullum crimen sine iniuria) ha una duplice valenza, operando: a) sul piano astratto della previsione normativa, in quanto precetto rivolto al legislatore, tenuto a strutturare fattispecie di reato che esprimano un contenuto di offesa, anche consistente nella mera esposizione a pericolo, di un bene-interesse tutelato; b) sul piano concreto dell’applicazione giurisprudenziale, come criterio interpretativo affidato al giudice, il quale, nella verifica della riconducibilità del fatto al paradigma punitivo, dovrà evitare che vi ricadano comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (offensività “in concreto”). (Corte Cost. n. 265 del 2005 e, in senso conforme, nn. 360 del 1995, n. 263 del 2000, n. 519 del 2000, n. 354 del 2002; da ultimo n. 109 del 2016). In particolare, la condotta di coltivazione fu ritenuta dalla Corte inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico, quando la sostanza estraibile non fosse idonea a produrre un “effetto stupefacente in concreto rilevabile” (id est. ad alterare l’attività neuropsichica del consumatore), essendo invece irrilevante, al riguardo, il grado di offesa.

Chiaro che, spostato il focus sulla dimensione dell’offensività, andasse perimetrata l’oggettività giuridica della fattispecie incriminatrice, con l’individuazione dei beni-interessi che essa presidia: beni che la Corte riconobbe nella salute collettiva, ma anche nei valori della sicurezza, dell’ordine pubblico e della salvaguardia delle giovani generazioni, rispetto ai quali l’implementazione della provvista di droga costituisce, comunque, una causa di turbativa (in continuità con quanto già affermato da Sez. U., n. 9973 del 21/9/1998, Kremi, Rv. 211073).

3. Gli indirizzi giurisprudenziali richiamati nell’ordinanza di rimessione.

3.1. Il primo indirizzo: l’idoneità della coltivazione a produrre sostanza per il consumo.

La coeva Sez. 4, n. 1222 del 28/10/2008, Nicoletti, Rv. 242371, identificò l’offensività dell’illecito di coltivazione nella capacità della sostanza di determinare un effetto drogante, ossia di produrre alterazioni di natura psicofisica nell’assuntore, precisando tuttavia che tale idoneità dovesse essere “attuale” all’atto dell’accertamento (Sez. 4 n. 4324 del 27/10/2015, Mele, Rv. 265976), non potendo desumersi, sulla base di un giudizio di tipo prognostico, dalle caratteristiche delle colture e dalla loro presumibile resa. La pronuncia prospettò, altresì, una ricostruzione del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice più riduttivo rispetto alla sentenza Di Salvia, individuandolo nella salute (dei consumatori attuali e potenziali), con fondamento negli artt. 2 e 32 Cost., in dissonanza dalla più risalente sentenza Kremi - e quindi della stessa sentenza Di Salvia, che ne aveva recepito l’impianto - sull’assunto che, affiancando alla salute altri beni-interessi strumentali alla sua tutela e proiettando l’attitudine offensiva della condotta su tali interessi cd. serventi, capaci di apprestare una tutela mediata al bene costituzionalmente protetto, quali la lotta al mercato della droga o la tutela degli adolescenti, o su valori, quali la sicurezza e l’ordine pubblico, scolora il senso stesso dell’offensività.

Nella stessa linea di pensiero si è posta, più di recente, Sez. 6, n. 2618 del 21/10/2015, Marongiu, Rv. 265640; per la quale, se il pericolo per la salute degli assuntori è essenzialmente collegato a condotte seriali con effetti cumulativi, e ciò giustifica la previsione di un reato di pericolo presunto, nondimeno resta ineludibile la verifica della quantità di principio attivo ritraibile nell’immediato, che deve resistere al canone dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

3.2. Le sentenze relative al ciclo di maturazione delle piantumazioni.

La giurisprudenza dell’ultimo quinquennio si è polarizzata, dunque, quanto all’accertamento dell’offensività, intorno a due distinti indirizzi interpretativi, pur gemmati dal comune presupposto che la pianta da cui siano estraibili sostanze stupefacenti risulti conforme al tipo botanico vietato.

Secondo il primo degli orientamenti richiamati nell’ordinanza di remissione, la verifica va slegata dal momento della scoperta delle colture da parte dalla polizia giudiziaria.

Le sentenze che ne sono espressione si fondano sul presupposto logico-argomentativo che il “coltivare” sia attività che si riferisce all’intero ciclo evolutivo dell’organismo biologico e che l’offensività della coltivazione in corso non possa ritenersi esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, a condizione che quanto è in essere sia prevedibilmente in grado di rendere, all’esito di un fisiologico processo di sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti; sicchè, quel che va valutato, ai detti fini, sono le modalità della coltivazione e, specialmente, l’assenza di fattori ostativi al completamento di tale processo ( Sez. 6, n. 25057 del 10/05/2016, Iaffaldano, Rv. 266974; Sez. 4, n. 53337 del 23/11/2016, Trabanelli, Rv. 268695; Sez. 6, n. 52547 del 22/11/2016, Losi, Rv. 268938 - 01; Sez. 6, n. 35654 del 28/04/2017, Nerini, Rv. 270544; Sez. 6, n. 10169 del 10/02/2016, Tamburini, Rv. 266513; Sez. 4, n. 27213 del 21/05/2019, Bongi, Rv. 275877). Il momento dell’accertamento, dunque, non può che essere ininfluente rispetto alla verifica dell’offensività (in tal senso già Sez. 3, n. 21120 del 31/01/2013, Colamartino, Rv. 255427).

3.3. L’ulteriore indirizzo: l’incremento della provvista di stupefacente e l’idoneità ad alimentare il mercato.

Altro indirizzo declina invece il concetto di offensività in termini più rigorosi, restringendo sensibilmente l’area applicativa dell’illecito penale.

Comune matrice delle decisioni ascrivibili a questo ambito è che non sia sufficiente considerare il solo quantitativo di principio attivo, dovendosi altresì valutare se dalla coltivazione, così come strutturata, possa derivare o meno una produzione che valga ad incrementare il mercato; sicchè le produzioni definite trascurabili, sebbene produttive di principio attivo, dovrebbero refluire nella categoria del reato impossibile, ex art. 49 cod. pen. (Sez. 3, n. 23082 del 09/05/2013, De Vita, Rv. 256174; Sez. 6, n. 33835 del 08/04/2014, Piredda, Rv. 260170; Sez. 6, n. 8058 del 17/02/2016, Pasta, Rv. 266168; Sez. 4, n. 3787 del 19/01/2016, Festi, Rv. 265740; Sez. 3, n. 36037 del 22/02/2017).

In questo scenario, il principio di offensività, quale canone anzitutto rivolto al legislatore, in funzione selettiva di ciò che è meritevole di tutela penale e di ciò che non lo è, costituisce un principio di grande interesse, anche dogmatico; interesse rilanciato dal continuo incremento delle fattispecie incriminatrici.

Come già chiarito dall’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale, si tratta di un principio che, sebbene non espressamente codificato, è radicato nel tessuto connettivo degli artt. 25, 13, e 27 Cost.:

- nell’art. 25, comma 2, il quale richiama il “fatto commesso”, sintagma evocativo non di una condotta meramente disobbediente rispetto ad un precetto dato, ma di un evento offensivo;

- nell’art. 13 Cost., il quale, nell’affermare l’inviolabilità della libertà personale, ne consente la privazione soltanto in relazione a condotte connotate da apprezzabile offesa a beni di rango costituzionale;

- negli artt. 25, comma 3, e 27 Cost. i quali, da un lato, nel definire un sistema a doppio binario basato sull’alternativa pene/misure di sicurezza, presuppongono, quanto alle prime, un’offesa al bene giuridico protetto, la cui mancanza finirebbe col trasformarle in misure anch’esse di tipo preventivo, con indebite interferenze di piani; dall’altro postulano, a preservare la finalità rieducativa della pena stessa, l’esistenza di un fatto che presenti un nucleo di offesa.

Nel codice penale, il principio, che integra quello di materialità del fatto, pare invece recepito dall’art. 49, il quale, piuttosto che rappresentare una pleonastica ripetizione del successivo art. 56, che esprime “in negativo” i requisiti richiesti per la punibilità del tentativo, costituisce un cardine ermenutico, proiezione della concezione cd. “realistica” del reato.

Postulato di tale concezione è che possa esservi uno scarto tra tipicità ed offensività, nel senso che fatti apparentemente conformi al tipo possono essere inidonei a ledere l’oggetto della tutela (benchè, ad evitare frizioni tra principio di offensività e principio di riserva di legge, il ricorso alla categoria del reato impossibile debba essere tendenzialmente circoscritto a casi-limite).

Ad un’area concettuale affine si ascrive la teoria che guarda alla ratio dell’incriminazione. Anche questo indirizzo sottrae all’area della punibilità i c.d. fatti inoffensivi, ma aderenti al tipo: casi in cui la sfasatura tra tipicità ed offesa non è conseguenza di un’imperfetta formulazione tecnico-legislativa della fattispecie, bensì della tensione tra astrattezza normativa e concretezza fattuale.

Base normativa dell’interpretazione secondo la ratio, o teleologica, della fattispecie incriminatrice, incentrata sugli obiettivi di tutela perseguiti, è l’art. 12 delle preleggi, che impone di tener conto dell’intentio legis.

4. La soluzione delle Sezioni Unite “Caruso”.

La sentenza Caruso si snoda su questo sostrato concettuale e, rilevando che il quesito sottoposto dalla Sezione rimettente era inteso a sollecitare la definizione di paradigmi ricostruttivi da valere specialmente in relazione alla coltivazione “domestica”, ossia di entità modesta, risolve i diversi nuclei problematici inerenti al tema.

Posta la premessa di metodo che debbano tenersi distinti i piani della tipicità e dell’offensività (dovendo poi tenersi conto, nell’ambito di quest’ultima categoria, dell’ulteriore partizione tra offensività in astratto ed offensività in concreto), le Sezioni Unite recuperano la direttrice tracciata dalla Corte costituzionale (sentenza n. 360 del 1995) e ridefiniscono la nozione giuridica di coltivazione.

Ai fini detti, rieditano la dicotomia tra “coltivazione tecnico-agraria” e “coltivazione domestica”.

In consapevole dissonanza con la sentenza Di Salvia, che aveva negato tale alterità, rinvengono nella normativa vigente elementi significativi di una nozione di coltivazione, nell’accezione di pratica tecnico-agraria di dimensioni apprezzabili, a connotazione commerciale; si tratta dei riferimenti contenuti nell’art. 27 del d.P.R. n. 309 del 1990 alle “particelle catastali” e alla “superficie del terreno sulla quale sarà effettuata la coltivazione”, nonché, nei successivi artt. 28, 29 e 30, alle modalità di vigilanza, raccolta e produzione delle “coltivazioni autorizzate” ed alle eccedenze di produzione “sulle quantità consentite”. Parimenti, le Sezioni Unite ritengono di non poter condividere l’assunto della sentenza Di Salvia per cui l’attività di coltivazione sarebbe sempre penalmente rilevante, in quanto suscettibile - a differenza della detenzione - di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti.

Al contrario, tanto non può dirsi per le coltivazioni di dimensioni minime destinate all’autoconsumo. Per conseguire risultati interpretativi dotati di sufficiente certezza, è tuttavia necessario che il nesso di immediatezza tra coltivazione e destinazione ad esclusivo uso personale del coltivatore sia oggettivo ed ancorato ad indici sintomatici - necessariamente tutti compresenti - quali, oltre al minimo elemento dimensionale della coltivazione, che deve comprendere uno scarso numero di piante, dalle quali siano ricavabili modestissime quantità di sostanza, lo svolgersi dell’attività in forma domestica e non industriale, ma anche le rudimentali tecniche utilizzate. Devono inoltre mancare indici significativi di inserimento dell’attività nel circuito del mercato illegale.

Dunque, non si tratta di assimilare la coltivazione domestica alla detenzione e al regime giuridico di quest’ultima, ma di comprendere che un’attività colturale, così caratterizzata, non rientra nel concetto legale di coltivazione.

Quanto al riferimento alla sicurezza e all’ordine pubblico - evocati nelle sentenze Kremi e Di Salvia quali oggetto della tutela - lo stesso appare alle Sezioni Unite odierne superfluo, trattandosi di valori declinabili in termini del tutto generici con riguardo alla condotta di coltivazione. Ed ancora, risulta priva di autonomia semantica la locuzione “salvaguardia delle giovani generazioni” che, a scongiurare impropri sconfinamenti nel terreno dell’etica, non può che essere riferita alla salute dei più giovani.

Il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice va, dunque, circoscritto alla salute, individuale e collettiva, che trova un solido ancoraggio costituzionale nell’art. 32; e proprio la pregnanza di tale valore, qualificato nella Carta costituzionale come diritto soggettivo, rende legittimo il ricorso allo schema del reato di pericolo presunto, sia pure con il necessario temperamento di una puntuale verifica dell’offensività in concreto delle condotte. Risolvendo le disarmonie tra gli orientamenti sin qui richiamati, la Corte ritiene che la suddetta verifica vada diversificata, a seconda del grado di sviluppo che la coltivazione presenta al momento dell’accertamento della sua esistenza.

Stante l’ampiezza della dizione legislativa di coltivazione, riferibile all’intero ciclo di vita dei vegetali - dalla semina al raccolto - dovrà prescindersi dal quantitativo di principio attivo estraibile nell’immediatezza, essendo necessario compiere, qualora il processo di maturazione non sia esaurito, un giudizio di tipo predittivo, e valutare se le caratteristiche delle colture ne lascino prefigurare il positivo sviluppo.

Schematizzando, ciò significa che potranno rilevare, al fine di escludere la punibilità: a) un’attuale inadeguata modalità di coltivazione, da cui possa evincersi che la pianta, una volta matura, non sarà in grado di realizzare sostanza drogante; b) un risultato finale della coltivazione non conforme al tipo botanico, ovvero contenente un titolo di principio attivo troppo povero per la destinazione all’uso come droga.

La soluzione offerta ripristina l’autonomia concettuale tra coltivazione e detenzione e soddisfa l’esigenza logica, ancor prima che di politica criminale, di evitare che la punibilità del reato dipenda dal dato, puramente contingente, rappresentato dal momento in cui l’accertamento interviene (il che potrebbe condurre a negare la rilevanza penale di coltivazioni industriali, anche di larghe dimensioni e potenzialmente molto produttive, per il solo fatto che ne sia stata disvelata l’esistenza in uno stadio arretrato di sviluppo). A contrariis, viene disattesa l’impostazione per la quale, intanto la condotta potrebbe ritenersi offensiva, in quanto il principio attivo ritraibile dalla coltivazione sia quantitativamente idoneo ad implementare la droga circolante nel mercato, ovvero in un segmento locale di esso, atteso che un mercato clandestino non potrebbe offrire dati certi e verificabili, sicchè il parametro per l’accertamento della lesività risulterebbe connotato da non minore vaghezza, con aumento del tasso di imprevedibilità delle decisioni giudiziarie. Si è evidenziato, infine, come l’operata sistemazione sia in armonia con la Decisione Quadro del Consiglio n. 2004/757/GAI (riguardante la fissazione di norme minime in tema di repressione penale delle condotte aventi ad oggetto sostanze stupefacenti), la quale se, per un verso, esclude dalla propria sfera applicativa le condotte (coltivazione compresa) proiettate verso il consumo personale (art. 2, paragrafo 2), per altro verso, pone agli Stati membri il vincolo a punire le condotte di coltivazione e di distribuzione di precursori anche se non si sia ancora prodotta sostanza di qualità adeguata, così anticipandosi la punizione ad uno stadio iniziale dell’attività (argomenta ex art. 3). Da ultimo, la valorizzazione di un concetto giuridico di coltivazione, diverso da quello naturalistico, permette una soddisfacente graduazione della risposta punitiva anche in materia di detenzione. Se, difatti, il regime di sanzioni amministrative di cui all’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990 troverà applicazione in presenza di detenzione di sostanza stupefacente esclusivamente destinata al consumo personale, (anche se) ottenuta attraverso una coltivazione domestica penalmente lecita, la detenzione di quanto prodotto da una coltivazione penalmente rilevante resterà assorbita nella coltivazione, essendo qualificabile come post factum non punibile, siccome ordinario e coerente sviluppo di tale condotta. In tali casi, alla coltivazione penalmente illecita restano tuttavia applicabili la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., e, in via gradata, l’ipotesi di reato tenue di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, qualora sussistano i rispettivi presupposti applicativi.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze dalla Corte di cassazione

Sez. U., n. 9973 del 21/9/1998, Kremi, Rv. 211073 Sez. U n. 47472 del 29/11/2007, Di Rocco, Rv. 237856

Sez. U., n. 28605 del 24/04/2008, Rv. 239920 - Rv. 239921

Sez. 4, n. 1222 del 28/10/2008, Nicoletti, Rv. 242371

Sez. 4, n. 25674 del 17/02/2011, Marino, Rv. 250721 Sez. U. n. 47604 del 18/10/2012, Bargelli, Rv. 253552

Sez. 3, n. 21120 del 31/01/2013, Colamartino, Rv. 255427

Sez. 6, n. 22459 del 15/03/2013, Cangemi, Rv. 255732

Sez. 4, n. 43184 del 29/10/2013, Carioti, Rv. 258095

Sez. 6, n. 6753 del 09/01/2014, M., Rv. 258998

Sez. 6, n. 33835 del 08/04/2014, Piredda, Rv. 260170

Sez. 6, n. 2618 del 21/10/2015, Marongiu, Rv. 265640

Sez. 4, n. 44136 del 27/10/2015, Cinus, Rv. 264910

Sez. 4, n. 4324 del 27/10/2015, Mele, Rv. 265976

Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015, Pezzato, Rv. 265641

Sez. 4, n. 3787 del 19/01/2016, Festi, Rv. 265740

Sez. 6, n. 10169 del 10/02/2016, Tamburini, Rv. 266513

Sez. 6, n. 8058 del 17/02/2016, Pasta, Rv. 266168

Sez. 6, n. 25057 del 10/05/2016, Iaffaldano, Rv. 266974

Sez. 3, n. 36037 del 22/02/2017, Compagnini, Rv. 271805

Sez. 3, n. 23881 del 23/02/2016, Damioli, Rv. 267382

Sez. 6, n. 52547 del 22/11/2016, Losi, Rv. 268938

Sez. 53337 del 23/11/2016, Trabanelli, Rv. 268695 Sez. 6, n. 35654 del 28/04/2017, Nerini, Rv. 270544

Sez. 4, n. 30238 del 10/05/2017, Tontini, Rv. 270191

Sez. 4, n. 1766 del 16/10/2018, Rv. 275071

Sez. 4, n. 27213 del 21/05/2019, Bongi, Rv. 275877

Sez. U., n. 30475 del 30/05/2019, Castignani, Rv. 275956 Sez. 3, n. 35436 del 11/06/2019, Caruso

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CAPITOLO II

QUESTIONI IN TEMA DI CIRCOLAZIONE STRADALE

Sommario

1 L’onere della prova del funzionamento dell’etilometro - 2 Il termine per far valere, nel giudizio di opposizione a decreto penale di condanna, la nullità derivante dall’omesso avviso al conducente della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia nell’esame alcolemico. - Indice delle sentenze citate.

1. L’onere della prova del funzionamento dell’etilometro

In tema di guida in stato di ebbrezza nell’anno in rassegna si è andato consolidando un recente orientamento della giurisprudenza di legittimità che - sulla scia dell’insegnamento offerto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 113 del 2015 in tema di autovelox, e dell’applicazione operatane dalla Corte di cassazione civile, nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa per guida in stato di ebbrezza, in tema di onere della prova dell’omologazione e delle verifiche periodiche dell’etilometro - ha mutato il precedente orientamento in base al quale, a fronte dell’esito positivo dell’alcoltest, l’onere di provare il malfunzionamento dell’apparecchio veniva ritenuto essere carico dell’imputato.

Secondo il tradizionale orientamento, in via di superamento, infatti, ai fini dell’afferma- zione di responsabilità per il reato di guida in stato di ebbrezza, l’esito positivo dell’alcoltest è idoneo a costituire prova dello stato di ebbrezza, gravando sull’imputato l’onere di fornire eventualmente la prova contraria a tale accertamento, dimostrando vizi od errori di stru- mentazione o di metodo nell’esecuzione dell’aspirazione, non essendo sufficiente la mera allegazione della sussistenza di difetti o della mancata omologazione dell’apparecchio (Sez. 4, n. 17463 del 24/03/2011, Neri, Rv. 250324; Sez. 4, n. 42084 del 04/10/2011, Salamone, Rv. 251117; Sez. 4, n. 28887 del 11/06/2019, Cardinali, Rv. 276570).

Era stato, altresì chiarito che l’art. 379 Reg. esec. cod. strada si limita ad indicare le veri- fiche alle quali gli etilometri devono essere sottoposti per poter essere adoperati ed omolo- gati, ma non prevede alcun divieto la cui violazione determini l’inutilizzabilità delle prove acquisite (Sez. 4, n. 17463 del 24/03/2011, Neri, Rv. 250324; Sez. 4, n. 23526 del 14/05/2008, Bennardo, Rv. 240846).

Secondo il diverso orientamento, registratosi nella giurisprudenza della Corte a partire dal 2019, e da allora andatosi progressivamente consolidando, ai fini della prova dello stato di ebbrezza, allorquando l’alcoltest risulti positivo, costituisce onere del pubblico ministero fornire la prova del regolare funzionamento dell’etilometro, della sua omologazione e della sua sottoposizione a revisione; tuttavia il pubblico ministero è onerato di tale prova soltanto nel caso di contestazione da parte dell’imputato del buon funzionamento dell’apparecchio. Tale orientamento (anticipato da Sez. 4, n. 17494 del 29/03/2019, Scalera, e Sez. 4, n. 25132 del 21/02/2019, Picardi, entrambe non massimate e pronunciate in fattispecie in cui il pubblico ministero aveva dato la prova dell’omologazione e della revisione periodica dell’apparecchio di misurazione) è stato inaugurato da Sez. 4, n. 38618 del 06/06/2019, Bertossi, Rv. 277189, così massimata: «In tema di guida in stato di ebbrezza, allorquando l’alcoltest risulti positivo costituisce onere del pubblico ministero fornire la prova del rego- lare funzionamento dell’etilometro, della sua omologazione e della sua sottoposizione a revisione».

Tale pronuncia prende le mosse dalla sentenza n. 113 del 2015 con cui la Corte costitu- zionale ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 45, comma 6, d. lgs. 30 aprile 1992, n. 285, nella parte in cui non prevedeva che tutte le apparecchiature impiegate nell’accerta- mento delle violazioni dei limiti di velocità (c.d. autovelox) fossero sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura.

Viene evidenziato che il giudice delle leggi ha ritenuto la citata disposizione in contrasto col principio di razionalità, intesa sia nel senso di razionalità pratica, ovvero di ragione- volezza, essendo evidente che qualsiasi strumento di misura è soggetto a variazioni delle sue caratteristiche e quindi a variazioni dei valori misurati dovute ad invecchiamento delle proprie componenti e ad altri eventi; sia nel senso di razionalità formale o coerenza interna della norma, in ragione del fatto che l’uso di tali apparecchiature è strettamente collegato al valore probatorio delle loro risultanze nei procedimenti sanzionatori inerenti alle trasgres- sioni dei limiti di velocità.

Secondo la Consulta l’affidabilità dell’omologazione e la taratura di detti apparecchi, e il consequenziale obbligo per gli agenti preposti all’accertamento di attestare apposita- mente che le relative attività preventive siano state regolarmente compiute, giustifica, in considerazione delle esigenze di tutela della sicurezza stradale, che le risultanze degli stessi costituiscano fonte di prova della violazione, senza che l’inerente onere probatorio (pres- soché diabolico) di dimostrare il cattivo funzionamento dell’apparecchiatura possa gravare sull’automobilista, dando luogo ad una presunzione (quasi assoluta) in danno dello stesso. La Corte, nella citata sentenza “Bertossi”, prende, quindi, in esame l’applicazione, ope- rata dalla Corte di cassazione civile, dei principi affermati dalla Corte costituzionale in tema di autovelox al caso dell’etilometro, affermando che «In tema di violazione al codice della strada, il verbale dell’accertamento effettuato mediante etilometro deve contenere, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata, l’attestazione della verifica che l’appa- recchio da adoperare per l’esecuzione del cd. “alcooltest” è stato preventivamente sottoposto alla prescritta ed aggiornata omologazione ed alla indispensabile corretta calibratura; l’o- nere della prova del completo espletamento di tali attività strumentali grava, nel giudizio di opposizione, sulla P.A. poiché concerne il fatto costitutivo della pretesa sanzionatoria» (Sez. 6, ord. n. 1921 del 24/01/2019, Rv. 652384).

Quindi, sulla scia dell’insegnamento della Corte costituzionale, per come recepito dalla giurisprudenza civile, la Corte, nella sentenza “Bertossi”, ritiene di modificare il tradizio- nale orientamento fino ad allora seguito, e afferma che, in tema di guida in stato ebbrezza, allorquando l’alcoltest risulti positivo, grava sulla pubblica accusa l’onere della prova del regolare funzionamento dell’etilometro, della sua omologazione e della sua sottoposizione a revisione, mentre l’onere della prova dell’imputato di dimostrare il contrario può sorgere solo in conseguenza del reale ed effettivo accertamento da parte del pubblico ministero del regolare funzionamento e dell’espletamento delle dovute verifiche dell’etilometro.

A conforto del mutamento di indirizzo la Corte stigmatizza la difficoltà della prova, di cui fino ad allora era stato onerato l’imputato, del malfunzionamento dell’etilometro, anche in considerazione della disponibilità dell’apparecchio in capo alla pubblica amministrazione, nonché l’irragionevole distonia tra i settori civile, amministrativo e penale, ove l’onere della prova del funzionamento dell’etilometro fosse diversamente distribuito, e, inoltre, l’irraziona- lità che ne conseguirebbe, potendo una medesima fattispecie costituire solo illecito penale e non illecito amministrativo, in contrasto col principio di sussidiarietà del diritto penale.

Il nuovo principio affermato viene, inoltre, ritenuto conforme a quello di carattere generale secondo cui l’accusa deve provare i fatti costitutivi del fatto reato, mentre spetta all’imputato dimostrare quelli estintivi o modificativi di una determinata situazione, rilevanti per il diritto.

Il tema è stato, successivamente, sviluppato da Sez. 4, 12/12/2019 - dep. 2020-, n. 3201, Santini, Rv.278032 che - tramite un più approfondito esame della giurisprudenza civile in tema di opposizione alla sanzione amministrativa per guida in stato di ebbrezza - ha introdotto la distinzione, nota al sistema processuale civile, tra onere della prova e onere di allegazione, richiamando il principio per cui nel processo civile l’onere della prova dei fatti costitutivi della pretesa azionata opera in caso di contestazione degli stessi ad opera della controparte.

Chiarito che secondo la giurisprudenza civile, sebbene sia posto a carico dell’ammini- strazione l’onere di provare i fatti costitutivi della fattispecie produttiva dell’effetto sanzio- natorio, «nondimeno sull’opponente grava necessariamente un (prioritario) onere di alle- gazione volto a contestare la sussistenza di tali fatti costitutivi», con la sentenza Santini la Corte ritiene che «anche nel caso del giudizio penale per guida in stato d’ebbrezza ex art. 186, comma 2, Cod. Strada nell’ambito del quale assuma rilievo la misurazione del livello di alcool nel sangue mediante etilometro, all’attribuzione dell’onere della prova in capo all’accusa circa l’omologazione e l’esecuzione delle verifiche periodiche sull’apparecchio utilizzato per l’alcoltest, debba fare riscontro un onere di allegazione da parte del soggetto accusato, avente ad oggetto la contestazione del buon funzionamento dell’apparecchio».

Si segnala che il precedente orientamento non risulta, invece, superato riguardo all’onere della prova, a carico dell’imputato, di elementi diversi dall’omologazione e dalle verifiche periodiche dell’etilometro, che possono inficiare la validità dei risultati dell’alcoltest, quali l’assunzione di farmaci (Sez. 4, n. 8165 del 13/02/2020, Calabrò, Rv. 278969; Sez. 4, n. 15187 del 08/04/2015, Bregoli, Rv. 263154; Sez. 4, n. 45070 del 30/03/2004, Gervasoni, Rv. 230489). Parimenti non risulta superato il principio, costantemente affermato dalla Corte, secondo cui il mero intervallo temporale intercorrente tra la condotta di guida e il momento dell’ac- certamento non costituisce elemento sufficiente a privare di valenza dimostrativa l’esito positivo dell’alcooltest (Sez. 4, n. 50973 del 05/07/2017, Denicolò, Rv. 271532; Sez. 4, n. 40722 del 09/09/2015, Chinello, Rv. 264716; Sez. 4, n. 24206 del 04/03/2015, Mongiardo, Rv. 263725; Sez. 4, n. 13999 del 11/03/2014, Pittiani, Rv. 259694; Sez. 4, n. 21991 del 28/11/2012 - dep. 2013-, Ghio, Rv. 256191) sebbene, anche recentemente, la Corte abbia puntualizzato che il decorso di un intervallo temporale di alcune ore tra la condotta di guida incriminata e l’esecuzione del test alcolemico rende necessario, verificare, ai fini della prova dello stato di ebbrezza al momento della guida o della sussunzione del fatto in una delle due ipotesi di cui all’art. 186, comma secondo, lett. b) e c) cod. strada, la presenza di altri elementi indi- ziari (Sez. 4, n. 47298 del 11/11/2014, Ciminari, Rv. 261573; Sez. 4, n. 42004 del 19/09/2019, Milutinovic Dusan, Rv. 277689).

2. Il termine per far valere, nel giudizio di opposizione a decreto penale di condanna, la nullità derivante dall’omesso avviso al conducente della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia nell’esame alcolemico.

In tema di guida in stato di ebbrezza, nell’anno in rassegna sembra essersi consolidato, nella giurisprudenza della Corte, il nuovo orientamento secondo cui, nel giudizio di oppo- sizione a decreto penale di condanna, il termine entro cui può essere eccepita la nullità, di ordine generale, derivante dall’omesso avviso, al conducente da sottoporre all’esame alcolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, va individuato nella deliberazione della sentenza di primo grado, e non nella presentazione dell’atto di opposi- zione al decreto stesso, come ritenuto da un precedente orientamento della Corte.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, pacifica fino al 2019, il momento entro il quale eccepire la nullità in questione, nel giudizio di opposizione a decreto penale di condanna, era da individuarsi nella presentazione dell’atto di opposizione a decreto penale, in base al combinato disposto di cui agli artt. 178, lett. c), 180 e 182, comma 2, cod. proc. pen.

A sostegno di tale tesi veniva richiamato un passaggio della motivazione di Sez. U, n. 5396 del 29/01/2015, Bianchi, Rv. 263023, che, pur avendo affermato il principio di diritto per cui «la nullità conseguente al mancato avvertimento al conducente di un veicolo, da sottoporre all’esame alcoolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, in viola- zione dell’art. 114 disp. att. cod. proc. pen., può essere tempestivamente dedotta, a norma del combinato disposto degli artt. 180 e 182, comma secondo, secondo periodo, cod. proc. pen., fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado», avevano, altresì, affer- mato che «l’atto di opposizione al decreto penale … equivale alla sentenza di primo grado, cui si riferisce come termine ultimo l’art. 180 cod. proc. pen., richiamato, come detto, dall’art. 182, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen.» (Sez. 4, n. 40809 del 04/07/2019, Viotto, Rv. 277622; Sez. 4, n. 58379 del 12/12/2018, Perin, Rv. 274953; Sez. 4, n. 7686 del 16/01/2018, Favaro, Rv. 272465; Sez. 4, n. 22608 del 04/04/2017, Orlandini, Rv. 270161).

Nell’ambito di tale orientamento era stato, altresì, individuato nell’adozione del decreto penale di condanna il momento ultimo per il rilievo d’ufficio della nullità in questione, giu- stificandosi la discrasia temporale tra il rilievo d’ufficio e l’eccezione di parte in considera- zione del contraddittorio eventuale e differito che caratterizza il procedimento per decreto, e trattandosi di discrasia solo apparente, in quanto in entrambi i casi rileva il momento di acquisita conoscenza degli atti (Sez. 4, n. 58379 del 12/12/2018, Perin, Rv. 274953).

A partire dal 2019, tuttavia, tale interpretazione sembra essere stata abbandonata dalla giu- risprudenza della Corte che - in base a una lettura più aderente alla lettera dell’art. 180 cod. proc. pen. - ha statuito che, in caso di procedimento per decreto, il momento ultimo, entro il quale la nullità di ordine generale in esame può essere dedotta dalla parte, va individuato nella deliberazione della sentenza di primo grado, e non nella presentazione dell’atto di opposizione al decreto stesso, in quanto le norme sulla nullità sono di stretta interpretazione, e l’art. 180 non contiene alcun riferimento al decreto penale di condanna e al relativo atto di opposizione (Sez. 4, n. 33795 del 17/05/2019, Venditto, Rv. 276675; Sez. 4, n. 52085 del 10/12/2019, Soffiato, Rv. 277511; Sez. 4, n. 8862 del 19/02/2020, Zanni, Rv. 278676).

La diversa interpretazione è ampiamente motivata da Sez. 4, n. 33795 del 17/05/2019, Venditto, Rv. 276675 e, dopo il deposito della motivazione di tale sentenza, si sono registrati nella giurisprudenza della Corte solo pronunce ad essa conformi, che, peraltro, si limitano a richiamarne il principio di diritto, senza aggiungere ulteriori argomentazioni a sostegno. Il precedente, diverso, orientamento, è stato ritenuto frutto di una lettura che ha dato eccessiva importanza (e che ha interpretato in termini ingiustificatamente restrittivi) un pas- saggio della motivazione della sentenza delle citate Sezioni unite Bianchi, da considerarsi un obiter dictum.

Secondo l’interpretazione adottata dal più recente orientamento della Corte - che fa leva sul principio di diritto enunciato dalla medesima pronuncia delle Sezioni unite, secondo cui il termine ultimo entro cui dedurre la nullità in questione, è da individuarsi nella deli- berazione della sentenza di primo grado - il passaggio motivazionale finale di tale sentenza delle Sezioni unite si limiterebbe a stabilire, in relazione al caso concreto oggetto di quello specifico procedimento, che la nullità dedotta dal difensore con l’atto di opposizione a decreto penale era stata dedotta tempestivamente, non potendosi da esso dedurre il diverso principio di diritto che l’eccezione di nullità sarebbe stata intempestiva se proposta succes- sivamente all’atto di opposizione ma comunque prima della deliberazione della sentenza d primo grado, essendo del tutto incompatibile e inconciliabile con il principio enunciato nella stessa sentenza in punto di deducibilità della nullità entro la sentenza di primo grado.

A sostegno del nuovo orientamento, viene altresì rilevato: che la disciplina sulle nullità è costituita da norme di stretta interpretazione: con riferi- mento ai termini di deducibilità delle nullità, tali norme prevedono delle precise scansioni temporali legate a specifici atti processuali, la cui elencazione deve considerarsi tassativa, e non contiene alcun riferimento al decreto penale di condanna o al relativo atto di oppo- sizione, per cui non vi è spazio per equiparare il decreto penale di condanna o la relativa opposizione con la sentenza di primo grado ai fini della corretta interpretazione dell’art. 180 cod. proc. pen., con riguardo alla tempestività di una eccezione di nullità generale a regime intermedio;

che il codice di rito non prevede termini diversi di deducibilità delle nullità per i processi conseguenti a opposizione a decreto penale, rispetto a quelli ordinariamente derivanti da citazione diretta a giudizio ex artt. 550 ss. cod. proc. pen.;

la profonda diversità di struttura e funzione tra l’opposizione a decreto penale - che costituisce un atto di impugnazione sui generis, che dà ingresso al contraddittorio pro- cessuale sulla regiudicanda per il quale non è richiesta alcuna motivazione in ordine alle ragioni dell’impugnazione, dovendo l’opponente solo limitarsi ad indicare gli estremi del decreto penale opposto ed eventualmente specificare il rito prescelto - e la deliberazione della sentenza di primo grado che è, invece, l’atto con il quale il giudice definisce il giudizio davanti a sé, decidendo sulla regiudicanda;

l’opinabilità dell’equiparazione fra decreto penale (opposto) e sentenza di primo grado (che ha un senso solo per quanto attiene alle specifiche statuizioni decisorie contenute nel decreto penale non opposto e divenuto esecutivo) ai fini dell’individuazione del momento ultimo entro cui dedurre la nullità, propugnata dal precedente orientamento, perché implica che l’eccezione di nullità non potrebbe mai essere formulata dopo l’emissione del decreto penale, e renderebbe, di fatto, impossibile dedurre tempestivamente qualsiasi nullità, posto che nel procedimento per decreto l’imputato è reso edotto della condanna solo a seguito della notifica del decreto.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 4, n. 45070 del 30/03/2004, Gervasoni, Rv. 230489

Sez. 4, n. 23526 del 14/05/2008, Bennardo, Rv. 240846

Sez. 4, n. 17463 del 24/03/2011, Neri, Rv. 250324

Sez. 4, n. 42084 del 04/10/2011, Salamone, Rv. 251117

Sez. 4, n. 21991 del 28/11/2012 - dep. 2013 -, Ghio, Rv. 256191

Sez. 4, n. 13999 del 11/03/2014, Pittiani, Rv. 259694

Sez. 4, n. 47298 del 11/11/2014, Ciminari, Rv. 261573 Sez. U, n. 5396 del 29/01/2015, Bianchi, Rv. 263023 Sez. 4, n. 24206 del 04/03/2015, Mongiardo, Rv. 263725

Sez. 4, n. 15187 del 08/04/2015, Bregoli, Rv. 263154

Sez. 4, n. 22608 del 04/04/2017, Orlandini, Rv. 270161

Sez. 4, n. 40722 del 09/09/2015, Chinello, Rv. 264716

Sez. 4, n. 50973 del 05/07/2017, Denicolò, Rv. 271532

Sez. 4, n. 7686 del 16/01/2018, Favaro, Rv. 272465

Sez. 4, n. 58379 del 12/12/2018, Perin, Rv. 274953 Sez. 4, n. 25132 del 21/02/2019, Picardi

Sez. 4, n. 17494 del 29/03/2019, Scalera

Sez. 4, n. 28887 del 11/06/2019, Cardinali, Rv. 276570

Sez. 4, n. 33795 del 17/05/2019, Venditto, Rv. 276675

Sez. 4, n. 40809 del 04/07/2019, Viotto, Rv. 277622

Sez. 4, n. 42004 del 19/09/2019, Milutinovic Dusan, Rv. 277689 Sez. 4, n. 52085 del 10/12/2019, Soffiato, Rv. 277511

Sez. 4, 12/12/2019 - dep. 2020-, n. 3201, Santini, Rv.278032

Sez. 4, n. 8165 del 13/02/2020, Calabrò, Rv. 278969

Sez. 4, n. 8862 del 19/02/2020, Zanni, Rv. 278676 Sez. 6 civ., ord. n. 1921 del 24/01/2019, Rv. 652384

  • procedura penale
  • amministratore
  • fallimento

CAPITOLO III

IL PUNTO DELLA GIURISPRUDENZA DI CASSAZIONE IN TEMA DI REATI FALLIMENTARI

(di Anna Mauro )

Sommario

1 Premessa. - 2 Amministratore formale e amministratore di fatto: gli elementi indicatori per individuare tale ultima figura. - 3 Responsabilità per il reato di bancarotta in capo ai sindaci. - 4 Bancarotta documentale. - 5 Bancarotta “riparata”. - 6 Pagamenti preferenziali con scopo di salvataggio. - 7 Profili processuali. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

L’esame delle sentenze del 2020 pronunziate dalla Corte di cassazione in materia fallimentare evidenzia, innanzitutto, il gran numero di pronunzie. Tale dato è significativo e lascia presumere che nel prossimo futuro, avuto riguardo alle grosse difficoltà economiche attraversate dalle imprese in un anno particolare, qual è stato il 2020, tristemente segnato dall’emergenza Covid, molte e in numero crescente saranno le questioni che, in tema di reati fallimentari, interesseranno il lavoro della Corte. La stessa Procura generale presso la Corte di cassazione, proprio considerando che nel 2020 la solidità delle imprese italiane è stata messa a dura prova, ha avvertito l’esigenza di avviare una riflessione, tra l’altro, sull’insolvenza dell’imprenditore e sui meccanismi, non solo penali, atti ad affrontarne i molti riflessi. Di qui l’importanza di tracciare il percorso, tendenzialmente completo, compiuto in materia dalla giurisprudenza della Quinta Sezione, a cui è assegnata per competenza tabellare la trattazione dei reati fallimentari, evidenziando le questioni nuove o più rilevanti affrontate nel 2020, avendo anche riguardo alle esigenze sostanziali sottese alle decisioni e ciò non solo per sottolineare che la specificità del giudizio di cassazione si realizza proprio mediante un “faticoso percorso dialettico del quale fatto e diritto sono fondamentali componenti”, ma anche in considerazione della ragionevole previsione che nel prossimo futuro le insolvenze aumenteranno - tanto da indurre taluni a parlare di “pandemia dei fallimenti” - nonostante il tentativo legislativo di frenarne la crescita e di non spegnere le speranze di una ricrescita.

2. Amministratore formale e amministratore di fatto: gli elementi indicatori per individuare tale ultima figura.

La giurisprudenza della Corte è costante nell’affermare che nessun dubbio, in via astratta, sussiste sulla possibilità di ritenere l’amministratore di fatto responsabile del reato di bancarotta in quanto la norma incriminatrice non si riferisce solo alla persona formalmente investita dalla carica, ma anche a colui che gestisce realmente il patrimonio sociale compiendo l’attività propria degli amministratori.

Sulla scia di quanto affermato in modo pressoché costante negli scorsi anni, Sez. 5, n. 27264 del 10/7/2020, Fontani, Rv. 279597-01 e così, in motivazione, anche Sez. 5, n. 33114, dell’8/10 2020, Martinenghi, Rv. 279838-01 hanno ritenuto, quindi, che i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 legge fall. vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, senza rapportarsi alle mere qualifiche formali ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta. Nella sentenza n. 27264/2020, in motivazione, si è precisato che per la ricostruzione del profilo di amministratore di fatto deve necessariamente aversi riguardo a precisi e specifici indicatori, facendo riferimento alle attività in concreto espletate riconducibili, sulla base delle massime di esperienza, ad indici sintomatici quali la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria, la generalizzata identificazione nelle funzioni amministrative da parte dei dipendenti e dei terzi, l’intervento nella declinazione delle strategie di impresa e nelle frasi nevralgiche dell’ente economico. La Corte, quindi, ha sottolineato quanto siano differenti i tratti distintivi delle due figure di amministratore formale e di amministratore di fatto in ambito penalistico e in quello civilistico. Ed invero, mentre in ambito civilistico la qualifica di amministratore di fatto non implica l’esercizio di tutti i poteri propri dell’amministratore di una società essendo richiesto “lo svolgimento di un’apprezzabile attività di gestione in termini non occasionali o episodici”, ciò che rileva invece in sede penale, ai fini della possibile incriminazione, è la funzione di “regia” nell’amministrazione dell’ente, ossia la diretta partecipazione dell’amministratore di fatto nella declinazione delle fasi nevralgiche dell’impresa e nelle strategie economiche di questa in violazione del complesso dei doveri posti a presidio dell’interesse dei creditori, dei terzi e del mercato. La Corte ha poi precisato che la presenza di un amministratore di diritto e l’esercizio da parte di questi dei poteri suoi propri non esclude la possibile presenza della figura di un co-amministratore di fatto, così come è possibile (e ciò si è verificato nella fattispecie sottoposta al vaglio della Corte nella sentenza da ultimo menzionata) che sussistano due co-amministratori di fatto, i quali, in posizione assolutamente paritetica tra loro o con l’amministratore formale, cogestiscano de facto la società.

Per altro verso, Sez. 5, n. 32413 del 24/9/2020, Loda, Rv. 279831-01, ha ritenuto, conformemente a quanto già affermato in precedenza (Sez. 5, n. 50348 del 22/10/2014, Serpetti, Rv. 263225-01), che, in caso di concorso ex art. 40, comma secondo, cod. pen., dell’amministratore formale nel reato commesso dall’amministratore di fatto, è sufficiente per integrare il dolo del primo, in forma diretta o eventuale, la generica consapevolezza, pur non riferita ai singoli episodi delittuosi, delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell’amministratore di fatto e ciò anche se l’amministratore di diritto abbia accettato la carica al solo fine di fare da prestanome. Viceversa, come affermato da Sez. 5, n. 4710 del 14/10/2019, dep. 2020, Falcioni, Rv. 278156-01, nel caso di concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, il dolo del concorrente extraneus nel reato proprio dell’amministratore consiste nella volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell’intraneus, con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori, ma non è richiesta la specifica conoscenza del dissesto della società che può rilevare sul piano probatorio, quale indice significativo della rappresentazione della pericolosità della condotta per gli interessi del ceto creditorio. A tale affermazione, che trova il conforto nella prevalente e precedente giurisprudenza della Corte, consegue che qualunque atto distrattivo assume rilievo ai sensi dell’art. 216 l. fall. nel caso di fallimento, indipendentemente dalla rappresentazione di quest’ultimo e ciò in quanto il fallimento non costituisce (come ormai pacificamente ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità) l’evento del reato che deve, invece, individuarsi nella lesione dell’interesse patrimoniale dei creditori. Giova a questo proposito rammentare quanto affermato dalla Quinta Sezione con le sentenze n. 15652 del 10/2/2020, Cagali, e n. 18524 del 2/3/2020, Gentile che, in conformità a quanto in precedenza ritenuto dalla Corte, hanno ribadito che il concetto di dissesto, rilevante in ambito penale fallimentare, deve essere inteso “non tanto come una condizione di generico disordine dell’attività della società, quanto una situazione di squilibrio economico patrimoniale progressivo ed ingravescente che, se non fronteggiata con opportuni provvedimenti o con la presa d’atto dell’impossibilità di proseguire l’attività, può comportare l’aggravamento inarrestabile della situazione debitoria, con conseguente incremento del danno che l’inevitabile e non evitata, insolvenza finisce per procurare alla massa dei creditori”(Sez. 5, 25/5/2011, n. 32899, Mapelli, Rv. 250934-01). Il reato in questione, dunque, sussiste anche nell’ipotesi in cui la condotta abbia soltanto aggravato una situazione di difficoltà già esistente in quanto il dissesto non si esprime istantaneamente, ma progredisce e dura nel tempo, tanto da essere suscettibile di misurazione (Sez. 5, 4/3/2010, n. 16259, Chini, Rv. 247254-01) e la situazione rilevante è il dissesto come effettivamente concretizzatosi al momento della formale apertura della procedura concorsuale, essendo, dunque, ininfluente che, al momento della consumazione della condotta e della produzione dei suoi effetti, fosse già in atto una difficile condizione economica dell’impresa sulla quale la condotta ha inciso solo aggravandola.

L’amministratore di fatto, in base alla disciplina dettata dall’art. 2639 cod. civ., è gravato di tutti i doveri che fanno capo all’amministratore formale. Sez. 5, n. 36870 del 21/12/2020, Marelli ha, conseguentemente, affermato, in motivazione, che egli, pur non essendo legittimato a presentare istanza di fallimento per la società amministrata di fatto, risponde in ogni caso del reato di cui agli artt. 224 e 217, comma primo, l. fall. ove non si attivi perché detta istanza venga presentata dal pubblico ministero, anch’egli legittimato ai sensi dell’art. 6 l. fall. Da ultimo, con riferimento alle operazioni infragruppo, Sez. 5, n. 36865 del 21/12/2020, Cimatti, ha affermato che è configurabile la qualifica di amministratore di fatto in capo all’amministratore formale di una società capogruppo ove questi eserciti i relativi poteri di direzione e coordinamento delle società controllate – che gli competono quale amministratore della holding – ingerendosi, però, di fatto nella gestione delle stesse e riducendo, così, gli amministratori di queste ultime a meri esecutori delle sue direttive. Tale affermazione trova fondamento nel rilievo che la formale esistenza di un gruppo, con conseguente assetto giuridico predisposto per una direzione unitaria, e l’amministrazione di fatto di singole società del gruppo stesso non sono situazioni di per sé incompatibili, in quanto mentre la titolarità formale dei poteri di direzione in capo all’amministratore di una holding corrisponde ad una situazione di diritto nella quale la controllante svolge l’attività di direzione delle società controllate nel rispetto della relativa autonomia e delle regole che presiedono al suo funzionamento, la titolarità di fatto, invece, corrisponde ad una situazione concreta in cui i poteri di amministrazione sono esercitati direttamente da chi sia privo di una qualsivoglia investitura, ancorché irregolare o implicita. Ed invero, la titolarità della carica di amministratore formale di una società controllante di un gruppo e l’esercizio dei relativi poteri di direzione e coordinamento delle altre società implica senza alcun dubbio l’esercizio dei poteri relativi all’attività di direzione unitaria e coordinamento delle società controllate come prevista dall’art. 2497 cod. civ.; ciò non toglie che l’amministratore della holding, ignorando di fatto l’autonomia delle società controllate e riducendo i relativi amministratori a meri esecutori dei suoi ordini, si comporti come se ne fosse l’amministratore, pur utilizzando, formalmente, gli strumenti propri della direzione unitaria, quali le direttive. Egli quindi, risponderà delle condotte relative all’amministrazione delle società controllate.

3. Responsabilità per il reato di bancarotta in capo ai sindaci.

Ai sensi della vigente disciplina normativa, il collegio sindacale è tipico organo di controllo, tenuto a vigilare sull’amministrazione della società, con il compito sia di garantire, a tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello concorrente dei creditori sociali, l’osservanza della legge ed il rispetto dell’atto costitutivo sia di accertare che la contabilità sia tenuta in modo regolare (così, ex multis, Sez. 5, n. 26399 del 05/03/2014, Zandano, Rv. 260215; Sez. 5, n. 15360 del 05/02/2010, Rv. 246956). L’obbligo di vigilanza si sostanzia non solo nel mero controllo contabile, ma deve estendersi, ai sensi dell’art. 2403-bis cod. civ., anche al contenuto della gestione e, pertanto, il controllo sindacale, anche se non investe in forma diretta le scelte imprenditoriali, non si risolve neppure in una mera verifica contabile limitata alla documentazione messa a disposizione dagli amministratori, ma comprende anche un minimo riscontro tra la realtà effettiva e la sua rappresentazione contabile (Sez. 5, n. 14045 del 22/03/2016, De Cuppis e altri, Rv. 266646). Avuto riguardo a tali compiti, la Quinta Sezione, con la pronunzia n. 28848 del 21/9/2020, D’Alessandro, Rv. 279599-01, ha affermato che, in tema di bancarotta semplice, i sindaci di una società dichiarata fallita, titolari, come si è detto, di un potere di controllo e non di attivazione diretta, rispondono del reato di cui agli artt. 217, comma primo, n. 4, e 224 l. fall., per aver omesso di attivarsi per rimediare all’inerzia dell’amministratore che non abbia chiesto il fallimento in proprio della società, così aggravandone il dissesto, solo quando la situazione di insolvenza sia rilevabile dagli atti posti a loro disposizione. Il giudice di merito dovrà, dunque, verificare, mediante un giudizio controfattuale, se, qualora fossero state poste in essere le attività di impulso e controllo omesse, si sarebbe comunque realizzato l’aggravamento del dissesto.

Sempre in tema di responsabilità dei componenti del collegio sindacale, Sez. 5, n. 11936 del 5/2/2020, De Lisa, Rv. 278985 ha escluso, nel caso di bancarotta per distrazione, la responsabilità dei componenti del collegio sindacale di una società diversa dalla fallita, nel reato proprio, ex art. 40, comma secondo, cod. pen., poiché essa è invocabile solo con riferimento all’obbligo di controllo dell’operato degli amministratori della società presso cui operano e non può invece estendersi ad atti di bancarotta compiuti da amministratori di società terze, in relazione ai quali possono concorrere solo attraverso una condotta attiva. Tale principio, del resto, (cfr. sul punto, Sez. 5, n. 7556 del 28/11/2012, dep. 2013, Accorinti, Rv. 254653-01) opera anche con riferimento all’amministratore di una società diversa da quella fallita la cui responsabilità è configurabile solo con riferimento alla società amministrata e non può estendersi agli atti compiuti da amministratori di società terze tranne nel caso in cui, egli concorra, quale extraneus, nel reato commesso dall’altro amministratore mediante una partecipazione attiva.

4. Bancarotta documentale.

In punto di bancarotta documentale la Corte è tornata a pronunziarsi più volte. Deve, in primis, sottolinearsi, come da ultimo ribadito da Sez. 5, n. 16968 del 16/12/2019, dep. 2020, Sorge, che costituisce principio pacifico nella giurisprudenza della sezione, quello secondo cui il reato di bancarotta fraudolenta documentale non può avere ad oggetto il bilancio, non rientrando quest’ultimo nelle nozioni di “libri” e “scritture contabili” previste dalla norma ex all’art. 216, comma primo, n. 2, l. fall. e che eventuali omissioni nei bilanci, sussistendone i presupposti, possono integrare solo la fattispecie di bancarotta impropria da reato societario. Sez. 5, n. 14689 del 21/2/2020, Conti, Rv. 279151 – dopo aver precisato che soggetto attivo del delitto di bancarotta fraudolenta documentale, anche nel caso di nomina di un amministratore giudiziario a seguito di sequestro finalizzato alla confisca di prevenzione delle quote e dell’azienda di una società, è sempre l’amministratore di questa, in quanto il sequestro non comporta la modificazione del contratto di società o la sostituzione degli organi della persona giuridica e l’amministratore giudiziario riveste, ai sensi dell’art. 35, comma 5, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, il ruolo di mero custode dei beni sequestrati e non di legale rappresentante o nuovo amministratore della società oggetto di sequestro – ha ribadito che la distinzione tra bancarotta semplice e bancarotta fraudolenta documentale è da ritrovarsi nell’elemento soggettivo in quanto, mentre a norma dell’art. 217, comma secondo, l. fall. (che integra l’ipotesi di bancarotta semplice), l’elemento psicologico può indifferentemente essere costituito dal dolo o dalla colpa riscontrabili quando l’agente ometta, con coscienza e volontà o per semplice negligenza, di tenere le scritture contabili, nell’ipotesi di cui all’art. 216, comma primo, n. 2, l. fall. (bancarotta fraudolenta documentale), è sufficiente il dolo generico, costituito dalla coscienza e volontà dell’irregolare tenuta delle scritture, con la consapevolezza che ciò renda impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio dell’imprenditore (così, da ultimo, Sez. 5, n. 27566 del 21/9/2020, Del Gaudio).

Nel caso di tenuta della contabilità mediante il sistema informatico e di perdita della disponibilità del computer, Sez. 5, n. 12724 del 12/12/2019, dep. 2020, Conticello, Rv. 279019-01 ha ravvisato la prima delle due fattispecie criminose nell’ipotesi di mancata conservazione o del programma di lettura del supporto sul quale vengono conservate le scritture o della copia cartacea delle stesse, in quanto la possibilità di tenuta della contabilità mediante sistema informatico, prevista dall’art. 7, comma 4-ter, l. n. 489 del 1994, non determina il venir meno dell’obbligo dell’imprenditore di conservazione dei libri e delle scritture e, quindi, dell’obbligo del puntuale aggiornamento dell’esercizio corrente, della veridicità delle singole attestazioni dei libri contabili, nonché della loro conservazione, ma semplicemente comporta la necessità di modificarne le modalità di conservazione. Si configura invece il reato di bancarotta fraudolenta documentale quando il dolo si atteggi in concreto quale volontà del soggetto agente di omettere la tenuta della contabilità interna allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, impedendo la ricostruzione dei fatti gestionali (così, Sez. 5, n. 18320 del 7/11/2019, dep. 2020, Morace, Rv. 279179-01) o rendendola anche solo molto difficoltosa così come quando la ricostruzione possa essere attuata diversamente presso terzi, ad esempio, attraverso l’esame di documentazione bancaria (Sez. 5, n. 21028 del 21/2/2020, Capasso, Rv. 279346-01) o quando gli accertamenti, da parte degli organi fallimentari, siano stati ostacolati da difficoltà superabili solo con particolare diligenza (così in motivazione, Sez. 5, n. 36011 del 9/10/2020, D’Ambrosio). Ed invero, pur autorizzando il legislatore la tenuta della contabilità mediante il sistema informatico, il predetto elemento soggettivo è integrato dalla consapevolezza nell’agente che la confusa tenuta della contabilità possa rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio e del volume d’affari non essendo necessaria la specifica volontà di impedire la ricostruzione e tantomeno di arrecare pregiudizio ai creditori. Da ultimo, con la sentenza n. 33114 dell’8/10/2020, Martinenghi, Rv. 279838-01, sempre la Quinta Sezione, in linea con l’orientamento prevalente, ha precisato che l’occultamento delle scritture contabili, anche sotto la forma dell’omessa tenuta, sostanziandosi nella “fisica” sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari, costituisce una fattispecie autonoma ed alternativa rispetto alla tenuta fraudolenta di tali scritture che presuppone un accertamento sui libri e scritture rinvenuti.

Si configurerà bancarotta semplice nel caso in cui, verificatasi in un’accomandita semplice una causa di scioglimento ex art. 2323 cod. civ. senza che, nel termine di sei mesi, venga ricostruita la pluralità dei soci, l’amministratore o il legale rappresentante non abbiano tenuto le scritture contabili o le abbiano tenute in modo irregolare. In tale ipotesi, infatti, come affermato da Sez.5, n. 3221 del 19/9/2019, dep. 2020, Cristofaro, Rv. 278303-01, la società non si è estinta occorrendo a tal fine provvedere prima all’estinzione dei debiti e, quindi, permane ogni obbligo, ivi compreso quello di curare la tenuta dei libri e delle scritture.

L’impossibilità o meno di ricostruire totalmente o parzialmente la situazione contabile dell’impresa fallita e di esercitare le azioni revocatorie o altre azioni a tutela dei creditori deve valutarsi, unitamente alla diminuzione che l’omessa o irregolare tenuta dei libri abbia determinato nella quota di attivo da ripartirsi tra i soci, ai fini dell’applicabilità della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità di cui all’art. 219, comma terzo, l. fall. Ed invero, come precisato da Sez. 5, n. 11725 del 19/12/2019, dep. 2020, Camorani, Rv. 279098-01, sulla scia di quanto costantemente affermato dalla Corte, il danno valutabile ai fini della suddetta circostanza attenuante, quale che sia l’ipotesi di bancarotta (semplice o fraudolenta), è quello cagionato dal fatto reato e non quello derivante dal passivo del fallimento, avendo riguardo al momento consumativo del reato. A questo proposito, ma con riferimento al delitto di omesso deposito di bilanci e scritture contabili e fiscali obbligatorie, previsto dagli artt. 220 e 16, comma primo, n. 3, l. fall., con la decisione n. 12946 del 25/2/2020, Boi, Rv. 278887- 01, sempre la Quinta Sezione ha affermato che, avendo tale delitto natura di reato omissivo proprio istantaneo, con effetti eventualmente permanenti, esso si consuma all’atto dell’inadempimento dell’obbligo di deposito nei tempi previsti dalla legge e, cioè, entro ventiquattro ore dalla comunicazione della sentenza dichiarativa di fallimento.

Il danno, dunque, deve valutarsi sia in relazione all’impossibilità di ricostruire totalmente o parzialmente la situazione contabile dell’impresa fallita o di esercitare le azioni revocatorie o altre azioni a tutela dei creditori, sia in relazione alla diminuzione che l’omessa tenuta dei libri contabili abbia determinato sulla quota di attivo oggetto di riparto tra i creditori (così, Sez. 5, n. 31258 del 15/7/2020, Bosio). Innovando un risalente orientamento della Corte (Sez. 5, n. 8690 del 27/4/1992, Bartolotti, Rv. 191565-01), la Quinta Sezione ha precisato che il principio del favor rei non giova ai fini della concedibilità dell’attenuante in questione ove il danno non possa accertarsi nella sua sussistenza ed entità apprezzabile e ciò in quanto è proprio la condotta dell’imputato ad aver reso impossibile, in mancanza di scritture, la ricostruzione dei fatti di gestione. In ultima analisi, quindi, se la mancanza di scritture non consente di presumere distrazioni o altri fatti negativi per l’imputato, parimenti non potrà essere utilizzata per presumere circostanze a lui favorevoli.

In linea con quanto affermato in passato, Sez. 5, n. 22486 del 6/7/2020, Fasana ha ritenuto configurabile il concorso tra il delitto di bancarotta fraudolenta documentale e quello di tributario di occultamento e distruzione di documenti contabili, previsto dall’art. 10 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in quanto essi sono tra loro in rapporto di specialità reciproca, in ragione: a) del differente oggetto materiale dell’illecito; b) dei diversi destinatari del precetto penale; c) del differente oggetto del dolo specifico; d) del divergente effetto lesivo delle condotte di reato. La Corte ha però specificato che, ove siffatti reati vengano processualmente trattati congiuntamente, pur avendo lo stesso oggetto materiale non è configurabile la violazione del divieto del bis in idem, mentre, nel caso in cui i due reati vengano trattati e giudicati separatamente e per uno di essi sia intervenuta sentenza di condanna, l’azione penale per l’altro non potrà essere esercitata pena l’improcedibilità, e ove sia intervenuta sentenza di condanna, si procederà all’annullamento in sede esecutiva. Si distingue, in altri termini, la nozione di bis in idem processuale da quella di bis in idem sostanziale: la prima è più ampia della seconda avendo riguardo al rapporto tra il fatto storico, oggetto di giudicato, ed il nuovo giudizio e, prescindendo dalle eventuali differenti qualificazioni giuridiche, preclude una seconda iniziativa penale là dove il medesimo fatto, nella sua dimensione storico-naturalistica, sia stato già oggetto di una pronuncia di carattere definitivo; la seconda, invece, concerne il rapporto tra norme incriminatrici astratte e prescinde dal raffronto con il fatto storico (negli stessi termini, anche se con riferimento a differenti ipotesi delittuose si veda da ultimo, Sez. 7, n. 32631 del 01/10/2020, Barbato).

5. Bancarotta “riparata”.

Si parla di bancarotta “riparata” allorché la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario, che abbia quale effetto la reintegrazione del patrimonio dell’impresa prima della dichiarazione di fallimento in modo da evitare il pericolo che la garanzia dei creditori acquisisca effettiva concretezza. In tal modo si determina l’insussistenza dell’elemento materiale del reato, annullando il pregiudizio per i creditori o anche solo la potenzialità di un danno (Sez. 5, n. 11297 del 9/12/2019, dep. 2020, Sarno e, prima ancora, ex multis, Sez. 5, n. 52077 del 04/11/2014, Lelli, Rv. 261347-01; Sez. 5, n. 50289 del 07/07/2015, Mollica, Rv. 265903-01).

Sulla scorta di tali principi, Sez. 5, n. 34290 del 02/12/2020, Cappelletti, ha annullato la sentenza del giudice distrettuale che aveva escluso che la transazione, con cui il ricorrente aveva rinunciato all’indennità di buona uscita e ad altre voci dello stipendio, potesse equipararsi all’attività di integrale reintegrazione del patrimonio sociale sì da configurare la fattispecie della cd. “bancarotta riparata” e aveva motivato tale ragionamento sulla base dell’assunto che, anche se l’imputato aveva rinunciato a crediti certi ed esigibili, non aveva, però, restituito i beni distratti prima della dichiarazione di fallimento. Sul punto la Corte, nel richiamare principi già affermati in precedenza (da ultimo, Sez. 5, n. 57759 del 24/11/2017, Liparoti, Rv. 271922-01), ha ritenuto che, ai fini della configurabilità della bancarotta riparata, non è necessaria la restituzione del singolo bene sottratto, ma un’attività di integrale reintegrazione del patrimonio anteriore alla declaratoria di fallimento, attività che ben potrebbe consistere nella rinuncia a crediti certi ed esigibili.

Per altro verso, Sez. 5, n. 8445 del 04/02/2020, Abate, Rv. 278684-01 ha affermato, non discostandosi da un consolidato pregresso orientamento, che in tema di bancarotta patrimoniale per distrazione, non è configurabile l’attenuante della riparazione del danno, di cui all’art. 62, comma primo, n. 6, cod. pen., qualora la restituzione di beni oggetto della condotta distrattiva sia avvenuto a seguito del prospettato esercizio dell’azione revocatoria da parte del curatore fallimentare e non per iniziativa dell’imputato. Tale attenuante, infatti, è applicabile solo allorché la riparazione del danno, tanto nella forma specifica della restituzione, quanto in quella del risarcimento, sia effettiva, integrale e volontaria.

6. Pagamenti preferenziali con scopo di salvataggio.

L’elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta preferenziale è costituito dal dolo specifico, consistente nella volontà di recare un vantaggio ad uno o più creditori, con l’accettazione dell’eventualità di un danno per gli altri secondo lo schema del dolo eventuale. Per Sez. 5, n. 18528 del 18/6/2020, Mazza, tale finalità non è ravvisabile allorché il pagamento sia volto, in via esclusiva o prevalente, alla salvaguardia dell’attività sociale o imprenditoriale ed il risultato di evitare il fallimento possa ritenersi più che ragionevolmente perseguibile. Sempre nella medesima sentenza si ribadisce poi il principio, già affermato in precedenza dalla Corte (Sez. 5, n. 54502 del 03/10/2018, Raia, Rv. 275235-01), secondo cui, in tema di bancarotta preferenziale, qualora il fallito provveda al pagamento di crediti privilegiati, ai fini della configurabilità del reato, è necessario il concorso non già di qualsiasi altro credito, ma di altri crediti con privilegio, di grado prevalente o eguale, rimasti insoddisfatti per effetto del pagamento.

Nell’ipotesi in cui l’amministratore di una società si appropri di somme di quest’ultima al fine di recuperare i propri crediti per le prestazioni lavorative svolte in favore dell’ente amministrato, permane invece il contrasto, già registrato negli scorsi anni, in ordine alla configurabilità della bancarotta preferenziale o della bancarotta fraudolenta per distrazione. Aderendo all’impostazione più rigida, Sez. F. n. 27132 del 13/8/2020, Villardita, Rv. 279633-02 ha ribadito l’indirizzo, che appare numericamente prevalente e da ultimo ribadito da Sez. 5, n. 25773 del 2019, RV. 277577-01, secondo cui in siffatta ipotesi è configurabile la bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione poiché non è scindibile la qualità di creditore da quella di amministratore che, in quanto tale, è vincolato alla società dall’obbligo di fedeltà e da quello di tutela degli interessi sociali nei confronti dei terzi. Sez. 5, n. 14010 del 12/2/2020, Sarasso, Rv. 279103-01, con riferimento all’amministratore di società di persone, ha confermato il medesimo orientamento, specificando, però, che ove il socio amministratore prelevi dalle casse sociali somme asseritamente corrispondenti a crediti vantati per l’attività lavorativa prestata dovrà indicare gli elementi che consentano di verificare in concreto l’oggettivo svolgimento di attività estranee e parallele alle funzioni inerenti la carica di amministratore in quanto il rapporto che si instaura tra amministratore e società amministrata, sia essa di persone, sia di capitali, non è assimilabile né ad un contratto d’opera, né ad un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato. Il rapporto di “immedesimazione organica” che lega l’amministratore alla società rileva ancor di più per le società di persone per la stretta connessione che sussiste tra il potere di amministrare e la responsabilità illimitata del socio, che ha un preciso interesse a svolgere l’attività gestoria. Da tale natura, invero, discende che la spettanza di un compenso all’amministratore non può essere data per scontata, ma deve essere appositamente decisa e determinata dai soci. Quando, invece, l’attività lavorativa venga esercitata successivamente alla dichiarazione di fallimento, ove il fallito trattenga i proventi derivanti dall’esercizio di siffatta attività, sarà configurabile, come precisato da Sez. 5, n. 15650 del 24/1/2020, Gullino, Rv. 279213-01, bancarotta post-fallimentare solo per la parte di guadagno effettivo – calcolato detraendo i costi sostenuti dai ricavi conseguiti nell’esercizio della nuova attività – che ecceda i limiti necessari per il mantenimento suo e della propria famiglia. Sul punto giova ricordare che l’applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 46 l. fall., che individuano i beni non compresi nel fallimento suscettibili di trattenimento da parte del fallito, presuppone la già intervenuta dichiarazione di fallimento e la qualità di imprenditore individuale. Le disposizioni da ultimo richiamate riguardano letteralmente il “fallito” (così Sez. 5, n. 17614 del 7/2/2020, Scopazzini, Rv. 279354-01) e, pertanto, il soggetto a cui la disposizione si riferisce deve essere individuato solo in chi sia personalmente fallito. Occorre, quindi, non solo che i prelievi siano avvenuti dopo la pronunzia della sentenza di fallimento, ma anche che essi siano stati effettuati da soggetto personalmente dichiarato fallito, ossia l’imprenditore individuale ovvero il socio illimitatamente responsabile di una società di persone. L’autonomia patrimoniale di una società di capitali rispetto ai soci e agli amministratori impedisce che i soci e, a fortiori, gli amministratori possano attingere alle casse sociali giacché, ai primi, è solo consentito di percepire gli eventuali utili derivanti dalle quote possedute e, ai secondi, l’eventuale compenso per l’attività svolta.

7. Profili processuali.

Costituisce espressione di un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza della Corte il principio secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta, non integra un fatto nuovo, ai sensi dell’art. 518 cod. proc. pen., l’individuazione di diverse modalità della condotta illecita ovvero di ulteriori condotte di distrazione o, comunque, di difformi condotte integrative della violazione dell’art. 216 l. fall. Si è pervenuti a tale conclusione in virtù della peculiare disciplina dell’illecito fallimentare – connaturato alla c.d. unitarietà del reato desumibile dall’art. 219, comma secondo, n. 1, l. fall. – che deroga alla disciplina della continuazione in considerazione della peculiarità della norma incriminatrice che non assegna alle condotte di distrazione, occultamento, distrazione, dissipazione e dissimulazione, previste dall’art. 216, l. fall, natura di fatto autonomo, bensì di fattispecie penalmente tra loro equivalenti e, cioè, modalità di esecuzione alternative e fungibili di un unico reato (così, ex multis, Sez. 5, n. 4551 del 02/12/2010, dep. 2011, Mei, Rv. 249262-01). Sulla base di siffatti principi, Sez. 5, n. 15814 del 20/1/2020, Morabito, Rv. 279257-01 ha ritenuto che, non integrando le ulteriori condotte di distrazione o, comunque, quelle previste dall’art. 216 legge fall., un fatto nuovo ex art. 518 cod. proc. pen., il potere del pubblico ministero di procedere nel corso dell’istruzione dibattimentale alla modifica dell’imputazione o alla contestazione di una circostanza aggravante per l’individuazione di diverse modalità della condotta illecita non è soggetto a specifici limiti temporali o di fonte, avendo comunque l’imputato la facoltà di chiedere un temine per contrastare l’accusa e di esercitare ogni prerogativa difensiva, come la richiesta di nuove prove o il diritto di essere rimesso in termini per chiedere riti alternativi. Argomenta la Corte che il potere di precisazione della contestazione, immediatamente derivante dal principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 103 Cost., conformemente agli insegnamenti forniti da Sez. U, n. 4 del 28/10/1998 - dep. 1999, Barbagallo, Rv. 212757-01, non è soggetto ad alcuna preclusione e che, pertanto, deve essere riconosciuto al pubblico ministero il potere di procedere nel dibattimento alla modifica dell’imputazione o alla formulazione di nuove contestazioni senza specifici limiti, temporali o di fonte – e dunque anche sulla sola base degli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari – sempre che, ovviamente, vengano garantiti i diritti della difesa e ciò al fine di evitare, in linea con i principi di immediatezza e di concentrazione del dibattimento, la celebrazione un altro dibattimento in ordine alle nuove evenienze.

Ai principi dianzi riportati si ricollega quanto affermato da Sez. 5, n. 33123 del 19/10/2020, Martino, Rv. 279840-01 secondo cui, quando all’imputato vengano contestati più fatti di bancarotta, la mancata contestazione esplicita della circostanza aggravante speciale di cui all’art. 219, comma secondo, n. 1, l. fall. non integra alcuna violazione dell’art. 522 cod. proc. pen., perché il riferimento alla predetta circostanza aggravante, in tutti i suoi elementi costitutivi, è implicitamente contenuto nella descrizione della pluralità dei reati, la cui contestazione pone l’imputato in condizione di conoscere il significato dell’accusa e di esercitare il diritto di difesa.

In motivazione la Corte ha evidenziato che siffatto principio non si pone in contraddizione con quanto recentemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, nella sua più autorevole composizione (Sez. U., n. 24906 del18/4/2019, Sorge, Rv. 275436-01), poiché per contestazione in fatto si intende una formulazione dell’imputazione che riporti in maniera sufficientemente chiara e precisa gli elementi di fatto che integrano la fattispecie in modo che l’imputato possa averne piena cognizione e possa adeguatamente difendersi. Con riferimento alle circostanze aggravanti, poiché per le Sez. U. Sorge l’ammissibilità della contestazione in fatto deve essere verificata rispetto alle caratteristiche di ogni singola circostanza e, in particolare, alla natura degli elementi costitutivi delle stesse, nel caso di contestazione di più fatti di bancarotta non sorgono particolari questioni poiché le fattispecie si esauriscono in comportamenti descritti nella loro materialità o riferiti a mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche oggettive.

Sempre nell’ottica di garantire l’effettività del diritto di difesa, Sez. 5, n. 16993 del 2/3/2020, Latini, Rv. 279090-01 ha escluso la genericità ed indeterminatezza di un’imputazione di bancarotta nel caso di contestazione all’imputato della distrazione di somme di denaro, iscritte in contabilità ed espunte mediante giroconti, mentre l’istruttoria, a cui l’imputato aveva partecipato, aveva chiarito che le somme medesime erano state utilizzate per soddisfare, senza causa lecita, crediti di una società diversa. In tale ipotesi, per la Corte, era stato rispettato il consolidato principio secondo cui non vi è incertezza sui fatti descritti nella imputazione quando questa contenga, con adeguata specificità, i tratti essenziali del fatto di reato contestato, in modo da consentire all’imputato di difendersi. È configurabile, invece, la lesione del diritto di difesa nella diversa ipotesi in cui il giudice di appello, in riforma della sentenza di primo grado, riqualificando l’originaria imputazione di bancarotta preferenziale, condanni l’imputato per il reato di bancarotta per distrazione (così, Sez. 5, n. 19365 del 5/12/2019, dep. 2020, Alessandrini, Rv. 279106). A tal proposito, la Corte ha ritenuto che sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, trattandosi di un fatto significativamente e sostanzialmente diverso e più grave di quello contestato con l’originaria imputazione, con conseguente lesione dei poteri difensivi dell’imputato. Siffatta violazione, invece, non è prospettabile nella fattispecie inversa di originaria imputazione di bancarotta per distrazione e successiva riqualificazione e condanna per bancarotta preferenziale. In tal caso, infatti, l’atto dispositivo tipico di tale ultima fattispecie criminosa costituisce una species del più ampio genus di sottrazione di risorse del patrimonio della società e, venendo in rilievo una riqualificazione in bonam partem, non può profilarsi lesione alcuna del diritto di difesa garantito all’imputato.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U., n. 4 del 28/10/1998 - dep. 1999, Barbagallo, Rv. 212757-01 Sez. 5, n. 8690 del 27/4/1992, Bartolotti, Rv. 191565-01

Sez. 5, n. 15360 del 05/2/2010, Tacconi, Rv. 246956-01

Sez. 5, n. 16259 del 4/3/2010, Chini, Rv. 247254-01

Sez. 5, n. 4551 del 2/12/2010, dep. 2011, Mei, Rv. 249262-01

Sez. 5, n. 32899 del 25/5/2011, Mapelli, Rv. 250934-01

Sez. 5, n. 7556 del 28/11/2012, dep. 2013, Accorinti, Rv. 254653-01

Sez. 5, n. 26399 del 05/03/2014, Zandano, Rv. 260215-01

Sez. 5, n. 50348 del 22/10/2014, Serpetti, Rv. 263225-01

Sez. 5, n. 52077 del 04/11/2014, Lelli, Rv. 261347-01

Sez. 5, n. 50289 del 07/07/2015, Mollica, Rv.265903-01

Sez. 5, n. 14045 del 22/03/2016, De Cuppis e altri, Rv. 266646-01 Sez. 5, n. 57759 del 24/11/2017, Liparoti, Rv. 271922-01

Sez. 5, n. 54502 del 03/10/2018, Raia, Rv. 275235-01

Sez. 5, n. 3221 del 19/9/2019, dep. 2020, Cristofaro, Rv. 278303-01

Sez. 5, n. 4710 del 14/10/2019, dep. 2020, Falcioni, Rv. 278156-01,

Sez. 5, n. 18320 del 7/11/2019, dep. 2020, Morace, Rv. 279179-01

Sez. 5, n. 19365 del 5/12/2019, dep. 2020, Alessandrini, Rv. 279106

Sez. 5, n. 11297 del 9/12/2019, dep. 2020, Sarno

Sez. 5, n. 12724 del 12/12/2019, dep. 2020, Conticello, Rv. 279019-01

Sez. 5, n. 16968 del 16/12/2019, dep. 2020, Sorge

Sez. 5, n. 11725 del 19/12/2019, dep. 2020, Camorani, Rv. 279098-01 Sez. U., n. 24906 del 18/4/2019, Sorge, Rv. 275436-01

Sez. 5, n. 15814 del 20/1/2020, Morabito, Rv. 279257-01

Sez. 5, n. 15650 del 24/1/2020, Gullino, Rv. 279213-01

Sez. 5, n. 8445 del 4/2/2020, Abate, Rv. 278684-01 Sez. 5, n. 11936 del 5/2/2020, De Lisa, Rv. 278985-01

Sez. 5, n. 17614 del 7/2/2020, Scopazzini, Rv. 279354-01 Sez. 5 n. 15652 del 10/2/2020, Cagali,

Sez. 5, n. 14010 del 12/2/2020, Sarasso, Rv. 279103-01

Sez. 5, n. 14689 del 21/2/2020, Conti, Rv. 279151-01

Sez. 5, n. 21028 del 21/2/2020, Capasso, Rv. 279346-01

Sez. 5, n. 12946 del 25/2/2020, Boi, Rv. 278887-01

Sez. 5, n. 16993 del 2/3/2020, Latini, Rv. 279090-01 Sez. 5, n. 18524 del 2/3/2020, Gentile,

Sez. 5, n. 18528 del 18/6/2020, Mazza Sez. 5, n. 22486 del 6/7/2020, Fasana

Sez. 5, n. 27264 del 10/7/2020, Fontani, Rv. 279597-01 Sez. 5, n. 31258 del 15/7/2020, Bosio

Sez. F. n. 27132 del 13/8/2020, Villardita, Rv. 279633-02 Sez. 5, n. 27566 del 21/9/2020, Del Gaudio

Sez. 5, n. 28848 del 21/9/2020, D’Alessandro, Rv. 279599-01

Sez. 5, n. 32413 del 24/9/2020, Loda, Rv. 279831-01

Sez. 7, n. 32631 del 01/10/2020, Barbato

Sez. 5, n. 33114, dell’8/10/ 2020, Martinenghi, Rv. 279838-01 Sez. 5, n. 36011 del 9/10/2020, D’Ambrosio

Sez. 5, n. 33123 del 19/10/2020, Martino, Rv. 279840-01 Sez. 5, n. 34290 del 2/12/2020, Cappelletti

Sez. 5, n. 36870 del 21/12/2020, Marelli Sez. 5, n. 36865 del 21/12/2020, Cimatti

  • imposta diretta
  • imposta indiretta
  • sequestro di beni
  • reato tributario
  • confisca di beni
  • circostanza attenuante
  • concorso nel reato

CAPITOLO IV

PERCORSI ERMENEUTICI DI LEGITTIMITÀ IN MATERIA DI REATI TRIBUTARI

(di Paolo Bernazzani )

Sommario

1 Premessa. - 2 Rapporti fra norme. Le singole fattispecie. - 2.1 Rapporti fra norme incriminatrici e successione di leggi extrapenali. - 2.2 Le singole fattispecie contemplate dal d.lgs. n. 74 del 2000: art. 4. - 2.3 Art. 5. - 2.4 Art. 10-bis. - 2.5 Art. 10-ter. - 2.6 Art. 10-quater. - 2.7 Art. 11. - 2.8 Concorso di persone nei reati di cui agli artt. 2 ed 8. - 2.9 Art. 5-septies d.l. n. 167 del 1990. - 3 Cause di non punibilità e circostanze attenuanti. - 3.1 Art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000. - 3.2 Art. 131-bis cod. pen. - 3.3 Circostanza attenuante ex art. 13-bis, comma 1 d.lgs. n. 74 del 2000. - 4 Sequestro e confisca. - 5 Questioni processuali. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

La complessa e variegata disciplina dei reati tributari è stata oggetto nel corso del corrente anno di numerose pronunce emesse dalla Terza sezione della Corte di cassazione che, da un lato, hanno meglio delineato il percorso nomofilattico già intrapreso dagli arresti decisori degli scorsi anni e, dall’altro, hanno affrontato questioni inedite ovvero hanno posto in luce nuovi profili attinenti a temi già oggetto di elaborazione sistematica. Le decisioni che si esamineranno nella trattazione, analizzate secondo un ordine sistematico essenzialmente incentrato sul rilievo classificatorio rivestito dagli istituti ovvero dalle fattispecie incriminatrici via via evocate, contribuiscono, nel loro complesso, a disegnare un composito quadro interpretativo, fotografato nella sua costante tensione verso la ricerca, se non proprio di una - forse utopistica - reductio ad unum, di affidabili coordinate ricostruttive in una materia senza dubbio “di confine” fra i valori e le categorie classiche del diritto penale e gli assetti, in rapidissima evoluzione, del diritto tributario.

2. Rapporti fra norme. Le singole fattispecie.

Le pronunce di legittimità che hanno interessato la materia tributaria si sono, innanzitutto soffermate su specifiche questioni interpretative concernenti, in massima parte, le singole fattispecie contemplate dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, anche alla luce delle modifiche introdotte dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, fornendo, così, il proprio apporto alla nomofilachia declinata in chiave di sistema penaltributario.

2.1. Rapporti fra norme incriminatrici e successione di leggi extrapenali.

Sul piano dei rapporti fra norme incriminatrici ed, in particolare, in ordine alla eventuale incidenza, in tale ambito, delle modifiche apportate dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, Sez. 3, n. 10916 del 12/11/2019, dep. 2020, Bracco, Rv. 279859, ricollegandosi in senso confermativo all’orientamento già espresso da Sez. 3, n. 6360 del 25/10/2018, dep. 2019, Capobianco, Rv. 275698, ha affermato che il riferimento a talune ipotesi di fatturazione, contenuto nell’art. 3, comma 3, d.lgs. citato, come riformato dal d.lgs. n. 158 del 2015, «non ha modificato il rapporto di specialità reciproca esistente tra il reato di cui all’art. 2 e quello di cui all’art. 3 del medesimo decreto legislativo, in quanto, accanto ad un nucleo comune costituito dalla presentazione di una dichiarazione infedele, il primo presuppone l’utilizzazione di fatture o documenti analoghi relativi ad operazioni inesistenti, mentre il secondo richiede una falsa rappresentazione delle scritture contabili obbligatorie, nonché l’impiego di altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento e il raggiungimento della soglia di punibilità; ne consegue che il discrimine tra le due fattispecie è costituito dalle diverse modalità di documentazione dell’operazione economica, poiché alla particolare idoneità probatoria delle fatture corrisponde una maggiore capacità decettiva delle falsità commesse utilizzando tali documenti.

Quanto al distinto, ma complementare, profilo della successione di leggi extrapenali integratrici, richiamate nel quadro della fattispecie penaltributaria, fra le decisioni depositate nel corrente anno va segnalata, con particolare riferimento all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, Sez. 3, n. 5411 del 25/10/2019, dep. 2020, Nucita, Rv. 278595, la quale, ponendosi nel solco di altre precedenti pronunce (Sez. 3, n. 11520 del 29/01/2019, Tonnarello, Rv. 275990; Sez. 3, n. 28681 del 27/01/2017, Peverelli, Rv. 270335; Sez. U, n. 2451 del 27/09/2007, dep. 2008, P.g. in proc. Magera, Rv. 238197) ha affermato che la modificazione “in melius” della norma extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice esclude la punibilità del fatto precedentemente commesso solo se attiene a norma integratrice di quella penale. Applicando tale principio all’ipotesi di infedele dichiarazione sottoposta a scrutinio, la Corte è pervenuta alla conclusione che l’art. 101, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, nella formulazione introdotta dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, non costituisce norma integratrice della fattispecie penale, perché, avendo per oggetto i criteri di scomputo delle perdite su crediti, lascia del tutto immutati gli elementi costitutivi e la soglia di punibilità del reato previsto dall’art. 4, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74.

2.2. Le singole fattispecie contemplate dal d.lgs. n. 74 del 2000: art. 4.

Con riferimento alla fattispecie di infedele dichiarazione contemplata dall’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000, sotto il profilo della individuazione del reddito imponibile, Sez. 3, n. 18575 del 14/02/2020, Belsito, Rv. 279500 ha ritenuto che il reato di dichiarazione infedele dei redditi ai fini Irpef sussiste anche qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, salvo che i relativi proventi siano stati assoggettati a sequestro o confisca penale nello stesso periodo di imposta in cui si è verificato il presupposto impositivo: invero, solo in tale ipotesi i provvedimenti ablatori determinano, in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito imponibile. Corollario di tale enunciazione di principio è, secondo la pronuncia in esame, l’assenza di rilievo, ai predetti fini, del provvedimento ablatorio disposto contestualmente alla sentenza di condanna di primo grado, quale ulteriore conseguenza sanzionatoria ex art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000.

Sempre con riferimento all’elemento essenziale della fattispecie criminosa in parola, costituito dall’indicazione di elementi attivi o passivi in misura diversa da quella reale, Sez. 3, n. 8969 del 07/11/2019, dep. 2020, Cesina, Rv. 278634, ha puntualizzato che i principi giurisprudenziali in materia di falso innocuo o grossolano non trovano applicazione in relazione alla fattispecie di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000, in quanto l’indicazione di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o di elementi passivi inesistenti nella dichiarazione annuale, da cui discende il non corretto calcolo dell’imposta e la sua mancata corresponsione, non richiede alcun carattere ingannatorio, essendo sufficiente che sia stata posta in essere al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

2.3. Art. 5.

In relazione alla fattispecie di omessa dichiarazione prevista dall’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000, Sez. 3, n. 10098 del 27/11/2019, dep. 2020, Pavesi, Rv. 278536, nell’affrontare le questioni connesse alla residenza fiscale all’estero del contribuente, ha affermato il principio secondo cui «l’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte di società avente residenza fiscale all’estero, la cui omissione integra il reato previsto dall’art. 5 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, sussiste se l’impresa abbia stabile organizzazione in Italia, il che si verifica quando si svolgano nel territorio nazionale la gestione amministrativa, le decisioni strategiche, industriali e finanziarie nonché la programmazione di tutti gli atti necessari affinché sia raggiunto il fine sociale, non rilevando il luogo di adempimento degli obblighi contrattuali e dell’espletamento dei servizi». Con tale pronuncia - che si ricollega al dictum di Sez. 3, n. 37849 del 29/03/2017, Meersseman, Rv. 270739; Sez. 3, n. 32091 del 21/02/2013, Mazzeschi, Rv. 257043; Sez. 3, n. 7080 del 24/01/2012, Barretta, Rv. 252102, la Corte ha precisato che le società “estero-vestite” non sono, per ciò solo, necessariamente prive della loro autonomia giuridico-patrimoniale e, quindi, autonomamente qualificabili come “schermi”, ovvero enti fittizi artificiosamente costruiti, rientrando in tale fenomeno anche strutture societarie dotate di una propria autonomia giuridica ed operativa, la cui attività economica è nascosta al fisco italiano.

La decisione si inserisce nel filone giurisprudenziale cui appartiene anche Sez. 3, n. 50151 del 13/07/2018, M., Rv. 274090, secondo cui si configura la “stabile organizzazione”, da cui scaturisce l’obbligo fiscale di un soggetto non formalmente residente, nel caso in cui una società estera, con una sede fissa di affari nel territorio italiano, effettui in Italia la sua attività mediante un’organizzazione di persone e di mezzi (cd. estero-vestizione della residenza fiscale); si ha, invece, una “società-schermo”, nell’ipotesi in cui l’ente, anche se allocato formalmente all’estero, è privo di concreta autonomia e costituisce solo una copertura attraverso la quale agisce la persona fisica, che è la titolare effettiva dell’attività economica e che, di conseguenza, è tenuta agli adempimenti fiscali.

Altro profilo ampiamente dibattuto, sul quale anche la giurisprudenza dell’ultimo anno non ha mancato di soffermarsi, è costituito dall’incidenza dell’attività del professionista/ consulente fiscale sull’assolvimento degli obblighi di dichiarazione. In particolare, Sez. 3, n. 9417 del 14/01/2020, Quattri, Rv. 278421, ponendosi in linea di continuità con altre precedenti decisioni massimate (Sez. 3, n. 37856 del 18/06/2015, Porzio, Rv. 265087; Sez. 3, n. 9163 del 29/10/2009, dep. 2010, Lombardi, Rv. 246208), ha ribadito che l’affidamento ad un professionista dell’incarico di predisporre e presentare la dichiarazione annuale dei redditi non esonera il soggetto obbligato dalla responsabilità penale per il delitto di omessa dichiarazione, in quanto la norma tributaria considera come personale ed indelegabile il relativo dovere, essendo unicamente delegabile la predisposizione e l’inoltro telematico dell’atto.

Quanto al connesso tema dell’esatta ricostruzione dell’elemento soggettivo che caratterizza la fattispecie, Sez. 3, n. 16469 del 28/02/2020, Veruari, Rv. 278966, sempre in tema di omessa presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte del professionista a ciò incaricato, ha affermato che la prova del dolo specifico in capo al contribuente – che non deriva dalla semplice violazione dell’obbligo dichiarativo né da una “culpa in vigilando” sull’operato del professionista, atteso che tale opzione trasformerebbe il rimprovero per l’atteggiamento antidoveroso da doloso in colposo, ma dalla ricorrenza di elementi fattuali dimostrativi che il soggetto obbligato ha consapevolmente preordinato l’omessa dichiarazione all’evasione dell’imposta per quantità superiori alla soglia di rilevanza penale - può desumersi anche dal comportamento successivo del mancato pagamento delle imposte dovute e non dichiarate, dimostrativo della volontà preordinata di non presentare la dichiarazione. Nella specie, la Corte ha considerato di valore assorbente ed elemento decisivo a sostegno del dolo di evasione la circostanza della conoscenza dell’accertamento disposto dall’Agenzia delle Entrate e la conseguente inerzia del ricorrente, che avrebbe invece dovuto attivarsi a presentare osservazioni o a versare quanto dovuto (e ciò, annota la sentenza, anche ammettendosi per provata la successiva scoperta da parte del contribuente-imputato del mancato assolvimento dell’incarico da parte del commercialista; cfr. in tal senso, anche la citata Sez. 3, n. 37856 del 2015).

2.4. Art. 10-bis.

Anche la fattispecie di omesso versamento di ritenute ex art. 10-bis d.lgs. n. 74 del 2000 non ha mancato di catalizzare l’attenzione della giurisprudenza di legittimità:

In tale ambito, una questione interpretativa sulla quale si è esercitata la funzione nomofilattica della Corte in punto di omesso versamento di ritenute certificate, riguarda la nozione di “rilascio” della certificazione attestante l’effettuazione delle ritenute da parte del datore di lavoro quale sostituto di imposta. Sez. 3, n. 25987 del 13/07/2020, Ravasi, Rv. 279743 ha puntualizzato che, per integrare il predetto “rilascio” della documentazione ai sostituiti delle «non si richiede soltanto la formazione, ancorché perfezionata attraverso la loro sottoscrizione, delle certificazioni in esame, ma è necessaria l’avvenuta esternazione di queste ultime rispetto alla sfera del loro redattore e la loro materiale consegna ai rispettivi destinatari o, quanto meno, a taluno di essi» (fattispecie alla quale la Corte ha ritenuto applicabile, “ratione temporis”, la disciplina dettata dall’art. 10-bis cit. nel testo anteriore alla modifica apportata dall’art. 7, comma 1, lett. b), d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158).

Un rilevante filone giurisprudenziale concerne le interferenze fra l’adempimento degli obblighi tributari, la cui omissione costituisce reato, e la pendenza di procedure concorsuali. Sul tema, va menzionata Sez. 3, n. 13628 del 20/02/2020, Ferrarini, Rv. 279421, la quale ha puntualizzato che la procedura di concordato preventivo scrimina il reato di omesso versamento di ritenute di cui all’art. 10-bis citato, riguardante gli obblighi scaduti tra la presentazione dell’istanza di ammissione al concordato, sia esso “in bianco” che con deposito del piano, e l’adozione del relativo decreto, solo ove sia intervenuto un provvedimento del tribunale che abbia vietato, o comunque non autorizzato, come invece richiesto dall’interessato, il pagamento dei suddetti debiti, essendo in tal caso configurabile la scriminante dell’adempimento di un dovere imposto da un ordine legittimo dell’autorità di cui all’art. 51 cod. pen.. In applicazione del principio, la Corte ha specificato che, in mancanza di dette condizioni, il mero decreto di ammissione al concordato non vale a scriminare “retroattivamente” gli omessi versamenti relativi a debiti scaduti anteriormente.

Va ricordato che, secondo la tesi patrocinata dal pubblico ministero ricorrente, la limitazione dei poteri dell’amministratore di una società in concordato preventivo, da cui discende il divieto di pagare i debiti tributari, opererebbe dal momento del deposito della domanda di concordato preventivo corredata da piano, ai sensi dell’art. 161 commi 1, 2 e 3 legge fall., e non dal momento della presentazione della domanda di concordato preventivo c.d. con riserva di cui all’art. 161 comma 6, l.fall.; quindi, nessun effetto inibitorio deriverebbe dalla semplice domanda con riserva rispetto al pagamento dei debiti tributari, la cui omissione integrerebbe il reato contestato.

Nell’inquadramento della questione, la Corte ha effettuato una disamina della disciplina del concordato preventivo a seguito delle modifiche normative, applicabili ratione temporis, apportate dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con legge n. 134 del 2012 e dal d.l. n. 83 del 2015, conv. con legge n. 132 del 2015; in particolare, la Corte si è soffermata sull’introduzione del concordato con riserva di presentazione del piano, di cui all’art. 161 comma 6, e sulla disciplina degli effetti del concordato per i creditori, oltre che sulla disciplina del compimento degli atti di straordinaria amministrazione, regolati «in termini non diversi, per la nuova figura di concordato di nuovo conio, rispetto a quella dettata dall’art. 167 legge fall. per il concordato con deposito del piano ex art. 161 commi 1, 2 legge fall.». La decisione si avvale, inoltre, di puntuali richiami alla giurisprudenza delle sezioni civili della Corte, la quale ha evidenziato, per quanto qui di rilievo, che il procedimento innescato dalla domanda con riserva «non è un primo procedimento distinto (e antecedente) rispetto a quello, ordinario, che si apre solo con la presentazione della proposta, del piano e della documentazione, ma costituisce un segmento dell’unico procedimento che rileva, semplicemente articolato in due fasi per così dire “interne”» (Cass. civ., Sez. 1, n. 14713 del 29/05/2019, Rv. 654268 - 02). Sempre la medesima pronuncia ha chiarito che, dopo la presentazione di una domanda di concordato con riserva, ai sensi dell’art. 161, comma 7, l.fall., l’imprenditore può compiere senza necessità di autorizzazione del tribunale gli atti di gestione dell’impresa finalizzati alla conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio, secondo il medesimo criterio previsto dall’art. 167 l.fall.; sicché la distinzione tra atto di ordinaria o di straordinaria amministrazione resta incentrata sulla sua idoneità a pregiudicare i valori dell’attivo compromettendone la capacità di soddisfare le ragioni dei creditori, tenuto conto esclusivamente dell’interesse di questi ultimi e non dell’imprenditore insolvente, essendo quindi possibile che atti astrattamente qualificabili dì ordinaria amministrazione, se compiuti nel normale esercizio dell’impresa possano, invece, assumere un diverso connotato nell’ambito di una procedura concorsuale (ancora Cass. civ., Sez. 1, n. 14713 del 29/05/2019, cit.).

Tale indirizzo interpretativo, osserva la Terza sezione nella sentenza n. 13628 del 2020 in esame, è coerente con gli enunciati della giurisprudenza penale di legittimità, secondo cui la procedura di concordato preventivo, sia essa introdotta con piano concordatario, sia con riserva, non inibisce il pagamento dei debiti tributari il cui termine di scadenza sia successivo al deposito della domanda, giuste le disposizioni di cui all’art. 161, comma 7, e 167 legge fall., salva la presenza di un provvedimento del tribunale che abbia vietato il pagamento di crediti anteriori.

La decisione si colloca, altresì, nel solco di Sez. 3, n. 2860 del 30/10/2018, dep. 2019, Maurina, Rv. 274822, in relazione al reato di omesso versamento di ritenute certificate di cui all’art. 10-bis d.lgs. n. 74 del 2000, ha ritenuto configurabile la causa di giustificazione prevista dall’art. 51 cod. pen. solo se i provvedimenti che impongono il dovere di non adempiere all’obbligo tributario, come l’ammissione al concordato preventivo ovvero, in alternativa, il provvedimento del tribunale che abbia vietato il pagamento di crediti anteriori, siano intervenuti prima della scadenza di tale obbligo e, dunque, non siano successivi alla consumazione del reato (fattispecie in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca).

Va osservato, per completezza di esposizione, che, anche nell’area della fattispecie normativamente contigua di omesso versamento di IVA di cui all’art. 10-ter d.lgs. citato, non dissimile impostazione caratterizza alcune decisioni degli ultimi anni. In particolare, Sez. 3, n. 49795 del 23/05/2018, Giacometti, Rv. 274199, ha affermato che non assume rilevanza, né sul piano dell’elemento soggettivo, né su quello della esigibilità della condotta, la mera presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, la quale non impedisce il pagamento dei debiti tributari che vengano a scadere successivamente alla sua presentazione, ma prima dell’adozione di provvedimenti da parte del tribunale.

Riassumendo, dunque, secondo la sentenza Ferrarini «la procedura di concordato è unica, ancorché introdotta con il ricorso per l’ammissione al concordato con riserva, e anche durante tale segmento, ovvero prima del deposito del piano concordatario e del decreto di ammissione di cui all’art. 163 l.fall., vige il c.d. spossessamento attenuato che non impedisce il compimento degli atti straordinari e urgenti, previa autorizzazione del tribunale che, proprio perché non esiste ancora un piano concordatario, può assumere informazione dal commissario giudiziale. È indubbio poi che tra gli atti straordinari rientri il pagamento del debito tributario, la cui omissione di versamento costituisce reato, atto da qualificarsi straordinario e urgente avuto riguardo agli effetti penali dell’omissione».

In tale prospettiva, il Collegio giudicante si discosta consapevolmente dal diverso orientamento espresso da altre decisioni. Ad esempio, in una fattispecie di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, Sez. 3, n. 36320 del 02/04/2019, Prefabbricati srl in liquidazione in concordato preventivo, Rv. 277687 ha affermato che, nel caso di ammissione al concordato preventivo, non è configurabile il “fumus” del reato di cui all’art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 per l’omesso versamento di ritenute dovute o certificate in relazione agli obblighi scaduti successivamente alla presentazione dell’istanza di ammissione al concordato, in quanto gli effetti di tale ammissione decorrono dalla data della presentazione della relativa domanda. A tale riguardo, la sentenza Ferrarini ritiene che il citato precedente non si confronti compiutamente con il dato testuale e con la disciplina introdotta all’esito delle modifiche normative di cui si fatto cenno, che «consente il pagamento del debito tributario (…), previa autorizzazione (risultando scriminata l’omissione in presenza di un diniego di pagamento) a nulla rilevando, a tali fini, il richiamo agli effetti retroattivi della procedura laddove da questi si invocherebbe una scriminante per il mancato pagamento del debito».

In sostanza, agli effetti retroattivi del concordato conseguenti al decreto di ammissione non potrebbe collegarsi l’esclusione della rilevanza penale dell’omissione costituente reato già perfezionatasi; il vero punto nodale della questione è la possibilità di configurare la causa di giustificazione prevista dall’art. 51 cod. pen., che può essere invocata soltanto ove l’imputato sia destinatario o di un “ordine legittimo” del tribunale civile impositivo del divieto di pagamento dei crediti anteriori alla proposta di concordato, o di una mancata autorizzazione al pagamento degli stessi, «non potendo la stessa essere individuata nel provvedimento di ammissione, ai sensi dell’art. 163 legge fall., nei confronti di debito scaduto nelle more tra la presentazione del ricorso con riserva e la sua ammissione, essendo tale situazione equiparabile, quanto alla possibilità di compimento di atti di straordinaria amministrazione, a quella del concordato con piano, e non potendo, sul versante penale, accordarsi valore di scriminante all’ammissione al concordato rispetto ad una condotta di reato già perfezionatasi. In tale ambito non rileva il richiamo alla retrodatazione degli effetti, indicata nella sentenza n. 36320/2019, che concerne il diverso profilo dell’efficacia verso i terzi e verso il debitore (168 legge fall. e 188 legge fall.) a fronte del chiaro dettato normativo di cui agli artt. 161 comma 7 e 167 legge fall.».

2.5. Art. 10-ter.

Con riferimento al delitto di cui all’art. 10-ter, d.lgs. citato, Sez. 3, n. 6506 del 24/09/2019, dep. 2020, Mattiazzo, Rv. 278909, ha affermato che l’omesso versamento dell’IVA dipeso dal mancato incasso per inadempimento contrattuale dei propri clienti non esclude la sussistenza del dolo richiesto dall’art. 10-ter, atteso che l’obbligo del predetto versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme e che il mancato adempimento del debitore è riconducibile all’ordinario rischio di impresa, evitabile anche con il ricorso alle procedure di storno dai ricavi dei corrispettivi non riscossi.

La decisione si ricollega alla considerazione che in tema di IVA, ai fini della variazione dell’imponibile in senso favorevole al contribuente, devono ricorrere i seguenti presupposti: a) la realizzazione di un’operazione imponibile, per la quale sia stata emessa fattura; b) il sopravvenire di una causa di scioglimento del contratto; c) la sussistenza di un titolo idoneo a realizzare gli effetti risolutori del precedente contratto; d) l’identità delle parti dell’accordo risolutorio e del negozio oggetto di risoluzione consensuale; e) il regolare adempimento degli obblighi di registrazione previsti dal d.P.R. n. 633 del 1972; f) un lasso di tempo infrannuale, entro il quale deve verificarsi la vicenda risolutiva, qualora essa trovi titolo in un accordo di mutuo dissenso (cfr. Sez. 5 civile, n. 1303 del 18/01/2019).

Nella giurisprudenza penale, il principio di diritto sopra enunciato trova risconto anche in altre pronunce, fra le quali, da ultimo, Sez. 3, n. 6220 del 23/01/2018, Ventura, Rv. 272069, secondo cui il reato omissivo previsto dall’art. 10-ter citato consiste nel mancato versamento all’erario delle somme dovute sulla base della dichiarazione annuale che, tranne i casi di applicabilità del regime di “IVA per cassa”, è ordinariamente svincolato dalla effettiva riscossione delle somme-corrispettivo relative alle prestazioni effettuate.

Una diversa impostazione contraddistingue, invece, Sez. 3, n. 29873 del 01/12/2017 – dep. 2018 -, Calabrò, Rv. 273690, che, nell’affermare il principio secondo cui, ai fini dell’accertamento del dolo generico del delitto di omesso versamento di IVA di cui all’art. 10-ter citato, occorre ravvisare la concreta possibilità di adempiere il pagamento nei termini di legge che costituisce il presupposto della sussistenza della volontà del soggetto obbligato di non effettuare il versamento dovuto, ha concluso per l’esclusione del dolo nell’ipotesi in cui l’omesso versamento derivi dalla mancanza della necessaria liquidità dovuta al mancato incasso delle fatture emesse con l’addebito d’imposta.

Siffatto principio, - osserva la citata sentenza n. 6506 del 2020 «appare non in linea con le dianzi riportate indicazioni, cui invece si ritiene opportuno dare continuità, derivanti sia dalla giurisprudenza propriamente tributaria», la quale «non risulta affatto ancorare la sussistenza del presupposto per l’affermazione della dovutezza del pagamento dell’IVA da parte del contribuente tributariamente inciso da essa all’avvenuta rimessa della relativa provvista da parte del soggetto finanziariamente tenuto a tenere indenne il suo dante causa dagli effetti dell’imposta», sia dal prevalente orientamento della stessa Corte penale «che, oltre a disancorare, come sopra rilevato, la struttura del reato dall’effettiva riscossione da parte del contribuente delle somme che egli sarà tenuto a versare a titolo di Iva, ha, in svariate occasioni, anche assai prossime nel tempo, ribadito che la colpevolezza del contribuente, in caso di omesso versamento dell’IVA risultante dalla dichiarazione presentata non è esclusa dalla crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, anche se derivante dall’omesso versamento da parte dei fruitori dei suoi beni o servizi della necessaria provvista finanziaria, a meno che non venga dimostrato che siano state adottate da quello tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo e, nel caso in cui l’omesso versamento dipenda dal mancato incasso dell’IVA per altrui inadempimento, non siano provati i motivi che hanno determinato l’emissione della fattura antecedentemente alla ricezione del corrispettivo».

Infine, una puntuale declinazione degli orientamenti ermeneutici di legittimità in relazione alla specificità regime fiscale del consolidato nazionale proviene da Sez. 3, n. 5513 del 16/10/2019, dep. 2020, Mocali, Rv. 278254, la quale, con particolare riferimento alla configurabilità della responsabilità della società consolidante nel caso di omesso versamento delle somme da parte delle società consolidate, ha affermato che, «qualora un gruppo societario eserciti l’opzione per il regime fiscale del consolidato nazionale, disciplinato dagli artt. 117 e ss. del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 - testo unico delle imposte sui redditi -, è configurabile la responsabilità della società consolidante, e per essa dei suoi amministratori, per il reato di omesso versamento di IVA di cui all’art. 10-ter del d.lgs.17 marzo 2000, n. 74, anche nel caso della mancata corresponsione delle imposte dovute dalle società controllate».

2.6. Art. 10-quater.

Molteplici sono stati, anche nel corso dell’anno appena trascorso, gli interventi in tema di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater, d.lgs. n. 74 del 2000.

Sez. 3, n. 23027 del 23/06/2020, Mangieri, Rv. 279755 si è occupata dell’individuazione del momento consumativo del reato e della eventuale incidenza delle risultanze del c.d. cassetto fiscale. La Corte ha affermato che il delitto de quo si consuma al momento della presentazione dell’ultimo modello F24 relativo all’anno interessato e non in quello della successiva dichiarazione dei redditi, in quanto, con l’utilizzo del modello indicato, si perfeziona la condotta decettiva del contribuente, realizzandosi il mancato versamento per effetto dell’indebita compensazione di crediti in realtà non spettanti in base alla normativa fiscale; non rilevano, pertanto, l’eventuale mancato computo della compensazione da parte dello Stato ed il conseguente non aggiornamento del c.d. cassetto fiscale, in quanto tali operazioni, successive alla presentazione del modello indicato, sono soltanto ricognitive del rapporto obbligatorio tra Amministrazione e contribuente, senza alcun effetto costitutivo o modificativo.

Sul piano della puntuale delimitazione, in via ermeneutica, dei tratti essenziali della condotta tipica, Sez. 3, n. 13149 del 03/03/2020, Pmt c/ Bonelli, Rv. 279118 ha ribadito l’orientamento secondo il quale la compensazione di cui al reato in esame ricomprende sia quella c.d. verticale, riguardante crediti e debiti per tributi di natura omogenea, sia quella c.d. orizzontale, concernente crediti e debiti di natura diversa, anche non afferenti alle imposte dirette od all’IVA. Tale impostazione ricostruttiva ha consentito alla Corte di precisare che l’art.10-quater citato, richiamando espressamente l’art.17, d.lgs. 9 luglio 1997, n.241, risulta applicabile anche alle ipotesi di indebita compensazione tra crediti risultanti da dichiarazioni fiscali ed altre imposte, contributi previdenziali ed assistenziali, premi Inail ed altre somme dovute allo Stato, alle Regioni, agli enti locali od altri enti.

In tale prospettiva, la decisione si distacca dall’orientamento, di cui è espressione Sez. 1, n. 38042 del 10/05/2019, Pmt/Santoro, Rv. 278825, che, invece, circoscrive la condotta di omesso versamento di cui all’art. 10-quater cit. esclusivamente alle somme dovute a titolo di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, «coerentemente con la sua collocazione all’interno di un testo normativo concernente i soli reati attinenti dette imposte e con la speciale causa di non punibilità del pagamento del debito tributario disciplinata dall’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 274 del 2000 in termini incompatibili con obblighi di natura diversa. In tal senso, la decisione della Prima sezione penale annota che tale conclusione non è impedita dalla riferibilità dell’istituto della compensazione di cui all’art. 17 d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241, come espressamente richiamato dall’art. 10-quater cit., anche a crediti e debiti di natura diversa.

Argomenti a sostegno di tale ricostruzione sono tratti, innanzitutto, dalla collocazione sistematica della norma all’interno di un decreto legislativo che disciplina i reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto; senza trascurare che le “disposizioni comuni” contenute nel titolo III del decreto si riferiscono ad importi riguardanti unicamente debiti tributari ed imposte evase e che la sopraindicata causa di non punibilità, essendo tipicamente riconnessa a debiti tributari, non risulterebbe compatibile con obblighi di natura diversa quali, ad esempio, quelli relativi a contributi previdenziali e assistenziali.

La decisione recenziore non ritiene condivisibile l’approdo decisorio della sentenza Santoro, ritenendo, in particolare, che l’argomento utilizzato (ossia il richiamo alla causa di non punibilità del pagamento del debito tributario ex art. 13, co. 1, d.lgs. n. 74 del 2000, che, parificando le tre fattispecie di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, confermerebbe che quella contemplata dalla norma di cui all’art. 10-quater, come le altre due, punirebbe sempre e solo l’omesso versamento delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto), in realtà non tiene conto del disposto del citato art. 17 d.lgs. n. 241 del 1997, il quale non limita la facoltà del contribuente di procedere alla compensazione di posizioni di debito o credito a quelle afferenti alla medesima imposta (cd. compensazione verticale), estendendo tale facoltà anche a debiti e crediti di natura diversa (c.d. compensazione orizzontale) nei termini di cui sopra.

Il richiamato art. 13, co. 1, del d.lgs. 74/2000, si muove, invece, in un’ottica premiale volta maggiormente alla tutela del corretto gettito fiscale piuttosto che alla punizione dei trasgressori e la ragione dell’avere accomunato nel comma 1 le fattispecie di omesso versamento di ritenute e di IVA risiede essenzialmente nel fatto che per gli omessi versamenti e per l’indebita compensazione la non punibilità si radica sull’avere il contribuente correttamente indicato il proprio debito tributario, effettuando il pagamento del dovuto nei termini previsti, a differenza di quanto invece previsto dal comma 2 dell’art. 13 citato per i reati dichiarativi, per i quali è necessaria anche la spontaneità della resipiscenza del contribuente; si tratta, dunque, di una ratio che non autorizza la conclusione che la predetta “parificazione” fra le due categorie di reati implichi che l’art. 10-quater sia applicabile soltanto alla indebita compensazione delle imposte e non anche quella relativa a debiti previdenziali o INAIL.

Ulteriore profilo oggetto di intervento nomofilattico da parte della Corte è quello costituito dalla soglia di rilevanza penale contemplata dalla fattispecie delittuosa in esame, pari a cinquantamila euro annui. Sez. 3, n. 14763 del 19/02/2020, Cercel, Rv. 279119, ha, in particolare, specificato che essa va riferita all’ammontare dei crediti non spettanti utilizzati per le compensazioni indebite, e non alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto non versate, con la conseguenza che, per accertare il superamento della soglia, occorre procedere alla somma algebrica degli importi dei crediti inesistenti o non spettanti portati in compensazione. La medesima impostazione si rinviene, altresì, in Sez. 3, n. 34966 del 16/10/2020, Capoccia, Rv. 280428.

La delimitazione della sfera dei soggetti attivi del reato ha costituito oggetto dell’elaborazione di Sez. 3, n. 1722 del 25/09/2019, dep. 2020, Passoni, Rv. 277507, secondo cui l’amministratore di fatto risponde, quale autore principale, del delitto di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta, mentre l’amministratore di diritto, come mero prestanome, è responsabile del medesimo reato a titolo di concorso per omesso impedimento dell’evento, ai sensi degli artt. 40, comma secondo, cod. pen. e 2932 cod. civ., a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice. Nella specie, la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza di merito con la quale è stata affermata la sussistenza del dolo eventuale dell’amministratore di diritto, desumendola, oltre che dall’accettazione della carica, da una pluralità di elementi fattuali convergenti, che ne comprovavano la consapevolezza delle criticità gestionali della società e lo svolgimento di un ruolo attivo in ambito societario, con conseguente accettazione del rischio relativo alla commissione di reati da parte dell’amministratore di fatto.

Infine, è da segnalare, sul versante della disciplina processuale, Sez. 3, n. 6529 del 12/12/2019, dep. 2020, Magnozzi, Rv. 278597, secondo cui, ai fini della determinazione della competenza per territorio riguardante il delitto di indebita compensazione, atteso che l’obbligazione tributaria può essere adempiuta presso qualsiasi concessionario operante sul territorio nazionale, va applicato, nella conseguente impossibilità di fare riferimento al luogo di consumazione di cui all’art. 8 cod. proc. pen., il criterio sussidiario del luogo dell’accertamento del reato di cui all’art. 18, comma 1, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, prevalente, per la sua natura speciale, rispetto alle regole generali dettate dall’art. 9 cod. proc. pen.

2.7. Art. 11.

Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000, che punisce colui che, per sottrarsi alle imposte, aliena simulatamente o compie atti fraudolenti sui propri o altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva, è stato affermato da Sez. 3, n. 19989 del 10/01/2020, Costagliola, Rv. 279290 che non è necessaria la fondatezza della pretesa erariale, di talché la Corte, avuto riguardo ad una fattispecie relativa ad un’operazione di scissione societaria volta a deprivare il patrimonio della società contribuente, ha ritenuto legittimo il sequestro preventivo delle quote e dei beni societari, nonostante lo sgravio parziale delle somme dovute all’erario a seguito di annullamento dell’avviso di accertamento.

Quanto alla puntuale interpretazione della nozione di fraudolenza, Sez. 3, n. 35983 del 17/09/2020, Colanzi, Rv. 280372 osserva che gli atti dispositivi compiuti dall’obbligato, oggettivamente idonei ad eludere l’esecuzione esattoriale, hanno natura fraudolenta allorquando siano connotati da elementi di artificio, inganno o menzogna tali da rappresentare ai terzi una riduzione del patrimonio non corrispondente al vero, così mettendo a repentaglio o, comunque, rendendo più difficoltosa la procedura di riscossione coattiva. In tale prospettiva, la decisione in parola ha condiviso la qualificazione di atto fraudolento attribuita dal giudice di merito alla cessione, da parte dell’imputato, della propria azienda per un prezzo irrisorio in favore di una società non operativa, creata al solo scopo di effettuare l’acquisto e apparentemente amministrata da un familiare dello stesso imputato.

2.8. Concorso di persone nei reati di cui agli artt. 2 ed 8.

La giurisprudenza della Terza sezione (cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 5434 del 25/10/2016, dep. 2017, Rv. 269279) aveva già fissato il principio secondo il quale la disciplina in deroga all’ordinaria disciplina in tema di concorso di persone nel reato, prevista dall’art. 9 del d.lgs. 74 del 2000, non si applica laddove il soggetto emittente le fatture per operazioni inesistenti coincida con l’utilizzatore delle stesse, con particolare riferimento ad un’ipotesi in cui la stessa persona fisica rivestiva contemporaneamente la carica di amministratore delle società emittente e di quella utilizzatrice delle medesime fatture per operazioni inesistenti. Sul punto, Sez. 3, n. 34021 del 29/10/2020, Rossineli, Rv. 280370 ha affrontato l’ipotesi, concettualmente distinta, del concorso dell’extraneus – nella specie, consulente fiscale - nella commissione di entrambi i reati di cui agli artt. 2 ed 8 d.lgs. citato, giungendo ad affermare che la predetta disciplina in deroga di cui all’art. 9, come non si applica al soggetto che cumula in sé la qualità di emittente e quella di utilizzatore delle medesime fatture false, così è inapplicabile anche al consulente fiscale che con il primo concorra, quale extraneus, nella commissione di ciascuno dei reati oggetto di volontà comune, in considerazione della natura paritaria del titolo di responsabilità previsto dall’art. 110 cod. pen.

2.9. Art. 5-septies d.l. n. 167 del 1990.

Un’approfondita analisi della fattispecie di esibizione di atti falsi e comunicazione di dati non rispondenti al vero contemplata dall’art. 5-septies d.l. 28 giugno 1990, n. 167, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 1990, n. 227, si rinviene in Sez. 3, n. 27603 del 14/07/2020, Cerea.

Com’è noto, l’art. 4 del d.l. n. 167 del 1990 stabilisce che le persone fisiche, gli enti non commerciali e le società semplici ed equiparate ai sensi dell’articolo 5 del TUIR, residenti in Italia che, nel periodo d’imposta, detengono investimenti all’estero ovvero attività estere di natura finanziaria, suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia, devono indicarli nella dichiarazione annuale dei redditi; il successivo art. 5-quater (Collaborazione volontaria), come modificato dal d.l. 30/09/2015, n. 153 stabilisce che l’autore della violazione degli obblighi di dichiarazione di cui all’articolo 4, comma 1, commessa fino al 30 settembre 2014, può avvalersi della procedura di collaborazione volontaria per l’emersione delle attività finanziarie e patrimoniali costituite o detenute fuori del territorio dello Stato, per la defi nizione delle sanzioni per le eventuali violazioni di tali obblighi e per la definizione dell’accertamento mediante adesione. A tal fine, la norma prevede alcuni specifici adempimenti da parte del contribuente, quali l’indicazione spontanea all’Amministrazione finanziaria, mediante la presentazione di apposita richiesta, delle attività e degli investimenti di natura finanziaria all’estero, anche in via indiretta o per interposta persona, fornendo la relativa documentazione, necessaria anche per la determinazione degli eventuali maggiori imponibili relativamente a tutti i periodi d’imposta ancora suscettibili di accertamento; infine, il versamento delle somme dovute. Il corretto svolgimento della procedura di collaborazione volontaria comporta l’esclusione della punibilità per i delitti di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, 10-bis e 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, nonché delle condotte previste dagli artt. 648-bis, 648-ter, 648-ter.1 cod. pen., se commesse in relazione ai predetti delitti.

A presidio del corretto svolgimento della procedura, l’art. 5-septies dispone: «L’autore della violazione di cui all’articolo 4, comma 1, che, nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria di cui all’articolo 5-quater, esibisce o trasmette atti o documenti falsi, in tutto o in parte, ovvero fornisce dati e notizie non rispondenti al vero è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni. L’autore della violazione di cui all’articolo 4, comma 1, deve rilasciare al professionista che lo assiste nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà con la quale attesta che gli atti o documenti consegnati per l’espletamento dell’incarico non sono falsi e che i dati e notizie forniti sono rispondenti al vero».

In tale contesto normativo, la decisione della Terza sezione sopra citata ha stabilito, innanzitutto, che il soggetto attivo del reato di cui all’art. 5-septies, d.l. 28 giugno 1990, n. 167, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 1990, n. 227, è colui che si avvale della procedura di «collaborazione volontaria», poiché, avendo l’obbligo di rendere una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà circa la veridicità di dati, notizie e documenti forniti al professionista che lo assiste, è responsabile per l’eventuale mendacio in ordine agli stessi (Rv. 280279-01).

In secondo luogo, la sentenza n. 27603 del 2020 ha precisato che, fra i dati e le notizie rilevanti ai fini della procedura in esame, sono ricomprese anche le circostanze fattuali necessarie ai fini della individuazione del regime fiscale applicabile, e, quindi, della determinazione dell’esatto ammontare degli imponibili. (In motivazione, la Corte ha affermato che in tale ambito sono inclusi i dati concernenti la disponibilità di società-schermo nel medesimo settore di attività in cui si collocano le operazioni oggetto della procedura di «collaborazione volontaria») (Rv. 280279-02). Infine, la prefata decisione ha individuato il profitto del reato de quo «nelle somme non versate per effetto della esibizione o trasmissione di atti o documenti falsi o della comunicazione di dati e notizie non rispondenti al vero nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria a norma dell’art. 5-quater del d.l. citato, trattandosi del vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito. (Rv. 280279-03).

3. Cause di non punibilità e circostanze attenuanti.

3.1. Art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000.

L’elaborazione in materia penaltributaria frutto della giurisprudenza della Terza sezione della Corte non ha trascurato di dedicare la propria attenzione ad alcuni significativi profili attinenti alla causa di non punibilità prevista dall’art. 13 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74.

In particolare, Sez. 3, n. 17806 del 29/01/2020, Tamburro, Rv. 279426 ha stabilito che la compensazione legale del debito IVA con i crediti del contribuente non integra la causa di non punibilità prevista dall’art. 13 citato, rappresentando, piuttosto, un modo di estinzione dell’obbligazione diverso dall’adempimento e non costituendo, pertanto, una forma di “pagamento” del debito quale elemento richiesto espressamente dalla norma. La decisione argomenta nel senso che «va anzitutto escluso, in generale, che la compensazione di diritto, ove maturata prima della scadenza dell’obbligo di versamento dell’IVA, sia idonea ad estinguere in radice il debito stesso sicché non potrebbe parlarsi, evidentemente, ai sensi dell’art. 13, del pagamento di un debito che sarebbe, già di per sé, inesistente». In secondo luogo, muovendo dall’ipotesi che, invece, la compensazione di specie fosse maturata successivamente alla scadenza dell’obbligo di versamento, «va rilevato che il dettato dell’art. 13 cit., che fa espresso riferimento al “pagamento”, in esso includendo anche ipotesi specifiche derivanti da istituti di natura conciliativa, non consente di includervi l’ipotesi della compensazione legale che, come noto, rientra, per espressa qualificazione del codice civile, tra i “modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento”, ovvero, in altri termini, diversi proprio dal pagamento».

Sul piano dei meccanismi operativi delineati dalla norma al fine di consentire all’imputato-contribuente di fruire della predetta causa di non punibilità, rilevante è il contributo offerto da Sez. 3, n. 5288 del 12/11/2019, dep. 2020, Carelli, Rv. 278397, a tenore della quale la concessione del termine trimestrale di cui all’art.13, comma 3, d.lgs. citato, che consente il pagamento del debito erariale in pendenza del processo, «presuppone l’esistenza di un piano di rateizzazione produttivo di effetti e il rispetto del termine di pagamento delle singole rate, previsto a pena di decadenza». Facendo puntuale applicazione di tale principio, la Corte ha, in particolare, ritenuto immune da censure la mancata concessione del suddetto termine non avendo l’imputato fornito prova della sussistenza di un valido piano di rateizzazione e dell’adempimento degli importi oggetto di dilazione ai sensi dell’art. 3-bis, d.lgs.18 dicembre 1997, n. 462.

Le implicazioni scaturenti dall’accordo con l’amministrazione finanziaria per il pagamento rateale del debito tributario sono state oggetto anche di Sez. 3, n. 16472 del 28/02/2020, Giardi, Rv. 279012, secondo cui «l’accordo tra il contribuente e l’amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito, quantunque comporti la rimodulazione della sua scadenza, che viene scansionata nel tempo in corrispondenza ai termini delle singole rate, non esclude che, al verificarsi di detta scadenza senza la soddisfazione totale del debito, il reato resti comunque configurabile, in quanto la previsione di una causa sopravvenuta di non punibilità del fatto lascia immutata l’illiceità della condotta, che non può ritenersi scriminata ai sensi dell’art. 51 cod. pen. né ai sensi dell’art. 59, comma quarto, cod. pen., cadendo l’errore del contribuente su norme penali (nella specie gli artt. 10-ter e 13, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74), con conseguente applicazione dell’art. 5 cod. pen.».

3.2. Art. 131-bis cod. pen.

Ulteriori pronunce della Terza sezione hanno analizzato il tema dei rapporti fra art. 131-bis cod. pen. e fattispecie penaltributarie. Sez. 3, n. 16599 del 20/02/2020, Latorre, Rv. 278946, occupandosi di una fattispecie di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi ai fini di evasione delle imposte, ha puntualizzato che la causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen. è applicabile laddove la omissione abbia riguardato un ammontare vicinissimo alla soglia di punibilità, fissata in euro 50.000,00 dall’art. 5 del d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74, in ragione del fatto che il grado di offensività che fonda il reato è stato valutato dal legislatore nella determinazione della soglia di rilevanza penale: nella specie, la Corte ha ritenuto che la censura del ricorrente relativa al mancato riconoscimento della predetta causa di non punibilità fosse manifestamente infondata con riferimento ad una evasione di imposta eccedente la soglia di legge per un ammontare di euro 5.825,21, superiore all’11% dell’importo della soglia stessa.

In argomento, da segnalare, altresì, Sez. 3, n. 36915 del 22/12/2020, Vittalini, Rv. 280269 – 02, secondo cui, in tema di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, anche nell’ipotesi lieve prevista dall’art. 2, comma 2-bis, d.lgs. n. 74 del 2000 non opera la causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen., neppure a seguito della parziale declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 156 del 2020, in quanto essa, essendo riferita ai reati per i quali non è stabilito un minimo edittale di pena detentiva - con conseguente operatività del minimo assoluto di cui all’art. 23, primo comma, cod. pen. - e nei quali, pertanto, sono potenzialmente sussumibili condotte della più tenue offensività, non può essere estesa ad una ipotesi in cui la pena minima è stabilita in un anno e sei mesi di reclusione.

3.3. Circostanza attenuante ex art. 13-bis, comma 1 d.lgs. n. 74 del 2000.

Pronunciandosi in ordine all’attenuante di cui all’art. 13-bis, comma 1, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, che consegue al pagamento dei debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, Sez. 3, n. 9883 del 04/02/2020, Carlovico, Rv. 278671, ha chiarito che la stessa richiede il presupposto della esistenza di un debito tributario suscettibile di essere adempiuto, sicché non è applicabile in relazione ai reati che sussistono pur in assenza di un’evasione di imposta. Il principio è stato direttamente riferito ad una fattispecie di reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, ex art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000, ma in motivazione la Corte ha affermato che «al medesimo genere appartengono anche i reati di cui agli artt. 10 e 11, la cui integrazione non è condizionata dall’esistenza di un’omissione tributaria o comunque di un danno patrimoniale a carico dell’Erario». Tali ipotesi, infatti, costituiscono reati di pericolo «la cui integrazione non necessita del verificarsi di un evento naturalistico, nel caso la evasione di imposta, essendo sufficiente che si realizzi il pericolo che questo si verifichi» (cfr. anche Sez. 3, n, 46049 dell’11/10/2018, Carestia, Rv. 274697 – 02).

Nel contempo, la Corte ha escluso, in quanto manifestamente infondato, ogni profilo di irragionevolezza ovvero di contrasto con il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., avendo in realtà il legislatore, per un verso, «inteso premiare con un trattamento sanzionatorio più blando il soggetto che, attraverso il pagamento delle imposte fino a quel momento evase, ha in tal modo dimostrato concretamente una forma di avvenuta resipiscenza rispetto al suo precedente atteggiamento antigiuridico (né la circostanza che un siffatto atteggiamento non possa essere negli stessi termini dimostrato da chi, non avendo evaso alcuna imposta, non sia in condizione di pagarla prima dell’inizio del dibattimento costituisce fattore tale da determinare un trattamento irragionevolmente deteriore di tale seconda categoria di soggetti, una volta che gli stessi siano condannati, atteso che la descritta circostanza, cioè la mancata sussistenza di un danno materiale a carico dell’Erario quale conseguenza dell’agire di costoro, potrà essere ragionevolmente oggetto di valutazione da parte del giudicante nell’ambito della discrezionale quantificazione della pena entro la forcella edittale prevista per il singolo reato perpetrato), mentre ha, per altro verso, così inteso incentivare - facendo uso della ampia discrezionalità che è concessa al legislatore in materia di misure ampliative o comunque attributive di benefici - attraverso la previsione premiale della circostanza attenuante in questione, attesi gli evidenti vantaggi di carattere generale che da ciò possono derivare al complessivo sistema fiscale, il, sia pure differito, integrale adempimento degli obblighi tributari da parte di chi si sia, sino a quel momento, sottratto ad essi».

Di notevole rilievo è, altresì, il principio espresso da Sez. 3, n. 36915 del 22/12/2020, Vittalini, Rv. 280269-01: in tema di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, la sentenza ha affermato che il riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 13-bis, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000 non consente, ai sensi dell’art. 131-bis, comma 4, cod. pen., l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto in quanto, ricorrendo una sola circostanza ad effetto speciale per la quale non è prevista una diminuzione minima, va effettuata un’ideale diminuzione di un giorno di reclusione, sicché il massimo di pena previsto per detta fattispecie delittuosa non rientra nel limite di cinque anni previsto dall’art. 131-bis cod. pen.

Infine, a completamento del quadro così sinteticamente tratteggiato va annotato che la Corte, con altra decisione, ha avuto modo di ribadire che la fattispecie di cui all’art. 8, comma 3, d.lgs. n. 74 del 2000, n. 74, abrogata dal d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, ha natura di reato autonomo e non di circostanza attenuante ad effetto speciale. (Sez. 3, n. 3163 del 22/11/2019, dep. 2020, Bruschi, Rv. 278251).

4. Sequestro e confisca.

È noto che, secondo il dictum di Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264437-01, «qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato». Altrettanto noto è il principio enunciato da Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258647, secondo cui è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità di una persona giuridica, derivante dal reato tributario commesso dal suo legale rappresentante, non potendo considerarsi l’ente una persona estranea al detto reato.

In tale quadro, Sez. 3, n. 31516 del 29/09/2020, Casa di cura Trusso s.p.a. in liquidazione, Rv. 280152, resa in fattispecie relativa al reato di omesso versamento di ritenute dovute o certificate ex art. 10-bis d.lgs. n. 74 del 2000, ha precisato che il riferimento alla natura fungibile del denaro non consente il sequestro preventivo funzionale alla confisca diretta delle somme depositate sul conto corrente bancario di una società dichiarata fallita, corrispondenti alle rimesse effettuate dal curatore fallimentare successivamente alla data di consumazione del reato da parte del legale rappresentante della stessa, in quanto esse, non derivando dal reato, non ne possono costituire il profitto.

Una puntuale declinazione dei principi generali in materia di sequestro e confisca in relazione alla specifica fattispecie di indebita compensazione, di cui all’art. 10-quater, d.lgs. n. 74 del 2000, posta in essere dall’amministratore di una persona giuridica ha condotto Sez. 3, n. 23040 del 01/07/2020, Multi Professional Service srl, Rv. 279827 ad affermare che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca in forma diretta del profitto derivante dal reato può avere ad oggetto il saldo attivo presente sul conto corrente sociale al momento della sua consumazione, coincidente con la presentazione dell’ultimo modello F24 relativo all’anno interessato - sul rilievo indiziario che le disponibilità monetarie si siano accresciute per il risparmio di spesa conseguito con il mancato versamento dell’imposta -, restando onere della difesa allegare circostanze specifiche da cui desumere che, alla data di consumazione del reato, non vi fossero sul predetto conto somme liquide a disposizione del contribuente o che il denaro sequestrato sia frutto di accrediti con causa lecita effettuati successivamente a tale momento.

Con specifico riferimento alla figura del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, Sez. 3, n. 25448 del 23/07/2020, Carelli, Rv. 279867 ha affermato che è legittima l’apposizione del vincolo cautelare in funzione della confisca per equivalente di una quota dell’immobile di piena proprietà dell’indagato, ben potendo il vincolo essere apposto su di un bene solo fino alla concorrenza del profitto del reato da sequestrare.

È interessante notare come, in motivazione, la Corte abbia precisato che, in caso di confisca della sola quota in conseguenza della necessità di rapportare l’importo oggetto di sequestro al valore del profitto conseguito, si realizza una comunione ordinaria sul bene immobile tra lo Stato - e, per esso, l’Agenzia del demanio - e l’indagato, assoggettata alla disciplina generale sulla comunione ordinaria di cui agli artt. 1100-1116 cod. civ.

Sempre in relazione al tema dell’apposizione di un vincolo cautelare funzionale alla confisca per equivalente, nella specie dei beni dell’amministratore, nel caso di incapienza dei beni della società rispetto al debito maturato, Sez. 3, n. 23621 del 17/07/2020, Zamattio, Rv. 279824, ponendosi nel solco di altre precedenti pronunce (cfr., ad esempio, Sez. 3, n. 40362 del 06/07/2016, D’Agostino, Rv. 268586) ha affermato che in tal caso il sequestro preventivo, non presupponendo alcuna forma di responsabilità civile, può avere ad oggetto anche beni inclusi nel fondo patrimoniale familiare, «in quanto su di essi grava un mero vincolo di destinazione che non ne esclude la disponibilità da parte del proprietario che ve li ha conferiti». (Fattispecie nella quale è stato ritenuto legittimo il sequestro di un immobile appartenente al ricorrente, sebbene incluso nel fondo patrimoniale e assegnato alla moglie separata ed ai figli).

Riguardo, poi, alla disposizione di cui all’art.12-bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, introdotta dal d.lgs. n.158 del 2015, secondo cui la confisca diretta o di valore dei beni costituenti profitto o prezzo del reato «non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro», Sez. 3, n. 28488 del 10/09/2020, D’Angela, Rv. 280014 ha precisato che tale norma deve essere intesa nel senso che la confisca - così come il sequestro preventivo ad essa preordinato - può essere adottata anche a fronte dell’impegno di pagamento assunto, producendo tuttavia effetti solo ove si verifichi l’evento futuro ed incerto costituito dal mancato pagamento del debito. In tale prospettiva, la Corte ha precisato che il sequestro e la conseguente confisca devono essere conservati fino all’integrale effettivo pagamento della somma evasa, potendo le rate già versate essere considerate solo ai fini della riquantificazione della misura.

Ulteriori precisazioni sul tema provengono da Sez. 3, n. 14738 del 12/12/2019, dep. 2020, Marchio, Rv. 279462, a tenore della quale l’anzidetta previsione di cui al comma secondo dell’art. 12-bis citato «si riferisce ai casi di obbligo assunto nei termini riconosciuti dalla legislazione tributaria di riferimento, tra i quali rientra la definizione agevolata delle controversie prevista dall’art. 6, commi 6 e 8, del d.l. 24 ottobre 2018, n. 119, conv. con mod. dalla legge 17 dicembre 2018 n. 136 (c.d. “pace fiscale”), sempre che la controversia oggetto di richiesta di definizione non riguardi, in tutto o in parte, le risorse o somme di cui al comma 5, lett. a e b, del suddetto art. 6 del d. l. n. 119 del 2018 ed abbia ad oggetto gli stessi fatti produttivi del profitto confiscabile».

Resta fermo, come annota Sez. 3, n. 14766 del 26/02/2020, Pmt c/ Sangermano, Rv. 279382, che il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti della persona fisica «è ammissibile anche nel caso di intervenuto fallimento della persona giuridica, che determina il passaggio dei beni nella disponibilità della curatela, con conseguente impossibilità di ablazione attraverso il sequestro in via diretta nei confronti di detta persona giuridica».

In una prospettiva non dissimile, Sez. 3, n. 9380 del 16/10/2019, dep. 2020, Caucci, Rv. 278416, in una fattispecie in tema di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, ha affermato che la possibilità di disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente dei beni degli amministratori sussiste anche laddove non possa farsi luogo al sequestro diretto del profitto derivante dalla commissione del reato nel patrimonio dell’ente nel cui interesse costoro hanno agito perché già sottoposto a sequestro preventivo in relazione ad altro reato.

Sempre in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, Sez. 3, n. 10098 del 27/11/2019, dep. 2020, Pavesi, Rv. 278536-02, ha affermato che, in ipotesi di cd. estero-vestizione della residenza fiscale, ossia nel caso in cui sia configurabile la “stabile organizzazione” in Italia di una società formalmente residente all’estero, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente può essere disposto sui beni dell’imputato, ove non sia stato possibile reperire nei confronti dell’ente il profitto diretto del reato, mentre, invece, in caso di costituzione di una mera “società-schermo”, il sequestro preventivo ai fini di confisca del profitto del reato può essere eseguito, indifferentemente, sia sui beni dell’imputato, sia su quelli della società. Sez. 3, n. 166 del 09/10/2019, dep. 2020, Calderato Rv. 278576, occupandosi dei limiti di configurabilità della confisca del profitto in relazione alla fattispecie di occultamento e distruzione di scritture contabili, ha stabilito che «è confiscabile, in via diretta o per equivalente, a condizione che sia possibile determinare l’importo dell’evasione, il profitto del reato di occultamento o distruzione di documenti contabili previsto dall’art. 10 d.lgs. n. 74 del 2000, che consiste nell’indebito vantaggio economico commisurato al debito di imposta, maggiorato delle eventuali sanzioni e degli interessi maturati sino al momento della commissione del fatto, e di cui la condotta delittuosa ha ostacolato la scoperta». Ancora, Sez. 3, n. 8995 del 07/11/2019, dep. 2020, Piscopo, Rv. 278275 affrontando il tema della contestata legittimità della confisca per equivalente dell’abitazione dell’indagato, quale profitto del delitto di cui all’art. 2 del d.lgs. n.74 del 2000, ha osservato che il limite alla espropriazione immobiliare previsto dall’art. 76, comma 1, lett. a), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, nel testo introdotto dall’art. 52, comma 1, lett. g), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (convertito, con modificazioni, in legge 9 agosto 2013, n. 98), opera solo nei confronti dell’Erario, per debiti tributari, e non di altre categorie di creditori, riguarda l’unico immobile di proprietà, e non la “prima casa” del debitore, e non costituisce un limite all’adozione né della confisca penale, sia essa diretta o per equivalente, né del sequestro preventivo ad essa finalizzato.

Nel caso, infine, in cui la sentenza di condanna per reato tributario abbia omesso la confisca del profitto ex art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, Sez. 3, n. 3165 del 22/11/2019, dep. 2020, Tortorici, Rv. 278637 ha stabilito che detta decisione va parzialmente annullata con rinvio ove occorra verificare, mediante attività istruttorie precluse nel giudizio di legittimità, la possibilità di procedere in via prioritaria alla confisca diretta di tale profitto e, solo ove ciò sia impossibile, a quella per equivalente.

5. Questioni processuali.

Diverse sono le decisioni che hanno affrontato questioni processuali in relazione a fattispecie penaltributarie. Sotto il profilo della contestazione dell’accusa e della precisione e determinatezza del capo d’imputazione, Sez. 3, n. 6509 del 06/11/2019, dep. 2020, Pace, Rv. 278544 ha puntualizzato che, in relazione al delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti, la mancata indicazione specifica dei soggetti beneficiari delle stesse nel capo di imputazione «non comporta alcuna genericità o indeterminatezza della contestazione del delitto di cui all’art. 8 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, allorché tali soggetti siano agevolmente identificabili in forza di elementi fattuali che ne rendano comunque possibile l’individuazione». In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto sufficientemente determinato un capo di imputazione che si riferiva a tutte le fatture dell’anno 2011.

Sul diverso piano dell’istruzione probatoria, Sez. 3, n. 28489 del 10/09/2020, Sammarini, Rv. 280015, occupandosi del reato previsto dall’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, ha stabilito che non è richiesta, ai fini di prova, l’acquisizione al fascicolo processuale della dichiarazione fiscale del contribuente o di alcuna prova legale, essendo sufficiente che il giudice raggiunga la certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’omissione, per una somma eccedente la soglia di punibilità, abbia ad oggetto l’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale regolarmente presentata, dandone conto con motivazione immune da vizi logici o giuridici. Nella specie, la Corte ha ritenuto provata l’avvenuta presentazione della dichiarazione IVA in ragione della denuncia presentata dall’Agenzia delle entrate, originata dalla valutazione, da parte del funzionario accertatore, della dichiarazione fiscale contenente la specifica indicazione dell’imposta da versare).

Sotto ulteriore e convergente profilo, Sez. 3, n. 8784 del 29/11/2019, dep. 2020, Calabrese, Rv. 278266, in tema di reato di omesso versamento dell’IVA, ha puntualizzato che, nel caso in cui l’ammontare dell’imposta dichiarata e non versata sia indicata dal contribuente con la compilazione del quadro VL, spetta a questi dare dimostrazione dell’inattendibilità, per errore o per altra causa, della dichiarazione a fini IVA, senza che ciò costituisca un’inversione dell’onere della prova.

Sul versante degli eventi che, nel determinare la sospensione del procedimento, incidono sul decorso del termine prescrizionale del reato una puntuale declinazione del tema nel settore dei procedimenti per reati tributari giunge da Sez. 3, n. 23179 del 16/06/2020, Marcuccio, Rv. 279861.

La decisione, nel fare proprio il principio secondo cui la sospensione del procedimento e il rinvio o la sospensione del dibattimento comportano, senza necessità di un provvedimento formale, la sospensione dei relativi termini ogni qualvolta siano disposti per impedimento dell’imputato o del suo difensore, ovvero su loro richiesta e sempre che l’una o l’altro non siano determinati da esigenze di acquisizione della prova o dal riconoscimento di un termine a difesa, ha in concreto escluso che il rinvio, disposto su richiesta dell’imputato o del suo difensore, per consentire il completamento della procedura di adesione all’accertamento tributario fosse riconducibile all’esercizio del diritto alla prova o del diritto di difesa nel processo penale. Gli aspetti di tipo risarcitorio che fanno da corollario alla commissione di un reato fiscale sono stati oggetto di puntuale ricognizione da parte di Sez. 3, n. 3458 del 18/11/2019, dep. 2020, Viganò, Rv. 278594: secondo tale arresto decisorio, la persona giuridica amministrata dall’imputato del reato di cui all’art. 2, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 che lamenti un danno alla propria immagine, per il discredito conseguente alla condanna del proprio legale rappresentante, e un danno patrimoniale, a causa del sorgere della obbligazione di pagamento degli interessi e delle sanzioni derivanti dalle condotte illecite, è legittimata a costituirsi parte civile nei confronti dello stesso. In motivazione la Corte ha precisato che, nonostante la parte offesa dei reati tributari sia l’Agenzia delle Entrate, ciò non esclude che possano esservi altri soggetti danneggiati dai medesimi reati.

Oggetto di perdurante interesse anche da parte della giurisprudenza penaltributaria formatasi nel 2020 è il sempre attuale tema concernente i presupposti per l’accesso ai riti alternativi, in chiave di epilogo decisorio del processo per reati tributari.

Premesso che, come affermato da Sez. 3, n. 552 del 10/07/2019, dep. 2020, Bentivogli, Rv. 278014-02, la condizione per l’ammissibilità del patteggiamento, prevista dall’art. 13-bis, comma 2, d.lgs n. 74 del 2000, come inserita dall’art. 12 del d.lgs. n. 158 del 2015, «ha natura esclusivamente procedimentale e, pertanto, si applica anche ai fatti antecedenti alla sua entrata in vigore», per un più agevole inquadramento della questione, è utile ricordare alcune essenziali tappe dell’evoluzione interpretativa delle disposizioni, invero non cristalline, destinate a regolare la complessa tematica.

Va richiamato, in particolare, che Sez. 3, n. 38684 del 12/04/2018, P.g. in proc. Incerti, Rv. 273607 – 01 aveva affermato il principio secondo cui, in relazione al delitto di omesso versamento dell’IVA, l’estinzione dei debiti tributari mediante integrale pagamento, da effettuarsi prima dell’apertura del dibattimento, non costituisce presupposto di legittimità del patteggiamento ai sensi dell’art. 13-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, in quanto l’art. 13, comma 1 configura detto comportamento come causa di non punibilità dei delitti previsti dagli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater del medesimo decreto e il patteggiamento non potrebbe certamente riguardare reati non punibili (In motivazione, la Corte ha richiamato la clausola di salvezza contenuta nello stesso art. 13-bis, comma 2); un conforme orientamento è stato, più di recente, espresso anche da Sez. 3, n. 48029 del 22/10/2019, Rv. 277466.

È altrettanto importante rilevare come la medesima soluzione - originariamente riferita, come visto, ai delitti previsti dagli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater - sia stata successivamente estesa da Sez. 3, n. 10800 del 23/11/2018, dep. 2019, Pg c/ Bianconi, Rv. 277418, al delitto di omessa dichiarazione previsto dall’art. 5 dello stesso d.lgs., nonché, in via di enunciazione di principio, anche a quelli di cui agli artt. 2, 3 e 4 del medesimo decreto. Invero, anche in tali ipotesi, secondo la decisione in esame, «l’estinzione dei debiti tributari, comprese le sanzioni amministrative e gli interessi, mediante integrale pagamento degli importi dovuti prima dell’apertura del dibattimento, non costituisce presupposto di legittimità dell’applicazione della pena ai sensi dell’art. 13-bis del medesimo d.lgs., in quanto l’art. 13, comma 2, della stessa normativa configura tale comportamento come causa di non punibilità dei delitti previsti dagli artt. 2, 3, 4 e 5 del medesimo decreto. Nella parte motiva di tale decisione, la Corte aveva precisato che l’art. 13-bis d.lgs. n. 74 del 2000, disciplinando la predetta condizione di accesso al rito speciale, fa espressamente salve le ipotesi di non punibilità previste dal citato art. 13 del medesimo d.lgs».

Tuttavia, in merito alla possibilità di estendere l’operatività del principio enunciato dalla sentenza Incerti in relazione ai delitti previsti dagli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, ampliandone la portata applicativa sino a ricomprendervi, in special modo, anche le diverse fattispecie di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione previste dagli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 74 del 2000, si registra un differente itinerario interpretativo, esaurientemente espresso da Sez. 3, n. 47287 del 02/10/2019, Cetin Mehmet Emin, Rv. 277897, secondo cui, in tali ipotesi, «la richiesta di applicazione della pena è ammissibile solo quando vi sia stato l’integrale pagamento del debito tributario prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado pur se dopo la formale conoscenza, da parte dell’autore del reato, di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali, diversamente operando la causa di non punibilità prevista dall’art. 13, comma 2, del medesimo d.lgs.».

Nei passaggi salienti della motivazione della decisione in esame si sottolinea che la soluzione accolta segue ad una ricostruzione del dettato normativo che non si pone in alcun modo in contrasto con il principio, già affermato dalla sentenza n. 38684 del 2018, Incerti, secondo cui in relazione al delitto di omesso versamento dell’IVA, l’estinzione dei debiti tributari mediante integrale pagamento, prima dell’apertura del dibattimento, non costituisce presupposto di legittimità del patteggiamento ai sensi dell’art. 13-bis citato, in quanto l’art. 13, comma 1, configura detto comportamento come causa di non punibilità dei delitti previsti dagli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater del medesimo decreto e il patteggiamento non potrebbe certamente riguardare reati non punibili.

In particolare, l’art. 13-bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, stabilisce, per tutti i delitti previsti dal medesimo provvedimento normativo, la possibilità di accedere al rito del c.d. “patteggiamento” solo quando ricorra la circostanza di cui al comma 1 (fondata sul pagamento integrale, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, di tributi, sanzioni amministrative ed interessi, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione), nonché il ravvedimento operoso, fatte salve le ipotesi di cui all’articolo 13, commi 1 e 2.

Tale clausola di salvezza si riferisce, precisamente, alle cause di non punibilità ex art. 13: è noto che la norma nei suoi due commi prevede presupposti diversi per i delitti di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, da un lato, e per i delitti di cui agli artt. 4 e 5 - e, dopo il d.l. 26 ottobre 2019, convertito con modificazioni nella legge 19 dicembre 2019, n. 157, anche per gli artt. 2 e 3 - dall’altro. In particolare, il comma 1 dell’art. 13 stabilisce che «i reati di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso.». A norma dell’art. 13, comma 2, invece, «i reati di cui agli articoli 2, 3, 4 e 5 non sono punibili se debiti tributari, sanzioni e interessi sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.». La decisione in esame pone in rilievo che, dalla combinazione di tutte le disposizioni indicate, risulta evidente che non si possono porre problemi di ammissibilità del patteggiamento per tutti i delitti citati quando il pagamento del debito tributario dia luogo ad una causa di non punibilità a norma dell’art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000, perché in tal caso il giudice deve pronunciare sentenza di assoluzione, in linea con quanto disposto dall’art. 444, comma 2, cod. proc. pen.

In disparte tali ipotesi, la sentenza sottolinea come, per i reati previsti dagli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, gli elementi costituivi della circostanza di cui all’art. 13-bis, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, la cui verificazione è presupposto per l’accesso al rito del c.d. “patteggiamento”, e gli elementi costitutivi della fattispecie integrante la causa di non punibilità di cui all’art. 13, comma 1, del medesimo d.lgs., si sovrappongono totalmente; di qui due conseguenze: in primo luogo, per detti reati, l’estinzione integrale dei debiti tributari prima dell’apertura del dibattimento di primo grado fa scattare la causa di non punibilità, in quanto prevista da una norma che è speciale rispetto a quella relativa alla circostanza attenuante ad effetto speciale. In secondo luogo, per tali reati, il predetto pagamento «non può mai costituire presupposto per l’accesso al rito del c.d. “patteggiamento” perché, se si verifica, dà luogo, in ogni caso, alla causa di non punibilità. In presenza delle indicate fattispecie, quindi, l’alternativa è o ritenere preclusa in radice la definibilità del procedimento penale a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., o, al contrario, ammetterla, ma senza richiedere il preventivo pagamento del debito tributario. La prima soluzione, però, sembra poco plausibile perché l’art. 13-bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, nei suoi enunciati testuali, non fissa, in linea generale e programmatica, un divieto generale di accesso al c.d. “patteggiamento” per i delitti di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1».

Diversa è la situazione riferita ai reati di cui agli artt. 4 e 5 (ed estesa anche alle fattispecie di cui agli artt. 2 e 3, per effetto della sopracitata modifica dell’art. 13, comma 2 per effetto della legge n. 157 del 2019). Per essi, la causa di non punibilità ex art. 13, comma 2, d.lgs. cit. è integrata esclusivamente se l’integrale pagamento del debito è effettuato: a) in collegamento con il ravvedimento operoso o la presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione per il periodo d’imposta successivo;

b) «sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali».

È quindi evidente che, per i reati in questione, il pagamento del debito tributario effettuato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ma dopo la formale conoscenza, da parte dell’autore del reato, di uno dei citati atti non potrà integrare la causa di non punibilità, ma solo la circostanza attenuante ad effetto speciale. Pertanto, per questi delitti, si ritiene che l’accesso al rito di cui all’art. 444 cod. proc. pen. possa e debba essere subordinato al verificarsi della circostanza di cui all’art. 13-bis, comma 1, d.lgs. cit.., ossia quando vi sia stato l’integrale pagamento del debito tributario prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, pur se dopo la formale conoscenza, da parte dell’autore del reato, di accessi, ispezioni, verifiche, dell’inizio di altre attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.

Questa soluzione ermeneutica – che, come osservato, non si pone affatto in contrasto con la sentenza Incerti, di cui costituisce, piuttosto, un completamento (introducendo principi che possono oggi essere estesi, come detto, anche alle fattispecie di cui agli artt. 2 e 3) –, pure non isolata (cfr., a titolo esemplificativo, Sez. 3, n.26529 del 24/06/2020, Zaniboni), sembra, tuttavia, non essere stata recepita dalla motivazione della più recente Sez. 3, n. 552 del 10/07/2019, dep. 2020, Bentivogli, Rv. 278014-01.

La Corte, in tale ultimo arresto decisorio, ha, innanzitutto, ritenuto pena illegale quella determinata attraverso una riduzione per il patteggiamento non consentita per la mancanza dei presupposti richiesti dalla legge per l’accesso al rito speciale. In particolare, considerando la nozione di pena illegale, come sintetizzata dalle Sezioni Unite (in particolare, Sez. U, n. 40986 del 19/07/2018, Pittalà, Rv. 273934-01 e 273934-02, e Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Iazouli, Rv. 264205-01 e 264207-01), e ritenendo tale anche la pena determinata attraverso l’applicazione di una diminuzione non consentita, per l’assenza di una delle condizioni richieste per accedere al rito alternativo, la sentenza considera illegale la pena nella specie patteggiata, «in quanto determinata mediante l’applicazione di una diminuzione priva del presupposto espressamente previsto per l’accesso al rito alternativo e, quindi, per la sua applicabilità» costituita, per i reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, dal pagamento integrale dei debiti tributari o dal ravvedimento operoso.

In tale prospettiva, peraltro, la decisione interpreta l’art. 13-bis, comma 2, d.lgs. citato nel senso che alla regola della previa estinzione dei debiti tributari quale condizione di accesso al rito premiale facciano eccezione non solo i delitti di cui agli artt. 10 bis, 10 ter e 10 quater, ma anche quelli di cui agli artt. 4 e 5, tanto è vero che l’illegalità della riduzione di pena ex art. 444 cod. proc. pen. in quanto effettuata senza che fosse stato integrato, “a monte”, il predetto pagamento integrale è stata ritenuta esclusivamente con riguardo ai reati cui agli artt. 10 (capo C) ed 8 (capo D) del d.lgs. n. 74 del 2000, e non anche rispetto al reato, parimenti contestato, di cui all’art. 5 (capi A e B della rubrica).

Infine, per completezza espositiva, per quanto la decisione non appartenga al catalogo di quelle adottate nel corso del 2020, merita di essere richiamata Sez. 3, n. 41133 del 12/04/2019, Zucchelli, Rv. 277979, secondo cui, in relazione al delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili, l’estinzione dei debiti tributari di cui sopra, comprese sanzioni amministrative e interessi, mediante integrale pagamento degli importi dovuti prima dell’apertura del dibattimento, non costituisce presupposto di legittimità dell’applicazione della pena ai sensi dell’art. 13-bis citato, in quanto tale reato non richiede l’esistenza di un profitto per l’agente o di un danno in termini di minore entrata fiscale per l’Erario. (In motivazione, la Corte ha rilevato che sarebbe stato onere del ricorrente Pubblico Ministero, fornire, nel rispetto del canone della specificità dell’impugnazione, elementi in ordine all’esistenza in capo all’imputato di un qualche debito tributario dipendente dalla condotta a lui contestata, che egli avrebbe dovuto adempiere per accedere al rito).

Di particolare interesse, infine, è la disamina compiuta in tema di formule di assoluzione ed interesse ad impugnare da parte di Sez. 3, n. 27007 del 22/07/2020, Bianchi, Rv. 279917.

La decisione ha fissato il principio secondo cui, nel caso di assoluzione dal reato di omesso versamento dell’IVA previsto dall’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, in ragione del mancato raggiungimento della soglia di punibilità, con la formula “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”, non sussiste l’interesse dell’imputato ad impugnare la sentenza al fine di ottenere l’assoluzione con la formula “perché il fatto non sussiste”, atteso che, ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen., la sentenza penale irrevocabile di assoluzione non pregiudica comunque il potere dell’amministrazione finanziaria di procedere all’accertamento della violazione in relazione all’imposta dovuta e non versata in misura inferiore alla soglia di punibilità, in quanto integrante un fatto diverso da quello giudicato in sede penale.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 2451 del 27/09/2007, dep. 2008, Magera, Rv. 238197 Sez. 3, n. 9163 del 29/10/2009, dep. 2010, Lombardi, Rv. 246208

Sez. 3, n. 7080 del 24/01/2012, Barretta, Rv. 252102

Sez. 3, n. 32091 del 21/02/2013, Mazzeschi, Rv. 257043 Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258647

Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Iazouli, Rv. 264205 e 264207 Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264437-01

Sez. 3, n. 37856 del 18/06/2015, Porzio, Rv. 265087

Sez. 3, n. 40362 del 06/07/2016, D’Agostino, Rv. 268586

Sez. 3, n. 28681 del 27/01/2017, Peverelli, Rv. 270335

Sez. 3, n. 37849 del 29/03/2017, Meersseman, Rv. 270739

Sez. 3, n. 29873 del 01/12/2017 – dep. 2018 -, Calabrò, Rv. 273690 Sez. U, n. 40986 del 19/07/2018, Pittalà, Rv. 273934-01 e 273934-02

Sez. 3, n. 38684 del 12/04/2018, P.G. in proc. Incerti, Rv. 273607 Sez. 3, n. 49795 del 23/05/2018, Giacometti, Rv. 274199

Sez. 3, n. 50151 del 13/07/2018, M., Rv. 274090

Sez. 3, n, 46049 del 11/10/2018, Carestia, Rv. 274697-02

Sez. 3, n. 6360 del 25/10/2018, dep. 2019, Capobianco, Rv. 275698

Sez. 3, n. 2860 del 30/10/2018, dep. 2019, Pmt c/ Maurina, Rv. 274822

Sez. 3, n. 10800 del 23/11/2018, dep. 2019, Pg c/ Bianconi, Rv. 277418

Sez. 3, n. 11520 del 29/01/2019, Tonnarello, Rv. 275990

Sez. 3, n. 36320 del 02/04/2019, Prefabbricati srl, Rv. 277687 Sez. 3, n. 41133 del 12/04/2019, Pg c/ Zucchelli, Rv. 277979 Sez. 1, n. 38042 del 10/05/2019, Pmt/Santoro, Rv. 278825

Sez. 3, n. 47287 del 02/10/2019, Pg C/ Cetin Mehmet Emin, Rv. 277897 Sez. 3, n. 48029 del 22/10/2019, Pg c/ Vitali, Rv. 277466

Sez. 3, n. 552 del 10/07/2019, dep. 2020, Bentivogli, Rv. 278014-01, -02

Sez. 3, n. 6506 del 24/09/2019, dep. 2020, Mattiazzo, Rv. 278909

Sez. 3, n. 1722 del 25/09/2019, dep. 2020, Passoni, Rv. 277507

Sez. 3, n. 166 del 09/10/2019, dep. 2020, Pmt c/Calderato Rv. 278576

Sez. 3, n. 5513 del 16/10/2019, dep. 2020, Mocali, Rv. 278254

Sez. 3, n. 9380 del 16/10/2019, dep. 2020, Caucci, Rv. 278416

Sez. 3, n. 5411 del 25/10/2019, dep. 2020, Nucita, Rv. 278595

Sez. 3, n. 6509 del 06/11/2019, dep. 2020, Pace. Rv. 278544

Sez. 3, n. 8969 del 07/11/2019, dep. 2020, Cesina, Rv. 278634

Sez. 3, n. 8995 del 07/11/2019, dep. 2020, Piscopo, Rv. 278275

Sez. 3, n. 5288 del 12/11/2019, dep. 2020, Carelli, Rv. 278397,

Sez. 3, n. 10916 del 12/11/2019, dep. 2020, Bracco, Rv. 279859,

Sez. 3, n. 3458 del 18/11/2019, dep. 2020, Viganò, Rv. 278594

Sez. 3, n. 3163 del 22/11/2019, dep. 2020, Bruschi, Rv. 278251

Sez. 3, n. 3165 del 22/11/2019, dep. 2020, Pg c/ Tortorici, Rv. 278637

Sez. 3, n. 10098 del 27/11/2019, dep. 2020, Pavesi, Rv. 278536

Sez. 3, n. 8784 del 29/11/2019, dep. 2020, Calabrese, Rv. 278266

Sez. 3, n. 6529 del 12/12/2019, dep. 2020, Magnozzi, Rv. 278597

Sez. 3, n. 14738 del 12/12/2019, dep. 2020, Marchio, Rv. 279462

Sez. 3, n. 19989 del 10/01/2020, Costagliola, Rv. 279290

Sez. 3, n. 9417 del 14/01/2020, Quattri, Rv. 278421

Sez. 3, n. 17806 del 29/01/2020, Tamburro, Rv. 279426

Sez. 3, n. 9883 del 04/02/2020, Carlovico, Rv. 278671

Sez. 3, n. 18575 del 14/02/2020, Belsito, Rv. 279500

Sez. 3, n. 14763 del 19/02/2020, Cercel, Rv. 279119

Sez. 3, n. 13628 del 20/02/2020, Pmt in c. Ferrarini, Rv. 279421, Sez. 3, n. 16599 del 20/02/2020, Latorre, Rv. 278946

Sez. 3, n. 14766 del 26/02/2020, Pmt c/ Sangermano, Rv. 279382 Sez. 3, n. 16469 del 28/02/2020, Veruari, Rv. 278966

Sez. 3, n. 16472 del 28/02/2020, Giardi, Rv. 279012,

Sez. 3, n. 13149 del 03/03/2020, Pmt c/ Bonelli, Rv. 279118 Sez. 3, n. 23179 del 16/06/2020, Marcuccio, Rv. 279861

Sez. 3, n. 23027 del 23/06/2020, Mangieri, Rv. 279755 Sez. 3, n.26529 del 24/06/2020, Pg. c/Zaniboni, n.m.

Sez. 3, n. 23040 del 01/07/2020, Multi Professional Service srl, Rv. 279827 Sez. 3, n. 552 del 10/07/2019, dep. 2020, Rv. 278014-02

Sez. 3, n. 25987 del 13/07/2020, Ravasi, Rv. 279743

Sez. 3, n. 23621 del 17/07/2020, Zamattio, Rv. 279824

Sez. 3, n. 27007 del 22/07/2020, Bianchi, Rv. 279917

Sez. 3, n. 27603 del 14/07/2020, Cerea, Rv. 280279-01, -02, -03

Sez. 3, n. 25448 del 23/07/2020, Carelli, Rv. 279867

Sez. 3, n. 28488 del 10/09/2020, D’Angela, Rv. 280014

Sez. 3, n. 28489 del 10/09/2020, Sammarini, Rv. 280015

Sez. 3, n. 35983 del 17/09/2020, Colanzi, Rv. 280372

Sez. 3, n. 31516 del 29/09/2020, Casa di cura Trusso, Rv. 280152 Sez. 3, n. 34966 del 16/10/2020, Capoccia, Rv. 280428

Sez. 3, n. 34021 del 29/10/2020, Rossineli, Rv. 280370

Sez. 3, n.36915 del 22/12/2020, Vittalini. Rv. 280269–01, -02

Cass. Civ. Sez. 1, n. 14713 del 29/05/2019, N. contro C., Rv. 654268–02

  • traffico di stupefacenti
  • circostanza aggravante

CAPITOLO V

SEZ. U. N. 14722 DEL 30/01/2020, POLITO, RV. 279005, DROGHE LEGGERE E INGENTE QUANTITÀ

(di Bruno Giordano )

Sommario

1 Il contrasto. - 2 L’evoluzione giurisprudenziale che conduce alla sentenza Biondi. - 3 Giurisprudenza che ritiene il superamento dei principi della sentenza Biondi. - 4 L’attualità dei principi dettati dalla sentenza Biondi. - 5 I presupposti della Sentenza Polito. - 6 Gli argomenti delle Sezioni Unite. - 7 Il criterio aritmetico temperato e le droghe leggere. - 8 La definizione della dose-soglia. - Indice delle sentenze citate

1. Il contrasto.

Con la sentenza n. 14722 del 30/01/2020, Polito, Rv. 279005-01, le Sezioni Unite intervengono in tema di stupefacenti, a risoluzione del contrasto insorto circa l’interpretazione della circostanza aggravante prevista dall’art. 80, comma 2, d.P.R. 9/10/1990, n. 309, specificamente per la scelta dei criteri di determinazione dell’aggravante dell’ingente quantità in materia di c.d. droghe leggere.

La Sezione Quarta della Corte rileva un contrasto di giurisprudenza sul tema de quo e specificamente si rimette alle Sezioni Unite per una pronuncia risolutiva di un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni con il seguente quesito: “Se, con riferimento alle cosiddette “droghe leggere”, la modifica del sistema tabellare realizzata per effetto del d.l. 20 marzo 2014, n. 36 convertito con modificazioni nella l. 16 maggio 2014, n. 79, imponga una nuova verifica circa la sussistenza dei presupposti di applicazione della circostanza aggravante dell’ingente quantità, oppure mantengano validità, per effetto dell’espressa reintroduzione della nozione di quantità massima detenibile, ai sensi del comma 1 bis dell’art. 75 del d. P.R. n. 309 del 1990, i criteri basati sul rapporto tra quantità di principio attivo e valore massimo tabellarmente detenibile di cui alla sentenza delle Sez. U., n. 36258 del 24 maggio 2012, Biondi”.

La peculiarità della questione sottoposta al supremo organo nomofilattico si evidenzia nel tipo di quesito che verte non tanto sull’ermeneutica normativa quanto sull’attualità – o superamento – del dictum pronunciato dalle Sezioni unite con la sentenza Biondi, dopo il novum legislativo, secondo cui la circostanza aggravante dell’ingente quantità di cui all’articolo 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990, non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2000 volte il valore massimo espresso in milligrammi (valore-soglia) determinato per ogni sostanza dalla tabella allegata al decreto ministeriale 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito quando tale quantità sia superata.

I due diversi orientamenti esposti si possono brevemente individuare in un primo che ritiene superati i principi dettati dalla sentenza Biondi alla luce delle modifiche successivamente intervenute; e in un secondo che, invece, ritiene ancora attuale il dictum della sentenza Biondi in quanto non strettamente dipendente dal sistema monotabellare. In particolare, l’ordinanza di rimessione evidenzia che un primo orientamento si è espresso nel senso che la modifica del sistema tabellare allora vigente, realizzatasi per effetto del d.l. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni nella legge 16 maggio 2014, n. 79, imponga una nuova verifica in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione della circostanza aggravante dell’ingente quantità in considerazione “dell’accresciuto tasso di modulazione normativa”, difficilmente compatibile con un’interpretazione tendenzialmente solo aritmetica e dunque automatica di tale aggravante.

In proposito la Sezione rimettente richiama le oscillazioni giurisprudenziali concernenti l’individuazione, con riferimento alle c.d. “droghe leggere”, del limite minimo di principio attivo perché possa ritenersi sussistere l’ “ingente quantità”; rileva in proposito come nella giurisprudenza di legittimità emergano decisioni di segno diverso circa i fattori da utilizzare per il relativo calcolo in conseguenza dell’annullamento, con sentenza del T.A.R. Lazio in data 21 marzo 2007 (dunque precedente alla pronuncia delle Sezioni Unite), del D.M. 4 agosto 2006, il quale aveva raddoppiato il moltiplicatore previsto in origine dal D.M. 11 aprile 2016 portando la quantità massima disponibile di “droga leggera” (valore soglia) da 500 a 1000 mg. Il contrasto sollevato, in breve, muove sostanzialmente dall’osservazione concatenata di due profili: da un lato l’evoluzione normativa, anche di fonti subordinate, in materia di droghe leggere e dall’altra l’attualità dei principi dettati dalla sentenza delle Sezioni Unite Biondi. La prima rimetterebbe in discussione i secondi.

2. L’evoluzione giurisprudenziale che conduce alla sentenza Biondi.

Un breve excursus giurisprudenziale degli orientamenti precedenti alla sentenza Biondi può essere utile per analizzare i principi cristallizzati da quest’ultima decisione e la loro attualità.

Si noti che la sentenza Biondi ha risolto il contrasto interpretativo sorto nella giurisprudenza di legittimità dopo che le medesime Sezioni Unite, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216666, avevano affermato il principio secondo cui la circostanza aggravante speciale dell’ingente quantità di sostanza stupefacente prevista dall’art. 80, comma 2, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ricorre ogni qualvolta il quantitativo di sostanza oggetto di imputazione, pur non raggiungendo valori massimi, sia tale da creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguardi di un rilevante numero di tossicodipendenti.

La sentenza Primavera, a sua volta, aveva superato – ma solo apparentemente - il riferimento all’incerta nozione di saturazione di un “mercato illecito” di aleatoria definizione (desumibile da un’analisi del dato ponderale di sostanza tossica notevolmente ed eccezionalmente superiore alla quantità usualmente trattata in transazioni del genere nell’ambito territoriale di accertamento del reato).

Un importante punto argomentativo, oggi ripreso dalla sentenza Polito, muove dalla considerazione che tale giurisprudenza non ha avuto rilievo l’entrata in vigore del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49 (c.d. “Fini-Giovanardi”) che ha ricondotto le sostanze stupefacenti “pesanti” e “leggere” nella medesima tabella, di formazione ministeriale, allegata al d.P.R. n. 309/90 (artt. 13 e 14 d.P.R. cit. come allora novellati), unificando la sanzione per i reati ad esse relativi (art. 73 d.P.R. n. 309/90 come emendato dall’art. 4-bis).

Tale riforma aveva ripristinato l’originario sistema della predeterminazione della quantità detenibile per “uso personale”, cioè quello dell’individuazione numerica del limite di irrilevanza penale, attribuendo ad un decreto del Ministro della Salute (D.M. 11 aprile 2006) ed all’«elenco» ad esso allegato il compito di fissare i limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope riferibili a tale uso esclusivo (art. 73, comma 1 bis, lett. a), analogamente al sistema precedente, introdotto con la legge 26 giugno 1990, n. 162, poi confluita nel d.P.R. n. 309/90, artt. 75, comma 1, e 78, comma 1, lett. c), venuto meno all’esito di referendum popolare (d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171).

Solo con la sentenza Sez. 6, n. 20119 del 02/03/2010, Castrogiovanni, Rv. 243374 (e successivamente, ex plurimis, Sez. 6, n. 31351 del 19/05/2011, Turi, Rv. 250545, e Sez. 6, n. 27128 del 25/05/2011, D’Antonio, Rv. 250736) si era manifestata l’esigenza di ancorare la nozione di ingente quantità ad un parametro improntato, per quanto possibile, a criteri oggettivi, volgendo particolare attenzione al principio di determinatezza ex art. 25, comma secondo, Cost., anche se la giurisprudenza, pur in linea con la sentenza Primavera, portava a risultati diversi in presenza di dati qualitativi/quantitativi e di realtà territoriali in tutto simili.

Incentrando la configurabilità della circostanza aggravante sul criterio oggettivo del numero dei possibili fruitori finali (e non sul territorio su cui insistono) e dunque essenzialmente considerando il valore ponderale dello stupefacente in relazione alla qualità della sostanza, specificato in relazione al grado di purezza, la Sezione sesta prende atto dei dati derivanti dall’esperienza giudiziaria, apprezzabili a maggior ragione dalla Corte di cassazione, sede privilegiata di conoscenza in quanto terminale di confluenza di una rappresentazione casistica generale.

Le conclusioni militano nel senso che ai fini del riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990, non possano di regola definirsi “ingenti” i quantitativi di droghe “pesanti” o “leggere” che, sulla base di una percentuale media di principio attivo per il tipo di sostanza, siano rispettivamente al di sotto dei limiti di 2 kg. e 50 kg. Contrastavano espressamente tale orientamento, riproponendo i principi della sentenza Primavera e ritenendoli idonei a superare i dubbi di determinatezza della norma, tra le altre, Sez. 4, n. 24571 del 03/06/2010, Iberdemaj, Rv. 247823; Sez. 4, n. 9927, del 01/02/2011, Ardizzone, Rv. 249076; Sez. 4, n. 38794 del 29/09/2011, Galateri, Rv. 251438, ad avviso delle quali la predeterminazione dell’indice quantitativo che oggettivamente segna il confine tra la quantità ingente e quella non ingente, finendo col proporsi in sostanza come dato avente valenza normativa, non potrebbe che essere prerogativa del legislatore.

In sintesi, il quadro giurisprudenziale in cui sorge il contrasto su cui interviene la sentenza delle Sezioni Unite Biondi può così riassumersi:

- si condivide la statuizione della sentenza Primavera, in base alla quale l’aggravante in questione ricorre tutte le volte in cui il quantitativo «pur non raggiungendo valori massimi», consenta, tuttavia, di determinare una notevole incidenza nell’elevazione dei consumi, raggiungendo quindi un cospicuo numero di sub-fornitori, prima, e una folta massa di consumatori, in fine.

- La figura criminale che, attraverso l’aggravante si individua è quella del “grossista” dello stupefacente escludendo lo spacciatore di medio livello.

- Locuzioni come quantità “considerevoli, rilevanti, cospicue”, o, appunto, “ingenti”, sono tutte sostanzialmente indefinite, perché relative, mutevoli, sfuggenti, sottoposte all’interpretazione soggettiva e all’esperienza contingente.

- Il riferimento, peraltro presuntivo, al criterio della saturazione del mercato illegale viene abbandonato per la indefinibilità dello stesso; le variabili di tale nozione possono portare il rischio di violare il principio costituzionale di eguaglianza, finendo per attribuire rilevanza, in termini di aggravante, a una circostanza in un determinato contesto e non in un altro.

- L’aggravante de qua è letteralmente costruita sul solo dato quantitativo “ingente” (che quindi non può essere declinata ratione loci), a differenza dell’attenuante di cui al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 che, per delineare i fatti “di lieve entità”, esige la considerazione, oltre alla quantità dello stupefacente trattato, vari altri parametri (i mezzi adoperati, le modalità della condotta, le circostanze che l’hanno accompagnata, la qualità dello stupefacente).

- La quantità ingente va valutata in riferimento al principio attivo, non al materiale inerte di cui la sostanza risulti essere anche composta. Ciò premesso, il Supremo Collegio osserva che gli artt. 13, comma 1, e 14 d.P.R. n. 309 del 1990 (come modificati e integrati prima dal d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, e successivamente dalla legge 15 marzo 2010, n. 38) prevedono che le sostanze stupefacenti e psicotrope siano iscritte in due tabelle. La prima tabella comprende le sostanze, indipendentemente dalla distinzione tra stupefacenti e sostanze psicotrope, con potere drogante; nella seconda sono inserite le sostanze che hanno funzione farmacologica e pertanto sono usate a scopo terapeutico. Dette tabelle sono aggiornate quando si presenti la necessità di inserire una nuova sostanza o di variarne la collocazione o di provvedere a eventuali ablazioni (ad es. quando qualche “nuova droga” viene messa in circolazione sul mercato clandestino o, ancora, quando viene messo a punto un nuovo farmaco ad azione stupefacente o psicotropa).

La Corte fa riferimento non al valore ponderale globale, ma alle dosi-soglia, individuando in 2000 il limite al di sotto del quale non potrà essere di norma contestata l’aggravante della ingente quantità, atteso che a tale limite corrispondono i valori ponderali individuati come “medi” (rectius: non eccezionali) su dati processuali. I parametri così enucleati non determinano - di per sé e automaticamente - se superati, la configurabilità dell’aggravante. Essi, invero, valgono solo in negativo, nel senso che, al di sotto di tali valori quantitativi, l’aggravante (ex art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990) deve ritenersi in via di massima non sussistente.

3. Giurisprudenza che ritiene il superamento dei principi della sentenza Biondi.

Secondo un primo orientamento l’impostazione accolta dalle Sezioni Unite con la sentenza Biondi è strettamente connessa al sistema normativo della legge Fini-Giovanardi che aveva sostituito alle originarie quattro tabelle, che distinguevano le droghe leggere (tabelle 2 e 4) dalle droghe pesanti (tabelle 1 e 3), un’unica tabella relativa a tutte le sostanze stupefacenti e psicotrope droganti, che a sua volta era collegata al d.m. 11 aprile 2006.

L’interpretazione offerta dal Supremo Collegio, quindi, dovrebbe ritenersi superata, poiché essa si rapporterebbe direttamente al sistema tabellare introdotto nel testo unico degli stupefacenti dal d.l. n. 272 del 2005, art. 4-vicies ter, convertito con modificazioni nella legge n. 49 del 2006 (c.d. legge “Fini-Giovanardi”), e successivamente dichiarato illegittimo. Invero, a seguito alla citata sentenza n. 32 del 2014 della Corte Costituzionale, il legislatore ha modificato il sistema tabellare.

Venuta meno l’omogeneità o l’equiparazione delle sostanze stupefacenti (presunta dalla legge n. 49 del 2006, mediante l’unificazione delle tabelle), il legislatore, con il d.l. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni nella legge 16 maggio 2014, n. 79, ha infatti reintrodotto le quattro originarie tabelle.

Secondo l’orientamento in esame tale nuovo quadro legislativo comporta il superamento della ratio della normativa vigente all’epoca dello sviluppo giurisprudenziale della sentenza Biondi.

Si ritiene che l’assunto della sentenza Biondi sarebbe difficilmente compatibile con una interpretazione tendenzialmente soltanto aritmetica e dunque “automatica” dell’aggravante dell’ingente quantità, fondata sui valori soglia indicati da un decreto ministeriale collegato a un’unica tabella, “spezzando la sostanziale equiparazione tra il reato attinente alle droghe pesanti e il reato relativo a droghe leggere, e per di più, non si può non rilevare per completezza, enucleando come reato autonomo, anche sotto il profilo delle modalità, e non solo dell’entità, del trattamento sanzionatorio, la fattispecie lieve di cui al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990” (così un obiter dictum di Sez. 3, n. 1609 del 27/05/2015, Rv. 265810 e anche Sez. 3, n. 12532 del 29/01/2015, Rv. 263001; Sez. 3, n. 45458 del 01/10/2014, Rv. 260964, relativa ad un quantitativo di 60 kg. di hashish contenente 3,167 kg. di principio attivo, nonché Sez. 3, n. 25176 del 21/05/2014, Rv. 259397, concernente un’imputazione di detenzione e trasporto di marijuana contenente 16,933 kg. di principio attivo, pari a 677.332 dosi attive singole).

Pertanto la modifica del sistema tabellare realizzata per effetto del d.l. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni nella legge 16 maggio 2014, n. 79, imporrebbe una nuova verifica in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione della circostanza aggravante della ingente quantità “in considerazione dell’accresciuto tasso di modulazione normativa, difficilmente compatibile con una interpretazione tendenzialmente soltanto aritmetica e dunque automatica dell’aggravante dell’ingente quantità”. Quest’ultima formula argomentativa viene oggi respinta dalla sentenza Polito.

4. L’attualità dei principi dettati dalla sentenza Biondi.

A fronte di tale orientamento si rileva una diversa e maggioritaria linea interpretativa ritenendosi in particolare che i criteri elaborati dalle Sezioni unite, con la decisione n. 36258 del 2012, per l’applicazione dell’aggravante dell’ingente quantità mantengano comunque una loro attualità, giacché utilizzati come meri criteri orientativi, individuati a seguito di una indagine condotta su un numero cospicuo di sentenze di merito.

Con tale opzione, infatti (in linea con la sentenza Biondi), si continua a ritenere che l’aggravante della ingente quantità di cui all’art. 80, comma secondo, del d.P.R. n. 309 del 1990, non sia di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2.000 volte il valore massimo in milligrammi (valore soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m.11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata (si vedano fra le altre: Sez. 4, n.49366 del 19/07/2018, Coku, Rv. 274038; Sez. 4 n. 55014 del 5/11/2017, Corrao, Rv. 271680; Sez. 6, n.50076 del 04/10/2016, Dervishaj, Rv. 268935; Sez. 6, n. 543 del 17/11/2015, dep. 2016, Pajo, Rv. 265756; Sez. 6, n. 44596 del 08/10/2015, Maggiore, Rv. 265523; Sez. 6, n. 6331 del 04/02/2015, Berardi, Rv.262345; Sez. 4, n. 49619 del 12/10/2016, Palumbo, Rv. 268624; Sez. 4 n.3799 del 05/12/2014 dep. 2015, Vabanesi, Rv. 263203; Sez. 4, n.1292 del 17/10/2014 dep. 2015, Kapsimalis, Rv. 261770; Sez. 4 n. 43465 del 02/07/2014, Galizzi, Rv. 260307; Sez. 4, n.32126 del 20/06/2014, Jitaru Rv. 260123).

In particolare, prendendo a riferimento ex plurimis Sez. 6, n. 44596 del 08/10/2015, Maggiore, Rv. 265523, si è detto che “per effetto dell’espressa reintroduzione della nozione di quantità massima detenibile, ai sensi del comma primo bis dell’art. 75, d.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dalla legge 16 maggio 2014, n. 79, di conversione, con modificazioni, del d.l. 20 marzo 2014, n. 36, mantengono validità i criteri basati sul rapporto tra quantità di principio attivo e valore massimo tabellarmente detenibile, al fine di verificare la sussistenza della circostanza aggravante della ingente quantità, di cui all’art. 80, comma secondo, d.P.R. n. 309 del 1990”.

5. I presupposti della Sentenza Polito.

La sentenza Polito riconosce innanzi tutto che la giurisprudenza delle sezioni semplici si è adeguata ai principi della sentenza Biondi (ad es. Sez. 4, n. 6369 del 20/12/2012, dep. 2013, Casale, Rv. 255098; Sez. 4, n. 10618 del 18/01/2013, Grasso, Rv. 254913; Sez. 3, n. 19441 del 19/03/2014, Aquino, Rv. 259753), ma evidenzia altresì il collegamento per il quale tali principi sono stati, tuttavia, posti in discussione in seguito alla normativa originata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005, come convertito dall’art. 1, comma 1, della legge n. 49 del 2006, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost. (per difetto di omogeneità, e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni del decreto -legge e quelle, impugnate, introdotte nella legge di conversione). Infatti, il d.l. 20 marzo 2014, n. 36, convertito dalla legge 16 marzo 2014, n. 79, ha espressamente ripristinato la distinzione, per quanto qui interessa, fra sostanze stupefacenti “pesanti” e sostanze “leggere”.

Sulla base di tale evoluzione normativa si è palesato il citato orientamento giurisprudenziale volto a sollecitare il superamento dei principi dettati dalla sentenza Biondi, ma in proposito un importante passaggio della motivazione della sentenza Polito in esame intende precisare che questo filone interpretativo, il quale vede il suo leading case in Sez. 3, n. 25176 del 21/05/2014, Amato, Rv. 259397, si è sviluppato attraverso alcune decisioni, anche graficamente sovrapponibili, per un assai ristretto periodo di tempo (Sez.4, n. 41779 del 02/07/2014, Piozzo; Sez. 3, n. 46172 del 01/10/2014, Mingotti; Sez. 3, n. 45458 del 01/10/2014, Bouzaroita, Rv. 260964; Sez. 3, n. 5907 del 30/10/2014, Faraj; Sez. 3, n. 27057 del 18/12/2014, Matarese, n.m.; Sez. 3, n. 11338 del 07/01/2015, Farabella; Sez. 3, n. 12532 del 29/01/2015, Castelletti, Rv. 263001; Sez. 3, n. 1609 del 27/05/2015, Gavagna, Rv. 265810) e che “il contrasto sia stato interamente e definitivamente riassorbito dalla giurisprudenza successiva, univocamente orientata, nel confermare la persistente validità dei principi affermati dalle Sezioni Unite Biondi”.

Il passaggio motivazionale smussa ma non riduce però l’entità del contrasto a una questione di sincronia giurisprudenziale, forse già superata o non attuale secondo un consolidato filone giurisprudenziale successivo alle modifiche normative citate. La nuova decisione delle Sezioni Unite analizza approfonditamente l’orientamento critico verso l’attualità dei principi della sentenza Biondi, il quale ritiene che poiché a seguito della sentenza costituzionale n. 32 del 2014 il legislatore ha modificato il “sistema tabellare” che era seguito alla legge “Fini-Giovanardi” ed introdotto quattro nuove tabelle in ordine alle sostanze stupefacenti e psicotrope, la determinazione dei presupposti per l’applicazione dell’aggravante della ingente quantità non potrebbe prescindere da questa nuova impostazione normativa differente.

In particolare, la sentenza Polito supera l’assunto per il quale «tale giurisprudenza dovrà essere rimeditata, in considerazione dell’accresciuto tasso di modulazione normativa, difficilmente compatibile con una interpretazione tendenzialmente soltanto aritmetica e dunque automatica dell’aggravante dell’ingente quantità».

Si tratta di un passaggio argomentativo centrale nell’ordinanza di rimessione che viene attenzionato e superato dal Supremo Collegio adesivo, invece, all’indirizzo sincronicamente contrapposto.

La considerazione da cui muove la sentenza Polito sul punto è incentrata sulla validità dei criteri enunciati dalla sentenza Biondi basati sul rapporto tra quantità di principio attivo e valore massimo tabellarmente detenibile al fine di verificare la sussistenza della circostanza aggravante della ingente quantità, di cui all’art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309/90 (Sez. 4, n. 32126 del 20/06/2014, Jitaru, Rv. 260123; Sez. 4, n. 43465 del 02/07/2014, Gallizzi, Rv. 260307; Sez. 4, n. 1817 del 03/10/2014, dep. 2015, Merdita; Sez. 6, n. 46301 del 15/10/2014, Sala, Rv. 261253; Sez. 4, n. 1292 del 17/10/2014, dep. 2015, Kapsimalis, Rv. 261770; Sez. 6, n. 47907 del 14/11/2014, Keci, Rv. 261261; Sez. 4, n. 3799 del 05/12/2014, dep. 2015, Vabanesi, Rv. 263203; Sez. 6, n. 6331 del 04/02/2015, Berardi, Rv. 262345; Sez. 6, n. 20140 del 05/05/2015, Perri).

Per desumerne il seguente dictum conclusivo: “a seguito della riforma introdotta nel sistema della legislazione in tema di stupefacenti dal d.l. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni dalla legge 16 marzo 2014, n. 79, mantengono validità i criteri fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 36258 del 24 maggio 2012, Biondi, per l’individuazione della soglia oltre la quale è configurabile la circostanza aggravante dell’ingente quantità prevista dall’art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309/90; con riferimento alle c.d. droghe leggere la soglia rimane fissata in 2 kg. di principio attivo”.

6. Gli argomenti delle Sezioni Unite.

Gli argomenti esposti nella motivazione della sentenza in esame delle Sezioni Unite depongono a favore della validità attuale dei criteri fissati nella sentenza Biondi per la configurabilità della circostanza aggravante dell’ingente quantità prevista dall’art. 80, comma 2, del d.P.R. n. 309 del 1990.

In primo luogo, la Corte rileva l’erroneo presupposto dal quale muove l’orientamento contrario che ritiene la necessità di rivedere i criteri per l’applicazione della circostanza de qua.

Sotto la lente critica del Supremo Collegio v’è la considerazione dell’ordinanza rimettente che la riforma del 2014 abbia determinato una modifica (o “travolgimento”, così Sez. 4, n. 41779 del 02/07/2014, Piozzo) del sistema tabellare introdotto con la c.d. legge “Fini-Giovanardi” nella vigenza della quale si erano pronunciate le Sezioni Unite Biondi.

Il recente intervento legislativo e la legge n. 49 del 2006 (di conversione del d.l. n. 272 del 2005), infatti, sono ritenuti dalla Corte con la sentenza Polito in continuità con il sistema tabellare già prefigurato nella legge 22 ottobre 1954, n. 1041 e quindi realizzato compiutamente con la legge 22 dicembre 1975, n. 685.

Quest’ultima agli artt. 11 e 12 prevedeva che le sostanze fossero raggruppate in sei tabelle, la prima e la terza delle quali indicanti sostanze stupefacenti e psicotrope di tipo “pesante”, la seconda e la quarta di tipo “leggero”, ricollegando sanzioni di differente gravità alle rispettive violazioni (assetto normativo peraltro integralmente replicato nel T.U. stup. del 1990, artt. 13, 14 e 73).

V’è un ulteriore passaggio argomentativo sviluppato dalla motivazione della sentenza Polito che merita particolare attenzione e riguardante la continuità di sistema sulla quale si colloca, da una lato, l’opzione del legislatore del 2006 di unificare la pena per i reati concernenti sostanze “pesanti” e “leggere” che discrezionalmente vengono accorpate tutte nella medesima tabella; dall’altro lato, quella del legislatore del 2014 il quale, tornando a distinguere in base all’effetto drogante differenzia, a seconda della sostanza, la pena base sulla quale deve essere applicato l’aumento per la ricorrenza della circostanza aggravante. Ma non pare che rientri nell’intenzione del legislatore riscrivere i criteri per la sua configurabilità, a fronte di un dato normativo rimasto testualmente invariato sin dalla disciplina posta dall’art. 74 della legge n. 685 del 1975, il quale al secondo comma espressamente contemplava che «se il fatto riguarda quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope le pene sono aumentate dalla metà a due terzi», con formula identica a quella contenuta nell’art. 80, comma 2, del d.P.R. n. 309 del 1990.

La formulazione dell’aggravante, infatti, non è stata modificata né dalla legge n. 49 del 2006 di conversione del d.l. n. 272 del 2005 né dal d.l. 20 marzo 2014, n. 36 convertito, con modificazioni, dalla legge 16 maggio 2014, n. 79.

Un ulteriore argomento speso dall’ordinanza di rimessione e superato dalla motivazione in esame riguarda l’affermazione fondata sul collegamento tra la trasformazione in reato autonomo della circostanza attenuante del fatto di lieve entità, prevista dal comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/90, ed i criteri di valutazione dell’ingente quantità.

Tale modifica normativa è ritenuta dalla Corte del tutto eccentrica rispetto alla questione di diritto affrontata dalle Sezioni Unite Biondi e conseguentemente del tutto ininfluente.

Invece, nell’economia della motivazione assume decisivo rilievo, ai fini della risoluzione della questione rimessa alle Sezioni Unite, la circostanza che l’art. 2 comma 1 del d.l. n. 36 del 2014, come convertito dalla legge n. 79 del 2014, abbia espressamente previsto che riprendano a produrre effetti gli atti amministrativi adottati ai sensi del d.P.R. n. 309 del 1990 sino alla data della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 32/14.

Ciò sulla base della considerazione che è stata così integralmente recuperata dal legislatore primario l’efficacia del d.m. 11 aprile 2006 (che detta «Indicazione dei limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope, riferibili ad un uso esclusivamente personale»); trattasi dell’atto di normazione secondaria che la sentenza Biondi aveva posto a base dei propri argomenti partendo dal dato testuale della specifica indicazione numerica di un limite massimo di principio attivo detenibile per giungere alla fissazione di un limite minimo - pur esso coerentemente fondato su dati numerici - per il riconoscimento della circostanza aggravante dell’ingente quantità.

Le Sezioni Unite con la sentenza Polito escludono dunque che dal c.d. «accresciuto tasso di modulazione normativa», come viene definito nell’ordinanza di rimessione, possa desumersi il superamento del principio fissato dalle Sezioni Unite nella sentenza Biondi.

A ciò consegue anche l’esclusione della prospettata sopravvenuta incompatibilità con il sistema delineato dal d.P.R. n. 309/90, come novellato, del criterio c.d. aritmetico e dunque automatico dell’ingente quantità.

Osserva e condivide infine la Corte come la giurisprudenza di legittimità, abbia da tempo stabilito che il superamento dei parametri enucleati dalla sentenza Biondi per l’individuazione del limite minimo dell’ingente quantità, non determini automaticamente la sussistenza dell’ipotesi aggravata.

Ciò in base a due ordini di valutazioni: in primo luogo, in quanto si deve sempre avere riguardo alle circostanze del caso da valutarsi con riferimento alla pericolosità della condotta ed al livello di potenziale compromissione della salute e dell’ordine pubblico, quali beni giuridici tutelati dalla normativa in materia di contrasto al mercato illegale degli stupefacenti. In secondo luogo, perchè il giudice, nell’esercizio del potere di valutazione in concreto cui è tenuto possa valorizzare, per corroborare il dato rappresentato dal superamento del limite, tutti gli elementi di fatto della realtà criminale specifica. Al riguardo si noti che già la giurisprudenza, in assenza di specifici parametri quantitativi, aveva indicato anteriormente all’elaborazione alle Sezioni Unite del 2012 degli indici significativi ed esaustivi della ricorrenza dell’aggravante (Sez. 3, n. 19441 del 19/03/2014, Aquino, Rv. 259753; Sez. 6, n. 46301 del 15/10/2014, Sala; Sez. 5, n. 22766 del 03/05/2011, Pellegrino; per una sintesi, Sez. 3, n. 37530 del 11/07/2019, Fagbemi).

In definitiva non ha dubbi il Supremo Collegio nomofilattico circa l’attualità ed efficacia dimostrativa delle conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite nella sentenza Biondi del 2012.

7. Il criterio aritmetico temperato e le droghe leggere.

Un importante punto della motivazione della Corte muove dall’osservazione che, successivamente ma all’interno dell’indirizzo giurisprudenziale consolidatosi con la sentenza Biondi che ha recepito il criterio aritmetico temperato dalla discrezionalità giudiziale, si è sviluppato un contrasto interpretativo circa i fattori della moltiplicazione che determinano il confine inferiore dell’ingente quantità nell’ipotesi di reati concernenti le c.d. “droghe leggere”.

Osserva la Corte che tale contrasto ha origine da un’imprecisione contenuta nella sentenza Biondi la quale, individuato in 2000 il moltiplicatore del dato numerico (costituito dal valore soglia di principio attivo, cioè la quantità massima detenibile) da utilizzare come primo fattore dell’operazione per determinare il livello ponderale minimo, pure numerico, dell’ingente quantità, ha indicato per le c.d. droghe leggere un “valore soglia”, espresso in milligrammi, pari a 1000.

La Corte osserva che la sentenza ha operato, al fine di individuare i dati dei valori-soglia, un generico riferimento alle tabelle di cui agli artt. 13 e 14 del d.P.R. n. 309/90 le quali, hanno solo la diversa funzione di individuare le sostanze “vietate” o comunque sottoposte a controllo.

Di conseguenza le Sezioni Unite hanno tratto tali valori dall’«elenco» allegato al più volte citato d.m. 11 aprile 2006 previsto dall’art. 73 comma 1-bis, legge “Fini Giovanardi (ed ora “recuperato” dalla riforma del 2014) il quale tuttavia, al momento della decisione, prevedeva per le c.d. “droghe leggere” (THC) un valore-soglia di principio attivo, espresso in milligrammi, pari 500 e non a 1000, come invece indicato in sentenza.

L’imprecisione sorge dal d.m. 4 agosto 2006 il quale - aumentando da 20 a 40 il moltiplicatore del valore di principio attivo della dose media singola (25 mg.) da applicarsi per ottenere la quantità massima detenibile - aveva portato a 1000 il valore-soglia del THC espresso in milligrammi, che però era stato annullato per vizi della motivazione dal Tribunale amministrativo del Lazio, Sez. III quater, con sentenza n. 2487 del 21 marzo 2007.

Per completezza ricostruttiva si deve evidenziare che dopo la pronuncia delle Sezioni Unite Biondi la giurisprudenza di legittimità ha preso atto della circostanza che prima della decisione fosse già intervenuto l’annullamento del d.m. 4 agosto 2006 ed ha così ricondotto il valore-soglia delle “droghe leggere” all’originaria previsione di 500 milligrammi.

Ne consegue che, operata la moltiplicazione di quest’ultimo dato per il fattore 2000 indicato da Sezioni Unite Biondi per tutte le sostanze, il limite minimo dell’ingente quantità è stato fissato in 1 kg. di principio attivo.

Sul punto il contrasto segnalato dalla sezione rimettente viene definito diacronico e considerato ormai riassorbito, poiché dalla pronuncia di Sez. 3, n. 47978 del 28/09/2016, Hrim, Rv. 268698, tale indirizzo è stato tuttavia integralmente sostituito da altro.

In particolare, secondo tale orientamento, in linea con la sentenza Biondi, per rispettare le proporzioni e allineare il principio ivi affermato alle conseguenze dell’annullamento del d.m. 4 agosto 2006, il quantitativo minimo di principio attivo di sostanza stupefacente “leggera”, al di sotto del quale non è ravvisabile la circostanza aggravante di cui all’art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990, «deve essere necessariamente pari al doppio di quello da essa (erroneamente) indicato e dunque a 4.000 (e non 2.000) volte il quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno (corrispondente a 2 kg. di principio attivo, che del resto corrisponde a quanto ipotizzato immaginando un quantitativo lordo di sostanza pura al 5%)». Le Sezioni Unite Polito, in un apprezzabile sforzo di tipizzazione e tassatività della fattispecie, ritengono di confermare quest’ultimo orientamento, perché aderente al reale contenuto dell’analisi effettuata dalla sentenza Biondi del 2012 come riferita alle caratteristiche oggettive della sostanza (qualità, quantità, concentrazione) idonee a rendere applicabile l’art. 80, comma 2, d.P.R. 309/90.

Il passaggio motivazionale in parola assume un ruolo centrale nel dictum per ribadire da parte delle Sezioni Unite il criterio di determinazione che si articola:

a) in primo luogo, commisurando il dato oggettivo delle quantità di stupefacente alle quali attribuire - secondo la verifica effettuata in concreto da un osservatorio privilegiato - rilievo ponderale tale da poter integrare il valore minimo per la configurabilità della circostanza aggravante de qua;

b) e in secondo luogo, partendo dalla premessa teorica della fissazione normativa della quantità massima detenibile, individuando un moltiplicatore di questa che consentisse di ricostruire e rappresentare in termini numerici proprio quel valore ponderale minimo come determinato attraverso l’esame dell’esperienza giudiziaria.

In breve – evidenzia la Corte - nella giurisprudenza si è posta prima la verifica delle quantità definibili ingenti (significativo il riferimento esemplificativo ai 50 kg. di “droghe leggere”) e poi quella dei numeri atti a rappresentarle, sicché l’evidente errore di lettura del d.m. quanto al valore-soglia di principio attivo del THC non può inficiare in alcun modo l’accertamento empirico delle quantità rilevanti effettuato dalle Sezioni Unite.

Si impone però una correzione dei fattori del calcolo circa il moltiplicatore normativo della dose media singola (20 divenuto 40 e poi tornato 20) per ottenere la dose-soglia o, in alternativa, il moltiplicatore empirico di questa (2000 o 4000) poco importa, perché il risultato aderente all’esito dell’indagine induttiva delle Sezioni Unite cristallizzato nella sentenza Biondi è che la soglia minima perché si possa intendere ingente una quantità di droga leggera è di 2 kg. di principio attivo.

8. La definizione della dose-soglia.

La Corte completa l’analisi soffermandosi sulla figura giuridica della “dose media giornaliera” quale limite alla detenzione per uso esclusivamente personale introdotta con la legge 26 giugno 1990, n. 162, poi confluita nel d.P.R. n. 309/90, artt. 75 comma 1, e 78, comma 1, lett. c) e venuta meno all’esito di referendum popolare (d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171). E procede pertanto anche ad una precisazione relativamente alla definizione della c.d. dose-soglia come «quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno», necessaria per fornire al giudice un indice, nell’esercizio della residua discrezionalità per valutare la sussistenza o meno della circostanza aggravante dell’ingente quantità nei casi in cui risulti superato il valore minimo ponderale determinato secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite.

È rilevante la considerazione della Corte circa la c.d. dose media singola, intesa come quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo, che si deve rapportare oggi alla dose-soglia, cioè la quantità massima detenibile, la quale è data dall’incremento della dose media singola in base ad un moltiplicatore variabile in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza.

Nota la Corte che essa prescinde totalmente dalla frequenza delle assunzioni nell’arco della giornata.

L’unità di misura rapportabile al singolo cliente-consumatore è quella del valore soglia (la quantità massima detenibile) posto a base del percorso argomentativo delle Sezioni Unite Biondi e ricavato dalla moltiplicazione del valore espresso in milligrammi della dose media singola per un fattore - di individuazione ministeriale sulla base di scelte di discrezionalità tecnica - pari a 5 per la cocaina, 10 per l’eroina, 20 per il THC, la cui determinazione deriva dalla differente pericolosità o efficacia drogante dei vari tipi di stupefacente.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216666

Sez. 6, n. 20119 del 02/03/2010, Castrogiovanni, Rv. 243374

Sez. 4, n. 24571 del 03/06/2010, Iberdemaj, Rv. 247823

Sez. 4, n. 9927, del 01/02/2011, Ardizzone, Rv. 249076

Sez. 5, n. 22766 del 03/05/2011, Pellegrino, Rv. 250398

Sez. 6, n. 31351 del 19/05/2011, Turi, Rv. 250545

Sez. 6, n. 27128 del 25/05/2011, D’Antonio, Rv. 250736

Sez. 4, n. 38794 del 29/09/2011, Galateri, Rv. 251438,

Sez. 4, n. 6369 del 20/12/2012, dep. 2013, Casale, Rv. 255098

Sez. 4, n. 10618 del 18/01/2013, Grasso, Rv. 254913

Sez. 3, n. 19441 del 19/03/2014, Aquino, Rv. 259753

Sez. 3, n. 25176 del 21/05/2014, Amato, Rv. 259397 Sez. 4, n.32126 del 20/06/2014, Jitaru, Rv. 260123 Sez.4, n. 41779 del 02/07/2014, Piozzo, n.m.;

Sez. 4 n. 43465 del 02/07/2014, Galizzi, Rv. 260307

Sez. 3, n. 45458 del 01/10/2014, Bouzaroita, Rv. 260964 Sez. 3, n. 46172 del 01/10/2014, Mingotti, n.m.

Sez. 4, n. 1817 del 03/10/2014, dep. 2015, Merdita

Sez. 6, n. 46301 del 15/10/2014, Sala, Rv. 261253;

Sez. 4, n. 1292 del 17/10/2014, dep. 2015, Kapsimalis, Rv. 261770 Sez. 3, n. 5907 del 30/10/2014, Faraj

Sez. 6, n. 47907 del 14/11/2014, Keci, Rv. 261261

Sez. 4 n.3799 del 05/12/2014 dep. 2015, Vabanesi, Rv. 263203 Sez. 3, n. 27057 del 18/12/2014, Matarese,

Sez. 3, n. 11338 del 07/01/2015, Farabella

Sez. 3, n. 12532 del 29/01/2015, Castelletti, Rv. 263001

Sez. 6, n. 6331 del 04/02/2015, Berardi, Rv. 262345 Sez. 6, n. 20140 del 05/05/2015, Perri

Sez. 3, n. 1609 del 27/05/2015, Gavagna, Rv. 265810

Sez. 6, n. 44596 del 08/10/2015, Maggiore, Rv. 265523

Sez. 6, n. 543 del 17/11/2015, dep. 2016, Pajo, Rv. 265756

Sez. 6, n. 50076 del 04/10/2016, Dervishaj, Rv. 268935

Sez. 3, n. 47978 del 28/09/2016, Hrim, Rv. 268698,

Sez. 4, n. 49619 del 12/10/2016, Palumbo, Rv. 268624

Sez. 4 n. 55014 del 5/11/2017, Corrao, Rv. 271680 Sez. 4, n.49366 del 19/07/2018, Coku, Rv. 274038;

Sez. 3, n. 37530 del 11/07/2019, Fagbemi

Sez. U. n. 14722 del 30/01/2020, Polito, Rv. 279005-01

Sentenze della Corte Costituzionale

Corte cost. sent. n. 32 del 12/02/2014

PARTE SECONDA IL CONTRASTO ALLA CRIMINALITÀ DEL PROFITTO

  • Corte europea dei diritti dell'uomo
  • confisca di beni
  • prescrizione dell'azione
  • lottizzazione

CAPITOLO I

LA CONFISCA LOTTIZZATORIA “SENZA CONDANNA”

(di Luigi Giordano )

Sommario

1 La decisione delle Sezioni unite. - 2 La sentenza della Corte EDU “Sud Fondi” e le sue implicazioni nella giurisdizione di legittimità. - 3 La sentenza della Corte EDU “Varvara”. - 4 Le questioni di illegittimità costituzionale sollevate dopo la sentenza “Varvara”. - 5 La soluzione adottata dalla Corte costituzionale. - 6 La giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza della Corte costituzionale n. 49 del 2015. - 7 La sentenza della Corte EDU 28/06/2018, G.I.E.M. S.r.l. ed altri c. Italia: la compatibilità della confisca con la prescrizione. - 8 La giurisprudenza di legittimità successiva e la rimessione del tema alle Sezioni Unite. - 9 La sentenza delle Sezioni unite. - 10 Il fondamento del problema. - 11 L’indirizzo che consentiva l’annullamento con rinvio per la declaratoria della prescrizione. - 12 L’area operativa dell’art. 578-bis cod. proc. pen. - 13 L’applicazione dell’art. 578-bis cod. proc. pen. non presuppone una condanna di primo grado. - 14 Il rilievo della natura della confisca. - 15 I principi di diritto affermati. - 16 La decisione della vicenda posta al vaglio delle Sezioni Unite. - 17 La giurisprudenza di legittimità successiva. - Indice delle sentenze citate.

1. La decisione delle Sezioni unite.

Con sentenza pronunciata alla camera di consiglio del 30/01/2020, dep. il 30/04/2020, n. 13539, Perroni, Rv. 278870 - 01, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: “La confisca di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva determinata dalla prescrizione del reato purché sia stata accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che abbia assicurato il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, fermo restando che, una volta intervenuta detta causa, il giudizio non può, in applicazione dell’art. 129 c.p.p., comma 1, proseguire al solo fine di compiere il predetto accertamento”.

Ed inoltre, è stato affermato: “In caso di declaratoria, all’esito del giudizio di impugnazione, di estinzione del reato di lottizzazione abusiva per prescrizione, il giudice di appello e la Corte di cassazione sono tenuti, in applicazione dell’art. 578-bis cod. proc. pen., a decidere sull’impugnazione agli effetti della confisca di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44” (Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, Perroni, Rv. 278870 - 02).

Per cogliere la portata di questa sentenza è necessario fare un passo indietro, soffermandosi su alcune sentenze della Corte EDU e su una pronuncia della Corte costituzionale, che hanno inciso in modo significativo nella materia.

2. La sentenza della Corte EDU “Sud Fondi” e le sue implicazioni nella giurisdizione di legittimità.

L’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 dispone che “la sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite”. È noto che, per lungo tempo, questa norma è stata pacificamente interpretata nel senso che la confisca dei terreni e delle opere potesse essere disposta anche in assenza di condanna, sul presupposto che, per applicare la misura in esame, fosse sufficiente una sentenza che “accertasse” la lottizzazione abusiva e non occorresse necessariamente una pronuncia di condanna (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 9982 del 05/03/2008, Quattrone, Rv. 238984; in precedenza, Sez. 3, n. 4954 del 08/02/1994, Pene ed altri, Rv. 197506).

Tale conclusione, in particolare, si fondava sulla natura amministrativa della misura, da cui si traeva la conseguenza che non vi sarebbero ostacoli alla sua applicazione non solo in assenza di condanna, ma anche nei confronti di proprietari del bene rimasti estranei al processo penale (Sez. 3, n. 37086 del 07/07/2004, Percinaro, Rv. 230031; secondo Sez. 3, ord. n. 10916 del 3/3/2005, Visconti, Rv. 230984, «La confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere realizzate, prevista dall’art. 44, comma 2, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, deve essere disposta anche nei confronti dei beni dei terzi acquirenti in buona fede ed estranei al reato, i quali potranno fare valere i propri diritti in sede civile, atteso che trattasi di una sanzione amministrativa a natura reale e non personale applicata indipendentemente da una sentenza di condanna e sul solo presupposto dell’accertamento giurisdizionale di una lottizzazione abusiva»).

La confisca urbanistica, più precisamente, secondo l’opinione tradizionalmente condivisa in giurisprudenza, integrerebbe una sanzione emessa dal giudice penale in supplenza rispetto all’analoga misura di competenza dell’autorità amministrativa e non una misura di sicurezza di natura patrimoniale (Sez. 3, n. 36844 del 09/07/2009, Contò, Rv. 244923).

In tale contesto, è intervenuta la sentenza della Corte EDU 30/08/2007 nel caso Sud Fondi c. Italia. La Corte di Strasburgo, come è noto, vagliando analiticamente la confisca urbanistica alla luce dei parametri elaborati nel caso Welch c. Regno Unito, ha affermato la natura essenzialmente penale dell’istituto, in ragione dei suoi scopi prevalentemente repressivi, con la conseguente necessità di conformarlo al rispetto dell’art. 7 CEDU.

In quest’occasione, la Corte EDU ha precisato che il principio di legalità impone che qualunque provvedimento normativo, da cui derivi la possibile inflizione di una sanzione penale ad un individuo, debba rispettare alcune caratteristiche imprescindibili come la conoscibilità e intelligibilità da parte della persona del precetto contenuto nella norma giuridica nonché la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie cui si espone colui che lo viola.

La Corte EDU, al contempo, ha ritenuto che la mancanza di una pronuncia di condanna non assumesse valenza determinante al fine di escludere la configurabilità di una sanzione penale in presenza di ulteriori elementi sintomatici attinenti allo scopo, alla gravità e alla qualificazione legislativa della misura.

Dopo tale pronuncia della Corte di Strasburgo, l’attenzione della giurisprudenza si è incentrata essenzialmente sulla valorizzazione di un principio di “colpevolezza convenzionale”, desumibile dall’art. 7 CEDU ed applicabile anche alla confisca urbanistica in considerazione della ritenuta natura di sanzione penale. La sentenza, infatti, aveva esaminato il rapporto tra la confisca urbanistica e l’assoluzione dell’imputato, mentre aveva lasciato impregiudicato il problema della compatibilità della suddetta sanzione con l’ipotesi di intervenuta prescrizione.

La successiva giurisprudenza di legittimità, infatti, ha ribadito la confiscabilità dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite, pur in presenza di una causa estintiva del reato, purché sia stata accertata la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva tanto sotto il profilo oggettivo, quanto sotto quello soggettivo (Sez. 3, n. 21188 del 30/04/2009, Casasanta, Rv. 243630; Sez. 3, n. 39078 del 13/07/2009, Apponi e altri, Rv. 245347) all’esito di un giudizio in cui sia stato assicurato il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati e sia stata accertata l’esistenza di profili quantomeno di colpa sotto l’aspetto dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza dei soggetti nei confronti dei quali la misura viene ad incidere (Sez. 3, n. 17066 del 04/02/2013, Volpe e altri, Rv. 255112).

3. La sentenza della Corte EDU “Varvara”.

Il problema della possibilità di disporre la confisca urbanistica nel caso di intervenuta prescrizione del reato di lottizzazione è stato successivamente preso in esame dalla sentenza della Corte EDU 29/10/2013, Varvara c. Italia. Tale pronuncia ha affermato l’incompatibilità con le garanzie previste dalla CEDU di un sistema in cui una persona dichiarata innocente o, comunque, senza alcun grado di responsabilità penale constatata in una sentenza di colpevolezza subisca una pena. È stato affermato testualmente che «la logica della “pena” e della “punizione”, e la nozione di “guilty” (nella versione inglese) e la corrispondente nozione di “personne coupable” (nella versione francese) depongono a favore di un’interpretazione dell’art. 7 CEDU che esige, per punire, una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che possa permettere di addebitare il reato e di comminare la pena al suo autore». La Corte di Strasburgo, dunque, ha operato un collegamento fra il concetto di “colpevolezza”, intesa come rimproverabilità di un soggetto per un comportamento, e la necessità che tale comportamento sia accertato da una sentenza di condanna, emessa all’esito di un giudizio cui devono essere collegate le garanzie previste dall’art. 7 CEDU.

La sentenza “Varvara”, pertanto, è stata tendenzialmente interpretata nel senso di ritenere che la conformità della misura ablativa ai principi convenzionali richiederebbe necessariamente il dato formale della definizione del procedimento penale con una sentenza di condanna, escludendo la possibilità di dar rilievo a decisioni che, pur formalmente liberatorie, conterrebbero ugualmente l’accertamento della materiale sussistenza del reato.

4. Le questioni di illegittimità costituzionale sollevate dopo la sentenza “Varvara”.

Dopo la sentenza della Corte EDU “Varvara” il problema della compatibilità tra la confisca urbanistica e l’intervenuta dichiarazione di prescrizione del reato di lottizzazione ha assunto un rinnovato vigore.

Il tema è stato particolarmente sentito perché, anche dopo la sentenza Sud Fondi, la Corte di cassazione aveva in più occasioni affermato la compatibilità della confisca con la dichiarazione di prescrizione del reato (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 21188 del 30/04/2009, Casasanta, cit.; Sez. 3, n. 39078 del 13/07/2009, Apponi, cit.), purché fosse accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che assicuri il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati e che verifichi l’esistenza di profili quantomeno di colpa sotto l’aspetto dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza dei soggetti nei confronti dei quali la misura viene ad incidere (cfr. Sez. 3, n. 17066 del 04/02/2013, Volpe e altri, cit.).

Sul presupposto che, secondo la sentenza “Varvara”, la confisca, in quanto vera e propria sanzione penale, potrebbe essere adottata solo a seguito di sentenza di condanna, la Corte di cassazione ha dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, per contrasto con gli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui, in forza dell’interpretazione della Corte EDU, tale disposizione «non può applicarsi nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato anche qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi» (Sez. 3, ord. n. 20636 del 20/05/2014, Alessandrini).

Per ragioni sostanzialmente opposte, inoltre, ha sollevato questione di legittimità costituzionale anche il Tribunale di Teramo, evidenziando come, a fronte del diritto vivente cristallizzato dalla giurisprudenza della Cassazione, che imponeva anche in caso di prescrizione del reato di disporre la confisca, e di una sentenza della Corte EDU che, invece, aveva affermato che una simile statuizione viola l’art. 7 CEDU, la previsione dell’art. 44, comma 2, d.P.R. 380/2001 fosse contraria all’art. 117, primo comma, cost. in relazione all’art. 7 CEDU (così come interpretato dalla sentenza Varvara) «nella parte in cui consente che l’accertamento nei confronti dell’imputato del reato di lottizzazione abusiva - quale presupposto dell’obbligo per il giudice penale di disporre la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite - possa essere contenuto anche in una sentenza che dichiari estinto il reato per intervenuta prescrizione» (Trib. Teramo, ord. 17 gennaio 2014, B.C).

5. La soluzione adottata dalla Corte costituzionale.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 49 del 2015, ha dichiarato inammissibili entrambe le questioni, pur esprimendosi su alcune questioni di primario rilievo, sia di ordine generale, sia specificamente riferite alla confisca urbanistica.

La Corte costituzionale, in particolare, ha fondato la sua pronuncia sul presupposto secondo cui sarebbe «erroneo il convincimento, formulato dai rimettenti come punto di partenza dei dubbi di costituzionalità, che la sentenza Varvara sia univocamente interpretabile nel senso che la confisca urbanistica possa essere disposta solo unitamente ad una sentenza di condanna da parte del giudice per il reato di lottizzazione abusiva». A tale conclusione la Corte è giunta non solo sulla scorta di una serie di argomentazioni in punto di compatibilità tra la sentenza di prescrizione e l’accertamento della sussistenza del reato, ma anche evidenziando come la sentenza “Varvara” non potesse considerarsi alla stregua di un “diritto consolidato” della Corte EDU, tant’è che all’epoca in cui la Consulta si è pronunciata la medesima questione era stata già rimessa alla Grande Camera.

Sulla base di tale presupposto, la Consulta ha ribadito la necessità, ai fini della confisca urbanistica, di un pieno accertamento della responsabilità dell’imputato e della malafede del terzo eventualmente colpito dalla confisca, precisando tuttavia che tale “pieno accertamento” non è affatto precluso nel caso di proscioglimento per prescrizione, atteso che tale pronuncia ben potrebbe «accompagnarsi alla più ampia motivazione sulla responsabilità, ai soli fini della confisca del bene lottizzato»; tale motivazione, secondo il Giudice delle leggi, costituisce un preciso obbligo a carico del giudice, il quale dovrà «attenersi ad adeguati standard probatori e rifuggendo da clausole di stile che non siano capaci di dare conto dell’effettivo apprezzamento compiuto».

Secondo la Consulta, ai fini della confisca urbanistica, occorre aver riguardo «non della forma della pronuncia, ma dalla sostanza dell’accertamento», valorizzando le potenzialità di accertamento del fatto di reato consentite anche qualora venga pronunciata una sentenza di proscioglimento.

6. La giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza della Corte costituzionale n. 49 del 2015.

Prendendo atto delle indicazioni contenute nella decisione della Corte costituzionale illustrata (e nell’analoga pronuncia Corte cost., ord. n. 187 del 2015), la successiva giurisprudenza di legittimità ha ribadito che il proscioglimento per intervenuta prescrizione non osta alla confisca del bene lottizzato, allorquando sia stata accertata, con adeguata motivazione, la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva nei suoi elementi costitutivi, oggettivo e soggettivo (Sez. 3, n. 15888 del 08/04/2015, dep. 2016, Sannella, Rv. 266628; Sez. 4, n. 31239 del 23/06/2015, Giallombardo, Rv. 264337; Sez. 3, n. 33051 del 10/05/2017, Puglisi e aa., Rv. 270646; Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017, Martino, Rv. 272791; Sez. 3, n. 43630 del 25/06/2018, Tammaro, Rv. 274196).

In seguito, la decisione dei ricorsi ancora pendenti in materia è stata sospesa in attesa della pronuncia sul punto della Grande Camera della Corte EDU, nel frattempo investita, tra l’altro, anche della questione sulla compatibilità con l’art. 7 CEDU dell’applicazione della confisca urbanistica conseguente a lottizzazione abusiva nell’ambito di una pronuncia dichiarativa della prescrizione del reato.

7. La sentenza della Corte EDU 28/06/2018, G.I.E.M. S.r.l. ed altri c. Italia: la compatibilità della confisca con la prescrizione.

Con la sentenza della Grande Camera 28/06/2018, emessa nella causa G.I.E.M. S.r.l. ed altri c. Italia, come è noto, la Corte EDU è tornata sulla confisca urbanistica, affrontando plurimi profili problematici, tra i quali quello relativo all’applicabilità della confisca nel caso di dichiarazione di estinzione per intervenuta prescrizione del reato urbanistico.

La Corte EDU, in particolare, ha escluso l’incompatibilità tra la confisca urbanistica e la mancata pronuncia di una sentenza formalmente di condanna.

Per giungere a tale conclusione, la sentenza ha preliminarmente ripercorso le ragioni in base alle quali la confisca urbanistica deve essere considerata, in ambito convenzionale, come una sanzione di natura penale sottolineando:

- il diretto collegamento fra la misura in questione e la commissione di un reato;

- la collocazione sistematica della confisca urbanistica, che è inserita in un articolo rubricato “sanzioni penali”;

- la finalità punitiva della confisca urbanistica, desunta, in particolare, dalla natura obbligatoria della confisca urbanistica, tant’è che può essere disposta «in assenza di un danno effettivo o di un rischio concreto per l’ambiente. La confisca può quindi essere applicata anche in assenza di qualsiasi attività concreta volta a trasformare il territorio» (§ 225);

- la gravità della misura, ritenuta una «sanzione particolarmente onerosa e intrusiva» (§227);

- la competenza all’adozione della confisca attribuita al giudice penale (§ 228), ritenuto titolare di un potere esercitato in via autonoma e non già in mera supplenza dell’autorità amministrativa.

La Corte EDU, pertanto, ha concluso affermando che «le misure di confisca costituiscono delle “pene” ai sensi dell’art. 7 della Convenzione: tale conclusione, che è il risultato dell’interpretazione autonoma della nozione di “pena” ai sensi dell’articolo 7, comporta l’applicabilità di questa disposizione, anche in assenza di un procedimento penale ai sensi dell’articolo 6» (§ 233).

Sulla scorta di tale premessa, la Corte EDU ha proceduto al vaglio della principale questione rimessa al suo esame, concernente la compatibilità tra la confisca urbanistica e l’adozione di una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione.

Nel risolvere la questione, la Corte ha dovuto necessariamente prendere le mosse dall’affermazione contenuta nella sentenza “Varvara”, lì dove aveva affermato che «La logica della «pena» e della «punizione», e la nozione di «guilty» (nella versione inglese) e la corrispondente nozione di «personne coupable» (nella versione francese), depongono a favore di un’interpretazione dell’articolo 7 che esige, per punire, una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che possa permettere di addebitare il reato e di comminare la pena al suo autore. In mancanza di ciò, la punizione non avrebbe senso. Sarebbe infatti incoerente esigere, da una parte, una base legale accessibile e prevedibile e permettere, dall’altra, una punizione quando, come nel caso di specie, la persona interessata non è stata condannata».

La Corte ha proseguito ribadendo che i principi di legalità e colpevolezza, condensati nell’art. 7 CEDU, nonché la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 6 § 2, non consentono che la confisca venga disposta in assenza di un sostanziale dichiarazione di responsabilità, pur se adottata in mancanza della pronuncia di una formale sentenza di condanna.

Ferma restando l’imprescindibile necessità di garantire il diritto di difesa nella sua massima esplicazione e secondo i parametri di cui all’art. 6 CEDU, la Corte ha affermato che «qualora i tribunali investiti constatino che sussistono tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva pur pervenendo a un non luogo a procedere, soltanto a causa della prescrizione, tali constatazioni, in sostanza, costituiscono una condanna nel senso dell’articolo 7, che in questo caso non è violato» (§ 261).

Ne deriva che la compatibilità tra la confisca urbanistica e la pronuncia di una sentenza di prescrizione è, in astratto, pienamente conforme ai principi convenzionali, dovendosi invece appuntare l’attenzione sul dato sostanziale dell’avvenuto accertamento dell’esistenza del reato e della colpevolezza dell’imputato, attuando tutte le garanzie proprie della natura penale della sanzione irrogata.

Seguendo la logica “sostanzialista” propria della giurisprudenza CEDU, pertanto, la Corte ha affermato, da un lato, il principio per cui è possibile disporre la confisca urbanistica anche in caso di sentenza di prescrizione; dall’altro, ha ribadito la necessità che la decisione sulla confisca - proprio perché in ottica convenzionale integra una decisione sanzionatoria di tipo penale - debba necessariamente essere adottata secondo standard probatori e con il rispetto delle garanzie proprie delle pronunce formali di condanna.

8. La giurisprudenza di legittimità successiva e la rimessione del tema alle Sezioni Unite.

Dopo la sentenza della Corte EDU da ultimo illustrata, la Quinta sezione della Corte di cassazione, con ordinanza n. 40380 del 15/05/2019, depositata il 2/10/2019, ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite ai sensi dell’art. 618 cod. proc. pen., avendo rilevato un contrasto di giurisprudenza sulla possibilità da parte della Corte di cassazione, in caso di declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, di disporre l’annullamento della sentenza con rinvio limitatamente alla statuizione sulla confisca ai fini della valutazione da parte del giudice di rinvio della proporzionalità della misura ablatoria, secondo il principio indicato dalla sentenza della Corte EDU 28/06/2018, G.I.E.M. S.r.l. c. Italia.

9. La sentenza delle Sezioni unite.

Con sentenza pronunciata alla camera di consiglio del 30/01/2020, dep. il 30/04/2020, n. 13539, Perroni, le Sezioni Unite, ritenuto infondato il ricorso e preso atto dell’intervenuta prescrizione del reato di lottizzazione abusiva per il quale era stata disposta la condanna, hanno affrontato la questione residuale delle determinazioni che possono o meno essere adottate nel giudizio di legittimità con riferimento alla confisca che sia stata disposta dal giudice di merito (specificamente, nel presente giudizio, dal giudice di primo grado con statuizione confermata dalla sentenza impugnata). Si è trattato, cioè, di accertare se, all’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per l’estinzione del reato, potessero resistere singole statuizioni contenute nella decisione in ragione della loro sostanziale autonomia. Al riguardo, è stato precisato che la possibilità di individuare all’interno della sentenza statuizioni che non siano travolte dall’effetto caducante provocato dalla prescrizione del reato deve necessariamente trovare fondamento su disposizioni normative che consentano una tale operazione.

10. Il fondamento del problema.

La questione, dunque, trova il suo presupposto logico in quella appena illustrata, riguardante i rapporti tra la declaratoria di prescrizione e l’adozione della confisca lottizzatoria.

Al riguardo, secondo un orientamento consolidato (tra le altre, Sez. 3, n. 9982 del 05/03/2008, Quattrone, Rv. 238984; Sez. 3, n. 17066 del 04/02/2013, Volpe, Rv. 255112; Sez. 3, n. 15888/16 del 08/04/2015, dep. 2016, Sannella, Rv. 266628; Sez.3, n. 33051 del 10/05/2017, Puglisi, Rv. 270646), essenzialmente fondato sulla lettera del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, comma 2, la confisca dei terreni ben può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva del reato purché sia accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva.

Tale indirizzo, sorto da tempi risalenti (si veda, nel vigore della l. n. 47 del 1985, art. 19, Sez. 3, n. 4954 del 08/02/1994, Pene, cit. e Sez. 3, n. 10061 del 13/07/1995, Barletta, Rv. 203473), era condensato inizialmente nella semplice affermazione della compatibilità tra dichiarazione di estinzione per prescrizione del reato e confisca delle aree lottizzate in ragione della sufficienza di un accertamento del reato. Il principio si è via via irrobustito attraverso, dapprima, la indicazione della “latitudine” dell’accertamento, necessariamente comprensivo, per tenere conto delle indicazioni a suo tempo giunte dalla sentenza della Corte EDU 30/08/2007, Sud Fondi c. Italia, sia dell’elemento oggettivo, sia di quello soggettivo del reato (tra le prime, Sez. 3, n. 21188 del 30/04/2009, Casasanta, cit.; Sez. 3, n. 30933 del 19/05/2009, Costanza, Rv. 244247) e, successivamente, attraverso la predisposizione di modalità procedimentali coerenti con i principi del “giusto processo”, come tali richiedenti la sussistenza del contraddittorio delle parti quale elemento imprescindibile dell’accertamento stesso (tra le altre, Sez. 3, n. 17066 del 04/02/2013, Volpe, Rv. 255112; Sez. 4, n. 31239 del 23/06/2015, Giallombardo, Rv. 264337).

L’orientamento illustrato, in un certo momento, si è trovato in dissonanza con la giurisprudenza della Corte EDU. La pronuncia della Corte EDU 29/10/2013, Varvara c. Italia, infatti, come si è visto, aveva affermato l’incompatibilità con le garanzie previste dalla CEDU di un sistema in cui una persona dichiarata innocente o, comunque, senza alcun grado di responsabilità penale constatata in una sentenza di colpevolezza, potesse subire una “pena” (tale dovendo secondo la Corte essere considerata la confisca lottizzatoria), in contrasto con la previsione dell’art. 7 CEDU. Successivamente, con la sentenza n. 49 del 2015 - il cui contenuto è stato dapprima illustrato - la Corte costituzionale ha precisato che il pieno accertamento della responsabilità dell’imputato e della malafede del terzo eventualmente colpito, necessario per l’applicazione della confisca, non è precluso nel caso di proscioglimento dovuto a prescrizione, atteso che tale pronuncia ben potrebbe «accompagnarsi alla più ampia motivazione sulla responsabilità, ai soli fini della confisca del bene lottizzato». La pronuncia della Grande Camera 28/06/2018, G.I.E.M. S.r.l. c. Italia, in seguito, come pure è stato rilevato, ha affermato che «qualora i tribunali investiti constatino che sussistono tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva pur pervenendo a un non luogo a procedere, soltanto a causa della prescrizione, tali constatazioni, in sostanza, costituiscono una condanna nel senso dell’art. 7, che in questo caso non è violato».

11. L’indirizzo che consentiva l’annullamento con rinvio per la declaratoria della prescrizione.

Sulle premesse illustrate, nel caso di estinzione del reato di lottizzazione abusiva, un indirizzo giurisprudenziale ha affermato la possibilità di annullamento con rinvio della sentenza limitatamente al profilo relativo alla confisca, individuando un tale esito come un logico corollario della possibilità di coesistenza della prescrizione e della confisca. Tale principio, infatti, acquista un concreto valore, in quanto si consenta che, nonostante la intervenuta prescrizione maturata nel corso del giudizio di impugnazione, il giudice possa ugualmente disporre la misura in oggetto.

Queste pronunce hanno trovato una conferma di ciò nell’art. 578-bis cod. proc. pen. secondo cui “quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dall’art. 240-bis c.p., comma 1 e da altre disposizioni di legge o la confisca prevista dall’art. 322-ter c.p., il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato” (cfr. Sez. 3, n. 14005 del 04/12/2018, dep. 2019, PM in proc. Bogni, Rv. 275356; Sez. 3, n. 22034 del 11/4/2019, PM in proc. Pintore, Rv. 275969; Sez. 3, n. 31282, del 27/3/2019, Grieco e altri, Rv. 277167; Sez. 3, n. 38484 del 5/07/2019, Giannattasio, Rv. 277322; Sez. 3, n. 47094 del 12/09/2019, Ventura; Sez. 3, n. 47280 del 12/09/2019, Cancelli ed altro, Rv. 277363).

12. L’area operativa dell’art. 578-bis cod. proc. pen.

La formulazione originaria dell’art. 578-bis cod. proc. pen., introdotto dall’art. 6, comma 4, d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, (di attuazione della delega per la riserva di codice), e da ultimo modificata con la l. n. 3 del 2019 (che vi ha inserito l’inciso relativo alla “confisca prevista dall’art. 322-ter c.p.”), ha rappresentato il sostanziale trapianto, nel codice di rito, del contenuto del d.l. n. 306 del 1992, art. 12-sexies, comma 4-septies, secondo cui “le disposizioni di cui ai commi precedenti, ad eccezione del comma 2-ter, si applicano quando, pronunziata sentenza di condanna in uno dei gradi di giudizio, il giudice di appello o la Corte di cassazione dichiarano estinto il reato per prescrizione o per amnistia, decidendo sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato”. Tale comma è stato trasfuso nell’art. 240-bis, comma 1, cod. pen., inserito nel codice dal d.lgs. n. 21 del 2018 cit., art. 6, comma 1, e richiamato espressamente dall’art. 578-bis (così come, l’art. 12-sexies, comma 4-septies cit. richiamava il comma 1 della stessa norma).

L’art. 12-sexies cit., comma 1 (e, conseguentemente, in virtù della già indicata corrispondenza, l’art. 240-bis cit., comma 1), invero, prevedeva, come sopra anticipato, la sola confisca cosiddetta “per sproporzione”, senza contemplare la confisca urbanistica.

L’art. 578-bis cod. proc. pen., tuttavia, non si è limitato a richiamare la “confisca in casi particolari prevista dall’art. 240-bis c.p., comma 1” ma ha ulteriormente aggiunto, sin dalla versione originaria, il richiamo alla confisca “prevista da altre disposizioni di legge” e, successivamente, per effetto della modifica intervenuta ad opera della L. 9 gennaio 2019, n. 3, art. 1, comma 4, lett. f), il richiamo alla confisca “prevista dall’art. 322-ter cod. pen.”.

Quali che siano state le ragioni che hanno determinato il legislatore ad introdurre la norma in oggetto nel codice di rito, la stessa deve essere letta secondo quanto in essa espressamente contenuto, dovendo riconoscersi al richiamo alla confisca “prevista da altre disposizioni di legge”, formulato senza ulteriori specificazioni, una valenza di carattere generale, capace di ricomprendere in essa anche le confische disposte da fonti normative poste al di fuori del codice penale.

Secondo l’ordinanza di rimessione, invero, tale inciso sarebbe da riferire specificamente alla confisca “allargata” relativa al reato di cui al d.P.R. n. 43 del 1973, art. 295, comma 2, e a quella relativa al reato di cui al d.P.R. n. 309 del 1993, art. 73, che, in quanto disciplinate entrambe da testi unici, non avrebbero potuto, per il principio della “riserva di codice” di cui all’art. 3-bis cod. pen., essere espressamente menzionate nel codice penale. Per discostarsi da tale assunto, peraltro, è dirimente osservare che tale principio riguarda, per come emergente dal tenore testuale di detta norma, le “nuove disposizioni che prevedono reati”, le quali “possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia”, essendosi, cioè, voluto evitare che con leggi diverse da tali due fonti si possano introdurre nuove fattispecie di reato. Nella specie, invece, non si sarebbe trattato di introdurre nuove fattispecie di reato ma solo di menzionare, ai fini della regolamentazione della confisca per esse prevista, fattispecie già contemplate dall’ordinamento.

Né il fatto che la rubrica della norma riguardi unicamente la “confisca in casi particolari”, in tal modo sembrando alludere alla sola confisca “allargata” di cui all’art. 240-bis cit., che infatti, in rubrica riporta la stessa formulazione, può condurre a diverse conclusioni, dovendo sul punto ribadirsi che le partizioni sistematiche di una legge, in particolare titoli, capi e rubriche, non fanno parte né integrano il testo legislativo e quindi non vincolano l’interprete, in quanto la disciplina normativa sulla formazione delle leggi prevede che solo i singoli articoli siano oggetto di esame e di approvazione da parte degli organi legislativi (Sez. 1, n. 16372 del 20/03/2015, De Gennaro, Rv. 263325).

E, allo stesso modo, non è apparso ostare ad una lettura che includa nell’art. 578-bis cod. proc. pen. anche la confisca urbanistica il fatto che, alla “confisca in casi particolari” e a quella “prevista...da altre disposizioni di legge”, tra loro legate dalla congiunzione “e”, si sia poi aggiunta anche la confisca di cui all’art. 322-ter cit., per mezzo della diversa congiunzione “o”; secondo una prima lettura di tali unità sintattiche, menzionata dalla ordinanza di rimessione, infatti, la diversa natura delle due congiunzioni usate starebbe a dimostrare che le confische menzionate dalla norma potrebbero essere di soli due tipi, ovvero, da un lato, la confisca cosiddetta “allargata”, esemplificata dal riferimento all’art. 240-bis cit. cui, per effetto della congiunzione “e”, andrebbe accomunata anche la confisca previste da altre disposizioni di legge, e, dall’altro, la confisca per equivalente, esemplificata dal riferimento all’art. 322-ter cit., senza spazio, dunque, per ulteriori tipi di confisca. Sennonché, non può non tenersi conto che, come già detto, la versione originaria era limitata ai soli due primi elementi mentre il riferimento alla confisca di cui all’art. 322-ter cod. pen. è stato il frutto di interpolazione successiva, sicché l’affidamento sull’appropriata utilizzazione delle congiunzioni (dapprima la “e” e, poi, la “o”) e sulle sue conseguenze interpretative appare in definitiva assai labile ove non rapportato, come necessario, alla formulazione primigenia caratterizzata dal semplice riferimento ad una confisca prevista dall’art. 240-bis nonché da altre leggi speciali; ed anzi, ben potrebbe dirsi che è la stessa aggiunta posteriore, in realtà, ed in senso opposto a quanto si vorrebbe, a rafforzare una lettura della disposizione inclusiva anche dei provvedimenti ablatori aventi portata lato sensu sanzionatoria, come indubbiamente è la confisca per equivalente e come è la confisca urbanistica, avente natura, per consolidata esegesi di questa Corte, di “sanzione amministrativa” (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 12471 del 16/11/1995, Besana, Rv. 203275; Sez. 3, n. 777 del 24/02/1999, Iaconangeli, Rv. 214058; Sez. 3, n. 38728 del 07/07/2004, Lazzara, Rv. 229608; Sez. 3, n. 36844 del 09/07/2009, Contò, Rv. 244923; Sez. 3, n. 5857 del 6/10/2010, dep. 2011, Grova, Rv. 249516; Sez. 3, n. 2292 del 25/10/19, dep. 2020, Romano).

Va aggiunto che già le Sezioni Unite avevano significativamente affermato, con la sentenza n. 6141/19 del 25/10/2018, Milanesi, Rv. 274627, come il riferimento dell’art. 578-bis cod. proc. pen. alle “altre disposizioni di legge” evochi “le plurime forme di confisca previste dalle leggi penali speciali”, in tal modo condividendo la legittimità di una lettura ad ampio raggio, non limitata alla sola confisca “per sproporzione”.

Né, interpretando la norma come applicabile anche alla confisca urbanistica, da intendersi ricompresa appunto nella indeterminata categoria delle confische previste da altre disposizioni di legge, potrebbero emergere elementi sintomatici di un possibile attrito della stessa con il principio di cui all’art. 76 cost. tale da fare dubitare, in termini non manifestamente infondati, della sua legittimità costituzionale.

Va considerato che la legge 23 giugno 2017, n. 103, art. 1, comma 82, ha delegato il Governo all’adozione di norme per la riforma dei giudizi di impugnazione nel processo penale, entro le quali, dunque, ben può farsi rientrare anche l’art. 578-bis cod. proc. pen., norma inequivocabilmente volta, sia per l’ambito di collocazione sia per il contenuto, a disciplinare appunto il giudizio di impugnazione, e che, dall’altro, l’art. 1, comma 86 stessa legge stabilisce che “Il Governo è delegato ad adottare, nei termini e con la procedura di cui al comma 83, decreti legislativi recanti le norme di attuazione delle disposizioni previste dai commi 84 e 85 e le norme di coordinamento delle stesse con tutte le altre leggi dello Stato, nonché le norme di carattere transitorio”, ben potendo l’art. 578-bis cod. proc. pen. costituire, nella sostanza, una delle “norme di coordinamento con tutte le altre leggi dello Stato” resesi necessarie in esito all’esercizio della delega.

Del resto, come costantemente affermato dalla Corte costituzionale, i principi e criteri direttivi servono, da un lato, a circoscrivere il campo della delega, sì da evitare che essa venga esercitata in modo divergente dalle finalità che l’hanno determinata, ma, dall’altro, devono anche consentire al potere delegato la possibilità di valutare le particolari situazioni giuridiche da regolamentare nella fisiologica attività di “riempimento” che lega i due livelli normativi, sicché la determinazione dei principi e dei criteri suddetti “non osta all’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore” (sent. n. 117 del 1997; n. 198 del 1998; n. 426 del 2006; n. 341 del 2007) pur nel silenzio del legislatore delegante (sent. n. 141 del 1993). La riferibilità dell’art. 578-bis cit. anche alla confisca urbanistica, peraltro, poggia non solo sugli argomenti illustrati, ma anche su un criterio di evidente razionalità: l’esigenza che ha spinto il legislatore a dettare una norma volta, in chiara analogia con la disposizione dell’art. 578 cod. proc. pen. (non a caso immediatamente precedente nella topografia codicistica), ad evitare che la prescrizione del reato, a fronte di un’affermazione di responsabilità che resta, nella sostanza, immutata, vanifichi la confisca di cui all’art. 240-bis cit. nel frattempo disposta in primo grado o in grado di appello (a seconda che la prescrizione maturi rispettivamente nel giudizio di appello o in quello di legittimità), in linea con il principio di conservazione degli effetti delle pronunce di merito sul punto non sovvertite nei gradi successivi (così come, con riguardo all’art. 578 cod. proc. pen., si è voluto evitare la dissipazione degli effetti sul piano delle statuizioni civili), è ancor più tangibile nel caso della confisca di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44.

Come si è già detto, infatti, ai fini di disporre la confisca lottizzatoria non è necessaria una pronuncia di condanna, essendo invece sufficiente il “sostanziale” accertamento del fatto, sia pure circondato dalle garanzie sostanziali e processuali già ricordate sopra; non si comprende allora quale senso potrebbe avere consentire che il mero fatto di una prescrizione sopravvenuta in grado di appello o in quello di legittimità (ovvero, in altri termini, il sopravvenire di una situazione che, ove prodottasi già in primo grado, non avrebbe comunque potuto impedire la sanzione amministrativa de qua) impedisca al giudice dell’impugnazione di decidere comunque agli effetti della confisca.

Da tale punto di vista, dunque, il parallelismo che, con riguardo alla confisca “per sproporzione”, il legislatore ha posto, per le altre confische, tra la norma sostanziale di cui all’art. 240-bis e quella processuale di cui all’art. 578-bis, va, con riguardo alla confisca urbanistica, più specificamente instaurato tra il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 (quale “legge speciale” richiamata dalla norma del codice di procedura) e l’art. 578-bis.

13. L’applicazione dell’art. 578-bis cod. proc. pen. non presuppone una condanna di primo grado.

La Corte ha poi rilevato che l’art. 578-bis cod. proc. pen. non presuppone che, ai fini della confisca urbanistica, sia sempre necessaria, in primo grado, una pronuncia di condanna.

Premesso che la formulazione letterale della norma in sé considerata non contiene alcun espresso riferimento a tale presupposto (venendo unicamente menzionata la necessità di una previa confisca), il necessario antecedente di una sentenza di condanna non può neppure essere rinvenuto nell’incipit dell’art. 240-bis, comma 1, cit., che menziona la condanna (nonché la sentenza di applicazione della pena), appunto perché, come appena detto, il necessario referente dell’art. 578-bis, per quanto riguardante specificamente la confisca urbanistica, non è rappresentato dall’art. 240-bis bensì il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 che opera il chiaro riferimento al solo “accertamento”.

Le Sezioni Unite, nondimeno, hanno precisato che, affinché sia razionalmente ricostruito il “sistema” ricavato dalle norme appena ricordate, la possibilità per il giudice dell’impugnazione, che dichiari la prescrizione, di decidere comunque agli effetti della confisca, non può implicare, come invece ritenuto da alcune pronunce, che il giudizio di primo grado, una volta intervenuta la prescrizione e non ancora accertato il fatto, possa comunque proseguire a tali soli fini di accertamento.

Un orientamento, invero, ha ritenuto recessivo il principio generale dell’obbligo di immediata declaratoria di una causa estintiva del reato di cui all’art. 129 cod. proc. pen. rispetto all’obbligo di accertamento ricavabile dall’art. 44 cit., che, dunque, dovrebbe avere piena espansione consentendo al giudice, nell’ottica della possibilità di individuare, accanto all’azione penale tipica, una cosiddetta “azione penale complementare”, di “adottare altri provvedimenti a carattere reattivo o ripristinatorio, nei quali si sostanzia l’esigenza dell’ordinamento di ripristinare l’ordine giuridico violato dal fatto illecito” (così, tra le altre, da ultimo, n. 2292 del 25/10/2019, dep. 22/01/2020, Romano, non mass., nonché Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017, Martino, Rv. 272791; Sez. 3, n. 43630 del 25/06/2018, Tammaro, Rv. 274196; Sez. 3, n. 31282, del 27/3/2019, Grieco, Rv. 277167).

Secondo questa impostazione, l’unico limite a che il processo penale possa progredire relativamente ad un’azione di accertamento finalizzata alla sola decisione sulla confisca urbanistica sarebbe rappresentato dall’estinzione maturata prima dell’esercizio dell’azione penale (Sez. 3, n. 35313 del 19/05/2016, Imolese, Rv. 267534).

Le Sezioni Unite, tuttavia, hanno ritenuto di riaffermare la valenza, rispondente a principi di ordine costituzionale, dell’obbligo di immediata declaratoria della causa di estinzione del reato posto dall’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., unicamente derogabile, in melius, dal comma 2 stessa norma, laddove già risulti con evidenza la sussistenza di una causa di proscioglimento nel merito e, in peius, nel senso, cioè, di consentire ugualmente la prosecuzione del processo ai fini dell’adozione di provvedimenti lato sensu sanzionatori, solo in presenza di norme che espressamente statuiscano in tal senso.

Dal tenore letterale dell’art. 44 cit., in primo luogo, non può trarsi alcuna indicazione nel senso di un “obbligo” di compiere l’accertamento nonostante la prescrizione già maturata e che in tale direzione non possono condurre, come anche osservato dall’ordinanza di rimessione, né la sentenza della Corte costituzionale n. 49 del 2015, né la già ricordata pronuncia della Corte EDU GIEM s.r.l. c. Italia.

Sotto il primo profilo normativo, la disposizione appena ricordata si limita a prevedere che “la sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca...”: in altri termini, pur postulando che ai fini della confisca sia sufficiente l’accertamento del fatto, in tal modo consentendo la misura anche a fronte di maturata prescrizione, la stessa nulla dice in ordine ai rapporti in punto di successione temporale tra l’accertamento del fatto, da un lato, e la prescrizione, dall’altro, se, cioè, l’accertamento debba necessariamente precedere il termine di compimento della prescrizione, affinché sia legittimo disporre la confisca, oppure sia invece consentito che, nonostante la prescrizione ormai intervenuta, il giudizio debba proseguire oltre ai soli fini di accertare il fatto (evidentemente prima non accertato) onde potere disporre la confisca.

Sotto il secondo profilo giurisprudenziale, poi, nessun riferimento la Corte costituzionale appare avere operato a tale aspetto, ciò non potendo in particolare ricavarsi dalla specificazione per cui non sarebbe di per sé “escluso che il proscioglimento per prescrizione possa accompagnarsi alla più ampia motivazione sulla responsabilità, ai soli fini della confisca del bene lottizzato”, ciò solo significando, appunto, la reiterazione del principio di compatibilità “logica o giuridica della prescrizione con un pieno accertamento di responsabilità”; né alcun riferimento specifico sarebbe possibile rinvenire nella giurisprudenza della Corte EDU, che mai è scesa a valutare gli aspetti di ordine prettamente processuale appena ricordati, del resto chiaramente estranei all’orizzonte decisionale proprio della giurisdizione sovranazionale se non espressamente denunciati ad essa in ragione di eventuali effetti di inosservanza dei principi della Convenzione EDU.

È invece necessario il riferimento alle norme processuali e, in particolare, all’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., specificamente dedicato proprio al tempo e al quomodo della declaratoria di determinate cause di non punibilità (in esse rientrando anche la estinzione del reato), da sempre interpretato da questa Corte come espressiva di un obbligo per il giudice di pronunciare con immediatezza, nel momento di sua formazione ed indipendentemente da quello che sia “lo stato e il grado del processo” (clausola, questa, significativamente menzionata dalla norma), sentenza di proscioglimento (in tal senso, Sez. 1, n. 33129 del 06/07/2004, Bevilacqua, Rv. 229387; Sez. 5, n. 12174 del 18/02/2002, Vitale, Rv. 221392; implicitamente, Sez. 6, n. 783 del 26/02/1999, Tota, Rv. 214141).

Ed è emblematico che, esattamente in fattispecie riguardante la confisca urbanistica, ed in conseguenza della stretta applicazione del “principio di immediatezza” di cui all’art. 129 cit., sia stato da questa Corte ritenuto abnorme il decreto del giudice dell’udienza preliminare che, proprio al fine di consentire successivamente l’accertamento finalizzato a detta confisca, abbia disposto ugualmente il rinvio a giudizio per un reato, pur riconoscendo l’intervenuta estinzione dello stesso per prescrizione, in quanto esplicatosi al di fuori dei casi consentiti, al di là di ogni ragionevole limite (Sez. 1, n. 33129 del 06/07/2004, Bevilacqua, cit.).

E, sempre in tema di confisca urbanistica, va ricordato come la Corte, pur attraverso il riferimento a quanto imposto specificamente dall’art. 469 cod. proc. pen., abbia ravvisato, a fronte di maturata prescrizione del reato di lottizzazione, l’impossibilità, nella fase degli atti preliminari al dibattimento, e, dunque, ad azione penale già esercitata, e dunque in un momento processuale tale, in teoria, da consentire di accertare il fatto nelle sue componenti oggettive e soggettive, di protrarre oltre il giudizio (Sez. 3, n. del 14/11/2018, dep. 2019, Bernardini, Rv. 277975).

Né è inutile ricordare il rilievo, di ordine anche costituzionale, che l’art. 129 cod. proc. pen. riveste anche secondo questa Corte a Sezioni Unite.

Secondo quanto affermato in particolare da Sez. U, n. 17179 del 27/02/2002, Conti, Rv. 221403, infatti, due sono le funzioni fondamentali che assolve tale norma, la prima essendo quella di favorire l’imputato innocente (o comunque da prosciogliere o assolvere), prevedendo l’obbligo dell’immediata declaratoria di cause di non punibilità “in ogni stato e grado del processo”, e, la seconda, quella di agevolare in ogni caso l’exitus del processo, ove non appaia concretamente realizzabile la pretesa punitiva dello Stato; implicita in tali funzioni ve ne sarebbe poi una terza, consistente nel fatto che l’art. 129 cit. rappresenta, sul piano processuale, la proiezione del principio di legalità stabilito sul piano del diritto sostanziale dall’art. 1 cod. pen.

Né va dimenticato l’ulteriore fine, perseguito dalla norma, di contemperamento dell’interesse dell’imputato ad una più ampia possibilità di vedere proseguire l’attività processuale in vista di un auspicato proscioglimento con formula liberatoria di merito, “con l’aspetto, non meno rilevante, dell’exitus del processo quale obiettivo da perseguire, la cui importanza non può certamente sottovalutarsi, posto che la disciplina d’impulso alla sollecita definizione del processo tutela un fondamentale interesse di carattere costituzionale (art. 111 Cost., comma 2: ragionevole durata del processo) che non può essere considerato aprioristicamente di rango inferiore ad altri interessi pur apprezzabili e, in ogni caso, sempre tutelabili”.

In definitiva, dunque, e per ribadire le affermazioni di tale pronuncia, il principio dell’immediata operatività della causa estintiva, fatto salvo il limite dell’evidente innocenza dell’imputato, è il frutto di una scelta legislativa che trova la sua ratio nell’intento di evitare la prosecuzione infruttuosa di un giudizio e nella finalità di assicurare la pronta definizione dello stesso, evitando così esasperati, dispendiosi ed inutili formalismi.

Peraltro, ove il principio dell’immediatezza del proscioglimento appena ricordato fosse ritenuto derogabile in vista della confisca urbanistica, ovvero in senso chiaramente sfavorevole all’imputato, non ci si potrebbe sottrarre all’evidente sperequazione che verrebbe in generale in tal modo a crearsi nel caso, invece, di accertamenti da operare in melius, essendosi sempre esclusa da questa Corte la possibilità di prosecuzione a tal fine del processo proprio per il contrasto della stessa con quanto disposto dall’art. 129 c.p.p. (da ultimo, Sez. 3, n. 56059 del 19/09/2017, Marvelli, Rv. 272427 e Sez. 5, n. 5586 del 03/10/2013, Fortunato, Rv. 258875).

Dunque, solo là dove specificamente previsto, il principio dell’immediata adozione di pronuncia di proscioglimento può trovare deroga nel contemperamento con interessi ritenuti comunque meritevoli di tutela, difettando invece, per quanto riguardante la confisca lottizzatoria, ogni disposizione in tal senso.

Pertanto, non possono condurre ad una prosecuzione del giudizio che non abbia già accertato il reato le norme che consentono al giudice, nonostante la declaratoria di proscioglimento, anche di proseguire nel giudizio per determinate specifiche finalità (tra esse annoverandosi l’art. 537 cod. proc. pen., in tema di pronuncia sulla falsità di documenti, e il d.P.R. n. 43 del 1973, art. 301 in tema di contrabbando).

È infatti chiaro che tali norme, proprio perché derogatorie rispetto all’art. 129 cod. proc. pen., non possono essere certo considerate esemplificative di un “sistema” in tal senso, tanto più in ragione della peculiarità di situazioni, come quella disciplinata, ad esempio, dall’art. 537 cod. proc. pen. (la cui finalità è quella di evitare la celebrazione di un giudizio civile per accertare la falsità dell’atto), non equiparabili a quella della confisca urbanistica. Del resto, proprio all’esistenza di dette specifiche disposizioni va collegata l’affermazione di Sez. U, n. 38834 del 10/07/2008, De Maio, Rv. 240565, secondo cui la circostanza che il giudice possa procedere ad accertamenti ai fini della confisca non potrebbe considerarsi “anomala”: è evidente che l’affermazione resa in tali esatti termini, nell’ambito di questione oltretutto limitata, ancora una volta, alla sola verifica della compatibilità tra confisca ed estinzione del reato, segnala l’impossibilità di volgere la stessa nel senso, ben diverso, della sistematicità necessaria, sempre e comunque, di accertamenti in presenza di una prescrizione già maturata.

14. Il rilievo della natura della confisca.

Alla conclusione nel senso adottato, infine, ha condotto anche la natura della confisca lottizzatoria, costantemente qualificata dalla Corte di cassazione come sanzione amministrativa, sia pure irrogata dal giudice penale, alla stessa stregua dell’ordine di demolizione di cui all’art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001.

Tale natura comporta che, laddove la confisca non sia stata disposta in sede penale, perché non è stato possibile accertare il fatto, l’amministrazione può comunque adottare i provvedimenti sanzionatori previsti dall’art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 5857 del 06/10/2010, dep. 2011, Grova, Rv. 249517).

Né può trascurarsi la circostanza che, all’interno del sistema delle sanzioni amministrative previsto, per la lottizzazione, dall’art. 30, commi 7 e 8, l’intervento sanzionatorio del giudice penale attuato tramite la confisca è di ordine meramente residuale (Sez. 3, n. 47280 del 12/09/2019, Cancelli, cit.; Sez. 3, n. 47094 del 12/09/2019, Ventura, cit.; Sez. 3, n. 31282, del 27/3/2019, Grieco; Sez. 3 n. 8350 del 23/01/2019, Alessandrini, Rv. 275756) e non interferisce, né si sovrappone all’autonomo potere principalmente attribuito all’autorità amministrativa dall’art. 30 d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3 n. 8350 del 23/01/2019, Alessandrini, cit.). Deve, del resto, escludersi che, in tema di provvedimenti sanzionatori che conseguono all’accertamento di una lottizzazione abusiva, possa desumersi dalla disciplina in materia l’esistenza di una sorta di pregiudiziale penale, ovvero di previa verifica della sussistenza della responsabilità penale di cui all’art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, come più volte affermato dalla giurisprudenza amministrativa (così, Cons. Stato, Sez. 6, n. 2082 del 3/04/2018; negli stessi termini, Cons. Stato, Sez. 6, n. 1888 del 26/03/2018; Cons. Stato, Sez. 6, n. 1878 del 23/03/2018; cfr. TAR Toscana, Sez. 3, n. 1643 del 19/12/2018; TAR Toscana, n. 509 del 30/03/2015; T.A.R. Toscana, Sez. 3, Sent. n. 893 del 29/05/2014).

Il principio di adozione in via immediata del proscioglimento (in esso compreso quello dovuto ad estinzione del reato) va dunque riaffermato, sicché il giudice di primo grado potrà disporre la confisca solo ove, prima della maturazione della prescrizione, sia stato comunque già accertato, nel contraddittorio delle parti, il fatto di lottizzazione nelle sue componenti oggettive e soggettive.

15. I principi di diritto affermati.

Conclusivamente, le Sezioni Unite hanno enunciato i principi di diritto illustrati in precedenza e che appare opportuno ribadire:

“La confisca di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva determinata dalla prescrizione del reato purché sia stata accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che abbia assicurato il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, fermo restando che, una volta intervenuta detta causa, il giudizio non può, in applicazione dell’art. 129 c.p.p., comma 1, proseguire al solo fine di compiere il predetto accertamento”.

Ed inoltre, hanno affermato: “In caso di declaratoria, all’esito del giudizio di impugnazione, di estinzione del reato di lottizzazione abusiva per prescrizione, il giudice di appello e la Corte di cassazione sono tenuti, in applicazione dell’art. 578-bis cod. proc. pen., a decidere sull’impugnazione agli effetti della confisca di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44”.

16. La decisione della vicenda posta al vaglio delle Sezioni Unite.

Sulla base dei principi illustrati, dunque, la Corte, nonostante l’intervenuta prescrizione del reato, che comporta l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, ha ritenuto di essere tenuta ugualmente a decidere in ordine alla confisca già disposta dal giudice di primo grado e confermata in sede di appello.

In proposito, l’unico motivo proposto in ricorso riguardante la confisca, tuttavia, è stato giudicato inammissibile per la mancanza di interesse del ricorrente che ha dedotto di essere proprietario solo in minima parte dei beni confiscati, i quali apparterrebbero a terzi in buona fede. È stata pertanto confermata la statuizione del tribunale di confisca del terreno abusivamente lottizzato e dei manufatti sullo stesso abusivamente realizzati.

Al riguardo, è stato applicato il principio, implicito anche nell’art. 578-bis cod. proc. pen., secondo cui i poteri cognitivi della Corte sono comunque vincolati alla fisiologia del giudizio di legittimità, sia in relazione alla impossibilità di operare valutazioni del fatto, sia in relazione alla natura devolutiva del giudizio, legato ai motivi di ricorso. Il potere di decisione delle questioni rilevabili d’ufficio a norma dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., che opera in deroga al principio devolutivo, invece, non può che riguardare le questioni relative ai soli soggetti titolari del rapporto processuale regolarmente instaurato e non anche soggetti terzi.

Nessuno spazio dunque residua per valutare l’eventuale illegittimità della statuizione della confisca, neppure sotto il profilo del rispetto del principio di proporzionalità evocato dall’ordinanza di rimessione come questione rilevabile d’ufficio per effetto della decisione della Corte EDU 26/06/2018, G.I.E.M. S.r.l. c. Italia, posto che lo stesso ricorrente, con l’unico motivo riguardante la confisca, ha dedotto una questione, ovvero quella della buona fede di soggetti terzi proprietari dell’area e di beni lottizzati, del tutto estranea alla propria posizione.

Del resto, nel caso di specie, la confisca ha testualmente riguardato “il terreno abusivamente lottizzato” e i “manufatti sullo stesso abusivamente realizzati”, sicché nulla potrebbe condurre a far ritenere che la misura sia stata adottata in contrasto con i principi affermati dalla Corte EDU e, segnatamente, con il principio di proporzionalità della misura finendo per riguardare aree ed immobili estranei alla condotta lottizzatoria. L’annullamento con rinvio effettuato in assenza di elementi fattuali deponenti per il mancato rispetto dei principi anche sovranazionali, pertanto, si risolverebbe in un annullamento ad explorandum, del tutto estraneo al ruolo e ai compiti del giudice di legittimità (nel senso che “un annullamento con rinvio in funzione meramente esplorativa non può ritenersi consentito”, v. Sez. U, n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, Rv. 224606).

E tale presupposto non può che restare fermo anche con riguardo a quanto previsto dall’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., in relazione alla possibilità per la Corte di decidere le questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello (si veda, infatti, sia pure con riferimento all’applicabilità dell’art. 129 c.p.p., Sez. 3, n. 394 del 25/09/2018, Gilardi, Rv. 274567).

Al riguardo, è stato affermato il principio così massimato: “In tema di giudizio di legittimità, il potere di decisione delle questioni rilevabili d’ufficio a norma dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., che opera in deroga al principio devolutivo, riguarda solo quelle relative ai soggetti titolari del rapporto processuale regolarmente instaurato e non anche quelle che attengono a terzi” (Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, Perroni, Rv. 278870 - 03).

L’enunciazione di tale principio, peraltro, non significa che la relativa questione sia definitivamente preclusa: è proprio l’ampio impiego, da parte dei giudici di merito, della formula di legge relativa alla confisca urbanistica a consentire all’interessato di proporre ogni doglianza sul punto in sede esecutiva (anche, ove ne ricorrano i presupposti, nella prospettiva, segnalata dalla sentenza G.I.E.M. S.r.l. c. Italia, e di cui va valutata la compatibilità con l’attuale assetto normativo, del mancato utilizzo di misure diverse, e di invasività inferiore, rispetto a quella della confisca) e di chiedere, conseguentemente, anche la revoca della confisca limitatamente alle aree o agli immobili che dovessero essere ritenuti estranei alla condotta illecita, secondo una modalità di impiego dello strumento dell’incidente di esecuzione, nel quale il giudice gode di ampi poteri istruttori ai sensi dell’art. 666, comma 5, cod. proc. pen., del tutto consueta anche nell’applicazione giurisprudenziale (nel senso che in sede esecutiva può farsi questione anche sulla estensione e sulle modalità esecutive della confisca stessa, cfr. Sez. 1, n. 30713 del 03/07/2002, Merlo, Rv. 222157 e Sez. 4, n. 2552 del 20/04/2000, EI Yamini, Rv. 216491).

A tale proposito è stato affermato il principio: “In tema di lottizzazione abusiva, le questioni relative alla conformità della confisca al principio di protezione della proprietà di cui all’art. 1 del Prot. n. 1 CEDU, come interpretato dalla pronuncia della Grande Camera della Corte EDU del 28 giugno 2018, G.I.E.M. S.r.l. contro Italia possono essere proposte dagli interessati al giudice dell’esecuzione, anche chiedendo la revoca della misura limitatamente alle aree o agli immobili estranei alla condotta illecita” (Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, Perroni, Rv. 278870 - 04).

17. La giurisprudenza di legittimità successiva.

La giurisprudenza successiva si è allineata ai principi espressi dalle Sezioni Unite.

È stato costantemente ribadito che il proscioglimento per intervenuta prescrizione non osta alla confisca, ove sia stata comunque accertata, con adeguata motivazione e nel contraddittorio delle parti, la sussistenza del reato nei suoi elementi, oggettivo e soggettivo. Il giudice di primo grado, però, potrà disporre la confisca solo ove, anteriormente al momento di maturazione della prescrizione, sia stato comunque già accertato, nel contraddittorio delle parti, il fatto di lottizzazione nelle sue componenti oggettive e soggettive (Sez. 3, n. 31177 del 10/09/2020, Di Ciommo; Sez. 3, n. 28474 del 8/09/2020, Pontrandolfo; Sez. 3, n. 23013 del 13/02/2020, Paone; Sez. 3, n. 20095 del 1/07/2020, Albanese).

In caso di declaratoria, all’esito del giudizio di impugnazione, di estinzione del reato di lottizzazione abusiva per intervenuta prescrizione, il giudice di appello e la Corte di cassazione sono tenuti, in applicazione dell’art. 578-bis cod. proc. pen., a decidere sull’impugnazione agli effetti della confisca di cui all’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, avendo le Sezioni Unite precisato che deve riconoscersi al richiamo contenuto nell’art. 578-bis alla confisca “prevista da altre disposizioni di legge”, formulato senza ulteriori specificazioni, una valenza di carattere generale, capace di ricomprendere anche le confische disposte da fonti normative poste al di fuori del codice penale (Sez. 3, n. 32383 del 9/09/2020, Paolicelli). Il potere della Corte di cassazione di decisione delle questioni rilevabili d’ufficio a norma dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., che opera in deroga al principio devolutivo, non può che riguardare le questioni relative ai soli soggetti titolari del rapporto processuale regolarmente instaurato e non anche soggetti terzi, titolari dei beni confiscati (Sez. 3, n. 23010 del 10/01/2020, Grossi).

Una volta intervenuta la causa di estinzione del reato, il giudizio non può, in applicazione dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., proseguire al solo fine di compiere l’accertamento della responsabilità. Una decisione della Corte, peraltro, ha ravvisato una eccezione a tale regola, rappresentata dai casi di processo “cumulativo” in cui il giudizio debba necessariamente proseguire per accertare ulteriori illeciti (Sez. 3, n. 31182 del 16/09/2020, Galli).

. Indice delle sentenze citate.

Indice delle sentenze citate

Sentenze dalla Corte di cassazione

Sez. 3, n. 4954 del 8/02/1994, Pene ed altri, Rv. 197506 Sez. 3, n. 10061 del 13/07/1995, Barletta, Rv. 203473

Sez. 3, n. 12471 del 16/11/1995, Besana, Rv. 203275

Sez. 3, n. 777 del 24/02/1999, Iaconangeli, Rv. 214058

Sez. 6, n. 783 del 26/02/1999, Tota, Rv. 214141

Sez. 4, n. 2552 del 20/04/2000, EI Yamini, Rv. 216491 Sez. 5, n. 12174 del 18/02/2002, Vitale, Rv. 221392 Sez. U, n. 17179 del 27/02/2002, Conti, Rv. 221403 Sez. U, n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, Rv. 224606

Sez. 1, n. 33129 del 06/07/2004, Bevilacqua, Rv. 229387

Sez. 3, n. 37086 del 07/07/2004, Percinaro, Rv. 230031

Sez. 3, n. 38728 del 07/07/2004, Lazzara, Rv. 229608 Sez. 3, ord. n. 10916 del 3/3/2005, Visconti, Rv. 230984 Sez. 3, n. 9982 del 05/03/2008, Quattrone, Rv. 238984 Sez. U, n. 38834 del 10/07/2008, De Maio, Rv. 240565

Sez. 3, n. 21188 del 30/04/2009, Casasanta e altri, Rv. 243630 Sez. 3, n. 30933 del 19/05/2009, Costanza, Rv. 244247

Sez. 3, n. 36844 del 09/07/2009, Contò, Rv. 244923

Sez. 3, n. 39078 del 13/07/2009, Apponi e altri, Rv. 245347 Sez. 3, n. 5857 del 6/10/2010, dep. 2011, Grova, Rv. 249516

Sez. 3, n. 17066 del 04/02/2013, Volpe, Rv. 255112

Sez. 5, n. 5586 del 03/10/2013, Fortunato, Rv. 258875 Sez. 3, (ord.) n. 20636 del 20/05/2014, Alessandrini

Sez. 1, n. 16372 del 20/03/2015, De Gennaro, Rv. 263325

Sez. 3, n. 15888 del 08/04/2015, dep. 2016, Sannella, Rv. 266628

Sez. 4, n. 31239 del 23/06/2015, Giallombardo, Rv. 264337

Sez. 3, n. 35313 del 19/05/2016, Imolese, Rv. 267534 Sez. 3, n. 33051 del 10/05/2017, Puglisi e aa., Rv. 270646 Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017, Martino, Rv. 272791

Sez. 3, n. 56059 del 19/09/2017, Marvelli, Rv. 272427

Sez. 3, n. 43630 del 25/06/2018, Tammaro, Rv. 274196

Sez. 3, n. 394 del 25/09/2018, Gilardi, Rv. 274567

Sez. 3, n. del 14/11/2018, dep. 2019, Bernardini, Rv. 277975 Sez. 3, n. 14005 del 04/12/2018, dep. 2019, Bogni, Rv. 275356

Sez. 3 n. 8350 del 23/01/2019, Alessandrini, Rv. 275756;

Sez. 3, n. 22034 del 11/4/2019, Pintore, Rv. 275969

Sez. 3, n. 31282, del 27/3/2019, Grieco, Rv. 277167

Sez. 3, n. 38484 del 5/07/2019, Giannattasio, Rv. 277322 Sez. 3, n. 47094 del 12/09/2019, Ventura

Sez. 3, n. 47280 del 12/09/2019, Cancelli, Rv. 277363

Sez. 3, n. 2292 del 25/10/19, dep. 2020, Romano Sez. 3, n. 23010 del 10/01/2020, Grossi

Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, Perroni, Rv. 278870 - 03 Sez. 3, n. 23013 del 13/02/2020, Paone

Sez. 3, n. 20095 del 1/07/2020, Albanese

Sez. 1, n. 30713 del 03/07/2002, Merlo, Rv. 222157 Sez. 3, n. 28474 del 8/09/2020, Pontrandolfo

Sez. 3, n. 32383 del 9/09/2020, Paolicelli Sez. 3, n. 31177 del 10/09/2020, Di Ciommo Sez. 3, n. 31182 del 16/09/2020, Galli

  • reato tributario
  • confisca di beni
  • prescrizione dell'azione

CAPITOLO II

LA CONFISCA PER EQUIVALENTE: NATURA E COMPATIBILITÀ CON LA PRESCRIZIONE DEL REATO.

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 Premessa. - 2 La confisca per equivalente in rapporto all’art.578-bis cod.proc.pen. - 3 La natura della confisca per equivalente. - 4 Confisca per equivalente e finalità riparatoria. - 5 Estensione del principio alle altre ipotesi di confisca per equivalente. - 6 Le confische in materia di reati tributari. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

Il sistema penale ha da tempo incentrato una parte rilevante della risposta sanzionatoria sull’applicazione di forme differenziate di confisca, al punto che quello che era inizialmente uno strumento ben delimitato e avente essenzialmente la funzione di misura di sicurezza patrimoniale, ha assunto plurimi connotati, anche spiccatamente sanzionatori.

L’evoluzione del diritto penale ha comportato, pertanto, l’ampliamento delle ipotesi già note di confisca e l’introduzione di forme nuove, spesso calibrate sulle specifiche necessità repressive relative a determinati fenomeni criminosi (si pensi, in particolare, alla innovativa disciplina in materia di responsabilità da reato degli enti, lì dove la confisca ex art.19 d.lgs. n.231 del 2001, nel qual caso la confisca assurge a vera e propria sanzione principale).

Di pari passo, si è assistito ad un ampliamento delle ipotesi di confisca per equivalente, nel qual caso la rescissione del legame di pertinenzialità con il reato amplia considerevolmente l’ef- ficacia dell’ablazione patrimoniale, rendendo più agevole il rinvenimento di cespiti da acquisire. L’ampliamento dei casi in cui è possibile addivenire alla confisca per equivalente rap- presenta la principale linea evolutiva della repressione “patrimoniale” in ambito penale, consentendo di superare quell’esigenza di stabilire un collegamento tra fatto di reato e utilità patrimoniale conseguita che, evidentemente, rappresenta anche una considerevole agevolazione sotto il profilo prettamente probatorio.

Nel momento in cui, mediante la previsione della confisca per equivalente, viene meno la necessità di accertare il nesso di pertinenzialità con il reato, ne risulta chiaramente age- volata la possibilità di aggredire patrimoni altrimenti destinati a restare nella disponibilità dell’autore dell’illecito.

L’altra direttrice fondamentale rispetto alla quale si va evolvendo la confisca è rappre- sentata sicuramente dall’esigenza di scollegare la confisca dal requisito di una formale sentenza di condanna.

Con riguardo a tale profilo, la norma antesignana dell’attuale evoluzione della confisca senza condanna è sicuramente costituita dalla confisca ex art.12-sexies, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, lì dove - recependo in parte la logica sottesa alle confische di prevenzione - si pre- vedeva, per un numero di fattispecie di reato estremamente ampio, la possibilità di addi- venire alla confisca “per sproporzione”, valorizzando la mancanza di giustificazione delle disponibilità patrimoniali in capo agli autori di determinati reati.

La norma citata non ci contraddistingue solo per l’aver fondato il presupposto della confi- sca nell’assenza di giustificazione in ordine alle disponibilità patrimoniali, ma anche per l’ob- bligatorietà di tale forma di confisca e per la possibilità che la stessa venisse disposta anche in caso di prescrizione del reato (art. 12-sexies, comma 4-septies, d.l. d.l. 8 giugno 1992, n. 306).

Il dato di fondo è sicuramente costituito dalla presa di consapevolezza della potenzialità criminogena dei patrimoni illeciti, con la conseguente tendenza a superare i tradizionali schemi penalistici, al fine di impedire che le locupletazioni indebite- di varia specie e genere - possano in alcun caso restare nella disponibilità dell’autore di condotte illecite. Tale finalità è particolarmente evidente nella previsione di cui all’art.6, comma 5, d.lgs. n.231 del 2001, in base al quale la confisca del profitto è sempre disposta, anche nel caso in cui, difettando la sussistenza dei presupposti della colpevolezza, l’ente non risponde dell’illecito dipendente da reato.

A fronte della consapevolezza dell’efficacia della confisca, è chiaramente individuabile il percorso che, prima la giurisprudenza e poi il Legislatore, hanno intrapreso per giungere a delineare i confini della confisca “senza condanna” che, evidentemente, rappresenta la risposta dell’ordinamento a fronte di ipotesi in cui la necessità dell’ablazione patrimoniale viene giudicata prevalente e non direttamente connessa alla formale affermazione della penale responsabilità.

L’intersezione tra la confisca “senza condanna” disciplinata dall’art.578-bis cod.proc.pen. e l’applicabilità alle ipotesi di confisca per equivalente ha determinato l’insorgere di dubbi in ordine alla natura di quest’ultima forma di ablazione, nonché alla sua possibilità di disporla in mancanza di una formale pronuncia di condanna.

Nel corso dell’ultimo anno, si è riproposta la questione in ordine alla natura sanzionato- ria della confisca per equivalente, aspetto che rileva con riguardo a plurimi ambiti, ma che assume un rilievo dirimente proprio nel valutare la possibilità che la confisca per equiva- lente possa essere disposta anche nel caso in cui il reato si accerti solo incidentalmente ed a margine di una pronucia di prescrizione.

2. La confisca per equivalente in rapporto all’art.578-bis cod.proc.pen.

Nella sua originaria previsione la confisca disposta in caso di prescrizione del reato non contemplava il riferimento alle plurime ipotesi di confisca per equivalente previste dall’ordinamento, atteso che l’art.578-bis cod.proc.pen. consentiva la confisca, anche nel caso di sopravvenuta prescrizione, solo con riguardo alle ipotesi disciplinate dall’art.240-bis, comma primo, cod.pen.

In tal modo, quindi, si escludeva espressamente dall’ambito applicativo della norma la confisca per equivalente disciplinata dall’art.240-bis, comma secondo, cod.pen., lì dove si prevede che «quando non è possibile procedere alla confisca del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui allo stesso comma, il giudice ordina la confisca di altre somme di denaro, di beni e altre utilità di legittima provenienza per un valore equivalente, delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona».

Il mancato riferimento nell’originaria previsione dell’art.578-bis cod.proc.pen. ad ipotesi specifiche di confisca per equivalente, peraltro, appariva congruente rispetto alla natura di tale misura patrimoniale, tradizionalmente considerata nella giurisprudenza di costituzionale e di legittimità come una vera e propria ipotesi sanzionatoria, in quanto tale ritenuta incompatibile con una sentenza che dichiari l’estinzione del reato.

Tale soluzione trovava un autorevole precedente proprio nella sentenza “Lucci” delle Sezioni unite, lì dove era stato affermato il principio secondo cui « Il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non può disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle cose che ne costituiscono il prezzo o il profitto» (Sez.U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264435).

A tale conclusione le Sezioni unite erano giunte valorizzando il fatto che la confisca per equivalente assolve ad «una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza (ex plurimis, Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255037)».

In conclusione, il binomio tra sentenza di condanna ed irrogazione della confisca per equivalente è stato ritenuto non superabile, proprio perché in tal caso la misura ablativa svolge una funzione eminentemente punitiva, che per sua natura non può conseguire ad una mera sentenza che accerti la commissione del reato, pur dichiarando l’intervenuta prescrizione.

A fronte del risultato cui erano pervenute le Sezioni unite e che sembrava recepito anche nel novellato art.578-bis cod.proc.pen., il quadro ha subito una profonda modifica a seguito dell’espressa inclusione nella suddetta norma del richiamo all’art.322-ter cod.pen. (modifica introdotta dall’art.3, lett.f), della l. 9 gennaio 2019, n.3, c.d. “spazzacorrotti”).

Quest’ultima previsione, infatti, contempla un’ipotesi di confisca diretta ed obbligatoria avente ad oggetto il profitto od il prezzo dei più gravi reati contro la P.A., consentendo nelle medesime ipotesi anche la confisca per equivalente di beni per un valore pari a quello del prezzo o del profitto, ove non sia stata possibile l’acquisizione diretta di questi ultimi.

Rispetto al quadro giurisprudenziale formatosi ante novella, si pone inevitabilmente la questione di verificare se l’indiscriminato richiamo all’art.322-ter cod.pen. contenuto nell’art.578-bis cod.proc.pen. debba essere inteso nel senso che si è estesa, in via normativa, la possibilità di applicare la confisca per equivalente anche nel caso di pronuncia di una sentenza di prescrizione.

In alternativa, si potrebbe anche ipotizzare che il richiamo all’art.322-ter cod.pen. debba intendersi limitato ai soli casi di confisca diretta, in tal modo salvaguardando il principio secondo cui la confisca per equivalente, in quanto avente natura sanzionatoria, presuppone necessariamente una sentenza di condanna.

Tale soluzione si scontra inevitabilmente con il dato normativo che, nel compiere un richiamo generale all’art.322-ter cod.pen., difficilmente si presta ad una interpretazione (parzialmente abrogans) volta a limitare l’applicabilità dell’art.578-bis cod.proc.pen. alle sole ipotesi di confisca diretta contemplate dall’art.322-ter cod.pen.

Per converso, si potrebbe anche sostenere che, nel momento in cui il Legislatore ha espressamente esteso l’art.578-bis cod.proc.pen. anche ad un’ipotesi di confisca obbligatoria per equivalente, sarebbe implicitamente venuto meno il limite imposto dalle Sezioni unite con la sentenza “Lucci”, sicchè il principio della legittimità della confisca “senza condanna” potrebbe estendersi anche ad altre fattispecie di confisca per equivalente, purchè caratterizzata dal requisito dell’obbligatorietà.

3. La natura della confisca per equivalente.

Le osservazioni in precedenza svolte dimostrano come il limite all’estensione dell’art.578-bis cod.proc.pen. alla confisca per equivalente deriva essenzialmente dalla qualificazione giuridica che la giurisprudenza ha dato di tale figura.

Nel momento in cui si è ritenuto che nella confisca per equivalente prevale l’intento punitivo rispetto a quello “riparatorio”, ne consegue necessariamente l’adozione a seguito di una sentenza di condanna.

Diversamente ragionando, si porrebbero dubbi di legittimità costituzionali, soprattutto per violazione del principio di colpevolezza, posto che non pare consentito irrogare una sanzione nei confronti di un soggetto del quale non sia stata dichiarata la responsabilità penale con sentenza di condanna per effetto dell’estinzione del reato, la prescrizione, infatti, implica una rinuncia all’esercizio del potere punitivo che mal si concilia con l’irrogazione di una confisca di natura sanzionatoria.

Il nucleo della questione controversa, pertanto, può essenzialmente individuarsi nella qualificazione giuridica della confisca per equivalente.

Invero, la dottrina ha in più occasioni sottolineato come la qualificazione della confisca per equivalente in termini prettamente sanzionatori non è del tutto appagante, specie ove si consideri che tale forma di confisca altro non è che una modalità alternativa di esecuzione della confisca diretta.

La confisca per equivalente, in sostanza, integrerebbe una semplificazione del procedimento ablatorio, andando ad incidere sul momento esecutivo della confisca, piuttosto che su quello genetico, essendo una modalità per sostituire l’oggetto dell’apprensione, consentendo di aggredire un bene immediatamente rinvenibile nel patrimonio del destinatario della misura, a fronte dell’impossibilità di confiscare il bene direttamente legato alla commissione del reato.

La “fungibilità” dell’oggetto della confisca per equivalente, tuttavia, non andrebbe a modificare la funzione tipica del provvedimento ablatorio, atteso che la finalità recuperatoria resterebbe pur sempre quella prioritariamente perseguita.

La tematica in esame è stata recentemente oggetto di alcune pronunce di legittimità che, sia pur con riguardo ad ambiti non del tutto sovrapponibili, hanno rimesso in discussione la natura esclusivamente sanzionatoria della confisca per equivalente, evidenziando come a seconda dei profili valutati la funzione punitiva viene valorizzata in maniera diversa.

Ove si è posto il problema di valutare l’applicabilità della confisca per equivalente a fatti antecedenti all’entrata in vigore della norma che la prevede, Sez.6, n.16103 del 19/2/2020, PG/De Grandi, Rv. 278961 ha ritenuto che «La confisca per equivalente del profitto, introdotta dall’art. 322-ter, comma primo, cod. pen,, come novellato dalla legge 6 novembre 2012, n. 190, ha natura eminentemente sanzionatoria e, quindi, non si applica ai reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge citata».

In un diverso contesto decisionale, invece, Sez.2, n.8538 del 3/03/2020, De Gregorio, Rv. 278241, ha escluso che la confisca per equivalente, pur avendo funzione sanzionatoria, possa equipararsi in toto alla sanzione penale, con la conseguente esclusione dell’applicabilità della sospensione condizionale della pena, evidenziando come tale forma di ablazione patrimoniale «non può essere parificata né ad una pena accessoria, in assenza della funzione preventiva tipica di questa, né alla pena principale, in quanto non è definita in proporzione alla gravità della condotta ed alla colpevolezza del reo e, piuttosto che “affliggere”, mira a “ripristinare” la situazione patrimoniale preesistente alla consumazione del reato. (In motivazione la Corte ha qualificato la confisca per equivalente come presidio ripristinatorio autonomo, connotato da obbligatorietà ed assenza di discrezionalità nella determinazione del “quantum”, rispetto alle sanzioni principali ed accessorie)».

4. Confisca per equivalente e finalità riparatoria.

La pronuncia di maggior rilievo, in quando si è direttamente occupata del profilo inerente la compatibilità della confisca per equivalente ex art.322-ter cod.pen. rispetto alla previsione dell’art.578-bis cod.proc.pen. è quella resa da da Sez.6, n.14041 del 07/05/2020, Malvaso, Rv. 279262 - 01.

Quest’ultima sentenza parte dalla ricostruzione sistematica dell’art.578-bis cod.proc.pen. segnalando come l’intenzione del Legislatore sia stata quella di sottrarre i patrimoni illecitamente accumulati, anche in caso di estinzione del reato (cfr. Relazione del Governo al disegno di legge presentato il 34/09/2018 recepito in Atto Camera n. C - 1189 -; Atto Senato n. 955, dossier n. 85).

La sentenza in esame si pone espressamente il problema della compatibilità tra la confisca per equivalente e l’assenza di una formale condanna, esprimendosi in senso favorevole sulla base di tre argomenti, strettamente collegati tra di loro.

In primo luogo, si segnala come il precedente costituito dalla sentenza “Lucci” non può costituire di per sé il fondamento per escludere la confisca per equivalente “senza condanna”, in quanto la suddetta pronuncia è intervenuta in un quadro normativo del tutto diverso, nel quale era assente la specifica norma attualmente dettata dall’art.578-bis cod. proc.pen. In particolare, a seguito dell’espressa ricomprensione della confisca ex art.322-ter cod.pen. nell’ambito applicativo dell’art.578-bis cod.proc.pen., deve ritenersi che sia stato riconosciuto a livello normativo l’ammissibilità della confisca per equivalente anche nel caso di sentenza di prescrizione del reato.

Per quanto concerne, più in generale, la compatibilità tra la confisca per equivalente e la pronuncia di prescrizione del reato, la sentenza evidenzia come i principi elaborati dalla giurisprudenza CEDU non costituiscano affatto un ostacolo, posto che - come ben evidenziato nella sentenza della Corte EDU, 28 giugno 2018, GIEM c./Italia - la convenzione non richiede affatto che una sanzione di natura penale sia irrogata esclusivamente a seguito di una formale sentenza di condanna, ben potendo conseguire anche in occasione di pronunce formalmente liberatorie, purchè contengano un pieno accertamento della sussistenza del fatto di reato e della responsabilità del soggetto colpito dalla sanzione.

Sostiene la Sesta Sezione nella sentenza “Malvaso” come è proprio la sentenza “GIEM” ad ammettere la possibilità della confisca senza condanna con riferimento ad un’ipotesi - quella della confisca urbanistica - di cui è stata espressamente riconosciuta la funzione essenzialmente punitiva.

Infine, si evidenzia come nella confisca per equivalente del prezzo o del profitto del reato prevista dall’art. 322-ter cod. pen., connotata da un carattere afflittivo e sanzionatorio, convergono evidenti finalità ripristinatorie, di semplificazione probatoria ed esecutiva, che la differenziano sostanzialmente da una pura e semplice pena patrimoniale.

Ne consegue che «la confisca per equivalente ex art. 322-ter cod. pen. non ha la capacità di infliggere un quid pluris afflittivo, poiché si limita a privare l’autore di uno dei reati contro la pubblica amministrazione contemplati dalla norma di un valore equivalente a quanto da lui illecitamente ed effettivamente conseguito attraverso il reato e di cui sia divenuta impossibile l’apprensione diretta. Si tratta, in altre parole, di una forma di confisca che trova il proprio fondamento e limite nel vantaggio tratto dal reato e per la quale, non a caso, si ritiene applicabile il principio di solidarietà passiva, proprio delle misure riparatorie, che limita la misura ablatoria alla quota di prezzo o profitto conseguita effettivamente e personalmente da ciascuno degli imputati (Sez. 6, n. 25877 del 23/06/2006, Maniglia, Rv. 234850; Sez. 6, n. 929 del 13/02/2014, Giancone, Rv. 259592), restando detta confisca esclusa nel caso in cui quanto illecitamente percepito sia già stato altrimenti restituito».

In conclusione, la Sesta sezione ha ritenuto che non sussista alcuna incompatibilità tra la confisca per equivalente e l’intervenuta prescrizione del reato dichiarata in sede di impugnazione, proprio perché la confisca per equivalente - pur presentando una natura mista, essendo connotata anche profili sanzionatori - mantiene il carattere di misura essenzialmente recuperatoria ed, in quanto tale, ben può essere disposta a condizione che sia intervenuto l’accertamento del reato, anche se nell’ambito di un giudizio culminato con la pronuncia di estinzione.

5. Estensione del principio alle altre ipotesi di confisca per equivalente.

Le considerazioni svolte in relazione alla confisca dettata con riguardo ai reati contro la pubblica amministrazione introducono necessariamente l’ulteriore problematica relativa alla applicabilità o meno dell’art.578-bis cod.proc.pen. anche ad altre ipotesi di confisca per equivalente, pur se non direttamente richiamate in tale disposizione.

Occorre premettere che la problematica non pare possa essere risolta applicando i consolidati principi che escludono l’estensione analogica delle norme penali in pejus, atteso che nel caso di specie non si tratterebbe di applicare una confisca per equivalente a fronte di reati per i quali non è prevista, bensì solo di consentirne l’irrogazione anche nel caso di intervenuta prescrizione del reato. Ciò che viene in gioco, pertanto, è solo ed esclusivamente l’applicabilità o meno di una norma processuale, rispetto alla quale la Cassazione ha già avuto modo di affermarne l’applicabilità anche con riguardo a fatti commessi prima della sua introduzione.

A tal riguardo, va segnalata la pronuncia resa da Sez.3, n.8785 del 29/11/2019, dep. 2020, Palmieri, Rv. 278256-01, secondo cui «La disposizione di cui all’art. 578-bis cod. proc. pen., introdotta dal d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, che ha disciplinato la possibilità di applicare, con una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione, la confisca cd. allargata prevista dall’art. 240-bis cod. pen. e che poi è stata estesa, dalla legge 9 gennaio 2019, n. 3, a tutte le ipotesi di confisca di cui all’art. 322-ter cod. pen., costituisce una norma di natura processuale, come tale soggetta al principio tempus regit actum».

Superato l’aspetto di diritto intertemporale, una prima soluzione potrebbe essere quella di ritenere che, una volta ammessa espressamente - sia pur con riferimento all’art.322-ter cod.proc.pen. - la possibilità della confisca per equivalente in caso di sopravvenuta prescrizione del reato, risulterebbe superato ex lege il limite che aveva imposto l’interpretazione seguita dalla sentenza “Lucci”.

Tale argomento, del resto, è uno di quelli sui quali la sesta sezione, con la sentenza “Malvaso”, ha fatto leva per affermare la legittimità dell’estensione dell’art.578-bis cod.proc.pen. all’art.322-ter cod.pen., valorizzando il fatto che il Legislatore ha evidentemente ritenuto che la confisca per equivalente, proprio perché persegue quanto meno in parte finalità non prettamente sanzionatorie, bensì recuperatorie, risulta compatibile con lo schema della “confisca senza condanna”.

Valorizzando tale argomentazione, si potrebbe ritenere che non vi siano reali ragioni ostative all’applicazione della confisca per equivalente, anche ove prevista da norme diverse da quella di cui all’art.322-ter, cod.pen., nel caso di proscioglimento per prescrizione, sia pur a seguito di una sentenza di condanna in primo grado.

In buona sostanza, si tratterebbe di adeguare gli argomenti che - a partire dalla sentenza “Lucci”, passando per la sentenza della Corte cost. n.49 del 2015 e della Corte EDU - hanno consentito in via interpretativa di delineare i presupposti della “confisca senza condanna”. Al contempo, si potrebbe sostenere che il dato normativo, lì dove l’art.578-bis cod.proc. pen. non contempla tutte le ipotesi di confisca per equivalente, potrebbe non essere di per sé dirimente, specie ove si consideri la genesi di tale norma (legata all’introduzione della riserva di codice), sostanzialmente recettiva di un principio già affermato dalla giurisprudenza e, quindi, ritenuto immanente nel sistema.

A conclusioni ben diverse, invece, si potrebbe addivenire ove si ritenga che la confisca per equivalente “senza condanna” costituisce pur sempre un’ipotesi derogatoria rispetto al principio generale secondo cui la natura punitiva, pur se non esclusiva, dell’istituto richiede una formale sentenza di condanna, non essendo sufficiente il mero accertamento incidentale.

Optanto per tale soluzione, tuttavia, si determinerebbero regimi differenziati tra le diverse ipotesi di confisca per equivalente, senza che sia riavvisabile una giustificazione che non sia quella derivante dalla legittima esplicazione della discrezionalità legislativa.

6. Le confische in materia di reati tributari.

Le problematiche sopra evidenziate si pongono, in primo luogo, con riguardo ai reati tributari, per i quali sono previste due forme distinte di confisca: la prima è attualmente disciplinata dall’art. 12 bis d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (introdotta dall’art.10 d.lg. 24 settembre 2015, n.158), che si pone in linea di continuità rispetto alla confisca già prevista dall’art. 1, comma 143, l. 24 dicembre 2007, n. 244, norma che a sua volta estendeva a determinati reati tributari la previsione contenuta all’art.322-ter cod.pen.

La seconda ipotesi di confisca è stata introdotta all’art.12 ter d.lgs. n.74 del 2000 dall’art. 39 comma 1 bis d.l. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito con modificazioni dalla l. n. 157 del 2019; si tratta di una tipica ipotesi di confisca allargata come espressamente contemplato al comma 1, lì dove si stabilisce che «Nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per i delitti di seguito indicati, si applica l’articolo 240 bis del codice penale quando».

Il coordinamento di tali disposizioni rispetto all’art.578-bis cod.pen.pen. non pone problemi interpretativi per quanto concerne la confisca per sproporzione di cui all’art.12-ter, essendo questa espressamente ricondotta tra quelle disciplinate dall’art.240-bis cod.pen., norma a sua volta richiamata dall’art.578-bis cod.proc.pen.

Ciò comporta che si potrà procedere alla confisca senza condanna, con riguardo ai reati tributari, sempre che ricorrano tutti i requisiti richiesti dall’art.12 ter.

Maggiori problemi si pongono in relazione all’art.12-bis, atteso che in tal caso non si tratta di una confisca allargata e, quindi, si pone il dubbio in ordine alla riconducibilità o meno di tale forma di ablazione nell’ambito dell’art.578-bis cod.proc.pen.

Al quesito pare corretto dare risposta positiva, valorizzando l’argomentazione sostenuta da Sez.U, n.13539 del 30/4/2020, Perroni, Rv.278870-02 lì dove ammette che l’art.578-bis cod.proc.pen. non si applichi alle sole ipotesi di confisca allargata, ma anche a tutte le ipotesi di confisca disciplinate dalla normativa speciale.

Resta il problema di verificare se il principio è valido anche con riguardo al caso in cui venga disposta la confisca per equivalente ex art.12-bis, atteso che l’art.578-bis cod.proc. pen. (a differenza di quanto visto in relazione all’art.322-ter cod.pen.) non contiene alcun riferimento generalizzato in ordine all’ammissibilità della confisca per equivalente “senza condanna”.

La questione, invero, potrebbe essere agevolmente risolta, nel senso di ammettere la confisca per equivalente senza condanna, considerando che l’art.12-bis non ha una portata innovativa, trattandosi di una norma che ha semplicemente ricondotto nell’alveo del d.lgs. n.74 del 2000 la previsione speciale (art. 1, comma 143, l. n. 244 del 2007) che, originariamente, estendeva a determinati reati tributari la confisca ex art.322-ter cod.pen.

In buona sostanza, vi è una assoluta continuità normativa che lega l’attuale art.12-bis, d.lg. n.74 del 2000, alla confisca ex art.322-ter cod.pen., il che dovrebbe indurre a ritenere, pur a seguito della diversificazione delle previsioni che contemplano tali ipotesi di confisca, che il regime non può che essere il medesimo.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez.6, n.14041 del 07/05/2020, Malvaso, Rv. 279262 - 01 Sez.U, n.13539 del 30/4/2020, Perroni, Rv.278870-02 Sez.2, n.8538 del 3/03/2020, De Gregorio, Rv. 278241 Sez.6, n.16103 del 19/2/2020, PG/De Grandi, Rv. 278961

Sez. 3, n. 8785 del 29/11/2019, dep. 2020, Palmieri, Rv. 278256-01 Sez.U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264435

Sez. 6, n. 929 del 13/02/2014, Giancone, Rv. 259592 Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255037 Sez. 6, n. 25877 del 23/06/2006, Maniglia, Rv. 234850

Sentenze della Corte EDU

Corte EDU, 28 giugno 2018, GIEM c./Italia