PARTE TERZA - QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE I MISURE CAUTELARI

  • procedura penale
  • carcerazione

CAPITOLO I

APPLICAZIONE DI MISURA CAUTELARE IN ACCOGLIMENTO DELL’APPELLO DEL PUBBLICO MINISTERO E INTERROGATORIO DI GARANZIA.

(di Fulvio Filocamo )

Sommario

1 La questione rimessa alle Sezioni Unite. - 2 Il contrasto. - 3 La giurisprudenza che esclude la necessità di procedere all’interrogatorio di garanzia. - 4 La pronuncia sulla necessità di procedere all’interrogatorio di garanzia. - 5 La soluzione accolta dalle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. La questione rimessa alle Sezioni Unite.

La Sesta sezione della Corte di cassazione, con ordinanza n. 1243 del 18/12/2019 ha rimesso alle Sezioni Unite, la questione volta a stabilire se sia necessario procedere all’interrogatorio di garanzia, a pena d’inefficacia della misura cautelare, qualora questa sia stata applicata con provvedimento del tribunale in accoglimento dell’appello del pubblico ministero avverso la decisione di rigetto del g.i.p.

In particolare, nel caso in esame il tribunale applicava al ricorrente la misura coercitiva della custodia cautelare in carcere in relazione al reato di concussione continuata, commesso dall’indagato nella qualità di Segretario Comunale e di Presidente dell’Unione dei Comuni, accogliendo l’appello del pubblico ministero contro la precedente ordinanza di rigetto del giudice per le indagini preliminari del medesimo tribunale.

Detta ordinanza coercitiva, emessa dal tribunale ex art. 310 cod. proc. pen., veniva successivamente impugnata con ricorso per cassazione ex art. 311 cod. proc. pen., rigettato dalla Corte. Il ricorrente, quindi, chiedeva al tribunale la revoca o sostituzione della misura applicata, deducendo l’inefficacia sopravvenuta della misura per mancato interrogatorio ex artt. 294 e 302 cod. proc. pen.

Il tribunale rigettava l’istanza ritenendo non necessario l’espletamento dell’interrogatorio nel caso di misura cautelare emessa all’esito di appello cautelare, in quanto preceduta dall’instaurazione di un pieno contraddittorio. Avverso detto provvedimento di rigetto veniva proposto appello al tribunale del riesame, nuovamente respinto.

2. Il contrasto.

La Sezione rimettente, con l’ordinanza indicata, nel rilevare l’esistenza di un contrasto interpretativo, ha affermato di preferire l’orientamento secondo il quale l’interrogatorio di garanzia sarebbe doveroso, a pena d’inefficacia della misura ex art. 302 cit., nel caso di applicazione della misura cautelare da parte del tribunale all’esito di appello del P.M. ex art. 310 cit., trovando solido ancoraggio nel dato testuale dell’art. 294, commi 1 e 1-bis, cit., salvo che non si sia proceduto ad assumerlo nell’udienza di convalida dell’arresto o del fermo o sia stata già dichiarata l’apertura del dibattimento.

Si è, infatti, osservato come, secondo un primo orientamento condiviso dal tribunale nel provvedimento impugnato, non sia necessario procedere all’interrogatorio di garanzia, poiché il provvedimento emesso in sede di appello cautelare è preceduto dall’instaurazione di un contraddittorio pieno, finalizzato ad approfondire anticipatamente tutti i temi dell’azione cautelare, anche attraverso i contributi forniti dalla difesa (Sez. 6, n. 50768 del 12/11/2013, Cocuzza, Rv. 261538). Tale soluzione garantirebbe, infatti, all’indagato, attraverso la facoltà di rendere dichiarazioni, prima della decisione del tribunale sull’appello del pubblico ministero, un contatto preventivo con il giudice, con la relativa possibilità di fornire elementi, in fatto e diritto, volti ad elidere od attenuare la gravità indiziaria nonché a rivalutare i motivi fondanti la richiesta coercitiva anche sulle esigenze cautelari. Si cita anche una pronuncia successiva che ha ribadito, con sentenza meramente adesiva, detto principio (Sez. 2, n. 38828 del 25/05/2017, Savina, Rv. 271135). Si è, inoltre, rrilevato, come l’interrogatorio non risulti normativamente necessario (art. 294, comma 1, cod. proc. pen.) quando la misura sia stata applicata dopo l’inizio della fase dibattimentale, stante l’intervenuta instaurazione di un pieno contraddittorio.

L’orientamento opposto, invece, sostiene che, anche in caso di applicazione del provvedimento coercitivo da parte del tribunale su appello del pubblico ministero ex art. 310 cod. proc. pen. avverso l’ordinanza di rigetto della precedente richiesta, si debba svolgere l’interrogatorio di garanzia, salvo che sia già iniziato il dibattimento, a pena di inefficacia della misura cautelare applicata (Sez. 6 n. 6088 del 20/11/2014, Lo Nardo). Tale soluzione si fonda principalmente sull’analisi del testo dell’art. 294 cod. proc. pen. unitamente all’art. 302, comma 1 prima parte, cod. proc. pen. Nell’ordinanza di rimessione sono richiamate anche due decisioni, risolutive di un conflitto negativo di competenza, nelle quali la Corte di cassazione ha chiarito come, in caso di applicazione della misura cautelare da parte del tribunale della libertà, adito ex art. 310 cod. proc. pen. dal pubblico ministero, competente a procedere all’interrogatorio dell’indagato è sempre il giudice delle indagini preliminari (Sez. 1 n. 2761 del 10/06/1992, Pazzola, Rv. 191383; Sez. 1, n. 3608 del 28/09/1992, Arabia, Rv. 192079); tale affermazione di principio non potrebbe non postulare, quale necessario antecedente logico-giuridico, che l’interrogatorio di garanzia debba essere celebrato anche in caso di emissione del provvedimento coercitivo da parte del tribunale del riesame a seguito di appello del pubblico ministero ex art. 310 cod. proc. pen.

In conclusione, la Sezione rimettente, affermando di prediligere l’orientamento che prevede la necessità di procedere all’interrogatorio di garanzia, ha citato le argomentazioni della Corte costituzionale, espresse nelle sentenze del 24 marzo 1997, n. 77, e del 10 febbraio 1999, n. 32, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 294, comma 1, cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che il giudice debba procedere all’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare in carcere - con la prima decisione - “fino alla trasmissione degli atti al giudice del dibattimento” e - con la seconda decisione - “fino all’apertura del dibattimento”, da cui si trarrebbe la conclusione, ritenuta univoca, che la cognizione degli atti delle indagini preliminari, con l’avvenuta emersione degli elementi a carico, unitamente alla possibilità di fornire elementi a discarico tramite il difensore ed alla facoltà per l’indagato/imputato di essere “sentito” da parte del tribunale del riesame, non sia sufficiente a superare la necessità di effettuare l’interrogatorio di garanzia ex art. 294 cod. proc. pen. Si tratterebbe, oltre che di un dovere del giudice, di un diritto fondamentale della persona, mentre soltanto la fase del giudizio, “per i suoi caratteri essenziali di pienezza del contraddittorio e per l’immanente presenza dell’imputato”, avrebbe la stessa funzione dell’interrogatorio quale mezzo “di difesa più efficace”, posto a disposizione dell’interessato in relazione alla cautela disposta.

3. La giurisprudenza che esclude la necessità di procedere all’interrogatorio di garanzia.

Secondo un primo orientamento, qualora la misura cautelare sia emessa all’esito dell’appello cautelare, non sarebbe necessario procedere al successivo interrogatorio di garanzia, poiché il provvedimento è preceduto dall’instaurazione di un contraddittorio pieno, finalizzato ad approfondire anticipatamente tutti i temi dell’azione cautelare anche attraverso i contributi forniti dalla difesa (Sez. 6, n. 50768 del 12/11/2013, Cocuzza, Rv. 261538 a cui è seguita l’analoga decisione meramente adesiva Sez. 2, n. 38828 del 25/05/2017, Savina, Rv. 271135).

Si afferma, infatti, che la preventiva instaurazione del contraddittorio garantirebbe al soggetto destinatario della richiesta cautelare un contatto preventivo con il giudice, con la possibilità di fornire elementi, in fatto e diritto - anche attraverso spontanee dichiarazioni - volti ad elidere o attenuare la gravità indiziaria, nonché a rivalutare i motivi fondanti la richiesta coercitiva anche sulle esigenze cautelari.

Si tratterebbe di una situazione simile a quella normativamente prevista dal comma 1 dell’art. 294 cod. proc. pen. come novellato dal d.l. n. 29 del 1999, conv. con modif. dalla l. n. 109 del 1999, in esito alla declaratoria di incostituzionalità sancita da Corte cost. sent. n. 32 del 1999, secondo cui l’interrogatorio non risulta necessario quando la misura sia stata applicata dopo l’inizio della fase dibattimentale, stante l’intervenuta instaurazione di un pieno contraddittorio.

A supporto della bontà di questa soluzione viene anche indicata la motivazione della sentenza di Sez. U, n. 18190 del 22/01/2009, La Mari, Rv. 243028, la quale afferma che, qualora la custodia venga disposta dopo la sentenza di condanna, non sia necessario procedere all’interrogatorio di garanzia dell’imputato. Si richiama, inoltre, il principio di diritto secondo cui tale incombente può essere omesso durante la fase delle indagini preliminari, qualora la misura venga emessa reiterando un precedente intervento cautelare caducato per ragioni meramente formali e di rito, sempre che la misura dichiarata inefficace sia stata caratterizzata dall’esecuzione dell’interrogatorio e l’ultima misura non si fondi su ragioni indiziarie e di cautela diverse da quelle che avevano giustificato la precedente (come affermato da Sez. U, n. 28270 del 24/04/2014, Sandomenico, Rv. 260016, in caso di inefficacia della precedente misura motivata dalla decorrenza dei termini sanciti dai commi 9 e 10 dell’art. 309 cod. proc. pen. per la decisione del tribunale del riesame).

Un’ulteriore conferma sarebbe rinvenibile dalla lettura dell’art. 302 cod. proc. pen. il quale, proprio con riferimento alla nuova ordinanza emessa in esito alla inefficacia per nullità, tardivo o mancato espletamento dell’interrogatorio, impone - peraltro in via preventiva - che la nuova ordinanza sia preceduta dal medesimo adempimento processuale, poiché il vizio caducante la precedente ordinanza è proprio costituito dal mancato o invalido espletamento dell’interrogatorio, così che la norma impone che venga comunque garantito detto indefettibile presidio difensivo.

Su queste basi si ritiene, quindi, superfluo l’interrogatorio di garanzia quando, nel corso delle indagini preliminari, il provvedimento coercitivo sia stato emesso dal giudice dell’appello cautelare ex art. 310 cod. proc. pen. a seguito di ricorso da parte del pubblico ministero dopo l’ordinanza del g.i.p. di rigetto dell’originaria richiesta di misura cautelare, essendosi anticipata l’instaurazione del contraddittorio nell’udienza camerale deputata a trattare detta impugnazione.

4. La pronuncia sulla necessità di procedere all’interrogatorio di garanzia.

L’orientamento opposto, fondato su un’unica decisione successiva (Sez. 6 n. 6088 del 20/11/2014, Lo Nardo, non massimata), ritiene, invece, che il contraddittorio anticipato non possa sostituirsi all’interrogatorio di garanzia. Si premette, infatti, come l’interrogatorio di garanzia costituisca un momento processuale assolutamente necessario per consentire al soggetto sottoposto a qualsiasi limitazione della libertà personale di rendere la propria versione dei fatti davanti al giudice e dunque di svolgere compiutamente la propria difesa finalizzata a contrastare e far verificare la sussistenza e permanenza delle condizioni che hanno giustificato l’adozione del vincolo.

Si sostiene come detto adempimento sia necessario a pena di inefficacia della misura, salvo che il giudice non abbia rigettato la richiesta di emissione del provvedimento coercitivo dopo avere tenuto l’interrogatorio in udienza di convalida dell’arresto o del fermo, ovvero che sia già stata dichiarata l’apertura del dibattimento (come previsto espressamente dall’art. 294 cod. proc. pen.) nell’ambito del quale l’imputato ha la facoltà di chiedere di essere sottoposto ad esame ex art. 503 cod. proc. pen. nel pieno contraddittorio fra le parti, oltre che di rendere dichiarazioni spontanee ex art. 494 stesso codice.

La conferma di quanto affermato si rinverrebbe nella necessità di dover procedere all’interrogatorio “a piede libero” laddove, a norma dell’art. 302 cod. proc. pen., venga rinnovata la misura già dichiarata inefficace, in caso di omissione o tardività del medesimo adempimento. Ciò porterebbe a ritenere che, salvo i casi espressamente previsti, non si possa escludere dall’incombente processuale il caso di applicazione da parte del tribunale del riesame su appello del pubblico ministero. Si sostiene, infatti, che l’interrogatorio sia un momento processuale assolutamente imprescindibile affinché il soggetto possa svolgere le proprie difese per ottenere una verifica sulle condizioni di applicabilità del vincolo, che non può considerarsi come già svolto con la facoltà, eventuale, di rendere spontanee dichiarazioni nell’udienza che precede la decisione del giudice.

Si rileva inoltre come, con più pronunce di legittimità assunte per risolvere un conflitto negativo di competenza, si sia chiarito come, in caso di applicazione della misura cautelare da parte del tribunale della libertà, adito ex art. 310 codice di rito dal pubblico ministero, competente a procedere all’interrogatorio dell’indagato sia sempre il giudice delle indagini preliminari (Sez. 1 n. 2761 del 10/06/1992, Pazzola Rv. 191383; Sez. 1, n. 3608 del 28/09/1992, Arabia, Rv. 192079; Sez. 1, n. 3587 del 25/09/1992, Frontei, Rv. 192845; Sez. 1, n. 3668 del 30/09/1992, Mesoraca, Rv. 192356). Detto principio prevederebbe quindi, quale necessario antecedente logico-giuridico, che l’interrogatorio di garanzia debba essere celebrato anche in caso di emissione del provvedimento coercitivo da parte del tribunale del riesame a seguito di appello del pubblico ministero ex art. 310 cod. proc. pen.

Sulla diversa natura dei due istituti processuali si è evidenziato come, nell’interrogatorio, il giudice debba fissare un’apposita udienza ed osservare le formalità del codice con gli avvisi previsti dall’art. 64 e dal successivo art. 65 cod. proc. pen. Diversamente, le dichiarazioni spontanee rappresentano un incidente processuale eventuale e condizionato dalla libera scelta dell’interessato; infatti, l’art. 310 cod. proc. pen., nel richiamare l’art. 127 stesso codice, in caso di appello del pubblico ministero avverso la decisione di rigetto del g.i.p. rispetto all’originaria richiesta di misura cautelare, consente all’indiziato di essere sentito se compare all’udienza ovvero prima del giorno dell’udienza, se detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice, dal magistrato di sorveglianza del luogo il quale, ai sensi dell’art. 101 comma 2, disp. att. cod. proc. pen. - in assenza delle ammonizioni previste nell’art. 64 cod. proc. pen. - senza ritardo assume le dichiarazioni dell’imputato, previo tempestivo avviso al difensore, e quindi trasmette gli atti al tribunale con il mezzo più celere. Le spontanee dichiarazioni, inoltre, sono rese liberamente dall’interessato, secondo un proprio percorso logico argomentativo e scegliendo liberamente gli argomenti da trattare, mentre l’interrogatorio - ove egli vi consenta - si svolge con la direzione del giudice sulla base delle accuse e del materiale probatorio o indiziario posto a fondamento della misura.

Ciò porterebbe a ritenere che tali strumenti siano ontologicamente diversi e non possano ritenersi equivalenti. Tanto più che gli stessi intervengono in tempi e circostanze assolutamente non coincidenti: la misura è infatti già efficace nel caso dell’interrogatorio di garanzia, mentre è solamente richiesta nel caso delle spontanee dichiarazioni. Il confronto è tra un provvedimento concreto con cui il giudice ha già valutato ed accolto la richiesta dell’accusa e la reiterazione dell’istanza di applicazione, già rigettata, in un secondo grado de libertate, che, se accolta, potrà essere eseguita, ai sensi dell’art. 310, comma 3, cod. proc. pen., solamente a seguito del rigetto del successivo eventuale ricorso per cassazione.

5. La soluzione accolta dalle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, con decisione camerale assunta il 26/3/2020, hanno deciso in senso contrario rispetto alla tesi privilegiata nell’ordinanza di rimessione, ritenendo che quanto affermato sull’interrogatorio quale momento indefettibile del diritto di difesa non sia applicabile in una vicenda, quale quella della misura adottata all’esito dell’appello cautelare da parte del pubblico ministero, ove il contraddittorio nel procedimento camerale che si instaura a seguito dell’impugnazione, consente al soggetto interessato di difendersi pienamente.

La facoltatività delle dichiarazioni non è ritenuta rilevante, essendo una decisione discrezionale dell’interessato su come esercitare il proprio diritto ad essere ascoltato e questo gli è certamente garantito in detto momento processuale.

Diversamente dall’ordinaria successione procedimentale (richiesta del pubblico ministero ed ordinanza del giudice per le indagini preliminari) che avviene senza alcun tipo di coinvolgimento o preavviso all’interessato, nella fattispecie vagliata è prevista - rispetto alla richiesta cautelare sottoposta al giudice dell’appello - l’assistenza tecnica del difensore, il quale può presenziare all’udienza, che permette un esame anticipato di tutti i temi dell’azione cautelare prima della decisione del giudice. A seguito all’entrata in vigore della legge 47 del 2015, si rileva come vi sia una maggior possibilità da parte dell’indagato di partecipare alla fase dell’impugnazione cautelare, poiché secondo il nuovo disposto dell’art. 309, comma 6, cod. proc. pen. è previsto che l’interessato ha diritto di comparire personalmente all’udienza in esame, cosicché può dirsi garantito un contraddittorio pieno e senza limitazioni che rende superfluo l’adempimento previsto dall’art. 294 cod. proc. pen.

Dato atto dal Supremo consesso che l’obbligatorietà dell’interrogatorio di garanzia nello sviluppo della giurisprudenza costituzionale e di legittimità è stata ampliata in relazione ad ordinanze disposte o eseguite oltre il termine delle indagini preliminari, in detti casi si tratta, però, di situazioni processuali diverse nelle quali l’interrogatorio assume un ruolo certamente insostituibile.

I principi affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 77 del 24 marzo 1997 e n. 32 del 10 febbraio 1999, che evidenziano la necessità dell’interrogatorio di garanzia quale diritto fondamentale della persona sottoposta alla custodia rispetto alla fase successiva alla trasmissione degli atti al giudice del dibattimento e fino all’inizio di questo, nonché da Sez. U, n. 3 del 28/01/1998, Budini, Rv. 21058, la quale, a seguito della sentenza della Corte cost. n. 77 del 1997, nel definire la natura e la finalità dell’interrogatorio di garanzia, lo ritiene insostituibile per “il contatto immediato e diretto tra il soggetto interessato ed il giudice che deve decidere sulla sua libertà”, non sono ritenuti applicabili alla fattispecie esaminata per la particolare situazione processuale che si sviluppa quando la misura è adottata in sede di appello cautelare, ove l’interessato ha la possibilità di esercitare la propria difesa in un pieno contraddittorio anticipato rispetto alla decisione del giudice cautelare.

Le ipotesi processuali in cui l’interrogatorio è previsto al di fuori dello schema tipico dell’art. 294 cod. proc. pen., sono dovute al verificarsi di situazioni che possono ritenersi equiparabili alla ratio di detta norma ovvero sono previste da particolari ipotesi legislative, come nel caso in cui l’interrogatorio, quale mezzo di difesa, è previsto “prima” dell’adozione della misura, per valorizzare un momento di conoscenza anticipata delle ragioni difensive, rispetto ad una particolare potenziale “invasività qualitativa” della misura.

Nel caso in esame l’interrogatorio non è previsto, né può essere ritenuto necessario, perché il contraddittorio è garantito in modo equivalente, senza nulla togliere all’esercizio del diritto alla difesa garantito dalla Costituzione, potendo il legislatore darvi attuazione in modo diverso, tenuto conto delle diverse fasi processuali.

A supporto della soluzione prescelta, le Sezioni Unite citano alcune norme - diverse dall’art. 294 cod. proc. pen. - che prevedono l’espletamento dell’interrogatorio per la specificità delle ipotesi considerate, a conferma del fatto che l’esercizio del diritto di difesa, a fronte dell’applicazione di una misura cautelare, è legittimamente costruito dal legislatore in modo diversificato, non sempre con il meccanismo previsto dall’art. 294 cod. proc. pen., attraverso l’interrogatorio di garanzia da espletarsi dopo l’adozione della misura.

Si tratta dell’art. 299, comma 3-ter, cod. proc. pen., nel quale si prevede la possibilità che il giudice possa procedere all’interrogatorio nel caso di revoca o sostituzione della misura e ritiene obbligatorio l’adempimento quando la richiesta di revoca o sostituzione sia fondata su elementi nuovi o diversi, al fine di consentire al giudice di apprezzare, con l’intervento dell’interessato, le ragioni alla base della revoca o della sostituzione della misura e, ancora, l’art. 302 del medesimo codice, che prevede l’ipotesi di procedere obbligatoriamente all’interrogatorio prima di emettere una nuova misura quando quella precedentemente applicata sia divenuta inefficace, essendo quasi equiparabile all’applicazione originaria della misura che così trova il momento di garanzia difensiva nella disciplina di cui all’art. 294 cod. proc. pen.

Si aggiungono anche ipotesi in cui l’interrogatorio deve essere anticipato (come nel caso dell’art. 289 cod. proc. pen. e art. 47 d.lgs. n. 231 del 2001, in tema di responsabilità amministrativa degli enti), senza che vi sia la previsione di detta garanzia difensiva “dopo” l’applicazione della misura. Ciò non può considerarsi una violazione del diritto di difesa, dato che il contraddittorio e l’esercizio del diritto di difesa sono stati comunque assicurato “prima”.

Allo stesso modo, si richiama la disciplina della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio ex art. 289 cod. proc. pen., ove l’inversione della successione procedimentale disciplinata per le altre misure personali è predisposta proprio per evitare che il provvedimento, il quale incide sulla funzionalità e continuatività dell’amministrazione pubblica, possa essere adottato senza la conoscenza e ponderata valutazione di circostanze che l’indagato può fornire anche in ordine alla necessità di adottare il provvedimento (cfr. Sez. 6, n. 26929 del 15/03/2019, Cecchini, Rv. 273416); anche nel caso di applicazione di misura interdittiva in sede di appello cautelare, la superfluità dell’interrogatorio è motivata dal fatto che il diritto al contraddittorio è assicurato dalla possibilità l’indagato di comparire all’udienza per la trattazione del gravame e di chiedere di essere interrogato (v. Sez. 6, n.14958 del 05/03/2019, Graziano, Rv. 275538).

Si rammenta, inoltre che, nella peculiare disciplina dell’applicazione delle misure cautelari nel procedimento sulla responsabilità amministrativa degli enti, si trova il modello procedimentale a contraddittorio anticipato cui si ispira l’art. 47 del d.lgs. n. 231 del 2001, rispetto al quale il legislatore, proprio a fronte della potenziale incisività dell’applicazione di misure cautelari interdittive per la vita dell’ente che potrebbero paralizzarne l’attività, ha privilegiato un’interlocuzione anticipata, per consentire all’ente di difendersi prima dell’eventuale adozione della misura e, contestualmente, ha imposto al giudice della misura l’obbligo, in sede di motivazione dell’ordinanza, di chiarire i motivi per i quali non sono stati ritenuti rilevanti gli elementi forniti dalla difesa per contrastare l’ipotesi accusatoria (cfr. Sez. 6, n. 10903 del 05/03/2013, Orsi).

A conclusione del ragionamento volto a distinguere le situazioni si riportano anche quelle ipotesi in cui il contraddittorio è assicurato, senza che sia prevista la necessità di espletare l’interrogatorio di garanzia, come quando la custodia venga disposta dopo la sentenza di condanna (Sez. U, n. 18190 del 22/01/2009, La Mari, Rv. 243028) in cui la diversità di disciplina è stata apprezzata proprio per la particolare situazione processuale del condannato. Se l’interrogatorio di garanzia, infatti, è un adempimento doveroso che consente alla persona sottoposta alla misura cautelare di prospettare immediatamente le ragioni difensive in merito a tutti i presupposti per l’applicazione ed il mantenimento della stessa, le stesse esigenze difensive sono pienamente soddisfatte con la celebrazione del dibattimento, ove è consentito all’imputato, nella massima espressione del contraddittorio caratterizzato dall’assunzione delle prove richieste da accusa e difesa, di prospettare al giudice tutte le sue ragioni, anche attraverso l’esame o le dichiarazioni spontanee di cui all’art. 494 cod. proc. pen.

Analogo ragionamento viene ritenuto valido per l’ipotesi della trasgressione alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare, prevista dall’art. 276 cod. proc. pen., laddove non è previsto, in caso di sostituzione o di cumulo della misura trasgredita con altra più grave, l’interrogatorio del prevenuto (v. Sez. U, n. 4932 del 18/12/2008, Giannone, Rv. 242028), giustificato dal fatto che l’interrogatorio è già avvenuto in occasione dell’applicazione della misura originariamente applicata e successivamente violata. Ove la sostituzione o il cumulo conseguono alla ritenuta violazione delle prescrizioni di tale misura, sarà possibile esercitare le proprie difese con l’impugnazione del provvedimento, senza dover inutilmente ripetere un atto già espletato nel quale l’interessato già è stato posto in grado di fornire la propria versione difensiva sulla gravità degli indizi e sulle esigenze cautelari.

Richiamata ancora la sentenza Giannone si sottolinea come la Corte costituzionale abbia in numerose occasioni ribadito il principio secondo cui la garanzia costituzionale del diritto di difesa non esclude, quanto alle sue modalità di espletamento, che il legislatore possa darvi attuazione in modo diverso purché si tratti di scelte discrezionali non irragionevoli (si indicano in particolare le ordinanze n. 350 del 2005 e, sulla difesa tecnica, n. 299 del 2002). Si aggiunge, infine, che l’interrogatorio perde il ruolo di imprescindibile prerogativa difensiva anche quando, durante la fase delle indagini preliminari, la misura sia stata emessa reiterando un precedente provvedimento cautelare caducato per ragioni meramente formali e di rito, sempre che la misura dichiarata inefficace sia stata caratterizzata dall’esecuzione dell’interrogatorio di garanzia e non sia fondata su ragioni indiziarie e di cautela diverse da quelle che avevano giustificato la precedente (Sez. U, n. 28270 del 24/4/2014, Sandomenico, Rv. 260016, nel caso di inefficacia della precedente misura motivata dalla decorrenza dei termini sanciti dall’art. 309 cod. proc. pen., commi 9 e 10, per la decisione del tribunale del riesame).

La diversità dei meccanismi procedimentali richiamati, previsti per consentire l’esercizio del diritto di difesa è riprova della non estensibilità dell’interrogatorio ex art. 294 cod. proc. pen. ad una situazione in cui il diritto di difesa è stato garantito dall’instaurazione di un contraddittorio pieno, ove tutti i temi dell’azione cautelare sono anticipati, anche con i contributi forniti dalla difesa, prima che venga emesso il provvedimento in sede di appello cautelare (v. Sez. 6, n. 50768 del 12/11/2013, Cocuzza, Rv. 261538).

Non ricorrono, per quanto detto, le ragioni difensive poste alla base dell’interrogatorio di garanzia ovvero la necessità di garantire all’indagato, tramite un immediato contatto con il giudice, la possibilità di fornire gli elementi in fatto ed in diritto per elidere od attenuare la gravità indiziaria e riesaminare le originarie motivazioni alla base dell’intervento cautelare. Si può, quindi, fare un paragone con la situazione che si verifica quando la misura è applicata dopo l’apertura del dibattimento, poiché, il contraddittorio dibattimentale consente all’imputato, nella pienezza del contraddittorio che caratterizza l’assunzione delle prove richieste da accusa e difesa, di presentare al giudice tutte le ragioni difensive, anche attraverso l’esame o le dichiarazioni di cui all’art. 494 cod. proc. pen., senza che si possa invocare la facoltatività delle dichiarazioni eventualmente da rendere in sede di impugnazione cautelare, poiché ciò che rileva è che sia garantita la possibilità all’interessato di esercitare in modo compiuto le proprie difese, senza che rilevino le determinazioni personali e discrezionali sulle modalità concrete di esercizio del relativo diritto.

L’interrogatorio disciplinato dall’art. 294 cod. proc. pen., momento fondamentale di esercizio del diritto di difesa, non può pertanto essere richiesto al di fuori delle ipotesi espressamente previste, essendo i principi costituzionali degli artt. 13 e 24 Cost. ugualmente garantiti, in situazioni differenti e non equiparabili, da altre modalità di contraddittorio regolate dalla legge.

Alla luce di tali ragionamenti, le Sezioni unite, con la sentenza in esame, n. 17274 del 26/3/2020, Salvati, Rv. 279281, hanno affermato il seguente principio di diritto: “in caso di applicazione di una misura cautelare coercitiva da parte del tribunale del riesame in accoglimento dell’appello del pubblico ministero avverso la decisione di rigetto del giudice delle indagini preliminari non è necessario procedere all’interrogatorio di garanzia a pena di inefficacia della misura suddetta”.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 3608 del 28/09/1992, Arabia, Rv. 192079

Sez. 1 n. 2761 del 10/06/1992, Pazzola Rv. 191383

Sez. 1, n. 3668 del 30/09/1992, Mesoraca, Rv. 192356

Sez. 1, n. 3587 del 25/09/1992, Frontei, Rv. 192845 Sez. U, n. 3 del 28/01/1998, Budini, Rv. 21058

Sez. U, n. 4932 del 18/12/2008, Giannone, Rv.242028 Sez. U, n. 18190 del 22/01/2009, La Mari, Rv. 243028 Sez.6, n. 10903 del 05/03/2013, Orsi

Sez. 6, n. 50768 del 12/11/2013, Cocuzza, Rv. 261538 Sez. U, n. 28270 del 24/4/2014, Sandomenico, Rv. 260016 Sez. 6 n. 6088 del 20/11/2014, Lo Nardo

Sez. 2, n. 38828 del 25/05/2017, Savina, Rv. 271135

Sez. 6, n. 26929 del 15/03/2019, Cecchini, Rv. 273416 Sez.6, n.14958 del 05/03/2019, Graziano, Rv. 275538

Sentenze della Corte costituzionale Corte cost., sent. n. 77 del 1997 Corte cost., sent. n. 32 del 1999 Corte cost., ord. n. 299 del 2002 Corte cost., ord. n. 350 del 2005

  • procedura penale
  • vittima

CAPITOLO II

INFORMAZIONE E PROTEZIONE DELLA PERSONA OFFESA NELL’INCIDENTE CAUTELARE.

(di MariaEmanuela Guerra )

Sommario

1 Premessa. - 2 Gli oneri di notifica della richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare personale a favore della persona offesa dei delitti commessi con violenza alla persona. - 2.1 L’affermazione dell’orientamento che delimita la categoria delle vittime dei delitti commessi con violenza alla persona. - 2.2 L’esercizio del diritto all’informazione de libertate della persona offesa. - 2.3 2.3 La notifica tramite PEC. - 3 L’inammissibilità dell’istanza cautelare per violazione dell’art. 299 cod. proc. pen. - 4 La valutazione di idoneità cautelare della misura nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

Nel corso dell’ultimo decennio diversi sono stati gli interventi normativi che hanno significativamente inciso sul codice di rito nella prospettiva di valorizzare il ruolo e gli interessi della vittima del reato nel processo penale; in particolare, dal 2013 il legislatore, in adempimento di precisi obblighi sovranazionali, ha introdotto inediti diritti di partecipazione della vittima nel processo, in alcuni casi assistiti da sanzioni processuali a presidio della effettività della tutela riconosciuta.

Come noto, a differenza delle fonti convenzionali ed europee, il nostro ordinamento tradizionalmente non utilizza il termine “vittima” bensì quelli di “persona offesa dal reato” o di “danneggiato” (posizioni non sempre sovrapponibile in capo allo stesso soggetto), concentrando l’attenzione più sull’effetto lesivo subito che sulla posizione soggettiva della persona offesa. Ed invero, l’utilizzo del termine “vittima” è inizialmente avvenuto in “settori ancillari” del diritto processuale: nella disciplina penitenziaria (Cassa per il soccorso e l’assistenza alle vittime, art. 73, l. 354 del 1975) in materia di misure alternative alla detenzione, per il tramite dei parametri di concessione (art. 21, comma 4-ter; art. 47, comma 7, l. n. 354 del 1975). Solo più di recente, sotto l’influenza del diritto europeo, tale espressione è stata introdotta nel codice penale: con riferimento all’istituto dell’archiviazione per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis, comma 2, cod. pen. ”minorata difesa della vittima”), e in tema di assistenza affettiva e psicologica al minore vittima di determinati reati (art. 609-decies cod. pen.), e di procedura penale: art. 498, comma 4-ter, in punto di esame protetto delle vittime di specifici reati, nell’art. 316, comma 1-bis e nell’art. 539, comma 2-bis, a tutela di minori orfani di vittime di violenza domestica.

Ebbene, l’applicazione giudiziale della nuova disciplina ha posto alcuni problemi interpretativi che in più occasioni hanno richiesto il fisiologico intervento nomofilattico della Corte di legittimità, a presidio della certezza dei diritti e dell’uguaglianza di trattamento dei cittadini sul territorio nazionale per situazioni omogenee (per un inquadramento introduttivo sul punto, si rimanda alla Rassegna della Giurisprudenza di Legittimità - anno 2016 - Gli orientamenti delle Sezioni penali, Sezione III, capitolo I, pag. 93 e ss).

Con particolare riguardo alla tematica dei diritti di informazione della persona offesa in occasione delle vicende evolutive delle misure cautelari personali applicate all’autore del reato, l’anno appena trascorso ha registrato importanti pronunce che hanno, per un verso, ulteriormente perimetrato l’ambito di operatività dei suddetti diritti e, per l’altro, consolidato la posizione sulla ritualità di determinate modalità esecutive di notifica nei confronti della persona offesa.

In termini generali, può affermarsi come le soluzioni accolte dalla Corte perseguano il necessario contemperamento, secondo una lettura costituzionalmente e convenzionalmente conforme in tema di giusto processo, dei confliggenti diritti fondamentali, da un lato dell’indagato/imputato ad una pronta decisione giudiziale sulle misure cautelari che limitano la propria libertà e, dall’altro, della vittima del reato ad una effettiva e dignitosa protezione della propria incolumità personale nel corso del processo.

2. Gli oneri di notifica della richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare personale a favore della persona offesa dei delitti commessi con violenza alla persona.

Nei procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona, l’art. 299 cod. proc. pen. prescrive a carico del soggetto richiedente - pubblico ministero o imputato - la revoca o la sostituzione di una delle misure coercitive, previste dagli artt. 282-bis (misure dell’allontanamento dalla casa familiare), 282-ter (divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa), 283 (divieto ed obbligo di dimora), 284 (custodia cautelare in carcere), 285 (arresti domiciliari) e 286 (custodia cautelare in luogo di cura) di notificare la relativa domanda «al difensore della parte offesa o, in mancanza, alla persona offesa, salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio».

Tale onere è previsto con riferimento sia alla fase delle indagini preliminari sia a quella successiva, ad eccezione delle richieste presentate, rispettivamente, in sede di interrogatorio di garanzia ovvero in udienza (art. 299, commi 3 e 4-bis cod. proc. pen.). Quest’ultima esclusione emerge chiaramente dal testo normativo e sul punto la giurisprudenza di legittimità è consolidata: da ultimo, si può menzionare Sez.1, n. 1418 del 10/12/2019, dep. 2020, Cicerchia, in cui la Corte ha confermato l’insussistenza di alcun obbligo di notifica alle persone offese della richiesta di sostituzione di misura cautelare avanzata nel corso dell’udienza di incidente probatorio alla presenza dei difensori delle persone offese (in precedenza, cfr. Sez. 5, n. 9872 dell’8/11/2018, dep. 2019, R., Rv. 275633).

Si tratta di una garanzia molto avanzata: a differenza delle comunicazioni contemplate dagli artt. 299, comma 2-bis e 90-ter cod. proc. pen., che intervengono in maniera postuma, quando cioè si è già verificata la modifica dello status libertatis dell’imputato o del condannato, l’informazione prevista dai commi 3 e 4-bis, è preventiva, è presidiata dalla sanzione processuale della inammissibilità dell’istanza de libertate nell’ipotesi di omissione ed è direttamente funzionale all’esercizio di un diritto di interlocuzione della persona offesa. Ed infatti, la finalità è quella di consentire a quest’ultima, anche tramite il proprio difensore, di presentare memorie, ai sensi dell’art. 121 cod. proc. pen., con le quali poter indicare al giudice elementi utili alla decisione, nei due giorni successivi alla notifica, trascorsi i quali il giudice procede comunque.

La portata innovativa delle disposizioni in esame, pertanto, pur collocandosi nel solco di altre previsioni che si prefiggono il potenziamento del ruolo della vittima in rapporto alla cautela (quali l’art. 284 cod. proc. pen. che per la scelta del luogo di esecuzione degli arresti domiciliari, impone anche la valutazione delle esigenze di tutela della persona offesa dal reato; l’art. 282-quater cod. proc. pen., che attribuisce rilevanza, in vista della attenuazione della misura, al superamento da parte dell’imputato dei programmi di prevenzione della violenza organizzati dai sevizi socio-assistenziali, in grado quindi di soddisfare le esigenze di protezione della persona offesa; l’art. 282-quater, comma 1-bis, cod. proc. pen. recante l’obbligo, per l’autorità giudiziaria di informare la persona offesa, qualora sia stata emessa ordinanza di allontanamento dalla casa familiare o di divieto di avvicinarsi nei confronti dell’indagato, della facoltà di richiedere l’emissione di un ordine di protezione europeo), risiede nell’aver contemplato per la prima volta il coinvolgimento diretto dell’offeso nella cognizione della fase esecutiva cautelare, tradizionalmente segnata dalla esclusiva contrapposizione dialettica tra autorità statale e imputato.

Con riferimento ai problemi applicativi sorti in merito all’ambito di applicabilità di suddetto onere informativo, la Corte, nel corso dell’ultimo anno, ha affrontato e deciso le seguenti questioni, ovvero se l’onere di notifica:

a) trovi applicazione solo nelle ipotesi di qualificato rapporto relazionale tra l’autore del reato violento e la vittima, ovvero operi con riferimento a qualunque vittima di reato connotato da violenza;

b) sia o meno condizionato alla nomina del difensore o all’elezione di domicilio da parte della persona offesa;

c) sia ritualmente adempiuto anche tramite utilizzo della posta elettronica certificata.

2.1. L’affermazione dell’orientamento che delimita la categoria delle vittime dei delitti commessi con violenza alla persona.

La giurisprudenza della Corte si è attestata nel senso di circoscrivere l’operatività dei presidi informativi previsti dall’art. 299 cod. proc. pen., escludendoli intutti i casi nei quali non sia in concreto configurabile un pericolo per la sicurezza personale della vittima, proveniente dallo stesso autore del reato per cui si procede.

Il canone interpretativo affermatosi, pertanto, si propone di superare la giurisprudenza secondo cui la nozione di “delitti commessi con violenza alla persona” includerebbe tutti i delitti consumati o tentati che si siano in concreto manifestati con atti di violenza in danno della vittima (in questi termini, cfr. da ultimo, Sez. 6, n. 27601 del 22/03/2019, Pascale, Rv. 276077 - 01).

Secondo i più recenti arresti, allora, è importante bilanciare i diritti della persona offesa con quelli della persona ristretta, al fine di riconoscere se sia giustificato «il sacrificio del diritto dell’indagato ad una rapida definizione dell’incidente cautelare a vantaggio del diritto della persona offesa ad offrire il suo contributo alle decisioni in tema di libertà, essendo quest’ultima esposta ad un rischio “personale”, candidandosi ad essere nuovamente vittima dello stesso autore del reato per cui si procede» (Sez. 5, n. 4485 del dell’8/01/2020, L., Rv. 278141 01- 02; conf. a Sez. 2, n. 17335 del 28/03/2019, Ambrogio, Rv. 276953 - 01).

Come ribadito da Sez. 2, n. 28924 del 9/07/2020, Cervelloni, pertanto, l’incombente della notificazione alla persona offesa non può essere fatto discendere solo dal titolo di reato, dovendo sussistere anche concreti elementi significativi di un pericolo di recidivanza in danno della stessa persona offesa. Di conseguenza, il giudice investito della decisione cautelare dovrà tener conto - alla luce dei canoni interpretativi emergenti dalla Direttiva 2012/29/UE (che ha provocato la novella dell’art. 299 cod. proc. pen.) - in via gradata, della tipologia della persona offesa o del movente del reato, ovvero del contesto in cui il reato è stato commesso, per riconoscere se si tratti di vittima vulnerabile con rischio di vittimizzazione personale; al di fuori di tali casi, sarà tenuto a valutare e motivare se al delitto connotato da violenza si ricolleghi anche un concreto pericolo di intimidazione, ritorsioni, o vittimizzazione secondaria ripetuta, tali da escludere che si tratti di un reato minore o che via sia un debole rischio di danno per la vittima (negli stessi termini, Sez. 2, n. 12800 del 13/02/2020, Cerrito; Sez. 1, n. 26024 del 13/07/2020, Nasri).

La Corte sottolinea come suddetta interpretazione colleghi l’obbligo di notifica a quella parte della Direttiva europea specificamente diretta ad individuare misure minime di protezione nei confronti delle vittime con caratteristiche di vulnerabilità, valorizzando il pericolo di recidive nei confronti delle medesime. Secondo tale prospettiva, infatti, l’allungamento dei tempi per la decisione cautelare che consegue inevitabilmente all’esercizio del diritto della vittima ad essere informata e a poter rappresentare al giudice le proprie ragioni, è giustificabile solo nei casi in cui emerga effettivamente un rischio di “recidiva personale”.

Da richiamare, inoltre, la precisazione svolta da Sez. 1, n. 20295 del 18/06/2020, Russo, secondo la quale, ai fini del riconoscimento o dell’esclusione dell’applicabilità dell’obbligo imposto dall’art. 299 cod. proc. pen. al richiedente la modifica cautelare, non assume alcun rilievo la gravità del pericolo alla vita o della lesione alla incolumità personale subiti dalla persona offesa in occasione della commissione reato per cui si procede (nel caso all’esame la vittima aveva riportato lesioni giudicate guaribili in sette giorni).

2.2. L’esercizio del diritto all’informazione de libertate della persona offesa.

Con riferimento alla notifica della richiesta di modifica del regime cautelare applicato all’indagato/imputato, permane il contrasto in merito alla sussistenza o meno di un onere in capo alla parte offesa di manifestare la volontà di partecipare al procedimento, espressa dalla nomina del difensore o dalla dichiarazione ovvero elezione di domicilio, tale da condizionare l’esercizio del diritto di informazione e partecipazione.

Ed invero, nell’ipotesi in cui la persona offesa abbia nominato un difensore, secondo la chiara indicazione normativa, la notifica viene eseguita presso quest’ultimo quale domiciliatario dell’interessato, indipendentemente dalla espressa elezione di domicilio, e ciò in base alla previsione contenuta nell’art. 33 disp. att. cod. proc. pen., secondo cui, appunto, il domicilio della persona offesa dal reato che abbia nominato un difensore si intende eletto presso quest’ultimo.

In tal senso si è espressa Sez. 3, n. 15609 del 21/02/2020, G., Rv. 278839, che ha affermato il principio così massimato:

«In tema di misure cautelari, ai fini della ammissibilità della richiesta di revoca o di sostituzione del provvedimento applicato nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, non proposta in sede di interrogatorio di garanzia, è sufficiente la notifica al solo difensore della persona offesa e, soltanto qualora questi non sia stato nominato, alla persona offesa. (In motivazione, la Corte ha precisato che il regime delle notifiche previsto dall’art. 299, comma 3, cod. proc. pen. per la richiesta di revoca o di sostituzione si distingue da quello di cui al comma 2-bis della medesima norma, come modificato dall’art. 15, comma 4, della legge 19 luglio 2019 n. 69, che, per rafforzare il meccanismo di conoscenza della persona offesa, impone l’immediata comunicazione del provvedimento di accoglimento, anche parziale, della istanza “de libertate” alla stessa persona offesa, in aggiunta e non in alternativa al suo difensore)» (conf. Sez. 5, n. 23127 del 3/07/2020, F. Rv. 279403; Sez. 2, n. 36837 del 22/10/2020, Lamani).

La Corte prende le mosse da un’esegesi del testo normativo, come novellato per effetto degli interventi del 2019 (la cd. legge del “codice rosso”), precisando che, a differenza dei provvedimenti di revoca o sostituzione delle misure cautelari che ai sensi dell’art. 299, comma 2-bis, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 15, comma 4, legge 19 luglio 2019, n. 69, «devono essere immediatamente comunicati, a cura della polizia giudiziaria, ai servizi socio-asistenziali e alla persona offesa e, ove nominato, al suo difensore», in materia di richiesta di revoca o sostituzione i commi 3 e 4-bis non sono stati modificati nel 2019, continuando, perciò, a prevedere la notifica della relativa istanza presso il difensore della persona offesa e, solo qualora questo non sia stato nominato, presso la vittima del reato. In sostanza, sottolinea la Corte, per precisa volontà legislativa si è creato un differente regime che risponde a ragionevolezza, essendo diverse le fasi in cui opera la tutela della vittima a fronte di eventuali modifiche delle misure cautelari applicate. Ed infatti, in caso di richiesta di revoca o sostituzione della misura viene privilegiata la conoscenza sotto un profilo più squisitamente tecnico dell’iniziativa difensiva, mediante l’esclusivo coinvolgimento del difensore nominato, essendo importante assicurare un adeguato contraddittorio integrato sia dal parere del P.M., sia dalle eventuali memorie ex art. 121 cod. proc. pen. fatte pervenire dalla persona offesa. Viceversa, superata questa fase, nel momento in cui l’istanza de libertate sia stata anche solo parzialmente accolta, è maggiormente avvertita la necessità di informare direttamente la vittima, prevedendo, appunto, la comunicazione del provvedimento di modifica del regime cautelare sia ai servizi socio-assistenziali, sia alla persona offesa in aggiunta al suo difensore, ove nominato.

Ed allora, la notifica dell’istanza cautelare esclusivamente al difensore nominato dalla persona offesa deve ritenersi idonea a soddisfare il requisito dell’ammissibilità della richiesta di modifica, non assumendo nemmeno rilievo che la vittima non abbia formalmente eletto domicilio presso tale difensore, trovando applicazione la regola fissata dall’art. 33 disp. att. cod. proc. pen.

Diversamente, nell’ipotesi in cui manchi la nomina di un difensore, oppure la persona offesa non abbia eletto o dichiarato domicilio, in giurisprudenza si registrano due diverse ricostruzioni interpretative.

Accoglie l’orientamento che ritiene in ogni caso sussistente l’obbligo, a pena di inammissibilità, di notificare all’offeso le richieste di modifica dello status cautelare, la sopracitata Sez. 5, n. 4485 dell’8/01/2020, L., Rv. 278141 01- 02. (conf. a Sez. 6, n. 8691 del 14/11/2017, dep. 2018, A., Rv. 272216).

In motivazione, infatti, viene puntualizzato come l’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen. - riferito alla fase successiva alla chiusura delle indagini preliminari - prescriva la necessità di notificare contestualmente alla persona offesa la richiesta di sostituzione o revoca di misure cautelari, declinando distinte modalità: a) presso il difensore di fiducia, ai sensi dell’art. 33 disp. att. cod. proc. pen.; b) personalmente, presso la persona offesa, in difetto di nomina di un difensore di fiducia, salva l’ipotesi in cui questa abbia eletto o dichiarato domicilio. Di conseguenza, qualora la persona offesa abbia nominato un difensore di fiducia, si considererà domiciliata presso quest’ultimo (art. 33 disp. att. c.p.p.); nel caso non lo abbia nominato, invece, la notifica dovrà essere eseguita personalmente alla stessa persona offesa, a meno che la stessa abbia eletto o dichiarato domicilio, perché in quest’ultima evenienza la notifica dovrà essere sempre eseguita in tale luogo, anche se sia già intervenuta la nomina di un difensore.

Ed allora, nella particolare ipotesi di notifica da eseguirsi alla persona offesa non munita di difensore, laddove questa non abbia dichiarato o eletto domicilio, considerate le difficoltà che potrebbe sorgere nel reperimento del domicilio del destinatario, la Sezione sopracitata richiama il canone della ordinaria diligenza da esigere nel caso concreto, considerando destinatari della notifica solo le persone offese i cui dati siano immediatamente ricavabili dal fascicolo processuale. Secondo tale prospettiva, pertanto, l’onere di notifica imporrebbe che la persona sia agevolmente reperibile in base ai dati rilevabili dagli atti accessibili alla parte istante. Tale condizione, dunque, segna il limite della diligenza esigibile ai fini della notifica, oltre la quale, precisa la Sezione, l’istanza dovrà essere valutata nel merito stante l’incolpevole impossibilità di adempiere all’obbligo informativo.

Nel caso di specie, il difensore dell’imputato aveva provveduto a notificare contestualmente la richiesta ex art. 299 cod. proc. pen. alla persona offesa - non assistita da difensore e che non aveva eletto, né dichiarato domicilio - mediante l’invio di raccomandata con avviso di ricevimento all’indirizzo risultante dagli atti del fascicolo, allegando all’istanza la copia del cedolino di invio e la lettera di accompagnamento. La Corte ha ritenuto sufficiente che il richiedente producesse la stampa dell’esito infruttuoso della notifica tratto dal sito web delle Poste Italiane attestante l’avvenuto tentativo di consegna ed il mancato ritiro del plico, affermando i seguenti principi:

Rv. 278141 01: «Nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, per assolvere alla condizione posta a pena di inammissibilità dal comma 4-bis dell’art. 299 cod. proc. pen., è sufficiente che l’imputato alleghi la prova di avere contestualmente notificato, mediante raccomandata con ricevuta di ritorno, la richiesta di revoca o sostituzione della misura alla persona offesa presso il domicilio risultante in atti, laddove quest’ultima non sia assistita da difensore di fiducia e non abbia dichiarato o eletto domicilio. (Fattispecie in cui era risultato che la raccomandata ritualmente spedita non era stata ritirata dal destinatario e la Corte ha ritenuto correttamente assolta la condizione di cui all’art. 299, comma 4-bis cod. proc. pen.).

2. Rv. 278141 02: «Nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, al fine di dimostrare la ritualità della notifica alla persona offesa dell’istanza di revoca o sostituzione di misura cautelare, ai sensi dell’art. 299, comma 4-bis cod. proc. pen., deve ritenersi sufficiente la stampa del documento, scaricato dal sito web delle Poste, da cui risulta l’esito della notificazione, atteso che nel sistema processuale vige il principio generale di libertà della prova sia per i fatti-reato che per gli atti del processo, come si evince dall’art. 234 cod. proc. pen e dalla direttiva n. 1 della legge delega per il nuovo codice di procedura penale, che stabilisce la massima semplificazione processuale con eliminazione di ogni atto non essenziale. (Fattispecie in cui è stata ritenuta legittimamente provata la notifica per compiuta giacenza con l’esibizione del documento scaricato dal sito delle Poste che attestava che “la spedizione non è stata ritirata dal destinatario e sarà restituita al mittente”).

In definitiva, la sentenza in esame, nell’esigere sempre e comunque la notifica della richiesta de libertate alla persona offesa - anche in assenza di nomina di un difensore, ovvero di elezione o dichiarazione di domicilio - ha rimarcato come non si potesse comunque gravare l’imputato dell’obbligo di esibire l’originale della cartolina attestante la compiuta giacenza; la soluzione accolta, in sostanza, è tale da bilanciare l’interesse del notificante a non vedersi imputare conseguenze negative per gli eventuali ritardi nel completamento della fattispecie comunicativa dovuti al fatto di terzi, e quello del destinatario a non vedersi impedito l’esercizio dei propri diritti.

Si inscrive a tale opzione interpretativa anche Sez.2, n. 32866 del 28/09/2020, Clemente, che ha ritenuto esente da censure la declaratoria di inammissibilità dell’istanza rilevata d’ufficio dal Tribunale per la mancanza di notifica alla persona offesa che, pur non avendo nominato un difensore, né eletto o dichiarato domicilio, era compiutamente identificata in atti «così che il ricorrente aveva le informazioni necessarie all’adempimento richiesto a pena di inammissibilità, dall’art. 299, comma 4bis, cod. proc. pen. presentata».

Esprime una ricostruzione ermeneutica più restrittiva, invece, Sez. 1, n. 5552 del 17/01/2020, Gangemi, Rv. 278483-01, che ha affermato il principio di diritto così massimato: «Nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, l’istanza di revoca o di modifica della misura cautelare non proposta in sede di interrogatorio di garanzia non deve essere notificata alla persona offesa che non abbia provveduto a nominare un difensore o ad effettuare dichiarazione od elezione di domicilio. (In motivazione, la Corte ha precisato che in tal senso depone l’inequivoco tenore letterale dell’art. 299, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., nell’inciso in cui, dopo aver previsto l’obbligo di notifica della richiesta presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa medesima, fa salva, in quest’ultimo caso, l’eventualità che questa non abbia provveduto a dichiarare o ad eleggere domicilio)».

Nel caso di specie, la Suprema Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza del tribunale distrettuale di rigetto dell’appello cautelare proposto dall’imputato avverso il provvedimento del G.I.P. che aveva dichiarato inammissibile l’istanza di sostituzione della misura cautelare per omessa notifica della stessa alle persone offese di più episodi di estorsione aggravata.

In motivazione, la Corte ha precisato che alla parte offesa non spetta alcuna notificazione della richiesta di modifica cautelare quando non abbia provveduto a nominare un difensore ovvero dichiarare o eleggere di domicilio; ed allora, poiché nel caso di specie il giudice del riesame non aveva chiarito se le persone offese avessero provveduto o meno ad uno dei suddetti adempimenti, la decisione è stata nel senso dell’annullamento dell’ordinanza impugnata, rinviando al tribunale la necessaria verifica della effettiva sussistenza, nel caso all’esame, di un’ipotesi di omessa notifica a persone offese “notiziabili” nel senso sopra specificato.

La Sezione addiviene a tale conclusione non solo perché ritenuta aderente alla volontà legislativa, ma anche per ragioni di ordine logico e sistematico.

In primo luogo, infatti, viene osservato come l’iter parlamentare che ha portato all’adozione del testo finale - che ha visto l’aggiunta dell’inciso «salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o a eleggere domicilio» in sede di conversione del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 dalla legge 15 ottobre del 2013 n. 119 - evidenzi la inequivoca intenzione del legislatore di non esigere dall’imputato, in stato di limitazione della propria libertà personale, l’adempimento di oneri eccessivamente gravosi, derivanti dalla difficoltà di reperire il domicilio della persona offesa che non lo abbia eletto o dichiarato. Da un punto di vista sistematico, inoltre, solo la configurazione di un corrispondente onere in capo alla persona offesa a manifestare l’interesse a conoscere le vicende processuali, tramite la nomina di un difensore ovvero la elezione o dichiarazione di domicilio, può contemperare i diritti di quest’ultima con l’esercizio del diritto di difesa da parte dell’indagato o imputato, salvaguardando, in particolare, l’interesse di quest’ultimo a non trovare ostacoli o difficoltà ad eseguire celermente le notifiche necessarie e consentire la rapida definizione del procedimento incidentale de libertate che lo riguarda.

La sentenza in esame, infine, puntualizza in senso critico come la diversa posizione interpretativa secondo la quale la notificazione alla persona offesa deve comunque effettuarsi, pur se questa non abbia eletto o dichiarato domicilio, sulla base dei dati identificativi immediatamente ricavabili dal fascicolo processuale, imporrebbe, in ogni caso al richiedente la revoca o la sostituzione della misura cautelare l’obbligo di attivarsi per reperire i dati necessari all’adempimento processuale e, solo in caso di irreperibilità, l’obbligo suddetto verrebbe meno.

2.3. 2.3 La notifica tramite PEC.

La giurisprudenza è consolidata nel ritenere legittimo l’utilizzo della posta elettronica certificata (PEC) per effettuare la notifica delle richieste ex art. 299, commi 3 e 4-bis cod. proc. pen., da parte del difensore dell’imputato a quello della vittima. (Sez. 2, n. 26050 del 22/07/2020, Napoli; Sez. 5, n. 23127 del 3/07/2020, F., Rv. 279403; Sez. 3, n. 15609 del 21/02/2020, G., Rv. 278839; Sez. 2, n. 36837 del 22/10/2020, Lamani; in precedenza, cfr., Sez. 2, n. 6320 del 11/01/2017, Simeoli, Rv. 268984).

La soluzione accolta riposa su quanto previsto dagli artt. 152 cod. proc. pen. - a mente del quale «salvo che la legge disponga altrimenti, le notificazioni richieste dalle parti private possono essere sostituite dall’invio di copia dell’atto effettuata dal difensore mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento» - e 48 del d. lgs. 7 marzo 2005, n. 82 - secondo cui «1. La trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante la posta elettronica certificata ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68. 2. La trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata mediante la posta elettronica certificata, equivale, nei casi consentiti dalla legge, alla notificazione per mezzo della posta.

3. La data e l’ora di trasmissione e di ricezione di un documento informatico trasmesso mediante posta elettronica certificata sono opponibili ai terzi se conformi alle disposizioni di cui al decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, ed alle relative regole tecniche.».

Viene, peraltro, puntualizzato, come in proposito non venga in considerazione la previsione contenuta nell’art. 16 del d.l. 16 ottobre 2012, n. 179 (convertito dalla legge n. 17 dicembre 2012, n. 221) essendo quest’ultima finalizzata a regolamentare l’utilizzo della PEC da parte delle cancellerie e non la diversa situazione delle comunicazioni tra le parti private.

Ed allora, considerato che sulla base del sopracitato art. 48 la notifica a mezzo PEC è equiparata alla notifica per mezzo della posta, salvo che la legge non disponga altrimenti, deve ritenersi che la lettera raccomandata, di cui può avvalersi il difensore ai sensi dell’art. 152 cod. proc. pen., può essere validamente sostituita dalla comunicazione a mezzo PEC, con la conseguenza, pertanto, che la notifica effettuata in tal modo dal difensore dell’imputato al difensore della persona offesa ex art. 299 cod. proc. Pen., deve ritenersi validamente effettuata. La Corte osserva come tale conclusione consenta non solo di soddisfare l’interesse alla celerità nell’esercizio del diritto di difesa dell’imputato, ma anche di rispettare pienamente le esigenze di tutela della persona offesa, sottese all’art. 299 cod. proc. Pen., non essendo dubitabile che la comunicazione a mezzo PEC costituisce uno strumento idoneo a portare un atto a conoscenza del destinatario offrendo certezza in ordine all’identificazione del mittente e alla sua avvenuta ricezione.

3. L’inammissibilità dell’istanza cautelare per violazione dell’art. 299 cod. proc. pen.

In piena aderenza agli obblighi sovranazionali, il legislatore ha inteso assicurare effettività al diritto di interlocuzione della persona offesa, e, nello specifico, ha previsto la sanzione dell’inammissibilità nell’ipotesi di richiesta di modifica cautelare non contestualmente notificata all’offeso secondo le modalità sopradescritte.

In proposito, la Corte in diverse pronunce ha ribadito che l’inammissibilità della richiesta è rilevabile d’ufficio dal giudice, in ogni stato e grado dell’incidente cautelare, e in sede di appello suddetto controllo officioso prescinde totalmente dalla limitazione della cognizione del decidente derivante dal principio devolutivo, di cui all’art. 597 cod. proc. pen., proprio in quanto viene in gioco la legittimità del provvedimento impugnato che, appunto, non ammette la possibilità di forme di sanatoria non previste per legge (Sez. 2, n. 28932 del 4/09/2020, Cammareri; Sez. 2, n. 57925 del 25/10/2018, Refas; Sez. 5, n. 48622 del 24/09/2018, Paradiso; Sez. 6, n. 8691 del 14/11/2017, dep. 22/02/2018, A., Rv. 272215).

4. La valutazione di idoneità cautelare della misura nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona.

Prendendo le mosse dalla regola generale espressa dall’art. 275, comma 1, cod. proc. pen. che esige la necessaria valutazione giudiziale della idoneità della misura da disporre rispetto alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto, la Corte è giunta a specificare il criterio ermeneutico quando sia in gioco il bene giuridico dell’incolumità personale e il correlato pericolo di recidiva che si intende scongiurare. In particolare, Sez. 2 n. 19559 del 25/02/2020, Amico, Rv. 279475, ha affermato il principio così massimato: «In tema di misure cautelari personali, la valutazione in ordine alla “proporzionalità” della misura implica l’apprezzamento del “tipo” di recidiva che si intende contrastare, ovvero della gravità dei reati che si ritiene probabile possano essere nuovamente commessi; pertanto, quando si rileva il pericolo di reiterazione di reati caratterizzati da “violenza alla persona”, la misura degli arresti domiciliari può ritenersi proporzionata solo se, all’esito di un rigoroso esame della personalità dell’accusato, si ritenga abbattuto il rischio di violazione delle regole di auto contenimento. (Fattispecie di rapina commessa con l’uso di coltello, in cui la Corte ha ritenuto legittima la valutazione di inadeguatezza della misura degli arresti domiciliari, anche con controllo elettronico a distanza, desunta dai precedenti penali specifici dell’indagato, gravato da numerose segnalazioni per reati connotati da comportamenti violenti, e dalla rilevata inidoneità di misure affidate all’autodisciplina, in precedenza adottate).»

Ed infatti, la citata Sezione ha specificato che quando la valutazione del pericolo di recidiva riguarda reati che si consumano attraverso la violenza alla persona, il giudizio in ordine al pericolo di recidiva e quello relativo alla idoneità cautelare degli eventuali presidi disponibili, deve essere effettuato con estremo rigore, con l’obiettivo di offrire la massima protezione all’incolumità personale, esigendosi una valutazione proporzionata alla rilevanza del bene giuridico tutelato. Ebbene, nel caso all’esame, l’inidoneità dell’abitazione ove poter eseguire gli arresti domiciliari, anche con braccialetto elettronico, unitamente all’emergenza di una recidiva specifica reiterata infraquinquennale a carico del ricorrente, gravato da decine di segnalazioni per reati connotati da comportamenti violenti coerenti con il reato per cui si procedeva e all’esito negativo di precedenti misure contenitive rimesse all’autodisciplina, portavano la Corte a confermare la valutazione effettuata dal giudice del riesame circa la sussistenza di un pericolo di nuova consumazione di reati commessi con violenza alla persona che veniva giudicato non contenibile con misure diverse dalla custodia in carcere.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze dalla Corte di cassazione

Sez. 2, n. 6320 del 11/01/2017, Simeoli, Rv. 268984

Sez. 6, n. 8691 del 14/11/2017, dep. 2018, A., Rv. 272215

Sez. 6, n. 8691 del 14/11/2017, dep. 2018, A., Rv. 272216

Sez. 5, n. 48622 del 24/09/2018, Paradiso Sez. 2, n. 57925 del 25/10/2018, Refas

Sez. 5, n. 9872 dell’8/11/2018, dep. 2019, R., Rv. 275633

Sez. 6, n. 27601 del 22/03/2019, Pascale, Rv. 276077 - 01

Sez. 2, n. 17335 del 28/03/2019, Ambrogio, Rv. 276953 - 01 Sez.1, n. 1418 del 10/12/2019, dep. 2020, Cicerchia

Sez. 5, n. 4485 dell’8/01/2020, L., Rv. 278141 01- 02

Sez. 1, n. 5552 del 17/01/2020, Gangemi, Rv. 278483-01 Sez. 2, n. 12800 del 13/02/2020, Cerrito

Sez. 3, n. 15609 del 21/02/2020, G., Rv. 278839

Sez. 2 n. 19559 del 25/02/2020, Amico, Rv. 279475 Sez. 1, n. 20295 del 18/06/2020, Russo

Sez. 5, n. 23127 del 3/07/2020, F., Rv. 279403

Sez. 2, n. 28924 del 9/07/2020, Cervelloni Sez. 1, n. 26024 del 13/07/2020, Nasri Sez. 2, n. 26050 del 22/07/2020, Napoli Sez. 2, n. 28932 del 4/09/2020, Cammareri Sez. 2, n. 32866 del 28/09/2020, Clemente Sez. 2, n. 36837 del 22/10/2020, Lamani

  • giudizio
  • procedura penale
  • arresto

CAPITOLO III

GIUDIZIO DI RINVIO IN MATERIA DI MISURE CAUTELARI PERSONALI: INDIVIDUAZIONE DEL DIES A QUO PER LA DECISIONE.

(di Marzia Minutillo Turtur )

Sommario

1 Il principio di diritto enunciato da Sez. U, n. 27104 del 16/07/2020, Calella, Rv. 279533-01. - 2 La vicenda processuale. - 3 I motivi di ricorso. - 4 L’ordinanza di rimessione ed i precedenti di legittimità. - 4.1 L’orientamento minoritari. - 4.2 L’orientamento maggioritari. - 5 La decisione delle Sezioni Unite. - 6 Conclusioni. - Indice delle sentenze citate.

1. Il principio di diritto enunciato da Sez. U, n. 27104 del 16/07/2020, Calella, Rv. 279533-01.

Nell’ambito del panorama interpretativo che ha ampiamente interessato la materia relativa alle caratteristiche del giudizio di rinvio in materia di misure cautelari personali è intervenuta la decisione delle Sez. U, n. 27104 del 16/07/2020, Calella, Rv. 279533-01, così massimata: “Nel giudizio di rinvio conseguente all’annullamento dell’ordinanza del tribunale del riesame che abbia disposto o confermato la misura cautelare personale, il procedimento ha inizio nel momento in cui gli atti trasmessi dalla Corte di cassazione pervengono alla cancelleria del tribunale, da qui cominciando a decorrere la articolata sequenza temporale di cui all’art . 309, commi 5 e 10, cod . proc . pen . con le relative sanzioni processuali in caso di sua inosservanza . (Nella specie la Corte ha rigettato il motivo di ricorso con cui si deduceva l’inefficacia della misura cautelare, rilevando che, in applicazione del suddetto principio, il termine di dieci giorni per la decisione decorre, anche nel giudizio di rinvio, dal momento della ricezione degli atti richiesti all’autorità procedente).”

2. La vicenda processuale.

In data 24 ottobre 2018 il giudice per le indagini preliminari applicava al ricorrente in cassazione, in procedimento a carico di numerosi imputati, la misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione alle imputazioni provvisorie di associazione a delinquere e furto. L’ordinanza veniva confermata in data 22 novembre 2018 dal Tribunale della libertà. Gli imputati proponevano ricorso per cassazione avverso la predetta ordinanza. La Corte di cassazione, con sentenza n. 23459 del 30/04/2019, annullava l’ordinanza impugnata limitatamente alla posizione del ricorrente, con rinvio al tribunale, sezione per il riesame delle misure cautelari personali, per nuovo esame, mentre dichiarava inammissibili gli altri ricorsi proposti. La Corte di cassazione, richiamando i limiti di sindacabilità dell’ordinanza cautelare impugnata, rilevava, quanto alla posizione del ricorrente, come lo stesso avesse lamentato, anche con motivi aggiunti, la mancata considerazione da parte del pubblico ministero delle sue richieste relative all’audizione diretta dei file audio delle intercettazioni e della visione dei file video che avrebbero dovuto ritrarlo in situazioni indizianti rispetto ai fatti contestati allo stesso. Detta documentazione, secondo la difesa, non risultava depositata dal pubblico ministero, unitamente agli atti di indagine dinnanzi al tribunale della libertà. In tal senso, venivano ritenute non appaganti le motivazioni sul punto fornite dal tribunale della libertà, poiché non era stato specificato se nell’ambito dei documenti depositati, e segnatamente nell’ambito del dvd, fossero contenuti i file audio e video che la difesa intendeva esaminare direttamente. Di conseguenza veniva disposto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza cautelare sul punto predetto, per necessaria integrazione della motivazione sulla questione proposta dal ricorrente.

Il tribunale della libertà, con successiva ordinanza del 19 luglio 2019, confermava la misura degli arresti domiciliari per il ricorrente, il quale aveva, tramite il suo difensore, depositato memoria difensiva con cui aveva eccepito il mancato rispetto dei termini ex art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen., considerato che il fascicolo del procedimento di legittimità era pervenuto presso la cancelleria del tribunale del riesame in data 6 giugno 2019 e la decisione in sede cautelare era giunta oltre il termine previsto di dieci giorni, sicché si doveva ritenere intervenuta la perdita di efficacia della misura.

Il tribunale della libertà rilevava l’infondatezza dell’eccezione, evidenziando che gli atti erano pervenuti presso la cancelleria dieci giorni prima della decisione, con pieno rispetto dei termini di cui all’art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen.

3. I motivi di ricorso.

Il destinatario della misura ha proposto ricorso per cassazione anche avverso la seconda ordinanza del tribunale del riesame. Con il primo motivo ha sostenuto l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale ex art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. e di norme processuali ex art. 606, comma, 1 lett. c) cod. proc. pen. in relazione all’art. 311, comma 5-bis cod. proc. pen., rilevando la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con particolare riferimento al travisamento del dies a quo per la decorrenza dei termini ex art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen. Si è, in sostanza, rilevato come le conclusioni del Tribunale del riesame fossero contraddittorie e contra legem, considerato che gli atti erano materialmente pervenuti dalla Corte di cassazione in data 6 Giugno 2019, data nella quale il fascicolo, inviato dalla Corte di cassazione, era giunto presso il Tribunale, mentre il Tribunale della libertà aveva individuato il dies a quo nel 10 giugno 2019, data in cui lo stesso fascicolo rescindente era pervenuto presso la cancelleria del Tribunale della libertà. È stata, in particolare, contestata la seconda data richiamata dal Tribunale della libertà, sottolineando che il funzionario giudiziario aveva inviato richiesta e avviso all’autorità giudiziaria procedente in data 7 giugno 2019 affinché inviasse copia degli atti, con indicazione certa delle generalità degli imputati per procedere alla notificazione degli avvisi nei termini di legge, con preghiera altresì di inviare ulteriori atti (certificazione del casellario giudiziale, ordinanza impugnata, relata di notifica e relativo avviso di deposito ai difensori, eventuale ordinanza di custodia cautelare o sentenza da cui si possano evincere i reati per cui il soggetto è sottoposto a misura cautelare, decreti autorizzativi e di proroga di intercettazioni eventualmente effettuate). La data corretta da considerare, secondo la difesa, al fine della tempestività della decisione era quella del 6 giugno 2019.

In tal senso il ricorrente affermava, inoltre, come fosse stato commesso un errore nella procedura di decisione, non essendo in alcun caso prevista la richiesta di documentazione all’autorità procedente. Si è sostenuto, quindi, che ciò aveva comportato l’indebita considerazione del dies a quo, individuato erroneamente nel 10 giugno 2019, ovvero la data in cui era pervenuta presso la cancelleria del Tribunale del riesame la documentazione richiesta alla autorità procedente. Circostanza, a detta del ricorrente, del tutto irrilevante quanto all’individuazione del termine ex art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen.

4. L’ordinanza di rimessione ed i precedenti di legittimità.

La Sesta sezione della Corte di cassazione, cui era stato assegnato il ricorso, ha evidenziato che la questione processuale circa l’esatta individuazione del dies a quo, ex art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen., di decorrenza del termine di dieci giorni entro il quale deve intervenire la decisione del giudice del riesame in sede di rinvio, a pena di inefficacia della misura cautelare, a seguito di annullamento da parte della Corte di cassazione, era oggetto di contrasto in seno alla giurisprudenza della Corte ed ha conseguente rimesso la questione alle Sezioni Unite della Corte.

Il punto centrale della questione ermeneutica proposta è da individuare, secondo l’ordinanza di rimessione, nella portata dell’espressione normativa “dalla ricezione degli atti”. Secondo il collegio rimettente, tale espressione si prestava ad una duplice alternativa interpretativa, dovendo la Corte a Sezioni Unite chiarire se: a) la decorrenza debba essere individuata con riferimento al momento in cui gli atti sono pervenuti presso la cancelleria centrale del tribunale, ovvero presso la cancelleria della sezione specializzata per il riesame; b) se il medesimo termine decorra dalla ricezione della sentenza di annullamento della Corte di cassazione con invio dell’allegato fascicolo, ovvero dalla ricezione degli atti nuovamente richiesti al pubblico ministero o all’autorità giudiziaria procedente da parte del presidente del tribunale.

È stato, quindi, richiamato un primo orientamento interpretativo che risolve entrambi i profili evidenziati affermando che il termine di dieci giorni decorre dalla data in cui il fascicolo relativo al ricorso per cassazione, compresa la sentenza rescindente, perviene alla cancelleria della sezione del tribunale competente per il riesame (Sez. 1, n. 23707 del 29/01/2018, Battaglia, Rv. 273114 - 01). Secondo questa decisione, di fatto, il tribunale del riesame è già in possesso degli atti necessari per la trattazione del giudizio di riesame a seguito di annullamento con rinvio, essendosi già pronunciato con la decisione soggetta a ricorso, e, dunque, non è necessario acquisire nuovamente la documentazione dell’autorità procedente, mentre eventuali sopravvenienze potranno essere prodotte in udienza (nello stesso senso viene richiamato come precedente conforme Sez. 1, n. 42473 del 17/03/2016, Stabile, Rv. 268103-01, nonché Sez. 4, n. 2909 del 20/12/2005, Pristeri, Rv. 232886-01 e Sez. 3, n. 4113 del 17/12/2007, Tanase, Rv. 239242-01, sia pure in tema di trasmissione degli atti ex art. 309, comma 5, cod. proc. pen.).

Tale orientamento trova il proprio fondamento nell’affermazione per cui il tribunale costituisce un unico ufficio giudiziario, sicché non possono avere rilievo i tempi di smistamento tra le varie articolazioni interne.

4.1. L’orientamento minoritari.

Quanto alla citata sentenza Battaglia, occorre ricordare come nel caso esaminato dalla Corte, che aveva portato ad un annullamento con rinvio, era stato riscontrato un vizio motivazionale in punto di gravità indiziaria, poi colmato in sede di riesame con la conferma del provvedimento a suo tempo impugnato. La difesa aveva eccepito la tardività della decisione, considerata la data in cui gli atti erano pervenuti presso la cancelleria del tribunale, in violazione del disposto di cui all’art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen. Si era inoltre contestato che il termine potesse ritenersi decorrente dalla data successiva, che era stata identificata in considerazione della nuova richiesta di produzione degli atti, rivolta al pubblico ministero, da parte della presidenza del tribunale del riesame. Si era anche osservato come lo stesso pubblico ministero avesse risposto al tribunale evidenziando che gli atti posti a sostegno della misura cautelare erano già in possesso del tribunale, in relazione al procedimento originario; dunque, nella prospettazione della difesa, il presidente del tribunale, sezione riesame, avrebbe semplicemente dovuto fissare la relativa udienza, nell’ambito della quale avrebbero potuto essere allegati ulteriori atti o verbali sopravvenuti. La Corte ha ritenuto fondato il ricorso sostenendo che la cancelleria della Corte di cassazione non trasmette la sola sentenza rescindente, ma l’intero fascicolo, ai sensi dell’art. 623, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., come ribadito da circolare interna del 16/05/2015. Si è, inoltre, richiamata la specificità del caso concreto, poiché lo stesso pubblico ministero aveva risposto alla missiva della Presidenza, richiamando il pieno possesso degli atti da parte del tribunale, con mera trasmissione di ulteriore copia degli atti in questione. È stata, dunque, ritenuta palese la violazione dell’art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen., richiamando la ratio della disciplina che ha introdotto nel nostro ordinamento tale previsione. Considerando la normativa che ha introdotto tale previsione (legge n. 47 del 2015 all’art. 13), la Corte ha affermato che per la “natura sequenziale” del giudizio di rinvio successivo ad annullamento, gli atti di cui si parla nella disposizione “sono quelli trasmessi al giudice di rinvio dalla cancelleria di questa Corte di cassazione”.

Si è, quindi, escluso che il giudice di rinvio possa inoltrare una “nuova” richiesta di atti all’autorità procedente, posto che la disposizione che prevede tale adempimento è esclusivamente quella di cui all’art. 309, comma 5, cod. proc. pen., applicabile solo ove sia stata presentata richiesta di riesame, situazione procedimentale ritenuta dalla Corte del tutto diversa da quella in esame. Si è sostenuto che, nel giudizio di riesame, a seguito di annullamento di rinvio, il tribunale deve esclusivamente “ricevere” dalla cancelleria della Corte ciò che era stato trasmesso unitamente al ricorso (“di regola non tutti gli atti”), insieme alla copia della sentenza rescindente, mentre eventuali sopravvenienze conoscitive potranno essere eventualmente depositate in udienza ex art. 309, comma 9, cod. proc. pen. A conforto della propria lettura, la Corte ha richiamato la decisione a Sez. U. Rezmuves, condividendo la necessità di un’interpretazione il più possibile fedele al testo delle disposizioni di garanzia introdotte dalla l. n. 47 del 2015. Si doveva condividere, in tal senso, a parere della Prima sezione penale, la valorizzazione dell’inerenza della norma alla tutela della libertà personale, con divieto di interpretazione estensiva e analogica. Nell’affermare il principio di diritto sopra richiamato la Prima sezione ha anche fatto riferimento alla sentenza Sez. 6, n. 51684 del 28/11/2014, De Micco, Rv. 261452-01, secondo la quale di fatto gli elementi di cui al comma 5 sarebbero esclusivamente elementi probatori favorevoli all’imputato (escludendo quindi implicitamente che possano essere identificati negli elementi originariamente posti a sostegno della richiesta di applicazione di misura cautelare).

4.2. L’orientamento maggioritari.

Un secondo orientamento ermeneutico, riferito dalla Sesta sezione al “secondo nodo ermeneutico”, che si oppone in modo netto alle sentenze Stabile e Battaglia, afferma che il termine di dieci giorni per la decisione in caso di annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione decorre dalla data in cui, ricevuta la sentenza rescindente e il relativo fascicolo, il pubblico ministero abbia trasmesso gli atti ex art. 291 cod. proc. pen., e gli eventuali elementi sopravvenuti, a seguito di richiesta del presidente del tribunale (Sez. 2, n. 15695 del 08/01/2016, Lombardo, Rv. 266729-01, Sez. 6, n. 27093 del 01/03/2017, Speranza, Rv. 270410-01, Sez. 2, n. 32086 del 15/06/2017, Arena, Sez. 5, n. 21710 del 28/02/2018,

Marciano, Rv. 273026-01, Sez. 2, n. 37585 del 18/12/2018, Giglio, Rv. 277082-01, Sez. 2, n. 31281 del 26/06/2019, Montante, Rv. 276737-01). Secondo tale lettura interpretativa, gli atti devono essere “nuovamente” trasmessi al tribunale dall’autorità procedente, con ciò richiamando, di fatto, il procedimento ordinariamente previsto in sede di riesame con l’art. 309, comma 5, cod. proc. pen. Tale orientamento ha trovato una sua prima chiara affermazione nella decisione della Sez. 2, n. 15695 del 08/01/2016, Lombardo, Rv. 266729 - 01, antecedente temporalmente sia della Stabile che della Battaglia. La sentenza Lombardo risulta così massimata: “In tema di impugnazioni avverso provvedimenti applicativi di misure cautelari personali, ai fini della decorrenza del termine di “dieci giorni dalla ricezione degli atti” entro il quale, ai sensi dell’art . 311, comma quinto bis, cod . proc . pen . (introdotto dall’art . 13 della legge 16 aprile 2015, n . 47), il giudice del rinvio è tenuto a decidere, nel caso sia stata annullata con rinvio, su ricorso dell’imputato, un’ordinanza che ha disposto o confermato la misura coercitiva ai sensi dell’art . 309, comma nono, cod . proc . pen ., non è sufficiente la mera ricezione della sentenza rescindente, ma occorre anche la ricezione degli atti presentati a norma dell’art . 291, comma primo, cod . proc . pen ., nonché di tutti gli elementi eventualmente sopravvenuti in favore della persona sottoposta alle indagini .” La Corte ha rilevato come l’art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen., abbia natura sanzionatoria rispetto alla “possibile inerzia dell’ufficio giudiziario competente a decidere in sede di riesame - rinvio”. Questa norma è di stretta interpretazione e, dunque, l’espresso e inequivocabile riferimento alla ricezione degli atti non consente di attribuire rilievo, ai fini della decorrenza del nuovo termine per la decisione, alla ricezione da parte del giudice di rinvio della mera sentenza rescindente, “occorrendo nuovamente la ricezione degli atti presentati a norma dell’art . 291, comma 1, cod . proc . pen ., nonché di tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta ad indagini .” Ricorre, dunque, un completo richiamo alla disciplina relativa al giudizio di riesame (art. 309, comma 5, cod. proc. pen. nella sua più ampia estensione e connotazione), che dovrà essere applicata anche al giudizio di riesame a seguito di annullamento con rinvio. Sono stati affermati due diversi principi di diritto: - in primo luogo evidenziando che non è sufficiente una ricezione parziale degli atti (e in particolare la ricezione della sola sentenza rescindente); - in secondo luogo chiarendo che occorre l’effettiva ricezione, secondo la disciplina del giudizio di riesame, di tutti gli atti di cui all’art. 291, comma 1, cod. proc. pen., così come di tutti gli elementi eventualmente sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini. Solo dalla ricezione di tali atti può dunque essere computato il termine di dieci giorni entro il quale deve intervenire la decisione nel nuovo giudizio di riesame.

Lo stesso principio risulta affermato e massimato nell’ambito di Sez. 6, n. 27093 del 01/03/2017, Speranza, Rv. 270410 - 01. Anche in questo caso è stato dichiarato inammissibile il motivo volto a rilevare la violazione dell’art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen., per omessa dichiarazione di inefficacia per intervento della decisione del Tribunale del riesame oltre i dieci giorni dalla ricezione degli atti dalla Corte di cassazione. La sentenza, precedente alla decisione “Battaglia”, richiama la necessità di basare il giudizio non solo sulla sentenza rescindente, ma anche sugli atti presentati a norma dell’art. 291, comma 1, cod. proc. pen. ed eventuali elementi sopravvenuti ex art. 309, comma 5, cod. proc. pen. (nello stesso senso anche Sez. 5, n. 21710 del 28/02/2018, Marciano, Rv. 273026 - 01 in motivazione e Sez. 2, n. 32086 del 15/06/2017, Arena ed ancora Sez. 4, n. 4923 del 21/01/2020, Cacciola, non massimata).

La decisione della Sez. 2, n. 15622 del 18/12/2018, Clarà, Rv. 275774 - 01, rappresenta, poi, sempre nell’ambito del medesimo orientamento, un momento di riflessione e di approfondimento ulteriore rispetto alla questione sollevata. Il collegio ha in questo caso osservato come l’interpretazione da riservare all’espressione “dalla ricezione degli atti” non possa prescindere dalla “natura incidentale” dei giudizi del tribunale della libertà e dal fatto che tale organo “non è titolare del fascicolo processuale e non conserva gli atti di indagine trasmessi dal pubblico ministero o dal giudice delle indagini preliminari ai fini della decisione, non sussistendo alcuna norma che regoli tale permanenza”. Si è, quindi, affermato che, se in effetti non è legittima alcuna dilatazione dei tempi processuali in conseguenza della natura del giudice: “è ineludibile che il riferimento alla ricezione degli atti implichi la necessità che alla trasmissione corrisponda una effettività della decisione sulla base - per lo meno - degli stessi atti di cui il tribunale aveva la disponibilità al momento della decisione impugnata . Tale completezza non è garantita dalla restituzione degli atti da parte del giudice di legittimità”. Ciò perché, ai sensi dell’art. 100 disp. att. cod. proc. pen., oggetto della trasmissione in cassazione non sono tutti gli atti in possesso del tribunale del riesame, bensì gli atti necessari a decidere sull’impugnazione, ovviamente in correlazione al tipo di vizio che può essere oggetto del giudizio di legittimità cautelare, sicché, all’esito dell’annullamento e della restituzione degli atti da parte del giudice di legittimità, il tribunale, di fatto, non risulta essere in possesso neanche della ordinanza genetica, sebbene non possa essere omessa la considerazione che il giudice di riesame, a seguito di rinvio, deve essere messo in condizione di giudicare sulla base di una nuova valutazione dell’intero fascicolo processuale. È stato ritenuto, dunque, incoerente il richiamo effettuato dalla sentenza “Battaglia”, all’art. 623, comma 1, cod. proc. pen., posto che “gli atti trasmessi al giudice di legittimità non corrispondono, per espressa previsione normativa, al fascicolo processuale sul quale il giudice di riesame si era pronunciato”. Inoltre si è affermato che - tenuto conto della natura incidentale dei giudizi del tribunale della libertà e del fatto che tale giudice non è titolare del fascicolo processuale (e non conserva gli atti di indagine trasmessi dal pubblico ministero e dal giudice delle indagini preliminari) - non è riscontrabile alcuna previsione che disciplini e regoli la permanenza del fascicolo in questa sede. Tale impostazione trova la propria base ermeneutica nel ruolo del tribunale della libertà e nella possibilità dello stesso, quale giudice di rinvio, di esercitare gli stessi poteri e applicare criteri di giudizio ordinariamente riferibili al riesame anche a seguito di annullamento con rinvio, cosa che può essere effettivamente realizzata solo sulla base di una piena conoscenza del fascicolo processuale allegato alla richiesta originaria di riesame. La Corte ha osservato che il meccanismo di trasmissione degli atti previsto dall’art. 309, comma 5, cod. proc. pen. risulta compatibile anche con la previsione dell’art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen., considerato che l’innovazione prevista, in relazione ai termini perentori della decisione e del deposito della ordinanza, crea un “perfetto parallelismo” tra i due giudizi di riesame “ordinario” e di riesame a seguito di annullamento con rinvio, con conseguente piena equiparazione del regime del procedimento a seguito di annullamento con rinvio, rispetto al procedimento ordinario, per come disciplinato dall’art. 309 cod. proc. pen.

La disciplina maggiormente restrittiva dei termini di decisione e di deposito della motivazione, ai sensi dell’art. 311, come introdotto all’art. 13 della l. n. 47 del 2015, ha avuto l’effetto di equiparare il regime del procedimento di riesame a seguito di rinvio al procedimento ordinario, ed infatti la modifica dell’art. 311 cod. proc. pen. ha la funzione di disciplinare in tempi stringenti la sequenza procedimentale che consegue all’annullamento con rinvio dell’ordinanza del tribunale del riesame, coerentemente con le previsioni di cui all’art. 13 della Costituzione e dell’art. 5, comma 4 della Conv. EDU. Se, dunque, è palese l’assenza di una disciplina del giudizio di riesame di rinvio nell’ambito dell’art. 311 cod. proc. pen. (che disciplina invece specificamente la fase della decisione e i suoi tempi), e quindi anche la specifica regolamentazione relativa alla ricezione degli atti, occorre fare riferimento alle norme che regolano casi simili o materie analoghe, come previsto dall’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, preliminari al codice civile, “non potendosi ritenere che queste siano affidate alla libera creatività dell’interprete e corrispondendo alla detta procedimentalizzazione evidenti conseguenze in tema di certezza del diritto, effettività della decisione, regolamentazione delle facoltà delle parti”. Secondo il collegio: - mancando un’effettiva disciplina della riassunzione del procedimento; - essendo comune al disposto dell’art. 309 e 311 cod. proc. pen. il riferimento alla ricezione degli atti; - ricorrendo una regolamentazione delle scansioni processuali esclusivamente nell’art. 309 cod. proc. pen., è solo a questa norma che si deve fare riferimento per individuare oneri del Presidente e facoltà delle parti nel nuovo giudizio di rinvio. Ciò si caratterizza come elemento di rigida scansione delle fasi del procedimento e garanzia per le parti, considerato che l’art. 309 cod. proc. pen. “impone il rispetto di termini perentori, procedimentalizzando e sottraendo ad incertezze interpretative la fase della ricezione degli atti di cui garantisce la completezza . Ne consegue che - essendo la ricezione degli atti oggetto di specifica previsione normativa nell’ambito dell’art . 309 cod . proc . pen . - a tale norma dovrà farsi riferimento anche in relazione alle modalità relative, risultando non sorretta da fondamento l’ipotesi di una applicazione solo parziale della norma medesima”.

L’analisi in tal senso avviata, circa il parallelismo nella disciplina del giudizio di riesame, anche a seguito di annullamento con rinvio, risulta confermata da Sez. 2, n. 21716 del 08/03/2019, Giglio, Rv. 275787 - 01, che ha affermato lo stesso principio di diritto, dando così ancora maggiore consistenza ad un orientamento consolidato della Sezione in particolare, e della Corte in generale, quanto all’ ermeneusi della dizione “dalla ricezione degli atti”.

In tal senso il collegio ha sottolineato che: “in ragione della funzione propria del giudice del riesame, chiamato ad intervenire solo su impulso delle parti che intendano sottoporre a controllo il contenuto dei provvedimenti cautelari adottati nel corso del procedimento, il Tribunale non è l’organo che ha costantemente la materiale disponibilità degli atti su cui è chiamato a pronunciarsi, tanto da dover formulare nella fase delle indagini, così come nella fase di giudizio, la richiesta all’autorità che procede affinché siano trasmessi gli atti su cui si fonda il provvedimento cautelare oggetto di impugnazione (atti che, una volta esaurita la fase incidentale con la pronuncia ed il deposito dell’ordinanza del tribunale del riesame, devono essere restituiti alla autorità che li ha trasmessi)”.Si evidenzia, quindi, la particolare natura del giudizio di riesame a seguito di annullamento con rinvio: natura di giudizio pieno, che impone la necessità per il giudice riesaminare l’intero fascicolo per esercitare i medesimi poteri del giudice in sede di riesame “ordinario”. Ne consegue che appare imprescindibile che il Tribunale richieda alla autorità che procede la trasmissione degli atti “indispensabili per assumere la decisione del giudizio di rinvio”.

A propria volta, Sez. 2, n. 31281 del 26/06/2019, Montante, Rv. 276737-01, così massimata: “In tema di misure cautelari personali, nel caso di giudizio di rinvio a seguito di annullamento di ordinanza che abbia disposto o confermato la misura coercitiva ex art. 309, comma 9, cod. proc. pen., il termine di «dieci giorni dalla ricezione degli atti» previsto dall’art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen. decorre dal momento in cui il tribunale riceve “nuovamente” gli atti dall’autorità procedente, ai sensi dell’art. 309, comma 5, cod. proc. pen.” ha affermato un principio di diritto ancora più immediato, che richiama, senza incertezze, la necessaria applicazione anche al giudizio di riesame, a seguito di annullamento con rinvio, delle previsioni ex art. 309 cod. proc. pen., dovendosi ritenere la piena e diretta assimilabilità, in punto di regime procedimentale, tra giudizio di riesame semplice e in sede di rinvio. Nell’affermare questo principio, la Corte sottolinea che il giudice del riesame riceve “nuovamente” gli atti dall’autorità procedente e osserva come proprio questa necessaria considerazione di tutti gli atti rilevanti al fine del decidere nel merito (e non solo degli atti provenienti dal giudizio di legittimità), garantisce il pieno soddisfacimento sia dell’esigenza di celerità sottesa all’introduzione del termine perentorio, che dell’effettiva possibilità di consentire al giudice del rinvio una rivalutazione completa del compendio probatorio a suo tempo sottoposto al tribunale e di eventuali elementi sopravvenuti. Sottolinea la Corte, in particolare, nell’ambito di tale analisi, come la sentenza Clarà abbia correttamente evidenziato la piena compatibilità, con il novellato giudizio di rinvio, del meccanismo di trasmissione degli atti previsto dal comma 5 dell’art. 309 cod. proc. pen., essendovi ormai un “perfetto parallelismo” tra procedimento ordinario di riesame e procedimento di riesame a seguito di annullamento con rinvio, accomunati dal termine perentorio di dieci giorni per la decisione e di trenta giorni per il deposito dell’ordinanza (prorogabile sino a 45 giorni esclusivamente nel procedimento ordinario). Il collegio, nell’aderire all’orientamento maggioritario, fornisce delle ulteriori precisazioni circa l’ermeneusi della dizione “dalla ricezione degli atti”. In via preliminare evidenzia come il richiamo da parte del ricorrente alle Sez. U. “Rezmuves” non appaia conferente con il tema oggetto di decisione. Si tratta, infatti, a parere del collegio, della decisione di una questione del tutto diversa, poiché non si tratta di accedere o meno ad interpretazioni estensive o analogiche di una disposizione limitativa della libertà personale. Il quesito proposto presenta infatti “connotazioni del tutto differenti”. Osserva la Seconda sezione che solo la locuzione “dalla ricezione degli atti” rappresenta oggetto di analisi, e solo su questo tema si articola il percorso ermeneutico della Corte, al fine di individuare senza incertezze il dies a quo per la decorrenza del termine per il deposito della decisione.

Il punto di partenza, dunque, è considerare che anche in materia di riesame il giudice del rinvio è chiamato a compiere un nuovo completo esame del materiale probatorio, con i medesimi poteri che aveva il giudice la cui sentenza è stata annullata, “salve le sole limitazioni previste dalla legge consistenti nel non ripetere il percorso logico già censurato, spettandogli il compito esclusivo di ricostruire i dati di fatto risultanti dalle emergenze processuali e di apprezzare il significato e valore delle relative fonti di prova”. Se così è, a parere della Corte, la corretta attività di giudizio posta in essere dal giudice del riesame, a seguito di annullamento con rinvio, non può prescindere dalla questione relativa alla “tempestiva ricostituzione”, nell’ambito del fascicolo da esaminare in sede di rinvio, “del compendio probatorio che a suo tempo (ovvero al momento della decisione annullata) era stato messo a disposizione del giudice del riesame .” Il collegio chiarisce in tale ambito che, nella ricerca di una ricostruzione sistematica, è necessario tener conto del fatto che: “il legislatore del 2015 è intervenuto unicamente sul segmento conclusivo del procedimento di rinvio (introducendo termini perentori per la decisione e per il successivo deposito della motivazione), senza fornire alcuna indicazione circa le scansioni procedimentali che precedono la decisione”. Occorre, dunque, avere sempre ben presente l’esigenza sistematica nello svolgimento del giudizio di riesame a seguito di annullamento con rinvio, al fine di una conoscenza e cognizione completa, anche rispettosa dei diritti delle parti e della garanzia di un pieno contraddittorio, sicché i dieci giorni a disposizione del giudice per la decisione “non possono che decorrere dal momento in cui quel giudice è posto nelle condizioni - quanto meno - di rivalutare compiutamente il materiale su cui si era fondata la decisione annullata dalla Suprema Corte (oltre che, ovviamente, le eventuali sopravvenienze derivanti dal prosieguo dell’attività investigativa o difensiva)”. La necessità di una “cognizione piena” del giudice in sede di rinvio si scontra, a parere del collegio, con la ricostruzione della sentenza “Battaglia” che esplicitamente riconosce come la Corte di cassazione di norma non riceva tutti gli atti, proprio perché è il codice di rito, come evidenziato in altre decisioni, a considerare la trasmissione solo parziale degli atti, tenuto conto delle caratteristiche del giudizio di legittimità. La trasmissione parziale degli atti alla Corte di cassazione, con conseguente restituzione degli stessi a seguito di annullamento con rinvio, rappresenta dunque un’evenienza fisiologica.

In tal senso non può non tenersi conto della distanza tra le due previsioni dell’art. 309, comma 5, cod. proc. pen. (che disciplina il giudizio di riesame e la relativa base cognitiva, mediante la trasmissione degli atti presentati a norma dell’art. 291, comma 1, cod. proc. pen., ovvero degli atti posti a fondamento della richiesta di misura cautelare, nonché di tutti gli altri atti sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini) e dell’art. 100 disp. att. cod. proc. pen. (che prevede la trasmissione dei soli atti necessari per decidere sulla impugnazione in sede di legittimità). E se, pur tuttavia, può essere possibile una trasmissione alla Corte dell’intero fascicolo, questa circostanza non rappresenta la normalità, ma una mera possibilità.

Nell’ambito di un’ulteriore riflessione, la Seconda sezione ha sottolineato come appare difficile sostenere una formazione, eventualmente progressiva del fascicolo, nell’ambito del termine di dieci giorni, soprattutto perché tale termine deve essere considerato uno spatium deliberandi, a disposizione del giudice per assumere la sua decisione, che postula, anche solo da un punto di vista logico, la necessità per lo stesso di avere una piena disponibilità del fascicolo. Ancora la Corte, andando oltre le riflessioni degli arresti precedenti, si interroga sulla sequenza procedimentale da seguire, anche rispetto ai diritti delle parti alla convocazione delle stesse al fine di un pieno esercizio del diritto di difesa, così come previsto dall’art. 309, comma 8, cod. proc. pen. (nei tre giorni liberi che intercorrono tra la notifica dell’avviso e l’udienza camerale, i difensori hanno facoltà di esaminare ed eventualmente estrarre copia degli atti, che fino al giorno dell’udienza rimarranno depositati in cancelleria).

Se, effettivamente, occorre garantire anche le parti, e non solo una piena cognizione del giudice, le considerazioni svolte, impongono, a parere della Corte, che il procedimento di riesame debba necessariamente “ripartire dalle scansioni delineate dal comma 5 dell’art . 309: al momento della ritrasmissione degli atti da parte della Suprema Corte, il Presidente cura che sia dato immediato avviso all’autorità procedente, tenuta ad una tempestiva (nuova) trasmissione di quanto a suo tempo già inviato, nonché delle eventuali sopravvenienze favorevoli”. Ne consegue che il dies a quo per la decorrenza del termine di dieci giorni per la decisione, di cui al comma 5-bis del art. 311 cod. proc. pen. deve essere “individuato nel momento in cui il tribunale riceve “nuovamente” gli atti dell’autorità procedente: fermo restando che, nell’ipotesi, non fisiologica, in cui il tribunale abbia trattenuto gli atti durante il giudizio di legittimità, l’autorità procedente potrà limitarsi a trasmettere le sopravvenienze, ovvero, in mancanza di queste, a richiamare gli estremi del precedente invio”. Viene sottolineato come la nuova trasmissione degli atti non trovi ostacolo nella lettera e formulazione della legge, e se, effettivamente, la disposizione appare riferita alla presentazione di una richiesta di riesame, tuttavia, è anche vero che: “nella totale assenza di interventi legislativi sulle scansioni procedimentali del giudizio di rinvio precedenti la fase decisoria, e di soluzioni alternative praticabili, nulla vieta che la disposizione possa essere applicata per garantire una corretta “ripartenza” del procedimento di riesame in sede di rinvio, dopo la restituzione degli atti da parte della Corte di cassazione”. Si giunge a tale conclusione, quindi, senza necessità di realizzare o fare ricorso ad una interpretazione analogica, ma sulla base di diverse considerazioni di ordine sistematico. Infatti, a seguito della novella legislativa del 2015, che ha introdotto il termine perentorio per la decisione in sede di rinvio “senza minimamente occuparsi delle fasi precedenti la decisione medesima, si deve ormai certamente escludere che queste ultime possano essere regolate secondo lo schema generale dettato dall’art . 127 cod . proc . pen . (avviso alle parti notificato almeno dieci giorni prima dell’udienza, possibilità di depositare memorie fino a cinque giorni prima etc)”. Questo punto della motivazione rappresenta un’evoluzione interpretativa delle precedenti decisioni, proprio perché si chiarisce che: “l’introduzione di quel termine ha avuto l’effetto di ricollocare il procedimento di riesame in sede di rinvio all’interno della sua sede naturale, quanto alla disciplina applicabile: non solo quella volta a costituire il contraddittorio e a regolare le produzioni delle parti, ma anche, ed anzi prima ancora, quella finalizzata all’acquisizione, in tempi certi e celeri, del materiale a suo tempo posto a disposizione del tribunale, in vista della sua rivalutazione da parte del giudice di rinvio e di una decisione che, proprio come nel riesame ordinario, deve intervenire entro dieci giorni dalla ricezione degli atti a pena di perdita di efficacia della misura”. La Corte ha anche fornito una rilevante precisazione in ordine alla sanzione di inefficacia per la mancata trasmissione degli atti entro cinque giorni, chiarendo che, secondo l’interpretazione sia della Corte costituzionale (con la sentenza n. 232 del 1998) che della Corte di cassazione (Sez. 3., n. 3045 del 17/11/1998, Liccardo, Rv. 212204), tale inefficacia ricorre non solo qualora l’autorità procedente non si sia attivata dopo aver ricevuto l’avviso, ma anche nell’ipotesi in cui il presidente del tribunale non abbia curato che la predetta autorità fosse immediatamente avvisata. Vale, dunque, anche per l’autorità procedente, una rigida cadenza temporale, pena l’inefficacia della misura, sicché è da escludere qualsiasi timore in ordine ad un’eccessiva protrazione del tempo di decisione in attesa degli atti da parte della autorità procedente. Il disposto dell’art. 309, comma 5, cod. proc. pen. è da considerare applicabile sia quanto alla sequenza procedimentale, che quanto all’inefficacia della misura in caso di omesso invio della documentazione. Secondo la Corte, infatti, “tutte le norme che regolano il procedimento di riesame, non derogate dalla novella” devono trovare diretta applicazione anche nel giudizio di rinvio, e d’altra parte la stessa sentenza “Battaglia” individua come strumento per produrre le sopravvenienze l’art. 309, comma 9, e non può allo stesso modo essere messa in dubbio l’operatività del comma 8, quanto al contradditorio, così come del comma 5 per la ricostituzione del fascicolo sul quale decidere, poiché è ormai certamente “impraticabile il ricorso alle disposizioni generali di cui al comma 1 dell’art . 127 cod . proc . pen .” Anche Sez. 2, n. 37585 del 18/12/2018, Giglio, Rv. 277082-01 si allinea all’orientamento maggioritario e afferma la necessaria identificazione della decorrenza dal termine solo nel momento della ricezione degli atti presentati ai sensi dell’art. 291, comma 1, cod. proc. pen. e di eventuali elementi sopravvenuti in favore della persona sottoposta alle indagini.

La decisione presenta caratteri di novità rispetto ai precedenti riferibili all’orientamento maggioritario, è che questa sentenza contesta il collegamento ripetutamente riportato sia dalla sentenza “Battaglia”, che dalle difese in sede di ricorso, con la decisione delle Sez. U. Rezmuves. Si chiarisce come una ricostruzione di questo genere prescinde del tutto dalla natura meramente incidentale del giudizio di riesame e, prima ancora, della valutazione del giudice per le indagini preliminari, per definizione “giudice dell’atto” e non giudice del processo, natura inevitabilmente mutuata anche dal giudice dell’impugnazione cautelare. Da ciò consegue che la vera sequenza procedimentale, che disciplina tale procedimento, prevede la formulazione e richiesta all’autorità che procede affinché siano trasmessi gli atti sui quali si fonda il provvedimento cautelare oggetto d’impugnazione, atti che, una volta esaurita la fase incidentale con il deposito dell’ordinanza del tribunale del riesame, vanno restituiti all’autorità che li ha trasmessi. È stato, dunque, ritenuto “inconferente il richiamo al divieto di interpretazione analogica o estensiva delle norme poste a tutela della libertà personale di cui alla Sez . U . Rezmuves, in quanto il problema è, invece, quello di chiarire la portata interpretativa della norma in esame, introdotta esclusivamente al fine di accelerare i tempi della decisione sulla richiesta di riesame anche in sede di rinvio .” Afferma in conclusione la Corte, richiamando le medesime affermazioni della sentenza “Montante”, che “deve, pertanto, ritenersi che ogni decisione del tribunale del riesame, anche quella conseguente all’annullamento con rinvio da parte di questa Corte di cassazione, sia sottoposta alle scansioni delineate dal comma 5 dell’art . 309 e che, quindi, a seguito della “ritrasmissione” degli atti da parte della Suprema Corte, il Presidente debba curare che sia dato immediato avviso all’autorità procedente”. Il termine per il dies a quo deve dunque essere individuato in relazione al momento in cui il tribunale del riesame riceve “nuovamente” gli atti dalla autorità procedente. Il principio è stato poi da ultimo riaffermato con la sentenza D’Agata (Sez. 2, n. 42329 del 09/07/2019, D’Agata, Rv. 277634 - 01), dove ancor più si è sottolineato come il meccanismo delineato, e dunque la piena applicabilità dell’art. 309 cod. proc. pen. al giudizio di riesame a seguito di annullamento con rinvio, valga a conciliare l’esigenza di celerità sottesa all’introduzione del termine perentorio con la possibilità di consentire al giudice del rinvio una rivalutazione completa del compendio probatorio a suo tempo sottoposto al tribunale.

5. La decisione delle Sezioni Unite.

Tenuto conto delle descritte premesse, le Sez. U. hanno preliminarmente chiarito che il contrasto verte non tanto sull’individuazione del momento di decorrenza del termine per la decisione di riesame in fase di rinvio, che rappresenta in realtà un aspetto consequenziale, quanto sul profilo che attiene propriamente “alla configurazione della sequenza procedurale del particolare giudizio di rinvio di cui si discute”. L’analisi conseguente si è incentrata sulla necessità di stabilire se di tale sequenza, introdotta senza dubbio dall’arrivo presso il tribunale della sentenza rescindente e degli altri atti del fascicolo trasmesso dalla Corte di cassazione, “costituisca o meno passaggio necessario l’avviso all’autorità procedente per l’invio degli atti, evidentemente ulteriore rispetto a quello già formulato nel primo grado del procedimento incidentale cautelare ai sensi dell’art . 309, comma 5, c .p .p .; e pertanto, se si possa concludere che la decorrenza del termine di cui sopra abbia inizio solo con la ricezione degli atti trasmessi a seguito di detto avviso”.

L’art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen. non contiene, infatti, alcun riferimento ad una nuova richiesta di atti, limitandosi a prescrivere che la decisione del giudice intervenga entro dieci giorni dalla ricezione degli atti, e la sua formulazione letterale è di fatto compatibile con entrambe le letture proposte.

L’argomento richiamato dalla sezione rimettente, quanto alla continuità testuale ravvisabile nell’art. 623, comma 1, lett. a), è ritenuto non risolutivo perché troppo generico, attesa la diversa estensione delle materie rispettivamente disciplinate dalle due disposizioni (l’art. 623 cod. proc. pen. riferito in generale agli effetti dell’annullamento in cassazione delle ordinanze, mentre l’art. 311 riguarda la più delimitata fattispecie del giudizio di rinvio, a seguito di annullamento, nella procedura di riesame dei provvedimenti cautelari).

Nella considerazione delle Sez. U. emerge, dunque, come centrale momento di analisi la considerazione della necessità o meno, al fine del corretto svolgimento del giudizio di rinvio nel procedimento di riesame, di una nuova richiesta di atti all’autorità procedente, in “conseguenza di un implicito richiamo alla previsione posta in tal senso dall’art . 309, comma 5, cod . proc . pen . per il giudizio ordinario”.

La considerazione relativa all’introduzione del comma 5-bis dell’art. 311 cod. proc. pen. solo con l’art. 13 della l. n. 47 del 2015 rappresenta nella decisione delle Sez. U. un primo momento di riflessione: infatti, in precedenza questa fase era priva di una disciplina specifica, sicché era evidente come “tale fase non potesse che ritenersi regolata dalle disposizioni previste dall’art . 309 per l’ordinario giudizio di riesame”.

Le Sez. U hanno evidenziato che la stessa giurisprudenza di legittimità ha richiamato, in diverse occasioni, tali disposizioni, con particolare riferimento alla possibilità di valutare in sede di rinvio elementi sopravvenuti rispetto alla decisione di annullamento (Sez. 6, n. 51684 del 28/11/2014, De Micco, Rv. 261452 - 01, Sez. 4, n. 33659 del 19/05/2010, Calò, Rv. 248344 - 01).

Si è così sottolineato che la funzione tipica della previsione di cui all’art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen. deve essere considerata in relazione alla volontà del legislatore di regolare la sola fase di “conclusione” del giudizio di rinvio, ovvero quella della decisione, mediante indicazione della dimensione e della perentorietà dei termini per la pronunzia della decisione e per il deposito della motivazione.

Dunque, poiché precedentemente il giudizio di rinvio trovava ordinaria disciplina nella previsione dell’art. 309 cod. proc. pen., si è osservato che, per poter considerare tale normativa del tutto inoperante, a seguito della novella del 2015, quest’ultima avrebbe dovuto sovrapporre una previsione disciplinante in termini altrettanto generali la fase del rinvio; tuttavia, la semplice lettura della norma esclude la possibilità di ravvisare una tale conclusione, tanto che la delimitazione del contenuto della norma è stata immediatamente colta dalla giurisprudenza di legittimità formatasi sulla stessa, che ne ha rilevato la natura essenzialmente sanzionatoria quanto alla possibile inerzia dell’ufficio giudiziario competente a decidere il riesame in sede di rinvio (Sez. 2, n. 15695 del 08/01/2016, Lombardo, Rv. 266729). Ne consegue che “con riguardo a tutti i precedenti passaggi procedurali della fase in discussione la stessa deve ritenersi tuttora ordinata secondo le disposizioni dell’art . 309”. Le Sez. U. ritengono tale conclusione conforme alla disciplina del procedimento incidentale cautelare nel suo complesso, considerato che le decisioni di tale fase sono “necessariamente condizionate dallo stato degli atti” e dai dati di fatto che in quei momenti sono disponibili, “soggetti di per sé a progressive modificazioni in una situazione nella quale il procedimento si svolge parallelamente alla fase delle indagini preliminari”, condizioni che non vengono meno nel corso del giudizio di rinvio.

Dunque, pur in presenza del generale dovere del giudice del rinvio di uniformarsi al principio di diritto stabilito con la sentenza rescindente, non ricorrono preclusioni quanto all’esame di circostanze sopravvenute, idonee ad incidere sul quadro cautelare (analogamente anche le decisioni in tema di efficacia preclusiva della decisione definitiva emessa sull’appello del pubblico ministero, che hanno chiarito che si tratta di un’efficacia rebus sic stantisbus, superabile in presenza di nuove acquisizioni probatorie, che determinino un mutamento della situazione di fatto sulla quale la decisione era fondata, Sez. U., n. 18339 del 31/03/2004, Donelli, Rv. 227359 - 01).

La possibilità di valutare nel giudizio di rinvio elementi sopravvenuti, purché introdotti nel contraddittorio delle parti, sempre che la valutazione sia condotta in conformità al principio di diritto posto con la sentenza di annullamento, è stata ribadita da anche da decisioni ulteriori rispetto alle sentenze Di Micco e Calò (Sez. 2, n. 22015 del 13/02/2019, Ricucci, Rv. 276652 - 01, Sez. 2, n. 53645 del 08/09/2016, Lucà, Rv. 268978 - 01, Sez. 2, n. 8854 del 09/02/2016, Vescovi, Rv. 266100 - 01), in coerenza con l’orientamento assunto in tema di effetto preclusivo del c.d. “giudicato cautelare” derivante dalla precedente decisione di riesame, considerato anch’esso come limitato allo stato degli atti e non ostativo all’esame di elementi nuovi che modifichino il quadro cautelare (Sez. 2, n. 49188 del 09/09/2015, Masone, Rv. 26555 -01, Sez. 5, n. 1241 del 02/10/2014, Femia, Rv. 261724 -01).

La Corte ha, quindi, considerato che, nel procedimento di impugnazione in materia cautelare, il giudizio di rinvio è condotto in base agli stessi criteri valutativi propri del giudizio ordinario, che presuppongono “un pieno esame del materiale probatorio disponibile al momento in cui il giudizio si svolge”, in aderenza alla situazione di fatto, come è nella natura di tale procedimento.

Viene, conseguentemente, ritenuto conforme a logica giuridica che lo svolgimento del giudizio di rinvio sia caratterizzato dalla stessa sequenza prevista per il giudizio ordinario dall’art. 309 cod. proc. pen.

L’avviso all’autorità procedente, secondo l’asse portante della decisione, è parte integrante di tale sequenza, così che possano essere trasmessi al tribunale gli atti posti a sostegno della richiesta di applicazione della misura cautelare, nonché gli atti eventualmente sopravvenuti a favore della persona sottoposta ad indagini e tale passaggio procedurale deve essere seguito anche nel giudizio di rinvio.

Le Sez. U. segnalano infatti che la “ricezione di questi atti segna anche in sede di rinvio, come previsto dal comma 10 dell’art. 309 per il giudizio ordinario, la decorrenza del termine per la decisione; e che è pertanto a questa ricezione, e non a quella degli atti trasmessi dalla Corte di cassazione, che il comma 5-bis dell’art. 311 fa riferimento in tal senso”. Tale conclusione si giustifica considerando che la decorrenza di un termine è correlata alla disponibilità di atti che consentano di assumere la decisione, rappresentativi all’attualità dello stato delle indagini, e, dunque, non identificabili con gli atti trasmessi dalla Corte di cassazione, individuati ai sensi dell’art. 100 delle disp. att. cod. proc. pen. solo ed esclusivamente in quanto necessari a decidere sull’impugnazione, tenendo conto delle peculiarità del giudizio di legittimità cautelare.

Le Sezioni Unite hanno, quindi, risolto il quesito posto in termini conformi all’orientamento maggioritario: “nel senso della decorrenza di detti termini al momento in cui pervengono al Tribunale gli atti nuovamente richiesti all’autorità giudiziaria che procede, secondo la sequenza procedurale prevista dall’art. 309 cod. proc. pen. per l’ordinario giudizio di riesame e con le sanzioni processuali ivi previste”.

È stato poi affrontato il secondo quesito richiamato dall’ordinanza di rimessione della Sesta sezione relativo all’individuazione della cancelleria alla quale riferire l’inizio della decorrenza dei termini a seguito della ricezione degli atti, chiarendo che la questione, alla luce della soluzione del precedente quesito, viene a porsi in una prospettiva diversa, considerato che la ricezione degli atti dalla Corte di cassazione non determina la decorrenza dei termini per la decisione in sede di rinvio, ma rappresenta invece un presupposto necessario per i passaggi successivi. La ricezione degli atti introduttivi della procedura di riesame (richiesta di riesame per la procedura ordinaria e gli atti inviati dalla Corte di cassazione per quella di rinvio) ha come effetto immediato - una volta rilevata la necessità, anche in sede di rinvio, dell’avviso all’autorità procedente per la trasmissione degli atti - l’inizio della decorrenza del termine di cinque giorni previsto dall’art. 309, comma 5, perché gli atti pervengano al tribunale.

In tal senso, viene richiamata la copiosa giurisprudenza che, superando un precedente orientamento (Sez. U. n. 10 del 25/03/1998, Ravino, Rv. 210804), ha individuato il momento iniziale di decorrenza del termine nella presentazione della richiesta di riesame e non nel successivo recepimento, da parte dell’autorità procedente dell’avviso di detta presentazione emesso dal presidente del tribunale (Sez. U., n. 25 del 16/12/1988, Alagni, Rv. 212073 a seguito della decisione della Corte costituzionale n. 232 del 1998).

La ratio della disciplina in questione è, dunque, da identificare nella volontà di evitare che il decorso di termini perentori, stabiliti dalla norma, risulti affidato a scelte di organi giudiziari, senza essere vincolato da tassative scadenze temporali. Ne consegue un’indicazione di carattere generale per cui il procedimento di impugnazione in materia cautelare, incidendo sul valore della libertà personale, impone una rapida trattazione, con esclusione di intervalli temporali non controllabili e non funzionali alle esigenze giudiziarie.

Occorre che la sequenza procedurale sia caratterizzata da cadenze temporali certe, al fine di giungere ad una sollecita definizione.

Si è difatti evidenziato che: “il transito degli atti dalla cancelleria centrale del tribunale, ove gli stessi siano pervenuti, alla cancelleria della sezione del riesame, costituisce per l’appunto uno dei passaggi burocratici interni all’ufficio giudiziario i cui tempi di espletamento non possono prolungare la sequenza del procedimento di impugnazione in materia cautelare”.

Il giudizio di rinvio si deve quindi svolgere seguendo le stesse cadenze temporali e con le stesse sanzioni processuali previste dall’art. 309, commi 5 e 10, cod. proc. pen., con inizio di decorrenza dei relativi termini dal momento in cui gli atti trasmessi dalla Corte di cassazione pervengono alla cancelleria del tribunale.

6. Conclusioni.

Sono di particolare rilevanza alcuni aspetti sottesi al ragionamento delle Sezioni Unite nella decisione in esame: la chiara affermazione che anche il giudizio di rinvio è condotto in base agli stessi criteri valutativi propri del giudizio ordinario, che presuppongono “un pieno esame del materiale probatorio disponibile al momento in cui il giudizio si svolge”, in aderenza alla situazione di fatto, come è nella natura di tale procedimento; la conformità a logica giuridica del fatto che lo svolgimento del giudizio di rinvio sia caratterizzato dalla stessa sequenza prevista per il giudizio ordinario dall’art. 309 c.p.p.; la considerazione inequivoca circa la valutazione dell’avviso all’autorità procedente come parte integrante di tale sequenza, così che possano essere trasmessi al tribunale gli atti posti a sostegno della richiesta di applicazione della misura cautelare, nonché gli atti eventualmente sopravvenuti a favore della persona sottoposta ad indagini, sicché tale passaggio procedurale deve essere seguito anche nel giudizio di rinvio; la precisazione che la ricezione di questi atti segna anche in sede di rinvio, come previsto dal comma 10 dell’art. 309 per il giudizio ordinario, la decorrenza del termine per la decisione; la chiara indicazione secondo la quale deve pertanto essere riferita a questa ricezione, e non a quella degli atti trasmessi dalla Corte di cassazione, la decorrenza del termine per la decisione, correlata alla disponibilità di atti che consentano di assumere la decisione, rappresentativi all’attualità dello stato delle indagini, dunque, non identificabili con gli atti trasmessi dalla Corte di cassazione. Infine, occorre ricordare come le Sez. U. abbiano chiarito in modo esplicito che la ricezione degli atti dalla Corte di cassazione non determina la decorrenza dei termini per la decisione in sede di rinvio, ma rappresenta invece un presupposto necessario per i passaggi successivi. Passaggi successivi che saranno disciplinati appunto secondo la previsione e le scansioni, con conseguenti sanzioni, di cui all’art. 309 cod. proc. pen.

Quanto alla cancelleria alla quale riferire l’inizio del procedimento, occorre considerare come l’opzione ermeneutica prescelta dalle Sez. U. trovi il proprio fondamento in una chiara considerazione della volontà del legislatore, nell’ambito del rispetto del diritto di difesa dell’indagato, del fine di evitare che il decorso di termini perentori, stabiliti dalla norma, risulti affidato a scelte di organi giudiziari, senza essere vincolato da tassative scadenze temporali. In tal senso, il transito degli atti dalla cancelleria centrale del tribunale, ove gli stessi siano pervenuti, alla cancelleria della sezione del riesame, è definito come uno dei passaggi burocratici interni all’ufficio giudiziario i cui tempi di espletamento non possono prolungare la sequenza del procedimento di impugnazione in materia cautelare, soprattutto attesa la delicatezza della materia cautelare in sé. La scelta delle Sez. U. supera quindi un orientamento, ritenuto consolidato, (Sez. 1, n. 42473 del 17/03/2016, Stabile, Rv. 268103-01), che aveva affermato che nell’ipotesi in cui la Cassazione annulli per un nuovo esame l’ordinanza che ha disposto o confermato una misura coercitiva, il termine di dieci giorni, entro cui, ai sensi dell’art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen., il giudice del rinvio ha l’obbligo di decidere, decorre dalla ricezione degli atti da parte della cancelleria della sezione competente per il riesame e non dal momento in cui gli atti pervengono alla cancelleria centrale del tribunale. Tale decisione aveva, comunque, richiamato la ratio di tale complesso sistema, nel senso di impedire l’assunzione di decisioni afferenti la libertà personale in modo non rapido, anche in occasione dell’annullamento di ordinanza da parte della Corte di cassazione, senza che ci si assuma il rischio di far gravare sull’indagato lentezze o ritardi burocratici. Tuttavia, si era ritenuto che una tale ratio non dovesse consentire di trascurare la necessità di un’interpretazione delle norme ragionevole e aderente alla realtà sostanziale operativa (la quale ultima implica, necessariamente, tempi tecnici di realizzazione degli adempimenti previsti dalla norma), così da non incidere sui tempi tecnici necessari allo smistamento del materiale trasmesso dalla Corte di cassazione per condizionare così, ancor più, “un termine, già molto stringato, di dieci giorni (entro cui l’A.G. procedente dovrà controllare gli atti da inviare e trasmetterli alla sezione del riesame)”. In termini analoghi, più recentemente, si era pronunciata anche la sentenza “Battaglia” (Sez. I, n. 23707 del 29/01/2018, Battaglia, Rv. 273114 - 01), che aveva affermato che nell’ipotesi in cui la Cassazione annulli per un nuovo esame l’ordinanza che ha disposto o confermato una misura coercitiva, il termine di dieci giorni, entro cui, ai sensi dell’art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen., il giudice del rinvio ha l’obbligo di decidere, decorre dalla data in cui il fascicolo relativo al ricorso per cassazione, comprendente la sentenza rescindente, perviene alla cancelleria della sezione del tribunale competente per il riesame.

Le Sez. U hanno superato tale orientamento chiarendo, in applicazione dei principi sopra richiamati, come un adempimento burocratico non possa condizionare la sequenza procedimentale in esame e non possa, conseguentemente, tradursi in un sostanziale peso a carico della persona sottoposta a misura cautelare, dovendo essere garantito che tempi di espletamento e la sequenza del procedimento di impugnazione in materia cautelare non rappresenti di fatto un elemento non controllabile nei suoi tempi e cadenze.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U., n. 25 del 16/12/1988, Alagni, Rv. 212073-01 Sez. U. n. 10 del 25/03/1998, Ravino, Rv. 210804-01 Sez. 4, n. 2295 del 07/07/1998, Caruso, Rv. 211845-01 Sez. 2, n. 6636 del 06/11/1998, Sofia, Rv.211965-01

Sez. 3, n. 3045 del 17/11/1998, Liccardo, Rv. 212204 -01

Sez. 1, n. 243 del 11/01/1999, Fiorenti, Rv. 212572-01 Sez.1, n. 2925 del 12/04/1999, Caputo, Rv. 213384-01 Sez. 3, n. 2756 del 26/08/1999, Diana, Rv. 214789-01,

Sez. U., n. 18339 del 31/03/2004, Donelli, Rv. 227359-01 Sez. 4, n. 2909 del 20/12/2005, Pristeri, Rv. 232886-01

Sez. 3, n. 4113 del 17/12/2007, Tanase, Rv. 239242-01

Sez. 4, n. 5087 del 26/01/2010, Laci, Rv. 246650-01

Sez. 4, n. 33659 del 19/05/2010, Calò, Rv. 248344-01

Sez. 3, n. 4417 del 17/12/2010, Jahaj, Rv. 246014-01

Sez. F, n. 38037 del 28/08/2014, Basile Rv. 261188-01 Sez. 5, n.7706 del 16/10/2014, Chessa, Rv. 262835-01 Sez. 2, n. 47427 del 07/11/2014, Pigionati, Rv. 260963-01 Sez. 6, n. 51684 del 28/11/2014, De Micco, Rv. 261452-01

Sez. 2, n. 21683 del 22/05/2015, Mennella, Rv. 264361-01

Sez. 2, n. 15695 del 08/01/2016, Lombardo, Rv. 266729-01

Sez. 2, n. 8854 del 09/02/2016, Vescovi, Rv. 266100-01

Sez. 1, n. 42473 del 17/03/2016, Stabile, Rv. 268103-01

Sez. 2, n. 53645 del 08/09/2016, Lucà, Rv. 268978-01

Sez. 5, n. 535 del 24/10/2016, Asmarandei, Rv. 268942-01 Sez. 3, n.48584 del 17/11/2016, Cacciatore, Rv.268192-01 Sez. 6, n. 27093 del 01/03/2017, Speranza, Rv. 270410-01

Sez. 2, n. 31314 del 16/05/2017, P., Rv. 270702-01

Sez. 2, n. 32086 del 15/06/2017, Arena

Sez. 3, n. 34794 del 19/05/2017, F. e altri, Rv. 271345-01 Sez. 6, n. 35217 del 18/07/2017, C., Rv. 270912-01,

Sez. U, n. 47970 del 20/07/2017, Rezmuves, Rv. 270953-01 Sez. 6, n. 50760 del 26/09/2017, Delli Castelli, Rv. 271510-01 Sez. 4, n. 21056 del 23/01/2018, D’Angelo, Rv. 272740-01

Sez. 1, 1904 del 16/11/2017, Deriù, Rv. 272049-01

Sez. 3, n. 11930 del 31/01/2018, Mungelli, Rv. 272302-01

Sez. 1, n. 23707 del 29/01/2018, Battaglia, Rv. 273114-01

Sez. 5, n. 21710 del 28/02/2018, Marciano, Rv. 273026-01

Sez. 5, n. 48911 del 01/10/2018, N., Rv. 274160-01

Sez. 5, n. 55886 del 02/10/2018, Giustini, Rv. 274603-01

Sez. 2, n. 26100 del 19/10/2018, Fracassi, Rv. 276107-01

Sez. 2, n. 37585 del 18/12/2018, Giglio, Rv. 277082- 01

Sez. 2, n. 15622 del 18/12/2018, Clarà, Rv. 275774-01

Sez. 2, n. 21683 del 15/01/2019, Ferrara, Rv. 277014-01

Sez. 2, n. 22015 del 13/02/2019, Ricucci, Rv. 276652-01,

Sez. 2, n. 21716 del 08/03/2019, Giglio, Rv. 275787-01

Sez. 1, n. 26877 del 20/03/2019, Antille, Rv. 267915-01

Sez. 6, n. 32391 del 22/05/2019, Rugnetta, Rv. 276476-01

Sez. 4, n. 39675 del 23/04/2019, Lyadi, Rv. 277577-01

Sez. 2, n. 31281 del 26/06/2019, Montante, Rv. 276737-01 Sez. 2, n. 37811 del 26/06/2019, Di Donato, Rv. 277088-01 Sez. 2, n. 42329 del 09/07/2019, D’Agata, Rv. 277634-01

Sez. 4, n. 4923 del 21/01/2020, Cacciola Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., n. 232 del 1998

  • procedura penale
  • carcerazione
  • arresto

CAPITOLO IV

IL CRITERIO DI COMPUTO DELLA RETRODATAZIONE DELLE MISURE CAUTELARI.

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite. - 2 La tesi favorevole al computo per fasi omogenee. - 3 La tesi favorevole al computo dell’intero periodo di custodia cautelare. - 4 La soluzione recepita dalle Sezioni Unite. - 5 L’interpretazione della norma alla luce della giurisprudenza costituzionale. - 6 Retrodatazione e procedimenti pendenti dinanzi a diverse autorità. - 7 La rilevabilità d’ufficio della carenza dei presupposti per la retrodatazione. - Indice delle sentenze citate.

1. La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite.

La disciplina della retrodatazione delle misure cautelari, dettata dall’art.297, comma 3, cod.proc.pen., costituisce una tematica da sempre contraddistinta da una particolare complessità, sia sotto il profilo prettamente teorico, che con riguardo all’individuazione dei casi e dei modi di applicazione. Di ciò ne sono prova i plurimi contrasti giurisprudenziali che hanno reso necessario, nel corso del tempo, l’intervento a più riprese delle Sezioni Unite e della Corte costituzionale, le cui pronunce hanno plasmato l’istituto.

In linea generale, le problematiche connesse all’istituto in esame riguardano due aspetti ben distinti: il primo concernente l’individuazione dei presupposti in presenza dei quali la retrodatazione opera, il secondo - direttamente afferente alla questione in oggetto - relativo alle modalità di computo da seguire per pervenire al risultato della retrodatazione della misura cautelare adottata per seconda, rispetto ad un primo provvedimento restrittivo concernente il medesimo reato, ovvero reati avvinti dalla connessione o per i quali i presupposti cautelari erano già desumibili in base agli atti acquisiti.

La “retrodatazione”, pertanto, va valutata nell’an e nel quomodo, ma l’art.297, comma 3, cod. proc.pen. si limita essenzialmente a disciplinare espressamente il solo primo profilo, atteso che la norma, dopo aver indicato i casi in cui va anticipato il termine iniziale della misura cautelare, non spiega anche il procedimento logico-giuridico da seguire nel compiere tale operazione.

Proprio l’individuazione del criterio di calcolo della retrodatazione è stato oggetto del quesito rimesso all’esame delle Sezioni unite, in ordine al «se, in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, di cui all’art.297, comma 3, cod.proc.pen., deve essere effettuata frazionando la durata globale della custodia cautelare ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee».

La questione si poneva come potenzialmente dirimente nel caso sottoposto all’esame della sezione rimettente, nel quale l’indagato era stato attinto da due ordinanze di custodia cautelare, emesse da due autorità giudiziarie diverse, ma con riguardo a due reati per i quali si riteneva sussistente il presupposto della connessione qualificata richiesto dall’art.297, comma 3, cod.proc.pen.

Osservava la sezione rimettente che, ove la retrodatazione consenta il computo dei soli termini di fase omogenei, nel caso di specie l’indagato non avrebbe conseguito la rimessione in libertà, in quanto i due procedimenti si trovavano l’uno in fase di indagine e l’altro in fase di giudizio.

Viceversa, se fosse stato computabile l’intera durata della misura cautelare adottata per prima e relativa al procedimento pendente in fase di giudizio, ne sarebbe conseguita la dichiarazione di inefficacia della seconda misura, per decorrenza dei termini massimi.

2. La tesi favorevole al computo per fasi omogenee.

Procedendo ad esaminare i termini del contrasto giurisprudenziale, occorre necessariamente prendere le mosse dalla tesi maggioritaria, secondo la quale la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, ai sensi dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., andrebbe eseguita frazionando la durata globale della custodia cautelare relativa all’ordinanza adottata per prima ed imputando alla seconda solo i periodi relativi a fasi omogenee, in tal modo pervenendosi al computo dei termini di fase ed alla conseguente valutazione circa l’avvenuto decorso del termine stesso (Sez.F, n.47581 del 21/08/2014, Di Lauro, Rv.262362; conf.: Sez.6, n.15736 del 06/02/2013, Guacho Carpio, Rv.257204; Sez.6, n.50761 del 12/11/2014, Nespolino, Rv.261700).

Tali pronunce, sia pur con motivazioni in gran parte fondate solo sulla forza dei precedenti conformi, sottolineano concordemente la circostanza per cui i termini di durata delle misure cautelari si articolano essenzialmente in base ad una ripartizione per fasi procedimentali e, quindi, non sarebbe consentito cumulare periodi di custodia afferenti a fasi disomogenee.

Argomentando in tal senso, si sostiene che, qualora l’ordinanza cautelare adottata per prima e quella successiva si collocano in fasi procedimentali diversi, la retrodatazione della seconda ordinanza andrebbe necessariamente eseguita sommando al periodo di custodia già subito dall’indagato, anche la custodia eseguita nella sola fase delle indagini preliminari con riferimento all’ordinanza adottata per prima.

Tale sistema di calcolo, definito anche come modalità “a scomputo” (Sez.6, n.15736 del 06/02/2013, Guacho Carpio, Rv.257204), implicherebbe che per verificare l’avvenuta scadenza del termine di fase relativo alla misura adottata per seconda, occorrerebbe in primo luogo calcolare la durata della custodia cautelare subita nelle diverse fasi relativamente al primo procedimento; a tale periodo andrebbe, successivamente, sommato il tempo di detenzione subito in relazione alla seconda misura cautelare, per poi verificare se - sommando i due periodi e prendendo come termine iniziale la data di esecuzione della prima misura - risulti o meno superato il termine di fase.

In tal senso si sono espresse, oltre alle sentenze sopra richiamate, anche altre pronunce della Corte che, in termini sostanzialmente sovrapponibili e senza sviluppare autonome argomentazioni sul punto, hanno recepito la tesi del computo per fasi omogenee dei periodi di custodia cautelare rilevanti ai fini della retrodatazione delle misure cautelari (si vedano, in particolare, Sez.4, n.15125 del 14/01/2008, Di Stefano, n.m.; Sez.2, n.29552 del 16/06/2015, Baldan, n.m.; Sez.4, 30502 del 06/07/2015, Centi, n.m.; Sez.1, n.8232 del 19/01/2016, Grazioso, n.m.; Sez.6, n.10174 del 10/02/2016, Lamanna, n.m.; Sez.4, n.16653 del 24/03/2016, Vishkurt, n.m.).

3. La tesi favorevole al computo dell’intero periodo di custodia cautelare.

A fronte dell’orientamento maggioritario sopra esaminato, alcune più recenti pronunce hanno recepito una diversa soluzione per il computo dei termini di durata delle misure cautelari in conseguenza dell’applicazione della retrodatazione.

La prima sentenza ad aver espressamente preso posizione in senso difforme rispetto al criterio del computo dei termini per fasi omogenee è quella pronunciata da Sez.6, n.3058 del 28/12/2016 (dep.23/01/2017), Golia, Rv.269285, in base alla quale «in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, di cui all’art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., non deve essere effettuata frazionando la globale durata della custodia cautelare ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee».

In motivazione, la pronuncia in esame ha ampiamente dato conto delle ragioni del recepimento della soluzione maggiormente favorevole al contenimento del termine di durata della misura cautelare oggetto della “retrodatazione”, sottolineando come l’istituto vada letto alla stregua dei principi, più volte ribaditi anche dalla Corte costituzionale (sent. n.233 del 2011 e sent. n.293 del 2013).

In tali pronunce, si è precisato che la “retrodatazione” mira ad evitare, in perfetta aderenza con i valori di certezza e di durata minima della custodia cautelare, che la rigorosa predeterminazione dei termini di durata massima delle misure cautelari possa essere elusa tramite la diluizione nel tempo di più provvedimenti restrittivi nei confronti della stessa persona, con il conseguente impedimento al contemporaneo decorso dei termini relativi a plurimi titoli custodiali nei confronti del medesimo soggetto. Mediante il ritardo nell’adozione della seconda ordinanza cautelare ed in assenza del correttivo previsto dall’art.297, comma 3, cod.proc.pen., si determinerebbe l’indebita espansione della restrizione complessiva della libertà personale dell’imputato, tramite il «cumulo materiale» - totale o parziale - dei periodi custodiali afferenti a ciascun reato, effetto che non si verificherebbe invece, qualora l’indagato, pur versando nella medesima situazione sostanziale, venisse invece raggiunto da provvedimenti cautelari coevi.

In buona sostanza, la finalità della retrodatazione consiste nel riallineare fattispecie cautelari, che, pur dovendo nascere in un unico contesto temporale, si sono sviluppate in tempi successivi, diluendo i termini di durata della compressione della libertà personale.

Sostiene la sesta sezione che, se la finalità dell’istituto è il riallineamento tra provvedimenti aventi una data iniziale di esecuzione diversa, il risultato non sarebbe ottenuto ove si procedesse solo alla sommatoria dei termini decorsi in fasi omogenee, con l’effetto che il periodo di custodia cautelare maturato nella fase delle indagini preliminari per la seconda misura potrebbe cumularsi soltanto a quello trascorso nella medesima fase per la prima misura.

In tal modo, intatti, la “saldatura” tra i due titoli custodiali verrebbe a determinare la sola possibilità per l’indagato di recuperare il termine di fase già sfruttato per il titolo più risalente, senza che ciò rappresenti un sufficiente limite al fenomeno delle contestazioni a catena. Difatti, mediante frazionati passaggi di fase dei procedimenti, si consentirebbe di prolungare la durata della seconda misura cautelare oltre i limiti derivanti dalla puntuale applicazione dell’istituto della retrodatazione, proprio perché non si otterrebbe il medesimo risultato finale - in termini di durata delle misure cautelari - che sarebbe conseguito all’adozione congiunta dei due titoli custodiali.

In senso analogo si è espressa anche Sez.4, n.36088 del 6/06/2017, Gerbaj, Rv.270759, condividendo il principio per cui solo computato l’intera durata della custodia cautelare disposta per prima e prescindendo, quindi, dal frazionamento per fasi omogenee, si realizza l’effettiva retrodatazione del termine di efficacia relativo alla seconda misura cautelare. Le medesime argomentazioni sono poste a fondamento di Sez.6, n.20305 del 30/03/2017, Sulka, n.m., secondo cui il frazionamento dei passaggi di fase dei procedimenti ed il conseguente computo della retrodatazione per sommatorie dei termini relativi a fasi omogenee, vanificherebbe la fondamentale garanzia sottesa alla regola della retrodatazione, individuabile nella necessità di concentrare in un unico contesto temporale le vicende cautelari, destinate a dar luogo a simultanei titoli custodiali.

Nella suddetta pronuncia, la Cassazione ha evidenziato come «il mero scomputo del solo presofferto per la fase omogenea non sia idoneo a realizzare la garanzia prevista dal legislatore, in quanto non risolutivo della premessa secondo cui, libero il pubblico ministero di seguire le proprie scelte procedimentali in ordine alla separazione dei relativi procedimenti penali, queste non possano andare a detrimento del diritto fondamentale di libertà della persona sottoposta alle indagini, la cui tutela può essere garantita solo con la correlazione del periodo di retrodatazione all’entità complessiva della custodia, e non alla fruizione di termini di fase omogenei».

4. La soluzione recepita dalle Sezioni Unite.

Il descritto contrasto giurisprudenziale è stato risolto da Sez.U., n.23166 del 28/05/2020, Mazzitelli, Rv.279347-01 secondo cui «La retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, di cui all’art. 297, comma 3, cod.proc.pen., deve essere effettuata computando l’intera durata della custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee», recependo l’orientamento che in precedenza risulta essere minoritario.

A tale conclusione le Sezioni unite sono giunte partendo dal dato letterale contenuto all’art.297, comma 3, cod.proc.pen., lì dove afferma che, in presenza delle condizioni ivi descritte, “i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave” senza che venga in alcun modo indicata la necessità di procedere a ulteriori calcoli finalizzati alla sommatoria dei periodi di custodia cautelare subiti in riferimento a ciascuna misura cautelare, nè è imposta alcuna preclusione circa l’imputazione di periodi di custodia relativi a fasi processuali diverse. Tantomeno essa prevede o suggerisce che la retrodatazione debba operare secondo modalità analoghe allo scomputo dalla pena detentiva del periodo di custodia cautelare presofferto.

Al contrario, la citata norma descrive un meccanismo basato sull’anticipazione, mediante una fictio iuris, del termine iniziale di durata della seconda misura.

Sottolineano le Sezioni Unite come l’art.297, comma 3, cod.proc.pen. delinea un sistema che si sostanzia nella mera sostituzione del termine iniziale di durata della misura adottata per ultima, sicchè per calcolare il relativo termine di fase sarà sufficiente far riferimento al dies a quo della prima misura. Il che non comporta una sommatoria dei periodi di custodia afferenti alle due misure e non richiede una loro distinta considerazione a seconda delle fasi processuali in cui la conseguente privazione di libertà si è prodotta.

In quest’ottica, è stato affermato che la retrodatazione consiste nel “riallineamento” tra misure cautelari che, pur dovendo essere coeve, sono state separatamente adottate, ovvero in uno “slittamento all’indietro” della data di esecuzione del provvedimento cautelare successivo fino alla data di esecuzione di quello iniziale.

5. L’interpretazione della norma alla luce della giurisprudenza costituzionale.

Accanto alla valorizzazione del dato letterale e della funzione propria dell’istituto della retrodatazione, le Sezioni Unite hanno sottolineato come l’interpretazione che impone il computo dei termini anche se relativi a fasi disomogenee è l’unica conforme ai principi elaborati dalla Corte costituzionale.

L’istituto della retrodatazione, infatti, rappresenta una forma di garanzia avverso l’indebita dilatazione dei termini di custodia cautelare, ragion per cui già con la sentenza n.89 del 1996, la Corte costituzionale segnalava l’esigenza da impedire “la diluizione dei termini in ragione dell’episodico concatenarsi di più fattispecie cautelari”, sottolineando come la retrodatazione risponde alla avvertita esigenza di configurare limiti obiettivi e ineludibili alla durata dei provvedimenti che incidono sulla libertà personale e ciò con particolare riferimento alla fase delle indagini preliminari, la quale, per essere affidata alle iniziative investigative del pubblico ministero, mal si presta a controlli successivi sul sempre opinabile terreno della tempestività delle relative acquisizioni.

Principi analoghi e complementari sono stati recepiti anche da Corte cost., sent.n.408 del 2005, lì dove si è segnalata la necessità di impedire che i titolari del potere cautelare possono esercitarlo in maniera tale da incidere sulla fondamentale garanzia del limite di durata della custodia.

Le Sezioni unite, infine, hanno richiamato l’attenzione sulla sentenza n.233 del 2011 della Corte costituzionale, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.297, comma 3, nella parte in cui non prevede che la retrodatazione operi anche qualora, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura.

In tale pronuncia, la Consulta non ha preso espressa posizione in relazione al quesito attualmente sottoposto all’esame delle Sezioni unite, tuttavia, i profili di interferenza tra le problematiche sono evidenti: nel momento in cui si estende la retrodatazione anche ai casi di misure cautelari relative a procedimenti definiti, ne consegue che almeno una parte del periodo di custodia relativo alla prima misura possa essere stato subito in fase di giudizio e, quindi, in un momento procedimentale diverso rispetto a quello in cui si trova la misura cautelare adottata per seconda (addirittura dopo il passaggio in giudicato della sentenza relativa alla prima ordinanza cautelare).

Il ragionamento seguito dalla Consulta prende spunto dalla constatazione per cui il nucleo di disvalore del fenomeno delle “contestazioni a catena” risiede nell’impedimento del contemporaneo decorso dei termini relativi a plurimi titoli custodiali nei confronti del medesimo soggetto.

In mancanza dell’effetto correttivo della “retrodatazione”, infatti, il ritardo nell’adozione della seconda ordinanza cautelare ha l’effetto di espandere la restrizione complessiva della libertà personale dell’imputato, tramite il “cumulo materiale” dei periodi custodiali afferenti a ciascun reato. Ciò, col risultato di porre l’interessato in situazione deteriore rispetto a chi, versando nella medesima situazione sostanziale, venga invece raggiunto da provvedimenti cautelari coevi, e di rendere, al tempo stesso, aggirabile la predeterminazione legale dei termini di durata massima delle misure, imposta dall’art. 13, quinto comma, Cost.

Partendo da tale assunto, sottolinea la Corte costituzionale come non si possa individuare nella «“coesistenza” tra le misure cautelari rappresenti, sul piano logico-giuridico, un presupposto necessario affinché si producano le conseguenze lesive che il meccanismo della retrodatazione tende a scongiurare. Il vulnus arrecato ai principi costituzionali che presiedono alla disciplina della libertà personale dell’imputato è, anzi, maggiore allorché la seconda ordinanza cautelare intervenga dopo che la prima, per qualunque ragione, ha cessato di produrre i suoi effetti. Il prolungamento della restrizione della libertà personale risulta, infatti, massimo allorché il secondo titolo - anziché sovrapporsi, per un periodo più o meno lungo, al primo, confluendo, così, almeno in parte, in un unico “periodo custodiale” - sia adottato quando il precedente ha già esaurito completamente le sue potenzialità, con conseguente cumulo integrale dei due periodi di privazione della libertà personale. Altrettanto evidente è l’irrilevanza, sotto il profilo considerato, dello iato temporale che eventualmente intercorra tra la cessazione degli effetti della prima misura e l’applicazione della seconda. Per quanto ampio, esso non elide la circostanza che a un periodo di custodia cautelare - magari interamente patito per scadenza del termine finale - se ne sommi successivamente un altro che - alla luce della regola legale di retrodatazione - non sarebbe dovuto affatto iniziare o, comunque, avrebbe avuto una durata inferiore a quella consentita dai normali criteri di computo. Unica conseguenza della mancanza di continuità tra le misure è l’assolutamente ovvia impossibilità di tenere conto del periodo nel quale il soggetto è tornato in libertà, nella verifica della scadenza dei termini della custodia».

Le osservazioni sopra richiamate, pur con i dovuti adeguamenti, sono state ritenute dirimenti anche nella risoluzione del quesito concernente la possibilità di computare i termini relativi a fasi non omogenee.

Se la finalità della retrodatazione è quella di elidere qualsivoglia possibilità di incidere sulla diversificazione della durata di misure cautelari che, pur potendo essere coeve, vengono applicate in momenti diversi, risulta fin troppo evidente che il meccanismo del computo per fasi omogenee legittima un uso strumentale del “passaggio di fase” per impedire gli effetti della retrodatazione.

Mediante la calibrata adozione della seconda misura cautelare in prossimità del passaggio di fase relativo al procedimento nel quale è stata emessa la prima misura cautelare (e per la quale sia decorso un periodo custodiale ridotto), si farebbe in modo di far operare termini di fase non omogenei e, quindi, non cumulabili, prolungando la durata della misura cautelare adottata per ultima.

Le Sezioni Unite hanno aggiunto che la sentenza della Corte cost., n.233 del 2011 appare di rilevante interesse proprio perchè afferma la compatibilità tra l’istituto della retrodatazione e il computo, previsto dall’art.657 cod.proc.pen., comma 1, della custodia cautelare subita per la prima misura ai fini della determinazione della pena detentiva da eseguire in conseguenza del passaggio in giudicato, anteriormente all’adozione del secondo provvedimento cautelare, della relativa sentenza. Nel riferirsi alla decisione delle Sezioni Unite che aveva ritenuto la retrodatazione incompatibile col meccanismo di imputazione del presofferto cautelare alla pena detentiva da espiare (Sez. U, n. 20780 del 23/4/2009, Iaccarino, Rv. 243322), la Corte costituzionale ha infatti escluso che la “coesistenza tra le misure cautelari rappresenti, sul piano logico-giuridico, un presupposto necessario affinchè si producano le conseguenze lesive che il meccanismo della retrodatazione tende a scongiurare”.

Osservano le Sezioni Unite che, essendo stata riconosciuta l’operatività della retrodatazione in riferimento a periodi di custodia cautelare suscettibili di essere scomputati - ai sensi dell’art.657 cod.proc.pen. - dalla pena detentiva da eseguire, a maggior ragione la retrodatazione deve operare rispetto a periodi di custodia cautelare che, pur relativi a fasi procedimentali diverse, si collocano tutti a monte del giudicato.

6. Retrodatazione e procedimenti pendenti dinanzi a diverse autorità.

Il ricorso portato all’attenzione delle Sezioni unite, oltre a comportare la risoluzione del conflitto di giurisprudenza, ha rappresentato anche l’occasione per tornare sull’individuazione dei presupposti della retrodatazione nel caso di ordinanze emesse in procedimenti penali pendenti dinanzi ad autorità giudiziarie diverse.

L’ipotesi fisiologica contemplata dall’art.273, cod.proc.pen., riguarda, invero, il caso in cui la scissione delle iniziative cautelari sia frutto della scelta compiuta nell’ambito del medesimo procedimento, lì dove il pubblico ministero - parcellizzando le richieste cautelari - può indebitamente determinare il prolungamento dei termini di custodia.

Diversa è l’ipotesi in cui i procedimenti in cui cui vengono emesse le ordinanze cautelari, per le quali si chiede la retrodatazione, pendono dinanzi ad autorità distinte, lì dove la scissione dei tempi delle richieste cautelari è un dato del tutto normale, posto che ciascun pubblico ministero potrà scegliere se e quando richiedere l’applicazione della misura.

In simili ipotesi, l’art.273, comma 3, cod.proc.pen. consente il riconoscimento della retrodatazione solo a condizione che, tra i procedimenti pendenti dinanzi a distinte autorità giudiziarie, sussista una connessione qualificata.

Il principio è stato ribadito da Sez.U., n.23166 del 28/05/2020, Mazzitelli, Rv.279347-02, secondo cui «In tema di pluralità di misure cautelari emesse in procedimenti pendenti dinanzi a uffici giudiziari diversi, la retrodatazione del termine di durata può riconoscersi esclusivamente qualora, tra i fatti oggetto dei due provvedimenti cautelari, sussista una delle ipotesi di connessione qualificata previste dall’art.297, comma 3, cod. proc. pen., consistente nel concorso formale di reati, nel reato continuato o nella connessione teleologica, limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri».

In motivazione, la Corte ha chiaramente delineato il regime della contestazione a catena a seconda della pendenza del procedimento dinanzi al medesimo ufficio o ad uffici diversi. Si è ribadito, infatti, che «in tema di “contestazione a catena”, quando nei confronti di un imputato sono emesse in procedimenti diversi più ordinanze cautelari per fatti diversi in relazione ai quali esiste una connessione qualificata, la retrodatazione prevista dall’art.297 c.p.p., comma 3, opera per i fatti desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stata emessa la prima ordinanza. Nel caso in cui le ordinanze cautelari adottate in procedimenti diversi riguardino invece fatti tra i quali non sussiste la suddetta connessione e gli elementi giustificativi della seconda erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della prima, i termini della seconda ordinanza decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima, solo se i due procedimenti sono in corso davanti alla stessa autorità giudiziaria e la loro separazione può essere frutto di una scelta del pubblico ministero, sicchè la regola della retrodatazione concerne normalmente misure adottate nello stesso procedimento e può applicarsi a misure disposte in un procedimento diverso solo nelle ipotesi testè indicate (Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, dep. 2007, Librato, Rv. 235909; Sez. U, n. 21957 del 22/03/2005, Rahulia, Rv. 231058)».

7. La rilevabilità d’ufficio della carenza dei presupposti per la retrodatazione.

Le Sezioni unite, dopo aver richiamato i presupposti per il riconoscimento della retrodatazione, hanno rilevato d’ufficio, ai sensi dell’art.609, comma 2, prima parte, cod.proc.pen., la nullità dell’ordinanza emessa dal tribunale del riesame in quanto priva di motivazione.

La Corte, infatti, ha evidenziato come nel caso di specie mancava una reale valutazione dell’esistenza del requisito della connessione qualificata tra i procedimenti, in quanto il tribunale del riesame si era limitato a dar atto che tra i diversi procedimenti sussisteva una “connessione soggettiva”, dipendente dalla mera circostanza che il medesimo indagato aveva commesso una pluralità di reati in concorso con diversi compartecipi.

La mera reiterazione di plurime condotte della stessa natura, sia pur in un contesto parzialmente connotato dalla ricorrenza dei medesimi correi, non rientra nei casi di connessione qualificata tassativamente richiamati dall’art.297, comma 3, cod.proc.pen.

Osservano le Sezioni unite come la motivazione che si limiti alla mera dichiarazione dell’esistenza del presupposto della connessione, peraltro senza neppure inquadrarla in uno dei casi previsti dall’art.273, cod.proc.pen., bensì qualificandola - in maniera atecnica - come “soggettiva”, si traduce in una motivazione meramente apparente.

A ciò occorre aggiungere che la medesima carenza motivazionale è stata riscontrata anche con riguardo all’ulteriore presupposto della retrodatazione, costituito dalla “desumibilità dagli atti” del primo procedimento, al momento del rinvio a giudizio, degli elementi per l’emissione della seconda ordinanza cautelare (Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, dep. 2007, Librato, Rv. 235909; Sez. U, n. 21957 del 22/03/2005, Rahulia, Rv. 231058).

Sulla base di tali premesse, le Sezioni unite hanno ritenuto che «pur graficamente presente, la motivazione del provvedimento in esame circa la effettiva sussistenza dei presupposti della disposta retrodatazione si sostanzia, dunque, in argomentazioni generiche, astratte e non riferite a ben individuati elementi normativi, probatori e processuali. Essa non assolve in alcun modo la sua necessaria funzione di illustrazione della decisione adottata, nè in punto di ritenuta esistenza di una connessione qualificata rilevante tra i procedimenti, nè in ordine alla effettiva desumibilità dagli atti del primo procedimento, al momento del rinvio a giudizio, degli elementi per l’emissione della seconda ordinanza cautelare.

Si è dunque in presenza di un vizio della motivazione così radicale da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante e privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e, come tale, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692; Sez. U, n. 25933 del 29/05/2008, Malgioglio, n. m. sul punto). Ciò configura la violazione della norma di cui all’art.125 c.p.p., comma 3, che prescrive la motivazione delle sentenze e delle ordinanze a pena di nullità e determina un vizio di legittimità del provvedimento, rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art.609 c.p.p., comma 2, prima parte».

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di Cassazione

Sez.U., n.23166 del 28/05/2020, Mazzitelli, Rv.279347 Sez.6, n.20305 del 30/03/2017, Sulka

Sez.4, n.36088 del 6/06/2017, Gerbaj, Rv.270759

Sez.6, n.3058 del 28/12/2016, dep. 2017, Golia, Rv.269285 Sez.4, n.16653 del 24/03/2016, Vishkurt

Sez.6, n.10174 del 10/02/2016, Lamanna Sez.1, n.8232 del 19/01/2016, Grazioso Sez.4, 30502 del 06/07/2015, Centi Sez.2, n.29552 del 16/06/2015, Baldan

Sez.6, n.50761 del 12/11/2014, Nespolino, Rv.261700 Sez.F, n.47581 del 21/08/2014, Di Lauro, Rv.262362

Sez.6, n.15736 del 06/02/2013, Guacho Carpio, Rv.257204 Sez. U, n. 20780 del 23/4/2009, Iaccarino, Rv. 243322 Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692

Sez. U, n. 25933 del 29/05/2008, Malgioglio, Rv. 239700 Sez.4, n.15125 del 14/01/2008, Di Stefano

Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, dep. 2007, Librato, Rv. 235909 Sez. U, n. 21957 del 22/03/2005, Rahulia, Rv. 231058

Sentenze della Corte Costituzionale Corte cost., sent. n.233 del 2011 Corte cost., sent. n.408 del 2005 Corte cost., sent. n.89 del 1996

  • procedura penale
  • detenuto
  • udienza giudiziaria

CAPITOLO V

LE SEZIONI UNITE SUL DIRITTO DI PARTECIPAZIONE DEL DETENUTO ALL’UDIENZA CAMERALE DI RIESAME.

(di Anna Mauro )

Sommario

1 La questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite. - 2 I punti essenziali del contrasto. - 3 La decisione delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citata.

1. La questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite.

Con un’articolata ordinanza, Sez. 5, n. 43406 del 13/9/2019, Ramondo, investiva il Primo Presidente affinché volesse valutare la rimessione degli atti alle Sezioni Unite sulla que- stione, oggetto di conflitto in giurisprudenza, così cristallizzata nella formulazione dell’Uf- ficio del Massimario: «Se, nel procedimento di riesame avverso provvedimenti impositivi di misure cautelari personali, il soggetto sottoposto alla misura, che intenda esercitare il diritto di comparire personalmente all’udienza camerale ai sensi dell’art. 309, comma 8 bis, cod. proc. pen., debba formularne istanza nella richiesta di riesame, oppure possa presentare la richiesta anche non contestualmente ad essa, ma comunque in tempo utile per consentire di organizzare la tempestiva traduzione ai fini del regolare svolgimento del processo».

La Quinta Sezione evidenziava il contrasto interpretativo riscontrabile nella giurispru- denza della Corte di cassazione in ordine alle modalità di esercizio del diritto di partecipa- zione all’udienza di riesame della persona sottoposta a restrizione della libertà personale con riferimento al limite temporale della relativa richiesta e sulla portata da attribuirsi alle disposizioni di cui ai commi 6 e 8 bis dell’art. 309 cod. proc. pen. a seguito della riforma intervenuta con l. 16 aprile 2015, n. 47 in materia di misure cautelari personali.

2. I punti essenziali del contrasto.

Secondo un primo e più risalente orientamento, la partecipazione personale del sog- getto gravato da misura privativa o limitativa della libertà è subordinata ad una specifica istanza da formularsi esclusivamente con la richiesta di riesame, personalmente o anche, non trattandosi di un diritto personale, a mezzo del difensore che abbia presentato il gra- vame (Sez. 5, n. 34181 del 26/06/2019, Basso, Rv. 276904-01; Sez. 1, n. 30714 del 10/5/2019,

Rinella, Rv. 276607-01; Sez. 1, n. 5673 dell’8/1/2019, Burgio; Sez. 5, n. 10398 del 10/10/2018, dep. 2019, Cardo; Sez. 2, n. 12854 del 15/1/2018, Mirenda, Rv. 272467-01; Sez. 6, n. 54048 del 3/10/2017, Paladino, Rv. 271574-01; Sez. 1, n. 49284 del 17/3/2016, Grande Aracri; Sez. 2, n. 13707 dell’11/3/2016, Ciarfaglia, Rv. 266519-01; Sez. 4, n. 12998 del 23/2/2016, Griner, Rv. 266296-01; Sez. 1, n. 49882 del 6/10/2015, Pernagallo, Rv. 265546-01). Per tali decisioni, l’obbligo per l’interessato, che intenda comparire personalmente, di formulare istanza espressa, contestuale alla richiesta di riesame, trova innanzitutto il suo fondamento nell’interpretazione letterale e sistematica del nuovo dato normativo e ciò in quanto l’ultima parte del comma 8-bis dell’art. 309 cod. proc. pen. subordina il diritto a comparire perso- nalmente alla presentazione di un’istanza «ai sensi del comma 6» e, quindi, contestualmente alla richiesta di riesame, posto che nella prima parte di tale comma si legge «con la richiesta di riesame possono essere enunciati anche i motivi e l’imputato può chiedere di comparire personalmente».

Tali decisioni, tutte, pervengono poi alla conclusione che, a seguito della novella del 2015, non sono più applicabili le disposizioni di cui agli artt. 127, comma 3, cod. proc. pen. e 101 disp. att. cod. proc. pen. che prevedono il diritto dell’interessato, detenuto o internato fuori dal circondario, di essere sentito dal magistrato di sorveglianza.

In conclusione, quindi, per tale opzione interpretativa, la disciplina introdotta con la legge n. 47/2015 ha riordinato la materia riconoscendo un diritto di partecipazione uguale per ciascun interessato, indagato o imputato che sia, senza differenze legate al luogo di detenzione e ha risolto ogni questione sulla tempestività o meno dell’istanza di partecipa- zione affermando che quest’ultima, coerentemente con l’interpretazione letterale del com- binato disposto di cui ai commi 8-bis e 6 dell’art. 309 cod. proc. pen., deve essere veicolata con la richiesta di riesame del provvedimento cautelare anche al fine di evitare soluzioni differenziate sulla base di una nozione, molto discrezionale, di tempestività della domanda.

Secondo altro orientamento, sostenuto da Sez. 6, n. 24894 del 7/3/2019, La Scala, Rv. 275887-01. Sez. 6, n. 21779 del 22/3/2019, Spina, Rv. 275674; Sez. 2, n. 36160 del 3/4/201. Giordano, Rv. 270683, “il diritto della persona sottoposta a restrizione della libertà di parte- cipare all’udienza non è sottoposto a limitazioni o decadenze, purché la relativa richiesta, qualora avanzata in epoca successiva all’atto introduttivo dell’incidente cautelare, pervenga in tempo utile per organizzare la tempestiva traduzione, dovendo altrimenti essere disattesa con adeguata motivazione.” Per tale orientamento, quindi, non è necessaria la presenta- zione dell’istanza contestualmente alla richiesta di riesame occorrendo esclusivamente che essa venga formulata tempestivamente in modo da permettere, ad un tempo, la traduzione in udienza e il regolare e ordinato svolgimento, senza interruzioni, del procedimento di riesame.

Partendo dalla considerazione che la novella del 2015 abbia inteso rafforzare il diritto dell’interessato a comparire personalmente all’udienza di riesame – così superando il sistema precedente che riconosceva siffatto diritto, con riferimento ai detenuti, solo a quelli dislocati nell’ambito della circoscrizione del tribunale del riesame – nelle sentenze riportate si afferma che il richiamo operato dal comma 8-bis dell’art. 309 cod. proc. pen. alla richiesta di riesame formulata ai sensi del comma 6, che potrebbe indurre prima facie a ritenere che l’istanza e la richiesta debbano essere contestuali, non è, in realtà, vincolante e ciò sia sulla base del dato letterale, in quanto nel comma 6 viene adoperato il predicato verbale “può” in luogo di “deve”, sia in considerazione del fatto che il legislatore non ha fornito alcuna indicazione certa sui tempi e sulle forme della richiesta di presenziare e non ha previsto alcuna sanzione processuale per il caso che la richiesta non venga presentata contestual- mente all’istanza di riesame.

La formula verbale utilizzata dal legislatore della novella al primo periodo del citato comma – «l’imputato può chiedere di comparire personalmente» – è la medesima di quella, non toccata dalla riforma, utilizzata nella prima parte del medesimo periodo – «con la richiesta di riesame possono essere enunciati anche i motivi» – e ciò sarebbe indicativo della sua volontà di evitare la rigida fissazione di un limite temporale predefinito poiché altrimenti sarebbe stata più appropriata la scelta della locuzione “entro” o la forma verbale “deve” avente “chiara funzione predicativa della connotazione di obbligatorietà dell’atto”. Del resto, se è vero come è vero, che a norma dell’art. 12 delle preleggi, «nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse», si osserva che appare illogico e scorretto, dal punto di vista semantico, attribuire un significato diverso all’identico predicato verbale utilizzato nel medesimo periodo della frase. Per di più, per tale orientamento giurispruden- ziale, siffatta interpretazione non svuota di significato il comma 8-bis «L’imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6 ha diritto a comparire personalmente» in quanto con tale disposizione il legislatore ha inteso sia esplicitare e rafforzare il diritto dell’inte- ressato, che ne abbia fatto richiesta, di assistere direttamente all’udienza di riesame, sia dirimere qualunque incertezza sulla natura giuridica dell’interesse del soggetto in vinculis a partecipare personalmente all’udienza riaffermandone la natura di diritto pieno.

In tale comma, quindi, il legislatore chiarisce e rimarca la sussistenza del diritto fon- damentale di difesa del soggetto nei cui confronti è stata disposta una misura cautelare che, per l’orientamento giurisprudenziale di che trattasi, non può in alcun modo recedere rispetto alle esigenze di tipo organizzativo della pubblica amministrazione. In ogni caso, si avverte, non possono però soccombere le esigenze di celerità del procedimento e la richie- sta, dunque, dovrà essere proposta comunque in tempo utile per consentire la traduzione del ricorrente e, ove l’autorità giudiziaria dovesse ritenere non soddisfatta tale condizione, dovrà rigettare l’istanza, motivando, però, adeguatamente sul punto.

L’istanza di partecipazione all’udienza, quindi, potrebbe essere formulata sino all’atto di ricezione dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale dinanzi al tribunale e, comunque, in tempo utile per organizzare la traduzione senza pregiudicare, anche nell’interesse della stessa persona in vinculis, la celerità del procedimento e un pronto controllo sulla “legalità” della detenzione.

3. La decisione delle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite con la sentenza n. 11803 del 9/4/2020, Ramondo, Rv. 278491-01 hanno affermato il seguente principio di diritto: “Nel procedimento di riesame avverso provvedimenti impositivi di misure cautelari coercitive, la persona detenuta o internata, ovvero sottoposta a misura in concreto limitativa della possibilità di partecipare all’udienza camerale, può esercitare il diritto di comparire personalmente a quest’ultima solo se ne abbia fatto richiesta, anche per il tramite del difensore, con l’istanza di riesame, ferma restando la facoltà di chiedere di essere sentita su specifici temi con l’istanza di differimento ai sensi dell’art. 309, comma 9-bis cod. proc. pen.”

La Corte precisa innanzitutto che la disciplina sull’esercizio del diritto di comparizione dinanzi al giudice del riesame trova applicazione nei confronti dell’imputato detenuto o internato o sottoposto a misura coercitiva in quanto, al di fuori di tali casi, non può ipotiz- zarsi, in quanto estranea al sistema, alcuna limitazione alle modalità di esercizio del diritto di difendersi partecipando in udienza.

Così delimitata la portata della questione controversa, la Corte afferma, mostrando di aderire al primo dei contrapposti orientamenti, che il soggetto sottoposto a misura restrittiva della libertà personale può chiedere di comparire all’udienza del riesame solo con il rela- tivo atto di impugnazione, ma che può anche chiedere, a norma del comma 9-bis dell’art. 309 cod. proc. pen., il differimento dell’udienza al fine di essere sentito su temi specifici.

Il percorso argomentativo seguito dal Massimo Collegio nella soluzione del quesito rimessogli prende le mosse dall’esame delle disposizioni introdotte in materia dalla l. 16 aprile 2015, n. 47.

Tale legge, successiva a numerosi e frammentari interventi legislativi, finalizzata ad ottemperare in modo sistematico alle censure della giurisprudenza europea e ai moniti della Corte costituzionale, ha apportato, per quanto qui di interesse, notevoli modifiche all’art. 309 cod. proc. pen. dettato in tema di riesame delle ordinanze che dispongono una misura cautelare coercitiva, riesame che, per effetto della riforma, ha acquistato un nuovo ruolo e una nuova valenza essendo divenuto più garantito, rispetto al passato, il procedi- mento dinanzi al giudice del riesame.

Prima della novella, la materia della partecipazione dell’interessato all’udienza di rie- same era regolata dall’art. 309, comma 8, cod. proc. pen. che fa rinvio all’art. 127 dello stesso codice il quale disciplina il procedimento camerale a partecipazione non necessaria; secondo tale schema procedimentale, l’interessato ha diritto ad essere sentito se compare, mentre, se detenuto o internato in un luogo posto al di fuori della circoscrizione e ne fa richiesta, ha diritto di essere sentito dal magistrato di sorveglianza del luogo prima dell’u- dienza camerale.

Per effetto della riformulazione del comma 6 dell’art. 309 cod. proc. pen., il diritto del detenuto a presenziare all’udienza si è sicuramente rafforzato in quanto l’art. 11, comma 1, della legge n. 47 ha aggiunto alla precedente formulazione: «Con la richiesta di riesame … l’imputato può chiedere di comparire personalmente»; a tale previsione si accompagna poi quella del novellato comma 8-bis (in precedenza dedicato solo alla legittimazione del pubblico ministero richiedente la misura a partecipare all’udienza camerale) secondo cui «L’imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6 ha diritto di comparire per- sonalmente». A seguito di siffatte previsioni, dunque, ove il soggetto sottoposto a misura abbia chiesto di comparire personalmente, il tribunale avrà l’obbligo di assicurarne la pre- senza senza poter distinguere tra soggetti detenuti all’interno del distretto o al di fuori di esso, dovendo tutti essere sempre tradotti, salvo i casi in cui ricorrano, a norma dell’art. 45-bis disp. att. cod. proc. pen., i presupposti per la partecipazione a distanza. L’esercizio del diritto dell’interessato, detenuto o internato, a partecipare all’udienza di riesame attra- verso la proposizione di un’apposita istanza, trasforma dunque la sua partecipazione da “eventuale” a “necessaria” e la sua mancata traduzione pregiudica la valida costituzione del procedimento incidentale che è, quindi, affetto da nullità assoluta e insanabile.

Con riferimento alla questione della partecipazione dell’interessato all’udienza, l’inter- vento legislativo di cui si è detto ha lasciato ancora irrisolti non pochi profili. Come già accadeva prima della riforma, l’art. 309, comma 8, cod. proc. pen., non abrogato, rinvia all’art. 127 cod. proc. pen. che disciplina in via generale il procedimento in camera di consiglio e che, al comma 3, stabilisce una differente disciplina a seconda che la persona interessata sia detenuta nel circondario del tribunale o al di fuori di esso in quanto, in tale ultimo caso, questa dovrebbe avere solo la facoltà di essere sentita dal magistrato di sor- veglianza del luogo in cui è detenuta e, al comma 4, stabilisce che «l’udienza è rinviata se sussiste un legittimo impedimento dell’imputato o del condannato che ha chiesto di essere sentito personalmente e che non sia detenuto o internato in un luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice».

Il tenore letterale delle predette disposizioni, per le Sezioni Unite, è uno degli argomenti su cui fondare la decisione.

Ed invero, la locuzione verbale «può», utilizzata nel comma 6 dell’art. 309 cod. proc. pen., altro non costituisce che esemplificazione della collocazione del procedimento del riesame nell’ambito dei procedimenti in camera di consiglio a partecipazione meramente eventuale delle parti. Il comma 8-bis del medesimo articolo ribadisce che il diritto di com- parizione personale dinanzi al giudice del riesame deve essere esercitato con la richiesta di cui al comma 6 così affermando la contestualità tra richiesta di riesame e richiesta di partecipazione personale nell’ottica di assicurare il regolare e ordinato svolgimento del pro- cedimento di riesame. Una diversa opzione interpretativa priverebbe, per le Sezioni Unite, di qualsiasi significato normativo il rinvio esclusivo alla richiesta di riesame di cui al citato comma 8 bis. Siffatta contestualità del resto, osserva il Supremo Collegio, non è nuova rispetto alle previsioni codicistiche posto che essa si riviene anche con riferimento ad altri istituti come, ad esempio, nell’ipotesi di opposizione a decreto penale nel qual caso, ove si intenda richiedere un rito alternativo (art. 461, comma 3, cod. proc. pen.) occorre proporre la relativa istanza con l’atto di opposizione, pena la preclusione all’accesso al rito stabilita nel successivo art. 464, comma 3.

Né, d’altra parte, l’interpretazione letterale dell’art. 309, commi 6 e 8-bis appare lesiva delle ragioni del detenuto, anzi, piuttosto, essa è coerente con le indicazioni costituzionali e convenzionali di tutela del diritto di eguaglianza e costituisce espressione di un equilibrato bilanciamento tra la tutela del diritto a partecipare all’udienza di riesame e l’esigenza di celerità del procedimento incidentale di revisione dell’ordinanza cautelare.

Tale contestualità tra richiesta di riesame e istanza di partecipazione alla stessa però, ad avviso delle Sezioni Unite, non comporta, però, contrariamente a quanto sostenuto in alcune decisioni espressive del primo orientamento (Sez. 1, n. 30714/2019, Rinella e Sez. 2, n. 12854/2018, Mirenda, cit. ) alcuna decadenza dalla facoltà di comparire all’udienza in quanto, nella novella, mancano un’espressa disposizione in tal senso e il richiamo ai termini di cui all’art. 172 cod. proc. pen.

La necessità di definire un limite temporale, però, per il Supremo Collegio è impre- scindibile ed è avvertita anche dai sostenitori del secondo orientamento i quali, pur non ritenendo necessaria la contestualità, comunque riconoscono che l’istanza di comparizione debba essere presentata tempestivamente in modo da permettere la traduzione in udienza e il regolare e ordinato svolgimento, senza interruzioni, del procedimento di riesame.

L’opzione interpretativa sostenuta dall’orientamento minoritario, si osserva nella sen- tenza in commento, introduce una valutazione discrezionale dei giudici de libertade in ordine all’apprezzamento della tempestività della richiesta di comparizione che potrebbe ritorcersi nei confronti dell’interessato in quanto la sua istanza, da lui valutata come tem- pestiva, potrebbe non essere considerata tale dall’autorità giudiziaria in base a specifiche circostanze del caso concreto. L’interpretazione letterale del combinato disposto di cui ai commi 6 e 8-bis dell’art. 309 cod. proc. pen. e la previsione di un termine preciso e fissato a priori, quindi, si risolve in una garanzia di certezza e di effettività dell’esercizio del diritto di comparire e impedisce che il diritto del detenuto di partecipare al suo processo possa risentire di applicazioni diseguali a causa delle disomogeneità strutturali o organizzative legate alle singole realtà territoriali, giudiziarie e penitenziarie e riduce anche la possibilità di ulteriore contenzioso nel caso di rigetto dell’istanza.

Oltre all’argomento letterale le Sezioni Unite, a fondamento della propria decisione, richiamano anche ragioni di ordine sistematico.

Il procedimento di riesame si caratterizza per ritmi assai veloci e si articola in una scansione processuale molto serrata che comporta, nel caso di mancato rispetto dell’arco temporale previsto per ciascun segmento processuale, la perdita di efficacia della misura coercitiva. L’interpretazione rigorosa delle disposizioni in materia si armonizza allora con l’intenzione del legislatore che appare essere quella non solo di dirimere ogni incertezza sul diritto a comparire dell’interessato e di eliminare l’intervento discrezionale del giudice in ordine alla valutazione della tempestività della richiesta di comparire, ma anche quella di consentire “una programmazione tendenzialmente affidabile del lavoro dei giudici del riesame … decisiva per assicurare, al contempo, l’osservanza dei termini perentori per la decisione e per il deposito della motivazione”.

Per altro verso, la Corte valorizza la possibilità per l’interessato di chiedere e ottenere, ex art. 309, comma 9-bis, cod. proc. pen., in presenza di giustificati motivi (attinenti ad esigenze di difesa sostanziale e non meramente pretestuosi), il differimento dell’udienza e precisa che pur non trattandosi di un diritto, ma di una facoltà, attraverso tale previsione l’imputato/indagato può chiedere, anche dopo la richiesta di riesame, di essere sentito all’udienza camerale “in modo da poter far valere le ragioni alla base della rivalutazione – rispetto al momento della richiesta di riesame – dell’opzione relativa al suo intervento in udienza”.

In conclusione, dunque, la Corte rileva che la soluzione a cui è pervenuta è del tutto in linea con la fisionomia del procedimento di riesame che non è diretto a stabilire se il detenuto sia o meno colpevole, ma è solo finalizzato a verificare, in tempi molto ristretti e perentori, la sussistenza dei presupposti della misura cautelare applicata. Esso, lungi dal privilegiare l’aspetto organizzativo dell’attività giurisdizionale a discapito del principio del giusto processo, consente una lettura delle norme codicistiche volta ad assicurare un bilanciamento tra, da un lato, le modalità di esercizio del diritto del detenuto alla parteci- pazione all’udienza camerale, che non viene negato, ma solo disciplinato quanto ai tempi di attivazione e sottratto “alle interferenze riconducibili a determinazioni non governabili del giudice del riesame” e, dall’altro, la celerità del procedimento, intesa quale componente essenziale del patrimonio di garanzie dell’imputato che il legislatore del 2015 ha inteso rafforzare.

. Indice delle sentenze citata.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 49882 del 6/10/2015, Pernagallo, Rv. 265546-01

Sez. 4, n. 12998 del 23/2/2016, Griner, Rv. 266296-01

Sez. 2, n. 13707 dell’11/3/2016, Ciarfaglia, Rv. 266519-01 Sez. 1, n. 49284 del 17/3/2016, Grande Aracri

Sez. 2, n. 36160 del 3/4/2017, Giordano, Rv. 270683-01

Sez. 6, n. 54048 del 3/10/2017, Paladino, Rv. 271574-01

Sez. 2, n. 12854 del 15/1/2018, Mirenda, Rv. 272467-01

Sez. 5, n. 10398 del 10/10/2018, dep. 2019, Cardo

Sez. 1, n. 5673 dell’8/1/2019, Burgio

Sez. 6, n. 24894 del 7/3/2019, La Scala, Rv. 275887-01 Sez. 6, n. 21779 del 22/3/2019, Spina, Rv.275674-01

Sez. 1, n. 30714 del 10/5/2019, Rinella, Rv. 276607-01

Sez. 5, n. 34181 del 26/06/2019, Basso, Rv. 276904-01

SEZIONE II RICUSAZIONE.

  • procedura penale
  • ricusazione

CAPITOLO I

LE SEZIONI UNITE “GERBINO”, IN MATERIA DI RICUSAZIONE ED INCIDENZA SUGLI ATTI DEL PROCESSO.

(di Stefania Riccio )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’ordinanza di rimessione e i termini del contrasto. - 3 L’impostazione delle Sezione Unite “Tanzi”. - 4 La soluzione delle Sezioni Unite Gerbino. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

Con sentenza n. 37207 resa all’udienza del 16 luglio 2020 (depositata il 23 dicembre 2020), ric. Gerbino, le Sezioni Unite hanno affermato i principi di diritto massimati nei seguenti termini:

- “Il decreto che dispone il giudizio emesso dal giudice dell’udienza preliminare in pendenza della decisione definitiva sull’istanza di ricusazione, è, in caso di accogli mento di quest’ultima, affetto da nullità assoluta di ordine generale, ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., siccome attinente ai modi e ai limiti del potere giurisdizionale esercitabile nel relativo giudizio.” (Rv. 280116 – 01);

- “L’ordinanza che decide sul merito della ricusazione, ai sensi dell’art. 41, comma 3, cod. proc. pen., provvede contestualmente a dichiarare se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice ricusato devono considerarsi efficaci e con tro la stessa è proponibile, anche in caso di omessa pronuncia al riguardo, ricorso per cassazione nelle forme di cui all’art. 611 cod. proc. pen.” (Rv. 280116 – 02).

2. L’ordinanza di rimessione e i termini del contrasto.

La pronuncia in rassegna trae impulso dall’ordinanza n. 10818 del 26 febbraio 2020, con cui la prima Sezione aveva registrato contrasti interpretativi nella giurisprudenza di legitti mità, in relazione alla questione di diritto controversa in giudizio, sintetizzata nel quesito: “Se, in caso di accoglimento della istanza di ricusazione del giudice dell’udienza prelimi nare, il decreto che dispone il giudizio - emesso in pendenza della decisione definitiva sulla domanda di ricusazione - possa o meno mantenere efficacia.”

Il tema attiene, più in generale, al regime degli atti - diversi dalla sentenza - emessi dal giudice ricusato, quando non sia stata resa pronuncia di conservazione di efficacia ai sensi dell’art. 42, comma 2, cod. proc. pen. Al riguardo, una significativa divaricazione sul piano ermeneutico si era determinata in relazione ai principi affermati da Sez. U., n. 13626 del 16/12/2010, Digiacomantonio, Rv. 249299, il cui nucleo decisorio, per quanto qui di interesse, vuole che gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato debbano conside rarsi inefficaci, ponendo l’art. 42, comma 2, cod. proc. pen. una sorta di presunzione in tal senso, suscettibile di essere rimossa solo dalla declaratoria di efficacia compiuta dal giudice della ricusazione; al quale compete valutare se, malgrado la riconosciuta carenza di imparzia lità del giudice, talune attività non siano state influenzate da cause di incompatibilità, e non abbiano subito alterazione per effetto di esse, così da potersene conservare gli effetti.

Le Sezioni Unite del 2010 avevano poi scolpito la nozione di “efficacia”, quale catego ria dogmatica concettualmente distinta dalla validità, assumendo che, nella disposizione richiamata, essa si attaglia essenzialmente agli atti a contenuto istruttorio e si traduce nella possibilità del loro inserimento nel fascicolo per il dibattimento.

Sulla base di tali premesse, avevano teorizzato che la valutazione in termini di efficacia espressa dal giudice che decide sull’astensione o sulla ricusazione, “inaudita altera parte” e in forza di una competenza di tipo interinale, pur se non impugnabile autonomamente, è sindacabile dal giudice della cognizione, subentrato al giudice ricusato; il quale resta il “giudice naturale” della prova, ed assumerà le relative determinazioni nel contraddittorio delle parti, secondo il paradigma tipico dei rito accusatorio, ed in particolare in base al meccanismo di acquisizione e recupero regolato dagli artt. 525 e 511 cod. proc. pen. per il caso, appunto, di mutamento della persona del giudice.

Ciò posto, è in relazione all’ambito applicativo di tale sanzione processuale che la giuri sprudenza non ha espresso, sino ad oggi, posizioni conformi.

Secondo una prima opzione ricostruttiva, l’inefficacia, ai ridetti fini, sarebbe riferibile esclusivamente agli atti giurisdizionali posti in essere dall’ “iudex suspectus” aventi natura strettamente probatoria, con la conseguenza che, al contrario, rimarrebbero dotati di efficacia - pure in mancanza di indicazione espressa ex art. 42 cod. proc. pen. - altri atti pari menti emessi dal giudice la cui ricusazione sia stata accolta (in tal senso, Sez. 5, n. 34811 del 15/06/2016, Lo Giudice, Rv. 267742 – 01; Sez 5. n. 44120 del 09/05/2019, Di Fatta, Rv. 277848; Sez. 3, n. 35205 del 16/07/2019, Mandalà, Rv. 277501).

In antitesi, altro orientamento, espresso da Sez. 6 n. 10160 del 18/02/2015, Boschetti, Rv. 262804, ritiene che, nella medesima situazione di assenza di una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia, debbano ritenersi inefficaci tutti gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato, senza distinzioni basate sulla loro natura e connotazione funzionale. Analoga affermazione di principio, in relazione al procedimento di preven zione, si rinviene nella motivazione di altra pronuncia (Sez. 5, n. 16311 del 14/04/2014, Di Vincenzo, Rv. 259873), sia pure nel convincimento che la sentenza Digiacomantonio avesse inteso limitare l’operatività dell’inefficacia ai soli atti a contenuto probatorio.

La Sezione rimettente ha sollecitato, dunque, la Corte ad un nuovo intervento regolativo sul tema che, oltre a risolvere le evidenziate disarmonie, operasse altresì un raccordo siste matico tra Sez. U. “Digiacomantonio”, suindicata, e gli ulteriori arresti della Corte Sez. U. n. 31421, del 26/06/2002, Conti, Rv. 222045 – 01 nonché Sez. U. n. 23122 del 27/01/2011, Tanzi 249733 – 01, 249734 – 01, 249735 – 01, che hanno contribuito a delimitare, nel tempo, l’area di operatività degli artt. 42 e 37 cod. proc. pen.

Ed invero, sul rilievo che l’attuale normativa su ricusazione ed astensione, in pendenza della decisione sulla fondatezza della domanda di ricusa, non prevede automatismi nel limitare i poteri del giudice sospetto - al di là della preclusione relativa alla pronuncia della sentenza, espressa dall’art. 37 cod. proc. pen. - di modo che il procedimento deve prose guire, le tre richiamate decisioni della Corte, nella sua massima espressione nomofilattica, pongono in evidenza gli ulteriori temi problematici, correlati a quello oggetto del quesito, con riferimento a:

- lo statuto degli atti emessi in pendenza della procedura di ricusazione, quando l’acco glimento della istanza intervenga solo all’esito del relativo procedimento incidentale;

- il rapporto che intercorre tra i poteri della corte di appello, che abbia accolto la domanda di ricusazione, e quelli del giudice subentrato nel procedimento principale in relazione a tutti gli atti pregressi.

Ed invero, se si aderisce alla lettura secondo la quale la decisione “Digiacomantonio” si riferisce esclusivamente agli atti di rilievo probatorio compiuti innanzi al giudice “sospetto”, tutti gli atti del procedimento diversi da quelli di raccolta della prova - pure in mancanza di una salvezza espressa nel provvedimento di accoglimento della ricusazione – potrebbero essere comunque oggetto di autonoma considerazione da parte del giudice subentrato nel procedimento principale, che ben potrebbe confermarne l’efficacia; per converso, ove si ritenga che tale decisione della Corte di cassazione, nella sua massima espressione nomofilattica, abbia inteso riferirsi a tutti gli atti del procedimento, il giudice subentrato a quello ricusato non potrebbe che prendere atto della loro inefficacia, ove non vi sia stata decisione espressa di mantenimento.

3. L’impostazione delle Sezione Unite “Tanzi”.

Nel definire la questione sottoposta a scrutinio, la Corte, nella sua massima espressione nomofilattica, ritiene oggi di dovere muovere dall’assetto ricostruttivo di cui alle Sezioni Unite n. 23122 del 27/01/2011, Tanzi.

Si deve a tale pronuncia, in primis, un decisivo apporto alla elaborazione della nozione di atto a contenuto decisorio, evocata dall’art. 37 cit.: rientrerebbe nell’ambito del divieto, per il giudice ricusato, di pronunciare sentenza sino a che non intervenga l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione ogni provvedimento che, comunque denominato, sia idoneo a definire la regiudicanda cui la dichiarazione di ricusazione si riferisce. (Rv. 249733 – 01).

Sotto altro profilo, la medesima decisione della Corte regolatrice ebbe ad inquadrare, sul piano dogmatico, la natura del vizio che scaturisce dalla violazione dei divieti stabiliti dal legislatore in tema di ricusazione, stabilendo che, se l’inosservanza del divieto, ex art. 42, comma primo, cod. proc. pen., per il giudice la cui ricusazione sia stata accolta, di compiere alcun atto del procedimento comporta rispettivamente la nullità, ex art. 178, lett.

a) cod. proc. pen., delle decisioni ciononostante pronunciate e l’inefficacia di ogni altra attività processuale, la violazione del divieto posto dall’art. 37, comma secondo, cod. proc. pen., per il giudice ricusato, di pronunciare sentenza - benchè tale dovere costituisca un preciso dovere deontologico del magistrato ricusato - comporta la nullità dell’atto solo ove la ricusazione sia successivamente accolta, e non anche quando la ricusazione sia rigettata o dichiarata inammissibile. (Rv. 249734 – 01).

Nel dettaglio, il divieto, per il giudice ricusato, di pronunciare sentenza ex art. 37, comma secondo, cod. proc. pen., opererebbe sino alla decisione di inammissibilità o di rigetto, anche non definitiva, dell’organo competente a decidere sulla ricusazione, essendo, tuttavia, la successiva decisione del giudice ricusato, affetta da nullità qualora la pronuncia di inammissibilità o di rigetto sia annullata dalla Corte di cassazione e il difetto di imparzialità accertato dalla stessa Corte o nell’eventuale giudizio di rinvio. (Rv. 249735 – 01).

Dunque, aderendo all’indirizzo dottrinario ai tempi prevalente, le Sezioni Unite “Tanzi” sancirono la tesi della nullità “secundum eventum”, nel senso che, se l’accoglimento della ricusazione rende invalida la decisione, non così l’inammissibilità o il rigetto, i quali non scalfiscono gli effetti degli atti pregressi.

Sottoposta alla condizione sospensiva dell’accoglimento della istanza di ricusa, tale ipotesi patologica si ascrive, sul piano dogmatico, alla categoria delle nullità per carenza di potere, giacchè la garanzia della imparzialità è precondizione per l’esercizio del potere giurisdizionale e il suo deficit si traduce in una carenza di capacità giurisdizionale del giudice con riferimento al caso concreto, ossia in relazione alla specifica regiudicanda; e, in difetto di una espressa comminatoria contenuta nell’art. 37 cod. proc. pen., tale nullità verrebbe a refluire nell’alveo dell’art. 178, comma 1, lett. a) cod. proc. pen.

In questa cornice di riferimento, sarebbe dunque indifferente il momento in cui interviene la decisione definitiva di accoglimento della ricusazione, producendosi gli stessi effetti di invalidità radicale tanto nel caso in cui il provvedimento decisorio del “iudex suspectus” sia stato adottato dopo che la decisione di accoglimento della ricusazione è divenuta definitiva, tanto nel caso in cui sia stato assunto nelle more del relativo procedimento.

4. La soluzione delle Sezioni Unite Gerbino.

Dalla articolazione di principi sviluppata dalle Sezioni Unite Tanzi ritengono oggi le Sezioni Unite di desumere le direttrici ermeneutiche per offrire risposta al quesito rimesso a scrutinio.

Nel percorso argomentativo della decisione in rassegna, si legge che devono riconoscersi al decreto che dispone il giudizio – emesso, nella specifica vicenda processuale, da un giudice il cui difetto di imparzialità è stato accertato solo all’esito del giudizio di rinvio, quando il processo principale era in fase di avanzata trattazione - i connotati strutturali e funzionali propri di un atto del procedimento che “definisce la regiudicanda cui la dichiarazione di ricusazione si riferisce”.

Snodo tra la fase delle indagini, che “chiude” irreversibilmente, determinando le condizioni necessarie per il transito del procedimento verso la successiva fase dibattimentale, il decreto in questione evidenzia, oltre a tale funzione propulsiva, natura decisoria, in quanto scioglie l’alternativa rispetto alla pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, sulla base delle medesime risorse cognitive proprie della fase, e definisce la regiudicanda preliminare all’instaurazione del giudizio, vagliando, in sostanza, la sostenibilità dell’ipotesi accusatoria.

In tale prospettiva – che la Corte di nomofilachia condivide - si è progressivamente consolidata la giurisprudenza della Corte costituzionale, per la quale i provvedimenti terminativi di tale fase hanno acquisito nel tempo maggiore pregnanza, essendo il giudice tenuto a considerare se gli elementi acquisiti risultino sufficienti, non contraddittori o comunque idonei a sostenere l’accusa nel giudizio (art. 425, comma 3, cod. proc. pen.); e soprattutto riposano su una valutazione del merito della accusa ormai priva dei caratteri di sommarietà, e non più distinguibile da quella propria di altri momenti del processo, come è dato evincere dalla completezza del quadro probatorio che al giudice di tale udienza deve offrirsi (arg. ex artt. 416, comma 2, e 419, comma 3, cod. proc. pen.); dall’ampiezza dei poteri riconosciuti alle parti private in materia di prova (art. 391-octies); dalle garanzie difensive riconosciute all’imputato (art. 421, comma 2, cod. proc. pen.); da ultimo, dalla facoltà per il giudice dell’udienza preliminare di disporre l’integrazione delle indagini (art. 421-bis cod. proc. pen.) ed assumere, anche d’ufficio, le prove che appaiano con evidenza decisive ai fini della sentenza di non luogo a procedere (art. 422 cod. proc. pen.).

Onde la conclusione – condivisa dalle Sezioni Unite Gerbino - che il decreto che dispone il giudizio, come pure la sentenza di non luogo a procedere, con cui è in rapporto di mutua esclcusione, esprimono giudizi e sono suscettibili di “pregiudicare ed essere pregiudicati” da altre decisioni, così da dovere essere attratti nel fuoco della incompatibilità, a tutela del canone di imparzialità del giudice (Corte cost. nn. 224 del 4 luglio 2001 e 335 del 8 luglio 2002).

Di qui, ancora, la convinzione che si debbano scongiurare i possibili “vulnera” all’esercizio dei diritti della difesa derivanti dall’eventuale deficit di imparzialità del decisore, sia in rapporto all’ulteriore progressione delle sequenze processuali, sia in rapporto all’ accesso dell’imputato ai riti alternativi.

Sulla scia della sentenza “Tanzi”, le Sezioni Unite in rassegna ritengono perciò che l’accoglimento definitivo dell’istanza di ricusazione renda il decreto pronunciato dal giudice sospetto affetto da nullità assoluta ex art. 178, comma 1, lett. a), cit., rilevabile, anche “ex officio”, in ogni stato e grado di giudizio, per difetto di potere giurisdizionale nel caso concreto, senza che possano rilevare i possibili “effetti esauriti” dell’atto all’interno della fase in cui è stato pronunciato. Si tratta, invero, di un atto che definisce la regiudicanda propria di quel segmento processuale e consuma in maniera irreversibile il potere decisorio e valutativo che esprime; ed è proprio in questa irretrattabilità che va individuato – secondo la sentenza Gerbino - l’elemento di assimilazione all’atto-sentenza, che lo distingue dagli atti meramente “interlocutori” e processuali che il giudice poi accertato “sospetto” può compiere, ma anche dagli atti “a contenuto probatorio”, per i quali, proprio perché non definiscono, neppure parzialmente, la regiudicanda nel senso sopra specificato, potrà porsi un problema di “conservazione di efficacia” ex art. 42, comma 2, cit..

A supportare l’elaborazione della Corte vi è il dato testuale, traibile dagli artt. 37, 41 e 42 cit., i quali non operano alcuna distinzione basata sulla natura degli atti del procedimento; e, soprattutto, vi è l’esigenza di non escludere dall’ambito di operatività dell’inefficacia una vasta categoria di atti (tra cui i provvedimenti incidentali in tema di misure cautelari), che potrebbero risultare non meno compromessi dalla mancanza di imparzialità del giudice che li ha adottati.

Schematizzando, sul punto affermano le Sezioni Unite che:

- il divieto per il giudice ricusato di pronunciare sentenza ai sensi dell’art. 37, comma 2, cod. proc. pen. è riferibile anche al decreto che dispone il giudizio ed opera sino alla pronuncia di inammissibilità o di rigetto, sebbene non definitiva, dell’organo competente a decidere sulla ricusazione;

- nell’ipotesi in cui il decreto che dispone il giudizio sia successivamente emesso dal giudice ricusato, lo stesso sarà affetto da nullità qualora la pronuncia di inammissibilità o di rigetto della dichiarazione di ricusazione sia annullata dalla Corte di cassa- zione e il difetto di imparzialità accertato dalla stessa Corte o nell’eventuale giudizio di rinvio.

L’ulteriore tema affrontato, relativo al rapporto fra i poteri del giudice della ricusazione che abbia accolto la relativa domanda e quelli del giudice subentrato nel procedimento principale, segna un ulteriore, deciso scostamento rispetto alla pronuncia delle Sezioni Unite “Digiacomantonio”.

Il riconoscimento al giudice del procedimento principale di un potere di sindacato sulla pronuncia ex art. 42, comma 2, cod. proc. pen. era parso alle Sezioni Unite del 2010 una soluzione obbligata onde scongiurare possibili punti di frizione costituzionale del quadro normativo, correlati alla mancata previsione di un rimedio impugnatorio avverso tale pronuncia del giudice della ricusazione.

Di contro, le Sezioni Unite “Gerbino” ritengono che un simile vaglio delibativo postumo, oltre a svilire la valenza della pronuncia sulla efficacia degli atti, finisce col dissolvere la ratio stessa della competenza funzionale del giudice della ricusazione, come individuato ex art. 40 cod. proc. pen., attraverso la duplicazione di un improprio controllo di merito, peraltro esercitato in forma “orizzontale”, e non invece “verticale”, in distonia rispetto alla logica del sistema. E dunque, è nell’alveo del giudizio sulla ricusazione, quale sequenza incidentale autonoma, che deve svolgersi il sindacato sulla pronuncia che dichiara quali atti conservano efficacia, essendo l’organo giurisdizionale a tanto preposto nelle migliori condizioni per apprezzare il grado di compromissione della imparzialità del giudice, anche per la possibilità di svolgere al riguardo un’istruttoria mirata e contratta nei tempi.

D’altro canto, muovendo dalla premessa logica per cui il provvedimento ex art. 42, comma 2, cit. pertiene logicamente alla pronuncia sul merito della ricusazione, osservano le Sezioni Unite in commento che, se è vero che l’art. 41, comma 3, cit. stabilisce che, a decidere sul merito della ricusazione, sia la corte di appello ai sensi dell’art. 127 cod. proc. pen., norma la quale a sua volta prevede, al settimo comma, che l’ordinanza conclusiva del relativo giudizio è ricorribile per cassazione, allora tale rimedio è esperibile anche contro la decisione sull’efficacia/inefficacia degli atti, sebbene l’art. 41, comma 3, non ne faccia espressamente menzione (a differenza di quanto esplicitato nel primo comma).

Ed in tal senso si registra un costante orientamento interpretativo della Suprema Corte (Sez. 6, n. 3853 del 24/11/1999, Papalia, Rv. 216836; Sez. 1, n. 5251 del 29/09/1999, Marfia, Rv. 214390; in motivazione, Sez. 6, n. 47556 del 16/10/2013, Avanti, Rv. 257705), che riflette analoghe indicazioni contenute nella Relazione al progetto preliminare del codice di rito.

Da tale assetto ricostruttivo discende, conclusivamente, che il giudice della ricusazione è tenuto a dichiarare se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice ricusato devono considerarsi efficaci e che il ricorso per cassazione è esperibile, nelle forme di cui all’art. 611 cod. proc. pen., anche nell’ipotesi in cui una tale pronuncia sia stata omessa, proprio al fine di far valere l’incompletezza strutturale del provvedimento.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 5251 del 29/09/1999, Marfia, Rv. 214390

Sez. 6, n. 3853 del 24/11/1999, Papalia, Rv. 216836

Sez. 4, n. 36424 del 11/05/2001, Di Tarsia Belmonte, Rv. 222724 Sez. 1, n. 27604 del 04/06/2001, Sciarabba Rv. 219145

Sez. U., n. 31421 del 26/06/2002, Conti, Rv. 222045 Sez. 1, n. 45470 del 25/10/2005, D’Ausilio, Rv. 233378

Sez. 6, n. 10357 del 29/11/2007, Barile, Rv. 238913

Sez. 5, n. 23712 del 31/03/2010, Ragosta, Rv. 247505

Sez. U., n. 13626 del 16/12/2010, Digiacomantonio ed altri, Rv. 249299 Sez. U., n. 23122 del 27/01/2011, Tanzi, 249733, 249734, 249735

Sez. 6, n. 47556 del 16/10/2013, Avanti, Rv. 257705

Sez. 5, n. 16311 del 14/04/2014, Di Vincenzo, Rv. 259873 Sez. 6, n. 34560 del 22/05/2014, C., Rv. 259900

Sez. 6, n. 10160 del 18/02/2015, p.o. in proc. Boschetti, Rv. 262804 Sez. 5, n. 34811 del 15/06/2016, Lo Giudice, Rv. 267742

Sez. 5, n. 5533 del 08/01/2019, Mazzieri, Rv. 275378

Sez. 4, n 6432 del 24/01/2019; Bottaro, Rv. 275074 Sez 5, n. 44120 del 09/05/2019, Di Fatta, Rv. 277848 Sez. 3, n. 32505 del 16/07/2019, Mandalà, Rv. 277501

SEZIONE III PARTECIPAZIONE AL PROCESSO.

  • procedura penale
  • domicilio
  • detenuto

CAPITOLO I

NOTIFICAZIONI ALL’IMPUTATO DETENUTO.

(di Andrea Antonio Salemme )

Sommario

1 Ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, questione controversa e principi di diritto enunciati da Sez. U, n. 12778 del 27/02/2020. - 2 Orientamento maggioritario in generale. - 2.1 Elezione di domicilio effettuata dall’imputato detenuto. - 2.2 Notificazione all’imputato detenuto eseguita nel domicilio eletto prima della detenzione. - 3 Orientamento minoritario. - 4 Orientamento tradizionale-intermedio. - 5 Decisione delle Sezioni Unite: necessità che la notificazione all’imputato detenuto sia svolta mediante consegna personale al destinatario nel luogo in cui egli è ristretto. - 5.1 Passaggi essenziali della motivazione della sentenza. - 5.2 Nullità a regime intermedio della notificazione all’imputato detenuto effettuata nel domicilio dichiarato o eletto. - 6 Ulteriore principio enunciato dalle Sezioni Unite in relazione alle conseguenze dello smarrimento di fonoregistrazioni riproducenti dichiarazioni testimoniali. - Indice delle sentenze citate.

1. Ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, questione controversa e principi di diritto enunciati da Sez. U, n. 12778 del 27/02/2020.

In tema di notificazioni all’imputato detenuto, Sez. 3, n. 50429 del 13/12/2019, S., ritenendo un contrasto di giurisprudenza, aveva rimesso al Primo Presidente, per l’assegnazione alle Sezioni Unite, la questione controversa «se sia valida la notifica all’imputato detenuto eseguita presso il domicilio eletto e non presso il luogo di detenzione». Con sentenza n. 12778, deliberata alla pubblica udienza del 27/02/2020 e depositata il 22/04/2020, S., le Sezioni Unite della Corte di cassazione, riconducendo ad unità un composito quadro giurisprudenziale, attraversato da contrasti e varietà di posizioni sotto plurimi profili, hanno affermato due basilari principi di diritto, cristallizzati in altrettante massime.

Rileva, in primo luogo, la massima “sub” Rv. 278869-01, secondo cui «le notificazioni all’imputato detenuto vanno sempre eseguite, mediante consegna di copia alla persona, nel luogo di detenzione, anche in presenza di dichiarazione od elezione di domicilio. (In motivazione la Corte ha precisato che tale disciplina deve trovare applicazione anche nei confronti dell’imputato detenuto in luogo diverso da un istituto penitenziario e, qualora lo stato di detenzione risulti dagli atti, anche nei confronti del detenuto ‘per altra causa’)».

Rileva, in secondo luogo, la massima “sub” Rv. 278869-02, secondo cui «le notificazioni effettuate, nei confronti dell’imputato detenuto, presso il domicilio dichiarato od eletto e non nel luogo di detenzione, danno luogo a nullità a regime intermedio, soggetta alla sanatoria prevista dall’art. 184 cod. proc. pen.».

2. Orientamento maggioritario in generale.

Un orientamento, divenuto maggioritario negli ultimi anni, propendeva, con tralaticia enunciazione, per la validità della notificazione eseguita nel domicilio eletto dall’imputato detenuto, anziché nel luogo di detenzione, in considerazione della facoltà, anche per il medesimo, come per l’imputato non detenuto, di dichiarare o eleggere domicilio.

In realtà, da un punto di vista concettuale, sotto una tale enunciazione, si nascondevano due ipotesi diverse:

- una prima, riconducibile alla vera e propria effettuazione di elezione di domicilio da parte dell’imputato detenuto, per modo che il principio, nel riconoscere la facoltà di elezione da parte dello stesso, era esclusivamente calibrato sulla sua condizione attuale;

- una seconda, riconducibile invece al compimento di notificazione all’imputato detenuto nel domicilio eletto in precedenza, quando cioè non era detenuto, con conseguente necessità di lettura del principio in una chiave evolutiva, che trascorreva da prima della detenzione al momento della notificazione in stato di detenzione.

2.1. Elezione di domicilio effettuata dall’imputato detenuto.

Con riguardo alla prima ipotesi, svariate pronunce sostenevano esser valida l’elezione di domicilio effettuata dal detenuto sia per altra causa (“p.a.c.”) sia per causa corrente (“p.c.c.”) ed esser quindi valida la notificazione successivamente compiuta al medesimo in tale domicilio. Come ricordato dalla relazione di contrasto n. 58 del 4 giugno 2004, la prima pronuncia ad aprire la strada al sub-orientamento in disamina, rompendo con l’imperante orientamento tradizionale-intermedio, è stata Sez. 2, n. 47379 del 30/10/2003, Piazza, Rv. 227648-01, relativa ad una fattispecie in cui «l’imputato aveva eletto domicilio in sede di interrogatorio in carcere – dove si trovava ristretto per altra causa – presso la propria abitazione»: la S.C. ha giudicato non affetto da nullità il decreto di citazione a giudizio «notificato all’imputato detenuto nel domicilio eletto, in quanto la previsione di cui all’art. 156 cod. proc. pen. – per la quale le notificazioni all’imputato detenuto debbono essere eseguite nel luogo di detenzione – non contiene una disciplina derogatoria rispetto a quella generale in tema di notificazioni, attesoché anche all’imputato detenuto è consentito avvalersi della facoltà di dichiarare o eleggere domicilio a norma dell’art. 161, comma primo, cod. proc. pen.» (viepiù nel dettaglio Essa, «verificatasi l’impossibilità della notificazione nel domicilio eletto, ha ritenuto valida la notifica del decreto di citazione a giudizio, ai sensi dell’art. 161, comma quarto, cod. proc. pen., presso il difensore dell’imputato detenuto»). La natura non derogatoria dell’art. 156 cod. proc. pen. era argomentata in sentenza sul rilievo che «l’ultimo comma dell’art. 156 [cod. proc. pen. ...] detta una regola di chiusura secondo la quale in nessun caso le notificazioni all’imputato detenuto o internato possono essere eseguite con le forme dell’art. 159 cod. proc. pen., nell’ovvia constatazione che la dichiarazione di irreperibilità presuppone il risultato negativo della ricerca anche presso l’Amministrazione carceraria», ma «questa è l’unica inconciliabilità espressamente disciplinata», con la conseguenza che «all’imputato detenuto è consentito avvalersi della possibilità di dichiarare o eleggere domicilio a norma dell’art. 161, comma 1, cod. proc. pen.». Nel solco di tale precedente si annoverano, negli ultimi anni,

- Sez. 6, n. 4836 del 03/12/2014 (dep. 2015), Hassa, Rv. 262055-01, la cui massima propone peraltro accenti innovativi, sostenendo che «è valida la notificazione presso il domicilio eletto quando il destinatario sia detenuto per altra causa, presupponendo l’elezione, a differenza della mera dichiarazione, l’indicazione di persona legata da un rapporto fiduciario tale da impegnarla a ricevere gli atti riguardanti l’imputato e a consegnarli al medesimo»;

- Sez. 6, n. 20532 del 01/03/2018, A., Rv. 273420-01, la quale, in motivazione, specifica che «l’elezione di domicilio, avendo natura di dichiarazione di volontà a carattere negozial-processuale – necessitante, ai fini della sua validità, del rispetto di determinate formalità – può essere superata solo in forza di un atto formale di revoca e non in ragione di elementi fattuali»;

- Sez. 5, n. 88 del 11/11/2019 (dep. 2020), G., Rv. 278199-01, la quale, a ridosso della decisione delle Sezioni Unite, spicca per la latitudine del principio, affermando che «è valida la notifica all’imputato detenuto, eseguita presso il domicilio eletto e non presso il luogo di detenzione, noto all’autorità procedente, sia quando lo stato detentivo attenga al medesimo procedimento, sia quando esso riguardi altro procedimento».

2.2. Notificazione all’imputato detenuto eseguita nel domicilio eletto prima della detenzione.

Alla seconda delle ipotesi esposte al par. 2.1 corrispondeva, parallelamente, un secondo sub-orientamento, a termini del quale la validità della notificazione all’imputato detenuto compiuta nel domicilio eletto sottintendeva che questo conservasse efficacia (pertanto “ultra-attiva”) nonostante il sopravvenuto mutamento di “status” dell’imputato. A questo sub-orientamento possono ascriversi, tra le pronunce più recenti,

- Sez. 2, n. 15102 del 28/02/2017, Gulizzi, Rv. 269863-01, intesa in motivazione a precisare [similmente a Sez. 6, n. 4836 del 2015, per la parte iniziale, ed a Sez. 6, n. 20532 del 2018, per quella finale] che «l’elezione, a differenza della mera dichiarazione, presuppone l’indicazione di persona legata da un rapporto fiduciario tale da impegnarla a ricevere gli atti riguardanti l’imputato e a consegnarli al medesimo» ed «ha natura di dichiarazione di volontà a carattere negozial-processuale, necessitante, ai fini di sua validità, del rispetto di determinate formalità (art. 161 c.p.p.), sicché essa può essere superata, solo in forza di un atto formale di revoca e non in ragione di elementi fattuali»;

- Sez. 2, n. 21787 del 04/10/2018 (dep. 2019), Casali, Rv. 275592-01, che, in concreto, risulta aver confermato la «ritualità della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari effettuata nel domicilio eletto della ricorrente [presso il difensore], pur essendo questa allora detenuta per altra causa».

3. Orientamento minoritario.

Agli antipodi di quello sin qui descritto, figurava un orientamento minoritario atteggiantesi «in senso restrittivo» (relazione di contrasto n. 1014 del 15 febbraio 2016). Esso, alla stregua della duplice ramificazione già constatata a proposito del precedente, predicava,

- per un verso, l “inutilità” di dichiarazione ed elezione effettuate dall’imputato nel momento in cui è detenuto, atteso che, «per il soggetto in stato di detenzione [,] la rituale dichiarazione od elezione di domicilio è [soltanto] quella effettuata all’atto della scarcerazione, come disposto dall’art. 161, comma 3, cod. proc. pen.» (così, in motivazione, Sez. 4, n. 26437 del 30/04/2003, Jovanovic, Rv. 225861-01, cui “adde” Sez. 2, n. 2356 del 13/01/2005, Simioni, Rv. 230698-01);

- per altro verso, l’assoluta impossibilità di procedere a notificazione degli atti nel domicilio in precedenza eletto dall’imputato detenuto sia p.c.c. (Sez. 3, n. 42836 del 30/09/2009, El Mami) sia p.a.c. (Sez. 5, n. 37135 del 10/06/2003, Bevilacqua, Rv. 226664-01, secondo cui, «a norma dell’art. 156 cod. proc. pen., la notifica del decreto di citazione all’imputato detenuto deve avvenire nel luogo di detenzione, anche quando la causa di restrizione sia diversa dal procedimento in corso cui si riferisce la notifica e vi sia stata una precedente elezione di domicilio mai revocata, in quanto l’ufficio giudiziario procedente, prima di effettuare la prima notificazione, deve svolgere le dovute ricerche in ordine allo “status libertatis” alla data della notifica del decreto»; più di recente, Sez. 6, n. 20459 del 20/03/2009, Rizqy, Rv. 244277-01, spintasi ad estendere il principio altresì al caso della notificazione «effettuata a norma dell’art. 161, comma quarto, cod. proc. pen.»).

4. Orientamento tradizionale-intermedio.

Tra i due descritti, v’era un orientamento tradizionale-intermedio – tale perché sviluppatosi già in precedenza e perché idealmente collocato in posizione mediana rispetto agli stessi – che propendeva per la rilevanza della previa indicazione del domicilio convenzionale (dunque sia dichiarato che eletto) solo quando l’A.G. procedente, al momento della notificazione all’imputato successivamente colto da provvedimento detentivo p.a.c., non avesse avuto conoscenza del mutamento del suo “status”. Il riferimento alla sola detenzione p.a.c. si spiega in quanto la detenzione p.c.c. è, o almeno dovrebbe essere, nota all’A.G. procedente.

Il sunto dell’orientamento che ne occupa è espresso da Sez. 6, n. 5222 del 11/03/1993, Belanzoni, Rv. 194024-01, secondo cui «deve ritenersi rituale la notifica del decreto di citazione per il dibattimento di appello nel domicilio dichiarato dall’imputato che, arrestato dopo la dichiarazione medesima, non ne abbia dato notizia all’autorità giudiziaria in adempimento dell’obbligo di cui all’art. 161 c.p.p.», atteso che «in tal caso ... non è ravvisabile una violazione dell’art. 156 c.p.p., ... poiché tale norma postula che lo stato di detenzione dell’imputato risulti già dagli atti».

All’evocata sentenza si accodano svariate pronunce, remote [Sez. 1, n. 11151 del 21/10/1996, Gulino, Rv. 206425-01; Sez. 1, n. 4918 del 18/09/1997, Rea, Rv. 208507-01, e Sez. 3, n. 1894 del 21/12/1999 (dep. 2000), Cappelli, Rv 215693-01] e più recenti (per tutte: Sez. 5, n. 6491 del 24/01/2005, Fasanaro, Rv. 231426-01, secondo cui, in chiave “negativa”, «non sussiste la nullità del decreto di citazione a giudizio [se] l’avviso di conclusione delle indagini [è] notificato, ex art. 161, comma quarto, cod. proc. pen., mediante consegna al difensore, qualora la notifica al domicilio eletto abbia dato esito negativo; né, a tal fine, rileva la circostanza che sia sopravvenuta la custodia cautelare in carcere in seguito ad altro procedimento, qualora ciò non risulti dagli atti e l’imputato abbia omesso di comunicarlo all’autorità procedente», e Sez. 2, n. 17798 del 05/02/2009, Romeo, Rv. 243952-01, secondo cui, in chiave “positiva”, «la notificazione del decreto di citazione a giudizio presso il domicilio eletto dall’imputato è validamente eseguita […], pur quando il destinatario dell’atto sia detenuto per altra causa e lo stato di detenzione non risulti dagli atti, perché il temporaneo stato di detenzione non fa venire meno il dovere dell’imputato di informare l’Autorità procedente sul mutamento di situazione di fatto»).

5. Decisione delle Sezioni Unite: necessità che la notificazione all’imputato detenuto sia svolta mediante consegna personale al destinatario nel luogo in cui egli è ristretto.

La soluzione fatta propria dalle Sezioni Unite nella sentenza in disamina, che si lascia apprezzare per ampiezza e linearità, parrebbe, in rapporto alla “quaestio” principale della liceità o meno di una notificazione effettuata all’imputato detenuto nel domicilio eletto, oltrepassare il segno dell’orientamento intermedio per attingere quello minoritario, ancorché senza condividerlo “in toto”.

Tale “quaestio” trova risposta, in rigorosa osservanza della lettera dell’art. 156 cod. proc. pen., nella massima “sub” Rv. 278869-01, nel senso che lo stato di detenzione, comportante “ex se” la necessità che la notificazione sia svolta mediante consegna personale al destinatario nel luogo in cui egli è ristretto (comma 1), anche se diverso da un istituto penitenziario (comma 3), non può essere superato da alcuna dichiarazione od elezione di domicilio, precedente o concomitante, con la sola eccezione della detenzione p.a.c. non risultante dagli atti (comma 4, il quale, in caso contrario, rende applicabili «le disposizioni che precedono», ossia i predetti commi 1 e 3).

5.1. Passaggi essenziali della motivazione della sentenza.

Leggendo tale massima in uno alla motivazione, si colgono i principali snodi critici affrontati e risolti dalla Corte.

Preliminarmente, quanto all’unica espressa eccezione al principio, il fatto che la detenzione p.a.c. debba risultare dagli atti ha consentito alla Corte di chiarire (in contrario avviso rispetto a Sez. 5, n. 37135 del 2003, ed a Sez. 6 , n. 20459 del 2009) – che l’A.G., la quale debba procedere alla notificazione di un atto ad un imputato non detenuto, non ha alcun obbligo di svolgere ricerche in ordine al suo “status libertatis”, con conseguente ritualità della notificazione effettuata ai sensi dell’art. 157 cod. proc. pen. Talché – valga aggiungere

– dovrebbe risultare confermata la conclusione che, qualora la detenzione p.a.c. non risulti dagli atti, è valida la notificazione effettuata presso il domicilio dichiarato o eletto dall’imputato (Sez. 3, n. 49584 del 27/10/2015, F., Rv. 265771-01).

In rapporto, “funditus”, al principio, la modalità di notificazione prevista dall’art. 156 cod. proc. pen. per l’imputato detenuto si applica all’imputato che si trovi in stato di detenzione

– anche a seguito di arresto o di fermo – in un istituto penitenziario situato nel territorio dello Stato (arg. ex art. 169, comma 5, cod. proc. pen.). All’imputato sono equiparati l’indagato, l’internato ed il condannato (salve, con riferimento a quest’ultimo, le deroghe previste da specifiche disposizioni di legge, come nel caso dell’art. 677, comma 2-bis, cod. proc. pen.). Siffatta modalità invece non si applica, con conseguente necessità che si proceda secondo quella prevista per l’imputato libero dall’art. 157 cod. proc. pen.,

- sia qualora il destinatario della notificazione si trovi sottoposto ad una misura alternativa alla detenzione, giacché una tale misura postula una condizione di libertà (come già ritenuto da Sez. 2, n. 45047 del 16/11/2011, Sgaramella, Rv. 251358-01, dalla Corte richiamata e condivisa);

- sia anche, alla stregua dell’art. 156, comma 3, cod. proc. pen., qualora il medesimo sia bensì detenuto, ma in luogo diverso da un istituto penitenziario (come nel caso, più frequente, di sottoposizione alla misura cautelare degli arresti domiciliari, ai sensi dell’art. 284 cod. proc. pen., cui in realtà se ne aggiungono svariati altri, contemplati dagli artt. 286 e 588, comma 4-bis, cod. proc. pen.; 52 e 53, D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274; 47-ter e 47-quinquies ord. pen.). In proposito, tuttavia, è necessario chiarire che – secondo la Corte – il richiamo dell’art. 156, comma 3, cod. proc. pen. all’art. 157 cod. proc. pen. «non va inteso a tutto il suddetto articolo (e, quindi, anche all’“incipit” [che fa salve le previsioni degli artt. 161 e 162 cod. proc. pen. in tema di notificazione nel domicilio dichiarato od eletto]), ma solo a quella parte della norma che, disciplinando le modalità esecutive della notifica, risulta coerente con lo “status detentionis”», atteso che la facoltà di dichiarare od eleggere domicilio è subordinata dall’art. 161 cod. proc. pen. alla condizione che l’imputato non sia «detenuto né internato» e che dunque la notificazione debba effettuarsi al medesimo ai sensi dell’art. 157, e non 156, cod. proc. pen. Pertanto la conclusione è che la disciplina della notificazione all’imputato detenuto in luogo diverso da un istituto penitenziario non si differenzia da quella applicabile al detenuto in un istituto penitenziario, dovendo la notificazione essere sempre effettuata a mani del destinatario nei suddetti luoghi, senza che assumano rilevanza elezioni o dichiarazioni di domicilio effettuate prima o durante la detenzione, eccezion fatta che per un singolo, limitato profilo: se l’imputato detenuto in luogo diverso da un istituto penitenziario è legittimamente assente da detto luogo, è possibile la consegna a persona convivente, al portiere o a chi ne fa le veci, in guisa di «forma sostitutiva della consegna “alla persona”». Siffatto insegnamento supera i due precedenti difformi rappresentati da Sez. 6, n. 3870 del 02/10/2008 (dep. 2009), Scarlata, Rv. 242396-01, e Sez. 6, n. 47324 del 20/11/2009, Maità, Rv. 245306-01, entrambi relativi ad imputato in detenzione domiciliare.

La dichiarazione o l’elezione di domicilio che l’imputato detenuto abbia effettuato prima o durante lo stato detentivo non sono nulle né “inutiliter datae”, in quanto nessuna disposizione di legge preclude al medesimo l’esercizio di siffatte facoltà, ma la loro efficacia resta sospesa per tutta la durata della detenzione, riacquistando vigore al momento della scarcerazione se egli, in tale occasione, per qualsiasi causa, non effettua una nuova dichiarazione od elezione ai sensi dell’art. 161, comma 3, cod. proc. pen., mentre, se effettua o l’una o l’altra, saranno queste a prevalere indifferentemente sulla dichiarazione od elezione effettuata prima o durante la detenzione, in forza del mero criterio temporale.

Due precisazioni paiono opportune:

- il riferimento a detto criterio si spiega alla luce di Sez. U, n. 41280 del 17/10/2006, C., Rv. 234905-01, in forza della quale «la dichiarazione di domicilio prevale su una precedente elezione di domicilio, pur non espressamente revocata»;

- la tesi condivisa dalla Corte – sostenuta, in precedenza, da Sez. 1, n. 114 del 29/10/2002 (dep. 2003), Paviani, Rv. 222992-01 – si contrappone a quella opinante per la nullità della «notifica all’imputato dell’estratto contumaciale della sentenza di condanna al domicilio dichiarato o eletto in sede di convalida dell’arresto» sul presupposto che l’art. 161, comma 1, cod. proc. pen. sarebbe «applicabile solo al domicilio dichiarato o eletto in sede di convalida dell’arresto dalla persona sottoposta a indagini o dall’imputato che non sia né detenuto né internato, mentre per il soggetto in stato di detenzione la rituale dichiarazione o elezione di domicilio [sarebbe solo] quella effettuata all’atto della scarcerazione, come disposto dall’art. 161, comma terzo cod. proc. pen.» (Sez. 4, n. 26437 del 2003, e Sez. 2, n. 2356 del 2005).

5.2. Nullità a regime intermedio della notificazione all’imputato detenuto effettuata nel domicilio dichiarato o eletto.

La massima “sub” Rv. 278869-02 completa il quadro disciplinare. Afferma la Corte, difformemente dalla Sezione rimettente, che la notificazione all’imputato detenuto effettuata nel domicilio dichiarato o eletto, anziché, come prescritto dall’art. 156 cod. proc. pen., nel luogo di detenzione, non è affetta da inesistenza o nullità assoluta ed insanabile ex art. 179 cod. proc. pen., ma da nullità a regime intermedio, soggetta quindi a sanatoria se non dedotta entro il termine di cui all’art. 180 cod. proc. pen. Con precipuo riguardo, poi, all’ipotesi della notificazione del decreto di giudizio immediato, di cui si verteva nella specie, la Corte, nuovamente rispondendo ad opposta presa di posizione della Sezione rimettente, precisa che, alla stregua della conclusione di cui al principio testé ricordato, non si verifica alcuna conculcazione della facoltà per l’imputato di chiedere riti alternativi, atteso che questi, qualora eccepisca per tempo la nullità del decreto di giudizio immediato, ha diritto ad un termine dilatorio di trenta giorni ex art. 456, comma 3, cod. proc. pen. durante il quale poter esercitare le facoltà preclusegli, compresa quella di instare per un siffatto rito. Anche in questo caso, soccorrono due considerazioni:

- quanto al principio, costituisce esso declinazione del fondamentale enunciato di Sez. U, n. 119 del 27/10/2004 (dep. 2005), Palumbo, Rv. 229539-01, ribadito, a distanza di poco più di un decennio, da Sez. U, n. 7697 del 24/11/2016 (dep. 2017), Amato, Rv. 269028-01, secondo cui la nullità assoluta della notificazione all’imputato consegue unicamente o ad un’omissione della stessa ovvero ad un’inosservanza delle forme prescritte, tale, però, da determinare una mancata conoscenza effettiva dell’atto da parte del medesimo, esulando, invece, nel caso di mera violazione delle regole sulle modalità dell’esecuzione. Orbene, in relazione alla sentenza n. 12778 del 2020 in commento, al di là dell’avere le Sezioni Unite, nel caso concreto, ritenuto che «la nullità verificatasi (notifica al difensore domiciliatario) [risultasse] sanata dal comportamento concludente dell’imputato e del suo difensore di fiducia i quali, alla prima udienza, nonostante fossero entrambi presenti, nulla eccepirono», quel che preme di rilevare è come Esse, nuovamente confermando l’insegnamento in particolare della sentenza Palumbo, abbiano disatteso l’opposta opinione seguitante a ravvisare, pur dopo questa, una nullità assoluta nell’«inosservanza delle modalità previste dall’art. 156 cod. proc. pen. per la notifica all’imputato detenuto del decreto di citazione a giudizio» senza viepiù accordare alcun «rilievo [al]l’eventuale conoscenza dell’udienza dibattimentale che l’imputato abbia in altro modo acquisito» (Sez. 6, n. 21848 del 21/05/2015, Fioravanti, Rv. 263629-01, e Sez. 2, n. 43720 del 11/11/2010, Visconti, Rv. 248978-01, che trovano precedenti diretti – prima della sentenza Palumbo – in Sez. 5, n. 8098 del 20/05/1998, Amerio, Rv. 211491-01, e Sez. 6, n. 10413 del 24/09/1993, La Tragna, Rv. 195871-01; più sfumata, ma comunque da considerarsi pur’essa ormai superata, la posizione di Sez. 5, n. 42302 del 09/10/2009, Di Palma, Rv. 245396-01, a termini della quale, «trattandosi di nullità [– quella della notificazione del decreto di citazione –] che concerne l’intervento dell’imputato nel giudizio e, quindi, il corretto instaurarsi del contraddittorio, essa deve essere qualificata come nullità di ordine generale[,] che non può, pertanto, ritenersi sanata dalla mancata eccezione del difensore presente all’udienza»);

- quanto alla fattispecie, la rimessione in termini dell’imputato che abbia eccepito la nullità (della notificazione) del decreto di giudizio immediato offre indiretta conferma all’impostazione di Sez. 6, n. 11807 del 03/02/2017, Muhammad, Rv. 270374-01, e di Sez. 2, n. 47147 del 11/11/2019, Di Dio – d’altronde espressamente richiamate dalle Sezioni Unite

– che escludono sussistere “in primis” alcuna «competenza funzionale ed inderogabile del giudice delle indagini preliminari a celebrare il giudizio abbreviato disposto a seguito di immediato» e per l’effetto alcuna nullità della «sentenza emessa nel rito alternativo svoltosi dinanzi al tribunale».

6. Ulteriore principio enunciato dalle Sezioni Unite in relazione alle conseguenze dello smarrimento di fonoregistrazioni riproducenti dichiarazioni testimoniali.

Oltre ai temi sin qui sviscerati, la sentenza che ne occupa si segnala, infine, per aver affrontato la questione delle conseguenze dello smarrimento delle fonoregistrazioni riproducenti talune dichiarazioni testimoniali regolarmente trascritte.

Il principio è consacrato dalla massima “sub” Rv. 278869-03: «La mancanza sopravvenuta, per qualsiasi causa, dei [relativi] nastri […] non dà luogo ad alcuna causa di nullità delle stesse, sia perché non espressamente prevista sia perché la documentazione di quanto avvenuto in udienza è attestata dalle trascrizioni, costituenti parte integrante del processo verbale».

Detto principio ha carattere di novità, ma non anche la parte finale della “ratio”, in quanto il costituire le trascrizioni «delle fonoregistrazioni e dei nastri stenotipici di deposizioni testimoniali […] parte integrante del verbale di udienza al quale sono allegate» è asserto ampiamente riscontrato [a partire da Sez. 1, n. 41749 del 19/10/2004, Falcone, Rv. 229813-01, seguita da Sez. 3, n. 3050 del 14/11/2007 (dep. 2008), Di Girolamo e altri, Rv. 238561-01, e da Sez. 2, n. 24929 del 18/04/2013, Ciarelli e altri, Rv. 256490-01].

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 12778, 27/02/2020 S., Rv. 278869-01 e Rv. 278869-02 Sez. U, n. 7697 del 24/11/2016 (dep. 2017), Amato, Rv. 269028-01 Sez. U, n. 41280 del 17/10/2006, C., Rv. 234905-01

Sez. U, n. 119 del 27/10/2004 (dep. 2005), Palumbo, Rv. 229539-01 Sez. 3, n. 50429 del 13/12/2019, S.

Sez. 5, n. 88 del 11/11/2019 (dep. 2020), G., Rv. 278199-01

Sez. 2, n. 47147 del 11/11/2019, Di Dio

Sez. 2, n. 21787 del 04/10/2018 (dep. 2019), Casali, Rv. 275592-01

Sez. 6, n. 20532 del 01/03/2018, A., Rv. 273420-01

Sez. 2, n. 15102 del 28/02/2017, Gulizzi, Rv. 269863-01

Sez. 6, n. 11807 del 03/02/2017, Muhammad, Rv. 270374-01

Sez. 3, n. 49584 del 27/10/2015, F., Rv. 265771-01

Sez. 6, n. 21848 del 21/05/2015, Fioravanti, Rv. 263629-01

Sez. 6, n. 4836 del 03/12/2014 (dep. 2015), Hassa, Rv. 262055-01

Sez. 2, n. 24929 del 18/04/2013, Ciarelli e altri, Rv. 256490-01 Sez. 2, n. 45047 del 16/11/2011, Sgaramella, Rv. 251358-01

Sez. 2, n. 43720 del 11/11/2010, Visconti, Rv. 248978-01

Sez. 6, n. 47324 del 20/11/2009, Maità, Rv. 245306-01 Sez. 5, n. 42302 del 09/10/2009, Di Palma, Rv. 245396-01

Sez. 3, n. 42836 del 30/09/2009, El Mami

Sez. 6, n. 20459 del 20/03/2009, Rizqy, Rv. 244277-01

Sez. 2, n. 17798 del 05/02/2009, Romeo, Rv. 243952-01

Sez. 6, n. 3870 del 02/10/2008 (dep. 2009), Scarlata, Rv. 242396-01, Sez. 3, n. 3050 del 14/11/2007 (dep. 2008), Di Girolamo e altri Sez. 5, n. 6491 del 24/01/2005, Fasanaro, Rv. 231426-01

Sez. 2, n. 2356 del 13/01/2005, Simioni, Rv. 230698-01

Sez. 1, n. 41749 del 19/10/2004, Falcone, Rv. 229813-01

Sez. 2, n. 47379 del 30/10/2003, Piazza, Rv. 227648-01

Sez. 5, n. 37135 del 10/06/2003, Bevilacqua, Rv. 226664-01

Sez. 4, n. 26437 del 30/04/2003, Jovanovic, Rv. 225861-01

Sez. 1, n. 114 del 29/10/2002 (dep. 2003), Paviani, Rv. 222992-01

Sez. 3, n. 1894 del 21/12/1999 (dep. 2000), Cappelli, Rv 215693-01

Sez. 5, n. 8098 del 20/05/1998, Amerio, Rv. 211491-01

Sez. 1, n. 4918 del 18/09/1997, Rea, Rv. 208507-01

Sez. 1, n. 11151 del 21/10/1996, Gulino, Rv. 206425-01 Sez. 6, n. 10413 del 24/09/1993, La Tragna, Rv. 195871-01 Sez. 6, n. 5222 del 11/03/1993, Belanzoni, Rv. 194024-01

  • procedura penale
  • domicilio
  • avvocato

CAPITOLO II

IL PROCESSO IN ASSENZA: LE SEZIONI UNITE E IL DIRITTO ALLA CONOSCENZA DEL PROCESSO DA PARTE DELL’ACCUSATO.

(di Anna Mauro )

Sommario

1 La questione controversa. - 2 Il fatto. - 3 Le ragioni del contrasto. - 4 La decisione delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate.

1. La questione controversa.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione sono state richieste di pronunciarsi in ordine alla questione concernente la conoscenza del procedimento nel caso di sola elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio effettuata in epoca antecedente alla modifica dell’art. 162 cod. proc. pen. a seguito della l. 23 giugno 2017, n. 103. La questione controversa, come cristallizzata nella formulazione dell’Ufficio del Massimario, è la seguente: “Se, ai fini della pronuncia della dichiarazione di assenza di cui all’art. 420-bis cod., proc. pen., integri di per sé presupposto idoneo l’intervenuta elezione da parte dell’indagato di domicilio presso il difensore d’ufficio nominatogli o, là dove non lo sia, possa comunque diventarlo nel concorso di altri elementi indicativi con certezza della conoscenza del procedimento o della volontaria sottrazione alla predetta conoscenza del procedimento o dei suoi atti”.

2. Il fatto.

La Corte di assise di appello di Genova, adita dal difensore d’ufficio dell’imputato, ritenuto in primo grado responsabile dei delitti di associazione per delinquere finalizzata all’introduzione illegale di stranieri in Italia, di procurato ingresso illegale di 106 cittadini extracomunitari nel territorio italiano e di false dichiarazioni rese alla polizia di Stato e condannato alla pena di anni otto, mesi quattro di reclusione ed euro 2.500.000,00 di multa, dichiarava d’ufficio la nullità della sentenza impugnata in quanto pronunziata a seguito di dichiarazione di assenza resa in carenza dei presupposti di legge e disponeva la trasmissione degli atti al giudice di prime cure.

I giudici d’appello rilevavano che l’imputato, sbarcato in Italia avendo effettuato il trasporto di 106 cittadini extracomunitari da Alessandria d’Egitto, quattro giorni dopo lo sbarco, veniva sottoposto a identificazione da parte della Squadra mobile di Genova e dichiarava altre generalità riferite a persona minorenne; nel verbale, in cui si dava atto che si sarebbe aperto un procedimento a suo carico per la violazione dell’art. 12, comma 3, legge n. 286 del 1998, l’interpellato dichiarava di essere privo di difensore di fiducia e, pertanto, gli veniva nominato il difensore d’ufficio presso il cui studio eleggeva domicilio. Tale atto, che dal giudice di primo grado, implicitamente, era stato ritenuto idoneo a fornire la prova, per gli effetti di cui all’art 420-bis, co. 2, cod. proc. pen., della conoscenza del procedimento e della volontà dell’imputato di sottrarsi allo stesso, non veniva considerato tale dalla Corte territoriale che riteneva, al contrario, che la dichiarazione di domicilio effettuata presso il difensore d’ufficio in sede di redazione del verbale di identificazione, non era idonea a far desumere la conoscenza dell’esistenza del procedimento penale a carico del dichiarante in quanto il procedimento penale si instaura soltanto con l’iscrizione del nome della persona sottoposta ad indagini nel registro delle notizie di reato. A fondamento della decisione adottata, i giudici d’appello rilevavano, tra l’altro, che nel verbale da cui risultava l’elezione di domicilio si faceva riferimento ad “un eventuale procedimento penale” e che, quindi, l’imputato non solo a quella data non poteva considerarsi indagato, ma non poteva neanche avere la certezza che nei suoi confronti si sarebbe instaurato un procedimento penale di cui, successivamente, essendosi allontanato dalla struttura ove era stato collocato e non essendo stato mai più rintracciato, non aveva più potuto ricevere alcun atto.

Per la Corte territoriale la sentenza di primo grado era dunque affetta da nullità assoluta ed insanabile in quanto, nonostante il giudizio si fosse svolto alla presenza del difensore d’ufficio che aveva anche proposto impugnazione, all’imputato era stata preclusa la possibilità di partecipare al giudizio e di proporre motivi personali d’appello.

Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Genova presentava ricorso per cassazione deducendo la violazione e l’erronea interpretazione dell’art. 420-bis cod. proc. pen. in quanto, rilevava, per assicurare la conoscenza o la conoscibilità del procedimento al soggetto interessato è sufficiente la notizia che, in relazione a certi comportamenti, possa essere iniziato un procedimento penale gravando, quindi, sull’indagato un obbligo di diligenza, se con di collaborazione, per cui egli non potrebbe proditoriamente approfittare del proprio disinteresse per avvalorare l’affermazione della mancata conoscenza del procedimento penale.

3. Le ragioni del contrasto.

Il contrasto all’interno della giurisprudenza di legittimità denunciato dalla prima sezione rimettente si ravvisa nell’individuazione della soglia raggiunta la quale si possa ritenere acquisita, secondo i dettami dell’art. 420-bis cod. proc. pen., la conoscenza dell’udienza o del procedimento da parte dell’imputato. Esso, quindi, rileva per un tema molto più ampio rispetto a quello immediatamente oggetto del quesito in quanto concerne l’interpretazione delle condizioni, indicate nell’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen., che consentono la celebrazione del processo in assenza dell’imputato anche quando questi non abbia ricevuto personalmente la notifica dell’udienza.

Secondo un primo indirizzo (Sez. 2, n. 9441 del 24/1/2017, Seli, Rv. 269221; Sez. 1, n. 16416 del 2/3/2017, Somai, Rv. 269843-01), la garanzia dell’elezione di domicilio effettuata al momento dell’identificazione da parte della polizia giudiziaria e riferita al difensore d’ufficio contestualmente nominato, non è sufficiente per legittimare la declaratoria di assenza in quanto, innanzitutto, siffatta elezione di domicilio è atto antecedente alla formale apertura del procedimento penale e non può quindi assicurare alcuna conoscenza di quest’ultimo e, inoltre, con il difensore d’ufficio, a differenza di quanto di regola accade con quello di fiducia con cui può presumersi che sussista un collegamento costante e diretto, è altamente probabile che non si sia creato alcun effettivo e reale legame tant’è che il legislatore nel 2017 ha avvertito la necessità di inserire nell’art. 162 cod. proc. pen. il comma 4-bis che richiede, ai fini dell’efficacia dell’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio, anche l’assenso di quest’ultimo.

Per un secondo indirizzo (Sez. 4, n. 49916 del 16/10/2018, F., Rv. 273999-01; Sez. 2, n. 39158 del 10/9/2019, Hafid Aiumin, Rv. 277100-01; Sez. 4, n. 32065 del 7/5/2019, Bianchi, Rv. 276707-01; Sez. 5, n. 36855 del 7/7/2016, Baron, Rv. 268322-01; Sez. 5, n. 12445 del 13/11/2015, dep. 2016, Degasperi, Rv. 266368-01; Sez. 2, n. 14787 del 25/1/2017, Xami, Rv. 269554-01; Sez. 2, n. 33574 del 14/7/2016, Suso, Rv. 267499), invece, è da ritenersi valida la notificazione all’imputato presso il difensore d’ufficio domiciliatario, indicato nel corso delle indagini preliminari, in ragione della presunzione di conoscenza del procedimento prevista dall’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen., la quale è superabile soltanto nel caso in cui risulti, ai sensi del successivo art. 420-ter, comma 1, che l’assenza sia stata determinata da assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento.

Tale ultimo orientamento si fonda sulla considerazione che per il legislatore la sussistenza di una delle situazioni elencate nell’art. 420-bis (la formalizzazione della dichiarazione o elezione di domicilio; l’arresto; la sottoposizione a misura cautelare; la nomina di un difensore di fiducia; la ricezione della notificazione dell’avviso di udienza a mani proprie), anche precedenti alla formale iscrizione nel registro delle notizie di reato, lascia presumere che l’imputato abbia avuto, con certezza, conoscenza del procedimento o si sia sottratto volontariamente a tale conoscenza.

Con riferimento al sindacato sulla correttezza della presunzione, secondo tale orientamento, solo nel caso in cui il giudice abbia proceduto in assenza dell’imputato nonostante la sussistenza di una delle ipotesi di cui all’art. 420-ter, comma 1 (caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento) è consentita la denuncia per violazione di legge, mentre, com’ è previso nell’art. 420-ter, comma 2, ultima parte, cod. proc. pen., nel caso di dubbio, il giudice potrà effettuare una libera valutazione sul punto che non potrà formare oggetto di discussione successiva, né motivo di impugnazione.

A tale impostazione consegue che, nel caso in cui venga fatta richiesta di revisione del giudicato perché si è proceduto in assenza del condannato o di chi è stato sottoposto a misura di sicurezza, non vi sarà spazio per la revoca della sentenza e per la rinnovazione del processo ove l’interessato abbia eletto domicilio presso un difensore d’ufficio poiché, in tale caso, deve escludersi l’incolpevole mancata conoscenza del processo avendo l’imputato l’onere di attivarsi per tenere contatti informativi con il proprio difensore sullo sviluppo del procedimento a suo carico. Secondo il primo orientamento, invece, (in termini, Sez. 6, n. 43140 del 19/9/2019, Shimi Limam, Rv. 277210-01), in caso di rescissione del giudicato, la conoscenza che preclude la rescissione deve essere riferita all’accusa contenuta in un provvedimento formale di vocatio in iudicium e non può considerarsi sufficiente la conoscenza dell’avviso di chiusura delle indagini e il sistema di conoscenza legale, che si fonda sulla regolarità delle notifiche, non incide sulla questione della conoscenza effettiva del procedimento.

4. La decisione delle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 23948 del 28/11/2019, dep. 2020, Ismail, Rv. 279420- 01, hanno affermato il seguente principio di diritto: “Ai fini della dichiarazione di assenza non può considerarsi presupposto idoneo la sola elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio, da parte dell’indagato, dovendo il giudice, in ogni caso, verificare, anche in presenza di altri elementi, che vi sia stata l’effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l’indagato, tale da fargli ritenere con certezza che quest’ultimo abbia avuto conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente alla stessa. (Principio affermato in relazione a fattispecie precedente all’introduzione dell’art. 162, comma 4-bis, cod. proc. pen. ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103)”.

Tale principio, pur se pronunziato in relazione ad un caso concreto che riguardava un’elezione di domicilio non assentita dal difensore d’ufficio in quanto anteriore all’introduzione, con l. n. 103 del 2017, del comma 4-bis nell’art. 162 cod. proc. pen., ha carattere generale e riguarda la disciplina vigente.

Le Sezioni Unite, partendo dall’esame dei principi più volte affermati dalla Corte di Strasburgo e in linea con le disposizioni euro-unitarie, sulla scia di quanto già ritenuto in altra propria precedente decisione (Sez. U., n. 28912 del 28/2/2019, Innaro, Rv. 275716-01) – che ha affrontato il tema dell’effettiva conoscenza del procedimento da parte del contumace ai fini della restituzione nel termine per impugnare secondo la disciplina dell’art. 175, comma 2, cod. proc. pen. vigente dopo la riforma del 2005 e sino all’introduzione delle norme in tema di processo in assenza – svolgono un ragionamento volto ad armonizzare l’ordinamento interno con la normativa e la giurisprudenza euro-unitaria.

Il principio cardine su cui si innesta il ragionamento della Corte è quello secondo cui, all’esito dell’introduzione delle norme sul processo in assenza, interpretate con un penetrante e costante sguardo ai principi euro-unitari, occorre distinguere, onde procedere ad una corretta dichiarazione di assenza, il profilo relativo alla regolarità delle notifiche da quello concernente l’effettiva conoscenza del processo.

Prima dell’entrata in vigore della l. 28 aprile 2014, n. 67, nella vigenza delle norme in tema di contumacia, nel caso di omessa comparizione dell’imputato, per la dichiarazione di contumacia era sufficiente la verifica della regolarità formale delle notifiche all’esito della quale il giudice era obbligato a procedere in contumacia e il dato dell’effettiva conoscenza o meno del processo era sostanzialmente irrilevante; gli indici di conoscenza effettiva potevano acquistare rilievo solo nel caso di successiva richiesta, a norma dell’art. 175 cod. proc. pen., di remissione in termini per proporre impugnazione.

Tale sistema, come più volte sottolineato dalla Corte Edu (sentenze Colozza c. Italia; Somogyi c. Italia; Sejdovic c. Italia), non implicando necessariamente la sicura conoscenza dell’accusa, confliggeva con il principio, affermato dall’art. 6 della CEDU, del giusto processo per attuare il quale, come segnalato costantemente dalla Corte di Strasburgo, occorre che il giudice si accerti che l’accusato abbia avuto quantomeno la possibilità di avere la conoscenza reale, completa ed effettiva dell’imputazione non essendo sufficiente la mera conoscenza di un atto del procedimento anche se propedeutico all’instaurazione del giudizio.

Con la riforma di cui alla l. n. 67 del 2014 è stato introdotto il principio della legittimità del processo in assenza dell’imputato solo ove essa sia “volontaria”: all’imputato, dunque, deve essere portata a conoscenza diretta e personale, la vocatio in iudicium e solo in tal caso, ove egli non presenzi al processo, potrà ritenersi che abbia esercitato la facoltà, che gli compete, di non parteciparvi; nei casi dubbi, il giudice dovrà far rinnovare la notificazione e, nell’ipotesi di irreperibilità di fatto, dovrà sospendere il processo a norma dell’art. 420-quater cod. proc. pen.

La Corte, quindi, precisa che chiare conferme testuali consentono di ritenere che il legislatore, anche in materia, fa un uso generale e promiscuo del termine “procedimento” con il quale spesso non si intende per nulla far riferimento espressamente ad una nozione più ampia di quella di “processo” (si pensi, tanto per citare un solo caso, alle disposizioni di cui all’art. 629-bis cod. proc. pen. che, in materia di rescissione del giudicato, al primo comma, adoperano il termine “processo” mentre, al secondo comma, con riferimento alla medesima fase, utilizzano il termine “procedimento”).

Dall’esame della motivazione delle Sezioni Unite ciò che appare effettivamente innovativo rispetto al precedente panorama giurisprudenziale è l’affermazione secondo cui gli indici di conoscenza individuati nell’art. 420-bis del codice di rito (dichiarazione o elezione di domicilio; nomina di un difensore di fiducia; sottoposizione a misure cautelari o reali) non possono considerarsi alla stregua di presunzioni in quanto siffatte presunzioni sarebbero da ritenere, sul piano letterale, assolute con la conseguenza che la parte non potrebbe mai limitarsi a dimostrare che la notifica, formalmente regolare, non abbia avuto effetto, ma dovrebbe anche dimostrare che la conoscenza era stata preclusa da un ulteriore accadimento. Tale interpretazione, osserva la Corte, non solo è in violazione con le norme convenzionali come interpretate dalla Corte Edu, ma si appalesa in pieno contrasto con l’intendimento del legislatore del processo in absentia posto che, con tale riforma, si è inteso superare definitivamente il sistema del processo in contumacia e la valorizzazione estrema del sistema delle notifiche. Gli indicatori individuati nell’art. 420-bis cod. proc. pen. non possono essere intesi alla stregua di presunzioni, neanche relative, di conoscenza, del tutto avulse da una conoscenza effettiva e devono invece essere intesi alla stregua di mere esemplificazioni di un accertamento in fatto che è comunque richiesto al giudice il quale, in ogni caso, dovrà valutare se la decisione di non comparire nel processo sia stato frutto di una decisione libera e volontaria dell’interessato che sia stato previamente informato del contenuto dell’imputazione, degli atti a sostegno dell’accusa e del giorno, ora e luogo di celebrazione del processo. Nei casi dubbi, al fine di assicurare il pieno esercizio del diritto di difesa, il giudice dovrà disporre la notifica a mani proprie ad opera della polizia giudiziaria al fine di informare l’imputato pienamente dell’esistenza del processo e, in caso di esito negativo delle nuove ricerche, sospendere il giudizio.

Le Sezioni Unite, dunque, conseguentemente, hanno ritenuto che la disposizione di cui all’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen. debba essere ricollegata alla successiva previsione di cui all’art. 420-quater poiché in tal modo si comprende che tutte le condizioni per procedere in assenza ex art. 420-bis corrispondono ad una situazione di piena conoscenza personale della chiamata in giudizio o di comprovato rifiuto. Gli indici di conoscenza dell’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen., genericamente indicati nella disposizione normativa, devono essere interpretati secondo la loro funzione per cui, con riferimento al caso specifico sottoposto all’attenzione della Corte, l’elezione di domicilio deve essere “seria” e “reale” nel senso che deve sussistere un rapporto effettivo tra il soggetto e il luogo presso il quale dovrebbero essere indirizzati gli atti; quando poi l’elezione di domicilio viene effettuata presso il difensore d’ufficio occorre verificare che si tratti di nomina accettata (come ora richiesto, a seguito della l. n. 103 del 2017, dall’art. 162, comma 4-bis cod. proc. pen.) e che sussista un regolare rapporto informativo tra difensore e assistito.

In conclusione, dunque, la Corte rileva che le disposizioni di cui all’art. 420-bis cod. proc pen. devono essere lette nel senso che “l’attività dell’autorità giudiziaria è facilitata perché (esclusivamente) alle date condizioni” (di sussistenza di uno degli indici di conoscenza) “non è ritenuta necessaria la notifica a mani proprie, ma potrà essere sufficiente quella effettuata a mani della persona convivente etc.” Al di fuori di tali ipotesi, la notifica andrà effettuata a mani proprie. Solo tale lettura delle norme in questione assicura, dunque, per le Sezioni Unite, la piena conformità ai principi e all’evoluzione delle disposizioni processuali in tema di processo in absentia, consentito solo ove il giudice abbia acquisito la certezza della conoscenza originaria del processo da parte dell’imputato o della sua volontaria sottrazione alla stessa.

A tale ragionamento consegue, alla luce anche delle decisioni della Corte EDU (in particolare, sent. Rizzotto c. Italia), che lo stato di latitanza, che nell’ordinanza di rimessione viene indicato come una condizione che comporterebbe la piena consapevolezza dell’esistenza e del contenuto del procedimento, di per sé non può essere sufficiente per dedurre la rinuncia a difendersi perché “prima che si possa considerare che un imputato abbia con il proprio comportamento, implicitamente rinunciato a un diritto importante dal punto di vista dell’art. 6 della Convenzione, è necessario stabilire che egli avrebbe potuto ragionevolmente prevedere le conseguenze del suo comportamento”. Ovviamente, come precisato nella sentenza in commento, ciò non esclude che in concreto, possano rilevare circostanze specifiche collegate alla latitanza, come ad esempio, la nomina di un difensore di fiducia e, in tal caso, troveranno applicazione i principi di cui si è detto sopra.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U., n. 328912 del 28/2/2019, Innaro, Rv. 275116-01

Sez. 5, n. 12445 del 13/11/2015 (dep. 2016), Degasperi, Rv. 266368-01

Sez. 2, n. 33574 del 14/7/2016, Suso, Rv. 267499-01

Sez. 5, n. 36855 del 7/7/2016, Baron, Rv. 267322-01

Sez. 1, n. 16416 del 2/3/2017, Somai, Rv. 269843-01

Sez. 2, n. 14787 del 25/1/2017, Xhami, Rv. 269554-01

Sez. 2, n. 9441 del 24/1/2017, Seli, Rv. 269221-01

Sez. 4, n. 49916 del 16/10/2018, F., Rv. 273999-01

Sez. 4, n. 32065 del 7/5/2019, Bianchi, Rv. 276707-01

Sez. 2, n. 39158 del 10/9/2019, Hafid Aiumin, RV. 277100-01 Sez. 6, n. 43140 del 19/9/2019, Shimi Limam, Rv. 277210-01

Sentenze della Corte EDU Colozza c. Italia, del 12/2/1985

Sejdovic c. Italia, del 10/11/2004

Somogyi c. Italia, del 18/5/2004

Rizzotto c. Italia, del 5 /9/2019

SEZIONE IV PROVE.

  • prova
  • prova informatica

CAPITOLO I

QUESTIONI RELATIVE ALL’USO DEL CAPTATORE INFORMATICO NELLE INDAGINI.

(di Luigi Giordano )

Sommario

1 La disciplina delle intercettazioni per mezzo del captatore informatico. - 2 La disciplina transitoria della riforma. - 3 L’utilizzo del captatore informatico nelle indagini in attesa delle nuove norme. - 4 L’uso del captatore per le indagini concernenti i reati contro la pubblica amministrazione. - 5 Il captatore informatico come mero mezzo tecnico per eseguire intercettazioni tra presenti. - 6 Il captatore e la libertà di determinazione della persona intercettata. - 7 L’intercettazione di immagini. - 8 Le questioni “tecniche” conseguenziali all’uso del trojan. - 9 La mancata indicazione nel verbale del nominativo dell’ausiliario di polizia giudiziaria che ha inoculato il virus. - 10 La pretesa natura “fraudolenta” del mezzo adoperato. - 11 L’uso dell’energia elettrica altrui. - 12 L’area operativa delle questioni di inutilizzabilità. - 13 Il rischio di captare dialoghi con il difensore. - 14 L’intercettazione tramite trojan di conversazioni intervenute all’estero. - Indice delle sentenze citate.

1. La disciplina delle intercettazioni per mezzo del captatore informatico.

Una delle principali novità normative del 2020 è rappresentata dalla disciplina delle intercettazioni tra presenti eseguite mediante l’inserimento di un captatore informatico su un dispositivo elettronico portatile. Tale disciplina, come è noto, è contenuta nella riforma delle intercettazioni che è stata approvata all’esito di un singolare iter normativo partito con la legge n. 103 del 2017, intitolata “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”. All’art. 1, comma 82, questa legge delegava il Governo all’adozione di decreti legislativi per la modifica di alcuni istituti del processo penale e, in particolare, per la riforma delle intercettazioni di conversazioni e comunicazioni. Il comma 84, sempre dell’art. 1, dettava una serie di princìpi e di criteri per la riforma della disciplina delle intercettazioni che possono essere distinti in due nuclei. Il primo riguardava la regolamentazione dell’utilizzazione nel procedimento penale delle captazioni e le conseguenziali regole per la divulgazione del materiale registrato. Il secondo polo di princìpi e di criteri concerneva proprio la disciplina delle intercettazioni di comunicazioni o conversazioni tra presenti mediante immissione di captatori informatici in dispositivi elettronici portatili, cioè le captazioni mediante virus informatici del tipo cd. trojan.

In attuazione dei criteri contenuti nelle disposizioni della legge n. 103 del 2017, è stato adottato il d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, recante “Disposizioni in materia di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 84, lettere a), b), c), d) ed e), della legge 23 giugno 2017, n . 103” (cd. riforma Orlando), che ha provveduto ad una riforma della disciplina delle intercettazioni.

L’art. 9 del d.lgs. n. 216 del 2017 disciplina i tempi di attuazione della riforma.

Tale norma prevedeva originariamente che le disposizioni di cui agli art. 2, 3, 4, 5 e 7 del d.lgs. si applicassero alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il centottantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto (che è quella del 26 gennaio 2018, cioè quindici giorni dopo la pubblicazione avvenuta in data 11 gennaio 2011). La disposizione di cui all’art. 2, comma 1, lett. b), dello stesso d.lgs., cioè quella relativa alla possibilità di pubblicare l’ordinanza cautelare, invece, avrebbe dovuto acquistare efficacia decorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore del decreto. La relazione governativa giustificava questo diverso termine con la necessità di sperimentare il nuovo modello di ordinanza cautelare che è stato introdotto dalla riforma. Nell’art. 291 cod. proc. pen., infatti, è stato inserito il nuovo comma 1-ter secondo cui «Quando è necessario, nella richiesta sono riprodotti soltanto i brani essenziali delle comunicazioni e conversazioni intercettate».

Le sole norme del d.lgs. n. 216 del 2017 entrate in vigore secondo i termini ordinari, pertanto, sono state quelle previste dall’art. 1, che ha introdotto il nuovo reato di “Diffusione di riprese audiovisive e registrazioni di comunicazioni effettuate fraudolentemente” di cui all’art. 617-septies cod. pen., che punisce la diffusione, al fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, di riprese o registrazioni effettuate fraudolentemente, e dall’art. 6, che concerne le disposizioni per la semplificazione delle condizioni per l’impiego delle intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.

Il momento dell’efficacia delle nuove norme, peraltro, è stato progressivamente differito fino al 31 dicembre 2019 (in forza dell’art. 2, comma 1, del d.l. 25 luglio 2018, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 settembre 2018, n. 108; poi della legge 30 dicembre 2018, n. 145, c.d. legge di bilancio; quindi, dell’art. 9, comma 2, lett. a), del d.l. 14 giugno 2019, n. 53, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2019, n. 77).

Nelle more della maturazione del termine per l’applicazione della riforma cd. “Orlando”, la materia è stata integralmente riformata dal d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, recante modifiche urgenti alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio 2020, n. 7, che ha modificato o abrogato alcune delle disposizioni del menzionato d.lgs. n. 216 del 2017.

L’art. 1 di tale decreto-legge, oltre ad operare alcune modifiche alla disciplina delle intercettazioni di comunicazioni o di conversazioni, relative in particolare all’utilizzo nelle indagini del captatore informatico e al procedimento di selezione e di acquisizione probatoria dei risultati del mezzo di ricerca della prova, ha prorogato il termine a partire dal quale trovano applicazione le norme previste dal d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, stabilendo che tali norme si applicano ai procedimenti penali iscritti dopo il 30 aprile 2020 (mentre la disposizione di cui all’art. 2, comma 1, lett. b), dello stesso d.lgs. n. 216 del 2017, concernente la pubblicazione dell’ordinanza cautelare, avrebbe dovuto acquistare efficacia, per tutti provvedimenti, “vecchi e nuovi”, a decorrere dal 1° maggio 2020).

In seguito, il d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito con modificazioni dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, ha nuovamente differito il termine per l’applicazione delle nuove norme, stabilendo che esse si debbano applicare ai procedimenti penali iscritti dopo il 31 agosto 2020 (mentre l’efficacia della disposizione di cui all’art. 2, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 216 del 2017, relativa alla pubblicazione dell’ordinanza cautelare, è stata spostata al 1° settembre 2020).

2. La disciplina transitoria della riforma.

L’art. 1 del d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, dunque, ha modificato l’art. 9 d.lgs. n. 216 del 2019, che contiene una disposizione transitoria relativa ai termini per l’applicazione della riforma della disciplina delle intercettazioni.

Con tale disposizione - iniziando dalla parte di più agevole lettura di cui all’art. 9, comma 2, d.lgs. n. 216 del 2017 - è stato previsto che la nuova disciplina della pubblicazione dell’ordinanza cautelare debba essere applicata a tutti i procedimenti dal 1° settembre 2020, senza distinguere se si tratta di procedimenti già iscritti nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen. oppure di nuova iscrizione.

Con la stessa norma, poi, è stato stabilito che la nuova disciplina delle intercettazioni, salvo che per il profilo appena indicato, si applica “ai procedimenti penali iscritti dopo il 30 aprile 2020”, termine poi spostato al 31 agosto 2010 e, quindi, non più “alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il 31 dicembre 2019”, come previsto in precedenza.

Per effetto di questa disposizione, sembra essere stato stabilito un sistema che potrebbe essere descritto come una sorta di “doppio binario” quanto ai limiti temporali per l’applicazione della disciplina del mezzo di ricerca della prova, che dipende dalla data di iscrizione del procedimento penale. Una interpretazione letterale, infatti, conduce a ritenere che, per i procedimenti iscritti fino al 31 agosto 2020, continui ad essere applicabile la disciplina previgente.

Il meccanismo adottato per la determinazione dell’efficacia delle nuove norme pare sia stato suggerito dall’esigenza di sopperire a difficoltà di ordine pratico, consistenti nell’evitare la commistione di discipline diverse applicabili alle intercettazioni disposte nello stesso procedimento.

Tale criterio, peraltro, potrebbe suscitare perplessità sul piano teorico, perché non fondato sul principio “tempus regit actum”, che invece ispirava la precedente versione della stessa disposizione la quale, come si è visto, faceva riferimento all’epoca di adozione dei decreti autorizzativi.

Esso, in ogni caso, potrebbe far insorgere questioni di diritto transitorio, ad esempio, nel caso in cui all’iscrizione di un reato, avvenuta entro il 31 agosto 2020, ne seguano altre in epoca successiva aventi ad oggetto nuovi titoli di reato. In tale ipotesi, l’eventuale applicazione del principio dell’autonomia di ogni iscrizione, che invero è stato elaborato ai fini del computo del termine di durata delle indagini preliminari (per tale principio si veda Sez. 6, n. 19053 del 12/03/2003, Fumarola, Rv. 227380; Sez. 4, n. 32776 del 06/07/2006, Meinero, Rv. 234822; Sez. 6, n. 11472 del 02/12/2009, dep. 2010, Paviglianiti, Rv. 246525; Sez. 2, n. 29143 del 22/03/2013, Doronzo, Rv. 256457; Sez. 2, n. 22016 del 06/03/2019, Nicotra, Rv. 276965), determinerebbe l’applicazione delle nuove norme per le indagini relative alle successive iscrizioni.

Questioni di diritto intertemporale potrebbero porsi anche qualora due o più procedimenti, con una diversa data di iscrizione, per alcuni antecedente e per altri successiva al 31 agosto 2020, siano stati riuniti oppure quando, da un procedimento iscritto prima del 1° settembre 2020, ne scaturisca, per separazione, un altro iscritto dopo tale data.

Per superare le difficoltà interpretative illustrate è stato prospettato che, in ragione della formulazione letterale adoperata dalla disciplina transitoria (“procedimenti penali iscritti”), non debba trovare applicazione il principio dell’autonomia di ogni iscrizione stabilito dal codice di rito per il computo del termine di durata delle indagini preliminari. Secondo questa interpretazione, la nuova disciplina delle intercettazioni si applica ai procedimenti penali iscritti a partire dal 1° settembre 2020, da intendersi come procedimenti iscritti “per la prima volta” a partire da tale data nel registro delle notizie di reato previsto dall’art. 335 cod. proc. pen., senza che assuma alcun rilievo l’aggiornamento delle notizie di reato iscritte o l’iscrizione nel medesimo procedimento di ulteriori notizie di reato dopo la data indicata.

È stata prospettata, inoltre, la necessità di ricorrere all’elaborazione giurisprudenziale relativa al divieto di utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi di cui all’art. 270 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 51 del 28/11/2019, dep. 2020, Cavallo, Rv. 277395 - 01) per distinguere i casi in cui la nuova iscrizione di reati o l’aggiornamento di quelle precedenti rientra nell’ambito dello “stesso procedimento”, imponendo l’applicazione della disciplina previgente.

La formulazione letterale dalla norma, invero, è il principale dato ermeneutico che sostiene tale interpretazione. Al riguardo, è stato evidenziato che è significativo non tanto l’impiego del termine “procedimento”, che può assumere connotazioni diverse, quanto quello di “iscrizione” riferito a detto procedimento, con ciò intendendosi univocamente la formazione del fascicolo a seguito della prima iscrizione della notizia di reato ex art. 335 cod. proc. pen.

Rispetto alla data della prima iscrizione del procedimento, pertanto, non avrebbero effetto, ai fini della determinazione della disciplina delle intercettazioni applicabile, né gli aggiornamenti o le modifiche delle iscrizioni della notizia di reato, né le nuove iscrizioni di reati connessi cui si dovesse procedere a seguito delle investigazioni in corso.

3. L’utilizzo del captatore informatico nelle indagini in attesa delle nuove norme.

In attesa della maturazione del termine per l’applicazione delle nuove norme, la Suprema Corte, nel corso del 2020, si è confrontata in numerose decisioni con l’utilizzo del captatore informatico nelle indagini per eseguire intercettazioni.

In particolare, una delle principali questioni sollevate in sede di legittimità ha riguardato la stessa possibilità di ricorrere al captatore per realizzare intercettazioni prima che le nuove norme che disciplinano tale strumento sono divenute efficaci. Al riguardo, la Corte ha affermato che la circostanza che l’utilizzo del captatore informatico sia stato autorizzato in data anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. 29/12/2017, n. 216, non implica affatto l’assenza di copertura normativa per l’impiego di tale mezzo di ricerca della prova (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 35010 del 30/09/2020, Monaco; Sez. 5, n. 32428 del 24/09/2020, Marzano; Sez. 5, n. 33140 del 28/09/2020, Pepe; Sez. 5, n. 29712 del 24/09/2020, Pronjaj). Come è stato chiarito da Sez. U, n. 26889 del 28/04/2016, Scurato, Rv. 266905, infatti, l’intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante l’installazione di un captatore informatico in un dispositivo elettronico è consentita nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata per i quali trova applicazione la disciplina di cui all’art. 13 del d.l. 13/05/1991, n. 152, convertito dalla legge 12/07/1991, n. 203, che consente la captazione anche nei luoghi di privata dimora, senza necessità di preventiva individuazione ed indicazione di tali luoghi e prescindendo dalla dimostrazione che siano sedi di attività criminosa in atto (Sez. 5, n. 31606 del 30/09/2020, Pici).

La circostanza che il d.lgs n. 216 del 2017 abbia positivizzato alcuni aspetti tecnici delle captazioni, pertanto, non può significare che le operazioni eseguite senza detti accorgimenti perché precedenti all’entrata in vigore della disposizione possano essere reputate inutilizzabili (Sez. 5, n. 31849 del 28/09/2020, Leto).

Nello stesso tempo, la Corte ha osservato che la pretesa di applicare la riforma del 2017 anche alle intercettazioni disposte in data anteriore all’entrata in vigore di quest’ultima, «presuppone la dimostrazione - in realtà non ravvisabile - che le regole enucleate dalla sentenza Scurato siano non semplicemente diverse da quelle successive, ma inadeguate a proteggere valori di rilievo costituzionale» (Sez. 5, n. 29712 del 24/09/2020, Pronjaj, cit.). In tal modo, è stato riconosciuto che l’art. 13 del d.l. dapprima citato e l’interpretazione che ne ha proposto la sentenza delle Sezioni unite “Scurato” assicurano comunque un elevato grado di garanzia alle prerogative individuali. Anzi, è stato precisato che la perimetrazione dell’uso del captatore, così come determinato dalla giurisprudenza delle Sezioni unite, «consente di cogliere propensione alla “cautela” verso l’utilizzo di tale strumento anche antecedentemente alla riforma delle intercettazioni del 2017» (Sez. 5, n. 33140 del 28/09/2020, Pepe, cit.).

È stato ritenuto legittimo, quindi, l’uso del captatore per i reati di criminalità organizzata, ossia nei procedimenti elencati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. nonché in quelli comunque facenti capo ad un’associazione per delinquere. Per tali delitti trova applicazione la disciplina prevista dall’art. 13 del d.l. n. 151 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, che consente la captazione anche nei luoghi di privata dimora, senza necessità della preventiva individuazione e dell’indicazione dei suddetti luoghi e prescindendo dalla dimostrazione che essi siano sedi di attività criminosa in atto purché tale qualificazione risulti ancorata a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari, evidenziati nella motivazione del provvedimento di autorizzazione in modo rigoroso (Sez. 5, n. 25959 del 23/07/2020, Chicello; Sez. 2, n. 31440 del 24/07/2020, Galea).

La descritta disciplina speciale delle intercettazioni, inoltre, trova applicazione, in ragione della sua natura processuale, anche per le indagini relative a delitti commessi, al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. (art. 51 cod. proc. pen., comma 3-bis), prima dell’introduzione, nella disciplina sostanziale degli illeciti penali, della circostanza aggravante indicata dal d.l. n. 152 del 1991, art. 7, convertito con legge n. 203 del 1991 (Sez. 1, n. 17647 del 19/02/2020, Schirippa).

Anche nel 2020, però, la Suprema Corte ha precisato come, «proprio in considerazione della forza intrusiva del mezzo usato, la qualificazione del fatto reato, ricompreso nella nozione di criminalità organizzata, deve risultare ancorata a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari, evidenziati nella motivazione del provvedimento di autorizzazione» (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 35010 del 30/09/2020, Monaco, cit.) , oggetto di sindacato di legittimità da parte della Corte di cassazione in ordine alla sussistenza di tali presupposti (Sez. 5, n. 33140 del 28/09/2020, Pepe, cit.).

4. L’uso del captatore per le indagini concernenti i reati contro la pubblica amministrazione.

L’art. 6 del d.lgs. n. 216 del 2017 - che come si è visto è entrato in vigore il 26 gennaio 2018 - ha esteso ai procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, la disciplina delle intercettazioni prevista per i delitti di criminalità organizzata dall’art. 13 del d.l. n. 152 del 1991, conv., con modificazioni, dalla l. n. 203 del 1991 ed integrato con d.l. n. 306 del 1992, conv., con modificazioni, dalla l. n. 356 del 1992.

Il comma secondo di questa stessa diposizione prevedeva una specifica disciplina per l’impiego del captatore informatico nei luoghi domiciliari nelle indagini relative ai reati contro la pubblica amministrazione. Tale norma, infatti, stabiliva che, nel caso di intercettazioni eseguite tramite captatore informatico in uno dei luoghi di cui all’art. 614 cod. pen., era necessario che sia stata raggiunta la prova che in detto luogo è in corso l’attività criminosa. Questa norma, quindi, non aveva esteso ai procedimenti relativi ai reati contro la pubblica amministrazione una delle deroghe alla disciplina ordinaria delle intercettazioni previste dall’art. 13 del d.l. n. 152 del 1991 per le captazioni in materia di criminalità organizzata - quella per la quale per le intercettazioni in ambienti domiciliari non occorre che sia in corso l’attività criminosa - determinando una sorta di tertium genus tra la disciplina delle intercettazioni per reati comuni e quelle di criminalità organizzata.

L’art. 1, comma 3, della legge n. 3 del 2019, cd. Spazzacorrotti, tuttavia, ha abrogato proprio l’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 216 del 2017.

L’abrogazione ha determinato una delicata questione concernente l’eventuale ampliamento dell’area operativa dell’art. 6, comma 1, del d.lgs. 216 del 2017 e, quindi, all’estensione, ai reati più gravi dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, dell’intera la disciplina dell’art. 13 del d.l. n. 152 del 1991, con l’eliminazione della restrizione dell’uso del captatore informatico nei luoghi indicati dall’art. 614 cod. pen.

La Corte di Cassazione ha ritenuto che lo strumento informatico possa essere usato anche nelle indagini per i reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, in conformità della disciplina introdotta dell’art. 13 del d.l. n. 152 del 1991, affermando che «la possibilità di utilizzare il captatore informatico preesiste e prescinde dalla modifica del testo codicistico operata dall’art. 4 del d. lgs. 216 del 2017, e deriva direttamente, come hanno precisato le sezioni unite penali, dall’art. 13 del d.l. 152 del 1991, norma il cui ambito di efficacia è stato esteso dall’art. 6 del d. lgs. 261 del 2017 anche ai più gravi reati contro la p.a.». (Cassazione civile, Sez. U, n. 741 del 15/01/2020).

È stato sostenuto, pertanto, che «Non coglie, quindi, nel segno l’osservazione secondo la quale la norma di cui all’art. 266, comma 2-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 4 d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, che consente sempre le intercettazioni mediante il captatore informatico nei procedimenti per i delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. sarebbe destinata a trovare applicazione solo in riferimento ai fatti commessi successivamente alle date stabilite dall’art. 9 dello stesso decreto e dall’art. 1, comma 4, lett. a), legge n. 3 del 9/01/2019, posto che omette di considerare che la disposizione in parola ha esteso la possibilità di legittima utilizzazione del captatore informatico anche nelle indagini «per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni», di modo che è solo ai fatti sussumibili in queste fattispecie criminose che si riferisce il differimento dell’applicazione della disposizione evocata» (Sez. 5, n. 31605 del 30/09/2020, Pepe).

5. Il captatore informatico come mero mezzo tecnico per eseguire intercettazioni tra presenti.

Secondo l’orientamento ormai consolidato della Corte, invero, il captatore informatico è solo uno strumento messo a disposizione dalla moderna tecnologia, attraverso il quale è possibile effettuare una intercettazione ambientale. «Dunque, non viene in rilievo una “prova atipica”, né un aggiramento delle regole della “prova tipica”, poiché, già prima della entrata in vigore della specifica disciplina contenuta nel d. lgs. n. 216 del 2017 (che invece ne estende l’applicabilità, a determinate condizioni, anche ai reati comuni), l’impiego del trojan horse, quale mezzo per eseguire la captazione di conversazioni tra presenti, era regolamentato dagli artt. 266, 267 e 271 cod. proc. pen. - interpretati in senso restrittivo dalle Sezioni Unite Scurato, che hanno bandito tale strumento per tutti i reati comuni, al fine di scongiurare in radice il pericolo di una incontrollabile intrusione nella sfera privata delle persone - con la speciale deroga, nella specie operante, di cui all’art. 13 d.l. n. 152 del 1991» (Sez. 5, n. 31606 del 30/09/2020, Pici, cit.).

Sulla base di tale presupposto, del resto, di recente una pronuncia ha ritenuto utilizzabili le intercettazioni acquisite tramite la collocazione di microspie anziché mediante l’impiego di un software spia, così come invece era originariamente disposto nel decreto autorizzativo del giudice; ciò perché - si è detto - la modifica delle modalità esecutive delle captazioni, concernendo un aspetto meramente tecnico, può essere autonomamente disposta dal pubblico ministero, non occorrendo un apposito provvedimento da parte del giudice per le indagini preliminari (Sez. 6, n. 45486 del 8/3/2018, Romeo, Rv. 274934).

6. Il captatore e la libertà di determinazione della persona intercettata.

La Corte, in particolare, ha escluso che l’utilizzo del trojan nelle indagini costituisca un metodo investigativo o una tecnica d’indagine idonea ad influire sulla libertà morale della presone, conducendo all’acquisizione di una prova in violazione dell’art. 188 cod. proc. pen. È stato affermato, infatti, che «Va escluso che il captatore informatico possa inquadrarsi tra “i metodi o le tecniche” idonee ad influire sulla libertà di determinazione del soggetto, come tali vietati dall’art. 188 cod. proc. pen. Il trojan horse non esercita alcuna pressione sulla libertà fisica e morale della persona, non mira a manipolare o forzare un apporto dichiarativo, ma, nei rigorosi limiti in cui sono consentite le intercettazioni, capta le comunicazioni tra terze persone, nella loro genuinità e spontaneità» (Sez. 5, n. 31606 del 30/09/2020, Pici, cit.; Sez. 5, n. 31604 del 30/09/2020, Palazzo; Sez. 5, n. 31602 del 30/09/2020, Lazzari).

7. L’intercettazione di immagini.

La Suprema Corte, sempre nel 2020, ha affermato che l’intercettazione tra presenti, realizzata per mezzo del captatore informatico, può riguardare anche comportamenti cd. “comunicativi” (Sez. F., n. 26111 del 2/09/2020, Porcaro). Il sistema captativo, costituito dal microfono e dalla telecamera dello smartphone, infatti, può essere adoperato per intercettare parole, ma anche per riprendere gesti. In questa decisione, la Corte ha ribadito i principi espressi da un fondamentale arresto delle Sezioni unite (Sez. U, n. 26795 del 28/03/2006, Prisco, Rv. 234267) secondo cui costituiscono prove atipiche ai sensi dell’art. 189 cod. proc. pen., con conseguente inapplicabilità della disciplina sulle intercettazioni, le videoriprese di comportamenti non aventi contenuto comunicativo effettuate in luogo pubblico, aperto o esposto al pubblico, dovendosi intendere, invece, per comportamenti comunicativi, intercettabili solo previo provvedimento di autorizzazione dell’Autorità giudiziaria, quelli finalizzati a trasmettere il contenuto di un pensiero mediante la parola, i gesti, le espressioni fisiognomiche o altri atteggiamenti idonei a manifestarlo (cfr., in precedenza, Sez. 6, n. 52595 del 04/11/2016, Rv. 268936). Le captazioni audiovisive, invece, rientrano nelle intercettazioni ambientali (cfr. di recente, Sez. 6, n. 14150 del 14/02/2019, Rv. 275464) e, sussistendone i presupposti, possono essere disposte anche in ambienti privati.

In tema di videoregistrazioni eseguite in ambiente privato, peraltro, è stato osservato che la legittimità delle riprese di comportamenti “comunicativi” o “ non comunicativi” deve essere valutata secondo un criterio prognostico “ex ante”, al momento in cui le operazioni sono state autorizzate dall’autorità giudiziaria, prescindendo dagli esiti delle stesse, con la conseguenza che sono utilizzabili le videoriprese legittimamente autorizzate per captare eventuali comunicazioni gestuali, pur se rivelatesi “ex post” solo rappresentative di condotte materiali non comunicative” (Sez. 3, n. 15206 del 21/11/2019, dep. 2020, P., Rv. 279067 - 01). Una applicazione di questo principio pare ravvisarsi nella sentenza dapprima illustrata laddove è stato precisato che l’indagato, per mezzo del captatore, è stato «immortalato in primo piano nel luogo dove sono state rinvenute e sequestrati armi e droga», lasciando intendere che di tali ultime immagini, di natura non comunicativa, sia stato fatto uso processuale.

8. Le questioni “tecniche” conseguenziali all’uso del trojan.

È stato altresì precisato che le questioni relative all’installazione degli strumenti tecnici per l’intercettazione - come nella specie il virus trojan - in relazione all’obiettivo da intercettare non attengono alla fase autorizzativa dell’attività investigativa demandata al giudice per le indagini preliminari, né alla verifica dei presupposti di legittimità delle intercettazioni, bensì alla fase esecutiva, già coperta dall’autorizzazione a disporre le stesse intercettazioni (Sez. 5, n. 32426 del 24/09/2020, Guadaniello).

La fase esecutiva, inoltre, è consegnata alle prerogative del pubblico ministero che può delegare la polizia giudiziaria alle operazioni materiali di installazione tecnica degli strumenti (software, hardware, trojan) idonee a dar vita, in concreto, alle intercettazioni; eventuali modifiche degli strumenti già indicati nel decreto autorizzativo del GIP come quelli da utilizzare per eseguire le captazioni possono essere disposte dallo stesso pubblico ministero (Sez. 5, n. 32426 del 24/09/2020, Guadaniello, cit.).

Le operazioni di collocazione e disinstallazione del materiale tecnico necessario per eseguire le captazioni, anche tramite virus trojan, costituiscono atti materiali rimessi alla contingente valutazione della polizia giudiziaria, consentiti dalla finalità pubblica di procedere ad attivare il mezzo di ricerca della prova anche quando consistono in un’intrusione da parte degli agenti incaricati dell’esecuzione in luoghi privati o altrui o, come nel caso del captatore informatico, in dispositivi informatici tramite inserimento di un software spia; l’omessa documentazione delle operazioni svolte dalla polizia giudiziaria non dà luogo ad alcuna nullità od inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni ambientali (Sez. 5, n. 32426 del 24/09/2020, Guadaniello, cit.).

Alle intercettazioni ambientali realizzate tramite captatore informatico, pertanto, sono stati estesi i principi giurisprudenziali elaborati con riferimento all’utilizzo di mezzi “tradizionali” per realizzare le captazioni. Le operazioni esecutive di installazione degli strumenti tecnici atti a captare le conversazioni tra presenti devono ritenersi implicitamente autorizzate ed ammesse con il provvedimento che dispone l’intercettazione; difatti si è affermato che la collocazione di microspie all’interno di un luogo di privata dimora, costituendo una delle naturali modalità attuative di tale mezzo di ricerca della prova, deve ritenersi implicitamente ammessa nel provvedimento che ha disposto le operazioni di intercettazione, senza la necessità di una specifica autorizzazione (cfr. Sez. 6, n. 14547 del 31/1/2011, Di Maggio, Rv. 250032; Sez. 1, n. 24539 del 9/12/2003, dep. 2004, Rigato, Rv. 230097). Tale principio è diretta conseguenza del fatto che le intercettazioni di comunicazioni sono un mezzo di ricerca della prova funzionale al soddisfacimento dell’interesse pubblico all’accertamento di gravi delitti, tutelato dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., con il quale il principio di inviolabilità del domicilio previsto dall’art. 14 Cost. e quello di segretezza della corrispondenza e di qualsiasi forma di comunicazione previsto dall’art. 15 Cost. devono coordinarsi, subendo la necessaria compressione (Sez. 2, n. 21644 del 18/02/2013, Badagliacca, Rv. 255541; Sez. 1, n. 38716 del 02/10/2007, Biondo, Rv. 238108; Sez. 4 n. 47331 del 28/09/2005, Cornetto, Rv. 232777; Sez. 6, n. 4397 del 10/11/1997, Greco, Rv. 210062).

Le operazioni di collocazione e disinstallazione del materiale tecnico necessario per eseguire le captazioni, poi, costituiscono atti materiali rimessi alla contingente valutazione della polizia giudiziaria, non essendo compito del pubblico ministero indicare le modalità dell’intrusione negli ambiti e luoghi privati ove verrà svolta l’intercettazione poiché la finalità di intercettare conversazioni telefoniche e/o ambientali consente all’operatore di polizia la materiale intrusione, per la collocazione dei necessari strumenti di rilevazione nei luoghi oggetto di tali mezzi di ricerca della prova (Sez. 5, n. 32426 del 24/09/2020, Guadaniello, cit.); l’omessa documentazione delle operazioni svolte dalla polizia giudiziaria, pertanto, non dà luogo ad alcuna nullità od inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni ambientali (cfr. in precedenza, Sez. 6, n. 39403 del 23/6/2017, Nobile, Rv. 270941; Sez. 6, n. 41514 del 25/9/2012, Adamo, Rv. 253805).

9. La mancata indicazione nel verbale del nominativo dell’ausiliario di polizia giudiziaria che ha inoculato il virus.

L’operazione informatica implica sovente il ricorso a soggetti esterni alla polizia giudiziaria. Secondo un indirizzo giurisprudenziale, la mancata indicazione del nome dell’ausiliario che ha provveduto all’installazione del virus informatico per l’intercettazione, difetto che può inscriversi nella categoria dell’omessa documentazione delle operazioni svolte dalla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero all’esecuzione delle operazioni autorizzate, non dà luogo ad inutilizzabilità o nullità dei risultati delle intercettazioni (Sez. 5, n. 32426 del 24/09/2020, Guadaniello). L’art. 271 del codice di rito, infatti, sanziona con l’inutilizzabilità solo l’inosservanza delle disposizioni di cui agli artt. 267 e 268 commi 1 e 3 cod. proc. pen. La mancata indicazione nel verbale di esecuzione delle operazioni, redatto ai sensi dell’art. 89 disp. att. cod. proc. pen., delle generalità dell’ausiliario che abbia provveduto alla materiale attività di installazione del captatore informatico tramite virus trojan non può determinare alcuna sanzione di inutilizzabilità, stante l’assenza di richiami in tal senso nell’art. 271 cod. proc. pen.

È stato esteso alle intercettazioni tramite trojan quanto si è affermato nel caso della mancata indicazione delle generalità degli ausiliari utilizzati per la traduzione delle intercettazioni di conversazioni che si svolgano in lingua straniera. L’opzione dominante nella giurisprudenza di legittimità ha stabilito che l’omessa indicazione, nel verbale di esecuzione delle intercettazioni, delle generalità dell’interprete di lingua straniera che abbia proceduto all’ascolto, traduzione e trascrizione delle conversazioni, non è causa di inutilizzabilità dei risultati di tali operazioni, essendo tale sanzione prevista solo per i casi tassativamente indicati dall’art. 271 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 7030 del 16/1/2020, Polak, Rv. 278659; Sez. 5, n. 15472 del 19/01/2018, Kochev, Rv. 272683; Sez. 6, n. 5197 del 10/11/2017, dep. 2018,

Feretti, Rv. 272151; Sez. 6, n. 31285 del 23/03/2017, Lleshaj, Rv. 270570; Sez. 3, n. 24305 del 19/01/2017, Mifsud, Rv. 269985; Sez. 5, n. 25549 del 15/04/2015, Silagadze, Rv. 268024; Sez. 6, n. 24141 del 04/06/2008, El Arbaoui, Rv. 240372; Sez. 6, n. 30783 del 12/07/2007, Barbu. Rv. 237088).

Più in generale, riguardo ai rischi derivanti dal servirsi di personale proveniente da ditte private per l’installazione del trojan, è stato ribadito che la previsione dell’art. 267 cod. proc. pen., secondo cui «il pubblico ministero procede alle operazioni personalmente ovvero avvalendosi di un ufficiale di polizia giudiziaria», si riferisce unicamente alle operazioni previste dal precedente art. 266, ossia le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche o di altre forme di telecomunicazioni, con la conseguenza che qualsiasi altra «operazione» diversa, ancorché correlata, dalle suddette non rientra nella previsione normativa evocata e legittimamente, dunque, può essere svolta da personale civile (Sez. 5, n. 32426 del 24/09/2020, Guadaniello, non mass., in precedenza, Sez. 4, n. 3307 del 01/12/2016, dep. 2017, Agnotelli, Rv. 269012; Sez. 6, n. 39403 del 23/6/2017, Nobile, cit.; Sez. 3, n. 11116 del 07/01/2014, Vita, Rv. 259744).

10. La pretesa natura “fraudolenta” del mezzo adoperato.

Una questione sollevata in merito all’uso del captatore nelle indagini ha riguardato la fraudolenza della modalità di installazione del virus cd. trojan per mezzo del quale è possibile attuare l’intercettazione. Tale fraudolenza determinerebbe la collaborazione dello stesso soggetto intercettato, inconsapevole ed ingannato. Questa modalità ingannevole e subdola sarebbe illegittima poiché ciò che l’ordinamento consente è solo l’attività occulta di apprensione del flusso di informazioni (l’intercettazione in sé delle conversazioni) mentre non può ritenersi liceizzata la frode strumentale all’attivazione dell’intercettazione, pena la violazione degli artt. 2 e 15 della Costituzione e dei diritti fondamentali da tali disposizioni garantiti.

La Suprema Corte non ha accolto tale eccezione, rilevando che, «se la finalità di intercettare conversazioni telefoniche e/o ambientali consente all’operatore di polizia la materiale intrusione, per la collocazione dei necessari strumenti di rilevazione, negli ambiti e nei luoghi di privata dimora, oggetto di tali mezzi di ricerca della prova, senza che il pubblico ministero, delegato per l’esecuzione, sia tenuto a precisare le modalità di intrusione delle microspie in tali luoghi e senza che la relativa omissione determini alcuna nullità dell’atto … allo stesso modo, la medesima finalità di intercettazione consente all’operatore di polizia, ovvero ad un suo delegato (di solito un privato, tecnico della società specializzata incaricata dell’esecuzione delle operazioni di inoculazione del software spia), di introdursi, anche da remoto, nel dispositivo elettronico-target indicato nel decreto autorizzativo del giudice e di installare il trojan mediante le modalità tecniche necessarie e utilizzando gli strumenti tecnologici opportuni» (cfr., Sez. 5, n. 35010 del 30/09/2020, Monaco, cit.).

Sul punto, poi, è stato aggiunto che «in tema di intercettazioni tramite captatore informatico, la fraudolenza dell’intrusione nel dispositivo-target tramite virus trojan, poiché costituisce una delle naturali modalità attuative di tale mezzo di ricerca della prova, deve ritenersi implicitamente ammessa nel provvedimento che ha disposto le operazioni di intercettazione, senza la necessità di una specifica autorizzazione (cfr. Sez. 6, n. 14547 del 31/1/2011, Di Maggio, Rv. 250032; Sez. 1, n. 24539 del 9/12/2003, dep. 2004, Rigato, Rv. 230097) e pienamente legittima dal punto di vista del bilanciamento tra il soddisfacimento dell’interesse pubblico all’accertamento di gravi delitti, tutelato dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., con il principio di inviolabilità della sfera di riservatezza e segretezza di qualsiasi forma di comunicazione previsto dall’art. 15 Cost.» (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 35010 del 30/09/2020, Monaco, cit.). Queste affermazioni si segnalano perché segnano l’estensione dei principi elaborati dalla giurisprudenza per le intercettazioni realizzate con mezzi tradizionali a quelle compiute tramite trojan, con l’implicita, ma definitiva affermazione secondo cui il captatore è solo uno strumento tecnico adoperato per eseguire captazioni tra presenti.

11. L’uso dell’energia elettrica altrui.

La Corte ha anche escluso che l’utilizzo del captatore informatico per intercettare le comunicazioni o le conversazioni altrui determini una lesione del diritto di proprietà privata, previsto dall’art. 42 Cost., con riguardo alla utilizzazione dell’energia acquistata dagli stessi soggetti intercettati per la ricarica delle batterie del dispositivo elettronico “infettato” ed all’utilizzo di quest’ultimo in quanto tale. A tal proposito è stato sostenuto che «le conseguenze di “perdita” e “sottrazione” patrimoniale di una quota del proprio diritto di proprietà da parte del soggetto intercettato rimangono soccombenti, anche per la loro minima compressione, rispetto all’obiettivo, egualmente legittimo dal punto di vista costituzionale, del soddisfacimento dell’interesse pubblico all’accertamento di gravi delitti, tutelato dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost.» (cfr., Sez. 5, n. 35010 del 30/09/2020, Monaco, cit.).

12. L’area operativa delle questioni di inutilizzabilità.

La Corte, più in generale, ha precisato che tra le questioni di inutilizzabilità anche delle intercettazioni realizzate tramite captatore non rientrano quelle relative a violazioni delle norme che disciplinano la fase esecutiva del mezzo di ricerca della prova diverse da quelle contenuti nell’art. 268, comma 1 e 3, cod. proc. pen. È stato ribadito che «è la stessa formulazione dell’art. 271 cod. proc. pen. che rende “chiuso” e tassativo il richiamo volto alla sanzione di inutilizzabilità dei contenuti dell’intercettazione, riferendolo alla sola inosservanza delle disposizioni previste dall’art. 267, sui presupposti e forme del provvedimento autorizzativo, e, per quel che riguarda la fase esecutiva, dall’art. 268, commi primo e terzo, cod. proc. pen. Pertanto, la sanzione d’inutilizzabilità degli esiti di intercettazioni telefoniche o ambientali, anche tramite trojan, stante il principio di tassatività, non può essere dilatata sino a comprendervi l’inosservanza delle disposizioni di cui all’art. 89 disp. att. cod. proc. pen., non espressamente richiamato dall’art. 271 cod. proc. pen.» (cfr., Sez. 5, n. 35010 del 30/09/2020, Monaco, cit.).

13. Il rischio di captare dialoghi con il difensore.

È stato sostenuto che, nel momento in cui si legittima l’idea di un’intercettazione itinerante, di fatto non si pone alcun vincolo spaziale, con la conseguenza che si assume il rischio che la captazione possa avvenire negli studi dei difensori, degli investigatori privati e dei consulenti di parte dell’indagato. Sul punto, la Corte ha precisato che l’eventuale captazione dei colloqui con i soggetti predetti è colpita dalla sanzione di inutilizzabilità di cui all’art. 103, commi 5 e 7, cod. proc. pen. e di cui al combinato disposto degli artt. 200 e 271 cod. proc. pen., la cui operatività può emergere, tuttavia, solo successivamente allo svolgimento del monitoraggio. Tale valutazione, infatti, può essere effettuata solo ‘a valle’ delle operazioni di intercettazione, anche perché occorre discernere, nell’ambito delle conversazioni registrate con i professionisti suddetti, quelle che attengono all’esercizio della funzione svolta, alle quali - sole - si riferisce il limite di utilizzabilità. «Ebbene, una valutazione di tal genere, che concerne non solo l’identità degli interlocutori, ma anche il contenuto delle conversazioni, non può che avvenire con una verifica postuma, come costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte: l’art. 103, comma 5, cod. proc. pen., nel vietare le intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni dei difensori, riguarda l’attività captativa in danno del difensore in quanto tale ed ha dunque ad oggetto le sole conversazioni o comunicazioni - individuabili, ai fini della loro inutilizzabilità, a seguito di una verifica postuma - inerenti all’esercizio delle funzioni del suo ufficio e non si estende ad ogni altra conversazione che si svolga nel suo ufficio o domicilio» (cfr., Sez. 5, n. 33141 del 28/09/2020, Calosso)

14. L’intercettazione tramite trojan di conversazioni intervenute all’estero.

Sempre nel 2020, la Corte si è confrontata con una fattispecie che fa comprendere immediatamente le notevoli potenzialità investigative del captatore informatico. In particolare, la Corte ha affermato che l’intercettazione ambientale a mezzo “captatore informatico”, inoculato tramite “malaware” in Italia, eseguita anche all’estero, non richiede l’attivazione di una rogatoria per il solo fatto che la persona intercettata si sposti anche in territorio straniero ed ivi si svolgano le conversazioni intercettate, atteso che l’installazione del captatore è avvenuta in territorio nazionale e la captazione nei suoi sviluppi finali e conclusivi si è realizzata in Italia attraverso le centrali di ricezione che fanno capo alla procura della Repubblica (Sez. 2, n. 29362 del 22/07/2020, Cerisano, Rv. 279815 - 01). In questa decisione, la Corte ha evidenziato che lo strumento è per sua natura “itinerante”, non essendo possibile conoscere anticipatamente tutti gli spostamenti della persona intercettata, sicché appare ininfluente lo spostamento all’estero al fine di ritenere la necessità della rogatoria, a meno di non voler così vanificare la finalità del mezzo di ricerca della prova. Pertanto, «deve ritenersi che, quando il captatore informatico sia installato in Italia e la captazione avvenga, di fatto, in Italia attraverso le centrali di ricezione collocate sul territorio italiano, la sola circostanza che le conversazioni siano state effettuate, in parte, all’estero e ivi “temporaneamente” registrate tramite wi-fi locale a causa dello spostamento del cellulare, sul quale è stato inoculato il trojan, non può implicare l’inutilizzabilità dell’intercettazione per difetto di rogatoria» (Sez. 2, n. 31440 del 24/07/2020, Galea). La procedura di cui all’art. 727 e ss. cod. proc. pen., invece, riguarda esclusivamente gli interventi da compiersi all’estero e che richiedono, quindi, l’esercizio della sovranità propria dello Stato estero; conseguentemente, non è ipotizzabile alcuna rogatoria per un’attività di fatto svolta in Italia e, pertanto, ivi autorizzata e realizzata secondo le regole del codice di rito.

Queste decisioni hanno il merito di aver precisato come il sistema di intercettazione non sia costituito solamente dal captatore, cioè dal software (rectius, malware), che viene inserito nell’apparecchio, ma anche dalle piattaforme necessarie per il loro funzionamento, che ne consentono il controllo e la gestione da remoto e che ricevono i dati inviati dal captatore in relazione alle funzioni investigative attivate. I dati raccolti, infatti, sono trasmessi, per mezzo della rete internet, in tempo reale o ad intervalli prestabiliti, ad altro sistema informatico in uso agli investigatori. In particolare, «i dati provenienti dal captatore informatico devono essere cifrati e devono transitare su un canale protetto sino al server della procura che è il primo ed unico luogo di memorizzazione del dato. Ogni file è dunque cifrato e reca una password diversa rispetto a quella utilizzata per la memorizzazione sul server; ne consegue che ogni file per essere ascoltato deve essere decriptato» (Sez. 2, n. 29362 del 22/07/2020, Cerisano, cit.). La registrazione delle conversazioni, eventualmente tramite wi-fi sito in uno Stato estero, perciò, costituisce solo una fase intermedia di una più ampia attività di captazione iniziata sul territorio italiano ed oggetto di registrazione, nella sua fase finale e conclusiva, sempre in Italia. Nel caso dell’utilizzo del trojan anche per intercettare dialoghi che avvengono all’estero, il server della procura è il primo e l’unico luogo di memorizzazione del dato captato (Sez. 2, n. 31440 del 24/07/2020, Galea, cit.).

Le pronunce in esame, peraltro, hanno esteso alle intercettazioni compiute tramite trojan gli orientamenti elaborati in tema di intercettazione tra presenti realizzate con strumenti tradizionali.

È stato fatto riferimento, in primo luogo, all’indirizzo secondo cui l’intercettazione di comunicazioni tra presenti eseguita a bordo di una autovettura attraverso una microspia installata nel territorio nazionale, non richiede l’attivazione di una rogatoria per il solo fatto che il suddetto veicolo si sposti anche in territorio straniero ed ivi si svolgano alcune delle conversazioni intercettate (Sez. 2, n. 51034 del 4/11/2016, Rv. 268514). L’alternativa, non potendosi, nel caso di intercettazione ambientale su mezzo mobile, conoscere tutti gli spostamenti della persona, sarebbe quella di vanificare le finalità del mezzo di ricerca della prova (Sez. 4, n. 8588 del 6/11/2007, dep. 2008, Rv. 238951).

È stato richiamato, inoltre, l’orientamento consolidato secondo cui l’intercettazione può legittimamente essere realizzata mediante la procedura dell’instradamento (ma, forse, sul piano tecnico sarebbe meglio utilizzare il termine roaming), che permette di compiere la captazione nel momento in cui per la conversazione è impegnato un “nodo tecnologico” o una “centrale telefonica” che si trova in Italia. Detta procedura, quindi, non determina la violazione delle norme sulle rogatorie internazionali, perché la captazione e la registrazione delle conversazioni è interamente realizzata sul territorio italiano e non si verifica alcuna intrusione nella giurisdizione dello Stato estero, ove si trova uno degli interlocutori ovvero entrambi o il dispositivo captato ovvero ove si trova l’impalcatura informatica su cui sono transitati i dati registrati. Il ricorso alla rogatoria, invece, è necessario solo per gli interventi da compiere integralmente all’estero ed anzi esclusivamente per l’intercettazione di conversazioni captate soltanto da una compagnia telefonica straniera che, di conseguenza, non sono “instradati” su nodi di comunicazione nazionali (cfr. Sez. 3, n. 38009 del 10/05/2019, Assisi, Rv. 278166 - 03; Sez. 6, n. 7634 del 12/12/2014, dep. 2015, Nardella, Rv. 262495). Alla figura dell’instradamento è stato fatto riferimento, di recente, dalla giurisprudenza per la captazione di messaggi tra apparecchi del tipo Blackberry. Al riguardo, è stata esclusa la necessità di esperire una rogatoria internazionale per carpire le conversazioni che utilizzano questi dispositivi allorquando l’attività di captazione del flusso comunicativo avviene in Italia, perché i telefoni sono localizzati nella nostra nazione o almeno uno di essi impiega un nodo interno per le comunicazioni (Sez. 6, n. 39925 del 22/09/2015, Solimando) L’acquisizione della messaggistica, scambiata mediante sistema Blackberry e gestito tramite server collocato in territorio estero, non necessita di rogatoria internazionale nel caso in cui la registrazione dei dati sia avvenuta in Italia, a nulla rilevando che per “decriptare” gli elementi identificativi associati ai cd. codici PIN, assegnati dalla compagnia che eroga il servizio all’apparecchio dell’utente, sia necessario ricorrere alla collaborazione del produttore del sistema operativo avente sede all’estero (Sez. 3, n. 47557 del 26/09/2019, Scognamiglio, Rv. 277990 - 03).

È stato affermato, pertanto, che, a nulla rileva, sul piano del rispetto della giurisdizione, il fatto che per decriptare i dati identificativi associati ai codici identificativi dell’apparecchio Blackberry (che si chiamano “pin”) sia indispensabile ricorrere alla collaborazione del produttore del sistema operativo avente sede all’estero per l’impiego dell’algoritmo necessario per la decifrazione dei flussi informatici (Sez. 4, n. 49896 del 15/10/2019, PG C/ Brandimarte, Rv. 277949; Sez. 4, n. 16670, del 8/04/2016, Fortugno, Rv. 266983).

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze dalla Corte di cassazione

Sez. 6, n. 4397 del 10/11/1997, Greco, Rv. 210062

Sez. 6, n. 19053 del 12/03/2003, Fumarola, Rv. 227380

Sez. 1, n. 24539 del 9/12/2003, dep. 2004, Rigato, Rv. 230097

Sez. 4 n. 47331 del 28/09/2005, Cornetto, Rv. 232777 Sez. U, n. 26795 del 28/03/2006, Prisco, Rv. 234267 Sez. 4, n. 32776 del 06/07/2006, Meinero, Rv. 234822

Sez. 6, n. 30783 del 12/07/2007, Barbu, Rv. 237088

Sez. 1, n. 38716 del 02/10/2007, Biondo, Rv. 238108

Sez. 4, n. 8588 del 6/11/2007, dep. 2008, Rv. 238951

Sez. 6, n. 24141 del 04/06/2008, El Arbaoui, Rv. 240372

Sez. 6, n. 11472 del 02/12/2009, dep. 2010, Paviglianiti, Rv. 246525 Sez. 6, n. 14547 del 31/1/2011, Di Maggio, Rv. 250032

Sez. 6, n. 41514 del 25/9/2012, Adamo, Rv. 253805

Sez. 2, n. 21644 del 18/02/2013, Badagliacca, Rv. 255541

Sez. 2, n. 29143 del 22/03/2013, Doronzo, Rv. 256457

Sez. 3, n. 11116 del 07/01/2014, Vita, Rv. 259744

Sez. 5, n. 25549 del 15/04/2015, Silagadze, Rv. 268024

Sez. 6, n. 7634 del 12/12/2014, dep. 2015, Nardella, Rv. 262495 Sez. 6, n. 39925 del 22/09/2015, Solimando

Sez. 4, n. 16670, del 8/04/2016, Fortugno, Rv. 266983

Sez. 6, n. 52595 del 04/11/2016, Rv. 268936

Sez. 2, n. 51034 del 4/11/2016, Rv. 268514

Sez. 4, n. 3307 del 01/12/2016, dep. 2017, Agnotelli, Rv. 269012

Sez. 3, n. 24305 del 19/01/2017, Mifsud, Rv. 269985

Sez. 6, n. 31285 del 23/03/2017, Lleshaj, Rv. 270570

Sez. 6, n. 39403 del 23/6/2017, Nobile, Rv. 270941

Sez. 6, n. 5197 del 10/11/2017, dep. 2018, Feretti, Rv. 272151

Sez. 5, n. 15472 del 19/01/2018, Kochev, Rv. 272683

Sez. 6, n. 45486 del 8/3/2018, Romeo, Rv. 274934

Sez. 6, n. 14150 del 14/02/2019, Rv. 275464

Sez. 2, n. 22016 del 06/03/2019, Nicotra, Rv. 276965

Sez. 3, n. 38009 del 10/05/2019, Assisi, Rv. 278166 - 03

Sez. 3, n. 47557 del 26/09/2019, Scognamiglio, Rv. 277990 - 03 Sez. 4, n. 49896 del 15/10/2019, PG C/ Brandimarte, Rv. 277949 Sez. 3, n. 15206 del 21/11/2019, dep. 2020, P., Rv. 279067 - 01

Sez. U, n. 51 del 28/11/2019, dep. 2020, Cavallo, Rv. 277395 Sez. 5, n. 7030 del 16/1/2020, Polak, Rv. 278659

Sez. 1, n. 17647 del 19/02/2020, Schirippa

Sez. 2, n. 29362 del 22/07/2020, Cerisano, Rv. 279815 - 01

Sez. 5, n. 25959 del 23/07/2020, Chicello Sez. 2, n. 31440 del 24/07/2020, Galea Sez. F., n. 26111 del 2/09/2020, Porcaro

Sez. 5, n. 32426 del 24/09/2020, Guadaniello Sez. 5, n. 32428 del 24/09/2020, Marzano Sez. 5, n. 29712 del 24/09/2020, Pronjaj

Sez. 5, n. 33141 del 28/09/2020, Calosso Sez. 5, n. 35010 del 30/09/2020, Monaco Sez. 5, n. 33140 del 28/09/2020, Pepe Sez. 5, n. 31849 del 28/09/2020, Leto Sez. 5, n. 31606 del 30/09/2020, Pici

SEZIONE V PROCEDIMENTI SPECIALI.

  • procedura penale
  • prova

CAPITOLO I

ABBREVIATO CONDIZIONATO E MODIFICA DELL’IMPUTAZIONE NON COLLEGATA ALL’ATTIVITÀ INTEGRATIVA ESPLETATA.

(di Marzia Minutillo Turtur )

Sommario

1 Il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite. - 2 La vicenda processuale. - 3 I motivi di ricorso. - 4 L’ordinanza di rimessione. - 5 La giurisprudenza di legittimità. - 6 La sentenza della Corte costituzionale n. 140 del 2010. - 7 La decisione delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate.

1. Il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, nell’ambito di un ampio confronto giurisprudenziale relativo alla ampiezza e possibilità di procedere alla modifica dell’imputazione a seguito di integrazione probatoria nel corso di giudizio abbreviato, con sentenza pronunciata nella udienza pubblica del 18 Aprile 2019, dep. il 13 Febbraio 2020, n. 5788, Halan, Rv. 277706 - 01, hanno enunciato il principio di diritto che è stato così massimato: “Nel corso del giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria a norma dell’art . 438, comma 5, cod . proc . pen . o nel quale l’integrazione sia stata disposta a norma dell’art . 441, comma 5, dello stesso codice, è possibile la modifica dell’imputazione solo per i fatti emergenti dagli esiti istruttori ed entro i limiti previsti dall’art . 423 cod . proc . pen .”.

2. La vicenda processuale.

La questione risolta trova la sua origine nell’ambito di un’attività di indagine che portava al giudizio immediato per le imputazioni di omicidio e incendio. L’imputato chiedeva ritualmente di accedere al rito abbreviato, condizionato ad un accertamento peritale sul proprio telefono cellulare; rito ammesso dal giudice contestualmente ad ulteriori integrazioni istruttorie disposte d’ufficio. Venivano, quindi, realizzate le attività disposte d’ufficio e il pubblico ministero, prima ancora dell’espletamento dell’accertamento peritale, contestava in via suppletiva alcune aggravanti da riferire all’omicidio contestato, tra le quali quella dei motivi abietti e futili (in considerazione della gelosia che aveva spinto l’imputato ad agire), nonché un ulteriore capo di imputazione relativo all’occultamento di cadavere.

La difesa dell’imputato, sia dinnanzi al g.i.p. nell’immediatezza, che dinnanzi alla corte d’assise d’appello con i motivi di appello, rilevava l’inammissibilità di siffatte contestazioni poiché non correlate in alcun modo alle integrazioni probatorie richieste e disposte. Sia il g.i.p. che la corte d’assise di appello rigettavano l’eccezione in tal senso proposta e l’imputato veniva condannato per il delitto di omicidio aggravato dai motivi abietti e futili, esclusa la premeditazione, nonché in ordine ai delitti, unificati dalla continuazione, di danneggiamento di veicolo seguito da pericolo di incendio e occultamento di cadavere, alla pena di trenta anni di reclusione, già diminuita ex art. 442, comma 2, cod. proc. pen.

3. I motivi di ricorso.

Il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione articolando quattro motivi. Quanto alla questione rimessa alle Sezioni Unite della Corte, ha dedotto, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c), la violazione della legge processuale, e segnatamente degli art. 438, 441, e 441-bis cod. proc. pen. In particolare, il difensore ha sostenuto che la modifica dell’imputazione - quanto alle aggravanti dell’omicidio e alla nuova contestazione del delitto di occultamento di cadavere - non correlata in alcun modo all’integrazione probatoria espletata e ammessa in sede di abbreviato condizionato, sarebbe nulla, considerata la patologia riscontrata nell’azione del pubblico ministero, come evidenziata anche dalla decisione n. 140 del 2010 della Corte costituzionale.

4. L’ordinanza di rimessione.

La Prima Sezione penale ha rimesso alle Sezioni Unite la questione della ritualità delle contestazioni suppletive elevate dal pubblico ministero nel corso del giudizio di primo grado (abbreviato condizionato), rilevando che il tema appariva suscettibile di dar luogo a contrasto in seno alla giurisprudenza della Corte, con conseguente rimessione alle Sezioni Unite ex art. 618, comma 1, cod. proc. pen. della questione così formulata: “Se nel corso del giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria o nel quale l’integrazione sia stata disposta dal giudice, sia consentito procedere alla modificazione dell’imputazione o a contestazioni suppletive con riguardo a fatti già desumibili dagli atti delle indagini preliminari e non collegati agli esiti dei predetti atti istruttori”.

Il collegio ha osservato come sia da ritenere esatta la premessa da cui muove il ricorso, considerato che le contestazioni oggetto del motivo di ricorso concernevano effettivamente fatti già risultanti dagli atti d’indagine espletati al momento dell’esercizio dell’azione penale, a seguito del quale l’imputato si era determinato a richiedere il rito abbreviato (tradimento all’origine del movente gelosia e vendetta, qualificato dall’accusa come motivo abietto e futile, così come l’avvenuto occultamento del cadavere). Si trattava, dunque, di elementi già parte del compendio investigativo prima che venisse emessa l’ordinanza ammissiva del rito. La perizia fonica richiesta dall’imputato e l’esame del medico legale disposto dal giudice non avevano alcuna correlazione con le modificazioni operate dal pubblico ministero, nonostante il richiamo effettuato dallo stesso a tali attività nell’ambito delle proprie richieste. Il collegio rimettente ha sottolineato come il movente passionale, così come l’occultamento del cadavere, fossero emersi a pochi giorni dal ritrovamento dell’auto, proprio grazie alle dichiarazioni confessorie dell’imputato e al contributo dichiarativo della moglie dello stesso.

Non poteva, quindi, considerarsi ricorrente alcun nesso tra il contenuto dell’accusa suppletiva e le risultanze integrative del giudizio abbreviato condizionato richiesto dall’imputato ed ammesso dal giudice. Ciò premesso, è stata richiamata la presenza, nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, di un orientamento interpretativo, considerato costante e radicato anche dal giudice di primo e di secondo grado, che afferma senza alcun dubbio la possibilità in caso di rito abbreviato condizionato di articolare contestazioni, ex art. 423 cod. proc. pen., che non derivino da nuove emergenze, ma riguardino fatti o circostanze già in atti. (Sez. 2, n. 23466 del 09/06/2005, Scozzari, Rv. 231993, Sez. 5, n. 7047 del 27/11/2008, Reinhard, Rv. 242962).

È stato, tuttavia, evidenziato come in tali decisioni non venga affrontata direttamente la questione della legittimità delle contestazioni suppletive basate su materiale non collegato all’integrazione istruttoria in sede di giudizio abbreviato condizionato; tale possibilità viene di fatto implicitamente ammessa, mentre l’oggetto della decisione è rappresentato dalla possibilità per l’imputato di esercitare lo ius poenitendi concesso dall’art. 441-bis cod. proc. pen. In concreto, la facoltà di recedere dal rito speciale è stata negata e si è affermato che i fatti oggetto della contestazione sono privi del connotato della novità, perché già compresi tra gli atti d’indagine, senza alcuna necessità di tutela rispetto ad iniziative che l’imputato ben avrebbe potuto prevedere (nello stesso senso Sez. 6, n. 5200 del 15/11/2017, Ribaj, Rv. 272214). È stata, inoltre, richiamata Sez. 4, n. 48280 del 26/09/2017 Squillante, Rv. 271293, secondo la quale in sede di giudizio abbreviato, in presenza di integrazione istruttoria disposta ex art. 441, comma 5, cod. proc. pen., è legittima la modifica dell’imputazione da parte del pubblico ministero mediante contestazione suppletiva, anche quando i fatti oggetto della nuova contestazione siano emersi nel corso delle indagini preliminari, decisione che si pone quindi in continuità con la giurisprudenza di legittimità relativa all’art. 423 cod. proc. pen., da interpretare quale attuazione della direttiva contenuta nell’art. 2, punto 52, della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81 (che prevede la facoltà per il legislatore delegato di assegnare al pubblico ministero “nell’udienza preliminare” il potere di modificare l’imputazione e procedere a nuove contestazioni). Nel percorso motivazionale di questa decisione si giunge ad un’equiparazione piena tra la disciplina prevista per l’udienza preliminare e la disciplina relativa al giudizio abbreviato condizionato, equiparazione che non viene condivisa dal collegio rimettente. Tale conclusione è da ritenere, secondo l’ordinanza di rimessione, in contrasto con la disciplina positiva del rito speciale che, per quanto riguarda il caso di abbreviato c.d. “puro” ai sensi dell’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., preclude qualsiasi variante dell’originaria imputazione, come chiarito dall’espressa esclusione dell’applicazione nell’ambito del giudizio abbreviato, ex art. 441, comma 1, dell’art. 423 cod. proc. pen., con cristallizzazione dell’accusa (elemento questo considerato fondamentale nella prospettiva di un vantaggio effettivo per l’imputato nell’accesso al rito). In applicazione di tale disciplina, la Corte di cassazione ha più volte sottolineato, come evidenzia l’ordinanza di rimessione, che la violazione della previsione in questione determina una nullità a regime intermedio della sentenza pronunciata all’esito di tale giudizio. (Sez. 1, n. 3758 del 07/11/2013, Costa, Rv. 258260, Sez. 6, n. 13117 del 19/01/2010, Yassine, Rv. 246680, Sez. 4, n. 12259 del 14/02/2007, Biasotto, Rv. 236199). Sicché, se è sempre possibile la mera riqualificazione in diritto dell’imputazione, tuttavia il giudizio abbreviato puro deve svolgersi secondo la sua struttura tipica, ovvero allo stato degli atti.

Ciò posto, a parere del collegio rimettente, le deroghe alla disciplina generale introdotte con la legge 479 del 1999, con l’ammissione del giudizio abbreviato condizionato, e, conseguentemente, con la nuova previsione di possibili contestazioni suppletive, devono essere interpretate e considerate come eccezioni al regime ordinario, non estensibili oltre il sistema di specifico riferimento (art. 438, comma 5, e art. 441, comma 5, cod. proc. pen.).

Esclusivamente l’emersione di elementi di novità giustificherebbe una sopravvenuta correlazione dell’imputazione alle diversità emerse dall’istruttoria richiesta dall’imputato o disposta dal giudice. In mancanza si creerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra un giudizio abbreviato che, nel caso sia stato condizionato dall’imputato, pur in assenza di elementi di novità, potrebbe portare a contestazioni suppletive, rispetto ad un giudizio abbreviato “puro” rispetto al quale tali nuove contestazioni non sono ammissibili, essendone esclusa la possibilità ai sensi dell’art. 423 cod. proc. pen.

Viene, quindi, rilevata una asimmetria sistematica nella concessione di un così ampio e incondizionato ius variandi della pubblica accusa in danno dell’imputato, rispetto a fatti e circostanze che avrebbero potuto essere oggetto di considerazione da parte del pubblico ministero sin dall’inizio, realizzando una oggettiva situazione di patologia processuale (errori, inerzie o colpevoli omissioni del p.m.). È stato, inoltre, richiamato il chiaro fondamento costituzionale nell’interpretazione proposta ai sensi della decisione n. 140 del 2010 della Corte costituzionale che, nel dichiarare infondata la questione di legittimità del rito abbreviato nella parte in cui non consente al pubblico ministero di effettuare contestazioni suppletive anche in assenza di integrazioni probatorie disposte dal giudice, sulla base di atti e circostanze già in atti e note all’imputato, ha giudicato errata la tesi ermeneutica secondo la quale nell’abbreviato con integrazione probatoria la contestazione suppletiva possa prescindere dagli esiti di quest’ultima ed effettuarsi sulla base di circostanze già risultanti dagli atti. L’adeguamento dell’imputazione può essere conseguenza solo ed esclusivamente di un arricchimento della piattaforma probatoria. Rimane, infatti, immutata la previsione di cui all’art. 441, comma 1, cod. proc. pen. ed è solo in via di mera eccezione al sistema complessivamente previsto che si consente al pubblico ministero in sede di giudizio abbreviato di formulare contestazioni suppletive, ma solo in caso di modificazione della base cognitiva quale conseguenza diretta dell’integrazione disposta. Deve, dunque, secondo il collegio rimettente essere esclusa la possibilità di rivalutare a posteriori elementi già acquisiti in precedenza al fine di giungere ad un ampliamento dell’accusa.

La contestazione c.d. “patologica”, oggetto anche di successive valutazioni della Corte costituzionale, seppure relative alla fase dibattimentale, evidenzia la posizione diversa e deteriore nella quale l’imputato viene a trovarsi, suo malgrado, quanto alla facoltà di accesso consapevole a riti alternativi. (Corte cost. n. 273 del 2012, n. 273 del 2014, n. 139 del 2015, n. 206 del 2017).

5. La giurisprudenza di legittimità.

Come sottolineato dall’ordinanza di rimessione, la questione proposta all’attenzione delle Sezioni Unite avrebbe potuto essere oggetto di potenziale contrasto. Non è stato infatti riscontrato uno sviluppo autonomo della questione, così come posta, nella giurisprudenza di legittimità secondo filoni interpretativi contrapposti.

La problematica interpretativa è stata affrontata implicitamente nelle prime decisioni, citate anche dall’ordinanza di remissione, con riferimento allo ius poenitendi. In altre decisioni è stata considerata indirettamente, in relazione al vizio di nullità della sentenza che decida su un’imputazione contestata patologicamente e, esplicitamente, dalla sola decisione della Sezione 4, n. 48280 del 26/09/2017, Squillante, Rv. 271293.

Occorre tuttavia considerare come il tema delle c.d. contestazioni suppletive a carattere “patologico” sia stato indagato e considerato in modo ampio e rilevante dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale quanto alla loro proponibilità in dibattimento, sia in relazione al fatto diverso nelle sue diverse declinazioni, che in considerazione del fatto nuovo, al fine di garantire a posteriori all’imputato il pieno accesso al rito abbreviato e agli altri riti alternativi, considerata l’intervenuta modifica dell’imputazione (sulla base di elementi già presenti nella fase di indagine). Da ricordare per la sua particolare rilevanza in tal senso la decisione delle Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205619 - 01, che ha esaminato il tema del fatto nuovo e diverso nelle più varie articolazioni, incentrando la decisione sulla differenza tra modifica del fatto e della sua qualificazione giuridica, affermando che il fatto è un dato empirico, fenomenico, un dato della realtà, un accadimento, un episodio della vita umana, e, dunque, la fattispecie concreta e non la fattispecie astratta costituita dallo schema legale. È proprio in questo contesto che l’art. 423, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce che spetta solo al Pubblico Ministero rilevare e contestare che il fatto è empiricamente diverso da quello descritto nel capo di imputazione, e in tal senso fatto diverso e, dunque, più ricco è stato ritenuto anche il caso in cui alla descrizione iniziale si aggiunga una circostanza aggravante. Tornando alla questione sollevata, dunque, l’imputazione avrebbe dovuto essere valutata adeguatamente nella sua completa articolazione per giungere ad una scelta piena e consapevole quanto ad un giudizio alternativo al dibattimento. Come è noto, inizialmente la giurisprudenza di legittimità aveva avuto un atteggiamento non favorevole all’estensione al rito abbreviato della disciplina relativa alle nuove contestazioni in dibattimento a carattere patologico, con possibilità per l’imputato di richiedere la rimessione in termini per l’accesso al rito. Ciò anche in considerazione dell’elaborazione della giurisprudenza di legittimità, in particolare di Sez. U, n. 4 del 28/10/1998, Barbagallo, Rv. 212757, che pur considerando ammissibili le contestazioni tardive, escludeva la possibilità di una rimessione in termini per articolare richiesta di abbreviato in base ad una pretesa assunzione del rischio da parte dell’imputato. La giurisprudenza costituzionale non aveva invece escluso l’irragionevolezzza della preclusione, rilevando però l’inammissibilità di un intervento manipolativo, considerata la preminenza in materia della discrezionalità rimessa al legislatore. In seguito, tuttavia, nonostante diversi richiami al legislatore allo scopo di integrare la disciplina delle contestazioni tardive in dibattimento quanto al rito abbreviato, è intervenuta la prima decisione della Corte cost. a contenuto additivo, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere il giudizio abbreviato quanto al reato concorrente contestato in dibattimento, ma basato su circostanze che già risultavano dagli atti di indagine preliminare, al momento dell’esercizio dell’azione penale, nonché, ad esito di c.d. auto rimessione, l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen. per quanto riguarda il fatto diverso contestato in dibattimento con le medesime caratteristiche (Corte cost. n. 333 del 2009).

È emerso chiaramente in queste decisioni come la scelta di accesso al rito per l’imputato non possa essere condizionata e limitata a causa di negligenza del pubblico ministero. Rileva, quindi, un’efficace considerazione del diritto di difesa dell’imputato a fronte dell’ordinaria fluidità dell’accusa in dibattimento, che appunto trova un limite nella necessità di un corretto esercizio dell’azione penale. Dunque, quando muta in itinere il tema d’accusa, l’imputato deve poter rivedere le proprie opzioni riguardo al rito da seguire.

Ciò premesso, il tema che è emerso quale conseguenza della questione sollevata è l’esercizio di un pieno diritto di difesa da parte dell’imputato, anche alla luce delle decisioni della Corte EDU (il riferimento principale è ovviamente alla decisione della Corte EDU c.d. Drassich/1 del 11/12/2007, che ha affermato il diritto dell’imputato ad essere informato del contenuto dell’accusa ai sensi dell’art. 6, par. 3, CEDU con riguardo non solo ai fatti materiali attribuiti all’imputato, ma anche alla qualificazione giuridica degli stessi; la sentenza in questione ha evidenziato la stretta correlazione tra il diritto di essere informato della natura e del motivo dell’accusa e il diritto di disporre del tempo e delle possibilità necessarie per preparare la difesa; in tal senso appare rilevante considerare come tutta la giurisprudenza di legittimità successiva abbia ribadito l’inammissibilità dell’attribuzione della qualificazione giuridica diversa del fatto con atto a sorpresa, mentre è imposto il rispetto di comunicazioni alle parti per garantire il diritto di difesa, tra le molte Sez. 4 n. 2340 del 29/11/2017, D.S., Rv. 271758 - 01, che ha in particolare annullato la decisione in relazione alla diversa qualificazione di una circostanza aggravante in tema di furto, da destrezza a uso del mezzo fraudolento).

L’imputato deve essere posto in condizione di scegliere quale via di giudizio adire, con piena cognizione dell’imputazione articolata dalla pubblica accusa.

La riflessione si è estesa anche alla proposizione di contestazioni suppletive “patologiche“ in sede di abbreviato condizionato, ma in termini diversi che coinvolgono la lealtà processuale tra le parti, la distinzione tra udienza preliminare e giudizio abbreviato quanto alla c.d. “fluidità dell’accusa” (che caratterizza proprio l’udienza preliminare), il pieno affidamento dell’imputato nella correttezza dell’operato della pubblica accusa, la necessità di consentire un’approfondita e completa articolazione del diritto di difesa nella scelta di accedere anche al rito abbreviato condizionato.

La prospettiva dell’imputato si confronta, tuttavia, con altri principi fondamentali del nostro ordinamento, non ultimo quello dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, che, se risulta garantito in relazione all’eventuale emersione di un fatto nuovo (che potrà sempre essere contestato in separato procedimento penale da parte del pubblico ministero), appare invece perdere definitivamente parte della sua incisività e completezza nel caso in cui l’eventuale contestazione suppletiva “patologica” riguardi una circostanza aggravante, elemento che, a parere sia della dottrina che della giurisprudenza, determina di per sé la diversità del fatto oggetto di imputazione, incidendo la sua previsione sulla consistenza e ampiezza della risposta sanzionatoria. Occorre ricordare, in tal senso, che la possibilità di accedere al rito abbreviato dalla sede di dibattimentale è stata affermata dalla Corte cost. n. 139 del 2015 nel caso di contestazione di una circostanza aggravante, con una pronuncia di illegittimità parziale dell’art. 517 cod. proc. pen.

Il principio era già stato affermato dalla Corte cost. con la decisione n. 184 del 2014 quanto al patteggiamento e, in quella sede, si era sottolineato come la trasformazione dell’originaria imputazione in una ipotesi circostanziata comporti un mutamento del quadro processuale, incidendo, anche solo potenzialmente, sulla quantità e sulla qualità della risposta sanzionatoria, o sul regime di procedibilità per il reato contestato. Elemento che rileva ancor più nel caso in cui la contestazione si possa definire “patologica” perché già presente nella fase di acquisizione degli atti di indagine preliminare. In questa sede si è, dunque, pienamente recuperata la distinzione, da alcuni ritenuta superata, tra contestazioni fisiologiche e contestazioni patologiche (si era, infatti, affermato che la contestazione fisiologica è in dibattimento addirittura più imprevedibile di quella patologica).

Diverse le pronunzie che hanno considerato, seppure non sempre in modo diretto, la questione oggetto della decisione in commento. Sez. 2, n. 23466 del 09/06/2005, Scozzari, Rv. 231993 - 01, afferma che l’art. 441-bis cod. proc. pen., prevedendo che in sede di giudizio abbreviato l’imputato a fronte delle contestazioni previste dall’art. 423, comma 1, cod. proc. pen., possa chiedere che il processo prosegua con il rito ordinario, rinunciando al rito abbreviato, non si applica se le nuove contestazioni non derivano da nuove emergenze, ma riguardano fatti o circostanze già in atti, e quindi noti all’imputato quando ebbe ad avanzare la richiesta di rito abbreviato. La Corte ha ritenuto che la lettura dell’art. 441-bis cod. proc. pen. (che prevede che l’imputato ammesso al rito abbreviato possa chiedere che il rito prosegua nelle forme ordinarie nei casi di giudizio abbreviato condizionato ex art. 438, comma 5, cod. proc. pen. e di integrazione probatoria ex art. 441, comma 5, cod. proc. pen. quando il Pubblico Ministero proceda a contestazioni perché il fatto risulta diverso ex art. 423, comma 1, cod. proc. pen.) “non dà spazio ad incertezze interpretative, nel senso che l’imputato può chiedere che si proceda con il rito ordinario solo con riguardo a quei fatti, oggetto di nuova contestazione del P .M . perché scaturiti da integrazioni probatorie, sia richieste dall’imputato stesso, sia disposte dal giudice . Tant’è vero che l’art . 423, comma 1 e 2, cod . proc . pen ., che pure prevede e disciplina il caso di nuove contestazioni all’imputato, non contempla per questo la possibilità di revocare la richiesta di rito abbreviato”. In sostanza la ratio della disposizione deve essere colta secondo questa decisione, nel fatto che la scelta del rito speciale non può essere ritenuta vincolante per fatti che non erano conosciuti, né conoscibili dall’imputato, mentre, ove non ricorra alcuna integrazione probatoria, e le nuove contestazioni non derivino da nuove emergenze, si tratta di fatti “noti” all’imputato, e la nuova contestazione prescinde dall’esito dell’eventuale integrazione, senza alcuna possibilità quindi per l’imputato di rinunciare al rito prescelto. Secondo questa opzione ermeneutica, dunque, non ricorre un fatto nuovo. Nessuna lesione del diritto di difesa può essere considerata ricorrente, poiché l’imputato nello scegliere di accedere al rito abbreviato era pienamente a conoscenza di tutti gli elementi poi confluiti nella nuova contestazione. Lo stesso principio risulta espresso da Sez. 5, n. 7047 del 27/11/2008, Reinhard, Rv. 242952, che afferma che non ricorre alcun profilo di novità, ma al contrario una mera specificazione degli elementi già acquisiti, nel caso in cui la pubblica accusa provveda a realizzare una qualificazione giuridica diversa del fatto come furto consumato, anziché come tentato, rimanendo gli elementi descrittivi riportati esattamente gli stessi (in termini Sez. 6, n. 5200 del 15/11/2017, Ribaj, Rv. 272214 - 01, nonché Sez. 4, n. 48280 del 26/09/2017, Squillante, Rv. 271293 -01, che afferma per la prima volta in modo esplicito che in sede di giudizio abbreviato, ove sia stata disposta l’integrazione probatoria a norma dell’art. 441, comma 5, cod. proc. pen. è legittima la modifica dell’imputazione da parte del P.M., mediante contestazione suppletiva, anche quando i fatti oggetto della nuova contestazione erano già emersi nel corso delle indagini preliminari, questa decisione ritiene che il criterio evidenziato anche da Sez. 1, n. 13349 del 17/05/2012, D., Rv. 255049 -01 quanto alla legge delega, pur se riferito esplicitamente alla sola udienza preliminare, debba essere esteso, valendo gli stessi criteri, anche al giudizio abbreviato condizionato, non ricorrendo nel caso in esame alcuna lesione del diritto di difesa, tra l’altro neanche denunciata dal ricorrente).

Sez. 5, n. 48879 del 17/09/2018, L., Rv. 274159-01, ha confermato l’orientamento relativo all’ammissibilità di nuove contestazioni, anche tardive, affermando che l’art. 441-bis cod. proc. pen. non si applica se le nuove contestazioni non derivino da nuove emergenze, ma riguardano fatti o circostanze già in atti, e quindi noti all’imputato quando ebbe ad avanzare la richiesta di rito abbreviato. Nel caso in esame la fattispecie era tuttavia relativa alla correzione di un mero errore materiale in ordine alla data del commesso reato.

Altre decisioni hanno affrontato il tema più generale della struttura del giudizio abbreviato e chiariscono che deve svolgersi secondo la sua struttura tipica, e cioè allo stato degli atti, con conseguente immutabilità dell’originaria imputazione, senza alcuna possibilità per il pubblico ministero di modificarne il contenuto, pena la nullità della sentenza che si formi su fatti e circostanze ulteriori che siano stati eventualmente contestati (Sez. 3, n. 35624 del 11/07/2007, Terlizzi, Rv. 237293).

Sez. 4, n. 3758 del 03/06/2014, Costa, Rv. 263196, esprime lo stesso principio, chiarendo che la nullità conseguente ad una modifica non consentita determina una nullità a regime intermedio, considerato che per il giudizio abbreviato l’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., nel richiamare le disposizioni dell’udienza preliminare esclude l’applicazione dell’art. 423 cod. proc. pen. Lo stesso principio, relativo alle caratteristiche della nullità, in caso di modifica dell’imputazione nel corso di giudizio abbreviato puro e non condizionato, era stato affermato da Sez. 6, n. 13117 del 19/01/2010, Sghiri Yassine, Rv. 246680, relativamente al riconoscimento di circostanza aggravante e conseguente contestazione suppletiva. Nello stesso identico senso Sez. 4, n. 12259 del 14/02/2007, Biasotto, Rv. 236199 ed anche Sez. 2, n. 11953 del 29/01/2014, D’Alba, Rv. 258067 (quanto alla contestazione suppletiva dell’aggravante di più persone riunite), dove si è evidenziato che la nullità, a regime intermedio, è posta a garanzia del complesso delle facoltà e dei poteri che la legge attribuisce all’imputato e al suo difensore e che sono implicite nel diritto di difesa, i quali trovano presidio nella disposizione di cui alla lettera c) dell’art. 178 cod. proc. pen. Emerge nel percorso motivazionale di questa decisione in modo chiaro la necessità di arginare le contestazioni “a sorpresa” del Pubblico Ministero, proprio perché ritenute in piena violazione del diritto di difesa dell’imputato e del suo difensore “che hanno optato per il giudizio abbreviato sulla base di una determinata imputazione e vedono poi il giudice chiamato a pronunziarsi su una imputazione diversa rispetto a quella da essi considerata ai fini della scelta del rito” (significativa rispetto a questo orientamento appare anche Sez.4, n. 26653 del 22/04/2009, Sarti, Rv. 244505, conforme recentemente, anche se massimata su diverso profilo, Sez. 2, n. 18617 del 08/02/2017, Davicco, Rv. 269743), che ha ritenuto illegittime anche modifiche dell’imputazione favorevoli all’accusato, consistenti nell’eliminazione di un’aggravante in precedenza contestata.). In questa decisione, così come in Sez. 2, n. 35350 del 17709/2010, Percuoco, Rv. 248544, si specifica la ratio della previsione di cui all’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., ovvero la volontà del legislatore di evitare di esporre l’imputato ad una “fluidità” dell’accusa incompatibile con la rinuncia alla prova che si cristallizza “irretrattabilmente con la richiesta di abbreviato condizionato”, perché “qualsiasi modifica dell’impianto dell’accusa, intervenuta dopo la scelta del rito, che non si riduca ad una mera differente qualificazione giuridica di un fatto altrimenti immutato, esporrebbe l’imputato alle conseguenze di una scelta processuale maturata in relazione ad un diverso contesto accusatorio, senza poter più recuperare il proprio diritto costituzionale a difendersi anche provando”. La lealtà processuale imporrebbe, dunque, ex art. 111 Cost., che la cornice di riferimento entro la quale è stata operata una scelta così impegnativa, come quella di rinunciare al dibattimento, sia immutabile.

Le argomentazioni spese da queste decisioni, pur se relative, nella maggior parte dei casi, a ipotesi di giudizio abbreviato “puro”, rivelano la loro particolare rilevanza e incidenza rispetto alla questione posta con l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite. La volontà del legislatore di garantire l’imputato, che rinuncia a difendersi provando in dibattimento, dovrebbe essere riscontrata anche in relazione al caso di giudizio abbreviato condizionato nell’ambito del quale le modifiche dell’imputazione non trovino alcun aggancio nella attività di integrazione probatoria richiesta o disposta d’ufficio. Se, infatti, tali integrazioni non rilevano quanto alla contestazione patologica proposta, la scelta dell’imputato nel giudizio abbreviato dovrebbe essere garantita nello stesso modo, ovvero scelta di accesso al rito rinunciando a difendersi provando solo alle condizioni date dallo stato degli atti.

Il collegio nell’ordinanza di rimessione ha evidenziato come in caso contrario la disparità di trattamento in situazioni sostanzialmente analoghe sarebbe di tutta evidenza. Queste ultime decisioni, dunque, pur non affrontando direttamente il tema posto nella questione, rappresentano un incisivo quadro di riferimento della normativa in tema di giudizio abbreviato e del necessario rispetto del diritto di difesa dell’imputato.

6. La sentenza della Corte costituzionale n. 140 del 2010.

La sentenza, citata anche nell’ordinanza di rimessione, è intervenuta sul giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 441 e 441-bis del cod. proc. pen. nella parte in cui non prevedono che, nel corso del giudizio abbreviato, il pubblico ministero possa effettuare contestazioni suppletive nei casi di cui all’art. 12, comma 1, lett. b) del medesimo codice “anche in assenza di integrazioni probatorie disposte dal giudice e sulla base di fatti e circostanze già in atti e noti all’imputato”. Viene, dunque, affrontato un tema sostanzialmente analogo a quello oggetto di rimessione, incentrandosi però la riflessione sulla possibile realizzazione di contestazioni suppletive sostanzialmente “patologiche” nel giudizio abbreviato incondizionato, situazione di fatto equiparabile a quella in cui, pur nell’ambito di giudizio abbreviato condizionato, vengano proposte contestazioni suppletive in assenza di qualsiasi nuovo elemento derivante dall’integrazione probatoria, direttamente collegate ad elementi già in atti nella fase delle indagini preliminari.

Il caso concreto oggetto di giudizio era relativo ad imputazione di numerose persone per il delitto di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, con successiva contestazione suppletiva da parte del pubblico ministero di ulteriore reato in materia di stupefacenti solo per alcuni imputati, legato dal vincolo della continuazione al reato principale. A sostegno della propria riflessione il giudice rimettente aveva richiamato Sez. U, n. 4 del 28/10/1998, Barbagallo, Rv. 212757-01, nell’ambito della quale si è affermato come il pubblico ministero possa procedere alla contestazione suppletiva di un reato concorrente o di una circostanza aggravante nel giudizio ordinario, non soltanto a fronte di nuove risultanze dibattimentali, ma anche sulla base di elementi già acquisiti nella fase delle indagini preliminari. In sostanza, secondo la decisione delle Sez. U. Barbagallo, la contestazione suppletiva “patologica” può rappresentare un’eventualità fisiologica del sistema ispirato alla centralità del dibattimento, e, a tal fine, non appare condivisibile una mera interpretazione letterale, e non coordinata sistematicamente, del disposto dell’articolo 517 cod. proc. pen., che parla di elementi emersi “nel corso” del dibattimento, poiché una soluzione del genere si risolverebbe in “un formalismo esasperato ed ingiustificato”, in mancanza di qualsiasi lesione, sempre secondo la lettura delle Sezioni Unite, del diritto di difesa nel caso di nuove contestazioni basate non sull’esito del dibattimento, ma su elementi già raccolti nel corso delle indagini preliminari, dunque del tutto noti all’imputato e al suo difensore. È proprio in relazione alla decisione delle Sez. U. Barabagallo che il remittente ritiene comprensibile l’emersione dell’orientamento di legittimità (citato anche nell’ordinanza di rimessione che ha sollevato la questione), che ha affermato che anche nel giudizio abbreviato, una volta disposta un’attività di integrazione probatoria, le contestazioni suppletive siano ammissibili non soltanto se derivanti dalla nuove prove assunte, ma anche quando trovino fondamento in fatti e circostanze già in atti, tanto che l’imputato in questi casi non potrebbe neanche esercitare lo ius poenitendi previsto esclusivamente dall’art. 441-bis cod. proc. pen. Tale interpretazione della giurisprudenza di legittimità viene condivisa dal remittente dinnanzi alla Corte costituzionale anche in considerazione della riforma del giudizio abbreviato, caratterizzato da una maggiore “fluidità” dell’accusa, tanto sul versante probatorio che su quello dell’imputazione. Una diversa disciplina relativa alla riscontrata ammissibilità di una contestazione suppletiva “patologica” nel corso del giudizio abbreviato condizionato, esclusa invece per il giudizio abbreviato puro, rappresenterebbe per il remittente una violazione del principio del giusto processo e dei valori costituzionali sanciti nell’art. 111 Cost. In sostanza, non si potrebbe inibire al pubblico ministero di formulare un’imputazione pienamente correlata all’insieme degli atti delle indagini preliminari, del tutto noti all’imputato, in applicazione del principio di lealtà processuale delle parti.

In entrambi i casi, infatti, la necessità di integrare l’imputazione deriverebbe da un’omissione del pubblico ministero, con la conseguenza che un’interpretazione ostativa limiterebbe l’esercizio dell’azione penale, con possibile violazione del diritto di difesa, poiché l’imputato potrebbe trovare più conveniente una trattazione congiunta delle diverse imputazioni (specialmente nel caso in cui i fatti risultino avvinti dalla continuazione).

La Corte costituzionale ha ritenuto infondata nel merito la questione, evidenziando in primo luogo come l’orientamento citato dal remittente (in particolare le sentenze Scozzari e Reinhard) non si possa ritenere affatto consolidato, soprattutto considerato che la sentenza Reinhard ha ad oggetto una questione relativa ad una mera riqualificazione giuridica del fatto e non una contestazione suppletiva. Le decisioni in questione vengono poi esplicitamente ritenute non solo non incontrovertibili sul piano ermeneutico, ma addirittura foriere di un assetto in sé incompatibile con la Costituzione.

In tal senso, la Corte - pur richiamando la giurisprudenza di legittimità e la propria sentenza n. 333 del 2009 (che hanno complessivamente considerato ammissibili le contestazioni suppletive “patologiche” in dibattimento, derivanti da elementi emersi per la prima volta nel corso dell’udienza preliminare o anche dai soli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari) - ha evidenziato come nella soluzione interpretativa della questione occorra tener conto delle peculiarità del rito abbreviato, poiché l’assetto normativo predisposto dal legislatore possiede una sua intrinseca razionalità.

Originariamente il giudizio abbreviato era stato infatti configurato come rito “allo stato degli atti”, senza alcuna possibilità di integrazioni probatorie, e proprio per questo motivo l’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., nell’operare un generale rinvio, nei limiti della compatibilità, alla disciplina dell’udienza preliminare, escludeva l’applicabilità dell’istituto della modificazione dell’imputazione ex art. 423 cod. proc. pen. La ratio di tale previsione viene individuata dalla Corte nell’esigenza di realizzare una funzione di garanzia per l’imputato, oltre che una logica premiale. L’imputato accetta di essere giudicato sulla base degli atti raccolti nelle indagini preliminari, ma solo con esclusivo riferimento all’imputazione formulata dal pubblico ministero, ed è proprio questa formulazione ed accusa, per come formalizzata, a delimitare l’ambito della sua rinuncia alla formazione della prova in contradditorio.

Questa dimensione di garanzia, per come articolata dal legislatore, è stata ritenuta immune da vizi di costituzionalità, in quanto coerente con la struttura e finalità del rito (sentenza n. 378 del 1997). Precisa tuttavia la Corte che, con l’introduzione delle modifiche al rito abbreviato (legge 16 dicembre 1999, n. 479), sono stati introdotti “in via di eccezione” meccanismi di adeguamento dell’imputazione in conseguenza delle nuove acquisizioni probatorie derivanti dalla richiesta di condizionamento del rito. Nuove contestazioni sono, dunque, possibili “unicamente nei casi di modificazione della base cognitiva a seguito dell’attivazione dei meccanismi di integrazione probatoria”. Con la possibilità conseguente per l’imputato, nel caso in cui si tratti delle contestazioni previste dall’art. 423, comma 1, cod. proc. pen. (fatto diverso, reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lett. b) o circostanza aggravante) di esercitare lo ius poenitendi o articolare richiesta di ammissione di nuove prove ex art. 441-bis cod. proc. pen.

La Corte sottolinea che non possa essere ritenuta ormai acquisita l’idea di un giudizio abbreviato del tutto fluido quanto all’imputazione, mentre invece si deve ritenere che “le eccezioni introdotte restano strettamente legate alle fattispecie che le giustificano: vale a dire che il Pubblico Ministero possa effettuare le nuove contestazioni solo quando affiori la necessità di adattare l’imputazione a nuove risultanze processuali, scaturenti da iniziative probatorie assunte nell’ambito del rito alternativo”. Rimane quindi del tutto escluso che “dette iniziative - tanto più se rimaste prive di seguito - possano rappresentare una patente di legittimazione per rivalutare, a scopo di ampliamento dell’accusa, elementi già acquisiti in precedenza, e fino a quel momento, non posti ad oggetto dell’azione penale”.

In tal senso, viene evidenziato come l’indirizzo giurisprudenziale relativo alla possibilità di modifiche dell’imputazione anche nel caso di abbreviato incondizionato giunge di fatto a risultati contrari al dettato costituzionale quando esclude qualsiasi possibilità per l’imputato di esercitare nel caso lo ius poenitendi. Altre decisioni della Corte hanno infatti chiarito (n. 333 del 2009 e 265 del 1994) che le valutazioni dell’imputato in ordine alla convenienza dei riti alternativi al dibattimento dipendono anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero, sicché quando per “evenienze patologiche”, quali gli errori o le omissioni del pubblico ministero sull’individuazione del fatto o del titolo del reato, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, l’imputato deve essere necessariamente rimesso in termini per compiere le suddette valutazioni, pena la violazione del diritto di difesa e del principio di eguaglianza, considerata l’evidente discriminazione che si verrebbe a determinare a seconda “della maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari operata dal Pubblico Ministero nell’esercitare l’azione penale”. Questo principio, affermato in relazione alle nuove contestazioni dibattimentali e alla possibilità di passaggio dal rito ordinario ai riti alternativi, non può, a parere della Corte, operare in direzione inversa, poiché con la richiesta di giudizio abbreviato l’imputato accetta di essere giudicato con rito semplificato in relazione ai reati già contestati. E tale “rinuncia a difendersi provando in dibattimento” rappresenta un apprezzamento della convenienza del rito stesso dal punto di vista della difesa, sicché non sarebbe “costituzionalmente accettabile che egli venisse a trovarsi vincolato dalla sua scelta anche in relazione ad ulteriori reati concorrenti che, stando all’indirizzo interpretativo in discussione, potrebbero essergli contestati a fronte delle evenienze patologiche di cui si è detto”.

La giurisprudenza di legittimità richiamata viene considerata dalla Corte costituzionale intanto non apprezzabile in termini di diritto vivente, non incontestabile sul piano ermeneutico e comunque non compatibile con i principi costituzionali, tanto più che il pubblico ministero manterrebbe intatta la possibilità di esercitare separatamente l’azione penale per il reato connesso, non tempestivamente contestato. Né alcun aggravio viene riscontrato a carico dell’imputato per lo svolgimento in processi separati di reati eventualmente avvinti dalla continuazione, considerata la possibilità di esercitare pienamente il diritto stesso con pienezza di garanzie in fase esecutiva.

7. La decisione delle Sezioni Unite.

Le Sez. U. hanno premesso che la Prima sezione della Corte ha segnalato l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza relativamente alla legittimità delle contestazioni suppletive elevate dal pubblico ministero nel corso del giudizio abbreviato condizionato, riferibili a circostanze già in atti del processo e non riportate nell’originario capo di imputazione. Si è sottolineato come nel caso concreto, relativo ad un omicidio a carattere passionale, emergessero in modo chiaro già dalle dichiarazioni confessorie rese dall’imputato pochi giorni dopo la consumazione del delitto sia la natura passionale dello stesso, che l’occultamento del corpo della vittima. Tali elementi non erano tuttavia compresi nella originaria imputazione e hanno rappresentato l’oggetto della contestazione suppletiva, elevata a seguito di giudizio abbreviato condizionato, senza che tuttavia fosse rinvenibile alcun nesso di derivazione tra tale contestazione suppletiva e l’esito degli accertamenti istruttori espletati.

Le Sez. U hanno illustrato gli indirizzi giurisprudenziali che si sono formati in relazione alla possibilità di elevare contestazioni suppletive non collegate all’esito degli accertamenti istruttori nell’ambito del giudizio abbreviato condizionato, chiarendo che di fatto si tratta di un potenziale conflitto, non essendo stata la questione mai affrontata esplicitamente.

In tale contesto, secondo un orientamento interpretativo (applicato nel caso concreto dalla Corte di appello), ai sensi dell’art. 423 cod. proc. pen., possono essere formulate contestazioni suppletive che, pur non derivando da nuove emergenze processuali, riguardino fatti o circostanze non contestate, ma desumibili dagli atti processuali, e, dunque, conosciute o conoscibili da parte dell’imputato nel momento della richiesta di ammissione al rito speciale. Nell’ambito di tale costruzione ermeneutica il tema della legittimità delle contestazioni suppletive risulta risolto in modo del tutto implicito, essendosi affermato che nel caso di contestazione suppletiva relativa a fatti già emergenti dagli atti del processo, l’imputato non può esercitare il diritto di rinunciare alla prosecuzione del giudizio con il rito abbreviato, così come previsto dall’art. 441-bis cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 23466 del 09/06/2005, Scozzari, Rv. 231993 - 01, Sez. 5, n. 7047 del 27/11/2008, Reinhard, Rv. 242962 - 01, Sez. 6, n. 5200 del 15/11/2017, Ribaj, Rv.272214 - 01). Viene, in relazione alla questione sottoposta alla attenzione delle Sezioni Unite, anche richiamata la decisione della Sez. 4, n. 48280 del 26/09/2017 Squillante, Rv. 271293 - 01, che ha affermato che nel giudizio abbreviato condizionato la contestazione suppletiva per circostanze già desumibili dagli atti sarebbe comunque legittima, perché la regola contenuta nell’art. 423 cod. proc. pen., se pur riferita esplicitamente, solo alla udienza preliminare, deve ritenersi estesa anche all’ipotesi di giudizio abbreviato condizionato, valendo gli stessi criteri e non ricorrendo alcuna lesione del diritto di difesa.

Le Sezioni Unite hanno evidenziato come il giudice rimettente abbia affermato di non condividere quest’orientamento interpretativo, che non troverebbe giustificazione né sul piano dell’interpretazione letterale, né su quello logico - sistematico, creando una disparità non comprensibile con il giudizio abbreviato c.d. “secco”, ove analoga opzione non è possibile; inoltre tale approdo interpretativo, secondo la sezione remittente, si porrebbe in contrasto con quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 140 del 2010. È in questi determini che, dunque, viene segnalata la possibilità di un contrasto potenziale ex art. 618 cod. proc. pen., considerato che le deroghe introdotte con la legge 16 dicembre 1999, n. 479 (art. 438, comma 5, e art. 441, comma 5, cod. proc. pen.) devono essere interpretate come eccezioni al regime ordinario dettato dall’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., con conseguente impossibilità di estenderne la portata oltre il sistema specifico di riferimento. In caso contrario ne deriverebbe un’evidente disparità di trattamento tra un giudizio abbreviato condizionato che, pur in mancanza di novità, potrebbe portare a contestazioni suppletive su elementi già acquisiti, e un giudizio abbreviato puro nell’ambito del quale tali contestazioni risultano inammissibili.

Nel risolvere la questione proposta, le Sezioni Unite hanno evidenziato che occorre partire dalla disciplina dell’art. 441 cod. proc. pen., che prevede che nel rito abbreviato si osservino, in quanto applicabili, le disposizioni dettate per l’udienza preliminare, ad eccezione di quelle di cui agli art. 422 e 423 cod. proc. pen. Da tale disciplina consegue l’impossibilità per il pubblico ministero di modificare l’imputazione originariamente mossa, e nota all’imputato, nel momento in cui è stata dallo stesso formulata istanza di ammissione al rito premiale.

Tale previsione si applica anche nel caso in cui l’imputazione sia errata (c.d. “imputazioni patologiche”, conseguenti ad errori od omissioni desumibili dal fascicolo processuale), così come nel caso di omessa contestazione di reati connessi o di circostanze aggravanti.

La regola, prevista dall’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., unitamente alla rinuncia da parte dell’imputato alla formazione della prova in contraddittorio, a fronte del riconoscimento della diminuente sulla pena, costituisce il tratto distintivo del rito abbreviato.

Le Sezioni Unite hanno, dunque, osservato come tale dato normativo è rimasto invariato anche a seguito delle modifiche introdotte con la legge del 1999, sicché la modificazione dell’imputazione, in violazione della predetta disposizione, è causa di nullità generale a regime intermedio ex art. 178, comma 1, lett. c) della sentenza pronunziata all’esito del giudizio. Si è quindi specificato che dalla lettura dell’art. 441, comma 1, cod. proc. pen. consegue che:

- se, successivamente alla ammissione del giudizio abbreviato “secco”, vengono in evidenza fatti, reati o circostanze aggravanti, desumibili dagli atti processuali, ma non ricompresi nella imputazione, in linea generale, il pubblico ministero non potrà procedere alla formulazione di contestazioni suppletive;

- nel caso in cui l’omessa contestazione attenga ad un reato connesso, il pubblico ministero dovrà procedere ad un separato giudizio, posto che in tal caso l’azione penale non è stata ancora consumata, mentre nel caso in cui l’omissione attenga ad una circostanza aggravante questa non sarà più recuperabile.

La correlazione della disciplina di cui all’art. 441, comma 1, con le modifiche introdotte dalla legge del 1999 - con l’introduzione dell’abbreviato condizionato, e, dunque, la possibilità di un arricchimento della piattaforma istruttoria - non ha alterato o modificato la portata della previsione nell’interpretazione della Corte. Con la riforma si è realizzato un ampliamento della base cognitiva del processo, assecondando le esigenze dell’imputato e dello stesso giudicante. Si immette materiale “nuovo” rispetto a quello già presente in atti, e, proprio in considerazione di tale diversa connotazione del giudizio, sono state dettate le ulteriori regole che permettono la modifica dell’imputazione da parte del pubblico ministero e consentono all’imputato di recedere dal rito abbreviato ex art. 441, comma 5-bis, cod. proc. pen., ovvero proseguire con il rito abbreviato in corso chiedendo la ammissione di nuove prove relative proprio alle contestazioni formulate sulla base delle emergenze nuove.

Nel risolvere la questione, le Sezioni Unite hanno sottolineato la necessità di giungere ad una lettura coordinata delle disposizioni, avendo come punto cardine di riferimento i principi affermati anche dalla Corte costituzionale.

Ciò posto, un dato considerato è la non univoca portata dell’art. 423 cod. proc. pen. nella sua dizione (“nel corso del giudizio”).

Tuttavia, è possibile giungere ad un superamento dell’equivocità del dato normativo ove si considerino le peculiarità del giudizio abbreviato.

Il rito in questione si caratterizza, infatti, per tre elementi distintivi:

- è un giudizio allo stato degli atti;

- è un giudizio nel quale l’imputato accetta di essere giudicato rinunciando al contraddittorio sulla formazione della prova;

- è un giudizio che prevede un trattamento sanzionatorio premiale per la scelta fatta dall’imputato.

Occorre, tuttavia, avere ben chiaro che il fatto che il legislatore abbia previsto un allargamento della base cognitiva del giudizio, non esclude che questo comunque rimanga un “giudizio allo stato degli atti”, che trova il proprio fondamento nella scelta dell’imputato di rinunciare al contraddittorio sulla formazione della prova, così come ad una serie di eccezioni processuali (nullità a regime intermedio, incompetenza per territorio, inutilizzabilità fisiologiche).

La valutazione degli atti, che porta l’imputato a questa consapevole scelta, trova il proprio fondamentale contraltare nell’imputazione, che nel suo oggettivo tenore, costituisce, per il suo contenuto, la sintesi degli addebiti che vengono mossi proprio in loro funzione. Questa caratterizzazione, e, dunque, la particolare rilevanza della imputazione, come momento di fondamentale rilievo per la scelta dell’imputato di accedere al rito abbreviato, deve essere riferita tanto all’abbreviato puro che all’abbreviato condizionato.

In tal senso è stato sottolineato come la stessa richiesta di integrazione probatoria viene formulata sulla base degli atti presenti nel fascicolo, compresa la relativa imputazione.

Emerge quella che è stata definita come una vera e propria dipendenza dallo stato degli atti, incidente sulle scelte del rito abbreviato condizionato dell’imputato e sulla susseguente decisione del giudice, sicché si deve ritenere che il pubblico ministero non sia legittimato a variare l’imputazione originariamente formulata recuperando atti già desumibili dal contenuto del fascicolo, depositato al momento della richiesta di accesso al rito, ma non correttamente considerati.

Le Sezioni Unite hanno, dunque, accolto la prospettazione della sezione rimettente, ed hanno evidenziato come all’interno di questa dimensione giuridica, e della particolare significatività della scelta di accedere al rito abbreviato, deve essere considerata punto impre scindibile e di significativa pregnanza proprio l’imputazione, che rappresenta un presidio di garanzia per l’imputato, che ha diritto di conoscere nei suoi esatti termini il contenuto della accusa sulla cui base opera le proprie scelte anche in relazione al rito processuale e alla modalità di accesso ad esso.

Di conseguenza ritenere che il pubblico ministero possa, senza alcun limite, modificare l’imputazione originaria, perché ritenuta non adeguata rispetto a quanto è già agli atti del processo, e non perché collegata alle nuove emergenze istruttorie, significa minare una garanzia dell’imputato e, indirettamente, la bontà della decisione del giudice nella fase di ammissione al rito.

Diversamente si assisterebbe alla segnalata disarmonia di sistema tra giudizio abbreviato semplice e condizionato, considerato che è del tutto pacifico che nel primo caso il pubblico ministero non possa effettuare alcuna modifica della imputazione, neppure per recuperare una contestazione più adeguata allo stato degli atti, mentre invece ciò sarebbe inspiegabilmente riconosciuto nel caso in cui l’imputato abbia optato per un rito abbreviato condizionato, realizzandosi così una lettura sistematica dell’art. 423 cod. proc. pen. che non tenga conto delle caratteristiche tipiche del rito abbreviato.

Alla luce della imprescindibile correlazione tra imputazione e scelta conseguente del rito allo stato degli atti, le Sezioni Unite hanno sottolineato come qualsiasi diversa lettura delle previsioni in esame lederebbe il presidio di garanzia per l’imputato costituito dalla stabilità della accusa rispetto a quanto già in atti (creandosi altrimenti una disarmonia che consentirebbe una disparità di trattamento tra abbreviato secco e condizionato nel caso di contestazioni patologiche). La stessa conclusione è raggiunta dalla Corte anche nel caso in cui sia il giudice a disporre l’acquisizione di nuovi elementi ex art. 441, comma 5, cod. proc. pen. Tale diversa situazione non può rappresentare l’occasione per il pubblico ministero di mutare ed adeguare il tenore dell’accusa rispetto a quanto già in atti, senza alcun collegamento con le nuove emergenze istruttorie.

Elementi in tal senso devono essere desunti, nella lettura delle Sezioni Unite, anche dalla sentenza n. 140 del 2010 della Corte costituzionale, che ha evidenziato che la possibilità per il pubblico ministero di modificare ex art. 423 cod. proc. pen. il capo di imputazione nelle ipotesi in cui sia stato operato un ampliamento della base probatoria, rappresenta un’eccezione rispetto alla regola enunciata dall’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., sicché le nuove contestazioni sono legittimamente formulate solo ed esclusivamente in quanto collegate a fatti nuovi o nuove circostanze emerse a seguito della modificazione della base cognitiva.

Il punto centrale della riflessione è, dunque, quello di considerare che l’imputato accetta di essere giudicato con il rito semplificato quanto ai reati già contestati dal pubblico ministero e rispetto ai quali solamente egli esprime l’apprezzamento di convenienza del rito. Ne consegue che non sarebbe costituzionalmente accettabile che l’imputato si trovi ad essere vincolato dalla sua scelta anche in relazione ad ulteriori reati concorrenti, che gli potrebbero essere contestati a fronte di evenienze patologiche.

Infine, le Sezioni Unite, nel completare la valutazione del caso concreto, hanno chiarito che è invece legittima la formulazione di una contestazione suppletiva da parte del pubblico ministero, anche successivamente alla richiesta di ammissione al rito speciale, che tuttavia non sia ancora stato disposto, con la relativa ordinanza, dal giudice procedente. Infatti, prima della formale instaurazione del rito, deve ritenersi ancora in corso l’udienza preliminare e l’imputato ha ancora la facoltà di revocare la scelta compiuta precedentemente. (In senso conforme su questo punto sono da segnalare anche Sez. 2, n. 13969 del 07/05/2020, Rame, Rv. 279035-01 e Sez. 2, n. 23573 del 05/08/2020, Festante, Rv. 279481-01, che hanno affermato che il giudizio abbreviato si apre soltanto con l’adozione dell’ordinanza di ammissione).

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n.11993 del 14/11/1995, Di Mauro, Rv. 203050 - 01

Sez. U., n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205619 -01 Sez. 3, n. 1506 del 4/12/1997, Pasqualetti, Rv. 209791 - 01 Sez. U., n. 4 del 28/10/1998, Barbagallo, Rv. 212757 - 01 Sez. U., n. 44711 del 27/10/2004, Wajib, Rv. 229175 -01

Sez. 6, n. 36310 del 07/07/2005, Notari, Rv. 232407 - 01

Sez. 2, n. 23466 del 09/06/2005, Scozzari, Rv. 231993 - 01

Sez. 4, n. 12259 del 14/02/2007, Biasotto, Rv. 236199 - 01

Sez. 4, n. 21548 del 23/03/2007, Manca, Rv. 236728 - 01

Sez. 4, n. 36936 del 12/06/2007, PM/ Gamba, Rv. 237238 - 01

Sez. 3, n.35624 del 11/07/2007, Terlizzi, Rv. 237293 - 01 Sez. 5, n. 7047 del 27/11/2008, Reinhard, Rv. 242962 - 01

Sez. 4, n. 26653 del 22/04/2009, PG / Sarti, Rv. 244505 - 01

Sez. 6, n. 13117 del 19/01/2010, Sghiri Yassine, Rv. 246680 - 01

Sez. 2, n. 35350 del 17/09/2010, Percuoco, Rv. 248544 - 01

Sez. 1, n. 13349 del 17/05/2012, D., Rv. 255049 - 01

Sez. 2, n. 859 del 18/12/2012, Chiapolino, Rv. 254186 - 01

Sez. 1, n. 3758 del 07/11/2013, Costa, Rv. 258260 - 01

Sez. 3, n. 14433 del 04/12/2013, Z., Rv. 259719 -01

Sez. 2, n. 11953 del 29/01/2014, D’Alba, Rv. 258067 - 01

Sez. 2, n. 18617 del 08/02/2017, PG/ Davicco, Rv. 269743 -01

Sez. 6, n. 5200 del 15/11/2017, Ribaj, Rv. 272214 - 01

Sez. 5, n. 33870 del 07/04/2017, Crescenzo, Rv. 270475 - 01

Sez. 4, n. 48280 del 26/09/2017 Squillante, Rv. 271293 - 01

Sez. 5, n. 48879 del 17/09/2018, L., Rv. 274159 - 01

Sez. 2, n. 13969 del 07/05/2020, Rame, Rv. 279035-01

Sez. 2, n. 23573 del 05/08/2020, Festante, Rv. 279481-01

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost. n. 265 del 1994

Corte cost. n. 378 del 1997

Corte cost. n. 333 del 2009 Corte cost., n.140 del 2010

SEZIONE VI IMPUGNAZIONI.

  • procedura penale
  • competenza territoriale
  • accusa

CAPITOLO I

DICHIARAZIONE DI INCOMPETENZA TERRITORIALE DEL GIP, ANNULLAMENTO DELL’ORDINANZA APPLICATIVA DELLA MISURA CAUTELARE E INTERESSE AD IMPUGNARE DEL PUBBLICO MINISTERO.

(di Gennaro Sessa )

Sommario

1 Il quesito sottoposto alle Sezioni unite. - 2 L’orientamento contrario all’impugnabilità da parte del pubblico ministero dell’ordinanza applicativa della misura cautelare. - 3 L’orientamento favorevole all’impugnabilità da parte del pubblico ministero dell’ordinanza applicativa della misura cautelare. - 4 La decisione delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate.

1. Il quesito sottoposto alle Sezioni unite.

Nel corso dell’anno 2020 ha formato oggetto di esame da parte delle Sezioni unite la seguente questione controversa: «Se, e a quali condizioni, sia impugnabile, da parte del pubblico ministero, l’ordinanza con la quale il tribunale del riesame abbia dichiarato l’incompetenza per territorio del giudice per le indagini preliminari che ha disposto la misura cautelare impugnata e, esclusa la ricorrenza dei presupposti per il mantenimento temporaneo dell’efficacia della stessa per ragioni di urgenza, abbia altresì annullato la relativa ordinanza applicativa».

Il delinearsi di due contrapposti orientamenti - l’uno assertore della ricorribilità per cassazione di tale provvedimento, l’altro sostenitore della sua inoppugnabilità - ha reso necessario l’intervento della Corte a Sezioni Unite.

La trattazione del ricorso è stata rimessa al supremo consesso con ordinanza della Sesta sezione penale n. 46495 del 30.10.2019 (dep. il successivo 15.11.2019).

Nello specifico, i giudici rimettenti hanno rilevato l’esistenza di un contrasto, interno alla giurisprudenza di legittimità, sul tema della ricorribilità per cassazione, da parte del pubblico ministero, dell’ordinanza con cui il tribunale del riesame abbia dichiarato l’incompetenza territoriale del giudice per le indagini preliminari che ha emesso la misura cautelare impugnata e, dopo aver escluso la ricorrenza del presupposto dell’urgenza per il mantenimento temporaneo della sua efficacia, abbia altresì annullato l’ordinanza genetica. Il provvedimento di rimessione ha quindi individuato un primo orientamento, secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza con cui il tribunale della libertà, decidendo su un’istanza di riesame di provvedimento impositivo di misura coercitiva, abbia dichiarato l’incompetenza territoriale del giudice emittente e disposto la trasmissione degli atti ad altra autorità giudiziaria, ritenuta territorialmente competente, in quanto il giudice del riesame, all’esito della declaratoria d’incompetenza, non può riformare o annullare il provvedimento impugnato, salva una valutazione, nei limiti del fumus, sulla legalità dell’ordinanza che va ad adottare e sulla sussistenza delle ragioni d’urgenza, né, d’altro canto, può avere cognizione alcuna su un’eventuale ripristino della misura, laddove l’ordinanza gravata fosse poi annullata sul punto dalla cassazione (così Sez. 6, n. 32337 del 18.06.2010, Marchetti, Rv. 248088-01, nonché Sez. 5, n. 21953 del 13.05.2010, Astorino, Rv. 247415-01).

Nel provvedimento di rimessione si è altresì posto in rilievo che, secondo l’impostazione accolta in tali pronunzie, la valutazione del tribunale del riesame in ordine all’esistenza dei gravi indizi e delle esigenze cautelari non può essere diretta, e tradursi quindi in una declaratoria di annullamento del provvedimento gravato, ma va effettuata incidenter tantum, in maniera strumentale rispetto alla decisione da adottare eventualmente a norma dell’art. 291, comma 2, cod. proc. pen., aggiungendosi che detto indirizzo risulta collegato all’obiter dictum anticipato da Sez. U, n. 14 del 20.07.1994, De Lorenzo, Rv. 198217-01, secondo cui il tribunale del riesame, qualora rilevi l’incompetenza del giudice a quo, è chiamato a verificare l’esistenza dei presupposti di cui al citato art. 291, comma 2, cod. proc. pen. negli stretti limiti in cui sia necessario ai fini della decisione sul temporaneo mantenimento della misura.

Si è ulteriormente evidenziato che, secondo tale opzione ermeneutica, il pubblico ministero procedente, a seguito della pronunzia d’incompetenza, non è più legittimato ed è comunque carente d’interesse a far valere il diritto all’azione, in quanto la domanda cautelare sulla specifica imputazione provvisoria spetta all’ufficio requirente presso il giudice dichiarato competente (così Sez. 6, n. 32337 del 18.06.2010, Marchetti, Rv. 248088-01), chiarendosi che il venir meno dell’interesse della parte pubblica a impugnare la decisione del tribunale del riesame deriva dal fatto che la stessa è insuscettibile di acquistare autorità di cosa giudicata, in quanto proveniente da un giudice privo di competenza e non incidente in alcun modo sullo status libertatis del destinatario, che trova invece regolamentazione nell’eventuale provvedimento successivamente pronunziato dal giudice dichiarato competente (così Sez. 2, n. 1379 del 1994, Battaglia, Rv. 197437-01, Sez. 4, n. 45819 del 2004, Calabrò, Rv. 230587-01 e Sez. 2, n. 48734 del 2012, Jelmoni, Rv. 254160-01).

Si è infine rilevato da parte dei giudici rimettenti che s’inseriscono nel filone interpretativo in oggetto sia la decisione che ha ritenuto inammissibile il ricorso del pubblico ministero avverso l’ordinanza del tribunale del riesame dichiarativa dell’incompetenza per territorio e dell’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, per essere detta pronunzia causativa della sola perdita di efficacia dell’ordinanza genetica prima del decorso dei venti giorni, senza dar luogo ad alcun giudicato cautelare (così Sez. 5, n. 47646 del 17.07.2014, Badii), sia la decisione che, a fronte di un’ordinanza del tribunale del riesame di analoga natura, ha ritenuto che il pubblico ministero non avesse interesse a censurare le ragioni che avevano indotto il collegio a escludere la gravità indiziaria, posto che un annullamento sul punto non avrebbe avuto alcun effetto concreto, stante l’intervenuta perenzione della misura, che avrebbe potuto essere riemessa solo su iniziativa del pubblico ministero presso il giudice competente (così Sez. 1, n. 18477 del 03.02.2006, Summa), sia, infine, le decisioni che hanno ritenuto le ordinanze pronunziate dal giudice dichiaratosi incompetente inidonee a dar luogo a un giudicato cautelare vincolante per il giudice competente (così Sez. 6, n. 24639 del 28.04.2006, Lepre, Rv. 235187-01 e Sez. 6, n. 21328 del 16.04.2015, Spataro, Rv. 263412-01).

Il provvedimento di rimessione ha poi individuato un diverso orientamento, che, partendo dal presupposto che il tribunale del riesame che dichiara l’incompetenza per territorio del giudice emittente non ha alcun potere di valutare l’esistenza delle condizioni che legittimano l’emissione della misura e di disporre eventualmente il suo annullamento, ha riconosciuto al pubblico ministero l’interesse a impugnare la pronunzia di annullamento in ipotesi resa per impedire la formazione del giudicato e non pregiudicare, conseguentemente, la decisione che dovrà assumere il giudice indicato come competente (così Sez. 6, n. 12230 del 24.01.2007, Albano, Rv. 236398-01).

Si è osservato che, secondo tale opzione ermeneutica, il tribunale del riesame, all’esito della declaratoria di incompetenza territoriale del g.i.p., non può annullare la misura emessa perché ciò renderebbe inapplicabile l’art. 27 cod. proc. pen. e finirebbe con l’espropriare di un suo specifico potere il diverso giudice individuato come competente.

Laddove, tuttavia, una pronunzia caducatoria per insussistenza delle esigenze cautelari fosse concretamente resa, sussisterebbe l’interesse del pubblico ministero a impugnare detta decisione sia perchè idonea a pregiudicare quella del giudice indicato come competente, sia per impedire la formazione del giudicato cautelare interno in tema di esigenze preventive (così Sez. 6, n. 8971 del 17.01.2007, Ingrosso, Rv. 235920-01).

I giudici rimettenti hanno rilevato poi che sono di fatto riconducibili al medesimo orientamento anche quelle pronunzie con le quali si è affermata l’abnormità delle ordinanze con cui il tribunale del riesame, rilevata l’incompetenza territoriale del giudice emittente ed esclusa la sussistenza del presupposto dell’urgenza, non si sia limitato a trasmettere gli atti all’autorità territorialmente competente, ma abbia altresì annullato la misura, aggiungendo che, con riguardo alle stesse, sussiste l’interesse del pubblico ministero all’impugnativa per evitare la formazione del giudicato cautelare in ordine all’annullamento del titolo (così Sez. 6, n. 22480 del 16.05.2005, Francioso, Rv. 232237-01, Sez. 6, n. 41006 del 05.12.2006, Cofano, Rv. 235443-01, Sez. 6, n. 4618 del 15.01.2007, Micoli, Sez. 6, n. 14649 del 19.03.2007, Trapsenishti e altri, Rv. 236486-01 e Sez. 6, n. 6240 del 17.01.2012, Riina, Rv. 252420-01).

Nel provvedimento di rimessione si è altresì aggiunto che si ascrive al filone interpretativo in disamina anche una recentissima pronunzia, in cui la Corte, recependo l’insegnamento di Sez. U, n. 42030 del 17.07.2014, Giuliano, Rv. 260242-01, ha distinto, in primis, tra ordinanze che si esauriscono in una mera declaratoria di incompetenza territoriale, da ritenersi non impugnabili, e ordinanze che hanno ad oggetto il diverso e preliminare tema dei requisiti del provvedimento cautelare genetico, da ritenersi, viceversa, suscettibili di impugnazione, venendo in rilievo la possibilità di attribuire alla misura, in ragione dell’urgenza, un’efficacia limitata nel tempo ex art. 27 cod. proc. pen.; ha rimarcato, poi, la tipicità dei provvedimenti del tribunale del riesame, che possono essere esclusivamente di conferma, di riforma o di annullamento, traendo la conclusione che tale giudicante non potrebbe limitarsi a dichiarare l’incompetenza del g.i.p., ma dovrebbe valutare in ogni caso i presupposti legittimanti la misura ed emettere un provvedimento di merito per confermarla, riformarla o annullarla e ha inferito da tale assunto che l’interesse a ricorrere del pubblico ministero deve essere verificato in relazione al tipo di provvedimento adottato dal tribunale, dovendosi ritenere sussistente di fronte ad un’ordinanza che non si limiti a dichiarare l’incompetenza del g.i.p., ma annulli il provvedimento genetico in ragione della ritenuta insussistenza dei presupposti legittimanti e precluda, in tal modo, l’operatività dell’art. 27 cod. proc. pen. (così Sez. 6, n. 46404 del 29.10.2019, Genco, Rv. 277308-01).

I rimettenti hanno evidenziato, infine, la sussistenza di un ulteriore filone interpretativo, secondo cui il tribunale del riesame, quand’anche chiamato a decidere sull’incompetenza territoriale del primo giudice, deve sempre spingersi a verificare direttamente l’esistenza dei presupposti per l’applicazione della misura, provvedendo al suo annullamento laddove ne ravvisi l’assenza (così Sez. 4, n. 30328 del 21.06.2005, Tavella, Rv. 232027-01, Sez. 5, n. 224, del 12.12.2005, dep. 19.01.2006, Frazzetto e altro, Rv. 233025-01 e Sez. 2, n. 26286 de. 27.06.2007, Rossini e altro, Rv. 237268-01).

2. L’orientamento contrario all’impugnabilità da parte del pubblico ministero dell’ordinanza applicativa della misura cautelare.

L’orientamento contrario alla ricorribilità per cassazione, da parte dell’organo dell’accusa, dell’ordinanza del tribunale del riesame dichiarativa dell’incompetenza territoriale del giudice emittente e dispositiva, altresì, dell’annullamento dell’ordinanza genetica per la ritenuta insussistenza dei presupposti per il suo temporaneo mantenimento in via d’urgenza costituisce il logico sviluppo dell’opzione ermeneutica, formatasi a far data dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso e di cui sono espressione pronunzie succedutesi lungo l’arco temporale di poco meno di un ventennio, secondo cui i provvedimenti dell’Autorità giudicante distrettuale aventi ad oggetto l’ordinanza coercitiva di un giudice dichiaratosi incompetente non presentano incidenza sullo “status libertatis” dell’indagato, che trova, invece, la propria regolamentazione nel provvedimento nel frattempo reso dal giudice competente (così Sez. 2, n. 1379 dell’11.03.1994, Battaglia, Rv. 197437-01, Sez. 4, n. 45819 del 30.03.2004, Calabrò, Rv. 230587-01, Sez. 5, n. 28563 del 27.06.2007, Gallo e altri, Rv. 237570-01 e Sez. 6, n. 45909 del 26.09.2011, Platone e altri, Rv. 251180-01).

Si collegano a tale assunto le molteplici pronunzie che, nell’arco degli stessi anni, hanno affermato, a più riprese, che il tribunale del riesame, nel rilevare l’incompetenza territoriale del giudice che ha adottato il titolo cautelare, deve limitarsi a trasmettere gli atti a quello ritenuto competente onde consentirgli di provvedere a norma dell’art. 27 cod. proc. pen., senza valutare in alcun modo la sussistenza dell’urgenza di soddisfare esigenze cautelari.

Viene in rilievo, innanzitutto, Sez. 3, n. 2787 del 07.09.1999, De Luca, Rv. 214519-01, ma si inquadrano nel medesimo filone anche altre tre pronunzie di epoca successiva - Sez. 6, n. 6858 del 17.01.2007, Capodiferro, Rv. 235629-01, Sez. 6, n. 14649 del 19.03.2007, Trapsenishti, Rv. 236486-01 e Sez. 2, n. 49427 del 17.11.2009, Iametti, Rv. 246470-01 - in cui il giudice di legittimità ha avuto cura di precisare che il tribunale del riesame, qualora rilevi l’incompetenza territoriale del g.i.p., non può spingersi ad annullare la misura cautelare dallo stesso emessa. Egualmente riconducibile a tale orientamento risulta una decisione intervenuta in anni più prossimi - Sez. 6, n. 6240 del 17.01.2012, Riina, Rv. 252420-01 - in cui il giudice di legittimità definisce addirittura abnorme la decisione di annullamento della misura cautelare adottata dal tribunale del riesame, che, contestualmente, abbia dichiarato l’incompetenza territoriale del g.i.p. emittente.

Da ultimo, aderisce alla medesima opzione ermeneutica una recente pronunzia - Sez. 6, n. 50078 del 28.11.2014, Cicero, Rv. 261539-01 - in cui si è ribadito che il tribunale del riesame, nel rilevare l’incompetenza territoriale del giudice che ha adottato il titolo cautelare, deve limitarsi a trasmettere gli atti a quello ritenuto competente onde consentirgli di provvedere a norma dell’art. 27 cod. proc. pen., senza valutare in alcun modo la sussistenza dell’urgenza di soddisfare esigenze cautelari, non trovando applicazione, in fase successiva a quella genetica, la previsione di cui all’art. 291 cod. proc. pen.

Saldamente ancorata a tale arresto, tanto da potersene ritenere logica conseguenza, appare la pronunzia che, focalizzando l’attenzione sul regime impugnatorio dell’ordinanza del giudice preposto al riesame della misura coercitiva adottata dal g.i.p. dichiarato incompetente, ha affermato che i provvedimenti in tema di competenza, ivi compresi quelli adottati con le forme dell’ordinanza, sono sottratti alla regola della generale impugnabilità con ricorso per cassazione ex art. 568 cod. proc. pen. e ne ha inferito che quello adottato nella subiecta materia dal tribunale distrettuale non può ritenersi attributivo della competenza al giudice designato, che, per l’effetto, potrà solo sollevare conflitto in caso di diversa valutazione sul punto (così Sez. 6, n. 2667 del 25.09.1998, Delfino, Rv. 211572-01).

Si collocano ancora nel medesimo filone interpretativo tre ulteriori pronunzie, intervenute nel primo decennio di questo secolo, in cui la Suprema Corte ha ribadito il principio dell’inoppugnabilità dei provvedimenti dichiarativi della incompetenza per territorio, adottati, in sede cautelare, dal giudice distrettuale (in tal senso Sez. 6, n. 31801 del 30.05.2008, Kanapari, Rv. 240857-01, Sez. 5, n. 21953 del 13.05.2010, Astorino, Rv. 247415-01 e Sez. 6, n. 32337 del 18.06.2010, Marchetti, Rv. 248088-01).

Egualmente riconducibili all’orientamento di cui trattasi risultano poi due ulteriori decisioni, non massimate, in cui il giudice di legittimità ha rispettivamente affermato che il pubblico ministero non ha interesse a censurare le ragioni che hanno indotto il tribunale del riesame a dichiarare l’incompetenza territoriale del g.i.p. e ad escludere la gravità indiziaria, posto che tale annullamento non sortisce alcun effetto concreto, essendo la misura perenta e non potendo essere riemessa se non su iniziativa del pubblico ministero presso il giudice competente (così Sez. 1, n. 18477 del 03.02.2006, Summa) e che risulta inammissibile il ricorso del pubblico ministero avverso l’ordinanza del tribunale del riesame dichiarativa dell’incompetenza per territorio e dell’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, in quanto detta pronunzia non è causativa di alcuna ulteriore conseguenza, diversa da quella di determinare la perdita di efficacia dell’ordinanza anche prima del periodo di venti giorni, senza dar luogo ad alcun giudicato cautelare (così Sez. 5, n. 47646 del 17.07.2014, Badii).

In linea con il principio fatto proprio dall’orientamento in disamina - secondo cui il tribunale del riesame, nel rilevare l’incompetenza territoriale del giudice che ha adottato il titolo cautelare, deve limitarsi a trasmettere gli atti a quello ritenuto competente onde consentirgli di provvedere a norma dell’art. 27 cod. proc. pen. - appaiono infine talune ulteriori decisioni della Corte, riguardanti tematiche differenti.

È il caso delle pronunzie con cui il giudice di legittimità ha ritenuto inidonea a dar luogo a un giudicato cautelare vincolante per il giudice competente l’ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminari si sia dichiarato incompetente (così, Sez. 6, n. 24639 del 28.04.2006, Lepre, Rv. 235187-01 e Sez. 6, n. 21328 del 16.04.2015, Spataro, Rv. 263412-01).

3. L’orientamento favorevole all’impugnabilità da parte del pubblico ministero dell’ordinanza applicativa della misura cautelare.

Il diverso orientamento, assertivo della ricorribilità per cassazione, da parte del pubblico ministero, dell’ordinanza del tribunale del riesame dichiarativa dell’incompetenza per territorio del g.i.p. e dispositiva, altresì, dell’annullamento dell’ordinanza genetica per la ritenuta insussistenza dei presupposti legittimanti il suo temporaneo mantenimento per ragioni di urgenza, ha iniziato a delinearsi, nella giurisprudenza di legittimità, in tempi più recenti e, segnatamente, a far data dalla metà del primo decennio di questo secolo.

Nello specifico, hanno dato l’abbrivio all’opzione ermeneutica de qua talune pronunzie della Suprema Corte, in cui i giudici di legittimità, centrando l’attenzione sul contenuto della decisione che deve adottare il tribunale del riesame in caso di riscontrata incompetenza territoriale del giudice per le indagini preliminari, hanno affermato che il giudice distrettuale, in tale eventualità, non può limitarsi alla declaratoria di incompetenza, ma è tenuto altresì a confermare il provvedimento reso dal giudice incompetente, in quanto la sua pronunzia, attenendo alla materia cautelare, dev’essere riconducibile alla previsione di cui all’art. 309 cod. proc. pen. (così Sez. 6, n. 22480 del 16.05.2005, Francioso, Rv. 232237-01, Sez. 6, n. 41006 del 05.12.2006, Cofano, Rv. 235443-01 e Sez. 2, n. 48734 del 29.11.2012, Jelmoni, Rv. 254160-01).

In due delle pronunzie in oggetto - segnatamente in quelle più risalenti - la Corte ha inoltre aggiunto che dovrebbe ritenersi abnorme un’eventuale decisione di annullamento del titolo in ipotesi adottata dal giudice distrettuale.

Tutte le menzionate sentenze, pur evidenziando la necessità che alla declaratoria di incompetenza del primo giudice si accompagni una decisione riconducibile alla previsione dell’art. 309 cod. proc. pen., escludono in radice la possibilità che tale decisione sia di tipo caducatorio, sul rilievo che la stessa non ha alcuna incidenza sullo “status libertatis” dell’indagato, che trova la propria regolamentazione unicamente nel provvedimento reso dal giudice competente.

Si smarcano, invece, decisamente dall’opzione ermeneutica dianzi esaminata, dando l’“incipit” al contrapposto orientamento, quelle pronunzie che, per un verso, recepiscono il principio secondo cui la decisione del tribunale del riesame dev’essere riconducibile, anche in caso di declaratoria d’incompetenza del g.i.p., alla previsione dell’art. 309 cod. proc. pen. e, per altro verso, giungono ad ammettere che la stessa può avere anche natura caducatoria, in caso di riscontrata insussistenza dei presupposti per far luogo all’emissione della misura in via d’urgenza ai sensi dell’art. 291, comma 2, cod. proc. pen.

Al riguardo viene in rilievo, innanzitutto, Sez. 4, n. 30027 del 13.07.2006, Atzeni, Rv. 234825-01.

Ma costituisce espressione di tale orientamento anche Sez. 2, n. 35630 del 14.06.2017, Battistutti, Rv. 270861-01, in cui la Corte ha ribadito il medesimo principio con riguardo alla diversa ipotesi in cui l’incompetenza territoriale del giudice emittente sia rilevata nel giudizio di legittimit.

In coerenza con tale arresto, il giudice di legittimità ha altresì affermato che, in ipotesi di annullamento di misura cautelare per insussistenza di esigenze preventive che faccia seguito alla declaratoria di incompetenza territoriale del g.i.p., il rappresentante della pubblica accusa è legittimato a impugnare l’ordinanza del tribunale del riesame onde impedire la formazione del giudicato cautelare sul punto (così Sez. 6, n. 8971 del 17.01.2007, Ingrosso, Rv. 235920-01). Sulla stessa linea si colloca, poi, un’ulteriore decisione, di epoca coeva, in cui la Corte, pur affermando che esula dai poteri del tribunale del riesame la verifica dei presupposti per l’emissione di una misura cautelare in caso di declaratoria di incompetenza per territorio del giudice emittente, ha ritenuto che sussiste l’interesse del pubblico ministero a impugnare la pronunzia caducatoria in ipotesi emessa onde evitare la formazione del giudicato cautelare (così Sez. 6, n. 12230 del 24.01.2007, Albano, Rv. 236398-01).

In linea con l’impostazione recepita da tale pronunzia risulta, ancora, una recentissima sentenza, in cui la Corte, dopo aver dato conto dell’esistenza di un orientamento secondo cui il tribunale del riesame, rilevata l’incompetenza del giudice emittente, deve limitarsi a dichiararla e di una diversa opzione ermeneutica secondo cui è, invece, legittimato a scrutinare altresì i presupposti di emissione del titolo, confermandolo, riformandolo o annullandolo, ha affermato che deve ritenersi sussistente l’interesse a impugnare del pubblico ministero nei casi in cui il giudice distrettuale, all’esito della declaratoria di incompetenza del primo giudice, abbia altresì annullato il titolo dallo stesso emesso, non ravvisando la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, delle esigenze cautelari o dell’urgenza di cui all’art. 291, comma 2, cod. proc. pen. (così Sez. 6, n. 46404 del 29.10.2019, Genco, Rv. 277308-01).

Comunque riconducibile all’orientamento in disamina appare poi un’ulteriore pronunzia in cui la Corte, dopo aver affermato che l’incompetenza territoriale del giudice emittente può formare oggetto delle impugnazioni de libertate, aggiunge che, in caso di riscontrata incompetenza, il giudice del gravame dovrà estendere il proprio scrutinio al requisito dell’urgenza e, laddove ne rilevi l’insussistenza, dovrà annullare la misura alla stregua dei dati processuali esistenti (così Sez. 4, n. 30328 del 21.06.2005, Tavella, Rv. 232027-01).

Nel medesimo solco si pongono, infine, due pronunzie ulteriori, in cui la Corte ha ribadito tale principio con specifico riguardo al giudizio di legittimità (così Sez. 5, n. 2242 del 12.12.2005, dep. 19.01.2006, Frazzetto e altro, Rv. 233025-01 e Sez. 2, n. 26286 del 27.06.2007, Rossini, Rv. 237268-01).

4. La decisione delle Sezioni Unite.

Con la decisione assunta all’udienza del 23.04.2020, le Sezioni Unite hanno dato risposta al quesito dianzi riportato, affermando che «sussiste l’interesse del pubblico ministero ad impugnare il provvedimento con il quale il tribunale del riesame, rilevata l’incompetenza del giudice per le indagini preliminari, annulli, per carenza delle condizioni di applicabilità, l’ordinanza con cui quello stesso giudice ha disposto la misura cautelare della custodia in carcere, se l’impugnazione è funzionale a garantire il tempestivo intervento del giudice competente». Ha premesso innanzitutto il Supremo consesso che le stesse Sezioni Unite, ricomponendo un contrasto apertosi nella giurisprudenza di legittimità già all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo codice di rito, hanno riconosciuto il potere del giudice dell’impugnazione cautelare di sindacare la competenza di quello che ha applicato la misura e di attribuire conseguentemente a quest’ultima la limitata efficacia prevista dall’art. 27 cod. proc. pen. (così Sez. U, n. 14 del 20.07.1994, De Lorenzo, Rv. 198217-01 e Sez. U, n. 19 del 25.10.1994, De Lorenzo, Rv. 199393-01).

Ha aggiunto quindi che soprattutto la seconda delle menzionate pronunzie ha chiarito che il sindacato negativo del giudice dell’impugnazione sulla competenza di quello emittente non esita nell’annullamento del provvedimento adottato da quest’ultimo, giacchè il codice non ha previsto alcuna nullità in tal senso, ma ha affidato al meccanismo dell’inefficacia differita configurato dall’art. 27 cod. proc. pen. la sanzione processuale per la violazione delle regole sulla competenza, meccanismo che sono chiamati ad attivare in supplenza il giudice del riesame o quello di legittimità, imprimendo alla misura quella provvisorietà valevole a garantire un bilanciamento tra il rispetto del principio del giudice naturale e l’esigenza di urgente tutela della collettività.

Per altro verso, i giudici di legittimità hanno altresì richiamato il principio secondo cui le pronunzie sulla competenza sono sottratte al generale regime delle impugnazioni, in quanto affidate alla normativa in tema di conflitti, che individua quale giudice esclusivo la Corte di cassazione (così Sez. U n. 42030 del 17.07.2014, Giuliano, Rv. 260242-01), aggiungendo che ciò non esclude automaticamente che la parte pubblica abbia titolo per impugnare il provvedimento del giudice del riesame nella parte in cui nega la precaria sopravvivenza della misura adottata.

Alla stregua di tali premesse, il Supremo consesso ha affermato che un’interpretazione sistematica dell’art. 291 cod. proc. pen. porta a ritenere che il giudice dell’impugnazione che dichiari l’incompetenza territoriale abbia anche il potere di annullare o riformare l’ordinanza genetica.

Nello specifico, si è rilevato come già le menzionate sentenze De Lorenzo avessero evidenziato che il giudice del riesame sia investito, ai sensi dell’art. 309, comma 9, cod. proc. pen., dei medesimi poteri cognitivi riconosciuti a quello che ha emesso il provvedimento genetico, sicchè sostenere che il primo, una volta rilevata l’incompetenza, dovrebbe limitarsi a disporre la trasmissione degli atti ai sensi dell’art. 27 cod. proc. pen., senza poter verificare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura, significherebbe sottrarre al soggetto cautelato ogni possibilità di contraddittorio in costanza della limitazione della libertà personale ed affermare la sostanziale insindacabilità del merito del provvedimento genetico. Né può sottacersi l’irragionevole disparità di trattamento che si determinerebbe rispetto all’ipotesi in cui, invece, l’incompetenza venga riconosciuta dallo stesso giudice che dispone la misura, atteso che, in tal caso, a quello del riesame viene pacificamente riconosciuto il potere di valutare la sussistenza dei presupposti per la sua adozione, anche quando la misura abbia già perso efficacia o sia eventualmente intervenuto il provvedimento del giudice competente e la sua decisione, non essendo più in grado di incidere sullo status libertatis dell’indagato, rilevi agli esclusivi fini di cui all’art. 314 cod. proc. pen. (così Sez. U, n. 8388 del 22.01.2009, Novi, Rv. 242292-01 e Sez. U, n. 7931 del 16.12.2010, dep. 01.03.2011, Testini, Rv. 249002-01).

Rilevano ancora le Sezioni Unite che la negazione del potere del giudice dell’impugnazione di valutare ed eventualmente escludere la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura è stata giustificata in base ad argomenti non condivisibili.

E invero, è stata evocata innanzitutto l’impossibilità per il giudice incompetente di decidere in merito alla regiudicanda quale precipitato del principio di rango costituzionale del giudice naturale, al cui cospetto il disposto dell’art. 309, comma 9, cod. proc. pen. dovrebbe essere neutralizzato.

Osserva, però, la Suprema Corte che tale obiezione è, all’evidenza, priva di pregio, perché fondata su di un ragionamento circolare, assumendo ciò che deve essere dimostrato e cioè che la deroga espressamente prevista in tal senso dall’art. 291, comma 2, cod. proc. pen. non si applichi, nelle intenzioni del legislatore, anche al giudice dell’impugnazione.

È stata opposta, inoltre, la natura eccezionale della menzionata disposizione di cui all’art. 291, comma 2, cod. proc. pen., cui conseguirebbe l’impossibilità di fornirne interpretazioni analogiche o anche solo estensive, atteso che il testo della norma fa inequivocabilmente riferimento al solo giudice che dispone la misura e contestualmente si dichiara incompetente.

Al riguardo, rileva, tuttavia, la Corte che se è vero che il dato testuale della disposizione si presta a una lettura in tal senso, è altrettanto vero che una tale interpretazione condurrebbe ad aporie che rischiano di compromettere la stessa compatibilità della norma con i principi costituzionali.

D’altro canto, che l’anzidetta interpretazione non sia l’unica possibile lo si ricava dal dato testuale, ove si consideri che l’art. 291, comma 2, cod. proc. pen. consente al giudice incompetente di applicare la misura esclusivamente in ragione della comprovata urgenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 cod. proc. pen.

Il tenore letterale dell’art. 291, comma 2, cod. proc. pen. evidenzia, quindi, l’esistenza di un inscindibile collegamento con la disposizione di cui all’art. 27 cod. proc. pen. e, in particolare, tra l’efficacia interinale e la verifica del presupposto dell’urgenza, che la legittima, sicchè negare che tale disposizione trovi applicazione anche qualora l’incompetenza venga rilevata da un giudice diverso da quello che ha applicato la misura si pone in contraddizione con la stessa volontà legislativa, finendo con l’autorizzare una proroga della restrizione della libertà dell’indagato per il tempo indicato nell’art. 27 cod. proc. pen. senza che sia accertato il presupposto che giustifica detta proroga.

Né può riconoscersi al giudice dell’impugnazione - come pure si è sostenuto in talune pronunzie - il compito di accertare la sola urgenza delle esigenze cautelari e non anche degli altri presupposti che legittimano l’adozione della misura, in quanto una tale estensione selettiva del disposto dell’art. 291, comma 2, cod. proc. pen. sarebbe operazione esegetica in alcun modo ancorabile al dato testuale.

Da ultimo, per negare che il giudice dell’impugnazione cautelare possa valutare ed eventualmente escludere la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura, è stata evocata l’esigenza di evitare la formazione di un giudicato cautelare in grado di condizionare il potere decisorio del giudice competente.

In proposito, le Sezioni Unite evidenziano che l’inconsistenza di tale argomento è definita dall’erroneità del presupposto su cui si fonda, non verificandosi alcuna interferenza nell’ipotesi in cui il giudice che rilevi l’incompetenza respinga la richiesta cautelare ovvero annulli il provvedimento applicativo precedentemente adottato, stante la natura “endoprocessuale” del giudicato cautelare (così Sez. U, n. 14535 del 19.12.2006, dep. 10.04.2007, Librato, Rv. 235908-01 e Sez. 6, n. 54045 del 27.09.2017, Cao, Rv. 271734-01).

Conclude pertanto il Supremo consesso che, nell’incidente cautelare, il giudice dell’impugnazione che rileva l’incompetenza di quello che ha applicato la misura ha il dovere di verificare, ai sensi dell’art. 291, comma 2, cod. proc. pen., la sussistenza delle condizioni per l’adozione del provvedimento genetico, conservando il potere, nel caso in cui tale verifica abbia esito negativo, di annullare lo stesso ovvero, nel caso contrario, di provvedere ai sensi dell’art. 27 cod. proc. pen., laddove ravvisi l’urgenza di anche una sola delle esigenze cautelari riscontrate.

Tanto chiarito e venendo più specificamente alla questione sollevata con l’ordinanza di rimessione, la Corte osserva che l’art. 311, comma 1, cod. proc. pen. legittima, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo, il pubblico ministero che ha richiesto la misura a impugnare il provvedimento caducatorio del giudice del riesame, atteso che questo è stato adottato ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen. e che non si esaurisce nella mera declaratoria di incompetenza.

Osserva, altresì, la Corte che il pubblico ministero risulta portatore di un concreto interesse a proporre l’impugnazione, avendo chiarito il consolidato orientamento delle Sezioni Unite che, per proporre ricorso - anche nell’incidente cautelare - il soggetto legittimato deve perseguire un interesse concreto e attuale, la cui sussistenza e persistenza al momento della decisione deve essere apprezzata con riferimento all’esistenza di un effettivo pregiudizio derivato dal provvedimento impugnato, la cui rimozione consente il conseguimento di un risultato più vantaggioso (così Sez. U n. 40963 del 20.07.2017, Andreucci, Rv. 270497- 01, Sez. U n. 6624 del 27.10.2011, dep. 17.02.2012, Marinaj, Rv. 251693-01, Sez. U., n. 7931 del 16.12.2010, dep. 01.03.2011, Testini, Rv. 249002-01, Sez. U., n. 29529 del 25.06.2009, De Marino, Rv. 244110-01, Sez. U., n. 7 del 25.06.1997, Chiappetta, Rv. 208165-01, Sez. U., n. 10372 del 27.09.1995, Serafino, Rv. 202269-01, Sez. U., n. 42 del 13.12.1995, Timpani, Rv. 203093-01, Sez. 6, n. 33573 del 20.05.2015, Pinelli, Rv. 264996-01, Sez. 3, n. 48581 del 13.09.2016, Piga, Rv. 268191-01, Sez. 2, n. 4974 del 17.01.2017, D’Aversa, Rv. 268990-01 e Sez. 5, n. 35783 del 04.05.2018, El Harchi, Rv. 273630-01).

Al riguardo, il Supremo consesso chiarisce che l’interesse del pubblico ministero può ritenersi concreto se mira a rimuovere gli effetti costitutivi del provvedimento impugnato per conseguire un risultato reale e non meramente ipotetico o congetturale, ponendo in rilievo che, nell’incidente cautelare instaurato nella fase delle indagini preliminari, il ricorso della parte pubblica non mira esclusivamente alla rimozione del provvedimento di annullamento dell’ordinanza genetica, ma tende a ottenere, attraverso la mediazione del giudizio di rinvio, una decisione di segno diverso, sicchè è in relazione alla possibilità di conseguire tale esito finale e con esclusivo riferimento allo stesso che deve essere valutata la sussistenza dell’interesse di cui all’art. 568, comma 4, cod. proc. pen.

Dunque, qualora il giudice del riesame abbia altresì dichiarato l’incompetenza di quello che, omettendo di rilevarla, aveva accolto la richiesta cautelare, il risultato favorevole perseguibile dal pubblico ministero è esclusivamente quello di vedere attribuita alla misura originariamente disposta l’efficacia interinale prevista dall’art. 27 cod. proc. pen., previa conferma della sussistenza delle condizioni per la sua applicazione e dell’accertamento dell’urgenza delle esigenze cautelari rilevate.

In altre parole, solo quando l’impugnazione sia finalizzata a ottenere l’applicazione del disposto dell’art. 27 cod. proc. pen. secondo la funzione che gli è propria, l’interesse a proporla può ritenersi effettivamente concreto, dovendosi per converso escludere la sua ricorrenza laddove l’obiettivo perseguito consista, in sostanza, nella mera rimozione della decisione sfavorevole del giudice del riesame, atteso che, in tal caso, il ripristino temporaneo della misura non sarebbe proiettato verso la sua rinnovazione da parte del giudice competente.

Alla stregua di quanto evidenziato, la Corte conclude che è onere del pubblico ministero dedurre, a pena di inammissibilità, l’obiettivo effettivamente perseguito attraverso il ricorso, dovendosi escludere in via implicita la concretezza dell’interesse qualora egli impugni contestualmente anche la declaratoria sull’incompetenza, giacchè tale comportamento risulta contraddittorio rispetto allo scopo di garantire l’urgenza cautelare in attesa dell’intervento del giudice competente.

Aggiunge quindi che, in sintonia con l’orientamento maggioritario espresso dalle Sezioni semplici, deve ammettersi che sussiste l’interesse del pubblico ministero a ricorrere avverso il provvedimento del giudice del riesame nella misura in cui questi, nell’annullare l’ordinanza genetica, ha sostanzialmente escluso l’applicazione dell’art. 27 cod. proc. pen., pur avendo rilevato l’incompetenza.

E invero, una volta attribuito al giudice dell’impugnazione cautelare il compito di verificare, anche il tal caso, la sussistenza delle condizioni che autorizzano l’adozione della misura, nonché il potere di annullare l’ordinanza genetica, è inevitabile riconoscere il pregiudizio subito dalla parte pubblica che aveva conseguito il titolo cautelare e il suo interesse a perseguire, attraverso la rimozione del provvedimento caducatorio, il ripristino della misura, seppure ai limitati fini di cui all’art. 27 cod. proc. pen.

Né - si rileva - può ritenersi insussistente tale interesse in ragione del fatto che l’indagato ha facoltà di proporre ricorso avverso il provvedimento eventualmente adottato a seguito dell’annullamento con rinvio di quello impugnato dal pubblico ministero, atteso che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, l’ordinanza con la quale il giudice del riesame, in sede di rinvio, conferma l’originaria ordinanza di custodia cautelare in precedenza annullata, è immediatamente esecutiva e determina il ripristino dello stato di custodia anche qualora l’indagato proponga, a sua volta, ricorso per cassazione avverso il nuovo provvedimento.

Alla stregua delle osservazioni complessivamente esposte, il Supremo consesso conclude quindi che «sussiste l’interesse del pubblico ministero ad impugnare il provvedimento con il quale il tribunale del riesame, rilevata l’incompetenza del giudice per le indagini preliminari, annulli, per carenza delle condizioni di applicabilità, l’ordinanza con cui quello stesso giudice ha disposto la misura cautelare della custodia in carcere, se l’impugnazione è funzionale a garantire il tempestivo intervento del giudice competente».

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 2, n. 1379 dell’11.03.1994, Battaglia, Rv. 197437-01 Sez. U, n. 14 del 20.07.1994, De Lorenzo, Rv. 198217-01 Sez. U, n. 19 del 25.10.1994, De Lorenzo, Rv. 199393-01 Sez. U, n. 10372 del 27.09.1995, Serafino, Rv. 202269-01

Sez. U, n. 42 del 13.12.1995, Timpani, Rv. 203093-01

Sez. U, n. 7 del 25.06.1997, Chiappetta, Rv. 208165-01

Sez. 6, n. 2667 del 25.09.1998, Delfino, Rv. 211572-01

Sez. F., n. 2787 del 07.09.1999, De Luca e altro, Rv. 214519-01 Sez. 4, n. 45819 del 30.03.2004, Calabrò, Rv. 230587-04

Sez. 4, n. 30328 del 21.06.2005, Tavella, Rv. 232027-04

Sez. 6, n. 22480 del 16.05.2005, Francioso e altro, Rv. 232237-01

Sez. 5, n. 2242 del 12.12.2005, dep. 19.01.2006, Frazzetto, Rv. 233025-01

Sez. 1, n. 18477 del 03.02.2006, Summa

Sez. 4, n. 30027 del 13.07.2006, Atzeni, Rv. 234825

Sez. 6, n. 24639 del 28.04.2006, Lepre, Rv. 235187-01

Sez. 6, n. 41006 del 05.12.2006, Cofano, Rv. 235443-01

Sez. 6, n. 4618 del 15.01.2007, Micoli

Sez. 6, n. 6858 del 17.01.2007, Capodiferro e altro, Rv. 235629-01

Sez. U, n. 14535 del 19.12.2006, dep. 10.04.2007, Librato, Rv. 235908-01

Sez. 6, n. 8971 del 17.01.2007, Ingrosso, Rv. 235920-01

Sez. 6, n. 12230 del 24.01.2007, Albano, Rv. 236398-01

Sez. 6, n. 14649 del 19.03.2007, Trapsenishti e altri, Rv. 236486-01

Sez. 2, n. 26286 del 27.06.2007, Rossini e altro, Rv. 237268-01

Sez. 5, n. 28563 del 27.06.2007, Gallo, Rv. 237570-01

Sez. 6, n. 31801 del 30.05.2008, Kanapari, Rv. 240857-01

Sez. U, n. 8388 del 22.01.2009, Novi, Rv. 242292-01

Sez. U, n. 29529 del 25.06.2009, De Marino, Rv. 244110-01

Sez. 2, n. 49427 del 17.11.2009, Iametti e altri, Rv. 246470-01

Sez. 5, n. 21953 del 13.05.2010, Astorino, Rv. 247415-01

Sez. 6, n. 32337 del 18.06.2010,. Marchetti, Rv. 248088-01

Sez. U, n. 7931 del 16.12.2010, dep. 01.03.2011, Testini, Rv. 249002-01

Sez. 6, n. 45909 del 26.09.2011, Platone e altri, Rv. 251180-01

Sez. U, n. 6624 del 27.10.2011, dep. 17.02.2012, Marinaj, Rv. 251693-01

Sez. 6, n. 6240 del 17.01.2012,. Riina, Rv. 252420-01

Sez. 5, n. 47646 del 17.07.2014, Badii

Sez. 2, n. 48734 del 29.11.2012, Jelmoni, Rv. 254160-01

Sez. U, n. 42030 del 17.07.2014, P.M. in proc. Giuliano e altri, Rv. 260242-01 Sez. 6, n. 50078 del 28.11.2014, Cicero, Rv. 261539-01

Sez. 6, n. 21328 del 16.04.2015, Spataro, Rv. 263412-01

Sez. 6, n. 33573 del 20.05.2015, Pinelli, Rv. 264996-01 Sez. 3, n. 48581 del 13.09.2016, Piga, Rv. 268191-01 Sez. 2, n. 4974 del 17.01.2017, D’Aversa, Rv. 268990-01 Sez. U, n. 40963 del 20.07.2017, Andreucci, Rv. 270497-01 Sez. 2, 35630 del 14.06.2017, Battistutti e altri, Rv. 270861-01 Sez. 6, n. 54045 del 27.09.2017, Cao, Rv. 271734-01 Sez. 5, n. 35783 del 04.05.2018, El Harchi, Rv. 273630-01 Sez. 6, n. 46404 del 29.10.2019, Genco, Rv. 277308-01

  • procedura penale
  • mezzi di ricorso

CAPITOLO II

IL RICORSO CAUTELARE PER CASSAZIONE: TOPOGRAFIA E TEMPISTICA.

(di Elena Carusillo )

Sommario

1 Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite. - 2 Le ragioni della questione controversa. - 3 La giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa: il profilo topografico. - 4 La sentenza delle Sezioni Unite “D’Alfonso”: una traccia per la soluzione della questione. - 5 Il profilo temporale: la tempestività della presentazione dell’atto impugnatorio. - 6 La decisione. - Indice delle sentenze citate.

1. Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione sono state chiamate a pronunciarsi sulla questione volta a stabilire “Se il ricorso cautelare per cassazione avverso la decisione del tribunale del riesame o, in caso di ricorso immediato, del giudice che ha emesso la misura, debba essere presentato esclusivamente presso la cancelleria del tribunale o, comunque, dell’organo giudiziario che ha emesso il provvedimento impugnato ovvero possa essere presentato dal difensore dell’interessato anche presso le cancellerie degli organi giudiziari, o presso l’agente consolare, dei luoghi di cui all’art. 582, comma 2, cod. proc. pen.; se, inoltre, in tale caso, il ricorso debba ritenersi tempestivamente proposto solo quando pervenuto entro i termini di cui all’art. 311, comma 1, cod. proc. pen. alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento, a seguito della trasmissione a cura della cancelleria dell’ufficio giudiziario o consolare di precedente deposito”.

La trattazione del ricorso era stata rimessa al supremo consesso con ordinanza n. 18582 del 21/05/2020, dalla Terza sezione penale che aveva ravvisato il possibile affiorare di un contrasto in merito alla corretta individuazione del luogo presso il quale deve essere presentato il ricorso cautelare per cassazione avverso il provvedimento in materia cautelare personale reso dal giudice del riesame o dell’appello cautelare, ovvero avverso l’ordinanza genetica della misura coercitiva, ed in particolare se questo coincida solo con il tribunale del luogo nel quale ha sede la corte di appello o la sezione distaccata della corte di appello nella cui circoscrizione è compreso l’ufficio del giudice che ha emesso l’ordinanza, esclusa qualsiasi soluzione alternativa per le parti, con inevitabili conseguenze in termini di ammissibilità del ricorso.

La Terza sezione, partendo dalla considerazione che il regime delle impugnazioni cautelari non possa definirsi né come un sistema chiuso ed autonomo rispetto a quello riferibile alle altre tipologie impugnatorie, né come un sistema strutturato in maniera autosufficiente e, dunque, tale da non tollerare la possibilità di attingere alle regole comuni in materia di impugnazioni al fine di integrare la normativa particolare, si poneva in posizione dissonante rispetto all’orientamento interpretativo maggioritario che, ritenendo non applicabile al ricorso cautelare per cassazione la disciplina sulla presentazione dell’atto di impugnazione stabilita agli artt. 582 e 583 cod. proc. pen., in considerazione della assenza del richiamo a tali norme nel corpo dell’art. 311 cod. proc. pen., avrebbe condotto alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso sottoposto al suo vaglio, sia perché depositato presso la cancelleria di un tribunale diverso da quello che lo ha reso quale giudice del riesame, sia perché pervenuto al tribunale del riesame oltre il termine di dieci giorni dalla notifica del provvedimento cautelare ai sensi dell’art. 311, comma 1, cod. proc. pen. sebbene proposto entro il termine stesso, conclusione in relazione alla quale non avrebbe potuto soccorrere neanche quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale è ammissibile il ricorso per cassazione depositato nella cancelleria di un ufficio giudiziario erroneamente individuato, a condizione che lo stesso pervenga nel termine di legge anche nella cancelleria dell’ufficio ove ha sede il giudice che ha emesso l’atto impugnato.

2. Le ragioni della questione controversa.

Per meglio comprendere le ragioni fondanti del contrasto sottoposto al vaglio delle Sezioni unite, volto alla corretta individuazione del luogo presso il quale il ricorso cautelare per cassazione avverso la decisione del tribunale del riesame ovvero - in caso di ricorso immediato - del giudice che ha emesso la misura, debba e possa essere presentato e a stabilire se le modalità previste per l’impugnazione cautelare costituiscano eccezione alle norme che regolano in via generale la presentazione dell’impugnazione, giova rammentare che l’art. 582 cod. proc. pen., norma generale sulle impugnazioni, prevede, al comma 1, che, salvo che la legge disponga altrimenti, gli atti di impugnazione si presentano nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato e, al comma 2, che le parti private ed i difensori possono presentare l’atto nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano, qualora lo stesso sia diverso da quello dove ha sede il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, ovvero davanti ad un agente consolare all’estero, nel qual caso l’atto impugnatorio sarà trasmesso alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Il successivo art. 583 cod. proc. pen., dopo aver previsto, al comma 1, che le parti e i difensori possono proporre l’impugnazione con telegramma ovvero con atto da trasmettersi a mezzo di raccomandata alla cancelleria indicata nell’articolo 582 comma 1, sul quale il pubblico ufficiale appone l’indicazione del giorno della ricezione e la propria sottoscrizione, stabilisce, al comma 2, che l’impugnazione si considera proposta alla data di spedizione della raccomandata o del telegramma.

La disciplina generale subisce una differente declinazione nel caso di impugnazione cautelare in ragione delle stringenti esigenze di speditezza che regolano la materia della cautela personale, involgente un diritto di rango primario.

Invero, diversamente da quanto previsto dall’art. 582 cod. proc. pen., per la richiesta di riesame delle ordinanze che dispongono per la prima volta una misura cautelare personale, l’art. 309 cod. proc. pen., dopo aver stabilito che entro il termine di dieci giorni

- la cui decorrenza è fissata per l’imputato dalla notificazione o esecuzione dell’ordinanza coercitiva, per il latitante dalla notificazione nei modi previsti dall’art. 165 cod. proc. pen. e per il difensore dalla notificazione dell’avviso - la stessa debba essere presentata presso la cancelleria del giudice ad quem, prevede l’osservanza delle forme stabilite dagli artt. 582 e 583 cod. proc. pen. laddove, per tutti gli altri provvedimenti, l’imputato, il suo difensore e il pubblico ministero possono proporre appello ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen. con le forme e modalità previste dall’art. 309, commi 1, 2, 3, 4 e 7, cod. proc. pen.

Ancora, ai sensi dell’art. 311, comma 1, cod. proc. pen., la disciplina prevede che avverso le decisioni assunte in sede di riesame e di appello il ricorso per cassazione può essere proposto nel termine di dieci giorni, decorrenti per l’imputato dalla notificazione o esecuzione dell’ordinanza coercitiva, per il latitante dalla notificazione nei modi previsti dall’art. 165 cod. proc. pen., per il difensore dalla notificazione dell’avviso di deposito del provvedimento, e, ai sensi del comma 2, che l’imputato ed il suo difensore possono proporre il ricorso per cassazione per saltum e, cioè, direttamente contro le ordinanze genetiche che dispongono una misura coercitiva, nei termini e con le modalità di cui all’art. 309, commi 1, 2 e 3, cod. proc. pen.

Analogamente a quanto previsto in tema di cautela personale, per le misure cautelari reali l’art. 324, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce che la richiesta di riesame, della quale possono avvalersi i soggetti indicati all’art. 322 cod. proc. pen., deve essere presentata, entro il termine di dieci giorni dalla data di esecuzione del provvedimento o dalla diversa data in cui l’interessato ha avuto conoscenza dell’esecuzione, presso la cancelleria del tribunale del capoluogo competente a decidere ai sensi del comma 5 dell’art. 324 cod. proc. pen., e l’art. 322-bis cod. proc. pen., introdotto con il d. l.vo 14 gennaio 1991, n. 12, prevede che l’imputato, il suo difensore, il pubblico ministero, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione possono proporre appello, sia contro le ordinanze in materia di sequestro preventivo sia contro il decreto di revoca del sequestro emesso dal pubblico ministero. A tale rimedio di impugnazione, proponibile contro i provvedimenti di modifica, sostituzione, revoca della misura o di rigetto delle relative istanze, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’art. 310 cod. proc. pen. e pertanto, di rimando, quelle previste dall’art. 309, commi 1, 2, 3, 4 e 7, cod. proc. pen.

Ancora, in materia di cautela reale, l’art. 325 cod. proc. pen. prevede, al comma 1, che il pubblico ministero, l’imputato e il suo difensore, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione, possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge avverso le decisioni assunte in sede di appello e di riesame e, al comma 2, che possono proporre il ricorso per cassazione direttamente contro il decreto di sequestro emesso dal giudice (cd. ricorso per saltum).

Alla luce del dato normativo, la Terza sezione si è posta in posizione critica rispetto alle argomentazioni, una di carattere formale ed una di tipo funzionale, sottese a quelle decisioni della Corte che confinano l’applicabilità degli artt. 582 e 583 cod. proc. pen. ai soli procedimenti di riesame e di appello cautelare e non anche al ricorso per cassazione in materia de libertate, ritenendo che in tale senso si sia dato corso ad una modalità di lettura delle norme che si ferma al solo criterio esegetico di tipo lessicale, non condivisa dalla giurisprudenza della Corte sia quando ha affermato che le parti private sono legittimate a presentare la richiesta di riesame e l’atto d’appello delle ordinanze in materia di misure cautelari personali anche presso la cancelleria del luogo in cui si trovano, se diverso da quello nel quale il provvedimento fu emesso (Sez. U, n. 11 del 18/06/1991, D’Alfonso, Rv. 187922 - 01), sia quando ha esteso l’operatività del principio anche al riesame reale (Sez. U, n. 47374 del 22/06/2017, Ferraro, Rv. 270828 - 01), sia quando ha affermato che in materia di misure cautelari, reali e personali, la richiesta di riesame può essere proposta con telegramma o con atto trasmesso a mezzo di raccomandata, a norma dell’art. 583 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 8 del 11/05/1993, Mocerino, Rv. 193750 - 01), sia quando, in relazione al differente istituto disciplinato dall’art. 625-bis cod. proc. pen., ha precisato che le eccezioni ai principi generali che governano le impugnazioni, tra cui figurano quelle relative alla presentazione degli atti, devono essere espresse (Sez. U, n. 32744 del 27/11/2014, dep. 2015, Zangari, Rv. 264049 - 01), escludendo che in tali casi al mancato richiamo alle forme di cui agli artt. 582 e 583 cod. proc. pen. in materia di ricorso per cassazione de libertate possa attribuirsi alcun significato preclusivo.

3. La giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa: il profilo topografico.

Sulla specifica questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite la giurisprudenza di legittimità, in ossequio al dettato normativo di cui all’art. 311, comma 3, cod. proc. pen., si è assestata nell’individuare il luogo di presentazione del ricorso cautelare per cassazione avverso la decisione del tribunale del riesame o avverso l’ordinanza genetica, unicamente nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, pena l’inammissibilità del ricorso ove depositato presso la cancelleria del giudice ad quem.

Una delle prime espressioni di tale giurisprudenza, orientata ad una rigida lettura delle norme relative alle impugnazioni cautelari (che, in quanto espressione di una disciplina auto noma, esclude, in assenza di espliciti richiami, che possano applicarsi le disposizioni generali che regolano le impugnazioni ordinarie), si rinviene nella decisione, riferibile ad ogni atto impugnatorio di tipo cautelare e a tutte le parti ricorrenti, di Sez. 6, n. 3539 del 06/12/1990, dep. 1991, Messora, Rv. 187018 - 01, secondo cui “in tema di riesame, le specifiche modalità fissate dal legislatore per la presentazione del gravame costituiscono evidente deroga alle norme che regolano in via generale la presentazione dell’impugnazione. Ne consegue che sia la presentazione dell’istanza di riesame, sia quella del ricorso per cassazione avverso la decisione del tribunale della libertà vanno presentate nella cancelleria dello stesso tribunale, con esclusione, anche per la parte, di qualsiasi soluzione alternativa”.

Sul solco inaugurato dalla sentenza “Messora”, questa volta con specifico riferimento al ricorso cautelare per cassazione proposto mediante il deposito dell’atto direttamente presso la Corte anziché nella cancelleria del giudice a quo, Sez. 2, n. 2056 del 20/03/1991, Crisalli, Rv. 187164 - 01 ha affermato che “il ricorso per Cassazione proposto dal pubblico ministero avverso l’ordinanza emessa in materia di misure cautelari personali dal tribunale della libertà, è inammissibile qualora sia presentato direttamente in Cassazione e non nella cancelleria del suddetto tribunale, come prescrive l’art. 311, comma terzo, nuovo cod. proc. pen.”.

Il principio è stato ribadito in tempi recenti da Sez. 6, n. 29477 del 23/03/2017, Di Giorgi, Rv. 270559 - 01 che, inoltre, ha escluso qualsiasi effetto sanante “nel caso in cui il ricorso sia depositato tempestivamente presso la cassazione e, dopo la scadenza del termine ex art. 311, comma primo, cod. proc. pen., anche presso la cancelleria del tribunale del riesame” e da Sez. 6, n. 13420 del 05/03/2019, Dallai, Rv. 275367 - 01, che, in motivazione, ha evidenziato che per il ricorso cautelare per cassazione permane la rigida previsione normativa dettata dall’art. 311, comma 3, cod. proc. pen., diversamente da quanto disciplinato per la presentazione della richiesta di riesame, ai sensi dell’art. 309, comma 4, cod. proc. pen. e per l’atto di appello, ai sensi dell’art. 310, comma 2, cod. proc. pen. a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 8 agosto 1995 n. 332 che solo a tali ultime due forme di impugnazioni ha esteso l’operatività delle norme sulla presentazione dell’atto di impugnazione di cui agli artt. 582 e 583 cod. proc. pen.

Ancora, negli stessi termini, Sez. 1, n. 4096 del 10/12/2019, dep. 2020, Condipodero, Rv. 279031 - 01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione presentato presso un tribunale diverso da quello che aveva emesso il provvedimento cautelare gravato, evidenziando che la coincidenza tra la modalità di presentazione del ricorso cautelare per cassazione, stabilita in via esclusiva dall’art. 311, comma 3, cod. proc. pen., e la modalità ordinariamente prevista per l’atto di impugnazione, ai sensi dell’art. 582, comma 1, cod. proc. pen., è espressione dell’interesse prioritario dell’ordinamento alla massima celerità nell’avvio del giudizio di impugnazione e che è questa la modalità attraverso la quale il giudice che ha emesso il provvedimento apprende immediatamente dell’impugnazione e può, con altrettanta prontezza, provvedere agli adempimenti di cui all’art. 164 disp. att. cod. proc. pen., relativi alla formazione dei fascicoli.

A tale orientamento se ne affianca un altro meno rigido che, nel sottolineare implicitamente l’irrilevanza ed il carattere neutro dell’errore, esclude la radicale inammissibilità del ricorso cautelare per cassazione presentato nella cancelleria di un ufficio giudiziario diverso da quello che ha emesso il provvedimento cautelare, a condizione che l’atto impugnatorio sia pervenuto anche nella cancelleria del giudice a quo entro il termine stabilito dalla legge per la presentazione del ricorso.

Allineandosi a tale orientamento e treando spunto dal principio di diritto affermato, nel diverso tema della presentazione di motivi nuovi ai sensi dell’art. 585, comma 4, cod. proc. pen., da Sez. 6, n. 46823 del 15/11/2005, Tramonte, Rv. 232533 - 01, secondo cui “non costituisce causa di inammissibilità dei motivi nuovi d’impugnazione il fatto che la presentazione degli stessi avvenga non presso la cancelleria del giudice dell’impugnazione, come previsto dall’art. 585, comma quarto, cod. proc. pen., ma presso quella del giudice a quo, secondo le modalità stabilite dall’art. 582, atteso che i detti motivi altro non possono rappresentare se non una chiarificazione dell’originario atto d’impugnazione, i cui requisiti di ammissibilità vanno verificati alla stregua del disposto di cui all’art. 591, da interpretarsi, nella parte in cui prevede come causa di inammissibilità la mancata osservanza dell’art. 585, nel senso che oggetto di tale inosservanza possono essere soltanto i termini stabiliti nella norma richiamata”, Sez. F. n. 35125 del 19/08/2008, Milazzo, Rv. 240668 - 01, ha affermato che “è ammissibile l’impugnazione presentata (nella specie, a mezzo raccomandata) nella cancelleria del giudice “ad quem”, allorché essa sia tempestivamente pervenuta anche nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato”, così privilegiando, in funzione del principio del favor impugnationis, l’aspetto relativo ai dati fondanti dell’impugnazione (certezza della presentazione, certezza della provenienza, rispetto dei termini di legge) piuttosto che quello della irritualità della sede di presentazione, argomentando che, se gli elementi fondamentali dell’effettività della presentazione e della provenienza dell’atto dalla parte interessata “sono attestati dal cancelliere del giudice ad quem con la medesima potestà fidefacente del cancelliere del giudice a quo” e se “lo stesso art. 582 c.p.p. prevede la validità del deposito dell’impugnazione presso altre sedi (tribunale o giudice di pace del luogo in cui le parti private ed i difensori si trovano, agente consolare estero) con l’obbligo per tali autorità di immediata trasmissione al giudice competente (a quo)”, non vi è ragione per sanzionare con l’inammissibilità la presentazione della impugnazione al giudice ad quem anziché al giudice a quo, fatto salvo, per il primo, l’obbligo di immediata trasmissione dell’impugnazione al giudice che ha emesso il provvedimento.

A tale orientamento si sono conformate anche Sez. 5, n. 42401 del 22/09/2009, Ferrigno, Rv. 245391 - 01, Sez. 1, n. 3695 del 22/12/2010, dep. 2011, Vaqo, Rv. 249552 - 01, in tema di ricorso straordinario per errore di fatto, e Sez. 1, n. 6912 del 14/10/2011, dep.2012, Nardo, Rv. 252072 - 01 e, in tempi recenti, Sez. 2 , n. 3261 del 30/11/2018, dep. 2019, Bossi Rv. 274894 - 01 che, enunciato che “il ricorso per cassazione presentato nella cancelleria del giudice diverso da quello che ha emesso il provvedimento cautelare impugnato è ammissibile soltanto ove esso sia pervenuto tempestivamente anche alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, ponendosi a carico del ricorrente il rischio che l’impugnazione, presentata ad un ufficio diverso da quello indicato dalla legge, sia dichiarata inammissibile per tardività, in quanto la data di presentazione rilevante ai fini della tempestività - salvi i casi espressamente previsti dagli artt. 582 e 583 cod. proc. pen. - è quella in cui l’atto perviene all’ufficio competente a riceverlo”, ha ritenuto più aderente ai principi di conservazione degli atti giuridici e di favor impugnationis non sanzionare con l’inammissibilità il ricorso per cassazione presentato nella cancelleria di un giudice diverso da quello che ha emesso il provvedimento cautelare impugnato, allorché esso sia pervenuto tempestivamente anche nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato.

Da ultimo, in termini analoghi, si sono pronunciate Sez. 3, n. 14774 del 05/03/2020, Maniero, Rv. 278776 - 01 secondo cui “il ricorso per cassazione presentato nella cancelleria del giudice diverso da quello che ha emesso il provvedimento cautelare impugnato è ammissibile soltanto ove esso sia pervenuto tempestivamente anche alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, ponendosi a carico del ricorrente il rischio che l’impugnazione, presentata ad un ufficio diverso da quello indicato dalla legge, sia dichiarata inammissibile per tardività, in quanto la data di presentazione rilevante ai fini della tempestività - salvi i casi espressamente previsti dagli artt. 582 e 583 cod. proc. pen. - è quella in cui l’atto perviene all’ufficio competente a riceverlo” e, nel diverso tema di estradizione, Sez. 6, n. 435 del 05/12/2019, dep. 2020, Korshunov, Rv. 278094 - 01 secondo cui il ricorso per cassazione contro i provvedimenti cautelari emessi durante la procedura deve essere presentato, nel termine indicato dall’art. 311 cod. proc. pen., presso la cancelleria della corte di appello che li ha adottati, ricadendo sul ricorrente il rischio che il ricorso presentato presso un ufficio diverso sia dichiarato inammissibile per tardività “in quanto la data di presentazione rilevante ai fini della tempestività resta pur sempre quella in cui l’atto perviene all’ufficio competente a riceverlo”.

4. La sentenza delle Sezioni Unite “D’Alfonso”: una traccia per la soluzione della questione.

Con decisione risalente, Sez. U, n. 11 del 18/06/1991, D’Alfonso, Rv. 187922 - 01, chiamate a risolvere il contrasto giurisprudenziale sviluppatosi in relazione alla formulazione dell’ultima parte dell’art. 309, comma 4, cod. proc. pen., laddove prevede l’osservanza delle forme previste dagli artt. 582 e 583 cod. proc. pen., e alla sua stessa collocazione immediatamente dopo il riferimento alla presentazione della richiesta di riesame nella cancelleria del tribunale, di cui al comma 7, tra quanti ritenevano che il rinvio comprendesse anche il comma 2 dell’art. 582 cod. proc. pen. e quanti, invece, lo escludevano in virtù sia del tenore letterale dell’art. 309, comma 4, cod. proc. pen., sia delle ragioni di urgenza che “nella delicata materia delle misure coercitive” non potevano che aver indotto il legislatore ad evitare il ritardo determinato dai tempi di trasmissione dell’istanza, presentata dinanzi al giudice a quo, alla cancelleria del tribunale competente, hanno affermato il principio di diritto secondo cui “il rinvio che in tema di presentazione della richiesta di riesame l’art. 309, comma quarto, cod. proc.pen. (applicabile anche all’appello in virtù del richiamo dell’art. 310, secondo comma, cod.proc.pen.) fa alle forme dell’art. 582 stesso codice comprende anche il secondo comma del medesimo art. 582, secondo il quale le parti private e i difensori possono presentare l’atto di impugnazione anche nella cancelleria della Pretura in cui si trovano, se tale luogo è diverso da quello in cui fu emesso il provvedimento, ovvero davanti ad un agente consolare all’estero. Una volta avvenuta la presentazione della richiesta o dell’appello in tali ultimi uffici nel termine di dieci giorni di cui al terzo comma dell’art. 309 cod.proc.pen. è del tutto irrilevante, al fine della tempestività, che l’atto raggiunga o meno entro lo stesso termine la cancelleria del Tribunale indicato nel comma settimo dello stesso art. 309 cod.proc.pen.”.

Dunque, ad avviso delle Sezioni unite, proprio in ragione del richiamo all’art. 582 cod. proc. pen. contenuto nell’art. 309, comma 4, dello stesso codice - a sua volta richiamato dall’art. 310, comma 2, cod. proc. pen.-, le parti private sono legittimate a presentare la richiesta di riesame e l’atto d’appello delle ordinanze in materia di misure cautelari personali anche presso la cancelleria del luogo in cui si trovano, se diverso da quello nel quale il provvedimento fu emesso.

Nel senso dell’ammissibilità dell’istanza di riesame o di appello avverso provvedimenti in materia di libertà personale presentata nella cancelleria dell’ufficio del luogo ove la parte si trova, qualora vi sia diversità tra questo e quello in cui è sito il tribunale della libertà, si sono poi anche pronunciate Sez. 5, n. 1757 del 22/10/1992, dep. 1993, Giugno Rv. 192722 - 01; Sez. 5, n. 4273 del 26/06/1998, Jovine, Rv. 211321 - 01; Sez. 6, n. 922 del 17/03/1999, Nizza, Rv. 213891 - 01; Sez. 3, n. 3525 del 05/12/2002, dep. 2003, Morroni, Rv. 224804 - 01 e Sez. 2, n. 40202 del 22/11/2006, Azram, Rv. 235807 - 01; Sez. 2, n. 44215 del 27/10/2005, Marone, Rv. 232681 - 01 ed ancora Sez. U, n. 32744 del 27/11/2014, dep. 2015, Zangari, Rv. 264049- 01 in tema di ricorso straordinario per errore di fatto; Sez. U, n. 42043 del 18/05/2017, Puica, Rv. 270726 - 01, in tema di verifica della tempestività della richiesta di restituzione nel termine a norma dell’art. 175, comma 2-bis, cod. proc. pen.

In epoca recente, il principio di diritto enunciato dalla sentenza “D’Alfonso”, ha guidato le Sezioni unite nella risoluzione del contrasto sviluppatosi, questa volta in relazione alle misure cautelari reali, sulla corretta individuazione del luogo presso il quale deve essere presentata la richiesta di riesame, dando continuità all’interpretazione secondo la quale l’art. 582 cod. proc. pen. è norma generale, inserita nel titolo I del libro IX dedicato alle disposizioni generali sulle impugnazioni, quindi applicabile a tutti i mezzi di impugnazione tra i quali rientra pacificamente l’istanza di riesame cautelare reale così come rientra la richiesta di riesame cautelare personale.

Interpretando la reale portata del rinvio contenuto nell’art. 324, comma 2, cod. proc. pen. al disposto dell’art. 582, comma 2, cod. proc. pen. e superando il difforme orientamento in precedenza espresso da Sez. 6, n. 3539/91 del 6/12/1990, dep. 1991, Messora, Rv. 187018 - 01; Sez. 1, n. 4486 del del 3/11/1992, dep. 1993, Fedele, Rv. 194278 - 01; Sez. 4, n. 2921 del 27/11/1996, Banfi, Rv. 206612 - 01; Sez. 5, n. 2915 del 22/5/2000, Fontana, Rv. 216655 - 01; Sez. 4, n. 33337 del 10/7/2002, Cannavacciuolo, Rv. 222663 - 01 e, in epoca più recente, Sez. 2, n. 18281 del 29/1/2013, Bachar, Rv. 255753 - 01; Sez. 3, n. 31961 del 2/7/2015, Borghi, Rv. 264189 - 01; Sez. 3, n. 12209 del 3/2/2016, Lococo, Rv. 266375 - 01, Sez. U, n. 47374 del 22/06/2017, Ferraro, Rv. 270828 - 01 hanno affermato che “in tema di misure cautelari reali, la richiesta di riesame può essere presentata, oltre che nella cancelleria del tribunale del capoluogo della provincia nella quale ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato, anche nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano le parti private o i difensori, diverso da quello in cui fu emesso il provvedimento, ovvero davanti a un agente consolare all’estero”.

Ad avviso delle Sezioni unite infatti il richiamo ad opera dell’art. 324 cod. proc. pen. alle forme previste dall’art. 582 deve essere inteso “nella loro globalità e senza limitazioni che il legislatore, ove avesse inteso porre, avrebbe formulato esplicitamente” dovendosi ritenere che “in genere e salvo particolari limitazioni, il rinvio operato da una norma alle forme previste da altra disposizione, non è limitato ai meri requisiti formali di un atto, ma si estende ad ogni modalità procedurale della norma alla quale il rinvio viene operato; l’apparente contrasto fra l’esplicita indicazione della cancelleria del tribunale di cui al comma 7 dell’art. 309 ed il successivo generico richiamo alle forme di cui all’art. 582 (che potrebbe far ritenere come da quel richiamo sia esclusa la possibilità della presentazione dell’atto in diversi uffici) può essere spiegato nel senso che il legislatore abbia voluto indicare l’organo definitivo destinatario dell’istanza e non quello al quale necessariamente questa deve essere in un primo momento presentata; le allegate ragioni d’urgenza potrebbero compromettere proprio l’attuazione di quel diritto che si pretende con esse di assicurare ancor più rapidamente; una diversa interpretazione sarebbe in contrasto con quel favor impugnationis cui è indubbiamente ispirato il sistema processuale, con intuitive possibilità di implicazione costituzionale, in relazione all’art. 24 Cost., che già di per sé stesse portano a preferire l’interpretazione più aderente alla salvaguardia del diritto di difesa costituzionalmente garantito”.

Sotto tale profilo, la soluzione al conflitto offerta dalla pronuncia “Ferraro” ha trovato conforto in quella dottrina secondo la quale la motivazione addotta dalla soluzione ermeneutica più restrittiva, individuata nelle esigenze di semplificazione e celerità del procedimento cautelare, finirebbe col determinare un palese restringimento delle possibilità di tutela dei residenti all’estero, tenuto conto dei tempi contenuti assegnati alla difesa delle parti private legittimate a proporre riesame reale, così, di fatto, obliterandone il diritto di difesa in contrasto con quel favor impugnationis cui è indubbiamente ispirato il sistema processuale.

Ancora, sul percorso inaugurato dalla pronuncia “D’Alfonso”, che ha ravvisato nel rinvio contenuto negli artt. 304, comma 4, e 324, comma 2, cod. proc. pen. una funzione meramente esplicativa della deroga collegata alla “salvezza” prevista nell’incipit dell’art 582 cod. proc. pen., tale da privare di significativo rilievo la circostanza che l’art. 309, comma 4, cod. proc. pen. e l’art. 324, comma 2, cod. proc. pen. richiamino solo l’art. 582 cod. proc. pen. e non anche l’art. 583 cod. proc. pen., Sez. U, n. 8 del 11/05/1993, Mocerino, Rv. 193750 - 01 nel risolvere il contrasto esistente in giurisprudenza - risalente ad epoca antecedente alla modifica intervenuta con legge n. 332 del 1995 - in merito alla possibilità di ritenere validamente proposta una richiesta di riesame formulata mediante lettera raccomandata, pur in assenza del richiamo all’art. 583 cod. proc. pen. nel testo degli artt. 309, comma 4, e 324, comma 2, cod. proc. pen., hanno affermato che “in materia di misure cautelari, sia reali che personali, la richiesta di riesame può essere proposta con telegramma o con atto trasmesso a mezzo di raccomandata, a norma dell’art. 583 cod. proc. pen.” e che, in tal caso, “l’impugnazione si considera proposta nella data di spedizione della raccomandata o del telegramma” (art. 583, comma secondo, cod. proc. pen.)”, così privilegiando l’orientamento sostenuto da Sez. 3, n. 3017 del 26/09/1991, Novelli, Rv. 188304 - 01 secondo la quale in base al favor impugnationis, deve darsi prevalenza alla volontà dell’interessato di conseguire comunque un riesame del provvedimento.

Pertanto, negato il carattere esclusivo del rinvio all’art. 582 cod. proc. pen., le Sezioni unite hanno concluso che invece il rinvio deve estendersi a tutte le disposizioni complementari e, in particolare, all’art. 583 cod. proc. pen. che “non introduce un terzo tipo di presentazione, in aggiunta a quelli del primo e del secondo comma dell’art. 582 (relativi rispettivamente alla presentazione all’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato e alla presentazione al pretore o ad un agente consolare all’’estero)”, ma soltanto una particolare modalità di presentazione dell’atto di impugnazione, non senza sottolineare la circostanza -rilevante nel momento storico in cui la decisione è stata assunta ma, evidentemente, oggi superata dai sistemi di inoltro della corrispondenza - che ad una differente soluzione non avrebbero potuto indurre esigenze legate alla lentezza dell’ufficio postale “se si considera che la richiesta di riesame può essere presentata anche presso la pretura del luogo in cui la parte si trova o presso un agente consolare all’estero e che questi uffici poi per trasmettere l’atto si avvalgono appunto del servizio postale” previa apposizione sull’atto impugnatorio dell’indicazione del giorno della ricezione.

In tema di modalità di presentazione dell’atto impugnatorio, in epoca recente Sez. 6, n. 41283 del 11/09/2019, Di Nolfo, Rv. 277369 - 01 ha affermato il principio di diritto secondo la quale “è inammissibile il ricorso per cassazione proposto dinanzi ad autorità giudiziaria diversa da quella competente a riceverlo e trasmessa a mezzo PEC all’ufficio competente da parte della cancelleria del giudice ove era stato depositato ai sensi dell’art. 582, comma 1, cod. proc. pen.”, configurando la trasmissione dell’atto impugnatorio eseguita a mezzo PEC come una modalità di presentazione e di spedizione dell’impugnazione che non solo esula da quelle tassative ed inderogabili di cui all’art. 583 cod. proc. pen., ma che in nessuna norma è prevista (Sez. 5, n. 24332 del 05/03/2015, Alamaru, Rv. 263900; Sez. 4, n. 18823 del 30/03/2016, Mandato, Rv. 266931; Sez. 6, n. 55444 del 05/12/2017, C., Rv. 271677; Sez. 5, n. 1234 del 13/12/2017, dep 2018, Gallo, Rv. 272781; Sez. 1, n. 320 del 05/11/2018, dep. 2019.

Stojanovic, Rv. 274759; Sez. 4, n. 21056 del 23/01/2018, D’Angelo, Rv. 272741).

Nel solco tracciato dalla giurisprudenza più rigorosa, si è posta, da ultimo, Sez. 1, n. 4096 del 10/12/2019, dep. 2020, Condipodero, Rv. 279031 - 01 che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 311, comma 3, cod. proc. pen. per contrasto con gli artt. 3, 24, 13 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, comma 3, lett. b), CEDU, nella parte in cui non estende anche al ricorso per cassazione in materia cautelare le forme previste dagli artt. 582 e 583 cod. proc. pen., richiamate invece dall’art. 309, comma 4, cod. proc. pen. per la richiesta di riesame, sul presupposto che, vertendosi in materia di modalità di presentazione dell’impugnazione, tutto è rimesso alla discrezionalità del legislatore che può orientarsi per “una opzione rispetto a un’altra, purché la scelta non appaia irragionevole o pregiudizievole”. La decisione “Condipodero” ha evidenziato non soltanto che la scelta legislativa della modalità di presentazione del ricorso cautelare in cassazione, stabilita dall’art. 311, comma 3, cod. proc. pen. avverso l’ordinanza del tribunale del riesame o, nel caso di ricorso per saltum, avverso quella del giudice per le indagini preliminari, non rappresenta affatto una deviazione dalle regole ordinarie che governano le impugnazioni e che “anzi, tale modalità di presentazione garantisce l’immediato avvio del giudizio di impugnazione proprio in un caso in cui, trattandosi di provvedimenti che incidono sulla libertà personale, deve essere assicurata la massima celerità e efficienza al procedimento”, ma anche che nella scelta legislativa si colgono sia la finalità di “favorire il celere avvio del giudizio di impugnazione, poiché il giudice che ha emesso il provvedimento ne viene immediatamente a conoscenza e può provvedere agli adempimenti di cui all’art. 164 disp. att. cod. proc. pen.”, sia quella “di agevolare la presentazione dell’atto anche a mezzo di un incaricato, così semplificando gli oneri del patrocinatore o della parte (nei casi in cui è consentita la presentazione dell’impugnazione direttamente a cura dell’interessato)”, finalità che, entrambe, avevano indotto il legislatore a prevedere come regola generale la disposizione contenuta nell’art. 582 cod. proc. pen. D’altro canto, si sottolinea nella sentenza da ultimo riportata, proprio il dubbio di una possibile violazione dei paramentri costituzionali degli artt. 309, comma 4, e 310, comma 2, cod. proc. pen. - che, in deroga alla regola che stabilisce la presentazione presso il giudice a quo, impongono che la richiesta di riesame sia presentata nella cancelleria del giudice ad quem, diverso da quello che ha emesso il provvedimento impugnato - aveva indotto il legislatore a modificare, con l’art. 16, comma 2, legge 8 agosto 1995, n. 332, l’originaria previsione delle norme del codice, stabilendo che, per le impugnazioni cautelari di merito “si osservano le forme previste dagli artt. 582 e 583”, così attribuendo crisma legislativo alle posizioni assunte dal diritto vivente (Sez. 1, n. 3582 del 25/10/1990, Ahmetovic, Rv. 185926; Sez. 1, n. 3706 del 05/11/1990, Mignani, Rv. 186093; Sez. 2, n. 1106 del 12/02/1991, Moressa, Rv. 187835; Sez. 1, n. 494 del 03/02/1992, Di Casimiro, Rv. 191156; Sez. 1, n. 1448 del 02/04/1992, Liberati.

Rv. 192475; Sez. 6, n. 3383 del 29/09/1992, Farabegoli, Rv. 192350).

La sentenza “Condipodero”, quanto al paventato disallineamento dell’art. 311 cod. proc. pen., nella parte in cui non richiama le disposizioni generali di cui agli artt. 582 e 583 cod. proc. pen., alla normativa convenzionale prevista all’art. 6, comma 3 lett. b), CEDU, ha evidenziato che la Corte EDU, pur variamente sollecitata (caso Razvozzhayev v. Russia and Ukraine and Udaltsov v. Russia, n. 75734/12, in cui la parte allegava di non avere potuto organizzare la propria difesa a causa delle modalità di trasferimento detentivo e della eccessiva durata delle udienze; caso Ocalan v. Turkey, n. 46221/99 in cui la parte lamentava di non avere potuto esaminare la documentazione processuale; caso Dulaurans v. France, n. 34553/97 in cui la parte lamentava di non avere potuto esaminare la documentazione in modo adeguato; caso Lambin v. Russia, n. 12668/08 in cui la parte lamentava di non avere potuto esaminare la documentazione processuale in modo completo), non è mai stata investita della questione concernente le modalità di presentazione di una impugnazione “effettivamente presentata”, nella verosimile indifferenza dei principi sovranazionali in merito alla questione relativa alla corretta individuazione del luogo di presentazione del ricorso cautelare in cassazione, rispetto alla quale nessuna delle opzioni interpretative appare irragionevole o sproporzionata allo scopo o frustrante per l’esercizio del diritto ad impugnare, in violazione del principio del giusto processo (ex multis Corte EDU, sez. 4, 16.6.2015, Mazzoni c. Italia).

5. Il profilo temporale: la tempestività della presentazione dell’atto impugnatorio.

La rilevanza del profilo della tempestività di un atto involgente il diritto di rango primario della libertà personale, si coglie nella risalente sentenza n. 232 del 22/06/1998 della Corte costituzionale che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 309, commi 5 e 10, c.p.p. sollevata in relazione agli artt. 3, 13 e 24 Cost., nei confronti dell’art. 309, commi 5 e 10, cod. proc. pen., come novellato dall’art. 16, commi 3 e 5, della legge 8 agosto 1995, n. 332, nella parte in cui, qualora, in seguito alla richiesta di riesame di una ordinanza che abbia disposto una misura coercitiva, non se ne sia dato il previsto “immediato avviso”, a cura del presidente del competente tribunale, all’autorità giudiziaria procedente, non sancisce la perdita di efficacia dell’ordinanza. La Corte, ha sottolineato che l’esigenza imposta dalla “preminente forza dei principi costituzionali relativi alla garanzia giurisdizionale in materia di libertà personale” non consente di far luogo ad una ricostruzione del sistema che possa tradursi in una lesione di essi”; da ciò la necessità di assicurare termini brevi e certi per la verifica giudiziale involgente la libertà personale, alla cui garanzia la Costituzione attribuisce una particolare rilevanza che intanto può realizzarsi “in quanto il termine fissato dalla legge decorra da un momento a sua volta definito e determinabile con certezza” e sempre che il rispetto della regola stessa non sia lasciato alla spontanea, ma non scontata, sollecitudine degli uffici giudiziari, senza il vincolo di termini perentori e la relativa sanzione processuale, sicché l’unica interpretazione conforme alla Costituzione è quella che porta a riconoscere la decorrenza del termine ex art. 309, comma 5, cod. proc. pen. dal giorno stesso della presentazione della richiesta, inteso come spazio definito e giuridicamente rilevante entro il quale si collocano sia la presentazione stessa, sia l’avviso all’autorità procedente, ferma la disciplina delle modalità e dei termini per la presentazione della richiesta di riesame, di cui agli artt. 309, comma 1 e 4, 582 e 583 cod. proc. pen., in ordine alla decorrenza del termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti, in relazione al quale vale, come dies a quo, il giorno in cui la richiesta stessa perviene alla cancelleria del tribunale del riesame.

L’enunciato della Corte costituzionale non ha, però, acquietato il diritto vivente in merito al profilo della tempestività della richiesta di riesame, tant’è che, di lì a poco, le Sezioni unite sono state chiamate a risolvere il contrasto sorto tra gli opposti orientamenti delle Sezioni semplici.

In talune pronunce si affermava che la decorrenza del termine entro il quale gli atti devono essere ricevuti dal tribunale del riesame coincide con la data di presentazione della richiesta nei soli casi in cui la stessa avvenga presso la cancelleria di detto tribunale, mentre nell’ipotesi di presentazione in uno degli uffici indicati dall’art. 582, comma 2, cod. proc. pen. o nei modi di cui all’art. 583 cod. proc. pen. il termine decorre dal giorno in cui l’atto sia pervenuto alla cancelleria del tribunale del riesame, non potendo le conseguenze della scelta operata dall’interessato tradursi nella perdita di efficacia della misura coercitiva che infatti il legislatore ha ricollegato esclusivamente all’inerzia del presidente del tribunale o dell’autorità giudiziaria che procede - cui il primo deve far dare immediato avviso - e non certo ad opzioni processuali della parte interessata (Sez. 1, n. 3531 del 11/05/1999, Barbaro, Rv. 213868-01; Sez. 1, n. 3428 del 05/05/1999, Bitondo, Rv. 213834-01; Sez. 1, n. 3430 del 05/05/1999, Rinzivillo, Rv. 213936-01).

In consapevole contrasto con tale orientamento, si poneva Sez. 2, n. 4636 del 20/10/1999, dep. 2000, Duria, Rv. 215176 - 01 secondo cui il termine di cui all’art. 309, comma 5, cod. proc. pen. decorre comunque - con la sola eccezione della spedizione per telegramma o per raccomandata - dalla data di presentazione della richiesta di riesame, senza che sia possibile distiguere i casi di diretta presentazione presso la cancelleria del tribunale del riesame da quelli di presentazione alla cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano le parti private di cui all’art. 582, comma 2, cod. proc. pen..

Nel comporre il contrasto, Sez. U, n. 10 del 22/03/2000, Solfrizzi, Rv. 215827 - 01 non solo hanno affermato il principio di diritto secondo cui “qualora la richiesta di riesame sia presentata nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano le parti o davanti a un agente consolare all’estero, a norma dell’art. 582, comma secondo, cod. proc. pen., ovvero sia proposta con telegramma o mediante raccomandata, il termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti al tribunale del riesame, a norma dell’art. 309, comma quinto, stesso codice decorre dal giorno in cui la richiesta stessa perviene alla cancelleria del tribunale del riesame, e non già dal giorno della sua presentazione o proposizione, non potendo ipotizzarsi, a carico del presidente del tribunale, l’adempimento dell’obbligo di immediato avviso prima della ricezione della richiesta”, ma hanno anche chiarito che il principio enunciato nella sentenza n. 232 del 1998 della Corte costituzionale, in virtù del quale il termine in questione decorre dal giorno stesso della presentazione della richiesta, è riferito solo al caso, esplicitamente previsto dall’art. 309, comma 4, prima parte, cod. proc. pen., di presentazione della richiesta direttamente al tribunale competente a decidere su di essa, al quale va assimilata l’ipotesi della presentazione, a norma dell’art. 123 stesso codice, da parte di imputato detenuto, in arresto o detenzione domiciliare, ovvero custodito in luogo di cura, proprio in ragione del suo stato. Per il Supremo consesso, infatti, sebbene “la delimitazione del campo di applicazione della sentenza interpretativa n. 232/98 segna innegabilmente una differenziazione nel grado di tutela dell’interesse ad una rapida definizione del procedimento volto a garantire la verifica giudiziale del provvedimento restrittivo della libertà personale, a seconda del luogo di presentazione della richiesta di riesame, è altrettanto vero che la previsione delle modalità di proposizione di cui agli artt. 582 e 583 c.p.p. costituisce specifica espressione del favor impugnationis, in quanto mette a disposizione dell’interessato plurime forme processuali che agevolano e rendono meno oneroso l’esercizio del diritto di chiedere il sollecito controllo di legalità della misura cautelare personale”, sicchè il principio enunciato dalla Corte costituzionale “nella sentenza n. 232/98 non può ritenersi operante nella diversa ipotesi di cui all’art. 582, comma 2, c.p.p., nella quale la richiesta di riesame è presentata alla cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo nel quale si trovano le parti, decorrendo il predetto termine perentorio, in quest’ultima evenienza, dal giorno in cui la richiesta stessa perviene alla cancelleria del tribunale del riesame”. Nella sentenza “Solfrizzi”, di fatto, si coglie un percorso argomentativo teso a contemperare il principio del favor impugnationis con quello della libera scelta delle parti: se il primo non può essere pregiudicato dai problemi organizzativi del sistema, il secondo non può avere il significato di aggravare il sistema di una consapevole scelta operata dalla parte.

A notevole distanza temporale, sul punto, Sez. 3, n. 14774 del 05/03/2020, Maniero, Rv. 27877 - 01, nel dichiarare inammissibile il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di rigetto dell’appello de libertate presentato nella cancelleria del giudice ad quem e pervenuto tardivamente anche alla cancelleria del giudice a quo, ha sottolineato la rilevanza ed incidenza, in termini di conseguenze, dell’assunzione del rischio di una impugnazione presentata ad un ufficio diverso da quello indicato dalla legge “in quanto la data di presentazione rilevante ai fini della tempestività, salvi i casi espressamente previsti dagli artt. 582 e 583 cod. proc. pen. qui non applicabili, è quella in cui l’atto perviene all’ufficio competente a riceverlo”.

Tuttavia, nell’arco temporale intercorso tra le due pronunce, nello stesso senso si erano già orientate, Sez. 3 n. 28582 del 24/05/2019, Visconti, non mass. e Sez. 2, n. 3261 del 30/11/2018, dep. 2019, Bossi, Rv. 274894 - 01, in tema di ricorso per cassazione su riesame reale; Sez. 5, n. 42401 del 22/09/2009, Ferrigno, Rv. 245391-01; Sez. 1, n. 6912 del 14/10/2011, dep. 2012, Nardo, Rv. 252072-01, che ha ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione del pubblico ministero avverso una decisione del tribunale distrettuale del riesame proposto presso la cancelleria del tribunale del circondario e presentato entro il termine di legge a quella del giudice competente; ancora, in tema di misure cautelari personali, Sez. 6, n. 29477 del 23/03/2017, Di Giorgi, Rv. 270559 - 01, che ha dichiarato inammissibile il ricorso formulato dal pubblico ministero in quanto depositato nel termine di legge presso una cancelleria non legittimata a ricevere il predetto atto e, in motivazione, ha precisato che lo stesso non è “radicalmente” inammissibile, ma può essere ritenuto ammissibile purchè tempestivamente pervenuto anche nella cancelleria del giudice a quo.

Ancora, una declinazione del principio, in tema di ricorso straordinario per errore di fatto, si coglie in Sez. 1, n. 3695 del 2010, dep.2011, Vaqo, cit. che in un caso di ricorso depositato a ridosso della scadenza dei 180 giorni previsti dall’art. 625 bis cod. proc. pen. presso la cancelleria della corte d’appello, anziché in cassazione, come tassativamente dispone il comma 2 di tale norma, era a quest’ultima pervenuto oltre il termine, ha affermato l’applicabilità al ricorso di cui all’art. 625 bis cod. proc. pen. - quale mezzo d’impugnazione, per quanto “straordinario”- dei principi elaborati in materia d’impugnazione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 582 e 591 cod. proc. pen., secondo cui la data di presentazione rilevante ai fini della tempestività - salvo i casi espressamente previsti ex artt. 582 e 583 cod. proc. pen. - è quella in cui l’atto perviene all’ufficio competente a riceverlo, sicché è a carico dell’impugnante il rischio che l’impugnazione, presentata ad un ufficio diverso da quello indicato dalla legge, sia dichiarata inammissibile per tardività.

6. La decisione.

Con la decisione assunta all’udienza del 24 settembre 2020, della quale oggi si attende il deposito della motivazione della sentenza per verificare le ragioni poste a fondamento della soluzione prescelta essendo nota soltanto la soluzione adottata, le Sezioni unite hanno dato risposta al quesito riportato in apertura affermando che “il ricorso per cassazione deve essere presentato esclusivamente presso la cancelleria del tribunale del riesame o, in caso di ricorso immediato, nella cancelleria dell’organo giudiziario che ha emesso il provvedimento impugnato, non trovando applicazione gli artt. 582, comma 2, e 583 cod. proc. pen.”.

Evidentemente, il Supremo consesso ha condiviso l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale estendere il principio del favor impugnationis, definito come indiscutibile regola generale delle impugnazioni, fino al punto da consentire per il ricorso cautelare per cassazione, così come per le impugnazioni di merito in materia cautelare personale e reale, la presentazione e il deposito l’istanza anche presso il tribunale del luogo delle parti o presso un agente consolare, significherebbe attribuire al diritto vivente una potestà integrativa della voluntas legis eccessivamente esorbitante dai limiti dettati dal principio ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit.

Pare, dunque, potersi affermare che le Sezioni unite, prendendo le mosse dai principi già affermati sul tema, si sono poste in continuità con la ricostruzione ermeneutica elaborata nei precedenti arresti passati in rassegna, volti a ritenere che il principio del favor impugnationis non possa essere esteso fino al punto da consentire il superamento dei confini propri del mezzo di gravame, ma possa operare nell’ambito dei rigorosi limiti rappresentati dalla natura intrinseca del mezzo di impugnazione senza oltrepassare la natura del mezzo di impugnazione stesso trasformandolo in un altro tipo di gravame sebbene analogo, e senza consentire la creazione di modalità di impugnazioni non previste.

. Indice delle sentenze citate.

. Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 3582 del 25/10/1990, Ahmetovic, Rv. 185926 - 01

Sez. 1, n. 3706 del 05/11/1990, Mignani, Rv. 186093 - 01

Sez. 6, n. 3539 del 06/12/1990, dep. 1991, Messora, Rv. 187018 - 01

Sez. 2, n. 1106 del 12/02/1991, Moressa, Rv. 187835 - 01

Sez. 2, n. 2056 del 20/03/1991, Crisalli, Rv. 187164 - 01 Sez. U, n. 11 del 18/06/1991, D’Alfonso, Rv. 187922 - 01 Sez. 3, n. 3017 del 26/09/1991, Novelli, Rv. 188304 - 01

Sez. 1, n. 494 del 03/02/1992, Di Casimiro, Rv. 191156 - 01

Sez. 1, n. 1448 del 02/04/1992, Liberati, Rv. 192475 - 01

Sez. 6, n. 3383 del 29/09/1992, Farabegoli, Rv. 192350 - 01

Sez. 5, n. 1757 del 22/10/1992, dep. 1993, Giugno Rv. 192722 - 01

Sez. 1, n. 4486 del del 3/11/1992, dep. 1993, Fedele, Rv. 194278 - 01 Sez. U, n. 8 del 11/05/1993, Mocerino, Rv. 193750 - 01

Sez. 4, n. 2921 del 27/11/1996, Banfi, Rv. 206612 - 01

Sez. 5, n. 4273 del 26/06/1998, Jovine, Rv. 211321 - 01

Sez. 6, n. 922 del 17/03/1999, Nizza, Rv. 213891 - 01

Sez. 1, n. 3531 del 11/05/1999, Barbaro, Rv. 213868 - 01

Sez. 1, n. 3428 del 05/05/1999, Bitondo, Rv. 213834 - 01 Sez.I, n. 3430 del 05/05/1999, Rinzivillo, Rv. 213936 - 01

Sez. 2, n. 4636 del 20/10/1999, dep. 2000, Duria, Rv. 215176 - 01 Sez. U, n. 10 del 22/03/2000, Solfrizzi, Rv. 215827 - 01,

Sez. 5, n. 2915 del 22/5/2000, Fontana, Rv. 216655 - 01

Sez. 4, n. 33337 del 10/7/2002, Cannavacciuolo, Rv. 222663 - 01

Sez. 3, n. 3525 del 05/12/2002, dep. 2003, Morroni, Rv. 224804 - 01

Sez. 2, n. 44215 del 27/10/2005, Marone, Rv. 232681 - 01

Sez. 6, n. 46823 del 15/11/2005, Tramonte, Rv. 232533 - 01

Sez. 2, n. 40202 del 22/11/2006, Azram, Rv. 235807 - 01

Sez. F. n. 35125 del 19/08/2008, Milazzo, Rv. 240668 - 01 Sez. 5, n. 42401 del 4/11/2009, Ferrigno, Rv. 245391 -01

Sez. 1, n. 3695 del 22/12/2010, dep. 2011, Vaqo, Rv. 249552 - 01

Sez. 1, n. 6912 del 14/10/2011, dep. 2012, Nardo, Rv. 252072 - 01

Sez. 2, n. 18281 del 29/1/2013, Bachar, Rv. 255753 - 01

Sez. U, n. 32744 del 27/11/2014, dep. 2015, Zangari, Rv. 264049 - 01

Sez. 5, n. 24332 del 05/03/2015, Alamaru, Rv. 263900 - 01

Sez. 3, n. 31961 del 2/7/2015, Borghi, Rv. 264189 - 01

Sez. 3, n. 12209 del 3/2/2016, Lococo, Rv. 266375 - 01

Sez. 4, n. 18823 del 30/03/2016, Mandato, Rv. 266931 - 01

Sez. 6, n. 29477 del 23/03/2017, Di Giorgi, Rv. 270559 - 01 Sez. U, n. 42043 del 18/05/2017, Puica, Rv. 270726 - 01

Sez. U, n. 47374 del 22/06/2017, Ferraro, Rv. 270828 - 01 Sez. 6, n. 55444 del 05/12/2017, C., Rv. 271677 - 01

Sez. 5, n. 12347 del 13/12/2017, dep 2018, Gallo, Rv. 272781 - 01

Sez. 4, n. 21056 del 23/01/2018, D’Angelo, Rv. 272741 -01

Sez. 1, n. 320 del 05/11/2018, dep. 2019, Stojanovic, Rv. 274759 - 01

Sez. 2, n. 3261 del 30/11/2018, dep. 2019, Bossi Rv. 274894 - 01

Sez. 6 , n. 13420 del 05/03/2019, Dallai, Rv. 275367 - 01 Sez. 3 n. 28582 del 24/05/2019, Visconti, non mass.

Sez. 6, n. 41283 del 11/09/2019, Di Nolfo, Rv. 277369 - 01

Sez. 6, n. 435 del 05/12/2019, dep. 2020, Korshunov, Rv. 278094 - 01

Sez. 1, n. 4096 del 10/12/2019, dep. 2020, Condipodero, Rv. 279031 - 01

Sez. 3, n. 14774 del 5/03/2020, Maniero, Rv. 278776 - 01

Sentenze della Corte costituzionale

C.Cost. n. 232 del 1998

Sentenze della Corte EDU

Razvozzhayev v. Russia and Ukraine and Udaltsov v. Russia, n. 75734/2012 Ocalan v. Turkey, n. 46221/1999

Dulaurans v. France, n. 34553/1997 Lambin v. Russia, n. 12668/2008 Mazzoni c. Italia, n. 4/2015

  • procedura penale
  • mezzi di ricorso

CAPITOLO III

LE SEZIONI UNITE “SAVIN” E “MELZANI” ED I LIMITI ALLA DEDUCIBILITÀ IN SEDE DI LEGITTIMITÀ DEL VIZIO DI MOTIVAZIONE RELATIVO ALL’APPLICAZIONE DELLE MISURE DI SICUREZZA O DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE ACCESSORIE.

(di Debora Tripiccione )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le questioni controverse. - 3 La soluzione adottata dalle Sezioni Unite Savin: la legittimità del patteggiamento complesso e le sue ricadute sul regime di impugnazione. - 3.1 Il carattere vincolante dell’accordo sulle misure di sicurezza e la motivazione della sentenza di patteggiamento. - 4 La soluzione adottata dalle Sezioni Unite Melzani. - 4.1 La deducibilità dell’omessa applicazione delle sanzioni amministrative accessorie. - 5 La diversa soluzione adottata dalle sezioni Unite Savin in tema di omessa applicazione delle misure di sicurezza. - 6 Le tutele alternative al ricorso per cassazione negli arresti delle sezioni semplici. - 7 Le questioni ancora aperte in tema di impugnazione del “patteggiamento in appello”. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

Le Sezioni Unite, con le due sentenze pronunciate il 26/09/2019, dep. 07/07/2020, n. 21368, Savin ed altri, e n. 21369, Melzani, hanno operato una vera e propria delimitazione dei confini tra il regime speciale di impugnazione della sentenza di patteggiamento previsto dall’art. 448, comma 2-bis, introdotto dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, e il regime ordinario del ricorso per cassazione previsto dall’art. 606 cod. proc. pen. L’opzione ermeneutica adottata dal Supremo Consesso, infatti, si fonda sulla coesistenza dei due regimi di impugnazione la cui applicabilità è condizionata dall’ampliamento della dimensione negoziale del rito, estesa anche alle misure di sicurezza (con esclusione, dunque, delle sanzioni amministrative accessorie).

Attraverso una lettura sistematica della disciplina del patteggiamento alla luce dei precedenti interventi nomofilattici del Supremo Consesso, la Corte ha, pertanto, individuato un regime “complesso” di impugnazione in sede di legittimità della relativa sentenza, circoscrivendo l’operatività del regime speciale ai soli punti oggetto di accordo tra le parti e ammettendo, pertanto, la ricorribilità per cassazione, secondo il regime ordinario, avverso i soli punti della sentenza estranei al patto.

Con la sentenza Savin ed altri le Sezioni Unite hanno, infatti, affermato i seguenti principi di diritto così massimati:

La sentenza di patteggiamento che abbia applicato una misura di sicurezza è ricorribile per cassazione nei soli limiti di cui all’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., ove la misura sia stata oggetto dell’accordo tra le parti, diversamente essendo ricorribile per vizio di motivazione ai sensi della disciplina generale prevista dall’art. 606 cod. proc. pen. (Rv. 279348-01) Nel “patteggiamento” l’accordo delle parti può avere ad oggetto anche l’applicazione delle misure di sicurezza nel qual caso il giudice è tenuto a recepirlo integralmente nella sentenza ovvero a rigettare la richiesta. (Rv. 279348 – 02)

La sentenza di patteggiamento che abbia omesso di applicare una misura di sicurezza non è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., salvo si tratti di misura obbligatoria per legge in relazione al titolo di reato oggetto di imputazione, essendo in tal caso esperibile il ricorso per cassazione ai sensi della disciplina generale di cui all’art. 606 cod. proc. pen. (Rv. 279348 – 03). In caso di impugnazione della sentenza di patteggiamento, l’illegalità della misura di sicurezza concordata tra le parti determina l’annullamento senza rinvio della sentenza in quanto il vizio rilevato rende invalido l’intero accordo. (Rv. 279348 – 05).

Con la sentenza Melzani, le Sezioni Unite hanno affermato il principio di diritto così massimato:

È ammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen. nei confronti della sentenza di “patteggiamento” con cui si censuri l’erronea ovvero l’omessa applicazione di sanzioni amministrative. Rv. 279349 - 01

2. Le questioni controverse.

Le due questioni sono state rimesse alle Sezioni Unite con le ordinanze n. 17770 del 16/1/2019 della Sesta sezione (proc. Savin ed altri) e n. 22113 del 16/5/2019 della Quarta sezione (proc. Melzani).

La tesi favorevole alla deducibilità del vizio di motivazione in ordine all’applicazione delle misure di sicurezza è pervenuta a tale conclusione attraverso due differenti percorsi logici.

Una prima impostazione ermeneutica, muovendo dalla distinzione tra le statuizioni interne al concordato sulla pena e quelle ad esso estranee e dalla considerazione della differente intensità dell’onere di motivazione gravante sul giudice (essendo ammesso il ricorso alla motivazione sintetica solo nel primo caso), limita l’applicabilità del regime speciale previsto dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. alle sole statuizioni interne all’accordo ammettendo, dunque, l’operatività del regime generale di cui all’art. 606 cod. proc. pen. con riferimento alle impugnazioni con le quali si deduca il vizio di motivazione in ordine all’applicazione di una misura di sicurezza, trattandosi di una statuizione estranea all’accordo. (Sez. 3, n. 30064 del 23/05/2018, Lika (Rv. 273830-01); Sez. 4, n. 22824 del 17/04/2018, Daouk; Sez. 6, n. 53178 del 20/11/2018, Misani).

Tale impostazione ermeneutica è stata ulteriormente sviluppata nell’ordinanza di rimessione alla luce degli approdi della giurisprudenza di legittimità che hanno esteso il perimetro del patto anche alle statuizioni tradizionalmente considerate “esterne”, quale la confisca, escludendone, tuttavia, un effetto vincolante per il giudice sul quale grava solo un onere di motivazione, qualora provveda in termini difformi da quelli concordati (si richiamano, tra le tante, Sez. 6, n. 54977 del 14/10/2016, Orsi, Rv. 268740; Sez. 2, n. 1934 del 18/12/2015, Spagnuolo, Rv. 265823). Da tale principio, ad avviso della Sezione rimettente, è, dunque, desumibile una possibile e alternativa interpretazione dell’art. 448 comma 2-bis cod. proc. pen. che ne circoscrive l’applicazione, quanto al motivo di ricorso relativo all’illegalità della misura di sicurezza, alla sentenza di patteggiamento che recepisca un accordo esteso anche a tali statuizioni esterne. Si afferma, pertanto, che, qualora la sentenza di patteggiamento recepisca un accordo a contenuto complesso, esteso anche alle misure di sicurezza, il giudice è esonerato dall’onere di motivare specificamente sul punto, e la sentenza sarà impugnabile entro i limiti previsti dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. Diversamente, nell’ipotesi in cui il giudice disponga una misura di sicurezza su cui non è intervenuto alcun accordo tra le parti, il potere di impugnazione non potrebbe non ricomprendere anche il sindacato sulla motivazione del provvedimento e troverebbe il suo fondamento giustificativo nella norma generale di cui all’art. 606 cod. proc. pen.

Una diversa impostazione ermeneutica è giunta alla medesima conclusione riconducendo il vizio di omessa o apparente motivazione nell’ambito della nozione di illegalità della misura di sicurezza, rilevante come violazione di legge” ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. (Sez. 3, n. 4252 del 15/01/2019, Caruso, Rv. 274946-01; Sez. 3, n. 15525 del 15/2/2019, Bozzi, Rv. 275862).

Si è, infatti, affermato che tale nozione non è definibile adottando i medesimi parametri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità per determinare il significato della nozione di pena illegale. Secondo il solco ermeneutico tracciato dalle Sezioni Unite, è illegale la pena che, per specie o per quantità non corrisponde a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice o che, comunque, è stata determinata attraverso un procedimento di commisurazione basato su una cornice edittale inapplicabile, perché dichiarata costituzionalmente illegittima o perché individuata in violazione del divieto di irretroattività della legge più sfavorevole (Sez. U., n. 40986 del 19/7/2018, Pittalà, Rv. 273934-01 e 273934-02 e Sez. U., n. 33040 del 26/2/2015, Jazouli, Rv. 264205-01 e 264207-01). Secondo la sentenza Caruso, tale nozione non può essere automaticamente adottata con riferimento alle misure di sicurezza, essendo difficile ipotizzare, soprattutto nei casi di confisca ai sensi degli artt. 240 e 240-bis cod. pen., ovvero di espulsione o allontanamento dello straniero dallo Stato, «una misura che per specie o per quantità non corrisponda a quella astrattamente prevista o che sia determinata dal giudice sulla base di un procedimento di commisurazione basato su parametri edittali inapplicabili .» Riprendendo il principio di diritto già affermato da Sez. 3, n. 1044 del 10/7/1967, Bertolini, Rv. 105611, si afferma, pertanto, che la nozione di “misura di sicurezza illegale” ricomprende tutti i casi in cui la misura è disposta in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge per la sua applicazione (Rv. 274946-02).

Anche l’orientamento favorevole alla deducibilità in sede di legittimità del vizio relativo all’applicazione o all’omessa applicazione delle sanzioni amministrative accessorie ruota intorno alla perimetrazione del patto sulla pena. I principali argomenti adottati attengono, infatti, al carattere autonomo delle sanzioni amministrative accessorie, non riconducibile alle categorie delle pene e delle misure di sicurezza contemplate dal comma 2-bis dell’art. 448 cod. proc. pen., e alla loro estraneità all’accordo sulla pena (Sez. 4, n. 29179 del 23/5/2018, Stratta, Rv. 273091 e Sez. 4, n. 7554 del 24/01/2019, Re, tutte in tema di omessa applicazione della sanzione amministrativa accessoria; Sez. 6, n. 15848 del 5/2/2019, Moretti, Rv. 275224 in tema di omesso raddoppio della sanzione della sospensione della patente di guida; Sez. 4, n. 18942 del 27/03/2019, Bruna, Rv. 275435 in tema di omessa motivazione sulla durata della sanzione amministrativa applicata in misura prossima al “medio edittale”).

Gli orientamenti ermeneutici contrari alla deducibilità di tali vizi in sede di legittimità, con riferimento sia alle misure di sicurezza che alle sanzioni amministrative accessorie, censurano l’asimmetria nel regime delle impugnazioni che conseguirebbe dall’adozione delle opzioni ermeneutiche sopra esaminate ed individuano, pertanto, nell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. l’unico regime di impugnazione esperibile contro la sentenza di patteggiamento (in tema di misure di sicurezza: Sez. 6, n. 3819 del 19/12/2018, Boutamara, Rv. 274962; Sez. 6, n. 7630 del 19/12/2018, Fall, Rv. 275210; Sez. 6, n. 5875 del 19/12/2018, Chtibi; Sez. 1, n. 21407 del 19/3/2019, Scaglione. In tema di sanzioni amministrative accessorie: Sez. 6, n. 14721 del 19/12/2018, Lodato, Rv. 257241; Sez. 6, n. 15845 del 07/01/2019, Pulvirenti).

Si afferma, infatti, che con la riforma del 2017, il legislatore ha introdotto all’art. 448, comma 2-bis un regime speciale di impugnazione della sentenza di patteggiamento, giustificato dall’origine concordata del provvedimento impugnato, che, prevedendo specifici e tassativi casi di ricorso (riguardanti, peraltro, anche punti della decisione estranei all’accordo, come quello relativo alle misure di sicurezza), prevale sula disciplina generale di cui all’art. 606, comma 1, cod. proc. pen, escludendone l’applicazione.

Tale tesi ermeneutica si fonda, oltre che sul dato testuale, anche sulla ratio della riforma del 2017, quale emerge dalla Relazione governativa di accompagno del d.d.l. (A.C. 2798 – XVII Legislatura) che, in relazione all’art. 1, comma 50, della legge n. 103 del 2017, introduttivo del comma 2-bis dell’art. 448 cod. proc. pen., esprime un giudizio di non meritevolezza dell’«attuale troppo ampia ricorribilità per cassazione,» per il verificato largo esito di inammissibilità dei ricorsi, con il conseguente apprezzamento dell’«inutile dispendio di tempo e di costi organizzativi».

In risposta alle censure mosse dal contrario orientamento circa una possibile frizione di tale soluzione con i principi costituzionali e convenzionali in tema di giusto processo e diritto di difesa, si afferma, inoltre, che la scelta del rito alternativo, ove la volontà sia immune da vizi, implica una consapevole accettazione del limitato regime di impugnazione previsto dalla legge anche con riferimento ai punti della sentenza su cui non è intervenuto un accordo, che rientrano, comunque, nell’area della ragionevole prevedibilità (come nel caso dell’applicazione di una misura di sicurezza prevista dalla legge, quanto a specie, oggetto e durata/ammontare).

Inoltre, con riferimento specifico alla diversa perimetrazione della nozione di illegalità della misura di sicurezza, si afferma che tale locuzione deve essere definita secondo i medesimi criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di illegalità della pena, cosicché può ritenersi illegale sia la misura non prevista dall’ordinamento giuridico per il caso concreto oggetto di giudizio, sia quella eccedente, per specie e quantità, i relativi limiti legali. Ciò in quanto, mentre la categoria della illegalità predica la totale estraneità a sistema della pena come della misura di sicurezza, per la sua irrimediabile deviazione dal modello tipico, la fattispecie del vizio di motivazione evoca, invece, una causa di illegittimità della sentenza di merito, emendabile nel rapporto tra giudizio rescindente di legittimità e giudizio rescissorio di merito.

3. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite Savin: la legittimità del patteggiamento complesso e le sue ricadute sul regime di impugnazione.

Le Sezioni Unite Savin, nel risolvere in termini positivi la questione controversa, hanno impresso alla tesi ermeneutica fondata sulla distinzione tra le statuizioni interne ed esterne all’accordo un’ulteriore progressione, ampliando la latitudine applicativa del negozio processuale anche alle misure di sicurezza.

Il Supremo Consesso, infatti, ha ammesso la deducibilità del vizio di motivazione concernente l’applicazione delle misure di sicurezza secondo la disciplina generale di cui all’art. 606 cod. proc. pen., ma solo nel caso in cui dette misure, personali o patrimoniali, non abbiano formato oggetto dell’accordo tra le parti.

Tale principio di diritto ruota, dunque, intorno alla riconosciuta legittimità dell’estensione dell’oggetto dall’accordo sul trattamento sanzionatorio anche alle misure di sicurezza.

Si tratta di un principio già affermato, nelle sue linee generali, dalla giurisprudenza di legittimità che, tuttavia lo ha diversamente declinato quanto agli effetti, ritenuti vincolanti solo per le parti del patto concernenti gli elementi essenziali previsti dall’art. 444 cod. proc. pen. (trattamento sanzionatorio ed eventuale concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena), e di mero orientamento per le parti relative agli elementi accessori (le misure di sicurezza). Si è, infatti, affermato che, poiché la legge è categorica nello stabilire che le suddette misure non rientrano nella disponibilità delle parti, essendone riservata l’applicazione al giudice, tale accordo può avere solo una funzione di «orientamento» nella decisione del giudice il quale può, quindi tenerne conto o meno, purché fornisca un’adeguata motivazione della decisione adottata (Sez. 2, n. 19945 del 19/4/2012, n. 19945, Toseroni, Rv. 252825; Sez. 5, n. 1154 del 22/3/2013, Defina, Rv. 258819; Sez. 2, n. 1934 del 18/12/2015, Spagnuolo, Rv. 265823; Sez. 6, n. 54977 del 14/10/2016, Orsi, Rv. 268740-01).

Il percorso ermeneutico seguito dalle Sezioni Unite muove dall’analisi del progressivo “rimodellamento” della disciplina del patteggiamento”, culminato con la riforma del regime di impugnazione introdotta dalla novella del 2017. L’attenzione della Corte si è focalizzata, in particolare, sulla modifiche introdotte all’art. 445 cod. proc. pen. con la legge 11 giugno 2003, n. 143, quanto alla eliminazione di ogni limite all’applicazione della confisca ed alla possibilità di applicazione delle misure di sicurezza allorché la pena irrogata superi i due anni di reclusione.

Ad avviso del Supremo Consesso, infatti, tale intervento normativo, letto alla luce del “diritto vivente” favorevole ad estendere il contenuto pattizio alle misure di sicurezza, ha determinato una interpolazione dell’art. 444 cod. proc. pen. consentendo l’inclusione nell’accordo delle misure di sicurezza, soggette, al pari della pena, al controllo di congruità del giudice, in modo da garantire un adeguato bilanciamento tra le due componenti del rito, negoziale e giurisdizionale.

Tale conclusione consente alla Corte di pervenire ad una diversa lettura del regime speciale di impugnazione della sentenza di patteggiamento descritto dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., correlando i motivi deducibili in sede di legittimità all’aspetto negoziale del rito, cosicché lo stesso richiamo congiunto alla illegalità della pena o della misura di sicurezza – da definire, precisa il Supremo Consesso, secondo criteri unitari - viene interpretato dalla Corte quale conferma della scelta del legislatore di consentire l’ampliamento del perimetro dell’accordo alle misure di sicurezza.

3.1. Il carattere vincolante dell’accordo sulle misure di sicurezza e la motivazione della sentenza di patteggiamento.

Ciò che rappresenta un forte elemento di progressione ermeneutica rispetto ai precedenti arresti giurisprudenziali è il riconosciuto effetto vincolante, e non di mero orientamento, dell’accordo. Ad avviso delle Sezioni Unite, infatti, il patteggiamento “complesso”, al pari dell’accordo sulla sola pena, una volta ratificato dal giudice, non può più essere rimesso in discussione dalle parti in sede di legittimità, salva l’ipotesi della illegalità della misura di sicurezza. Dinanzi ad un siffatto accordo, inoltre, il giudice potrà pronunciare sentenza di patteggiamento solo nel caso in cui ne recepisca interamente il contenuto, dovendo, in caso contrario, rigettare la concorde richiesta delle parti.

Al riconosciuto effetto vincolante del patteggiamento complesso consegue, inoltre, secondo il percorso logico seguito dal Supremo Consesso, la possibilità per il giudice di ricorrere ad una motivazione sintetica anche sul punto relativo all’applicazione della misura di sicurezza concordata dalle parti. Si è, dunque, esteso a tale ipotesi il consolidato principio di diritto (si veda, al riguardo, Sez. U., n. 5777 del 27/3/1992, Di Benedetto, Rv. 191134; Sez. U., n. 10372 del 27/9/1995, Serafino, Rv. 202270) che, proprio in ragione della centralità dell’atto negoziale che caratterizza il rito, ha ritenuto sufficiente una motivazione in termini sintetici, quando non implicita, in merito alle statuizioni che costituiscono oggetto dell’accordo sul trattamento sanzionatorio. Alla base di tali conclusioni vi è la qualificazione della proposta, o dell’adesione al patto da parte dell’imputato, quale rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa o, in altri termini, quale dispensa dell’accusa dall’onere di provare i fatti dedotti nell’imputazione (Sez. U., n. 20 del 27 ottobre 1999, Fraccari, Rv. 214637). Tale “alleggerimento” degli oneri di motivazione rappresenta un superamento della precedente giurisprudenza di legittimità che, distinguendo gli effetti dell’accordo in base all’oggetto, aveva ritenuto sufficiente una motivazione sintetica solo in relazione agli elementi essenziali dell’accordo, ma non con riferimento alle statuizioni relative alle misure di sicurezza, in quanto rientranti nell’ambito della discrezionalità del giudice (sull’onere di motivazione in tema di confisca, tra le tante, Sez. 6, n. 54977 del 14/10/ 2016, n. 54977, Orsi, Rv. 268740; Sez. 6, n. 9930 del 13/2/2014, Scivoli Di Domenico, Rv. 261533; Sez. 2, n. 3247 del 18/9/2013, Gambacorta, Rv. 258546; Sez. 5, n. 8440 del 24/1/2007, Viglianesi, Rv. 236623). Logico corollario della riconosciuta legittimità del patteggiamento complesso è l’applicazione dello speciale regime di impugnazione previsto dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. In tal caso, dunque, ha precisato il Supremo Consesso, ove in sede di legittimità dovesse risultare l’illegalità della misura di sicurezza concordata, tale vizio travolgerebbe l’intero accordo (ciò alla luce del riconosciuto effetto vincolante) e la sentenza che lo ha recepito (di cui dovrà essere disposto l’annullamento senza rinvio).

4. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite Melzani.

Gli argomenti relativi alla conformazione dell’obbligo di motivazione al contenuto dell’atto negoziale ed alla possibile inclusione nell’accordo di elementi diversi da quelli espressamente previsti dall’art. 444 cod. proc. pen., sono stati ripresi anche dalla sentenza Melzani.

La premessa logica da cui muove il ragionamento seguito dal Supremo Consesso attiene alle caratteristiche ontologiche delle sanzioni amministrative accessorie. In continuità con quanto affermato da Sez. U., n. 8488 del 27/5/1998, Bosio, Rv. 210981, le Sezioni Unite hanno, infatti, ribadito che con la sentenza di patteggiamento devono essere sempre applicate le sanzioni amministrative accessorie in quanto ne conseguono di diritto. Si afferma, infatti, che, mentre le sanzioni “in senso stretto” assumono con primarietà la “punizione” del contravventore, le sanzioni amministrative assolvono direttamente o indirettamente una funzione “riparatoria” dell’interesse pubblico violato, in chiave ripristinatoria o interdittiva. Dette sanzioni, prosegue il Supremo Consesso, si affiancano alle pene criminali quando il fatto considerato comporti un’offesa, al contempo, del valore tutelato dalla norma penale e dell’interesse pubblico ad esso correlato. Si afferma, dunque, che tale sistema binario di deterrenza è volto a dare una risposta, contemporaneamente repressiva e preventiva, rispetto a fatti poli-offensivi dotati di una particolare pericolosità per la convivenza sociale e per gli interessi pubblici, escludendo che l’applicazione in sede giudiziale della sanzione accessoria possa determinare un mutamento della sua natura amministrativa o dei criteri e parametri previsti in via generale per la sua determinazione.

Proprio in considerazione di tale peculiare natura delle sanzioni amministrative accessorie, nonché dell’assenza di alcun riferimento desumibile dalla disciplina codicistica (ciò a differenza di quanto, invece, sostenuto, con la coeva sentenza Savin per le misure di sicurezza), le Sezioni Unite hanno, pertanto, escluso che le stesse possano formare oggetto di accordo tra le parti e che rientrino nella previsione normativa dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. Confermando la lettura di tale norma alla luce del “modulo consensuale di definizione del processo, proprio del cosiddetto patteggiamento”, esteso dalla sentenza Savin anche alle misure di sicurezza, le Sezioni Unite hanno, pertanto, affermato che, in considerazione dell’estraneità delle sanzioni amministrative accessorie all’accordo sulla pena, alle questioni relative alla loro applicazione si applica il regime generale di impugnazione previsto dall’art. 606, comma 1, cod. proc. pen., cui rinvia il successivo secondo comma con riferimento alla sentenze inappellabili.

Ad avviso delle Sezioni Unite, tale soluzione non determina un’asimmetria del regime di impugnazione della sentenza di patteggiamento. Si richiama, al riguardo, la diversa intensità dell’onere di motivazione gravante sul giudice a secondo che si tratti di statuizioni oggetto di accordo, in relazione alle quali sarà sufficiente una motivazione sintetica, ovvero di statuizioni ad esso estranee, come le sanzioni amministrative accessorie, «rispetto alle quali, non concordate né negoziabili, non vi è alcuna rinuncia dell’imputato ai diritti e alle garanzie che caratterizza, invece, la scelta di accedere al rito del “patteggiamento”». In tal caso, dunque, il contenuto dell’accertamento demandato al giudice si estende ai parametri che giustificano l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie e che possono implicare margini di discrezionalità sia nel quantum che nell’an, rispetto ai quali si riespande l’onere di motivazione gravante sul giudice.

Ciò si riflette sul regime di impugnazione: la discrezionalità rimessa al giudice e la incidenza, con diversa intensità, delle sanzioni amministrative accessorie sulle esigenze di vita dell’imputato, rende necessario, anche per assicurare la tenuta costituzionale del sistema, un più ampio controllo in sede di legittimità di tali statuizioni, secondo il regime generale.

4.1. La deducibilità dell’omessa applicazione delle sanzioni amministrative accessorie.

Le Sezioni Unite Melzani sono pervenute alla medesima conclusione anche con riferimento alla deducibilità in sede di legittimità della omessa applicazione delle sanzioni amministrative accessorie che, si afferma, seguono di diritto alla sentenza sia di condanna che di patteggiamento, «salve le possibili alternative tutele offerte dall’ordinamento, la cui natura e i cui limiti trovano la loro disciplina nelle pertinenti disposizioni che le prevedono.» In assenza di una specifica individuazione dei rimedi esperibili in alternativa al ricorso per cassazione, si reputa utile ripercorrere le considerazioni espresse nell’ordinanza di rimessione (Sez. 4, n. 22113 del 16/5/2019) in merito alla difficile praticabilità, quali rimedi alternativi al ricorso per cassazione, della procedura di correzione dell’errore materiale ovvero dell’incidente di esecuzione.

Ad avviso della Corte rimettente, infatti, l’estensione generalizzata del primo rimedio richiederebbe il superamento della consolidata opzione interpretativa che circoscrive il ricorso a tale procedura solo per porre rimedio ad imprecisioni, omissioni di elementi che debbono necessariamente essere ricompresi nel provvedimento e, più in generale, a discrasie formali la cui correzione non implica l’esercizio di un potere discrezionale.

Va, inoltre, considerato che con la riforma del 2017 è stata introdotta una specifica disciplina concernente la correzione dell’errore materiale nella sentenza di patteggiamento. Ai sensi dell’art. 130, comma 1-bis, cod. proc pen. tale procedura è attivabile, anche d’ufficio, per emendare l’errore di denominazione o di computo relativo alla specie e quantità della pena indicata nella sentenza di applicazione della pena. La norma prevede, inoltre, che, ove la sentenza sia stata impugnata, alla rettificazione provvede la Corte di cassazione ai sensi dell’art. 619, comma 2, cod. proc. pen.

Quanto all’esperibilità dell’incidente di esecuzione, fermo restando che l’art. 676 cod. proc. pen. non contempla tra le competenze del giudice dell’esecuzione anche quella in tema di sanzioni amministrative accessorie, la stessa Corte rimettente ha precisato che l’adesione a tale soluzione dovrebbe tenere conto del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza Basile (n. 6240 del 27/11/2014, Rv. 262327-01) secondo cui «L’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione purché essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione».

L’esperibilità dell’incidente di esecuzione è stata, peraltro, limitata alla sola illegalità delle sanzioni amministrative accessorie e all’errore di calcolo determinato da vizio macroscopico da Sez. 1, n. 20466 del 27/1/2015, Nardi, Rv. 263506-01. In senso conforme, anche Sez, 1, n, 26557 del 10/2/2016, Lo Sasso, Rv. 267254-01.

Seguendo, infine, le coordinate ermeneutiche tracciate da Sez. U., n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj, Rv. 266592, potrebbe ipotizzarsi che anche in caso di omessa applicazione con la sentenza di patteggiamento di una sanzione amministrativa accessoria si riespanda la competenza dell’autorità amministrativa. Secondo il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite, Tushaj, infatti, in caso di esclusione della punibilità per particolare tenuità del reato di guida in stato di ebbrezza, spetta al prefetto la competenza in materia di irrogazione della sanzione amministrativa accessoria stabilita dalla legge. Tale conclusione si fonda sull’esame degli artt. 224 e 224-ter cod. strada in forza dei quali una volta che la sentenza di condanna, di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. o il decreto penale sono irrevocabili, l’autorità amministrativa dà corso all’esecuzione delle sanzioni accessorie disposte dal giudice. Tale disciplina prevede, inoltre, che in caso di estinzione del reato per causa diversa dalla morte dell’imputato, il prefetto, verificata l’esistenza delle condizioni di legge, procede all’applicazione delle sanzioni amministrative.

Sulla base di tali indicazioni normative le Sezioni Unite Tushaj, estendendo la regola espressamente prevista per l’ipotesi dell’estinzione del reato, hanno, pertanto, affermato che anche nel caso in cui manca una pronunzia di condanna o di proscioglimento, le sanzioni amministrative riprendono la loro autonomia ed entrano nella sfera di competenza dell’amministrazione pubblica. A conferma di tale conclusione, fondata sulla ritrovata autonomia della sanzione amministrativa accessoria, si richiamano, infine, l’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 224 ed il comma 6 dell’art. 224-ter cod. strada laddove prevedono che l’estinzione della pena successiva alla sentenza irrevocabile di condanna non ha effetto sull’applicazione della sanzione amministrativa accessoria.

5. La diversa soluzione adottata dalle sezioni Unite Savin in tema di omessa applicazione delle misure di sicurezza.

Diversa soluzione è stata adottata dalle Sezioni Unite Savin in merito alla questione relativa alla esperibilità del ricorso per cassazione in caso di omessa applicazione delle misure di sicurezza, anch’essa oggetto di contrasto giurisprudenziale, ma non inclusa nella questione devoluta alle Sezioni Unite.

Il dibattito giurisprudenziale ha, infatti, visto contrapporsi due orientamenti fondati su argomentazioni analoghe a quelle poste alla base delle impostazioni ermeneutiche relative alla deducibilità in sede di legittimità del vizio di motivazione concernente l’applicazione delle misure di sicurezza.

Alla tesi negativa fondata su argomentazioni di carattere testuale, sistematico e logico (Sez. 3, n. 45559 del 7/3/ 2018, Handa, Rv. 273950; Sez. 6, n. 6136 del 19/12/2018, (dep. 2019), Kamberi, Rv. 275034; Sez. 3, n. 10954 del 17/1/2019, Kondaj, Rv. 275840; Sez. 6, n. 13827 del 16/1/2019, Jarmouni, Rv. 275240) si è contrapposto un orientamento che, attraverso diversi percorsi logici – ora fondati sulla distinzione tra statuizioni interne ed esterne all’accordo (Sez. 1, n. 11595 del 9/1/2019, Cabiddu, Rv. 275059 in relazione alla omessa applicazione della confisca obbligatoria) ora basati su una nozione di illegalità della misura più ampia nozione di quella relativa alla illegalità della pena (Sez. 3, n. 20781 del 17/12/ 2018, (dep. 2019), El Ghazzani, Rv. 275530; Sez. 3, n. 29428 del 8/5/2019, Scarpulla, Rv. 275896) ha ammesso la deducibilità della questione in sede di legittimità.

Dinanzi a tale variegato panorama giurisprudenziale, le Sezioni Unite hanno ritenuto di esaminare la questione alla luce dell’affermato principio di diritto che circoscrive la deducibilità in sede di legittimità del vizio di motivazione concernente l’applicazione delle misure di sicurezza solo nel caso in cui le stesse non abbiano formato oggetto di un accordo tra le parti.

Ad avviso del Supremo Consesso da tale principio consegue, infatti, la non deducibilità, ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis cod. proc. pen., della censura relativa alla omessa applicazione della misura di sicurezza, salvo che non si tratti di una misura prevista dalla legge come obbligatoria in relazione al titolo del reato, soccorrendo, in tal caso la disciplina generale di cui all’art. 606 cod. proc. pen.

Esclusa, dunque, la configurabilità di una diversa e più ampia nozione della illegalità della misura di sicurezza e prescindendo, altresì, dalla eventuale inclusione nell’accordo della statuizione omessa (nel qual caso dovrebbe potersi dedurre in sede di legittimità il vizio relativo al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, previsto dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen.), le Sezioni Unite hanno, dunque, affermato che solo in caso di omessa applicazione di una misura di sicurezza obbligatoria per legge sarà esperibile il ricorso per cassazione, secondo il regime ordinario previsto dall’art. 606 cod. proc. pen., in alternativa agli altri rimedi previsti dall’ordinamento.

6. Le tutele alternative al ricorso per cassazione negli arresti delle sezioni semplici.

Quanto alle tutele alternative previste dall’ordinamento, non specificamente individuate dal Supremo Consesso, appare opportuno richiamare alcuni significativi arresti che, escludendo la configurabilità di un vuoto di tutela quale effetto diretto della non deducibilità del vizio in sede di legittimità, hanno individuato rimedi differenti a secondo che la misura di sicurezza omessa sia personale o patrimoniale.

Nella prima ipotesi, con riferimento alla misura dell’espulsione ai sensi dell’art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990, secondo Sez. 6, n. 6136 del 19/12/2018, Kamberi, Rv. 275034, il pubblico ministero potrebbe richiedere al magistrato di sorveglianza l’applicazione della misura di sicurezza personale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 205, comma 2, cod. pen. e 679 cod. proc. pen. (in senso conforme, anche Sez. 3, n. 10954 del 17/1/2019, Kondaj, Rv. 275840)

Un altro isolato arresto ha, invece, prospettato l’appellabilità della sentenza di patteggiamento dinanzi al tribunale di sorveglianza, limitatamente al punto concernente l’omessa applicazione della misura di sicurezza, ai sensi degli artt. 579, comma 2, e 680, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 9434 del 29/1/2019, Homri, Rv. 275679). Ad avviso della Corte, infatti, poiché la statuizione in questione è estranea all’accordo e, anche se concordata tra le parti, è, comunque, soggetta alla valutazione da parte del giudice del presupposto sostanziale della pericolosità sociale e, quindi, allo stesso vaglio richiesto per l’applicazione delle medesima misura con la sentenza di condanna, sotto tale limitato profilo, la sentenza di patteggiamento può essere equiparata ad una sentenza di condanna. In tal caso, prosegue la Corte, non può valere l’inappellabilità prevista dall’art. 448, comma 2, cod. proc. pen. e, analogamente all’ipotesi in cui il giudice applichi la pena richiesta dall’imputato all’esito del dibattimento, ritenendo ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, deve ritenersi che le parti abbiano il diritto di appellare la sentenza di patteggiamento, «non essendovi ragione di escludere l’appellabilità innanzi al tribunale di sorveglianza della sentenza per le disposizioni che investano la decisione sull’applicazione della misura di sicurezza in quanto non comprese nell’accordo sulla pena».

In caso di omessa applicazione della confisca obbligatoria, la giurisprudenza di legittimità ha, invece, ritenuto esperibile il rimedio dell’incidente di esecuzione (Sez. 6, n. 13827 del 16/1/2019, Jarmouni, Rv. 275240; Sez. 1, n. 16005 del 18/1/2016, Ren, Rv. 267712; Sez. 1, n. 17546 del 20/04/2012 , Ebrahim, Rv. 252888; Sez. 1, n. 6650 del 5/2/2008, Potorti, Rv. 239310).

7. Le questioni ancora aperte in tema di impugnazione del “patteggiamento in appello”.

La reintroduzione, ad opera dell’art. 1, comma 56, della legge 23 giugno 2017, n. 103, dell’istituto del c.d. “patteggiamento in appello” (art. 599-bis cod. proc pen.), non accompagnata dalla previsione di un regime specifico di impugnazione analogo a quello previsto per il patteggiamento dall’art. 448, comma 2-bis cod. proc. pen., ha immediatamente indotto la giurisprudenza di legittimità ad interrogarsi sui limiti di impugnabilità di tale negozio giuridico processuale e sugli effetti sullo stesso del vizio rilevato in sede di legittimità.

Quanto al primo profilo, un recente indirizzo giurisprudenziale, in continuità con l’elaborazione ermeneutica relativa al previgente regime dell’istituto disciplinato dall’art. 599, comma 4, cod. proc. pen., ritiene inammissibile il ricorso per cassazione avverso la sentenza resa all’esito del concordato sui motivi di appello volto a censurare profili diversi dalla illegalità della pena, quali la qualificazione giuridica del fatto (Sez. 6, n. 41254 del 04/07/2019, Leone, Rv. 277196; Sez. 4, n. 53565 del 27/09/2017, Ferro, Rv. 271258), la valutazione sulla sussistenza di cause di non punibilità ex art. 129 cod. proc. pen. e, più in generale, le questioni, anche rilevabili d’ufficio, alle quali l’interessato abbia rinunciato in funzione dell’accordo sulla pena in appello (Sez. 5, n. 29243 del 4/6/2018, Casero, Rv. 273194).

Si afferma, infatti, che, in tal caso, l’accordo delle parti, innestandosi sulla rinuncia ai motivi di impugnazione, implica la rinuncia a dedurre nel successivo giudizio di legittimità ogni diversa doglianza, anche se relativa a questione rilevabile di ufficio, con l’unica eccezione dell’irrogazione di una pena illegale. La diversa estensione dell’accordo tra le parti giustifica, dunque, il differente regime di impugnazione previsto per il patteggiamento in cui il perimetro dell’accordo investe anche i termini dell’accusa con conseguente possibilità, ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., di proporre ricorso per cassazione anche per ciò che concerne la qualificazione giuridica.

Simmetricamente, è stato, invece, ritenuto ammissibile il ricorso in cassazione avverso la sentenza emessa ex art. 599-bis cod. proc. pen. che deduca motivi relativi alla formazione della volontà della parte di accedere al concordato, al consenso del pubblico ministero sulla richiesta ed al contenuto difforme della pronuncia del giudice, con esclusione, dunque, delle doglianze relative ai motivi rinunciati, alla mancata valutazione delle condizioni di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. ed, altresì, a vizi attinenti alla determinazione della pena che non si siano trasfusi nella illegalità della sanzione inflitta, in quanto non rientrante nei limiti edittali ovvero diversa dalla quella prevista dalla legge (Sez. 1, n. 944 del 23/10/2019, dep. 13/01/2020, M., Rv. 278170; Sez. 2, n. 22002 del 10/04/2019, Mariniello, Rv. 276102).

Tale linea ermeneutica si pone nel solco del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite Gallo in merito al precedente istituto del concordato in appello. Ad avviso del Supremo Consesso, infatti, le parti, attraverso l’istituto di cui all’art. 599, comma 4, cod. proc. pen., esercitano il potere dispositivo loro riconosciuto dalla legge, dando vita a un negozio processuale liberamente stipulato che, una volta consacrato nella decisione del giudice, non può essere unilateralmente modificato - salva l’ipotesi di illegalità della pena concordata - da chi lo ha promosso o vi ha aderito, mediante proposizione di apposito motivo di ricorso per cassazione (Sez. U, n. 5466 del 28/01/2004, Gallo, Rv. 226715).

La correlazione tra la rinuncia ai motivi di appello, che solitamente connota l’istituto in esame, ed il principio devolutivo proprio dell’impugnazione, ha influito anche sulla portata dell’onere di motivazione della sentenza. In continuità con la precedente giurisprudenza che, in considerazione della limitazione della cognizione del giudice ai motivi non rinunciati, escludeva che questo fosse tenuto a motivare sul mancato proscioglimento dell’im putato per taluna delle cause previste dall’art. 129 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 38530 del 03/06/2009, B., Rv. 245144), si è affermato che il giudice di secondo grado, nell’accogliere la richiesta formulata a norma del nuovo art. 599-bis cod. proc. pen., non deve motivare sul mancato proscioglimento dell’imputato per una delle cause previste dall’art. 129 cod. proc. pen., né sull’insussistenza di circostanze aggravanti (Sez. 3, n. 30190 del 08/03/2018, Hoxha, Rv. 273755) o di cause di nullità assoluta o di inutilizzabilità delle prove (Sez. 4, n. 52803 del 14/09/2018, Bouachra Brahim, Rv. 274522) in quanto, a causa dell’effetto devolutivo proprio dell’impugnazione, una volta che l’imputato abbia rinunciato ai motivi di appello, la cognizione del giudice è limitata ai motivi non oggetto di rinuncia.

Con riferimento, invece, al profilo concernente gli effetti sul concordato in appello del vizio di illegalità della pena, nella giurisprudenza di legittimità si sono, affermati due diversi orientamenti ermeneutici le cui conclusioni risentono della differente visione del rapporto intercorrente tra le due parti che solitamente connotano tale istituto, ovvero la rinuncia ad alcuni motivi di appello e l’accordo sull’accoglimento di altri con rideterminazione della pena.

Secondo una prima impostazione ermeneutica, oggi maggioritaria, sussiste un «nesso funzionale inscindibile tra la richiesta concordata dalle parti sull’accoglimento di uno o alcuni motivi di appello, e la eventuale rinuncia ad altri motivi degli stessi atti di impugnazione» (Sez. 6, n. 41461 del 12/9/2019, Baglio, Rv. 276803) cosicché, allorquando la pena concordata fra le parti divenga illegale per effetto della declaratoria di incostituzionalità, l’accordo viene interamente travolto, anche nella parte relativa alla rinuncia ai motivi di impugnazione, comportando, così, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata e la restituzione all’imputato del potere dispositivo di proseguire il processo insistendo sui motivi oggetto di rinuncia o di rinegoziare una nuova pena non illegale (Sez. 4, n. 21901 del 10/7/2020, Abbrescia, Rv. 279765; Sez. 6, n. 45876 del 8/10/2019, Sallmani, Rv. 277435; Sez. 6, n. 41963 del 10/9/2019, Tamburini, Rv. 277371; Sez. 6, n. 41254 del 04/07/2019, Leone, Rv. 277196 – 02).

Argomentando, infatti, dal testo dell’art. 599-bis, comma 3, cod. proc. pen. (secondo cui, quando il giudice ritenga di non poter accogliere, allo stato, la richiesta, ordina la citazione per il dibattimento e la richiesta e la rinuncia perdono effetto), si riconosce la natura “complessa” del negozio giuridico processuale in cui la volontà di rinuncia ai motivi proposti è condizionata al raggiungimento del risultato che forma oggetto del patto.

Secondo altro minoritario orientamento, affermato da due sentenze della Sesta sezione (n. 43641 del 11/09/2019, Marzulli, Rv. 277374 e n. 44625 del 03/10/2019, Kadha Hamza, Rv. 277381) la sopravvenuta illegalità della pena concordata dalle parti sulla base di limiti edittali divenuti illegali a seguito di declaratoria di incostituzionalità inficia il solo accordo sulla pena, mentre rimane intangibile la rinuncia ai motivi di appello, sui quali deve ritenersi formato il giudicato. In tal caso, dunque, dovrebbe essere annullata con rinvio la sola parte della sentenza relativa all’accordo sulla pena, ferma restando, come già affermato dalle Sezioni Unite Gallo, l’irretrattabilità, e, pertanto, l’insuscettibilità di costituire oggetto di ricorso per cassazione, di tutti i motivi rinunciati, siano essi relativi alla responsabilità, alla qualificazione giuridica del fatto, ed agli istituti che ineriscono al trattamento sanzionatorio o punitivo in generale. Tale scelta ermeneutica si fonda, oltre che sulla differenza tra l’istituto in esame e quello del patteggiamento – cui consegue l’inapplicabilità del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite, Calibè, n. 35738 del 27/5/2010, Rv. 247841 - sulla rite- nuta autonomia dell’originario accordo delle parti all’accoglimento di uno o alcuni motivi con rideterminazione della pena rispetto alla rinuncia ai restanti motivi che conserverebbe una sua efficacia.

Secondo l’orientamento in esame, la irretrattabilità della rinuncia non trova ostacolo nella previsione di cui all’art. 599-bis, comma 3, cod. proc. pen. o in quella correlativa di cui all’art. 602 comma 1-bis cod. proc. pen., «la cui portata è limitata alla fase di formazione dell’accordo tra le parti e trova il suo unico limite ontologico e di sistema nella irrogazione di una pena illegale» nel qual caso, ferma restando la rinuncia ai motivi, è solo l’accordo sulla pena che deve essere annullato, con rinvio al giudice per la ridefinizione del trattamento sanzionatorio.

Contrariamente a quanto sostenuto dall’orientamento maggioritario, si esclude, dunque, l’inscindibilità delle due diverse manifestazioni di volontà che possono concorrere a definire la fattispecie processuale in parola considerando, tra l’altro, la diversità strutturale della rinuncia ai motivi di appello da parte dell’imputato che li ha proposti – che diviene efficace senza che vi concorra alcuna manifestazione di volontà dal P.G. al riguardo – rispetto all’accordo sull’accoglimento di motivi che concorrano a definire la pena che le parti indicano al Giudice del gravame, «dove le convergenti manifestazioni di volontà delle parti e la pena che ne consegue risultano inscindibilmente collegati.»

A tale impostazione Sez. 4, n. 21901/2020, Abbrescia, ha, tuttavia, obiettato di non considerare che «la pronuncia che recepisca un accordo avente ad oggetto una pena illegale si fonda sulla falsa rappresentazione del quadro sanzionatorio, sia quando ciò derivi da un errore originario contenuto nel patto e recepito dal giudice, che quando ciò derivi da sopravvenuta pronuncia di incostituzionalità della disposizione incriminatrice o di una norma che ne formi il presupposto applicativo o, ancora, dei soli limiti della cornice edittale prevista per uno dei reati oggetto del concordato.» Si afferma, pertanto, che, in tal caso, la manifestazione di volontà delle parti è «intrinsecamente viziata in quanto vincola l’abdicazione dei motivi ad un risultato illegale» che, una volta rilevato in sede di legittimità, non può che comportare la caducazione dell’intero patto.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U., n. 21368 del 26/09/2019, dep. 2020, Savin ed altri, Rv. 279348 -01, 02, 03, 05 Sez. U., n. 21369 del 26/09/2019, dep. 2020, Melzani, Rv. 279349

Sez. 4, n. 21901 del 10/7/2020, Abbrescia, Rv. 279765

Sez. 6, n. 45876 del 8/10/2019, Sallmani, Rv. 277435

Sez. 1, n. 944 del 23/10/2019, dep. 13/01/2020, M., Rv. 278170

Sez. 6, n. 44625 del 03/10/2019, Kadha Hamza, Rv. 277381 Sez. 6, n. 41963 del 10/9/2019, Tamburini, Rv. 277371

Sez. 6, n. 43641 del 11/09/2019, Marzulli, Rv. 277374

Sez. 6, n. 41254 del 04/07/2019, Leone, Rv. 277196 - 02

Sez. 4, n. 22113 del 16/5/2019, Melzani

Sez. 3, n. 29428 del 8/5/2019, Scarpulla, Rv. 275896

Sez. 2, n. 22002 del 10/04/2019, Mariniello, Rv. 276102

Sez. 4, n. 18942 del 27/03/2019, Bruna, Rv. 275435 Sez. 1, n. 21407 del 19/3/2019, Scaglione.

Sez. 3, n. 15525 del 15/2/2019, Bozzi, Rv. 275862

Sez. 6, n. 15848 del 5/2/2019, Moretti, Rv. 275224

Sez. 6, n. 9434 del 29/1/2019, Homri, Rv. 275679 Sez. 4, n. 7554 del 24/01/2019, Re

Sez. 6, n. 17770 del 16/1/2019, Savin

Sez. 3, n. 4252 del 15/01/2019, Caruso, Rv. 274946-01, 02

Sez. 3, n. 10954 del 17/1/2019, Kondaj, Rv. 275840

Sez. 6, n. 13827 del 16/1/2019, Jarmouni, Rv. 275240

Sez. 6, n. 41461 del 12/9/2019, Baglio, Rv. 276803 Sez. 6, n. 15845 del 07/01/2019, Pulvirenti

Sez. 1, n. 11595 del 9/1/2019, Cabiddu, Rv. 275059

Sez. 6, n. 14721 del 19/12/2018, Lodato, Rv. 257241

Sez. 6, n. 7630 del 19/12/2018, Fall, Rv. 275210

Sez. 6, n. 6136 del 19/12/2018, Kamberi, Rv. 275034 Sez. 6, n. 5875 del 19/12/2018, Chtibi

Sez. 6, n. 3819 del 19/12/2018, Boutamara, Rv. 274962

Sez. 3, n. 20781 del 17/12/ 2018, (dep. 2019), El Ghazzani, Rv. 275530 Sez. 6, n. 53178 del 20/11/2018, Misani

Sez. 4, n. 52803 del 14/09/2018, Bouachra Brahim, Rv. 274522 Sez. U., n. 40986 del 19/7/2018, Pittalà, Rv. 273934-01 e 273934-02

Sez. 5, n. 29243 del 4/6/2018, Casero, Rv. 273194

Sez. 4, n. 29179 del 23/5/2018, Stratta, Rv. 273091

Sez. 3, n. 30064 del 23/05/2018, Lika, Rv. 273830

Sez. 4, n. 22824 del 17/04/2018, Daouk

Sez. 3, n. 30190 del 08/03/2018, Hoxha, Rv. 273755

Sez. 3, n. 45559 del 7/3/ 2018, Handa, Rv. 273950

Sez. 4, n. 53565 del 27/09/2017, Ferro, Rv. 271258

Sez. 6, n. 54977 del 14/10/2016, Orsi, Rv. 268740

Sez. U., n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj, Rv. 266592 Sez, 1, n, 26557 del 10/2/2016, Lo Sasso, Rv. 267254-01 Sez. 1, n. 16005 del 18/1/2016, Ren, Rv. 267712

Sez. 2, n. 1934 del 18/12/2015, Spagnuolo, Rv. 265823

Sez. U., n. 33040 del 26/2/2015, Jazouli, Rv. 264205-01 e 264207-01 Sez. 1, n. 20466 del 27/1/2015, Nardi, Rv. 263506-01

Sez. U. , n. 6240 del 27/11/2014, Basile, Rv. 262327-01

Sez. 6, n. 9930 del 13/2/2014, Scivoli Di Domenico, Rv. 261533 Sez. 2, n. 3247 del 18/9/2013, Gambacorta, Rv. 258546

Sez. 5, n. 1154 del 22/3/2013, Defina, Rv. 258819

Sez. 1, n. 17546 del 20/04/2012 , Ebrahim, Rv. 252888

Sez. 2, n. 19945 del 19/4/2012, n. 19945, Toseroni, Rv. 252825 Sez. U., n. 35738 del 27/5/2010, Calibè, Rv. 247841

Sez. 5, n. 38530 del 03/06/2009, B., Rv. 245144

Sez. 1, n. 6650 del 5/2/2008, Potorti, Rv. 239310

Sez. 5, n. 8440 del 24/1/2007, Viglianesi, Rv. 236623 Sez. U, n. 5466 del 28/01/2004, Gallo, Rv. 226715

Sez. U., n. 20 del 27 ottobre 1999, Fraccari, Rv. 214637 Sez. U., n. 8488 del 27/5/1998, Bosio, Rv. 210981

Sez. U., n. 10372 del 27/9/1995, Serafino, Rv. 202270 Sez. U., n. 5777 del 27/3/1992, Di Benedetto, Rv. 191134 Sez. 3, n. 1044 del 10/7/1967, Bertolini, Rv. 105611

SEZIONE VII ESECUZIONE.

  • Corte europea dei diritti dell'uomo
  • carcerazione
  • detenuto
  • regime penitenziario
  • diritti umani
  • stabilimento penitenziario

CAPITOLO I

RIMEDI RISARCITORI PER TRATTAMENTO CARCERARIO CONTRARIO ALL’ART. 3 CEDU: COME CALCOLARE LO SPAZIO DETENTIVO MINIMO.

(di MariaEmanuela Guerra )

Sommario

1 Premessa. - 2 La peculiare formulazione del precetto contenuto nell’art. 35-ter ord. pen. - 3 Lo spazio minimo detentivo secondo il diritto positivo. - 4 I principi espressi dalla Corte EDU. - 5 Le ragioni del contrasto. - 6 Analisi degli orientamenti in campo. - 6.1 Il calcolo dello spazio al netto degli arredi. - 6.2 L’area occupata dal letto. - 6.3 Il calcolo al lordo degli arredi. - 7 Gli arresti della Corte di giustizia dell’unione europea. - 8 Autonomia del giudice e portata vincolante della giurisprudenza della Corte EDU. - 9 Cenni sulla soluzione resa dalle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

Con la sentenza 20/09/2020, non ancora depositata, le Sezioni Unite hanno dato soluzione a due questioni controverse connesse al riconoscimento del diritto ai rimedi risarcitori, previsti dall’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ord. Pen.), per trattamento detentivo inumano e degradante - in violazione dell’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) - con specifico riferimento alla situazione di sovraffollamento carcerario.

Evidentemente la tematica del sovraffollamento carcerario non è riducibile ad un problema di mero “catasto penitenziario”, di interesse per i soli “geometri carcerari”, trattandosi, piuttosto, di questione che incide sui connotati costituzionali dell’esecuzione penale, nella considerazione che il principio di legalità penale impone una pena legittima non soltanto nella sua proclamazione ma anche alla fase della sua esecuzione. Ed invero, il sovraffollamento carcerario incide sui residui di libertà delle persone ristrette, comprimendo gran parte dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta costituzionale. Di conseguenza, solleva molteplici criticità costituzionali: non solo con riferimento alla violazione del divieto assoluto di trattamenti inumani, come tali incompatibili con la finalità rieducativa della pena, come delineata dall’art. 27, comma 3, Cost., ma, anche, in relazione agli artt. 2 e 32 Cost., per l’inevitabile pregiudizio ai diritti fondamentali della salute, sicurezza e vita; all’art. 25, comma 2, Cost., quale afflizione ulteriore e aggiuntiva alla pena decisa dal giudice e, dunque, priva di base legale; all’art. 13, comma 4, Cost., concretizzandosi in violenza fisica e morale sulle persone ristrette e agli artt. 11 e 117, comma 1, Cost., ed infine, per la violazione degli obblighi di cooperazione giudiziaria e collaborazione internazionale.

In sostanza, entrano in gioco i grandi temi della dignità, del rispetto dei diritti dell’uomo e del libero sviluppo della personalità, la cui centralità nella trama normativa della Costituzione, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, non può non avere implicazioni anche nella fase dell’esecuzione della pena, specie detentiva: «chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva pur sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità» (Corte cost., sent. n. 349 del 1993).

In particolare, i quesiti rimessi al Supremo consesso concernono: in primo luogo la determinazione delle modalità di calcolo della superficie minima da garantire ad ogni detenuto nella cella di assegnazione, e, in secondo luogo, la possibilità di compensare l’eventuale limitatezza dello spazio con altri fattori ambientali che rendano il trattamento detentivo nel suo complesso conforme agli standard convenzionali.

Brevemente gli elementi relativi alla fattispecie oggetto del ricorso.

La vicenda origina da un reclamo ai sensi dell’art. 35-ter Ord. Pen. con il quale il detenuto lamentava aver sofferto un trattamento detentivo contrario al senso di umanità, in violazione dell’art. 3 della CEDU, deducendo l’insufficienza dello spazio disponibile in cella.

Il magistrato di sorveglianza, accoglieva parzialmente il reclamo, con attribuzione della somma di 4568 euro a titolo risarcitorio - sulla considerazione che il detenuto, nella cella cui era stato assegnato in determinate strutture, per un periodo pari a 571 giorni, aveva potuto disporre di uno spazio minimo individuale sempre inferiore a 3 metri quadrati, al netto dello spazio occupato dai servizi igienici e dagli arredi fissi o non immediatamente rimuovibili (quali il letto e gli armadi).

Con riferimento alla detenzione espiata presso altro istituto, il trattamento inumano e degradante veniva identificato nell’assenza di riservatezza nell’uso del servizio igienico in dotazione nella stanza condivisa con altri detenuti (WC alla turca separato da una porta di plastica trasparente).

Il tribunale di sorveglianza di l’Aquila respingeva l’impugnazione proposta dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), confermando il primo provvedimento, ritenendo che il Magistrato avesse fatto corretta applicazione dei criteri fissati dalla Corte di cassazione e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU).

Ricorreva per cassazione il Ministero della Giustizia - DAP - lamentando violazione di legge e non corretta interpretazione della normativa di cui agli artt. 35 e segg. Ord. Pen., anche in relazione ai principi espressi sul punto dalla Corte EDU. In particolare, l’Amministrazione deduceva l’erroneità del criterio applicato dal tribunale di sorveglianza che aveva quantificato lo spazio minimo disponibile per ciascun detenuto al netto, non soltanto dell’area occupata dai servizi igienici ma anche di quella occupata dai mobili fissi o non immediatamente rimuovibili dalla cella, discostandosi così da quanto affermato dalla Grande Camera della Corte EDU (Corte EDU, 20 ottobre 2016, Muršic c. Croazia) che, invece, ha previsto detto computo al lordo del mobilio, soluzione, ad avviso del ricorrente, da ritenersi vincolante per i giudici nazionali.

La decisione assunta nel provvedimento impugnato, inoltre, peccherebbe di ragionevolezza, laddove aveva trasformato, in senso negativo, quale indice di disumanità della carcerazione, la comodità offerta al detenuto dagli arredi presenti nella cella.

La Prima Sezione penale, investita del ricorso, dopo aver richiamato le più recenti pronunce di legittimità e della Corte EDU sul punto, evidenziava come nella giurisprudenza della Corte di cassazione si registrassero differenti linee interpretative.

Da qui la rimessione al Supremo consesso sulla base dei seguenti quesiti (ord. n. 14260 del 21/02/2020):

«Se, in tema di conformità delle condizioni di detenzione all’art. 3 CEDU come interpretato dalla Corte EDU, lo spazio minimo disponibile di tre metri quadrati per ogni detenuto debba essere computato considerando la superficie calpestabile della stanza ovvero solo quella che assicuri il normale movimento, conseguentemente detraendo gli arredi tutti senza distinzione ovvero solo quelli tendenzialmente fissi e, in particolare, se, tra questi ultimi, debba essere detratto il solo letto a castello ovvero anche quello singolo»;

«Se i cosiddetti fattori compensativi (breve durata della detenzione, sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella, dignitose condizioni carcerarie), rilevino, al fine di escludere la violazione dell’art. 3 CEDU, anche nel caso di spazio comunque inferiore a quello minimo di tre metri quadrati ovvero solo quando detto spazio sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati».

La presente analisi si concentrerà esclusivamente sulla prima delle due questioni rimesse, in quanto dall’informazione provvisoria della decisione resa, non risulta la soluzione adottata dalla Corte con riferimento alla seconda.

2. La peculiare formulazione del precetto contenuto nell’art. 35-ter ord. pen.

Nell’esporre la questione decisa dalle Sezioni Unite, appare utile prendere le mosse da una breve analisi del dato normativo di riferimento, in quanto l’interpretazione accolta ne perimetra direttamente l’ambito di applicazione.

Con il decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92 convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 117, il Governo - in riposta alle vincolanti sollecitazioni della Corte EDU nella nota sentenza 8/01/2013, Torreggiani ed altri c. Italia - ha introdotto nell’ordinamento penitenziario l’art. 35-ter che disciplina rimedi specificamente diretti a riparare il pregiudizio derivante a detenuti ed internati da condizioni detentive contrarie all’art. 3 della CEDU. Nello specifico, l’art. 35-ter prevede due tipologie di rimedi compensativi. Il primo (disciplinato nei commi 1 e 2) è destinato ai detenuti e agli internati che abbiano patito un pregiudizio grave ed attuale ai propri diritti, in conseguenza delle condizioni detentive. Costoro possono rivolgersi al magistrato di sorveglianza, al fine di ottenere una riparazione in forma specifica, consistente in uno ‘sconto’ della pena ancora da espiare, pari ad 1 giorno ogni 10 giorni di pregiudizio subito, o, in alternativa - nel caso in cui il pregiudizio sia stato inferiore ai 15 giorni o nel caso in cui lo ‘sconto’ sia maggiore del residuo di pena - un risarcimento in forma monetaria, pari a 8 euro per ogni giorno di pregiudizio subito.

Il secondo (disciplinato nel comma 3) si rivolge a coloro che abbiano terminato di scontare la pena detentiva o abbiano subito il pregiudizio durante un periodo di custodia cautelare non computabile nella pena da espiare. In questo caso, i soggetti possono rivolgersi, entro sei mesi dalla cessazione della pena detentiva o della custodia cautelare, al tribunale civile, al fine di ottenere, secondo le forme del procedimento ex art. 737 c.p.c., un risarcimento in forma monetaria, sempre nella misura di 8 euro per ogni giorno di pregiudizio subito.

L’essenziale caratteristica della disposizione è di aver innovativamente introdotto rimedi di tipo compensativo/risarcitorio, con estensione dei poteri di verifica e di intervento del magistrato di sorveglianza, allo scopo di rafforzare gli strumenti tesi alla riaffermazione della legalità della detenzione; si tratta, in sostanza, di misure che rappresentano un quid pluris rispetto al previgente sistema di tutele - essenzialmente incentrato sul potere del magistrato di sorveglianza di inibire la prosecuzione dell’attività contra legem - in ottemperanza al monito derivante dalla Corte EDU di introdurre ricorsi tali «che le violazioni dei diritti tratti dalla Convenzione possano essere riparate in maniera realmente effettiva» (Corte EDU, 8/01/2013, Torreggiani ed altri c. Italia, §98). È importante precisare come suddette nuove misure, a differenza dei rimedi preventivi di cui all’art. 35-bis ord. pen., non siano esperibili avverso una qualsiasi violazione dei diritti del soggetto detenuto, ma esclusivamente in caso di violazioni di tale entità da comportare la compromissione del diritto a condizioni detentive non inumane né degradanti (secondo l’interpretazione dell’art. 3 della Convenzione Europea realizzata nelle decisioni della Corte EDU) protrattesi per almeno 15 giorni (cfr. Sez.1, n. 20985 del 23/06/2020, Biondino, Rv. 279220; cfr., altresì, Sez. 1, n. 14258 del 23/01/2020, Inserra, Rv. 278898, che ha escluso dall’ambito di operatività dell’art. 35-ter ord. pen., la situazione di “mero disagio” collegata a contesti di vita intramuraria poco confortevoli o alla necessità di subire, per periodi non prolungati, disagi non previsti, né prevedibili, la cui rimozione richiede tempi di intervento non sempre programmabili).

Utilizzando un’originale tecnica di formulazione normativa, il legislatore ha individuato il pregiudizio risarcibile ai sensi dell’art. 35-ter nel fatto di aver subito «condizioni di detenzione tali da violare l’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».

Di conseguenza, il contenuto precettivo della norma è determinato per relationem, tramite un meccanismo di rinvio mobile, agli indirizzi interpretativi elaborati dalla Corte EDU sull’art. 3 della Convenzione, proprio in quanto, secondo il sistema della CEDU, le sentenze e le decisioni della Corte hanno il compito non solo di dirimere le cause di cui essa è investita, ma, in modo più ampio, anche di chiarire, salvaguardare e approfondire le norme della Convenzione, svolgendo, quindi, un ruolo chiave nella definizione e concretizzazione dei diritti e delle libertà elencati (generalmente con formule aperte) nel testo (cfr. art. 32 CEDU).

Ed invero, si tratta del primo caso di espressa integrazione diretta del sistema normativo interno ai contenuti della giurisprudenza sovranazionale, elevati a parametro normativo in subiecta materia, vincolante erga omnes per l’interpretazione e qualificazione della condotta (Sez. 1, n. 52819, 09/09/2016, Sciuto, RV 268231; Sez. 1, n. 40520 del 17/11/2016, dep. 06/09/2017, Triki; Sez. 1, n. 13378 del 10/10/2017, dep. 22/03/2018, Peciccia e, più di recente, Sez. 1, n. 17656 del 12/02/2020, Skripeliov).

In base a tale scelta legislativa, pertanto, gli orientamenti tratti dalle pronunce della Corte EDU non assolvono all’ordinaria finalità di orientamento sul modus interpretativo della disposizione, cui sono ordinariamente tenuti i giudici nazionali in virtù dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali riconosciuti dal nostro ordinamento (art. 117, comma 1, Cost.; Corte cost., sent. n. 348 e n. 349 del 2007; n. 68 del 2017; n. 49 del 2015; n. 276 del 2016; n. 36 del 2016), ma, tramite suddetta clausola di rinvio formale, fanno ingresso nell’ordinamento quale fonte cui è demandata la determinazione della fattispecie.

E, poiché oggetto della verifica ai sensi dell’art. 35-ter, non è tanto la singola condotta del titolare del potere di “regolamentazione” della vita del soggetto recluso, quanto piuttosto le caratteristiche dell’offerta trattamentale da parte dell’Amministrazione penitenziaria in relazione al particolare vissuto dell’interessato (Sez., 1, n. 17655 del 17/02/2020, Trapani, Rv. 279186; Corte EDU, Grande Camera 28/02/2008, Saadi c. Italia, § 134, 135), ciò impone, al giudice interno, la costante conoscenza degli arresti della Corte EDU sul tema in questione.

È da puntualizzare come la peculiarità della previsione contenuta nell’art. 35-ter non consista nell’aver introdotto nell’ordinamento nazionale un nuovo diritto ed un nuovo illecito nell’ipotesi di relativa violazione: la ratifica con legge ordinaria della Convenzione europea ha recepito nel sistema interno sin dal 1955 il divieto di trattamenti inumani o degradanti - peraltro, già sancito in modo analogo nell’art. 27, comma 3, della Carta Costituzionale la cui violazione costituiva un danno ingiusto risarcibile, in base alla normativa vigente, dalla giurisdizione civile (Corte Cost., sent. n. 233 del 2003; cfr., ex pluribus, Sez. 1, n. 4772 del 15/01/2013, Vizzari: «…in materia risarcitoria ed indennitaria il sistema normativo prevede in via generale la sua attribuzione alla giurisdizione civile...»; per quanto riguarda la giurisprudenza civile, cfr. Sez. 6 - L, n. 29206 del 12/11/2019, Rv 655757; Sez. 3, n. 26367 del 16/12/2014, Rv. 633919; Sez. 3, n. 8827 del 31/05/2003, Rv. 563835). In altri termini, la novella del 2014 ha inciso non sulla fonte dell’obbligo di riparazione (che resta la Convenzione europea), né sulla esistenza del diritto (riconosciuto anche in Costituzione), quanto sulla conformazione della tutela offerta dal sistema che ha previsto una disciplina sui generis che viene, pertanto, a sostituirsi a quella ordinaria civilistica (Sez. 1, n. 43722 del 11/06/2015, Salierno).

In definitiva, la violazione del diritto individuale, riconosciuto in modo assoluto sia dalla Convenzione EDU che dalla Costituzione, a non subire, nel corso dell’esecuzione di una misura restrittiva, trattamenti contrari al senso di umanità (Corte EDU, 15/11/1996, Chahal c. Regno Unito, §79; Corte EDU, Grande Camera, 28/02/2008, Saadi c. Italia, § 127; cfr. Sez. 1 n. 17656 del 12/02/2020, Skripeliov) costituisce, ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen., titolo per ottenere, da un lato e in via prioritaria, la riduzione della pena ancora da espiare, e dall’altro una “riparazione” economica, in favore di colui che subisce le conseguenze della violazione, al di là della rimozione del fatto da cui deriva la lesione.

Alla luce di quanto premesso, allora, è centrale la ricostruzione sistematica della evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU rispetto alla nozione di detenzione in condizioni disumane e degradanti, con specifico riferimento al profilo dello spazio minimo da assicurare al detenuto all’interno della cella, e del rilievo che tale elemento spaziale assume ai fini dell’accertamento della violazione dell’art. 3 CEDU. Ciò in quanto i principi sovranazionali integrano la fattispecie di cui all’art. 35-ter in chiave sincronica (attribuendo al testo uno dei possibili significati alternativi possibili) e diacronica (riconducendo entro i confini della norma diritti e garanzie originariamente non riconosciuti).

3. Lo spazio minimo detentivo secondo il diritto positivo.

Non esistono norme che definiscano lo spazio minimo da garantire alle persone ristrette in carcere.

Né a livello internazionale, né a livello di legislazione interna sono precisati gli standard metrici di superficie degli ambienti detentivi o gli indici di densità/affollamento della popolazione reclusa (così, Sez. 1, 27/11/2014, n. 53011, Vecchina, Rv. 262352; Sez. 1, n. 5728 del

19/12/2013, dep. 2014, Berni, Rv. 257924).

Le Nelson Mandela Rules, adottate in ambito ONU nel 2015 (UNGA Resolution, A/ Res/70/175, 8 gennaio 2016); la Raccomandazione n. 22 del 1999 sul sovraffollamento carcerario (Recommendation No . R (99)22 of the Committee of Ministers to Member States concerning Prison Overcrowding and Prison Population Inflation, 30 settembre 1999) e le European Prisons Rules del Consiglio d’Europa aggiornate l’1 luglio 2020, fissano esclusivamente principi generali sulle condizioni carcerarie e sul trattamento penitenziario, ma non danno indicazioni sulle dimensioni dei locali di detenzione.

Nemmeno il testo della Convenzione EDU contiene disposizioni in tema di superficie minima delle celle: la questione del sovraffollamento carcerario è stata approfonditamente analizzata dalla Corte EDU alla luce del divieto posto dall’art. 3 che, appunto, impone agli Stati il divieto di tortura e di pene o trattamenti disumani o degradanti. Ebbene, i giudici di Strasburgo, nel corso degli anni, hanno operato una interpretazione evolutiva di tale disposizione, giungendo a specificare, mediante plurimi arresti, quando le condizioni di detenzione e, per quel che qui interessa, il sovraffollamento carcerario, possono integrare gli estremi di un trattamento inumano o degradante.

Parametri più precisi, ancorché giuridicamente non vincolanti, provengono dal Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), ovvero il Comitato istituito dalla Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Ebbene, nel 2015 il CPT ha individuato quali auspicabili minimum standard delle dimensioni delle celle 6 mq per una cella singola e 4 mq per ogni detenuto in una cella multipla (sanitari esclusi). Non si tratta comunque di standard assoluti: da un lato, la deviazione dai suddetti parametri può essere compensata da “fattori allevianti”, tra cui, in particolare, la possibilità di svolgere attività all’esterno della cella; dall’altro lato, il Comitato incoraggia gli Stati membri del Consiglio d’Europa ad applicare più elevati desirable standard in materia.

A livello nazionale, l’art. 6 ord. pen. e il corrispondente art. 6 del d. P. R. 30 giugno 2000, n. 230 (cd. Regolamento Penitenziario) costituiscono le norme di riferimento in merito alle caratteristiche generali dei locali di detenzione. Ebbene, l’art. 6 ord. pen. prevede, al comma primo, che «i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti devono essere di ampiezza sufficiente...» e, al comma secondo, che «i locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti». La disposizione dell’art. 6 reg. pen, dal canto suo, specifica ulteriormente le caratteristiche igieniche e di illuminazione dei locali destinati al soggiorno dei detenuti e delle camere di pernottamento. Le ulteriori norme pertinenti alla tematica della recettività carceraria, quali l’art. 5 ord. pen. («gli istituti penitenziari devono essere realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati»), l’art. 14 ord. pen. («il numero dei detenuti e degli internati negli istituti e nelle sezioni deve essere limitato e, comunque, tale da favorire l’individualizzazione del trattamento»), l’art. 7 reg. pen. («I servizi igienici sono collocati in un vano annesso alla camera»), nulla aggiungono in termini di individuazione dell’ampiezza delle celle e degli altri locali.

In sostanza, le disposizioni, rimandando a concetti di “adeguatezza” e “sufficienza” degli spazi, si richiamano a criteri di normalità che rinviano, per la loro traduzione in pratica, ad un metro di natura metagiuridica, da desumersi in relazione agli avanzamenti dei livelli di vita raggiunti dalla società esterna.

In termini generali, i parametri di igiene edilizia per le strutture penitenziarie sono desunti da quelli previsti per le civili abitazioni.

Con particolare riferimento alle dimensioni dei locali destinati al pernottamento di cui all’art. 6 ord. pen., il criterio adottato dall’Amministrazione penitenziaria sin dal 1988 (circolare 17 novembre 1988) è quello stabilito per le stanze da letto delle civili abitazioni da un decreto del Ministero della sanità, 5 luglio 1975, per il quale la superficie, nel caso di stanza singola, non può essere minore di 9 mq e per le multiple sono previsti 5 mq aggiuntivi per ciascuna persona. Ebbene, sulla base della disponibilità del parametro dei 9 mq per persona, l’Amministrazione calcola la cd. capienza regolamentare degli istituti penitenziari, dalla quale, inoltre, è stata ricavata la discussa cd. capienza tollerabile, individuata, orientativamente, nel doppio della prima.

La criticità del ricorso a tali misure emerge sotto un duplice profilo.

Da un lato, tali metrature sono state, appunto, pensate per vani destinati al mero pernottamento all’interno delle abitazioni e, pertanto, mal si attagliano per locali destinati a soddisfare le esigenze della vita individuale di persone che condividono la stessa cella per diverse ore della giornata, anche in occasione della consumazione dei pasti, come avviene nella quotidiana realtà di numerosi istituti penitenziari.

Dall’altro, si è osservato, tali criteri, formalmente più elevati rispetto agli indici sopranazionali sopraindicati, hanno comportato una penalizzazione dell’Italia nei contesti internazionali, in ragione dei dati sul livello di sovraffollamento dalla stessa comunicati. Ed allora, da tempo, si auspica l’adozione di canoni diversi.

Accanto alla introduzione e diffusione di un differente modello di organizzazione della vita all’interno del carcere (la cd. sorveglianza dinamica) - al fine di estendere in modo significativo le ore di apertura delle celle, da destinarsi di regola al solo pernottamento (Circolari DAP n. 3649/6099 del 22/07/2013 e n. 3663/6113 del 23/10/2015.), si sollecita la precisazione da parte del legislatore, ad integrazione delle disposizioni dell’ordinamento penitenziario, di una soglia inderogabile quale capienza costituzionale, ovvero uno spazio vitale incomprimibile, che si concili con il senso di umanità e la funzione rieducativa della pena cui lo spazio in cella deve essere strumentale, in attuazione dell’art. 27 della Costituzione.

4. I principi espressi dalla Corte EDU.

Sin dalle prime applicazioni del nuovo istituto di cui all’art. 35-ter ord. pen., la Corte di legittimità è intervenuta per “estrarre” dalla sequenza delle mutevoli decisioni emesse dalla Corte di Strasburgo, caratterizzate da un approccio prettamente casistico, talune linee ricostruttive sistematiche, al fine di comporre un quadro il più possibile razionale, riconoscibile ed aderente alle direttive imposte dalla stessa Corte EDU all’Italia con la nota decisione Torreggiani c. Italia, in punto di adeguatezza del trattamento ed effettività della tutela dei diritti delle persone recluse.

È da ricordare, inoltre, come l’inosservanza dei criteri elaborati dalla Corte sovranazionale, afferenti alle modalità di computo dello spazio vitale minimo per le persone ristrette, venga ricondotta al vizio di violazione di legge deducibile in sede di legittimità, ai sensi della disciplina generale, stabilita dall’art. 35-bis, comma 4-bis ord. pen. (tra le numerose, cfr. Sez. 1, n. 14878 del 27/04/2020, Giardini; Sez. 1, n. 14877 del 27/04/2020, Gattuso; Sez. 1, n. 1234 del 06/03/2020, Derbali; Sez. 1, n. 26097, 26/02/2018, Li Causi; Sez. 1, n. 17656 del 12/02/2020, Skripeliov; Sez. 1, n. 3291 del 03/12/2019, dep. 2020, Risalvato; Sez. 1, n. 35537 del 30/05/2019, Fragalà, Sez. 1, n. 13378 del 10/10/2017, dep. 22/03/2018, Peciccia; Sez. 1, n. 31475 del 15/03/2017, Zito; Sez. 2, n. 11980 del 10/3/2017, Mocanu, Rv. 269407; Sez. 1, n. 39294 del 3/07/2017, Marsala; Sez. 1, n. 39585 del 21/07/2017, Lecini; Sez. 1, n. 41211 del 26/05/2017, Gobbi, Rv. 271087; Sez. 1, n. 26357 del 9/09/2016, dep. 2017, Macrina).

Appare fondamentale, pertanto, procedere ad una breve ricognizione degli arresti della giurisprudenza della Corte EDU sulla questione in esame.

In diverse occasioni la Corte di Strasburgo si è pronunciata sulla conformità di determinate condizioni di detenzione rispetto alle disposizioni convenzionali, ed in particolar modo all’art. 3 CEDU, ispirandosi alla fondamentale considerazione che “justice cannot stop at the prison gate”, in base alla quale lo stato detentivo non comporta per il soggetto ristretto la perdita delle garanzie dei diritti affermati dalla Convenzione che, al contrario, assumono particolare rilevanza proprio a causa della situazione di particolare vulnerabilità in cui la persona versa e perché si trova interamente sotto la responsabilità dello Stato.

In merito alla situazione obiettiva di sovraffollamento carcerario, la Corte EDU, già nella sentenza 15/07/2002, Kalachnikov c. Russia, ha precisato che tale fenomeno pone di per sé un problema sotto il profilo dell’art. 3 CEDU.

Ed invero, lo spazio che deve essere attribuito a ciascun detenuto è stato oggetto di crescente attenzione da parte della Corte di Strasburgo, le cui pronunce, tuttavia, non hanno seguito un percorso sempre lineare ed univoco, l’estrema esiguità della cella carceraria diventa l’elemento chiave di cui tenere conto al fine di stabilire se le condizioni di detenzione siano contrarie all’articolo 3 CEDU. In particolare, in un alto numero di casi, la Corte ha determinato in 3 mq di superficie calpestabile (floor space) il criterio minimo applicabile in materia di spazio personale per i detenuti in una cella collettiva.

Nel caso Corte EDU, 6/11/2009, Sulejmanovic c. Italia, la Corte ha consolidato quest’ultima giurisprudenza giungendo a costruire una sorta di automatismo di violazione dell’art. 3 CEDU in caso di mancato rispetto del parametro dei 3 mq.

Secondo quest’ultima prospettiva, la detenzione in uno spazio inferiore ai 3 mq costituisce di per sé un trattamento disumano e degradante senza la necessità di considerare gli ulteriori fattori ambientali peggiorativi delle condizioni detentive.

A tal proposito, tuttavia, è interessante richiamare la dissenting opinion, allegata alla sentenza, del giudice Zagrebelsky che sottolinea come la prassi del Comitato di Prevenzione della Tortura (CPT) e gli stessi precedenti giurisprudenziali richiamati nella medesima pronuncia avrebbero dovuto portare ad escludere ogni automatismo circa la dimensione delle celle e la violazione della CEDU. Secondo il giudice, infatti, non sarebbe stato raggiunto il minimo di gravità necessario a integrare la violazione dell’art. 3 CEDU, non avendo il ricorrente denunciato nessun elemento diverso dall’insufficienza di spazio disponibile.

Dopo quattro anni, nella sentenza-pilota 8/01/2013 Torreggiani e altri c. Italia, la Corte EDU ha ribadito che quando il sovraffollamento carcerario raggiunge un certo livello, la mancanza di spazio in un istituto penitenziario - inferiore a 3 mq - «può costituire l’elemento centrale da prendere in considerazione nella valutazione della conformità di una data situazione all’articolo 3» CEDU (§67). Ebbene, nel caso all’esame, la Corte ha rilevato che i ricorrenti disponevano di uno spazio vitale di 3 mq, osservando che tale spazio era ulteriormente ridotto dalla presenza di mobilio nelle celle.

È da puntualizzare, tuttavia, che nella fattispecie il parametro di raffronto utilizzato per l’individuazione di tale spazio è costituito dal minimo comun denominatore di 4 mq emergente dai diversi rapporti del CPT. Ed infatti, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che i ricorrenti non avessero beneficiato di uno spazio vitale conforme ai criteri ritenuti accettabili secondo la loro giurisprudenza, rammentando «che in questo contesto la norma in materia di spazio abitabile nelle celle collettive raccomandata dal CPT è di quattro metri quadrati» (§76).

Ulteriore dato messo in evidenza nel caso all’esame della Corte è che la grave insufficienza di spazio abitativo riscontrata - ritenuta già di per sé trattamento contrario alla Convenzione - era stata “ulteriormente aggravata” da altre negative condizioni di detenzione (quali, l’assenza di acqua calda e l’inadeguatezza nel sistema d’illuminazione e di ventilazione) che avevano causato ai ricorrenti addizionali sofferenze (§77).

Quasi contemporaneamente, peraltro, Corte EDU, 5/03/2013, Tellissi c. Italia ha affermato che, mentre una situazione di grave sovraffollamento (quando lo spazio accordato è inferiore a 3 mq.) è sufficiente per concludere per la violazione dell’art. 3 della CEDU, uno spazio personale inferiore a quello ritenuto auspicabile dal CPT per le celle collettive (4 m²), non può da solo costituire una violazione di tale disposizione, richiedendosi, pertanto, la valutazione di altri aspetti inerenti alle modalità di esecuzione della misura restrittiva, al fine di accertare il rispetto o meno della Convenzione (§ 51).

Ed ancora, a conferma delle incertezze derivanti dalle soluzioni non univoche accolte dalla Corte EDU in tema di spazio minimo vitale nelle celle, è da ricordare la sentenza-pilota 10/01/2012, Ananyev e altri c. Russia, adottata in relazione alle condizioni delle carceri in Russia.

Ebbene, in tale pronuncia la Corte abbandona il criterio geometrico puro ed individua una griglia di tre fattori che devono contemporaneamente sussistere per valutare la conformità delle condizioni di detenzione con la CEDU, ovvero: 1) ogni detenuto deve avere un posto individuale per dormire nella cella; 2) ogni persona ristretta deve poter disporre di almeno 3 mq. di superficie; 3) la superficie complessiva deve essere tale da permettere ai detenuti di muoversi liberamente fra gli arredi.

A differenza delle pronunce che si inscrivono nel filone della soluzione interpretativa accolta nella sentenza Sulejmanovic, nel caso Ananyev la Corte chiarisce che la mancanza di anche uno degli elementi sopraindicati non determina automatica violazione dell’art. 3, ma crea una forte presunzione che le condizioni di detenzione integrino un trattamento degradante che, pertanto, lascia allo Stato la possibilità di confutazione in base ad altri elementi compensativi.

La sentenza Corte EDU, Grande Camera, 20/10/2016 Muršic c. Croazia rappresenta allo stato un fondamentale punto di riferimento in merito alla questione in esame.

Con tale pronuncia la Grande Camera - seppure non all’unanimità - muovendo dai principi fissati nella sentenza Ananyev, ha approfondito e chiarito la propria posizione sull’area minima da garantire a ogni detenuto e sugli indici di accertamento della violazione dell’articolo 3 CEDU. In primo luogo, la Grande Camera conferma il requisito dei 3 mq di superficie calpestabile per detenuto in una cella collettiva come standard minimo.

In merito, la Corte precisa di non dover adottare gli indici delineati dal CPT, sottolineando la differenza concettuale del proprio ruolo rispetto a quello affidato al suddetto organismo. Il CPT opera in funzione preventiva, che tende per sua stessa natura verso un grado di protezione più elevato rispetto a quello che applica la Corte, allorquando statuisce sulle concrete condizioni di detenzione di un richiedente ed è incaricata di verificare giudiziariamente se determinati casi violino il divieto assoluto di torture di trattamenti inumani o degradanti posti dall’articolo 3 della Convenzione.

In secondo luogo, la Corte chiarisce l’approccio da seguire nell’acclarare la violazione dell’art. 3 CEDU per manifesta esiguità dello spazio personale accordato al detenuto. Secondo la Corte, la valutazione della compatibilità con la CEDU delle condizioni di detenzione non può ridursi al calcolo geometrico dei metri quadri assegnati ai reclusi (§123). Ne discende che la costrizione di un detenuto in uno spazio inferiore a 3 mq in una cella collettiva fa nascere una “forte presunzione” di violazione dell’art. 3 CEDU (§124). La “forte presunzione” di violazione non è quindi inconfutabile, integrando piuttosto una praesumptio iuris tantum. Di conseguenza, lo Stato convenuto avrà la possibilità di dimostrare in modo convincente (convincingly) l’esistenza di fattori che, cumulativamente, siano in grado di compensare la mancanza di spazio vitale, ovvero: a) la brevità, l’occasionalità e la modesta entità della riduzione dello spazio personale; b) la sufficiente libertà di movimento e lo svolgimento di attività all’esterno della cella; c) l’adeguatezza della struttura, in assenza di altri aspetti che aggravino le condizioni generali di detenzione del ricorrente (§126, 135 e 138).

Quando, invece, lo spazio personale in una cella collettiva si attesta tra i 3 e i 4 mq, il fattore spaziale rimane un elemento che influisce pesantemente sulla conformità delle condizioni di detenzione alla Convenzione ma, in tal caso, sussiste violazione dell’art. 3 CEDU solo se l’esiguità della superficie si affianca ad altri fattori d’inadeguatezza del regime penitenziario (impossibilità di fare esercizio all’aria aperta e di avere accesso alla luce naturale e all’aria, insufficiente sistema di riscaldamento, non rispetto di basilari requisiti igienico-sanitari, ecc.) (§139).

Infine, quando la persona ristretta ha a disposizione più di 4 mq, non sorge una questione di spazio personale ma altri aspetti relativi alle condizioni materiali di detenzione possono rilevare per riconoscere l’eventuale violazione dell’art. 3 CEDU (§140).

Nel caso di specie, la Corte ha rilevato violazione dell’art. 3 CEDU con riferimento ad un periodo di ventisette giorni consecutivi in cui il ricorrente aveva fruito di uno spazio inferiore a 3 mq.

In assenza di elementi necessari a rovesciare la “strong presumption”, i giudici hanno concluso che «the conditions of the applicant’s detention subjected him to hardship going beyond the unavoidable level of suffering inherent in detention and thus amounting to degrading treatment prohibited by Article 3 of the Convention» (§ 153).

Invece, con riferimento ai periodi non consecutivi (della durata al massimo otto giorni) che il ricorrente ha trascorso in uno spazio personale inferiore ai 3 mq, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto di minore rilevanza l’assenza di spazio personale stante la breve durata.

Sempre con riferimento a questi ultimi periodi, ha valorizzato alcuni “fattori allevianti”, portati alla sua attenzione dal Governo (libertà di movimento fuori dalla cella, attività svolte all’aperto, condizioni generali della detenzione) e ha, dunque, escluso la violazione dell’art. 3 CEDU, in ragione del fatto che il regime detentivo non aveva raggiunto la soglia di gravità richiesta per riscontrare una violazione della CEDU. Anche per quanto riguarda i periodi in cui il ricorrente ha occupato una cella condivisa con altri avendo a disposizione uno spazio personale compreso tra 3 e 4 mq, la Corte ha valorizzato i medesimi “fattori allevianti”, concludendo per l’insussistenza della violazione dell’art. 3 CEDU.

In termini generali, pertanto, si può affermare come la Grande Camera opti per una valutazione multifattoriale e cumulativa delle concrete condizioni detentive in cui anche il dato temporale gioca un ruolo rilevante, specialmente se il detenuto ha subito condizioni di ristrettezza per periodi non consecutivi. Da ricordare, infatti, che nel caso Corte EDU, 17/10/2013, Belyayev v. Russia, la Corte ha escluso che 26 giorni consecutivi espiati in uno spazio di poco inferiore ai 3 mq. (2,97 al lordo) avessero raggiunto quella soglia di gravità da integrare la violazione dell’art. 3 CEDU, in presenza di altri aspetti trattamentali allevianti.

È da ricordare, tuttavia, che la soprarichiamata decisione della Grande Camera Muršic c. Croazia non è stata adottata all’unanimità rispetto alla valutazione dei periodi non consecutivi, in cui il ricorrente è stato ristretto in una cella delle dimensioni inferiori a 3 mq. (su diciassette giudici, dieci hanno votato a favore della non sussistenza della violazione dell’art. 3 CEDU), e in una cella compresa tra i 3 e i 4 mq (tredici giudici a favore e quattro contrari in merito alla non sussistenza della violazione dell’art. 3 CEDU), così pure con riferimento al valore da riconoscere agli standard CPT (tre giudici hanno espresso dissenso rispetto alla maggioranza).

Si potrebbe, pertanto, osservare come le numerose opinioni dissenzienti allegate alla sentenza, pur non intaccandone il valore di precedente, mettano in qualche misura in dubbio che la sentenza Muršic costituisca la tappa definitiva nell’evoluzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani in tema di spazio detentivo minimo da accordare ai soggetti reclusi.

Con riferimento alla modalità di calcolo dello spazio disponibile in cella, la Grande Camera condivide il metodo utilizzato dal CPT, ovvero la superficie al netto dei servizi igienici ma comprensiva degli arredi, senza distinzione. Ciò che è importante in tale accertamento, sottolinea la Corte, è verificare se i detenuti abbiano o meno la possibilità di muoversi normalmente all’interno della cella («detainees had a possibility to move around within the cell normally»; «détenus avaient la possibilité de se mouvoir normalement dans la cellule» (§ 114). Tale interpretazione viene accolta anche nelle sentenze successive al caso Muršic, tanto da potersi affermare di essere in presenza di una giurisprudenza consolidata (Cfr. Corte EDU, sentenza-pilota 25/04/2017, Rezmivese e altri c. Romania (§77): «77. La Cour a récemment confirmé que l’exigence de 3 m² de surface au sol par détenu (incluant l’espace occupé par les meubles, mais non celui occupé par les sanitaires) dans une cellule collective doit demeurer la norme minimale pertinente aux fins de l’appréciation des conditions de détention au regard de l’article 3 de la Convention» (Muršic, précité, §§ 110 et 114); Corte EDU, 16/05/2017, Sylla e Nollomont c. Belgio, §27; Corte EDU, 30/01/2020, J.M.B. et autres c. France, §147).

Alla luce di tale linea interpretativa, pertanto, la Corte europea pare non attribuire rilievo autonomo al volume occupato dalla mobilia, e, di conseguenza, di non preoccuparsi della relativa quantificazione e scomputo ai fini dell’individuazione dello spazio dei 3 mq, quale spazio minimo disponibile netto, dando per scontata la presenza di arredo e valorizzando, appunto, la verifica della effettiva possibilità di libero movimento del soggetto all’interno della cella.

In diverse decisioni, peraltro, l’assenza di appropriato arredamento in cella è stata valutata congiuntamente ad altri elementi ai fini dell’accertamento della violazione dell’art. 3 della Convenzione, in considerazione del fatto che il mobilio rappresenta un elemento di conforto per il soggetto ristretto (Corte EDU, 1/04/2014, Enache v. Romania, §50: «The Court has found that the following conditions of detention raise an issue under Article 3 of the Convention: lack of appropriate furniture in the cells,.); Corte EDU, 14/12/2017, Varga and others v. Romania)».

Precedentemente alla pronuncia della Grande Camera nel caso Muršic c. Croazia, la giurisprudenza della Corte EDU si è manifestata alquanto ambigua, non avendo chiarito il metodo di calcolo da utilizzare.

A titolo esemplificativo, in alcune sentenze, il computo dello spazio pro-capite non tiene affatto conto dei mobili (Corte EDU, 16/07/2009, Sulejmanovic c. Italia, §44; Corte EDU, 22/04/2014, C.G. c. Italia § 81, 82; Corte EDU 22/10/2009, Norbert Sikorski c. Polonia, §134, 135; Corte EDU, 8/07/2014, Dulbastru c. Romania, § 34); in altri casi, la Corte europea afferma genericamente di prendere in considerazione la restrizione dello spazio effettivo a causa degli arredi (Corte EDU, 10/03/2015, Varga e altri c. Ungheria, §87; Corte EDU, 8/01/2013 Torreggiani e altri c. Italia, §75); resta poi isolata una pronuncia che ha escluso solo lo spazio dei letti, ma non quello degli altri mobili, senza alcuna spiegazione (Corte EDU, 1/04/2014, Enache c. Romania §54).

Tuttavia, dall’esame delle sentenze, pare potersi affermare che, anche nei casi in cui la restrizione dello spazio dovuta agli arredi è stata presa in considerazione, tale elemento è stato utilizzato essenzialmente per rimarcare l’estrema gravità di una già rilevata scarsità di spazio disponibile, ulteriormente aggravata, ma non “prodotta”, appunto, dell’ingombro dei mobili (Corte EDU, 10/01/2012, Ananyev e altri c. Russia; 20/01/2011 Petrenko c. Russia, §39; 26/11/2013, Cojoaca c. Roumanie, §33; Corte EDU, 22/10/2009, Orchowki C. Polonia, §145; Corte EDU, 4/05/2005, Kadikis c. Lettonie No 2), §52).

Nel caso Muršic c . Croazia, la Grande Camera non pare interessata a predeterminare un rigido meccanismo di calcolo dello spazio fruibile in cella, ma dopo aver indicato come basilare la disponibilità minima di 3 mq. floor space, inclusi i mobili, aggiunge, ad integrazione del criterio metrico, un parametro che rimanda ad una valutazione complessiva del singolo caso, focalizzata sulla verifica della effettiva possibilità del libero movimento. Ed invero, con specifico riferimento alla fattispecie all’esame, pare significativo evidenziare che la Corte, ritenuta la insufficienza dello spazio minimo personale - pari a 2,62 mq per 27 giorni consecutivi - non prende in esame l’ulteriore profilo della agevole possibilità di spostamento all’interno della camera di detenzione, giungendo alla conclusione che tale situazione, protrattasi per un periodo ritenuto non breve, integrasse di per sé la violazione convenzionale (§146-151).

Nella rassegna degli orientamenti della Corte sovranazionale va, infine, citata la pronuncia della Grande Camera 16/12/2016, Khlaufia ed altri c. Italia che, in un caso proposto da cittadini extracomunitari trattenuti dopo lo sbarco illegale nel paese, che lamentavano trattamenti inumani e degradanti presso i centri di prima accoglienza ed a bordo delle navi che li avevano trasportati nelle quali erano stati costretti a permanere, nell’escludere la denunciata violazione dell’art. 3 della CEDU, ha espunto dal calcolo della superficie di cui il detenuto deve fruire all’interno della camera detentiva soltanto l’ingombro dei sanitari, riferendosi alla nozione di “spazio calpestabile” per individuare la soglia minima dei 3 mq per ogni singolo ristretto in una cella collettiva (§166).

In definitiva, pare potersi affermare che per i giudici di Strasburgo l’ingombro degli arredi non rilevi direttamente ai fini della preliminare quantificazione dello spazio fruibile nella camera detentiva, in quanto il computo avviene includendo l’arredo presente; quale criterio “importante” per la verifica della dedotta violazione dell’art. 3 CEDU viene prevista, a chiusura, la possibilità di muoversi liberamente tra gli arredi presenti in cella.

Ebbene, di non poco rilievo è la questione dell’interpretazione di tale clausola.

Da un lato, tale inciso potrebbe essere inteso quale clausola di salvaguardia, prevista dai giudici di Strasburgo, a tutela dei detenuti dal rischio di camere detentive che, pur soddisfacendo formalmente il requisito dei 3 mq di ampiezza lorda complessiva (al netto dell’area bagno), siano corredate di mobilia voluminosa, sproporzionata o di forma irregolare che di fatto renda lo spazio non vivibile. In altri termini, si tratterebbe di un criterio di ragionevolezza empirico che, posto ad integrazione del rigido criterio geometrico, valorizza il potere di valutazione del caso concreto da parte non solo dei magistrati di sorveglianza, quali magistrati di prossimità, ma anche della stessa Corte di Strasburgo.

Ed infatti il suddetto parametro, proprio per la sua elasticità, sarebbe consono al tipo di intervento svolto dalla Corte - chiamata a scrutinare, con riferimento a singoli e specifici casi, l’adeguatezza convenzionale del trattamento penitenziario offerto da Paesi che tuttora registrano realtà molto diverse - che, pertanto, evitando rigidi automatismi, consentirebbe un margine di apprezzamento flessibile in base alle peculiarità del caso in esame.

Secondo una diversa prospettiva “funzionale”, invece, tale clausola evoca l’esistenza di una porzione di superficie utile (floor space) che, al di là dell’esistenza delle quote di ingombro degli arredi, necessariamente presenti, consenta l’effettivo movimento libero, con quota minima, appunto, di 3 mq, il che pertanto escluderebbe di poter inglobare nel calcolo della stessa lo spazio occupato dagli arredi inamovibili, che assolvono a funzioni importanti ma diverse dal consentire il movimento. In base a quest’ultimo orientamento, pertanto, il criterio multifattoriale accolto dai giudici europei parrebbe interpretabile in chiave rafforzativa della tutela offerta al detenuto.

5. Le ragioni del contrasto.

All’indomani della sentenza-pilota Torreggiani c. Italia la giurisprudenza di legittimità ha da subito precisato come la quantificazione dello spazio minimo individuale in cella è materia affatto diversa dal computo della superficie degli immobili ai fini castali (Sez. 1, n. 53011, del 27/11/2014, Vecchina, RV 262352). Ma se indiscussa è la detraibilità dalla superficie complessiva dello spazio riservato ai servizi igienici - non solo in attuazione della chiara indicazione in tal senso proveniente dalla Corte EDU, ma anche alla luce del riferimento normativo nazionale, che espressamente li colloca in un vano distinto annesso alla camera (art. 7 Reg. Pen.) - in merito ai criteri di misurazione della camera detentiva, ovvero se al lordo o al netto degli arredi, la Sezione remittente registra un consapevole contrasto tra due distinti orientamenti.

In primo luogo, vengono richiamate decisioni, che, valorizzando la nozione di spazio minimo individuale come superficie materialmente calpestabile, hanno ritenuto che dalla superficie lorda della cella debba essere detratta l’area occupata dagli arredi, seppur con diversi distinguo. In particolare, la Sezione rimettente rileva come i più recenti arresti discriminino tra arredi non infissi al suolo e necessari alle primarie esigenze di alimentazione e riposo del detenuto, come il tavolo, le sedie e lo stesso letto singolo, i quali, per tale ragione, entrano nel calcolo dello spazio minimo da garantire a ciascun detenuto, e arredi assicurati stabilmente al pavimento o ai muri, come il letto a castello e anche gli armadi infissi al suolo o alle pareti, da escludere, invece, dal suddetto computo.

Diverso orientamento, invece, accogliendo la nozione di spazio minimo come superficie che assicuri il normale movimento nella cella, considera la superficie lorda senza scomputare né gli spazi occupati dai letti (siano o meno a castello), né quelli ove risultano allocati gli arredi (armadietti, comodini et similia), purché sia assicurata a ciascun detenuto la possibilità di muoversi normalmente nella cella.

6. Analisi degli orientamenti in campo.

6.1. Il calcolo dello spazio al netto degli arredi.

La ricostruzione esegetica dominante sulla nozione di “spazio minimo individuale” è dunque nel senso di spazio effettivamente fruibile dal singolo “nel quale deve essere consentito un movimento libero”; di conseguenza, come sopra evidenziato, la minima superficie intramurale da assicurare ad ogni detenuto nel rispetto dell’art. 3 della CEDU (individuata dalla Corte EDU in 3 mq), viene calcolata al netto non soltanto dell’area destinata ai servizi igienici ma di quella occupata dagli arredi, in ragione dell’ingombro che ne deriva (Sez. 1, n. 5728 del 19/12/2013, dep. 5/02/2014, Berni, Rv. 257924; Sez. 1, n. 5729 del 19/12/2013, dep. 05/02/2014, Carnoli; Sez. 1, n. 53011, del 27/11/2014, Vecchina, Rv. 262352).

All’interno della suddetta linea interpretativa si è consolidato l’orientamento che distingue gli arredi fissi da quelli facilmente amovibili (quali sedie, sgabelli o tavolini), circoscrivendo la detrazione alla “parte” di cella occupata (oltre che dal bagno) dagli arredi che costituiscono strutture fisse al suolo o alla parete, che, seppur necessari, assolvono a finalità diverse rispetto a quella del movimento del corpo nello spazio (Sez. 1, n. 52819, 09/09/2016, Sciuto, Rv. 268231; Sez. 1, n. 8568 29/10/2014, dep. 26/02/ 2015, Bauce; Sez. 1, n. 13378 del 10/10/2017, dep. 22/03/2018, Peciccia). Secondo tale impostazione «il “riposo” o l’attività “sedentaria” afferiscono a funzioni indubbiamente vitali; si tratta, tuttavia, di dinamiche organiche strutturalmente e fisiologicamente diverse dal movimento, che postula, infatti, per il suo naturale esplicarsi, uno spazio ordinariamente libero» (Sez. 1, n. 12338 del 17/11/2016, dep. 14/03/2017, Agretti).

Suddetto assetto interpretativo, si sottolinea, non solo è in linea con i principi giurisprudenziali sovranazionali che, appunto, valorizzano in chiave funzionale i criteri di computo dello spazio minimo, inteso, appunto, come spazio destinato al movimento (cfr. gli indici del cd. Ananyev test), ma, inoltre, trova chiaro riscontro nel concetto di “spazio calpestabile” (floor space) ripreso dalla Grande Camera nel caso Muršic c. Croazia (§110 e 114) e nel caso Khlaifia e altri c. Italia (§166) per indicare l’abitabilità intramuraria, che evoca, appunto, l’esistenza di una porzione di superficie utile che, al di là della esistenza di “quote di ingombro” su cui insistono elementi - come il letto, il bagno o gli armadi fissi - che assolvono ad altre funzioni pur essenziali, consenta il movimento agevole tra gli arredi residui e non solo di svolgere altre attività, intellettive o manuali, che pure implichino la stazione eretta o distesa.

In pratica, la tesi sostenuta da tale giurisprudenza maggioritaria intende adattare i contenuti delle sentenze emesse dalla Corte EDU a criteri ermeneutici che, senza intaccarne i passaggi argomentativi, siano capaci di compiere una attribuzione di valore alla ratio ispiratrice delle decisioni. In tale prospettiva, allora, gli elementi di arredo, non risultando fruibili per il movimento della persona (inteso anche come spazio libero da presenze o da ostacoli), non contribuiscono - nella dimensione di valore della nozione di spazio, non già in quella puramente metrica - a realizzare la condizione minima di vivibilità (così, Sez. 1, n. 35537 del 30/05/2019, Fragalà).

In sostanza, riprendendo quanto asserito da Sez. 1, n. 24092 del 17/11/2016, dep. 15/05/2017, Messana, “il rispetto della dignità umana postula la disponibilità di uno spazio in cui il soggetto detenuto abbia la possibilità di muoversi all’interno della cella. Ciò, pacificamente, non accade in quella “parte” di cella occupata dagli arredi fissi ingombranti e dal bagno”.

Come ulteriore argomentazione a riscontro viene richiamata la sentenza emessa nel caso Torreggiani ed altri contro Italia, sottolineando come, nel decidere quel caso, la CEDU abbia ritenuto che: a) lo spazio vitale individuale del Torreggiani e di altri due soggetti reclusi era pari a 3 metri quadri, osservando che tale spazio era ulteriormente ridotto dalla presenza di mobilio nelle celle (§70 e 75). Tale considerazione, pertanto, dimostrerebbe come la parte di superficie occupata dagli arredi fissi vada detratta dal computo dello spazio effettivo disponibile); b) la non conformità di tale condizione ai criteri giurisprudenziali ritenuti accettabili in sede di verifica del rispetto o meno dell’art. 3 CEDU, posto che lo spazio vitale nelle celle collettive ‘raccomandato’ dal CPT è di 4 mq. Di conseguenza, l’offerta di uno spazio ‘effettivo’ di movimento, inferiore alla soglia dei tre metri quadri non può essere accettabile (così, Sez. 1, n. 52992 del 09/09/2016, Gallo, Rv. 268655; si inscrivono sulla stessa linea, tra le numerose, Sez. 6, n. 15924 del 21/05/2020, Mokrzycki; Sez. 1, n. 14878 del 27/04/2020, Giardini; Sez. 1, n. 14877 del 27/04/2020, Gattuso; Sez. 1, n. 12344 del 06/03/2020, Derbali; Sez. 1, n. 16254 del 21/02/2020, D’Orto; Sez. 1, n. 16253 del 21/02/2020, Dessì; Sez. 1, n. 17656 del 12/02/2020, Skripeliov; Sez. 1, n. 15145 del 28/01/2020, Morabito; Sez. 1, n. 15144 del 28/01/2020, Franzé; Sez. 1, n. 3291 del 03/12/2019, dep. 2020, Risalvato; Sez. 1, n. 1786 del 30/10/2019, dep. 2020, Conti; Sez. 1, n. 51504 del 30/10/2019, Buscemi; Sez. 1, n. 46442 del 16/10/2019, Poretti; Sez. 1, n. 38933 del 25/06/2019, Formisano; Sez. 1, n. 3553 del 30/05/2019, Fragalà; Sez. 1, n. 15105 del 22/01/2019, Ciurlia; Sez. 1, n. 15554 del 23/01/2019, Inserra; Sez. 1, n. 12155 del 22/01/2019, Sarno; Sez. 1, n. 1269 del 20/12/2018, dep. 2019, Sacco; Sez. 1, n. 1268 del 20/12/2018, dep. 2019, Nobis; Sez.5, n. 53731 de. 07/06/2018, Lopane, Rv. 275407; Sez. 1, n. 41573 del 08/05/2018, Gallico; Sez. 1, n. 41572 del 08/05/2018, Caia; Sez. 1, n. 41571 del 08/05/2018, Gentile; Sez. 1, n. 41215 del 08/05/2018, Bracci; Sez. 5, n. 35828 del 23/03/2018, Collesano; Sez. 1, n. 16383 del 14/03/2018, Puccio; Sez. 1, n. 26099 del 26/02/2018, Rubino; Sez. 1, n. 26098 del 26/02/2018, Catania; Sez. 1, n. 26097 del 26/02/2018, Li Causi; Sez. 6, n. 55265 del 06/12/2017, Cercel; Sez. 6, n. 48433 del 17/10/2017, Sandu; Sez. 6, n. 47893 del 12/10/2017, Istrate; Sez. 1, n. 39585 del 21/07/2017, Lecini; Sez. 1, n. 7931 del 19/07/2017, dep. 19/02/2018, Campana; Sez. 1, n. 41211 del 26/05/2017, Gobbi, Rv. 271087; Sez. 1, n. 44866 del 27/04/2017, Foti; Sez. 1, n. 44433 del 19/04/2017, Aricò; Sez. 1, n. 44432 del 19/04/2017, Brunetti; Sez. 1, n. 39234 del 19/04/2017, Trimboli; Sez. 1, n. 39231 del 19/04/2017, Nocito; Sez. F., n. 39207 del 17/8/2017, Gongola; Sez. 1, n. 36241 del 06/06/2017, Marincola;

Sez. 1, n. 36239 del 06/06/2017, Buongiorno; Sez. 1, n. 36238 del 06/06/2017, Chiariello; Sez. 2, n. 34413 del 12/07/2017, Khanengo; Sez. 1, n. 31475 del 15/03/2017, Zito; Sez. 1, n. 24092 del 17/11/2016, dep. 15/05/2017, Messana; Sez. 6, n. 53031 del 09/11/2017, Petrica, Rv. 271577; Sez. 1, n. 24091 del 17/11/2016, dep. 15/05/2017, Adelfio; Sez. 1, n. 24088 del 17/11/2016, dep. 15/05/2017, Barillà; Sez. 1, n. 24086 del 17/11/2016, dep. 15/05/2017, Agostini; Sez. 1, n. 39245 del 16/5/2017, Congiu; Sez. 1, n. 18598 del 16/03/2017, Pagano; Sez. 6, n. 17592 del 05/04/2017, Bulai; Sez. 6, n. 16175 del 29/03/2017, Khanenko; Sez. 2, n. 13198 del 16/03/2017, Terziyski; Sez. 1, n. 13124 del 17/11/2016, dep. 17/03/2017, Morello, Rv. 269514; Sez.1, n. 7422 del 17/11/2016, dep. 16/02/2017, Collesano; Sez. 6, n. 55141 del 28/12/2016, Avadanei; Sez. 6, n. 51937 del 01/12/2016, Mocanu; Sez. 1, n. 40523 del 17/11/2016, dep. 6/09/2017, Agostini; Sez. 6, n. 48010 del 10/11/2016, Bibilica; Sez. 6, n. 46686 del 03/11/2016, Mihai; Sez. 2, n. 45757 del 26/10/2016, Barbu; Sez. F, n. 35255 del 18/08/2016, Tomita; Sez. 6, n. 29721 del 08/07/2016, Udrea; Sez. 6, n. 25423 del 14/06/2016, Rusu; Sez. 6, n. 23573 del 03/06/2016, Terziyski; Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, Barbu, Rv. 267296; Sez. 1, n. 16418 del 17/11/2016, dep. 31/03/2017, Lorefice; Sez. 1, n. 12338 del 17/11/2016, dep. 14/03/2017, Agretti; Sez. 1, n. 5728 del 19/12/2013, dep. 05/02/2014, Berni, Rv. 257924).

6.2. L’area occupata dal letto.

Con particolare attenzione poi allo spazio occupato dal letto, si registrano due posizioni. Secondo una prima esegesi l’ingombro del letto è sempre da sottrarre dalla superficie complessiva, in quanto non funzionale al libero movimento, mentre, in base alla linea interpretativa maggioritaria, solo se a struttura “a castello”.

Per quanto riguarda la giurisprudenza penale, la Sezione remittente inscrive al primo di questi orientamenti Sez. 1, n. 52819, 09/09/2016, Sciuto, Rv. 268231, che, nell’annullare con rinvio, ha affermato il seguente principio di diritto: «per spazio minimo individuale in cella collettiva va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento, il che comporta la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi ma anche quello occupato dal letto». In verità, il caso all’esame riguardava un letto a castello e in altro passaggio motivazionale, la medesima sentenza ha specificato: «3.7 Ciò posto, l’unico reale aspetto di novità - che caratterizza la presente decisione - riguarda la considerazione o meno in termini di «ingombro» dello spazio occupato nella camera detentiva dal letto, che per comune esperienza è tipologicamente un letto a castello (la camera detentiva non è singola) dal peso consistente. Non vi è dubbio, a parere del Collegio, che il letto a castello vada considerato come un «ingombro» idoneo a restringere, per la sua quota di incidenza, lo ‘spazio vitale minimo’ all’interno della cella, contrariamente a quanto ritenuto nel provvedimento impugnato.».

Anche Sez. 1, n. 13378 del 10/10/2017, dep. 22/03/2018, Peciccia, non parrebbe operare alcuna distinzione tra letto singolo e “a castello” quando argomenta, con riferimento alla portata dei tre parametri indicati dalla Corte EDU nell’arresto Ananyev c. Russia: «la esistenza del letto individuale è, qui, data per presupposta (a fini di consentire il riposo) e lo spazio dei tre metri quadri viene indicato come floor space, dunque ‘spazio al suolo’ (o spazio calpestabile) con l’ulteriore precisazione per cui la superficie complessiva della cella deve consentire al detenuto di muoversi liberamente tra gli articoli di arredo. In tal senso, l’arresto Mursic tende esclusivamente a imporre la necessità di un «ulteriore» spazio separato e destinato ad altra finalità (il bagno) ma certo non consente né di includere nello spazio vitale la superficie occupata dal letto (già esclusa dal richiamato arresto Ananyev), né di ridiscutere il dato di fondo per cui la superficie complessiva della cella non coincide con lo spazio destinato al movimento, posto che vanno detratte le ‘frazioni’ di spazio ingombrate da ‘cose’ che servono ad altro e la cui esistenza è peraltro indispensabile al fine di garantire la legalità del trattamento.» (cfr, altresì, Sez. 1, n. 49793 del 19/10/2017, Fraticelli).

Assolutamente prevalente è l’indirizzo che detrae dalla superficie lorda della cella l’area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture fisse, tra cui il letto “a castello”, con esclusione, dunque, del letto singolo e degli altri arredi facilmente rimovibili.

In particolare, il letto singolo viene accomunato agli arredi che assolvono alle primarie esigenze del detenuto di alimentazione e riposo all’interno della camera di detenzione (insieme, appunto, al tavolo e alle sedie). Secondo tale prospettiva, in sostanza, il letto singolo, così come in generale la mobilia facilmente amovibile, è elemento funzionale alla migliore vivibilità del detenuto nella camera di restrizione, potendo essere fruibile durante la giornata come base d’appoggio o per lo svolgimento di altre attività, oltre al riposo; inoltre, per conformazione e collocazione, è inidoneo ad ostacolare il movimento (Sez. 1, n. 40520 del 17/11/2016, dep. 06/09/2017, Triki; Sez. 1, n. 16418 del 17/11/2016, dep. 31/03/2017, Lorefice; Sez. 1, n. 24086 del 17/11/2016, dep. 15/05/2017, Agostini; Sez. 1, n. 44866 del 27/04/2017, Foti).

Diversamente, sottolinea tale ricostruzione ermeneutica, quando i letti siano sovrapposti l’uno all’altro “a castello”, per consentire di alloggiare più detenuti nella stessa camera, gli stessi presentano un peso tale da non poter essere spostati e da restringere a loro volta, come gli armadi e gli altri elementi infissi stabilmente alle pareti o al suolo, l’area ove muoversi. “Se dunque, in ossequio all’interpretazione richiamata, lo spazio a disposizione deve essere funzionale alla libertà di movimento del ristretto, già di per sé fortemente limitata dall’esperienza segregativa, deve negarsi rilievo alla possibilità di usufruire del letto di tale conformazione per svolgervi altre attività e considerare che la sua presenza, per dimensioni e area occupata, rappresenta un ostacolo alla possibilità di muoversi liberamente in modo non dissimile da quanto si è affermato per gli armadi e gli altri arredi fissi”. (Sez. 1, n. 46154 del 20/04/2018, Amato).

In definitiva, pertanto, il letto a castello va considerato come un “ingombro” idoneo a restringere, per la sua quota di incidenza, lo “spazio vitale minimo” all’interno della cella.

Da menzionare, anche, Sez. 7, n. 28903 del 10/05/2018, Nirta e Sez. 7, n. 3202 del 18/11/2015, dep. 25/01/2016, Borrelli, che hanno dichiarato l’inammissibilità dei rispettivi ricorsi presentati dai detenuti che lamentavano trattamento disumano e degradante, affermando come fosse conforme alle decisioni della Corte la determinazione dello spazio minimo vitale, senza tenersi conto degli arredi mobili con minimo ragionevole ingombro e facilmente amovibili attraverso operazioni semplici, nonché del letto singolo. In particolare, Sez. 7, n. 3202 del 18/11/2015, dep. 25/01/2016, Borrelli, ha precisato come le superfici sia del letto (per la verità senza precisare se singolo o “a castello”) che degli arredi rimuovibili fossero da computare, perché fruibili dai detenuti che condividevano la cella. E ciò in quanto, ha argomentato la Sezione, il letto è utilizzabile anche in orario diurno per distendersi, sedersi, appoggiarvi oggetti e gli arredi rimuovibili, possono essere spostati senza costituire un ingombro fisso. Nel caso di specie, inoltre, la Sezione ha accertato che il detenuto aveva l’opportunità di trascorrere gran parte della giornata al di fuori della cella, stante la effettiva possibilità di accesso ai passeggi, ad attività ricreative e trattamentali in luoghi esterni. Con la conseguenza che, nel caso concreto, la cella «…era da ritenersi una camera di pernottamento, ove la permanenza degli occupanti è principalmente legata al riposo notturno, il che, conclude la Sezione, incide positivamente sulle valutazioni da condurre per riscontrare che le condizioni di detenzione non siano contrarie al principio di umanità della pena e degradanti».

È importante ricordare anche la posizione assunta dalla giurisprudenza civile sul punto, in quanto, essendo, come noto, competente a decidere sui ricorsi ex art. 35-ter Ord. Pen. presentati da coloro che abbiano terminato di scontare la pena detentiva o abbiano subito il pregiudizio durante un periodo di custodia cautelare non computabile nella pena da espiare, concorre necessariamente insieme a quella penale alla ricostruzione della nozione di trattamento disumano e degradante rilevante ex art. 35-ter Ord. Pen. e, conseguentemente, dell’ambito applicativo dei rimedi risarcitori previsti nel caso di violazione del divieto.

Non può non rilevarsi, pertanto, come soluzioni interpretative contrastanti tra le Sezioni penali e civili comporterebbero una diversa sfera di operatività della tutela riconosciuta dallo Stato a scapito del principio della certezza del diritto e dell’uguaglianza di trattamento dei cittadini sul territorio nazionale per situazioni omogenee.

Ebbene, la giurisprudenza civile, partendo dal presupposto che lo spazio minimo vitale è quello calpestabile e funzionale al movimento del detenuto nella cella, è consolidata nel senso di calcolarlo al netto dell’area occupata dai servizi igienici e dagli armadi, appoggiati o infissi stabilmente alle pareti o al suolo, con esclusione degli arredi facilmente amovibili, come sgabelli o tavoli.

Si registra un contrasto, invece, quanto all’ingombro occupato dal letto.

Dominante è l’orientamento espresso da Sez. 1, civile, 30/11/2017, dep. 20/02/2018, Rv. 647236, che ritiene di dover sottrarre dal calcolo della superficie complessiva lo spazio del letto, sia “a castello” che singolo, rilevando come in entrambi i casi sia compromesso il “movimento” del detenuto nella cella. In particolare, sottolinea la Sezione, se è vero che lo spazio occupato dal letto singolo è usufruibile per il riposo e l’attività sedentaria, è anche vero che tali funzioni organiche vitali sono fisiologicamente diverse dal “movimento”, il quale postula, per il suo naturale esplicarsi, uno spazio ordinariamente “libero” (in senso conforme, Cass. Sez. 3 civile, ord. n. 16896 del 04/12/2018, dep. 25/06/2019; Sez. 3 civile, ord. n. 25408 del 13/03/2019; Sez. 3 civile, ord. n. 1170 del 27/11/2019, dep. 21/01/2020, Rv. 656636-01)

Minoritaria è l’interpretazione accolta da Sez. 3 civ., ord. n. 29323 del 7/12/ 2017, Rv. 646714-01, che considera quale ingombro, alla stessa stregua di qualsiasi altro arredo fisso, il letto solo se “a castello”, struttura, dal peso ordinariamente consistente, non amovibile, né - a differenza del letto normale, privo di sovrapposizioni -fruibile per l’estrinsecazione della libertà di movimento nel corso della permanenza nella camera detentiva e, quindi, idonea a restringere, per la sua quota di incidenza, lo spazio vitale minimo all’interno della cella.

6.3. Il calcolo al lordo degli arredi.

Decisamente minoritaria è la posizione espressa da quelle decisioni che accedono ad una nozione di superficie minima come superficie lorda, con la sola esclusione dell’area riservata ai servizi igienici.

Si colloca in tale linea, Sez. 1, n. 42901 del 27/09/2013, Greco, (di epoca precedente alla sentenza Torreggiani c. Italia) che ha rigettato il ricorso del soggetto che lamentava aver subito una condizione detentiva inumana sulla base della considerazione che dalle informative trasmesse dalla Direzione dell’Istituto penitenziario risultava che il reclamante divideva con un altro detenuto una cella di mq. 10,17, «il che rendeva lo spazio disponibile per ciascuno ben superiore al limite dei 3 mq.», senza che dalla superficie complessiva fosse sottratto l’ingombro derivante dagli arredi presenti.

Il criterio di calcolo al lordo viene recepito anche da alcuni arresti in tema di consegna di soggetti in esecuzione di MAE che, nel valutare la sussistenza del serio pericolo che il soggetto estradando, se sottoposto ad esecuzione della pena nelle carceri dello Stato richiedente, possa subire un trattamento disumano e degradante, in violazione dei parametri dell’art. 3 CEDU - situazione che giustifica il rifiuto di consegna ai sensi dell’art. 18, comma 1, lett. h), legge 22 aprile 2005, n. 69 - hanno escluso tale eventualità e, conseguentemente, confermato le decisioni che avevano disposto la consegna, argomentando che, sulla base delle informazioni ricevute dal Paese emittente il provvedimento (nella fattispecie la Romania) era garantito uno spazio minimo individuale di 3 mq o di poco inferiore, calcolato al lordo degli arredi allocati, sussistendo determinate condizioni di trattamento carcerario che compensavano il deficit di spazio.

In particolare, con riferimento all’esecuzione di MAE emesso dallo Stato della Romania, i suddetti fattori compensativi sono stati riconosciuti in presenza delle seguenti circostanze:

a) sono stati determinati i luoghi e le modalità di detenzione;

b) si è assicurato che il regime carcerario - dopo una fase iniziale di orientamento di 21 giorni in cui saranno comunque garantite celle con uno spazio minimo di tre mq. per ciascun detenuto - sarà di carattere “chiuso”, con celle che prevedono uno spazio sostanzialmente di tre metri quadri per persona; c) il regime detentivo prevede un adeguato numero di ore (all’incirca sette) in cui la persona potrà direttamente o indirettamente trascorrere del tempo all’esterno della cella;

d) le celle assicurano condizioni strutturali obiettivamente adeguate quanto all’igiene personale, ai pasti, e con la garanzia di areazione, illuminazione e climatizzazione adeguate, nonché con accesso all’acqua corrente ed ai servizi sanitari, in condizioni d’igiene e pulizia;

e) dopo l’espiazione della quinta parte della pena, il detenuto potrà accedere al regime cosiddetto “aperto”, che garantisce spazi di autonomia e libertà ancora maggiori (Sez. 6, n. 7979 del 26/02/2020, Barzoi, RV. 278355; sulla stessa linea Sez. 6, n. 52541 del 09/11/2018, Moisa, RV. 274296; Sez. 6, n. 18016 del 18/04/2018, Breaz; Sez. Fer, n. 37610 del 31/07/2018, Ibra; Sez. F, n. 38920 del 21/08/2018, Astratinei; Sez. 6, n. 47891 del 11/10/2017, Enache, RV. 271513; Sez. 2, n. 48401 del 19/10/2017, Ghiviziu; Sez. 2, n. 3679 del 24/01/2017, Ilie, Rv. 269211).

Particolarmente significativa, in proposito, inoltre, Sez. 6, n. 5472 del 01/02/2017, Mihai, Rv. 269008, che ha espresso il principio così massimato:

«In tema di mandato di arresto europeo, non sussiste il “serio pericolo” che la persona ricercata venga sottoposta a trattamenti inumani o degradanti qualora dal paese richiedente venga garantito al detenuto uno spazio non inferiore a tre metri quadrati in regime chiuso, ovvero uno spazio inferiore in presenza di circostanze che consentano di beneficiare di maggiore libertà di movimento durante il giorno, rendendo possibile il libero accesso alla luce naturale ed all’aria, in modo da compensare l’insufficiente assegnazione di spazio. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza con la quale era stata disposta la consegna del ricorrente, avendo il Ministero della Giustizia rumeno garantito condizioni di detenzione conformi alle indicazioni date dalla Corte EDU, indicando la disponibilità per il detenuto di una superficie non inferiore a tre metri quadrati in caso di regime chiuso e non inferiore a due metri quadrati in caso di regime semiaperto)».

Ebbene, pare potersi affermare che nelle decisioni sopracitate l’attenzione si focalizzi non tanto sulla determinazione del criterio di misurazione dello spazio assicurato al singolo in cella, quanto piuttosto - preso atto degli indici minimi elaborati dalla Corte EDU che parametra i 3 mq minimi da garantire al netto soltanto dell’area riservata ai servizi igienici - sulla presenza di concreti fattori compensativi che, alleviando l’insufficienza dello spazio, possa escludere il serio pericolo di trattamenti disumani e degradanti, per poter procedere alla consegna in attuazione dei principi di cooperazione giudiziaria tra Stati dell’Unione europea.

Ed invero, con riferimento al regime semiaperto praticato nelle strutture penitenziarie dello Stato rumeno - in cui le porte delle celle rimangono aperte durante la giornata e i detenuti hanno la possibilità di accedere a diverse attività trattamentali esterne con rientro in cella solo per riposare - in presenza di uno spazio in cella significativamente inferiore ai 3 mq lordi - nei casi esaminati da Sez. 6, n. 5472 del 01/02/2017, Mihai e Sez. 2, n. 48401 del 19/10/2017, Ghiviziu era sempre di 2 mq - si è affermato che le condizioni complessivamente considerate integrassero sufficienti fattori compensativi e consentissero di ritenere non avverato il rischio di trattamenti in violazione dell’art. 3 CEDU.

Non può non segnalarsi come tali soluzioni interpretative lascino aperti due interrogativi di non poco conto, ovvero, in primo luogo, se le adeguate opportunità trattamentali da svolgere all’esterno della cella possano compensare comunque il deficit spaziale, indipendentemente dalla gravità del sovraffollamento (anche in caso di 1 mq di spazio a disposizione?) e, in secondo luogo, quale rilievo tali fattori allevianti assumano in rapporto al parametro temporale della durata della carcerazione eseguita in uno spazio vitale insufficiente (nei casi sopra esaminati si trattava di detenzioni che potevano protrarsi per anni). Peraltro, il primo dei parametri indicati dalla Corte EDU in grado di riequilibrare una situazione detentiva in condizioni di sovraffollamento è proprio la necessaria brevità della durata della restrizione non conforme.

Ed infatti, è da ricordare come il fattore tempo nel caso Muršic c. Croazia sia stato decisivo perché la Corte riconoscesse la violazione dell’art. 3 CEDU rilevata la disponibilità di uno spazio individuale pari a 2,69 mq. per la durata di 27 giorni consecutivi, situazione ritenuta in ogni caso non compensabile con altri positivi aspetti delle complessive condizioni detentive (§ 150 e 151). Da menzionare, inoltre, Sez. 1, n. 35537 del 30/05/2019, Fragalà, che ha indicato come un periodo superiore a 10 giorni non possa tendenzialmente considerarsi breve, precisando: «Pur in assenza di un dato numerico che concretizzi in modo specifico tale aspetto…può utilizzarsi, sul punto, come utile parametro il contenuto del medesimo articolo 35-ter Ord. Pen., atteso che a tale ‘frazione’ di detenzione (dieci giorni) è ricollegata - secondo la medesima previsione di legge - la riduzione della pena pari ad un giorno di detenzione».

Peraltro, potrebbe anche prospettarsi il caso del soggetto che, consegnato in esecuzione di MAE, non ritenendo conforme ai canoni convenzionali la detenzione subita, per diversi anni in celle dotate di non più di 2 mq. al lordo degli arredi, nel Paese emittente, ricorra alla Corte EDU anche contro la decisione di consegna assunta dal nostro Paese, esponendolo, pertanto, al rischio di essere condannato insieme allo Stato di emissione del MAE per violazione dell’art. 3 CEDU, come accaduto in un caso che ha interessato la Grecia e il Belgio (seppur con riferimento alla differente ipotesi di espulsione) che ha visto condannati sia il Paese ricevente (la Grecia) sia il Paese inviante (il Belgio) per violazione dell’art. 3 CEDU, essendo stato il soggetto interessato esposto a trattamenti contrari alla Convenzione (Corte EDU, Gran Camera, 21/01/2011, M.S.S. v. Belgium and Greece).

7. Gli arresti della Corte di giustizia dell’unione europea.

Come sopra evidenziato, il rispetto dei diritti fondamentali nella fase di esecuzione della pena non rileva unicamente in ambito nazionale, ma riveste un ruolo importante anche nella costruzione e nel mantenimento di uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia nell’Unione europea, incidendo sul buon funzionamento degli strumenti della cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri.

Ed infatti, il divieto di trattamenti inumani o degradanti viene in rilievo in fase di esecuzione di un mandato di arresto europeo, in quanto la Corte di Giustizia ha riconosciuto, a determinate condizioni, l’obbligo per l’autorità giudiziaria dell’esecuzione di sospendere o porre fine alla procedura di consegna istituita dalla Decisione Quadro 2002/584, qualora siffatta consegna rischi, in concreto, di esporre la persona ricercata ad un siffatto trattamento, in violazione dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000/C 364/01) (cfr., in tal senso, sentenze Grande Sezione, 5/04/2016, C 404/15 e C 659/15 PPU, Aranyosi e Caldararu, §104; Grande Sezione, 25/07/2018, C 216/18 PPU, Minister for Justice and Equality, §44; nonché 25/07/2018, C 220/18 PPU, Generalstaatsanwaltschaft, §57; Grande Sezione, 15/10/2019, C 128/18, Dumitru-Tudor Dorobantu, §51).

Più precisamente, la sentenza Corte di giustizia, Grande Sezione, del 5/04/2016, nei casi riuniti Aranyosi e Caldararu, ha affermato che le autorità giudiziarie di uno Stato membro, prima di eseguire un mandato d’arresto europeo, devono accertare, sulla base di “elementi oggettivi, affidabili, accurati e debitamente aggiornati”, che le condizioni di detenzione che saranno applicate nello Stato emittente all’interessato non integrino un trattamento inumano o degradante (§88, 89).

Nel caso in cui, all’esito di tali verifiche, lo Stato di esecuzione ritenesse sussistente tale rischio, il mandato di arresto non potrà essere eseguito, anche se, precisa la Corte, “non può essere abbandonato”, dovendo piuttosto l’autorità giudiziaria dell’esecuzione rimandare la decisione sulla consegna della persona fino a quando non riceva informazioni che consentano di escludere l’esistenza del rischio concreto di trattamenti inumani o degradanti (§98). Solo nel caso in cui l’esistenza del rischio non può essere esclusa in un tempo ragionevole, concludono i giudici di Lussemburgo, l’autorità deve decidere se porre fine alla procedura di consegna (§192).

Ne deriva che la necessità di garantire che una persona in stato di detenzione non subisca alcun trattamento inumano o degradante giustifica, in via eccezionale, una limitazione dei principi di fiducia e del reciproco riconoscimento; ciò rappresenta uno dei temi più spinosi in materia di effettività dello strumento del MAE, esponendo uno Stato dell’Unione al giudizio di un altro Stato membro sul proprio sistema carcerario che rappresenta uno degli aspetti di manifestazione esteriori della sovranità statuale.

Ed invero, al fine di bilanciare l’interesse alla protezione dei diritti umani con l’interesse a garantire l’efficacia del mandato di arresto europeo, la Corte di giustizia precisa, come regola generale, che agli Stati risulta «preclusa non soltanto la possibilità di esigere da un altro Stato membro un livello di tutela nazionale dei diritti fondamentali più elevato di quello garantito dal diritto dell’Unione, ma anche, salvo in casi eccezionali, quella di verificare se tale Stato membro abbia effettivamente rispettato, in un caso concreto, i diritti fondamentali garantiti dall’Unione» (Corte di Giustizia dell’Unione europea, Seduta Plenaria, parere 2/13, 18.12.2014, §192).

Di particolare interesse, ai fini della presente trattazione, è la sentenza Corte giustizia, Grande Sezione, 15/10/2019, C 128/18, Dumitru-Tudor Dorobantu, che si è pronunciata sulla questione dell’intensità e ampiezza del controllo, da parte dell’autorità giudiziaria dell’esecuzione, delle condizioni di detenzione nello Stato membro emittente il MAE, delineando per via giurisprudenziale un primo nucleo di regole penitenziarie europee minime. Richiamando il principio già espresso nella sentenza Corte Giustizia, Grande Sezione, 26.02.2013, Melloni, C-399/11, la Grande Sezione del 2019 sottolinea come nel giudizio che l’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione è tenuto a compiere nell’esecuzione di un mandato di arresto europeo non rileveranno propri eventuali più elevati standard di condizioni di detenzione nazionali, dovendo il raffronto essere fatto con riguardo alle condizioni di detenzione “minime” per come risultanti dall’art. 4 della Carta e dall’art. 3 CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, data l’esigenza di uniformità dello standard di tutela dei diritti fondamentali definiti dal diritto dell’Unione (§79).

E poiché, precisa la Corte, il diritto enunciato al citato articolo 4 corrisponde al diritto garantito dall’articolo 3 della CEDU, il suo significato e la sua portata sono identici a quelli ad esso conferiti da tale Convenzione la cui portata e significato, per espressa previsione dell’articolo 52, par. 3 della Carta, sono determinati non soltanto dal testo di tale convenzione, ma anche dalla giurisprudenza della Corte EDU (Corte giustizia, Grande Sezione, 15.10.2019, Dumitru-Tudor Dorobantu, C 128/18, §58).

Di conseguenza, con particolare riferimento alla questione delle condizioni di detenzione sotto il profilo dello spazio personale disponibile per detenuto in una cella collettiva, in assenza di regole minime nel diritto dell’Unione, la Corte di giustizia, nella medesima sentenza, recepisce integralmente lo standard CEDU, come fissato nella sentenza Muršic c. Croazia, anche con specifico riguardo alle modalità con cui va calcolato lo spazio minimo (§71, 73, 75, 76, 77).

Alla luce di quanto premesso, pertanto, sarà importante verificare se i parametri accolti a livello nazionale siano più esigenti rispetto a quelli sovranazionali, e, conseguentemente, nel caso positivo, valutare la legittimità dell’adozione di un doppio regime in merito alla tutela dei diritti dei detenuti che, da un lato, preveda criteri più rigorosi in ambito domestico, e, dall’altro, accetti i livelli minimi di protezione garantiti dal diritto unionale, che costituiscono la base comune, per non compromettere il funzionamento degli strumenti di cooperazione, in presenza di condizioni detentive in uno Stato membro meno garantiste di quelle richieste a livello nazionale, pur conformi ai canoni della CEDU.

8. Autonomia del giudice e portata vincolante della giurisprudenza della Corte EDU.

La soluzione del quesito rimesso al Supremo collegio involge necessariamente le generali questioni, da un lato, del rapporto tra autonomia e indipendenza della funzione giudiziaria, soggetta nel suo esplicarsi soltanto alla legge, e, dall’altro, dell’obbligo dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme e della portata vincolante delle decisioni delle Corti sovranazionali, conseguente agli impegni internazionali assunti dal nostro Paese.

Preliminarmente è da osservare come il rinvio in chiave parametrica ai principi affermati dalla giurisprudenza europea contenuto nell’art. 35-ter ord. pen. rimandi ad un’operazione ricostruttiva estremamente complessa atteso che le decisioni della Corte di Strasburgo rappresentano soluzioni a singoli casi concreti: a differenza del giudice di legittimità, infatti, la Corte EDU è giudice del fatto, poiché quando verifica il rispetto della Convenzione da parte del singolo Stato, scende all’esame specifico delle circostanze che hanno caratterizzato la singola fattispecie, valutando se “nel caso concreto” si sia verificata la violazione prospettata dal ricorrente. Pertanto, le decisioni adottate, non solo sono fortemente condizionate dalla dimensione fattuale della vicenda all’esame, ma, anche, inevitabilmente soggette a mutamenti nel tempo, proprio per effetto dell’evoluzione della cultura e sensibilità nella società europea, che, appunto, si riflette nel tenore dei ricorsi individuali presentati alla Corte; e, difatti, la stessa Corte costituzionale (tra le diverse, cfr., Corte cost, sent. n. 236 del 2011 e n. 15 del 2012) ha precisato che «ancorché tenda ad assumere un valore generale e di principio, la sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo…resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata», confermando, appunto, il salto di dimensione che necessariamente comporta il passaggio dalla decisione in concreto alla definizione in astratto della portata normativa di un precetto CEDU.

Già nelle pronunce n. 311 e 317 del 2009 la Corte costituzionale, peraltro, ha delineato la portata del vincolo derivante dalle pronunce della Corte europea, asserendo: «beninteso, l’apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatosi sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza… fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro».

L’ultimo approdo dell’evoluzione giurisprudenziale costituzionale circoscrive il vincolo discendente dalle decisioni della Corte europea alle pronunce che costituiscano espressione di una “giurisprudenza consolidata”.

In particolare, Corte cost., sent. n. 49 del 2015 traccia una sorta di “manuale di istruzioni per l’uso” della giurisprudenza sovranazionale, identificando i casi nei quali il giudice comune è propriamente vincolato dalla decisione di Strasburgo, ovvero: a) quando la decisione della Corte EDU abbia definito la causa di cui il giudice comune torna ad occuparsi; b) quando la giurisprudenza di Strasburgo costituisca ‘diritto consolidato’; c) quando si tratti di una sentenza pilota.

E con riferimento a che cosa si debba intendere per ‘diritto consolidato’, la Corte costituzionale afferma, stavolta in negativo, che il giudice comune può ben allontanarsi dalla linea interpretativa della Corte EDU qualora tutti, o alcuni dei seguenti indizi si manifestino (sempre che non si tratti di una sentenza pilota in senso stretto): «la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano».

In definitiva, solo nei casi in cui si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice nazionale sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna.

Tuttavia, anche nelle suddette ipotesi, precisa la Corte costituzionale, ciò non significa che i giudici comuni siano passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale. Come, infatti, sottolineato con forza, «il giudice nazionale non può spogliarsi della funzione che gli è assegnata dall’art. 101, secondo comma, Cost., con il quale si «esprime l’esigenza che il giudice non riceva se non dalla legge l’indicazione delle regole da applicare nel giudizio, e che nessun’altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto» (sentenza n. 40 del 1964; in seguito, sentenza n. 234 del 1976), e ciò vale anche per le norme della CEDU, che hanno ricevuto ingresso nell’ordinamento giuridico interno grazie a una legge ordinaria di adattamento».

Conseguentemente, i giudici costituzionali esortano l’interprete a collocare la singola pronuncia della Corte EDU nel flusso continuo della giurisprudenza europea, per ricavarne un senso che possa conciliarsi con quest’ultima, e che, comunque, non sia di pregiudizio per la Costituzione. Ed infatti, il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU (in virtù degli obblighi di collaborazione sanciti dall’art. 117, comma 1, Cost.) è, ovviamente, subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007) (Corte Cost., sent. n. 49 del 2015). In tale prospettiva, viene rappresentata la necessità del coordinamento della previsione di cui all’art. 117, comma 1, Cost. con la garanzia di cui all’art. 101, secondo comma, Cost. «nel punto di sintesi tra autonomia interpretativa del giudice comune e dovere di quest’ultimo di prestare collaborazione, affinché il significato del diritto fondamentale cessi di essere controverso. È in quest’ottica che si spiega il ruolo della Corte EDU, in quanto permette di soddisfare l’obiettivo di certezza e stabilità del diritto.».

Secondo l’insegnamento consolidato della Corte costituzionale, l’ingresso del diritto

sovranazionale nel sistema interno non può comportare un abbassamento delle garanzie previste dalla Costituzione poiché «...dall’incidenza della singola norma CEDU sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali”, per cui “il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti» (Corte cost., sent. n. 317 del 2009).

La realizzazione della massimizzazione delle tutele, peraltro, è espressamente positivizzata nelle Carte dei diritti fondamentali sovranazionali, rispettivamente nell’art. 53 Convenzione EDU, e nell’ art. 53 Carta dei diritti UE.

Ed allora, per quanto di interesse ai fini della presente trattazione, è importante stabilire se tale approccio sia applicabile anche con riferimento alla particolare fattispecie di cui all’art. 35-ter Ord. Pen., in cui, per precisa scelta legislativa, la giurisprudenza della Corte EDU non costituisce ordinario parametro interpretativo, bensì fonte del precetto.

In altri termini, la questione è se, in sede di tipizzazione giudiziale della previsione contenuta nell’art. 35-ter, il giudice sia vincolato in una sorta di “gabbia interpretativa”, costituita dai criteri giurisprudenziali sovranazionali elaborati sull’art. 3 CEDU, ovvero se abbia comunque la facoltà e il dovere di recepire tali indirizzi “riletti e filtrati” alla luce del sistema delineato dalla Carta fondamentale, secondo un approccio di massimizzazione delle tutele. Ebbene, in questi ultimi termini si sono pronunciate Sez. 1, n. 49793 del 19/10/2017, Fraticelli, e Sez. 1 n. 55462 del 3/07/2017, Aral, che hanno, appunto, ritenuto che, nonostante la novità della dizione normativa dell’art. 35-ter Ord. Pen., che inserisce l’interpretazione della giurisprudenza sovranazionale tra le fonti di rango primario, le sentenze della Corte EDU, sono comunque da considerare, «quanto a contenuti, nei limiti più volte affermati dalla giurisprudenza costituzionale».

Inoltre, Sez. 1, n. 15554 del 23/01/2019, Inserra, ha così argomentato: «è andata affermandosi e consolidandosi - nella presente sede di legittimità - l’idea dell’adattamento dei contenuti delle sentenze emesse - sul diritto fondamentale di cui all’art. 3 Conv. - dalla Corte Edu a criteri ermeneutici che, senza intaccarne i passaggi argomentativi, siano capaci di compiere una piena «attribuzione di valore» alla ratio ispiratrice della singola decisione. Ciò perché, in una visione costituzionalmente orientata del rapporto che va ad instaurarsi tra i contenuti di una decisione emessa dalla Corte di Strasburgo e l’obbligo di fornire, nel sistema interno, la più ampia tutela possibile ad un diritto fondamentale (rappresentato dal diritto alla legalità costituzionale del trattamento detentivo, che non può essere contrario al senso di umanità ai sensi dell’art. 27 co. 3 Cost.) è ben possibile estrarre dalla singola decisione sovranazionale un principio regolatore che - nel rispetto dei contenuti espressi dalla Corte Edu - possa condurre anche ad una ricaduta ampliativa della tutela, atteso che «con riferimento ad un diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quella predisposta dall’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa».»

Coerentemente, dunque, Sez. 1, n. 46442 del 16/10/2019, Poretti, asserisce con fermezza che è errato ritenere che la giurisprudenza di legittimità sia il risultato, o possa essere considerata come il mero risultato di una traduzione letterale delle decisioni della Corte EDU. Al contrario, alla Corte di Cassazione, nell’esercizio dell’attività di ricostruzione esegetica - costituzionalmente e convenzionalmente orientata - deve essere riconosciuta l’autonomia di adottare soluzioni che assicurino una maggiore garanzia al diritto fondamentale in gioco rispetto a quella che si intende far valere in forza della traduzione letterale delle pronunce della Corte e, di conseguenza, ove ciò avvenga, le sue valutazioni non sono sindacabili per asserita difformità dalla giurisprudenza sovranazionale.

Ed ancora, Sez. 1, n. 29302 del 18/04/2019, Ascione, ha ulteriormente puntualizzato - in una fattispecie in cui l’Amministrazione ricorreva contro la decisione del Tribunale di sorveglianza che aveva quantificato la superficie utile in cella al netto del mobilio fisso e dei letti, deducendo violazione di legge sul presupposto che la soluzione adottata si discostava dagli arresti della giurisprudenza sovranazionale che, invece, calcola lo spazio minimo vivibile al lordo degli arredi - che «il riferimento alla giurisprudenza della Corte EDU, operato al fine di individuare un livello di garanzie per il soggetto detenuto inferiore a quello riconosciuto, in modo consolidato, dalla giurisprudenza di legittimità, non può giustificare la proposizione di un ricorso per cassazione per violazione di legge».

Alla luce di tutto quanto premesso, dunque, ai fini della soluzione al quesito, rimesso al Supremo Consesso, pare potersi affermare l’importanza, non solo di riconoscere se sussista e quale sia l’indirizzo consolidato sul punto della Corte EDU, ma, anche, se i principi desunti dalla giurisprudenza della Corte EDU siano conformi al sistema dei diritti fondamentali assicurato dalla Carta costituzionale, secondo la prospettiva metodologica di accogliere, tra le diverse soluzioni, quella che garantisca la massima estensione delle tutele anche in chiave evolutiva.

Senza dimenticare, infine, il terzo tipo di vincolo all’adeguamento interpretativo della legge nazionale gravante sul giudice nazionale per espressa previsione costituzionale, costituito dal diritto dell’Unione europea (art. 11 e 117, comma 1, Cost.).

9. Cenni sulla soluzione resa dalle Sezioni Unite.

Come indicato in premessa, le Sezioni Unite hanno risolto il conflitto esegetico sopra illustrato con la pronuncia di una sentenza di cui non sono ancora note le motivazioni ma, per quanto allo stato conosciuto dalla diffusione della relativa informazione provvisoria, ha accolto l’opzione ermeneutica maggioritaria in base alla quale «Nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti “a castello”.».

Dalla lettura di tale prima indicazione pare potersi affermare che la interpretazione accolta sia nel segno della massima valorizzazione della effettività della tutela del diritto dei detenuti ad una vita intramuraria dignitosa.

È evidente che tale decisione assume particolare importanza sotto molteplici aspetti: in primo luogo, offre la soluzione ai fini dell’uniforme applicazione dei rimedi risarcitori di cui all’art. 35-ter ord. pen. per il danno patito a causa di trattamenti inumani o degradanti; in secondo luogo, è in grado di indirizzare l’Amministrazione penitenziaria nella predisposizione di misure organizzative che assicurino condizioni detentive legali, con auspicabile conseguente riduzione del contenzioso. Non può, infine, sottacersi come tale autorevole arresto costituisca un segnale importante anche nella prospettiva della costruzione di uno spazio comune europeo di libertà, sicurezza e giustizia, fondato sul rispetto e sulla effettiva protezione dei diritti umani sanciti dalla CEDU, rifuggendo da “soluzioni al ribasso”.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 3 civ., n. 8827 del 31/05/2003, Rv. 563835 Sez. 1, n. 4772 del 15/01/2013, Vizzari

Sez. 1, n. 42901 del 27/09/2013, Greco

Sez. 1, n. 5728 del 19/12/2013, dep. 2014, Berni, Rv. 257924

Sez. 1, n. 5728 del 19/12/2013, dep. 2014, Berni, Rv. 257924 Sez. 1, n. 5729 del 19/12/2013, dep. 05/02/2014, Carnoli Sez. 1, n. 53011 del 27/11/2014, Vecchina, Rv. 262352

Sez. 1, n. 8568 29/10/2014, dep. 26/02/ 2015, Bauce

Sez. 3 civ., n. 26367 del 16/12/2014, Rv. 633919 Sez. 1, n. 43722 del 11/06/2015, Salierno

Sez. 7, n. 3202 del 18/11/2015, dep. 2016, Borrelli

Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, Barbu, Rv. 267296 Sez. 6, n. 23573 del 03/06/2016, Terziyski

Sez. 6, n. 25423 del 14/06/2016, Rusu Sez. 6, n. 29721 del 08/07/2016, Udrea

Sez. 1, n. 52819, 09/09/2016, Sciuto, RV 268231;

Sez. 1, n. 52992 del 09/09/2016, Gallo, Rv. 268655

Sez. 1, n. 26357 del 9/09/2016, dep. 2017, Macrina Sez. F, n. 35255 del 18/08/2016, Tomita

Sez. 2, n. 45757 del 26/10/2016, Barbu Sez. 6, n. 46686 del 03/11/2016, Mihai Sez. 6, n. 48010 del 10/11/2016, Bibilica

Sez.1, n. 7422 del 17/11/2016, dep. 2017, Collesano Sez. 1, n. 12338 del 17/11/2016, dep. 2017, Agretti

Sez. 1, n. 13124 del 17/11/2016, dep. 2017, Morello, Rv. 269514

Sez. 1, n. 16418 del 17/11/2016, dep. 2017, Lorefice

Sez. 1, n. 24086 del 17/11/2016, dep. 2017, Agostini

Sez. 1, n. 24088 del 17/11/2016, dep. 2017, Barillà

Sez. 1, n. 24091 del 17/11/2016, dep. 2017, Adelfio

Sez. 1, n. 24092 del 17/11/2016, dep. 2017, Messana

Sez. 1, n. 40520 del 17/11/2016, dep. 2017, Triki; Sez. 6, n. 51937 del 01/12/2016, Mocanu

Sez. 6, n. 55141 del 28/12/2016, Avadanei

Sez. 2, n. 3679 del 24/01/2017, Ilie, Rv. 269211,

Sez. 6, n. 5472 del 01/02/2017, Mihai, Rv. 269008

Sez. 2, n. 11980 del 10/3/2017, Mocanu, Rv. 269407 Sez. 1, n. 31475 del 15/03/2017, Zito

Sez. 2, n. 13198 del 16/03/2017, Terziyski Sez. 6, n. 16175 del 29/03/2017, Khanenko

Sez. 1, n. 44432 del 19/04/2017, Brunetti Sez. 1, n. 44433 del 19/04/2017, Aricò Sez. 1, n. 39231 del 19/04/2017, Nocito Sez. 1, n. 39234 del 19/04/2017, Trimboli Sez. 1, n. 44866 del 27/04/2017, Foti Sez. 1, n. 18598 del 16/03/2017, Pagano Sez. 6, n. 17592 del 05/04/2017, Bulai Sez. 1, n. 39245 del 16/5/2017, Congiu

Sez. 1, n. 41211 del 26/05/2017, Gobbi, Rv. 271087 Sez. 1, n. 36238 del 06/06/2017, Chiariello

Sez. 1, n. 36239 del 06/06/2017, Buongiorno Sez. 1, n. 36241 del 06/06/2017, Marincola Sez. 1, n. 39294 del 3/07/2017, Marsala

Sez. 1 n. 55462 del 3/07/2017, Aral

Sez. 2, n. 34413 del 12/07/2017, Khanengo

Sez. 1, n. 7931 del 19/07/2017, dep. 2018, Campana Sez. 1, n. 39585 del 21/07/2017, Lecini

Sez. F., n. 39207 del 17/8/2017, Gongola

Sez. 1, n. 13378 del 10/10/2017, dep. 22/03/2018, Peciccia Sez. 6, n. 47891 del 11/10/2017, Enache, RV. 271513

Sez. 6, n. 47893 del 12/10/2017, Istrate Sez. 6, n. 48433 del 17/10/2017, Sandu Sez. 6, n. 55265 del 06/12/2017, Cercel Sez. 2, n. 48401 del 19/10/2017, Ghiviziu Sez. 1, n. 49793 del 19/10/2017, celli

Sez. 6, n. 53031 del 09/11/2017, Petrica, Rv. 271577

Sez. 1 civ., 30/11/2017, dep. 2018, Rv. 647236

Sez. 1, n. 26097, 26/02/2018, Li Causi Sez. 1, n. 26098 del 26/02/2018, Catania Sez. 1, n. 26099 del 26/02/2018, Rubino Sez. 1, n. 16383 del 14/03/2018, Puccio

Sez. 5, n. 35828 del 23/03/2018, Collesano Sez. 6, n. 18016 del 18/04/2018, Breaz Sez. 1, n. 46154 del 20/04/2018, Amato Sez. 1, n. 41215 del 08/05/2018, Bracci Sez. 1, n. 41571 del 08/05/2018, Gentile Sez. 1, n. 41572 del 08/05/2018, Caia

Sez. 1, n. 41573 del 08/05/2018, Gallico Sez. 7, n. 28903 del 10/05/2018, Nirta

Sez. 5, n. 53731 del 07/06/2018, Lopane, Rv. 275407 Sez. Fer, n. 37610 del 31/07/2018, Ibra

Sez. 6, n. 52541 del 09/11/2018, Moisa, RV. 274296

Sez. 3 civ., n. 16896 del 04/12/2018, dep. 2019 Sez. F, n. 38920 del 21/08/2018, Astratinei

Sez. 1, n. 1268 del 20/12/2018, dep. 2019, Nobis

Sez. 1, n. 1269 del 20/12/2018, dep. 2019, Sacco Sez. 1, n. 12155 del 22/01/2019, Sarno

Sez. 1, n. 15105 del 22/01/2019, Ciurlia Sez. 1, n. 15554 del 23/01/2019, Inserra Sez. 3 civ., n. 25408 del 13/03/2019

Sez. 1, n. 29302 del 18/04/2019, Ascione Sez. 1, n. 35537 del 30/05/2019, Fragalà Sez. 1, n. 38933 del 25/06/2019, Formisano Sez. 1, n. 46442 del 16/10/2019, Poretti Sez. 1, n. 51504 del 30/10/2019, Buscemi

Sez. 6 - L, n. 29206 del 12/11/2019, Rv 655757

Sez. 3 civ., n. 1170 del 27/11/2019, dep. 2020, Rv. 656636-01

Sez. 1, n. 3291 del 03/12/2019, dep. 2020, Risalvato

Sez. 1, n. 1786 del 30/10/2019, dep. 2020, Conti

Sez. 1, n. 14258 del 23/01/2020, Inserra, Rv. 278898 Sez. 1, n. 15144 del 28/01/2020, Franzé

Sez. 1, n. 15145 del 28/01/2020, Morabito Sez. 1, n. 17656 del 12/02/2020, Skripeliov

Sez., 1, n. 17655 del 17/02/2020, Trapani, Rv. 279186 Sez.1, n. 14260 del 21/02/2020, Commisso

Sez. 1, n. 16253 del 21/02/2020, Dessì Sez. 1, n. 16254 del 21/02/2020, D’Orto

Sez. 6, n. 7979 del 26/02/2020, Barzoi, RV. 278355 Sez. 1, n. 12344 del 06/03/2020, Derbali

Sez. 1, n. 14878 del 27/04/2020, Giardini Sez. 1, n. 14877 del 27/04/2020, Gattuso Sez. 6, n. 15924 del 21/05/2020, Mokrzycki

Sez.1, n. 20985 del 23/06/2020, Biondino, Rv. 279220

Sentenze della Corte costituzionale Corte cost., sent. n. 349 del 1993 Corte Cost., sent. n. 233 del 2003 Corte cost., sent. n. 348 del 2007 Corte cost., sent n. 349 del 2007 Corte cost., sent. n. 317 del 2009 Corte cost., sent. n. 236 del 2011 Corte cost., sent. n. 12 del 2015 Corte cost., sent n. 49 del 2015; Corte cost., sent. n. 276 del 2016;

Corte cost., sent. n. 36 del 2016 Corte cost., sent. n. 68 del 2017;

Sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo Corte EDU, 15/11/1996, Chahal c. Regno Unito Corte EDU, 15/07/2002, Kalachnikov c. Russia Corte EDU, 4/05/2005, Kadikis c. Lettonie

Corte EDU, 8/11/2005, Alver c. Estonia

Corte EDU, 19/07/2007, Trepachkine c. Russia Corte EDU, 6/12/ 2007, Lind c. Russia

Corte EDU 22/10/2009, Norbert Sikorski c. Polonia Corte EDU, 22/10/2009, Orchowki C. Polonia Corte EDU, 6/11/2009, Sulejmanovic c. Italia

Corte EDU, 20/01/2011 Petrenko c. Russia

Corte EDU, Gran Camera, 21/01/2011, M.S.S. v. Belgium and Greece Corte EDU, 10/01/2012, Ananyev e altri c. Russia,

Corte EDU, 8/01/2013, Torreggiani ed altri c. Italia Corte EDU, 17/10/2013, Belyayev v. Russia

Corte EDU, 26/11/2013, Cojoacac. Roumanie

Corte EDU, 5/03/2013, Tellissi c. Italia Corte EDU, 1/04/2014, Enache v. Romania Corte EDU, 22/04/2014, C.G. c. Italia

Corte EDU, 8/07/2014, Dulbastru c. Romania Corte EDU, 20/10/ 2016, Muršic c. Croazia

Corte EDU, Grande Camera 16/12/2016, Khlaufia ed altri c. Italia Corte EDU, Grande Camera 28/02/2008, Saadi c. Italia

Corte EDU, 25/04/2017, Rezmivese e altri c. Romania Corte EDU, 16/05/2017, Sylla e Nollomont c. Belgio Corte EDU, 14/12/2017, Varga and others v. Romania Corte EDU, 30/01/2020, J.M.B. et autres c. France Corte di giustizia dell’Unione europea

Corte di Giustizia, Grande Sezione, 26/02/2013, Melloni, C-399/11 Corte di Giustizia, Seduta Plenaria, Parere 2/13 del 18/12/2014

Corte di Giustizia, Grande Sezione, 5/04/2016, C-404/15 e C-659/15 PPU, Aranyosi e Caldaaru Corte di Giustizia, 25/07/2018, C-220/18 PPU, Generalstaatsanwaltschaft

Corte di Giustizia, 25/07/2018, C-216/18 PPU, Minister for Justice and Equality

Corte di Giustizia, Grande Sezione, 15/10/2019, C-128/18, Dumitru-Tudor Dorobantu,

  • malattia infettiva
  • carcerazione
  • detenuto
  • diritto alla salute

CAPITOLO II

I DIRITTI DEL DETENUTO IN REGIME DETENTIVO DIFFERENZIATO.

(di Debora Tripiccione )

Sommario

1 La natura giuridica del regime detentivo differenziato. - 2 Il regime detentivo differenziato nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte Edu. - 3 Recenti questioni in tema di applicazione e proroga del regime detentivo differenziato. - 4 Il diritto ai colloqui con i familiari e conviventi. - 5 Le limitazioni alla libertà e segretezza della corrispondenza. - 6 Il diritto alla salute. - 6.1 (segue) Recenti problematiche insorte a seguito della pandemia da COVID 19. - 7 La permanenza all’aperto e la socialità. - 8 I permessi premio. - 9 La questione di legittimità costituzionale concernente l’applicazione del regime detentivo differenziato agli internati. - Indice delle sentenze citate.

1. La natura giuridica del regime detentivo differenziato.

Il regime detentivo differenziato previsto dall’art. 41-bis, comma 2, ord. pen. consiste nella sospensione, totale o parziale, disposta con decreto motivato del Ministro della Giustizia, anche su richiesta del Ministro dell’interno, dell’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario che possano porsi in contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. Ne sono destinatari i detenuti o gli internati per taluno dei delitti c.d. di prima fascia (previsti dal primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis, ord. pen.) ovvero di un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva. La norma prescrive, inoltre, un principio di proporzionalità tra le esigenze preventive da soddisfare e il contenuto concreto delle restrizioni imposte per soddisfarle. Si legge, infatti, nel secondo periodo del comma 2, che la sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con le associazioni criminali di cui sopra.

Con circolare del D.A.P. del 2 ottobre 2017, n. 3676/6126 è stata introdotta la specifica disciplina organizzativa del circuito detentivo speciale previsto dall’art. 41-bis ord. pen. Tale circolare contiene in premessa una definizione del regime detentivo differenziato, qualificato espressamente come «una misura di prevenzione che ha come scopo quello di evitare - al di fuori dei casi consentiti dalla legge - contatti e comunicazioni tra esponenti della criminalità organizzata, detenuti o internati, all’interno degli istituti di pena nonché contatti e comunicazioni tra gli esponenti detenuti delle varie organizzazioni e quelli ancora operanti all’esterno.» Sempre sul versante della specifica finalità preventiva, si aggiunge, inoltre, che il precetto normativo è funzionale ad impedire la ideazione, pianificazione e commissione di reati da parte dei detenuti e degli internati anche durante il periodo di espiazione della pena e della misura di sicurezza. La finalità di contenimento della pericolosità dei detenuti interessati dal regime detentivo differenziato è stata recentemente ribadita anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 97 del 2020. Si legge, infatti che detto regime mira soprattutto ad evitare sia la permanenza dei collegamenti, interni ed esterni al carcere, tra il detenuto e l’organizzazione criminale di riferimento, sia che lo stesso, sfruttando l’ordinaria disciplina trattamentale, possa continuare ad impartire direttive agli affiliati in libertà, conservando, così, il controllo sulle attività delittuose dell’organizzazione stessa (si richiamano, tra le tante, le sentenze n. 186 del 2018, n. 122 del 2017 e n. 376 del 1998).

La questione della natura giuridica del regime detentivo in esame è stata recentemente affrontata da Sez. 1, n. 29143 del 22/6/2020, Libri, Rv. 279792, in cui la Corte ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis ord. pen, sollevata dal ricorrente con riferimento alla riserva di giurisdizione in materia di libertà personale.

Secondo la tesi difensiva, infatti, la sospensione dell’applicazione delle regole del regime detentivo ordinario sarebbe pienamente equiparabile, per natura giuridica, funzione e disciplina applicabile, alle misure di prevenzione personali. Da tale inquadramento giuridico discenderebbe, sempre secondo la prospettazione difensiva, una contrarietà dell’art. 41-bis ord. pen. con gli artt. 2, 3, 111 e 117 Cost., in quanto, a differenza delle misure di prevenzione, il regime detentivo differenziato viene applicato, o prorogato, con provvedimento amministrativo, anziché con decisione giudiziale.

Tale tesi è stata disattesa dalla Corte che ha evidenziato plurimi profili differenziali tra i due istituti in raffronto, quanto a presupposti applicativi ed effetti. Sul primo versante, la Corte ha infatti, rilevato che l’art. 41-bis ord. pen. postula la ricorrenza di condizioni sia oggettive - di emergenza e sicurezza pubblica - che soggettive, riguardanti il detenuto, derivanti dalla condanna o dalla sottoposizione a misura coercitiva custodiale per reati di particolare gravità e motivo di allarme sociale, oltre che dalla perdurante esistenza ed operatività dell’organizzazione cui appartiene. Di contro, prosegue ancora la Corte, le misure di prevenzione personali vengono applicate per fronteggiare il rischio di commissione di reati da parte di chi sia ritenuto pericoloso per la sicurezza pubblica «in dipendenza, non necessariamente di condanne o misure cautelari, ma dello stile di vita.»

Quanto agli effetti, la Corte ha sottolineato che la sospensione delle regole detentive ordinarie:

a) riguarda l’esecuzione della pena nei confronti dei detenuti che manifestano capacità di mantenere collegamenti con le associazioni di appartenenza e di trasmettere ordini e direttive all’esterno;

b) comporta una limitazione, e non una radicale privazione, dei loro diritti soggettivi;

c) non viene applicata automaticamente a tutti i detenuti che abbiano riportato una condanna per determinati titoli di reato, ma selettivamente a coloro che presentano personali e specifiche caratteristiche di pericolosità, legate alla loro appartenenza a organizzazioni criminali strutturate, ritenuti capaci, sulla base di pregresse esperienze processuali e di conoscenze criminologiche, di stabilire contatti anche con quanti siano ristretti in carcere.

Quanto al dedotto contrasto con gli artt. 111 e 117 Cost. la Corte ha, infine, rilevato, anche sulla base della precedente giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze n. 349 del 1993, n. 410 del 1993, n. 351 del 1996; n. 376 del 1997 e n. 190 del 2010), che, sebbene il regime detentivo differenziato sia imposto o prorogato con provvedimento amministrativo, lo stesso deve essere supportato da autonoma e congrua motivazione in ordine alla permanenza di pericoli per l’ordine e la sicurezza pubblici ed è suscettibile di reclamo dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria, che provvede all’esito di procedura camerale partecipata.

In conformità con la giurisprudenza costituzionale, anche Sez. 1, n. 5446 del 15/11/2019, dep. 2020, Amato, Rv. 278180, ha affermato che la funzione del regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. pen. consiste nel contenimento della pericolosità dell’imputato o del condannato, in grado di proiettarsi, nonostante la carcerazione in atto, all’esterno dell’istituto, mediante l’adozione di prescrizioni volte a rescindere i collegamenti tra detenuti appartenenti ad organizzazioni criminali e tra essi e i componenti delle associazioni che si trovano in libertà.

La funzione del regime detentivo differenziato di “neutralizzazione” della pericolosità del detenuto è stata recentemente ribadita anche da Sez. 1, n. 35242 del 6/11/2020, Amantea, che, pronunciandosi in tema di revoca anticipata, ne ha anche sottolineato la peculiare natura – in quanto disposto dal Ministro della Giustizia all’esito di un procedimento amministrativo – riconducibile ad un’area differente sia da quella preventiva che da quella sanzionatoria (si veda anche Sez. 1, n. 52054 del 29/04/2014 Polverino, Rv. 261809, secondo cui il regime detentivo previsto dall’art. 41 bis della legge 26 luglio 1975 n. 354, anche dopo la modifica normativa ad opera della legge 15 luglio 2009 n. 94, ha conservato la sua natura di istituto caratterizzato da finalità preventive, e non si è trasformato in una “pena differenziata”).

In tale arresto la Corte, coerentemente con la giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. n. 190 del 2010), ha riconosciuto che, anche a seguito dell’abrogazione del comma 2-ter dell’art. 41-bis, ad opera della legge 15 luglio 2009, n. 94, sussistono sia il diritto del detenuto a chiedere la revoca anticipata del provvedimento di sottoposizione al regime in questione che la conseguente facoltà di impugnare il provvedimento di diniego formatosi per effetto del silenzio-rifiuto del Ministro della Giustizia attraverso l’applicazione del rimedio generale del reclamo previsto dall’art. 14-ter ord. pen. (si veda anche Sez. 1, n. 5322 del 12/09/2017, dep. 2018, Magrì, Rv. 272288). Sulla base di tale cornice ermeneutica la Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis ord. pen., in relazione agli artt. 3, 13, comma 2, 24, 25, comma 2 e 27, comma 3, Cost. sollevata dal ricorrente sull’assunto dell’assimilabilità del provvedimento ministeriale relativo al regime detentivo speciale alla categoria dei provvedimenti giurisdizionali e della conseguente esperibilità degli stessi strumenti di tutela processuale della posizione del detenuto. Richiamando, al riguardo, la precedente giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. nn. 349 del 1993, 376 del 1997, 190 del 2010), la Corte ha ribadito l’autonoma fisionomia sistematica del regime detentivo differenziato al quale non sono applicabili le garanzie giurisdizionali proprie del processo penale o di quello di prevenzione, operanti, invece, in caso di reclamo avverso il provvedimento ministeriale, «a seguito del quale si instaura un procedimento giurisdizionale nel cui ambito l’interessato può svolgere l’attività necessaria alla sua difesa.»

2. Il regime detentivo differenziato nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte Edu.

L’art. 41-bis ord. pen. è stato più volte sottoposto al vaglio di legittimità costituzionale. In particolare, la Corte costituzionale con la sentenza n. 349 del 1993, nel dichiarare la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale della norma in riferimento agli artt. 13, primo e secondo comma, 15, secondo comma, 27, terzo comma, 97, primo comma, e 113, primo e secondo comma Cost., ha affermato che l’art. 41-bis può essere interpretato in modo conforme al dettato costituzionale nel senso che il potere riconosciuto al Ministro - da esercitarsi attraverso provvedimenti connotati da puntuale motivazione in modo da consentire all’interessato una efficace tutela giurisdizionale – non comporta l’adozione di provvedimenti idonei ad incidere sul grado di libertà personale del detenuto, ma deve intendersi limitato alla sospensione di quelle regole ed istituti che nell’ordinamento penitenziario già appartengono alla competenza dell’amministrazione penitenziaria e che si riferiscono al regime di detenzione in senso stretto.

Quanto ai limiti cui soggiace l’applicazione del regime detentivo differenziato, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che, in base all’art. 41-bis ord. pen. è possibile sospendere solo l’applicazione di regole e istituti dell’ordinamento penitenziario che risultano in concreto in contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza pubblica (sentenza n. 97 del 2020). Correlativamente, si è, dunque, esclusa la possibilità di disporre misure che, a causa del loro contenuto, non siano riconducibili a quelle concrete esigenze, in quanto, ove difetti tale congruenza, le misure in questione non risponderebbero più al fine in vista del quale la legge consente siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso, «divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale» (sentenza n. 351 del 1996).

Si tratta, dunque, di tre ordini di limiti attinenti: a) alla congruità della misura rispetto allo scopo che essa persegue; b) all’esigenza di non vanificare completamente la finalità rieducativa della pena; c) al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità (sentenza n. 351 del 1996).

In linea generale, anche la Corte Edu si è più volte pronunciata sulla compatibilità convenzionale del regime di cui all’art. 41-bis ord. pen., soprattutto in relazione all’art. 3 CEDU, (si vedano, al riguardo, Corte Edu, 28/6/2005, Gallico c. Italia; Corte Edu, 10/11/2005, Argenti c. Italia; Corte Edu, 11/7/2006, Campisi c. Italia; Corte Edu, Grande Camera, 17/9/2009, Enea c. Italia). L’applicazione del regime di cui all’art. 41-bis ord. pen. viene, infatti, considerata in sé legittima, anche se di lunga durata, purché giustificata in concreto dalle finalità di prevenzione proprie dell’istituto.

In particolare, con riferimento alla possibile incidenza della proroga del regime previsto dall’articolo 41-bis ai fini del raggiungimento della soglia minima di gravità richiesta per rientrare nel campo di applicazione dell’articolo 3 CEDU, la Corte Edu ha più volte posto l’accento sulla necessità di esaminare la durata temporale alla luce delle circostanze di ciascuna causa, avuto riguardo, in particolare, alla presenza di un’adeguata giustificazione del provvedimento.

Tale profilo è stato considerato dai Giudici di Strasburgo nella recente sentenza emessa il 25/10/2018 nel caso Provenzano c. Italia in cui la Corte ha ravvisato una violazione dell’art. 3 CEDU in relazione all’omessa considerazione nel provvedimento di proroga dello stato di deterioramento psichico del detenuto e, dunque, nella omessa motivazione sulla sua incidenza sulla persistente pericolosità del ricorrente e sulla sua capacità di mantenere collegamenti significativi e costruttivi con il sodalizio criminale di cui faceva parte.

Infine, sempre in tema di rimedi risarcitori spettanti al detenuto per la violazione dell’art. 3 CEDU (art. 35-ter ord. pen.) merita di essere segnalata una recente sentenza della Prima sezione, n. 30030 del 11/9/2020, Adinolfi, Rv. 279793 che, con riferimento alla condizione del detenuto in regime detentivo differenziato – nei cui confronti non viene in rilievo il problema del sovraffollamento - ha affermato che, al fine di escludere la violazione dell’art. 3 CEDU, non è sufficiente che la cella abbia dimensioni superiori a 3/4 mq (nella specie, lo spazio disponibile era di circa 9 mq), dovendosi tenere conto delle ulteriori condizioni che possono rendere degradante il trattamento detentivo, quali la mancanza di illuminazione ed aerazione dei locali o di servizi igienici.

3. Recenti questioni in tema di applicazione e proroga del regime detentivo differenziato.

L’art. 41-bis, comma 2-bis, ord. pen. prevede che il regime detentivo differenziato è disposto con decreto motivato del Ministro della giustizia, anche su richiesta del Ministro dell’interno, sentito l’ufficio del pubblico ministero che procede alle indagini preliminari ovvero quello presso il giudice procedente e acquisita ogni altra necessaria informazione presso la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, gli organi di polizia centrali e quelli specializzati nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, terroristica o eversiva, nell’ambito delle rispettive competenze.

Al riguardo, Sez. 1, n. 20983 del 23/6/2020, Sarcone, Rv 279218, ribadendo un consolidato indirizzo ermeneutico, ha affermato che ai fini dell’emissione del decreto ministeriale di sottoposizione del detenuto al regime penitenziario differenziato di cui all’art. 41-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, la sola condizione indefettibile è l’acquisizione del parere del pubblico ministero procedente, mentre resta insindacabile la scelta di procedere o meno ad ulteriori integrazioni istruttorie. Già in precedenza, infatti, Sez. 1, n. 42553 del 14/10/2008, Cefariello, Rv. 241717 aveva escluso la configurabilità di alcuna nullità del provvedimento ministeriale applicativo del regime differenziato per la mancata preventiva acquisizione di informazioni presso la Direzione nazionale antimafia e gli organi di polizia centrali e specializzati perché non ritenuta necessaria dal Ministro (Conf. Sez. 1, n. 41081 del 21/10/2008, Belforte, Rv. 241939).

La norma prevede, inoltre, che il provvedimento applicativo ha una durata di quattro anni ed è prorogabile, nelle stesse forme, per successivi periodi, pari ciascuno a due anni. Ai fini della proroga occorre, inoltre, che risulti che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non sia venuta meno, tenuto conto anche: del profilo criminale e della posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione; della perdurante operatività del sodalizio criminale; della sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate; degli esiti del trattamento penitenziario; del tenore di vita dei familiari del sottoposto.

A tal fine, l’ultimo periodo del comma 2-bis, precisa che il mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa.

Quanto alla sussistenza dei collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva, Sez. 1, n. 20986 del 23/6/2020, Farao, Rv. 279221, ha ribadito che la stessa non deve essere dimostrata con certezza, essendo necessario e sufficiente che essa possa essere ragionevolmente ritenuta probabile sulla scorta dei dati conoscitivi acquisiti (conf. Sez. 1, n. 18791 del 6/2/2015, Caporrimo, Rv. 263508; Sez. 1, n. 46013 del 29/10/2004, Foriglio, Rv. 230136).

Sez. 1, n. 16019 del 27/01/2016, Bonura, Rv. 266620 ha, inoltre, affermato che costituisce violazione di legge - unico vizio legittimante il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di applicazione o di proroga del regime previsto dall’art. 41 bis della legge n. 354 del 1975 - l’omessa considerazione da parte del giudice della incidenza dello stato patologico, eventualmente insorto a carico del detenuto, sulla valutazione della pericolosità del medesimo. Ad avviso della Corte, infatti, le condizioni di salute del detenuto rientrano tra gli indici rilevanti sul giudizio di attualità della pericolosità del soggetto recluso ed ai fini specifici della imposizione trattamentale. Si riconosce, infatti, che «il tema della tutela delle condizioni di salute opera, nel sistema dell’ordinamento penitenziario, su piani diversi e l’esigenza di assicurare terapie adeguate è - ovviamente - tutelabile anche in riferimento alla posizione dei soggetti sottoposti alle restrizioni derivanti dall’adozione del regime differenziato, sinanche con possibile sindacato giurisdizionale sulle singole prescrizioni che, in tale ambito, si pongano in contrasto con le esigenze terapeutiche».

Tale principio è stato ripreso e ribadito da Sez. 1, n. 32405 del 23/2/2017, Farinella, Rv. 270585 in cui la Corte ha affermato che in tema di proroga del regime penitenziario differenziato, l’aggravamento delle condizioni di salute fisiche del detenuto può incidere sulla complessiva legittimità della proroga del predetto regime, sia con riguardo al divieto di realizzazione di un trattamento inumano o degradante sia con riferimento all’analisi della condizione di attualità della pericolosità del recluso.

4. Il diritto ai colloqui con i familiari e conviventi.

L’art. 41-bis, comma 2-quater, ord. pen. dopo aver previsto alla lett. a) che il regime speciale comporta l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna - finalizzate principalmente a prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento del detenuto o dell’internato, nonché contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate - elenca una serie di misure specifiche, costituenti il contenuto tipico e necessario del regime stesso (Corte cost., sentenza n. 122 del 2017).

In particolare, quanto ai colloqui, l’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. b) prevede molteplici limitazioni:

a) di carattere soggettivo, essendo consentiti solo con familiari e conviventi (salva specifica autorizzazione ad effettuare colloqui con persone diverse);

b) di carattere quantitativo, essendo detti colloqui limitati ad uno al mese con i familiari e conviventi;

c) di carattere qualitativo (detti colloqui saranno svolti in locali attrezzati, in modo da impedire il passaggio di oggetti, e sottoposti a controllo auditivo e registrazione, previa motivata autorizzazione dell’autorità competente).

Nessuna limitazione si applica, invece, ai colloqui con il difensore dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 143 del 2013 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 24 Cost. l’art. 41-bis, comma 2-quater , lett. b ), ultimo periodo, ord. pen. nella parte in cui pone limitazioni al diritto ai colloqui con i difensori prevedendo che detti detenuti possono avere con i difensori, “fino a un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari”.

Quanto alle limitazioni di carattere quantitativo ai colloqui con i familiari, nell’anno in corso si è affermato un orientamento ermeneutico contrario alla possibilità di accorpamento dei colloqui mensili (in modo da consentirne lo svolgimento in giorni ravvicinati, uno alla fine del mese e l’altro all’inizio del mese successivo) riconosciuta da Sez. 1, n. 10462 del 25/11/2016, dep. 2017, Santafede, Rv. 269515 in considerazione della necessità di contenere i tempi e i costi delle trasferte dei familiari per raggiungere il luogo di detenzione.

In senso difforme da tale impostazione ermeneutica, Sez. 1, n. 23945 del 26/6/2020, Rv 279526, riprendendo il principio già affermato dalla medesima Sezione con la sentenza n. 5446 del 5/11/2019, dep. 2020, Amato, Rv. 278180, ha, invece, ritenuto legittima la disposizione dell’Amministrazione penitenziaria che, in attuazione dell’art. 16 della circolare del D.A.P. del 2 ottobre 2017, prevede, per i detenuti sottoposti a tale regime, che i colloqui visivi e telefonici abbiano luogo a distanza di circa trenta giorni l’uno dall’altro, con conseguente esclusione della possibilità di accorpamento degli stessi rispettivamente alla fine del mese e all’inizio di quello successivo.

In particolare la Corte, pur riconoscendo la sussistenza di un diritto ai colloqui del detenuto, ha precisato che la disciplina delle modalità di esercizio degli stessi rientra nella discrezionalità dell’Amministrazione penitenziaria ed ha ritenuto la ragionevolezza e coerenza della previsione contenuta all’art. 16 della circolare del D.A.P. con le finalità del regime differenziato, contemperando la stessa il diritto del detenuto - per l’effetto degradato ad interesse legittimo - a coltivare i legami relazionali più stretti con l’esigenza organizzativa - funzionale alla tutela della sicurezza pubblica - di diluire i flussi di informazioni che, in occasione dei colloqui, nonostante i controlli, potrebbero intervenire tra il detenuto e gruppi di criminalità esterni.

Nella giurisprudenza di legittimità sono, inoltre, emersi due diversi orientamenti ermeneutici in merito alle modalità di svolgimento di detti colloqui.

Sez. 1, n. 23819 del 22/6/2020, Rv. 279577, riprendendo un principio già affermato dalla medesima Sezione con la sentenza n. 7654 del 12/12/2014, dep. 2015, Trigila, Rv. 262417, ha affermato che il detenuto sottoposto a regime differenziato, può essere autorizzato ad avere colloqui visivi con i familiari - in situazioni di impossibilità o, comunque, di gravissima difficoltà ad effettuare i colloqui in presenza - mediante forme di comunicazione audiovisiva controllabili a distanza, secondo modalità esecutive idonee ad assicurare il rispetto delle cautele imposte dal citato art. 41-bis. Nella fattispecie, il Magistrato di sorveglianza aveva inizialmente respinto l’istanza del detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen. di svolgere un colloquio in video-collegamento con la moglie che, essendo sottoposta a misura di prevenzione personale, era impossibilitata a raggiungere l’istituto di reclusione. A fondamento del rigetto si rilevava l’omessa previsione di tale forma di colloqui nell’art. 16 della circolare del D.A.P. n. 3676/6126. Tale decisione veniva riformata dal Tribunale di sorveglianza considerando, tra l’altro, la circolare del 30/1/2019, n. 0031246U del D.A.P. con la quale si prevedeva, sia pure sperimentalmente e per il solo circuito di c.d. media sicurezza, l’utilizzo della piattaforma Skipe for business per l’esecuzione di video-chiamate da parte di detenuti e internati, specificandosi che la video-chiamata dovesse essere equiparata ai colloqui previsti dagli artt. 18 ord. pen. e 37 d.P.R. n. 230 del 2000. In concreto, il Tribunale di sorveglianza ordinava all’Amministrazione penitenziaria di porre in essere tutte le attività necessarie sul piano organizzativo affinché, tramite la strumentazione in suo possesso (ricorrendo, alternativamente, al video-collegamento adottato in occasione della partecipazione ad impegni giudiziari, o alla piattaforma Skipe for business, ovvero alle modalità adottate per il collegamento in video-conferenza con la magistratura di sorveglianza in altre occasioni, quali rogatorie e colloqui) venisse garantito il diritto del detenuto al colloquio periodico con la moglie, purché con l’adozione delle cautele previste per i detenuti sottoposti al regime dell’art. 41-bis ord. pen.

Tale soluzione è stata condivisa dalla Corte di cassazione anche alla luce della recente legislazione emergenziale volta a fronteggiare le problematiche derivanti dalla pandemia da COVID-19. Si richiama, in particolare il d.l. 10/5/2020, n. 29 con cui, sia pure per un arco temporale circoscritto, si è prevista, senza differenziare in base al diverso regime detentivo, la possibilità per i condannati, internati ed imputati di svolgere “a distanza” i colloqui con i congiunti mediante apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’Amministrazione penitenziaria e minorile ovvero mediante corrispondenza telefonica.

In particolare, la Corte, richiamando l’esigenza della necessaria congruità del regime detentivo differenziato rispetto allo scopo perseguito, quale peculiare declinazione del principio di proporzione, oltre a rilevare la necessità di una verifica in concreto della compatibilità delle diverse opzioni tecniche con le esigenze di sicurezza sottese al regime detentivo differenziato, ha ritenuto infondate le censure sollevate dall’Amministrazione ricorrente in merito alla carenza di un’adeguata regolamentazione della materia, rilevando, in particolare, l’insussistenza di alcun divieto al riguardo nella legge penitenziaria.

Il ricorso alla videoconferenza non è stato, tuttavia, individuato quale modalità ordinaria di svolgimento del colloquio, in alternativa a quello in presenza. La Corte ha, infatti chiarito che il ricorso a tale strumento è funzionale e rendere possibile l’esercizio del diritto al colloquio nei casi in cui esso non potrebbe essere altrimenti garantito, “dovendo, dunque, la videoconferenza essere circoscritta alle situazioni di impossibilità o, comunque, di gravissima difficoltà ad effettuare il colloquio in presenza”.

La possibilità di svolgimento di colloqui mediante forme di comunicazione a distanza (nella specie, si trattava di un colloquio tra fratelli, entrambi detenuti) è stata, invece, negata da Sez. 1, n. 16557 del 22/3/2019, Rv 275669, in considerazione della mancanza di un’espressa disciplina normativa che ne individui i presupposti, con riferimento ai detenuti sia in regime ordinario che differenziato, dettando, altresì, una specifica regolamentazione in merito agli strumenti da adottare, ai poteri di controllo delle Autorità penitenziarie ed alle necessarie coperture di spesa.

5. Le limitazioni alla libertà e segretezza della corrispondenza.

Altro specifico contenuto del regime detentivo differenziato di cui all’art. 41-bis, ord. pen. è la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia (art. 41-bis, comma 2-quater, lett. e), ord. pen.).

Come rilevato da Sez. 5, n. 32452 del 22/12/2019, Falsone, Rv. 277527, la norma nulla dice sull’operazione successiva al controllo del contenuto della corrispondenza. È stato, al riguardo, chiarito dalla giurisprudenza di legittimità che, venendo in rilievo una libertà costituzionale, la stessa può essere limitata, in virtù di quanto stabilito dall’art. 15 della Costituzione, solo con un provvedimento dell’autorità giudiziaria, specificamente motivato in ordine alla sussistenza dei presupposti indicati dai commi da 1 a 4 dell’art. 18-ter della legge n. 354 del 1975 (Sez. 1, n. 48365 del 21/11/2012, Di Trapani, Rv. 253978). In particolare, tale norma prevede al quinto comma che qualora all’esito del visto di controllo l’autorità giudiziaria ritenga che la corrispondenza non debba essere consegnata o inoltrata al destinatario, dispone che la stessa sia trattenuta.

Tale decisione, proprio per la sua incidenza su una libertà costituzionale, deve essere sorretta da adeguata motivazione, sia pure sintetica, sulla base di elementi concreti che facciano ragionevolmente dubitare che il contenuto effettivo della missiva sia quello che appare dalla semplice lettura del testo (Sez. 5, n. 32452 del 22/02/2019, Falsone, Rv 277527). In particolare, in tema di trattenimento della corrispondenza tra detenuti sottoposti a regime detentivo differenziato, Sez. 1, n. 14870 del 4/3/2020, Guarino, Rv. 279124, ha affermato che il controllo può riguardare esclusivamente la presenza o meno nel testo della missiva di elementi grafici che ne alterino il significato apparente al fine di veicolare messaggi in violazione delle specifiche previsioni del suddetto regime. Ciò sulla base di una lettura dell’art. 18-ter ord. pen. coordinata con le finalità previste dall’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. a) ed e). Sulla base di tale principio, la Corte ha ritenuto illegittimo il provvedimento di trattenimento della corrispondenza inviata ad un detenuto in regime di cui all’art. 41-bis ord. pen. sulla base di elementi diversi dal contenuto della singola missiva (nella specie, si trattava del mero rilievo della pericolosità del mittente).

Va, tuttavia, segnalato che altro isolato arresto della Prima sezione ha, invece, ritenuto legittimo il trattenimento della corrispondenza fondato, non già sul contenuto della missiva, ma sul giudizio di inaffidabilità soggettiva dell’interlocutore del detenuto, già interessato da precedenti attività di trattenimento della corrispondenza diretta ad altri detenuti, motivate da pregresse condotte di aggiramento delle regole prevista dall’art. 41-bis ord. pen. (Sez. 1, n. 52525 del 17/5/2018, Falsone, Rv. 274407).

La giurisprudenza di legittimità ha, invece, escluso che il divieto di ricevere dall’esterno libri, riviste o stampa in genere, imposto ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. a) e c), ord. pen., rientri nella disciplina dei controlli sulla corrispondenza di cui all’art. 18-ter, ord. pen. In particolare, Sez. 1, n. 5211 del 10/9/2019, dep. 2020, Attanasio, Rv. 278365, ha affermato che il concetto di corrispondenza è limitato alle forme di comunicazione del proprio pensiero a persone determinate tramite scritti, sostitutiva della comunicazione verbale e strumentale al mantenimento delle relazioni interpersonali e affettive, non comprendendo, pertanto, la ricezione dall’esterno, di pubblicazioni, quali riviste e libri, che riportano il pensiero di terzi. Sulla base di tale considerazione, la Corte ha, pertanto, ritenuto legittimo il provvedimento di divieto di ricevere libri, riviste e stampa in genere (nella specie una rivista a fumetti), imposto ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. a) e c), ord. pen., trattandosi di forme particolari di comunicazione che non rientrano nella disciplina dei controlli sulla corrispondenza ai sensi dell’art. 18-ter ord.pen., la cui limitazione non comporta un’eccessiva ed ingiustificata limitazione della libertà di manifestazione del pensiero, intesa come diritto di informazione e di studio (in termini conformi, tra le altre, anche Sez. 1, n. 1774 del 29/09/2014, dep. 2015, Tarallo, Rv. 261858. Si veda anche la sentenza della Corte costituzionale n. 122 del 2017 che, tra l’altro, ha escluso l’incidenza del divieto in esame sia sulla libertà di corrispondenza che sulla libertà di manifestazione del pensiero, intesa nel suo significato passivo del diritto di essere informati e del diritto allo studio, potendo il detenuto in regime speciale servirsi dell’istituto penitenziario per l’acquisto di una pubblicazione).

6. Il diritto alla salute.

Il comma 2-quater dell’art. 41-bis ord. pen. non prevede alcuna specifica disposizione in merito all’assistenza sanitaria. Ciò comporta che, in linea di principio, l’accesso alle cure mediche dei detenuti in regime detentivo differenziato rientra nella disciplina ordinaria contenuta agli artt. 11 ord. pen. e 17 d.P.R. 30/6/2000, n. 230.

Il tema dell’assistenza sanitaria ai detenuti in regime detentivo differenziato è stato, inoltre, specificamente regolamentato, con particolare riguardo alla possibilità di ottenere una visita medica da parte di un sanitario di fiducia e alla traduzione in luogo di cura esterno, dagli artt. 23, 23.1 e 24 della circolare del D.A.P. del 2 ottobre 2017, n. 3676/6126.

Al riguardo, Sez. 1, n. 31032 del 25/9/2020, Madonia, Rv. 279992, ha osservato che con la legge 30 novembre 1998, n. 419 di riordino della medicina penitenziaria e, in particolare, con l’art. 1 del d.lgs. 22/7/1999 n. 230 è stato riconosciuto il diritto dei detenuti e degli internati, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali. Sulla base di tale premessa, la Corte ha ravvisato una evidente lesione del diritto alla salute del detenuto, in regime detentivo differenziato, conseguente alla mancata somministrazione gratuita del farmaco richiesto o al ritardo nel provvedervi, individuando lo strumento utilizzabile dal detenuto per opporvisi nel ricorso di natura giurisdizionale disciplinato dall’art. 35-bis ord. pen., a nulla rilevando la circostanza (considerata dal magistrato di sorveglianza per qualificare il reclamo come generico ai sensi dell’art. 35 ord. pen.) che l’amministrazione che abbia violato il diritto soggettivo del detenuto non sia l’amministrazione penitenziaria ma la ASL competente per territorio, articolazione del servizio sanitario nazionale cui sono state trasferite le competenze della medicina penitenziaria.

La preminenza dei diritti alla salute e a non subire trattamenti inumani sull’esecuzione della pretesa punitiva, nei casi in cui quest’ultima sia in conflitto con tali diritti, non è ovviamente derogabile neppure nei casi di assoggettamento del detenuto al regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. pen. Ciò comporta, che, in linea di principio, anche nei confronti dei detenuti in regime detentivo differenziato possono trovare applicazione gli istituti del differimento, obbligatorio o facoltativo della pena, e della detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. pen.

Ai sensi dell’art. 146, comma 3, n. 1, cod. pen., infatti, deve essere obbligatoriamente disposto il rinvio dell’esecuzione quando la persona condannata sia affetta da una malattia particolarmente grave a causa della quale le sue condizioni di salute risultino incompatibili con l’espiazione carceraria inframuraria o quando lo stadio evolutivo raggiunto dalla malattia sia tale da non consentire ai trattamenti disponibili e alle terapie praticabili di sortire alcun effetto in quel contesto detentivo o in altro diverso. Ciò in coerenza con la finalità dell’istituto, posto a tutela dei beni primari della persona, quale il diritto alla salute, il diritto alla vita, il divieto di sottoposizione a trattamenti contrari al senso di umanità, a prescindere dal dato relativo alla pericolosità sociale del detenuto (tra le tante, Sez. 1, n. 1033 del 13/11/2018, A., in motivazione).

Il differimento facoltativo previsto dall’art. 147 cod. pen. può, invece, essere disposto allorché il soggetto versi in una condizione di “grave infermità fisica” ovvero in una situazione clinica connotata dalla presenza di patologie di qualificata serietà, tali da esporre a pericolo la sua vita o da provocare altre rilevanti conseguenze pregiudizievoli eliminabili o procrastinabili con cure o trattamenti tali da non poter essere praticati in regime di detenzione inframuraria neppure mediante ricovero in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura ai sensi dell’art. 11, ord. pen. (Sez. 1, n. 1033 del 13/11/2018, A., in motivazione; Sez. 1, n. 8936 del 22/11/2000, Piromalli, Rv. 218229).

Non è, dunque, necessaria un’incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ma occorre pur sempre che l’infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario (Sez. 1, n. 27352 del 17/5/2019, Nobile, Rv. 276413).

L’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. pen. stabilisce, infine, che, nelle anzidette ipotesi di rinvio della esecuzione della pena, il tribunale di sorveglianza può applicare provvisoriamente la detenzione domiciliare.

Il giudice chiamato a decidere sul differimento dell’esecuzione della pena o, in subordine, sull’applicazione della detenzione domiciliare per motivi di salute, deve, dunque, effettuare un bilanciamento tra le istanze sociali correlate alla pericolosità del detenuto e le condizioni complessive di salute di quest’ultimo con riguardo sia all’astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici disponibili, sia alla concreta adeguatezza della possibilità di cura ed assistenza che nella situazione specifica è possibile assicurare al predetto, valutando anche le possibili ripercussioni del mantenimento del regime carcerario in termini di aggravamento del quadro clinico. (Sez. 1, n. 37062 del 9/4/2018, Acampa, Rv. 273699). Si è anche aggiunto che ai fini della valutazione sull’incompatibilità tra il regime detentivo e le condizioni di salute del condannato, ovvero sulla possibilità che il mantenimento dello stato di detenzione costituisca trattamento inumano o degradante, il giudice deve verificare, non soltanto se le condizioni di salute del condannato, da determinarsi ad esito di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all’interno dell’istituto di pena o comunque in centri clinici penitenziari, ma anche se esse siano compatibili o meno con le finalità rieducative della pena, alla stregua di un trattamento rispettoso del senso di umanità, che tenga conto della durata della pena e dell’età del condannato comparativamente con la sua pericolosità sociale (Sez. 1, n. 53166 del 17/10/2018, Cinà, Rv. 274879).

Il tribunale di sorveglianza è, pertanto, chiamato a compiere una duplice valutazione:

deve dapprima verificare la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge ai fini del differimento e poi disporre, eventualmente anche d’ufficio, la detenzione domiciliare, ove ritenga tale misura più rispondente sia agli interessi della collettività che a quelli del condannato (Sez. 1, n. 12565 del 3/3/2015 Rv 262301). In assenza dell’indicazione di un parametro legislativo al quale riferirsi, la valutazione del giudice deve avere riguardo a una qualsiasi ragione che abbia una certa pregnanza sul piano delle caratteristiche del reo e delle sue condizioni personali e familiari (età, condizioni di salute, esistenza o non di garanzie di affidabilità, pericolosità sociale, compatibilità degli interventi terapeutici con il regime carcerario e così via) o sul piano della gravità e durata della pena da scontare» (Sez. 1, n. 656 del 28/01/2000, Ranieri, Rv. 215494).

Tali principi sono stati ribaditi anche in relazione ad istanze di differimento dell’esecuzione formulate da detenuti in regime differenziato (Sez. 1, n. 38813 del 9/6/2015, Provenzano). In particolare, Sez. 1, n. 27766 del 22/3/2017, Riina, ha annullato con rinvio l’ordinanza di rigetto dell’istanza di differimento dell’esecuzione della pena ex art 147, comma 3, cod. pen., o in subordine, di esecuzione della stessa nelle forme della detenzione domiciliare ex art. 47, comma 1-ter, ord. pen., rilevando un vizio di motivazione del provvedimento in relazione all’omessa considerazione delle ricadute del complessivo stato morboso del detenuto e delle sue generali condizioni di scadimento fisico sulla conformità del trattamento penitenziario al principio di umanità e sull’attualità della pericolosità sociale del detenuto. Il provvedimento impugnato era stato adottato in considerazione sia della trattabilità in ambito carcerario delle patologie da cui era affetto il detenuto, anche attraverso opportuni ricoveri ex art. 11 ord. pen., che dell’impossibilità di effettuare una prognosi di assenza di pericolo di recidiva del detenuto alla luce dell’altissimo tasso di pericolosità, dello spessore criminale, del ruolo di vertice assoluto dell’organizzazione criminale “Cosa Nostra” e dell’assenza di qualunque forma di dissociazione.

Richiamando precedenti arresti sul tema, la Corte ha affermato che «affinché la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 27, terzo comma Cost. e 3 Convenzione EDU, lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria (Sez. 1, n. 16681 del 24/01/2011, Buonanno, Rv. 249966; Sez. 1, n. 22373 del 08/05/2009, Aquino Rv. 244132).» Pertanto, prosegue la Corte, in presenza di patologie implicanti un significativo scadimento delle condizioni generali e di salute del detenuto, il giudice di merito deve verificare, adeguatamente motivando in proposito, se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tali intensità da eccedere il livello che, inevitabilmente, deriva dalla legittima esecuzione di una pena.

6.1. (segue) Recenti problematiche insorte a seguito della pandemia da COVID 19.

Con l’emergenza sanitaria legata alla pandemia da COVID 19 il tema della tutela della salute dei detenuti in regime detentivo differenziato, oltre che di quelli ordinari, ha reso quanto mai attuale la problematica connessa al possibile differimento dell’esecuzione, di regola in regime di detenzione domiciliare, allorché in presenza di condizioni patologiche di particolare gravità, risulti impossibile assicurare al detenuto le cure nel circuito penitenziario o in regime di ricovero di cui all’art. 11 ord. pen.

Il legislatore è intervenuto con gli artt. 2-bis d.l. 30/4/2020, n. 28 convertito con modifiche nella legge 25 giugno 2020, n. 70, e 2 d.l. 10 maggio 2020, n. 29 (non convertito). È stato, a tal fine, previsto un monitoraggio costante dei provvedimenti di differimento dell’esecuzione della pena o di ammissione alla detenzione domiciliare, con riferimento alla permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria.

In particolare l’art. 2-bis, d.l. 30/4/2020, n. 28, prevede che il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza che ha adottato il provvedimento, acquisito il parere del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di condanna e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo per i condannati e internati già sottoposti al regime di cui al predetto articolo 41-bis, valuta la permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria entro il termine di quindici giorni dall’adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile. La valutazione è effettuata immediatamente, anche prima della decorrenza dei termini sopra indicati, nel caso in cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunichi la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell’internato ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena.

Avverso tale norma sono state sollevate dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari (ordinanza del 9/6/2020) e dai Magistrati di Sorveglianza di Avellino e di Spoleto (rispettivamente, con le ordinanze del 3/6/2020 e del 18/8/2020) diverse questioni di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 24 comma 2, 27, comma 3, 32, 102, comma 1, 10 e 11 Cost.

Secondo quanto risulta dal comunicato stampa della Corte costituzionale, con decisione assunta all’udienza del 4/11/2020, la Corte ha ritenuto l’infondatezza di tali questioni non ravvisando alcun contrasto con il diritto di difesa del condannato né con l’esigenza di tutela della sua salute né, infine, con il principio di separazione tra potere giudiziario e potere legislativo.

7. La permanenza all’aperto e la socialità.

Ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), ord. pen., la sottoposizione al regime detentivo differenziato comporta la limitazione della permanenza all’aperto - che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone - ad una durata non superiore a due ore al giorno, fermo restando il limite minimo di cui al primo comma dell’art. 10.

La giurisprudenza di legittimità ha ricondotto tale disciplina nell’ambito della tutela del diritto alla salute, distinguendola da quella relativa alla c.d. socialità, volta, invece, a garantire il soddisfacimento delle esigenze culturali e relazionali di detenuti ed internati (Sez. 1, n. 44609 del 27/06/2018, C., Rv. 274026). Per tale ragione, sono state ritenute illegittime le disposizioni della circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 2 ottobre 2017 e dei regolamenti d’istituto che, con riferimento ai detenuti sottoposti al regime detentivo differenziato, limitano ad una sola ora la possibilità di usufruire di spazi all’aria aperta, consentendo lo svolgimento della seconda ora, prevista dalla lett. f) del comma 2-quater dell’art. 41-bis ord. pen., all’interno delle sale destinate alla socialità. Ciò sia per la differente funzione dei due istituti sia perché la limitazione da due ad una delle ore di permanenza all’aperto, ai sensi del combinato disposto della menzionata lett. f) e dell’art. 10 della legge n. 354 del 1975, cui essa fa rinvio, non può essere stabilita, in difetto di esigenze di sicurezza inerenti alla custodia in carcere di per se stessa considerata, da atti amministrativi a valenza generale, ma deve conseguire all’adozione di un provvedimento specifico ed individualizzato della direzione dell’istituto, chiamata a render conto dei “motivi eccezionali” che, ai sensi del citato art. 10, giustificano la limitazione stessa (Sez. 1, n. 17580 del 28/02/2019, Rv. 275333).

L’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), ord. pen. prevede, inoltre, l’adozione di tutte le misure necessarie a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità e di scambiare oggetti (la norma prevedeva anche il divieto di cuocere cibi che è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 186 del 2018).

La Corte costituzionale ha chiarito che i gruppi di socialità rappresentano la modalità prescelta dal legislatore per conciliare, da una parte, la finalità del regime differenziato (evitare che i detenuti possano mantenere vivi i propri collegamenti con le organizzazioni criminali di riferimento) e, dall’altra, l’esigenza di garantire ai detenuti indispensabili momenti e forme di “socialità” intramuraria (sentenza n. 97 del 2020). Alla luce di tale chiave di lettura, la Corte costituzionale ha, pertanto, interpretato la seconda parte della lettera f) del comma 2-quater riferendo entrambi i divieti, di comunicazione e di scambiare oggetti, ai soli detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità. Per tale ragione la Corte ha ritenuto che la previsione ex lege del divieto assoluto di scambio tra detenuti del medesimo gruppo è in contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3 Cost., trattandosi di un divieto fondato su un bilanciamento ex ante effettuato dal legislatore, non funzionale rispetto alle concrete finalità del regime detentivo in esame, connotato da un contenuto meramente afflittivo e non calibrabile sulle peculiarità del caso concreto. Tuttavia, ha precisato la Corte costituzionale, ove ricorrano specifiche esigenze, l’amministrazione potrà, ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. a), ord. pen., disciplinare le modalità di effettuazione degli scambi tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo nonché predeterminare le condizioni per introdurre eventuali limitazioni (disciplina che sarà comunque, sindacabile dal magistrato di sorveglianza si sensi degli artt. 35-bis, comma 3 e 69, comma 6, lett. b), ord. pen.

Con riferimento, infine, al divieto di comunicazione tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, Sez. 7, n. 18639 del 24/1/2020, Garofalo, Rv. 279351, ha chiarito che per “comunicazione” deve intendersi il processo di trasmissione di una informazione da un individuo ad un altro attraverso lo scambio di un messaggio connotato da un determinato significato, non rientrandovi, quindi, una mera dichiarazione di saluto di natura neutra. Nella fattispecie il detenuto, sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen., si era limitato ad augurare “buon appetito” ad altri detenuti ristretti nel suo varco. La Corte, rilevando l’assenza di alcun elemento che consentisse di ravvisare una forma di comunicazione occulta o fraudolenta rivolta agli altri detenuti, ha, pertanto, confermato l’annullamento della sanzione disciplinare inizialmente inflitta al detenuto.

Tale principio è stato successivamente ribadito da Sez. 1, n. 35215 del 7/10/2020, Della Medaglia, alla luce della ratio della disposizione in esame di impedire la circolazione di informazioni che possa consentire la prosecuzione della gestione delle attività criminali dall’interno del carcere.

8. I permessi premio.

Nell’anno in corso, Sez. 1, n. 21946 del 8/6/2020, Apicella Rv. 279373, si è, inoltre, pronunciata in tema di concedibilità del permesso premio al detenuto in regime detentivo differenziato. Nella fattispecie, il Tribunale di sorveglianza aveva rigettato il reclamo proposto dal detenuto, sottoposto al regime detentivo di cui all’art. 41-bis ord. pen., in materia di permessi premio e dichiarato non luogo a deliberare sulla sua richiesta di accertamento della impossibilità di collaborazione con la giustizia. Ad avviso del Tribunale, infatti, il regime detentivo differenziato cui era sottoposto il detenuto è concettualmente incompatibile con la valutazione di assenza di pericolosità sottesa alla concessione del permesso premio. Si è, dunque, ritenuto che l’esistenza di attuali e persistenti collegamenti del ricorrente con la criminalità organizzata, attestata dalla operatività del regime di cui all’art. 41-bis ord. pen., precluda la concedibilità del permesso-premio.

Tale decisione è stata annullata con rinvio dalla Corte in considerazione della sentenza della Corte costituzionale n. 253/2019 che, superando la presunzione assoluta di pericolosità per i detenuti per reati di c.d. prima fascia, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma del successivo art. 58-ter, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del loro ripristino. Ad avviso della Corte, infatti, sebbene l’eventuale impossibilità di collaborazione con la giustizia non comporta ex se ed automaticamente una valutazione di minore pericolosità (non essendo essa eguale alla collaborazione effettiva che costituisce un segnale forte di ravvedimento), la richiesta del detenuto doveva essere esaminata nel merito, alla luce della sua concreta condizione emergente da diversi elementi, quali il percorso carcerario, la condotta tenuta, l’apertura verso l’osservazione della personalità, le eventuali manifestazioni di resipiscenza o l’ostinato ripudio del trattamento rieducativo, le ragioni della sottoposizione al regime detenuto differenziato.

9. La questione di legittimità costituzionale concernente l’applicazione del regime detentivo differenziato agli internati.

Con ordinanza n. 30408 del 2/11/2020, Nobis, la Prima sezione ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, commi 2 e 2-quater, ord. pen., in relazione agli artt. 3, 25, 27, 111 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 7 CEDU e 4, Protocollo n. 7 CEDU, nella parte in cui prevedono la facoltà di sospendere l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla stessa legge, con adozione obbligatoria delle misure enunciate nel comma 2-quater, nei confronti degli internati, assoggettati a misura di sicurezza detentiva.

Nella fattispecie il ricorso riguardava il provvedimento di rigetto del reclamo proposto avverso il provvedimento di proroga del regime detentivo differenziato disposto in relazione all’esecuzione della misura di sicurezza della casa di lavoro applicata al ricorrente - per una durata iniziale di due anni e successivamente prorogata per ulteriori tre anni - successivamente all’espiazione di una pena complessiva di quattordici anni di reclusione.

La Corte ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale articolata con uno dei motivi di ricorso, partendo dall’analisi delle differenze, quanto a presupposti applicativi, natura e scopi, tra le pene e le misure di sicurezza. In particolare, nel sottolineare l’estraneità, in linea di principio, di queste ultime alla funzione retributiva propria della pena, la Corte ha rilevato che in caso di sottoposizione dell’internato imputabile al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen. si assiste ad una fortissima compressione degli istituti trattamentali fondamentali (lavoro, istruzione, contatti con l’esterno, misure extra-murarie) che comporta una sostanziale omologazione del contenuto della misura di sicurezza a quello della pena detentiva. Ciò soprattutto in considerazione dell’assenza di qualunque discrezionalità nella concreta articolazione delle limitazioni al trattamento penitenziario previste dall’art. 41-bis, comma 2-quater, ord. pen. riferibili, ad avviso della Corte, sia ai detenuti che agli internati, con conseguente uniformità della piattaforma trattamentale.

Sotto altro profilo, la Corte ha rilevato che la sottoposizione al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen. incide in maniera differente sulla durata della pena e della misura di sicurezza. Nel primo caso, infatti, la sua applicazione, pur impedendo l’ammissione a misure alternative, non produce effetti sulla durata della pena, come determinata nella sentenza definitiva. Nel caso della misura di sicurezza, invece, l’applicazione dell’art. 41-bis ord. pen. «costituisce un elemento che influisce in maniera essenziale sui meccanismi della proroga della restrizione in regime sostanzialmente carcerario, concorrendo a rendere tale misura una sorta di pena aggiuntiva sganciata però dal fatto e determinabile solo, in astratto, nei massimi edittali», ma, di fatto, sostanzialmente indeterminata.

Ad avviso della Corte, infatti, pur sussistendo oggi un limite massimo oltre il quale la misura non può più essere ulteriormente prorogata (si richiama l’art. 1, comma 1-quater, del d.l. 31 marzo 2014, n. 52, convertito nella legge 30 maggio 2014, n. 81 che ha previsto che le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima), ciò non significa che la misura, pur determinabile nella sua massima estensione, sia anche determinata, atteso che la misura potrà essere prorogata fino al massimo edittale della pena prevista per il reato più grave e, dunque, per una durata comunemente assai superiore rispetto a quella della pena concretamente inflitta.

Ciò comporta una violazione del principio di proporzione, consentendosi l’applicazione di una sanzione penale – che già la Corte Edu, nella sentenza del 17/12/2009, M. c. Germania, ha qualificato come pena - non più proporzionata alla colpevolezza dell’autore del reato.

A ciò si aggiunge che la sottoposizione dell’internato al regime detentivo differenziato rende difficilmente sperimentabile un concreto percorso di recupero, attraverso misure extramurarie, e pressoché impossibile la revoca o la sostituzione della misura di sicurezza detentiva.

La Corte ha, infine, rilevato un ulteriore profilo di non manifesta infondatezza della questione in relazione al possibile contrasto dell’art. 41-bis, commi 2 e 2-quater, ord. pen. con la garanzia fondamentale del ne bis in idem allorché le misure di sicurezza non risultino realmente differenziabili dalla pena, non soltanto a causa della loro diversa finalità, ma soprattutto in ragione di modalità di esecuzione radicalmente differenziate.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di Cassazione Sez. 1, n. 35242 del 6/11/2020, Amantea Sez. 1, n. 30408 del 2/11/2020, Nobis

Sez. 1, n. 35215 del 7/10/2020, Della Medaglia

Sez. 1, n. 31032 del 25/9/2020, Madonia, Rv. 279992

Sez. 1, n. 30030 del 11/9/2020, Adinolfi, Rv. 279793

Sez. 1, n. 23819 del 22/6/2020, Rv. 279577

Sez. 1, n. 29143 del 22/6/2020, Libri, Rv. 279792

Sez. 1, n. 20983 del 23/6/2020, Sarcone, Rv 279218

Sez. 1, n. 20986 del 23/6/2020, Farao, Rv. 279221

Sez. 1, n. 23945 del 26/6/2020, Rv 279526

Sez. 1, n. 21946 del 8/6/2020, Apicella, Rv. 279373

Sez. 1, n. 14870 del 4/3/2020, Guarino, Rv. 279124

Sez. 7, n. 18639 del 24/1/2020, Garofalo, Rv. 279351,

Sez. 5, n. 32452 del 22/12/2019, Falsone, Rv. 277527

Sez. 1, n. 5446 del 15/11/2019, dep 2020, Amato, Rv. 278180

Sez. 1, n. 5211 del 10/9/2019, dep. 2020, Attanasio, Rv. 278365

Sez. 1, n. 27352 del 17/5/2019, Nobile, Rv. 276413

Sez. 1, n. 16557 del 22/3/2019, Rv 275669

Sez. 1, n. 17580 del 28/02/2019, Rv. 275333 Sez. 1, n. 1033 del 13/11/2018, A.

Sez. 1, n. 53166 del 17/10/2018, Cinà, Rv. 274879

Sez. 1, n. 44609 del 27/06/2018, C., Rv. 274026

Sez. 1, n. 37062 del 9/4/2018, Acampa, Rv. 273699 Sez. 1, n. 27766 del 22/3/2017, Riina

Sez. 1, n. 32405 del 23/2/2017, Farinella, Rv. 270585

Sez. 1, n. 10462 del 25/11/2016, dep. 2017, Santafede, Rv. 269515

Sez. 1, n. 16019 del 27/01/2016, Bonura, Rv. 266620 Sez. 1, n. 38813 del 9/6/2015, Provenzano

Sez. 1, n. 12565 del 3/3/2015, Rv 262301

Sez. 1, n. 18791 del 6/2/2015, Caporrimo, Rv. 263508

Sez. 1, n. 7654 del 12/12/2014, dep. 2015, Trigila, Rv. 262417

Sez. 1, Sentenza n. 1774 del 29/09/2014, dep. 2015, Tarallo, Rv. 261858 Sez. 1, n. 48365 del 21/11/2012, Di Trapani, Rv. 253978

Sez. 1, n. 16681 del 24/1/2011, Buonanno, Rv. 249966

Sez. 1, n. 22373 del 08/05/2009, Aquino Rv. 244132

Sez. 1, n. 42553 del 14/10/2008, Cefariello, Rv. 241717

Sez. 1, n. 41081 del 21/10/2008, Belforte, Rv. 241939).

Sez. 1, n. 46013 del 29/10/2004, Foriglio, Rv. 230136

Sez. 1, n. 8936 del 22/11/2000, Piromalli, Rv. 218229

Sez. 1, n. 656 del 28/01/2000, Ranieri, Rv. 215494 Sentenze della Corte Costituzionale

Corte cost., sent. n. 97 del 2020. Corte cost., sent. n. 122 del 2017 Corte cost., sent. n. 143 del 2013 Corte cost., sent.n. n. 190 del 2010 Corte cost., sent.n. 417 del 2004

Corte cost., sent.n. 390 del 2002,

Corte cost., sent.n. 349 del 1993,

Sentenze della Corte EDU

Corte EDU, sent. 25/10/2018, Provenzano c. Italia

Corte EDU, Grande Camera, sent. 17/9/2009, Enea c. Italia Corte EDU, sent. 11/7/2006, Campisi c. Italia

Corte EDU, sent. 10/11/2005, Argenti c. Italia Corte EDU, sent. 28/6/2005, Gallico c. Italia

  • esecuzione della pena
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO III

L’ESEGUIBILITÀ DEL GIUDICATO PARZIALE.

(di Debora Tripiccione )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’eseguibilità del giudicato progressivo nella giurisprudenza delle Sezioni Unite. - 3 Le ricadute processuali del giudicato progressivo: a) sulle misure cautelari in corso. - 3.1 b) in tema di reato continuato. - 3.2 c) in tema di ricorso straordinario per errore materiale o di fatto. - 3.3 d) in tema di remissione della querela. - 3.4 e) in tema di revisione. - 4 Il contrasto giurisprudenziale sulla eseguibilità del giudicato parziale interno al capo: la tesi della predeterminazione nella sentenza della “pena minima”. - 5 La tesi della “pena minima determinabile”. - 6 Il giudice competente ad individuare la pena minima da eseguire. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

Nell’anno in corso le Sezioni Unite sono state investite del contrasto giurisprudenziale insorto in merito alla eseguibilità del giudicato parziale formatosi sul punto relativo all’affermazione della responsabilità dell’imputato in caso di annullamento con rinvio delle sole statuizioni concernenti il trattamento sanzionatorio.

In particolare, la questione oggetto del richiesto intervento nomofilattico riguardava due distinti profili: 1) eseguibilità o meno del giudicato parziale interno al singolo capo di imputazione; 2) in caso di ritenuta eseguibilità, limiti e presupposti della stessa, avuto riguardo, in particolare, alla necessità che la pena da eseguire, nella misura minima non suscettibile di modificazioni in melius, sia individuata specificamente dalla Corte oppure possa esserlo, anche in ragione di computi ipotetici, dal giudice dell’esecuzione.

La questione è stata decisa dalle Sezioni Unite all’udienza del 29/10/2020 (ric. Gialluisi). Secondo quanto risulta dall’informazione provvisoria il Supremo Consesso ha ritenuto che «in caso di annullamento parziale (art . 624 cod . proc . pen .), è eseguibile la pena principale irrogata in relazione ad un capo (o a più capi) non in connessione essenziale con la parte attinta dall’annullamento parziale per il quale abbiano acquisito autorità di cosa giudicata l’affermazione di responsabilità, anche in ordine alle circostanze del reato, e la determinazione della pena principale, essendo questa immodificabile nel giudizio di rinvio e individuata alla stregua delle sentenze pronunciate in sede di cognizione . La Corte di cassazione, con la sentenza rescindente o con l’ordinanza di cui all’art . 624, comma 2, cod . proc . pen . può solo dichiarare, quando occorre, quali parti della sentenza parzialmente annullata sono diventate irrevocabili .»

2. L’eseguibilità del giudicato progressivo nella giurisprudenza delle Sezioni Unite.

L’art. 624, comma 1, cod. proc. pen., che ha integralmente riprodotto l’art. 545 del cod. proc. pen. del 1930, prevede che, in caso di annullamento con rinvio limitato ad alcune disposizioni della sentenza, questa “ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata”.

I maggiori problemi interpretativi posti da tale norma, sui quali si sono registrati plurimi interventi delle Sezioni Unite, hanno riguardato la questione specifica della operatività delle cause di estinzione del reato, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., nel caso in cui il giudizio di rinvio abbia ad oggetto il solo punto concernente il trattamento sanzionatorio.

L’analisi delle pronunce susseguitesi nell’arco di pochi anni sul tema consente, innanzitutto, di enucleare alcuni principi consolidati sia sul significato della locuzione “parti della sentenza” adottata dal legislatore all’art. 624 cod. proc. pen. che sul perimetro di eseguibilità del giudicato progressivo.

Con riferimento a quest’ultimo profilo, le Sezioni Unite, pur distinguendo costantemente tra l’autorità di cosa giudicata, predicato del giudicato progressivo, e la eseguibilità che, ai sensi dell’art. 650 cod. proc. pen., connota le sentenze e i decreti penali “quando sono divenuti irrevocabili”, hanno sostanzialmente ammesso che anche il giudicato parziale può avere forza esecutiva qualora si tratti di una sentenza cumulativa ed intervenga in relazione a uno o più capi di cui questa si compone. Si tratta, peraltro, di una logica conseguenza dell’autonomia delle azioni penali confluenti nel processo cumulativo, cosicché si viene a riconoscere forza esecutiva ai capi autonomi della sentenza che, non travolti direttamente dalla pronuncia rescindente e non legate alle parti annullate da vincolo di connessione essenziale, nella sostanza, concludono l’esercizio dell’azione penale in relazione ad un determinato reato.

Quanto al significato della locuzione “parti della sentenza”, sin da Sez. U., n. 373 del 23/11/1990, dep. 1991, Agnese, Rv. 186165, la Corte ha chiarito che la stessa si riferisce non solo ai singoli capi contenuti nella sentenza cumulativa, ma anche ai punti di una sentenza avente ad oggetto un unico capo. Si è, infatti, affermato che tale deve intendersi qualsiasi statuizione avente una sua autonomia giuridico-concettuale, riferibile non solo alle decisioni che concludono il giudizio in relazione ad un determinato capo d’imputazione, ma anche a quelle che nell’ambito di una stessa contestazione individuano aspetti non più suscettibili di riesame.

Ad avviso della Corte, infatti, il giudicato penale, sensibile allo sviluppo dinamico del rapporto processuale, può avere una formazione non simultanea, bensì progressiva: ciò accade non solo quando la sentenza di annullamento parziale viene pronunciata nel processo cumulativo e riguarda solo alcuni degli imputati ovvero alcune delle imputazioni contestate, ma anche quando la stessa pronuncia ha ad oggetto una o più statuizioni relative ad un solo imputato e ad un solo capo d’imputazione, perché anche in questa ipotesi il giudizio si esaurisce in relazione a tutte le disposizioni non annullate né inscindibilmente connesse con quelle oggetto di annullamento.

La formazione del giudicato parziale o progressivo sulle parti della sentenza viene, tuttavia, considerata dalla Corte in funzione della delimitazione dell’oggetto del giudizio di rinvio piuttosto che in relazione alla possibile eseguibilità delle parti non annullate. Si afferma, infatti, che allorquando la legge riconosce autorità di cosa giudicata alla parte della sentenza non oggetto di annullamento, non intende riferirsi al giudicato in senso sostanziale, né all’intrinseca idoneità della decisione ad essere posta in esecuzione, bensì soltanto all’esaurimento del potere decisorio del giudice della cognizione.

Ad avviso della Corte, infatti, la eseguibilità di una sentenza penale di condanna non deve essere confusa con l’autorità di cosa giudicata attribuibile ad una o più statuizioni in essa contenute. Nel primo caso, infatti, la definitività del provvedimento va posta in relazione alla formazione di un vero e proprio titolo esecutivo e, quindi, alla materiale e giuridica possibilità di esecuzione della sentenza nei confronti di un determinato soggetto; nel secondo caso, invece, la definitività della pronuncia è conseguente all’esaurimento del giudizio e prescinde dalla concreta realizzabilità della pretesa punitiva dello Stato.

Sulla base di tali considerazioni le Sezioni Unite hanno, pertanto, escluso che possa essere dichiarata la prescrizione del reato quando la causa estintiva sia maturata successivamente alla sentenza di annullamento parziale pronunciata dalla Corte su statuizioni diverse da quelle concernenti l’accertamento del reato e l’affermazione di responsabilità dell’imputato.

Un’ulteriore progressione ermeneutica si è registrata con la sentenza Ligresti (Sez. U., n. 6019 del 11/5/1993), Rv. 193418 – 193421) in cui il Supremo Consesso, oltre a confermare la stessa nozione di “parti della sentenza” adottata dalle Sezioni Unite Agnese, ha precisato che, qualora l’annullamento parziale abbia ad oggetto statuizioni diverse dall’accertamento del fatto-reato e della responsabilità dell’imputato, «la pronuncia di condanna diviene irrevocabile, con conseguente preclusione per il giudice di rinvio di dichiarare prescritto il reato, non solo quando la causa estintiva sia sopravvenuta ma anche quando, eventualmente, tale causa fosse preesistente e non sia stata valutata dalla Corte di cassazione.» (Rv. 193418)

A sostegno di tale principio, le Sezioni Unite hanno affermato che, sebbene il giudice di rinvio decida con gli stessi poteri che aveva il giudice della sentenza annullata e, quindi, normalmente, del giudice di appello (limitatamente ai punti che furono oggetto dell’annullamento o in connessione essenziale con la parte annullata), se il rinvio riguarda soltanto la determinazione della pena, non potrà trovare applicazione l’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., ad esempio, per la concessione di attenuanti (Rv. 193420).

Con la successiva sentenza n. 4460 del 19/1/1994, Cellerini, le Sezioni Unite, hanno chiarito che il rapporto di “connessione essenziale” tra parti annullate e parti non annullate della sentenza deve intendersi come necessaria interdipendenza logico giuridica tra le parti suddette, nel senso che l’annullamento di una di esse provochi inevitabilmente il riesame di altra parte della sentenza seppure non annullata (Rv. 196887).

Inoltre, le Sezioni Unite Cellerini hanno nuovamente ribadito la dicotomia che la formazione del giudicato progressivo implica tra la “irrevocabilità” e la “eseguibilità” della sentenza, «differita in tal caso “in un tempo successivo e condizionato». Ad avviso del Supremo Consesso, infatti, l’autorità di cosa giudicata non va scambiata con l’esecutorietà di una decisione, perché l’esecutorietà non è sufficiente ad attribuire ad un provvedimento la suddetta autorità e, talvolta, neppure il carattere della irrevocabilità mentre vi possono essere decisioni aventi autorità di cosa giudicata senza essere in tutto o in parte eseguibili (come, ad esempio, prosegue ancora la Corte, nel caso della condanna a pena condizionalmente sospesa o che fruisca di indulto revocabile o condizionato ovvero nei casi di differimento della esecuzione della pena previsti dagli artt. 146 e 147 cod. pen. e, comunque, della sentenza di condanna nel periodo di tempo intercorrente tra il momento in cui la stessa è stata pronunciata e quella della sua messa in esecuzione).

Riprendendo il principio già affermato dalle Sezioni Unite Agnese in merito alla eseguibilità differita del giudicato progressivo, le Sezioni Unite Cellerini hanno, pertanto, affermato che, con riferimento all’ipotesi della formazione progressiva del giudicato, conseguente ad annullamento parziale dell’impugnata sentenza da parte della Corte di cassazione, il differimento della “eseguibilità” della sentenza anche nelle parti non annullate ad un tempo successivo - ossia a quello in cui la sentenza sia divenuta definitiva in ogni sua parte - deve ritenersi del tutto legittimo giacché mentre la eseguibilità della sentenza di condanna va posta in relazione alla formazione di un vero e proprio titolo esecutivo e, quindi, alla materiale e giuridica possibilità della esecuzione della sentenza nei confronti di un determinato soggetto, l’autorità di cosa giudicata attribuita ad una o più statuizioni contenute nella stessa sentenza di annullamento parziale è conseguente all’esaurimento del relativo giudizio e prescinde dalla concreta realizzabilità della pretesa punitiva dello Stato. (Rv. 196888). Successivamente, le Sezioni Unite Vitale (sentenza n. 20 del 9/10/1996, Rv. 206170), hanno ribadito la possibilità di formazione progressiva del giudicato sia quando una sentenza di annullamento parziale venga pronunciata nel processo cumulativo e riguardi solo alcuni degli imputati ovvero alcune delle imputazioni, sia quando detta pronuncia abbia ad oggetto una o più statuizioni relative ad un solo imputato e ad un solo capo di imputazione. La Corte ha, inoltre, affermato che la competente autorità giudiziaria può legittimamente porre in esecuzione il titolo penale per la parte divenuta irrevocabile, nonostante il processo, in conseguenza dell’annullamento parziale, debba proseguire in sede di rinvio per la nuova decisione sui capi annullati.

Tale principio di diritto solo in apparenza si pone in contrasto con quanto affermato dalle Sezioni Unite Agnese e Cellerini in quanto, in realtà, la Corte, riprendendo il principio affermato da Sez. 1, n. 4506 del 10/12/1990, Teardo, riferisce l’eseguibilità al solo giudicato parziale, formatosi nell’ipotesi di sentenza cumulativa, su singoli capi.

Nonostante i reiterati interventi delle Sezioni Unite, la questione relativa alla operatività delle cause di estinzione del reato maturate successivamente all’annullamento con rinvio sul solo punto concernente il trattamento sanzionatorio ha continuato ad animare la giurisprudenza, determinando, così, una successiva rimessione alle Sezioni Unite che, con la sentenza n. 4904 del 26/3/1997, Attinà, hanno ribadito la soluzione negativa già adottata dalle Sezioni Unite Agnese, Ligresti e Cellerini (Rv. 207640).

Confrontandosi con l’obiezione mossa da alcuni arresti favorevoli ad individuare una connessione essenziale tra il reato e la relativa sanzione, le Sezioni Unite hanno rilevato che, fermo restando che, di norma, alla commissione di un reato e all’accertamento della colpevolezza segue l’applicazione della relativa sanzione, l’analisi della disciplina codicistica in tema di cause di giustificazione, scusanti, cause di non punibilità e perdono giudiziale dimostra che l’applicabilità della pena non rappresenta una costante del reato. Emerge, dunque, una netta distinzione tra punibilità e reato da cui discende la stessa configurabilità del giudicato progressivo. Affermano, infatti, le Sezioni Unite che «potendo intervenire in momenti distinti l’accertamento della responsabilità e l’irrogazione della pena e non essendo quest’ultima elemento costitutivo del reato, non è “extra ordinem” la concezione di una definitività decisoria che, attinendo all’accertamento della responsabilità dell’autore del fatto criminoso e ponendo fine all’iter processuale su tale parte, crei una barriera invalicabile all’applicazione di cause estintive del reato, sopravvenute alla sentenza di annullamento ad opera della Cassazione o eventualmente già esistenti e non prese in considerazione» e ciò pur permanendo il residuo potere cognitivo del giudice del rinvio in ordine alla determinazione della pena.

Rispondendo, infine, all’ulteriore obiezione concernente le ricadute del principio affermato sulla prescrizione del reato e della pena – configurandosi la regiudicata solo ai fini del primo termine mentre è ancora sub iudice quella concernente la determinazione della pena - le Sezioni Unite hanno nuovamente ribadito la distinzione tra l’autorità di cosa giudicata attribuita alle parti della sentenza non annullate e il giudicato “sostanziale”.

L’inesistenza di una corrispondenza biunivoca tra autorità di cosa giudicata, attribuibile alle parti della sentenza non oggetto di annullamento, e la eseguibilità della sentenza penale di condanna è stata, infine, ribadita da Sez. U., n. 16208 del 27/3/2014, C., sul presupposto che la definitività del provvedimento va raccordata alla formazione di un vero e proprio titolo esecutivo mentre l’autorità di cosa giudicata, di cui all’art. 624 cod. proc. pen., consegue all’esaurimento del giudizio e prescinde dalla concreta realizzabilità della pretesa esecutiva.

3. Le ricadute processuali del giudicato progressivo: a) sulle misure cautelari in corso.

Alcuni successivi arresti della giurisprudenza di legittimità hanno esaminato la questione relativa alla qualificazione dello stato detentivo dell’imputato nel giudizio, se in custodia cautelare o in esecuzione della pena, considerando l’oggetto del giudicato progressivo. Con riferimento alla sentenza cumulativa, è stato affermato che qualora l’annullamento parziale con rinvio riguardi un capo di imputazione, la parte della sentenza riguardante l’affermazione definitiva della responsabilità per i restanti delitti acquista autorità di cosa giudicata; ne deriva che, in relazione a questi ultimi, l’imputato si troverà detenuto non più in stato di custodia cautelare, ma in espiazione della pena definitiva (Sez. 1, n. 36331 del 30/6/2015, Cafasso, Rv. 264528).

Diversamente, si è ritenuto che qualora il giudicato progressivo riguardi il solo punto concernente l’accertamento del reato e la responsabilità dell’imputato, la detenzione dell’imputato deve essere considerata come custodia cautelare, e non come esecuzione di pena definitiva (Sez. 1, n. 22293 del 5/5/2004, De Finis, Rv. 228199; Sez. 6, n. 2324 del 19/12/2013, Ben Lahmar, Rv 258251; Sez. 5, n. 46431 del 13/9/2017, P.G. in proc. Licciardi). Quanto all’individuazione dei termini di durata della custodia cautelare, numerosi arresti hanno affermato che in caso di annullamento con rinvio limitatamente al trattamento sanzionatorio o all’esclusione di una circostanza aggravante, deve ritenersi che si sia formato il giudicato progressivo sul punto concernente l’affermazione della responsabilità dell’imputato, a prescindere dalle statuizioni del giudice sul bilanciamento delle circostanze, cosicché, per i termini di custodia cautelare, deve farsi riferimento, ai sensi dell’art. 303, comma primo, lett. d), seconda parte, cod. proc. pen., ai termini per la durata massima delle misure cautelari stabiliti dal quarto comma dello stesso articolo e non a quelli di fase rapportati alla pena in concreto irrogata (Sez. 4, n. 10674 del 19/2/2013, Macrì, Rv. 254940; Sez. 6, n. 273 del 5/11/2013, Elia, Rv. 257769; Sez. 2, n. 8846 del 12/2/2014, Guzzo, Rv. 259068; Sez. 6, n. 29554 del 3/4/2014, D’Agostino, Rv. 259814; Sez. 2, n. 45095 del 4/7/2017, Assinnata. Rv. 272260).

3.1. b) in tema di reato continuato.

Alla luce dei principi espressi dalle Sezioni Unite in tema di giudicato progressivo, può, dunque, ritenersi eseguibile il giudicato parziale formatosi su uno o più capi di una sentenza cumulativa, purché gli stessi non siano in connessione essenziale con quelli annullati. Tale principio è stato chiaramente affermato, sia pure in termini non assoluti, in tema di reato continuato.

Numerosi arresti hanno, infatti, riconosciuto l’eseguibilità del giudicato formatosi sul reato base solo ove il titolo contenga anche l’indicazione della pena minima da espiare. Il principio è stato affermato chiaramente da Sez. 6, n. 3216 del 14/11/1997, Maddaluno, Rv. 208873, secondo cui “per il principio di formazione progressiva del giudicato, quando la decisione sia irrevocabile in relazione all’affermazione di responsabilità dell’imputato, e rispetto ad essa la sentenza contenga già l’indicazione della pena da irrogare, la sentenza di condanna deve essere posta in esecuzione e il rinvio parziale operato dalla cassazione per ipotesi di reato poste in continuazione con la prima non incide sulla immediata eseguibilità del giudicato.” (in termini conformi, Sez. 1, n. 2071 del 20/3/2000, Sodano, Rv. 215949, Sez. 5, n. 2541 del 2/7/2004, dep. 2005, Pipitone, Rv. 230891 e da Sez. 1, n. 15949 del 21/2/2013, Antonacci, Rv. 256255).

Simmetricamente, è stato ritenuto non eseguibile il giudicato parziale formatosi su taluni reati nell’ipotesi in cui l’esito del giudizio di rinvio avrebbe potuto determinare l’individuazione di un diverso reato più grave e, dunque, un mutamento della struttura del reato continuato (Sez. 1, n. 32477 del 19/6/2013, Dello Russo, Rv. 257003).

Alcuni arresti hanno, inoltre, ritenuto insufficiente la mera determinabilità della pena minima da eseguire. In particolare, Sez. 1, n. 6189 del 7/12/2019, Castiglione, Rv. 278473, ha affermato il principio di diritto così massimato: Il principio secondo cui la sentenza di condanna per la parte divenuta irrevocabile deve essere posta in esecuzione anche in caso di rinvio parziale disposto dalla Corte di cassazione per ipotesi di reato in continuazione con quelle non attinte dall’annullamento, ricollegabile alla regola della formazione progressiva del giudicato, trova applicazione solo se la pena minima da espiare sia stata indicata in modo specifico dalla sentenza di merito divenuta parzialmente irrevocabile, non essendo sufficiente che detta pena sia solo determinabile, anche mediante ragionamenti logici o normativi che conducono a risultati certi, ed il giudizio di rinvio non possa portare ad uno stravolgimento delle indicazioni di pena in esito ad una rivisitazione della struttura del reato continuato, con diversa qualificazione del reato più grave all’interno della sequela criminosa (conf. Sez. 1, n. 6190 del 17/12/2019, dep. 2020, Bruno). Ad avviso della Corte, non è, invece, necessario che la pena inderogabile nel contenuto minimo sia espressamente indicata dalla Corte di cassazione nella sentenza di annullamento. Si osserva, infatti, che il potere di determinazione delle parti divenute irrevocabili, ai sensi dell’art. 624, comma 2, cod. proc. pen., serve a delimitare l’ambito cognitivo e decisorio del giudizio di rinvio; il suo esercizio, quindi, produce una declaratoria che non ha efficacia costitutiva dell’effetto dell’irrevocabilità dei capi estranei alla pronuncia rescindente, ma ha solo efficacia dichiarativa.

È stata, infine, esclusa l’eseguibilità del giudicato parziale su taluni reati avvinti dalla continuazione nell’ipotesi in cui l’esito del giudizio di rinvio possa influire sull’eventuale superamento della soglia di due anni prevista per la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena (Sez. 1, n. 45340 del 10/9/2019, Vinciguerra, Rv. 277915).

3.2. c) in tema di ricorso straordinario per errore materiale o di fatto.

Sviluppando il percorso ermeneutico tracciato dalle Sezioni Unite in tema di giudicato progressivo, Sez. U., n. 28717 del 21/6/2012, Brunetto, Rv. 252935 ha affermato che la legittimazione alla proposizione del ricorso straordinario per cassazione a norma dell’art. 625-bis cod. proc. pen. spetta anche alla persona condannata nei confronti della quale sia stata pronunciata sentenza di annullamento con rinvio limitatamente a profili che attengono alla determinazione del trattamento sanzionatorio.

Pur ribadendo che l’autorità di cosa giudicata acquisita, ai sensi dell’art. 624 cod. proc. pen., dalle parti della sentenza non annullate, non legate da connessione essenziale con quelle annullate, non si riferisce al cosiddetto giudicato sostanziale né all’intrinseca idoneità della sentenza ad essere posta in esecuzione, ma soltanto «all’esaurimento del potere decisorio del giudice della cognizione», le Sezioni Unite hanno, comunque, precisato che, qualora sia divenuta irrevocabile l’affermazione di penale responsabilità in ordine ad un determinato reato, con prosecuzione del giudizio in sede di rinvio ai soli fini del trattamento sanzionatorio, deve ritenersi ontologicamente venuta meno la presunzione di non colpevolezza cosicché deve ritenersi che la posizione dell’imputato sia trasformata in quella di «condannato, anche se a pena ancora da determinare in via definitiva.»

Ad avviso delle Sezioni Unite, ove si escludesse la possibilità di presentare il ricorso per errore di fatto della pronuncia rescindente, si verrebbe a determinare una irragionevole disparità di trattamento tra i condannati i cui ricorsi siano stati integralmente respinti – ammessi a proporre immediatamente ricorso straordinario con la conseguente possibilità di fruire di un rimedio che può condurre alla sospensione dell’esecuzione – e quelli che abbiano, invece, visto il loro ricorso parzialmente accolto con sentenza di annullamento parziale i quali, invece, non potrebbero subito presentare ricorso straordinario al fine di far valere l’errore rescindente e prevenire, per questa via, l’eseguibilità parziale della sentenza di condanna.

3.3. d) in tema di remissione della querela.

Secondo un isolato arresto della giurisprudenza di legittimità in caso di formazione progressiva del giudicato sul punto concernente l’affermazione di responsabilità dell’imputato, non si è in presenza di una condanna in senso formale cosicché, ove sopraggiunga la remissione della querela, ritualmente accettata dall’imputato, non è preclusa la dichiarazione di estinzione del reato. Sez. 1, n. 11206 del 28/9/1994, Ponzetta, Rv. 199621 ha, infatti, affermato che l’espressione condanna è usata per qualificare l’intero provvedimento giurisdizionale, che comprende il riconoscimento della responsabilità dell’imputato in ordine ad un determinato reato e l’applicazione della pena relativa al medesimo. Ne consegue che non si è in presenza di una condanna allorché è stata accertata soltanto la responsabilità dell’imputato, ma non è stata ancora applicata la pena relativa, ipotesi che normalmente si verifica nel caso di annullamento di sentenza del giudice di merito su punti diversi da quello concernente l’affermazione di responsabilità dell’imputato. In tale ipotesi è preclusa soltanto la discussione sulla responsabilità dell’imputato ma non si è in presenza di una condanna, in quanto la decisione, per non essere completa nei suoi necessari elementi di affermazione di responsabilità e di applicazione di pena non può essere posta in esecuzione, non presentando i requisiti dell’irrevocabilità di cui all’art. 648 cod. proc. pen.

3.4. e) in tema di revisione.

Sulla base di analoghe considerazioni, Sez. 5, n. 40941 del 19/9/2013, Arangio Mazza, Rv. 257249 ha ritenuto inammissibile la richiesta di revisione di una sentenza di condanna che risulti definitiva solo con riferimento all’”an” della colpevolezza e non anche al “quantum” della pena. Ad avviso della Corte, infatti, sebbene il nostro ordinamento processuale preveda il giudicato progressivo, l’irrevocabilità è propria delle sole sentenze «interamente passate in giudicato». Fintanto che l’intera decisione non sia divenuta definitiva, prosegue ancora la Corte, la sentenza non può ritenersi irrevocabile, con la conseguenza che, se, ad esempio, sopravvenisse una abrogatio delicti, la stessa, sebbene non irrevocabile quoad poenam, non potrebbe più trovare esecuzione.

4. Il contrasto giurisprudenziale sulla eseguibilità del giudicato parziale interno al capo: la tesi della predeterminazione nella sentenza della “pena minima”.

Nonostante dai reiterati arresti delle Sezioni Unite sul tema emerga una costante linea ermeneutica che, sulla scorta della dicotomia tra autorità di cosa giudicata ed eseguibilità, riconosce, alle condizioni sopra esaminate, forza esecutiva al giudicato parziale formatosi sul capo nel caso di sentenza cumulativa, alcuni arresti delle sezioni semplici hanno ritenuto di estendere tale principio anche all’ipotesi in cui l’irrevocabilità riguardi l’affermazione della responsabilità dell’imputato, proseguendo il giudizio in sede di rinvio in relazione al solo trattamento sanzionatorio.

Come evidenziato dalla Prima sezione con l’ordinanza di rimessione (n. 21824 del 19/12/2019), il contrasto interpretativo ha interessato, oltre l’eseguibilità della pena ed i limiti della stessa, anche l’ulteriore tema concernente la necessità che detta pena sia già determinata dalla sentenza ovvero possa essere computata, in assenza di un’indicazione espressa in sentenza, dagli organi dell’esecuzione – sulla base di calcoli ipotetici che «prefigurino il miglior esito possibile, a favore dell’imputato, del giudizio di rinvio» - ovvero debba essere indicata nella sentenza di annullamento con rinvio, in conseguenza della quale si è formato il giudicato parziale.

Nel caleidoscopio delle molteplici pronunce sul tema (riguardanti, ora l’incidente di esecuzione promosso avverso l’ordine di carcerazione, ora, questioni attinenti alla decorrenza dei termini di durata della custodia cautelare), è possibile enucleare le linee essenziali di un primo orientamento ermeneutico che, in caso di annullamento parziale con rinvio in relazione al solo punto relativo al trattamento sanzionatorio, riconosce l’eseguibilità del giudicato parziale solo qualora sia già determinata la pena detentiva minima da porre in esecuzione e questa sia insuscettibile di modificazioni in melius all’esito del giudizio di rinvio. Innanzitutto, Sez. 1, n. 23592 del 5/6/2012, Martuzi, Rv. 253337, pronunciandosi in una fattispecie in cui l’annullamento con rinvio aveva interessato il solo punto relativo alla misura di sicurezza dell’espulsione, ha ritenuto eseguibile la condanna ormai definitiva sui punti concernenti sia l’affermazione di responsabilità che la pena.

Analogamente, Sez. 1, n. 41941 del 21/9/2012, Pitarà, Rv. 253622, in relazione ad una fattispecie in cui l’annullamento con rinvio aveva interessato la circostanza aggravante di cui all’art. 80 d.P.R. n. 309 del 1990, ha riconosciuto forza esecutiva al giudicato formatosi sull’affermazione di responsabilità dell’imputato in ordine al reato di cui all’art. 73 del citato d.P.R. ed alla pena minima determinata in sentenza per detta fattispecie, dal momento che l’esito del giudizio di rinvio avrebbe potuto comportare soltanto un aumento di pena a seguito del riconoscimento dell’aggravante.

La determinazione della pena minima da espiare, quale condizione di eseguibilità del giudicato parziale, è stata successivamente ribadita da Sez. 1, n. 25881 del 12/5/2015, Neri, e da Sez. 1, n. 3273 del 19/12/2016, dep. 2017, Gallo.

Nella successiva sentenza emessa da Sez. 1, n. 12904 del 10/11/2017, Centonze, Rv. 272610, la Corte ha delimitato con ulteriore precisione il perimetro di eseguibilità del giudicato parziale relativo a sentenza formata da un solo capo di imputazione. La Corte ha, infatti, affermato che, in tema di cosa giudicata, la formazione del giudicato non coincide con l’eseguibilità del titolo, costituendo la prima il mero presupposto della seconda; pertanto l’annullamento con rinvio di una sentenza di condanna composta di un unico capo in relazione al solo trattamento sanzionatorio non comporta automaticamente, in applicazione del principio della formazione progressiva del giudicato, l’immediata eseguibilità di detta sentenza, che può ricorrere soltanto qualora la pena sia definita con certezza nel “quantum” minimo inderogabile. Ad avviso della Corte, infatti, là dove la decisione di annullamento parziale interna al singolo capo di imputazione intervenga sul solo punto concernente il trattamento sanzionatorio, «per effetto della necessità di un nuovo giudizio, a titolo esemplificativo, in punto di circostanze o di bilanciamento di esse», il tema rimesso al giudice di merito può determinare la non eseguibilità della decisione divenuta irrevocabile, per «mancata o non possibile individuazione certa della pena».

Sez. 1, n. 43824 del 12/4/2018, Milito, Rv. 274639 ha delineato con maggiore chiarezza i termini dell’orientamento in esame affermando che, in caso di annullamento parziale della sentenza, qualora sia rimessa al giudice del rinvio la sola questione relativa al riconoscimento di una circostanza aggravante, il giudicato formatosi sull’accertamento del reato e sulla responsabilità dell’imputato impone che la sentenza di condanna, contenente l’indicazione della pena detentiva minima irrogata per effetto delle statuizioni non attinte dall’annullamento, sia posta in esecuzione.

La Corte, riprendendo la propria precedente giurisprudenza sul significato del sintagma “parti della sentenza”, e tenendo, altresì, conto della distinzione, evidenziata dalle Sezioni Unite Cellerini, tra i concetti giuridici di giudicato e di eseguibilità del titolo decisorio, ha affermato che l’eseguibilità della parte della decisione non attinta dall’annullamento parziale con rinvio, né con questo in rapporto di connessione essenziale, «è determinata non da meccanismi inerenti a titolo provvisoriamente esecutivo, bensì esclusivamente dal giudicato che risulti essersi formato sulle parti di sentenza che, ex art. 624 cit., risultino riferite non solo alla statuizione di responsabilità, ma anche alla pena minima da portare esecuzione.»

Ad avviso della Corte, dunque, la pena “minima” deve potersi definire con certezza dalle statuizioni non attinte dalla sentenza di annullamento parziale con rinvio. Si esclude, infatti, la giuridica possibilità dell’emissione di un ordine di esecuzione per la carcerazione che si fondi «su una pena incerta nella sua entità minima o che si basi sul computo di tale entità, su cui però non possa dirsi maturata l’irrevocabilità del giudicato, per essere la stessa, suscettibile -all’esito del giudizio di rinvio inerente al residuo thema decidendum – di modificazioni in melius.»

5. La tesi della “pena minima determinabile”.

Altri recenti arresti hanno ulteriormente sviluppato la tesi sopra esaminata ammettendo l’eseguibilità del giudicato interno al singolo capo di imputazione, formatosi sulla affermazione della penale responsabilità dell’imputato, anche nell’ipotesi in cui la pena minima non sia determinata, ma determinabile secondo precisi criteri logico-giuridici.

Tale orientamento è stato inaugurato, sia pure con riferimento alla determinazione della pena base del reato più grave avvinto dalla continuazione, da Sez. 1, n. 19644 del 9/4/2019, Gallo, Rv. 275605, in cui la Corte, nell’escludere l’effetto preclusivo della decisione adottata in sede di incidente cautelare, ha ritenuto sufficiente, ai fini dell’eseguibilità del giudicato parziale, la determinabilità della pena base per il delitto individuato come reato più grave della continuazione criminosa.

Lo spunto argomentativo offerto dalla sentenza Gallo è stato ulteriormente sviluppato e chiarito da Sez. 1, n. 33154 del 15/5/2019, Chirico, Rv. 277226 secondo cui in caso di annullamento parziale della sentenza, qualora sia rimessa al giudice del rinvio la sola questione relativa al riconoscimento di una circostanza aggravante, il giudicato formatosi sull’accertamento del reato e sulla responsabilità dell’imputato impone che la sentenza di condanna ad una pena che, seppure non determinata, sia determinabile nel minimo e modificabile soltanto in aumento, sia posta in esecuzione. Nella fattispecie, il Procuratore generale presso la Corte di appello aveva chiesto alla Corte di cassazione di stabilire se, ai fini dell’emissione dell’ordine di esecuzione nei confronti dell’imputato, condannato alla pena dell’ergastolo per i reati di omicidio aggravato e in tema di armi con sentenza oggetto di annullamento parziale, limitatamente all’aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 4 cod. pen., occorreva una ordinanza della Corte che determinasse quali parti della sentenza avevano acquistato autorità di cosa giudicata.

La Corte, rilevando preliminarmente che i capi della sentenza concernenti i reati satellite ed il punto relativo alla affermazione di responsabilità per il delitto di omicidio, in quanto privo di connessione essenziale con la parte annullata, avevano acquistato autorità di cosa giudicata, ha affermato che ciò costituisce la premessa della loro esecutività. Nel caso di specie, tuttavia, l’annullamento aveva interessato l’intero punto sul trattamento sanzionatorio, concernente sia il delitto di omicidio che i reati satellite, atteso che la pena dell’ergastolo - in cui era stata assorbito l’aumento a titolo di continuazione - era stata comminata in ragione del concorso della circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 4 cod. pen., attinta dall’annullamento. Ad avviso della Corte, la mancanza di una pena determinata, quale effetto della pronuncia rescindente, non impediva l’esecutività del punto concernente l’affermazione di responsabilità per l’omicidio né dei due capi concernenti le armi. Pur confrontandosi con i principi affermati dall’orientamento esaminato nel precedente paragrafo, la Corte ha, infatti, ritenuto che sussiste una piena equivalenza tra una pena determinata, in parte, con statuizione irrevocabile in punto di responsabilità, e una pena che, seppure non determinata, è determinabile con certezza nel minimo, a fronte della irrevocabilità dell’affermazione di responsabilità e senza che il giudizio di rinvio possa apprezzare la ricorrenza di attenuanti, non ritenute dai giudici di merito e la cui mancata applicazione non ha formato oggetto dei motivi di ricorso accolti. «Quel che rileva, a giudizio del Collegio, è che non residuino margini di incertezza in ordine al quantitativo di pena (minima) non più passibile di essere modificata, se non in aumento, poco importando se quel quantitativo sia espressamente indicato nella parte di sentenza non annullata o se, invece, sia implicitamente desumibile dalla statuizione irrevocabile in punto di responsabilità come diretta conseguenza del combinarsi di detta statuizione con le inderogabili previsioni di legge circa il limite edittale minimo per il reato riconosciuto in sentenza.»

Alla luce di tale considerazione, la Corte ha reputato irrilevante, nel caso di specie, l’omessa determinazione della pena minima da parte del giudice di merito, la cui specie era stata condizionata dalla riconosciuta circostanza aggravante, ed ha dichiarato eseguibile la pena di anni ventuno di reclusione, pari alla pena minima prevista per legge per il reato più grave.

I principi affermati dalla sentenza Chirico sono stati successivamente ribaditi da Sez. 1, n. 42728 del 20/9/2019, Buonavoglia.

6. Il giudice competente ad individuare la pena minima da eseguire.

L’adesione alla tesi esaminata nel par. 5 lascia aperta l’ulteriore questione concernente l’individuazione del giudice competente ad individuare la pena minima da eseguire, ove questa non sia stata già determinata nella sentenza oggetto di annullamento parziale. Al riguardo possono prospettarsi due soluzioni: l’incidente di esecuzione ovvero il ricorso alla stessa Corte di cassazione ai sensi dell’art. 624, comma 2, cod. pen.

Quanto alla prima ipotesi, secondo un principio consolidato, spetta al giudice dell’esecuzione penale il potere-dovere di interpretare il giudicato e di renderne espliciti il contenuto e i limiti, ricavando dalla sentenza irrevocabile tutti gli elementi, anche non chiaramente espressi, che siano necessari per finalità esecutive e, in particolare, per l’applicazione di cause estintive e per la revoca dei benefici condizionati (Sez. 1, n. 14984 del 13/3/2019, Versaci, Rv. 275063; Sez. 1, n. 16039 del 2/2/2016, Violino, Rv. 266624).

Va, tuttavia, considerato, in senso contrario alla soluzione in esame, che Sez. 1, n. 3791 del 31/10/2000, dep. 2001, Trotta, Rv. 218044, ha escluso che il pubblico ministero possa chiedere preventivamente al giudice dell’esecuzione una valutazione dell’esecutività della sentenza e della conseguente legittimità dell’ordine di esecuzione.

In alternativa all’incidente di esecuzione, il P.M. potrebbe chiedere alla Corte di cassazione di dichiarare, ai fini della successiva emissione dell’ordine di esecuzione, le parti della sentenza che hanno acquistato autorità di cosa giudicata, ivi compresa quella relativa alla pena minima.

L’art. 624, comma 2, cod. proc. pen. prevede, infatti, che la Corte di cassazione, contestualmente alla pronuncia rescindente, dichiari in dispositivo quali parti della sentenza annullata sono divenute irrevocabili. In caso di omissione, la norma prevede, inoltre, che, d’ufficio, o su domanda del giudice del rinvio, del pubblico ministero presso il medesimo giudice o della parte privata interessata, la Corte indica le parti divenute irrevocabili con successiva ordinanza in camera di consiglio, da trascriversi a margine o in calce alla sentenza.

Secondo un consolidato principio di diritto, tale declaratoria ha un’efficacia meramente dichiarativa e non costitutiva (Sez. 2, n. 6287 del 15/12/1999, dep. 2000, Piconi, Rv. 217857; Sez. 2, n. 46419 del 16/10/2014, Barchetta, Rv. 261050; Sez. 4, n. 29186 del 29/5/2018, Marangio, Rv. 272966; Sez. 1, n. 10880 del 17/1/2020, Toscano). Si afferma, infatti, che l’irrevocabilità delle parti non annullate, prive di connessione essenziale con quelle annullate, discende dalla sentenza di annullamento e non dalla declaratoria della Corte (si veda anche, in motivazione, Sez. 1, n. 6189 del 17/12/2019, dep. 2020, Castiglione, Rv. 278473 che ha precisato che tale potere serve a delimitare il perimetro cognitivo e decisorio del giudizio di rinvio come può desumersi anche dall’art. 628, comma 2, cod. proc. pen. secondo cui la sentenza del giudice di rinvio può essere impugnata soltanto per motivi non riguardanti i punti già decisi dalla Corte di cassazione ovvero per inosservanza dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen.)

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 10880 del 17/1/2020, Toscano Sez. 1, n. 21824 del 19/12/2019, Gialluisi

Sez. 1, n. 6190 del 17/12/2019, dep. 2020, Bruno

Sez. 1, n. 6189 del 17/12/2019, dep. 2020, Castiglione, Rv. 278473

Sez. 1, n. 6189 del 7/12/2019, Castiglione, Rv. 278473 Sez. 1, n. 42728 del 20/9/2019, Buonavoglia,

Sez. 1, n. 45340 del 10/9/2019, Vinciguerra, Rv. 277915

Sez. 1, n. 33154 del 15/5/2019, Chirico, Rv. 277226

Sez. 1, n. 19644 del 9/4/2019, Gallo, Rv. 275605

Sez. 1, n. 14984 del 13/3/2019, Versaci, Rv. 275063

Sez. 4, n. 29186 del 29/5/2018, Marangio, Rv. 272966

Sez. 1, n. 43824 del 12/4/2018, Milito, Rv. 274639

Sez. 1, n. 12904 del 10/11/2017, Centonze, Rv. 272610 Sez. 5, n. 46431 del 13/9/2017, P.G. in proc. Licciardi Sez. 2, n. 45095 del 4/7/2017, Assinnata, Rv. 272260

Sez. 1, n. 3273 del 19/12/2016, dep. 2017, Gallo

Sez. 1, n. 16039 del 2/2/2016, Violino, Rv. 266624

Sez. 1, n. 36331 del 30/6/2015, Cafasso, Rv. 264528 Sez. 1, n. 25881 del 12/5/2015, Neri

Sez. 2, n. 46419 del 16/10/2014, Barchetta, Rv. 261050

Sez. 6, n. 29554 del 3/4/2014, D’Agostino, Rv. 259814 Sez. U., n. 16208 del 27/3/2014, C., Rv. 258652-258654

Sez. 2, n. 8846 del 12/2/2014, Guzzo, Rv. 259068

Sez. 6, n. 2324 del 19/12/2013, Ben Lahmar, Rv 258251 Sez. 6, n. 273 del 5/11/2013, Elia, Rv. 257769

Sez. 5, n. 40941 del 19/9/2013, Arangio Mazza, Rv. 257249 Sez. 1, n. 32477 del 19/6/2013, Dello Russo, Rv. 257003 Sez. 1, n. 15949 del 21/2/2013, Antonacci, Rv. 256255

Sez. 4, n. 10674 del 19/2/2013, Macrì, Rv. 254940

Sez. 1, n. 41941 del 21/9/2012, Pitarà, Rv. 253622 Sez. U., n. 28717 del 21/6/2012, Brunetto, Rv. 252935 Sez. 1, n. 23592 del 5/6/2012, Martuzi, Rv. 253337

Sez. 5, n. 2541 del 2/7/2004, dep. 2005, Pipitone, Rv. 230891 Sez. 1, n. 22293 del 5/5/2004, De Finis, Rv. 228199

Sez. 1, n. 3791 del 31/10/2000, dep. 2001, Trotta, Rv. 218044

Sez. 1, n. 2071 del 20/3/2000, Sodano, Rv. 215949

Sez. 2, n. 6287 del 15/12/1999, dep. 2000, Piconi, Rv. 217857 Sez. U., n. 4904 del 26/3/1997, Attinà, Rv. 207640

Sez. U., n. 20 del 9/10/1996, Vitale, Rv. 206170

Sez. 1, n. 11206 del 28/9/1994, Ponzetta, Rv. 199621

Sez. U., n. 4460 del 19/1/1994, Cellerini, Rv. 196887 - 196888 Sez. U., n. 6019 del 11/5/1993, Ligresti, Rv. 193418 - 193421 Sez. U., n. 6019 del 11/5/1993, Rv. 193418 - 193421

Sez. U., n. 373 del 23/11/1990, dep. 1991, Agnese, Rv. 186165

  • procedura penale
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO IV

LA DEDUCIBILITÀ IN EXECUTIVIS DELLE NULLITÀ INSANABILI DERIVANTI DALL’OMESSA CITAZIONE IN GIUDIZIO.

(di Andrea Nocera )

Sommario

1 La questione controversa. - 2 La giurisprudenza di legittimità. - 2.1 L’orientamento tradizionale che esclude la deducibilità delle nullità “in executivis. - 2.2 L’orientamento che ritiene ammissibile l’incidente di esecuzione. - 2.3 La possibilità di conversione dell’incidente di esecuzione nel rimedio rescissorio. - 3 Considerazioni di sintesi. - Indice delle sentenze citate.

1. La questione controversa.

La questione rimessa alle Sezioni Unite trae origine da un contrasto di giurisprudenza in ordine alla possibilità, nel vigore della legge 28 aprile 2014 n. 67, introduttiva del processo in assenza, di esperire incidente di esecuzione ex art. 670 cod. proc. pen. per far valere la non esecutività del titolo ove si verifichino nullità endoprocessuali assolute e insanabili derivanti dall’omessa citazione dell’imputato e del suo difensore nel giudizio di merito, ritenendo le stesse non coperte dal giudicato. Alle Sezioni Unite è stato richiesto, più in generale, di definire il rapporto tra il rimedio dell’incidente di esecuzione ex art. 670 cod. proc. pen. e quello rescissorio ex art. 629-bis cod. proc. pen., anche in relazione alla prospettata possibilità di conversione, attesa la profonda diversità di finalità e presupposti dei due rimedi, in quanto l’incidente di esecuzione è volto a eliminare la irrevocabilità della sentenza viziata dall’indicata nullità assoluta insanabile, mentre la rescissione, che presuppone la legittimità formale del contraddittorio, a far valere l’incolpevole mancata conoscenza dell’accusa portata a giudizio.

Nel caso concreto la ricorrente aveva promosso incidente di esecuzione avverso la sentenza di condanna pronunciata all’esito di un processo celebrato in assenza, dichiarata ai sensi dell’art. 420-bis cod. proc. pen., i cui atti introduttivi erano stati erroneamente notificati al difensore di fiducia domiciliatario, in forza di un verbale di elezione di domicilio relativo a un precedente e diverso procedimento, situazione che ha impedito in radice che l’imputata sia stata posta in grado di avere conoscenza del procedimento. Il giudice dell’esecuzione aveva rigettato l’istanza disponendo la trasmissione degli atti alla Corte di appello competente, riqualificndo l’istanza come richiesta di rescissione del giudicato ex art. 629-bis cod. proc. pen.

Dagli atti emergeva, tuttavia, che l’interessata aveva già proposto, in data anteriore autonomo ricorso per la rescissione del giudicato ex art. 625-ter cod. proc. pen., dichiarato inammissibile dalla Corte perchè presentato oltre i trenta giorni dalla conoscenza del provvedimento di esecuzione di pene concorrenti nel quale era compreso il giudicato di condanna.

La questione posta mantiene attualità anche dopo l’introduzione della nuova disciplina del processo in assenza, per effetto della legge n. 67 del 2014, ed il venir meno della notificazione dell’estratto contumaciale della sentenza di condanna, soprattutto in relazione alla deducibilità ex art. 670 cod. proc. pen. delle nullità assolute sulla elezione di domicilio verificatesi nel giudizio di cognizione, che ridondino in una incolpevole mancata conoscenza del processo celebrato in assenza.

Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, formatosi con riferimento all’abrogato giudizio contumaciale, «in materia d’incidente di esecuzione, il giudice deve limitare il proprio accertamento alla regolarità formale e sostanziale del titolo su cui si fonda l’esecuzione, non potendo attribuire rilievo alle nullità eventualmente verificatesi nel corso del processo di cognizione in epoca precedente al passaggio in giudicato della sentenza, che devono essere fatte valere con i mezzi d’impugnazione» (il principio, così massimato, è espresso, da ultimo, da Sez. 1, n. 16958 del 23/02/2018, Esposito, Rv. 27260401 e, ancor prima, da Sez. 1, n. 37979 del 10/06/2004, Condenni, Rv. 22958001; Sez. 1, n. 19134 del 26/05/2006, Santarelli, Rv. 23422401; Sez. 1, n. 8776 del 28/01/2008, Lasco, Rv. 23950901, Sez. 1, n. 4554 del 26/11/2008 dep. 2009, Baratta, Rv. 24279101, e Sez. 1, n. 5880 del 11/12/2013, dep. 2014, Amore, Rv. 25876501). A fronte del chiaro limite di intervento del giudice dell’esecuzione, tale consolidato indirizzo ha, tuttavia, riconosciuto la possibilità di contestare mediante incidente di esecuzione ex art. 670 cod. proc. pen. l’irrevocabilità del titolo, deducendo l’invalidità derivata del provvedimento notificatorio dell’estratto contumaciale di cui all’art. 548 cod. proc. pen. per la nullità dell’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio (Sez. 1, n. 7430 del 17/01/2017, Canalini, Rv. 26922801, che ha affermato il principio così massimato: «la nullità dell’elezione di domicilio, verificatasi nel giudizio di cognizione, rileva nel giudizio di esecuzione nella misura in cui determini l’invalidità della notifica dell’estratto contumaciale, che non subisce alcuna preclusione collegata al giudicato»). L’eventuale dichiarazione di non esecutività del titolo, per effetto dell’accoglimento dell’incidente di esecuzione, consentirebbe l’accesso al giudizio di impugnazione, nel quale potevano essere assunti i provvedimenti di cui all’art. 604 cod. proc. pen., e, dunque, anche la questione di nullità della notificazione degli atti introduttivi che non era stata rilevata nel precedente giudizio.

Un diverso orientamento (Sez. 1, n. 34113 dell’8/05/2015, Fernandez Garrido, Rv. 26463801), di contro, ammette in via di principio la possibilità di scrutinio, ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen., delle nullità assolute insanabili verificatesi nel giudizio di cognizione, deducibili quale «ipotesi d’iniquità del processo svoltosi nei confronti di imputato assente». La diversità dei presupposti di accesso non precluderebbe, infatti, l’astratta esperibilità di entrambi i rimedi avverso una sentenza pronunciata sotto il vigore della legge n. 67 del 2014 quando, come nel caso in esame, la nullità assoluta ed insanabile derivante dall’omessa citazione dell’imputato e del suo difensore, costituente di per sè la prova della mancata incolpevole conoscenza del processo celebrato in assenza, sia dedotta ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen. come invalidità del titolo esecutivo. Tale opposta opzione trova parziale ancoraggio nello stesso orientamento tradizionale, che, in via di eccezione, manifesta significative aperture nel caso in cui, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, si siano verificate nullità assolute ed insanabili ex art. 179 cod. proc. pen. «derivanti dalla omessa citazione dell’imputato o dall’assenza del suo difensore nei casi in cui ne eè obbligatoria la presenza».

La Sezione rimettente segnala due ulteriori questioni.

La prima investe il tema della conoscenza del processo e della riferibilità di questa ad uno qualsiasi degli atti del procedimento o alla “vocatio in iudicium” ed ha trovato definitiva soluzione nella sentenza Sez. U., n. 23948 del 28/11/2019 (dep. 17/08/2020), Ismail Darwish Mhame, Rv. 279420-01 (tema oggetto di autonoma analisi nella presente rassegna).

La seconda riguarda il controverso tema della ammissibilità della conversione del rimedio rescissorio nell’incidente di esecuzione.

Un primo orientamento, infatti, afferma che «il ricorso per cassazione proposto ex art. 625-ter cod. proc. pen. (ora 629-bis cod. proc. pen.) avverso una sentenza divenuta irrevocabile per mancata impugnazione, nel caso in cui la parte abbia avuto notizia dell’esistenza del procedimento penale (nella specie, per essere stata destinataria di un provvedimento di sequestro e avere ricevuto l’avviso di conclusione indagini ex art. 415-bis cod. proc. pen.) ma non abbia in seguito potuto partecipare al giudizio per la nullità della notifica del decreto di citazione, non deve essere dichiarato inammissibile, bensì, prospettando una questione sul titolo esecutivo ex art. 670 cod. proc. pen., convertito in incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen.» (Sez. 5, n. 7818 del 27/11/2018, dep. 2019, Viti Manola, Rv. 27538001).

Di tenore diametralmente opposto è, invece, la soluzione proposta da Sez. 1, n. 39321 del 18/07/2017, Hercules, Rv. 27084001, che ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che aveva respinto l’istanza di riqualificazione del ricorso ai sensi dell’art. 625-ter cod. proc. pen in incidente di esecuzione, non potendo trovare applicazione il principio di conservazione di cui all’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., non avendo l’incidente di esecuzione natura di mezzo di impugnazione.

2. La giurisprudenza di legittimità.

La questione principale rimessa alle Sezini Unite è stata così riformulata: «Se, e come, i rimedi di cui all’incidente di esecuzione ex art. 670 cod. proc. pen. e di cui alla rescissione del giudicato ex art. 629-bis cod. proc. pen. possano tra loro concorrere, essendo il primo rivolto ad eliminare la irrevocabilità della sentenza viziata dalla nullità assoluta insanabile, e, il secondo, avente invece come presupposto la legittimità formale del contraddittorio, rivolto a far valere specificamente l’incolpevole mancata conoscenza dell’accusa portata a giudizio.

Se, in particolare, in caso di sentenza pronunciata in assenza, le nullità insanabili derivanti dall’omessa citazione dell’imputato e del suo difensore siano deducibili a norma dell’art. 670 cod. proc. pen., ovvero restino coperte dal giudicato, essendo piuttosto esperibile il rimedio rescissorio di cui all’art. 629-bis cod. proc. pen. allo scopo di far valere l’incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo».

Il quesito investe la salvaguardia dei diritti fondamentali della difesa ad un equo o giusto processo.

Nell’abrogato sistema del giudizio in contumacia le nullità assolute verificatesi nel corso del giudizio, seppur non deducibili in sede esecutiva in quanto coperte dal giudicato, potevano essere fatte valere ex art. 670 cod. proc. pen. quali vizi di notificazione dell’estratto contumaciale. Nel giudizio in assenza, il rigido sistema di preclusioni alla deducibilità in sede esecutiva delle questioni relative alla nullità verificatesi nel giudizio nel processo in assenza non trova più adeguato bilanciamento nella notifica della sentenza di condanna all’imputato, costituente titolo per l’esecuzione. Di qui le spinte verso la deducibilità in sede di incidente di esecuzione di tali nullità assolute - ed in particolare di quelle relative alla elezione di domicilio da parte dell’imputato dichiarato assente - con la conseguenza di una possibile concorrenza, in ragione della prospettazione, del rimedio ex art. 670 cod. proc. pen. e quello rescissorio ex art. 629-bis cod. proc. pen. (già previsto dall’art. 625-ter cod. proc. pen.).

2.1. L’orientamento tradizionale che esclude la deducibilità delle nullità “in executivis.

Secondo un primo orientamento, espresso da ultimo da Sez. 1, n. 16958 del 23/02/2018, Esposito, Rv. 27260401, «in materia d’incidente di esecuzione, il giudice deve limitare il proprio accertamento alla regolarità formale e sostanziale del titolo su cui si fonda l’esecuzione, non potendo attribuire rilievo alle nullità eventualmente verificatesi nel corso del processo di cognizione in epoca precedente al passaggio in giudicato della sentenza, che devono essere fatte valere con i mezzi d’impugnazione». Il principio è stato affermato in relazione alla eccepita nullità del giudizio per l’omessa designazione, ai sensi dell’art. 97, comma 4, cod. proc. pen., del difensore d’ufficio all’imputato in conseguenza della rinuncia al mandato da parte dell’originario difensore di fiducia. La Corte ha riconosciuto come non sia di ostacolo alla sopravvenuta irrevocabilità della sentenza il verificarsi nel corso del giudizio di una delle nullità assolute ed insanabili di cui all’art. 179 cod. proc. pen. relative alla prevista obbligatoria presenza del difensore.

L’indirizzo si fonda sull’intuizione esegetico-sistematica secondo cui i vizi, anche radicali, verificatisi nel corso del giudizio di cognizione, debbono essere fatti valere con i mezzi d’impugnazione concessi contro la relativa sentenza, rimanendo altrimenti sanati e coperti dal giudicato e, dunque, non rilevanti ai fini dell’impugnazione del titolo esecutivo.

Si osserva che l’incidente di esecuzione, pur presentando taluni caratteri dell’impugnativa, a differenza delle impugnazioni, ha ad oggetto il titolo definitivo e/o esecutivo (sentenza, ordinanza, decreto), ciò che porta ad escludere in via di principio la possibilità di dedurre in sede di incidente di esecuzione invalidità (nullità assolute o ipotesi di inammissibilità dell’impugnazione) che potevano (e dovevano) farsi valere con gli strumenti ordinari nella fase cognitiva. Né, per lo specifico profilo funzionale legittimante, il rimedio può essere utilizzato nella fase della cognizione per formulare censure in funzione vicaria e sostitutiva rispetto ai rimedi impugnatori previsti dalle disposizioni di rito.

Con il rimedio ex art. 670 cod. proc. pen. possono essere sollevate censure e doglianze che, senza mai riguardare l’affermazione di responsabilità compiuta o le valutazioni di merito contenute dal provvedimento portato ad esecuzione, deferiscano errori in cui siano incorsi gli organi esecutivi ed in particolare il pubblico ministero nella determinazione della pena (artt. 657, 663, 667, 668 cod. proc. pen.) e, più in generale, le questioni sull’esistenza, la valida formazione, l’eseguibilità, e la portata applicativa del titolo esecutivo.

Il principio espresso da Sez. 1, Esposito, ribadisce l’orientamento sedimentato della giurisprudenza formatasi nel periodo di vigenza dell’abrogato giudizio contumaciale. La casistica delle nullità endoprocessuali ritenute non deducibili innanzi al giudice della esecuzione riguarda, ad esempio, la notifica effettuata al domicilio eletto presso lo studio del difensore rinunciante al mandato, pur se riverberatasi sulla invalidità dell’estratto contumaciale notificato presso il medesimo indirizzo elettivo (Sez. 1, n. 5880 del 11/12/2013, dep. 2014, Amore, Rv. 25876501), ovvero la dichiarazione di contumacia erroneamente effettuata dal giudice di primo grado (Sez. 1, n. 4554 del 26/11/2008, dep. 2009, Baratta, Rv. 24279101; Sez. 1, n. 37979 del 10/06/2004, Condenni, Rv. 22958001), ovvero la mancata comunicazione all’imputato della notifica dell’atto di citazione ricevuto dal difensore di fiducia domiciliatario (Sez. 1, n. 8776 del 28/01/2008, Lasco, Rv. 23950901), ovvero ancora la erronea qualifica del difensore, di fiducia o di ufficio (Sez. 1, n. 19134 del 26/05/2006, Santarelli, Rv. 23422401). L’eventuale sussistenza di tali nullità insanabili giustifica, di contro, la richiesta di restituzione nel termine per l’impugnazione della sentenza, che può essere presentata anche in via subordinata rispetto alla questione sul titolo esecutivo.

Va significativamente aggiunto che, nel senso espresso da detto indirizzo, anche le

Sezioni Unite (Sez. U., n. 24630 del 26/03/2015, Maritan, Rv.263598-01) hanno, sia pure incidentalmente, e nell’ambito delle nullità assolute riguardanti la difesa tecnica, affermato che «la insanabilità del vizio trova il suo limite preclusivo nel perfezionarsi del giudicato» pur avendo poi escluso da detto limite determinate situazioni non riconducibili tuttavia a quelle oggetto della fattispecie in esame.

L’orientamento in esame ha trovato sostanziale conferma anche a seguito dell’abrogazione del giudizio contumaciale e dell’introduzione del processo in assenza, per effetto della legge 28 aprile 2014 n. 67, che non ha più previsto la notificazione della sentenza all’imputato assente, così precludendo del tutto la possibilità di far valere i vizi ad essa relativi in sede di incidente di esecuzione.

Nel processo “in assenza”, infatti, spetta al giudice della cognizione accertare la corretta instaurazione del rapporto processuale e, soprattutto, la conoscenza (rectius: conoscibilità) del processo da parte dell’imputato ex art. 420-bis cod. proc. pen. Non vi sarebbe spazio, dunque, per l’intervento del giudice della esecuzione, il cui scrutinio investe la regolarità formale del titolo, sulle questioni relative alle nullità insanabili endoprocessuali derivanti dall’omessa citazione dell’imputato e del suo difensore.

Del resto, l’intervento legislativo del 2014, che ha introdotto il processo in assenza, non ha apportato modifiche all’art. 670 cod. proc. pen., la cui proiezione applicativa deve essere rimodulata in relazione alle nuove disposizioni processuali ed all’ambito di operatività del nuovo mezzo di impugnazione straordinario della rescissione del giudizio.

2.2. L’orientamento che ritiene ammissibile l’incidente di esecuzione.

Secondo una contraria opzione ermeneutica, formatasi in tema di giudizio contumaciale (Sez. 1, n. 34113 dell’8/05/2015, Fernandez Garrido, Rv. 26463801) può prospettarsi la possibilità di far valere con l’incidente di esecuzione le nullità assolute che abbiano inciso sulla stessa formazione del titolo esecutivo, poste a fondamento della dichiarazione di assenza ai sensi dell’art. 420-bis cod. proc. pen., nel caso in cui la parte non abbia avuto notizia dell’esistenza del procedimento ovvero non abbia in seguito potuto partecipare al giudizio per la nullità della notifica al domicilio eletto del decreto di citazione a giudizio. Tali nullità, in quanto afferenti al titolo esecutivo, sarebbero deducibili in sede di incidente di esecuzione non come vizi della notifica della sentenza, ma come cause di invalidità del titolo esecutivo (Sez. 5, n. 7818 del 27/11/2018, dep. 2019, Viti Manola, Rv. 27538001).

Se è vero che in via ordinaria la rescissione del giudicato, quale rimedio di chiusura del sistema del processo in assenza, presuppone la (dimostrazione della) incolpevole mancata conoscenza del processo da parte dell’imputato (legittimamente) dichiarato assente ex art. 420-bis cod. proc. pen., per non essere stato informato del processo ovvero aver rinunciato volontariamente ad essere presente, il rimedio può trovare applicazione nel caso dell’errata valutazione del presupposto per la dichiarazione di assenza, così da concedere all’imputato la possibilità di fornire prova contraria per superare la presunzione di conoscenza.

L’assunto trova legittimazione nella garanzia del diritto di partecipazione personale dell’imputato al proprio processo, previsto dall’art. 6 Convenzione Edu, posta in pericolo dalla parziale abrogazione dell’art. 175 comma 2, cod. proc. pen. e del venir meno della notifica della sentenza di condanna, sussiste il concreto rischio di lesione.

Significative aperture sulla deducibilità di nullità endoprocessuali ex art. 670 cod. proc. pen. si manifestano nella citata sentenza Sez. 1, Esposito, che, pur in via di eccezione, sembra escludere il verificarsi di un effetto preclusivo (del giudicato) «rispetto ai vizi che interferiscano con la formazione del giudicato, come ad esempio quelli attinenti, nella fase antecedente alla legge n. 67 del 2014, alla rituale notifica all’imputato dell’estratto contumaciale (da cui il termine per impugnare prende a decorrere: “ex pluribus”, Sez. 1, n. 7430 del 17/01/2017, Canalini, Rv. 269228), ovvero quelli che, incidendo in modo determinante sull’assistenza tecnica dell’imputato, siano in grado per tale via di riflettersi sul titolo, avendo compromesso la previa ed autonoma facoltà d’impugnazione riconosciuta al difensore». Si osserva, in particolare, che il principio di continuità della difesa impone al giudice di provvedere alla nomina di un difensore d’ufficio in caso di definitivo impedimento del difensore di fiducia o d’ufficio in precedenza nominato. Solo tale interpretazione garantisce l’effettività e la pienezza del diritto di difesa in ossequio agli artt. 111, terzo comma, Cost., e 6, par. 3, lett. b) e c), CEDU.

La richiamata Sez. 1, n. 7430 del 17/01/2017, Canalini, Rv. 269228-01, sempre in tema di processo svoltosi in contumacia, aveva affermato che «la nullità dell’elezione di domicilio, verificatasi nel giudizio di cognizione, rileva nel giudizio di esecuzione nella misura in cui determini l’invalidità della notifica dell’estratto contumaciale, che non subisce alcuna preclusione collegata al giudicato» .

L’astratta possibilità di scrutinio in sede di giudizio di esecuzione delle nullità insanabili verificatesi nel giudizio di cognizione, ove rappresentino «ipotesi d’iniquità del processo svoltosi nei confronti di imputato assente, comportante la non esecutività della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen.» viene, poi, espressa in termini negativi da Sez. 1, n. 48723 del 18/10/2019, Piccolo, Rv. 277822-01.

Si tratta, tuttavia, di ipotesi del tutto equiparabili ai vizi che interferiscono con la formazione del giudicato derivanti, nella fase antecedente alla legge n. 67 del 2014, alla rituale notifica all’imputato dell’estratto contumaciale, in quanto, incidendo in modo determinante sull’assistenza tecnica dell’imputato, sono in grado per tale via di riflettersi sul titolo, avendo compromesso la previa ed autonoma facoltà d’impugnazione riconosciuta al difensore.

Il principio è ribadito dalla recente Sez. 1, n. 20989 del 23/06/2020, Barsotti, Rv. 279320-02, ancora con riferimento ad un giudizio contumaciale, in cui il condannato aveva dedotto la mancata conoscenza del processo di appello – e l’assenza di una effettiva difesa tecnica

- promosso dal pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione per essere state eseguite le relative notificazioni al difensore di fiducia che aveva rinunciato al mandato.

2.3. La possibilità di conversione dell’incidente di esecuzione nel rimedio rescissorio.

Sez. 5, n. 7818 del 27/11/2018, dep. 2019, Viti Manola, Rv. 27538001, sulla possibilità di conversione dell’incidente di esecuzione in rescissione del giudicato, ha espresso il principio così massimato: «il ricorso per cassazione proposto ex art. 625-ter cod. proc. pen. avverso una sentenza divenuta irrevocabile per mancata impugnazione, nel caso in cui la parte abbia avuto notizia dell’esistenza del procedimento penale (nella specie, per essere stata destinataria di un provvedimento di sequestro ed avere ricevuto l’avviso di conclusione indagini ex art. 415-bis cod. proc. pen.) ma non abbia in seguito potuto partecipare al giudizio per la nullità della notifica del decreto di citazione, non deve essere dichiarato inammissibile, bensì, prospettando una questione sul titolo esecutivo ex art. 670 cod. proc. pen., convertito in incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen.». Nella specie, la ricorrente aveva proceduto a nominare un difensore di fiducia, presso il quale aveva eletto domicilio, in occasione dell’esecuzione di un provvedimento sequestro, deducendo la propria assenza incolpevole per l’omessa notifica del decreto di citazione a giudizio causata dalla erronea trascrizione del domicilio eletto.

L’orientamento si fonda sulla natura di mezzo di impugnazione straordinaria della rescissione del giudicato, che presuppone la valida formazione del titolo e la mancata incolpevole conoscenza dell’esistenza di un qualsivoglia procedimento nei confronti del condannato, ivi comprese le notizie afferenti alla preliminare fase. La piena conoscenza della “celebrazione del processo” (rectius, esistenza di un procedimento o processo), secondo la Corte, esclude in radice il presupposto per il rimedio di cui all’art. 625-ter (oggi 629-bis) cod. proc. pen. La richiesta di travolgimento del titolo esecutivo, per essersi lo stesso fondato su un vizio di notifica che aveva determinato la nullità del decreto di citazione e si era propagato alla sentenza, viene così riqualificata come incidente di esecuzione, contestando la condannata la corretta formazione e validità del titolo esecutivo, a norma dell’art. 670 cod. proc. pen.

In senso contrario, un diverso e più diffuso orientamento (Sez. 1, n. 39321 del 18/07/2017, Hercules, Rv. 270840-01) ha affermato che l’istanza di incidente di esecuzione - a differenza del rimedio della rescissione del giudicato, che costituisce mezzo di impugnazione straordinario (così, in motivazione, Sez. U, n. 36848 del 17/07/2014, Burba, Rv. 259990-01) - non ha natura impugnatoria, così che non può trovare applicazione il principio di conservazione di cui all’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., previsto per le sole impugnazioni. Le due richieste (ed i due rimedi) sono tra loro incompatibili, in quanto, con l’incidente di esecuzione ex art. 670 cod. proc. pen. il richiedente fa questione dell’esistenza stessa di un valido titolo esecutivo, mentre con il rimedio straordinario di cui all’art. 625-ter cod. proc. pen. (ora 629-bis cod. proc. pen.), sul presupposto della validità formale del titolo (e, dunque, della formale legittimità del contraddittorio nel processo), ne chiede la invalidazione assumendo la mancata conoscenza del procedimento.

Si evidenzia, in particolare, che la difforme opinione espressa da parte dalla citata Sez. 5, Viti Manola, si è formata nella vigenza dell’art. 625-ter cod. proc. pen. che demandava direttamente alla Corte di legittimità la competenza a conoscere dell’esistenza dei presupposti della rescissione, attualmente spettante alla Corte d’Appello nel cui distretto ha sede il giudice che ha emesso il provvedimento.

Il principio espresso da Sez. 1, “Hercules”, trova continuità interpretativa in diverse pronunce, tra le quali: Sez. 6, n. 10000 del 14/02/2017, De Maio, Rv. 269665 – 01, che definisce «ontologicamente diverse (…) la natura e la funzione dell’istituto della rescissione, quale mezzo straordinario di impugnazione» (la Corte, nella specie, ha dichiarato inammissibile la richiesta di rescissione del giudicato ex art. 625-ter cod. proc. pen., quando è presentata in relazione a processo contumaciale nei confronti di soggetto irreperibile definito, anche nei soli gradi di merito, secondo la normativa antecedente alla entrata in vigore della legge 28 aprile 2014, n. 67, escludendo che la stessa può essere qualificata quale richiesta di restituzione nel termine per proporre impugnazione o incidente di esecuzione); Sez. 3, n. 19006 del 14/01/2015, Lazar, Rv. 263510 – 01, da Sez. 1, n. 23426 del 15/04/2015, Lahrach, Rv. 263794 – 01, che, sempre sulla scorta di quanto affermato da Sez. U., Burba, ha escluso la possibilità di qualificare ex officio la richiesta di rescissione del giudicato (nella specie, proposto avverso sentenza divenuta irrevocabile anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 67 del 2014) come incidente di esecuzione per la restituzione anche nel termine per impugnare ex art. 175, comma 2, cod. proc. pen., poiché le due istanze si caratterizzano per diversità di “petitum”.

3. Considerazioni di sintesi.

In attesa della motivazione della decisione delle Sezioni Unite, possono essere svolte alcune considerazioni di sintesi alla luce della articolata risposta fornita alle questioni sollevate.

Al quesito principale, formulato nei seguenti termini: «Se il condannato con sentenza pronunciata “in assenza” che intenda eccepire nullità assolute e insanabili derivanti dall’omessa citazione propria e/o del suo difensore nel procedimento di cognizione possa a tal fine adire il giudice dell’esecuzione, con richiesta ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen., formulando questione sulla formazione del titolo esecutivo», le Sezioni Unite hanno dato risposta negativa.

Si evidenzia sul tema che nell’impianto disegnato dalla legge 28 aprile 2014 n. 67, che non prevede più la notificazione, all’imputato assente, della sentenza, così precludendo del tutto la possibilità di far valere i vizi ad essa relativi in sede di incidente di esecuzione, la rescissione del giudicato è stato introdotto come strumento revocatorio tipico, garanzia e argine ultimo – e di chiusura del sistema processuale di nuova introduzione – per la tutela dell’imputato nella disciplina del processo in assenza, in cui spetta al giudice della cognizione accertare la corretta instaurazione del rapporto processuale e, soprattutto, la conoscenza del processo da parte dell’imputato ex art. 420-bis cod. proc. pen. e non vi sarebbe spazio per uno scrutinio del giudice della esecuzione, che investe la regolarità formale del titolo.

La possibilità di celebrazione del processo in assenza presuppone, nella volontà legislativa riformatrice, la conoscenza certa del processo, per avere l’imputato assente ricevuto a mani la notificazione dell’avviso dell’udienza ovvero perché implicata dal ricorrere di una delle ipotesi espressamente elencate dall’art. 420-bis cod. proc. pen. (dichiarazione o elezione di domicilio, arresto, fermo o applicazione di misura cautelare, nomina del difensore di fiducia), ovvero ancora risultando comunque con certezza che l’imputato è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla sua conoscenza. La “ratio” normativa è quella di legittimare la celebrazione del processo solamente allorquando l’imputato abbia saputo della sua esistenza.

Il processo in assenza è, del resto, caratterizzato dal riconoscimento di una serie di diritti che possono reintegrare l’imputato nelle opzioni endoprocessuali che non sia stato in grado di esercitare, quando provi che l’assenza fosse dovuta alla mancata conoscenza incolpevole del processo. Tra queste, in materia di impugnazione, la previsione di una nuova ipotesi di nullità della sentenza, rilevabile innanzi al giudice di appello ex art. 604, comma 5-bis, cod. proc. pen. e nel giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 623 cod. proc. pen., mentre la rescissione del giudicato permette di recuperare appieno le facoltà difensive, compresse dal precedente istituto della restituzione in termini di cui all’art. 175, comma 2, cod. proc. pen., in quanto, al ricorrere dei presupposti, la sentenza non solo perde lo status dell’irrevocabilità ma viene altresì revocata, con la trasmissione degli atti al giudice di primo grado. Nel giudizio in assenza la rescissione del giudicato non sembra, peraltro, presentare profili di incompatibilità con l’art. 6 Convenzione Edu, nella interpretazione fornitane dalla giurisprudenza della Corte Edu (cfr., tra le decisioni della Corte di Strasburgo che hanno espresso censure alla disciplina del processo contumaciale perché non in linea con i principi di un equo processo, Corte Edu, 12 febbraio 1985, Colozza, c. Italia; Corte Edu, 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia; Corte Edu, 18 maggio 2004, Somogy c. Italia). Tale rimedio, fondato sulla mancata conoscenza effettiva del processo, appare funzionalmente idoneo ad assicurare che, ove l’imputato dichiarato assente non abbia volontariamente rinunciato al processo o si sia sottratto adesso, un giudice deliberi nuovamente, dopo averlo sentito sulla fondatezza dell’accusa, in fatto come in diritto. Né profili di incompatibilità potrebbero essere colti nella previsione di un termine “ragionevole” (trenta giorni dal momento della avvenuta conoscenza del procedimento) per la proposizione della richiesta di rescissione del giudicato (la struttura del giudizio rescissorio impone un controllo sul fatto processuale per la cui risoluzione è necessario un approfondimento delle allegazioni processuali ed il possibile esercizio di poteri istruttori anche “ex officio”).

Allo speculare quesito del «Se le nullità che abbiano riguardato la citazione dell’imputato e/ o del difensore, coperte dal giudicato, pongano il condannato nella condizione di proporre richiesta di rescissione del giudicato, ai sensi dell’art. 629-bis cod. proc. pen., allegando l’incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo che, da quelle, sia derivata» le Sezioni Unite hanno logicamente dato soluzione affermativa.

Giova osservare che la soluzione fornita dalle Sezioni Unite sembra tracciare una linea di continuità con precedenti pronunce:

- Sez. U., “Ismail Darwish Mhame”, che ha espresso il principio così massimato: « Ai fini della dichiarazione di assenza non può considerarsi presupposto idoneo la sola elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio, da parte dell’indagato, dovendo il giudice, in ogni caso, verificare, anche in presenza di altri elementi, che vi sia stata l’effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l’indagato, tale da fargli ritenere con certezza che quest’ultimo abbia avuto conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente alla stessa». In linea con l’interpretazione convenzionale dell’art. 629-bis cod. proc. pen., «la disciplina della rescissione del giudicato … (pur ragionevolmente non potendo certo escludersi che venga dedotto l’errore di valutazione del giudice nel considerare la parte a conoscenza della chiamata in giudizio) fa chiaramente riferimento non al superamento di una presunzione ma alla indicazione di vicende concrete, non note al giudice, che hanno impedito la partecipazione al processo». Del resto, la stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo (Corte Edu, 18 maggio 2004, Somogyi c. Italia; Corte Edu, 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia) ammette pacificamente che, in alternativa alla ufficiale notificazione dell’atto di citazione a giudizio, la effettiva conoscenza possa dimostrarsi anche per “facta concludentia”, così come avviene nelle ipotesi in cui la conoscenza del processo sia dedotta dalla conoscenza del procedimento. Afferma, tuttavia, che tale deduzione è consentita solo qualora si accerti senza equivoci che l’imputato sapesse del procedimento, della natura e del motivo delle accuse mosse contro di lui, non essendo sufficiente a soddisfare il presupposto una conoscenza vaga ed indiretta.

- Sez. U., n. 28912 del 28/02/2019, Innaro, Rv. 275716-01, che, sulla questione della effettiva conoscenza del procedimento da parte del contumace ai fini della restituzione nel termine per impugnare secondo la disciplina dell’art. 175, comma 2, cod. proc. pen., nella formulazione successiva alla riforma del 2005 e sino alla introduzione della disciplina dell’assenza, ha rilevato che i principi generali introdotti nel 2005 per il giudizio contumaciale sono sostanzialmente gli stessi sottesi all’assetto conseguente alla riforma del processo in assenza.

- Sez. U, “Burba”, che aveva escluso la sussistenza di un onere probatorio a carico dell’interessato circa la propria mancata conoscenza del processo, dovendosi in realtà, piuttosto, configurare un onere di allegazione delle specifiche ragioni che giustificano la richiesta di rescissione e degli elementi che vengono indicati a sostegno delle medesime, la cui fondatezza spetta al giudice verificare, ma anche accertare attraverso le integrazioni istruttorie che si rivelassero necessarie.

La necessità della effettiva conoscenza dell’accusa contenuta in un provvedimento formale di “vocatio in iudicium” è stata, inoltre, estensivamente applicata da Sez. 6, n. 43140 del 19/09/2019, Shimi, Rv. 277210-01, al giudizio rescissorio, in ragione della unicità del presupposto; e. più di recente, espressa da Sez. 2, n. 20937 del 06/07/2020, Cerbarano, che ha dichiarato affetta da nullità rilevabile in ogni stato e grado del procedimento la sentenza di merito nel caso in cui si sia proceduto in assenza dell’imputato senza accertare l’effettiva conoscenza da parte del medesimo del processo a suo carico, ove non risultino rapporti con il difensore d’ufficio, indicato dalla polizia giudiziaria in sede di verbale di identificazione, al quale siano stati notificati tutti gli atti del processo (in applicazione del principio, la Corte ha annullato con rinvio degli atti al giudice di primo grado, non avendo il giudice di appello riconosciuto la violazione de gli artt. 420-bis e 420-quater, cod. proc. pen.).

Sul quesito relativo alla possibilità di conversione ex art. 568, comma 5, cod. proc. pen. della istanza ex art. 670 cod. proc pen. in richiesta di rescissione del giudicato l’istanza di incidente di esecuzione («Se, in caso di risposta negativa al primo quesito, la richiesta formulata dal condannato, perché sia dichiarata la non esecutività della sentenza (art . 670 cod . proc . pen .) in ragione di nullità che abbiano riguardato la citazione a giudizio nel procedimento di cognizione, sia riqualificabile, ai sensi dell’art . 568, comma 5, cod . proc . pen ., come richiesta di rescissione del giudicato») le Sezioni Unite hanno concluso negativamente. Tale soluzione si presenta logicamente coerente con la evidenziata ricostruzione della rescissione del giudicato come tipico strumento revocatorio, garanzia e argine ultimo di tutela nel nuovo assetto del processo in absentia, in quanto rende revocabile una decisione definitiva e necessaria la rinnovazione dell’intero giudizio, nonché con l’evidenziata idoneità convenzionale della rescissione del giudicato, che garantisce al condannato, o al sottoposto a misura di sicurezza, rimasto assente durante tutto il corso del processo, di ottenere un nuovo giudizio qualora dimostri che questa sua mancata partecipazione sia dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di Cassazione

Sez. 1, n. 37979 del 10/06/2004, Condenni, Rv. 229580-01

Sez. 1, n. 19134 del 26/05/2006, Santarelli, Rv. 234224-01

Sez. 1, n. 8776 del 28/01/2008, Lasco, Rv. 239509-01

Sez. 1, n. 4554 del 26/11/2008 dep. 2009, Baratta, Rv. 242791-01

Sez. 1, n. 5880 del 11/12/2013, dep. 2014, Amore, Rv. 258765-01 Sez. U, n. 36848 del 17/07/2014, Burba, Rv. 259990-01

Sez. 3, n. 19006 del 14/01/2015, Lazar, Rv. 263510 – 01

Sez. U, n. 24630 del 26/03/2015, Maritan, Rv.263598-01 Sez. 1, n. 23426 del 15/04/2015, Lahrach, Rv. 263794 – 01

Sez. 1, n. 34113 dell’8/05/2015, Fernandez Garrido, Rv. 264638-01

Sez. 1, n. 7430 del 17/01/2017, Canalini, Rv. 269228-01

Sez. 6, n. 10000 del 14/02/2017, De Maio, Rv. 269665 – 01

Sez. 1, n. 39321 del 18/07/2017, Hercules, Rv. 270840-01

Sez. 1, n. 16958 del 23/02/2018, Esposito, Rv. 272604-01

Sez. 5, n. 7818 del 27/11/2018, dep. 2019, Viti Manola, Rv. 275380-01 Sez. U., n. 28912 del 28/02/2019, Innaro, Rv. 275716-01

Sez. 6, n. 43140 del 19/09/2019, Shimi, Rv. 277210-01

Sez. 1, n. 48723 del 18/10/2019, Piccolo, Rv. 277822-01

Sez. U., n. 23948 del 28/11/2019 (dep. 17/08/2020), Ismail Darwish Mhame, Rv. 279420-01 Sez. 2, n. 20937 del 06/07/2020, Cerbarano

Sez. 1, n. 20989 del 23/06/2020, Barsotti, Rv. 279320-02

Sentenze della Corte EDU

Corte Edu, 12 febbraio 1985, Colozza, c. Italia Corte Edu, 18 maggio 2004, Somogy c. Italia Corte Edu, 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia

  • reato
  • esecuzione della pena
  • diritto penale
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO V

RIDETERMINAZIONE DELLA PENA “IN EXECUTIVIS".

(di Andrea Antonio Salemme )

Sommario

1.1 “Abolitio criminis” e fenomeno della successione di leggi penali nel tempo. - 1.2 Sorti della continuazione che avvinca il reato oggetto di abolizione quale reato più grave: poteri e limiti del giudice dell’esecuzione. - 1.3 Sentenze dell’ultimo anno in cui è stata esclusa la ricorrenza di ipotesi di “abolitio criminis. - 2 “Abolitio criminis” e sospensione condizionale della pena. - 3 Introduzione di una nuova scriminante o ampliamento della sfera di operatività di una scriminante già esistente. - 4.1 Conseguenze “in executivis” delle declaratorie di illegittimità costituzionale in tema di sostanze stupefacenti: introduzione. - 4.2 Il percorso della giurisprudenza di legittimità sull’idoneità ad incidere sul giudicato della dichiarazione di illegittimità costituzionale di norme diverse dalla norma incriminatrice dispieganti effetti sul trattamento sanzionatori. - 4.3.1 L’art. 30, comma quarto, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e l’enucleazione del problema dei limiti temporali oltre i quali la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice e di norme diverse dalla norma incriminatrice dispieganti effetti sul trattamento sanzionatorio è insuscettiva di produrre effetti. - 4.3.2 Limite nel presente: i giudizi pendenti. - 4.3.3 Limite nel passato (o “a ritroso”): i rapporti esauriti. - 4.3.4 Problematica determinazione, nella materia penale, del “discrimen” tra rapporti ancora pendenti e rapporti esauriti alla luce dell’idoneità della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice e di norme diverse dalla norma incriminatrice dispieganti effetti sul trattamento sanzionatorio ad oltrepassare il segno del mero giudicato. - 4.3.4 Declaratorie di illegittimità costituzionale in tema di sostanze stupefacenti: necessaria rinnovazione della valutazione sanzionatoria e riduzione di pena. - 4.4.2 Regola e parziale eccezione. - 4.4.3.1 Regola e due temperamenti, quanto a circostanze e riduzione di pena per il rito nel patteggiamento. - 4.4.3.2 Giurisprudenza essenziale con riferimento alle circostanze. - 4.4.3.3 Giurisprudenza essenziale con riferimento alla riduzione di pena per il rito nel patteggiamento. - 4.5 Concordato sui motivi d’appello. - 4.6 Reato continuato. - 5 Rideterminazione “in executivis” delle pene accessorie. - 6.1 Riconoscimento della continuazione ex art. 671 cod. proc. pen.: inquadramento. - 6.2.1 Dovere di motivazione del giudice dell’esecuzione sugli aumenti di pena: contrasto tra la tesi che ne ritiene sempre la configurabilità.... - 6.2.2 .... e la tesi che invece ne ridimensiona la portata ai soli casi di aumenti prossimi alla pena irrogata, per il singolo reato satellite, dal giudice della cognizione. - 6.3.1 Parallelo con il giudizio di cognizione: introduzione. - 6.3.2 I tre orientamenti che si contendono il campo nel giudizio di cognizione. - 6.3.3 Riflessioni conclusive, in rapporto all’applicazione della disciplina del reato continuato, sui poteri-doveri del giudice dell’esecuzione e di quello della cognizione. - Indice delle sentenze citate.

1.1. “Abolitio criminis” e fenomeno della successione di leggi penali nel tempo.

Un’importante sentenza a cavaliere del 2019-2020 – Sez. 1, n. 3269 del 03/10/2019 (dep. 2020), T., che ha annullato con rinvio il provvedimento con cui il giudice dell’esecuzione aveva respinto l’istanza di revoca parziale della sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 167, comma 1, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, nella sua formulazione originaria, per “abolitio criminis” conseguente alla modifica integrale della norma ad opera del decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, ravvisando una continuità normativa tra detto reato e quello previsto dall’art. 167-bis D.Lgs. n. 196 del 2003 – ha affrontato ad ampio raggio il tema dell’“abolitio criminis”, sotto il duplice profilo, da una parte, dell’individuazione della differenza tra essa e la successione di leggi penali nel tempo e, dall’altra, delle sorti della continuazione in cui risulti avvinto il reato oggetto di abolizione quale reato più grave. In riguardo al primo profilo, è evidente che, “a priori”, il criterio per determinare se si versi in ipotesi di “abolitio criminis” ovvero di successione in continuità deve essere lo stesso, sotto pena di una discrasia altrimenti insanabile: tale risultato è in effetti anche formalmente raggiunto dalla giurisprudenza di legittimità, dal momento che l’enunciato di Sez. U, n. 25887 del 26/03/2003, Giordano e altri, Rv. 224607-01, circa il criterio di verifica della successione in continuità, è ripreso sostanzialmente alla lettera da Sez. U, n. 24468 del 26/02/2009, Rizzoli, Rv. 243585-01, circa il criterio di verifica dell’“abolitio criminis”. Sez. 1, n. 3269 del 2020, si pone – come già Sez. 1, n. 36079 del 10/05/2016, Costa, Rv. 268002-01 – nella scia delle due citate sentenze delle Sezioni unite, insegnando che l’abolizione deve essere verificata dal giudice dell’esecuzione in astratto, sulla base di un mero «confronto strutturale» tra le ipotesi di reato precedente e successiva, senza indugiare nella ricerca di «conferme della eventuale continuità tra le stesse facendo ricorso ai criteri valutativi dei beni tutelati e delle modalità di offesa», in quanto il confronto strutturale già di per se stesso consente «in maniera autonoma di verificare se l’intervento legislativo posteriore assuma carattere demolitorio di un elemento costitutivo del fatto tipico, alterando così radicalmente la figura di reato, ovvero, non incidendo sulla struttura della stessa, consenta la sopravvivenza di un eventuale spazio comune alle suddette [ipotesi di reato]» (Rv. 278582- 02). Ne consegue un incisivo ridimensionamento dei poteri del giudice dell’esecuzione già sul piano della mera comparazione delle norme incriminatrici, con riguardo alla determinazione del cui ambito di operatività è espunto il differente e comunque astrattamente concorrente criterio – che invece trova spazio nell’ermeneusi non incentrata sulla verifica se si versi in ipotesi di “abolitio criminis” o di continuità normativa – fondato sull’individuazione del bene giuridico protetto da dette norme e per l’effetto sulle modalità, e finanche sul grado, di offesa allo stesso. Ma siffatto ridimensionamento – secondo Sez. 1, n. 3269 del 2020 – non è l’unico, dal momento che al giudice dell’esecuzione è “a fortiori” precluso di «modificare l’originaria qualificazione [del fatto,] o [di] accertare il fatto in modo difforme da quello ritenuto in sentenza, [o ancora di] sussumere la condotta del condannato sotto una diversa fattispecie, se la riconducibilità della condotta a detta fattispecie non ha mai formato oggetto di accertamento e di formale contestazione nel giudizio di cognizione» (Rv. 278582-03), dal momento che tutti tali profili, proprio in quanto attengono alla concreta conformazione del fatto siccome accertato dal giudice di merito, sono coperti dal giudicato e dunque immodificabili. Trattasi di un approdo acquisito da tempo in giurisprudenza, sol che si consideri che Sez. U, n. 29023 del 27/06/2001, Avitabile, Rv. 219223-01, nel propendere per un’ipotesi di “abolitio criminis” quanto all’abrogazione, in allora, degli artt. 341 e 344 cod. pen., aveva specificato essere preclusa al giudice dell’esecuzione, per le esposte ragioni (successivamente condivise anche da Sez. 1, n. 4461 del 19/01/2015, P.M. in proc. Singh, Rv. 262535-01), la riqualificazione della condotta originariamente contestata e ritenuta come oltraggio in termini di ingiuria aggravata dalla qualità del soggetto passivo ex artt. 61 n. 10 e 594 cod. pen., con correlata rideterminazione della pena già irrogata.

1.2. Sorti della continuazione che avvinca il reato oggetto di abolizione quale reato più grave: poteri e limiti del giudice dell’esecuzione.

In riguardo al secondo dei profili cennati in precedenza, Sez. 1, n. 3269 del 2020, dà continuità all’orientamento secondo cui, riconosciuto dal giudice della cognizione il vincolo della continuazione tra più reati, qualora l’“abolitio criminis” abbia ad oggetto quello più grave, il giudice dell’esecuzione, oltre a revocare la sentenza “in parte qua”, «deve rideterminare autonomamente la pena per i reati-satellite[,] che recuperano la propria autonomia sanzionatoria», atteso che, in tal caso, «la deroga alla intangibilità del giudicato è imposta dalla necessità di osservare la regola fissata all’art. 2, comma 2, del codice penale» (Sez. 3, n. 7667 del 16/02/2002, P.M. in c. Congedo. Rv. 221103-01). Ne consegue una generalizzazione del principio per cui la nuova determinazione della pena per il reato già satellite, in conseguenza dello scioglimento (totale o parziale) del vincolo della continuazione, possa aver luogo «là dove l’aumento computato a titolo di continuazione non corrisponda – per genere, per specie o per quantità di pena – alla sanzione prevista dalla legge» (Sez. 1, n. 18872 del 29/03/2007, Pasimeni, Rv. 237364-01).

Sul punto, per completezza, sia consentito di rammentare come, in passato, fosse stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 cod. proc. pen. nella parte in cui «“non sembra contemplare la fattispecie relativa a più reati unificati sotto il vincolo della continuazione, uno solo dei quali sia stato ‘abolito’ per abrogazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice”», sul presupposto che, in caso «di decisioni aventi ad oggetto più capi di imputazione[,] alcuni dei quali soltanto siano relativi a fattispecie abrogate o dichiarate incostituzionali, «se la legge attribuisse espressamente sia il potere di “revoca parziale” sia quello di “provvedere alla rideterminazione della pena residuata a seguito della revoca parziale”, il [giudice dell’esecuzione] potrebbe scorporare l’una dall’altra condanna e provvedere conseguentemente alla riduzione della pena determinando il residuo da eseguire. Un potere che, fra l’altro, ove venisse riconosciuto, darebbe vita ad ulteriori profili problematici nel caso di reati uniti dal vincolo della continuazione se l’“abolitio criminis” concerna il reato più grave[,] sul quale è stata operata la determinazione della pena base, per di più con un provvedimento “avente natura di ordinanza” […]».

Aveva la Corte costituzionale, con sentenza 6 marzo 1996, n. 96, dichiarato non fondata la questione, - premettendo che, a fronte di una pluralità di reati per i quali è intervenuta condanna, pare più corretta la tesi per cui «la sentenza di condanna dovrebbe essere revocata nella sua interezza, così come prescrive l’art. 673 del codice di procedura penale[,] salvo poi l’esercizio da parte del giudice dell’esecuzione del potere di determinare il residuo della pena inflitta[, alla stregua di un m]eccanismo ben diverso dalla revoca della sentenza […], sicuramente operante anche nell’ipotesi di pluralità di reati»; donde l’inconferenza della “quaestio” della rideterminazione della pena «alla “ratio” dell’art. 673 del codice di procedura penale; e ciò perché la determinazione del “residuo” costituisce soltanto l’ineludibile conseguenza della revoca del giudicato[, nel senso che], una volta venuto meno il giudicato nella sua integrità, sarà necessario pervenire ad adottare una nuova statuizione in sede esecutiva da sovrapporre al giudicato di cognizione»; - indi osservando “funditus” che, ammessa pacificamente la possibilità che la continuazione sia riconosciuta «anche nell’ipotesi in cui il reato per il quale il giudice procede è più grave di quello già giudicato con sentenza irrevocabile di condanna», la circostanza che «la pronuncia del giudice dell’esecuzione [venga] adottata con ordinanza e non con sentenza» tradisce una mera «enfatizzazione della tipologia provvedimentale prevista dalla legge», che «appare in tutta la sua evidenza solo considerando che, in tal modo, viene a mettersi in discussione la stessa disciplina della statuizione che pronuncia l’abolizione del reato. Si omette, infatti, di considerare come il procedimento di esecuzione, da attivare per pervenire all’applicazione dell’art. 673 del codice di procedura penale, [sia] contrassegnato (salvo che per i casi di richiesta manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge e di riproposizione di una richiesta già rigettata basata sui medesimi motivi) dall’assoluta osservanza del principio del contraddittorio proprio dei procedimenti in camera di consiglio, con in più la partecipazione necessaria del difensore e del pubblico ministero». Tale omessa considerazione è ancor più pregnante in quanto si accompagna alla necessità di coordinare il “nomen” del provvedimento «con i tipi di provvedimento del giudice dell’esecuzione, la forza demolitoria dei quali dovrà poi essere documentata secondo il disposto dell’art. 193 delle norme di attuazione».

1.3. Sentenze dell’ultimo anno in cui è stata esclusa la ricorrenza di ipotesi di “abolitio criminis.

Sul piano della casistica, nelle sentenze dell’ultimo anno, la ricorrenza di ipotesi di “abolitio criminis” è stata esclusa in plurime occasioni:

- nell’ambito, precipuamente, del procedimento di esecuzione, con riguardo

-- a condanna definitiva per il reato di cui all’art. 75 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (per violazione, in particolare, dell’obbligo di permanenza presso l’abitazione in ore notturne), «in riferimento alle ricadute della sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale n. 291 del 2013, in tutte le ipotesi in cui la sottoposizione alla misura di prevenzione rimasta sospesa, senza previa verifica di ufficio della persistenza della pericolosità, sia avvenuta prima della pubblicazione della sentenza medesima» (Sez. 1, n. 31214 del 18/09/2020, Mancuso Pantaleone, Rv. 279799-01), non operando, rispetto ad esse, gli effetti retroattivi della pronuncia d’incostituzionalità per l’avvenuto completo esaurimento del rapporto sostanziale (sulla falsariga di quanto già ritenuto, in fattispecie analoghe, da Sez. 1, n. 42703 del 13/09/2019, Terlizzi Michele, Rv. 277230-01, e Sez. 1, n. 36583 del 28/03/2017, Maffi, Rv. 271400-01);

-- a modifica legislativa per effetto della quale un reato procedibile d’ufficio divenga procedibile a querela, in caso di mancata proposizione di questa, non essendo il regime di procedibilità elemento costitutivo della fattispecie [Sez. 1, n. 1628 del 03/12/2019 (dep. 2020), Cela Antonio, Rv. 277925-01, in un caso di appropriazione indebita aggravata ex art. 61, comma primo, n. 11, cod. pen., divenuta procedibile a querela a seguito del decreto legislativo 10 aprile 2018, n. 36];

- nell’ambito, “ad abundantiam”, del procedimento di cognizione, con riguardo

-- alla condotta del gestore di una struttura ricettiva inadempiente all’obbligo di versare al comune le somme riscosse a titolo di imposta di soggiorno, pur quando posta in essere prima delle modifiche introdotte dall’art. 180 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito nella legge 20 luglio 2020, n. 77, avendo la novella dato vita semplicemente ad «un fenomeno di successione di norme extrapenali, incidenti su elementi normativi della fattispecie relativi alla qualifica soggettiva del gestore» (Sez. 6, n. 30227 del 28/09/2020, Di Bono Valeria, Rv. 279724-01);

-- alla condotta di indebito utilizzo di carte di credito o di pagamento, poiché «l’abrogazione dell’art. 55, comma 9, D.Lgs. 21 novembre 2007, n. 231, ad opera del D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, con la contestuale introduzione dell’art. 493-ter cod. pen., integra un’ipotesi di continuità normativa» (Sez. 4, n. 13492 del 21/01/2020, Anselmo Domenico, Rv. 279002-02).

2. “Abolitio criminis” e sospensione condizionale della pena.

Un tema ricorrente nella prassi è la presenza di condanne – aventi ad oggetto reati per cui è intervenuta “abolitio criminis” – da valutarsi in relazione alla concedibilità del beneficio della sospensione condizionale della pena.

In generale, Sez. 3, n. 8803 del 15/01/2020, P.G. in proc. Donato Bernardino, Rv. 278268-01, afferma che, «ai fini dell’applicazione della sospensione condizionale della pena ai sensi dell’art. 165, comma secondo, cod. pen., il giudice di merito può valutare incidentalmente l’intervenuta “abolitio criminis” di fatti per i quali è intervenuta condanna irrevocabile» – senza, dunque, necessità della previa formale revoca della sentenza – «laddove ciò risulti evidente e non sia necessario il compimento di ulteriori accertamenti.

Evidentemente, il presupposto di tale affermazione è che l’“abolitio criminis” elimini in radice la causa ostativa alla concessione di un’ulteriore sospensione condizionale.

In effetti, su questa china, Sez. 1, n. 22277 del 02/07/2020, Fialdini Mario, Rv. 279438- 01 – concernente violazioni degli artt. 10-bis e 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, in cui l’ammontare delle ritenute e dell’IVA non versate era inferiore alle soglie di punibilità rideterminate con il decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 – consolida il principio, già più volte in precedenza affermato [cfr., tra le numerose altre, Sez. 6, n. 16363 del 05/02/2008, Scaccini, Rv. 239555-01; Sez. 5, n. 18 del 27/11/2007 (dep. 2008), Colombo e altro, Rv. 238876-01; Sez. 5, n. 28714 del 04/07/2005, P.M. in proc. Savegnago, Rv. 231867-01], per cui «non deve procedersi alla revoca delle sospensioni condizionali precedentemente concesse con riferimento a condanne per fatti non più previsti dalla legge come reato, in quanto l’“abolitio criminis” fa cessare l’esecuzione e gli effetti penali della condanna, tra i quali deve annoverarsi l’attitudine della medesima a costituire precedente ostativo alla reiterazione della sospensione condizionale della pena».

In punto di “abolitio criminis”, dunque, parrebbe in via di risoluzione il contrasto con l’orientamento contrario, inteso ad affermare che «la presenza di plurime condanne costituisce elemento ostativo ad una nuova concessione [della sospensione condizionale] anche nell’ipotesi che si tratti di condanne per reati poi depenalizzati, posto che la cessazione di tutti gli effetti penali della condanna non può influire sul giudizio prognostico negativo di ravvedimento effettuato presuntivamente dalla legge» (così, alla lettera, Sez. 6, n. 35176 del 05/07/2001, Magrini, Rv. 220106-01; in senso conforme, da ultimo, Sez. 5, n. 34682 del 11/02/2005, Marisca, Rv. 232312-01).

Nondimeno, una volta allargato lo sguardo oltre il terreno dell’“abolitio criminis”, per attingere istituti similari, il contrasto si dimostra ancora vivo. Valga considerare, ad esempio, la recente lezione per cui, «ai fini del giudizio circa la concedibilità o meno della sospensione condizionale della pena, la presenza di precedenti condanne per reati poi estinti ai sensi dell’art. 460, comma 5, cod. proc. pen. può legittimamente essere valutata dal giudice come elemento ostativo alla presunzione che il colpevole si asterrà, per il futuro, dal commettere ulteriori reati» (Sez. 4, n. 41291 del 11/09/2019, Pagani Federico, Rv. 277355-01).

3. Introduzione di una nuova scriminante o ampliamento della sfera di operatività di una scriminante già esistente.

Infine, un fenomeno diverso dall’“abolitio criminis” – comportante la revoca “in executivis” della sentenza di condanna ex art. 673 cod. proc. pen. – è quello involto da una sentenza di condanna pronunciata prima dell’entrata in vigore di una modifica legislativa che introduca una nuova scriminante od ampli la sfera di operatività di una scriminante già esistente.

Detto fenomeno è verosimilmente destinato ad assurgere alla ribalta dell’esperienza giudiziaria nella sua seconda declinazione, in considerazione dell’introduzione della cd. legittima difesa domiciliare, di cui all’art. 52, comma quarto, cod. pen., ad opera della legge 28 aprile 2019, n. 36.

In argomento, Sez. 1, n. 14161 del 20/02/2020, Abico Carmelo, Rv. 278973-01, con una serie di considerazioni di ampio respiro sistematico, chiarisce come «rientr[i bensì] tra le attribuzioni del giudice dell’esecuzione il potere di verificare la ricorrenza dei presupposti – purché specificamente allegati dall’istante – per l’applicazione retroattiva della scriminante ai sensi dell’art. 2, comma secondo, cod. pen., ma non quello di revocare detta sentenza ex art. 673 cod. proc. pen.», atteso che la revoca (come ricordato dalla […] sentenza della Corte costituzionale n. 96 del 1996) trova causa esclusivamente nell’“abolitio criminis” «derivante da abrogazione o da dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice» e non già nella sopravvenuta qualifica di mera liceità penale del fatto, alla stregua di indici che devono essere sottoposti, in concreto, da parte del giudice dell’esecuzione, a stringente vaglio fattuale (tanto che, nella specie, la S.C. ha ritenuto inammissibile il ricorso avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza di revoca di una sentenza irrevocabile di condanna per il delitto di tentato omicidio, rilevando, tra l’altro, che il ricorrente non aveva dedotto gli elementi circostanziali idonei ad integrare l’invocata nuova scriminante).

4.1. Conseguenze “in executivis” delle declaratorie di illegittimità costituzionale in tema di sostanze stupefacenti: introduzione.

Anche nel 2020, un florilegio di pronunce si è trovato ad affrontare le molteplici conseguenze “in executivis” delle recenti declaratorie di illegittimità costituzionale che hanno segnato il diritto penale delle sostanze stupefacenti. Il riferimento è,

- anzitutto, alla sentenza della Corte costituzionale 11 febbraio 2014, n. 32, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49, che unificavano il trattamento sanzionatorio, in precedenza differenziato, previsto dall’art. 73 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, per i reati aventi ad oggetto rispettivamente le cd. “droghe leggere” e le cd. “droghe pesanti”, con conseguente reviviscenza dell’art. 73 medesimo e delle relative tabelle, in quanto mai validamente abrogati, nella formulazione precedente alle modifiche apportate con le disposizioni annullate;

- secondariamente, alla sentenza della Corte costituzionale 23 gennaio 2019, n. 40, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui prevede la pena minima edittale della reclusione (e – ci si permette di sottolineare sin d’ora– soltanto di questa) nella misura di otto anni anziché di sei anni, in quanto «la divaricazione di quattro anni – venutasi a creare a seguito del d.l. n. 36 del 2014, come convertito – tra il minimo edittale di pena previsto dal comma censurato per i fatti non lievi connessi al traffico di stupefacenti e il massimo edittale della pena comminata dal successivo comma 5 per i fatti lievi costituisce un’anomalia sanzionatoria in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza, oltre che con il principio di rieducazione della pena» (così, alla lettera, la massima n. 42185).

4.2. Il percorso della giurisprudenza di legittimità sull’idoneità ad incidere sul giudicato della dichiarazione di illegittimità costituzionale di norme diverse dalla norma incriminatrice dispieganti effetti sul trattamento sanzionatori.

Per cogliere appieno la complessità delle questioni di cui dibatte la giurisprudenza in ordine alle ricadute di Corte cost. n. 40 del 2019 e, per quanto ancora d’attualità, di Corte cost. n. 32 del 2014, deve considerarsi che oggetto delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale, non era la norma incriminatrice, ma il trattamento sanzionatorio dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990.

Avvertita di tale complessità, del resto, è la stessa Corte cost. n. 32 del 2014, la quale, premesso che «gli effetti “in malam partem” connessi al più grave trattamento sanzionatorio dei reati concernenti le c.d. “droghe pesanti”, che trova applicazione per effetto della riviviscenza della precedente disciplina, non precludono l’esame nel merito della questione, atteso che la decisione della Corte non fa altro che rimuovere gli ostacoli all’applicazione di una disciplina stabilita dal legislatore, senza configurare nuove norme penali», rileva altresì subito in appresso che, «quanto agli effetti sui singoli imputati, è compito del giudice comune, quale interprete delle leggi, impedire che la dichiarazione di illegittimità costituzionale vada a detrimento della loro posizione giuridica, tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 cod. pen., che implica l’applicazione della norma penale più favorevole al reo» (massima n. 37670).

Sul punto, compiendo un passo indietro, torna utile ricordare che, solo con Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013 (dep. 2014), Ercolano, Rv. 258650-01, si è avuto il definitivo suggello dell’orientamento, già assolutamente prevalente, a termini del quale l’art. 30, comma quarto, della legge 11 marzo 1953, n. 87 («Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale»), secondo cui, «quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali», «non è stato implicitamente abrogato dall’art. 673 cod. proc. pe., posto che quest’ultima disposizione, a differenza della prima, avente natura sostanziale, è norma processuale che detta la disciplina del procedimento di esecuzione per l’ipotesi dell’abrogazione o della declaratoria d’incostituzionalità di una previsione incriminatrice».

La tesi dell’abrogazione implicita dell’art. 30, comma quarto, della legge n. 87 del 1953 era patrocinata da Sez. 1, n. 27640 del 19/01/2012, PMT in proc. Hamrouni, Rv. 253384- 01, la quale tuttavia viene qui ricordata, non già per tale tesi, quanto piuttosto perché in motivazione si profonde ampiamente per dimostrare che il succitato art. 30, comma quarto, tra l’altro, a suo dire, implicitamente abrogato dall’art. 673 cod. proc. pen. (che, nel prevedere la revoca della sentenza di condanna, ne assorbe interamente la portata), ha riguardo agli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice e non anche di altre norme che, pur incidendo sul trattamento sanzionatorio, incriminatrici non sono: ragion per cui, in relazione a queste seconde, dovrebbe aver vigore il limite generale dell’intangibilità del giudicato, alla stregua dell’art. 136, comma 1, Cost. e dell’art. 30, comma 3, l.n. 53 del 1987. La riprova, secondo la sentenza in esame, la quale cita a supporto un’ampia schiera di conformi, si ha in ciò che «l’effetto della cessazione […] di “tutti gli effetti penali” della “sentenza irrevocabile di condanna” implica […] il radicale presupposto dell’“abolitio criminis”. E, per vero, non è d’uopo indugiare sul punto della patente inconciliabilità del regime della cessazione d “tutti” gli effetti penali della condanna irrevocabile colla dichiarazione della illegittimità costituzionale di una mera circostanza aggravante del reato» (quale quella di cui all’art. 61, n. 11-bis, cod. pen., oggetto, nella specie, di regiudicanda).

L’ulteriore tappa evoluta della giurisprudenza si registra, idealmente, con Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, P.M. in proc. Gatto, Rv. 260700-01, la quale, giust’appunto in riferimento alla suddetta circostanza aggravante, proclama il principio che «la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 61 n. 11-bis cod. pen., ad opera della sentenza della Corte costituzionale n. 249 del 2010, impedisce che sia eseguita la porzione di pena, irrogata con sentenza irrevocabile, corrispondente all’applicazione della circostanza aggravante prevista da tale norma, spettando al giudice dell’esecuzione individuare la porzione di pena da eliminare». In tal guisa, anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale di norme diverse dalla norma incriminatrice, che dispieghino effetti sul trattamento sanzionatorio, acquisisce idoneità ad incidere sul giudicato, alla stessa stregua della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, sul rilievo che nel primo caso, come nel secondo, è medesimamente impedita l’esecuzione della porzione di pena afflitta, in via derivata, da contrarietà alla Costituzione.

È nel descritto contesto evolutivo che si inserisce l’ormai celebre Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205-01, la quale, sul terreno degli effetti di Corte cost. n. 32 del 2014, chiude il cerchio dogmatico, qualificando propriamente «illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato, per le droghe cosiddette “leggere”, sui limiti edittali dell’art. 73 d.P.R. [n.] 309 [del] 1990 come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con [la predetta sentenza], anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità».

Il contrasto si misurava invero con due sentenze che, pur prendendo atto della «reintroduzione per le droghe cosiddette “leggere” di un trattamento sanzionatorio di maggior favore per il reo», propendevano per la non automatica configurabilità di un’ipotesi di «nullità sopravvenuta della pena inflitta quando, in presenza di motivazione esaustiva, non [fosse] ipotizzabile l’irrogazione di una sanzione ad essa inferiore sulla base dei reintrodotti limiti edittali» (Sez. 4, n. 47278 del 25/09/2014, Bronzino, Rv. 260734-01; Sez. 3, n. 27957 del 12/06/2014, Tirocchi, Rv. 259401-01).

4.3.1. L’art. 30, comma quarto, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e l’enucleazione del problema dei limiti temporali oltre i quali la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice e di norme diverse dalla norma incriminatrice dispieganti effetti sul trattamento sanzionatorio è insuscettiva di produrre effetti.

La perdurante vigenza, di cui si è dato conto nelle pagine precedenti, dell’art. 30, comma quarto, della legge n. 87 del 1953 apre ad un momento interpretativo fondamentale. Infatti, posto che le dichiarazioni di illegittimità costituzionale così della norma incriminatrice come delle norme non incriminatrici dispieganti effetti sul trattamento sanzionatorio sono parimenti idonee ad incidere sul giudicato, sorge l’impellente esigenza di individuare i limiti, “a ritroso” e nel presente, oltre i quali dette dichiarazioni di illegittimità costituzionale non sono purtuttavia in grado spingersi.

4.3.2. Limite nel presente: i giudizi pendenti.

L’individuazione del limite nel presente pare un poco più agevole, almeno in linea di principio, rispetto all’individuazione del limite “a ritroso”. Invero la dichiarazione di illegittimità costituzionale dispiega effetti nei giudizi pendenti, secondo, tuttavia, le regole che li governano. Pertanto, qualora il giudice faccia erroneamente applicazione della norma dichiarata incostituzionale, come se fosse ancora vigente, il vizio che ne deriva si converte in motivo di gravame, con la conseguenza che, esaurite le possibilità di impugnazione con la maturazione del giudicato, non v’è “teoricamente” più spazio per denunciare il vizio stesso. Precisasi, nondimeno, “teoricamente”, perché, a mente del fondamentale principio di civiltà giuridica enunciato da Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera e altro, Rv. 265108- 01, secondo cui «l’illegalità della pena, derivante da palese errore giuridico o materiale da parte del giudice della cognizione, privo di argomentata valutazione, ove non sia rilevabile d’ufficio in sede di legittimità per tardività del ricorso, è deducibile davanti al giudice dell’esecuzione, adito ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen.», il giudice dell’esecuzione, che assurge al ruolo di giudice della legalità della pena, ben può correggere l’errore giuridico o materiale compiuto dal giudice della cognizione, ancorché ciò configuri un intervento manipolatorio del giudicato, ad una triplice condizione, però, ossia che effettivamente di errore si tratti, l’errore sia palese e difetti alcuna argomentata valutazione (in presenza della quale, invece, l’errore, pur esistente, è definitivamente coperto dal giudicato).

Il ragionamento testé illustrato trovasi esposto in Sez. 1, n. 23842 del 09/07/2020, Sanna, la quale, in una materia per vero diversa dal diritto penale degli stupefacenti, assume che l’aumento di pena erroneamente disposto per la recidiva reiterata, di cui all’art. 99, comma quinto, cod. pen., con sentenza di condanna divenuta definitiva dopo la sentenza della Corte costituzionale 8 luglio 2015, n. 185, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del carattere obbligatorio dell’aumento stesso, non possa essere rivalutato dal giudice dell’esecuzione, trattandosi di una violazione di legge coperta dal giudicato da cui non consegue un’ipotesi di illegalità della pena emendabile “in executivis”, non venendo in rilievo l’irrogazione di una sanzione non prevista dall’ordinamento, o eccedente il limite legale in conseguenza di un vizio che non riguardi il solo calcolo seguito per la determinazione della pena finale, o affetta da un errore macroscopico del tutto estraneo ad ogni argomentata valutazione di merito; per l’effetto, nella specie, la S.C. che l’ordinanza con cui il G.E. aveva respinto la richiesta del condannato di rideterminazione della pena inflittagli con sentenza irrevocabile successiva alla declaratoria di illegittimità costituzionale fosse incorsa in alcun errore macroscopico privo di rappresentazione valutativa, al quale avrebbe dovuto porsi rimedio in sede esecutiva, tanto più in quanto aveva detto giudice rilevato come la sentenza non avesse applicato la recidiva reiterata in considerazione della sua obbligatorietà, ma avesse motivato sull’effettiva sussistenza dei relativi presupposti.

4.3.3. Limite nel passato (o “a ritroso”): i rapporti esauriti.

Quanto al limite “a ritroso” della dichiarazione di illegittimità costituzionale, suole identificare detto limite con i rapporti esauriti, che, proprio perché tali, sono insensibili (a prescindere dal – ed oltre il – giudicato) alla modificazione della conformazione giuridica della realtà derivante dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale di alcuna norma di legge. Il problema è inizialmente colto nella sentenza della Corte costituzionale 19 ottobre 1966, n. 127, laddove in motivazione leggesi che dalla dissimilitudine tra la dichiarazione di illegittimità costituzionale e l’abrogazione di una norma di legge «e dal carattere sostanzialmente invalidante della dichiarazione [stessa] deriva […] che [essa] produce conseguenze assimilabili a quelle dell’annullamento. Con incidenza quindi, in coerenza con gli effetti di tale istituto, anche sulle situazioni pregresse, verificatesi nello svolgimento del giudizio nel quale è consentito sollevare, in via incidentale, la questione di costituzionalità, salvo il limite invalicabile del giudicato, con le eccezioni espressamente prevedute dalla legge, e salvo altresì il limite derivante da situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili» (in specie, parr. 4, 5 e 6).

Rilevato che le «eccezioni espressamente prevedute dalla legge» sono quelle della materia penale, di cui si discute, l’attingimento vero e proprio del limite dei rapporti esauriti si deve a due sentenze storiche di poco successive.

Alla stregua della sentenza della Corte costituzionale 15 marzo 1967, n. 58, le declaratorie di illegittimità costituzionale «fanno sorgere l’obbligo per i giudici avanti ai quali si invocano le norme di legge dichiarate costituzionalmente illegittime di non applicarle, a meno che i rapporti cui esse si riferiscono debbano ritenersi ormai esauriti in modo definitivo ed irrevocabile, e conseguentemente non più suscettibili di alcuna azione o rimedio, secondo i principi invocabili in materia»; ciò, tuttavia, fermo che «l’applicazione in concreto di tali principi [– e qui, ci si permette di sottolineare, sta il punto –] compete al giudice del merito, che dovrà effettuarla con riguardo alla natura ed entità del vizio accertato nella legge, nonché alla particolarità delle circostanze della controversia a lui sottoposta» (par. 3). Il che è come dire che spetta al giudice ordinario stabilire se in concreto ricorra un rapporto ormai esaurito, avuto riguardo peraltro, non già solo all’insuscettibilità di alcuna azione o rimedio ulteriore alla luce della disciplina della materia, ma altresì alla natura ed all’entità del vizio inficiante di incostituzionalità la legge, ragion per cui, in definitiva, come chiarito dalla sentenza della Corte costituzionale 15 gennaio 1969, n. 26, «il […] problema dell’efficacia retroattiva delle sentenze di annullamento dev’essere affidato per la soluzione nei casi concreti ai giudici di merito […]. Una competenza della Corte al riguardo [, infatti,] potrebbe sorgere solo ove siano invocabili principi, consacrati nel testo costituzionale o in esso impliciti, dai quali si argomento l’esigenza di derogare al criterio generalissimo enunciato della intangibilità degli effetti derivati da rapporti esauriti» (così il par. 3; sostanzialmente in termini Corte costituzionale 10 febbraio 1970, n. 49, parr. 2, 3 e 4, la quale spiega che, come al giudice ordinario spetta di individuare questioni di legittimità costituzionale temporalmente rilevanti in funzione di situazioni soggette a norme di legge effettivamente applicabili sospette di contrarietà a Costituzione, così al medesimo spetta di individuare in via interpretativa i limiti all’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale involgente norme di legge del pari effettivamente applicabili, atteso che «rilevanza della questione e divieto di applicazione di norme dichiarate costituzionalmente illegittime sono termini inscindibili»; soggiunge, infine, Corte costituzionale 23 marzo 1984, n. 139, par. 15, che «il principio, che suole essere enunciato con il ricorso alla formula della c.d. “retroattività” [delle sentenze di annullamento], vale però soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida»).

4.3.4. Problematica determinazione, nella materia penale, del “discrimen” tra rapporti ancora pendenti e rapporti esauriti alla luce dell’idoneità della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice e di norme diverse dalla norma incriminatrice dispieganti effetti sul trattamento sanzionatorio ad oltrepassare il segno del mero giudicato.

Alla stregua di quanto precede, nella materia penale, dove declaratorie di illegittimità costituzionale di norme incriminatrici e non sono dall’art. 30, comma quarto, della legge n. 87 del 1953 abilitate ad oltrepassare il segno del mero giudicato, la determinazione del “discrimen” tra rapporti ancora pendenti, per i quali, stante detto comma quarto, «cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali» della sentenza irrevocabile pronunciata in applicazione della norma dichiarata incostituzionale, e rapporti ormai esauriti, per quali, di conseguenza, non è più possibile che si realizzi tale cessazione, è rimessa al giudice ordinario. La questione, che si risolve nello stabilire quando sussistano i presupposti di un’esecuzione e di eventuali effetti penali passibili di dover cessare, registra un contrasto, venuto alla luce negli ultimi tempi a proposito dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, sulla rilevanza o meno del fatto che, eseguita la pena detentiva, debba essere ancora riscossa quella pecuniaria congiuntamente irrogata. In altri termini, il tema sul tappeto è se il cd. rapporto esecutivo possa dirsi esaurito già con la semplice esecuzione della pena detentiva oppure debba ritenersi pendente sino alla completa riscossione anche di quella pecuniaria.

Secondo un primo orientamento, «è inammissibile l’istanza rivolta al giudice dell’esecuzione di rideterminazione della pena illegale, derivante da dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, qualora la pena detentiva sia stata interamente eseguita, in quanto, agli effetti dell’art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il rapporto esecutivo si esaurisce con l’espiazione di detta pena, a nulla rilevando che debba ancora essere riscossa l’eventuale pena pecuniaria contestualmente irrogata» [così Sez. 1, n. 20248 del 19/10/2018 (dep. 2019), Rinaldi Raffaele, Rv. 275811-01, intervenuta in una fattispecie in cui il condannato – dopo aver già scontato la pena della reclusione inflittagli per il delitto di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 – aveva chiesto la rideterminazione della pena alla stregua delle più favorevoli previsioni edittali tornate in vigore a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, onde poter commutare, ex art. 657, comma 3, cod. proc. pen., la quota di pena detentiva espiata in eccesso in pena pecuniaria, con corrispondente riduzione del debito verso l’erario].

Di contrario avviso è altro più recente orientamento, secondo cui «sussiste l’interesse del condannato ad ottenere la rideterminazione “in executivis” della pena divenuta illegale a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 qualora, pur interamente espiata la pena detentiva, non sia stata ancora eseguita quella pecuniaria contestualmente irrogata, atteso che, agli effetti dell’art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il rapporto esecutivo si esaurisce soltanto con l’estinzione di entrambe tali pene» (così Sez. 1, n. 13072 del 03/03/2020, Candido Giuseppe, Rv. 278893-01, la quale in motivazione si è spinta financo a precisare che, nel caso in cui residui da eseguire la sola pena pecuniaria, la rideterminazione ad opera del giudice dell’esecuzione deve investire anche quella detentiva, in funzione della eventuale commisurazione, nell’ipotesi di esecuzione di pene concorrenti, della pena residua da espiare). In termini ancor più generali, affermasi che, ai fini della valutazione di cui all’art. 30 l. n. 87 del 1953, in ordine all’eventuale esaurimento del rapporto esecutivo, deve aversi riguardo, non solo alla pena detentiva, ma anche a quella anche a quella pecuniaria (Sez. 1, n. 31023 del 24/09/2020, Sarni, medesimamente sugli effetti di Corte cost. n. 32 del 2014).

In argomento, come spunto di riflessione, sia consentito di osservare che, nel secondo orientamento, per ora, come visto, riferito a Corte cost. n. 32 del 2014, la rilevanza della mancata riscossione della pena pecuniaria al fine di escludere l’esaurimento del rapporto esecutivo potrebbe forse entrare in tensione, relativamente invece a Corte Cost. n. 40 del 2019, con la considerazione che, in questo caso, la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 colpisce soltanto la previsione del minimo edittale della reclusione, senza intaccare altresì la pena della multa.

Ad ogni buon conto, le perplessità che agitano la giurisprudenza in ordine all’ampiezza definitoria del rapporto esecutivo producono un risvolto persino in sede “stricto sensu” procedimentale, dacché deve considerarsi «illegittimo il provvedimento con cui il giudice dell’esecuzione dichiari inammissibile “de plano”, ai sensi dell’art. 666, comma 2, cod. proc. pen., l’istanza di un condannato volta, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, alla rideterminazione della pena irrevocabilmente inflittagli per il reato di cui all’art. 73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in ragione della già avvenuta espiazione della pena, difettando il requisito della manifesta infondatezza dell’istanza, atteso che il presupposto, a fondamento della medesima, del non ancora avvenuto esaurimento del rapporto esecutivo non soggiace ad interpretazioni univoche e[d atteso altresì] che comunque il suo accertamento richiede una specifica verifica dei dati storici relativi alla posizione giuridica del condannato» (Sez. 1, n. 23726 del 08/07/2020, Ciccarelli, Rv. 279524-01).

4.3.4. Declaratorie di illegittimità costituzionale in tema di sostanze stupefacenti: necessaria rinnovazione della valutazione sanzionatoria e riduzione di pena.

Con il sopravvento, dopo Corte cost. n. 32 del 2014, di Corte cost. n. 40 del 2019, trova sostanziale applicazione, in generale, l’insegnamento espresso da Sez. U, n. 33040 del 2015, Rv. 264205-01, in relazione agli effetti della prima.

Ne offrono conferma due sentenze gemelle del 2020 ed una della fine del 2019, ossia, da una parte, Sez. 1, n. 3280 del 12/11/2019 (dep. 2020), Porcellini Guido, Rv. 277857- 01, e Sez. 1, n. 3281 del 12/11/2019 (dep. 2020), El Khairat El Alami, Rv. 278173-01, e, dall’altra, Sez. 1, n. 51959 del 30/10/2019, Haziraj Armend, Rv. 277735-01.

Tutte e tre insegnano che «il giudice dell’esecuzione, nel rideterminare la pena inflitta con condanna anteriormente divenuta irrevocabile, è tenuto a rinnovare la valutazione sanzionatoria alla stregua dei criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., con necessaria riduzione della pena». Tale insegnamento – che viene ripetuto tal quale con riferimento ai doveri cui è chiamato il giudice dell’esecuzione in caso di mancato raggiungimento dell’accordo tra le parti ex art. 188 disp. att. cod. proc. pen. sulla rideterminazione della pena inflitta con sentenza irrevocabile di patteggiamento {Sez. 1, nn. 51959 e 51964 del 30/10/2019 (dep. 2020), rispettivamente Haziraj Armend e Gabriele, di cui la prima massimata “sub” Rv. 277735-01 – non è tuttavia rigido a tal punto da non ammettere che possa «escluder[si] la patologica alterazione della commisurazione finale della pena, determinata in base alla forbice edittale oggetto della declaratoria di illegittimità costituzionale, […] quando la pena irrogata sia stata determinata nel massimo edittale o in misura prossima al massimo» [Sez. 1, n. 2036 del 11/12/2019 (dep. 2020), Selistha Bledar, Rv. 278198-01]}.

Nell’insieme delle tre sentenze poc’anzi evocate, Sez. 1, n. 51959 del 2019, però, ulteriormente specifica che la rinnovazione è limitata alla «sola valutazione sanzionatoria alla stregua dei criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., con necessaria riduzione della pena, senza possibilità di valutare il fatto diversamente rispetto al giudice della cognizione»: la specificazione trova fondamento in ragione dell’impossibilità per il giudice dell’esecuzione di rimettere in gioco elementi di giudizio ormai coperti dal giudicato, come reso evidente dalla decisione concretamente adottata dalla Corte, che ha annullato con rinvio l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione, pur riducendo la pena inflitta, aveva rivalutato in termini di maggiore gravità il fatto di reato, calcolando la pena base, precedentemente determinata nel minimo edittale di anni otto di reclusione, in anni sette e mesi tre, ossia in misura sensibilmente superiore al nuovo minimo, pari ad anni sei di reclusione.

4.4.2. Regola e parziale eccezione.

Fermo quanto precede, nondimeno, il duplice assunto dell’imprescindibilità sia della rinnovazione della valutazione sanzionatoria sia anche della riduzione di pena si espone ad una parziale eccezione e a due temperamenti.

La parziale eccezione riguarda la riduzione di pena, dal momento che, per le due sentenze gemelle Sez. 5, nn. 19370 e 19371 del 08/06/2020, rispettivamente Cakabay Mehmet e Tuseth, di cui la prima massimata “sub” Rv. 279109-01, «il giudice dell’esecuzione che, in sede di rideterminazione della pena inflitta a seguito di patteggiamento per il reato di cui all’art. 73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, alla luce della cornice edittale ridefinita “in melius” per le cd. droghe “pesanti” dalla sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, in assenza di accordo tra le parti, conservi l’originaria sanzione applicata deve motivare in modo specifico e con rafforzato grado di persuasività in virtù di quali parametri, evincibili dalla sentenza irrevocabile, la pena applicata risulti ancora conforme al complessivo disvalore del fatto e funzionale al reinserimento sociale del condannato».

4.4.3.1. Regola e due temperamenti, quanto a circostanze e riduzione di pena per il rito nel patteggiamento.

I due temperamenti riguardano la possibilità che, ferma la riduzione di pena complessiva, tuttavia alla stessa non si allinei corrispondentemente altresì una riduzione delle singole componenti nei passaggi intermedi, con particolare riguardo alle circostanze ed alla diminuzione per il rito nel patteggiamento.

Rispetto alle circostanze, pare in via di consolidamento l’indirizzo che sgancia le sorti delle singole componenti di pena nei passaggi intermedi dalle sorti della pena complessiva. Lo comprovano due sentenze gemelle del 2020, per le quali «è legittimo il provvedimento con cui il giudice dell’esecuzione, [a seguito di Corte cost. n. 40 del 2020,] pur riducendo la pena in termini assoluti»,

- «quantifichi l’aumento di pena previsto per la ritenuta circostanza aggravante di cui all’art. 80, comma 2, del citato d.P.R. in misura proporzionalmente superiore a quella stabilita in sede di cognizione, atteso che tale giudice è chiamato a rinnovare l’intera valutazione in ordine alla commisurazione della pena attraverso la discrezionale rideterminazione sia della pena-base che dell’aumento per la menzionata aggravante, quantificando in concreto siffatto aumento alla luce del sopravvenuto mutamento della cornice edittale quale nuovo indicatore astratto del disvalore del fatto» [Sez. 1, n. 4084 del 26/11/2019 (dep. 2020), Arroyave Viveros, Rv. 278185-01];

- «quantifichi la diminuzione di pena per le concesse circostanze attenuanti generiche in misura proporzionalmente inferiore a quella stabilita in sede di cognizione», per le identiche ragioni [Sez. 1, n. 4085 del 26/11/2019 (dep. 2020), Greganti Pietro, Rv. 278186-01].

4.4.3.2. Giurisprudenza essenziale con riferimento alle circostanze.

In rapporto all’aumento di pena per un’aggravante, non si contano precedenti né conformi né difformi.

In rapporto alla diminuzione di pena per le generiche, il principio consta invece già affermato (Sez. 1, n. 50693 del 14/11/2019, Luini, Rv. 277865-01, a proposito sempre degli effetti di Corte cost. n. 40 del 2020; Sez. 5, n. 48373 del 14/07/2017, Guardiano, Rv. 271268- 01, a proposito degli effetti di Corte cost. n. 32 del 2014); nondimeno trattasi di un’affermazione non univoca, essendosi in contrario sostenuto anche che «il giudice dell’esecuzione, nel rideterminare la pena inflitta con condanna anteriormente divenuta irrevocabile, non ha il potere di modificare statuizioni coperte dal giudicato quali quelle afferenti al riconoscimento di elementi circostanziali attenuanti non attinti dalla decisione di legittimità, all’eventuale giudizio di bilanciamento ed alla misura delle relative diminuzioni di pena eseguite in fase di cognizione» (Sez. 1, n. 49106 del 08/11/2019, Cuomo Amalia, Rv. 278076-01, che, a proposito degli effetti di Corte cost. n. 40 del 2020, ha annullato con rinvio l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione, nel rideterminare la pena, aveva applicato per le generiche una riduzione minore di quella quantificata dal giudice della cognizione).

4.4.3.3. Giurisprudenza essenziale con riferimento alla riduzione di pena per il rito nel patteggiamento.

Rispetto alla diminuzione fino a un terzo della pena per il rito nel patteggiamento, la giurisprudenza descrive un quadro più incerto, come dimostrano alcune pronunce che, nel 2020, assumono sul punto posizioni divergenti, palesando dunque la sussistenza di un contrasto non, o non ancora, in fase di riassorbimento.

Si allineano espressamente all’insegnamento largamente prevalente formatosi in tema di circostanze Sez. 1, nn. 13453 e 13455 del 03/03/2020, rispettivamente Esposito Manuel e Bruno, di cui la prima massimata “sub” Rv. 278895-01, che esclude alcuna violazione del «divieto di “reformatio in peius”», qualora il giudice dell’esecuzione, nel rideterminare la pena applicata con sentenza di patteggiamento a seguito di Corte cost. n. 40 del 2019, «in assenza di accordo tra le parti, applichi una minore riduzione di pena per le circostanze attenuanti generiche e per il rito, purché renda adeguatamente conto delle ragioni dei rispettivi scostamenti, con motivazione tanto più specifica quanto più essi sono ampi, fermo restando il necessario rispetto delle valutazioni concernenti il complessivo giudizio di disvalore già espresso in sentenza»

Di contrario avviso Sez. 1, n. 21815 del 07/07/2020, Sinaj Marjol, Rv. 279414-01, secondo cui (sulla falsariga dello schema di ragionamento già adottato da Sez. 1, n. 49106 del 2019, Rv. 278076-01) non può, invece, detto giudice «applicare una riduzione per la scelta del rito diversa da quella concordata ed applicata in fase di cognizione».

4.5. Concordato sui motivi d’appello.

Continuità di argomento vuole che si distingua tra patteggiamento e ciò che patteggiamento non è, ossia il cd. concordato sui motivi d’appello ex art. 599-bis cod. proc. pen. La conseguenza è duplice:

- sul piano procedurale, ai fini della rideterminazione “in executivis” della pena concordata in appello a seguito di Corte cost. n. 40 del 2019, «non si applica il meccanismo di rinnovata negoziazione della pena previsto dall’art. 188 disp. att. cod. proc. pen.» (Sez. 1, n. 8601 del 07/02/2020, Marku Rini, Rv. 278500-02);

- sul piano del “quantum” di pena, il giudice deve bensì applicare i parametri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., ma «non è tenuto a riconoscere la riduzione di pena derivante da[ll’] accordo in quanto esso non costituisce un istituto premiale» [Sez. 1, n. 8559 del 11/12/2019 (dep. 2020), Scarfone, Rv. 278586-01].

4.6. Reato continuato.

Un capitolo particolare attiene agli effetti di Corte cost. nn. 32 del 2014 e 40 del 2019 sul reato continuato.

È pacifico che debba procedersi a rideterminazione ad opera del giudice dell’esecuzione della pena inflitta per la singola violazione dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, a prescindere dall’essere essa reato più grave o reato satellite.

Sorge una prima questione in ordine al diverso reato (o ai diversi reati) satellite qualora si proceda a rideterminazione della pena inflitta per il reato più grave costituito dalla violazione dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990. Va facendosi strada l’opinione che la rideterminazione della pena debba essere estesa, persino officiosamente, anche a tale diverso reato (o a tali diversi reati), sulla base dell’unitarietà del reato continuato. Infatti, Sez. 1, n. 23588 del 09/07/2020, Carniti Davide Silva, Rv. 279522-01, con riguardo agli effetti di Corte cost. n. 40 del 2019, sostiene che, «in caso di condanna irrevocabile per più reati unificati sotto il vincolo della continuazione, il più grave dei quali sia quello previsto dal citato art. 73, comma 1, il giudice dell’esecuzione che proceda alla rideterminazione della pena inflitta in relazione a detto reato è tenuto a rideterminare anche gli aumenti di pena inflitti per i reati satellite, sebbene non incisi dalla decisione di incostituzionalità, in quanto, ai sensi dell’art. 81, comma 2, cod. pen. la porzione di pena relativa a detti reati è commisurata alla violazione più grave, non rilevando più i limiti di pena di cui alle rispettive norme incriminatrici, bensì quelli stabiliti in via generale per il reato continuato, del triplo della pena-base o, se più favorevole, della pena che sarebbe applicabile in ipotesi di cumulo».

Altra questione riguarda i poteri-doveri del giudice d’appello circa il diverso reato, riconosciuto dal primo giudice, nel pronunciare condanna per il reato più grave, avvinto in continuazione come reato satellite, per il quale siasi “medio tempore” proceduto a rideterminazione “in executivis”. Per Sez. 3, n. 26820 del 16/07/2020, F., pronunciatasi sugli effetti di Corte cost. n. 32 del 2014, «il giudice d’appello che ritenga di applicare una pena in continuazione con altra sanzione inflitta con sentenza definitiva, ma successivamente riconosciuta illegale in sede esecutiva per eccesso in ordine alla sua quantità, ha il dovere, anche d’ufficio, in forza del principio costituzionale di legalità della sanzione, di rivalutare la congruità dell’aumento di pena applicato in continuazione, alla luce della rideterminazione della prima sanzione».

5. Rideterminazione “in executivis” delle pene accessorie.

Problematiche analoghe a quelle che la giurisprudenza è chiamata ad affrontare in riferimento alle pene principali cominciano ad affacciarsi anche in riferimento alle pene accessorie. Anche il settore relativo a queste ultime, infatti, è stato recentemente attraversato da un’epocale pronuncia di illegittimità costituzionale. Trattasi della sentenza della Corte costituzionale 25 settembre 2018, n. 222, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (l. fall.), nella parte in cui dispone: «La condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «La condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni».

È noto che, dopo la suddetta sentenza, è intervenuta Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, Suraci, Rv. 276286-01, a proclamare [difformemente da Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014 (dep. 2015), B., Rv. 262328-01] il principio per cui «la durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 cod. pen.».

Nel contesto testé delineato, a chiudere il cerchio, sopravvengono due pronunce – Sez. 1, n. 26601 del 16/09/2020, Bucaria, Rv. 279579-01, e Sez. 1, n. 3290 del 03/12/2019 (dep. 2020), Di Leva, Rv. 278813-01 – che medesimamente sostengono essere consentito, nei reati fallimentari, «al giudice dell’esecuzione procedere, secondo i criteri indicati dall’art. 133 cod. pen., alla rideterminazione della durata delle pene accessorie previste dall’art. 216, ultimo comma, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, inflitte con sentenza definitiva in misura pari a dieci anni, quando ne sia richiesto l’adeguamento al nuovo testo della norma, come risultante dalla interpretazione dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, che prevede una durata variabile con il solo limite massimo insuperabile di dieci anni».

In tal modo, dunque, è realizzata l’osservanza del “dictum” di Corte cost. n. 222 del 2018, alla stregua della declinazione ricavatane da Sez. U, n. 28910 del 2019, anche “in executivis”. Quel che preme in questa sede di evidenziare è la novità rappresentata dall’ampio spettro dei poteri riconosciuti al giudice dell’esecuzione, sostanzialmente chiamato a svolgere apprezzamenti identici a quelli del giudice della cognizione, in osservanza dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen.

La portata della novità è immediatamente apprezzabile sol che si consideri la misura della distanza rispetto alla già citata Sez. U, n. 6240 del 2015, B., Rv. 262327-01, secondo cui

«l’applicazione di una pena accessoria “extra” o “contra legem” dal parte del giudice della cognizione può essere [bensì] rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione[,] purché [però] essa sia determinata per legge, ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione».

Il limite della non derivazione da errore valutativo del giudice della cognizione, identico allora ed oggi, si spiega agevolmente alla luce della conversione dei vizi di illegittimità in motivi di gravame.

Al netto di ciò, tuttavia, mentre per Sez. U, n. 6240 del 2015, il giudice dell’esecuzione in tanto può agire in quanto sia tenuto a farlo a rime obbligate, non potendo sostituire sue valutazioni a quelle del giudice della cognizione, per Sez. 1, n. 26601 del 2020, Rv. 279579- 01, e Sez. 1, n. 3290 del 2020, Rv. 278813-01, il giudice dell’esecuzione ha una libertà di valutazione corrispondente a quella del giudice della cognizione, di cui, per così dire, fa le veci “in executivis”: ciò che, sul diverso piano procedimentale, costituisce la riprova della ormai tendenziale assimilazione delle due figure di giudici, resa possibile da un ripensamento in chiave autenticamente giurisdizionale del procedimento di esecuzione ad opera del nuovo Codice.

6.1. Riconoscimento della continuazione ex art. 671 cod. proc. pen.: inquadramento.

Il tema della rideterminazione della pena “in executivis” trova ulteriore sfogo, ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., nelle competenze del giudice dell’esecuzione in ordine al riconoscimento della continuazione tra fatti di reato per i quali sono intervenute sentenze di condanna irrevocabili.

L’obiettiva problematicità delle questioni involte rende necessaria una trattazione “ad hoc”, volta peraltro a confrontare lo stato della giurisprudenza sul riconoscimento della continuazione ad opera del giudice dell’esecuzione con lo stato della giurisprudenza sul riconoscimento della continuazione ad opera del giudice della cognizione.

Il tasso di problematicità, se possibile, è ulteriormente aumentato a misura che si consideri come finanche all’interno delle due rispettive sfere del riconoscimento della continuazione ad opera del giudice dell’esecuzione e di quello della cognizione le opinioni non siano unanimi, esitando, infine, su un piano più generale inglobante entrambe dette sfere, in un franco contrasto.

6.2.1. Dovere di motivazione del giudice dell’esecuzione sugli aumenti di pena: contrasto tra la tesi che ne ritiene sempre la configurabilità....

Conviene prendere le mosse da Sez. 1, n. 17209 del 25/05/2020, Trisciuoglio, Rv. 279316-01, secondo la quale il giudice dell’esecuzione, che proceda ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., è «titolare di un potere discrezionale esercitabile secondo i parametri fissati dagli artt. 132 e 133 cod. pen.», ragion per cui «è tenuto a motivare, non solo in ordine all’individuazione della pena base, ma anche in ordine all’entità dei singoli aumenti per i reati satellite ex art. 81, comma secondo, cod. pen., in modo da rendere possibile un controllo effettivo del percorso logico e giuridico seguito nella determinazione della pena, non essendo all’uopo sufficiente il semplice rispetto del limite legale del triplo della pena-base». La sentenza in disamina ritiene dunque che il giudice dell’esecuzione non possa sottrarsi all’ordinario onere motivazionale a cagione dell’esercizio di un potere discrezionale nella rideterminazione della pena, che necessita di per se stesso di essere esplicato attraverso l’esposizione delle ragioni logico-giuridiche a sostegno della decisione.

In tale contesto – in cui il suddetto giudice è gravato da un onere motivazionale severo, in quanto è egli tenuto ad esplicitare le ragioni del proprio convincimento, non solo in relazione alla determinazione della pena base, ma anche in relazione a ciascun aumento di pena per i reati avvinti in continuazione, indipendentemente dalla concreta entità degli aumenti, minimi o prossimi alla pena inflitta dal giudice della cognizione, ed altresì, a volersi consentire un’aggiunta, dalla tipologia dei reati, omogenei o meno al reato base e/o ad altri reati satellite – la funzione della motivazione è all’evidenza proiettata a consentire il sindacato del provvedimento attraverso l’impugnazione, in specie sotto il profilo della logicità e della congruità della motivazione stessa.

Qualche notazione di dettaglio si rende necessaria.

La particolarità che distingue il giudice dell’esecuzione da quello della cognizione si riduce a ciò che il riferimento all’individuazione della pena base deve intendersi all’individuazione della pena base in funzione dell’individuazione – parallelamente al meccanismo vigente in sede cognitoria – del reato base, giacché, “in executivis”, questo si identifica con il reato per il quale è stata inflitta dal giudice della cognizione la pena più grave. Ora, tenuto presente che la pena base è di per sé, in linea di principio, immodificabile da parte del giudice dell’esecuzione, emergono i vincoli cui questi (a differenza del giudice della cognizione) è astretto, senza che ciò configuri alcuna irragionevolezza suscettibile di denuncia d’incostituzionalità, «in quanto la differenza di trattamento tra la fase della cognizione e quella dell[’]esecuzione trova giustificazione nella circostanza che il giudice dell[’] esecuzione è [giust’appunto] vincolato alla pena inflitta e coperta da giudicato» (Sez. 1, n. 31640 del 09/05/2014, Radu, Rv. 261089-01).

In disparte tale particolarità, secondo Sez. 1, n. 17209 del 2020, Rv. 279316-01, la motivazione dev’essere esaustiva, così da consentire un effettivo controllo sulla determinazione della pena sia nel complesso sia però anche, “a priori”, nei singoli segmenti in cui, con specifico riferimento ai reati satellite, la pena stessa si articola. Invero, solo una motivazione siffatta consente di sottoporre la decisione a vaglio critico, eventualmente attraverso l’impugnazione. Tale essendo lo scopo della motivazione in relazione ai singoli aumenti, va da sé che, di conseguenza, sono insufficienti a ridimensionare, e viepiù ad annullare, gli oneri motivazionali del giudice dell’esecuzione i limiti massimi che in generale, tenuto anche conto degli insegnamenti delle Sezioni Unite, trovano applicazione “in executivis” nella determinazione della pena ex art. 81, comma secondo, cod. pen.: sia quello, espressamente menzionato da Sez. 1, n. 17209 del 2020, Rv. 279316-01, del contenimento della pena finale entro il triplo della pena-base (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270073-01), sia quello, in realtà ben più stringente, del contenimento di ciascun aumento entro l’entità di pena, per il reato cui l’aumento si riferisce, inflitta dal giudice della cognizione [Sez. U, n. 6296 del 24/11/2016 (dep. 2017), Nocerino, Rv. 268735-01].

Nella materia dell’esecuzione della pena, l’insegnamento di Sez. 1, n. 17209 del 2020, Rv. 279316-01 – che per ovvie ragioni trova uno spazio minimo di esplicazione con riguardo alla riduzione di pena per reati satellite giudicati in abbreviato, giacché in tal caso il giudice deve dare espressamente atto soltanto di aver conteggiato la riduzione, senza altresì diffondersi sul “quantum” della stessa, siccome predeterminato (Sez. 1, n. 12591 del 13/03/2015, Reale, Rv. 262888-01) – rinviene un unico precedente “tout court” conforme, rappresentato da Sez. 1, n. 23041 del 14/05/2009, Di Risio, Rv. 244115-01: la quale si allinea a Sez. 1, n. 17209 del 2020, Rv. 279316-01, laddove afferma che «il giudice dell’esecuzione deve dare conto dei criteri utilizzati nella rideterminazione della pena per l’applicazione della continuazione, in modo da rendere noti all’esterno non solo gli elementi che sono stati oggetto del suo ragionamento, ma anche i canoni adottati»; eppure in certo qual modo se ne discosta, laddove si dimostra aperta ad un modesto temperamento del principio, soggiungendo che può comunque il giudice utilizzare anche «espressioni concise[,] caratteristiche dei provvedimenti esecutivi».

6.2.2. .... e la tesi che invece ne ridimensiona la portata ai soli casi di aumenti prossimi alla pena irrogata, per il singolo reato satellite, dal giudice della cognizione.

Gli altri precedenti che, “in executivis”, affrontano il nodo della motivazione per gli aumenti di pena in continuazione prendono le distanze dalla linea di Sez. 1, n. 17209 del 2020, e di Sez. 1, n. 23041 del 2009, giacché non ritengono l’esistenza di un obbligo generalizzato del giudice in tal senso, sostenendone invece la configurabilità esclusivamente nei casi in cui gli aumenti siano, non soltanto – di per sé – «significativi» (Sez. 1, n. 52531 del 19/09/2018, Mejri Mohamed, Rv. 274548-01), ma altresì – su un piano comparativo – «prossimi» [Sez. 5, n. 11336 del 17/01/2020, Di Lorito, Rv. 278792-01; Sez. 1, n. 23352 del 14/09/2017 (dep. 2018), Manganaro, Rv. 273050-01] al termine di paragone costituito dall’entità della pena irrogata, per il singolo reato satellite, dal giudice della cognizione: è soltanto nei casi di cui si tratta, infatti, che la quantificazione degli aumenti entra in tensione con il riconoscimento della medesimezza del disegno criminoso sottostante all’applicazione della disciplina del reato continuato, riconoscimento che, «implica[ndo], di per sé, una minore offensività della condotta illecita aggiuntiva», rende necessaria l’esplicazione delle ragioni che sorreggono la decisione di quantificare l’aumento in termini non allineati a siffatta minore offensività.

Un esauriente compendio di tale prospettiva si ha, da ultimo, in Sez. 5, n. 32511 del 14/10/2020, Radosavljevic Marko, Rv. 279770-01, secondo cui non sussiste obbligo di specifica motivazione per ogni singolo aumento, essendo sufficiente indicare le ragioni a sostegno della quantificazione della pena base, vieppiù quando non è possibile dubitare del rispetto del limite legale del triplo della pena base ex art. 81, comma primo, cod. pen., in considerazione della misura contenuta degli aumenti di pena irrogati, e i reati posti in continuazione siano integrati da condotte criminose seriali ed omogenee (nella specie plurimi delitti di furto in abitazione e ai danni di capannoni industriali)».

Il presupposto dei precedenti esaminati da ultimo è che la continuazione rappresenti un istituto «ispirato al “favor rei”»: tale, in effetti, è la conclusione che Sez. 5, n. 20534 del 20/04/2015, B., Rv. 263461-01, esplicita in relazione sia alla sede esecutiva sia però anche alla sede cognitoria, traendone la conclusione che sorge necessità di «adeguata e puntuale motivazione» ogniqualvolta la continuazione «non determini una diminuzione della pena complessiva», nella specie quantificata, invece, «nel massimo consentito dalla somma delle pene inflitte» (quanto al procedimento d’esecuzione, identicamente, Sez. 1, n. 23352 del 2018, Rv. 273050-01).

6.3.1. Parallelo con il giudizio di cognizione: introduzione.

Il richiamo di Sez. 5, n. 20534 del 2015, Rv. 263461-01, consente di tracciare un collegamento tra il procedimento d’esecuzione ed il giudizio di cognizione, rilevante sotto un duplice profilo:

- anzitutto, sotto un profilo tutto interno al giudizio di cognizione, inciso da un contrasto di giurisprudenza più marcato di quello che si è descritto a proposito del procedimento d’esecuzione, già oggetto di segnalazione da parte dell’Ufficio del Massimario con la relazione n. 1045 del 21 luglio 2016;

- secondariamente, sotto un profilo allargato tanto al procedimento d’esecuzione quanto al giudizio di cognizione, una volta che, seguendo l’impostazione di Sez. 5, n. 20534 del 2015, si riguardi l’istituto della continuazione trasversalmente, a prescindere cioè dal momento procedimentale in cui esso viene in rilievo.

6.3.2. I tre orientamenti che si contendono il campo nel giudizio di cognizione.

Nel giudizio di cognizione, un primo orientamento fa gravare sul giudice un onere ampio di motivazione, ricomprendente, oltre alla pena-base, gli aumenti in continuazione per i reati satellite indipendentemente dalla loro entità [Sez. 3, n. 1446 del 13/09/2017 (dep. 2018), S., Rv. 271830-01], peraltro talvolta aggiungendo che, rispetto a detti aumenti, l’onere di cui si tratta si fa più stringente quando essi, «pur contenut[i] nel limite massimo stabilito dalla legge, determini[no] una sperequazione nel trattamento sanzionatorio per medesime fattispecie di reato» (Sez. 6, n. 48009 del 28/09/2016, Cocomazzi e altri, Rv. 268131-01; Sez. 1, n. 21641 del 08/01/2016, Lendano e altro, Rv. 266885-01). Invero, si afferma, «non è sufficiente per la legalità del calcolo determinare la pena nell’ambito quantitativo previsto dalla legge - pari al triplo della pena base - dovendo il giudice, nella motivazione, dare conto delle decisioni assunte su ogni aspetto dell’esercizio del suo potere discrezionale, ivi compresa la determinazione dell’aumento di pena per i singoli reati satellite» [Sez. 4, n. 28139 del 23/06/2015, Puggillo, Rv. 264101-01 (che, peraltro, «ha ritenuto correttamente assolto l’obbligo di motivazione nella giustificazione, in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., dell’aumento stabilito a titolo di continuazione in misura inferiore all’aumento medio previsto dall’art. 81, comma secondo, cod. pen.»); cfr. anche Sez. 2, n. 51731 del 19/11/2013, Foria, Rv. 258108-01; Sez. 6, n. 7777 del 29/01/2013, Bardeggia, Rv. 255052-01].

Di opposto avviso un secondo più cospicuo orientamento, secondo cui «non sussiste obbligo di specifica motivazione per ogni singolo aumento, essendo sufficiente indicare le ragioni a sostegno della quantificazione della pena base» [così, testualmente, Sez. 1, n. 39350 del 19/07/2019, Oliveti, Rv. 276870-02; Sez. 6, n. 18828 del 08/02/2018, Nicotera e altri, Rv. 273385-01, che peraltro «ha annullato con rinvio la sentenza di appello che aveva determinato la pena per il reato base in misura non prossima al minimo edittale, senza fornire alcuna motivazione sul punto, nonostante l’impugnazione vertesse sulla quantificazione della pena; nello stesso senso, Sez. 2, n. 18944 del 22/03/2017, Innocenti e altri, Rv. 270361-01; Sez. 3, n. 44931 del 02/12/2016 (dep. 2017), Portulesi e altri, Rv. 271787-01;

Sez. 4, n. 23074 del 22/11/2016 (dep. 2017), Paternoster e altro, Rv. 270197-01; Sez. 2, n. 50699 del 04/10/2016, Chierchiello e altri, Rv. 268908-01; Sez. 2, n. 50987 del 06/10/2016, Aquila, Rv. 268731-01; Sez. 2, n. 34662 del 07/07/2016, Felughi e altri, Rv. 267721-01; Sez. 5, n. 29847 del 30/04/2015, Del Gaudio, Rv. 264551-01; Sez. 5, n. 29829 del 13/03/2015,

Pedercini, Rv. 265141-01; Sez. 5, n. 25751 del 05/02/2015, Bornice, Rv. 264993-01; Sez. 2, n. 4707 del 21/11/2014 (dep. 2015), Di Palma e altro, Rv. 262313-01; Sez. 2, n. 49007 del 16/09/2014, Iussi e altri, Rv. 261424-01; Sez. 5, n. 27382 del 28/04/2011, Franceschin e altro, Rv. 250465-01; Sez. 5, n. 11945 del 22/09/1999, De Rosa G. e altro, Rv. 214857-01; Sez. 3, n. 3034 del 26/09/1997, Coletta, Rv. 209369-01].

Ciò detto, credesi, parzialmente prendendo le distanze dalla citata relazione n. 1045 del 2016, di poter individuare anche un terzo orientamento sostanzialmente intermedio tra i due descritti. Esso, demandato in generale al giudice l’incombente di motivare anche sugli aumenti di pena in continuazione, tuttavia lo solleva dallo stesso, ritenendolo «non […] tenuto a giustificare con motivazione esplicita il suo operato», quando, «inflitta la pena nella misura minima edittale, l’abbia aumentata per la continuazione in modo esiguo»: ciò «sia perché deve escludersi che [egli] abbia abusato del potere discrezionale conferitogli dall’art. 132 cod. pen., sia perché deve ritenersi che egli abbia implicitamente valutato gli elementi obbiettivi e subiettivi del reato risultanti dal contesto complessivo della sua decisione» [Sez. 3, n. 24979 del 22/12/2017 (dep. 2018), P.G., P.C. in proc. F. e altri, Rv. 273533-01].

6.3.3. Riflessioni conclusive, in rapporto all’applicazione della disciplina del reato continuato, sui poteri-doveri del giudice dell’esecuzione e di quello della cognizione.

Tirando le somme di quanto detto sin qui, il principio espresso, “in executivis”, da Sez. 1, n. 17209 del 2020, Rv. 279316-01 secondo cui l’onere motivazionale del giudice abbraccia anche agli aumenti di pena in continuazione, si presta ad essere confrontato,

- da un lato, con il dissimile orientamento sviluppatosi, sempre “in executivis”, secondo cui detto onere sussiste solo quando gli aumenti si avvicinano alla pena già irrogata per i reati-satellite;

- dall’altro, con i due orientamenti opposti che, in sede cognitoria, ritengono l’uno – analogamente a Sez. 1, n. 17209 del 2020, Rv. 279316-01 – che detto onere sussista sempre e l’altro – diversamente da Sez. 1, n. 17209 del 2020, Rv. 279316-01 – che esso venga meno quando risultano esplicitate le ragioni della quantificazione della pena-base.

Alla luce di siffatta ricostruzione complessiva della giurisprudenza, Sez. 1, n. 17209 del 2020, Rv. 279316-01, come anticipavasi, si inserisce in un contrasto di giurisprudenza dai contorni netti, pur nel differente contesto di maturazione dei rispettivi insegnamenti, a loro volta contraddistinti da diversità di accenti interni.

Sembra nondimeno opportuno rimarcare la necessità di tenere in considerazione proprio il differente contesto del procedimento d’esecuzione rispetto al giudizio di cognizione. Infatti, come visto, il giudice dell’esecuzione è vincolato nell’individuazione del reato base in funzione dell’individuazione della pena base, non potendo rimettere in discussione gli elementi già valutati dal giudice della cognizione nella quantificazione di quest’ultima. Pertanto, già in astratto, qualsivoglia onere valutativo del giudice dell’esecuzione deve di necessità proiettarsi sugli aumenti di pena in continuazione di per se stessi considerati; inoltre – secondo l’avviso, per vero non sempre successivamente seguito, del massimo organo nomofilattico – possono essi essere persino maggiori a quelli individuati dal primo giudice, a condizione che non sia maggiore la pena complessiva irrogata (Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258653-01).

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, Suraci, Rv. 276286-01 Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270073-01

Sez. U, n. 6296 del 24/11/2016 (dep. 2017), Nocerino, Rv. 268735-01 Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera e altro, Rv. 265108-01

Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205-01

Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014 (dep. 2015), B., Rv. 262328-01

Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, P.M. in proc. Gatto, Rv. 260700-01 Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258653-01

Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013 (dep. 2014), Ercolano, Rv. 258650-01 Sez. U, n. 24468 del 26/02/2009, Rizzoli, Rv. 243585-01

Sez. U, n. 25887 del 26/03/2003, Giordano e altri, Rv. 224607-01 Sez. U, n. 29023 del 27/06/2001, Avitabile, Rv. 219223-01

Sez. 5, n. 32511 del 14/10/2020, Radosavljevic Marko, Rv. 279770-01 Sez. 6, n. 30227 del 28/09/2020, Di Bono Valeria, Rv. 279724-01 Sez. 1, n. 31023 del 24/09/2020, Sarni

Sez. 1, n. 31214 del 18/09/2020, Mancuso Pantaleone, Rv. 279799-01 Sez. 1, n. 26601 del 16/09/2020, Bucaria, Rv. 279579-01

Sez. 3, n. 26820 del 16/07/2020, F.

Sez. 1, n. 23842 del 09/07/2020, Sanna

Sez. 1, n. 23588 del 09/07/2020 P.M. c. Carniti Davide Silva, Rv. 279522-01 Sez. 1, n. 23726 del 08/07/2020, Ciccarelli, Rv. 279524-01

Sez. 1, n. 21815 del 07/07/2020, Sinaj Marjol, Rv. 279414-01 Sez. 1, n. 22277 del 02/07/2020, Fialdini Mario, Rv. 279438-01 Sez. 5, n. 19371 del 08/06/2020, Tuseth,

Sez. 5, n. 19370 del 08/06/2020, Cakabay Mehmet, Rv. 279109-01 Sez. 1, n. 17209 del 25/05/2020, Trisciuoglio, Rv. 279316-01

Sez. 1, n. 13455 del 03/03/2020, Bruno

Sez. 1, n. 13453 del 03/03/2020, Esposito Manuel, Rv. 278895-01 Sez. 1, n. 13072 del 03/03/2020, Candido Giuseppe, Rv. 278893-01 Sez. 1, n. 14161 del 20/02/2020, Abico Carmelo, Rv. 278973-01 Sez. 1, n. 8601 del 07/02/2020, Marku Rini, Rv. 278500-02

Sez. 4, n. 13492 del 21/01/2020, Anselmo Domenico, Rv. 279002-02 Sez. 5, n. 11336 del 17/01/2020, Di Lorito, Rv. 278792-01

Sez. 3, n. 8803 del 15/01/2020, P.G. in proc. Donato Bernardino, Rv. 278268-01 Sez. 1, n. 8559 del 11/12/2019 (dep. 2020), Scarfone, Rv. 278586-01

Sez. 1, n. 2036 del 11/12/2019 (dep. 2020), Selistha Bledar, Rv. 278198-01

Sez. 1, n. 3290 del 03/12/2019 (dep. 2020), Di Leva, Rv. 278813-01

Sez. 1, n. 1628 del 03/12/2019 (dep. 2020), Cela Antonio, Rv. 277925-01

Sez. 1, n. 4085 del 26/11/2019 (dep. 2020), Greganti Pietro, Rv. 278186-01

Sez. 1, n. 4084 del 26/11/2019 (dep. 2020), Arroyave Viveros, Rv. 278185-01 Sez. 1, n. 3281 del 12/11/2019 (dep. 2020), El Khairat El Alami, Rv. 278173-01 Sez. 1, n. 3280 del 12/11/2019 (dep. 2020), Porcellini Guido, Rv. 277857-01

Sez. 1, n. 51964 del 30/10/2019 (dep. 2020), Gabriele

Sez. 1, n. 51959 del 30/10/2019 (dep. 2020), Haziraj Armend, Rv. 277735-01

Sez. 1, n. 3269 del 03/10/2019 (dep. 2020), T., Rv. 278582-02 e Rv. 278582-03

Sez. 1, n. 50693 del 14/11/2019, Luini, Rv. 277865-01

Sez. 1, n. 49106 del 08/11/2019, Cuomo Amalia, Rv. 278076-01 Sez. 1, n. 51959 del 30/10/2019, Haziraj Armend, Rv. 277735-01 Sez. 1, n. 42703 del 13/09/2019, Terlizzi Michele, Rv. 277230-01 Sez. 4, n. 41291 del 11/09/2019, Pagani Federico, Rv. 277355-01 Sez. 1, n. 39350 del 19/07/2019, Oliveti, Rv. 276870-02

Sez. 1, n. 20248 del 19/10/2018 (dep. 2019), Rinaldi Raffaele, Rv. 275811-01 Sez. 1, n. 52531 del 19/09/2018, Mejri Mohamed, Rv. 274548-01

Sez. 6, n. 18828 del 08/02/2018, Nicotera e altri, Rv. 273385-01

Sez. 3, n. 24979 del 22/12/2017 (dep. 2018), P.G., P.C. in proc. F. e altri, Rv. 273533-01 Sez. 1, n. 23352 del 14/09/2017 (dep. 2018), Manganaro, Rv. 273050-01

Sez. 3, n. 1446 del 13/09/2017 (dep. 2018), S., Rv. 271830-01

Sez. 5, n. 48373 del 14/07/2017, Guardiano, Rv. 271268-01

Sez. 1, n. 36583 del 28/03/2017, Maffi, Rv. 271400-01

Sez. 2, n. 18944 del 22/03/2017, Innocenti e altri, Rv. 270361-01

Sez. 3, n. 44931 del 02/12/2016 (dep. 2017), Portulesi e altri, Rv. 271787-01

Sez. 4, n. 23074 del 22/11/2016 (dep. 2017), Paternoster e altro, Rv. 270197-01 Sez. 2, n. 50699 del 04/10/2016, Chierchiello e altri, Rv. 268908-01

Sez. 2, n. 50987 del 06/10/2016, Aquila, Rv. 268731-01

Sez. 6, n. 48009 del 28/09/2016, Cocomazzi e altri, Rv. 268131-01 Sez. 2, n. 34662 del 07/07/2016, Felughi e altri, Rv. 267721-01 Sez. 1, n. 36079 del 10/05/2016, Costa, Rv. 268002-01

Sez. 1, n. 21641 del 08/01/2016, Lendano e altro, Rv. 266885-01 Sez. 4, n. 28139 del 23/06/2015, Puggillo, Rv. 264101-01

Sez. 5, n. 29847 del 30/04/2015, Del Gaudio, Rv. 264551-01 Sez. 5, n. 20534 del 20/04/2015, B., Rv. 263461-01

Sez. 5, n. 29829 del 13/03/2015, Pedercini, Rv. 265141-01

Sez. 1, n. 12591 del 13/03/2015, Reale, Rv. 262888-01

Sez. 5, n. 25751 del 05/02/2015, Bornice, Rv. 264993-01

Sez. 1, n. 4461 del 19/01/2015, P.M. in proc. Singh, Rv. 262535-01

Sez. 2, n. 4707 del 21/11/2014 (dep. 2015), Di Palma e altro, Rv. 262313-01 Sez. 4, n. 47278 del 25/09/2014, Bronzino, Rv. 260734-01

Sez. 2, n. 49007 del 16/09/2014, Iussi e altri, Rv. 261424-01 Sez. 3, n. 27957 del 12/06/2014, Tirocchi, Rv. 259401-01

Sez. 1, n. 31640 del 09/05/2014, Radu, Rv. 261089-01

Sez. 2, n. 51731 del 19/11/2013, Foria, Rv. 258108-01

Sez. 6, n. 7777 del 29/01/2013, Bardeggia, Rv. 255052-01

Sez. 1, n. 27640 del 19/01/2012, PMT in proc. Hamrouni, Rv. 253384-01 Sez. 5, n. 27382 del 28/04/2011, Franceschin e altro, Rv. 250465-01

Sez. 1, n. 23041 del 14/05/2009, Di Risio, Rv. 244115-01

Sez. 6, n. 16363 del 05/02/2008, Scaccini, Rv. 239555-01

Sez. 5, n. 18 del 27/11/2007 (dep. 2008), Colombo e altro, Rv. 238876-01

Sez. 1, n. 18872 del 29/03/2007, Pasimeni, Rv. 237364-01

Sez. 5, n. 34682 del 11/02/2005, Marisca, Rv. 232312-01

Sez. 5, n. 28714 del 04/07/2005, P.M. in proc. Savegnago, Rv. 231867-01 Sez. 3, n. 7667 del 16/02/2002, P.M. in c. Congedo. Rv. 221103-01

Sez. 6, n. 35176 del 05/07/2001, Magrini, Rv. 220106-01

Sez. 5, n. 11945 del 22/09/1999, De Rosa G. e altro, Rv. 214857-01 Sez. 3, n. 3034 del 26/09/1997, Coletta, Rv. 209369-01

Sentenze della Corte costituzionale

Corte costituzionale 23 gennaio 2019, n. 40

Corte costituzionale 25 settembre 2018, n. 222

Corte costituzionale 8 luglio 2015, n. 185

Corte costituzionale 11 febbraio 2014, n. 32

Corte costituzionale 23 marzo 1984, n. 139

Corte costituzionale 10 febbraio 1970, n. 49

Corte costituzionale 19 ottobre 1966, n. 127

Corte costituzionale 6 marzo 1996, n. 96

Corte costituzionale 15 marzo 1967, n. 58

Corte costituzionale 15 gennaio 1969, n. 26

SEZIONE VIII INGIUSTA DETENZIONE.

  • indennizzo
  • carcerazione
  • detenuto
  • errore giudiziario

CAPITOLO I

RECENTI QUESTIONI IN TEMA DI RIPARAZIONE PER L’INGIUSTA DETENZIONE.

(di Francesca Costantini )

Sommario

1 Premessa. - 2 La condizione ostativa del dolo e della colpa grave. - 3 La verifica della assenza di cause di estinzione del reato. - 4 Pluralità di contestazioni e diritto alla riparazione. - 5 Morte del ricorrente e presentazione della domanda. - 6 Quantificazione dell’indennizzo. - 7 Ingiusta detenzione e riparazione dell’errore giudiziario. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

Nell’anno in rassegna il tema della riparazione per l’ingiusta detenzione è stato più volte oggetto di esame da parte della giurisprudenza di legittimità che è intervenuta in materia con diverse decisioni.

In considerazione della variegata casistica, tali arresti hanno riguardato diversi aspetti dell’istituto sia sotto un profilo sostanziale, con riferimento ai presupposti e alle modalità della decisione del giudice circa la sussistenza del diritto alla riparazione, sia sotto un profilo procedurale, avuto riguardo, in particolar modo, alle modalità di presentazione della domanda e ai criteri di valutazione cui il giudice deve fare riferimento per calibrare l’entità dell’indennizzo.

Con tali pronunce la Corte, dando piena attuazione alla propria funzione nomofilattica, ha, da un lato, dato consolidamento ad orientamenti già elaborati e dall’altro ha affermato ulteriori significativi principi di diritto volti a dettare e precisare le regole che sovrintendono al giudizio della riparazione e fungono da guida per l’operatività di un istituto posto a presidio del fondamentale diritto di ogni individuo di non subire una ingiusta compressione della propria libertà personale.

2. La condizione ostativa del dolo e della colpa grave.

Diverse pronunce hanno riguardato la ricorrente questione relativa ai criteri di apprezzamento che devono guidare il giudice nel giudizio volto alla verifica della sussistenza di una “condotta colposa sinergica”, idonea, ai sensi dell’art. 314 comma 1, cod. proc. pen., ad escludere il diritto alla riparazione. In particolare, Sez. 4, n. 36478 del 02/12/2020, Gallo, Rv. 280082, ponendosi nel solco della uniforme giurisprudenza di legittimità, ha rimarcato che il mendacio dell’indagato in sede di interrogatorio, sebbene espressione del diritto di difesa, costituisce una condotta volontaria fortemente equivoca, che, andando al di là del mero silenzio, può avvalorare gli indizi su cui si fonda la misura cautelare qualora investa elementi di indagine significativi e, quindi, può assumere rilievo ai fini dell’accertamento del dolo o della colpa grave, ostativi alla riparazione. Nella specie, la Corte ha ritenuto rilevante, ai fini della individuazione della sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave, la circostanza che l’indagato avesse reso false dichiarazioni che, pur non concernendo aspetti essenziali relativamente alla configurabilità dell’illecito, avevano riguardato, comunque, elementi significativi dell’attività di indagine. La Corte, nell’affermazione del principio si è, dunque, posta in linea di continuità con quella giurisprudenza che, soprattutto avuto riguardo alla diversa e parallela ipotesi del silenzio serbato nel corso dell’interrogatorio dal soggetto sottoposto a custodia cautelare, ha chiarito che il giudice, per valutare la sussistenza della colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto, può prendere in esame il comportamento silenzioso o mendace, pur legittimamente tenuto dall’interessato nel procedimento penale in quanto espressione del diritto di difesa, poiché il diritto all’equa riparazione presuppone comunque una condotta dell’interessato idonea a chiarire la sua posizione mediante l’allegazione di quelle circostanze, a lui note e ignote agli organi inquirenti, utili ad attribuire un diverso significato agli elementi acquisiti in sede investigativa e posti a fondamento del provvedimento cautelare (così Sez. 4, n. 4154 del 17/10/2007, dep. 2008, Maugeri, Rv. 238666 - 01; Sez. 4, n. 11423 del 21/02/2008, Picari, Rv. 238940 - 01; Sez. 4, n. 40291del 10/06/2008, Maggi, Rv. 242755 - 01, secondo la quale il diritto all’equa riparazione presuppone una condotta dell’interessato idonea a chiarire la sua posizione mediante l’allegazione di quelle circostanze, a lui note, che contrastino l’accusa, o vincano ragioni di cautela; Sez. 4, n. 46423 del 23/10/2015, Sperti, Rv. 265287 – 01; Sez. 4, n. 24439 del 27/04/2018, Stamatopoulou, Rv. 273744 - 01). La colpa grave ostativa non può dunque fondarsi unicamente sul mero silenzio serbato dall’interessato posto che la scelta difensiva di avvalersi della facoltà di non rispondere non può valere di per sé a fondare un giudizio positivo di sussistenza della colpa, avendo la parte esercitato un legittimo diritto riconosciuto dalle regole del procedimento penale. Tuttavia, qualora risulti che tale condotta abbia impedito che emergessero da subito elementi o circostanze che, se conosciuti tempestivamente, non avrebbero consentito il determinarsi o il protrarsi della privazione della libertà, egli non può dolersi della ingiusta detenzione, in quanto conseguenza di una sua condotta gravemente imprudente. Diversamente, con riferimento al mendacio, la pronuncia in rassegna ne evidenzia il carattere ambiguo e fortemente equivoco, che, “andando ben al di là del mero silenzio, può avvalorare, gli indizi su cui si fonda la misura cautelare qualora investa elementi significativi di indagine e può, pertanto, assumere rilievo, ai fini dell’accertamento del dolo o della colpa grave ostativi alla riparazione per ingiusta detenzione, laddove contribuisca a confermare i gravi indizi di colpevolezza a carico del soggetto sottoposto alla misura cautelare derivanti dalla sua condotta extra-processuale scorretta, imprudente o leggera, idonea ad ingenerare l’apparenza di un suo coinvolgimento nell’illecito penale.” Sotto altro profilo, Sez. 4 n. 10793 del 19/12/2019 (dep. 30/03/2020), Samiri Driss, Rv. 278655 - 01, ha preso in considerazione la questione della rilevanza, ai fini della integrazione della colpa grave ex art. 314, comma 1, cod. proc. pen., della “condotta sospetta”, affermando che “in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la semplice condotta sospetta non è sufficiente per costituire condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione, poiché la colpa grave, di cui all’art. 314 cod. pen., che esclude siffatto diritto, va rapportata agli indizi cui non si deve dare adito per grave imprudenza e non ai sospetti, la cui sola esistenza non autorizza l’emissione di alcuna misura cautelare.” Nel caso di specie, in particolare la Corte ha annullato l’ordinanza che aveva rigettato la domanda di riparazione basandosi sulla sola considerazione secondo cui, avendo il richiedente ammesso di conoscere il rapinatore solo di vista, nonostante fosse stato in altra occasione fermato e identificato con quest’ultimo nello stesso luogo della rapina, con le proprie false dichiarazioni aveva dato causa per colpa grave all’ingiusta detenzione, avendo ingenerato il sospetto della sua connivenza con il rapinatore. Il dolo o la colpa grave idonei ad escludere l’indennizzo devono, dunque, sostanziarsi in comportamenti specifici che abbiano dato causa all’instaurazione dello stato detentivo o abbiano concorso a darvi causa e pertanto deve sussistere un apprezzabile collegamento causale tra la condotta stessa e la custodia cautelare, in relazione sia al suo momento genetico sia al suo mantenimento che non può essere desunta da semplici elementi di sospetto, posto che gli stessi non possono fondare la misura cautelare, che esige la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza (Sez. 3, n. 45593 del 31/01/2017, Benhassoun, Rv. 271790 – 01). Così, in termini sostanzialmente analoghi, Sez. 4, n. 10195 del 16/01/2020, Cerutti, Rv. 278645 – 01, ha escluso che la colpa grave, ostativa alla riparazione, possa essere integrata dalla disponibilità, manifestata dall’indagato, alla commissione di illeciti diversi da quelli per cui sia stata subita la detenzione, non sussistendo, anche in questo caso, il nesso eziologico fra il comportamento dell’interessato e la sua privazione della libertà, conseguente a un provvedimento del giudice determinato da un errore cui quel comportamento abbia dato causa. In applicazione del principio, la Corte ha dunque annullato con rinvio l’ordinanza che aveva negato il diritto alla riparazione valorizzando non meglio precisate condotte ambigue del ricorrente quali la sua generica disponibilità alla commissione di illeciti peraltro più diversi da quelli specificamente contestatigli. Sotto tale ultimo profilo la pronuncia in esame ha altresì precisato la irrilevanza della commissione di illeciti “diversi” da quelli che hanno determinato la misura custodiate, venendo a mancare la necessaria sussistenza di un nesso eziologico fra il comportamento dell’interessato e la sua privazione della libertà, conseguente ad un provvedimento del giudice determinato da un errore cui proprio quel comportamento ha dato o contribuito a dare causa (nello stesso senso Sez. 4, n. 37401 del 29/05/2014, Agostino, Rv. 260306 – 01; Sez. 4, n. 2619 del 07/11/2018 (dep. 21/01/2019), Ahmetovic, Rv. 276253 – 01).

Sempre con riferimento alla condizione ostativa in esame la Corte si è occupata, altresì, della questione concernente i limiti entro i quali la condotta può assumere rilievo quale condizione ostativa alla riparazione per ingiusta detenzione. In particolare, Sez. 3, n. 15786 del 04/02/2020, Ubaldini, Rv. 279385 – 01, ha valutato se la condotta colposa sinergica operi quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, ed eventualmente in che modo, anche quando si accerti l’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale. La Corte ha dapprima richiamato l’insegnamento reso da Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, D’Ambrosio, Rv. 247663- 01, secondo cui “la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, pur applicabile anche in relazione alle misure disposte in difetto delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen., non può concretamente esplicarsi, in forza del meccanismo causale che governa l’indicata condizione ostativa, nei casi in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura in oggetto avvenga sulla base dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha reso il provvedimento cautelare, in ragione unicamente di una loro diversa valutazione”, osservando, tuttavia, che ciò non implica l’esclusione di qualunque rilevanza, ai fini del diniego del diritto all’equa riparazione, del comportamento doloso o gravemente colposo della persona sottoposta a custodia cautelare in caso di insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale, potendosi ritenere che il comportamento doloso o gravemente colposo della persona sottoposta a custodia cautelare possa comunque assumere significato qualora abbia concorso a dare causa al successivo mantenimento della custodia cautelare, per il periodo di ulteriore detenzione che si sarebbe potuto evitare. Del resto, tale soluzione, ad avviso del collegio, troverebbe giustificazione proprio nel fondamento solidaristico della riparazione che ha una funzione riparatoria e che rinviene un limite nel dovere di responsabilità di tutti i cittadini, i quali non possono invocare benefici tesi a ristorare pregiudizi da essi stessi colposamente o dolosamente cagionati. Ne consegue, pertanto, che, in caso di insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale, non può escludersi il diritto alla riparazione per il periodo di detenzione sofferto fino a quando la persona sottoposta a custodia cautelare non abbia assunto un comportamento doloso o gravemente colposo, mentre per il periodo successivo tale comportamento può esplicare efficacia preclusiva qualora abbia avuto efficacia sinergica nel mantenimento della custodia cautelare.

3. La verifica della assenza di cause di estinzione del reato.

L’art. 314, comma 2, cod. proc. pen. disciplina, quale ulteriore fattispecie da cui origina il diritto alla riparazione, quella della c.d. “ingiustizia formale” relativa ai casi in cui, a prescindere dall’esito del processo e, dunque, anche nell’ipotesi di condanna, si accerti la illegittimità della custodia cautelare per la mancanza dei gravi indizi di colpevolezza, per la presenza di una causa di giustificazione o di non punibilità ovvero di estinzione del reato o della pena nonché in violazione dei limiti di pena previsti dall’art. 280 cod. proc. pen. Per quanto riguarda il momento cui deve essere rapportata la valutazione della illegittimità della privazione della libertà, la norma impone, dunque, che la legittimità formale della misura cautelare sussista non solo al momento della sua adozione, ma anche della sua esecuzione. In conformità alla citata disposizione, Sez. 4, n. 29849 del 07/10/2020, Herath Pathiranellage Ananda Sajewaani, Rv. 280050 – 01, ha affermato, pertanto, che il giudice della riparazione è tenuto ad accertare la sussistenza delle condizioni per l’applicazione della misura cautelare, fra le quali anche l’assenza di una causa estintiva del reato, sia al momento dell’adozione del provvedimento restrittivo che in ogni fase della sua esecuzione. In applicazione del principio ha conseguentemente annullato con rinvio l’ordinanza che aveva rigettato l’istanza di riparazione fondata sulla intervenuta prescrizione del reato, limitandosi a valutare la insussistenza della causa estintiva solo al momento di adozione della misura e non in quello della sua esecuzione, pur sussistendo specifiche fasi procedimentali espressamente deputate al controllo della persistente legittimità della misura cautelare e, quindi, alla verifica della permanenza delle sue condizioni di applicabilità, quali, ad esempio, l’interrogatorio di cui all’art. 294 cod. proc. pen.

4. Pluralità di contestazioni e diritto alla riparazione.

Nel decorso anno, la Quarta sezione ha avuto modo di occuparsi nuovamente della questione, frequentemente riscontrabile nei casi di procedimenti complessi caratterizzati da una pluralità di titoli custodiali, relativa alla riconoscibilità o meno del diritto alla riparazione qualora l’imputato venga prosciolto nel merito solo da alcune delle imputazioni mentre per altre venga prosciolto con formula non di merito o addirittura condannato. La normativa di rilievo sul punto è quella dettata dall’art. 314 cod. proc. pen., che al comma 1 riconosce il diritto ad un’equa riparazione per la custodia cautelare subita solo a chi sia stato prosciolto nel merito e al successivo comma 4 esclude, comunque, tale diritto per quella parte di detenzione che sia stata sofferta anche in forza di altro titolo. Se, dunque, la disciplina è sicuramente di chiara applicazione per le ipotesi in cui la limitazione della libertà personale sia stata disposta in base alla contestazione di un solo reato, essendo indubitabile che in tal caso non potrà vedersi riconosciuto alcun equo indennizzo colui che sia stato prosciolto con formula non di merito, ad esempio per intervenuta prescrizione o amnistia, operando la preclusione di cui al comma 1 dell’art. 314 cod. proc. pen., dubbi si pongono invece con riferimento ai casi in cui il provvedimento custodiale sia fondato su una pluralità di addebiti e solo per alcuni di essi sia intervenuto il proscioglimento nel merito, trovando applicazione in tale ipotesi la limitazione derivante dall’art. 314, comma 4 cod. proc. pen. che esclude l’indennizzo per quella parte di detenzione che sia stata sofferta anche in forza di altro titolo, senza tuttavia precisare in quali casi e con quali modalità debbano essere individuati i segmenti di detenzione sottratti alla riparazione. In ordine a tali ipotesi, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che, alla luce delle disposizioni contenute nelle norme richiamate, il proscioglimento con formula non di merito, anche da una sola delle imputazioni, o la condanna, sempreché autonomamente idonea a legittimare la compressione della libertà personale, impedisce il sorgere del diritto alla riparazione, irrilevante risultando il pieno proscioglimento dalle altre imputazioni (Sez. 4, n. 46472 del 07/10/2003, Campanella, Rv. 226730 – 01). Il principio è stato da ultimo ribadito, in termini del tutto sovrapponibili, anche da Sez. 4, n. 29623 del 14/10/2020, Russo, Rv. 279713 – 01, in relazione ad un caso in cui l’imputato era stato condannato per uno dei quattro reati per i quali era stata emessa la misura.

Sempre in relazione all’ipotesi di provvedimento custodiale emesso per più imputazioni, la Corte si è, altresì, di recente, pronunciata in merito alla questione della sussistenza dell’interesse ad impugnare il provvedimento cautelare proprio ai fini di un eventuale successivo giudizio di riparazione.

La questione generale relativa alla verifica della sussistenza dell’interesse ad impugnare in caso di ricorso per cassazione avverso il provvedimento applicativo di una misura cautelare custodiale nelle more revocata, era stata in precedenza affrontata da Sez. 6, n. 48583 del 15/10/2019, Capristo, Rv. 277567 – 01, che aveva affermato il principio di diritto secondo cui “il ricorso per cassazione, avverso il provvedimento applicativo di una misura cautelare custodiale nelle more revocata, è ammissibile a condizione che il ricorrente coltivi l’impugnazione ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione e che egli abbia manifestato tale volontà nello stesso ricorso personalmente o a mezzo di difensore munito di procura speciale, in quanto la domanda di riparazione è atto riservato personalmente alla parte, come si evince dal combinato disposto degli artt. 315, comma 3, e 645, comma 1, cod. proc. pen.” Ponendosi in linea di continuità con tale arresto, Sez. 6, n. 27212 del 17/09/2020, Frasconi, Rv. 279618 – 01, ha precisato che, con riferimento al caso specifico in cui il provvedimento cautelare si fondi su più contestazioni “tale interesse, che riguarda la legittimità del titolo restrittivo adottato, non può che essere correlato all’accertamento di insussistenza degli elementi costitutivi dei gravi indizi di colpevolezza in relazione a tutti i reati posti a fondamento della misura e non può riguardare, selettivamente, solo alcuni dei reati per i quali la misura è stata applicata. Tale limitazione, prospetticamente, si riverbera sulla ricorrenza del concreto interesse all’impugnazione poiché, nel caso in cui, con l’impugnazione, non risulti contestata, fin dall’ atto introduttivo, la fondatezza della legittimità del titolo cautelare, quanto ai presupposti giustificativi della misura, in relazione a tutti i reati, il titolo cautelare è suscettibile, in relazione ai reati non contestati, di sopravvivere alla pronuncia richiesta al giudice dell’impugnazione che è, quindi, inutiliter data rispetto alla stessa finalità allegata a fondamento della richiesta di trattazione dell’impugnazione in materia cautelare i cui effetti siano ormai cessati”. Il principio di diritto affermato è dunque quello per cui “l’interesse ad impugnare una misura cautelare personale dopo la sua cessazione, in caso di provvedimento coercitivo emesso per una pluralità di imputazioni, è ravvisabile, ai fini dell’equa riparazione per l’ingiusta detenzione, solo ove si faccia questione della sussistenza delle condizioni di applicabilità per tutti i titoli di reato per i quali la misura è stata disposta” (conf., Sez. 6, n. 47173 del 05/11/2013, Baris, Rv. 257268 – 01).

5. Morte del ricorrente e presentazione della domanda.

Circa le modalità di presentazione della domanda di riparazione, l’art. 315 cod. proc. pen. si limita a definire i termini per la proposizione e l’entità massima della riparazione, richiamando, per il resto, le norme sulla riparazione dell’errore giudiziario. I soggetti legittimati a proporre la domanda, ai sensi dell’art. 645 cod. proc. pen., sono la parte interessata o un procuratore speciale. Sul punto, le Sezioni Unite, chiarendo precedenti incertezze interpretative, hanno, già da tempo, precisato che l’istanza per la riparazione per ingiusta detenzione costituisce atto personale della parte che l’abbia indebitamente sofferta. Pertanto, la proposizione della domanda può avvenire personalmente o per mezzo di procuratore iscritto nell’albo di cui all’art. 613 cod. proc. pen. speciale ma non per mezzo del difensore con semplice mandato alle liti, avendo la legge voluto garantire sia l’autenticità dell’iniziativa, sia la sua diretta e inequivocabile derivazione dalla volontà dell’interessato (Sez. U, n. 8 del 12/03/1999, Sciamanna, Rv. 213508 – 01). Nell’anno in corso il principio è stato ribadito da Sez. 4, n. 10187 del 19/12/2019 (dep. 16/03/2020), Masucci, Rv. 278439 – 01 (conf. Sez. 4, n. 7372 del 14/01/2014, Guida, Rv. 259319 – 01), che ha, dunque, ritenuto esente da censure l’ordinanza che aveva dichiarato inammissibile l’istanza di riparazione priva di sottoscrizione della parte o del soggetto munito di procura speciale la quale, peraltro, recante una data di molto antecedente a quella del deposito in cancelleria dell’istanza, risultava separatamente formata e priva dell’indicazione del soggetto depositante. Nello stesso senso si era in precedenza espressa anche Sez. 4, n. 16115 del 15/02/2018, Iaquaniello, Rv. 272475 – 01, nella quale si era ulteriormente precisato che la procura speciale prevista dall’art. 122 cod. proc. pen. deve contenere, ai sensi di legge, anche la determinazione dell’oggetto per cui è conferita e dei fatti a cui si riferisce. Sulla questione occorre comunque segnalare che nella giurisprudenza di legittimità si registrano anche pronunce di segno contrario secondo le quali nel procedimento relativo alla riparazione per l’ingiusta detenzione, non è necessario il conferimento di procura speciale al difensore per la proposizione del ricorso per cassazione avverso l’ordinanza della corte d’appello che ha provveduto alla liquidazione dell’indennizzo, essendo sufficiente che il predetto difensore sia iscritto nell’albo speciale di cui all’art. 613 cod. proc. pen. Secondo tale diverso avviso, dunque, la mancanza della procura speciale al difensore non può essere considerata causa d’inammissibilità dell’impugnazione, visto che l’art. 127 cod. proc. pen., cui fa rinvio l’art. 646 stesso codice, non esige che il difensore - purché iscritto nell’albo speciale della cassazione - sia munito, per ricorrere, di procura speciale (Sez. 4, n. 29959 del 03/04/2007, Meduri, Rv. 236940 – 01; Sez. 4, n. 34652 del 03/06/2010, Riso, Rv. 248072 – 01; Sez. 4, n. 5926 del 22/01/2019, Rv. 27512 – 01).

Sempre in tema di proposizione della domanda, Sez. 4, n. 34366 del 25/11/2020, Sibilla, Rv. 280053 – 01, si è occupata della peculiare, e sostanzialmente nuova, questione relativa alla individuazione del soggetto legittimato a proporla in caso di morte del ricorrente intervenuta anteriormente alla presentazione del ricorso, ma successivamente al rilascio della procura ad litem. Nel caso di specie, gli eredi avevano proposto ricorso per cassazione avverso l’ordinanza che aveva dichiarato inammissibile la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione avanzata nell’interesse del defunto dal difensore. La Corte ha rigettato il ricorso evidenziando che, essendo il decesso avvenuto prima del deposito dell’istanza di riparazione, si era determinata l’estinzione del mandato conferito, non potendo trovare applicazione il principio di ultrattività del mandato il quale presuppone che si sia validamente costituito il rapporto processuale. A sostegno del principio la Sezione ha richiamato la costante giurisprudenza delle sezioni civili della Corte di cassazione che ha, appunto, escluso l’operatività del principio dell’ultrattività del mandato, sia nel caso di morte del rappresentato avvenuta anteriormente all’introduzione del giudizio da parte del rappresentante, non potendo il rapporto processuale venire ad esistenza in mancanza di uno dei soggetti che devono esserne titolari (Sez. 2 civ., n. 7688 del 13 luglio 1993), sia nel caso di morte della parte attrice intervenuta prima della notificazione della citazione o del deposito del ricorso, cui consegue la nullità della vocatio in ius e dell’intero eventuale giudizio che ne è seguito, atteso che il contraddittorio tra le parti si instaura solo al momento in cui la domanda è portata a conoscenza della parte convenuta (Sez. 6 civ., n. 27530 del 20/11/2017, Rv. 646776; Sez. 6 civ., n. 16177 del 19/06/2018, Rv. 649644). In applicazione dell’affermato principio la Corte ha, pertanto, rigettato il ricorso degli eredi, precisando tuttavia che permane in capo agli stessi la facoltà di iniziare il giudizio di riparazione per l’ingiusta detenzione subita dal congiunto munendosi di apposito mandato, ma sempre nel rispetto del termine di decadenza di cui all’art. 315, comma 1, cod. proc. pen. In virtù, infatti, dell’esplicito rinvio dell’art. 315 cod. proc. pen. alla disposizione di cui all’art. 644, comma 2, cod. proc. pen. in materia di riparazione dell’errore giudiziario, i prossimi congiunti della persona ingiustamente privata della libertà e deceduta possono far valere iure proprio la pretesa riparatoria, essendo gli effetti pregiudizievoli dell’ingiusta detenzione, così come quelli dell’errore giudiziario, naturalmente destinati a propagarsi nell’ambito familiare (Sez. U, n. 28 del 14/12/1994 (dep. 20/04/1995), Libranti, Rv. 200511 – 01). Diversamente, nel caso in cui il decesso dell’interessato sia intervenuto nelle more del giudizio, gli eredi sono legittimati a proseguirlo dovendo trovare applicazione, per il carattere patrimoniale del petitum, la disciplina processualcivilistica, che ricollega l’estinzione del processo non alla morte della parte, ma alla mancata prosecuzione o riassunzione in termini dello stesso da parte dei successori aventi diritto (Sez. 3, n. 46386 del 17/09/2019, Stagno, Rv. 277270 – 01; Sez. 4, n. 19322 del 16/02/2005, Maniaci, Rv. 231552 – 01; Sez. 4, n. 268 del 22/01/1998, De Rachewiltz, Rv. 210627 – 01).

6. Quantificazione dell’indennizzo.

L’art. 315 cod. proc. pen. non contiene una specifica disposizione in merito alla individuazione dei criteri di valutazione cui il giudice deve fare riferimento per calibrare l’entità dell’indennizzo, limitandosi a stabilire un tetto massimo. Circa i parametri di liquidazione dell’indennizzo, le Sezioni Unite hanno chiarito che il parametro aritmetico - costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell’indennizzo ed il termine massimo della custodia cautelare di cui all’articolo 303, comma 4, lett. l), espresso in giorni, moltiplicato per il periodo anch’esso espresso in giorni, di ingiusta restrizione subita - deve trovare un contemperamento nel potere di valutazione equitativa attribuito al giudice per la soluzione del caso concreto, che non può mai comportare il superamento del tetto massimo normativamente stabilito (Sez. U, n. 24287 del 09/05/2001, Caridi, Rv. 218975 – 01). Il principio per cui il criterio aritmetico deve, dunque, conciliarsi con quello equitativo, nell’anno trascorso è stato ribadito da Sez. 4, n. 32891 del 10/11/2020, Di Domenico, Rv. 280072 – 01, la quale ha affermato che il riferimento al criterio aritmetico - che risponde all’esigenza di garantire un trattamento tendenzialmente uniforme, nei diversi contesti territoriali - non esime il giudice dall’obbligo di valutare le specificità, positive o negative, di ciascun caso e, quindi, di integrare opportunamente tale criterio, innalzando ovvero riducendo il risultato del calcolo aritmetico per rendere la decisione più equa possibile e rispondente alle differenti situazioni sottoposte al suo esame. Nell’applicare il principio la Corte ha, conseguentemente, annullato l’ordinanza impugnata con la quale il giudice distrettuale aveva provveduto alla liquidazione dell’indennizzo utilizzando, quale unico parametro idoneo a compensare tutti gli effetti derivanti dall’ingiusta detenzione, il solo criterio aritmetico, senza un adeguato approfondimento motivazionale in merito alla perdita di chanches lavorative, sebbene adeguatamente provate dall’istante. Il principio espresso si riferisce ad un orientamento ermeneutico reiteratamente affermato da parte della giurisprudenza della Corte di cassazione che ha da sempre escluso la legittimità della semplice adozione del criterio fornito dal rapporto matematico tra durata della carcerazione e tetto massimo previsto per la quantificazione dell’indennizzo, dovendo il giudice della riparazione valorizzare anche gli specifici pregiudizi, di natura patrimoniale e non patrimoniale derivati dalla ingiusta compressione della libertà personale. I criteri equitativi da adottare devono riferirsi alla durata effettiva della custodia cautelare illegittimamente sofferta, che assume rilievo preponderante, alle modalità di restrizione della libertà ed agli altri effetti pregiudizievoli sul piano personale e familiare con riguardo alle qualità personali e professionali ed al discredito sociale patito (ex multis, Sez. 3, n. 3912 del 05/12/2013 (dep. 29/01/2014), D’Adamo, Rv. 258833 – 01; Sez. 4, n. 34857 del 17/06/2011, Giordano, Rv. 251429 - 01; Sez. 4, n. 18361 del 11/01/2019, Piccolo, Rv. 276259 – 01). Ai fini del discostamento dal criterio aritmetico è comunque necessario che la parte assolva all’onere di allegare l’esistenza di danni ulteriori rispetto alle normali conseguenze della privazione della libertà personale, la loro natura e i fattori che ne sono causa, e sia raggiunta la prova, anche sulla base del fatto notorio o di presunzioni, di tali danni e del nesso causale con la detenzione (Sez. 4, n. 19809 del 19/04/2019, Candiano, Rv. 276334 – 01). Ciò posto, qualora l’interessato alleghi la sussistenza di tali ulteriori danni mediante il riferimento a specifiche circostanze ritenute dal giudice idonee in astratto a giustificare l’incremento dell’indennizzo, quest’ultimo è tenuto ad invitare la parte a provvedere alla prova o al suo completamento risultando viceversa affetta da illogicità la motivazione del provvedimento che neghi la sussistenza in concreto di tali danni ulteriori (Sez. 4, n. 39773 del 06/06/2019, Spagnoli, Rv. 277510 – 01).

Posta dunque la necessità di valutare globalmente le conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà, la Corte ha, viceversa, escluso che in sede di procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, possa farsi questione di diritti ulteriori rispetto a quello relativo alla riparazione (Sez. 3, n. 35834 del 03/11/2020, B). Il giudice può conoscere soltanto del diritto all’indennizzo e non anche di quello ad ottenere un risarcimento del danno collegato alla restrizione della libertà ma conseguente ad un fatto ingiusto (Sez. 3, n. 43453 del 17/09/2014, Miglio, Rv. 260329 – 01). Lo strumento disciplinato dagli artt. 314 e 315 cod. proc. pen. ha, infatti, natura indennitaria e non risarcitoria, in quanto diretto a compensare le ricadute sfavorevoli procurate dalla ingiustificata privazione della libertà, indipendentemente dai presupposti richiesti per la configurabilità di un illecito civile. In applicazione del principio la Corte ha, dunque, rigettato il ricorso avverso il diniego dell’indennizzo per le conseguenze permanenti di natura psicofisica asseritamente derivate dalla detenzione per periodi di tempo ritenuti fungibili in relazione ad altre condanne e per i quali pertanto il diritto alla riparazione doveva ritenersi escluso ai sensi dell’art. 314, comma 4, cod. proc. pen.

7. Ingiusta detenzione e riparazione dell’errore giudiziario.

Per quanto riguarda i rapporti tra ingiusta detenzione ed errore giudiziario, Sez. 4, n. 10236 del 03/03/2020, Kovacs Peter, Rv. 278647 – 01, ha affrontato la questione relativa alla valutazione in sede di riparazione dell’errore giudiziario anche del pregiudizio subito nel periodo di ingiusta detenzione a titolo di custodia cautelare. La Corte ha affermato il principio secondo il quale la riparazione dell’errore giudiziario attiene non soltanto ai pregiudizi derivati dalla espiazione della pena definitiva ma anche a quelli conseguenti alla detenzione a titolo di custodia cautelare subita nel corso del processo. Si esclude, dunque, che la persona prosciolta debba proporre autonomamente due domande se nel processo oggetto della revisione sia intervenuta anche la custodia cautelare: quella per la riparazione dell’ingiusta detenzione e quella per la riparazione dell’errore giudiziario. Tale conclusione, ad avviso della Corte, si fonda sia su esigenze di razionalità e semplificazione che, soprattutto, sul tenore dell’art. 657, comma 1, cod. proc. pen., che impone di computare sulla pena definitiva da espiare la custodia cautelare sofferta per lo stesso reato. La sentenza si colloca, dunque, nel filone esegetico che aveva già ritenuto di dover superare l’orientamento secondo il quale l’art. 643 cod. proc. pen. prende in considerazione, per stabilire l’entità della riparazione per l’errore giudiziario, la “durata della eventuale espiazione della pena o internamento”, oltre alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna, e non ricomprende invece espressamente le conseguenze derivanti dalla privazione della libertà personale a diverso titolo. Tale esclusione, infatti, imponendo alla persona prosciolta di proporre autonomamente due domande distinte, non si giustificherebbe, invero, alla luce del processo di estensione della tutela riparatoria che ha caratterizzato l’istituto e di cui sono espressione, oltre che l’art. 24 Cost., la legge 4 agosto 1955, n. 848, l’art. 5, comma 5, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e l’art. 9, par. 8 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici, e (Sez. 4, n. 24359 del 23/02/2006, Pisano, Rv. 234612 – 01; Sez. 3, n. 26739 del 21/06/2011, Siccardi, Rv. 250662 – 01).

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di Cassazione

Sez. 4, n. 268 del 22/01/1998, De Rachewiltz, Rv. 210627 – 01 Sez. U, n. 24287 del 09/05/2001, Caridi, Rv. 218975 – 01

Sez. 4, n. 46472 del 07/10/2003, Campanella, Rv. 226730 – 01

Sez. 4, n. 19322 del 16/02/2005, Maniaci, Rv. 231552 – 01

Sez. 4, n. 24359 del 23/02/2006, Pisano, Rv. 234612 – 01

Sez. 4, n. 4154 del 17/10/2007, dep. 2008, Maugeri, Rv. 238666 - 01

Sez. 4, n. 29959 del 03/04/2007, Meduri, Rv. 236940 – 01

Sez. 4, n. 11423 del 21/02/2008, Picari, Rv. 238940 - 01

Sez. 4, n. 40291del 10/06/2008, Maggi, Rv. 242755 - 01

Sez. 4, n. 34652 del 03/06/2010, Riso, Rv. 248072 – 01

Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, D’Ambrosio, Rv. 247663-01

Sez. 3, n. 26739 del 21/06/2011, Siccardi, Rv. 250662 – 01

Sez. 4, n. 34857 del 17/06/2011, Giordano, Rv. 251429 - 01

Sez. 6, n. 47173 del 05/11/2013, Baris, Rv. 257268 – 01

Sez. 3, n. 3912 del 05/12/2013 (dep. 2014), D’Adamo, Rv. 258833 – 01

Sez. 4, n. 37401 del 29/05/2014, Agostino, Rv. 260306 – 01

Sez. 3, n. 43453 del 17/09/2014, Miglio, Rv. 260329 – 01

Sez. 4, n. 46423 del 23/10/2015, Sperti, Rv. 265287 – 01

Sez. 3, n. 45593 del 31/01/2017, Benhassoun, Rv. 271790 – 01

Sez. 4, n. 2619 del 07/11/2018 (dep. 2019), Ahmetovic, Rv. 276253 – 01

Sez. 4, n. 16115 del 15/02/2018, Iaquaniello, Rv. 272475 – 01

Sez. 4, n. 24439 del 27/04/2018, Stamatopoulou, Rv. 273744 - 01

Sez. 4, n. 39773 del 06/06/2019, Spagnoli, Rv. 277510 – 01

Sez. 4, n. 19809 del 19/04/2019, Candiano, Rv. 276334 – 01

Sez. 6, n. 48583 del 15/10/2019, Capristo, Rv. 277567 – 01

Sez. 4, n. 18361 del 11/01/2019, Piccolo, Rv. 276259 – 01

Sez. 4 n. 10793 del 19/12/2019 (dep. 2020), Samiri Driss, Rv. 278655 - 01

Sez. 4, n. 5926 del 22/01/2019, Rv. 275125 – 01

Sez. 3, n. 46386 del 17/09/2019, Stagno, Rv. 277270 – 01

Sez. 4, n. 36478 del 02/12/2020, Gallo, Rv. 280082

Sez. 3, n. 15786 del 04/02/2020, Ubaldini, Rv. 279385 – 01

Sez. 4, n. 10195 del 16/01/2020, Cerutti, Rv. 278645 – 01

Sez. 4, n. 29849 del 07/10/2020, Sajewaani, Rv. 280050 – 01

Sez. 4, n. 29623 del 14/10/2020, Russo, Rv. 279713 – 01

Sez. 6, n. 27212 del 17/09/2020, Frasconi, Rv. 279618 – 01

Sez. 4, n. 10236 del 03/03/2020, Kovacs Peter, Rv. 278647 – 01

Sez. 4, n. 32891 del 10/11/2020, Di Domenico, Rv. 280072 – 01

Sez. 3, n. 35834 del 03/11/2020, B

SEZIONE IX RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE.

  • giurisdizione internazionale
  • diritto penale internazionale
  • mandato di cattura europeo
  • estradizione

CAPITOLO I

RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON LE AUTORITÀ STRANIERE.

(di Stefania Riccio, Andrea Venegoni1 )

Sommario

1 Estradizione. - 2 Il riconoscimento delle decisioni straniere. - 3 L’ordine di indagine europeo. - 4 Il mandato di arresto europeo. - 4.1 Gravi indizi. - 4.2 Aspetti procedurali. - 4.3 Motivi di rifiuto. - 4.4 Principio di specialità. - 4.5 Consegna successiva. - 4.6 Brexit. - Indice delle sentenze citate.

1. Estradizione.

Numerose, nell’anno decorso, le pronunce della Corte regolatrice in materia di estradizione. All’interno di un sistema delle fonti multilivello, di matrice legislativa e giurisprudenziale, la giurisprudenza di legittimità è apparsa in particolar modo attenta a definire contenuto ed estensione delle garanzie in favore dei soggetti destinatari della procedura estradizionale. Merita segnalare, tra le altre, Sez. 6, n. 11374 del 10/03/2020, Terteryan, Rv. 278718.

Investito di una vicenda di estradizione passiva verso la Federazione Russa, il Collegio decidente ha valutato come garanzia di portata assoluta – e comunque esaustiva, ai fini dell’adozione di una pronuncia favorevole alla concessione -, rispetto alla previsione della pena capitale negli Stati sovietici, il disposto dell’art. 59 cod. pen. russo, il quale vincola gli Stati federati a non applicare alla persona estradata la pena di morte, pur se astrattamente comminata per il titolo di reato in addebito, sia nell’ipotesi in cui la legislazione dello Stato richiesto non la preveda a sua volta, sia nel caso in cui la non applicazione della massima sanzione sia oggetto di una specifica condizione della estradizione.

Di stretta attualità, a fronte dell’intensificarsi dei flussi migratori provenienti da Paesi in cui si consumano gravi e reiterate violazioni dei diritti umani, le decisioni che si sono occupate della valenza che riveste il riconoscimento all’estradando dello “status” di protezione internazionale sussidiaria, in rapporto alle determinazioni che l’Autorità giudiziaria nazionale deve assumere ai fini dell’estradizione.

Come noto, il provvedimento amministrativo attributivo di tale qualifica è adottato dalla competente commissione del Ministero degli interni ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, all’esito di un’istruttoria specificamente regolamentata che accerta, sulla base dei criteri di valutazione stabiliti dall’art. 3, commi 4 e 5 del d.lgs. cit., l’effettiva esistenza dei presupposti di fatto tipizzati dal legislatore, compendiati nelle distinte categorie degli “atti di persecuzione” e del “danno grave”, che giustifichino il fondato timore del soggetto, rispettivamente, di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità od opinione politica, ovvero di subire un grave danno alla vita o alla persona.

L’interferenza del riconoscimento di un tale “status” sulla procedura estradizionale è il tema centrale di Sez. 6, n. 19392 del 25/06/2020, Hoxhaj, Rv. 279263, nella quale , in linea di continuità con un orientamento più risalente (espresso da Sez. 6, n. 3746 del 18/12/2013, Tuzomay, Rv. 258249), si è ritenuto che, nei casi in cui venga prospettata la possibilità che l’estradando sia esposto al pericolo di atti persecutori o di trattamenti inumani o degradanti in conseguenza del rientro nello Stato richiedente l’estradizione, il provvedimento in discorso non abbia efficacia vincolante ex se per l’autorità giudiziaria procedente, la quale conserva la propria autonomia valutativa al riguardo; il che, tuttavia, non impedisce di assumere tale atto a base della pronuncia contraria della corte d’appello, che ben potrà ravvisarvi il presupposto della condizione negativa di cui al secondo comma, lett. c), dell’art. 705 cod. proc. pen., ove ne apprezzi completezza, certezza ed affidabilità.

Ciò anzitutto nella prospettiva, condivisa da giurisprudenza ormai consolidata, che sia comunque necessario accertare che l’interessato possa essere - in concreto - sottoposto a trattamenti gravemente lesivi dei diritti fondamentali della persona, con indagine che è riservata all’Autorità giudiziaria nazionale, ma rispetto alla quale l’interessato conserva pur sempre un onere di allegazione di elementi e circostanze sufficientemente precise.

In secondo luogo, perché abbia rilievo ostativo ai fini estradizionali, occorre che la paventata situazione di allarme sia riferibile allo Stato richiedente in quanto tale, ossia a sue scelte normative o di politica giudiziaria, sicchè deve prescindersi da contingenze locali che siano estranee ad orientamenti istituzionali ed in relazione alle quali sia comunque possibile attivare, nel contesto di riferimento, una tutela legale.

In applicazione di tali premesse ricostruttive, la Corte di legittimità, nella sentenza Hoxhaj, ha ritenuto ineccepibile la valutazione in fatto sottesa al provvedimento reiettivo della richiesta di protezione internazionale, osservando come non fosse provato che l’estradando sarebbe stato effettivamente soggetto passivo, se estradato in Kosovo (stato richiedente), di condotte ritorsive da parte dei familiari della vittima, secondo la cd. “pratica di Kanun”; ciò in quanto l’esistenza e diffusione di una tale pratica persecutoria, unitamente all’inerzia delle istituzioni locali nell’adozione di adeguate misure repressive, erano state dedotte in termini del tutto generici dall’istante (in tal senso v. anche Sez. 6, n. 30884 del 18/09/2020, Lula Bardh, Rv. 279851-02).

Venendo ai profili procedurali dell’istituto di cooperazione in rassegna, sempre la Sesta Sezione, con sentenza n. 8823 del 08/01/2020, Merkaziaj, Rv. 278616 – 02, nel precisare gli ambiti di valutazione che spettano ai più soggetti che intervengono nel procedimento passivo, ha colto l’occasione per marcare gli aspetti differenziali rispetto al mandato di arresto europeo.

In particolare, in una vicenda in cui era dedotta la condizione di stabile radicamento nel territorio nazionale dell’estradando, il quale chiedeva che non fossero recisi, per effetto della concessione dell’estradizione, i legami con il proprio nucleo familiare, la Corte esordisce puntualizzando che compete alla corte d’appello la valutazione della possibilità giuridica della estradizione passiva, mentre rientrano nella sfera esclusiva di competenza del Ministro della Giustizia l’opportunità della consegna e la possibilità che l’estradando espii nel nostro paese la pena detentiva; analizza, quindi, l’ulteriore motivo di ricorso, muovendo dagli approdi di Corte cost. n. 274 del 2011 e n. 10 del 2012, arresti secondo i quali non può addivenirsi, attraverso l’incidente di costituzionalità, all’inserimento nel complesso normativo di un nuovo caso di rifiuto, mutuato dalla disciplina del mandato di arresto (art. 18, comma 1, lett. r), della legge n. 22 aprile 2005, n. 69), non avendo fondamento le questioni di legittimità delle norme codicistiche sollevate rispetto ad una disciplina che differenzia la posizione dell’estradando rispetto al destinatario di un mandato di arresto europeo, siccome istituti aventi differenti matrice ed area applicativa.

Muove dal medesimo inquadramento, negando che siano ravvisabili profili di irragionevole disparità di trattamento nei diversificati regimi giuridici dell’estradizione e del mandato di arresto europeo, Sez. 6, n. 1677 del 11/12/2019, (dep. 16/01/2020), Kurti, Rv. 278216. La decisione ribadisce, in consonanza con gli arresti della Corte costituzionale innanzi richiamati, che la specialità della disciplina regolativa del mandato di arresto - istituto che realizza una collaborazione tra Stati appartenenti all’Unione, connotato da procedura semplificata ed attuato sulla base di una decisione-quadro - trova coerente spiegazione nelle significative affinità socio-culturali, oltre che giuridiche, tra i Paesi membri, i cui ordinamenti sono capaci di offrire analoghe garanzie di natura sostanziale e processuale, fondate su una piena condivisione dei valori della democrazia e del pluralismo.

Purtuttavia, con mutata impostazione rispetto al passato, nella detta sentenza la Corte apre a soluzioni di contemperamento tra i contrapposti interessi che risultano implicati nella fattispecie sottoposta al suo scrutinio: quello della tutela del minore di età inferiore ai tre anni, la cui madre era destinataria della procedura estradizionale, da un lato, e quello della difesa sociale, sotteso alla esecuzione della pena, dall’altro. Tale operazione realizza, mutuando dall’istituto del mandato di arresto europeoalcune garanzie fondamentali, sull’assunto che, se è vero che è demandato alle scelte discrezionali del legislatore definire le regole legali di cornice, ponendo i limiti entro i quali i diversi principi possono operare, è anche vero che essi principi possono trovare, sul piano applicativo, adeguato bilanciamento, senza rigidi automatismi e con attenzione alle peculiarità del caso concreto.

Così, per un verso, resta ferma per il giudice di legittimità l’inapplicabilità per analogia, ai cittadini degli Stati non appartenenti all’Unione europea, del divieto di consegna previsto dall’art. 18, lett. p), della legge n. 69 del 2005, come modificato dalla legge 4 ottobre 2019, n. 117; e tuttavia, essendo tale norma espressione di un principio generale informato alla primaria esigenza di tutela dell’interesse dei minori (riconosciuta a livello internazionale dalla Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia dalla legge 27 maggio 1991, n. 176, così come dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, adottata il 7 dicembre 2000, nonché da plurime discipline di settore dell’ordinamento interno), ben potrà il giudice ritenere la sussistenza della condizione ostativa di cui all’art. 705 cod. proc. pen., lì dove lo specifico trattamento penitenziario cui sarebbe sottoposta l’estradanda non assicuri la salvaguardia dell’integrità psicofisica del suo bambino.

Nella fattispecie, la Corte ha tuttavia rigettato il ricorso avverso la sentenza dichiarativa dei presupposti per concedere l’estradizione verso l’Albania, la quale era stata adottata sul rilievo che, come emerso dalle informazioni acquisite, la ricorrente, madre di prole di età inferiore a tre anni, sarebbe stata detenuta in una struttura riservata alle sole persone di sesso femminile, in cui è garantito il diritto di tenere presso di sé i figli, in apposite sezioni e con personale qualificato.

Sez. 6, n. 22818 del 23/07/2020, Balcan, Rv. 279567, focalizza il criterio di ripartizione degli oneri dimostrativi nell’ambito della procedura estradizionale, in rapporto al pericolo di sottoposizione dell’estradando a trattamenti inumani o degradanti che abbiano assunto carattere di diffusività e risultino da fonti cd. aperte ed ufficiali.

Secondo la Corte, quale correttivo al principio tendenziale per cui resta a carico dell’estradando l’onere di allegazione dei presupposti fattuali delle situazioni di pericolo, ove il dedotto pericolo sia attestato da fonti internazionali affidabili, è invece onere della corte di appello allargare la piattaforma cognitiva, ancorchè difettino allegazioni difensive sul punto. Così, nell’ipotesi in cui le gravissime criticità della restrizione carceraria nel paese richiedente, allegate dall’estradando, scaturiscano, in particolare, dalla violazione delle disposizioni sul sovraffollamento, sarà onere del giudice richiedere informazioni integrative che facciano luce sullo specifico trattamento penitenziario cui sarà sottoposto in concreto il soggetto, e i dati acquisiti potranno essere posti a fondamento della condizione ostativa prevista dall’art. 698, comma 1, cod. proc. pen., sulla base dell’art. 13 della Convenzione Europea di Estradizione.

Nella specifica vicenda, dunque, relativa ad una richiesta di estradizione formulata dalla Repubblica di Moldavia, sono state ritenute non esaustive le risultanze del rapporto ONU del 21 dicembre 2017 sul sovraffollamento ed i rapporti del 30 giugno 2016 e 13 dicembre 2018 stilati dal Comitato Europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, relativi a tale Stato, stante la mancata acquisizione di informazioni individualizzanti.

Sulla necessità di una valutazione del rischio di esposizione a trattamenti umani o degradanti che sia scevra da generalizzazioni, bensì focalizzata su elementi concreti, insiste anche Sez. 6, n. 19390 del 25/06/2020, Bijaoui Haim, Rv. 279309, in relazione ad una richiesta di estradizione verso lo Stato di Israele.

Pur se attestata, l’esistenza della situazione di pericolo nel contesto dello Stato richiedente, da fonti autorevoli ed accreditate, essa è stata valutata ininfluente nel caso al vaglio, perché riferita ai detenuti palestinesi per reati di terrorismo, e non suscettiva di estensione a soggetti che - come l’estradando - siano perseguiti per reati comuni, in difetto di elementi concreti che avallino tale estensione.

Di particolare interesse, ancora, Sez. 6, n. 24994 dell’08/07/2020, Carlton, Rv. 279603, in tema di successione degli Stati nei trattati internazionali regolanti la materia estradizionale.

Si controverteva, in particolare, in un caso di estradizione richiesta dalla Nuova Zelanda, della permanente vigenza della Convenzione sottoscritta dall’Italia con la Gran Bretagna il 5 febbraio 1873, con il relativo corredo di previsioni sui termini di durata della misura cautelare disposta in via provvisoria dallo Stato richiesto.

Il ricorrente invocava l’applicazione di tale più risalente Convenzione, prevedente un termine di durata della misura imposta all’estradando, più favorevole rispetto a quello di cui all’art. 714, comma 4, cod. proc., per essere la Nuova Zelanda, quale Stato ex coloniale, nata per distacco dalla Gran Bretagna e, in tesi, ad essa succeduta nel trattato.

La Corte ha sancito che, in relazioni a trattati diversi da quelli cd. “localizzabili” (id est, regolativi dell’uso di parti del territorio), vige, di contro, la regola consuetudinaria del venir meno del vincolo pattizio assunto dallo Stato predecessore (cd. principio della “tabula rasa”), codificata dalla Convenzione sulla successione degli Stati nei trattati internazionali, siglata a Vienna nel 1978; sicchè dette fonti non sono vincolanti se non rinnovate attraverso un apposito accordo anche soltanto di tipo ricognitivo tra il nuovo Stato e la controparte, o comunque mediante un comportamento concludente di significato inequivoco.

In tal senso – secondo la pronuncia in commento - deve interpretarsi l’art. 44 del Trattato di pace fra l’Italia e le Potenze Alleate ed Associate, firmato a Parigi nel 1947, lì dove dà facoltà a queste ultime di notificare all’Italia i trattati bilaterali conclusi anteriormente alla guerra di cui desiderassero il mantenimento o la rimessa in vigore, posto che tale disposizione non poteva certamente attribuire ad esse potenze una sorta di potestà unilaterale di selezione dei preesistenti accordi cui intendessero dare continuità, a meno di voler ipotizzare che i paesi usciti sconfitti dal conflitto bellico abbiano inteso con ciò consentire alla cessione di una quota consistente della propria sovranità. Tanto precisato, è stata pertanto ritenuta insufficiente, perché unilaterale, la comunicazione della volontà di far valere l’accordo in questione, inviata all’Italia dalla Nuova Zelanda.

Sul piano delle regole processuali, Sez. 6, n. 30642 del 22/10/2020, Bianchi, Rv. 279848, ha evidenziato come nei rapporti estradizionali non sia consentito all’autorità giudiziaria italiana rifiutare la consegna della persona richiesta sulla base di una pretesa verifica ex novo del potere giurisdizionale dell’autorità giudiziaria straniera che ha emesso il provvedimento da eseguire (in termini si veda anche Sez. 6, n. 17835 del 21/05/2020, Korshunov), atteso che un eventuale difetto di giurisdizione potrà essere fatto valere esclusivamente nei confronti del giudice straniero procedente.

Ciò vale, in linea teorica, per ogni violazione di legge processuale rinvenibile nella sentenza ovvero nel provvedimento limitativo della libertà personale, per la cui esecuzione è stata domandata l’estradizione, in quanto il divieto previsto dall’art. 705, comma 2, cod. proc. pen. si configura solo qualora venga prospettata l’assenza nell’ordinamento dello Stato richiedente di una normativa a presidio delle garanzie difensive e del diritto al giusto processo, cristallizzati quali diritti individuali inalienabili nella Carta fondamentale; mentre una tale carenza non era stata neppure dedotta nel caso portato all’attenzione della Corte. A tale conclusione, nella vicenda processuale esaminata, relativa a procedura estradizionale con gli Stati Uniti d’America, conduce l’ermeneusi del trattato bilaterale del 13 ottobre 1983, ratificato con legge 26 maggio 1984, n. 225 e del trattato integrativo del 3 maggio 2006, risultante dall’Accordo tra gli Stati Uniti d’America e l’Unione europea del 25 giugno 2003, ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 16 marzo 2009, n. 25. Difatti, l’art. III del trattato bilaterale suindicato va letto nel senso che, se il reato è stato commesso al di fuori del territorio statunitense, il Ministro della giustizia ha facoltà di rifiutare la consegna nel solo caso in cui la normativa interna sancisca la punibilità di tale reato o la persona richiesta sia un cittadino dello Stato richiedente, mentre analogo potere è sottratto alla competenza della corte d’appello.

2. Il riconoscimento delle decisioni straniere.

Alcune decisioni della Suprema Corte, rese nell’anno passato, appaiono decisamente orientate nel senso di una sostanziale assimilazione delle decisioni di riconoscimento di provvedimenti stranieri agli omologhi provvedimenti emessi dall’autorità nazionale.

Con analitica motivazione, Sez. 1, n. 12706 del 05/02/2020, Poggiagliolmi, Rv. 278704, ha affrontato il tema della valutabilità, ai fini dell’applicazione della liberazione anticipata di cui all’art. 54 dell’ord. pen., dei periodi di carcerazione sofferti all’estero.

La sentenza riafferma il criterio della armonizzazione dei sistemi esecutivi, il cui precipitato logico è la fungibilità delle detenzioni espiate in Stati diversi, fungibilità che estende anche ai rapporti con i Paesi che non aderiscono alla Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate, adottata il 21 marzo 1983 e ratificata con legge 27 luglio 1988, n. 334.

La limitazione della fungibilità all’ambito territoriale dell’Unione Europea, in passato sostenuta sul fondamento dell’elevato grado di integrazione socio-culturale e giuridica tra i Paesi membri, trova invero smentita, ad avviso della Corte, nella lettera dell’art. 54 ord. pen., il quale si riferisce ai semestri di “pena scontata”, senza alcun richiamo alla localizzazione del luogo di detenzione. Va valorizzata, secondo la medesima direttrice esegetica, la lettura coordinata dell’art. 738 cod. proc. pen. - a norma del quale, quando l’esecuzione di una sentenza straniera abbia luogo nel territorio nazionale, essa è soggetta alla legge italiana, ma la pena espiata è computata ai fini dell’esecuzione - e dell’art. 735, comma 3, cod. proc. pen., lì dove sancisce il divieto di applicare un trattamento sanzionatorio più gravoso rispetto alla pena inflitta nell’ordinamento straniero (principio, quest’ultimo, parimenti affermato dall’art. 10 della Convenzione di Strasburgo).

Su tale sostrato teorico, applicabile anche al procedimento di sorveglianza, la pronuncia fonda la propria elaborazione, per cui i benefici acquisiti durante la detenzione parzialmente espiata in uno Stato estero possono essere riconosciuti anche a prescindere dall’adesione di tale Stato alla Convenzione cit., purchè specifiche disposizioni dei trattati sovranazionali consentano all’autorità giudiziaria italiana di applicare gli istituti dell’ordinamento interno riguardanti il trattamento penitenziario.

Nel caso al vaglio, relativo a sentenza di condanna pronunciata dalla Repubblica Dominicana, tali disposizioni sono state individuate nel Trattato bilaterale sul trasferimento di persone condannate, stipulato tra il Governo della Repubblica Italiana ed il Governo della Repubblica Dominicana in data 14 agosto 2002, ratificato con la legge 5 marzo 2010, n. 46. Difatti, replicando analoghe disposizioni della Convenzione di Strasburgo cit., il trattato individua quale scopo finale della pena quello di favorire «il reinserimento sociale delle persone condannate»; attribuisce, all’art. 8, in capo allo Stato di esecuzione il potere esclusivo di valutare e disciplinare l’andamento e la durata della espiazione della pena detentiva, anche mediante l’applicazione di istituti più favorevoli; riconosce, all’art. 9, in caso di protrazione dell’esecuzione a seguito del trasferimento del condannato, sia il divieto di reformatio in peius in suo danno, sia il potere di adattamento della sanzione, a mezzo di decisione giudiziaria o amministrativa, alla legislazione dello Stato di esecuzione, con conseguente rimodulazione della pena residua.

Alla medesima linea di pensiero, orientata alla tendenziale armonizzazione dei sistemi esecutivi, si allinea anche Sez. 1, n. 21984 del 17/07/2020 Cc., Ferrari, Rv. 279454, che ripercorre l’iter motivazionale sviluppato nella sentenza Poggiagliolmi.

Si trattava, in dettaglio, di un incidente di esecuzione promosso dal ricorrente al fine di ottenere la detenzione domiciliare e la liberazione condizionale, in ragione del periodo di detenzione già subito dal richiedente in Canada - paese nel quale aveva riportato la condanna di cui aveva ottenuto il riconoscimento - sul rilievo che egli avesse maturato il diritto al «day parole», un istituto premiale basato sulla congiunta valutazione della durata della pena già trascorsa e del comportamento assunto dal costretto durante l’esecuzione.

La sentenza afferma, in proposito, che la detenzione già sofferta ben può rilevare ai fini del riconoscimento della liberazione condizionale, in virtù del ridetto divieto di trattamento penitenziario deteriore (rispetto a quello che sarebbe di spettanza sulla base della normativa straniera), affermato dalla Convenzione di Strasburgo.

Nello specifico , tuttavia, tale rilevanza deve ritenersi subordinata ad una duplice condizione. In primis, è necessario che vengano acquisiti dall’autorità procedente, pur in caso di mancata sottoposizione del condannato ad attività trattamentali, elementi di giudizio comunque rappresentativi della sua partecipazione all’opera rieducativa e della acquisita determinazione ad abbandonare schemi di vita devianti.

In secondo luogo, ad evitare non consentite duplicazioni di effetti premianti, occorre verificare che durante la detenzione all’estero il condannato non abbia già fruito di una misura nella sostanza equivalente al beneficio richiesto, ed altresì che l’applicazione del beneficio stesso non fosse stata già vagliata e respinta dalla competente autorità straniera. Da ultimo, viene ancora in evidenza, in tema di riconoscimento di sentenza penale emessa in uno degli Stati membri dell’Unione europea, Sez. 1, n. 26499 del 15/07/2020, Balescu, Rv. 279930, con cui la Corte ha stabilito che il provvedimento giurisdizionale oggetto del mandato di arresto europeo può essere assimilato alla sentenza resa dal giudice interno, ai fini della revoca della sospensione condizionale della pena.

Nello specifico, riferendosi ad un mandato esecutivo, la Prima Sezione ha affermato che non integra alcuna violazione del principio di specialità la revoca di diritto, ex art. 168, comma 1, n. 2, cod. pen., del beneficio della sospensione condizionale della pena concessa in relazione a condanne inflitte per reati anteriormente commessi, quando a darvi causa sia la sentenza con cui la corte d’appello ordini che abbia esecuzione in Italia la pena irrogata con il titolo straniero di condanna, per avere ritenuto sussistente il motivo di rifiuto del radicamento del condannato nel territorio nazionale ex art. 18, comma 1, lettera r), della legge n. 69 del 2005 (corrispondente all’attuale art. 18-bis, lettera c), della medesima legge). Nel discorso giustificativo della decisione, la Corte ha chiarito che il principio di specialità trova applicazione soltanto nei casi di consegna del condannato dallo Stato straniero all’Italia e non anche quando la decisione da assumere non implichi alcun trasferimento dall’estero, perché il soggetto sia già radicato in Italia.

Non può invero dubitarsi che la deduzione della causa di rifiuto per stabile radicamento implichi il consenso del condannato a che sia eseguita nel territorio nazionale la pena inflittagli dall’autorità giudiziaria straniera, esecuzione che dovrà avvenire in conformità del diritto interno, con tutte le conseguenze di legge che dal titolo legittimato discendono e, fra queste, anche con la possibilità di rimozione di benefici precedentemente concessi.

In altri termini, se è vero che il soggetto che ha prestato il consenso al trasferimento in Italia può essere sottoposto a esecuzione anche per fatti anteriori al trasferimento stesso, senza che ciò determini violazione del principio di specialità, ad analoga conclusione deve giungersi - per ragioni di simmetria - nel caso in cui il soggetto si sia opposto alla consegna per essere già radicato sul territorio nazionale.

3. L’ordine di indagine europeo.

Previsto dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014 41/UE, al fine di implementare la cooperazione giudiziaria nell’Unione Europea, l’ordine europeo di indagine penale (OIE) è espressione del principio del reciproco riconoscimento nell’acquisizione e circolazione della prova, e rappresenta il superamento del tradizionale meccanismo rogatoriale basato sulla “mutua assistenza”.

Già introdotto nell’ambito del cd. “terzo pilastro” con riferimento alla consegna delle persone (a partire dalla decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo), il mutuo riconoscimento è stato rilanciato, con riferimento alla prova, dalla direttiva del 2014 (recepita in Italia dal d. lgs. 21 giugno 2017, n. 108), nel quadro giuridico ed istituzionale dell’Unione Europea delineatosi in seguito al Trattato di Lisbona. Un intervento organico di modifica del libro XI del codice di procedura penale – attuato dal d. lgs. 3 ottobre 2017, n. 149 - ha poi consacrato il mutuo riconoscimento quale elemento fondativo della cooperazione giudiziaria all’interno dell’UE (v. art. 696-bis cod. proc. pen.).

Nel breve tempo decorso dall’entrata in vigore della normativa nazionale, l’OIE ha già avuto un diffuso utilizzo nelle investigazioni, e si registrano le prime pronunce della Corte di legittimità relative ad alcuni profili della procedura, essenzialmente inerenti all’ordine di indagine passivo.

Come noto, la sequenza procedimentale dell’OIE passivo si articola in una duplice fase: una prima, incentrata sul riconoscimento dell’ordine da parte dell’autorità giudiziaria italiana; una seconda, logicamente e cronologicamente successiva, che consiste nell’esecuzione dell’atto probatorio richiesto, finalizzata al trasferimento dei relativi esiti all’autorità dello Stato di emissione.

L’aspetto ad oggi più dibattuto, al proposito, attiene all’impugnazione del decreto di riconoscimento, il quale è autonomo rispetto ai successivi atti esecutivi e richiede specifica motivazione (così che non può costituirne un equipollente il decreto di sequestro probatorio, nel corpo del quale sia trasposto il contenuto dell’ordine dell’autorità straniera) (in tal senso, v. Sez. 6, n. 8320 del 31/01/2019, PMT C/Creo, Rv. 275732 – 02).

Sez. 6, n. 3520 del 22/01/2020, Verbrugge, Rv. 277628, muovendo da tale assetto ricostruttivo, ha approfondito il regime delle impugnazioni avverso il decreto di riconoscimento.

L’art. 13 del d.lgs. n. 108 del 2017 prevede un giudizio di opposizione innanzi al giudice delle indagini preliminari.

Schematizzando, il sistema disegnato dalla norma contempla:

a) un modulo in cui il giudice decide “de plano” sull’opposizione, con le forme semplificate previste dal comma 2, fruibile solo nei casi diversi da quello in cui il riconoscimento abbia ad oggetto il sequestro probatorio (fatta salva la particolare evenienza in cui l’atto richiesto debba essere compiuto direttamente dal giudice, ai sensi del successivo art. 5);

b) un modulo da valere per l’opposizione avverso il riconoscimento del decreto di sequestro probatorio che, in quanto involgente l’esecuzione di un atto investigativo impositivo di un vincolo coercitivo reale, dunque particolarmente invasivo, richiede l’udienza partecipata; tale modulo è codificato dal comma 7 dell’art. 13, il quale stabilisce che il giudice provvede in camera di consiglio nelle forme di cui all’art. 127 cod. proc. pen. e che la relativa decisione è suscettibile di ricorso per cassazione – che non ha effetti sospensivi – per il solo vizio di violazione di legge, ad istanza del procuratore distrettuale e degli interessati, entro dieci giorni dalla comunicazione.

Dunque, a fronte di un contraddittorio di tipo solo “cartolare” e sostanzialmente deformalizzato, tipico del modulo ordinario, questo differente regime impugnatorio, maggiormente garantito, prevede un contraddittorio camerale la cui violazione determina – secondo la Corte - la nullità assoluta, ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. c) e 179, comma 1, cod. proc. pen., del provvedimento decisorio che sia stato adottato, invece, “de plano”.

Ancora, con mutata prospettiva rispetto al recente passato, è stata esaminata la tematica della tardiva comunicazione del detto decreto (Sez. 6, n. 30885 del 24/09/2020, Sabbatini Edward, Rv. 279885).

Come noto, l’art. 4, comma 4, del d. lgs. n. 108 del 2017 prevede che il decreto di riconoscimento sia comunicato dalla segreteria del pubblico ministero al difensore dell’indagato. Modalità e termini di tale avviso si ricavano dalle regole dettate dal sistema processuale in relazione allo specifico atto probatorio oggetto della richiesta, con la conseguenza che, nell’ipotesi in cui le norme interne prevedano soltanto il diritto del difensore di assistere al compimento dell’atto a sorpresa, senza preavviso, il decreto di riconoscimento va comunicato al momento in cui l’atto viene compiuto o immediatamente dopo (art. 4, comma 4, secondo inciso).

Evidente che, oltre ad assolvere ad una finalità informativa, la comunicazione sia funzionale alla eventuale impugnazione.

La sentenza in disamina ha quindi affermato che la comunicazione al difensore, avvenuta oltre i termini previsti dall’art. 4 cit., non sia causa di nullità del riconoscimento, ma comporti unicamente il differimento, per un periodo corrispondente, del “dies a quo” del termine di cinque giorni per proporre opposizione innanzi al giudice delle indagini preliminari, come è dato evincere dall’inequivoco tenore letterale dell’art. 13, comma 1, cit.

Ciò sul presupposto logico-argomentativo che si sia in presenza di una violazione formale, priva di effetti pregiudizievoli per l’indagato, al quale non è precluso di proporre l’impugnazione; una violazione che resta priva, altresì, di esiti patologici perché ad essa - in un sistema imperniato sul principio di tassatività delle nullità – non è annessa alcuna sanzione processuale.

Tale statuizione si pone così in consapevole contrasto con la posizione espressa, sempre dalla Sesta Sezione, con sentenza n. 8320 del 31/01/2019, Creo, Rv. 275732.

In tale arresto, si era ritenuto che la tardiva comunicazione integrasse piuttosto una violazione dei diritti difensivi, e che fosse causa di annullamento, siccome produttiva di un duplice effetto negativo. Ciò perchè:

a) non consentirebbe all’indagato ed al suo difensore di proporre tempestiva opposizione al fine di eccepire la presenza di ragioni ostative all’esecuzione degli atti richiesti;

b) neppure sarebbe idonea ad impedire, nell’ipotesi in cui l’accoglimento dell’opposizione fosse tardivamente accolto, la trasmissione dei risultati di prova in tal modo acquisiti sul territorio dello Stato alla richiedente autorità dello Stato di emissione.

Di contro, proprio dalle caratteristiche e finalità del giudizio oppositivo la pronuncia del 2020 trae argomento per supportare la propria divergente opzione ricostruttiva, secondo la quale la tempestività della notifica del decreto di riconoscimento non è condizione della sua legittimità.

Ed invero, per ragioni di coerenza sistematica, il potere di controllo attribuito al giudice delle indagini preliminari non può essere diverso da quello che gli compete quando l’esecuzione dell’OIE abbia ad oggetto atti che non possono essere compiuti dal pubblico ministero, ma che, secondo la legge italiana, presuppongono l’intervento del giudice; e dall’art. 5 del d. lgs. n. 108 del 2017 si desume che l’unico sindacato consentito al giudice è quello relativo alla verifica della insussistenza dei motivi di rifiuto indicati nell’art. 10 del d.lgs. cit., cui deve aggiungersi l’accertamento degli ulteriori criteri fissati per il riconoscimento, così come enunciati dagli artt. 7 (principio di proporzionalità) ed 11 (doppia incriminazione ed ipotesi derogatorie) del d.lgs. cit..

La perimetrazione dei poteri del giudice così operata appare in linea con l’art. 14 della direttiva 41 cit., in forza del quale il sindacato sulle “ragioni di merito” degli atti compiuti è riservato in esclusiva alla giurisdizione dello Stato di emissione, a meno che non vi sia pregiudizio delle “garanzie dei diritti fondamentali nello Stato di esecuzione”, costituenti il nucleo valoriale che gli Stati membri hanno posto a fondamento della creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia (v. punto 19 del preambolo della direttiva).

Ed è proprio la previsione di una tutela differenziata innanzi ai due Stati a determinare – per la Corte - l’utilità del ricorso all’opposizione ex art. 13 cit., anche nel caso in cui sia già stata operata la trasmissione delle prove all’autorità giudiziaria straniera.

Difatti, se l’art. 14 della direttiva stabilisce espressamente che lo Stato di emissione “tiene conto del fatto che il riconoscimento o l’esecuzione di un OIE sono stati impugnati con successo, conformemente al proprio diritto nazionale” ciò significa che i rimedi attivabili, rispettivamente, nello Stato di esecuzione e nello Stato di emissione, sono in rapporto di complementarietà; e che, una volta trasmessi allo Stato di emissione, gli atti di indagine ben possono essere impugnati con i mezzi previsti dal relativo ordinamento.

Del resto, l’autonomia dei diversi strumenti di tutela era già stata affermata dalla più volte richiamata Sez. 6, n. 8320 del 31/01/2019, Rv. 275732 – 02, per la quale il decreto di riconoscimento garantisce il controllo sostanziale in ordine alla legittima esecuzione della c.d. “eurordinanza” ed è suscettibile di rimedi impugnatori per vizi propri e del tutto diversi rispetto a quelli esperibili avverso gli atti di indagine o di assunzione probatoria.

Conclusivamente, e diversamente da quanto ritenuto in precedenza, non si configura in tale contesto alcun diritto dell’indagato ad impedire il compimento dell’atto di indagine richiesto dall’autorità straniera;diritto che, anche nell’architettura del sistema processuale interno, non trova collocazione.

4. Il mandato di arresto europeo.

Nell’anno in corso, varie sono state le decisioni che hanno riguardato il mandato di arresto europeo, a conferma di come questo strumento sia ormai entrato nella pratica quotidiana degli uffici.

Le questioni portate all’attenzione della Corte hanno riguardato anche aspetti molto specifici della procedura, permettendo così a quest’ultima di esprimersi su questioni molto dettagliate, e di affermare interessanti principi al riguardo.

4.1. Gravi indizi.

Quanto alla valutazione, nella procedura “passiva” dei gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 17, comma quarto, l. 22 aprile 2005, n. 69, Sez. F, n. 23952 del 20/08/2020, Katic, Rv. 279542 – 01, ha affermato che è necessario che lo Stato di emissione specifichi nel mandato le fonti di prova, attraverso la puntuale allegazione delle evidenze fattuali a carico della persona di cui si chiede la consegna. Nella fattispecie, così, la S.C. ha annullato il provvedimento della corte d’appello che aveva disposto la consegna, in quanto la richiesta si basava sul mero richiamo ad indagini tecniche, senza alcuna precisazione sui contenuti di tali risultati probatori a carico dell’indagata.

4.2. Aspetti procedurali.

La Corte di Giustizia si è occupata di un tema attinente ai presupposti per l’emissione del MAE. Si tratta della pronuncia nella causa C-717/18, X, del 3 marzo 2020, in cui la Grande Sezione della Corte ha dichiarato che nell’applicazione dell’articolo 2, paragrafo 2, della decisione quadro relativa al mandato d’arresto europeo – il quale esige che, al fine di verificare se il reato per il quale è stato emesso un mandato d’arresto europeo sia punito dallo Stato membro emittente con una pena o una misura di sicurezza privative della libertà di durata massima non inferiore a tre anni, come definita dalla legge di tale Stato membro -, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve prendere in considerazione la legge di detto Stato membro nella versione applicabile ai fatti che hanno dato luogo al procedimento nell’ambito del quale è stato emesso il mandato d’arresto europeo, e non nella versione in vigore al momento dell’emissione di tale mandato d’arresto. Tale verifica risulta necessaria in quanto, ai sensi di detta disposizione, l’esecuzione di mandati d’arresto europei emessi per determinati reati puniti con una pena o una misura di sicurezza privative della libertà di durata massima non inferiore a tre anni non può essere subordinata al controllo della doppia incriminazione del fatto, ossia alla condizione che tali reati siano puniti anche dalla legge dello Stato membro di esecuzione.

Quanto alla Corte di cassazione, numerose sentenze riguardano gli aspetti procedurali per giungere alla decisione sulla consegna, sempre nella procedura “passiva”, quando, cioè, è l’A.G. italiana che deve decidere sulla richiesta di consegna proveniente da altro Stato Membro.

Sez. 6, n. 22187 del 23/07/2020, Dragan, Rv. 279600 – 02, ha, innanzi tutto, precisato che è consentita la consegna anche con riguardo ai delitti tentati ove ricorra l’ordinario criterio della doppia incriminazione, recepito dal nostro ordinamento all’art. 7 legge 22 aprile 2005, n. 69.

Secondo Sez. 6, n. 26214 del 16/09/2020, Poti, Rv. 279611 – 01, poi, l’omessa allegazione al mandato d’arresto europeo della relazione sui fatti addebitati alla persona di cui è richiesta la consegna, secondo la previsione dell’art. 6, comma 4, lett. a) legge n. 69 del 2005, non costituisce causa ostativa alla decisione di consegna, sempre che lo Stato d’emissione abbia comunque offerto all’autorità giudiziaria italiana tutti gli elementi utili per esercitare il suo controllo.

Nella procedura passiva determinata dall’inserimento del mandato di arresto nello Schengen Information System (SIS), Sez. F, n. 24593 del 27/08/2020, Donati, Rv. 279544 – 01, ha affermato che la convalida dell’arresto eseguito ad iniziativa della polizia giudiziaria a carico della persona ricercata il cui nominativo sia stato inserito nel suddetto sistema può essere disposta anche all’esito di udienza alla quale l’arrestato non abbia potuto o voluto comparire, esaurendosi il controllo giurisdizionale in una verifica meramente cartolare funzionale a verificare che l’arresto non sia stato eseguito per errore di persona o fuori dai casi consentiti. Il ricorso per cassazione contro il provvedimento che decide sulla consegna, secondo Sez. F, n. 23953 del 20/08/2020, Fiore, Rv. 279546 – 01, deve essere necessariamente presentato nella cancelleria del giudice che lo ha emesso, non potendo trovare applicazione il disposto dell’art. 582, comma 2, cod. proc. pen. che autorizza il deposito dell’impugnazione anche nella cancelleria di un ufficio giudiziario del diverso luogo in cui il ricorrente eventualmente si trovi, posto che, diversamente, verrebbero vanificate le esigenze di speditezza costituenti la ratio ispiratrice del sottosistema normativo relativo all’istituto in oggetto.

Sempre in tema di procedura passiva da esecuzione del mandato di arresto a seguito di inserimento nel SIS, Sez. F, n. 23951 del 18/08/2020, Maltese, Rv. 279541 – 01, ha affermato che l’audizione dell’arrestato da parte del presidente della Corte di appello o di un magistrato da lui delegato esclude la necessità di un nuovo interrogatorio di garanzia “ex” art. 294 cod. proc. pen., il cui espletamento è da ritenere incompatibile con il sistema processuale speciale introdotto dalla legge sopra menzionata, cosicché, in caso di impedimento dell’arrestato a comparire e di sospensione dell’audizione ex art. 294, comma 2, cod. proc. pen., non occorre fissare di nuovo l’interrogatorio una volta cessato l’impedimento.

Nel caso in cui la corte d’appello proroghi, per cause di forza maggiore, il termine per la decisione sulla richiesta di consegna, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 22 aprile 2005 n. 69, Sez. 6, n. 20739 del 10/07/2020, Gjoka, Rv. 279429 – 01, ha affermato che la relativa ordinanza non è impugnabile. Nella specie, la proroga era stata decisa per l’acquisizione di copia, tradotta in lingua italiana, della sentenza posta a base della richiesta di consegna, disposta in ragione del ritardo nell’invio della documentazione da parte delle Autorità statuali estere dovuto alla pandemia da Covid-19.

Sul rapporto tra misura cautelare e decisione di consegna, Sez. 6, n. 21579 del 17/07/2020, Cerutti, Rv. 279300 – 01, ha ritenuto che la nullità del provvedimento applicativo di una misura cautelare nei confronti del destinatario di una richiesta di consegna o la perdita di efficacia della misura applicatagli non incidono sulla legittimità della decisione favorevole alla consegna stessa, in quanto l’applicazione della misura cautelare non costituisce presupposto necessario del procedimento di cui alla legge 22 aprile 2005, n. 69.

Alcune decisioni riguardano, poi, la ricezione di documentazione integrativa richiesta dalla corte d’appello all’autorità dello Stato emittente ai fini della decisione sulla consegna. Sull’invio della richiesta, Sez. 6, n. 18711 del 18/06/2020, PG c. Ali Ali, Rv. 279304 – 01, ha affermato che la corte di appello che abbia disposto l’acquisizione di documentazione o informazioni integrative dallo Stato membro d’emissione ai sensi degli artt. 6 e 16 della legge 22 aprile 2005, n. 69, è tenuta a verificare che l’inoltro della relativa richiesta venga eseguito con modalità tali da garantire che la stessa pervenga effettivamente all’autorità giudiziaria straniera, non essendo sufficiente l’impiego di mezzi di comunicazione telematica che facciano solo presumere la ricezione di quella richiesta. Nella fattispecie, all’invio della richiesta mediante e-mail alla casella di posta elettronica intestata al giudice richiedente, non era seguita la prova dell’effettiva lettura.

In merito all’autenticità e alla provenienza dall’autorità giudiziaria dello Stato di emissione della documentazione integrativa richiesta, Sez. 6, n. 21066 del 09/07/2020, Ruffini, Rv. 279279 – 01, ha ritenuto che le stesse siano garantite dalla sua trasmissione, in via ufficiale, da parte del Ministero della giustizia.

Quando è disposta la consegna all’autorità giudiziaria estera richiedente, Sez. 6, n. 18352 del 11/06/2020, M., Rv. 279301 – 03, ha affermato che la stessa deve avvenire per l’esecuzione della pena eccedente il periodo di custodia cautelare presofferto in Italia, con la conseguenza che il relativo periodo di privazione della libertà va integralmente detratto, secondo le regole dell’ordinamento interno, dalla durata della pena detentiva da scontare in base alla condanna dello Stato richiedente.

Quanto al concetto di “autorità emittente”, Sez. 6, n. 20571 del 01/07/2020, Emma, Rv. 279280 – 01, ha ritenuto che sia legittima, nella ricorrenza delle restanti condizioni, l’emissione di un mandato di arresto europeo sulla base di un provvedimento restrittivo della libertà disposto da un’autorità di polizia e successivamente convalidato dal pubblico ministero, costituendo lo stesso una “decisione giudiziaria” ai sensi dell’art.8, paragrafo 1, lett. c), della decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio dell’Unione Europea del 13/06/2002. La fattispecie era relativa a un mandato di arresto europeo emesso dall’Ungheria sulla base di un provvedimento cautelare adottato da un funzionario di polizia e sottoposto al controllo del pubblico ministero in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata al fine di accertare l’assoggettabilità ad impugnazione della suddetta convalida, quale condizione del necessario rispetto dell’art. 5, comma 4, CEDU.

Secondo Sez. 6, n. 15922 del 21/05/2020, Lucaci, Rv. 278934 - 01, la nozione di “autorità giudiziaria emittente” comprende anche le autorità di uno Stato membro che, pur non rivestendo la qualifica di organi giurisdizionali, partecipano all’amministrazione della giustizia penale di tale Stato e agiscono in modo indipendente nell’esercizio delle proprie funzioni, a condizione che sia assicurato il sindacato giurisdizionale sulla decisione relativa all’emissione del mandato. La fattispecie riguardava un mandato di arresto europeo di tipo processuale emesso dall’ufficio del pubblico ministero austriaco, convalidato, prima della sua trasmissione, da un tribunale.

La richiesta di informazioni integrative, trasmessa allo Stato membro di emissione ai sensi dell’art. 16, comma 1, della legge 22 aprile 2005, n. 69, determina un automatico prolungamento del termine entro il quale, a pena di inefficacia della misura cautelare, deve intervenire la decisione sulla richiesta di consegna, senza necessità di adottare un formale provvedimento di proroga. (Sez. 6, n. 12215 del 4/12/2019, dep. 15/4/2020, Gursoy, Rv. 278754 – 01).

La tardiva trasmissione delle informazioni di cui all’ art. 6, comma 1, della legge 22 aprile 2005, n. 69, non costituisce causa ostativa alla loro valutazione e non impedisce di disporre la successiva consegna, la quale resta preclusa nel solo caso in cui lo Stato di emissione, richiestone, non dia corso alla loro trasmissione. (Sez. 6, n. 9039 del 04/03/2020, Martin, Rv. 278618-01).

Sez. 6, n. 4961 del 04/02/2020, F., Rv. 278450 – 01, ha affermato che, ai fini dell’efficacia del provvedimento di convalida dell’arresto emesso dal presidente della corte d’appello ai sensi dell’art. 13, comma secondo, della legge n. 69 del 2005, è sufficiente che pervenga, entro il termine di dieci giorni, la segnalazione della persona nel Sistema Informativo Schengen (S.I.S.) contenente le indicazioni previste dall’art. 6, comma primo, della predetta legge, ad eccezione di quella relativa alla pena minima, non influente sull’applicazione della misura cautelare. (In motivazione, la Corte ha precisato che ai sensi dell’art. 9 della legge 22 aprile 2005, n. 69, le informazioni necessarie per l’adozione di misure cautelari personali sono quelle funzionali alla verifica non della fondatezza della provvisoria contestazione mossa al ricercato dall’autorità giudiziaria dello Stato di emissione, ma della sussistenza di cause ostative alla consegna all’estero).

Sez. 6, n. 5111 del 05/02/2020, O., Rv. 278327 – 01, ha ritenuto che, quando il mandato di arresto europeo è emesso per l’esecuzione di una sentenza di condanna per una pluralità di reati, il rispetto del limite minimo di durata della pena (non inferiore a quattro mesi) fissato dall’art. 7, comma 4, legge 22 aprile 2005, n. 69, va accertato avendo riguardo alla pena complessivamente irrogata e non a quella applicata per ogni singolo reato.

Secondo Sez. 6, n. 5930 dell’11/02/2020, Garbin, Rv. 278330 - 01, l’invio della documentazione a corredo della richiesta di consegna dall’Autorità straniera alla Corte di appello deve avvenire con la necessaria intermediazione del Ministero della giustizia, organo centrale deputato a garantirne l’ufficialità. Nella fattispecie la Corte ha confermato la decisione con la quale era stata disposta la consegna per l’estero di un imputato in un caso in cui il Ministero della giustizia aveva inviato una p.e.c. all’Autorità estera per chiedere la trasmissione della documentazione, precisando che la risposta poteva essere inviata direttamente alla cancelleria della Corte di appello e tale Autorità aveva successivamente inoltrato la documentazione richiesta sia al Ministero, sia alla Corte di appello.

Quanto, poi, alla facoltà riconosciuta alla corte d’appello di rinviare la consegna al fine di consentire che la persona richiesta espii in Italia la pena inflitta per un reato diverso da quello oggetto del mandato d’arresto, la stessa implica una valutazione di opportunità che non necessita di particolare motivazione (Sez. 6 n. 4776 del 30/01/2020, Morad, Rv. 278115 – 01, in motivazione, la Corte ha precisato che, a differenza del caso di concomitante pendenza di un procedimento penale in Italia ed all’estero, non è configurabile una equivalenza delle esigenze lì dove nei confronti del soggetto richiesto sia già intervenuta sentenza di condanna, la cui esecuzione deve essere in via generale assicurata.

Notevolmente inferiori di numero le pronunce in tema di procedura “attiva”.

Sez. 3, n. 10473 del 18/02/2020, Urso, Rv. 278599 – 01, ha affermato che il giudice per le indagini preliminari, a seguito della richiesta del pubblico ministero di emissione di mandato di arresto europeo, non può, d’ufficio, revocare o sostituire la misura cautelare in atto, essendo tenuto soltanto a verificare l’esistenza dei presupposti del provvedimento richiesto, tra cui quello costituito dal domicilio, residenza o dimora dell’imputato o del condannato nel territorio di uno Stato membro dell’Unione europea.

Sez. 3, n. 13620 del 23/01/2020, Urso, Rv. 279739 - 01, ha poi definito abnorme, in quanto emesso al di fuori di qualsivoglia modello processuale e, perciò, del tutto avulso dal sistema, il provvedimento di rigetto della richiesta di emissione di mandato di arresto europeo per finalità processuali e non esecutive, in quanto il giudice deve limitarsi a verificare che esista il provvedimento restrittivo e che il destinatario sia presente nel territorio di altro Stato membro dell’U.E. . Anche in questa fattispecie il giudice per le indagini preliminari aveva respinto la richiesta di emissione del m.a.e. sostituendo la misura degli arresti domiciliari con quella del divieto di dimora per l’indagato.

4.3. Motivi di rifiuto.

Uno dei temi su cui maggiormente si concentra il contenzioso in materia di mandato di arresto europeo è quello dei motivi di rifiuto.

Al riguardo, vale la pena ricordare che mentre la legge di recepimento della decisione quadro 2002/534/GAI, la legge n. 69 del 2005, non conteneva la distinzione tra motivi obbligatori e facoltativi di rifiuto, presente invece nello strumento normativo europeo, Solo molto recentemente, con la legge n. 117 del 2019, lo Stato italiano ha adottato una disciplina in linea, su questo aspetto, con la decisione quadro.

Con tale legge è stato, infatti, introdotto l’art. 4-bis nella legge n. 69 del 2005, contenente i motivi facoltativi di rifiuto.

Così, la giurisprudenza del 2020 ha iniziato, almeno in parte, anche a confrontarsi con tale novità legislativa.

In tema di motivo di rifiuto rappresentato dalla residenza in Italia, Sez. F, n. 24244 del 25/8/2020, Jitariu, Rv. 279543, occupandosi di un aspetto processuale relativo alla sua introduzione in giudizio, ha ritenuto che è inammissibile il motivo di ricorso con il quale il cittadino di altro Paese membro dell’Unione Europea chieda il riconoscimento dello stabile radicamento nel territorio dello Stato, al fine di scontare la pena in Italia a norma dell’art. 18, comma 1, lett. r), l. 22 aprile 2005, n. 69, se non preceduto dalla corrispondente deduzione dinanzi alla Corte d’appello, poiché solo quest’ultima può svolgere ogni opportuna verifica in proposito, mentre, in sede di legittimità, la cognizione è limitata ai motivi proposti e alle questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, nonché a quelli che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello. In motivazione, poi, affrontando proprio il tema della modifica normativa sopra ricordata, la Corte ha precisato che il principio mantiene la sua validità anche a seguito delle modifiche introdotte con l’art. 6, comma 5, lett. b) l. 4 ottobre 2019, n. 117 che, nel caso di mandato di arresto europeo emesso per l’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza, ha previsto la facoltatività del rifiuto della consegna del cittadino di Paese membro dell’Unione Europea che sia dimorante o residente in Italia.

Una definizione del concetto di “residenza”, ai fini del rifiuto, è stata fornita da Sez. 6, n. 19389 del 26/6/2020, D., Rv. 279419, secondo la quale essa presuppone un radicamento reale e non estemporaneo della persona nello Stato, desumibile da una serie di indici rivelatori, quali la legalità della presenza in Italia, l’apprezzabile continuità temporale e stabilità della stessa, la distanza temporale tra quest’ultima e la commissione del reato e la condanna conseguita all’estero, la fissazione in Italia della sede principale e consolidata degli interessi lavorativi, familiari ed affettivi, e il pagamento eventuale di oneri contributivi e fiscali. La fattispecie era relativa ad un ricorso proposto da cittadina extracomunitaria, in cui la Corte, pur avendo in separato procedimento già sollevato questione di legittimità costituzionale con riferimento alla mancata estensione del motivo di rifiuto ai cittadini non appartenenti alla UE, non ha ritenuto rilevante la questione difettando i presupposti della continuativa presenza della ricorrente sul territorio.

In ordine al motivo di rifiuto rappresentato dal rischio che la persona consegnata venga sottoposta a trattamenti inumani e degradanti, non presente esplicitamente nell’art. 4 della legge n. 69 del 2005, ma desumibile sia dall’art. 1 della decisione quadro, che dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia a partire dal notissimo caso “Aranyosi e Caldararu”, Sez. 6, n. 18352 del 11/06/2020, M., Rv. 279301 – 02, ha affermato che, qualora lo Stato emittente abbia fornito assicurazioni che la persona interessata non subirà un trattamento inumano e degradante, l’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione può rifiutarsi di eseguire la richiesta solo quando, sulla base di elementi precisi, riscontri comunque il pericolo che le condizioni di detenzione siano contrarie all’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali UE. In motivazione, la Corte ha richiamato i principi sul tema affermati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza Grande Sezione, 15 ottobre 2019, Dorobantu, C – 128/19 e nella sentenza 25 luglio 2018, Generalstaatsanwaltschaft, C-220/18.

Peraltro, secondo Sez. 6, n. 7979 del 26/02/2020, Barzoi, Rv. 278355 - 01, la circostanza che lo spazio disponibile per ciascun detenuto in regime di detenzione cd. chiuso sia temporaneamente di poco inferiore al limite dei tre metri quadri (nella specie mq. 2,83) non comporta il rischio di un trattamento carcerario inumano o degradante, in presenza della concreta operatività di fattori compensativi che rendano le condizioni della detenzione conformi agli standards convenzionali. Si trattava di una fattispecie di regime detentivo del carcere di destinazione contemplante un congruo numero di ore trascorribili quotidianamente all’esterno delle celle, adeguate condizioni di igiene, e, dopo l’espiazione di un quinto della pena, possibilità di accedere al regime di detenzione cd. aperto.

La stessa Sez. 6, n. 18352 del 11/06/2020, M., Rv. 279301 – 01, si è poi occupata della questione della prescrizione della pena da eseguire, quale motivo obbligatorio di rifiuto della consegna ex art. 18, lett. n), della legge 22 aprile 2005, n. 69, affermando che essa si computa a decorrere dalla esecutività della sentenza di condanna e non invece dalla sua irrevocabilità. Nella fattispecie, la Corte ha individuato il “dies a quo” del termine prescrizionale in quello del passaggio in giudicato della revoca della sospensione condizionale subordinata alla riparazione del danno, successivo alla data di irrevocabilità della sentenza di condanna.

In merito al motivo di rifiuto di cui all’art. 18, lett. p), legge 22 aprile 2005, n. 69, nell’ipotesi di reato commesso da cittadino straniero fuori dal territorio dello Stato richiedente, Sez. 6, n. 17225 del 04/06/2020, Hughes, Rv. 279025 – 01, ha ritenuto, in una fattispecie relativa al reato di omicidio, che occorre verificare la procedibilità secondo la legge italiana non con riferimento alla fattispecie concreta “sub iudice”, bensì in relazione alla corrispondente ipotesi di reato commesso all’estero da cittadino italiano.

Quanto al motivo di rifiuto fondato sul pericolo che la persona sia sottoposta ad un procedimento in violazione del diritto ad un equo processo, Sez. 6, n. 15924, del 21/05/2020, Mokrzycki, Rv. 278889 – 01, ha affermato che non è sufficiente la mera denuncia da parte del consegnando di gravi carenze sistemiche rilevate nei confronti dello Stato di emissione essendo invece necessario che egli alleghi circostanze specifiche e concrete che possano giustificare anche il mero sospetto del carattere non equo del procedimento. Nella fattispecie, si trattava di richiesta di consegna proveniente dalle autorità giudiziarie polacche, rispetto alla quale il ricorrente aveva genericamente lamentato il difetto di indipendenza e terzietà dell’autorità giudiziaria polacca, senza addurre l’effettiva incidenza negativa di tali carenze rispetto al proprio procedimento.

Sez. 6, n. 15245 del 14/05/2020, Ispas, Rv. 278877 – 01, ha poi affermato, in tema di mandato d’arresto europeo esecutivo, che la persona richiesta in consegna che invochi l’applicazione del motivo di rifiuto facoltativo di cui all’art. 18-bis, comma 1, lett. c), legge 22 aprile 2005, n. 69, presta implicitamente il consenso al riconoscimento della sentenza straniera ma ciò non determina il venir meno dell’interesse a dedurre, con ricorso per cassazione, la sussistenza di eventuali fattori ostativi al recepimento del contenuto e all’esecuzione delle statuizioni della sentenza di condanna pronunciata dallo Stato di emissione. Riguardo, ancora, al motivo ostativo del divieto del “ne bis in idem”, previsto dall’art. 18, lett. m), della l. n. 69 del 2005, secondo Sez. 6, n. 14719 del 07/05/2020, M., Rv. 278849 – 01, occorre avere riguardo al criterio della identità dei fatti materiali oggetto dei relativi procedimenti, escludendo ogni lettura formalistica relativa all’identità della qualificazione giuridica. In motivazione la Corte, richiamando la decisione della Corte giustizia, Gaetano Mantello, C-261/09, 16/11/2010, §51, ha sottolineato che il concetto di “stessi fatti” costituisce una nozione autonoma del diritto dell’Unione Europea, la cui esegesi non può essere lasciata alla discrezionalità degli stati membri sulla base del rispettivo diritto nazionale, occorrendo invece garantirne un’applicazione uniforme.

Sez. 6, n. 4126 del 29/01/2020, Parpalea, Rv. 278359 – 01, si è invece occupata del rifiuto facoltativo di consegna, ai fini dell’esecuzione della pena, del cittadino italiano o di altro Stato membro dell’Unione europea, previsto dall’ art. 18-bis della legge 22 aprile 2005, n. 69, introdotto dalla legge 4 ottobre 2019, n. 117, affermando che esso implica una valutazione discrezionale che tenga conto del legittimo ed effettivo radicamento del soggetto sul territorio nazionale e della possibilità di esecuzione della pena in Italia, senza che abbiano rilievo, al riguardo, generiche esigenze di tutela della sicurezza pubblica, che facciano apparire opportuno l’allontanamento del soggetto. Su tale base, la Corte ha annullato con rinvio la pronuncia della corte di appello la quale aveva disposto la consegna del ricorrente, pur stabilmente residente in Italia, ritenendolo socialmente pericoloso per i suoi precedenti penali.

Anche Sez. 6, n. 5929 dell’11/02/2020 (dep. 14/02/2020) Rv. 278329 – 01, si è occupata dell’innovazione legislativa sui motivi facoltativi di rifiuto introdotta dalla legge n. 117 del 2019, affermando che il motivo di rifiuto facoltativo alla consegna previsto dall’art. 18-bis, comma 1, lett. b), legge 22 aprile 2005, n. 69, per i fatti commessi in parte nel territorio dello Stato richiede quantomeno la sussistenza di indagini sul fatto oggetto del mandato di arresto, sintomatiche dell’effettiva volontà della Stato di affermare la propria giurisdizione. Secondo Sez. 6, n. 2959 del 22/01/2020, M., Rv. 278197 – 02, quando la richiesta di consegna riguarda fatti commessi in parte nel territorio dello Stato, o in altro luogo allo stesso assimilato, il motivo facoltativo di rifiuto della consegna, previsto dall’art. 18-bis, comma 1, lett. b) della legge 22 aprile 2005, n. 69, come modificata dalla legge 4 ottobre 2019, n. 117, sussiste solo quando risulti già pendente un procedimento penale per il fatto oggetto del mandato di arresto europeo. In motivazione la Corte ha aggiunto che, in tal caso, il conflitto di giurisdizione tra i due Stati trova la propria soluzione nel meccanismo disciplinato dalla decisione quadro 2009/948/GAI e dal d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 29, anche al fine di evitare una violazione del principio del ne bis in idem sancito dall’art. 50 della

Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Sempre Sez. 6, n. 2959 del 22/01/2020, M., Rv. 278197 – 01, ha precisato che il motivo di rifiuto facoltativo della consegna previsto dall’art. 18-bis, comma 1, lett. b), della legge 22 aprile 2005, n. 69, come modificata dall’art. 6, comma 5, lett. b), della legge 4 ottobre 2019, n. 117, sussiste quando anche solo un frammento della condotta, inteso in senso naturalistico e non connotato dai requisiti di idoneità ed inequivocità previsti per la punibilità del tentativo, si sia verificato in territorio italiano, purchè sia possibile collegare la parte della condotta realizzata in Italia a quella commessa in territorio estero.

Un tema che ricorre spesso nella giurisprudenza è quello attinente al motivo di rifiuto per la mancata previsione, nello Stato di emissione, di limiti massimi della carcerazione preventiva, di cui all’art. 18 lett. e), della legge 22 aprile 2005.

Sez. 6, n. 2739 del 22/01/2020, Boyko, Rv. 278129 – 01, ha affermato che ciò non legittima il rifiuto della consegna quando l’autorità giudiziaria italiana verifichi che l’ordinamento dello Stato richiedente prevede un termine di durata della custodia fino alla sentenza di condanna di primo grado o, in mancanza, meccanismi processuali che assicurino, con cadenze predeterminate, un controllo giurisdizionale funzionale alla legittima prosecuzione della custodia o alla sua estinzione. Nella fattispecie la Corte ha ritenuto legittima la sentenza di consegna relativa a mandato di arresto europeo emesso dall’autorità giudiziaria dell’Ungheria, il cui ordinamento prevede termini di durata massima della custodia cautelare sia nella fase delle indagini preliminari che nel corso del giudizio di primo grado, nonché la possibilità di revoca della misura ad istanza di parte o di riduzione della sua durata ad iniziativa sia del giudice che del pubblico ministero.

Sez. 6, n. 4534 del 30/01/2020, Cadar, Rv. 278113 – 01, ha, invece, ritenuto che il motivo di rifiuto facoltativo della consegna previsto dall’art. 18-bis, comma 1, lett. c), l. 22 aprile 2005, n. 69 richiede la valutazione in ordine alla meritevolezza dell’interesse del condannato - cittadino italiano o di altro Stato membro dell’Unione Europea - ad espiare la pena nel territorio italiano e, pertanto, non può escludersi la ricorrenza del motivo ostativo adducendo la pericolosità sociale del predetto, in quanto tale parametro è del tutto estraneo ai criteri valutativi indicati dalla norma.

Infine, Sez. 6, n. 620 del 08/01/2020, PG c. Kacorri, Rv. 278120 – 01, ha affermato che la consegna allo Stato richiedente di un cittadino italiano o residente nello Stato è subordinata alla condizione del rinvio in Italia prevista dall’art. 19, lett. c), della l. 22 aprile 2005, n. 69; pertanto la corte d’appello è tenuta a verificare quale sia la nazionalità e la residenza della persona e, in mancanza di un’espressa diversa richiesta dell’interessato, deve subordinare la consegna alla condizione del rinvio in Italia, salvo restando che, qualora tale condizione non sia contenuta nella sentenza della corte d’appello, deve essere apposta dalla Corte di cassazione, anche in difetto di specifica doglianza.

4.4. Principio di specialità.

Sul tema del principio di specialità in una situazione di fatto molto particolare si è pronunciata, nell’anno in corso, anche la Corte di Giustizia con la sentenza del 24 settembre 2020 nella causa C-195/20 PPU.

Quanto alla Corte di cassazione, Sez. 1, n. 26499 del 15/07/2020, Balescu, ha affermato che legittimamente costituisce causa di revoca di diritto della sospensione condizionale della pena in relazione a condanne inflitte per reati anteriormente commessi, ai sensi dell’art. 168, comma 1, n. 2, cod. pen., la sentenza con cui la corte d’appello ordini che sia eseguita in Italia la pena irrogata con un titolo straniero di condanna in conseguenza dell’accoglimento dell’opposizione del condannato alla richiesta di consegna allo Stato che ha emesso il titolo stante il radicamento del predetto nel territorio nazionale ex art. 18, comma 1, lett. r), della legge 22 aprile 2005, n. 69, non determinandosi alcuna violazione del principio di specialità di cui all’art. 18 del decreto legislativo 7 settembre 2010, n. 161, che trova applicazione soltanto nei casi di consegna del condannato dallo Stato straniero all’Italia e non anche quando egli sia già radicato in Italia e presti il consenso a quivi scontare la pena inflittagli dall’autorità giudiziaria straniera, atteso che in tal modo il medesimo accetta altresì gli effetti che nell’ordinamento interno discendono dal riconoscimento della condanna inflittagli all’estero.

4.5. Consegna successiva.

Infine, in tema di consegna successiva, Sez. 6, n. 9582 del 05/03/2020, Occhipinti, Rv. 278732 – 01, ha stabilito che l’autorità italiana che, dopo avere ricevuto in consegna il detenuto a seguito dell’emissione di detto mandato, lo consegni successivamente ad altro Stato membro dell’Unione a norma dell’art. 25 legge n. 69 del 2005, è tenuta ad accertare se il necessario assenso a tale ultima consegna da parte dello Stato che ne ha disposto quella iniziale provenga dall’organo giudiziario competente sulla base delle regole specificamente contemplate dall’art. 28, par. 3, della decisione quadro 2002/584/GAI e, qualora si tratti di un ufficio del pubblico ministero, se nel relativo ordinamento sia prevista la possibilità di attivare un controllo successivo, avvalendosi di rimedi impugnatori.

4.6. Brexit.

Nel corso dell’anno la Corte ha anche avuto modo di pronunciarsi sullo spinoso tema della “Brexit”, ponendosi il problema della sorte dei mandati di arresto con il Regno Unito. Sez. 6, n. 28228 del 06/10/2020, Maltese, Rv. 279626 – 01, ha affermato che l’avvio da parte del Regno Unito della procedura per recedere dall’Unione Europea non legittima il rifiuto di un mandato di arresto europeo per la consegna a detto Stato, in quanto, anche a seguito della “brexit”, non sussiste il concreto rischio che la persona di cui si chiede la consegna venga privata dei suoi diritti fondamentali, anche in considerazione del fatto che permangono le garanzie derivanti dall’adesione dello stato britannico alla CEDU. In motivazione, la Corte ha comunque precisato che, conformemente a quanto stabilito dalla Corte di Giustizia dell’U.E. nella decisione del 19 settembre 2018, la mera notifica dell’intenzione di recedere dall’Unione non sospende l’applicazione, nel Regno Unito, della decisione quadro in materia di mandato di arresto europeo, che resta pertanto vigente fino al 31 dicembre 2020, data dell’effettivo recesso.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 6, n. 3746 del 18/12/2013, Tuzomay, Rv. 258249

Sez. 6, n. 1677 del 11/12/2019, (dep. 16/01/2020), Kurti, Rv. 278216. Sez. 6, n. 8320 del 31/01/2019, PMT C/Creo, Rv. 275732 – 02

Sez. 6, n. 620 del 08/01/2020, PG c. Kacorri, Rv. 278120 – 01

Sez. 6, n. 8823 del 08/01/2020, Merkaziaj, Rv. 278616 – 02

Sez. 6, n. 2959 del 22/01/2020, M., Rv. 278197 – 01

Sez. 6, n. 2959 del 22/01/2020, M., Rv. 278197 – 02

Sez. 6, n. 2739 del 22/01/2020, Boyko, Rv. 278129 – 01

Sez. 6, n. 3520 del 22/01/2020, Verbrugge, Rv. 277628 Sez. 3, n. 13620 del 23/01/2020, Pmt c. Urso, Rv.

Sez. 6, n. 4126 del 29/01/2020, Parpalea, Rv. 278359 – 01

Sez. 6, n. 4534 del 30/01/2020, Cadar, Rv. 278113 – 01

Sez. 6 n. 4776 del 30/01/2020, Morad, Rv. 278115 – 01

Sez. 6, n. 4961 del 04/02/2020, F., Rv. 278450 – 01

Sez. 6, n. 5111 del 05/02/2020, O., Rv. 278327 – 01

Sez. 1, n. 12706 del 05/02/2020, Poggiagliolmi, Rv. 278704

Sez. 6, n. 5929 dell’11/02/2020 Cc. (dep. 14/02/2020) Rv. 278329 – 01

Sez. 6, n. 5930 dell’11/02/2020, Garbin, Rv. 278330 – 01

Sez. 3, n. 10473 del 18/02/2020, Urso, Rv. 278599 – 01

Sez. 6, n. 7979 del 26/02/2020, Barzoi, Rv. 278355 – 01

Sez. 6, n. 9039 del 04/03/2020, Martin, Rv. 278618-01

Sez. 6, n. 9582 del 05/03/2020, Occhipinti, Rv. 278732 – 01

Sez. 6, n. 11374 del 10/03/2020, Terteryan, Rv. 278718

Sez. 6, n. 12215 del 4/12/2019, dep. 15/4/2020, Gursoy, Rv. 278754 – 01

Sez. 6, n. 14719 del 07/05/2020, M., Rv. 278849 – 01

Sez. 6, n. 15245 del 14/05/2020, Ispas, Rv. 278877 – 01

Sez. 6, n. 15922 del 21/05/2020, PG c. Lucaci, Rv. 278934 – 01

Sez. 6, n. 15924 del 21/05/2020, Mokrzycki, Rv. 278889 – 01 Sez. 6, n. 17835 del 21/05/2020, Korshunov, non massimata Sez. 6, n. 17225 del 04/06/2020, Hughes, Rv. 279025 – 01

Sez. 6, n. 18352 del 11/06/2020, M., Rv. 279301 – 01

Sez. 6, n. 18352 del 11/06/2020, M., Rv. 279301 – 02

Sez. 6, n. 18352 del 11/06/2020, M., Rv. 279301 – 03

Sez. 6, n. 18711 del 18/06/2020, PG c. Ali Ali, Rv. 279304 – 01

Sez. 6, n. 19392 del 25/06/2020, Hoxhaj, Rv. 279263

Sez. 6, n. 19389 del 26/6/2020, D., Rv. 279419

Sez. 6, n. 20571 del 01/07/2020, Emma, Rv. 279280 – 01

Sez. 6, n. 24994 dell’08/07/2020, Carlton, Rv. 279603

Sez. 6, n. 21066 del 09/07/2020, Ruffini, Rv. 279279 – 01

Sez. 6, n. 20739 del 10/07/2020, Gjoka, Rv. 279429 – 01

Sez. 1, n. 26499 del 15/07/2020, Balescu, Rv. 279930

Sez. 6, n. 21579 del 17/07/2020, Cerutti, Rv. 279300 – 01 Sez. 1, n. 21984 del 17/07/2020 Cc., Ferrari, Rv. 279454 Sez. 6, n. 22818 del 23/07/2020, Balcan, Rv. 279567S

Sez. 6, n. 22187 del 23/07/2020, Dragan, Rv. 279600 – 02 sez. F, n. 23951 del 18/08/2020, Maltese, Rv. 279541 – 01 sez. F, n. 23952 del 20/08/2020, Katic, Rv. 279542 – 01 Sez. F, n. 23953 del 20/08/2020, Fiore, Rv. 279546 – 01

sez. F, n. 24244 del 25/8/2020, Jitariu, Rv. 279543

sez. F, n. 24593 del 27/08/2020, Donati, Rv. 279544 – 01 Sez. 6, n. 26214 del 16/09/2020, Poti, Rv. 279611 – 01

Sez. 6, n. 30884 del 18/09/2020, Lula Bardh, Rv. 279851-02

Sez. 6, n. 30885 del 24/09/2020, PMT c/Sabbatini Edward, Rv. 279885 Sez. 6, n. 28228 del 06/10/2020, Maltese, Rv. 279626 – 01

Sez. 6, n. 30642 del 22/10/2020, Bianchi, Rv. 27984807/2020, Ruffini, Rv. 279279 – 01 Sez. 6, n. 20739 del 10/07/2020, Gjoka, Rv. 279429 – 01

Sez. 1, n. 26499 del 15/07/2020, Balescu, Rv. 279930

Sez. 6, n. 21579 del 17/07/2020, Cerutti, Rv. 279300 – 01 Sez. 1, n. 21984 del 17/07/2020 Cc., Ferrari, Rv. 279454 Sez. 6, n. 22818 del 23/07/2020, Balcan, Rv. 279567S Sez. 6, n. 22187 del 23/07/2020, Dragan, Rv. 279600 – 02 sez. F, n. 23951 del 18/08/2020, Maltese, Rv. 279541 – 01 sez. F, n. 23952 del 20/08/2020, Katic, Rv. 279542 – 01 Sez. F, n. 23953 del 20/08/2020, Fiore, Rv. 279546 – 01

sez. F, n. 24244 del 25/8/2020, Jitariu, Rv. 279543

sez. F, n. 24593 del 27/08/2020, Donati, Rv. 279544 – 01 Sez. 6, n. 26214 del 16/09/2020, Poti, Rv. 279611 – 01

Sez. 6, n. 30884 del 18/09/2020, Lula Bardh, Rv. 279851-02

Sez. 6, n. 30885 del 24/09/2020, PMT c/Sabbatini Edward, Rv. 279885 Sez. 6, n. 28228 del 06/10/2020, Maltese, Rv. 279626 – 01

Sez. 6, n. 30642 del 22/10/2020, Bianchi, Rv. 279848

PARTE QUARTA - SPESE DI GIUSTIZIA --- SEZIONE I INDENNITÀ DI CUSTODIA.

  • spese processuali
  • magistrato
  • sequestro di beni

CAPITOLO I

LA COMPETENZA ALLA LIQUIDAZIONE DEI COMPENSI AL CUSTODE GIUDIZIARIO: CHI È IL “MAGISTRATO CHE PROCEDE"?.

(di Elena Carusillo )

Sommario

1 Premessa. - 2 La questione controversa. - 3 L’ordinanza di rimessione. - 4 L’evoluzione della disciplina dell’istituto del patrocinio difensivo. - 5 La giurisprudenza di legittimità sulla locuzione “magistrato che procede”. - 6 Il decreto di archiviazione e la sua natura. - 7 La pronunzia delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 4535 del 18/04/2019, dep. 03/02/2020, PMT, Rv. 277580 – 01, hanno affermato il seguente principio di diritto: “La competenza a provvedere, ai sensi dell’art.168 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, sulla istanza di liquidazione delle spese di custodia dei beni sequestrati, presentata successivamente all’archiviazione del procedimento, spetta al giudice per le indagini preliminari in veste di giudice dell’esecuzione. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto abnorme l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari con la quale era stata disposta la trasmissione al pubblico ministero, per competenza, della richiesta di liquidazione del compenso suddetto)”, risolvendo il contrasto giurisprudenziale che si registrava sul punto.

2. La questione controversa.

La vicenda trae la sua origine dal ricorso proposto dal Procuratore generale avverso l’ordinanza con la quale il giudice per le indagini preliminari aveva declinato la propria competenza a provvedere sulla richiesta di liquidazione del compenso, avanzata dal custode giudiziario per l’attività di custodia dei beni in sequestro, e restituito gli atti al pubblico ministero, sul presupposto che, ai sensi dell’art. 168, comma 1, del Testo Unico in materia di spese di giustizia (d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115), la liquidazione delle spettanze agli ausiliari del magistrato e dell’indennità di custodia dovesse ricadere nella sfera di competenza del pubblico ministero quale magistrato procedente al momento della presentazione della domanda, al quale gli atti erano stati restituiti, ai sensi dell’art. 409 comma 1, cod. proc. pen., con il decreto di archiviazione.

3. L’ordinanza di rimessione.

Ad avviso della Quarta sezione, il contrasto giurisprudenziale sussisteva in relazione sia al significato da ascrivere alla locuzione “magistrato che procede” contenuta nell’art. 168, comma 1, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, sia all’individuazione dell’autorità giudiziaria competente a provvedere, sia alla ricaduta della decisione sul provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari, dichiaratosi incompetente, aveva disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero. Invero, in caso di attribuzione della competenza al giudice per le indagini preliminari il provvedimento restitutorio si sarebbe profilato come abnorme in quanto idoneo a determinare una stasi del procedimento, superabile da parte del pubblico ministero soltanto con il compimento di un atto esorbitante dalla propria competenza e, pertanto, illegittimo; diversamente, in caso di attribuzione della competenza all’ufficio del pubblico ministero, il provvedimento sarebbe stato legittimo ed il ricorso del pubblico ministero inammissibile in quanto proposto nei confronti di un provvedimento inoppugnabile per il principio di tassatività dei mezzi d’impugnazione di cui all’art. 568 cod. proc. pen.

Il Collegio rimettente evidenziava proprio nella divergenza tra tali epiloghi decisori il fondamento della rimessione alle Sezioni Unite.

4. L’evoluzione della disciplina dell’istituto del patrocinio difensivo.

Prima di procedere all’esame della decisione assunta dalle Sezioni Unite, appare opportuno un sintetico inquadramento della disciplina in materia di spese di giustizia, inizialmente regolamentata dalla legge 1 dicembre 1956 n. 1426, recante norme sui compensi spettanti ai periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria, per poi, sia in ambito civile che penale, essere disciplinata con la legge 8 luglio 1980 n. 319 che, all’art. 11, devolveva la competenza relativa alla liquidazione degli onorari al magistrato che aveva effettuato la nomina. Tale legge veniva poi abrogata (con esclusione dell’art. 4 relativo alle modalità di determinazione degli onorari in base alle vacazioni) ad opera del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia”, con il quale il legislatore aveva mirato a sistemare organicamente, attraverso una attività ricognitiva, una vera e propria stratificazione di norme succedutesi senza una complessiva visione organica.

Nei limiti del ristretto alveo compilativo riconosciuto al Testo unico, si inquadrava l’operazione compiuta dal legislatore che nel formulare l’art. 168 d.P.R. n. 115 del 2002 aveva sostituito, con riferimento all’autorità competente alla liquidazione, il termine “magistrato” a quello di giudice e pubblico ministero.

5. La giurisprudenza di legittimità sulla locuzione “magistrato che procede”.

Proprio in relazione al significato da attribuire alla locuzione “magistrato che procede” contenuta nell’art. 168 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 in caso di istanza di liquidazione dei compensi delle spettanze agli ausiliari del magistrato e dell’indennità di custodia dei beni sequestrati presentata dopo il provvedimento di archiviazione, si registravano pronunce di legittimità non univoche.

Giova premettere che in epoca di poco antecedente all’approvazione del Testo unico, Sez. U, n. 25161 del 24/04/2002, Fabrizi, Rv. 221660, chiamata a decidere in merito alla individuazione del regime della prescrizione del compenso dovuto al custode di cose sequestrate nell’ambito di un procedimento penale, aveva fornito un criterio di individuazione del magistrato competente a provvedere in ordine alle necessarie incombenze, nelle varie fasi processuali, affermando il principio di diritto secondo il quale “la competenza a deliberare sulla richiesta di anticipazione o liquidazione finale del compenso presentata dal custode di cose sequestrate nell’ambito di procedimento penale appartiene, nella fase successiva alla sentenza irrevocabile, al giudice dell’esecuzione, nella fase delle indagini preliminari al pubblico ministero il quale provvede con decreto motivato, nel corso del giudizio di cognizione, al giudice che ha la disponibilità del procedimento il quale provvede “de plano”, dovendosi osservare, in tutti i casi, le forme stabilite per il procedimento di esecuzione a norma dell’art. 666 cod. proc. pen.” sul presupposto che, poiché la disposizione dell’art. 265 cod. proc. pen. riproduce esattamente il dettato dell’art. 626 del codice di rito previgente, in relazione al quale la giurisprudenza di legittimità era concorde nel ritenere che la competenza appartenesse al giudice dell’esecuzione dopo la sentenza irrevocabile ed al giudice avente la disponibilità del procedimento durante la pendenza del giudizio di cognizione, i medesimi criteri - tenuto conto della stretta connessione tra dissequestro e restituzione delle cose sequestrate e pagamento delle spese di custodia (art. 262, 2° comma, c.p.p. e art. 84 disp. att. c.p.p.) - fossero validi anche nella disciplina del nuovo codice di rito.

Con l’approvazione del Testo unico, in merito alla locuzione “magistrato che procede” di cui all’art. 168 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, si formavano due differenti orientamenti giurisprudenziali, il primo dei quali fondava sul principio di diritto affermato da Sez. 4, n. 26993 del 05/05/2004, Demo, Rv. 229661, secondo il quale “è competente il P.M. a decidere sulla richiesta di liquidazione del compenso del custode qualora il procedimento si concluda con provvedimento di archiviazione”, atteso che “con la richiesta di archiviazione il giudice per le indagini preliminari non viene investito del procedimento ma viene chiamato esclusivamente a svolgere un controllo di legalità sulla determinazione del pubblico ministero di non esercitare l’azione penale”, principio, poi, ribadito in più recenti arresti di legittimità nei quali si è affermato che la locuzione “magistrato che procede” è riferibile al magistrato che ha la materiale disponibilità degli atti al momento della richiesta di liquidazione, da individuarsi, dopo l’archiviazione del procedimento e la trasmissione degli atti all’ufficio di procura, nel pubblico ministero (Sez. 4, n. 54227 del 14/09/2018, Ignoti, Rv. 274428; Sez. 4, n. 54827 del 14/09/2018, Ignoti, Rv. 274276; nonché, in tema di liquidazione di spese relative ad intercettazioni telefoniche, Sez. 4, n. 54826 del 2018; Sez. 4 n. 6657 del 19/01/2017, G.i.p. Trib. Napoli, Rv. 269037; Sez. 4, n. 2212 del 01/10/2014, dep. 2015, Ignoti, Rv. 261765).

In contrapposizione a tale indirizzo, in altre pronunce si è affermato il principio secondo il quale, anche in caso di archiviazione già disposta, la competenza a decidere sulla liquidazione dei compensi al custode appartiene al giudice per le indagini preliminari quale autorità procedente, a nulla rilevando la materiale trasmissione del fascicolo processuale agli archivi della procura (Sez. 5, n. 2924 del 12/11/2013, dep. 2014, Ignoti, Rv. 257939; Sez. 5, n.9222 del 10/02/2006, PM c/ignoti, Rv. 233770; Sez. 4, n. 32314 del 20/01/2005, Trionfo, Rv. 231724; Sez. 4, n. 11195 del 26/01/2005, Paolucci, Rv. 231196), poiché la competenza alla liquidazione delle spettanze agli ausiliari del magistrato e dell’indennità di custodia è del giudice dell’esecuzione. Il ragionamento prendeva le mosse da un’operazione di interpretazione logico-sistematica dell’art. 263, comma 6, cod. proc. pen. che, nello stabilire che dopo la sentenza non più soggetta a impugnazione sulla restituzione delle cose sequestrate provvede il giudice dell’esecuzione, dava vita ad una previsione, essa stessa espressione di un principio di carattere generale in base al quale, qualora alla restituzione del bene non abbia provveduto il giudice che procede ed il procedimento sia stato “definito”, ossia non esiste più un giudice di cognizione, l’interessato deve rivolgersi al giudice dell’esecuzione (Sez. 1, n. 15997 del 28/2/2014, Villa, Rv. 259912), regola questa “da applicarsi anche al provvedimento di archiviazione, atteso che esso definisce la fase delle indagini preliminari, facendo sì che tutti i poteri conferiti al pubblico ministero ed al giudice per le indagini preliminari passino a quest’ultimo, ma in funzione di giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 665 cod. proc. pen.” (Così Sez. 4, n. 43885 del 10/07/2018, Ignoti, Rv. 274268).

Sul tema, in epoca meno risalente, un importante contributo si rinviene nel principio di diritto affermato da Sez. U, n. 9605/14 del 28/11/2013, Seghaier, Rv. 257989-01, secondo il quale “alla liquidazione dei compensi dovuti al consulente tecnico nominato dal P.M. deve provvedere lo stesso P.M. che ha conferito l’incarico, anche nel caso in cui il procedimento sia passato ad una fase successiva” in considerazione dello stretto vincolo fiduciario che intercorre tra l’autorità giudiziaria che designa e il soggetto designato quale perito o consulente. Nella specie, le Sezioni Unite se da un lato avevano valorizzato la regola di competenza delineata per il perito e il consulente del pubblico ministero contenuta nell’art. 73 disp. att. cod. proc. pen., che rinvia all’osservanza delle disposizioni previste per il perito e, quindi, all’art. 232 cod. proc. pen., il quale stabilisce espressamente che il compenso al perito è liquidato dal giudice che ha disposto la perizia a prescindere dalla fase in cui si trova il procedimento nel momento della richiesta di liquidazione, dall’altro sottolineavano che la regola individuata con riguardo a perito e consulente del P.M., derivando da una speciale disposizione normativa, non avrebbe potuto incidere in alcun modo “sulla regola fissata, in via generale, dall’art. 168 T.U. per il custode e gli altri ausiliari ivi menzionati”.

Sul solco tracciato dalla precedente giurisprudenza dominante, in alcune pronunce la Corte ha individuato, nel procedimento conclusosi con l’archiviazione, il “magistrato che procede”, indicato all’art. 168 d.P.R. n. 115 del 2002, nel giudice per le indagini preliminari, affermando l’abnormità “per la stasi processuale che ne deriva” del “provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari, disposta l’archiviazione, rimetta al pubblico ministero la decisione sulla richiesta di liquidazione del compenso spettante al custode giudiziario”, cosìspiegando, per un verso, che l’attribuzione della competenza al giudice per le indagini preliminari nasce dalla circostanza che, in procedimento conclusosi con provvedimento di archiviazione, è proprio questi il giudice dell’esecuzione (Sez. 4, n. 834 del 13/09/2017, dep. 2018, Ignoti, Rv. 271748) e, dall’altro, che ai fini della competenza é irrilevante la collocazione “fisica” del fascicolo archiviato presso altro ufficio e come, invece, la disponibilità del medesimo sia da ritenersi propria del giudice per le indagini preliminari che ha definito il procedimento accogliendo la richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero, in ragione della funzione di giudice dell’esecuzione dallo stesso esercitata (Sez. 4, n. 43885 del 10/07/2018, Ignoti, Rv. 274268).

Con tali decisioni, la Corte si disallineava dall’orientamento ricollegabile alla pronuncia di Sez. 4, n. 26993 del 05/05/2004, Demo, Rv. 229661, secondo il quale, in caso di procedimento conclusosi con provvedimento di archiviazione e restituzione degli atti alla procura, la competenza alla liquidazione delle spese di custodia “spetta al pubblico ministero quale magistrato che procede, ai sensi dell’art. 168, d.P.R. n. 115 del 30 maggio 2002”, in quanto magistrato che ha materialmente la disponibilità degli atti al momento della richiesta di liquidazione dopo l’archiviazione del procedimento (Sez. 4, n. 54227 del 14/09/2018, ignoti, Rv. 274428; Sez. 4, n. 6657 del 19/01/2017, G.i.p. Trib. Napoli, Rv. 269037; Sez. 4, n. 2212 del 01/10/2014, dep. 2015, ignoti, Rv. 261765).

Un importante contributo a tale ultimo orientamento è quello di Sez. 4 n. 54827 del 14/09/2018, ignoti, Rv. 274276, secondo cui l’art. 3 d.P.R. n. 115 del 2002, che contiene le definizioni valevoli ai fini della lettura dello strumento normativo, ha posto l’attenzione sulla definizione di “magistrato” (riferibile tanto al giudice che al pubblico ministero) e sul significato della locuzione “che procede”, riconoscendo validità al criterio della materiale disponibilità degli atti al momento in cui sorge la necessità di procedere, coincidente, per il caso che ci occupa, con la presentazione dell’istanza di liquidazione.

6. Il decreto di archiviazione e la sua natura.

Nell’alveo della questione interpretativa rimessa al vaglio della Corte è opportuno un breve cenno sulla natura del provvedimento di archiviazione, in relazione alla quale, a differenza di quanto affermato (o meglio auspicato) nel corso dei lavori preparatori, allorchè si era escluso che potesse riproporsi qualsiasi disputa sulla natura del provvedimento di archiviazione “decisamente collocato fuori dall’area della giurisdizionalità” (Rel. prog. prel. c.p.p., pag. 100 in G.U. Serie Generale n. 250 del 24.10.1988), non erano affatto sopiti i dubbi sorti già nella vigenza del codice di procedura penale abrogato.

In dottrina, taluni autori hanno evidenziato quali indici di non giurisdizionalità del provvedimento di archiviazione la forma di decreto, l’inefficacia di giudicato, il difetto di contraddittorio nella fase precedente e in quella successiva alla sua emanazione e, non ultima, la sua collocazione all’interno della fase preprocessuale, così ritenendolo un provvedimento meramente permissivo ed autorizzativo. La critica a tale impostazione proveniva da quanti, al contrario, ritenevano che, quegli stessi indici, non fossero realmente decisivi al fine di attribuire al provvedimento natura amministrativa, esistendo nell’ordinamento processuale decisioni che, pur presentando le medesime caratteristiche della pronuncia di archiviazione, hanno certamente carattere giurisdizionale: nessuno avrebbe potuto dubitare, ad esempio, della giurisdizionalità del decreto penale di condanna, privo della fase del contraddittorio, così come l’assenza di mezzi di impugnazione mai avrebbe indotto ad attribuire natura amministrativa al decreto di rinvio a giudizio. La natura giurisdizionale del decreto di archiviazione sarebbe, dunque, da rinvenirsi sia nella sua provenienza da un organo giurisdizionale, sia nel suo contenuto “di merito”, perfettamente equiparabile alla sentenza istruttoria di proscioglimento in quanto rivolto, come questa, “all’accertamento dell’innocenza di colui nei cui confronti era pervenuta una notitia criminis”, sicchè ravvisare nel decreto di archiviazione una decisione amministrativa significherebbe relegarlo a ruolo di “una declaratoria di carattere marginalmente processuale in ragione del non promovimento dell’azione penale”, laddove il giudice non autorizza né controlla ma dichiara solo l’infondatezza dell’accusa. Su posizioni intermedie si è attestata quella dottrina secondo la quale dal procedimento di archiviazione traspare il carattere misto del provvedimento del giudice per le indagini preliminari: di natura amministrativa perché emesso in fase preprocessuale, ma anche di natura giurisdizionale in quanto strumento di controllo, anche di merito, dell’attività svolta dal pubblico ministero, connotato, inoltre, da motivazione.

Il tema non ha lasciato indifferente neanche la giurisprudenza di legittimità che in taluni arresti ha affermato che: al provvedimento di archiviazione del giudice per le indagini preliminari non può riconoscersi natura giurisdizionale trattandosi di un atto privo di statuizioni o accertamenti processualmente certi, benché emesso da un giudice (Sez. 1, n. 8881 del 10/07/2000, Malcangi, Rv. 216919); con il provvedimento di archiviazione “il giudice si pone come garante della legalità, in ordine all’esercizio dell’azione penale, e non come risolutore di un conflitto di interessi” (Sez. 5, n. 6059 del 13/11/1998, dep. 1999, Fortunato, Rv. 212643); il provvedimento di archiviazione, sebbene non contenga statuizioni o accertamenti processualmente certi, rappresenta un punto fermo del processo, sia esso “procedimento contenzioso o non contenzioso di natura giurisdizionale” (Sez. 3, n. 39191 del 18/06/2014, Ventura, Rv. 260391; Sez. 6, n. 26189 del 4.06.2009, Merenda e altro, Rv. 244553; Sez. 1, n. 8881 del 10/07/2000, Malcangi, Rv. 216919; Sez. 5, n. 6059 del 13/11/1998, dep. 1999, Fortunato, Rv. 212643; Sez. 5, n. 1334 del 22.10.1991 dep. 1992, Panicucci, Rv. 189199); a dirimere ogni dubbio sul carattere non giurisdizionale del provvedimento di archiviazione, soccorrono la sua collocazione all’interno della fase preprocessuale e la sua insuscettibilità a “passare in giudicato” sebbene lo stesso sia dotato, in virtù del disposto dell’art. 414 cod. proc. pen., di una limitata efficacia preclusiva (Sez U, n. 9 del 22/03/2000, Finocchiaro, Rv. 216004; Sez. 3 n. 3908 del 28/01/2010, S., Rv. 246022; Sez. 5, n. 1344 del 22/10/1991 (dep. 1992).

In merito alla efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione, la Corte costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità, sollevata con riferimento all’art. 24 Cost., dell’art. 555, comma 2, cod. proc. pen. in relazione all’art. 414 cod. proc. pen. vigente, ,nella parte in cui non consente di rilevare o eccepire la nullità del decreto di citazione a giudizio nel caso di mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini preliminari, ha assegnato al provvedimento del giudice per le indagini preliminari che autorizza lo svolgimento delle nuove indagini la sostanziale natura di condizione di procedibilità, con la conseguenza che la richiesta di rinvio a giudizio, formulata dal pubblico ministero dopo l’archiviazione e senza previa autorizzazione alla riapertura delle indagini, determina l’improcedibilità dell’azione penale che dev’essere dichiarata dal giudice competente a decidere sul merito ai sensi degli artt. 129, 425, 469 e 529 cod. proc. pen. Dunque, ad avviso della Corte costituzionale, in difetto del provvedimento autorizzativo del giudice per le indagini preliminari, è precluso al pubblico ministero di espletare nuove indagini e di promuovere l’azione penale (Corte cost. 95/27 e, più di recente, Corte cost. ‘03/56).

In questa ottica, la restituzione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 409 cod. proc. pen., sembrerebbe rispondente alla sola esigenza di lasciare nella disponibilità della parte pubblica quanto necessario ad una rivisitazione della vicenda allorchè si profili la necessità di compiere nuove investigazioni; di conseguenza il decreto di archiviazione, chiudendo la fase del procedimento rappresentata dalle indagini preliminari svolte infruttuosamente dalla pubblica accusa, costituirebbe l’elemento di cesura che segna la fine di un percorso, impedendo la prosecuzione della fase procedimentale, salva la possibilità di una riapertura con l’intervento del giudice ai sensi dell’art. 414 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 33057 del 10/07/2007, Gianoglio, Rv. 237581, in tema di efficacia preclusiva del decreto in merito alla “notitia criminis” e non al fatto).

7. La pronunzia delle Sezioni Unite.

In via preliminare, nella risoluzione del conflitto, le Sezioni unite hanno affrontato ex officio il tema della ricorribilità del provvedimento impugnato sotto il profilo della “abnormità funzionale”. Richiamata la decisione di Sez. U, n. 25957 del 26 marzo 2009, Toni, Rv. 4 243590, che, sul punto, nel ribadire che è affetto da abnormità non soltanto il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto espressione di un legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti o delle ipotesi previste o, ancora, al di là di ogni ragionevole limite, ha sottolineato che l’abnormità dell’atto può riguardare tanto il profilo strutturale - se l’atto si pone al di fuori del sistema normativo -, quanto il profilo funzionale - nel caso in cui esso, pur non ponendosi al di fuori del sistema, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo-, il Supremo consesso ha ritenuto tale la situazione sottoposta al suo vaglio, nella quale sia il pubblico ministero che il giudice avevano rifiutato di emettere il richiesto provvedimento liquidatorio, non ritenendo ipotizzabile, nella specie, un conflitto negativo di competenza neppure sotto il profilo dei “casi analoghi” previsti dall’art. 28 cod. proc. pen., in quanto configurabile solo tra organi giurisdizionali e non, anche, in una situazione di conflittualità tra il pubblico ministero, che è una parte anche se pubblica del processo, e il giudice (Sez. U, n. 9605 del 28 novembre 2013, Seghaier, Rv. 257989).

Nell’articolato percorso motivazionale, le Sezioni unite hanno abbracciato la linea interpretativa che ravvisa nel provvedimento con cui il giudice restituisce al pubblico ministero la richiesta di liquidazione dei compensi un atto abnorme, impugnabile con ricorso per cassazione in assenza di specifici mezzi di gravame per tali tipologie di atti, già seguita da Sez. U, n. 19289 del 25 febbraio 2004, Lustri, Rv. 227355 allorchè, chiamate a pronunciarsi sulla competenza a decidere sulla domanda di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, hanno ritenuto abnorme, e pertanto ricorribile per cassazione, il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari aveva disposto la trasmissione, per competenza, al pubblico ministero di una tale domanda, e condivisa dalla giurisprudenza successiva (Sez. 3, n. 818 del 17/11/2015, Bartone, Rv. 266176; Sez. 4, n. 43885 del 10 luglio 2018, ignoti, Rv. 254268, Sez. 4, n. 54227 del 14 settembre 2018, ignoti, Rv. 274428).

A risoluzione del contrasto rilevato in merito al significato da ascrivere alla locuzione “magistrato che procede” contenuta nell’art. 168., comma 1, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, con la decisione adottata, le Sezioni Unite hanno dato risposta al quesito affermando che la competenza sulla istanza di liquidazione delle spese di custodia dei beni sequestrati, presentata successivamente all’archiviazione del procedimento, spetta al giudice per le indagini preliminari in veste di giudice dell’esecuzione.

Il nucleo centrale del ragionamento della Corte valorizza l’attualità delle argomentazioni svolte da Sez. U, n. 25161 del 24/04/2002, Fabrizi, Rv. 221600, che, quanto alla individuazione dell’organo designato a provvedere in prima istanza sulla richiesta del custode concernente l’anticipazione o la liquidazione finale del compenso a lui spettante, avevano osservato che la disposizione dell’art. 265 cod. proc. pen., riproduce esattamente il dettato dell’art. 626 del codice di rito previgente, in relazione al quale la giurisprudenza di legittimità era concorde nel ritenere che la competenza appartenesse al giudice dell’esecuzione dopo la sentenza irrevocabile ed al giudice avente la disponibilità del procedimento durante la pendenza del giudizio di cognizione (Sez. 1, n. 804 del 05/04/1978, Hagler, Rv. 138723), con la conseguenza che i medesimi criteri - tenuto conto della stretta connessione tra dissequestro e restituzione delle cose sequestrate e pagamento delle spese di custodia - restavano validi anche nella disciplina del nuovo codice di rito, da cui la competenza a decidere del giudice dell’esecuzione.

Partendo dalla premessa che all’individuazione del “magistrato che procede” di cui all’art. 168 del T.U. non può ragionevolmente addivenirsi attraverso la mera collocazione “fisica” del fascicolo, ma che, invece, deve darsi centralità alla materiale disponibilità del medesimo in ragione della funzione esercitata, le Sezioni unite hanno argomentato che dopo il decreto di archiviazione, l’adozione di tutti i provvedimenti connessi alla sorte delle cose sequestrate ed alla liquidazione dei compensi al custode spetta al giudice, in virtù del principio stabilito dall’art. 263 cod. proc. pen., che prevede, al comma 4, una competenza limitata del pubblico ministero nel caso in cui non vi abbia provveduto nella fase delle indagini preliminari, e riserva, invece, tale competenza espressamente al giudice dell’esecuzione dopo la sentenza non più soggetta ad impugnazione (comma 6), sicchè il “magistrato che procede” va necessariamente identificato nel giudice per le indagini preliminari che, accogliendo la richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero, definisce il procedimento.

Proprio sul concetto di procedimento “definito”, la Corte ha sottolineato che, seppur vero che l’art. 263 cod. proc. pen. nella sua formulazione non prende in espressa considerazione, nell’ambito del procedimento per la restituzione delle cose sequestrate, il provvedimento di archiviazione, stabilendo, al comma 6, che, dopo la sentenza non più soggetta a impugnazione, sulla restituzione delle cose sequestrate provvede il giudice dell’esecuzione, è anche vero che la previsione, riferita alla sentenza, è, in realtà, l’espressione di un principio di carattere generale in base al quale, qualora alla restituzione del bene non abbia provveduto il giudice che procede ed il procedimento sia stato “definito”, ossia non esista più un giudice di cognizione, l’interessato deve rivolgersi al giudice dell’esecuzione (Sez.1, n. 15997 del 28/2/2014, Villa, Rv. 259912). La regola, pertanto, non può non applicarsi anche al provvedimento di archiviazione che definisce la fase delle indagini preliminari, facendo sì che tutti i poteri conferiti al pubblico ministero ed al giudice per le indagini preliminari passino a quest’ultimo, ma in funzione di giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 665 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 12880 del 19/02/2009, Maniago, Rv. 243046).

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 804 del 05/04/1978, Hagler, Rv. 138723

Sez. 5, n. 1334 del 22.10.1991 dep. 1992, Panicucci, Rv. 189199

Sez. 5, n. 6059 del 13/11/1998, dep. 1999, Fortunato, Rv. 212643

Sez. U, n. 9 del 22/03/2000, Finocchiaro, Rv. 216004

Sez. 1, n. 8881 del 10/07/2000, Malcangi, Rv. 216919

Sez. U, n. 25161 del 24/04/2002, Fabrizi, Rv. 221660

Sez. U, n. 19289 del 25/02/2004, Lustri, Rv. 227355

Sez. 4, n. 26993 del 05/05/2004, Demo, Rv.229661

Sez. 4, n. 32314 del 20/01/2005, Trionfo, Rv. 231724

Sez. 4, n. 11195 del 26/01/2005, Paolucci, Rv. 231196

Sez. 5, n. 9222 del 10/02/2006, Ignoti, Rv. 233770

Sez. 5, n. 33057 del 10/07/2007, Gianoglio, Rv. 237581

Sez. 1, n. 12880 del 19/02/2009, Maniago, Rv. 243046

Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, Toni, Rv. 243590

Sez. 6, n. 26189 del 4/06/2009, Merenda, Rv. 244553

Sez. 3, n. 3908 del 28/01/2010, S., Rv. 246022

Sez. 5, n. 2924 del 12/11/2013, dep. 2014, Ignoti, Rv. 257939

Sez. U, n. 9605 del 28/11/2013, Seghaier, Rv. 257989

Sez. 1, n. 15997 del 28/2/2014, Villa, Rv. 259912

Sez. 3, n. 39191 del 18/06/2014, Ventura, Rv. 260391

Sez. 4, n. 2212 del 01/10/2014, dep. 2015, Ignoti, Rv. 261765

Sez. 3, n. 818 del 17/11/2015, Bartone, Rv. 266176

Sez. 4, n. 6657 del 19/01/2017, G.i.p. Trib. Napoli, Rv. 269037

Sez. 4, n. 43885 del 10/07/2018, Ignoti Rv. 254268

Sez. 4, n. 834 del 13/09/2017, dep. 2018, Ignoti, Rv. 271748

Sez. 4, n. 54826 del 14/09/2018, imp. PM, n.m.

Sez. 4, n. 54827 del 14/09/2018, Ignoti, Rv. 274276

Sez. 4, n. 54227 del 14/09/2018, Ignoti, Rv. 274428

Sez. 4, n. 43885 del 10/07/2018, Ignoti, Rv. 274268

Sentenze della Corte Costituzionale

Corte cost., sent. n. 27 del 1995

Corte cost., sent. n. 56 del 2003

SEZIONE II PATROCINIO A SPESE DELLO STATO.

  • spese processuali
  • patrocinio gratuito

CAPITOLO I

POTERI DELLA CORTE DI CASSAZIONE IN ORDINE ALLA LIQUIDAZIONE DELLE SPESE DELLA PARTE CIVILE AMMESSA AL GRATUITO PATROCINIO.

(di Andrea Antonio Salemme )

Sommario

1 Ordinanza di rimessione e decisione delle Sezioni Unite. - 2 Orientamento maggioritario. - 3.1 Orientamento minoritari. - 3.2 Riconducibilità all’orientamento minoritario della giurisprudenza della Corte costituzionale. - 4 Orientamento intermedio. - 5 Cenni ai passaggi fondamentali della motivazione della sentenza delle Sezioni Unite. - 6 Giurisprudenza successiva alle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate.

1. Ordinanza di rimessione e decisione delle Sezioni Unite.

In tema di liquidazione, nel giudizio di legittimità, delle spese sostenute dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, Sez. 1, n. 22819 del 28/03/2019, De Falco, ravvisato un contrasto di giurisprudenza, aveva rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione controversa così riassunta dall’Ufficio del Massimario: «Se, nel giudizio di legittimità, la competenza a provvedere in ordine alla liquidazione delle spese processuali sostenute dalla parte civile ammessa al patrocinio a carico dello Stato, ai sensi dell’art. 541 cod. proc. pen., ed alla emissione del decreto di liquidazione degli onorari e delle spese a beneficio del difensore della predetta parte civile, ai sensi dell’art. 83, comma 2, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 [«Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia», in breve t.u.s.g.], spetti alla Corte di cassazione ovvero al giudice del rinvio o a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato».

Con ordinanza n. 5464 del 26/09/2019 (dep. 2020), Rv. 277760-01, De Falco, le Sezioni Unite, risolvendo il contrasto, hanno affermato che «compete alla Corte di cassazione, ai sensi degli artt. 541 cod. proc. pen. e 110 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, pronunciare condanna generica dell’imputato al pagamento di tali spese in favore dell’Erario, mentre è rimessa al giudice del rinvio, o a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato, la liquidazione delle stesse mediante l’emissione del decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 del citato d.P.R.».

2. Orientamento maggioritario.

Gli orientamenti che si contendevano il campo erano tre: uno maggioritario, uno minoritario ed uno intermedio. L’orientamento maggioritario negava che la Corte di cassazione, la quale condanni l’imputato soccombente a rifondere all’erario dello Stato, ex art. 100, comma 3, t.u.s.g., le spese di costituzione della parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, debba altresì liquidare il compenso che lo Stato è onerato di corrispondere al difensore della parte civile medesima. Sotto questo orientamento erano riconducibili due gruppi di pronunce. Ad un primo gruppo appartenevano quelle esplicitamente intese ad affermare che la Corte di cassazione non ha il potere-dovere di liquidare il compenso del difensore.

Rilevano in particolare:

a.1) Sez. 5, n. 8218 del 18/01/2018, Murtas, la quale giudica infondata un’istanza di correzione di errore materiale, promossa dalla parte civile ammessa al patrocinio per non avere una precedente sentenza della S.C. posto a carico dell’erario dello Stato la liquidazione del compenso del difensore in misura eguale alla somma liquidata ex art. 541 cod. proc. pen., motivando nel senso che, «in primo luogo, a norma dell’art. 83 comma 2 DPR

n. 115/2002, alla liquidazione dell’onorario e delle spese sostenute dalla parte del giudizio di cassazione ammessa al patrocinio a carico dello Stato non provvede il giudice di legittimità bensì il giudice di rinvio, ovvero quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato […]. Peraltro, la stessa sentenza della Suprema Corte, che condanna l’imputato al pagamento delle spese in favore della parte civile ammessa al beneficio, deve semmai, a norma dell’art. 110 comma 3 d.P.R. 115/2002, disporre il pagamento di tali spese “in favore” dello Stato» (pagamento che la precedente sentenza aveva “implicitamente” disposto, liquidando il “quantum” in dispositivo pur senza indicare “expressis verbis” il soggetto creditore nell’erario dello Stato);

a.2) Sez. 2, n. 43356 del 21/10/2015, Zecca, la quale giudica parzialmente fondata un’analoga istanza (riferita a sentenza che aveva erroneamente condannato l’imputato alla rifusione delle spese alla parte civile), motivando che «il dispositivo e la motivazione della sentenza […] devono essere corretti nel senso che la condanna dei ricorrenti deve essere riferita al versamento delle somme indicate a favore dell’erario e non della parte civile, ai sensi dell’art. 110 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. Per quanto riguarda invece la liquidazione dell’onorario al difensore di parte civile la competenza appartiene alla corte d’appello […] ai sensi dell’art. 83 D.P.R. 212/2002».

Ad un secondo gruppo appartenevano le pronunce in cui il principio a termini del quale la Corte di cassazione non ha il potere-dovere di liquidare il compenso del difensore risulta meramente sottinteso, non liquidando esse “anche” il suddetto compenso in uno al regolamento delle spese.

Esse si differenziano, a loro volta, in due ulteriori sotto-gruppi, sotto il profilo della determinazione del “quantum” al cui pagamento l’imputato è condannato:

b.1) uno più cospicuo, composto da pronunce che quantificano le spese in modo secco, sul tacito presupposto dell’applicazione dei pertinenti criteri regolamentari-tabellari, senza cioè i contenimenti e le decurtazioni previsti dal t.u.s.g. per la liquidazione del compenso al difensore [Sez. 2, n. 11647 del 05/02/2019, Ben Said; Sez. 4, n. 29314 del 05/06/2018, Vivanet; Sez. 5, n. 44915 del 27/04/2018, Musumeci; Sez. 2, n. 16054 del 20/03/2018, Natalizio; Sez. 1, n. 21091 del 08/02/2018, Riccio e altri; Sez. 5, n. 11960 del 07/12/2017 (dep. 2018), Ripamonti e altri; Sez. 1, n. 7784 del 27/11/2017 (dep. 2018), Parola; Sez. 2, n. 12856 del 27/01/2017, Viorel; Sez. 1, n. 7308 del 21/12/2016 (dep. 2017), Graziano; Sez. 5, n. 2186 del 14/11/2016 (dep. 2017), Antonucci];

b.2) uno meno cospicuo, composto da pronunce che, invece, quantificano le spese già però computando nella liquidazione ex art. 541 cod. proc. pen. in specie l’abbattimento di un terzo previsto dall’art. 106-bis t.u.s.g. [Sez. 1, n. 10551 del 07/11/2018 (dep. 2019), L.; Sez. 1, n. 46118 del 12/04/2018, Garau A.; Sez. 1, n. 41124 del 10/04/2018, Petrianni] e che, pertanto, si differenziano dalle precedenti [“sub” b.1)] poiché postulano la necessaria coincidenza tra le due liquidazioni imputato-Stato, di cui agli artt. 541 cod. proc. pen. e 100 t.u.s.g., e Stato-difensore di p.c., di cui all’art. 82 t.u.s.g. (salvo, “a monte”, porre l’interrogativo circa l’utilità di una seconda liquidazione ad opera del giudice di merito ex art. 83, comma 2, t.u.s.g. meramente ripetitiva della prima).

Avuto riguardo alle pronunce della S.C. che nella quantificazione delle spese già tengono conto degli abbattimenti relativi alla liquidazione in favore del difensore [“sub” b.2)], viepiù emergeva, adottando un punto di vista più generale, un contrasto con quell’avviso secondo cui, invece, «il giudice, quando condanna l’imputato alla refusione delle spese processuali sostenute dalla parte civile, liquida gli onorari spettanti al difensore di quest’ultima senza essere vincolato ai criteri previsti per la liquidazione dei medesimi onorari dalla disciplina del patrocinio a spese dello Stato» (così Sez. 4, n. 42844 del 09/10/2008, Amato, Rv. 241336-01, la quale in motivazione specifica che «nessuna disposizione di legge è rinvenibile nel senso di vincolare la liquidazione in favore del difensore alla misura fissata dal giudice penale in sentenza. Ed anzi […] esiste una disposizione che è di segno opposto, laddove si precisa, con l’art. 82 [t.u.s.g.], che la liquidazione dell’onorario e delle spese in favore del difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato non possono superare i valori medi tariffari […]». Nello stesso senso, poco prima, Sez. 4, n. 26663 del 10/04/2008, Amato, relativa al medesimo difensore ricorrente).

3.1. Orientamento minoritari.

Sul versante opposto rispetto a quello sin qui descritto era attestato un orientamento minoritario, che faceva derivare il dato della competenza della Corte di cassazione (anche) sulla liquidazione del compenso al difensore della parte civile vittoriosa ammessa al patrocinio a spese dello Stato – competenza da esercitarsi direttamente in sentenza (e non con separato provvedimento ex artt. 82, comma 1, e 83, comma 1, t.u.s.g.) – dalla premessa della necessaria coincidenza tra le due liquidazioni nei rapporti imputato-Stato e Stato-difensore di parte civile. Poiché tali due liquidazioni devono coincidere, anche la seconda – afferma segnatamente Sez. 6, n. 46537 del 08/11/2011, F., Rv. 251383-01 (condivisa da Sez. 6, n. 20552 del 06/03/2019, Setti c. Farsane, Rv. 275734-01, e da Sez. 6, n. 15435 del 20/03/2014, C.R.) – non può che «essere contenuta nel dispositivo della sentenza di condanna».

Quanto, specificamente, al giudizio di legittimità, le pronunce successive a Sez. 6, n. 46537 del 2011, si dimostrano tutte sensibili all’esigenza che la Corte di cassazione, affinché possa essere messa nelle condizioni di effettuare “uno acto” le due liquidazioni (coincidenti) nei rapporti imputato-Stato e Stato-difensore di parte civile, debba però disporre di una nota delle spese conforme all’art. 82 t.u.s.g. (ma altresì, è conseguente ritenere, all’art. 106-bis dello stesso testo), giacché altrimenti non può che ritornare operativa la competenza del giudice di cui all’art. 83, comma 2, t.u.s.g. (Sez. 4, n. 20044 del 17/03/2015, S. e altri, Rv. 263866-01, che riprende Sez. 6, n. 3885 del 18/01/2012, Iovine, Rv. 252135-01; Sez. 4, n. 52538 del 09/11/2017, Filareto).

3.2. Riconducibilità all’orientamento minoritario della giurisprudenza della Corte costituzionale.

In una prospettiva ad ampio raggio, all’orientamento minoritario è altresì riconducibile la giurisprudenza della Corte Costituzionale, in seno alla quale due ordinanze di inammissibilità delle q.l.c. relative all’art. 130 t.u.s.g., la n. 122 del 40 maggio 2016 e la n. 270 del 28 novembre 2012, chiamano in causa, trascorrendo in un “continuum” dalla materia civile a quella penale, Sez. 6, n. 46537 del 2011, cui sembra di potersi dire che prestino adesione, laddove sostengono che le due liquidazioni dei rapporti imputato-Stato e Stato-difensore di p.c. devono coincidere.

4. Orientamento intermedio.

Tra i due orientamenti maggioritario e minoritario se ne rinveniva uno intermedio, cui ascrivere Sez. 6, n. 6509 del 08/01/2019, Carola, e Sez. 6, n. 51387 del 03/11/2016, Foti c. Errigo, propense, senza sostanziale motivazione, a tenere indenne la Corte di cassazione, non solo dall’incombente di liquidare il compenso del difensore della parte civile vittoriosa ammessa al patrocinio a spese dello Stato, ma altresì da quello di liquidare le spese che l’imputato, in quanto soccombente, deve versare all’erario dello Stato.

In definitiva, tali pronunce,

- processualmente, condividono con l’orientamento maggioritario l’affermazione dell’incompetenza della Corte di cassazione e comunque del “giudice del processo” ad effettuare la liquidazione del compenso del difensore della parte civile vittoriosa ammessa al patrocinio, in rigorosa osservanza, dall’angolo di visuale del giudizio di legittimità, dell’art. 83, comma 2, t.u.s.g.;

- sostanzialmente, però, accedono all’indirizzo minoritario laddove, attraverso una condanna generica (“rectius”, generico-condizionata) dell’imputato alla rifusione all’erario dello Stato delle spese di costituzione di parte civile nella misura successivamente liquidanda ex artt. 82 e 83 t.u.s.g., presuppongono che il “quantum” della liquidazione relativa al rapporto imputato-Stato debba coincidere con quello della liquidazione relativa al rapporto Stato-difensore di parte civile, giacché la seconda liquidazione è determinata in funzione delle regole di cui agli artt. 82 e 106-bis t.u.s.g. ed è proprio essa che costituisce l’oggetto della condanna generica nei confronti dell’imputato in favore dell’erario dello Stato.

5. Cenni ai passaggi fondamentali della motivazione della sentenza delle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite risolvono il conflitto propugnando una soluzione sostanzialmente aderente all’orientamento intermedio, dal momento che la Corte di cassazione (al pari di qualsiasi altro giudice) non è esonerata dal provvedere alla condanna dell’imputato ricorrente al pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, ma tale condanna è soltanto «generica», con l’effetto che è demandato al giudice di rinvio, o comunque a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato, il compito di liquidare le spese stesse mediante l’emissione del decreto di pagamento. Pertanto, il binomio “condanna generica (di competenza della Corte di cassazione)-decreto di pagamento (di competenza del giudice di merito)”, ad un tempo,

- assicura (in ossequio all’avviso che pare informare, come visto, la giurisprudenza costituzionale) la pur “tendenziale” – e quindi “imperfetta” – coincidenza delle due liquidazioni, quella relativa al rapporto imputato-Stato e quella relativa al rapporto Stato-difensore di parte civile;

- ma altresì (in difformità dall’orientamento minoritario) evita di attrarre la liquidazione in sentenza (ragion per cui la Corte di cassazione è sgravata del relativo incombente), sì da assicurare il massimo ossequio al dettato letterale degli artt. 82 e 83 t.u.s.g., i quali, come noto, prescrivono che la liquidazione sia effettuata – «per il giudizio di cassazione», ad opera del «giudice di rinvio, ovvero [di] quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato» (comma 2 dell’art. 83 cit.) – con separato decreto, oltretutto soggetto a specifici rimedi impugnatori.

La coincidenza delle due liquidazioni nei rapporti imputato-Stato e Stato-difensore è solo tendenziale e non perfetta giacché, come si legge nella motivazione della sentenza, non può «escludersi che le spese processuali gravanti sulla parte civile», alla cui rifusione il condannato è tenuto in forza della soccombenza, «non si esauriscano nell’onorario e nelle spese dovute al difensore», le quali solo costituiscono oggetto della liquidazione di cui agli artt. 82 e 83 t.u.s.g. («basti porre mente» – spiega la Corte – «al contributo unificato […,] che, ai sensi dell’art. 11 [t.u.s.g.] è prenotato a debito […,] come […] anche, secondo la previsione dell’art. 108, le spese forfettizzate per le notificazioni a richiesta d’ufficio, l’imposta di registro […], l’imposta ipotecaria e catastale […]. Inoltre, ai sensi dell’art. 4, se la parte è ammessa al patrocinio a spese dello Stato, l’erario anticipa le spese relative agli atti chiesti dalla parte privata»).

Talché, in definitiva, «gli importi delle due liquidazioni delle quali qui si tratta» non sono uguali, ma, conservando un certo qual grado di autonomia, è purtuttavia necessario che siano coordinati. Orbene, lo strumento per il tramite del quale ottenere un simile risultato è, come anticipato, la condanna generica dell’imputato alle spese. Questa, infatti,

- da un lato, fornisce “ex ante” la necessaria copertura in sentenza all’obbligo incombente sull’imputato di corrispondere all’erario dello Stato l’onorario e le spese che saranno liquidate dal giudice di merito;

- dall’altro lato, non trascura di considerare che le spese cui l’imputato è complessivamente tenuto possono nondimeno non esaurirsi nei predetti onorario e spese.

Con riferimento al secondo punto, in particolare, si fa carico la Corte di possibili obiezioni incentrate sull’indeterminatezza della statuizione condannatoria, rilevando come, al contrario, nulla osta «alla precisa determinazione delle spese processuali che, oggetto della condanna emessa ai sensi dell’art. 541 cod. proc. pen., non consistono [però] nell’onorario e nelle spese del difensore della parte ammessa al patrocinio pubblico [, poiché essa] compete, ai sensi dell’art. 165 [t.u.s.g.], al funzionario addetto all’ufficio».

6. Giurisprudenza successiva alle Sezioni Unite.

A mo’ di appendice al “decisum” delle Sezioni Unite, viene in linea di conto una pronuncia successiva – Sez. 5, n. 33103 del 22/09/2020, C., Rv. 279839-01 – intervenuta in relazione all’eventualità che sia l’imputato soccombente che la parte civile vittoriosa siano ammessi al patrocinio a spese dello Stato: “rebus sic stantibus”, secondo la Corte, «l’imputato, in caso di condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile, non può essere condannato al pagamento delle spese processuali, restando queste a carico dell’erario», mentre «il difensore della parte civile potrà [bensì] ottenere la liquidazione del compenso a lui spettante[,] rivolgendo istanza al giudice competente ai sensi dell’art. 83, comma 2, d.P.R. n. 115 del 2002)».

Si realizza, dunque, un’ipotesi derogatoria alla regola della soccombenza, comportante che la parte soccombente sia condannata a rifondere le spese alla parte vittoriosa, giacché, stante l’ammissione dell’imputato al patrocinio a spese dello Stato, sarebbe ultronea una condanna di questo a pagare le spese a sé medesimo ai sensi degli artt. 541 cod. proc. pen. e 100 t.u.s.g. Nondimeno, considerato che da una tale soluzione “principale”, proprio a mente della sentenza delle Sezioni Unite al cui commento il presente scritto è dedicato, discende, sul piano teorico, l’ulteriore conseguenza dell’“emarginazione” dal procedimento liquidatorio del giudice di rinvio ovvero di quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato, deve essere giocoforza riconosciuta al difensore della parte civile – in guisa da parificarne la posizione rispetto al difensore dell’imputato – la facoltà di presentare apposita istanza all’uno o all’altro per ottenere la liquidazione del compenso spettantegli.

Come mero spunto di riflessione, ci si licenza di osservare che la soluzione proposta da Sez. 5, n. 33103 del 2020, indiscutibilmente intrisa di buon senso e grande attenzione alla pratica giudiziaria, in guisa da supplire all’inerzia del legislatore nel correggere una disciplina foriera di tanti e gravi dubbi interpretativi, nondimeno, sollevando l’imputato dalla condanna alle spese, si espone all’obiezione che, in tal guisa, finisce per incidere anche sui rapporti interni tra il medesimo e lo Stato, in quanto priva quest’ultimo, nella ricorrenza delle ipotesi di legge, di alcun titolo per il recupero dal primo delle spese comunque fatte gravare sulle casse pubbliche.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 5464 del 26/09/2019 (dep. 2020), Rv. 277760-01 Sez. 5, n. 33103 del 22/09/2020, C., Rv. 279839-01

Sez. 1, n. 22819 del 28/03/2019, De Falco

Sez. 6, n. 20552 del 06/03/2019, Setti c. Farsane, Rv. 275734-01 Sez. 2, n. 11647 del 05/02/2019, Ben Said

Sez. 6, n. 6509 del 08/01/2019, Carola

Sez. 1, n. 10551 del 07/11/2018 (dep. 2019), L.

Sez. 4, n. 29314 del 05/06/2018, Vivanet Sez. 5, n. 44915 del 27/04/2018, Musumeci Sez. 1, n. 46118 del 12/04/2018, Garau A. Sez. 1, n. 41124 del 10/04/2018, Petrianni Sez. 2, n. 16054 del 20/03/2018, Natalizio

Sez. 1, n. 21091 del 08/02/2018, Riccio e altri Sez. 5, n. 8218 del 18/01/2018, Murtas

Sez. 5, n. 11960 del 07/12/2017 (dep. 2018), Ripamonti e altri Sez. 1, n. 7784 del 27/11/2017 (dep. 2018), Parola

Sez. 4, n. 52538 del 09/11/2017, Filareto Sez. 2, n. 12856 del 27/01/2017, Viorel

Sez. 1, n. 7308 del 21/12/2016 (dep. 2017), Graziano

Sez. 5, n. 2186 del 14/11/2016 (dep. 2017), Antonucci Sez. 6, n. 51387 del 03/11/2016, Foti c. Errigo

Sez. 2, n. 43356 del 21/10/2015, Zecca

Sez. 4, n. 20044 del 17/03/2015, S. e altri, Rv. 263866-01 Sez. 6, n. 15435 del 20/03/2014, C.R.

Sez. 6, n. 3885 del 18/01/2012, Iovine, Rv. 252135-01

Sez. 6, n. 46537 del 08/11/2011, F., Rv. 251383-01

Sez. 4, n. 42844 del 09/10/2008, Amato, Rv. 241336-01

Sez. 4, n. 26663 del 10/04/2008, Amato

Sentenze della Corte costituzionale

Ordinanza n. 122 del 40 maggio 2016

Ordinanza n. 270 del 28 novembre 2012

  • reddito
  • patrocinio gratuito

CAPITOLO II

LA RILEVANZA DELLA FALSITÀ O INCOMPLETEZZA DELLE INDICAZIONI CONTENUTE NELLA DICHIARAZIONE PER L’AMMISSIONE AL BENEFICIO DEL PATROCINIO DEI NON ABBIENTI IN CASO DI MANCATO SUPERAMENTO DEL LIMITE DI REDDITO.

(di Elena Carusillo )

Sommario

1 Premessa. - 2 La questione controversa. - 3 L’ordinanza di rimessione. - 4 L’evoluzione della disciplina dell’istituto del patrocinio difensivo: cenni. - 5 Il controllo dello status di “non abbiente” da parte del giudice: limiti. - 6 La revoca di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002: il contrasto sviluppatosi in merito alla norma e la soluzione adottata dalle Sezioni Unite “Infanti”. - 7 Altre ipotesi di revoca: l’art. 112 d.P.R. n. 115 del 2002. - 8 La natura del provvedimento di revoca. - 9 La pronunzia delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 14723 del 19/12/2019, dep. 12/05/2020, Pacino, Rv. 278871 - 01, hanno affermato il seguente principio di diritto: “In tema di patrocinio a spese dello Stato, la falsità o l’incompletezza della dichiarazione sostitutiva di certificazione prevista dall’art. 79, comma 1, lett. c) d.P.R. n. 115 del 2002, non comporta, qualora i redditi effettivi non superino il limite di legge, la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che può essere disposta solo nelle ipotesi espressamente disciplinate dagli artt. 95 e 112 d.P.R. n. 115 del 2002”, risolvendo il contrasto giurisprudenziale che si registrava sul punto.

2. La questione controversa.

La vicenda trae la sua origine dal ricorso proposto avverso il decreto con il quale il giudice per le indagini preliminari aveva revocato, a seguito di informativa della Guardia di Finanza, il provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato per aver il richiedente indicato, nell’autocertificazione allegata all’istanza di ammissione al beneficio, una situazione reddituale non veritiera, sul presupposto che la falsità delle indicazioni rese, in quanto connessa all’ammissibilità della istanza di gratuito patrocinio e non al beneficio del patrocinio in sé considerato, legittima la non ammissione al beneficio, restando irrilevante il dato relativo al quantum effettivo del reddito e, dunque, se lo stesso rientri o meno nella soglia prevista dal legislatore per l’ammissione al beneficio.

La Quarta sezione della Corte, investita del ricorso, con ordinanza n. 29284 del 4/06/2019, rimetteva la trattazione del ricorso al supremo consesso rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale di tipo potenziale in merito alla incidenza di falsità o incompletezze contenute nell’autocertificazione allegata all’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, in termini di inammissibilità della domanda o di revoca in caso di intervenuta ammissione, anche nell’ipotesi di mancato superamento del limite reddituale previsto dalla legge per la fruizione del beneficio.

3. L’ordinanza di rimessione.

Ad avviso del collegio rimettente, il decreto con il quale il giudice per le indagini preliminari aveva revocato il provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato sul solo rilievo che la situazione reddituale indicata dal ricorrente era risultata non veritiera, era coerente con il principio affermato da Sez. U, n. 6591 del 27/11/2008, dep. 16/02/2009, Infanti, Rv. 242152 - 01, secondo cui “integrano il delitto di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002 le false indicazioni o le omissioni anche parziali dei dati di fatto riportati nella dichiarazione sostitutiva di certificazione o in ogni altra dichiarazione prevista per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio”, poiché la falsità delle indicazioni contenute nell’autocertificazione deve ritenersi connessa “all’ammissibilità dell’istanza, non a quella del beneficio”, cosicchè “solo l’istanza ammissibile genera obbligo del magistrato di decidere nel merito”, rimanendo estranee alla valutazione sia la circostanza che il quantum finale del reddito del richiedente sia inferiore al limite stabilito dalla legge per l’ammissione al beneficio, sia il fatto che il reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002 venga o meno accertato. Tanto in un’ottica di valorizzazione dell’obbligo di lealtà nei confronti delle istituzioni da parte del soggetto che aspira a fruire di un istituto strumentale alla realizzazione del diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost.

Il Collegio rimettente dichiarava, tuttavia, di discostarsi da tale opzione ermeneutica aderendo al più rigoroso orientamento secondo il quale la revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato è consentita solo nei casi tassativamente previsti e cioè ai sensi dell’art. 112 lett. d) del d.P.R. n. 115 del 2002, ove risulti provata la mancanza originaria delle condizioni di reddito, e ai sensi dell’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, in caso di condanna, poichè il dato secondo il quale le falsità o le omissioni nella dichiarazione siano condizione di ammissibilità dell’istanza non si desume né dal testo dell’art. 79 del d.P.R. n. 115 del 2002, il quale prevede “la necessità di attestare le condizioni di reddito previste per l’ammissione, con specifica determinazione del reddito complessivo valutabile a tali fini e non delle specifiche tipologie di esso, e la necessità di assumere l’obbligo di comunicare, sino alla fine del processo, le variazioni dei limiti di reddito, se rilevanti”, né tantomeno dal testo dell’art. 112, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 115 del 2002 che prevede “la revoca dell’ammissione in caso di omessa comunicazione di eventuali variazioni dei limiti di reddito e non genericamente di ogni variazione reddituale anche ininfluente, come confermato dal coordinamento con il precedente art. 79”.

Il collegio rimettente evidenziava, inoltre, che riconoscere all’autocertificazione la natura di condizione di ammissibilità avrebbe avuto il significato di limitare “l’ambito applicativo di un istituto strumentale alla realizzazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito con un’interpretazione che forza il dato letterale della legge”, consentendo la revoca in tutti i casi di falsità o incompletezza anche se non incidenti sui limiti reddituali, a prescindere dalla condanna per il reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002.

4. L’evoluzione della disciplina dell’istituto del patrocinio difensivo: cenni.

Ai fini dell’esame delle ragioni del contrasto, le Sezioni unite hanno richiamato il quadro normatvo della disciplina dell’istituto della gratuità del patrocinio difensivo prestato dal professionista quale “ufficio onorifico ed obbligatorio della classe degli avvocati afferente alla difesa dei non abbienti”.

Inizialmente regolamentata con R.D. n. 3282 del 30 dicembre 1923 quanto ai giudizi civili, commerciali o d’altra giurisdizione contenziosa, agli affari di volontaria giurisdizione e ai giudizi penali, la disciplina subiva una prima modifica con legge 30 luglio 1990, n. 217 in risposta alla necessità di contribuire al riequilibrio della parità delle parti nel nuovo modello processuale di stampo accusatorio.

L’ambito applicativo della legge era, tuttavia, circoscritto ai giudizi penali e civili limitatamente alle ipotesi di esercizio dell’azione per il risarcimento del danno e le restituzioni derivanti da reato, laddove per gli altri procedimenti civili, per le controversie individuali di lavoro e quelle in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie era stata già introdotta una nuova disciplina con legge 11 agosto 1973, n. 53. Per tutti i rimanenti giudizi civili ed amministrativi rimaneva in vigore la normativa di cui al R. D. n. 3282 del 1923.

La regolamentazione della materia, così parcellizzata, rimaneva inalterata finchè con legge 29 marzo 2001, n. 134, il legislatore, rielaborando la legge n. 217 del 1990, procedeva a dettare una disciplina generale sul gratuito patrocinio per tutti i giudizi, penali, civili ed amministrativi.

L’iter legislativo si concludeva con il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, rubricato “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia”, entrato in vigore il 1 luglio 2002, ispirato sia dalla necessità di dare una sistemazione organica alle norme, sia dalla necessità di consentire ai più disagiati di fruire, senza alcun onere economico, di una tutela effettiva in un sistema processuale che non consente l’autodifesa tecnica, nè prevede l’obbligo di retribuzione dell’attività prestata dal difensore anche se nominato di ufficio. Tanto in un’ottica di salvaguardia dell’interesse economico dello Stato di evitare il dispendio di risorse economiche a favore di soggetti non in possesso dei requisiti di legge.

5. Il controllo dello status di “non abbiente” da parte del giudice: limiti.

L’attuale sistema prevede a carico del richiedente un obbligo di corretta indicazione del suo reddito complessivo, senza la necessità di produzione di quel corredo di allegati documentali previsto dall’art. 5, 2° comma, l. n. 217/1990 nella versione antecedente alla modifica apportata dalla legge 29 marzo 2001, n. 134.

In tale ambito, si inquadra il potere di controllo del giudice.

L’art. 96, comma 1, d.P.R. n. 115 del 2002, stabilisce che, verificata l’ammissibilità dell’istanza, il magistrato competente “ammette l’interessato al patrocinio a spese dello Stato se, alla stregua della dichiarazione sostitutiva prevista dall’articolo 79, comma 1, lettera c), ricorrono le condizioni di reddito cui l’ammissione al beneficio è subordinata”, formulando un giudizio di fondatezza. Il comma 2, prevede che il giudice possa respingere l’istanza se ritiene che il reddito effettivo del richiedente sia superiore a quello fissato dalla legge per l’ammissibilità al beneficio “tenuto conto del tenore di vita, delle condizioni personali e familiari, e delle attività economiche eventualmente svolte”, fatta salva la facoltà di trasmettere l’istanza, unitamente alla relativa dichiarazione sostitutiva, alla Guardia di finanza per le necessarie verifiche, senza tuttavia doverne attendere, per decidere, l’esito (comma 3).

Il successivo art. 98 pone a carico del giudice la trasmissione all’ufficio finanziario di copia dell’istanza dell’interessato, delle dichiarazioni e della documentazione allegate, nonché del decreto di ammissione al patrocinio ai fini della verifica dell’esattezza del reddito dichiarato e del controllo di compatibilità dei dati con le risultanze dell’anagrafe tributaria. Il circoscritto perimetro entro il quale insiste il potere di controllo del giudice determinava il formarsi nella giurisprudenza di legittimità di orientamenti non sempre collimanti.

Un più risalente orientamento escludeva il potere di vaglio del giudice in merito alla ricorrenza di elementi idonei a far ritenere non sussistente la condizione di non abbienza, sul rilievo che “ai fini dell’ammissibilità al gratuito patrocinio l’autocertificazione dell’istante ha valenza probatoria e il giudice non può entrare nel merito della medesima per valutarne l’attendibilità, dovendosi limitare alla verifica dei redditi esposti e concedere in base ad essi il beneficio, il quale potrà essere revocato solo a seguito dell’analisi negativa effettuata dall’intendente di finanza, cui il giudice deve trasmettere copia dell’istanza con l’autocertificazione e la documentazione allegata”, (Sez. 1, n. 29006 del 03/06/2003, Musarò, Rv. 225051; Sez. 1, n. 17227 del 27/02/2001, Iacovone, Rv. 218744; Sez. 4, n. 3167 del 14/10/1999, Cafarchio, Rv. 214882).

Nel senso, invece, di riconoscere il potere di controllo del giudice ai fini della verifica della sussistenza di specifici elementi idonei a far ritenere il superamento dei limiti di reddito previsti dalla legge, si è espressa Sez, 4, n. 53356 del 27/09/2016, Tilenni, Rv. 268682, che, pur partendo dalla premessa che il dato formale riportato dal richiedente nell’autocertificazione rappresenta “un significativo dato probatorio”, è giunta alla conclusione che esso non esime il giudice dall’obbligo di esaminare, ai fini del giudizio sulla condizione di non abbienza, le prove che confermino o confutino la sostanziale e fattuale situazione reddituale idonea ad incidere sulla predetta condizione, semprechè la valutazione sia svolta “con rigore e con adeguato riferimento ai fatti noti, dai quali risalire con deduzioni logiche ai fatti ignorati, il cui significato deve essere apprezzato senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative”, attraverso “gli organi di indagine finanziaria” cui il giudice è tenuto a trasmettere copia dell’istanza con l’autocertificazione e la documentazione allegata.

Più di recente Sez. 4, n. 4628 del 20/09/2017 -dep. 2018-, Tortorella, Rv. 271942, affermando il principio di diritto secondo il quale “in tema di patrocinio a spese dello Stato, ai sensi dell’art. 96, comma 2, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, il giudice può vagliare l’attendibilità dell’autocertificazione dell’istante relativa alla sussistenza delle condizioni di reddito richieste dalla legge per l’ammissione al beneficio e rigettare l’istanza ove sussistano indizi gravi, precisi e concordanti circa la disponibilità di risorse economiche non compatibili con quelle dichiarate”, ha attribuito una incisività ancora maggiore al potere di controllo del giudice sul presupposto che l’art. 96, comma 2, del d.P.R. n. 115 del 2002 non può che essere inteso nel senso di consentire al “giudice di vagliare l’attendibilità dell’autocertificazione, ove si sia in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti circa la sussistenza in capo al richiedente di risorse economiche non compatibili con il contenuto della dichiarazione di percezione di un reddito inferiore al limite per l’ammissione al beneficio” e che i fondati motivi richiesti dalla norma “altro non possono essere che la emersione, per il tramite di indizi, che siano dotati dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, di una situazione reddituale reale diversa, naturalmente in melius, rispetto a quella, per così dire, ufficialmente dichiarata”. Si è così evidenziato che il concreto esercizio del diritto di difesa non può risolversi in “valutazioni giudiziali superficiali ed approssimative, più intuitive che razionali e frutto di scorciatoie pseudo-decisorie, non già di opzioni di tipo razionale”, sul rilievo dell’esistenza di “un sottosistema per la valutazione nel merito dell’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato” basato su un tendenziale “favor legislativo”, sia pure non assoluto, all’ammissione del richiedente al beneficio invocato con la presentazione di un’istanza “strutturata in maniera non inammissibile, ove si auto-certifichi la sussistenza di un reddito inferiore alla misura prevista dall’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002”. Ancora, si è riconosciuto al giudice il potere di “disattendere l’autocertificazione, ove, con valutazione improntata alla massima serena prudenza” si rilevino quei “fondati motivi” per ritenere non sussistenti le “condizioni di cui agli articoli 76 e 92, tenuto conto delle risultanze del casellario giudiziale, del tenore di vita, delle condizioni personali e familiari, e delle attività economiche eventualmente svolte”, fatta salva, comunque, “la possibilità, prima di provvedere, di investire lo specializzato corpo della Guardia di Finanza delle verifiche del caso” ai sensi dell’art. 96, comma 2, ultimo periodo, del d.P.R. n. 115 del 2002.

Da ultimo, il potere del giudice di vagliare l’autocertificazione dell’istante nei limiti della sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti circa la disponibilità di risorse economiche non compatibili con quelle dichiarate è stato ribadito da Sez. 4, n. 36787 del 08/05/2018, Marotta, Rv. 273423.

6. La revoca di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002: il contrasto sviluppatosi in merito alla norma e la soluzione adottata dalle Sezioni Unite “Infanti”.

Sulla falsariga di quella dottrina che aveva individuato la ratio della norma di cui all’art. 95, già prevista all’art. 5, comma 7, l. n. 217 del 1990, nella versione ritrasposta con alcune modifiche nella legge n. 134 del 2001, nella volontà del legislatore di impedire l’ammissione al c.d. gratuito patrocinio di soggetti non meritevoli per mancanza delle condizioni prescritte, la giurisprudenza aveva affermato che “non qualsiasi imperfetta dichiarazione assume rilevanza ma solo quelle mediante le quali l’interessato attesti, contrariamente al vero, di possedere un reddito inferiore a quello stabilito come limite di ammissibilità al patrocinio o quelle che nascondono mutamenti significativi nelle condizioni reddituali verificatisi nell’anno precedente” (Sez. 5, n. 21194 del 11/05/2006, Salvaggio, Rv. 234207), così discostandosi da quell’orientamento, espresso da Sez. 1, n. 14403 del 25/01/2001, Mollica, Rv. 218932, secondo il quale sussiste sempre e comunque, a carico del richiedente, il dovere di comunicare “nel termine prescritto dal comma 1 lett. c) dell’art. 5 della legge n. 217 del 1990, le eventuali variazioni dei limiti di reddito verificatesi nell’anno precedente, indipendentemente dalla circostanza che le dette variazioni reddituali superino il tetto massimo previsto dalla legge e, quindi, indipendentemente dalla entità della variazione dei limiti di reddito, in quanto la valutazione della rilevanza della variazione compete al giudice escludendosi qualsivoglia discrezionalità da parte del soggetto beneficiario”.

Nel condividere conclusioni assolutorie dei giudici di merito, la Corte, propendendo a valorizzare l’estraneità al concetto di offesa tipizzato dal legislatore, sia quanto al contenuto, sia quanto alla portata probatoria, delle false dichiarazioni eventualmente contenute nell’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, qualora non riflettenti elementi essenziali ai fini di tale valutazione, aveva talora escluso che il reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002 fosse integrato da qualsivoglia infedele attestazione, ritenendo rilevanti solo quelle dichiarazioni con cui ”l’istante affermi, contrariamente al vero, di avere un reddito inferiore a quello fissato dalla legge come soglia di ammissibilità, ovvero neghi o nasconda mutamenti significativi del reddito dell’anno precedente, tali cioè da determinare il superamento di detta soglia” (Sez. 5, n. 16338 del 13/04/2006 , Bevilacqua, Rv. 234124; Sez. 5, n. 2114 del 11/05/2006, Salvaggio, Rv. 234207 Sez. 5, n. 15139 del 22/01/2007, Martorana, Rv 236143, Sez. 4, n. 41306 del 10/10/2007, Bricchetti, Rv. 237732 Sez. 5, n. 5532 del 11/12/2007, Goman, Rv. 239099 Sez. 5, n. 4467 del 20/12/2007, Abrunzo, Rv. 238880; Sez. 5 n. 12019 del 19.08.2008, Gallo, Rv. 239126).

Con decisioni di segno contrario la Corte, già in epoca antecedente al d.P.R. n. 115 del 2002, aveva ritenuto la sussistenza di un onere di comunicazione a carico del richiedente indipendentemente dalla entità della variazione dei limiti di reddito, spettando la valutazione sulla rilevanza del dato soltanto al giudice (Sez. 1 n. 14403 del 25.01.2001, Mollica, 218932), stimando integrato il reato di cui all’art. 5 L. n. 217 del 1990 di falsa attestazione sulla percezione di redditi “anche nel caso in cui il reddito realmente percepito avrebbe ugualmente consentito l’ammissione del soggetto beneficiario al gratuito patrocinio” (Sez. 3 n. 28340 del 20/06/2006, Contino, Rv. 236267), “dal momento che qualsiasi elemento indicativo di reddito, anche inferiore a quello significativo ai fini del superamento della soglia, va dichiarato, onde consentire agli organi competenti di effettuare le valutazioni previste dagli artt. 96 e 98 del citato d.P.R. n. 115 del 2002” (Sez. 5, n. 13309 del 24/01/2008, Marino, Rv. 239387, Sez. 5, n. 13828 del 06/03/2007, Palamara, Sez. 5, n. 37603 del 13/06/2006, Lo Porto). Dunque, secondo tale orientamento giurisprudenziale ai fini della sussistenza del reato nessun rilievo assume il dato relativo al reddito realmente percepito qualora, anche in parte, celato.

Con dissonante pronuncia, in tema di individuazione del bene giuridico tutelato, Sez. 5, n. 697 del 13/04/2006, Bevilacqua, Rv. 234124, nell’affermare il principio di diritto secondo cui “il reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, che punisce le falsità o le omissioni nelle dichiarazioni e nelle comunicazioni per l’attestazione delle condizioni di reddito in vista dall’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, è integrato non già da qualsivoglia infedele attestazione ma dalle dichiarazioni con cui l’istante affermi, contrariamente al vero, di avere un reddito inferiore a quello fissato dalla legge come soglia di ammissibilità, ovvero neghi o nasconda mutamenti significativi del reddito dell’anno precedente, tali cioè da determinare il superamento di detta soglia” ha, in motivazione, rimarcato che la norma di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002 è speciale rispetto alla norma di cui all’art. 483 cod. pen., della quale non rappresenta una mera riproduzione, “avendo natura e finalità diverse e richiedenti un quid pluris sia nelle modalità della condotta che nell’atteggiamento psicologico che deve sorreggerla”.

Nel risolvere il contrasto sviluppatosi nella giurisprudenza di legittimità in merito all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, Sez. U., n. 6591 del 27/11/2008 (dep. 2009), Infanti, Rv. 242152, ha affermato il seguente principio: “integrano il delitto di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, le false indicazioni o le omissioni anche parziali dei dati di fatto riportati nella dichiarazione sostitutiva di certificazione o in ogni altra dichiarazione prevista per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio”, valorizzando l’importanza della dichiarazione sostitutiva di autocertificazione di cui all’art. 79, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 115/2002, sul rilievo che la stessa “non ha per sè ad oggetto la sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al patrocinio, bensì i dati da cui l’istante la induce (determina), quale risultato suscettibile di valutazione discrezionale seppur vincolata” da parte del giudice, da cui conseguiva la necessità di una “compiuta ed affidabile informazione del destinatario che, a fronte della complessità del tenore dell’istanza, cui è speculare la valutazione da svolgere, ha urgenza di decidere”. Ad avviso del Supremo collegio, sia il valore dichiarativo della istanza che la necessità che le indicazioni nella stessa contenute siano dettagliate, trovano fondamento nel contenuto prescrittivo dell’art. 96, comma 2, d.P.R. n. 115 del 2002, cosicchè, se è vero che il potere di controllo del giudice è limitato all’accertamento della conformità dei dati dichiarati ai requisiti indicati dalla norma e che, invece, sono demandate all’ufficio finanziario sia la verifica dell’esattezza del reddito attestato, sia la compatibilità dei dati indicati con le risultanze dell’anagrafe tributaria, è altrettanto vero che la dichiarazione sostitutiva è connessa “all’ammissibilità dell’istanza e non a quella del beneficio, perché solo l’istanza ammissibile genera l’obbligo del magistrato di decidere nel merito, allo stato”.

Il percorso argomentativo seguito dalla sentenza “Infanti” ha trovato costante conferma in quell’indirizzo giurisprudenziale che, escluso ogni rilievo esimente all’errore ai fini della esclusione della responsabilità, rimarca la necessità che il giudice non ometta di valutare la circostanza relativa alla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, potendo essa rivelarsi indicativa della carenza del necessario elemento soggettivo del reato e, dunque, sintomo di una condotta colposa dovuta a un difetto di controllo. Sotto tale profilo, anche in tempi recenti, si è sottolineato che, qualora il reddito non risulti ostativo alla ammissione, il giudice è tenuto ad un rigoroso riscontro dell’elemento soggettivo del reato posto che, pur essendo sufficiente da parte dell’agente la mera consapevolezza e volontà della falsità senza che, di contro, assuma rilievo la finalità di conseguire un beneficio che non compete, è, tuttavia, necessaria una rigorosa verifica dell’elemento soggettivo, sul presupposto che lo stesso debba sostanziarsi nella “consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero”, da cui la necessità, per la sussistenza del dolo del reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, dell’accertamento “di una presa di posizione volontaristica” da parte dell’agente, espressione di “una qualche adesione all’evento per il caso che esso si verifichi quale conseguenza non voluta della propria condotta”(Sez. 4, n. 215775 del 24/05/2006, Bevilacqua, Rv. 267307).

A tale orientamento si è, da ultimo, allineata, seppure in termini differenti, anche Sez. 4, n. 35969 del 29/05/2019, Arlotta, Rv. 276862, che ha affermato il principio di diritto secondo cui “in tema di patrocinio a spese dello Stato, nel caso di istanza che contenga falsità od omissioni, l’effettiva insussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, seppure non è necessaria per l’integrazione dell’elemento oggettivo del delitto di cui all’art. 95, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, può, tuttavia, assumere rilievo con riguardo all’elemento soggettivo dell’illecito, quale sintomo del dolo”, potendo il dato alterato fare da discrimine tra ammissione ed esclusione del beneficio ed integrare un evidente sintomo del dolo. Si colgono nelle pronunce dei giudici di legittimità quelle perplessità, già rimarcate dalla dottrina, che la sentenza “Infanti” determinava allorchè, nel ritenere integrata la fattispecie delittuosa di cui all’art. 95 del d.P.R. n. 115 del 2002 in qualunque caso di omessa dichiarazione di titolarità di beni immobili e mobili registrati, seppur non indicativi di un elevato tenore di vita e comunque adeguati alle condizioni economiche di chi percepisce un reddito non superiore a quello richiesto per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, sembrava sottendere la reale motivazione della decisione nell’esigenza di moralizzazione dei cittadini richiedenti il beneficio, cosicchè qualsiasi omissione nella indicazione della titolarità di beni, anche se - in una prospettiva ex ante - ininfluente sulla decisione del giudice, finiva col rappresentare una violazione del dovere di lealtà del singolo verso le istituzioni.

7. Altre ipotesi di revoca: l’art. 112 d.P.R. n. 115 del 2002.

In merito alle altre ipotesi di revoca individuate dall’art. 112, comma 1, d.P.R. n. 115 del 2002, nelle quali il giudice, pur in assenza di una condotta illecita dell’istante, può revocare il decreto di ammissione al beneficio per omessa comunicazione delle variazioni di reddito, le Sezioni unite, nel corpo della motivazione, hanno richiamato la decisione di Sez. 4, n. 43593 del 07/10/2014, De Angelis, Rv. 260308 che, affermato il principio di diritto secondo cui “l’omessa comunicazione, anche parziale, delle variazioni reddituali comporta la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, anche se tali variazioni siano occasionali e non comportino il venir meno delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio”, ha sottolineato la duplicità dei profili sottoposti al vaglio del magistrato nel procedimento di ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato: quello dell’ammissibilità o meno della domanda e della revoca del provvedimento di ammissione, eventualmente già disposta, per insussistenza dei requisiti al momento di proposizione della stessa, e quello della revoca del beneficio già concesso, prevista dall’art. 112 d. P.R. n. 115 del 2002, lett. a) per omessa comunicazione di variazioni, nei termini di cui all’art. 79, comma 1, lett. d). Il pregio della decisione della Quarta sezione si rinviene nella circostanza che, attraverso la lettura sistematica delle due norme, i giudici di legittimità hanno evitato l’impasse rappresentato dalla contraddizione di un sistema che prevede, da un lato, la revoca del beneficio per omessa comunicazione delle variazioni reddituali intervenute, seppur irrilevanti ai fini del superamento delle condizioni di ammissibilità, ma che, dall’altro, consente il mantenimento del beneficio nei confronti di quanti, sin dall’origine hanno reso dichiarazioni false o incomplete, sottolineando l’obbligo a carico del beneficiario di comunicare, sempre e comunque, ogni mutamento reddituale e, dunque, anche quelli occasionali e che non comportino il venir meno delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, sì da rendere noti all’autorità destinataria della dichiarazione tutti i dati suscettibili di valutazione discrezionale, in “adempimento di un obbligo di lealtà del singolo verso le istituzioni” rispondente all’esigenza di “consentire agli organi competenti di effettuare le valutazioni previste dagli artt. 96 e 98 del d.P.R. n. 115 del 2002” attraverso una visuale completa della situazione reddituale con esclusione di qualsiasi autonoma valutazione e discrezionalità da parte del beneficiario quanto alla scelta sul se e sul cosa comunicare.

Un’ulteriore ipotesi di revoca dell’ammissione alla quale il magistrato può procedere all’esito delle integrazioni richieste ai sensi dell’articolo 96, commi 2 e 3 del d.P.R. n. 115 del 2002, è prevista dall’art. 112, comma 2, allorchè vi siano fondati motivi per ritenere che l’interessato non versi più nelle condizioni di legge di cui agli artt. 76 e 92, valutate le risultanze del casellario giudiziale, del tenore di vita, delle condizioni personali e familiari e delle attività economiche eventualmente svolte.

Proprio in relazione alla individuazione dei presupposti per la revoca ex art. 112, comma 2, Sez. 4, n. 18945 del 27/03/2019, Naccarella, Rv. 276462, secondo cui “in tema di patrocinio a spese dello Stato, qualora all’esito delle informazioni richieste alla Guardia di Finanza risultino non veritiere le condizioni reddituali indicate nell’istanza, ai fini della revoca d’ufficio del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato è necessario che il giudice ritenga sussistenti elementi dai quali possa desumersi il superamento dei limiti di reddito previsti dalla legge”, ha evidenziato come il sistema, se da un lato prevede che la falsità o l’omessa indicazione anche parziale dei dati previsti nella dichiarazione sostitutiva di certificazione necessaria per l’ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato integrano il reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, cui consegue la revoca prevista dal comma 2, dall’altro non contempla alcuna automaticità della revoca del patrocinio a spese dello Stato a fronte di una discrasia tra reddito dichiarato e reddito accertato, prevedendo che soltanto nel caso in cui, a seguito della verifica dell’esattezza dell’ammontare del reddito attestato e della compatibilità dei dati indicati con le risultanze dell’anagrafe tributaria, risulti che il beneficio è stato erroneamente concesso, l’ufficio finanziario richiederà il provvedimento di revoca. In linea, Sez. 4, n. 17225 del 08/01/2019, Spada, Rv. 275715, ha rimarcato la diversità dei presupposti che sorreggono la revoca ex art. 112, comma 2, d.P.R. n. 115 del 2002 rispetto a quelli di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, affermando il principio di diritto secondo il quale “in tema di patrocinio a spese dello Stato, ai fini del provvedimento di modifica o revoca d’ufficio del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, all’esito delle informazioni richieste alla Guardia di Finanza, emesso ai sensi del comma 2 dell’art. 112, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 è sufficiente che risultino non veritiere le condizioni reddituali indicate nell’istanza e che sussistano presunzioni gravi, precise e concordanti che consentano di ritenere il superamento dei limiti di reddito”.

In senso opposto, seppur in epoca più risalente, Sez. 4, n. 6416 del 6/12/2011, Fersini, ravvisava uno stretto collegamento tra l’esercizio del potere di revoca del giudice e la verifica delle complessive condizioni reddituali dell’interessato, tale da rendere sufficiente per la revoca d’ufficio anche il solo “quadro riduttivo, distorto e fallace” dichiarato dal richiedente.

In tale solco si poneva Sez. 4, n. 19611 del 14/03/2012, Napoli, affermando la legittimità della revoca (in autotutela) del beneficio disposto dal giudice nell’ipotesi di dichiarazione dell’interessato circa la propria posizione reddituale, risultata mendace all’esito dei controlli, anche nel caso di reddito inferiore al limite previsto per l’ammissione al beneficio, sul rilievo che la previsione della revoca a seguito di condanna, prevista all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, è da intendersi ulteriore conseguenza, in uno con il recupero a carico del responsabile delle spese corrisposte dallo Stato, della condanna. Ad avviso della Quarta sezione, dal disposto normativo non può derivare la conclusione che il giudice non sia legittimato alla revoca prima della condanna una volta preso atto del mendacio a seguito delle verifiche effettuate dall’ufficio finanziario. Si tratta, invero, di una norma di chiusura del sistema per l’ipotesi in cui sia stato concesso il beneficio in relazione ad un’istanza “ab origine” inammissibile. Secondo i giudici, infatti, laddove non si accedesse a tale soluzione, si perverrebbe al paradosso per cui la revoca sarebbe consentita, ai sensi dell’art. 112, comma 1, lett. a), in presenza di una omessa comunicazione della variazione di reddito, pur ininfluente rispetto al superamento del tetto reddituale e non anche, sebbene anch’essa ininfluente, nell’ipotesi di originaria mendace dichiarazione.

Da ultimo, Sez. 4, n. 5090 del 15/01/2019, Tarasco nel ribadire il principio, ha precisato che, ove il giudice intenda revocare l’ammissione al beneficio, dovrà accertare, incidenter tantum, l’astratta configurabilità nella fattispecie sub iudice del reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, nei termini indicati dalla sentenza “Infanti”.

8. La natura del provvedimento di revoca.

Quanto al profilo della natura del provvedimento di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, Sez. U. n. 36168 del 10/09/2004, Pangallo, Rv. 228666, nel dare risposta al quesito concernente l’esistenza o meno del potere del giudice di revocare d’ufficio -in assenza della richiesta dell’Ufficio finanziario - l’ammissione al gratuito patrocinio, anche al di fuori dei casi espressamente previsti dall’art. 112 d.P.R. n. 115 del 2002, ha affermato il principio di diritto secondo cui “il provvedimento di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, previsto dall’art. 112 d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 (testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), è adottato di ufficio dal giudice solo nei casi di cd. “revoca formale” indicati dalle lettere a), b) e c) del comma 1, mentre nel caso di cui alla successiva lettera d), concernente la mancanza originaria o sopravvenuta delle condizioni di reddito stabilite dalla legge, non può essere disposto senza la tempestiva richiesta dell’ufficio finanziario competente, al quale soltanto è attribuito il potere-dovere di persistente verifica e controllo della sussistenza di tali condizioni, interdetto al giudice dopo l’assunzione del provvedimento di ammissione”.

La sentenza “Pangallo”, sulla falsariga di quanto affermato da Sez. U. n. 19289 del 25/02/2004, Lustri, Rv. 227356, ha ribadito la natura giurisdizionale del provvedimento di ammissione del patrocinio a spese dello Stato “avente ad oggetto l’accertamento della sussistenza di un diritto, peraltro dotato di fondamento costituzionale” e, pertanto, sottoposto al “regime proprio degli atti di giurisdizione, quale regolato dalla specifica disciplina in materia”, così discostandosi da quell’orientamento giurisprudenziale che, diversamente, attribuiva al provvedimento di revoca del beneficio del patrocinio a spese dello Stato natura amministrativa (Sez. 3, n. 2950 del 29/11/2001 (dep. 2002), Di Stefano, Rv.221061; Sez. 2, n. 25671 del 13/06/2002 (dep. 2003), Ghidini Rv. 226312) sul presupposto dell’esistenza di “un generale potere di revoca d’ufficio del giudice in quanto espressione della potestà di autotutela della pubblica amministrazione” e che riteneva “irragionevole e contrario ai criteri di buona organizzazione dell’amministrazione” non consentire al medesimo organo di revocare o modificare il provvedimento emesso, imponendogli di attendere la preventiva richiesta dell’amministrazione finanziaria, dal momento che la revoca conseguiva alla mancanza del presupposto “base” per poter beneficiare del patrocinio gratuito, ossia la non abbienza, e che, pertanto, non determinava alcuna lesione al diritto di difesa. Le Sezioni unite, dunque, avallavano quel diverso orientamento giurisprudenziale secondo cui i provvedimenti che il giudice può essere chiamato ad emettere in ordine al patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti sono sottoposti al “regime proprio degli atti di giurisdizione” (Sez. U, n. 25 del 24/11/1999, Di Dona, Rv. 214694). Ad avviso del Supremo consesso, la stessa littera legis, in materia di gratuito patrocinio, nel conferire al giudice procedente il potere di revocare d’ufficio il beneficio già concesso solo nelle ipotesi riconducibili all’art. 112, comma 1, lett. a), b), c) ed al comma 2, e con l’esigere “invece, nelle ulteriori ipotesi, la richiesta dell’Ufficio finanziario, al quale è d’altronde affidato il compito di verificare le condizioni di reddito dell’interessato”, risponde ad una precisa scelta: da un lato, quella di attribuire al giudice il controllo “nel merito” sul complesso iter che si conclude con il provvedimento di ammissione o di rigetto, riconoscendogli il potere di revoca ex officio e, dall’altro, quella di affidare all’Ufficio finanziario l’onere di chiedere la revoca, in qualsiasi momento, qualora risulti provata la mancanza dei requisiti reddituali per godere del beneficio, unico modo, questo, per attribuire un senso logico alla previsione di cui all’art. 112, comma 2, in cui si afferma che “il magistrato può disporre la revoca dell’ammissione anche all’esito delle integrazioni richieste ai sensi dell’art. 96, commi 2 e 3”.

9. La pronunzia delle Sezioni Unite.

Con la decisione assunta, le Sezioni Unite nel risolvere il contrasto il contrasto giurisprudenziale sottoposto al loro vaglio, hanno aderito a quell’orientamento secondo la quale la revoca può essere disposta solo nei casi espressamente previsti dalla legge.

Il Supremo consesso ha ravvisato nell’orientamento giurisprudenziale che ha focalizzato la sua attenzione sulla fattispecie di cui all’art. 95 d.P.R. 115 del 2002 e sull’inciso di Sez. Un, n. 6591 del 27/11/2008, Infanti, Rv. 242152, secondo il quale la falsità delle indicazioni contenute nell’autocertificazione deve ritenersi connessa “all’ammissibilità dell’istanza e non al beneficio” cosicchè “solo l’istanza ammissibile genera l’obbligo del magistrato di decidere nel merito”, un limite rappresentato, in primis, dalla lettura rigorosa delle norme del d.P.R. n. 115 del 2002 che prevedono il potere di revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato solo ai sensi dell’art. 112 lett. d), ove risulti provata la mancanza originaria delle condizioni di reddito, e ai sensi dell’art. 95, in caso di condanna e, in secundis, dalla circostanza che nessuna norma del sistema vigente contempla la revoca del patrocinio a spese dello Stato nel caso in cui il “non dichiarato” non vada ad incidere sulla soglia prevista dal d.P.R. n. 115 del 2002 per l’ammissione al beneficio.

Ad avviso delle Sezioni Unite, la soluzione adottata è coerente con la ratio dell’istituto del gratuito patrocinio che rinviene il suo fondamento nella tutela del diritto inviolabile alla difesa per la persona sprovvista di mezzi economici, attribuendo all’indagato, all’imputato o al condannato ammessi al gratuito patrocinio la facoltà di scelta di un difensore di fiducia (iscritto all’albo specifico), senza alcun onere economico.

La Corte, infatti, ha precisato che il legislatore nel regolamentare la materia ha individuato come norme di riferimento interno sia l’art. 24 Cost., che sancisce il diritto alla difesa e all’accesso alla giustizia anche per i non abbienti, sia l’art. 111 Cost. che ha conferito al principio dell’equo processo rango costituzionale, laddove, a livello internazionale, il riferimento è all’art. 6 CEDU che, nel consacrare il diritto all’equo processo nei giudizi civili e penali richiede, quale presupposto indefettibile per un effettivo godimento di tale diritto, la garanzia della “parità delle armi”, ovvero la possibilità per ciascuna parte in causa di stare in giudizio in condizioni che non la costringano a una posizione di sostanziale svantaggio rispetto all’altra, in ragione della complessità del caso che può profilarsi non solo da un punto di vista strettamente giuridico, ma anche da un punto di vista fattuale, ovvero come difficoltà che la parte ha a rappresentare i propri interessi. Tanto non senza sottolineare che, a fronte di comportamenti non del tutto trasparenti ed affidabili da parte dell’istante, l’esigenza di recuperare le somme corrisposte dallo Stato è garantita dalla previsione, con effetto retroattivo, della revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato quale conseguenza dell’intervenuta condanna in sede penale.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 4, n. 3167 del 14/10/1999, Cafarchio, Rv. 214882 Sez. U, n. 25 del 24/11/1999, Di Dona, Rv. 214694 Sez. 1, n. 14403 del 25/01/2001, Mollica, Rv. 218932

Sez. 1, n. 17227 del 27/02/2001, Iacovone, Rv. 218744

Sez. 3, n. 2950 del 29/11/2001, dep. 2002, Di Stefano, Rv. 221061

Sez. 2, n. 25671 del 13/06/2002, dep. 2003, Ghidini, Rv. 226312

Sez. 1, n. 29006 del 03/06/2003, Musarò, Rv. 225051

Sez. U, n. 19289 del 25/02/2004, Lustri, Rv. 227356

Sez. U, n. 36168 del 10/09/2004, Pangallo, Rv. 228666

Sez. 5, n. 16338 del 13/04/2006, Bevilacqua, Rv. 234124

Sez. 5, n. 2114 del 11/05/2006, Salvaggio, Rv. 234207

Sez. 5, n. 37603 del 13/06/2006, Lo Porto

Sez. 3 n. 28340 del 20/06/2006, Contino, Rv. 236267

Sez. 5, n. 15139 del 22/01/2007, Martorana, Rv. 236143

Sez. 5, n. 13828 del 06/03/2007, Palamara

Sez. 4, n. 41306 del 10/10/2007, Bricchetti, Rv. 237732

Sez. 5, n. 5532 del 11/12/2007, Goman, Rv. 239099

Sez. 5, n. 4467 del 20/12/2007, Abrunzo, Rv. 238880

Sez. 5, n. 13309 del 24/01/2008, Marino, Rv. 239387

Sez. 5 n. 12019 del 19/08/2008, Gallo, Rv. 239126

Sez. U, n. 6591 del 27/11/2008, dep. 2009, Infanti, Rv. 242152

Sez. 4, n. 19611 del 14/03/2012, Napoli

Sez. 4, n. 43593 del 07/10/2014, De Angelis, Rv. 260308

Sez. 4, n. 21577 del 24/05/2016, Bevilacqua, Rv. 267307

Sez, 4, n. 53356 del 27/09/2016, Tilenni, Rv. 268682

Sez. 4, n. 4628 del 20/09/2017 - dep. 2018-, Tortorella, Rv. 271942

Sez. 4, n. 17225 del 08/01/2019, Spada, Rv. 275715

Sez. 4, n. 5090 del 15/01/2019, Tarasco

Sez. 4, n. 18945 del 27/03/2019, Naccarella, Rv. 276462

Sez. 4, n. 35969 del 29/05/2019, Arlotta, Rv. 276862

PARTE QUINTA - LEGISLAZIONE EMERGENZIALE --- SEZIONE I DISCIPLINA IN TEMA DI SOSPENSIONE DELLA PRESCRIZIONE.

  • malattia infettiva
  • procedura penale
  • prescrizione dell'azione

CAPITOLO I

LA DISCIPLINA EMERGENZIALE INTRODOTTA PER FRONTEGGIARE LA PANDEMIA DA COVID-19.

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 Premessa. - 2 La disciplina in tema di sospensione della prescrizione. - 3 Le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riguardo alla sospensione della prescrizione. - 4 Le prime pronunce della Cassazione. - 4.1 L’orientamento maggioritario e la valorizzazione dell’art. 159 cod. pen. - 5 La sentenza della Corte costituzionale. - 6 La sospensione della prescrizione nel giudizio in Cassazione. - 6.1 Le ragioni della rimessione della questione alle Sezioni Unite. - 6.2 La tesi restrittiva. - 7 La soluzione recepita dalle Sezioni Unite. - 8 Le modalità di computo della sospensione della prescrizione ex art.83, comma 4 e 9. - Indice delle sentenze citate.

1. Premessa.

L’anno 2020 si è contraddistinto, anche nel settore della giurisdizione penale, per gli effetti prodotti dalla pandemia da Covid-19, che ha imposto profondi e significativi interventi d’urgenza.

Le misure emergenziali, che hanno imposto di limitare al massimo i movimenti ed i contatti tra le persone, hanno, necessariamente comportato una radicale rimodulazione degli ordinari schemi processuali, fondati sui principi dell’oralità, del contraddittorio e della presenza delle parti.

Nel corso dei messi, pertanto, si è assistito a plurimi interventi mediante i quali il Legislatore, a seconda della fase pandemica e della minore o maggiore intensità della stessa, è intervenuto con misure che hanno diversamente graduato la possibilità e le modalità di celebrare i processi.

In concomitanza con la prima fase emergenziale - verificatasi all’esordio della pandemia, nella primavera del 2020 - il Legislatore ha sostanzialmente imposto la sospensione di tutta l’attività giurisdizionale, con la sola eccezione di alcune ben delimitate categorie di procedimenti. Diverso l’approccio seguito nell’autunno, allorquando, nonostante la pandemia avesse ripreso ampiamente vigore, si è seguita una diverso via, fondata non sull’interruzione dell’attività giurisdizionale, bensì sul ricorso generalizzato a modalità di trattazione basate essenzialmente su forme di contradditorio cartolare, nonché sulla celebrazione delle udienze da remoto, in modo tale da perseguire l’esigenza del distanziamento sociale senza gravare eccessivamente sulla celerità della risposta giudiziaria.

In estrema sintesi, pertanto, può affermarsi che la disciplina emergenziale si è mossa secondo logiche diverse tra la prima e la seconda fase epidemica, mediante una diversa modulazione di strumenti che, in un primo momento, hanno privilegiato il “blocco” dell’attività, mentre nella seconda fase hanno perseguito la prosecuzione con modalità alternative rispetto a quelle ordinarie.

Accanto alla disciplina della trattazione dei procedimenti, sono state introdotte norme specifiche in materia di sospensione della prescrizione e dei termini delle misure cautelari.

In particolare, la disciplina della prescrizione è quella che ha immediatamente destato la maggior attenzione della giurisprudenza, tant’è che nel volgere di pochi mesi sono stati chiamata a pronunciarsi sia la Corte costituzionale che le Sezioni unite, a riprova dell’obiettiva complessità delle problematiche collegate alla sospensione della prescrizione.

2. La disciplina in tema di sospensione della prescrizione.

Con riguardo al periodo intercorrente tra il 9 marzo ed il 30 giugno 2020, la prescrizione è stata oggetto di plurimi interventi normativi. La norma di riferimento, invero, è quella che è stata introdotta all’art.83, d.l. 17 marzo 2020, n.18, che prevedeva che “le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari sono rinviate d’ufficio a data successiva al 15 aprile 2020”.

Nelle more della conversione è intervenuto l’art.36 del d.l. 8 aprile 2020 n.23, che ha ulteriormente ampliato il periodo temporale di sospensione dell’attività ordinaria, prevedendo che «Il termine del 15 aprile 2020 previsto dall’articolo 83, commi 1 e 2, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 è prorogato all’11 maggio 2020. Conseguentemente il termine iniziale del periodo previsto dal comma 6 del predetto articolo è fissato al 12 maggio 2020». Il termine finale dell’emergenza è rimasto inizialmente fissato al 30 giugno 2020, fin quanto - con il d.l. n.28 del 2020, coevo alla legge n.27 del 2020 (di conversione del d.l. n.18 del 2020) - si è previsto che la data del 30 giugno 2020, ovunque indicata nell’art.83, l.n. 27 del 2020, dovesse intendersi sostituita con quella del 31 luglio 2020 (art.3, lett. i, d.l. n.28 del 2020), con la legge di conversione del d.l. n.28 del 2020 si è avuto un vero e proprio passo indietro, evidentemente dettato dal favorevole evolversi della situazione sanitaria, essendo stato abrogato l’art.3, lett. 1) e, pertanto, il termine del periodo emergenziale è stato nuovamente - e definitivamente - riportato alla data del 30 giugno 2020, in luogo di quella del 31 luglio.

Per quanto concerne la disciplina della prescrizione, l’art.83 contempla plurime disposizioni rilevanti:

- comma 1 « Dal 9 marzo 2020 al 11 maggio 2020 le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari sono rinviate d’ufficio a data successiva al 11 maggio 2020»

- comma 2 « Dal 9 marzo 2020 al 11 maggio 2020 è sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali ….»

- comma 3-bis (introdotto in sede di conversione) «Nei procedimenti pendenti dinanzi alla Corte di cassazione e pervenuti alla cancelleria della Corte nel periodo tra il 9 marzo ed il 30 giugno 2020, il decorso del termine di prescrizione è sospeso sino alla data dell’udienza fissata per la trattazione e, in ogni caso, non oltre il 31 dicembre 2020»

- comma 4 «Nei procedimenti penali in cui opera la sospensione dei termini ai sensi del comma 2 sono altresì sospesi, per lo stesso periodo, il corso della prescrizione e i termini di cui agli articoli 303 e 308 del codice di procedura penale»;

- comma 7, lett.g) ha previsto la possibilità per i capi degli uffici giudiziari di estendere la disciplina emergenziale fino al 30 giugno 2020, con conseguente rinvio dei procedimenti a data successiva, con le eccezioni indicate al comma 3;

- comma 9 «Nei procedimenti penali il corso della prescrizione e i termini di cui agli articoli 303, 308, 309, comma 9, 311, commi 5 e 5-bis, e 324, comma 7, del codice di procedura penale e agli articoli 24, comma 2, e 27, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 rimangono sospesi per il tempo in cui il procedimento è rinviato ai sensi del comma 7, lettera g), e, in ogni caso, non oltre il 30 giugno 2020»

- comma 12-ter (introdotto in sede di conversione) che disciplina la trattazione non partecipata delle udienze in Corte di Cassazione salvo che intervenga la richiesta di trattazione orale, nel qual caso «Se la richiesta è formulata dal difensore del ricorrente, i termini di prescrizione e di custodia cautelare sono sospesi per il tempo in cui il procedimento è rinviato» La mera elencazione delle disposizioni che - direttamente o indirettamente - vanno ad incidere sulla disciplina della sospensione della prescrizione rende evidente la complessità della materia.

Le questioni interpretative che hanno riguardato la disciplina della sospensione della prescrizione concernono in primo luogo la legittimità costituzionale della norma, nella misura in cui determina un “allungamento” del termine di prescrizione con riguardo a reati commessi prima della sua entrata in vigore; ulteriore questione è quella concernente le modalità di computo della sospensione della prescrizione, sia con riguardo alla disciplina generale di cui all’art.83, commi 4 e 9, d.l. n.18 del 2020, sia in relazione alla particolare previsione concernente i giudizi dinanzi alla Corte di cassazione (comma 3-bis).

3. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riguardo alla sospensione della prescrizione.

Fin dai primi commenti emersi a seguito della pubblicazione del d.l. n.18 del 2020, si è posta la questione della legittimità costituzionale della disciplina della sospensione della prescrizione, essendosi ravvisata una possibile violazione dell’art.25 Cost.

La Corte costituzionale è stata investita della questione da plurime ordinanze emesse da giudici di merito, con le quali si è, con argomentazioni similari, sollevata la problematica concernente la legittimità di una normativa che applica a fatti pregressi un regime della sospensione più gravoso rispetto a quello ordinario ed in vigore all’epoca di commissione del fatto. Le prime ordinanze di rimessione sono state pronunciate dal Tribunale di Spoleto, in data 27/5/2020, che censura la contrarietà dell’art.83, comma 4, d.l. n.18 del 2020 all’art.25, comma 2, Cost., nonché all’art.117, comma 1, Cost. in relazione all’art.7 CEDU.

Nelle suddette ordinanze si ribadisce la natura sostanziale della prescrizione, per farne discendere l’applicabilità del principio della irretroattività della norma meno favorevole, sul presupposto che l’art.83, comma 4, prevedendo un ampliamento del termine di prescrizione, incide negativamente sul regime della causa estintiva con riferimento a fatti pregressi all’introduzione della nuova causa di sospensione del processo.

In particolare, il Tribunale di Spoleto esclude anche che la questione possa essere risolta facendo leva sull’art.159, comma 1, cod.pen., nella parte in cui prevede che il corso della prescrizione rimane sospeso in ogni caso in cui la sospensione del procedimento del processo è imposta da una particolare disposizione di legge. Si afferma, infatti, che il rinvio contenuto nell’incipit dell’art.159 cod.pen. a particolari disposizioni di legge che prevedono ipotesi di sospensione costituisce un “rinvio in bianco” che «può valere unicamente per leggi extracodicistiche preesistenti al codice penale, ovvero successive ma entrate in vigore prima della commissione del fatto-reato di cui si occupa il processo penale».

Anche il Tribunale di Siena, con due ordinanze del 21 maggio 2020, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale con riguardo al profilo del contrasto dell’art.83, comma 4, d.l. n.18 del 2020 con il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole. A tale argomento, il Tribunale di Siena ne aggiunge un’ulteriore, confutando che l’art.83, commi 1 e 4, d.l. n.18 del 2020 abbiano previsto un’ipotesi speciale di sospensione del procedimento con conseguente sospensione della prescrizione, secondo la regola generale già contemplata dall’art.159 cod.pen.; si assume, infatti, che l’art.83, comma 1, ha previsto il mero rinvio delle udienze fissate nel periodo emergenziale e non già la sospensione del procedi mento. Il Tribunale di Siena afferma, infatti, che la tesi che sostiene l’inquadramento della disciplina nell’ambito della sospensione del processo postulerebbe che, ai sensi dell’art. 159, comma 1, cod.pen., ogni rinvio d’ufficio rappresenti un “caso in cui la sospensione del procedimento o del processo penale…è imposta da una particolare disposizione di legge”, finendo per equiparare la nozione di “rinvio di udienza” a quella di “sospensione del procedimento”, ascrivendo ad entrambe il medesimo effetto in punto di sospensione del corso della prescrizione, da ritenersi così prodotto ogni volta che il giudice disponga un rinvio di udienza.

Infine, nella suddetta ordinanza si afferma che la legittimità costituzionale dell’art. 83, comma 4, non potrebbe trarsi dal carattere “emergenziale”, “eccezionale” o “necessitato” della legislazione cui la norma appartiene. A tal fine, infatti, si richiama il principio in precedenza affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza “Taricco”, secondo cui il principio di irretroattività della legge penale esprime “un principio supremo dell’ordinamento, posto a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo, per la parte in cui esige che le norme penali (…) non abbiano in nessun caso portata retroattiva”.

Con ordinanza del 18 giugno 2020, anche il Tribunale di Roma ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, riferita non solo all’art.83, comma 4, ma anche all’art.83, comma 9, del d.l. n.18 del 2020.

Per quanto concerne il primo aspetto, il Tribunale di Roma ha sostanzialmente riproposto la problematica concernente l’irretroattività di una disciplina sfavorevole che va ad incidere sull’istituto sostanziale della prescrizione, affermando che per superare il dubbio di costituzionalità, senza rimettere in discussione la natura sostanziale della prescrizione, l’unica via sarebbe quella di ritenere che l’art.159, comma primo, cod. pen., contenga un rinvio mobile alle ipotesi di sospensione del processo previste da norme di natura processuale.

L’altro innovativo profilo di possibile illegittimità costituzionale sollevato dal Tribunale di Roma attiene alla disciplina della sospensione conseguente al combinato disposto del comma 7, lett. g) e del comma 9 dell’art.83. Sulla base di tali previsioni, il Legislatore ha rimesso ai capi dei singoli uffici giudiziari di prevedere - in considerazioni delle specifiche esigenze di contenimento della pandemia su base territoriale - di prevedere un ulteriore periodo di differimento delle udienze, dal 12 maggio al 30 giugno 2020, con conseguente sospensione della prescrizione.

Rileva il Tribunale di Roma che tale disciplina pone un ulteriore dubbio di incostituzionalità, nella parte in cui prevede una causa di sospensione della prescrizione derivante da un provvedimento giudiziario autorizzato da un provvedimento organizzativo del capo dell’ufficio, in tal modo si sarebbe introdotta una previsione lesiva del principio di tassatività e legata ad un inevitabile tasso di discrezionalità, dipendente dalle valutazioni dei singoli capi degli uffici giudiziari.

La soluzione normativa delineata ai commi 7, lett.g) e 9 dell’art.83, d.l. n.18 del 2020, comporterebbe una lesione del principio della riserva di legge, nella misura in cui demanda l’individuazione dei presupposti per la sospensione della prescrizione ad un provvedimento organizzativo.

Il Tribunale di Crotone, con ordinanza del 19 giugno 2020, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art.83, comma 4, d.l. n.18 del 2020, per violazione degli artt.25, secondo comma e 117 Cost, in relazione all’art.7 CEDU. Nella parte motiva, il Tribunale argomenta in ordine alla consolidata giurisprudenza costituzionale che qualifica la prescrizione quale istituto sostanziale e, quindi, soggetto al divieto di retroattività delle norme sfavorevoli, pur sottolineando come l’esigenza di sospendere la prescrizione deriva direttamente dall’impossibilità, indotta da un fattore esterno qual è la pandemia, di celebrare i processi.

In sostanza, quindi, si condivide la ratio sottesa all’introduzione dell’art.83, comma 4, pur ritenendosi che il superamento del dubbio di costituzionalità richiedere necessariamente l’intervento chiarificatore della Consulta in ordine alla portata dell’art.159 cod. pen. che, pertanto, viene individuato come la norma che potrebbe consentire di far salva l’efficacia della sospensione conseguente all’emergenza pandemica. Nell’ordinanza, inoltre, vengono analiticamente richiamati i plurimi interventi emergenziali che, nel corso degli anni, sono stati adottati in occasione di eventi - naturali o di altro genere - che hanno impedito l’ordinaria celebrazione dei procedimenti penali, evidenziando come in relazione a tali norme, parimenti emergenziali, non sono stati sollevati dubbi di legittimità costituzionale.

Le ordinanze di rimessione sopra richiamate partono tutte dal principio secondo cui la prescrizione è un istituto di diritto sostanziale, come riconosciuto in plurime ed anche recenti sentenze della Corte costituzionale.

L’osservazione è corretta, atteso che in tutti i casi in cui si è prospettato un dubbio di legittimità costituzionale coinvolgente la natura della prescrizione, la Consulta ha ribadito che l’istituto ha natura sostanziale e non processuale, il che determina in primo luogo l’applicazione del principio della riserva di legge ex art.25 Cost.

Riassumendo in estrema sintesi le principali sentenze della Consulta sul tema, emerge chiaramente come l’orientamento volto a privilegiare la natura sostanziale della prescrizione sia ampiamente consolidato ed ha trovato applicazione con riguardo a plurimi aspetti controversi.

Già con la sentenza n.393 del 2006, la Corte costituzionale ebbe ad affermare l’applicabilità alla prescrizione del principio di retroattività della legge penale più favorevole (con riguardo alla disciplina della l.n. 251 del 2005, c.d. “ex Cirielli” che escludeva che i nuovi termini della prescrizione si applicassero, ove più favorevoli, ai processi pendenti in primo grado e per i quali vi era stata l’apertura del dibattimento). La Consulta precisava che l’applicazione della disciplina più favorevole si giustifica in ragione della natura sostanziale della prescrizione, in quanto «il decorso del tempo non si limita ad estinguere l’azione penale, ma elimina la punibilità in sé e per sé, nel senso che costituisce una causa di rinuncia totale dello Stato alla potestà punitiva».

Il principio è stato successivamente ribadito da Corte cost., sent. n. 324 del 2008, nella quale si legge che la prescrizione, quale istituto di diritto sostanziale, è soggetta alla disciplina di cui all’art. 2, quarto comma, cod. pen. che prevede la regola generale della retroattività della norma più favorevole, in quanto il decorso del tempo non si limita ad estinguere l’azione penale, ma elimina la punibilità in sé e per sé, nel senso che costituisce una causa di rinuncia totale dello Stato alla potestà punitiva.

La natura sostanziale della prescrizione non è stata valorizzata dalla Corte costituzionale solo per ritenere applicabile la legge sopravvenuta più favorevole ai fatti pregressi, ma anche per affermare l’opposto principio della irretroattività della legge sfavorevole.

La problematica è stata ampiamente affrontata nella sentenza n.115 del 2018 relativa alla disciplina dell’interruzione del corso della prescrizione, nell’ambito della c.d. vicenda “Taricco”. In particolare, la Consulta è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzione dell’obbligo di disapplicare gli artt.160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod.pen. allorquando la disciplina in tema di interruzione della prescrizione comporti la sistematica impunità delle frodi in materia di IVA. La conformazione al principio affermato in materia dalla Corte di giustizia UE, nella misura in cui imponeva al giudice italiano la disapplicazione della disciplina della prescrizione con l’effetto di determinare un allungamento dei termini, si poneva evidentemente in frizione con plurimi principi costituzionali, primo tra i quali quello della irretroattività della norma meno favorevole.

La Consulta ha affrontato la questione partendo dal presupposto secondo cui « Un istituto che incide sulla punibilità della persona, riconnettendo al decorso del tempo l’effetto di impedire l’applicazione della pena, nel nostro ordinamento giuridico rientra nell’alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. con formula di particolare ampiezza. La prescrizione pertanto deve essere considerata un istituto sostanziale, che il legislatore può modulare attraverso un ragionevole bilanciamento tra il diritto all’oblio e l’interesse a perseguire i reati fino a quando l’allarme sociale indotto dal reato non sia venuto meno (potendosene anche escludere l’applicazione per delitti di estrema gravità), ma sempre nel rispetto di tale premessa costituzionale inderogabile».

Il principio affermato nel caso “Taricco”, tuttavia, risente fortemente della specificità di quella questione, lì dove oggetto della censura di incostituzionalità era la disapplicazione di una norma sostanziale, senza alcun intervento normativo e, soprattutto, nell’impossibilità di ancorare il trattamento in pejus ad un preesistente istituto sostanziale.

Invero, non mancano pronunce della Corte costituzionale che danno atto di come la prescrizione, salvo restando la natura di istituto sostanziale, rifletta i propri effetti anche in ambito processuale.

In particolare, secondo Corte cost., sent.n.143 del 2014 la prescrizione costituisce, nell’attuale configurazione, un istituto di natura sostanziale, sebbene possa proiettarsi anche sul piano processuale - concorrendo, in specie, a realizzare la garanzia della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.).

Analogo accostamento è contenuto anche in Corte cost., sent. n.265 del 2017 lì dove si ribadisce che la prescrizione rileva in ambito processuale essenzialmente quale argine posto a tutela della ragionevole durata del processo.

4. Le prime pronunce della Cassazione.

Rispetto alla paventata illegittimità costituzionale dell’art.83, d.l. n.18 del 2020, la giurisprudenza della Cassazione si è fin da subito pronunciata in termini negativi, ritenendo - sia pur con argomentazioni notevolmente difformi - che la sospensione della prescrizione, conseguente all’evento pandemico, non si ponesse in contrasto con il principio di irretroattività delle norme penali sostanziali.

La prima pronuncia che ha affrontato ampiamente la questione, è stata quella resa da Sez.3, n.21367 del 2/7/2020, De Marco, Rv.279296-01, che ha sviluppato un percorso interpretativo basato sulla eccezionalità dell’emergenza pandemica e sulla necessità di disporre il blocco dell’attività giurisdizionale, ritenendo che la tutela della salute costituisca un bene primario che, nel caso di specie, può prevalere rispetto al principio dell’irretroattività delle norme penali sfavorevoli.

La Terza Sezione procede all’esame della questione prendendo le mosse dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, consolidata nel ritenere che la prescrizione ed il regime che ne disciplina le vicende ha natura sostanziale e, quindi, soggiace al principio di irretroattività di cui all’art.25, comma 2, Cost.

Ciò ha indotto a tentare un diverso approccio alla problematica, valutando la possibilità di operare un bilanciamento tra interessi e garanzie, tutte di livello costituzionale, che vengono in esame nella fattispecie in questione.

Nel far ciò, il riferimento fondamentale è stato individuato nella sentenza sul caso “Ilva” (sent.n.85 del 2013) con la quale la Corte costituzionale ha affermato che «Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona».

Facendo leva sulla possibilità di contemperare contrapposti diritti costituzionali, la Terza Sezione ha ripercorso gli interventi emergenziali che si sono susseguiti nella scorsa primavera, sottolineando come «L’epidemia che ha colpito il paese è un fatto extra ordinem che ha reso necessaria l’adozione di molto drastiche misure di limitazione dei movimenti fisici delle persone, allo scopo di evitare la diffusione del contagio. Proprio la natura di quello specifico fattore scatenante (il virus), ha imposto misure sempre più limitative dei diritti delle persone, della libertà di movimento, dell’iniziativa economica, sicché la sospensione pressoché totale dell’attività giudiziaria, che evidentemente non poteva essere esercitata stante il divieto quasi assoluto di movimento delle persone, era misura emergenziale finalizzata allo scopo di prevenire la diffusione del contagio. L’interpretazione secondo le ordinarie categorie giuridiche è messa in crisi dal fatto extra ordinem. La necessità di fronteggiare la diffusione del contagio, da cui dipende la salvaguardia di diritti, la vita e la salute, che preesistono e senza i quali neppure si può discutere di regole processuali e di diritti degli imputati nel processo, ha messo in chiaro il potenziale conflitto con altri diritti di pari rango la cui composizione non può prescindere dalla natura dell’intervento legislativo destinato ad operare in un contesto specifico e di durata temporanea».

A fronte di tale stato emergenziale, l’aver previsto la sospensione della prescrizione risponde ad un’esigenza indotta da un fattore esogeno, generalizzato e temporaneo, ma ampiamente giustificato dalla necessità di salvaguardare la salute pubblica.

In tale contesto, si è affermato che la sospensione della prescrizione prevista dall’art.83, comma 4, d.l. n.18 del 2020, determina una limitazione/compressione dell’art.25, comma 2, Cost, da valutarsi nel bilanciamento con altri principi di rango costituzionale (diritto alla vita e alla salute), che consente di ritenere la flessione del principio di irretroattività della legge sfavorevole non costituzionalmente illegittima.

Prosegue la Corte dando atto del principio affermato dalla Corte costituzionale, da ultimo nella sent. n.32 del 2020, secondo cui il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole non tollera deroghe, ma tale affermazione è contenuta con riferimento a quelle previsioni che sono frutto di “possibili abusi da parte del potere legislativo”.

Tale evenienza non ricorre sicuramente nel caso di specie, nel quale la specificità del fatto generatore della situazione di emergenza comporta che la norma di sfavore non è certamente frutto di un abuso del potere legislativo, bensì è manifestazione dell’esigenza di fronteggiare un rischio per la salute che ha comportato anche altre rilevanti compressioni di libertà costituzionalmente tutelate (prima fra tutte la libertà di movimento), sia pur per un periodo limitato e circoscritto.

In definitiva, il ragionamento seguito dalla Terza Sezione si fonda sul presupposto della possibilità di operare dei bilanciamenti tra diritti costituzionalmente rilevanti e nel ritenere che, a fronte di un’emergenza epidemiologica di origine naturale, anche il principio dell’irretroattività delle norme penali sfavorevoli può subire una limitazione, tanto più ove questa è assolutamente circoscritta e predeterminata nel tempo.

La sentenza in esame prende espressamente posizione anche con riferimento alla possibilità di ricondurre la previsione dell’art.83, comma 4, d.l. n.18 del 2020 nell’alveo delle ipotesi di sospensione della prescrizione disciplinate in via generale dall’art.159 cod. pen. Tale soluzione, tuttavia, viene esclusa dalla Terza Sezione secondo la quale non si può «semplicisticamente concludere che il legislatore abbia introdotto una nuova causa di sospensione tra le tante». Si afferma, infatti, che la collocazione della sospensione della prescrizione ex art.83, comma 4, nell’ambito delle ipotesi generali disciplinate dall’art.159 cod. pen. «pone una serie di dubbi interpretativi che non risolvono il possibile contrasto con l’irretroattività della legge sfavorevole: se la disciplina della prescrizione, ivi compresa la sua sospensione e interruzione, è norma sostanziale che trova copertura nell’art. 25 Cost., comma 2 che stabilisce il principio di irretroattività della legge sfavorevole, come ha sancito a chiare lettere la Corte costituzionale nella nota sentenza sull’affaire Taricco, allora anche il richiamo che l’art. 159 c.p. fa alla disposizione di legge (art. 83 nel nostro caso) che stabilisce la sospensione del procedimento, richiede che la norma (richiamata) che sospende il procedimento sia entrata in vigore prima del fatto commesso».

Rispetto alla soluzione recepita dalla Terza Sezione, pare meritevole di approfondimento l’aspetto concernente l’aver posto in comparazione il diritto alla salute con il principio di irretroattività, in tal modo dando per implicito che la tutela del primo non sarebbe stata possibile senza il sacrificio del secondo.

Invero, si tratta di una soluzione che potrebbe risultare problematica, atteso che i due profili oggetto di bilanciamento non sembrano essere necessariamente in conflitto tra di loro. Il diritto alla salute ben poteva essere tutelato anche prevedendo semplicemente il differimento delle udienze e non anche la sospensione della prescrizione, senza che ciò avrebbe minimamente leso alcun diritto costituzionalmente garantito. È pur vero che, in assenza della previsione di cui all’art.83, comma 4, sarebbe stato pregiudicato l’interesse dello Stato al perseguimento dei reati, ma tale interesse non assurge al medesimo grado di rilevanza costituzionale che, invece, pacificamente spetta alla tutela della vita e della salute.

Al contempo, rispetto all’interesse alla persecuzione dei reati non pare in alcun modo contestabile la prevalenza del principio di irretroattività, di cui all’art.25, comma 2, Cost.

In definitiva, il ragionamento su cui si fonda la tesi della Terza Sezione presuppone un inscindibile collegamento tra la tutela della salute, il differimento delle udienze e la sospensione della prescrizione, per farne discendere la prevalenza del primo sul principio di irretroattività.

In tal modo, tuttavia, si omette di considerare che il diritto alla salute prescinde dalla sorte dei procedimenti rinviati, sicché pare fondato dubitare della necessità di porre in comparazione diritti e principi che non vengono direttamente in conflitto tra di loro.

In conclusione, si potrebbe sostenere - in difformità a quanto evidenziato dalla Terza Sezione - che il Legislatore, a fronte dell’emergenza pandemica, ben avrebbe potuto salvaguardare tanto il diritto alla salute che il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole, sacrificando l’efficienza dell’attività repressiva dei reati, essendo questo l’interesse dotato di un rilievo costituzionale recessivo rispetto agli altri valori in gioco.

4.1. L’orientamento maggioritario e la valorizzazione dell’art. 159 cod. pen.

La tesi sostenuta dalla Terza Sezione, pur cogliendo l’eccezionalità della situazione creatasi per effetto della pandemia, presuppone un’operazione non agevole di bilanciamento tra diritti costituzionalmente rilevanti, il che presupporrebbe la possibilità di ritenere che il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole rientri tra quelli suscettibili di una valutazione comparativa.

A tal proposito, è stato evidenziato come l’argomento fondato sul carattere naturalistico dell’emergenza sanitaria, che ha dato luogo alla previsione di una norma sfavorevole in tema di prescrizione, non costituisce di per sé un elemento dirimente in favore della possibilità di derogare alla regola della irretroattività. È stato sottolineato, infatti, come è la stessa CEDU che, all’art.15, comma 2, esclude che il principio di irretroattività (desumibile dall’art.7 della CEDU) possa subire deroghe pur a fronte di eventi di straordinaria natura ed attinenti alla tutela del bene pubblico. La norma, infatti, non consente deroghe alla previsione di cui all’art.7, neppure in caso di guerra o di “altre pubbliche calamità che minacciano la vita della nazione” (art.15, comma 1).

La giurisprudenza maggioritaria della Corte di Cassazione ha ritenuto che il superamento del dubbio di legittimità costituzionale della disciplina in tema di sospensione della prescrizione, potesse conseguire non già al bilanciamento tra diritti costituzionali, bensì all’applicazione della regola generale dettata dall’art.159, cod.pen., lì dove stabilisce che le ipotesi di sospensione del processo comportano la corrispondente sospensione del termine di prescrizione.

Tale soluzione è stata recepita, in primo luogo, nelle sentenze rese da Sez.5, n. 25222 del 14/7/2020, Lungaro, Rv. 279596-01 nonché da Sez.3, n.25433 del 23/07/2020, Turra, Rv. 279866 - 01.

In particolare, nella citata sentenza della Quinta Sezione, si dà atto di come il comma 4 collega la sospensione della prescrizione alla sospensione dei termini processuali, di cui al comma 2, aggiungendo che la disciplina va letta congiuntamente alla previsione contenuta al comma 1, lì dove si stabilisce il rinvio di tutte le udienze ricadenti nel periodo emergenziale. Si afferma, pertanto, che «l’esame dell’effetto combinato delle discipline dettate dai commi 1 e 2 dell’art. 83 cit. mette in luce come esse diano corpo a un caso di sospensione del procedimento o del processo: il rinvio d’ufficio di tutte le udienze e la sospensione di tutti i termini (con le eccezioni stabilite dal comma 3) convergono nell’attribuire alla situazione processuale determinata dalle previsioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 83 cit. i connotati della sospensione del procedimento o del processo a norma del primo comma dell’art. 159 cod. pen.».

Aggiunge la quinta sezione che proprio la sicura riconducibilità del dettato dell’art.83, commi 1 e 2, nell’ambito della sospensione del processo fanno sì che la sospensione della prescrizione, in quanto prevista in generale dall’art.159 cod.pen. è un effetto che «sarebbe conseguito anche in assenza di una specifica disposizione come quella prevista dal comma 4 dell’art. 83 cit., introdotta dal legislatore assecondando una tendenza già emersa, come si vedrà, in analoghi provvedimenti legislativi finalizzati a fronteggiare situazioni gravemente emergenziali».

La conseguenza diretta della riconduzione della disciplina speciale nell’ambito della previsione generale di cui all’art.159 cod. pen. è il superamento del dubbio di legittimità costituzionale per violazione dell’art.25 Cost., proprio perché l’effetto sospensivo non è conseguenza di una norma sopravvenuta, bensì di una previsione preesistente (l’art.159 cod. pen.) il che esclude la violazione del principio di irretroattività.

A tal proposito, inoltre, sono richiamati i plurimi interventi normativi, adottati non solo in concomitanza con situazione emergenziali, ma anche a seguito di condoni o modifiche procedurali che hanno comportato la necessità di un differimento del processo, a seguito dei quali è stata prevista la sospensione della prescrizione, senza che sorgesse alcun dubbio in ordine alla legittimità costituzionale.

Viene sottolineato, in particolare, «il ruolo rivestito dalla singola disciplina legislativa che prevede la sospensione del processo (e, esplicitamente o meno, del corso della prescrizione) rispetto alla previsione generale di cui al primo comma dell’art. 159 cod. pen.: la prima, invero, è chiamata solo ad individuare il presupposto - a sua volta collegato a una specifica situazione di fatto (la sospensione imposta da un evento sismico o dalla pandemia) o di diritto (la sospensione collegata all’accessibilità a una procedura di condono o alla richiesta ex art. 5 della legge n. 134 del 2003) - che rende applicabile la fattispecie generale prevista dall’art. 159, primo comma, cod. pen.

La previsione legale della sospensione del processo e, ricorrendone le condizioni prima richiamate, del corso della prescrizione si limita ad attribuire alla situazione presa in considerazione la qualifica delineata dal primo comma dell’art. 159 cod. pen., la cui portata normativa, tuttavia, resta del tutto immutata rispetto al contingente intervento legislativo introduttivo di una fattispecie di sospensione obbligatoria del processo idonea a fungere da presupposto della norma codicistica. Fermo restando che, come già osservato, non viene in rilievo l’introduzione di una “nuova” figura di sospensione del corso della prescrizione o la modifica sfavorevole di una figura codicistica, la previsione legislativa, successiva al fatto-reato, di una fattispecie di sospensione obbligatoria del processo rende dunque applicabile, in relazione alla situazione fattuale o giuridica individuata dalla legge, la norma generale dettata dall’art. 159, primo comma, cod. pen.».

Infine, la sentenza sottolinea come solo per il caso dell’interruzione della prescrizione è previsto un termine massimo per l’aumento del periodo necessario a prescrivere il reato, mentre analogo limite non riguarda anche la sospensione. Ne consegue che, ferma restando l’individuazione del termine di prescrizione, la sua concreta decorrenza è sempre correlata all’intervento o meno, nello svolgimento del singolo processo, di una o più cause di sospensione e alla loro durata, ivi compresa l’eventuale sospensione ex lege del processo. Quanto detto comporta che «l’incidenza in concreto delle sospensioni del processo e, quindi, del corso della prescrizione sul termine di perfezionamento della fattispecie estintiva rappresenta un effetto - previsto dalla richiamata norma codicistica - dell’andamento del processo stesso nel singolo caso e in nessun modo compromette la libera autodeterminazione della persona, che costituisce il nucleo centrale della ratio del principio di irretroattività e della tutela da esso garantita».

In conclusione, con la pronuncia in esame è stata ritenuta la manifesta infondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale relativi all’ipotesi di sospensione della prescrizione contemplata all’art.83, comma 4, d.l. n.18 del 2020.

5. La sentenza della Corte costituzionale.

La questione di legittimità costituzionale della disciplina della sospensione della prescrizione è stata definitivamente risolta dalla Corte Costituzionale che, con sentenza n.278 del 2020, l’ha ritenuta manifestamente infondate.

La Consulta ha condivo l’orientamento emerso in sede di legittimità e volto a ricondurre la sospensione della prescrizione disciplinata dall’art.83, comma 4, d.l. n.18 del 2020, nell’alveo della sospensione del processo ex art.159, cod.proc.pen., ritenendo che le pronunce che si erano in tal senso espresse costituiscano il “diritto vivente” formatosi sulla tematica.

Nella sentenza in esame, è stato ribadito che la prescrizione è un istituto di natura sostanziale, in quanto tale soggetto al principio di legalità di cui all’art.25 Cost.

Ciò comporta che, in primo luogo, innanzitutto soggiace al divieto di irretroattività la definizione del tempo di prescrizione dei reati, che coglie il profilo strettamente sostanziale. Ma tale aspetto non l’esaurisce la tutela costituzionale, in quanto la prescrizione si colloca nel processo e può risentire indirettamente delle vicende e di singoli atti di quest’ultimo nella misura in cui sono previste e disciplinate l’interruzione e la sospensione del decorso del tempo di prescrizione dei reati alle condizioni e nei limiti di legge (artt. 159 e 160 cod. pen.); sicché non è mai prevedibile ex ante l’esatto termine finale in cui si compie e opera la prescrizione, termine che può essere raggiunto in un arco temporale variabile e dipendente da fattori plurimi e in concreto non predeterminabili.

Partendo da tale premessa, la Corte ha affermato che «La garanzia del principio di legalità (art. 25, secondo comma, Cost.) nel suo complesso (tale perciò da coprire anche le implicazioni sostanziali delle norme processuali) dà corpo e contenuto a un diritto fondamentale della persona accusata di aver commesso un reato, diritto che - avendo come contenuto il rispetto del principio di legalità - da una parte, non è comprimibile non entrando in bilanciamento con altri diritti in ipotesi antagonisti; si tratta, infatti, di una garanzia della persona contro i possibili arbìtri del legislatore, la quale rappresenta un “valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali” (sentenze n. 32 del 2020, n. 236 del 2011 e n. 394 del 2006)».

Quest’ultima affermazione va a confutare la diversa soluzione recepita da Sez.3, n.21367 del 2/7/2020, De Marco, Rv.279296-01, secondo cui il principio di irretroattività della norma penale andava bilanciato con il preminente diritto alla tutela della salute pubblica.

La Consulta si è poi premurata di precisare che il principio di irretroattività si applica non solo alla determinazione della durata della prescrizione, ma «coinvolge anche la disciplina della decorrenza, della sospensione e dell’interruzione della prescrizione stessa perché essa, nelle sue varie articolazioni, concorre - come già rilevato - a determinare la durata del tempo il cui decorso estingue il reato per prescrizione. Si tratta di vicende processuali che incidono sulla complessiva durata del tempo di prescrizione dei reati».

L’affermazione costituisce un presupposto essenziale, posto che tra le censure di illegittimità costituzionale si sosteneva anche che la disciplina emergenziale avrebbe violato l’art.25 Cost. nella misura in cui introduceva una nuova causa di sospensione della prescrizione, consentendone l’applicazione a fatti di reato antecedenti.

La Corte costituzionale non ha condiviso tale assunto, ritenendo che la disciplina di cui all’art.83, d.l. n.18 del 2020, non ha affatto introdotto una nuova ipotesi di sospensione della prescrizione, in quanto la normativa in questione non ha fatto altro che integrare la previsione generale già contenuta all’art.159 cod.pen.

Si afferma in sentenza che l’art.159 cod.pen. «ha una funzione di cerniera perché contiene, da una parte, una causa generale di sospensione - secondo cui “[i]l corso della prescrizione rimane sospeso in ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del processo penale […] è imposta da una particolare disposizione di legge” - e dall’altra, una catalogazione di altri “casi” particolari».

L’art.159 cod.pen., pertanto, ha proprio la funzione di stabilire il principio generale per cui la prescrizione rimane sospesa in corrispondenza di determinati impedimenti allo svolgimento del giudizio e nel far ciò «rispetta il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., avendo un contenuto sufficientemente preciso e determinato, aperto all’integrazione di altre più specifiche disposizioni di legge, le quali devono comunque rispettare - come si dirà infra al punto 14 - il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) e quello di ragionevolezza e proporzionalità (art. 3, primo comma, Cost.).

Essa afferma che la stasi ex lege del procedimento o del processo penale determina anche, in simmetria e di norma, una parentesi nel decorso del tempo di prescrizione dei reati. Pur non potendo escludersi che vi siano, in particolare, cause di sospensione del processo che non comportano la sospensione anche del termine prescrizionale, si ha in generale che, se il processo ha una stasi, le conseguenze investono tutte le parti: la pubblica accusa, la persona offesa costituita parte civile e l’imputato. Come l’azione penale e la pretesa risarcitoria hanno un temporaneo arresto, così anche, per preservare l’equilibrio della tutela dei valori in gioco, è sospeso il termine di prescrizione del reato per l’indagato o l’imputato».

Del resto, precisa la Consulta, la riconduzione nell’alveo dell’art.159 cod.pen. di ipotesi di sospensione individuate a fronte dell’emersione di determinati eventi impeditivi dello svolgimento del processo, non lascia l’imputato privo di qualsivoglia garanzia, in quanto permane «in ogni caso, da una parte, la garanzia della riserva alla legge della previsione delle ipotesi di sospensione del procedimento o del processo (ex art. 111, primo comma, Cost.), dall’altra parte, quanto alla ricaduta sul decorso del tempo di prescrizione dei reati, la garanzia della loro applicabilità per l’avvenire a partire dall’entrata in vigore della norma che tale sospensione preveda (art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale); ossia una nuova causa di sospensione - riconducibile alla causa generale di cui all’art. 159, primo comma, cod. pen. e quindi applicabile anche a condotte pregresse - non può decorrere da una data antecedente alla legge che la prevede».

In buona sostanza, la previsione generica contenuta all’art.159 cod.pen. viene ad essere integrata dalla norma di legge che individua in concreto qual è il fattore che impedisce il regolare svolgimento del processo e disciplina la durata della sospensione. Rispetto a tale norma “integrativa” dell’art.159 cod.pen., non «può temersi che, nella sostanza, al di là del rispetto formale del principio di legalità, pur così integrato, il rinvio aperto a ogni “particolare disposizione di legge”, che preveda la sospensione del procedimento o del processo penale, possa costituire una falla, nel senso di una possibile illimitata dilatazione del tempo complessivo di prescrizione del reato in ragione dell’applicazione di ogni disposizione che preveda la sospensione del procedimento o del processo penale. Infatti, il rispetto del principio di legalità - nella misura in cui è predeterminata la regola che vuole che alla sospensione del procedimento o del processo penale in forza di una “particolare disposizione di legge” si associ anche la sospensione del decorso del tempo di prescrizione del reato - non esclude, ma anzi si coniuga - come già rilevato - alla possibile verifica di conformità sia al canone della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), sia al principio di ragionevolezza e proporzionalità (art. 3, primo comma, Cost.), a confronto dei quali sarà sempre possibile il sindacato di legittimità costituzionale della stessa sospensione dei procedimenti e dei processi penali, nonché, più specificamente, della conseguente sospensione del termine di prescrizione.

Nella fattispecie in esame, del resto, non vengono sollevati dubbi di legittimità costituzionale da parte dei giudici rimettenti sotto questo profilo, ma non può non osservarsi, da una parte, che la breve durata della sospensione del decorso della prescrizione è pienamente compatibile con il canone della ragionevole durata del processo e, dall’altra parte, che, sul piano della ragionevolezza e proporzionalità, la misura è giustificata dalla finalità di tutela del bene della salute collettiva (art. 32, primo comma, Cost.) per contenere il rischio di contagio da COVID-19 in un eccezionale momento di emergenza sanitaria».

In conclusione, la Consulta ha da un lato ricondotto la sospensione del procedimento disciplinata dall’art.83, d.l. n.18 del 2020, nell’alveo della previgente norma contenuta all’art.159 cod.pen. che già prevede la sospensione della prescrizione, al contempo, ha precisato che il potere legislativo è stato correttamente impiegato - in maniera proporzionata rispetto all’emergenza in atto - senza che possa individuarsi alcun abuso lesivo di principio costituzionali.

6. La sospensione della prescrizione nel giudizio in Cassazione.

L’art.83, comma 4, d.l. n.18 del 2020 contiene una disciplina generale, applicabile a qualsivoglia procedimento penale, che ha previsto la sospensione del termine di prescrizione in concomitanza con il periodo in cui, a causa della pandemia, è stata disposta la sospensione dei procedimenti penali.

Per i soli giudizi pendenti dinanzi la Corte di Cassazione, l’art.83, comma 3-bis, d.l. n.18 del 2020, ha introdotto una diversa regolamentazione, stabilendo che «Nei procedimenti pendenti dinanzi alla Corte di cassazione e pervenuti alla cancelleria della Corte nel periodo tra il 9 marzo ed il 30 giugno 2020, il decorso del termine di prescrizione è sospeso sino alla data dell’udienza fissata per la trattazione e, in ogni caso, non oltre il 31 dicembre 2020».

La norma, fin dai primi commenti, è apparsa di non agevole interpretazione, lì dove poneva quale condizione per il prolungamento della sospensione della prescrizione fino al 31 dicembre 2020 due requisiti: la pendenza del procedimento ed il fatto che lo stesso fosse pervenuto tra il 9 marzo ed il 30 giugno.

Ci si è interrogati, pertanto, se i due requisiti fossero richiesti alternativamente o congiuntamente.

È di tutta evidenza che, recependo la tesi secondo cui la sospensione “allargata” si dovesse applicare a tutti i procedimenti pendenti in Cassazione, a prescindere dall’epoca di iscrizione, ne sarebbe conseguito una considerevole espansione dei procedimenti sottratti al rischio di prescrizione. Al contempo, tale soluzione comporterebbe una ineludibile frizione con il dato letterale della norma, oltre che un più marcato sacrificio degli interessi delle parti alla celere definizione dei procedimenti.

6.1. Le ragioni della rimessione della questione alle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite sono state investite della problematica concernente la corretta interpretazione dell’art.83, comma 3-bis, d.l. n.18 del 2020 su sollecitazione dell’ufficio spoglio della Prima Sezione e non già per effetto di un contrasto giurisprudenziale insorto sul punto, posto che - la tempistica con cui la questione è emersa - non ha consentito alle singole sezioni di pronunciarsi sul tema, dando luogo al formarsi di orientamenti giurisprudenziali contrapposti (tant’è che al momento della rimessione alle Sezioni unite risultava una sola informazione provvisoria sulla questione in esame).

L’Ufficio per l’esame preliminare dei ricorsi della Prima Sezione ha rilevato come l’art.83, comma 3-bis, dovesse essere letto nel senso che per i procedimenti pendenti in Cassazione, il termine di prescrizione risulterebbe sospeso sino alla data dell’udienza fissata per la trattazione e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2020.

A tale conclusione si giunge sostenendo che la norma in questione, lì dove prevede un regime peculiare per la prescrizione dei procedimenti pendenti in Cassazione, non abbia inteso limitarne gli effetti ai soli procedimenti pervenuti alla Cancelleria della Corte nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020, essendo tale interpretazione contraria alla ratio legis. Si assume che «l’interpretazione in termini di endiadi del duplice riferimento alla pendenza e alla ricezione in Cancelleria sembrerebbe escludere poco ragionevolmente dall’area applicativa della sospensione quei procedimenti che, al pari di quelli pervenuti nel periodo più volte indicato, non hanno potuto essere trattati in forza della sessa situazione emergenziale che giustifica la sospensione del termine per gli altri».

Nella nota dell’Ufficio spoglio si prospettava, pertanto, la possibilità di interpretare il riferimento normativo alla data in cui i procedimenti sono pervenuti «come completamento e integrazione del riferimento ai pendenti, che evoca una categoria ampia, e non come aggiunta limitativa».

L’esigenza dell’intervento nomofilattico delle Sezioni unite è sollecitato in considerazione della diversa interpretazione proposta da Sez.5, n. 25222 del 14/7/2020, Lungaro, Rv. 279596-01 che ha recepito una diversa e più restrittiva interpretazione. Secondo quest’ultima pronuncia, infatti, la sospensione della prescrizione prevista dall’art.83, comma 3-bis, d.l. n.18 del 2020, si applica solo nel caso in cui ricorrano congiuntamente i requisiti dell’essere il ricorso pervenuto alla Cancelleria della Corte nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020 e dall’essere pendente nel medesimo periodo.

Recependo la soluzione proposta dall’Ufficio spoglio, invece, la prescrizione sarebbe sospesa a far data dal 9 marzo (inizio del periodo emergenziale) fino alla celebrazione dell’udienza e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2020.

L’Ufficio spoglio della Prima Sezione ha segnalato come la norma in esame prende atto delle conseguenze derivanti dall’impossibilità di trattare gran parte dei procedimenti pendenti dinanzi alla Corte di Cassazione, introducendo una previsione volta ad ampliare il periodo di sospensione della prescrizione.

Risulterebbe contrastante con tale ratio un’interpretazione restrittiva dell’art.83, comma 3-bis, che ne riduca l’ambito applicativo ad un numero ridotto di ricorsi e, cioè, solo a quelli pervenuti nel periodo dell’emergenza sanitaria.

L’individuazione della ratio sottesa alla previsione del regime della sospensione della prescrizione non pare confutabile, salvo restando che le modalità con le quali la finalità è stata perseguita sembrerebbero non consentire di per sé di fungere da parametro interpretativo certo.

In buona sostanza, non è contestabile che il Legislatore abbia inteso prevede un regime di “favore” per la Corte di Cassazione, ma la concreta modulazione di tale regime non implica necessariamente il recepimento della soluzione che amplia al massimo le ipotesi di sospensione della prescrizione.

A tal fine, pare opportuno segnalare come la previsione dell’art.83, comma 3-bis, risponde alla ratio di contemperare gli effetti dell’emergenza sanitaria con la sterilizzazione temporanea degli effetti della prescrizione anche se interpretata nel senso più restrittivo.

Si potrebbe ipotizzare, infatti, che il comma 3-bis ha previsto la sospensione lunga - fino al 31 dicembre 2020 - per i soli ricorsi iscritti nel periodo dell’emergenza, al fine di consentire alla Cassazione di trattare prioritariamente i giudizi, già pendenti e quindi, maggiormente a rischio di prescrizione, posticipando la trattazione di quelli iscritti in epoca successiva.

A tal riguardo, peraltro, è significativo il fatto che la sospensione della prescrizione prevista dall’art.83, comma 3-bis, non è collegata all’impedimento nella trattazione, bensì al solo fatto che il ricorso è pervenuto nel periodo emergenziale; ciò dovrebbe ulteriormente indurre a ritenere che la funzione dell’art.83, coma 3-bis, è strettamente collegata alla ripresa dell’ordinaria funzionalità della Corte, consentendo una programmazione delle prossime udienze mediante la fissazione dei procedimenti più risalenti nel tempo e la posticipazione di quelli pervenuti nel periodo emergenziale e che, in assenza della sospensione della prescrizione, risulterebbero altrimenti esposti al rischio di estinzione.

6.2. La tesi restrittiva.

La previsione contenuta al comma 3-bis è stata oggetto di approfondimento fin dalla relazione n.46/20 di questo Ufficio, essendosi immediatamente posto il dubbio sul contenuto precettivo della norma.

L’art.83, comma 3-bis, stabilisce che, nei procedimenti pendenti dinanzi alla Corte di cassazione e pervenuti alla cancelleria della Corte nel periodo tra il 9 marzo ed il 30 giugno 2020, il decorso del termine di prescrizione è sospeso fino alla data dell’udienza fissata per la trattazione e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2020.

La norma pare dettata dalla consapevolezza che i termini di prescrizione, relativi ai procedimenti penali che giungono al terzo grado di giudizio, sono prossimi a spirare; al contempo, la ripresa dell’ordinaria attività della Corte risentirà sicuramente della sospensione pregressa, sicchè sarà necessario disporre di un lasso temporale adeguato al fine di calendarizzare i processi rinviati e quelli pervenuti tra il 9 marzo ed il 30 giugno.

Se la norma persegue chiaramente la ratio di agevolare la Corte nel momento del ritorno alla “normalità”, meno chiaro è l’ambito applicativo della disposizione.

In particolare, il comma 3-bis pare introdurre un duplice ordine di requisiti, lì dove fa riferimento ai procedimenti pendenti dinanzi alla Corte di cassazione e pervenuti alla cancelleria della Corte nel periodo tra il 9 marzo ed il 30 giugno 2020.

L’utilizzo della congiunzione “e” dovrebbe indurre a ritenere che la norma richieda la contestuale sussistenza di entrambi i requisiti. Tuttavia, non è agevole individuare il significato di tale duplice ordine di presupposti cui la norma subordina l’ampliamento del periodo di prescrizione.

7. La soluzione recepita dalle Sezioni Unite.

Con decisione adottata all’udienza del 26 novembre 2020, di cui allo stato è nota la sola informazione provvisoria, le Sezioni unite hanno risolto il dubbio interpretativo sorto in ordine alla portata dell’art.82, comma 3-bis, d.l. n.18 del 2020, optando per la tesi restrittiva. Le Sezioni unite, infatti, hanno affermato che la sospensione della prescrizione di cui all’art. 83 comma 3-bis, d.l. n.18 del 2020, conv. in 1. n. 27 del 2020 opera esclusivamente con riferimento ai procedimenti pendenti dinanzi alla Corte di Cassazione che siano pervenuti alla cancelleria della stessa nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020.

Occorre aggiungere che l’interpretazione, favorevole alla valorizzazione dell’inequivoco dato letterale della norma, era stata medio tempore recepita da plurime pronunce delle sezioni semplici che a più riprese si erano espresse nel senso della necessaria compresenza del doppio requisito della “pendenza” e dell’essere il ricorso pervenuto nel periodo emergenziale.

In tal senso, in particolare, si era chiaramente espressa Sez.5, n.25222 del 14/7/2020, Lungaro, Rv. 279506-01, evidenziando che «Ai fini dell’integrazione della fattispecie sospensiva, i due requisiti indicati devono sussistere contestualmente: la norma, dunque, trova applicazione per i procedimenti pervenuti alla Corte di cassazione nel periodo indicato e pendenti (ossia non definiti) nel medesimo arco temporale. Una diversa interpretazione volta a ritenere applicabile la causa di sospensione in presenza alternativamente di uno dei due requisiti collide, innanzitutto, con il dato letterale (e, segnatamente, con la congiunzione “e” utilizzata dalla legge), univoco nel richiedere congiuntamente la sussistenza di entrambi. D’altra parte, l’interpretazione qui non condivisa renderebbe applicabile la sospensione ai procedimenti “pendenti” nel periodo indicato, anche se pervenuti anteriormente ad esso, il che, però, priverebbe di alcun senso l’individuazione dell’arco temporale indicato e, in particolare, la fissazione del dies a quo. Del resto, anche la previsione dell’ulteriore causa di sospensione di seguito esaminata (comma 12-ter dell’art. 83 cit.) sarebbe del tutto superflua se si accedesse all’interpretazione qui non condivisa».

La medesima soluzione era stata recepita anche dal Sez.3, n.25808 del 3/07/2020, Pianeta, 279891-01 secondo cui « va in primo luogo esclusa l’applicabilità nella specie del comma 3 bis dell’art. 83 del d.l. n. come convertito in l. laddove si stabilisce che, nei procedimenti pendenti alla Corte di cassazione e pervenuti alla cancelleria della Corte nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020, il decorso del termine di prescrizione è sospeso sino alla data dell’udienza fissata per la trattazione e, in ogni caso, non oltre il 31 dicembre 2020. Infatti, essendo richiesto in particolare, ai fini della sospensione, il requisito, che va ad aggiungersi (in forza della congiunzione “e”) a quello della pendenza, della “pervenienza” presso la cancelleria della Corte tra il 9 marzo e il 30 giugno 2020, va considerato che nella specie il procedimento è invece pervenuto, anteriormente, in data 26 febbraio 2020.

Del resto, che l’espressione complessiva utilizzata dal legislatore non si risolva in una mera endiadi, ma manifesti la necessità che il procedimento sia caratterizzato da entrambi i requisiti della pendenza e della “pervenienza” , è conclusione che non si appoggia solo al dato letterale, di per sé inequivoco, ma trova conforto in ulteriori indici, tra cui : il fatto che, appartenendo il comma ad una norma, quale l’art.83, d.l. n.18 del 2020, che contiene la disciplina generale del regime emergenziale applicabile a qualsivoglia procedimento, il riferimento ai giudizi “pendenti dinanzi alla Corte di Cassazione”, è finalizzato essenzialmente solo a distinguere il campo di applicabilità da quello dei procedimenti pendenti in fase di merito, sì che l’ulteriore requisito della pervenienza non può che assumere un proprio rilievo autonomo; il fatto, inoltre, che una diversa lettura, estensiva, che interpretasse la locuzione come mera endiadi si risolverebbe in una evidente interpretatio abrogans di tale ulteriore e, appunto, autonomo requisito».

La sentenza, pertanto, fondava la propria conclusione non solo sul dato normativo, ma offriva anche una spiegazione del significato che assume, all’interno del complessivo dettato dell’art.83, d.l. n.18 del 2020, l’aver fatto riferimento (al comma 3-bis) ai procedimenti pendenti dinanzi alla Corte di Cassazione, chiarendo come tale locuzione sia essenziale per distinguere la disciplina derogatoria relativa al giudizio di legittimità rispetto a quella generale.

Le due pronunce, pertanto, offrono una soluzione conforme al problema e, peraltro, la sentenza della terza sezione si fa carico anche di attribuire un preciso portato normativo al riferimento alla “pendenza” del giudizio in sede di legittimità (in senso conforme, si veda anche Sez.5, n.26217 del 13/7/2020, G.; Rv. 279598-01, Sez.5, n.29959 del 15/9/2020, Bugini, Rv.279746 - 01).

8. Le modalità di computo della sospensione della prescrizione ex art.83, comma 4 e 9.

All’esito della decisione assunta dalle Sezioni unite può affermarsi che il regime di favore previsto per la sospensione della prescrizione nei giudizi di legittimità è destinato ad avere un ambito applicativo limitato, potendone beneficiare i soli procedimenti iscritti tra il 9 marzo ed il 30 giugno.

Ciò comporta che, per tutti i restanti procedimenti pendenti dinanzi alla Corte di Cassazione, nonché per i procedimenti pendenti in fase di merito, trova applicazione il regime generale della sospensione della prescrizione, previsto dall’art.83, comma 4 e 9, del d.l. n.18 del 2020.

Invero, si rileva come l’art.83, comma 4, fa dipendere la sospensione della prescrizione dalla sospensione dei termini ai sensi del comma 2, mentre non contiene un diretto richiamo al comma 1, che disciplina il rinvio delle udienze fissate nel periodo di sospensione dell’attività giudiziaria.

Tale apparente incongruenza non impedisce una lettura logico-sistematica, ove si ritenga applicabile la regola generale dettata dall’art.159 cod. pen., lì dove stabilisce che «il corso della prescrizione rimane sospeso in ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del processo penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge». Accedendo alla tesi - avallata anche da Corte cost., n.278 del 2020 - secondo cui l’art.83, comma 1, individua un caso di sospensione del processo penale ex lege, dovrebbe allora ritenersi che la sospensione della prescrizione trovi applicazione, con riguardo ai casi in cui l’udienza ricada nel periodo in cui è previsto il rinvio d’ufficio, sulla base della regola generale dell’art.159 cod. pen.

È utile a rimarcare, peraltro, come la stessa sentenza della Corte cost., n.278 del 2020, abbia chiarito come l’art.83, comma 4, d.l. n.18 del 2020 - pur descrivendo un’ipotesi specifica di “sospensione della prescrizione” conseguente alla sospensione del processo - non è “ridondante” rispetto al principio generale di cui all’art.159 cod.pen., in quanto la «previsione del comma 4 del censurato art. 83, secondo cui è sospeso anche il corso della prescrizione in ragione della sospensione del procedimento o del processo penale, non è inutile perché fissa, in modo espresso e quindi in termini maggiormente chiari, compatibili con il rispetto del principio di eguaglianza, la collocazione della disposizione nell’alveo della causa generale di sospensione contenuta nell’art. 159, primo comma, cod. pen.».

Quanto detto comporta che la disciplina della sospensione della prescrizione, contenuta al comma 4 dell’art. 83, si fonda sul presupposto della “stasi” dell’attività giurisdizionale, derivante dal necessario rinvio d’ufficio dei procedimenti con udienza ricadente nel periodo emergenziale (Sez.3, n.31513 del 29/9/2020, Ciorra, Rv.279946-02) , nonché nella sospensione del decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti, sicché occorre che vi sia un atto al quale sia collegato un termine.

Individuati i presupposti affinchè la sospensione operi, si è posto il problema di verificare i rapporti tra le due ipotesi di sospensione disciplinate rispettivamentei al comma 4 e 9, il primo relativo alla prima fase emergenziale, il secondo concernente l’eventualità che - nel periodo 12 maggio/30 giugno - siano stati adottati provvedimenti, da parte dei capi degli uffici, che hanno imposto la sospensione dei procedimenti.

Sempre sulla scorta dell’informazione provvisoria, pare corretto affermare che le Sezioni unite hanno dato alla complessa normativa un’interpretazione letterale e tesa a limitare gli effetti della sospensione della prescrizione.

Si è affermato, infatti, che «Il corso della prescrizione è rimasto sospeso ex lege, ai sensi dei commi 1, 2 e 4 del citato art. 83, dal 9 marzo all’11 maggio 2020, nei procedimenti nei quali nel suddetto periodo era stata originariamente fissata udienza e questa sia stata rinviata ad una data successiva al termine del medesimo. Analogamente, ai sensi del successivo comma 9 dello stesso art. 83, la prescrizione è rimasta sospesa dal 12 maggio al 30 giugno 2020 nei procedimenti in cui in tale periodo era stata fissata udienza e ne è stato disposto il rinvio a data successiva al termine del medesimo in esecuzione del provvedimento emesso dal capo dell’ufficio giudiziario ai sensi dell’art. 83, comma 7 lett. g). Nel caso in cui il provvedimento ex art. 83, comma 7, lett. g) del citato decreto legge sia stato adottato successivamente al 12 maggio 2020, la sospensione decorre dalla data della sua adozione».

In buona sostanza, quindi, si sono individuati due distinti periodi di sospensione della prescrizione, precisando che, con riguardo a ciascun procedimento, la sospensione opera solo se questo si fosse dovuto effettivamente trattare in concomitanza con i predetti periodi emergenziali (9/11 maggio o 12 maggio/30 giugno).

Tale soluzione era stata già recepita da Sez.5, n.26217 del 13/7/2020, G., Rv. 279598-03, secondo cui « In tema di disciplina della prescrizione a seguito dell’emergenza pandemica, per i procedimenti con udienza fissata nel periodo 9 marzo-11 maggio 2020, la sospensione della prescrizione prevista dall’art. 83, comma 4, del d.l. 18 marzo 2020 opera dalla data dell’udienza di cui è stato disposto il rinvio fino all’11 maggio 2020, mentre, per i procedimenti la cui udienza era fissata nel periodo 12 maggio-30 giugno 2020 (cd. “seconda fase” dell’emergenza) e rinviati a data successiva, ai sensi del comma 7, lett. g), art. cit., la prescrizione rimane sospesa, ai sensi dell’art. 83, comma 9, del d.l. 18 marzo 2020, dalla data di detta udienza fino al 30 giugno 2020» (in senso conforme: Sez.5, n.29959 del 15/9/2020, Bugini, Rv.279746-01, Sez.5, n.29967 del 15/9/2020, La Vigna; Sez.5, n.28558 del 14/7/2020, Cafagna, Sez.5, n.26215 del 13/7/2020, Aloi, Rv.279766-02; Sez.5, n,25944 del 9/7/2020, Paciletti, Rv. 279496-02; Sez.5, n.30434 del 13/07/2020, Innocenti).

Ne consegue che la sospensione della prescrizione non opera in maniera generalizzata con riguardo a tutti i procedimenti, occorrendo che vi sia stato l’effettivo e specifico impedimento alla trattazione.

Ma non solo, le Sezioni Unite hanno, altresì, precisato che i due periodi di sospensione suindicati si sommano in riferimento al medesimo procedimento esclusivamente nell’ipotesi in cui l’udienza, originariamente fissata nel primo periodo di sospensione obbligatoria, sia stata rinviata a data compresa nel secondo periodo e, quindi, ulteriormente rinviata in esecuzione del provvedimento del capo dell’ufficio.

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di Cassazione

Sez.3, n.31513 del 29/9/2020, Ciorra, Rv.279946-02 Sez.5, n.29967 del 15/9/2020, La Vigna

Sez.5, n.29959 del 15/9/2020, Bugini, Rv.279746 - 01 Sez.3, n.25433 del 23/07/2020, Turra, Rv. 279866 - 01

Sez.5, n.28558 del 14/7/2020, Cafagna

Sez.5, n.25222 del 14/7/2020, Lungaro, Rv. 279596-01 Sez.5, n.30434 del 13/07/2020, Innocenti

Sez.5, n.26217 del 13/7/2020, G., Rv. 279598 Sez.5, n.26215 del 13/7/2020, Aloi, Rv.279766-02

Sez.5, n.25944 del 9/7/2020, Paciletti, Rv. 279496-02 Sez.3, n.25808 del 3/07/2020, Pianeta, 279891-01 Sez.3, n.21367 del 2/7/2020, De Marco, Rv.279296-01

Sentenze della Corte Costituzionale

Corte cost., n.278 del 2020 Corte cost., n.115 del 2018 Corte cost., sent. n.265 del 2017 Corte cost., sent.n.143 del 2014 Corte cost., sent. n. 324 del 2008