SEZIONE I QUESTIONI PROCESSUALI

  • procedura civile
  • udienza giudiziaria
  • procedimento giudiziario

I)

IL PROCESSO CIVILE ITALIANO DI FRONTE ALLA PANDEMIA DEL 2020

(di Giuseppe Fichera )

Sommario

1 Introduzione. - 2 La cd. “prima fase”. - 2.1 (Segue). Il rinvio delle udienze. - 2.2 (Segue). Le udienze sottratte al rinvio. - 2.3 (Segue). La sospensione dei termini processuali. - 2.4 (Segue). Le altre misure processuali. - 2.5 (Segue). La sospensione dei termini sostanziali. - 3 La cd. “seconda fase”. Le misure previste. - 4 La cd. “terza fase”. L’art. 221 del d.l. n. 34 del 2020. - 5 La cd. “quarta fase”. L’art. 23 del d.l. n. 137 del 2020. - 6 L’udienza a porte chiuse. - 7 L’udienza telematica. - 8 L’udienza cartolare. - 9 La camera di consiglio da remoto. - 10 I depositi telematici degli atti processuali. - 11 La mediazione a distanza. - 12 La nuova procura speciale.

1. Introduzione.

Com’è a tutti noto, nel marzo del 2020 la scelta del Governo italiano per affrontare sul piano giudiziario l’emergenza epidemiologica da covid-19 che ancora purtroppo ci affligge, è stata chiaramente guidata dalla volontà di operare un inedito intervento di tipo bifasico: in prima battuta è stata quindi disposta la sospensione fino ad una certa data di udienze, attività e termini processuali (la cd. “prima fase”); cessato il periodo di sospensione generalizzata, è stato attribuito ai dirigenti degli uffici giudiziari il compito e la responsabilità di adottare misure organizzative, anche incidenti sulle modalità trattazione dei procedimenti, caso per caso valutate necessarie sulla scorta delle emergenze epidemiologiche certificate nel territorio di riferimento (la cd. “seconda fase”).

L’intera disciplina degli istituti processuali speciali che hanno trovato applicazione durante le due fasi, sia nei giudizi civili che in quelli penali, è stata racchiusa nell’art. 83 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, recante Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, come poi modificato dal d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito con modificazioni dalla legge 25 giugno 2020, n. 70.

È parimenti cosa nota che l’efficacia di tutte le disposizioni processuali contenute nell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, è definitivamente cessata -dopo un certo “ondeggiamento” mostrato dal legislatore urgente1 -il giorno 30 giugno 2020.

A partire quindi dal primo luglio 2020, nonostante il Governo non avesse ancora disposto la cessazione dello stato di emergenza2, nella trattazione dei procedimenti civili davanti agli uffici giudiziari italiani hanno ripreso efficacia le norme processuali ordinarie, come in precedenza derogate dalle disposizioni contenute nel citato art. 83 del d.l. n. 18 del 2020.

E tuttavia, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (avvenuta il 18 luglio 2020) dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, di conversione con modificazioni del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, recante Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, sono entrate in vigore -il 19 luglio 20203 -tutte le disposizioni contenute nell’art. 221 del detto decreto-legge, come introdotte appunto in sede di sua conversione, e, in particolare, quelle dettate dai nuovi commi da 3 a 10. Da questo momento pudirsi avviata per i processi civili quella che chiameremo, per convenzione, la cd. “terza fase”.

Con l’aggravarsi della pandemia, infine, il Governo ha deciso di intervenire nuovamente sui procedimenti civili e penali, dettando nuove disposizioni, tese a richiamare in vita taluni istituti già sperimentati nelle prime due fasi dell’emergenza epidemiologica.

Con l’art. 23 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 recante Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-194, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, è attualmente in corso un regime processuale che definiremo della cd. “quarta fase”.

2. La cd. “prima fase”.

Nel solo mese di marzo del 2020 il legislatore è intervenuto sulla disciplina dei processi civili in via di urgenza in tre diverse occasioni: dapprima con il d.l. 2 marzo 2020, n. 9, recante Misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19, con il quale, nell’ambito di un intervento più articolato, mirato ad impedire la diffusione del contagio da covid-19 nelle cd. “zone rosse”, sono state introdotte talune misure, quali il rinvio di ufficio delle udienze e la sospensione di tutti i termini per il compimento delle attività processuali dal 3 al 31 marzo 2020 -salvo talune espresse eccezioni -, relativamente ai procedimenti, civili e penali, pendenti presso gli uffici giudiziari dei circondari dei tribunali e dei distretti di corte d’appello cui appartenevano i comuni elencati nell’allegato 1 del d.p.c.m. 1 marzo 20201 . L’art. 10, comma 3, del d.l. n. 9 del 2020, inoltre stabiliva un rinvio d’ufficio, sempre oltre il 31 marzo 2020, per «i procedimenti pendenti presso tutti gli altri uffici giudiziari, ovunque collocati, nel caso in cui le parti o i difensori siano provenienti dai predetti comuni».

Questo decreto, tuttavia, venne integralmente abrogato dall’art. 1, comma 2, della legge 29 aprile 2020, n. 27, di conversione del d.l. n. 18 del 2020; ovviamente con la formula consueta, a tenore della quale restavano validi gli atti ed i provvedimenti adottati ed erano fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base del medesimo decreto-legge abrogato.

Successivamente, in considerazione dell’aggravamento del quadro epidemiologico, venne adottato il d.l. 8 marzo 2020, n. 11, recante Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell'attività giudiziaria, che introdusse disposizioni generali, relative allo svolgimento dell’attività giudiziaria su tutto il territorio nazionale, pur facendo salve quelle di cui al d.l. n. 9 del 20202.

Anche questo decreto risulta integralmente abrogato, sempre dall’art. 1, comma 2, della legge 29 aprile 2020, n. 27, di conversione del d.l. n. 18 del 2020.

Con il d.l. n. 18 del 2020, invece, venne finalmente realizzato un intervento normativo più articolato; il chiaro intento del legislatore è stato quello di concentrare l’intera disciplina temporanea del processo civile nell’art. 83 del detto decreto, che infatti risulta essere stato oggetto di modifiche per effetto di successivi interventi legislativi nei mesi seguenti.

Ad aprile del 2020, prima l’art. 36, comma 1, del d.l. 8 aprile 2020, n. 23 recante Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali, convertito con modificazioni dalla legge 5 giugno 2020, n. 40, incise sui soli termini fissati dai commi 1 e 2 dell’art. 83 citato, attraverso una “proroga” secca.

Nello stesso mese, l’art. 3, comma 1, del d.l. 30 aprile 2020, n. 28, recante Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19, convertito con modificazioni dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, intervenne operando una diretta novella di taluni commi del ridetto art. 83 del d.l. n. 18 del 2020.

2.1. (Segue). Il rinvio delle udienze.

La prima e più importante misura adottata durante la cd. “prima fase” dal legislatore urgente, con l’art. 83, comma 1, del d.l. n. 18 del 2020, fu il rinvio generalizzato delle udienze: «dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari sono rinviate d’ufficio a data successiva al 15 aprile 2020». Detto termine risultpoi “prorogato”, per effetto dell’art. 36, comma 1, del d.l. n. 23 del 2020, convertito dalla legge n. 40 del 2020, al giorno 11 maggio 2020.

Al riguardo, già nei primi commenti furono sollevati taluni dubbi1, da chi evidenzicome la legge n. 27 del 2020 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale il giorno 29 aprile ed entrata in vigore il 30 aprile), di conversione del d.l. n. 18 del 2020, pure essendo successiva all’entrata in vigore del d.l. n. 23 del 2020 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale il giorno 8 aprile ed entrato in vigore il 9 aprile) avesse mantenuto ferma l’originaria data di cessazione della sospensione dei termini processuali (al 15 aprile), come fissata in origine dal decreto convertito; il risultato, davvero paradossale, sarebbe stato che -a partire dal giorno 30 aprile 2020 -si sarebbe dovuto prendere atto che la sospensione dei termini processuali era venuta meno il precedente 15 aprile e non più il successivo 11 maggio.

In realtà, va considerato che ai sensi dell’art. 15, comma 5, della legge 23 agosto 1988, n. 440, solo le modifiche eventualmente apportate al decreto-legge in sede di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione (salvo che quest’ultima non disponga diversamente), mentre le norme del decreto-legge non modificate in sede di conversione sono efficaci dalla data indicata nel medesimo (di solito il giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale); queste norme, quindi, ben possono essere modificate da successivi atti, aventi eguale forza di legge, come esattamente avvenuto nel caso che ci occupa.

In altre parole, se il Parlamento ha inteso lasciare immutati i termini di cui all’art. 83, commi 1 e 2, del d.l. n. 18 nel corso del procedimento di conversione, il Governo aveva comunque facoltà di intervenire -con un atto avente forza di legge, che naturalmente dovrà essere convertito ai sensi dell’art. 77 Cost. -sugli effetti giuridici prodotti dal decreto-legge, “prorogandone”, anche prima della sua conversione, la durata, com’è esattamente avvenuto nella vicenda in discussione.

Dunque, nella prima fase il Governo, con l’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, ha disposto un mero rinvio ex lege e non una sospensione dei processi, sicché non ha trovato applicazione l’art. 298, primo comma, c.p.c., a tenore del quale «durante la sospensione non possono essere compiuti atti del procedimento»1.

2.2. (Segue). Le udienze sottratte al rinvio.

Sul modello della disciplina in tema di sospensione feriale, il rinvio d’ufficio per tutte le udienze previste nel periodo qui considerato contempltalune precise eccezioni, in relazione a quelle controversie reputate “urgenti” dal legislatore.

Invece di ricorrere al tradizionale catalogo delle materie sottratte alla sospensione feriale, di cui all’art. 92 del r.d. n. 12 del 1941, sia nel soppresso d.l. n. 11 che nel d.l. n. 18, si preferì varare un nuovo elenco, assai più ristretto rispetto a quello “classico” della feriale1, solo in parte mutuato da quello previsto originariamente per la cd. “zona rossa” dal d.l. n. 9 del 20202, il quale a sua volta si ispirava chiaramente all’elencazione prevista dai provvedimenti emergenziali adottati, sempre solo limitatamente ad alcuni territori, in occasioni di altre calamità naturali3.

L’art. 83, comma 2, lett. a), del d.l. 18 del 2020, con le modifiche apportate in sede di conversione dalla legge n. 27 del 2020 e le ulteriori solo marginali correzioni introdotte dal d.l. n. 28 del 2020 convertito dalla legge n. 70 del 2020, eccettudal rinvio d’ufficio le seguenti tipologie di controversie civili:

i) le cause di competenza del tribunale per i minorenni relative alle dichiarazioni di adottabilità, ai minori stranieri non accompagnati e ai minori allontanati dalla famiglia, quando dal ritardo puderivare un grave pregiudizio e, in genere, procedimenti in cui è urgente e indifferibile la tutela di diritti fondamentali della persona;

ii) le cause relative alla tutela dei minori, ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità, nei soli casi in cui vi sia pregiudizio per la tutela di bisogni essenziali;

iii) i procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona;

iv) i procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di tutela, di amministrazione di sostegno, di interdizione, di inabilitazione, nei soli casi in cui viene dedotta una motivata situazione di indifferibilità, incompatibile anche con l’adozione di provvedimenti provvisori, e sempre che l’esame diretto della persona del beneficiario, dell’interdicendo e dell’inabilitando non risulti incompatibile con le sue condizioni di età e salute;

v) i procedimenti relativi agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale e tutela giurisdizionale ex art. 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833;

vi) i procedimenti relativi all’interruzione di gravidanza ex art. 12 della legge 22 maggio 1978, n. 194;

vii) i procedimenti per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari;

viii) i procedimenti di convalida dell’espulsione, allontanamento e trattenimento di cittadini di paesi terzi e dell’Unione europea;

ix) i procedimenti di cui agli artt. 283 (provvedimenti sull'esecuzione provvisoria in appello), 351 c.p.c. (provvedimenti sull’esecuzione provvisoria) e 373 c.p.c. (sospensione dell’esecuzione);

x) i procedimenti elettorali di cui agli artt. 22, 23 e 24 del d.lgs. primo settembre 2011, n. 150;

xi) tutti i procedimenti la cui ritardata trattazione puprodurre grave pregiudizio alle parti.

Ora l’individuazione delle cause che rientrano nel detto elenco ha assunto subito rilevanza sotto un triplice profilo, al fine di individuare le liti:

1) sottratte al rinvio ex lege nella cd. “prima fase”;

2) sottratte a rinvii che il capo dell’ufficio avrebbe potuto disporre nella cd. “seconda fase”;

3) escluse dalla sospensione di tutti i termini processuali nella cd. “prima fase” e (in parte) anche di quelli sostanziali nella cd. “seconda fase”.

E allora, anzitutto, rientravano nell’elenco di cui discute un primo consistente gruppo di procedimenti, tutti accomunati dalla natura, anche solo lato sensu, cautelare: si pensi ai procedimenti cautelari (sub iii), ai provvedimenti indifferibili che riguardano l’interdicendo, l’inabilitando, il beneficiario dell’amministrazione di sostegno (sub iv), ai procedimenti in tema di interruzione della gravidanza (sub. vi), quelli relativi agli ordini di protezione contro gli abusi familiari (sub vii), provvedimenti sull’inibitoria delle sentenze rese dai giudici di merito (sub ix),

Per quanto riguarda le cause sub i) e sub viii), si trattava di un contenzioso che ratione materiae è riservato, l’uno, al tribunale per i minorenni e, l’altro, alla sezione specializzata in materia di immigrazione e protezione internazionale di cui al d.l. 17 febbraio 2017 n. 13, recante Disposizioni urgenti per l'accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell'immigrazione illegale, convertito con modificazioni dalla legge 13 aprile 2017, n. 46.

Il riferimento al tribunale per i minorenni non vale certo ad escludere che solo le cause ivi pendenti siano state sottratte al rinvio, dovendosi al contrario ritenere che, anche nei successivi gradi di giudizio, possano ipotizzarsi situazioni che coinvolgono minori in cui è urgente evitare situazioni di grave pregiudizio.

Deve allora ritenersi che tutti i procedimenti aventi per oggetto la dichiarazione di adottabilità di un minore, quelli che riguardano i minori stranieri non accompagnati, ovvero i minori allontanati dalla famiglia, non siano stati soggetti a differimento anche nei gradi successivi.

Come è stato osservato1 , peraltro, l’elenco delle materie che per legge andavano trattate nonostante la sospensione, è apparso sul punto subito privo di coerenza: infatti le cause relative “ai minori allontanati dalla famiglia” non sono soltanto quelle di competenza del tribunale per i minorenni, poiché, quando esse siano state proposte in pendenza di un giudizio di separazione o di divorzio, restano attribuite alla competenza del tribunale ordinario in base al cd. “criterio della prevenzione”2.

Va soggiunto che in sede di conversione del d.l. n. 18 del 2020 furono notevolmente ristretti i casi sottratti al rinvio, stabilendosi la necessaria trattazione davanti al tribunale per i minorenni, soltanto per quei procedimenti in cui «dal ritardo puderivare un grave pregiudizio»; rimase tuttavia la formula generale che ammetteva sempre la trattazione dei procedimenti di competenza del tribunale per i minorenni, quando «è urgente e indifferibile la tutela di diritti fondamentali della persona».

È comunque ben plausibile, anche alla luce del testo novellato in sede di conversione, che potessero farsi rientrare tra le cause -sempre di competenza del tribunale per i minorenni -sottratte al rinvio ex lege, anche quelle previste dall’art. 31, comma terzo, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286-Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, considerato che li si discute di «gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell'età e delle condizioni di salute del minore», i quali giustificano il rilascio di un permesso di soggiorno al genitore.

Quanto ai procedimenti in materia di immigrazione (sub viii), certamente non furono sottratte al rinvio le controversie, pure di competenza delle citate sezioni specializzate, aventi ad oggetto l’impugnazione dei provvedimenti in tema di protezione internazionale o speciale, le controversie in materia di diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare, permesso di soggiorno per motivi familiari, nonché relative agli altri provvedimenti in materia di cd. “diritto all’unità familiare”, ovvero in materia di accertamento dello stato di apolidia e dello stato di cittadinanza italiana. E ciò nonostante l’art. 35-bis, comma 14, del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, come inserito dall’art. 6 del d.l. 17 febbraio 2017, n. 13, convertito con modificazioni dalla legge 13 aprile 2017, n. 46, oggi escluda espressamente per i detti procedimenti la sospensione dei termini processuali.

Rimasero invece espressamente esclusi dal rinvio, i provvedimenti di convalida dei provvedimenti relativi all’attuazione dei decreti di espulsione, quelli di allontanamento dal territorio nazionale e trattenimento negli appositi centri, di cittadini stranieri anche dell’Unione europea i cui al d.lgs. n. 286 del 1998.

Le materie che fin dall’adozione del decreto-legge in esame hanno suscitato maggiori dubbi, furono senz’altro quelle indicate sub ii).

Invero, tra le cause relative ad «alimenti o ad obbligazioni alimentari» derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità, a stretto rigore dovrebbero ritenersi incluse solo quelle di cui agli artt. 433 e 448-bis c.p.c., comprese le cause relative alla determinazione dell’assegno provvisorio ex art. 446 c.p.c.

Non sarebbero state sottratte al differimento, quindi, le udienze presidenziali di cui all’art. 708 c.p.c. e le cause di separazione e divorzio, anche in considerazione della mancanza di un richiamo alle cause di cui agli artt. 337-ter e 155 ss. c.c.1.

Tuttavia, occorre segnalare che la relazione illustrativa al decreto-legge in esame, affermava testualmente che la formula utilizzata nell’art. 83 ricalca quella di cui all’art. 1 del Reg. 4/1999/CE del Consiglio2, al dichiarato scopo di evitare interpretazioni riduttive: in questo modo restavano sottratte al differimento, tutte le cause nella quali è controverso un obbligo alimentare tra coniugi o conviventi o verso i figli, come quelle di cui ai citati artt. 337-ter e 155 c.c.

In definitiva, aderendo ad una interpretazione conforme alla relazione illustrativa, occorreva ricomprendere nelle materie sottratte tutte le cause -e non sono certo un numero trascurabile -di separazione o divorzio, nelle quali si controverte sull’assegno di mantenimento in favore dei figli, dove l’aspetto assistenziale è in re ipsa, ovvero anche sulle pretese economiche del solo coniuge o dell’ex coniuge, quando questo onere abbia profili esclusivamente alimentari.

Non va comunque trascurato che la S.C. ha sempre costantemente affermato che il carattere di eccezionalità della norma dettata dall’art. 3 della legge n. 742 del 1969, il quale ponendo una precisa deroga per i soli procedimenti indicati nell’art. 92 del r.d. n. 12 del 1941, al principio generale di sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale, comporta che non possa esserne estesa l’applicazione a tipologie di controversie diverse da quelle espressamente richiamate. Pertanto, la deroga alla predetta sospensione nel periodo che va oggi dal 1 al 31 agosto, prevista per le «cause civili relative ad alimenti», non si estende alle diverse controversie concernenti la misura dell’assegno di mantenimento in favore dei figli, in regime di separazione dei coniugi, nonché a quelle relative all’assegno divorzile1.

Peraltro, con l’inequivoco obiettivo di ridurre grandemente la portata della deroga al rinvio, in sede di conversione del d.l. n. 18, fu previsto che tutte le cause “alimentari” fossero sottratte al differimento «nei soli casi in cui vi sia pregiudizio per la tutela di bisogni essenziali»: in questo modo si ricondusse la trattazione dei ricorsi nella detta materia, esclusivamente a quelle situazioni in cui, in definitiva, erano in gioco “diritti primari” delle parti in lite, sempre che potessero subire un nocumento per effetto del differimento dell’udienza.

Con l’art. 3 del d.l. n. 28 del 2020, novellando l’art. 83 in commento, si precische anche i procedimenti celebrati innanzi al tribunale ordinario, che avessero per oggetto la «tutela dei minori» (si pensi alla cd. “volontaria giurisdizione” riferita a persone minori di età), erano sottratti al differimento, purché naturalmente incombesse un pregiudizio per i bisogni essenziali dei medesimi.

In occasione della conversione in legge del d.l. n. 18 del 2020, il Senato introdusse tra le materie sottratte al rinvio quella elettorale (sub x)1, prevedendo espressamente che le azioni popolari e in genere le controversie concernenti l’eleggibilità, la decadenza e l’incompatibilità dei candidati nelle elezioni comunali provinciali e regionali (art. 22 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150) e in quelle per il parlamento europeo (art. 23), nonché tutte le cause in tema di elettorato attivo (art. 24), non erano soggette al rinvio ex lege; la precisazione venne reputata certamente opportuna2, considerato che le cennate norme prevedono che le relative controversie, ancorchè non inserite tra quelle espressamente soggette alla sospensione feriale dei termini ai sensi della legge n. 742 del 1969, sono sempre trattate «in ogni grado in via di urgenza»3.

Come nell’art. 92 del r.d. n. 12 del 1941 e in tutte le altre norme che hanno previsto il rinvio delle udienze in occasione di eventi calamitosi, anche nell’art. 83, comma 3, lett. a) del d.l. n. 18 del 2020, fu introdotta una clausola di salvaguardia, che consentiva di integrare ope iudicis l’elenco delle cause sottratte, quando la «ritardata trattazione pu produrre grave pregiudizio alle parti» (sub xi).

Il procedimento per la dichiarazione d’urgenza su iniziativa del giudice, secondo il modello tradizionale, prevede un provvedimento del capo dell’ufficio giudiziario o dal suo delegato in calce alla citazione o al ricorso, con decreto non impugnabile e, per le cause già iniziate, un provvedimento del giudice istruttore o del presidente del collegio, egualmente non impugnabile.

2.3. (Segue). La sospensione dei termini processuali.

L’art. 83, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020 dispose poi che «dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 è sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali. Si intendono pertanto sospesi, per la stessa durata, i termini stabiliti per la fase delle indagini preliminari, per l’adozione di provvedimenti giudiziari e per il deposito della loro motivazione, per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi, per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali».

Come anticipato, con l’art. 36 del d.l. n. 23 del 2020, il termine finale venne “prorogato” al giorno 11 maggio 2020.

Mentre il soppresso art. 1, comma 2, del d.l. n. 11 del 2020, semplicemente enunciava che erano «sospesi i termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti indicati al comma 1»1 -utilizzando la medesima formula prevista dall’art. 1 della legge n. 742 del 1969 -il comma 2 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, precisin maniera opportuna che si intendevano sospesi tutti i termini:

i) per l’adozione di provvedimenti giudiziari e per il deposito della loro motivazione;

ii) per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi;

iii) per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali;

iv) compresi quelli c.d. “a ritroso”.

La sospensione dei termini operava poi per tutti gli atti processuali, compresi quelli necessari per avviare un giudizio di cognizione o esecutivo (atto di citazione o ricorso, ovvero atto di precetto), come per quelli di impugnazione (appello o ricorso per cassazione).

Venne così espressamente confermato l’orientamento della S.C., a tenore del quale la nozione di “termine processuale” secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, essendo espressione di un principio immanente nel nostro ordinamento, non può ritenersi limitata all’ambito del compimento degli atti successivi all’introduzione del processo, dovendo invece estendersi anche ai termini entro i quali lo stesso deve essere instaurato, purché la proposizione della domanda costituisca l’unico rimedio per la tutela del diritto che si assume leso1.

Opportunamente, il legislatore urgente del d.l. n. 18 del 2020 stabilì che del periodo compreso tra il giorno 9 marzo e il 30 giugno, non si tenesse conto ai fini dell’equa riparazione di cui all’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (la cd. “legge Pinto”), per tutti i procedimenti in cui vi fosse stato un rinvio dell’udienza già fissata. In precedenza, invece, il comma 5 dell’art. 2 del d.l. n. 11 del 2020, escludeva dal computo soltanto il periodo intercorso tra una udienza e l’altra, con un limite massimo di tre mesi da conteggiare a partire dal 31 maggio 2020.

Per completezza va ricordato che gli effetti sospensivi -dal 9 marzo fino al 11 maggio -valevano anche in relazione ai termini accordati per lo svolgimento di qualunque attività, sia nei procedimenti di mediazione previsti dal d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, che nei procedimenti di negoziazione assistita ai sensi del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, nonché in tutti i procedimenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie regolati dalle disposizioni vigenti.

Il comma 20 dell’art. 83 del decreto-legge in commento, come modificato in sede di conversione in legge, stabilì che la sospensione dei termini si producesse a condizione che «i predetti procedimenti siano stati introdotti o risultino già pendenti a far data dal 9 marzo fino al 15 aprile 2020».

Ora, considerato che le disposizioni dell’art. 36, comma 1, del d.l. n. 23 del 2020, che hanno prorogato al giorno 11 maggio il termine precedentemente fissato al 15 aprile, si applicano «in quanto compatibili» ai procedimenti di cui al comma 20, dovrebbe ritenersi che anche per le mediazioni la sospensione ex lege sia stata estesa a tutti i procedimenti comunque promossi fino al giorno 11 maggio 2020. Opportunamente, l’art. 3, comma 1, lett. h), del d.l. n. 28 del 2020, convertito dalla legge n. 70 del 2020, per fugare ogni residuo dubbio, ha espressamente disposto la sostituzione del termine del 15 aprile con quello del 11 maggio all’interno del detto comma.

Per i termini a ritroso, infine, il comma 2, seconda parte, dell’art. 83, in maniera sicuramente innovativa, stabilì che quando il detto termine ricadeva, in tutto o in parte nel periodo di sospensione, doveva essere differita l’udienza o l’attività da cui decorre il termine, in modo da consentirne il pieno rispetto.

Il termine cui ha riguardo il legislatore è dunque l’intero termine a difesa, calcolato a ritroso dalla data d’udienza, che deve tutto decorrere successivamente al venir meno della sospensione; se ci fosse stata anche sola una sua frazione che risultava essere decorsa nel periodo di sospensione, le udienze dovevano essere rinviate1.

La scelta del legislatore si è mostrata parzialmente diversa rispetto all’opzione ermeneutica fatta propria in passato dalla S.C., che, appunto in tema di sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale, aveva affermato che siffatta sospensione comporta semplicemente la sottrazione del medesimo periodo dal relativo computo2; come è stato osservato, peraltro, mentre nel caso di sospensione feriale le parti sanno già in anticipo il periodo in cui i termini saranno sospesi, nel caso della eccezionale sospensione dei termini intervenuta nel corso dell’anno 2020, i difensori si sono trovati di fronte ad una situazione del tutto imprevedibile3.

Resta infine da ribadire che la sospensione di tutti termini, siano essi processuali o sostanziali, non poteva essere invocata per tutte quelle controversie che rientravano nell’elencazione di cui si è trattato in precedenza, prevista dall’art. 83, comma 3, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020.

2.4. (Segue). Le altre misure processuali.

Nel corso della conversione in legge del d.l. n. 18, il Parlamento introdusse alcune norme sparse, tese ad assicurare la sospensione non di singoli termini processuali ma dell’esecuzione di taluni provvedimenti, ovvero addirittura di una intera procedura. Così l’art. 54-ter del d.l. n. 18 ha stabilito la sospensione di ogni «procedura esecutiva per il pignoramento immobiliare» sulla prima casa del debitore, a decorrere dal 30 aprile 2020 e per un intero semestre1.

Successivamente, l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 137 del 2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 176 del 2020, ha prorogato detto termine fino al 31 dicembre 2020, dichiarando altresì «inefficace» ogni procedura esecutiva promossa, nelle more dell’entrata in vigore della detta legge di conversione, sull’abitazione principale del debitore.

E ancora, l’art. 13, comma 14, del d.l. 31 dicembre 2020, n. 183, recante Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi, di realizzazione di collegamenti digitali, di esecuzione della decisione (UE, EURATOM) 2020/2053 del Consiglio, del 14 dicembre 2020, nonché in materia di recesso del Regno Unito dall’Unione europea, in corso di conversione, ha prorogato l’originario termine, previsto dall’art. 54-ter del d.l. n. 18, fino al 30 giugno 2021.

Già, a sua volta, l’originario art. 103, comma 6, del d.l. n. 18 del 2020, prevedeva la sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili anche ad uso non abitativo; il termine, fissato in origine nel testo del decreto-legge fino al 30 giugno 2020, è stato prolungato fino al 1 settembre 2020 in sede di conversione in legge e, poi, dall’art. 17-bis, comma 1, del d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020, fino al 31 dicembre 2020.

Di nuovo, il cennato d.l. n. 183 del 2020, attraverso il comma 13 dell’art. 13, ha prorogato detta sospensione dell’esecuzione fino al 30 giugno 2021, limitandola peraltro ai soli provvedimenti di rilascio spiccati per mancato pagamento del canone locativo e a quelli conseguenti al trasferimento -a seguito di vendita forzata -di immobili abitati dal debitore esecutato o da suoi familiari.

Infine, l’art. 117, comma 4, del d.l. n. 34 del 2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 77 del 2020, ha stabilito che nei confronti degli enti del Servizio sanitario nazionale «non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive», restando addirittura privi di effetti i pignoramenti effettuati prima della data di entrata del medesimo decreto-legge (19 maggio 2020); il descritto blocco delle azioni esecutive, inizialmente fissato fino al 31 dicembre 2020, risulta ora prorogato fino al 31 dicembre 2021 per effetto di quanto disposto dall’art. 3, comma 8, del d.l. n. 183 del 2020, ancora in corso di conversione.

Vanno poi segnalate ulteriori disposizioni intervenute, senza alcuna apparente sistematicità, su taluni termini processuali nell’ambito delle sole procedure concorsuali1.

Così, l’art. 9 del d.l. n. 23 del 2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 40 del 2020, ha stabilito che i termini per l’adempimento dei concordati preventivi e degli accordi di ristrutturazione già omologati, aventi scadenza nel periodo tra il 23 febbraio 2020 e il 31 dicembre 2021, sono prorogati di sei mesi. Per le procedure di concordato in cui è ancora pendente la fase di omologazione è prevista la concessione di ulteriori termini per proporre una nuova proposta ovvero anche soltanto per modificarla; eccezionalmente è altresì prevista la possibilità nella fase del concordato preventivo con riserva di ottenere un ulteriore termine di novanta giorni -oltre a quelli accordati dall’art. 161, comma sesto, l.fall. -per il deposito della proposta e del piano.

Inoltre, l’art. 10 del ridetto d.l. n. 23 del 2020 ha imposto tout court una dichiarazione di “improcedibilità” per le istanze di fallimento e per quelle tese alla dichiarazione dello stato di insolvenza delle società soggette a liquidazione coatta amministrativa, che siano state depositate nelle cancellerie dei tribunali italiani nel periodo compreso tra il 9 marzo e il 30 giugno 2020.

Restavano sottratte alla detta improcedibilità, come ha chiarito il comma 2 del detto art. 10, modificato in sede di conversione:

i) le istanze di fallimento presentate dall'imprenditore in proprio, quando l’insolvenza non è conseguenza dell'epidemia di covid-19;

ii) le istanze formulate da chiunque in pendenza di una procedura di concordato preventivo;

iii) le richieste presentate dal P.M., purché accompagnate dall’istanza di misure cautelari o in presenza dei presupposti (pendenza di un procedimento penale, ovvero fuga, irreperibilità o latitanza dell’imprenditore, chiusura dei locali, etc.) di cui all’art. 7, n. 1), l.fall.

2.5. (Segue). La sospensione dei termini sostanziali.

Quanto ai termini di natura sostanziale, va subito ricordato che il d.l. n. 9 del 2020, limitatamente a soggetti residenti negli undici comuni situati nella cd. “zona rossa”, stabilì che «il decorso dei termini perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, nonché dei termini per gli adempimenti contrattuali è sospeso dal 22 febbraio 2020 fino al 31 marzo 2020 e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione».

Al contrario, nulla sulla sospensione dei detti termini era scritto nell’ormai abrogato d.l. n. 11 del 2020.

L’art. 83, comma 8, del d.l. n. 18 del 2020, come novellato in maniera del tutto marginale in sede di conversione1, ha previsto invece espressamente che «per il periodo di efficacia dei provvedimenti di cui al comma 7 che precludano la presentazione della domanda giudiziale è sospesa la decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza dei diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti medesimi».

La norma in parola, tuttavia, non è affatto perspicua e si presta a qualche considerazione critica2.

Il riferimento testuale a “prescrizione e decadenza” richiama quei termini di natura extraprocessuale relativi all’instaurazione del processo, che non possono essere interrotti da una diffida o da altro atto stragiudiziale, ma richiedono necessariamente la proposizione della domanda giudiziale.

Si pensi, ad esempio, ai termini di decadenza previsti dall’art. 1137, comma secondo, c.c., e dall’art. 2377, comma sesto, c.c. per l’impugnazione delle deliberazioni assembleari condominiali e delle società per azioni, a quelli indicati dall’art. 2287, comma secondo, c.c. per l’opposizione all’esclusione del socio di società di persone, dall’art. 2479-ter, comma primo, c.c. per l’impugnazione delle decisioni dei soci di società a responsabilità limitata, dagli artt. 2503, comma secondo, e 2506-ter, comma quinto, c.c. per l’opposizione alla fusione e alla scissione da parte dei creditori, dall’art. 244, commi primo e secondo, c.c. per la proposizione dell’azione di disconoscimento di paternità, e dall’art. 6, della legge 15 luglio 1966, n. 604 per l’impugnazione dei licenziamenti individuali3; ovvero al termine di prescrizione dell’azione revocatoria che, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, può essere interrotto soltanto con la proposizione della domanda giudiziale1.

Invero, a differenza di quanto scritto nel d.l. n. 9 del 2020, il comma 8 dell’art. 83 non dispone seccamente la sospensione ex lege dei termini sostanziali comportanti “prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto”, come sarebbe stato logico, ma in maniera difficilmente comprensibile aggancia la sospensione dei ridetti termini a due condizioni: a) che siano stati adottati i provvedimenti organizzativi che spettano ai capi degli uffici (e solo durante il periodo di loro efficacia); b) che si tratti di diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento di attività processuali precluse.

Dunque, secondo questa interpretazione letterale, la prescrizione e la decadenza resterebbero sospese, dal 9 marzo fino al 30 giugno, solo a condizione che siano stati assunti provvedimenti organizzatori da parte dei capi degli uffici e per la durata dei detti provvedimenti.

Nei primi commenti è stata addirittura ipotizzato che, poiché l’art. 83, comma 2, del d.l. n. 18, nel disporre espressamente la sospensione dei soli termini “processuali” non richiama mai quelli “sostanziali”, di prescrizione e di decadenza, una siffatta sospensione potrebbe riguardare soltanto quei termini -appunto sostanziali -che decorrono tra il giorno 12 maggio e il 30 giugno del 20202.

Per la cd. “prima fase”, allora, si dovrebbe arrivare alla inevitabile conclusione che, in difetto di una espressa disposizione, i termini sostanziali di prescrizione e decadenza non risultano mai sospesi, anche perché né il decreto-legge in commento e neppure le altre misure aventi rango di legge adottate a causa dell’emergenza epidemiologica, precludono in maniera assoluta l’esercizio del diritto di agire in giudizio con la necessaria difesa tecnica3.

In particolare, si è evidenziato come, pure in costanza della sospensione processuale dei termini, rimane consentito alle parti impedire le decadenze ed interrompere le prescrizioni, perche dinanzi ai tribunali ed alle corti di appello la proposizione della domanda pucompiersi anche per via telematica -anzi, è obbligatorio il deposito telematico anche degli atti processuali introduttivi -, mentre davanti alla Corte di cassazione non è mai preclusa la proposizione del ricorso (e, dunque, l’esercizio del diritto di impugnazione), ma, eventualmente, solo il suo successivo deposito. La norma in esame, in sostanza, sarebbe sostanzialmente inutile, alla luce del dato fattuale che in nessun ufficio giudiziario italiano è stata disposta la serrata dei locali, rimanendo sempre comunque garantito il compimento degli atti urgenti1.

Siffatte conclusioni, tuttavia, non appaiono persuasive: anzitutto sul piano sistematico appare difficile immaginare come dotata della necessaria ragionevolezza, una disciplina che sospenda la decorrenza dei termini sostanziali soltanto nella cd. “seconda fase”, quando pacificamente i termini processuali non sono più sospesi, mentre farebbe addirittura decorrere tutti indiscriminatamente i termini sostanziali nella cd. “prima fase”, cioè durante la sospensione di tutti quelli processuali2.

Va soggiunto che non è esatto affermare che l’art. 83, comma 8, si riferisce espressamente soltanto alla cd. “seconda fase”, perché taluni tra i provvedimenti organizzativi previsti dal comma 7 dell’art. 83, cui rinvia la disposizione di cui si discute, possono essere assunti dai capi degli uffici, ai sensi del comma 5 dell’art. 83, anche «nel periodo di sospensione dei termini e limitatamente all’attività giudiziaria non sospesa».

È vero, poi, che nella cd. “prima fase” ai difensori delle parti non è stato precluso il compimento di quegli atti processuali che determinano l’interruzione della prescrizione ed evitano le decadenze, ma allora dovrebbe dubitarsi della stessa ragion d’essere di una disposizione (quella appunto contenuta nel comma 2 dell’art. 83), che invece sospende indiscriminatamente i termini per il compimento di tutti gli atti processuali di qualsivoglia natura, salve le eccezioni viste per le materie sottratte.

Neppure può essere trascurato del tutto il dato che emerge dalla relazione illustrativa, dove a proposito del secondo comma dell’art. 83, si legge che il legislatore urgente ha inteso espressamente dilatare gli effetti della disposta sospensione dei termini processuali «oltre i confini della “pendenza del procedimento” », al fine di «neutralizzare ogni effetto negativo che il massivo differimento delle attività processuali avrebbe potuto dispiegare sulla tutela dei diritti per effetto del sostanziale decorso dei termini processuali».

Pare allora più persuasivo sostenere che la sospensione dei termini sostanziali, di prescrizione e decadenza, deve restare ferma quando l’atto processuale sia comunque strumento indefettibile per evitare prescrizioni e decadenze nella fase di sospensione ex lege di tutti i termini processuali (quella che va dal 9 marzo al 11 maggio), perché a prescindere dalla astratta possibilità di compiere un atto processuale, quello che conta è che l’atto -per ragioni legate all’attuale emergenza epidemiologica -non è esigibile.

Mentre, a partire dal 12 maggio e fino al 30 giugno, la sospensione dei medesimi termini sostanziali potrà essere invocata, da chi ne abbia interesse, in presenza delle condizioni sopra esposte: vale a dire soltanto quando i capi degli uffici giudiziari abbiano assunto misure organizzative che precludano, appunto, il compimento di quegli atti che necessariamente occorre compiere per interrompere la prescrizione o la decadenza.

Si tratta naturalmente di una soluzione, quella sopra esposta, che presta il fianco a dubbi e incertezze, assai pericolosi in una materia come quella relativa a prescrizioni e decadenze.

Va soggiunto che il quadro normativo è vieppiù complicato dalla circostanza che, sia nel testo iniziale del d.l. n. 18 che in quello risultante all’esito del procedimento di conversione in legge, furono introdotte una serie di disposizioni che sospendono ad hoc i termini di prescrizione o decadenza, in relazione a talune fattispecie peculiari e per periodi neppure coincidenti con quelli fissati nell’art. 83.

Così l’art. 34 del d.l. n. 18 del 2020 ha sospeso, a decorrere dal 23 febbraio 2020 ma soltanto fino al primo giugno 2020, il decorso dei termini di decadenza e di prescrizione relativi alle prestazioni previdenziali, assistenziali e assicurative erogate dall’INPS e dall’INAIL; l’art. 42, per il medesimo periodo, ha sospeso il decorso dei termini di decadenza e prescrizione «relativi alle richieste di prestazioni erogate dall’INAIL».

E ancora, il comma 6-bis dell’art. 103 del d.l. n. 18 stabilì che il termine di prescrizione quinquennale per le sanzioni amministrative in materia di lavoro e della legislazione sociale, era da ritenersi sospeso dal 23 febbraio 2020 al 31 maggio 2020. Per il medesimo periodo venne sospeso anche il termine ex art. 14 della legge n. 689 del 1981 -che decorre dall’accertamento -, entro cui la violazione amministrativa deve essere notificata agli interessati (di novanta giorni per i residenti in Italia e di trecentosessanta giorni per quelli residenti all’estero).

Il comma 1 dell’art. 108 del d.l. n. 18 del 2020, poi, come modificato dall’art. 46, comma 1, lettera a), numeri 1), 2) e 3) del d.l. n. 34 del 2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 77 del 2020, fisstalune modalità di notifica degli atti giudiziari a mezzo posta nel periodo compreso tra il 17 marzo 2020 e fino al 31 luglio 2020, stabilendo in particolare che l’agente postale potesse omettere di raccogliere la firma del destinatario.

Il comma 1-bis del detto art. 108, inserito all’atto della conversione in legge, dispose, da un lato, che per le dette notifiche già eseguite, la cd. “compiuta giacenza” iniziava a decorrere soltanto a decorrere dal 30 aprile 2020 e, dall’altro, che «i termini sostanziali di decadenza e prescrizione di cui alle raccomandate con ricevuta di ritorno inviate nel periodo in esame sono sospesi sino alla cessazione dello stato di emergenza». Questa disposizione, peraltro, risulta integralmente abrogata dall’art. 46, comma 1, lettera b), del d.l. n. 34 del 2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 77 del 2020.

Infine, merita di essere ricordato che l’art. 11, comma 1, del d.l. n. 23 del 2020, come modificato in sede di conversione e successivamente sostituito dall’art. 76, comma 1, lettera a), del d.l. 14 agosto 2020, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126, ha sospeso i termini di scadenza, maturati durante il periodo che va dal 9 marzo al 31 agosto 2020, relativamente ai vaglia cambiari, alle cambiali, agli altri titoli di credito e, in genere, ad «ogni altro atto avente efficacia esecutiva», purché si sia trattato di titoli emessi prima del 9 aprile 2020, data di entrata in vigore del medesimo decreto-legge.

A sua volta, il comma 3 del ridetto art. 11, ha disposto che i protesti levati dal 9 marzo 2020 fino al 31 agosto 2020, non dovevano essere trasmessi dai pubblici ufficiali alle camere di commercio e, ove già pubblicati, queste ultime avrebbero dovuto provvedere d’ufficio alla loro cancellazione.

3. La cd. “seconda fase”. Le misure previste.

Soppresse quindi tutte le udienze civili nel periodo oggetto di sospensione ex lege, il legislatore ha poi immaginato una “seconda fase”, nella quale era consentita una attività processuale, purché si fosse tenuto conto delle due principali finalità esplicitate nel comma 6 dell’art. 83: «contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria», nonché «evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone»1.

Ai sensi del combinato disposto dell’art. 83, comma 2, del ridetto d.l. n. 18 e dell’art. 36, comma 1, del d.l. n. 23, la cd. “seconda fase” prese avvio dal giorno 12 maggio e si è protratta fino al 30 giugno 2020.

Come ricordato in precedenza, l’inedita scelta del legislatore urgente del 2020, sia nel soppresso d.l. n. 11 del 2020 che nel successivo d.l. n. 18 del 2020, è stata quella di affidare ai capi degli uffici giudiziari il compito di adottare una serie di misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, che risultavano di volta in volta ritenute più idonee ad affrontare i rischi derivanti dal contagio epidemiologico in atto.

In particolare, tutti i capi degli uffici giudiziari italiani sono stati chiamati ad adottare una o più tra le misure offerte nel tabloid governativo, dopo avere acquisito il parere dell’autorità sanitaria regionale - per il tramite del presidente della giunta della regione - e del consiglio dell’ordine degli avvocati competente per territorio, d’intesa con il presidente della corte d’appello e con il procuratore generale della Repubblica.

Per assicurare il raggiungimento delle finalità di cui al comma 6 dell’art. 83, a norma del successivo comma 7, i dirigenti degli uffici giudiziari potevano adottare le seguenti misure organizzative:

a) restrizioni degli accessi del pubblico;

b) limitazioni dell’orario di apertura degli uffici ovvero, in via residuale e solo per gli uffici che non erogano servizi urgenti, la chiusura al pubblico;

c) regolamentazione dell’accesso ai servizi, previa prenotazione, curando che gli utenti siano scaglionati con convocazioni per orari fissi;

d) adozione di linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze;

e) celebrazione delle udienze a porte chiuse, nei processi civili e penali;

f) trattazione da remoto delle udienze civili, quando non sia richiesta la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, anche se finalizzate all’assunzione di informazioni presso la pubblica amministrazione, mediante collegamenti telematici conformi ai provvedimenti adottati dalla D.G.S.I.A. (è la cd. “udienza telematica”);

g) rinvio a data successiva al 30 giugno 2020 delle udienze dei procedimenti civili e penali, con esclusione di quelle relative ai procedimenti di cui al comma 3 dell’art. 83;

h) celebrazione delle udienze che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, mediante scambio documentale e deposito del provvedimento fuori udienza (si tratta della cd. “udienza cartolare”);

h-bis) svolgimento dell’attività degli ausiliari del giudice con collegamenti da remoto, tali da salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti1.

Va soggiunto che nel medesimo art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, come successivamente interpolato, prima in sede di conversione in legge e poi con il d.l. n. 28 del 2020, il legislatore introdusse talune ulteriori misure processuali tese a favorire il distanziamento sociale e in particolare:

1) l’obbligatorietà del deposito telematico, nei soli uffici in cui era operante il processo civile telematico, anche degli atti introduttivi e dei provvedimenti giurisdizionali (art. 83, commi 11 e 11.1);

2) la possibilità, nei soli procedimenti civili pendenti innanzi alla Corte di cassazione, di depositare atti e i documenti di parte in modalità telematica, previo provvedimento del direttore generale della D.G.S.I.A. (art. 83, comma 11-bis);

3) la possibilità di tenere le camere di consiglio mediante collegamenti da remoto, individuati e regolati con provvedimento del direttore generale della D.G.S.I.A. (art. 83, comma 12-quinquies).

Proprio al fine di indirizzare i capi degli uffici giudiziari italiani, su come esercitare il potere previsto dai commi 5 e 6 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, con delibera del 26 marzo 2020, il Consiglio Superiore della Magistratura stabilì apposite “Linee guida agli Uffici Giudiziari in ordine all'emergenza COVID 19”.

Nelle dette linee guida il CSM segnalai capi degli uffici, almeno per il settore civile, l’opportunità di invitare i magistrati in servizio presso gli uffici giudiziari a:

i) disporre i rinvii delle udienze civili con provvedimenti telematici e non cartacei;

ii) rinviare le udienze già differite ex lege comunque a date successive al 30 giugno 2020, salvo comprovate ragioni di urgenza;

iii) emettere la “dichiarazione di urgenza”, in relazione ai procedimenti civili «la cui ritardata trattazione puprodurre grave pregiudizio alle parti», ex art. 83, comma 3, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020, tenendo conto della necessità di contemperare l’interesse delle parti, in relazione al pregiudizio specificamente rappresentato, e quello della salvaguardia del bene primario della salute pubblica;

iv) valutare, anche per i procedimenti indicati nell’art. 83, comma 3, lett. a), il rinvio dell’udienza ove, in presenza di diritti disponibili, siano le parti medesime a richiederlo;

v) incentivare il deposito in via telematica delle istanze che le parti intendano formulare, e, altresì, la trattazione in via telematica delle stesse da parte dei magistrati.

Il C.S.M., infine, sempre nelle ricordate linee guida, invitpoi direttamente i capi degli uffici a promuovere:

i) per le udienze civili che non possono essere differite, ai sensi dell’art. 83, comma 3, del d.l. n. 18 del 2020, lo svolgimento mediante collegamenti da remoto;

ii) per le altre udienze civili che non verranno differite, il ricorso alle modalità della trattazione scritta;

iii) la stipula di protocolli con i consigli dell’ordine degli avvocati locali, per individuare modalità condivise di partecipazione da remoto di tutti i soggetti del processo, ovvero modalità condivise della gestione dell’udienza a cd. “trattazione scritta”;

iv) lo svolgimento anche delle camere di consiglio, mediante collegamento dei giudici da remoto.

4. La cd. “terza fase”. L’art. 221 del d.l. n. 34 del 2020.

Come si è anticipato, a partire dal primo luglio 2020, nonostante il Governo non avesse ancora disposto la cessazione dello stato di emergenza, nella trattazione dei procedimenti civili davanti agli uffici giudiziari italiani hanno ripreso efficacia le norme processuali ordinarie, come in precedenza derogate dalle disposizioni contenute nel citato art. 83 del d.l. n. 18 del 2020.

E tuttavia, a partire dal 19 luglio 2020, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (avvenuta il giorno prima) dalla legge n. 77 del 2020, di conversione con modificazioni del d.l. n. 34 del 2020, sono entrate in vigore tutte le disposizioni contenute nell’art. 221 del detto decreto-legge, come introdotte appunto in sede di sua conversione, e, in particolare, quelle dettate dai nuovi commi da 3 a 10.

Più in dettaglio, la detta normativa, preso atto dell’intervenuta cessazione degli effetti delle disposizioni contenute nell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, ha disposto relativamente ai procedimenti civili:

i) l’obbligatorietà del deposito degli atti introduttivi con modalità telematiche

«Negli uffici che hanno la disponibilità del servizio di deposito telematico» (art. 221, comma 3).

Siamo di fronte ad una disposizione che di fatto proroga l’obbligatorietà già prevista dall’art. 83, comma 11, del d.l. n. 18 del 2020;

ii) la facoltà del giudice di stabilire che l’udienza, quando non sia prevista la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, sia sostituita dal «deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni» (art. 221, comma 4). Si tratta della medesima udienza “cartolare”, già disciplinata dall’art. 83, comma 7, lett. h), del d.l. n. 18 del 2020;

iii) la possibilità, nei soli procedimenti civili pendenti innanzi alla Corte di cassazione, che gli atti e i documenti dei difensori siano depositati in modalità telematica, previo provvedimento del direttore generale della D.G.S.I.A. (art. 221, comma 5). È la medesima disposizione già contenuta nell’art. 83, comma 11-bis, del d.l. n. 18 del 20201;

iv) la possibilità che «l’udienza civile che non richieda la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice», si svolga «mediante collegamenti audiovisivi a distanza individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia»2 (art. 221, commi 6 e 7). È la c.d. “udienza civile telematica”, già prevista dall’art. 83, comma 7, lett. f), del d.l. n. 18 del 2020;

v) la facoltà di sostituire il giuramento reso dal c.t.u. in apposita udienza, con «una dichiarazione sottoscritta con firma digitale da depositare nel fascicolo telematico» (art. 221, comma 8).

Quanto all’efficacia temporale delle descritte norme processuali, il comma 2 dell’art. 221 del d.l. n. 34 del 2020, ne fissava il termine ultimo «al 31 ottobre 2020»; successivamente l’art. 1, comma 3, lett. a) e lett. b), n. 7), del d.l. 7 ottobre 2020, n. 125 recante Misure urgenti connesse con la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19 e per la continuità operativa del sistema di allerta COVID, nonché per l’attuazione della direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020, convertito con modificazioni dalla legge 27 novembre 2020, n. 159, ha prorogato detto termine fino al 31 dicembre 2020, attraverso una singolare tecnica di novellazione, fondata sulla sostituzione nell’art. 1, comma 3, del d.l. 30 luglio 2020, n. 83, convertito con modificazioni, dalla legge 25 settembre 2020, n. 124, delle parole «15 ottobre 2020 » con le parole «31 dicembre 2020», nonché sulla modifica attraverso l’aggiunta del suo n. 33-bis (contenente il richiamo all’art. 221 in parola), dell’Allegato 1 del d.l. n. 83 del 2020, cui appunto rinvia il suo richiamato art. 1, comma 3.

Ma, come si dirà meglio nel proseguo della trattazione, anche il termine del 31 dicembre 2020 risulta attualmente superato.

5. La cd. “quarta fase”. L’art. 23 del d.l. n. 137 del 2020.

Con l’aggravarsi della pandemia, il Governo ha preso la decisione di intervenire nuovamente sui processi civili e penali, dettando ulteriori disposizioni, tese a richiamare in vita taluni istituti già sperimentati nelle prime due fasi dell’emergenza epidemiologica.

L’art. 23 del d.l. n. 137 del 2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 176 del 2020, da un lato, ha introdotto nuovi “istituti processuali” cercando di recuperare in buona misura l’esperienza positiva maturata con l’applicazione di quelli disciplinati dall’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020 e, tuttavia, ormai privati di ogni efficacia giuridica e, dall’altro, ha mantenuto fermi quelli già operativi e contenuti nell’art. 221 del d.l. n. 34 del 2020.

Per esaminare meglio le ricadute dell’art. 23 del d.l. n. 137 del 2020 sui procedimenti civili e penali, occorre considerare che, come ricorda la relazione di accompagnamento al decreto-legge, l’intervento in esame «non sostituisce, ma si coordina con quello previsto dall’articolo 221, comma 2, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34»; ciò significa che nel verificare in concreto l’impatto della normativa processuale da ultimo sopravvenuta, appare imprescindibile operare una valutazione “sincretica” delle discipline eccezionali contenute in entrambi i due decreti-legge, pure tenendo conto delle deroghe espresse e delle abrogazioni che il d.l. n. 137 apporta al d.l. n. 34.

Occorre poi tenere a mente che, nonostante l’art. 23 del d.l. n. 137 come già in precedenza l’art. 221 del d.l. n. 34, non prevedano più espressamente la facoltà per i dirigenti degli uffici giudiziari di adottare «linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze», come invece stabiliva l’art. 83, comma 7, lett. d), del d.l. n. 18 del 2020, il Consiglio Superiore della Magistratura ha ritenuto opportuno dettare tempestivamente nuove “linee guida agli uffici giudiziari”1, nelle quali -tra le altre raccomandazioni -si invitano i capi degli uffici giudiziari, nell’esercizio dei poteri organizzativi conferiti dalla legge, a sollecitare i magistrati ad un sempre maggiore ricorso alle udienze cartolari ovvero a quelle da remoto, nonché al deposito esclusivamente in via telematica di tutti gli atti processuali.

Passando all’esame delle singole misure contenute nell’art. 23 in commento, può ricordarsi che:

a) le udienze civili «alle quali è ammessa la presenza del pubblico possono celebrarsi a porte chiuse», ai sensi dell’art. 128 c.p.c. (art 23, comma 3). Si tratta della medesima disposizione contenuta nell’art. 83, comma 7, lett. e), del d.l. n. 18 del 2020;

b) nei procedimenti civili e penali le camere di consiglio possono essere tenute mediante collegamenti da remoto, individuati e regolati con provvedimento del direttore generale della D.G.S.I.A. (art. 23, comma 9)2. È la cd. “camera di consiglio telematica” già disciplinata dal precedente art. 83, comma 12-quinquies, del d.l. n. 18 del 2020;

c) le udienze dedicate alla comparizione dei coniugi in sede di separazione consensuale (art. 707 c.p.c.) o di divorzio congiunto (art. 4, comma 7, legge primo dicembre 1970, n. 898), possono essere espressamente celebrate con la modalità cd. “cartolare” prevista dall’art. 221, comma 4, del d.l. n. 34 del 2020 (art. 23, comma 6);

d) in deroga alla prescrizione contenuta nell’art. 221, comma 7, del d.l. n. 34 del 2007, il magistrato potrà partecipare alle c.d. “udienze civili telematiche” collegandosi anche da un luogo diverso dall’ufficio giudiziario (art. 23, comma 7)3;

e) anche per i ricorsi da trattare in udienza pubblica davanti alla Corte di cassazione si procede in camera di consiglio mediante udienza cd. “cartolare”, senza l’intervento del P.G. e dei difensori (art. 23, comma 8-bis);

f) la copia esecutiva delle sentenze e degli altri provvedimenti giurisdizionali, ex art. 475 c.p.c., può essere rilasciata dal cancelliere in forma di documento informatico, previa istanza telematica della parte a favore della quale fu pronunciato il provvedimento. La copia esecutiva dovrà essere sottoscritta digitalmente dal cancelliere, mentre il difensore potrà estrarre dal fascicolo informatico il duplicato e la copia analogica o informatica della copia esecutiva in forma di documento informatico (art. 23, comma 9-bis);

g) tutte le disposizioni processuali civili contenute nell’art. 23 del d.l. n. 137, come pure quelle elencate nell’art. 221 del d.l. n. 34, si applicano, in quanto compatibili, anche all’arbitrato rituale (art. 23, comma 10).

Infine, sull’efficacia temporale delle nuove disposizioni, va ricordato che esse trovano applicazione dalla data di entrata in vigore del decreto legge (29 ottobre 2020) e fino alla scadenza del termine dello stato di emergenza come indicato nell’art. 1, comma 1, del d.l. 25 marzo 2020, n. 19, recante Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35.

Siffatto termine -inizialmente fissato al 31 luglio 2020 -è stato prima modificato dal d.l. n. 83 del 2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 124 del 2020 (che lo prorogò al 15 ottobre 2020) e poi dall’art. 1, comma 1, lett. a), del d.l. n. 125 del 2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 159 del 2020 (che lo prorogò al 31 gennaio 2021); da ultimo, l’art. 1, comma 1, del d.l. 14 gennaio 2021, n. 2, recante Ulteriori disposizioni urgenti in materia di contenimento e prevenzione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 e di svolgimento delle elezioni per l’anno 2021, ancora in corso di conversione, ha prorogato il medesimo termine fino al «al 30 aprile 2021, termine dello stato di emergenza».

Ora, il comma 1 dell’art. 23 in esame, nel testo originario si preoccupava di precisare che «Resta ferma l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 221 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 ove non espressamente derogate dalle disposizioni del presente articolo».

Siffatta disposizione, già nei primissimi commenti ha suscitato il dubbio che il termine di efficacia delle misure contenute nell’art. 221 del d.l. n. 34 potesse essere stato “agganciato” a quello, più esteso, previsto dall’art. 23 del d.l. n. 137, valorizzando in sostanza -al di la del dato letterale che, invece, milita chiaramente per una efficacia temporale sfalsata -l’esigenza di applicare “in contemporanea” tutto il pacchetto delle disposizioni processuali finalizzate ad affrontare l’emergenza pandemica in atto1.

Assai opportunamente, in sede di conversione del d.l. n. 137, il comma 1 dell’art. 23 è stato novellato mediante un preciso rinvio all’efficacia temporale nelle misure contenute nel medesimo decreto («Resta ferma fino alla scadenza del medesimo termine l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 221»); inoltre, a scanso di ulteriori equivoci, il comma 10-bis del medesimo art. 23, introdotto sempre in sede di conversione, ha soppresso il numero 33-bis dell’allegato 1 al d.l. n. 83 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 124 del 2020, come in precedenza introdotto dal d.l. n. 125 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 159 del 2020.

6. L’udienza a porte chiuse.

Il comma 7, lett. e), dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, con riguardo alle sole udienze pubbliche civili, ha disposto che il capo dell’ufficio potesse stabilirne la celebrazione a porte chiuse, ai sensi dell’art. 128 c.p.c., norma quest’ultima che in effetti fa genericamente riferimento a ragioni di sicurezza, ordine pubblico e buon costume, tra le quali probabilmente possono farsi rientrare a buon diritto anche quelle sanitarie2.

Oggi l’art. 221, comma 3, del d.l. n. 34 del 2020, ribadisce la possibilità di celebrare le udienze a porte chiuse, ma la nuova disciplina -a differenza di quella contenuta nell’art. 83 del d.l. n. 18 -non individua il soggetto al quale compete il potere di disporre detta misura; deve allora concludersi che sarà «il giudice che la dirige», come si esprime l’art. 128 c.p.c., cioè il presidente del collegio, ovvero il giudice monocratico, a decidere discrezionalmente -e nell’immediatezza dell’inizio della sua celebrazione -se all’udienza debba o no essere ammesso il pubblico.

7. L’udienza telematica.

L’art. 83, comma 7, lett. f), del d.l. n. 18 del 2020, disposizione in gran parte ripresa dall’art. 223, commi 6 e 7, del d.l. n. 34 del 2020, è certamente la norma che ha suscitato più interesse nell’interprete.

Essa ha introdotto in via normativa, per la prima volta nel processo civile1, la facoltà di svolgere le udienze civili «che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori e dalle parti e dagli ausiliari del giudice», anche se finalizzate all’assunzione di informazioni presso la pubblica amministrazione, «mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia».

L’art. 3, comma 1, lett. c), del d.l. n. 28 del 2020, novellando direttamente l’art. 83, comma 7, lett. f), del d.l. n. 18, introdusse -inopinatamente -la previsione che «lo svolgimento dell’udienza deve in ogni caso avvenire con la presenza del giudice nell'ufficio giudiziario».

Questa disposizione, sulla cui ratio la relazione illustrativa al decreto-legge tace del tutto2, è stata oggetto di dure critiche nelle prime letture soprattutto a opera della c.d. “dottrina giudiziaria”3.

In particolare, alcuni autori1 hanno giudicato irragionevole una disciplina che, da un lato, impone la presenza fisica in ufficio del solo giudice ordinario civile -visto che la disposizione non si estende espressamente alle udienze telematiche nel settore penale -e, dall’altro, con riferimento all’udienza telematica che si celebra davanti al giudice amministrativo, stabilisce seccamente che «il luogo da cui si collegano i magistrati, gli avvocati e il personale addetto è considerato udienza a tutti gli effetti di legge»2, lasciando sostanzialmente a tutti i protagonisti del processo la libertà di scegliere il luogo da dove connettersi con la necessaria strumentazione digitale.

Sulla stessa direttrice, anche l’art. 221, comma 7, del d.l. n. 34 del 2020, continuava a prevedere che l’udienza telematica potesse essere celebrata sempre «con la presenza del giudice nell’ufficio giudiziario».

E sulla presenza necessaria del giudice nell’ufficio giudiziario, è stato pure chiamato a pronunciarsi il Giudice delle leggi, che ha però respinto tutte le censure con una dichiarazione di manifesta inammissibilità3.

A questo punto, nell’insoddisfazione generale, il legislatore urgente ha mostrato di volere ritornare su suoi passi; e con il d.l. n. 137 del 2020 ha stabilito, in deroga al detto comma 7 dell’art. 221, che il magistrato potrà partecipare alle udienze civili cd. “telematiche” collegandosi anche da un luogo diverso dall’ufficio giudiziario4.

A differenza del testo dell’art. 83, comma 7, lett. f) del d.l. n. 18, l’attuale disciplina dell’udienza telematica prevede che essa possa essere disposta sia su istanza di una parte che d’ufficio dal giudice; in quest’ultimo caso, tuttavia, sarà necessario acquisire -in via preventiva -il consenso di tutte le parti.

Inoltre, l’udienza a distanza potrà tenersi anche con la presenza di alcune soltanto delle parti del processo collegate da remoto, cosicché il giudice e le altre parti si ritroveranno in presenza nell’aula di udienza e, attraverso le necessarie apparecchiature informatiche, saranno soltanto taluni tra i difensori a partecipare da remoto.

Quanto alle modalità concrete di celebrazione dell’udienza a distanza, ammonisce il legislatore -direi senza che ve ne fosse davvero bisogno -, che la stessa deve comunque svolgersi con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti.

Prima dell’udienza il presidente del collegio ovvero il giudice istruttore, avrà cura di fare comunicare ai procuratori delle parti e al pubblico ministero, giorno, ora e modalità del collegamento con i mezzi informatici messi a disposizione dall’infrastruttura ministeriale1.

All’udienza telematica, poi, il presidente dovrà dare atto a verbale anche delle modalità prescelte per accertare l’identità dei difensori delle parti che sono collegati da remoto; considerato che i programmi ministeriali prevedono collegamenti audiovisivi, mediante invito a collegarsi tramite indirizzo e.mail, è plausibile ritenere che l’identificazione dei difensori potrà presumersi dalla corrispondenza dell’indirizzo di posta elettronica.

8. L’udienza cartolare.

Tra le altre misure organizzative affidate alla scelta del capo dell’ufficio, l’art. 83, comma 7, lett. h), del d.l. n. 18 del 2020, sciorinava le udienze svolte «mediante lo scambio e il deposito in telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni, e la successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice».

Ora, questa modalità di celebrazione delle udienze, riproposta oggi dall’art. 221, comma 4, del d.l. n. 137 del 2020, è stata subito battezzata nei primi commenti come la cd. “udienza cartolare”.

Essa sembrerebbe utilizzabile, anzitutto, nei soli processi in cui sia applicabile la disciplina sui depositi telematici degli atti processuali (il cd. PCT), come regolamentata attualmente dal d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, successivamente novellato dal d.m. 15 ottobre 2012, n. 209 e dal d.m. 3 aprile 2013, n. 48.

E tuttavia, una peculiare ipotesi di udienza cartolare è stata introdotta in sede di conversione del d.l. n. 137, con il comma 8-bis dell’art. 23, in relazione alle udienze pubbliche in Cassazione, dove pacificamente all’attualità non è ancora in funzione il deposito telematico degli atti processuale.

L’udienza cartolare, poi, non è utilizzabile quando sia prevista la presenza necessaria di soggetti «diversi dai difensori delle parti»; e però l’art. 23, comma 6, del d.l. n. 137 del 2020, consente oggi la cartolarizzazione, su richiesta concorde di tutte le parti, delle udienze destinate alla comparizione personale dei coniugi davanti al presidente del tribunale in sede di separazione consensuale e di divorzio congiunto. La rinuncia alla partecipazione, in questo caso, dovrà essere depositata almeno quindici giorni prima dell’udienza, accompagnata da una dichiarazione di essere a conoscenza delle norme processuali che prevedono la partecipazione all’udienza e di aver aderito liberamente alla possibilità di rinunciare alla partecipazione all’udienza, non avendo ovviamente in animo di conciliarsi.

Sono dunque escluse dalla trattazione “cartolare”, trattandosi di udienze in cui è necessaria la partecipazione personale della parte, quelle finalizzate all’esperimento dell’interrogatorio formale o del giuramento e, in linea generale, tutte le udienze istruttorie, comprese quelle dedicate all’escussione dei testimoni.

Non sembra, invece, che possa ragionevolmente costituire ostacolo alla celebrazioni di udienze “cartolari”, nelle cause in cui sia prevista la partecipazione necessaria del Pubblico Ministero, ovvero vi sia stato un suo intervento volontario, la circostanza che l’art. 221, comma 4, non menziona questa parte processuale -a differenza del comma 7 in relazione alle udienze da remoto -, in quanto non vi sarebbe alcuna plausibile ragione per differenziare il trattamento del P.M. rispetto a quello riservato alle altre parti e, peraltro, solo per questa forma di celebrazione delle udienze1. Del resto, la cartolarizzazione dell’udienza pubblica in Cassazione, rimuove oggi ogni dubbio sulla possibilità di utilizzare detta formalità nei procedimenti in cui è prevista appunto la presenza necessaria del P.M.

Le conclusioni finali delle parti dovranno compendiare -con auspicabile “sobrietà”1 -quella che sarebbe stata la discussione orale affidata al difensore; né le ridette conclusioni scritte potrebbero essere utilizzate come strumento per ottenere una indebita rimessione in termini della parte, la quale per sua colpa abbia fatto decorrere eventuali termini per il deposito di scritti difensivi. Insomma, non è possibile utilizzare l’udienza cartolare per depositare atti processuali come quelli previsti dall’art. 183, comma 6, c.p.c. o come le comparse conclusionali e le memorie di replica indicate dall’art. 190 c.p.c. ovvero ancora le “comparse e memorie” previste ed autorizzate dal giudice ai sensi dell’art. 170, comma 4, c.p.c.2

Mentre la norma sull’udienza cartolare contenuta nell’art. 83, comma 7, lett. h), del d.l. n. 18 del 2020, nulla precisava sui termini per depositare le istanze e conclusioni scritte, dovendosi quindi ritenere come termine ultimo la data e l’ora fissata per la celebrazione dell’udienza3, nel nuovo art. 221, comma 4, del d.l. n. 34 del 2020, è stabilito chiaramente che il giudice comunica la decisione di svolgere l’udienza cartolare alle parti almeno trenta giorni prima della data fissata per l’udienza e, altresì, deve assegnare alle parti un termine fino a cinque giorni prima della predetta data per il deposito delle note scritte.

In Corte di cassazione, invece, le conclusioni del P.G. sono trasmesse quindici giorni prima dell’udienza alla cancelleria a mezzo PEC e da quest’ultima -con lo stesso mezzo -comunicate ai difensori delle parti che, entro cinque giorni prima dell’udienza, possono depositare memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c. a mezzo PEC.

È chiaro poi che attraverso queste modalità l’udienza in concreto non viene celebrata; sembra escluso, dunque, che debba essere redatto il relativo verbale, ai sensi dell’art. 126 c.p.c., che com’è noto, presuppone la presenza fisica delle parti davanti ad un giudice in un’aula d’udienza e serve, appunto, a documentare esattamente quanto ivi accaduto1.

Quanto al mancato deposito delle note scritte entro il termine stabilito dal giudice, mentre nella vigenza dell’art. 83 del d.l. n. 18 era discussa l’applicabilità del combinato disposto degli artt. 181 e 309 c.p.c.2, nessun dubbio residua oggi con la nuova formula dell’art. 221, comma 4, laddove stabilisce seccamente l’applicabilità del primo comma dell’art. 181 c.p.c. nel caso di omesso deposito delle note da parte di tutte le parti.

Sulla possibilità di sostituire l’udienza pubblica con il descritto scambio “cartolare”, sono state sollevate dagli interpreti talune perplessità, avuto riguardo, per un verso, al venire meno della necessaria pubblicità dell’udienza e, per altro verso, alla inevitabile strozzatura che la discussione orale rischia di subire, una volta sostituita tout court da “istanze e conclusioni”.

Al riguardo, va segnalato un arresto del Consiglio di Stato, che -sia pure nel diverso regime dettato dall’art. 84, comma 5, del d.l. 18 del 20203 -ha dubitato della conformità a Costituzione di un “contraddittorio cartolare coatto”, cioè non frutto di una libera opzione difensiva, bensì imposto anche contro la volontà delle parti, che invece preferiscano differire la causa a data successiva al termine della fase emergenziale, configurandosi addirittura una deviazione irragionevole rispetto ai principi del giusto processo4.

Non va trascurato, poi, che per i giudizi innanzi alla Corte costituzionale, il Presidente della Consulta ha stabilito che durante l’emergenza epidemiologica le udienze pubbliche siano differita ad altra data, salvo che tutte le parti chiedano tramite una PEC -che la questione passi in decisione in camera di consiglio, rinunciando sostanzialmente alla discussione orale1.

Dunque, almeno con riferimento all’udienza pubblica di discussione della causa nel processo civile, anche alla luce della speciale disciplina introdotta per il rito emergenziale davanti al giudice amministrativo, merita sicura attenzione il suggerimento di chi ha evidenziato l’opportunità di assicurare sempre un previo confronto tra le parti e il giudice -sul modello previsto dagli artt. 190, comma secondo, 275, comma secondo e 352, comma secondo, c.p.c. -, per individuare quali siano le forme più adatte per celebrare il processo2.

E in proposito, a differenza che nel regime previgente, l’art. 221, comma 4, del d.l. n. 34, stabilisce oggi che ciascuna delle parti può presentare istanza di trattazione orale entro cinque giorni dalla comunicazione del provvedimento. Innanzi alla Corte di cassazione, poi, se una delle parti o il procuratore generale fa richiesta di discussione orale -mediante PEC da inviare almeno venticinque giorni liberi dell’udienza -il presidente del collegio dovrà senz’altro rinviare l’udienza.

Ora, è vero che la norma in esame si limita ad affermare che, se vi è richiesta di trattazione orale, il giudice «provvede entro i successivi cinque giorni», restando in dubbio se la decisione di fissare udienza nelle forme tradizionali sia necessitata o invece affidata ad una valutazione discrezionale del decidente.

Considerato tuttavia che la richiesta della parte non è subordinata a qualsivoglia presupposto e che nelle ipotesi di trattazione cartolare innanzi alla Corte di cassazione, come visto, è sempre necessario il consenso delle parti per la celebrazione dell’udienza nella forma solo documentale, sembra preferibile la tesi a tenore della quale il giudice sia sempre vincolato a fissare la trattazione in praesentia, se vi è richiesta di almeno una delle parti.

9. La camera di consiglio da remoto.

Le prime disposizioni emergenziali contenute nel soppresso d.l. n. 11 del 2020, nulla dicevano sulle modalità di partecipazione dei giudici alle udienze, siano esse pubbliche o in camera di consiglio, e neppure sulle forme di tenuta delle camere di consiglio nel processo civile.

Pure il testo originario del d.l. n. 18 del 2020 taceva sulle misure da adottare, per assicurare il distanziamento tra i giudici nelle camere di consiglio celebrate durante la fase emergenziale.

L’art. 84, comma 6, del ridetto d.l. n. 18 del 2020, invece, con disposizione inopinatamente riferita soltanto alla speciale disciplina dettata per i processi innanzi al giudice amministrativo, stabiliva che «Il giudice delibera in camera di consiglio, se necessario avvalendosi di collegamenti da remoto. Il luogo da cui si collegano i magistrati e il personale addetto è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge»; e siffatta norma, per l’espresso richiamo contenuto nell’art. 85 del citato decreto-legge, trovava applicazione anche nei giudizi che si celebravano davanti al giudice contabile.

Ora, nessuno può seriamente dubitare che una disposizione di tale tenore -priva peraltro di una precisa limitazione quanto alla sua efficacia temporale -, avrebbe dovuto trovare collocazione in una cornice normativa riferita a tutti i riti processuali, non rinvenendosi ragione di sorta per giustificare un collegamento da remoto dei componenti del collegio giudicante nell’ambito del processo amministrativo o contabile, con esclusione invece di quello civile, degli arbitrati rituali, nonché dei giudizi celebrati innanzi alle commissioni tributarie provinciali e regionali1.

Più ragionevole, a chi scrive, sembra la tesi secondo cui la norma in discussione già doveva ritenersi applicabile anche al processo civile, ricorrendo al canone della analogia legis, ovvero semplicemente quale espressione di un principio di libertà delle forme in tema di modalità di tenuta delle camere di consiglio2.

Del resto, il Consiglio Superiore della Magistratura, nell’adottare le richiamate “Linee guida agli Uffici Giudiziari in ordine all'emergenza COVID 19”, aveva espressamente invitato i capi degli uffici a consentire le camere di consiglio da remoto per i magistrati, mentre è utile ricordare che anche la Corte Costituzionale, con provvedimento del suo presidente, aveva disposto misure per lo svolgimento dei giudizi davanti alla Corte durante l’emergenza epidemiologica da covid-19, che prevedono chiaramente la partecipazione dei giudici alla camera di consiglio mediante collegamento da remoto1.

In ogni caso, a troncare ogni ulteriore discussione sul punto, intervenne la legge n. 27 del 2020, di conversione del d.l. n. 18 del 2020, che introdusse nell’art. 83 il comma 12-quinquies, a tenore del quale «dal 9 marzo 2020 al 30 giugno, nei procedimenti civili e penali non sospesi, le deliberazioni collegiali in camera dì consiglio possono essere assunte mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia»2.

Cessata l’efficacia dell’art. 83 del d.l. n. 18, nell’art. 221 del d.l. n. 34 del 2020, non ritroviamo alcuna disposizione riferita espressamente alle modalità di tenuta della camera di consiglio, mentre oggi l’art. 23, comma 9, del d.l. n. 137 del 2020, riproduce pressoché pedissequamente il testo del comma 12-quinquies dell’art. 83, consentendo così la tenuta delle camere di consiglio a distanza fino alla fine dello stato di emergenza.

Orbene, suscita anzitutto perplessità l’imposizione di una limitazione temporale a tale modus operandi -che non si rinviene per gli altri riti processuali -, come se la camera di consiglio telematica non potesse essere utilizzata, dai soli giudici ordinari, italiani dopo la fine dell’attuale situazione emergenziale.

Con riferimento, poi, ai procedimenti penali, sia l’art. 83, comma 12-quinquies del d.l. n. 18, che l’art. 23, comma 9, del d.l. n. 137, precisano che «dopo la deliberazione, il presidente del collegio o il componente del collegio da lui delegato sottoscrive il dispositivo della sentenza o l'ordinanza e il provvedimento è depositato in cancelleria ai fini dell'inserimento nel fascicolo il prima possibile e, in ogni caso, immediatamente dopo la cessazione dell’emergenza sanitaria».

Al riguardo, pure consapevoli della straordinarietà della disciplina in esame, non può che suscitare perplessità la prescrizione dell’onere di depositare in cancelleria i provvedimenti giudiziari con una tempistica inedita (“il prima possibile”), almeno per una norma di legge, che si presta a facili considerazioni critiche per l’estrema vaghezza del comando.

Come già stabilito a proposito della camera di consiglio dei giudici amministrativi, la norma in commento soggiunge che «Il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge»; ciò significa che nelle intenzioni del legislatore la camera di consiglio si estende, virtualmente, agli ambienti dove i singoli magistrati si trovano fisicamente in collegamento audio video, nei quali dunque ciascun componente del collegio dovrà assicurare che sia rispettata la fondamentale esigenza di segretezza, mentre il presidente dovrà continuare a svolgere i suoi compiti di “direzione”1 e di “sorveglianza” 2.

In proposito, nulla la norma in commento soggiunge sulle regole operative da applicare per assicurare che la camera di consiglio da remoto si svolga nel rispetto della cennata regola di segretezza; nel silenzio del legislatore civilistico, anche attingendo all’esperienza della camera di consiglio nei processi amministrativi che oggi risulta minuziosamente regolata3, deve ritenersi che il presidente del collegio debba assicurare che ciascun componente si trovi da solo nell’ambiente da cui si collega, che non sia avviata alcuna registrazione dei lavori e che non sia utilizzato il sistema di scambio di messaggistica istantanea; tutte soluzioni informatiche che, consentendo di formare una documentazione duratura delle attività svolte in seno alla camera di consiglio, devono evidentemente ritenersi non utilizzabili al fine di preservare la segretezza dei lavori.

In ogni caso occorre tenere a mente che per assicurare la massima riservatezza delle comunicazioni tra i componenti della camera di consiglio, l’art. 9 del provvedimento del direttore generale della D.G.S.I.A. del 2 novembre 2020, nell’individuare gli strumenti di partecipazione a distanza per lo svolgimento delle udienze civili e penali e degli atti di indagini preliminari, stabilisce che gli applicativi ministeriali utilizzati per la camera di consiglio da remoto (si tratta dei noti applicativi “Microsoft Teams”e “Microsoft Skype for Business”), utilizzano esclusivamente canali di collegamento criptati, elencando poi in dettaglio gli unici dati tecnici che sono oggetto di conservazione («orario di inizio e fine sessione, identificativo utente, durata, sistema operativo del dispositivo utilizzato, indirizzo IP, nome dispositivo e CPU»); tutte informazioni, all’evidenza, tali da non pregiudicare la segretezza delle conversazioni tra i componenti della camera di consiglio.

10. I depositi telematici degli atti processuali.

Per evitare assembramenti degli avvocati italiani nelle cancellerie degli uffici giudiziari, prima l’art. 2, comma 6, del soppresso d.l. n. 11 del 2020 e poi anche l’art. 83, comma 11, del d.l. n. 18 del 2020, come novellato dall’art. 36 del d.l. n. 23 del 2020, stabilirono che dal 9 marzo 2020 e fino al 30 giugno 2020, negli uffici che avevano la disponibilità del «servizio di deposito telematico», anche «gli atti e documenti di cui all’art. 16-bis, comma 1-bis, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179», convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, fossero depositati esclusivamente con le modalità della trasmissione telematica.

Orbene, gli atti e i documenti di cui al comma 1-bis sono individuati per esclusione, trattandosi di «ogni atto diverso da quelli previsti dal comma 1 e dei documenti che si offrono in comunicazione»; vi rientrano quindi gli atti cd. “introduttivi” del giudizio (atto di citazione, ricorso o comparsa di costituzione), per la decisiva considerazione che quelli previsti dal comma 1 dell’art. 16-bis, sono appunto soltanto gli atti cd. “endoprocedimentali”, cioè tutti quelli depositati dai «difensori delle parti precedentemente costituite».

In sostanza, il legislatore urgente del 2020 ha imposto l’obbligatorietà del deposito telematico di tutti gli atti processuali di parte, nei giudizi civili che si celebrano in tutti i tribunali e in tutte le corti d’appello italiane, dove ai sensi dell’art. 16-bis, commi 1 e 1-bis, del ridetto d.l. n. 179 del 2012, come novellato dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, d.l. n. 179 del 2012, già il deposito telematico degli atti c.d. “endoprocedimentali” è ormai da tempo obbligatorio.

Inoltre, in sede di conversione del d.l. n. 18, è stato introdotto il comma 11.1. dell’art. 83 che ha imposto dal 9 marzo 2020 e fino al 31 luglio 2020, nei procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione «pendenti innanzi al tribunale e alla corte di appello», il deposito degli atti del magistrato esclusivamente con modalità telematiche.

Soltanto la disposizione contenuta nel comma 11 dell’art. 83 del d.l. n. 18, è stata riconfermata dall’art. 221, comma 3, del d.l. n. 34 del 2020; in forza della proroga disposta prima con la conversione del d.l. n. 137 del 2020 e oggi dal d.l. n. 2 del 2021, il deposito telematico di tutti gli atti di parte (sia introduttivi che endoprocedimentali) è ancora oggi obbligatorio fino alla fine dello stato di emergenza, vale a dire -attualmente -fino al 30 aprile 2021.

A chiusura del sistema, l’art. 221, comma 3, ricorda che quando i sistemi informatici del dominio giustizia non sono funzionanti e «sussiste un’indifferibile urgenza, il capo dell’ufficio autorizza il deposito con modalità non telematica»; si tratta della medesima disposizione già prevista dal comma 4 dell’art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012, riferita però al solo procedimento monitorio1.

Tutte le disposizioni in commento, tuttavia, ad oggi non possono ancora applicarsi agli atti processuali da depositare innanzi a quegli uffici giudiziari -la Corte di cassazione e il Giudice di pace -, dove non vi è attualmente la possibilità di alcun deposito telematico degli atti di parte, neppure cioè di quelli c.d. “endoprocedimentali”.

Al riguardo, va ricordato che con la legge n. 27 del 2020, di conversione del d.l. n. 18 del 2020, venne introdotto il comma 11-bis dell’art. 83; detta norma, ancora una volta con efficacia temporale singolarmente limitata solo fino al 30 giugno 2020, stabilì che innanzi alla Corte di cassazione il deposito degli atti e dei documenti da parte degli avvocati «può avvenire in modalità telematica nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. L’attivazione del servizio è preceduta da un provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia che accerta l’installazione e l’idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici»2.

Successivamente, il comma 5 dell’art. 221 del d.l. n. 34 del 2020, ha reintrodotto la medesima disposizione, con efficacia temporale estesa prima fino al 31 gennaio 2021 e attualmente -in forza del d.l. n. 2 del 2021 -fino al 30 aprile 2021.

Dunque, almeno fino alla predetta data, apparentemente, sembra derogata la procedura prevista dall’art. 16-bis, comma 6, del d.l. n. 179 del 2012, come novellato dal d.l. n. 90 del 2014, che ancora oggi dispone che negli uffici giudiziari diversi dai tribunali e dalle corti d’appello -compresa quindi la Corte di cassazione -, il deposito degli atti “endoprocedimentali” in modalità telematica diviene obbligatorio soltanto a«decorrere dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana dei decreti, aventi natura non regolamentare, con i quali il Ministro della giustizia, previa verifica, accerta la funzionalità dei servizi di comunicazione».

In realtà, il comma 5 dell’art. 221, come in precedenza il comma 11-bis dell’art. 83, sono norme sostanzialmente inutili, perché già oggi l’art. 35 del d.m. 18 febbraio 2011, n. 44-Regolamento concernente le regole tecniche per l'adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, come novellato dall’art. 7, comma 1, del d.m. 15 ottobre 2012, n. 209, stabilisce che «L'attivazione della trasmissione dei documenti informatici è preceduta da un decreto dirigenziale che accerta l'installazione e l'idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici da parte dei soggetti abilitati esterni nel singolo ufficio».

È vero che ai sensi del cennato comma 1-bis dell’art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012, come inserito dal d.l. 27 giugno 2015 n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2015, n. 132, nei tribunali e nelle corti d’appello, il deposito degli atti introduttivi, prima dell’attuale emergenza epidemiologica, era ammesso -in via facoltativa e non obbligatoria -senza necessità di alcun provvedimento del dirigente della D.G.S.I.A.; ma la disposizione in parola trova una chiara giustificazione nell’obbligatorietà -anch’essa ormai dettata dalla legge -del deposito di tutti gli atti endoprocedimentali: in altre parole, se per legge è obbligatorio il deposito telematico degli atti successivi alla costituzione in giudizio, non occorre certo un provvedimento ministeriale per rendere facoltativo il deposito di quelli introduttivi, perché è già stata aliunde accertata “l’idoneità delle attrezzature informatiche e la funzionalità dei servizi”: insomma, come si sul dire, l’infrastruttura “regge” di default.

In Cassazione, allora, dov’è non c’è alcuna obbligatorietà della trasmissione in modalità telematica, né per gli atti “introduttivi” né per quelli “endoprocedimentali”, deve ritenersi che il deposito facoltativo degli atti di parte, quale che ne sia la loro natura, dipenda ancora oggi dal provvedimento del direttore generale della D.G.S.I.A., mentre per rendere il deposito obbligatorio (e peraltro, una volta cessato lo stato di emergenza, solo quelli “endoprocedimentali”), occorrerà pur sempre un decreto del Ministro della Giustizia, sentiti l’Avvocatura generale dello Stato, il Consiglio nazionale forense ed i consigli dell’ordine degli avvocati interessati ai sensi del ridetto art. 16-bis, comma 6, del d.l. n. 179 del 2012.

11. La mediazione a distanza.

Come ricordato in precedenza, gli effetti sospensivi durante la cd. “prima fase” furono estesi dal comma 20 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020 anche in relazione ai termini accordati per lo svolgimento di qualunque attività, sia nei procedimenti di mediazione previsti dal d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, che in quelli di negoziazione assistita ai sensi del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, nonché in tutti i procedimenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie regolati dalle disposizioni vigenti.

In sede di conversione in legge del detto decreto-legge, poi, è stato introdotto il comma 20-bis dell’art. 83, che ha consentito comunque lo svolgimento degli incontri di mediazione, per tutto il periodo che va dal 9 marzo al 30 giugno 2020, a condizione che detti incontri fossero stati fissati in via telematica e con il preventivo consenso di tutte le parti coinvolte nel procedimento.

Con disposizione destinata a restare sempre utilizzabile a regime, poi, sempre il comma 20-bis dell’art. 83, ha stabilito che dopo il 30 giugno 2020, gli incontri potranno essere svolti in via telematica, purché sussista il preventivo consenso di tutte le parti coinvolte nel procedimento, ai sensi dell’articolo 3, comma 4, del d.lgs. n. 28 del 2010.

Inoltre, quando la mediazione viene svolta con modalità telematica, il difensore della parte potrà dichiarare l’autografia della sottoscrizione del proprio cliente -che sia collegato da remoto -apposta in calce al verbale ed all’accordo di conciliazione. In questo modo viene riconosciuta all’avvocato un potere di “autentica” della firma apposta al proprio assistito sul processo verbale, che di norma, ai sensi dell’art. 11, comma 3, del d.lgs. n. 28 del 2010, spetta invece esclusivamente al mediatore.

Il verbale relativo al procedimento di mediazione svoltosi in modalità telematica, infine, deve essere sottoscritto, sia dal mediatore che dagli avvocati delle parti, esclusivamente con firma digitale.

12. La nuova procura speciale.

In sede di conversione del d.l. n. 18 del 2020, su iniziativa parlamentare è stato introdotto il comma 20-ter dell’art. 83, che introduce una nuova forma di rilascio della procura alle liti.

È noto che ai sensi dell’art. 83, comma secondo, c.p.c., come novellato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, quando la procura speciale sia stata rilasciata su supporto cartaceo, il difensore che si costituisce telematicamente, trasmette all’ufficio giudiziario «una copia informatica autenticata con firma digitale».

Secondo la norma in commento, invece, a causa dell’emergenza epidemiologica in atto, a partire dal 29 aprile 2020 (data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 18 del 2020), la sottoscrizione della procura alle liti evidentemente solo di quella speciale -potrà essere apposta dalla parte «anche su un documento analogico trasmesso al difensore, anche in copia informatica per immagine, unitamente a copia di un documento di identità in corso di validità, anche a mezzo di strumenti di comunicazione elettronica». Quindi è sufficiente che la parte sottoscriva la procura, fotografi il documento cartaceo e lo trasmetta per posta elettronica ordinaria al suo difensore, così rispettando in pieno le regole sul distanziamento sociale.

L’aspetto davvero singolare della disciplina in esame è che, anche in questo caso, come nell’ipotesi ordinaria disciplinata dall’art. 83 c.p.c., il difensore «certifica l'autografia mediante la sola apposizione della propria firma digitale sulla copia informatica della procura». Dunque, pure avendo la parte trasmesso al proprio difensore una fotografia dell’originale, sulla quale ha apposto la propria firma -evidentemente non certo alla presenza del difensore -, quest’ultimo dovrà certificarne la provenienza dalla persona che ha trasmesso via e.mail la copia informatica, unitamente al proprio documento di identità.

Riproducendo esattamente il testo dell’art. 83, secondo comma, c.p.c., anche il comma 20-ter dell’art. 83 del d.l. n. 18, chiarisce che la procura si considera apposta in calce, soltanto se è congiunta all’atto cui si riferisce mediante gli strumenti informatici individuati con decreto del Ministero della giustizia1.

Infine, va ricordato che questo speciale regime di certificazione affidata alla fotografia della sottoscrizione trasmessa dalla parte, è destinato a durare «fino alla cessazione delle misure di distanziamento previste dalla legislazione emergenziale in materia di prevenzione del contagio da COVID-19»; e non v’è chi non veda come si tratti di un dies ad quem di incerta collocazione.

Se si ritiene che la cessazione delle misure di distanziamento coincida con la cessazione dello stato di emergenza, id est con la scadenza del termine di cui all’art. 1, comma 1, del d.l. n. 19 del 2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 35 del 2020, allora può plausibilmente affermarsi che detta disciplina speciale -allo stato -troverà applicazione almeno fino al 30 aprile 2021, termine appunto dello stato di emergenza nazionale.

SEZIONE II DIRITTI DELLA PERSONA

  • libertà di religione
  • Stato laico
  • laicità

II)

IL PRINCIPO DI LAICITÀ DELLO STATO E LA LIBERTÀ DI RELIGIONE NELLA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE, EUROPEA E DI LEGITTIMITÀ: IL DIRITTO VIVENTE AL PASSO DEI TEMPI.

(di Milena d’Oriano )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il principio di laicità dello Stato e la libertà di religione. - 2.1 L’evoluzione storica: dalle origini all’avvento della Costituzione. - 3 Genesi ed evoluzione del principio nella giurisprudenza costituzionale. - 4 Laicità e libertà di religione in Europa. - 4.1 La giurisprudenza delle Corti europee. - 4.1.1 La giurisprudenza della Corte EDU. - 4.1.2 La giurisprudenza della Corte di Giustizia UE. - 5 Il principio di laicità nella giurisprudenza di legittimità. - 6 Conclusioni.

1. Premessa.

Il tema della religione impatta quotidianamente temi controversi, cruciali per le coscienze religiosamente orientate ma analogamente per quelle che rifuggono ogni fede invocando le sole regole della propria coscienza.

Religione e coscienza orientano le scelte sulle questioni bioetiche in senso stretto, ove il bios è la vita che nasce, finisce e nelle more può essere migliorata, manipolata o curata, sulle questioni relative all’estensione di diritti civili del singolo, in coppia o in comunità, sulle questioni legate alla regolazione della convivenza multiculturale, segnata da gravi discriminazioni e violazioni di diritti fondamentali.

Il fenomeno religioso ha sempre avuto una forte influenza nella società anche perché, per propria natura, si esprime attraverso la costituzione di organizzazioni confessionali che operano all’interno dell’ordinamento giuridico.

La tensione che inevitabilmente ne deriva è stata affrontata con soluzioni molto diverse, che spaziano dal modello del mondo antico, che si realizzava con la identificazione fra potere religioso e potere civile, a quello dello Stato moderno, fondato sul principio della distinzione fra sfera religiosa e sfera civile, dotate ciascuna di una propria autonomia e di un proprio intrinseco valore.

Il principio di laicità lambisce e si interseca con altre libertà, principi e diritti fondamentali, ormai riconosciuti in tutte le moderne democrazie, come la libertà di religione, la libertà di manifestazione del pensiero, il principio di uguaglianza e di dignità, il principio di solidarietà.

Costituisce pensiero condiviso che uno Stato democratico, per definirsi tale, debba riservare a tutti gli individui lo stesso trattamento, non solo in merito alla fede professata, ma anche in relazione ad ogni altra esplicazione della sua personalità; rilevante poi il nesso tra la laicità e l’identità, intesa nel senso di radici comuni, di un popolo che si fa Nazione.

2. Il principio di laicità dello Stato e la libertà di religione.

Lo Stato laico è uno dei profili imprescindibili della forma dello Stato democratico-costituzionale ed il contenuto e la funzione del principio supremo di laicità hanno un inscindibile legame con l’eguaglianza e le libertà.

La separazione tra le organizzazioni confessionali e le istituzioni civili costituisce l’essenza del principio di laicità dello Stato che attribuisce a quest’ultimo il compito di governare gli individui senza alcun vincolo che possa derivare da un ideale religioso.

A tale limitazione negativa si aggiunge una declinazione positiva del principio, secondo cui lo Stato, che è libero da coinvolgimenti di tipo confessionale o religioso, e quindi laico, accorda uguale libertà davanti alla legge a tutte le confessioni religiose che restano in una posizione di equidistanza rispetto ad esso; lo Stato riconosce tutti i consociati come uguali, indipendentemente dal loro identificarsi o meno in una religione, fede o confessione, tutelando anche il diritto di non avere una fede, al pari di quello di sceglierne una liberamente.

Dovendosi distinguere la sfera privata dalla sfera pubblica, come in passato evidenziato da Sez. U, n. 05924/2011, Segreto, Rv. 616554-01, il principio di laicità è compatibile sia con un modello di equiparazione verso l'alto (laicità per addizione), che consente ad ogni soggetto di vedere rappresentati nei luoghi pubblici i simboli della propria religione, sia con un modello di equiparazione verso il basso (laicità per sottrazione) che impone l’assenza di ogni connotazione religiosa negli ambiti istituzionali.

Ognuna delle due opzioni presuppone che siano valutati una pluralità di profili, primi tra tutti la praticabilità concreta di un bilanciamento tra l'esercizio della libertà religiosa con l'analogo esercizio della libertà religiosa negativa da parte dell'ateo o del non credente, nonché tra la garanzia del pluralismo e possibili conflitti tra una pluralità di identità religiose tra loro incompatibili; valutazioni delicate che richiederebbero un intervento legislativo da sempre mancante.

Premessa la difficoltà di individuare una nozione univoca di Stato laico, i suoi caratteri essenziali si potrebbero riconoscere nell'autonomia e nell'indipendenza dell'autorità civile (stato-potere) rispetto all'autorità religiosa, nella aconfessionalità e neutralità dell'ordinamento (stato-istituzione) in materia religiosa e filosofica, nella temporalità, intesa come competenza della comunità statale (stato-comunità) a proporre ai suoi componenti solo i valori sociali attinenti alla condizione terrena e non trascendente dell'individuo.

La laicità, nel senso più tradizionale, è stata definita sia come separazione tra ordine civile e ordine religioso e come “indipendenza di giurisdizione tra chiesa e stato” fondata sull’autonomia reciproca e sulla neutralità (sul piano delle opzioni spirituali) delle istituzioni pubbliche, sia come principio regolatore dei rapporti tra società politica e sfera religiosa, improntato ad una dissociazione tra cittadinanza e appartenenza religiosa, che ha la precisa funzione di tutelare la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, i quali in nessun modo possono subire discriminazioni o acquisire privilegi sulla base della loro appartenenza confessionale.

Coniugando libertà ed eguaglianza si evince che la costruzione dei rapporti tra Stato e fattore religioso non ha nulla di astratto, ma è destinata a conformare in concreto i rapporti sociali fondati sul libero esercizio da parte dei singoli della loro libertà di coscienza, in un contesto di eguale rispetto di ogni scelta individuale.

È innegabile che nella situazione italiana sussista una criticità, immutata negli anni, imputabile al ruolo centrale che il cattolicesimo come religione, e la Chiesa cattolica come sua espressione istituzionale, rivestono nel nostro Stato apparato-comunità.

Da tempo ci si domanda se l'enorme spazio concesso ai riti, al culto ed ai pensieri cattolici nella vita civile, sia e resti pienamente giustificato dal fatto che quella cattolica costituisca la religione praticata dalla maggioranza dei cittadini italiani, sino al punto da poter affermare che i principi del cattolicesimo fanno ormai parte del patrimonio storico e culturale del popolo italiano, o se in una moderna democrazia liberale europea sia difficile mantenere uno stato di fatto che determina condizioni di deviazione dal principio di laicità e rischia di ostacolare la realizzazione di una libertà fondamentale di ogni individuo, quale è senza dubbio la libertà di religione.

La risposta non può che essere rinvenuta nel modello di Stato delineato dalla Costituzione, secondo l’interpretazione offerta dalla Corte costituzionale, i cui punti di forza vanno individuati nella capacità di contemperare il superamento del passato confessionismo con il riconoscimento della rilevanza sociale del fenomeno religioso, nell’affermazione del principio di uguaglianza coniugato con la tutela della differenza, nella promozione della libertà religiosa in un regime di pluralismo.

2.1. L’evoluzione storica: dalle origini all’avvento della Costituzione.

Nel mondo occidentale la separazione tra Stato e religione non è mai stata netta; di fatto l’evoluzione del principio di laicità è avvenuta secondo modalità diverse nei vari Stati, ciascuno dei quali ne ha dato un inquadramento ed una interpretazione diversa.

Oltreoceano il modello di laicità si afferma più agevolmente, in un contesto che nasce di per sé pluriconfessionale; in Europa il principio sorge contestualmente alla nascita e alla teorizzazione delle nuove categorie etiche e politiche dell’Illuminismo, in contrapposizione con il sistema di Ancien Règime, ove aveva conosciuto il suo apice l'alleanza tra potere religioso e potere politico dello Stato.

La Rivoluzione francese getta le basi concettuali di una nuova società politica fondata sui principi della rappresentanza elettiva e del primato della legge, come espressione della volontà generale, conferendo a questi istituti un tale carattere di assolutezza che l’uomo in sé perde ogni considerazione ed al suo posto si afferma il cittadino, non più suddito dell’autorità sovrana ma partecipe della sua volontà che si esprime attraverso la legge, da cui dipende ogni suo diritto e libertà.

In Francia la “laicità”, inserita come caratteristica della forma di Stato dalla Costituzione della IV e poi della V Repubblica (1946 e 1958), costituisce un concetto operativo, distinto dalla libertà religiosa e di coscienza, nato all’esito di politiche volte innanzitutto a sottrarre alla Chiesa il pervasivo controllo sulla società che le forze conservatrici e della reazione le avevano attribuito fino all’avvento della III Repubblica nel 1870; esso fissa per lo Stato un obbligo di neutralità, espungendo qualsiasi politica pubblica su temi “religiosamente sensibili” che possa incidere sulla libertà di coscienza individuale e sulla parità tra i culti e i loro membri.”

Al contrario l'Italia nasce di fatto come Stato confessionale: lo Statuto Albertino, divenuto nel 1861 la Carta fondamentale dell'Italia unita, dichiarava la religione cattolica "religione di Stato" (art. 1), lasciando alle altre solo un regime di tolleranza.

Mentre nel periodo del Risorgimento l'atteggiamento dello Stato italiano nei confronti della Chiesa cattolica assume i caratteri tipici di uno stato agnostico, dopo la prima guerra mondiale, con l'avvento del regime totalitario fascista si realizza una inversione di tendenza con la ''riconfessionalizzazione'', consacrata nel 1929 dai Patti Lateranensi, e quindi dal Concordato.

Con la transizione alla democrazia parlamentare il principio di laicità non è però proclamato nella Costituzione quale elemento fondante della Repubblica italiana.

In un’ottica compromissoria la questione religiosa è regolata dagli artt. 3, 7, 8, 19, 20, che rispettivamente esprimono:

• il principio della non discriminazione per la dimensione religiosa (art. 3 Cost.);

• il principio di uguale libertà tra le confessioni religiose (art. 8 Cost.);

• la libertà di culto (art. 19 Cost.);

• il principio di autonomia delle confessioni religiose (artt. 8 e 20 Cost.);

• il metodo pattizio come strumento per regolare i rapporti fra Stato e Chiese (artt. 7 e 8 Cost.).

Interessano indirettamente la libertà religiosa l’art. 2, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (fra cui rientra quindi la libertà religiosa e di credo) e gli artt. 17, 18 e 21 che garantiscono la libertà di espressione, di assemblea e di riunione e di organizzare associazioni religiose.

Infine una disposizione di rilievo è contenuta nell’art. 117, comma 2, lett. c), che riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la materia dei rapporti con le confessioni religiose.

Dopo decenni caratterizzati da incisivi interventi legislativi che coinvolgono istituti giuridici influenzati dalla sensibilità religiosa, si pensi alla riforma del diritto di famiglia del 1975, alle leggi sul divorzio e sull'aborto, gli "accordi di Villa Madama" del 1984 revisionano il Concordato del 1929.

Il principio di laicità emerge in Italia per la prima volta per via giurisprudenziale; la Corte costituzionale, attraverso la sentenza n. 203 del 12 aprile 1989, supplisce al citato silenzio della Costituzione e lo deduce dal sistema di democrazia pluralista previsto dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Carta stessa.

In Italia una legge sulla laicità dello Stato e sulla libertà di religione, che fornisca una base giuridica comune per tutti i culti, non è mai stata approvata; numerosi i disegni di legge presentati, ma tutte le proposte hanno sempre suscitato accesi dibattiti politici, alimentato polemiche e contrapposizioni, incontrato difficoltà in Parlamento e sono quindi immancabilmente decadute.

Con l’avvento della Costituzione si sono comunque poste le basi di un sistema articolato, volto a correggere le forzature della soluzione concordataria ed ispirato alla garanzia della libertà religiosa, intesa come diritto fondamentale, e fondato sull’estensione alle confessioni diverse dalla cattolica di forme di regolamentazione bilaterale dei rapporti con lo Stato; in tale contesto ha trovato spazio una giurisprudenza costituzionale sempre più incisiva e determinata.

3. Genesi ed evoluzione del principio nella giurisprudenza costituzionale.

Il principio di laicità dello Stato italiano è stato forgiato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 203 del 1989, all’atto in cui è stata chiamata ad affrontare il primo contenzioso costituzionale sul cd “nuovo concordato” del 1984 che, considerando «non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano» (art. 1 del Protocollo addizionale), aveva determinato il formale superamento del principio del confessionismo di Stato, senza tuttavia chiarire quale sarebbe stata per il futuro la natura dei rapporti tra lo Stato ed i fenomeni religiosi.

La Corte costituzionale avverte la necessità di fornire una accezione del principio di laicità conforme al nuovo assetto costituzionale ed al peculiare contesto culturale italiano e colma il vuoto residuato dalle nuove intese elaborando il principio della “laicità positiva”, attiva/propositiva e non distaccata/indifferente rispetto al fenomeno religioso.

Nello storico accesso la Corte afferma per la prima volta l’operatività nel nostro ordinamento del supremo principio di laicità dello Stato, qualificandolo espressamente come “uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica” dotato di “una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale”; inoltre, senza aderire ad una concezione del fenomeno religioso come elemento strettamente legato alla sfera privata, ne enfatizza la natura composita individuandone le fondamenta in altre norme costituzionali che concorrono alla sua determinazione complessiva e lo pongono al vertice dei valori che ispirano la disciplina costituzionale del fattore religioso nel nostro ordinamento.

Ne consegue l’ammissibilità e quindi legittimità costituzionale degli interventi “in positivo”, cioè a sostegno delle attività religiose, che corrispondono ad un bisogno/interesse dei cittadini meritevole di tutela.

Secondo la Corte “il principio di laicità, quale emerge dagli articoli 2, 3, 7, 8, 19, 20 della Costituzione implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”

Nella sentenza del 1989 si esalta non solo la forte correlazione della laicità con il principio democratico, ma anche il forte legame con la libertà di coscienza; si coniuga la funzione di salvaguardia del pluralismo confessionale e culturale con la finalità promozionale, che richiede un impegno positivo e di attenzione dei pubblici poteri nei confronti delle istanze religiose, nella misura in cui risultano espressione di reali esigenze e necessità avvertite dai cittadini.

Il principio di laicità ha dunque un doppio profilo: quello garantista impone la protezione da parte dell’ordinamento della coscienza individuale, della libertà di

autodeterminarsi (nello specifico rispetto alla sfera religiosa ed in generale rispetto ai modelli culturali o ai comportamenti concreti che risultino incompatibili con i convincimenti personali), e comporta un divieto di imporre ai cittadini determinati comportamenti, che incidano sulla sfera religiosa o confessionale ovvero di recepire norme ed istituti che possano condizionare la libertà di coscienza dei singoli.

Quello promozionale si esprime nella disponibilità dell’ordinamento ad accogliere e promuovere gli orientamenti e le istanze dei cittadini in materia religiosa, con un atteggiamento che non è di astensione e di non interferenza, ma teso a favorire interventi che rendano effettivo e accessibile, a tutti, l’esercizio della libertà religiosa.

Materia del contendere era la delicata questione dell’insegnamento della religione cattolica e della libertà di coscienza di coloro che decidono di non frequentare l’ora di religione; con una sentenza interpretativa di rigetto la Consulta ritiene giustificato l’impegno statale di garantire, anche nel nuovo Concordato, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, sia pur con modalità rispettose della libertà di coscienza individuale di genitori e alunni, stante l’abbandono dell’istituto dell’esonero da una materia obbligatoria, sostituito dalla scelta di una materia facoltativa, ma obbligatoriamente offerta dalla scuola pubblica.

Per la Corte «il genus (‘valore della cultura religiosa’) e la species (‘principi del cattolicesimo nel patrimonio storico del popolo italiano’) concorrono a descrivere l'attitudine laica dello Stato-comunità, che risponde non a postulati ideologizzati ed astratti di estraneità, ostilità o confessione dello Stato-persona o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o ad un particolare credo, ma si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini».

La sentenza esalta la «logica strumentale propria dello Stato-comunità che accoglie e garantisce l’autodeterminazione dei cittadini, mediante il riconoscimentodi un diritto soggettivo di scelta se avvalersi o non avvalersi del predisposto insegnamento della religione cattolica».

Come osservato da attenta dottrina, la Consulta non si è limitata a delineare uno spazio “minimo” della libertà di religione, inclusa la libertà negativa di non professare la propria fede, che, in forza del principio di laicità, deve essere garantito a tutti i cittadini, ma ha precisato che il principio di laicità implica anche “non indifferenza” dello Stato dinnanzi alle religioni e garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale.

Il carattere laico dell’ordinamento risulta qualcosa di più rispetto al mero divieto di discriminazione per motivi di religione, già stabilito dall’art. 3 Cost., come confermato dall’attribuzione del carattere di supremo, e quindi immodificabile.

Il principio di laicità, quale principio ulteriore rispetto al principio di eguaglianza formale e sostanziale, già di per sé appartenente a tale categoria, presuppone un contenuto diverso, o comunque più ampio, rispetto al mero divieto di discriminazione per motivi religiosi; sebbene utilizzato spesso quale strumento unicamente rafforzativo delle decisioni in tema di libertà di religione, avergli riconosciuto autonomo valore come parametro di costituzionalità, rispetto agli altri parametri costituzionali di cui agli artt. 3, 8, 19 e 20 Cost. già sufficienti a costituire il nucleo essenziale della libertà di religione, non può non avere conseguenze sul piano della legittimità costituzionale e dei vincoli da esso derivanti nei confronti del legislatore.

Tali ulteriori conseguenze vanno collegate al diverso contenuto della laicità rispetto alla più semplice libertà di religione, individuato dalla Corte nella necessaria non indifferenza di fronte al pluralismo religioso, che rende l’ordinamento italiano uno Stato non semplicemente laico ma uno Stato laico sociale, che ha scelto di valorizzare il carattere sociale e il valore storico della religione e delle confessioni religiose.

Nella giurisprudenza successiva, non adeguata in termini numerici alla rilevanza e delicatezza del tema, la Corte costituzionale ha di fatto confermato gli orientamenti della sentenza del 1989, fornendo ulteriori precisazioni ed ampliando contenuti e funzioni del principio; con pronunce diacroniche da un lato ha ribadito che il principio di laicità non comporta un atteggiamento di indifferenza di fronte all’esperienza religiosa, dall’altro ha posto in rilievo l’importanza di assicurare la neutralità dello Stato in materia religiosa.

Semplificando è possibile individuare diversi filoni, che efficacemente la dottrina riconduce a quattro obbligazioni fondamentali dello Stato:

-l’obbligo di salvaguardare la libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale;

-l’obbligo di assumere un atteggiamento “di equidistanza e imparzialità nei confronti di tutte le confessioni religiose”, ferma restando la possibilità di regolare bilateralmente e quindi in modo differenziato, nella loro specificità, i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica tramite lo strumento concordatario e con le confessioni diverse da quella cattolica tramite intese;

-l’obbligo di fornire pari protezione alla coscienza di ciascuna persona che si riconosca in una fede quale che sia la confessione di appartenenza;

-l’obbligo di operare la distinzione tra” ordine delle questioni civili” e” ordine delle questioni religiose”.

Il tema del pluralismo e della parità di trattamento delle confessioni religiose viene arricchito dall’esigenza di assicurare ai singoli l’effettivo godimento del diritto ad una libertà di fede e di culto; l’eguale libertà delle confessioni religiose va garantita anche perché è preordinata alla soddisfazione dei bisogni religiosi dei cittadini, e quindi in funzione di un effettivo godimento del diritto di libertà religiosa, sussistendo il medesimo diritto di tutti gli appartenenti alle diverse fedi e confessioni religiose di fruire delle eventuali facilitazioni disposte in via generale dalla disciplina comune dettata dallo Stato perché ciascuno possa in concreto, più agevolmente, esercitare il culto della propria fede religiosa. (Corte cost. sentenza n. 346 del 16 luglio 2002 e ordinanza n. 195 del 4 giugno 2003)

In altre pronunce si insiste sul vincolo di “equidistanza ed imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose” quale riflesso del principio di laicità che caratterizza in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il quale devono convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse. (Corte cost. sentenze n. 440 del 18 ottobre 1995; n. 329 del 14 novembre 1997; n. 508 del 20 novembre 2000; n. 327 del 9 luglio 2002; n. 168 del 18 aprile 2005), ferma restando la possibilità di rapporti bilaterali differenziati ex artt. 7 e 8 Cost.

Filone significativo è quello in cui la Consulta sottolinea come il principio di laicità sia caratterizzato dalla distinzione degli ordini civile e religioso, in forza della quale la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo al fine, cosa che comporta per lo Stato e per le sue istituzioni “il divieto di ricorrere ad obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l’efficacia dei propri precetti». (Corte cost. sentenza n. 334 del 8 ottobre 1996).

Il principio di distinzione degli ordini, sancito all’art. 7, comma 1, Cost per i rapporti tra Stato e Chiesa, viene differenziato rispetto a quello di autonomia delle confessioni religiose, espresso all’art. 8, comma 2, e lo si ritiene riferibile a tutte le confessioni religiose in quanto “caratterizza nell’essenziale il fondamentale o supremo principio costituzionale di laicità o non confessionismo dello Stato.”

Interessanti per le ricadute applicative le decisioni in cui si afferma «l’irrilevanza del criterio numerico nelle valutazioni costituzionali in nome dell’uguaglianza di religione»; la Corte, che pur all’inizio aveva dato credito all’argomento “quantitativo” della preminenza al cattolicesimo in quanto religione della «quasi totalità dei cittadini», successivamente lo abbandona nettamente affermando che nemmeno per giustificare le differenziazioni si deve fare riferimento alla maggiore ampiezza e intensità delle reazioni sociali che suscitano le offese (il cd. criterio sociologico, utilizzato, congiuntamente a quello quantitativo); infatti «il richiamo alla cosiddetta coscienza sociale, se può valere come argomento di apprezzamento delle scelte del legislatore sotto il profilo della loro ragionevolezza, è viceversa vietato là dove la Costituzione, nell’art. 3, comma 1, stabilisce espressamente il divieto di discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l’appunto la religione. La protezione del sentimento religioso, quale aspetto del diritto costituzionale di libertà religiosa, non è divisibile. Ogni violazione della coscienza religiosa è sempre violazione di quel bene e di quel diritto nella sua interezza e tale dunque da riguardare tutti allo stesso modo, indipendentemente dalla confessione religiosa» (Corte cost. sentenze n. 925 del 28 luglio 1988; n. 440 del 1995; n. 329 del 1997 n. 508 del 2000.)

In altre pronunce si insiste sui contenuti promozionali o positivi della laicità statuale; nella maggioranza dei casi si tratta di rigetti di questioni di costituzionalità avverso norme pattizie e di diritto comune rivolte al sostegno o alla protezione di interessi religiosi; a tal proposito sono richiamabili le sentenze n. 13 del 14 gennaio 1991 sull’insegnamento della religione nelle scuole; n. 195 del 27 aprile 1993 sugli edifici di culto; n. 421 del 29 novembre 1993 sulla riserva di giurisdizione dei tribunali ecclesiastici sul matrimonio concordatario.

Venendo a tempi più recenti, il 2016 è stato caratterizzato da due pronunce simili, anche se su casi differenti ed esiti opposti, relative all’annoso tema della libertà di religione per le confessioni diverse da quella cattolica, pur prive dell’intesa prevista dal terzo comma dell’art. 8 della Costituzione.

La sentenza n. 52 del 10 marzo 2016 risolve un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, in particolare tra Consiglio dei Ministri e Corte di cassazione, annullando la sentenza di quest’ultima che affermava la sindacabilità in sede giurisdizionale della delibera del Consiglio dei Ministri che negava all’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti l’apertura delle trattative per la stipulazione dell’intesa di cui all’art. 8, comma 3, Cost.; connotato il provvedimento come atto discrezionale, meramente politico, non vincolato da alcun parametro costituzionale, dal quale derivava una responsabilità esclusivamente politica del Governo, la Consulta ha di conseguenza escluso l’esistenza di una pretesa soggettiva tutelabile all’avvio delle trattative.

Al contrario Sez. U, n. 16305/2013, D’Ascola, Rv. 626751-01 aveva affermato che la deliberazione del Consiglio dei Ministri che, ai sensi dell'art. 2, comma 3, lett. l), della l. n. 400 del 1988, rifiuti l'apertura della trattativa, negando la qualifica confessionale e religiosa dell'associazione richiedente, non avesse natura di atto politico e fosse, quindi, sindacabile dal giudice amministrativo, in considerazione del fatto che l'interesse fatto valere dall'istante si fondava sui diritti di libertà religiosa, per cui negare la sindacabilità del diniego di trattativa sarebbe equivalso a privare di tutela il soggetto richiedente, aprendo la strada ad una discrezionalità foriera di discriminazioni.

Con la sentenza n. 63 del 24 marzo 2016, invece, il giudizio di legittimità costituzionale in via principale proposto dal Presidente del Consiglio dei Ministri nei confronti di alcune disposizioni della l.r. Lombardia 11 marzo 2005 n. 12, si è concluso con una dichiarazione di incostituzionalità delle norme scrutinate, conforme ai precedenti in tema di edilizia di culto, censurando le discriminazioni presenti nella legislazione lombarda che richiedeva requisiti specifici e più stringenti, ai fini della costruzione di edifici di culto, per le sole confessioni prive di intesa.

In entrambe le decisioni i giudici della Consulta muovono dal presupposto che il carattere laico dell’ordinamento costituzionale, da cui deriva una necessaria imparzialità ed equidistanza rispetto a ciascuna confessione religiosa, non permetterebbe alcuna limitazione della libertà di religione, sia nel senso di libertà collettiva, in riferimento, dunque, alla confessione in quanto tale, sia nel senso di libertà individuale, in riferimento ai singoli fedeli nel libero esercizio anche collettivo del proprio culto.

Nella sentenza n. 67 del 7 aprile 2017 l’art. 2 della l.r. Veneto 12 aprile 2016 n. 12, che consentiva all’amministrazione di esigere, tra i requisiti per la stipulazione delle convenzioni urbanistiche per la realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività ivi svolte che non strettamente connesse alle pratiche di culto, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima non per violazione della libertà di religione, in quanto prendeva in considerazione tutte le diverse possibili forme di confessione religiosa, ma perché palesemente irragionevole ed eccentrico rispetto alle finalità perseguite dalla norma.

Infine, per la seconda volta in poco più di tre anni, la Corte è tornata a censurare per violazione degli artt. 2, 3 e 19 Cost. alcune disposizioni relative all’edilizia religiosa della l.r. Lombardia n. 12 del 2005, come novellata dalla l.r. n. 2 del 5 febbraio 2015, che, modificando gli artt. 70-72, rendevano più gravosa la costruzione o la semplice apertura di luoghi di culto per le confessioni religiose prive di intese con lo Stato ex art. 8, comma 3, Cost., stabilendo l’obbligatoria adozione da parte dei Comuni del Piano Attrezzature Religiose congiuntamente al Piano di Governo del Territorio per consentire l’installazione di nuove attrezzature religiose.

Con la sentenza n. 254 del 5 dicembre 2019 la Corte ha ribadito la rilevanza pubblica del fenomeno religioso, riaffermando l’obbligo dello Stato di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose, costituendo il libero esercizio del culto, ed il conseguente diritto di disporre di spazi adeguati per poterlo concretamente esercitare, un aspetto essenziale della libertà religiosa, garantito specificamente dall’art. 19 Cost., ed ha precisato che il compito delle autorità locali è esclusivamente quello di perseguire finalità urbanistiche e non di selezionare le comunità religiose che possono liberamente esercitare il loro culto.

Riassumendo, dalla disamina che precede emergono delle linee di tendenza stabili che sottolineano tanto il lato “positivo” della laicità, nel senso di un atteggiamento di “apertura” nei confronti del fenomeno religioso e della legittimità, sia pure in termini non discriminanti, di interventi a favore dei bisogni dei credenti e delle confessioni, quanto l’esigenza di una piena tutela della libertà di coscienza del singolo e quindi del pluralismo religioso.

In particolare la Corte ha:

-confermato e consolidato il ripudio dell’argomento numerico e di quello sociologico, correlando il concetto di sentimento religioso con la libertà di religione, da cui la necessità di «abbracciare allo stesso modo l’esperienza religiosa di tutti coloro che la vivono, nella sua dimensione individuale e comunitaria», e sottolineando che il superamento di questa soglia, attraverso valutazioni e apprezzamenti legislativi differenziati e differenziatori, che determinino diverse intensità di tutela, inciderebbe sulla pari dignità della persona e si porrebbe in contrasto col principio costituzionale della laicità o non-confessionalità dello Stato;

-valutato sempre con particolare rigore le differenziazioni tra le confessioni, sia tra credenti di religioni diverse sia tra questi, gli atei e gli agnostici;

-esaltato i valori dell’equidistanza e dell’imparzialità e della distinzione tra “ordini”.

4. Laicità e libertà di religione in Europa.

Il principio della laicità costituisce il prodotto più maturo della storia delle istituzioni europee nate proprio al fine di perseguire l’unità nella differenza e la capacità di dialogo tra popoli che per lingue, etnie, tradizioni appartengono a identità diverse, ma che si saldano grazie a principi-valori condivisi.

Seppure un modello di laicità europea sia ancora in divenire ed in continua evoluzione, la normazione europea converge da tempo sull’importanza del principio comune della libertà religiosa e sulla necessità che esso sia preservato da ogni forma di negazione e discriminazione.

4.1. La giurisprudenza delle Corti europee.

Il sistema CEDU ed il diritto dell’Unione operano sulla base di scopi, obiettivi, competenze e finalità notoriamente diverse; in tema di libertà di religione non deve pertanto meravigliare né la diversità di approccio e di scala valoriale dei diritti presi in considerazione, né l’apparente contraddittorietà di esito delle decisioni.

Alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è attribuito il compito di garantire una protezione effettiva ai diritti e alle libertà fondamentali sanciti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di violazioni o restrizioni illegittime perpetrate dagli Stati membri; i giudici della Corte EDU sono chiamati a valutare il comportamento dello Stato citato in giudizio, alla luce dei parametri previsti dalla Convenzione stessa, su ricorso di chi, ritenendo di essere vittima di una violazione a uno o più dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione che non hanno trovato soddisfazione nelle giurisdizioni interne, già adite, ha la possibilità di rivolgersi al giudice sovranazionale.

Partendo dalla considerazione che ciascuno Stato membro, in quanto più vicino alla sensibilità ed alla coscienza morale e civile della società che è chiamato ad amministrare, di cui è comunque l’espressione politica, sia maggiormente in grado rispetto ad un tribunale internazionale di percepirne i bisogni e di risolverne i conflitti, è la Convenzione stessa a prevedere la possibilità di ingerenze legittime degli Stati nei diritti da essa protetti e quindi a lasciare spazio a diverse discipline nazionali.

L’operazione più delicata e creativa della giurisprudenza CEDU attiene proprio all’accertamento che il comportamento dello Stato, posto in asserita violazione di un diritto, sia sorretto da uno tra gli “scopi legittimi” espressamente previsti dagli articoli della Convenzione, e inoltre rispetti il principio di proporzionalità, vale a dire sia necessario per la costruzione o il mantenimento di una “società democratica”.

Nel sistema dell’Unione, invece, la tutela dei diritti, assicurata inizialmente nelle sole ipotesi di una loro riconducibilità nell’ambito della categoria innominata dei principi generali o delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, si è implementata solo con la riformulazione dell’art. 6 del TUE, di cui al Trattato di Lisbona, che ha determinato da un lato l’assimilazione ai Trattati della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’altro l’esplicita qualificazione come principi generali dell’Unione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU e di quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri.

I diritti garantiti nelle due Carte, la Convenzione e la CDFUE, presentano una struttura pressoché identica nella parte definitoria, diversa invece quella relativa alla previsione dei limiti che, nel caso della Convenzione EDU sono rivolti agli Stati, al fine di limitarne il margine di apprezzamento, mentre nel caso della Carta di Nizza operano all’interno del diritto dell’Unione, obbligando in prima battuta gli organi dell’Unione e quindi gli Stati membri che, nei soli casi in cui si trovino a dare attuazione al diritto dell’Unione (art. 51 della Carta).

Questa diversità di finalità e di prospettiva spiega perché per lungo tempo le sentenze della Corte di Giustizia che fanno diretta applicazione del diritto alla libertà di religione siano state poche e tendenzialmente neutrali, e perché anche negli anni successivi, ove la giurisprudenza unionale si è mostrata via via sempre più sensibile alle esigenze di tutela dei diritti fondamentali, sempre limitate alle materie di competenza dell’Unione ed ai soli casi in cui l’applicazione del diritto unionale avrebbe potuto portarne la lesione come conseguenza indiretta di condotte discriminatorie.

4.1.1. La giurisprudenza della Corte EDU.

Anche sul diritto di libertà di pensiero, di coscienza e di religione tutelato dall’art. 9 della Convenzione la Corte EDU ripete sistematicamente che, date le sostanziali differenze esistenti negli ordinamenti nazionali, condizionati dalle specifiche tradizioni storico-culturali e dalle diverse presenze e consistenze religiose, deve essere riconosciuto agli Stati un ampio margine di apprezzamento.

La Corte, in quanto giudice dei diritti e non dei principi, non impone agli Stati di essere o diventare laici o aconfessionali; il principio di laicità entra nella giurisprudenza di Strasburgo non come principio o valore proprio della Convenzione ma come scopo perseguito da singole politiche statali di cui di volta in volta viene valutata la legittimità attraverso il cd test di proporzionalità.

Lo Stato compatibile con la Convenzione europea è uno Stato democratico e pluralista nel quale possono convivere idee, fedi, convinzioni, culture diverse, che gode di un ampio margine di apprezzamento in materia ma non così ampio da smettere di essere democratico e pluralista.

Allo Stato membro si richiede di rispettare il diritto di libertà religiosa di tutti e, quindi, di comportarsi come arbitro imparziale rispetto a tutte le fedi e a tutte le convinzioni, anche quelle degli atei, degli agnostici, degli scettici e degli indifferenti, e quindi a titolo esemplificativo, di non prendere posizione né a favore né contro nessuna religione o ideologia, di non indottrinare gli studenti delle scuole pubbliche in nessun modo, neppure attraverso l’inserimento di corsi obbligatori di contenuto confessionale nei programmi scolastici, di non obbligare nessuno a rivelare la propria appartenenza confessionale, di non discriminare i gruppi religiosi nel godimento delle facoltà inerenti il diritto di libertà religiosa, di non rendere irragionevolmente difficile agli stessi l’apertura di luoghi di culto, e ancora di non ingerirsi nella loro organizzazione interna.

Gran parte della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di libertà religiosa individuale degli ultimi decenni si è occupata di casi che riguardavano la libertà di indossare sul corpo simboli con significato religioso, quali capi di abbigliamento (copricapi, veli, tuniche ecc.) o monili (crocifissi, catenine ecc.).

Sebbene le pronunce abbiano nella maggior parte dei casi avuto un esito favorevole gli Stati, la tendenza della giurisprudenza della Corte EDU è stata quella di assicurare un crescente riconoscimento alla pretesa dei ricorrenti d’indossare i simboli, quale parte integrante dell’esercizio del culto e dell’identità religiosa dei singoli, e quindi come comportamento tutelato dell’art. 9 della Convenzione, dando sempre maggiore importanza nel giudizio di bilanciamento alla necessarietà della misura restrittiva.

All’esito di tale percorso, emblematico di una evoluzione generalizzata rispetto al tema della libertà di religione, si collocano ben due pronunce di condanna degli Stati citati in giudizio (la Bosnia Erzegovina nel 2017 e il Belgio nel 2018) per violazione dell’art. 9 della Convenzione.

Tra gli scopi legittimi utilizzati dalla Corte per giustificare la restrizione alla libertà religiosa prevale quello dell’ordine pubblico, nella sua accezione ideale, che impone il rispetto del principio della neutralità dello spazio pubblico, e nella sua accezione materiale, collegata alle esigenze di sicurezza pubblica; anche in riferimento alle finalità legittime si riscontra una tendenza ad espandere gli spazi di tutela grazie ad una interpretazione delle stesse sempre più restrittiva.

Nel caso X c. Regno Unito del 12 luglio 1978 alcuni motociclisti appartenenti alla religione sikh lamentavano la violazione del proprio diritto di indossare il turbante a seguito dell’entrata in vigore dell’obbligo di indossare il casco, mentre nel caso Karaduman c. Turchia del 3 maggio 1993 a una studentessa musulmana era stato negato il rilascio del certificato di laurea a seguito del suo rifiuto di produrre una fotografia senza indossare il velo.

In queste decisioni viene esclusa la rilevanza dell’art. 9 della Convenzione, ed i ricorsi sono rigettati, dando preminenza nel giudizio di bilanciamento alla tutela della salute e della sicurezza, in relazione all’obbligo di utilizzo del casco per i motociclisti, ed alla tutela della sicurezza, per l’obbligo di riconoscimento all’ingresso degli aeroporti o sulle fotografie dei documenti.

Nel caso Dahlab c. Svizzera del 15 febbraio 2001, in cui un’insegnante delle scuole elementari, in ragione della sua appartenenza religiosa, pretendeva d’indossare il velo islamico durante l’orario di lavoro, nonostante il divieto posto dall’ordinamento svizzero, supportato dalla necessaria neutralità delle istituzioni scolastiche e, più in generale, dal principio di laicità dello Stato, la Corte per la prima volta riconduce la decisione d’indossare il velo islamico all’ambito dell’art. 9 della Convenzione come pratica di culto, ma dichiara comunque irricevibile il ricorso, dando prevalenza al divieto d’indottrinamento delle coscienze ancora molto influenzabili dei bambini.

I casi diventano più complessi e delicati quando la Corte è chiamata a decidere della denunciata violazione del diritto di libertà religiosa da parte degli Stati che hanno introdotto disposizioni ‘antivelo’ o ‘antiburqa.’

La più nota di queste pronunce è quella del caso Sahin c. Turchia del 10 novembre 2005 in cui una studentessa universitaria lamentava la violazione del proprio diritto alla libertà religiosa e all’istruzione a seguito dell’interdizione a partecipare alle lezioni universitarie indossando il velo islamico.

In questo caso il rigetto sopraggiunge all’esito di una articolata operazione di bilanciamento con la necessarietà della misura rispetto al principio di laicità dello Stato, irrinunciabile nel contesto dello Stato turco ove si impone una rigorosa neutralità dello spazio pubblico per gli scopi legittimi della tutela dell’ordine pubblico e dei diritti e delle libertà altrui.

La Corte nelle successive sentenze inizia un processo di restringimento dei confini di operatività dello scopo legittimo dell’ordine pubblico in senso astratto e, nel caso Arslan e altri c Turchia dell’11 febbraio 2010, per la prima volta condanna uno Stato per violazione dell’art. 9 in relazione al divieto di indossare abbigliamento religioso nelle pubbliche strade.

Nel caso di alcuni fedeli musulmani che camminavano nelle vie di Ankara, di ritorno da un rito religioso, abbigliati con tuniche e altri capi di vestiario dal chiaro significato religioso, la Corte chiarisce che il principio della neutralità dello spazio pubblico è invocabile al fine di legittimare la misura restrittiva alla libertà religiosa solo quando si tratti di spazio pubblico ‘istituzionale’ (scuola, università, tribunale, ospedali pubblici, ecc.), o di persone che ricoprono un ruolo ‘istituzionale’ (insegnanti, giudici, pubblici ufficiali, dipendenti pubblici ecc.), ma non può legittimare un divieto generalizzato all’utilizzo di simboli o capi di abbigliamento religiosamente orientati.

La tendenza restrittiva è confermata nella successiva sentenza S.A.S c. Francia della Grande Camera del 1 luglio 2014, ove la Corte è chiamata a pronunciarsi sul ricorso di una donna musulmana che chiedeva di indossare il velo integrale nelle pubbliche vie, in violazione della legge francese del 2010 che vieta e sanziona penalmente l’utilizzo di qualsiasi indumento idoneo a coprire il volto in ogni spazio pubblico, comprese pubbliche vie o piazze.

Nel rigettare comunque il ricorso, la Corte non utilizza lo scopo legittimo dell’ordine pubblico inteso come sicurezza pubblica, in quanto ritiene che l’obbligo di riconoscimento non operi in tutte le situazioni come obbligo generalizzato e perdurante, ma possa essere legittimato solo in presenza di concreti elementi di rischio, nella specie non sussistenti, e ripiega su un altro scopo legittimo, quello dei “diritti degli altri”, che declina nel senso che la necessità di ‘guardarsi’ e d’interagire costituisce una condizione essenziale del “vivre ensemble”.

L’evoluzione arriva a compimento nel caso Lachiri c. Belgio del 18 dicembre 2018, che riguardava una donna musulmana che si era rifiutata il togliere il velo all’interno del tribunale di Bruxelles ove si trovava per assistere a un’udienza; la Corte, preso atto che la ricorrente con il suo comportamento non aveva messo a rischio lo svolgimento dell’udienza, ha condannato il Belgio per violazione dell’art. 9 della Convenzione.

Nello stesso senso aveva già deciso con la sentenza Hamidovic c. Bosnia Ervegovina del 5 dicembre 2017, nel caso di un testimone in un processo penale che, nonostante il divieto di utilizzo di simboli religiosi, aveva rifiutato di togliersi il copricapo attestante la sua appartenenza religiosa; in questo caso la condanna dello Stato è motivata dal fatto che il ricorrente non intendesse in alcun modo incitare i presenti a opporsi ai valori laici e democratici o creare turbamenti, ma semplicemente conformarsi ai dettami della propria fede religiosa.

L’Italia è stata protagonista della questione relativa alla presenza del crocefisso nelle aule scolastiche; la storia processuale del crocefisso esposto nelle aule della scuola media statale di Abano Terme ha trovato la parola fine solo innanzi alla Corte EDU ove, a seguito dell’insuccesso dei rimedi esperiti nell’ambito dell’ordinamento interno, la signora Lautsi aveva deciso di rivolgersi lamentando la violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1 allegato alla Convenzione, nella parte in cui sancisce il diritto di ciascun genitore a garantire ai figli un’istruzione e un insegnamento conformi alle sue convinzioni religiose e filosofiche, nonché dell’art. 9 CEDU, che tutela la libertà di pensiero e di religione.

In prima istanza la Seconda Sezione della Corte europea si era pronunciata a favore della ricorrente con la sentenza del 3 novembre 2009.

I giudici di Strasburgo, circoscritto l’oggetto della pronuncia all’esposizione del crocefisso in un luogo pubblico specifico, ossia la scuola, la cui specificità è data dal fatto di essere frequentata da persone di giovane età, prive di quella «critical capacity» necessaria per valutare le scelte preferenziali dello Stato in materia religiosa, sono entrati nel merito della compatibilità tra tale fenomeno e le norme convenzionali invocate mettendo in rilievo la percezione che la ricorrente aveva avuto in ordine alla violazione del diritto suo e dei suoi figli a non professare la religione cattolica.

La Corte ha ritenuto all’unanimità che l’ostensione del crocifisso (e di altri simboli ad esso equiparabili) presupponesse una violazione del “diritto dei genitori ad educare i propri figli secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche” in riferimento alla “libertà religiosa” di quest’ultimi.

In particolare, la Sezione ha affermato che l’art. 2 del Protocollo addizionale n. 1 doveva essere letto in combinato disposto con l’art. 9 della Convenzione, poiché “è sul diritto fondamentale all’istruzione che si innesta il diritto dei genitori al rispetto delle loro convinzioni religiose e filosofiche”, e ciò affinché sia salvaguardata “la possibilità di un pluralismo educativo, essenziale alla conservazione della società democratica come la concepisce la Convenzione”.

Lo Stato, quindi, sarebbe tenuto alla “neutralità confessionale nel quadro dell’educazione pubblica” per cui “il rispetto per le convinzioni religiose dei genitori e delle credenze dei bambini implica il diritto di credere in una religione o di non credere in nessuna religione (cd libertà negativa)”

Questa libertà negativa “si estende alle pratiche ed ai simboli che esprimono in particolare o in generale, una credenza, una religione, o l’ateismo. Questo diritto negativo merita una tutela particolare se è lo Stato che esprime una credenza e se la persona è messa in una situazione in cui non può liberarsi o può farlo soltanto con sforzi e con sacrifici sproporzionati”

Secondo i giudici europei il crocifisso reca con sé una pluralità di significati, ma è indubbio che tra i tanti “la signification religieuse est prédominante”, e la sua carica religiosa nel contesto di un luogo deputato all’istruzione pubblica lo rende un “segno esteriore forte”, così come lo sono altri simboli ad esso equiparati, e la sua presenza obbligatoria non può passare inosservata, avendo un evidente impatto nello sviluppo degli alunni, specie per quelli di altre religioni o per coloro che non ne professano alcuna, tenendo anche in debito conto l’età di questi ultimi; inoltre, l’ostensione del crocifisso “non può essere giustificata né dalla richiesta di altri genitori che desiderano un’istruzione religiosa conforme alle loro convinzioni, né […] dalla necessità di un compromesso necessario con le componenti di ispirazione cristiana”

A seguito di questa sentenza il Governo italiano ha deciso di ricorrere alla Grande Chambre della Corte che, con la pronuncia del 18 marzo 2011, ha ribaltato la precedente decisione, assolvendo l’Italia dall’accusa di violazione dei diritti umani per l’ostensione del crocifisso nelle aule scolastiche; contrariamente alla Seconda Sezione, secondo cui costituiva un “potente simbolo esteriore”, per la Grande Chambre il crocifisso è un “simbolo religioso essenzialmente passivo” incapace di costituire “une forme d’endoctrinement” e di rappresentare offesa alla libertà negativa di religione degli alunni e della loro madre, così come garantita dalla Convenzione ed interpretata dalla Corte.

In tale decisione si demoliscono i tre capisaldi della prima decisione, ovvero:

1) la vulnerabilità degli studenti rispetto all’esposizione di simboli religiosi nelle aule scolastiche, ritenendo che non vi fossero prove che l’esposizione di un simbolo religioso sulle pareti dell’aula potesse influire sugli studenti e, quindi, sulle loro convinzioni in una fase ancora di formazione;

2) la rilevanza della percezione soggettiva della ricorrente quanto alla violazione dei diritti suoi e dei suoi figli in materia di libertà religiosa, che non è ritenuta sufficiente a integrare una violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 1 alla CEDU;

3) la qualificazione del crocefisso come “simbolo esteriore potente”, degradato a simbolo essenzialmente passivo, dal quale non può discendere una influenza sugli allievi paragonabile a quella esercitata da un discorso didattico o dalla partecipazione ad attività religiosa.

La Grande Chambre, pur ribadendo che è compito della Corte europea vigilare affinché siano garantiti i diritti in materia religiosa, riconosciuti dalla Convenzione e dai suoi protocolli, sottolineando che tali diritti non sono derogabili nemmeno in forza di consolidate tradizioni proprie degli Stati membri, chiarisce che in merito alla presenza dei simboli religiosi nelle aule delle scuole pubbliche gli Stati contraenti godono di un ampio margine di apprezzamento sicché compito della Corte è solo quello di censurare quelle pratiche statali che introducono forme di indottrinamento, contrarie alla Convenzione europea.

Pur dando atto che la normativa italiana, rendendo obbligatoria la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche, attribuisce alla religione maggioritaria del Paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico, la Corte ritiene che gli effetti della grande visibilità che la presenza del crocifisso attribuisce al cristianesimo debbano essere ridimensionati valorizzando che in Italia:

1) la presenza del crocefisso nelle aule non è associato all’obbligatorietà dell’insegnamento religioso;

2) le autorità non sono intolleranti nei confronti degli alunni che credono in altre religioni o non hanno alcuna convinzione religiosa;

3) non è mai stato incoraggiato nelle scuole lo sviluppo di pratiche di insegnamento con una tendenza al proselitismo.

L’inversione di tendenza della sentenza della Grande Camera rispetto a quella della Seconda Sezione è fondata principalmente sulla diversa interpretazione del “margine di apprezzamento” riconosciuto alle autorità nazionali; la Corte ritiene che tema di protezione della libertà religiosa, gli Stati contraenti godono di un ampio margine di discrezionalità, e che tale discrezionalità è accentuata in tema di esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche per il fatto che su tale materia non vi è un “consenso europeo” unanime, ma pratiche diversificate nei vari Stati.

La Corte, premesso che non spetta ai giudici europei pronunciarsi sulla conciliabilità della presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche con il principio di laicità sancito dal diritto italiano, conclude che le autorità hanno agito entro i limiti dei poteri di cui dispone l’Italia nel quadro del suo obbligo di rispettare, nell’esercizio delle proprie funzioni in materia di educazione e d’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire tale istruzione secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche, senza alcuna violazione delle norme convenzionali.

4.1.2. La giurisprudenza della Corte di Giustizia UE.

Negli ultimi anni un maggiore interesse per le questioni religiose da parte della

giurisprudenza dell’Unione è conseguito all’applicazione della direttiva del Consiglio 2000/78/CE che persegue la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

La libertà religiosa è stata presa in considerazione come aspetto astrattamente idoneo a realizzare una discriminazione tra credenti e non credenti, o tra credenti di diversi culti, nell’ambito lavorativo.

È noto che il principio della parità di trattamento, che concreta l'esigenza che venga assicurata una forma di uguaglianza la cui violazione integra la discriminazione, trova il suo fondamento in un rapporto relazionale tra due soggetti, ovverosia in una comparazione tra gli stessi, la quale evidenzi che uno di essi è stato, è, o sarà avvantaggiato rispetto all'altro, sia per effetto di una condotta posta in essere direttamente per creare la discriminazione, sia in conseguenza di un comportamento -in apparenza neutro -ma che abbia comunque una ricaduta negativa per i seguaci di una religione diversa da quella professata dai soggetti favoriti o che non seguano nessuna religione.

La Corte di Giustizia in due sentenze del 2017 ha osservato che, nel Considerando 1 della Direttiva n. 78/2000 «il legislatore dell'Unione ha [...] fatto riferimento alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto dell'Unione. Ebbene, tra i diritti risultanti da tali tradizioni comuni e che sono stati riaffermati nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea [...] vi è il diritto alla libertà di coscienza e di religione sancito all'articolo 10, paragrafo 1, della Carta. Conformemente a tale disposizione, tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti». (CGUE, Grande Sezione, 14/03/2017, sentenze ADDH/Micropole SA, C-188/15, e Achbita/G4S Secure Solutions, C. 157/15).

In entrambi i giudizi era in discussione il divieto di portare simboli religiosi nei luoghi di lavoro privato, che trovava origine in un caso dalla policy aziendale, che imponeva ai dipendenti un’immagine di neutralità che non rivelasse i propri convincimenti più intimi, nell’altro caso dalle pressanti richieste in tal senso dei clienti dell’azienda; due dipendenti, rispettivamente una receptionist e una consulente, entrambe di religione musulmana, che avevano insistito nell’indossare il velo durante l’orario di lavoro nonostante i numerosi inviti contrari dei datori di lavoro, erano state licenziate in conseguenza dei reiterati rifiuti.

Chiamata a decidere se il divieto imposto dalle aziende costituisse un’illegittima discriminazione indiretta a danno delle fedeli musulmane, ovvero, essendo giustificato dalla libertà di impresa, potesse ritenersi una previsione legittima nell’ottica della direttiva antidiscriminazione, la Corte ritiene adeguato il “perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti” a fungere da finalità legittima per una restrizione della libertà religiosa delle dipendenti, in quanto tale intenzione rientra nell’ambito della libertà d’impresa, riconosciuta dalla Carta e, senza dare altra indicazione concreta sui criteri da applicare nel giudizio di bilanciamento, lascia al giudice del rinvio di valutare “che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.”

In due successive sentenze del 2018 la Corte si pronuncia sulla possibilità, per i giudici nazionali, di sindacare le determinazioni delle organizzazioni di tendenza religiosa in relazione ai requisiti indispensabili che i dipendenti devono possedere per farne parte. (CGUE sentenze 17 aprile 2018 C-414/16 Egenberg/Evangelischese e 11 settembre 2018 C-68/17 IR/JQ)

In un caso un ente religioso aveva rifiutato di prendere in considerazione la candidatura di una signora che nel suo curriculum aveva dichiarato di essere atea; nel secondo un ospedale cattolico aveva licenziato un primario di fede cattolica, sposato con rito religioso, che aveva divorziato e si era risposato con matrimonio civile.

In entrambe le pronunce la questione vedeva la contrapposizione tra la libertà religiosa collettiva del gruppo, che pretende di stabilire le condizioni di accesso e di permanenza nella struttura di tendenza, con la libertà religiosa del singolo che chiede di non essere discriminato nel trattamento in ragione della sua appartenenza o non appartenenza religiosa; in entrambi i giudizi lo spazio della libertà religiosa del singolo è arretrata di fronte all’essenzialità della condizione richiesta ai fini dello svolgimento del rapporto di lavoro.

La Corte di Giustizia UE ha interpretato l’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78/CE, nel senso che nel caso di attività professionali di Chiese, o di altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, una differenza di trattamento basata su tali fattori non costituisce discriminazione laddove questi ultimi rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività, tenuto conto dell’etica dell’organizzazione.

La Corte ha altresì affermato che, nel caso in cui la disparità di trattamento per motivi religiosi non possa essere giustificata in base ai criteri posti dalla direttiva 2000/78, la tutela effettiva del divieto di ogni discriminazione fondata sulla religione o convinzione personale potrà comunque essere invocato direttamente dai singoli sulla base degli articoli 21 e 47 della CDFUE, che sanciscono, rispettivamente, il divieto di discriminazione per motivi religiosi e il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva, in quanto tali diritti sono idonei a produrre effetti diretti e non necessitano di essere precisati mediante disposizioni di diritto dell’Unione o del diritto nazionale.

Da ultimo la sentenza 22 gennaio 2019, Cresco Investigation/Markus Achatzi, C-193/17, si è occupata del trattamento ricevuto in Austria dagli appartenenti ad alcuni gruppi religiosi che godevano di un giorno di festività in più anche retribuito in aggiunta, rispetto agli appartenenti ad altre fedi religiose o ai non credenti.

La CGUE in questo caso ha ritenuto che una normativa nazionale in virtù della quale il Venerdì santo sia un giorno festivo solo per i lavoratori appartenenti a talune chiese cristiane e solo tali lavoratori abbiano diritto, se chiamati a lavorare in tale giorno festivo, ad un’indennità complementare alla retribuzione percepita per le prestazioni svolte in tale giorno, costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione, in quanto tale previsione non costituisce una misura necessaria alla preservazione dei diritti e delle libertà altrui, ai sensi dell’art. 2, par. 5, della direttiva, né una misura specifica destinata a compensare svantaggi correlati alla religione, ai sensi dell’art. 7, par. 1.

5. Il principio di laicità nella giurisprudenza di legittimità.

Inizialmente l’elaborazione del principio di laicità ad opera del Giudice delle leggi non aveva determinato un incremento di aspettative verso la soluzione giudiziaria dei conflitti imperniati sul fattore religioso; nel tempo l’affermarsi del pluralismo religioso e del multiculturalismo hanno alimentato il bisogno di investire l’autorità giudiziaria di questioni sempre nuove, cui la Suprema Corte non ha mancato di fornire soluzioni adeguate all’evoluzione sociale e culturale del nostro paese.

All’esito della svolta con cui la Consulta ha collocato il principio di laicità al vertice della gerarchia sostanziale dei principi costituzionali, il ruolo della giurisprudenza ha assunto un ruolo centrale dal momento che l’intero corpo legislativo che regolava la materia religiosa, sia unilaterale che di derivazione pattizia, risultava antecedente al “disvelamento”, circostanza che rendeva indispensabile una sua integrale rivisitazione a mezzo di una interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata.

Questa esigenza immediata si è inevitabilmente protratta a causa di una perdurante inerzia del legislatore nell’attuazione costituzionale sia del principio di nuovo conio sia di quelli già esplicitati, assenza che ha costretto la giurisprudenza a cimentarsi continuamente nell’interpretazione conforme della disciplina vigente e a svolgere un vero e proprio compito di supplenza di vuoti normativi ancora oggi rimasti tali.

Benché il principio fosse stato da poco enunciato, Sez. U, n. 00482/1989, Tondo, Rv. 463653-01 ha sollevato questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del r.d. n. 1731 del 1930 (che dettava la disciplina, unilaterale, delle Comunità israelitiche e dell’Unione delle comunità), ipotizzandone il contrasto con il principio supremo di laicità dello Stato ritenuto idoneo a fungere quale diretto ed immediato parametro della legittimità costituzionale di quella normativa.

Ad avviso della S.C. le norme che qualificavano ente pubblico non economico una comunità israelitica, chiamata in giudizio in qualità di datore di lavoro, e la conseguente devoluzione delle controversie sui rapporti di lavoro, ritenuti di pubblico impiego, alla cognizione del g.a., violavano non solo l’autonomia istituzionale delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, garantita dall’art. 8, comma 2, Cost., ma costituivano un’ipotesi eccezionale di ingerenza nell’organizzazione delle medesime che si poneva in contrasto con il principio di laicità.

Accolta la questione dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 259 del 25 maggio 1990, Sez. U, n. 08028/1991, Giustiniani, Rv 473226-01, ha conseguentemente statuito che i rapporti di lavoro tra dipendenti e comunità hanno natura privatistica, e sono pertanto soggetti alla cognizione del giudice ordinario.

Sez. U, n. 11432/1997, Bibolini, Rv. 510071-01 affronta il delicato e complesso tema del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di situazioni giuridiche soggettive facenti capo agli studenti delle scuole pubbliche, cd “non avvalentisi”, ossia gli studenti che nell’esercizio del “diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi” dell’insegnamento della religione cattolica optano per la seconda alternativa.

In applicazione delle sentenze della Corte cost. n. 203 del 1989, che aveva confermato la legittimità della previsione facoltativa dell’insegnamento della religione cattolica -rispetto alla quale residua, per chi non intenda avvalersene, la facoltà di scegliere se svolgere diverse attività didattiche e formative, o attività di studio e di ricerca con assistenza di personale docente, o, ancora, nessuna attività, senza assistenza di personale docente ed anche con l'allontanamento dalla scuola -, e n. 13 del 14 gennaio 1991, che aveva ritenuto non contestabile la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla situazione giuridica soggettiva di avvalersi o meno dell’insegnamento della religione, vertendosi in materia di diritti soggettivi, la decisione ha affermato che la cognizione di eventuali discriminazioni, che discendano dall’obbligo di un facere in capo a chi risponda negativamente alla proposta di un insegnamento a carattere religioso, spetta, anche per gli eventuali profili risarcitori, alla giurisdizione del giudice ordinario.

A composizione di un contrasto sulla valutazione della convivenza coniugale successiva alla celebrazione del matrimonio concordatario quale limite generale d'ordine pubblico alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, Sez. U, n. 16379/2014, Di Palma, Rv. 631798-01, conforme Sez. 1 n. 01494/2015, Acierno, Rv. 633982-01, ha riconosciuto che la convivenza "come coniugi", quale elemento essenziale del "matrimonio-rapporto", ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di "ordine pubblico italiano", la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato, come affermato dalla Corte cost., ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico del "matrimonioatto".

Altro interessante campo di applicazione del principio di laicità si rinviene nell’ambito del diritto di famiglia; in un giudizio di opposizione ex art. 250 c.c. presentata da una madre italiana, al riconoscimento quale figlio naturale da parte del padre tunisino, fondata unicamente sull’etnia e la confessione religiosa del padre arabo e di religione musulmana e sul conseguente timore che la figlia, acquisendo la cittadinanza tunisina potesse avere un grave danno sia dalla sottoposizione all’ordinamento tunisino, fondato su di una concezione unitaria della religione e dello Stato, sia dalla deteriore condizione della donna rispetto all’uomo nonché dall’integralismo religioso e politico dei musulmani, la S. C. ha rigettato il ricorso ricordando che “il principio di laicità di cui all’art. 8 Cost. impedisce che ogni confessione religiosa possa essere in sé anteposta o posposta alle altre” e che “in tema di autorizzazione al riconoscimento di figlio naturale, la mera diversità culturale, di origini, di etnia e di religione non può di per sé costituire elemento significativo ai fini dell’esclusione dell’interesse del minore all’acquisizione della doppia genitorialità” non dimenticando però di precisare che il fanatismo religioso può assumere rilievo dirimente qualora si traduca in indebita compressione dei diritti di libertà del minore o in un pericolo per la sua crescita secondo i canoni generalmente riconosciuti dalle società civili. (Sez. 1 n. 12077/1999, Criscuolo, Rv. 530808-01, conforme Sez. 1 n. 02475/2004, Forte, Rv. 570014-01)

Negli ultimi anni le istanze di tutela della libertà di religione sono sensibilmente aumentate e con esse le fattispecie in cui il principio di laicità è stato invocato e ha trovato pratica applicazione.

In un caso in cui si lamentava la responsabilità per lesione del diritto individuale di libertà religiosa in capo all'ente organizzatore di una manifestazione artistica per aver ospitato, al proprio interno, uno spettacolo ritenuto contrario ai principi della religione cattolica, Sez. 1, n. 07468/2017, Sambito, Rv. 644823-01 ha escluso che l’organizzazione di un singolo spettacolo artistico potesse, di per sé sola, costituire violazione del personale sentimento religioso di un unico cittadino, ed essere sanzionata dall’ordinamento con il riconoscimento di un credito risarcitorio, non solo per l’insussistente collegamento oggettivo tra la prima ed il secondo, ma anche perché non è ravvisabile il requisito del danno ingiusto, essendo la programmazione di una manifestazione artistica espressione di una libertà garantita dalla Costituzione.

Nella pronuncia Sez. 1, n. 24084/2017, Novik, non massimata, la Cassazione penale è stata chiamata a decidere il ricorso proposto da un indiano Sikh avverso la sentenza del Tribunale di Mantova che lo condannava al pagamento di un’ammenda per il reato di porto di armi od oggetti atti a offendere (di cui all’art. 4 della l. n. 110 del 1975), perché circolava portando con sé un pugnale sacro, il Kirpan, che aveva rifiutato di consegnare per motivi religiosi; la Corte ha rigettato il ricorso dando la prevalenza all’esigenza di tutelare valori di stampo generale e collettivo, rispetto alle singole esigenze religiose e culturali, sul presupposto che “La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali configgenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l'unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto di armi e di oggetti atti a offendere”

Sez. 1, n. 21916/2019, Bisogni, Rv. 655166-01 in tema di affidamento dei figli minori, affronta un caso di conflitto genitoriale sull'educazione religiosa del minore.

Premesso che il criterio fondamentale cui deve attenersi il giudice nel fissarne le relative modalità di esercizio è quello del superiore interesse della prole, atteso il diritto preminente dei figli ad una crescita sana ed equilibrata, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva inibito alla madre, convertitasi alla fede geovista, d'impartire al figlio insegnamenti contrastanti con quelli della religione cattolica, basando il giudizio solo su astratte valutazioni delle due religioni e dando rilievo all'iniziale trasmissione al figlio, da parte di entrambi i genitori, della fede cattolica come religione comune della famiglia, affermando che possono essere adottati anche provvedimenti contenitivi o restrittivi dei diritti individuali di libertà religiosa dei genitori, purché intervengano all'esito di un accertamento in concreto, basato sull'osservazione e sull'ascolto del minore, dell'effettiva possibilità che l'esercizio di tali diritti possa compromettere la salute psico-fisica o lo sviluppo dei figli minori.

In tema di protezione sussidiaria, richiesta a tutela della libertà religiosa da un cittadino senegalese di religione cristiana, che aveva dedotto di essere esposto, in caso di ritorno in Senegal, al pericolo di essere ucciso per aver rifiutato di diventare sacerdote della religione tribale professata dal padre il quale, morendo, gli aveva lasciato tale incarico secondo la tradizione, Sez. 1, n. 26823/2019, Federico, Rv. 655628-01 ha statuito che il diritto a tale forma di protezione non può essere escluso dalla circostanza che il danno grave possa essere provocato da soggetti privati, qualora nel Paese d'origine non vi sia un'autorità statale in grado di fornire adeguata ed effettiva tutela, con conseguente dovere del giudice di effettuare una verifica officiosa sull'attuale situazione di quel Paese.

Tema da sempre complesso quello del rifiuto di sottoporsi a trattamenti sanitari per motivi religiosi, ove convergono sia il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente che quello al libero esercizio della propria fede religiosa.

In un caso di un paziente testimone di Geova, portatore di forti convinzioni etico-religiose contrarie ai trattamenti trasfusionali, Sez. 3, n. 23676/2008, Travaglino, Rv. 604908-01 ha ritenuto insufficiente che egli recasse con sé al momento del ricovero il cartellino recante la scritta "niente sangue" ed indispensabile, ai fini del dissenso alla sottoposizione a determinate cure mediche per l'ipotesi in cui si fosse trovato in stato di incapacità naturale, il conferimento ad un terzo di una procura "ad hoc" o la manifestazione, attraverso una dichiarazione scritta, puntuale ed inequivoca, del rifiuto delle cure quand'anche si fosse venuto a trovare in pericolo di vita.

Premesso che al consenso informato è correlata la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche quella di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale, in quanto nel diritto fondamentale della persona all'autodeterminazione, si realizza il valore fondamentale della dignità umana, sancito dall'art. 32 Cost., dagli art. 2, 3 e 35 CEDU e dalle convenzioni internazionali, e che tale facoltà assume connotati ancora più forti, degni di tutela e garanzia, laddove il rifiuto del trattamento sanitario rientri e sia connesso all'espressione di una fede religiosa il cui libero esercizio è sancito dall'art. 19 Cost., Sez. 1, n. 12998/2019, Caiazzo, Rv. 653917-02, ha cassato la decisione di merito che aveva rigettato la richiesta di nomina dell'amministratore di sostegno che l'interessato, aderente alla confessione religiosa dei Testimoni di Geova, aveva preventivamente designato, anche allo scopo di far valere la sua irrevocabile volontà di non essere sottoposto, neanche in ipotesi di morte certa ed imminente, a trasfusioni a base di emoderivati.

Sempre valorizzando il diritto all’autodeterminazione Sez. 3, n. 00515/2020, Gorgoni, Rv. 656809-01 ha affermato che la vittima di un sinistro stradale, deceduta in seguito al rifiuto di ricevere delle trasfusioni di sangue per ragioni religiose, non può essere considerata corresponsabile della propria morte, con l'effetto di vedere ridotto il risarcimento dovuto dal danneggiante per il solo fatto di essere salita su una vettura ed avere così accettato, in maniera volontaria ed imprudente, il rischio della circolazione benché fosse consapevole di non potersi sottoporre a determinate cure mediche.

La libertà di religione, nell’espressione della libertà di propaganda in materia religiosa, è infine protagonista della vicenda giudiziaria che ha trovato soluzione nell’ordinanza Sez. 1, n. 07893/2020, Valitutti, Rv. 657708-01 e 02

L’Unione atei agnostici razionalisti-UAAR -già nota per essere stata causa di un conflitto di attribuzione tra il Governo e la Corte di cassazione risolto dalla Corte cost. con la sentenza n. 52 del 2016 -ricorreva avverso la pronuncia della Corte d'Appello che le aveva negato il diritto all'affissione di un manifesto recante la parola "Dio" con la "D" in stampatello barrato, le altre lettere in corsivo e sotto la dicitura "10 milioni di italiani vivono bene senza Dio e quando sono discriminati l'U.A.A.R. è al loro fianco.”

La S.C. ha cassato questa pronuncia con una importante decisione che trova fondamento nel principio supremo di laicità dello Stato, declinato nell'ordinamento italiano come neutralità e non ingerenza imposta ai poteri pubblici dalla loro incompetenza nella materia spirituale riservata alle scelte esclusive dei singoli, principio che garantisce la pari libertà di coscienza di ciascuna persona che si riconosca in una fede, quale che sia la confessione di appartenenza, ed anche in un credo ateo o agnostico, di professarla liberamente e di farne propaganda nelle forme ritenute più opportune, attesa la previsione aperta e generale dell'art. 19 Cost.

La Corte ricorda:

-che la tutela della c.d. «libertà di coscienza» dei non credenti rientra nella più ampia libertà in materia religiosa assicurata dall'art. 19 Cost. e dall'art. 21 Cost. (libertà di opinione religiosa del non credente intesa quale manifestazione del pensiero), da intendersi anche in senso negativo, in quanto il nostro ordinamento costituzionale esclude ogni differenziazione di tutela della libera esplicazione sia

della fede religiosa sia dell'ateismo e tutela allo stesso modo sia il rifiuto di una qualsiasi confessione religiosa (cd pensiero religioso «negativo»), sia il credo religioso «positivo», che si sostanzia nell'adesione ad una determinata confessione religiosa;

-che sul piano del diritto comunitario ed internazionale la libertà di coscienza, in essa ricompresa la libertà di non avere alcun credo religioso, trova una tutela piena e incondizionata nell'art. 10 della CDFUE, nell’art. 9 della CEDU e nella giurisprudenza della CGUE e della Corte EDU;

-che i diritti costituzionali succitati non possono essere esercitati senza limiti, il primo dei quali è costituito dal rispetto degli altri diritti egualmente tutelati a livello costituzionale, per cui, nel rispetto del pluralismo religioso, ciascuna categoria di soggetti non può svolgere attività che si risolvano in un pregiudizio per la sensibilità religiosa dell'altra; un tale limite non può essere ravvisato in qualsiasi contegno che si contrapponga al credo religioso professato da una parte, anche maggioritaria, dei cittadini, dovendo tradursi in una offesa chiara, diretta e grave, come tale anch'essa costituzionalmente rilevante (artt. 2 e 19 Cost.), all'eguale diritto di questi ultimi;

-che l'esercizio del diritto di propaganda e diffusione del proprio credo religioso non si deve tradurre nel vilipendio della fede da altri professata, secondo un accertamento che il giudice di merito è tenuto ad effettuare con rigorosa valutazione delle modalità con le quali si esplica la propaganda o la diffusione, denegandole solo quando si traducano in un'aggressione o in una denigrazione della diversa fede da altri professata;

-che il principio della parità di trattamento delle confessioni religiose, sancito dagli artt. 1 e 2 della direttiva 2000/78/CE e degli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, impone che venga assicurata una forma di uguaglianza tra tutte le forme di religiosità, in essa compreso il credo ateo o agnostico, e la sua violazione integra una discriminazione vietata, che si verifica quando, nella comparazione tra due o più soggetti, non necessariamente nello stesso contesto temporale, uno di essi è stato, o sarebbe avvantaggiato rispetto all'altro, sia per effetto di una condotta posta in essere direttamente dall'autorità o da privati, sia in conseguenza di un comportamento, in apparenza neutro, ma che abbia comunque una ricaduta negativa per i seguaci della religione discriminata.

Protagonista di varie decisioni che hanno coinvolto la giurisdizione ordinaria, sia civile che penale, e la giurisdizione amministrativa, è stata infine la questione dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche.

La S.C. si è occupata per la prima volta del tema in ambito penale, in una vicenda processuale sorta dal rifiuto, da parte di un soggetto, di compiere l’ufficio di scrutatore durante le consultazioni elettorali, rifiuto motivato dalla presenza del crocefisso nelle aule scolastiche adibite a seggi elettorali.

Il giudice di merito aveva condannato il soggetto per il reato di cui all’art. 108 del d.P.R. n. 361 del 1957; Sez. 4, n. 04273/2000, Colaianni, Rv. 215623-01 ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna, ritenendo che si fosse verificato “un conflitto tra la personale adesione al principio supremo di laicità dello Stato e l’adempimento dell’incarico a causa dell’organizzazione elettorale in relazione alla presenza nella dotazione obbligatoria di arredi dei locali destinati ai seggi elettorali, pur se causalmente non di quello di specifica designazione, del crocefisso o di altre immagini religiose”

In tale arresto, esaltato da buona parte della dottrina quale prima applicazione giurisprudenziale dei principi affermati dalla Corte cost. a partire dalla sentenza n. 203 del 1989, la Corte richiama il principio di laicità dello Stato, connettendolo al regime di pluralismo confessionale e culturale ed inserendolo nel contesto sociale che vede la coesistenza “di una pluralità di sistemi di senso o di valore, di scelte personali riferibili allo spirito o al pensiero, che sono dotati di pari dignità e, si potrebbe dire, nobiltà” ed esclude di poter leggere nel crocefisso “il valore simbolico di un’intera civiltà o della coscienza etica collettiva”, come al contrario aveva in precedenza affermato il Consiglio di Stato nel parere n. 63 del 1988, a favore invece di una concezione della laicità volta a neutralizzare il fattore religioso e a confinarlo fuori dall’ordinamento.

Tutto ciò non in un quadro di indifferenza, ma di laicità positiva o attiva, che viene precisata come «compito dello Stato di svolgere interventi per rimuovere ostacoli ed impedimenti…in modo da “uniformarsi”» alla «distinzione tra “ordini” distinti», sul presupposto che la laicità non esclude «dalla sfera pubblica gli atti di valenza religiosa e non modifica, quindi, né riduce il tasso del pluralismo, ma all’opposto, va nel senso» di non fissare «il quadro dei valori di riferimento»

A questa decisione si ispira la prima decisione di merito assunta all’onore delle cronache (l’ordinanza del Tribunale dell’Aquila del 22 ottobre 2003) in cui il giudice, a seguito di un ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c., dispose la rimozione, in via cautelare, del simbolo dalle pareti delle aule della scuola materna ed elementare di Ofena.

Il caso viene definito da Sez. U, n. 15614/2006, Luccioli, Rv. 589903-01 secondo cui la contestazione della legittimità dell'affissione del Crocifisso nelle aule scolastiche, avvenuta pur in mancanza di una espressa previsione di legge impositiva dell'obbligo sulla base di provvedimenti dell'autorità scolastica conseguenti a scelte dell'Amministrazione, contenute in regolamenti e circolari ministeriali, riguardanti le modalità di erogazione del pubblico servizio, rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 33 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 venendo in discussione provvedimenti dell'autorità scolastica che, essendo attuatividi disposizioni di carattere generale adottate nell'esercizio del potere amministrativo, sono riconducibili alla pubblica amministrazione-autorità.

Le S.U. escludono che l’attuazione concreta delle disposizioni regolamentari presupposto dell’affissione del crocifisso -leda nel caso specifico un diritto assoluto dei ricorrenti, a differenza di quanto avevano ammesso per la imposizione di un insegnamento alternativo alla religione cattolica ove, con riguardo al diritto dei “non avvalentisi” a non subire discriminazioni in relazione alla gestione amministrativa dell’ora di religione avevano parlato di “diritti assoluti primari, costituzionalmente garantiti, in quanto tali incomprimibili e non degradabili dalla p.a. ad interessi protetti”

Il petitum sostanziale, dato dalla richiesta di una statuizione di carattere inibitorio (l’ordine di rimozione del crocifisso dall’aula), investe per la Corte “in via diretta ed immediata il potere dell’Amministrazione in ordine all’organizzazione ed alle modalità di prestazione del servizio scolastico”, poiché i regolamenti e le circolari ministeriali applicati dall’autorità scolastica sono riconducibili alla potestà organizzatoria della P.A.

Nella chiosa finale si evoca l’attuale «contesto storico» come “suscettibile di evoluzione sul piano legislativo in ragione delle sempre più pressanti esigenze di tutela delle minoranze religiose, etniche e culturali in un ordinamento ispirato ai valori della tolleranza, della solidarietà, della non discriminazione e del rispetto del pluralismo”.

È ambientato nelle aule giudiziarie e non in quelle scolastiche, il caso deciso da Sez. U, n. 05924/2011, Segreto, Rv. 616554-01 che, chiamata a pronunziarsi in relazione ad una sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, ha confermato la legittimità della rimozione dal servizio irrogata ad un magistrato che si era rifiutato di tenere udienza in un’aula che esponeva il crocifisso, asserendo che tale ostensione fosse lesiva del suo diritto alla libertà religiosa, di coscienza e di opinione, e dopo che gli era stata messa a disposizione un'aula priva del crocefisso, lesiva del principio della laicità dello Stato e dei diritti di libertà religiosa degli altri cittadini.

Le S.U., premesso che il rifiuto del lavoratore allo svolgimento della prestazione lavorativa a cui è tenuto, a fronte di inadempimenti del datore di lavoro lesivi di diritti fondamentali, è consentito ove venga in rilievo un diritto proprio del lavoratore od altrui purché nel primo caso, il comportamento del prestatore sia idoneo ed adeguato ad impedire la lesione -non altrimenti evitabile ovvero evitabile in modo eccessivamente oneroso -del diritto oggettivamente minacciato e, nel secondo, la minaccia, avente ad oggetto un'offesa ingiusta, abbia i caratteri della concretezza e dell'attualità e il titolare del diritto inviolabile non abbia prestato, nei limiti della disponibilità del diritto, il proprio libero e legittimo consenso, anche in via implicita, hanno rigettato il ricorso escludendo che potesse addursi a giustificazione del rifiuto delle funzioni giurisdizionali la circostanza che nelle altre aule del Paese vi fossero crocifissi, dopo che era stato comunicato al magistrato il permesso di esercitare le funzioni in un’aula priva di simboli religiosi.

In questa decisione la Corte valuta che “nel nostro ordinamento costituzionale la laicità dello Stato costituisce un principio supremo idoneo a risolvere talune questioni di legittimità costituzionale. Trattasi di un principio che sebbene non sia proclamato espressis verbis dalla Carta fondamentale assume comunque rilevanza giuridica potendo evincersi dalle norme fondamentali del nostro ordinamento” e prosegue nel senso che “sul piano teorico il principio di laicità è compatibile sia con un modello di equiparazione verso l’alto che consenta ad ogni soggetto di vedere rappresentati nei luoghi pubblici i simboli della propria religione, sia con un modello di equiparazione verso il basso. Tale scelta legislativa, però, presuppone che siano valutati una pluralità di profili, primi tra tutti la praticabilità concreta ed il bilanciamento tra l’esercizio della libertà religiosa da parte degli utenti di un luogo pubblico con l’analogo esercizio della libertà religiosa negativa da parte dell’ateo e del non credente, nonché il bilanciamento tra garanzia del pluralismo e possibili conflitti tra pluralità di identità religiose tra loro incompatibili”.

Pur ponendosi il problema della presenza del crocefisso rispetto al principio di laicità dello Stato ed alla libertà religiosa, di coscienza e di opinione del singolo individuo, la Corte osserva come il magistrato rimosso non potesse lamentare una lesione di un proprio diritto, atteso che la messa a disposizione di un’aula, priva di segni religiosi ed aperta a tutti, valeva a far ritenere soddisfatta ogni sua aspettativa personale, di modo che la sola ragione che avrebbe potuto giustificare il rifiuto di svolgere le proprie funzioni finiva per rintracciarsi nella pretesa di vedere rimossi tutti i crocifissi presenti nelle aule di giustizia italiane, laddove la “tutela in forma extragiudiziale è ammessa solo allorché il diritto altrui sia minacciato da un’offesa ingiusta”, mentre la “presenza di un crocefisso può non costituire necessariamente minaccia ai propri diritti di libertà religiosa per tutti quelli che frequentano un’aula di giustizia per i più svariati motivi e non solo necessariamente per essere tali utenti dei cristiani”.

Infine ritiene di non dover prendere posizione sulla delicata questione del crocifisso pur ricordando che nella precedente Sez. 6, n. 28482/2009, Milo, Rv. 244413-01, con cui lo stesso magistrato era stato definitivamente assolto per la stessa condotta dal reato di omissione di atti d’ufficio, la Cassazione penale aveva evidenziato che la circolare del Ministro di Grazia e Giustizia del 29 maggio 1926, che imponeva l'ostensione del crocifisso nelle aule d'udienza, è un atto che “appare privo di fondamento normativo e quindi in contrasto con il principio di legalità dell'azione amministrativa” e soprattutto “non più in linea con il principio costituzionale di laicità dello Stato e con la garanzia della libertà di coscienza e di religione” e che “occorre individuare l'eventuale sussistenza di una effettiva interazione tra il significato, inteso come valore identitario, della presenza del crocifisso nelle aule di giustizia e la libertà di coscienza e di religione, intesa non solo in senso positivo, come tutela della fede professata dal credente, ma anche in senso negativo, come tutela del credente di diversa fede che rifiuta di avere una fede”.

Il tema è tornato di grande attualità in quanto Sez. L, n. 19618/2020, Di Paolantonio, non massimata, chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da un docente di lettere avverso la sanzione disciplinare della sospensione dall'insegnamento per trenta giorni, inflittagli per aver sistematicamente rimosso il simbolo del crocifisso dalle pareti dell’aula prima dell’inizio della sua lezione, contravvenendo alle disposizioni impartite dal Dirigente scolastico che aveva imposto a tutti i docenti di attenersi al deliberato dell'assemblea degli studenti che si era espresso a favore dell’affissione del crocifisso durante lo svolgimento delle lezioni, ha ritenuto che la decisione del caso presupponesse la soluzione di questioni di “massima e particolare importanza” e ne ha disposto la rimessione al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.c.

Nell’ordinanza interlocutoria si evidenzia che una pronuncia sul bilanciamento, e sui modi di risoluzione di un eventuale conflitto in ambito scolastico, fra le libertà ed i diritti tutelati dagli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 297 del 1994 che, rispettivamente, garantiscono la libertà di insegnamento, intesa come autonomia didattica e libera espressione culturale del docente (art. 1), ed il rispetto della coscienza civile e morale degli alunni ( art. 2), coinvolge temi più generali, su cui si registrano posizioni diverse espresse dalla giurisprudenza di legittimità, dalla giurisprudenza amministrativa, dal Giudice delle leggi, dalle Corti europee, “in relazione al significato del simbolo, al principio di laicità dello Stato, alla tutela della libertà religiosa, al carattere discriminatorio di atti o comportamenti del datore di lavoro che, in ragione del credo, pongano un lavoratore in posizione di svantaggio rispetto agli altri”.

Premesso che l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non è imposta da disposizioni di legge ma solo da risalenti regolamenti (per le scuole medie inferiori l’art. 118 del r.d. n. 965 del 1924; per le scuole elementari l’art. 119 del r.d. n. 1297 del 1928 che rimanda alla allegata tabella C), richiamati da più recenti atti amministrativi (direttiva MIUR n. 2667 del 3-10-2002), quanto al valore del simbolo si osserva:

-che il Consiglio di Stato, dapprima in sede consultiva e poi in sede giurisdizionale (C.d.S. II parere n. 63/1988; C.d.S. VI n. 556/2006), ha escluso che l’esposizione del crocifisso possa assumere un significato discriminatorio sotto il profilo religioso e che la decisione delle autorità scolastiche di tenere esposto il simbolo si ponga in contrasto con il principio della necessaria laicità dello Stato, sul presupposto che, potendo assumere significati diversi a seconda del luogo nel quale è esposto, possa svolgere in ambito scolastico una funzione simbolica educativa nei confronti degli alunni, credenti e non credenti, perché richiama valori laici, quantunque di origine religiosa, quali la tolleranza, il rispetto reciproco, la valorizzazione della persona;

-che, diversamente, la Corte di legittimità, in merito all'utilizzo dell'aula scolastica per lo svolgimento delle operazioni elettorali, evidenziata la natura esclusivamente religiosa del simbolo, ha ritenuto impossibile giustificare, attraverso il richiamo alla coscienza sociale, una scelta che si pone in contrasto con l'art. 3 Cost, in quanto, disponendo l'esposizione del solo crocifisso, viola il divieto di «discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l'appunto la religione» ( Vedi Sez. 4, n. 04273/2000 già cit.);

-che le Sezioni Unite non hanno dubitato del valore escatologico e di simbolo fondamentale della religione cristiana del crocifisso, sia allorché si sono pronunciate in sede di regolamento di giurisdizione (Sez. U. n. 15614/2006 già cit.), sia quando, nell'affrontare la diversa questione dell'esposizione del simbolo nelle aule giudiziarie, hanno escluso che fosse stata lesa la libertà religiosa del magistrato, non perché in assoluto non si potesse ravvisare nell'ostensione una lesione di diritti soggettivi inviolabili ed una violazione del principio di laicità dello Stato, ma perché in quella fattispecie veniva contestato un rifiuto opposto nonostante fosse stata messa a disposizione del magistrato un'aula priva del simbolo ( Sez. U. n. 05924/2011 già cit.);

-che la Corte EDU, nella sentenza Grande Camera del 18.3.2011, Lautsi c/o Italia, pur dando atto del valore religioso del simbolo, ha escluso che fosse configurabile una violazione dell'art. 9 della Convenzione ritenendo che dalla sola esposizione di un «simbolo essenzialmente passivo» non deriva la violazione del principio di neutralità dello Stato, e che all'ostensione non possa essere riconosciuta un'influenza sull'educazione degli allievi, paragonabile a quella di un discorso didattico o della partecipazione ad attività religiose, allorquando lo Stato non assuma un comportamento intollerante nei confronti di alunni che aderiscano ad altri credi religiosi.

La S.C., stigmatizza le peculiarità della vicenda evidenziando che:

-a differenza della fattispecie disciplinare esaminata dalle Sezioni Unite, il docente non aveva rifiutato la prestazione bensì, ritenendo di esercitare un legittimo potere di autotutela, fondato sulla lesione del suo diritto di libertà religiosa, aveva momentaneamente rimosso il simbolo dall'aula nella quale era chiamato a svolgere la sua attività di insegnamento;

-a differenza della fattispecie sottoposta al vaglio della Corte EDU, il valore del simbolo non veniva in rilievo in relazione all'utente del servizio, bensì al soggetto chiamato a svolgere la funzione educativa, per cui, qualora all'esposizione del simbolo si attribuisse il significato di evidenziare uno stretto collegamento fra la funzione esercitata ed i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama, si potrebbe dubitare del suo "ruolo passivo" ed il docente della scuola pubblica, non confessionale, potrebbe fondatamente sostenere che quel collegamento si pone in contrasto con il principio di laicità dello Stato e ravvisare nell’ostensione una lesione della sua libertà di coscienza e di religione.

Ulteriore questione posta dal ricorso è quella della violazione della disciplina in tema di discriminazioni di cui al d.lgs. n. 216 del 2003, emanato in attuazione della direttiva 2000/78/CE, esclusa dalla Corte territoriale sul presupposto che gli atti adottati dal dirigente scolastico fossero riferiti indistintamente a tutti i docenti.

Sul punto l’ordinanza in commento rileva come la sentenza impugnata abbia omesso di esaminare la questione della configurabilità nella fattispecie di una forma di discriminazione indiretta che, secondo i principi affermati nelle sentenze della GGUE del 14.3.2017, cause C-157/15, Achbita, e C-188/15, Buougnaoui, in relazione al divieto imposto dal datore di lavoro di indossare simboli identificativi dell'adesione ad un credo religioso, potrebbe essere integrata da atti che determinano «un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia» rispetto ai lavoratori che a detta religione o ideologia non aderiscono, con la precisazione che una restrizione della libertà religiosa può essere giustificata solo ove ricorra una finalità legittima ed i mezzi impiegati per il perseguimento di detta finalità siano appropriati e necessari.

Nella vicenda de quo si potrebbe sostenere che l'esposizione del crocifisso, qualora gli si attribuisca il particolare significato di simbolo religioso, ponga il docente non credente, o aderente ad un credo religioso diverso da quello cattolico, in una situazione di svantaggio rispetto all'insegnante che a quel credo aderisce, costringendolo a svolgere l'attività di insegnamento in nome di valori non condivisi, con conseguente lesione di quella libertà di coscienza che il datore di lavoro è tenuto a salvaguardare ogniqualvolta la prestazione possa essere utilmente resa con modalità diverse che invece garantiscano quella libertà.

Si impone quindi valutare la sussistenza o meno di una finalità legittima che giustifichi la compressione del diritto di libertà religiosa del docente, interrogandosi sulla possibilità di limitare il diritto dell'insegnante valorizzando la volontà manifestata dall'assemblea di classe, dando prevalenza al rispetto della coscienza degli alunni, espressamente tutelata dall'art. 2 del d.lgs. n. 297 del 1994, come già sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa (TAR Brescia n. 603/2006), o previsto dalla legge bavarese del 23.12.1995 che, all’art. 7, ha ritenuto di valorizzare, quanto all'esposizione di simboli religiosi, la volontà espressa dalla maggioranza degli alunni, dei genitori e del personale docente.

In senso contrario rilevano, tuttavia, i principi affermati dalla Corte costituzionale, secondo cui in materia di religione non puassumere rilevanza il criterio quantitativo, imponendosi «pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza», con la conseguenza che il conflitto fra la volontà espressa dagli alunni e quella del docente che nel simbolo non si riconosce, andrebbe risolto valorizzando il principio della laicità dello Stato, senza operare discriminazioni fra le diverse fedi e fra credenti e non credenti.

Osserva infine la S.C. che, ai fini dell'indagine richiesta dal diritto antidiscriminatorio sull'appropriatezza del mezzo utilizzato rispetto alla finalità perseguita, occorrerebbe anche valutare se, a fronte della volontà manifestata dalla maggioranza degli alunni e dell'opposta esigenza del docente, l'esposizione del simbolo fosse comunque necessaria o se invece si sarebbe potuta realizzare una mediazione fra le libertà in conflitto, consentendo, in nome del pluralismo, proprio la condotta sanzionata della rimozione momentanea del simbolo quale legittimo esercizio del potere di autotutela.

6. Conclusioni.

Il tema della laicità dello Stato, come evidenzia la disamina che precede, è oggetto di studi e approfondimenti in vari settori giuridici, dal diritto ecclesiastico al diritto costituzionale, dalla storia del diritto alla filosofia, dal diritto privato al diritto del lavoro, sino ad essere al centro di riflessioni, più generali, di stampo politico, filosofico e sociologico.

Il discorso giuridico sulla laicità non può essere limitato ad una compagine dell’ordinamento statale, ma investe i fondamenti stessi dello Stato democratico, di cui definisce la struttura essenziale in relazione ai temi dell’eguaglianza, della libertà, del pluralismo e della tutela delle minoranze, condizionando dalle fondamenta il sistema delle fonti del diritto.

Come ricordato dalla Consulta, la libertà religiosa garantita dall’art. 19 Cost. è un diritto inviolabile tutelato «al massimo grado» dalla Costituzione; la garanzia costituzionale ha valenza anche “positiva”, giacché il principio di laicità che contraddistingue l’ordinamento repubblicano è «da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità»

La possibilità prevista dalla Costituzione agli artt. 7 e 8, che lo Stato regoli bilateralmente, e dunque in modo differenziato, i rapporti con le singole confessioni religiose, per il soddisfacimento di esigenze specifiche, ovvero per concedere particolari vantaggi o imporre particolari limitazioni, o ancora per dare rilevanza, nell’ordinamento dello Stato, a specifici atti propri della confessione religiosa, non deve interferire con la tutela del diritto individuale, fondamentale ed inviolabile, avendo più volte la Corte affermato che «altro è la libertà religiosa, garantita a tutti senza distinzioni».

Posto che lo Stato italiano, rispetto al fenomeno religioso, può correttamente essere qualificato come pluralista, il riconoscimento del valore oggettivo della cultura religiosa o del dato di fatto che i principi del cattolicesimo costituiscano un patrimonio storico del popolo italiano, non deve ostacolare l’attuazione di un generale ed ampio principio costituzionale di libertà religiosa per tutte le fedi possibili, ed anche della libertà di non avere nessuna fede, in ogni forma di manifestazione della personalità dell’individuo sia in pubblico che in privato.

I valori della libertà religiosa, tutelati dagli artt. 3 e 19 Cost. vengono in rilievo “nella duplice specificazione di divieto: a) che i cittadini siano discriminati per motivi di religione; b) che il pluralismo religioso limiti la libertà negativa di non professare alcuna religione”.

L'esistenza nella società, e maggiormente in quella globale e multietnica dei nostri tempi, di una pluralità di scale di valori, di scelte personali riferibili alla sfera intima o al pensiero, dotati di pari dignità, impone una pari tutela della libertà di religione, anche negativa nella forma della professione di ateismo o di agnosticismo, della libertà di coscienza, comunque orientata, della libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici.

Nell’attesa del pronunciamento delle Sezioni Unite sul problematico caso del crocefisso, con i suoi più recenti arresti la S.C. ha già mostrato di tenere il passo con il trend europeo a favore della massima espansione dei diritti fondamentali, tra i quali rientra a pieno titolo la libertà di religione quale riflesso del principio di laicità dello Stato, di cui sempre con maggiore consapevolezza ed incisività ha intrapreso la via della tutela antidiscriminatoria.

Dal principio di laicità discende che ogni violazione della parità di trattamento tra credenti e non credenti, sia sul piano della tutela individuale che di quella collettiva delle organizzazioni attraverso cui si esprime la libertà di religione e di coscienza, configura un atto discriminatorio; anche un concetto di laicità positiva, quale è quello che caratterizza l’ordinamento italiano, richiede accanto alla tutela ed al sostegno del pluralismo, la tutela non discriminatoria ma pluralistica di tutte le religioni, e non, che caratterizzano la comunità nazionale, nella quale convivono fedi, culture e tradizioni diverse, tutte parimenti garantite dalla Costituzione.

  • libertà di religione
  • medico
  • diritti di obbligazioni

III)

TRATTAMENTO SANITARIO TRA DIRITTO DI AUTODETERMINAZIONE, LIBERTÀ DI MANIFESTAZIONE DEL CREDO RELIGIOSO ED OBBLIGHI PROFESSIONALI DEL MEDICO: SPUNTI DI RIFLESSIONE DALLA SUPREMA CORTE

(di Fabio Antezza )

Sommario

1 Le ragioni dell’intervento nomofilattico: fattispecie, questione e principio di diritto. - 2 Il percorso logico-giuridico seguito dalla Corte. - 3 Spunti di riflessione: il difficile dialogo tra autodeterminazione sanitaria, libertà del credo religioso ed obblighi professionali del medico.

1. Le ragioni dell’intervento nomofilattico: fattispecie, questione e principio di diritto.

In fattispecie caratterizzata da esecuzione (nel 2005) di intervento di laparotomia esplorativa, eseguito previo consenso informato al trattamento sanitario e dissenso preventivo all’emotrasfusione per motivi religiosi, la Corte territoriale rigetta la richiesta di risarcimento danni proposta, nei confronti della struttura sanitaria, da Testimone di Geova in relazione alle trasfusioni di sangue eseguite in suo favore e causalmente ricollegate al medesimo trattamento sanitario.

La ratio decidendi della statuizione di merito si fonda sull’impossibilità di considerare un espresso, inequivoco ed attuale dissenso preventivo all’emotrasfusione, implicando il consenso informato relativo all’intervento di laparotomia esplorativa anche l’accettazione di tutte le sue fasi, ivi compresa la necessità della trasfusione per il caso di pericolo di vita.

Sez. 3, n. 29469 del 2020, Scoditti, Rv. 660087-01, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte territoriale per l’applicazione del seguente principio di diritto. «Il Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita».

2. Il percorso logico-giuridico seguito dalla Corte.

L’iter logico-giuridico seguito dalla Suprema Corte muove dall’assunto per il quale i fatti di causa risalgono al 2005, per cui non può trovare applicazione la legge 22 dicembre 2017, n. 219 («norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento») bensì la norma ordinaria di riferimento. L’art. 33, comma 1, della l. n. 833 del 1978, in particolare, nell’ambito della disciplina sul trattamento sanitario obbligatorio, prevede che «gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari», così richiamando il principio costituzionale di cui all’art. 32, comma 2, Cost., in base al quale «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge».

A fronte della carenza di una specifica fattispecie legale nella quale sussumere il caso concreto, in ragione dell’inapplicabilità, ratione temporis, della l. n. 219 del 2017, spetta quindi al giudice ricostruire la regola di giudizio attingendo direttamente ai principi costituzionali (sul punto si richiamano Corte cost. n. 11 del 1998 e Corte cost. n. 347 del 1998), venendo così in rilievo la giurisdizione per principi costituzionali.

Il fatto, come puntualmente esplicitato nel ricorso, è quello della sottoposizione di Testimone di Geova a trasfusione di sangue, contraria al proprio credo religioso (sul punto si veda Sez. 3, n. 04211 del 2007, Varrone, Rv. 594993-01). Con riferimento al detto fatto la ricorrente fa valere sia il diritto di autodeterminazione con riferimento al trattamento sanitario che la libertà di manifestazione del proprio credo religioso.

I principi costituzionali che dunque entrano in gioco sono riconducibili, per un verso, all’autodeterminazione sanitaria e, per l’altro, alla libertà religiosa. Con riferimento al primo, come ribadito da Sez. 3, n. 28985 del 2019, Olivieri, Rv. 656134-01, la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost. Si tratta, per la Suprema Corte, di affermazione coerente con quanto già chiarito dalla giurisprudenza costituzionale per la quale «il consenso informato in quanto espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che la “libertà personale è inviolabile” e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”» (il riferimento è a Corte cost., n. 00438 del 2008).

Quanto al profilo della libertà religiosa, Sez. 3, n. 29469 del 2020 dichiaratamente dà continuità alla giurisprudenza di legittimità nel porre in evidenza il collegamento del diritto di rifiutare il trattamento sanitario all’art. 19 Cost. in relazione a casi inerenti pazienti Testimoni di Geova (il riferimento è a Sez. 1, n. 14158 del 2017, Acierno, Rv. 644450-01, ed a Sez. 1, n. 12998 del 2019, Caiazzo, Rv. 653917-01, quest’ultima richiamata anche da Sez. 3, n. 00515 del 2020, Graziosi, Rv. 656809-03).

Per la definizione della libertà religiosa, invece, la Suprema Corte fa propria la recente sintesi della giurisprudenza costituzionale offerta da Corte cost., n. 254 del 2019 (relativa all’edificazione di edifici di culto in controversia concernente un caso di confessione religiosa mussulmana). «La libertà religiosa garantita dall’art. 19 Cost. è un diritto inviolabile (sentenze n. 334 del 1996, n. 195 del 1993 e n. 203 del 1989), tutelato al massimo grado (sentenza n. 52 del 2016) dalla Costituzione. La garanzia costituzionale ha valenza anche “positiva” giacché il principio di lealtà che contraddistingue l’ordinamento repubblicano è “da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato (sentenze nn. 63 del 2016, n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995, n. 203 del 1989), non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo i criteri di imparzialità” (sentenza n. 67 del 2017)».

A sostegno del diritto di rifiutare l’emotrasfusione vi è il complesso concorso di principi rappresentato da quello dell’autodeterminazione in materia di trattamento sanitario e quello di libertà religiosa. Tale osmosi di principi costituzionali non incontra nel caso di specie (per come accertato dal giudice di merito) principi di segno contrario suscettibili di bilanciamento ed evidenzia esclusivamente la circostanza della necessità dell’emotrasfusione per il mantenimento in vita della paziente. Da tale circostanza emerge la tutela della salute quale diritto dell’individuo, sancito dall’art. 32 Cost., e dunque in termini di principio nuovamente riconducibile alla posizione soggettiva della ricorrente e non ad un bene-interesse contrapposto a tale posizione (non potendosi ritenere il riferimento nella norma costituzionale all’interesse della collettività alla salute dell’individuo in contraddizione al principio di autodeterminazione enunciato nella medesima norma). La circostanza della necessità dell’emotrasfusione è inoltre priva di rilievo ai fini dell’insorgenza di un principio da contrapporre a quello dell’autodeterminazione e della libertà religiosa (con riferimento alla circostanza in discorso opera difatti esclusivamente il principio di cui all’art. 19 Cost.).

Il complesso dei principi evidenziati non incontra perciò principi costituzionali di segno opposto tali da imporne un bilanciamento ed è quindi tale da trovare piena e diretta attuazione non essendovi in materia necessità di ponderazione.

La regola di giudizio che la Suprema Corte trae dall’identificata osmosi di principi costituzionali, con riferimento alle circostanze del caso, è quella per la quale il Testimone di Geova ha diritto di rifiutare l’emotrasfusione. Sulla base della fonte costituzionale, avente qui efficacia orizzontale, sorge difatti uno specifico rapportogiuridico contrassegnato dall’obbligazione negativa del sanitario di non ledere la sfera giuridica vantata dal Testimone di Geova, cui spetta la titolarità attiva del rapporto.

In base all’evidenziata regola di giudizio, quindi, il Testimone di Geova, sotto la copertura del complesso dei principi costituzionali evidenziati, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione anche con dichiarazione formulata prima del trattamento sanitario e, nella specie, l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa non ha implicato l’accettazione anche dell’emotrasfusione. La dichiarazione anticipata di dissenso all’emotrasfusione, che possa essere richiesta da un’eventuale emorragia causata dal trattamento sanitario, non può dunque essere neutralizzata dal consenso prestato a quest’ultimo.

Restano naturalmente, per il dissenso espresso prima del trattamento sanitario, le condizioni fissate da Sez. 3, n. 23676 del 2008, Travaglino, Rv. 604907-01 e cioè un’articolata, puntuale, espressa ed attuale dichiarazione dalla quale inequivocabilmente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita.

Sez. 3, n. 29469 del 2020, cit., sente altresì doveroso aggiungere con lo sguardo alla l. n. 219 del 2017, non applicabile alla fattispecie ratione temporis e, dunque, quale dichiarato obiter dictum, che la posizione del medico non è esente da garanzie in circostanze come quella del caso di specie.

Prevede difatti l’art. 1, comma 6, della citata legge, non solo che «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa del paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale», ma anche che «il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali».

Premesso quanto innanzi, la Corte conclude nel senso che il consenso ad un intervento chirurgico, al quale è consustanziale il rischio emorragico, con l’inequivoca manifestazione di dissenso all’esecuzione di trasfusione di sangue ove il detto rischio si avveri, significa esigere dal medico un trattamento sanitario contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologia professionale; sicché, a fronte di tale determinazione del paziente il medico non ha obblighi professionali (ex art. 1 della l. n. 219 del 2017).

3. Spunti di riflessione: il difficile dialogo tra autodeterminazione sanitaria, libertà del credo religioso ed obblighi professionali del medico.

La Suprema Corte risolve la questione di diritto, enunciando il principio massimato da questo Ufficio nei termini innanzi riportati (par. n. 1), inserendosi, dichiaratamente, nel solco interpretativo già tracciato dalla stessa giurisprudenza di legittimità, anche in considerazione di diversi interventi della Consulta, ma specificandolo ulteriormente proprio in relazione al modo d’atteggiarsi dei rapporti tra diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario e libertà di manifestazione del proprio credo religioso mediante dissenso anticipato. La dichiarazione anticipata di dissenso all’emotrasfusione, che possa essere richiesta da un’eventuale emorragia causata dal trattamento sanitario, non può dunque essere neutralizzata dal consenso prestato a quest’ultimo.

La sentenza in argomento getta altresì le basi, ancorché in un (dichiarato) obiter dictum, per l’interpretazione dell’articolo 1 della l. n. 219 del 2017 proprio circa i rapporti tra diritto di autodeterminazione in materia sanitaria, libertà di manifestazione del proprio credo religioso (mediante dissenso anticipato) e limiti degli obblighi professionali del medico.

Circa il primo dei due aspetti ed in merito al fondamento del «consenso informato» ed alla possibilità di un dissenso, anche anticipato, per motivi religiosi (argomentato dall’art. 19 Cost.), alla ricostruzione operata dal Sez. 3, n. 29469 del 2020 non vi è motivo di aggiungere alcunché se non che, oltre ai richiamati parametri costituzionali (artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost.), all’art. 33 della l. n. 833 del 1978 ed alla successiva legge n. 219 del 2017, la necessità che il paziente sia posto in condizione di conoscere il percorso terapeutico si evince, altresì, da ulteriori leggi nazionali che disciplinano specifiche attività mediche, tra le quali l’art. 6 della l. 19 febbraio 2004, n. 40, recante norme in materia di procreazione medicalmente assistita. Numerose norme internazionali prevedono inoltre la necessità del consenso informato del paziente nell’ambito dei trattamenti medici. In particolare, anche in questo caso senza pretesa di esaustività, l’art. 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo (firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 27 maggio 1991, n. 176), l’art. 5 della Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina (firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall'Italia con l. 28 marzo 2001, n. 145, ma con strumento di ratifica non ancora depositato), e l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000). All’elencazione di cui innanzi non sfugge il codice deontologico di categoria che risulta permeato dal principio del consenso informato (il codice attualmente in vigore è stato adottato nel 2014 e più volte modificato negli anni 2016, 2017 e 2020).

Il fondamento diretto nei detti principi costituzionali implica però che la circostanza dell’espressa previsione del diritto al consenso informato nelle citate fonti eurounitarie ed internazionali solo successivamente al trattamento terapeutico praticato non possa essere invocata per sostenere l’inesistenza, in epoca antecedente, dello specifico obbligo del medico di informare correttamente il paziente della tipologia e modalità delle cure, dei benefici conseguibili, dei possibili effetti indesiderati e del rischio di complicanze anche peggiorative dello stato di salute (in termini, Sez. 3, n. 28985 del 2019, Olivieri, Rv. 656134-01)1.

In merito all’interpretazione dell’articolo 1 della l. n. 219 del 2017, con riferimento ai rapporti tra «consenso informato», libertà di manifestazione del proprio credo religioso (mediante dissenso anticipato) e limiti degli obblighi professionali del medico, la statuizione in oggetto è fonte di spunti di riflessione, vista anche la portata che essa potrebbe avere al di là del preventivo «dissenso per motivi religiosi».

Per Sez. 3, n. 29469 del 2020, cit., nel caso di specie, ex art. 1 della l. n. 219 del 2017, comunque non applicabile alla fattispecie ratione temporis, la posizione del medico non sarebbe stata esente da garanzie. Il citato art. 1 prevede, difatti, non solo che «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa del paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale», ma anche che «il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali». Sicché, conclude la Suprema Corte, il consenso ad un intervento chirurgico, al quale è consustanziale il rischio emorragico, con l’inequivoca manifestazione di dissenso all’esecuzione di trasfusione di sangue ove il detto rischio si avveri, significa esigere dal medico un trattamento sanitario contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologia professionale, con la conseguenza che, a fronte di tale determinazione del paziente, «il medico non ha obblighi professionali».

L’affermazione del principio di cui innanzi evidenzia la necessità di individuare il punto d’incontro dialogico tra autodeterminazione e libertà del paziente religioso, da un lato, ed obblighi professionali del medico, dall’altro. Essa è sentitamente avvertita in situazioni nelle quali, spesso, si assiste ad azioni risarcitorie intentate dal paziente, in quanto sottoposto a trattamento trasfusionale nonostante il sul dissenso (anche preventivo), ovvero dai suoi prossimi congiunti, per le conseguenze dannose causalmente ricollegate all’omessa trasfusione ed in ragione di un dissenso rispetto ad esse che sovente si prospetta come essere non informato, effettivo o comunque non più attuale.

In ragione della fattispecie concreta, però, l’interpretazione in oggetto emerge da un dichiarato obiter dictum così non consentendo alla Corte, nella specie, di chiarire ulteriormente portata e contorni applicativi del principio, con riferimento ai quali la statuizione ha anche il pregio di sollecitare diversi spunti di riflessione, tanto agli interpreti quanto al Legislatore.

Se per assenza di «obblighi professionali» in capo al medico, in fattispecie come quella di cui innanzi, dovesse intendersi, come sembrerebbe, non l’assenza del dovere/obbligo di adottare la dovuta diligenza nell’esecuzione del trattamento sanitario ma l’assenza dell’obbligo professionale di eseguire il trattamento, si rischierebbe di privare di sostanza l’esercizio della libertà costituzionale di manifestazione del proprio credo religioso (art. 19 Cost.) mediante dissenso anticipato. Il religioso, in altri termini, si troverebbe di fronte all’alternativa di non esercitare la detta libertà, così sottoponendosi al trattamento sanitario implicante trasfusioni salvavita, ovvero di esercitare la detta libertà, mediante dissenso, e di non ricevere la prestazione sanitaria, in ipotesi salvavita.

Ciò peraltro, in un contesto tale per cui qualsiasi medico non avrebbe l’obbligo professionale di eseguire il trattamento e l’assenza di obbligo professionale di fatto finirebbe nel concretizzarsi in un divieto di esecuzione in capo al sanitario.

Per la Corte, difatti, «l’inequivoca manifestazione di dissenso all’esecuzione di trasfusione di sangue ove il detto rischio si avveri, significa esigere dal medico un trattamento sanitario contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologia professionale». Un trattamento sanitario di tal guisa, cioè contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologia professionale, difficilmente potrebbe ritenersi semplicemente come non oggetto di obbligo professionale.

In maniera non dissimile potrebbero atteggiarsi i rapporti tra esercizio della libertà religiosa, mediante anticipato dissenso all’emotrasfusione, consenso informato al trattamento sanitario ed obblighi professionali del medico, qualora si intendesse l’assenza di «obblighi professionali» del sanitario in termini di insussistenza in capo allo stesso del solo obbligo di astenersi dall’esecuzione della sola trasfusione. Nella fattispecie in esame, difatti, il medico nell’eseguire il trattamento sanitario, dovrebbe procedere all’emotrasfusione (salvavita) nonostante il preventivo dissenso per motivi religiosi.

Verosimilmente, i detti rapporti tra libertà religiosa, autodeterminazione al trattamento sanitario ed obblighi professionali del medico si atteggerebbero in egual modo anche nel caso di disposizioni anticipate di trattamento (DAT), disciplinate dalla stessa l. n. 219 del 2017, e di dissenso manifestato successivamente al trattamento sanitario (o nel corso di esso) caratterizzato da un «consustanziale rischio emorragico». In quest’ultimo caso, come nel precedente, difatti, con il suo dissenso, ancorché non preventivo, il paziente finirebbe con l’«esigere dal medico un trattamento sanitario», con consustanziale rischio emorragico, «contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologia professionale».

Altro spunto di riflessione è offerto da Sez. 3, n. 29469 del 2020 circa l’ambito di applicabilità temporale del principio ricavato dall’art. 1 della l. n. 219 del 2017.

La Corte, difatti, esclude che esso possa applicarsi al caso di specie, trattandosi di fattispecie del 2005, ed allo stesso tempo ricollega l’assenza di obbligo professionale in capo al medico alla circostanza per la quale «l’inequivoca manifestazione di dissenso all’esecuzione di trasfusione di sangue ove il detto rischio si avveri, significa esigere dal medico un trattamento sanitario contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologia professionale».

L’incidentalità della statuizione sul punto, in particolare, non ha consentito di chiarire ulteriormente la portata temporale del principio in quanto «un trattamento sanitario contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologia professionale» si potrebbe ritenere tale da escludere in capo al sanitario «obblighi professionali» anche a prescindere dall’inciso contenuto nell’art. 1 della l. n 219 del 2017. Tale articolo, dunque, limitatamente al detto inciso, potrebbe non vedersi riconoscere una effettiva portata innovativa, con conseguente applicabilità del principio anche a fattispecie pregresse rispetto all’entrata in vigore della citata legge.

Parimenti, si dovrà attendere che la concreta fattispecie consenta alla Supreme Corte di specificare e circostanziare la portata applicativa della prospettata interpretazione dell’art. 1 della l. n. 219 del 2017 con riferimento ai rapporti interni tra struttura sanitaria (in ipotesi anche privata) e medico che, nonostante l’assenza di obblighi professionali, nei termini e nella fattispecie di cui innanzi, comunque proceda al trattamento sanitario, provvedendo o non provvedendo all’emotrasfusione, oltre che ai possibili risvolti sul versante assicurativo.

  • diritti e libertà
  • cognome
  • libertà sessuale
  • discriminazione basata sulle tendenze sessuali
  • identità di genere

IV)

IDENTITÀ DI GENERE, TRANSESSUALISMO E DIRITTO AL NOME.

(di Marina Cirese )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’identità di genere. - 3 Il transessualismo. - 4 L’identità di genere nel diritto internazionale. - 5 La disciplina nazionale del mutamento di sesso. - 6 L’evoluzione della giurisprudenza. - 7 Il diritto al nome. - 8 Problemi aperti.

1. Premessa.

Uno dei temi più dibattuti e tormentati in tema di identità personale è quello relativo all’identità sessuale ed ai connessi profili del transessualismo, della rettificazione del sesso e del mutamento del prenome. Le aperture registrate negli ultimi anni nei riguardi del fenomeno del transessualismo traggono origine non soltanto dal mutamento dei costumi sociali e quindi dal cambiamento della percezione dell'opinione pubblica nei riguardi del fenomeno, ma anche dall'evoluzione della scienza medico-psichiatrica, i cui ultimi approdi hanno determinato una sostanziale “depatologizzazione” del disturbo dell'identità di genere. Tappa fondamentale è rappresentata dall'affermazione della tesi della “non indispensabilità” dell'intervento chirurgico ai fini dell'accesso al percorso di mutamento del sesso che si inscrive in un più ampio movimento, sociale, ma anche giuridico, volto al riconoscimento del diritto alla identità personale, del quale l'identità di genere non è altro che una delle possibili manifestazioni.

L’affermazione della identità sessuale e del connesso diritto al mutamento del sesso è caratterizzata da un’evoluzione progressiva ed inarrestabile che sempre più segna il distacco da elementi strettamente “corporei” per giungere al riconoscimento dell’identità in termini maggiormente soggettivistici ovvero legati al sentire del singolo. In altri termini le caratteristiche fisiche dell’accertamento del sesso perdono rilevanza, mentre è divenuto decisivo il convincimento e l’autodeterminazione della persona.

2. L’identità di genere.

L'identità di genere può essere intesa come la percezione di se stessi come individuo maschio o femmina, che non sempre coincide con il sesso biologico, cosicché occorre considerare il sesso psicologicamente percepito che può risultare diverso da quello reale.

Esistono inoltre casi in cui il sesso di una persona non è anatomicamente e biologicamente certo; è questa la condizione dell'intersessuale che si manifesta con la coesistenza in uno stesso individuo di caratteri sia maschili sia femminili.

Il genere definisce altresì un aspetto complesso della personalità, ha una connotazione psicologica e socio-culturale che va oltre l'aspetto puramente biologico, e riguarda tratti comportamentali e fisici, ossia le caratteristiche di una persona che concorrono a formare la sua identità di genere.

L'identità di genere costituisce un aspetto dell'identità personale, quindi rientra a pieno titolo nell'ambito dei diritti fondamentali della persona con particolare riguardo anche al diritto alla salute (art. 32 Cost.) inteso non solo come integrità somato-psichica, ma in senso ampio come stato di benessere psico-fisico e sociale.

Tale profilo entra a far parte dello svolgimento e dello sviluppo della personalità individuale e sociale ed individua anche il ruolo di genere, vale a dire il tipo di aspettativa sociale che si crea nei confronti di una persona per il solo fatto della sua appartenenza ad un genere.

Il diritto alla identità di genere, seppur affermato dalla giurisprudenza, oltre a non trovare posto nel panorama normativo italiano non sembra aver raggiunto una sufficiente configurazione ed elaborazione.

Sia la giurisprudenza italiana che quella della Corte di Strasburgo e della Corte del Lussemburgo, pur avendo utilizzato il concetto di identità di genere per tutelare i diritti fondamentali dell'individuo, in particolare per affermare la tesi della non necessità dell'intervento di normoconformazione nel procedimento di riassegnazione sessuale, non ne danno una definizione.

Nel nostro ordinamento si può sostenere1 che l’identità di genere abbia iniziato a “vivere” come bene giuridico nel diritto penale anche senza un formale riconoscimento del legislatore e che le recenti acquisizioni scientifiche che consentono oggi anche al diritto di definirla più chiaramente i tutti i suoi aspetti abbiano solo un valore di riconoscimento di un bene giuridico già presente, come oggetto di tutela, in singole fattispecie penali -e in particolare nel delitto di maltrattamenti in famiglia, in quello di atti persecutori e nei delitti di violenza sessuale rispettivamente previsti agli articoli 572, 612 bis e 609 bis e seguenti c.p. che, seppure originariamente correlate, nella visione del legislatore, a beni giuridici più generici (cioè l’assistenza familiare per i maltrattamenti, la libertà personale per la violenza sessuale e la libertà morale per gli atti persecutori), in realtà hanno sempre tutelato, sin dalla loro introduzione, l’identità di genere della persona.

3. Il transessualismo.

Nell’antichità il fenomeno del transessualismo veniva ricondotto nell’alveo del prodigioso attribuendo ai soggetti coinvolti poteri sovrannaturali, il che poteva indurre a ritenere necessaria, da un punto di vista religioso e giuridico, la soppressione di creature non propriamente umane oppure al contrario ad attribuire ai soggetti in questione poteri sovrannaturali.

Nei periodi di maggiore laicizzazione dello stato si cercava di ricondurre e spiegare la “diversità” a cause naturali mentre i giuristi si interrogavano sull’inquadramento di tali individui in un genere o nell’altro ai fini della applicazione di vari istituti giuridici.1

Detto fenomeno interessa le persone che, pur appartenendo a un sesso biologico predefinito, vogliano iniziare o abbiano già iniziato un percorso di adeguamento fisico al genere opposto a quello cui dovrebbero appartenere.

Più specificamente alcune di queste persone sentono di appartenere al genere opposto e desiderano addivenire a un cambiamento fisico che faccia corrispondere il loro sesso biologico con quello psichico; altre, invece, sentono di appartenere a entrambi i generi, ovvero, di non appartenere né all'uno, né all'altro genere.

Le persone transessuali sono quelle che, appartenenti alla prima categoria, abbiano iniziato un percorso di transizione verso il sesso connesso al genere cui sentono di appartenere, al fine di diventare, esteticamente, quello che davvero sono.

Le altre, invece, si pongono a cavallo tra i due generi e sono definite, a seconda del caso, persone bi-gender o two spirits (laddove sentano di appartenere a entrambi i generi), gender question (laddove si interroghino sul genere di appartenenza) o gender variant (anche detti gender queer, laddove sfidino le norme collegate al genere).

Viene definita poi “disforia di genere” la situazione della persona che ha un'identità di genere non conforme al proprio sesso biologico, e quindi ai ruoli di genere che la società le abbia eventualmente attribuito, per cui aspira ad assumere le caratteristiche fisiche e comportamentali che sono, o vengono socialmente percepite come, tipiche dell'altro. La realizzazione, in maniera più o meno completa, di tali aspirazioni dà luogo ai fenomeni del transessualismo.

Da segnalare che recentemente (il 18 giugno 2018) l’Organizzazione mondiale della sanità ha trasferito la disforia di genere, ovvero il malessere percepito da una persona che non si riconosce nel sesso assegnato alla nascita, dall’elenco delle malattie mentali a quello dei disturbi della salute sessuale. È questo uno dei tanti storici aggiornamenti voluti dall’Oms nella sua nuova e undicesima versione dell ’International Statistical Classification of Diseases anche Related Health Problems (Icd11), l’elenco che racchiude tutte le patologie e le condizioni di salute.

4. L’identità di genere nel diritto internazionale.

Sono diverse le fonti che a livello internazionale riguardano la tutela della identità sessuale. A riguardo va menzionato in primis l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo secondo cui il diritto al rispetto della vita privata include l'identificazione di genere come un aspetto dell'identità personale e che ciò riguarda tutti gli individui, comprese le persone transgender, indipendentemente dal fatto che desiderino o meno iniziare un trattamento di riassegnazione del sesso approvato dalle autorità.

La tutela dell’identità sessuale viene menzionata in altre fonti e precisamente:

1)il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, Raccomandazione CM/Rec (2010)5 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle misure per combattere la discriminazione basata sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere del 31 marzo 2010 (parte rilevante: “IV. Diritto al rispetto della vita privata e familiare …: Gli Stati membri dovrebbero adottare le misure appropriate per garantire il pieno riconoscimento giuridico del cambiamento di sesso di una persona in tutti i settori della vita, in particolare consentendo di modificare il nome e il genere della persona interessata nei documenti funzionario in modo rapido, trasparente e accessibile; Gli Stati membri dovrebbero inoltre garantire, se del caso, che gli attori non statali riconoscano il cambiamento e apportino le modifiche corrispondenti in documenti importanti come diplomi o certificati di lavoro");

2)l’Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, Risoluzione 2048 (2015) su "Discriminazione nei confronti dei transgender in Europa" del 22 aprile 2015 (parte rilevante: "6. ... l'Assemblea invita gli Stati membri: ... 6.2. per quanto riguarda il riconoscimento legale del genere: 6.2.1. stabilire procedure rapide, trasparenti e accessibili, basate sull'autodeterminazione, che consentano alle persone transgender di cambiare nome e sesso su certificati di nascita, carte d'identità, passaporti, diplomi e altri documenti simili; rendere tali procedure disponibili a tutti coloro che desiderano utilizzarle, indipendentemente dall'età, dallo stato di salute, dalla situazione finanziaria o dalla detenzione attuale o passata; ...");

3) la Risoluzione 1728 (2010), intitolata "Discriminazione basata sull'orientamento sessuale e identità di genere" del 29 aprile 2010 (parte rilevante: “16. Di conseguenza, l'Assemblea invita gli Stati membri ad affrontare questi problemi e, in particolare: 16.11. affrontare le discriminazioni e le violazioni dei diritti umani nei confronti delle persone transgender e, in particolare, garantire i diritti di tali persone nella legge e nella pratica: ... 16.11.2. documenti ufficiali che riflettono l'identità di genere scelta, senza obbligo preliminare di sottoporsi a sterilizzazione o altre procedure mediche come un'operazione di conversione del sesso o terapia ormonale ... ");

4) l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Relazione su leggi e pratiche discriminatorie e atti di violenza contro le persone a causa del loro orientamento sessuale o identità di genere (A/HRC/19/41) del 17 novembre 2011 (parti rilevanti: "G. Riconoscimento di genere e questioni correlate: 71. In molti paesi, le persone transgender non possono ottenere il riconoscimento legale delle loro preferenze di genere, incluso cambiare il genere e il nome sui documenti di identità ufficiali, quindi ci sono molte difficoltà pratiche, in particolare quando si presentano per un posto di lavoro, si applicano per alloggio, credito bancario o prestazioni sociali o andare all'estero.... 73. Il Comitato per i diritti umani ha espresso preoccupazione per l'assenza di disposizioni che garantiscano il riconoscimento giuridico dell'identità delle persone transgender. Ha esortato gli Stati a riconoscere il diritto delle persone transgender di cambiare genere consentendo l'emissione di nuovi certificati di nascita e ha preso atto con soddisfazione dell'adozione di leggi che facilitano il riconoscimento legale del cambiamento di genere.... VII. Conclusioni e Raccomandazioni ... 84. L'Alto Commissario raccomanda agli Stati membri: ... h) agevolare il riconoscimento giuridico del genere di preferenza delle persone transgender e adottare misure per consentire l'emissione di nuovi documenti di identità indicanti il genere di preferenza e il nome scelto, fatti salvi altri diritti dell'uomo").

Nonostante le forti prese di posizione assunte dagli organismi internazionali nei riguardi del fenomeno del transessualismo, il passo decisivo verso l'affermazione del diritto all'identità di genere ed alla conseguente “svalutazione”, nell'ambito del percorso di mutamento sessuale, dell'invasivo passaggio terapeutico costituito dall'intervento chirurgico, è stato però compiuto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

Invero, proprio la Corte europea dei diritti dell'uomo ha avuto modo di sottolineare, in una sentenza del 20151, frequentemente richiamata dalla giurisprudenza italiana di merito a “suffragio” della tesi della “non necessità” dell'intervento di normoconformazione, come richiedere la sterilità della persona “in transito”, ottenuta mediante intervento chirurgico, fosse contrario al diritto alla vita privata e familiare, nonché al diritto alla salute.

Recentemente, in una sentenza del 20171 la Corte europea dei diritti umani è tornata a pronunciarsi sulle procedure degli Stati volte al riconoscimento dell'identità di genere delle persone transgender, dichiarando incompatibile con la CEDU il requisito dell'incapacità procreativa ai fini dell'ottenimento della riattribuzione del genere anagrafico.

Sempre la Corte di Strasburgo ha individuato i diritti collegati alla nozione di identità di genere (come, ad. es., la possibilità di esercitare i diritti derivanti dal sesso acquisito).2 Oltre alla Corte di Strasburgo, importante è stato il lavoro svolto dalla Corte del Lussemburgo nell'affermazione dei diritti dei soggetti transessuali nella fase successiva al mutamento di sesso. In particolare, la Corte di giustizia dell'Unione europea ha stabilito che l'avvenuto mutamento di sesso comporta l'integrale acquisizione dei relativi diritti, con la conseguenza che non è ammissibile un trattamento della persona basato sul suo sesso biologico, configurandosi altrimenti un'illegittima discriminazione.

5. La disciplina nazionale del mutamento di sesso.

Fino al 1982 in Italia gli interventi chirurgici volti al mutamento di sesso erano illegali e l’eventuale effettuazione di un interevento del genere all’estero non avrebbe consentito al transessuale di vedere riconosciuta in Italia la sua nuova identità di genere.

Il legislatore risponde all’esigenza socialmente avvertita di offrire tutela a questa categoria di persona, spesso vittime, di discriminazioni, con la legge 14 aprile 1982, n. 164, che introduce la possibilità di rettificazione anagrafica.

Il fulcro normativo da cui partire è l’interpretazione degli articoli 1 e 3 della l. n. 164 del 1982 (rubricata “norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”), così come modificata dal d.lgs. 1 settembre 2011 n. 150.

L’articolo 1 stabilisce che la rettificazione si fa in forza di sentenza del Tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita “a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”.

L’articolo 3 (e oggi l’articolo 31, co. 4, d.lgs. n. 150 del 2011), invece, stabilisce che “quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico”, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato.

Questi gli scarni dati normativi, che non forniscono una definizione chiara di « carattere sessuale » né di « sesso ».

Il dibattito giurisprudenziale, stante la molteplicità dei casi pratici, si è svolto attorno alla ricerca di una definizione di « caratteri sessuali », e ha coinvolto la nozione, per l'appunto, di « sesso », così come quella di « genere » tenuto conto anche della difficoltà di trasporre in ambito giuridico concetti che hanno cittadinanza in altri settori del sapere.

Da sempre, questione dibattuta, nel nostro ordinamento, ha riguardato la necessità dell'intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali primari per i/le transessuali che vogliano ottenere la mera rettificazione anagrafica.

La disciplina del transessualismo ha frattanto conosciuto ulteriori trasformazioni connesse ad interventi giurisprudenziali, che anche in questo caso riflettono il mutamento dei paradigmi con cui la società e l'ordinamento guardano a tali vicende.

Se infatti in un primo tempo, ovvero negli anni ottanta, aveva assunto carattere progressivo un intervento normativo volto ad ammettere la praticabilità, in seguito ad una specifica autorizzazione giudiziale, di operazioni che in precedenza erano comunque vietate, per la sensibilità odierna era diventato invece difficile da accettare che il riallineamento fra sesso legale e sesso psicologico passasse per una pesantissima chirurgia demolitoria, peraltro anche di incerto esito.

L'interpretazione maggioritaria, anche alla luce delle conclusioni proposte dalla Corte costituzionale n. 161/1985 (la quale, configurava l'intervento chirurgico come unica terapia atta a supportare il superamento della sindrome), riteneva che l'adeguamento chirurgico dei caratteri sessuali primari al nuovo sesso fosse una condizione necessaria per la rettificazione anagrafica.

Infatti, nonostante l'articolo 1 suddetto faccia riferimento genericamente ai “caratteri sessuali”, senza specificare se primari o secondari, si riteneva implicito che il riferimento fosse ai caratteri primari: solo così, infatti si sarebbe potuta garantire la tutela dell'interesse alla definizione certa dei generi.

La mancanza dell'operazione, in quest'ottica, poteva essere giustificata solo nei casi in cui il ricorrente si fosse trovato in una condizione di salute tale da non consentirgli di sottoporsi all'operazione senza rischi, stante l'assoluta preminenza del diritto alla salute che altrimenti sarebbe stato leso; ma, anche in queste eventualità, la giurisprudenza riteneva quantomeno necessaria una operazione di sterilizzazione (la quale ultima, quindi, avrebbe plausibilmente sostituito l'originale presupposto di modifica chirurgica richiesto dalla legge, in quanto rientrante comunque nel genus degli interventi di adeguamento dei caratteri sessuali primari, capace di tutelare l'interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche, familiari e filiali).

6. L’evoluzione della giurisprudenza.

La progressiva evoluzione della tutela del mutamento della identità sessuale è senza dubbio segnata dal ruolo svolto dalla giurisprudenza che, così come in altri settori afferenti alla sfera personale, si è fatta interprete di nuove esigenze avvertite dal sentire sociale.

Ripercorrendo le tappe di tale evoluzione, occorre ricordare che negli anni ’70, la S.C. aveva negato l’esistenza di un diritto all’identità sessuale, precludendo alle persone transessuali ogni possibilità di rettificazione anagrafica, sostenendo che essa avrebbe leso la chiarezza delle relazioni interpersonali e quindi giuridiche, soprattutto in ambiti, come quello matrimoniale, ove la conoscenza del sesso del coniuge è un requisito indispensabile.

Peraltro la Corte Costituzionale aveva negato l’esistenza di un diritto all’identità sessuale nella Costituzione.

Il dogma dell’ immutabilità del sesso si scontrava tuttavia con i problemi etici e giuridici, con riguardo a quei soggetti i quali non si identificavano nella identità sessuale loro riconosciuta dalla nascita e che peraltro, collocati in una sorta di zona d’ombra, erano oggetto di discriminazioni.

Il problema da affrontare era quello dei transessuali, i quali, attraverso un intervento medico-chirurgico, erano giunti alla modifica dei loro caratteri genitali esterni, ottenendo una certa quale identificazione con le donne, individui che cioè erano percepiti come caratterizzati dalla volontà di trasformare il proprio corpo, per acquisire l’anatomia del genere sentito interiormente.

Il superamento di detta impostazione è segnato dall’arresto Sez. 1, n. 15138/2015, Acierno, Rv. 636001 -01, che muove dal rilievo che la stessa sentenza della Corte Costituzionale del 1985 aveva definito la legge n. 164 del 1982 frutto di una “civiltà giuridica in continua evoluzione sempre più attenta ai valori di libertà e dignità della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale” e in quanto tale non assoggettabile ad una lettura statica, cristallizzata storicamente.

Pertanto, l’applicazione delle previsioni contenute nella l. n. 164 del 1982 sembra dover evolversi col mutarsi delle condizioni sociologiche e culturali e col progredire della scienza biologica.

In tale pronuncia la Corte ha in primis rilevato che «nel sistema creato con la l. n. 164 del 1982, la correzione “chirurgica” non è imposta nel testo delle norme in esame [art. 1 e 3]», poiché risulta «sufficiente procedere ad un’interpretazione di esse che si fondi sull’esatta collocazione del diritto all’identità di genere all’interno dei diritti inviolabili che compongono il profilo personale e relazionale della dignità personale e che contribuiscono allo sviluppo equilibrato della personalità degli individui, mediante un adeguato bilanciamento con l’interesse di natura pubblicistica alla chiarezza nella identificazione dei generi sessuali e delle relazioni giuridiche ma senza ricorrere a trattamenti ingiustificati e discriminatori».

La Corte esclude che il dato letterale della l. n. 164 del 1982 imponga di considerare l'intervento chirurgico come necessario ai fini della rettificazione del sesso, in ragione della presenza del lemma « quando risulta necessario » e dell'evoluzione della civiltà giuridica.

I Giudici di legittimità, dando seguito all'orientamento minoritario della giurisprudenza di merito, introducono un piano argomentativo in cui emerge la rilevanza della nozione di identità di genere . Secondo l'indirizzo espresso in tale pronuncia il desiderio di realizzare una coincidenza fra soma e psiche è il risultato di un'elaborazione della propria identità di genere,

La costruzione della « nuova identità di genere » è pensata come punto di arrivo di un processo individuale ma in ogni caso rimane connessa a una trasformazione fisica che adegui il corpo al « sesso di destinazione » secondo criteri oggettivamente apprezzati.

Si legge infatti nella pronuncia che resta « ineludibile un rigoroso accertamento della definitività della scelta sulla base dei criteri desumibili dagli approdi attuali e condivisi dalla scienza medica e psicologica », e diviene necessario « un percorso soggettivo di riconoscimento di questo primario profilo dell'identità personale né breve né privo d'interventi modificativi delle caratteristiche somatiche ed ormonali originarie ».

La Corte sembra affermare la necessità di un intervento che modifichi il corpo della persona trans; con riguardo all'adeguatezza delle modifiche attribuisce grande rilievo al controllo giudiziale, che deve consistere in un accertamento rigoroso del completamento di tale percorso.

La necessità di detto controllo circa la trasformazione della persona trans, che in gran parte attiene a mutamenti del corpo , nell'argomentare della Corte è strettamente legata alla necessità di un bilanciamento fra il diritto ad autodeterminare la propria identità e l'interesse pubblico.

A tal proposito si legge nella pronuncia che occorre operare un « adeguato bilanciamento » fra il diritto all'identità di genere e « l'interesse di natura pubblicistica alla chiarezza nella identificazione dei generi sessuali e delle relazioni giuridiche »

A suffragare tale interpretazione la Corte Costituzionale, con sentenza del 5 novembre 2015, n. 221, pronunciandosi sulla questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della l. n. 164 del 1982 ha escluso la necessità dell'intervento chirurgico ai fini della rettificazione.

Afferma la Corte che la l. n. 164 del 1982 lascia « al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare (...) il proprio percorso di transizione », e che dunque tale norma garantisce il « diritto all'identità di genere, come espressione del diritto all'identità personale (art. 2 Cost. e art. 8 CEDU) ».

E dunque « l'esclusione del carattere necessario dell'intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica appare il corollario di un'impostazione che, in coerenza con i supremi valori costituzionali, rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l'assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l'identità di genere ».

I Giudici delle Leggi, se da una parte sembrano lasciare spazio all'autodeterminazione della persona trans circa il tipo di intervento sul corpo, e in relazione alla personale costruzione della propria identità di genere, d'altro canto fanno riferimento ad un dato oggettivo, che però poi non definiscono. È attraverso tale argomentazione che la Corte attribuisce un ruolo molto forte al giudice, al cui apprezzamento è demandato il giudizio circa « l'effettiva necessità » dell'intervento chirurgico « in relazione alla specificità del caso concreto».

Gli aspetti rilevanti della decisione de qua sono molteplici. In primo luogo, la possibilità di lasciare in capo all’individuo e al personale sanitario coinvolto nel trattamento la decisione sul percorso più idoneo da seguire tutela realmente l’interesse del soggetto. La Corte, in linea con le moderne concezioni di patologia e di terapia, sostiene che “la conclusione del processo di ricongiungimento tra ‘soma e psiche’ non può attualmente essere stabilita in via predeterminata e generale soltanto mediante il verificarsi della condizione dell’intervento chirurgico”.

La modifica dei caratteri sessuali primari è solamente una delle opzioni, la cui autorizzazione giudiziale ha di fatto una funzione di tutela nei confronti del soggetto e del personale sanitario affinché non siano integrati gli estremi di un reato, non una conditio sine qua non.

È più volte sottolineato che il trattamento deve risultare irreversibile per garantire certezza, ma l’oggetto di tale irreversibilità è, per la Corte, la scelta psicologicamente ferma e matura dell’individuo e non il trattamento ormonale, che pure viene considerato fondamentale, assieme a alcuni interventi di chirurgia plastica modificativa, per comprovare tale irreversibilità nel caso concreto.

Dal punto di vista medico, difatti, il trattamento ormonale è (in parte) irreversibile solamente se effettuato da bambini e adolescenti, mentre nell’adulto, i trattamenti con androgeni, estrogeni e ormoni di rilascio delle gonadotropine sono reversibili. Nonostante questo, la Corte individua il fondamento della certezza in un elemento interno al soggetto piuttosto che in uno esterno.

La posizione della Consulta veniva poi riconfermata in occasione di due giudizi aventi ad oggetto la legittimità costituzionale dell'art. 1, co. 1, della legge n. 164 del 1982 (Corte cost. Corte cost. 13-07-2017 n. 185; Corte cost. 13-07-2017 n. 180).

Nei procedimenti in questione la Consulta ha avuto l'occasione di ritornare sull'argomento del transessualismo, confermando la centralità, nell'ambito del percorso di mutamento di sesso, della fase della verifica giurisdizionale ed escludendo, al contempo, che la pura e semplice volontà manifestata dal soggetto che intenda cambiare sesso sia sufficiente a “superare” l'imprescindibile passaggio valutativo in ordine alla necessità dell'intervento chirurgico, quest'ultimo di esclusiva competenza giudiziale . La giurisprudenza costituzionale ha dunque manifestato una “apertura” verso il riconoscimento della identità di genere, con le conseguenti prese di posizione volte a “facilitare”, rectius “semplificare”, l'accesso dell'individuo al procedimento di mutamento di sesso.

Non può sottacersi che, ad avviso di una parte della dottrina, le sentenze delle Corti superiori italiane, sebbene condivisibili, lasciano aperti taluni interrogativi, sia in ordine alla individuazione della natura della ragioni, “patologiche” o “volontaristiche”, che spingono l'individuo a richiedere il mutamento di sesso, sia con riferimento alla individuazione delle modifiche “minime” che questi deve dimostrare per poter ottenere la rettificazione anagrafica, senza sottoporsi all'intervento di normoconformazione. Tali censure si incentrano sui passaggi delle sentenze dedicati all'onere della prova, mettendo in risalto che nell'ambito del procedimento di rettificazione di sesso, sebbene i giudici, di norma, dispongano l'effettuazione di una consulenza tecnica d'ufficio, il dettato legislativo non ne prevede l'obbligatorietà , sia per il fatto che la legge italiana non prevede che l'individuo dimostri di aver vissuto, quantomeno per un periodo di tempo minimo, in modo conforme al nuovo sesso.

7. Il diritto al nome.

Nell’iter del riconoscimento dell’identità sessuale si inscrive anche il riconoscimento del diritto ad un prenome che corrisponda al mutamento della propria identità.

Il diritto al nome rientra nella sfera della persona, intesa come centro di un'unitaria protezione, nonché di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, e che trova la sua prima tutela nell'art. 2 Cost. con la conseguenza che trovano protezione nuovi valori ed interessi emergenti relativi a nuovi aspetti della personalità.

Dal punto di vista giuridico il nome serve a stabilire l'identità del soggetto come tale ed è costituito dal cognome o nome patronimico, unito al prenome, cioè a quello che viene chiamato dalla legge tout court il nome.

Il principio generale è quello dell'immutabilità del prenome: il diritto alla rettificazione del nome della persona trova il suo fondamento nel diritto che ha il soggetto alla propria esatta identità.

Soltanto nel momento in cui il soggetto si veda riconosciuto, anche socialmente, un nome corrispondente al suo effettivo genere, la sua condizione di benessere psichico può trovare concreto accoglimento e piena esplicazione. In caso contrario, esso è costretto a vivere nel conflitto costante fra la propria identità anagrafica e il genere percepito, conflitto che si ripercuote su attività quotidiane e di partecipazione alla vita sociale.

Nell’ambito della transizione da un genere all’altro, la S.C. nella recente Sez. 1, n. 3877/2020, Iofrida, Rv. 657061 -01 ha accolto la richiesta di un ex uomo, che non voleva "ribattezzarsi" con il nome derivante dalla trasposizione in femminile, come deciso dal giudice di appello, ma aveva scelto un nome diverso.

Contrariamente a quanto sostenuto dal giudice di appello il quale aveva parlato di "un voluttuario desiderio di mutamento del nome" a fronte del quale occorre accontentarsi di "quello derivante dalla mera femminilizzazione del precedente", la S.C. è partita dal rilievo che il nome è "uno dei diritti inviolabili della persona", un "diritto insopprimibile", ritenendo che a colui che chiede una nuova identità anagrafica per "registrare" il mutamento di sesso -deve "essere assicurato anche un diritto all'oblio, inteso quale diritto ad una netta cesura con la precedente identità" con ciò sottolineando come la nuova identità possa anche implicare una netta chiusura con il proprio passato ed il nuovo nome debba quindi pienamente rispettare la nuova identità acquisita ed il desiderio di “costruirsi una nuova esistenza”.

8. Problemi aperti.

Anche a seguito dell’evoluzione registratasi nell’orientamento delle cori nazionali e sovranazionali rimangono aperti alcuni problemi, in particolare derivanti dalla difficoltà di assicurare tutela a situazioni non contemplate dal diritto e che invece hanno una sicura rilevanza sociale.

Resta irrisolto, infatti, il problema delle persone che, pur restando a cavallo tra il maschile e il femminile, non sentano e quindi non vogliono appartenere ad alcun genere.

Il riconoscimento giuridico viene concesso, nel nostro ordinamento, soltanto a coloro che portano a termine il percorso di transizione, non agli individui trans gender, individui che per scelta decidono di rimanere in una sorta di terzo genere non definito.

Anche considerando gli spunti che provengono dal panorama sovranazionale e straniero, si è auspicato da parte della dottrina più vicina alla medicina ed alle scienze sociali un intervento del legislatore che riconosca l'esistenza di una normalità diversa dalla tradizione e sappia positivizzarla, in nome della tutela dell'individuo, superando il binarismo sessuale con il riconoscimento di un “terzo sesso”.

Inoltre si è evidenziato che la necessità di “de medicalizzare” e di semplificare il riconoscimento dell’identità sessuale può derivare anche dalle incertezze sull’effettiva attualità dell’interesse alla chiara definizione dei generi in relazione alla preservazione della chiarezza delle relazioni giuridiche ed al mantenimento della stabilità di alcuni istituti giuridici soprattutto nel diritto di famiglia.

In tal senso la trasformazione giuridica che riguarda il diritto di famiglia con riguardo ai progressivi cambiamenti che stanno interessando il paradigma eterosessuale del matrimonio, sia a livello europeo che nazionale, sembrerebbero costituire un elemento critico per l’attualità dell’interesse ad una chiara distinzione dei generi.

  • diritto all'immagine

V)

SULLA NATURA E SULLA CAPACITÀ ESPANSIVA DELLA TUTELA DELL’IMMAGINE DELLA PERSONA NEL DIRITTO VIVENTE.

(di Paolo Spaziani )

Sommario

1 La sentenza del 13 maggio 2020, n. 8880 della Terza Sezione civile della Corte di cassazione. - 2 Il diritto all’immagine e la sua disciplina positiva. - 3 Contenuto e natura del diritto. - 4 L’estensione del diritto all’immagine: a) le limitazioni derivanti dall’autonomia privata. Il consenso dell’avente diritto. - 5 (Segue): b) le limitazioni derivanti dalla legge. - 6 La capacità espansiva del diritto all’immagine nell’ordinamento “vivente”. La rilevanza di Cass. civ., Sez. 3, n. 8880 del 2020. - 7 Riflessi sulla tutela giudiziaria del diritto. - 8 Postilla.

1. La sentenza del 13 maggio 2020, n. 8880 della Terza Sezione civile della Corte di cassazione.

1. La sentenza del 13 maggio 2020, n. 8880 della Terza Sezione civile della Corte di cassazione.

Con la sentenza della Terza Sezione civile 13 maggio 2020, n.8880, la Corte di cassazione è tornata sul tema del diritto all’immagine.

La fattispecie era la seguente: due bambine erano state fotografate mentre percorrevano uno scivolo all’interno di un parco acquatico, durante una giornata estiva in cui si celebrava un evento di grande richiamo pubblico, caratterizzato dall’inaugurazione di un’attrazione e dalla partecipazione in massa di numerosi avventori; la fotografia era stata realizzata nell’ambito di un servizio di fotoshooting, del quale si era dato avviso con numerose segnalazioni all’interno del parco; l’immagine fotografica delle minori era stata poi affissa su cartelloni pubblicitari, nell’intento di pubblicizzare l’evento. La domanda risarcitoria dei genitori (i quali avevano dedotto l’illecita pubblicazione dell’immagine delle bambine) era stata rigettata sia in primo grado (sul presupposto che non era stata data prova di danni patrimoniali o non patrimoniali, non potendo gli stessi ritenersi -in re ipsa -nel fatto stesso della pubblicazione) sia in appello (sul diverso rilievo della liceità della pubblicazione, avvenuta in occasione di un evento di interesse pubblico o comunque svoltosi in pubblico, rientrante in una delle fattispecie in cui la riproduzione dell’immagine della persona è consentita dalla legge sul diritto d’autore).

La Corte di cassazione, pur confermando la decisione del giudice di merito di rigetto della domanda risarcitoria per difetto di prova del danno, ha tuttavia ritenuto che non ricorresse, nel caso concreto, alcuna delle limitazioni del diritto all’immagine previste dalla legge sul diritto d’autore, stante la peculiarità della fattispecie, contraddistinta, sul piano soggettivo, dalla circostanza che titolari del diritto erano soggetti minori d’età e, sul piano oggettivo, dal fatto che le bambine non erano state riprese casualmente nell’ambito di una foto scattata per dare conto dell’evento di rilevanza pubblica che si stava svolgendo nel parco acquatico, giacché loro immagine aveva costituito l’oggetto specifico della ripresa fotografica, che dunque risultava mirata a polarizzare l’attenzione sull’identità delle minori e sulla loro riconoscibilità.

Escluso, altresì, che l’illiceità della pubblicazione potesse essere scriminata dal consenso degli interessati (atteso che lo stesso non poteva essere sostituito dalla mera segnalazione del servizio di fotoshooting in atto), la Suprema Corte ha dunque affermato il principio di diritto secondo cui “la pubblicazione dell’immagine di un minore in scene di manifestazioni pubbliche (o anche private, ma di rilevanza sociale) o di altre iniziative collettive non pregiudizievoli, in assenza di consenso validamente prestato, è legittima, in quanto aderente alle fattispecie normative di cui all’art. 97 della l. n. 633 del 1941, se l’immagine che ritrae il minore possa considerarsi del tutto casuale ed in nessun caso mirata a polarizzare l’attenzione sull’identità del medesimo e sulla sua riconoscibilità” (Sez. 3, n. 8880 del 2020, Pellecchia, Rv. 657866 -01).

La pronuncia della Terza Sezione civile, come si vedrà, ha una incidenza rilevante sulla configurazione del diritto all’immagine nell’attuale ordinamento, sia sotto il profilo sistematico (con riguardo al problema della natura giuridica del diritto) sia sotto il profilo della disciplina (con riguardo al problema della capacità espansiva dell’interesse tutelato nella comparazione con altri interessi giuridicamente rilevanti).

2. Il diritto all’immagine e la sua disciplina positiva.

Il diritto all’immagine è tutelato nel nostro ordinamento nel codice civile (art.10) e nella l. 633 del 1941 sulla protezione del diritto d’autore (artt.96 e 97), che detta il completamento della disciplina codicistica (A. DE CUPIS, Immagine (diritto alla), in Enc. giur. Treccani, XV, 1; A. DE VITA, Commentario del codice civile, Scialoja -Branca, a cura di F. Galgano, Delle persone e della famiglia, Bologna, 1988, 505; A. ANSALDO, Commentario al codice civile, diretto da P. Schlesinger, Le persone fisiche, Milano, 1996, 311; A. MASCIA, Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di P. Cendon, Famiglia e persone, I, I diritti della personalità, Torino, 2008, 223).

Dal combinato disposto della disposizione del codice civile e delle disposizioni della legge speciale, si desume la regola che pone il divieto di esporre o pubblicare l’immagine di una persona.

Il divieto non è assoluto nell’ipotesi in cui l’esposizione o la pubblicazione non rechi pregiudizio all’onore, al decoro o alla reputazione della persona ritratta, perché in questa ipotesi l’esposizione o la pubblicazione è eccezionalmente ammessa quando sussista il consenso della persona medesima o quando ricorra una delle fattispecie tassativamente stabilite dalla legge in deroga al divieto stesso.

Il divieto è, invece, assoluto nella contraria ipotesi in cui l’esposizione o la pubblicazione rechi pregiudizio all’onore, al decoro o alla reputazione della persona ritratta, perché in questa ipotesi l’esposizione o la pubblicazione non è ammessa neppure con il consenso del titolare del diritto e neppure al verificarsi di quelle particolari fattispecie.

La violazione del divieto legittima la persona, la cui immagine sia stata esposta o pubblicata, nonché il coniuge e i suoi prossimi congiunti, ad esperire l’azione inibitoria, oltre a quella di risarcimento del danno.

3. Contenuto e natura del diritto.

Le norme del codice e della legge speciale tutelano l’immagine della persona dall’abusiva esposizione o pubblicazione da parte di terzi. Ai fini dell’individuazione del contenuto del diritto occorre allora chiarire che cosa si intende per immagine.

Al riguardo, la dottrina, facendo tesoro delle concrete applicazioni giurisprudenziali, ha fatto registrare, nel tempo, una significativa evoluzione, nel corso della quale si è progressivamente ampliato il concetto di immagine giuridicamente rilevante. In un primo momento, infatti, anche alla luce del dato testuale ricavabile dagli artt. 96 e 97 della legge sul diritto d’autore, si era ritenuto che oggetto del diritto fosse unicamente il ritratto della persona (P. VERCELLONE, Il diritto sul proprio ritratto, Torino, 1959, 42), e cioè la riproduzione grafica (G. BAVETTA, Immagine (diritto alla), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 144), eseguita mediante uno strumento tecnico (es. fotografia) o figurativo (es. pittura), delle sue reali fattezze. Successivamente il riferimento alle concrete fattezze è stato superato dal riferimento alla concreta riconoscibilità. La nozione di immagine è stata dunque estesa (A. SAVINI, L’immagine e la fotografia nella disciplina giuridica, Padova, 1989, 21) a tutte le rappresentazioni dirette della persona che, pur non riproducendone fedelmente le sembianze (es. caricature, schizzi, fotografie stilizzate), consentono tuttavia, secondo un criterio di normalità, di riconoscere in esse la persona medesima. Infine, con un ulteriore passaggio, si è ritenuto (A. DE VITA, op. cit., 532; A. ANSALDO, op. cit., 311) che la tutela del diritto all’immagine debba essere estesa anche alle rappresentazioni indirette, realizzate in sede televisiva, cinematografica o teatrale attraverso l’interpretazione di artisti (c.d. maschera scenica).

Secondo la tradizionale opinione dottrinale (v. per tutti G. BAVETTA, op. cit., 144, 145), il diritto all’immagine ha un duplice contenuto, caratterizzandosi per un aspetto negativo e un aspetto positivo.

In senso negativo il diritto tutela l’interesse del soggetto a che la sua immagine (intendendosi per tale tutte le rappresentazioni della persona sopra precisate, dirette o indirette, purché connotate dal requisito della riconoscibilità) non venga diffusa o esposta in pubblico. A questo diritto corrisponde il dovere, posto in capo a tutti i consociati, di astenersi dal divulgare l’immagine altrui.

In senso positivo il diritto tutela l’interesse del soggetto ad apparire agli altri solo nella misura in cui abbia interesse a farlo. A questo diritto corrisponde in capo ai consociati un obbligo di pati, e cioè il dovere di sopportare che la persona si mostri in pubblico se e quando lo voglia.

Per quanto concerne la natura giuridica, il diritto all’immagine è un diritto assoluto, rientrante nella categoria dei diritti della personalità.

L’opinione prevalente, in dottrina, è peraltro nel senso di negare l’autonomia del diritto all’immagine e di ritenere che esso costituisca una manifestazione del più ampio diritto alla riservatezza (A. DE CUPIS, op. cit., 1; G. BAVETTA, op. cit., 146; M. DOGLIOTTI, Commentario al codice civile, diretto da P. Cendon, Delle persone fisiche, Torino, 2002, 72).

A questa opinione si contrappone la tesi di chi (A. DE VITA, op. cit., 449) vede nell’immagine e nella riservatezza due distinti diritti soggettivi, i quali, pur potendo intersecarsi, rimangono tuttavia reciprocamente autonomi.

Secondo un’ulteriore opinione dottrinale, infine, il diritto all’immagine e il diritto alla riservatezza si riconducono entrambi al diritto fondamentale all’intimità o sfera privata della persona del quale, unitamente al diritto al segreto, costituiscono le tre distinte ed autonome specificazioni (C.M. BIANCA, Diritto civile, I, La norma giuridica -I soggetti, Milano, 2002, 174, 184). Quest’ultima opinione sembra trovare conferma nel sistema dei diritti della persona quale si desume dall’attuale ordinamento integrato, avuto riguardo non solo alla disciplina costituzionale dei diritti fondamentali (art.2 Cost.), ma anche alle norme poste dalle fonti sovranazionali e, in particolare, dall’art.8 della Convenzione europea dei diritti umani e dall’art.7 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, che riconoscono espressamente il diritto al rispetto della vita privata e familiare. L’opinione in parola, inoltre, sembra trovare riscontro, come si vedrà, nel diritto vivente giurisprudenziale.

4. L’estensione del diritto all’immagine: a) le limitazioni derivanti dall’autonomia privata. Il consenso dell’avente diritto.

In ragione della sua natura di diritto della personalità, il diritto all’immagine presenta i caratteri tipici di questa categoria di diritti, ed è dunque, irrinunciabile e intrasmissibile (A. DE CUPIS, op. cit., 2). Esso, peraltro, non è totalmente indisponibile (A. DE VITA, op. cit., 555, 556), in quanto, entro certi limiti, come si è accennato, il titolare può consentire all’esposizione o pubblicazione della propria immagine da parte di terzi (art.96, comma 1, l. n. 633 del 1941).

Il consenso dell’avente diritto costituisce un’esimente di responsabilità (art.50 c.p.) e ha natura di negozio giuridico unilaterale recettizio. Esso, precisamente, integra un’autorizzazione con cui si rimuove l’antigiuridicità del fatto del terzo consistente nell’esposizione o pubblicazione dell’immagine del titolare. L’effetto del consenso non è dunque quello di determinare l’estinzione del diritto per rinunzia, ma di eliminare, in relazione alla singola fattispecie nella quale viene prestato, il carattere illecito della divulgazione dell’immagine operata dal terzo, la cui responsabilità viene conseguentemente esclusa (A. DE VITA, op. cit., 557, 559; Sez. 1, n. 3014 del 2004, Ceccherini, Rv. 570184 -01; Sez. 1, n. 1748 del 2016, Valitutti, Rv. 638445 -01).

È opinione condivisa, in dottrina (A. DE CUPIS, op. cit., 2; G. BAVETTA, op. cit., 148) e in giurisprudenza (Sez. 1, n. 3014 del 2004, Ceccherini, Rv. 570183 -01), che il consenso sia efficace solo nei confronti del soggetto a cui è stato dato, per il tempo e il luogo stabiliti, e purché la divulgazione dell’immagine sia effettuata secondo le forme e per le finalità convenute. Così, ad es., se il consenso è stato dato per l’utilizzazione dell’immagine a fini documentaristici e divulgativi, la stessa non può essere pubblicata a fini di propaganda politica (Pret. Roma 30 maggio 1980). Allo stesso modo, se il consenso è prestato nell’ambito della promozione e pubblicizzazione di un’opera cinematografica, l’immagine non può essere diffusa nell’ambito di altre operazioni economiche (ad es. pubblicazione su riviste), prive di nesso strumentale con la prima (App. Roma 8 settembre 1986).

La dottrina ritiene generalmente ammissibile un consenso tacito o presunto, ma, avuto riguardo alla particolare delicatezza della materia, esige che l’accertamento giudiziale della volontà del titolare del diritto venga svolto in modo particolarmente rigoroso (A. DE CUPIS, op. cit., 2; G. BAVETTA, op. cit., 147; A. ANSALDO, op. cit., 312). L’ammissibilità del consenso tacito è ormai pacificamente ammessa anche dalla giurisprudenza, sul presupposto che per la sua manifestazione non sono richieste forme particolari dall’art. 96 della l. n. 633 del 1941 (Sez. 3, n. 10957 del 2010, Frasca, Rv. 612720-01) e con la precisazione che anche il consenso tacito, come ogni altra forma di consenso, può essere condizionato da limiti soggettivi (in riferimento ai soggetti in favore dei quali è prestato) od oggettivi (in ordine alle modalità di divulgazione), cosicché, ad es., il consenso alla pubblicazione della propria fotografia su una o su talune riviste non consente la pubblicazione medesima su riviste diverse da quelle autorizzate (Sez. 1, n. 21995 del 2008, Salmè, Rv. 604494 -01). Nella casistica giurisprudenziale si è ritenuto che potesse rinvenirsi un consenso tacito: nell’ipotesi di esposizione, riproduzione e cessione a terzi, da parte di un fotografo, delle fotografie di una persona nota nel settore cinematografico che si era sottoposta gratuitamente al servizio, da ritenersi presuntivamente destinato a realizzare il reciproco interesse delle parti alla diffusione delle immagini (Sez. 3, n. 5175 del 1997, Nicastro, Rv. 505081 -01); nell’ipotesi di diffusione, con il mezzo televisivo, dell’immagine di una persona ripresa nell’ambito di una udienza pubblica dibattimentale, sul presupposto che la partecipazione alla predetta udienza, in relazione alla quale la ripresa era stata debitamente autorizzata, implicasse il consenso alla divulgazione della propria immagine con il medesimo mezzo (Sez. 1, n. 9249 del 2002, Berruti, Rv. 55532701); e nell’ipotesi di utilizzazione, a fini pubblicitari, delle fotografie scattate nell’ambito di un provino a cui la persona fotografata si era sottoposta per le medesime finalità, sul presupposto che il consenso al provino implicasse anche quello alla pubblicazione delle fotografie in esso prodotte (Sez. 1, n. 11491 del 2006, Nappi, Rv. 590955 -01).

Giova evidenziare che sulla regola, desumibile dal prevalso orientamento giurisprudenziale, che reputa sufficiente il consenso tacito o implicito, non incide la recente attuazione del Regolamento UE n. 679 del 2016 ad opera del d.lgs. n. 101 del 2018, che ha incisivamente modificato il d.lgs. n. 196 del 2003 (cd. Codice della privacy). Infatti, le peculiari forme di manifestazione del consenso ivi disciplinate (artt. 2 quinquies e 2 septies del d.lgs. n. 196 del 2003, introdotti dal citato d.lgs n. 101 del 2018) concernono, sotto il profilo della diffusione dell’immagine della persona, unicamente le riproduzioni idonee a rientrare nella categoria dei “dati biometrici”, vale a dire i dati “ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica che ne consentono o confermano l’identificazione univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici” (artt.4 , Punto 14, e 9, Punto 1, del Regolamento UE n. 679 del 2016). La riproduzione, la raccolta, l’uso e la diffusione dell’immagine di una persona mediante fotografia, pertanto, non costituisce, di norma (e per se stessa), un trattamento di categorie particolari di dati personali, poiché le fotografie “rientrano nella definizione di dati biometrici soltanto quando siano trattate attraverso un dispositivo tecnico specifico che consente l’identificazione univoca o l’autenticazione di una persona fisica” (cfr. il 51° Considerando del citato Regolamento UE n. 679 del 2016).

Particolari problemi si pongono con riguardo alla capacità necessaria ai fini della validità del consenso e con riguardo alla revoca dello stesso.

In ordine alla capacità, la rilevata natura negoziale del consenso quale atto autorizzativo imporrebbe, secondo le regole generali (art.1425 c.c.), di ritenerlo valido soltanto se l’autore sia munito della capacità di agire. In senso contrario, tuttavia, si avverte l’esigenza che l’esercizio di un diritto personalissimo sia consentito anche a chi, pur non avendo ancora conseguito la generale capacità di agire, sia nondimeno dotato della capacità di intendere e di volere (in tema v. A. DE VITA, op. cit., 559, 560). La questione assume rilevanza pratica in relazione al minore, al quale è dubbio se possa riconoscersi, ove si tratti di persona naturalmente capace, un potere dispositivo della propria immagine. Il problema non tocca, ovviamente, l’ipotesi in cui la divulgazione dell’immagine costituisca reato (es. pubblicazione di immagini pedopornografiche), nel qual caso sarebbe vietata ed insuperabile mediante consenso anche la pubblicazione dell’immagine di persone maggiori di età. Al di fuori di tale ipotesi, la dottrina (A. DE VITA, op. cit., 560; G. BAVETTA, op. cit., 147) tende a riconoscere al minore la capacità di prestare il consenso alla divulgazione della sua immagine, quanto meno nei casi in cui tale divulgazione rappresenti la normale implicazione di un altro rapporto (es. contratto con prestazioni artistiche) validamente ed efficacemente concluso dal minore stesso.

In ordine alla revocabilità del consenso, in letteratura si rinvengono due tesi contrapposte.

Secondo una prima opinione, il consenso sarebbe incondizionatamente revocabile soltanto quando rimanga un atto unilaterale di carattere autorizzatorio, volto a rimuovere il divieto di esposizione o pubblicazione della propria immagine da parte di un terzo. Allorché, invece, il consenso si inserisca in un rapporto contrattuale, con cui la persona esercita il diritto di utilizzazione economica della sua immagine, normalmente verso un corrispettivo, il consenso non è revocabile, operando il disposto dell’art.1372 c.c. (A. DE CUPIS, op. cit., 2).

Secondo l’altra opinione, la natura del diritto all’immagine imporrebbe di ammettere la revocabilità del consenso anche nell’ipotesi in cui esso sia inserito in un rapporto contrattuale a titolo oneroso. In tale ipotesi, peraltro, in assenza di una giusta causa giustificativa della revoca, la parte che la riceve avrebbe diritto al risarcimento del danno (G. BAVETTA, op. cit., 148; in senso problematico v. A. DE VITA, op. cit., 567 e ss.).

5. (Segue): b) le limitazioni derivanti dalla legge.

L’esposizione e la pubblicazione dell’immagine della persona sono consentite, oltre che nel caso in cui siano state autorizzate dalla persona stessa, anche nel caso in cui siano giustificate dalla sua notorietà, dall’ufficio pubblico da essa ricoperto, da necessità di giustizia o di polizia, dalla sussistenza di scopi scientifici, didattici o culturali e dal collegamento della riproduzione con fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico (art.97, comma 1, l. n. 633 del 1941).

Si tratta di ipotesi elencate alternativamente dalla disposizione della legge speciale, sicché è sufficiente il verificarsi di una sola di esse perché il diritto all’immagine venga limitato (Sez. 1, n. 3150 del 1963, Bianchi De Spino, Rv. 264834 -01).

In tali ipotesi, tassativamente stabilite dalla norma, sussiste l’esigenza sociale di pubblica conoscenza dell’immagine della persona, la quale prevale sull’esigenza di protezione della sfera privata della medesima (A. DE CUPIS, op. cit., 2; G. BAVETTA, op. cit., 149; A. ANSALDO, op. cit., 313).

Il fondamento della disposizione e il carattere eccezionale di essa ne impongono un’interpretazione restrittiva. Non basta pertanto il mero verificarsi di una delle ipotesi previste dalla legge, ma è necessario che l’interesse pubblico e sociale che giustifica la deroga al divieto di esposizione o pubblicazione dell’immagine sussista in concreto. Così, ad es., nell’ipotesi di persona famosa, la divulgazione dell’immagine è legittima quando risponda ad un’esigenza socialmente apprezzabile di pubblica informazione, da realizzarsi attraverso una maggiore conoscenza della persona medesima, mentre non è legittima quando la notorietà della persona venga sfruttata, senza il suo consenso, per fini pubblicitari (Sez. 3, n. 8838 del 2007, Filadoro, Rv. 597620 -01; Sez. 1, n. 1748 del 2016, Valitutti, Rv. 638444 -01), di lucro (Sez. 1, n. 2129 del 1975, Santosuosso, Rv. 375878 -01), o comunque per la realizzazione di interessi non meritevoli di tutela (App. Roma 8 settembre 1986). Similmente, nell’ipotesi di collegamento della riproduzione con avvenimenti di interesse pubblico o svoltisi in pubblico, la diffusione dell’immagine è consentita unicamente in presenza dell’interesse all’informazione connesso con la cronaca o con la successiva la rievocazione degli avvenimenti medesimi, mentre deve escludersene la legittimità allorché avvenga in contesti diversi da quello costituito dall’avvenimento pubblico a cui la persona abbia partecipato (C.M. BIANCA, Diritto civile, I, cit., 186). In applicazione di questo criterio, la Suprema Corte, già in epoca risalente, ha, ad es., ritenuto abusivo l’inserimento nella sigla di una trasmissione televisiva dell’immagine di un tifoso ripreso durante una partita di calcio, in quanto l’immagine stessa non era stata divulgata con la cronaca dell’evento agonistico, o con la riproduzione a distanza di tempo dello stesso, al fine di soddisfare il persistente interesse del pubblico a rivedere quell’incontro, ma era stata pubblicata per scopi diversi e senza alcun collegamento con l’evento originario (Sez. 1, n. 1763 del 1986, Borrè, Rv. 445077 -01). In applicazione del criterio per il quale l’esposizione o la pubblicazione dell’immagine altrui non può considerarsi abusiva quando si ricolleghi a fatti, avvenimenti o cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico, la stessa Suprema Corte ha invece escluso il diritto al risarcimento del danno invocato da una persona che si trovava in una stazione ferroviaria per essere stata ripresa, senza il suo consenso, in un filmato televisivo, poi mandato in onda, nel quale comparivano, unitamente ad altri anonimi passeggeri, anche numerosi partecipanti alla manifestazione denominata “gay pride”, sul presupposto che tale avvenimento fosse di interesse pubblico e che non fosse configurabile un pregiudizio all’onore o al decoro del richiedente, in quanto la possibilità di essere individuato in un simile contesto costituisce “un rischio della vita” che non può essere scongiurato (Sez. 3, n. 24110 del 2013, Cirillo F.M., Rv. 628877 -01).

Le limitazioni legali del diritto all’immagine non operano nell’ipotesi in cui l’esposizione o la pubblicazione rechi pregiudizio all’onore, al decoro o alla reputazione della persona (art.97, comma 2, l. n. 633 del 1941). In questa ipotesi l’esigenza del rispetto dell’intimità della persona prevale sull’esigenza sociale di pubblica conoscenza della sua immagine, sicché non sono ammesse deroghe al divieto di divulgazione.

Non ostante la regola sia contenuta nell’art.97 della legge sul diritto d’autore (e di conseguenza sembri dettata unicamente per paralizzare l’operatività delle limitazioni legali del diritto all’immagine, e non anche delle limitazioni autorizzate dal consenso dell’avente diritto, disciplinato nel precedente art. 96), la Corte di cassazione ne ha esteso l’operatività anche a queste ultime. Di conseguenza, nemmeno con il consenso del titolare del diritto è possibile procedere ad un’esposizione o pubblicazione pregiudizievole per l’onore, il decoro o la reputazione (Sez. 1, n. 21172 del 2006, Schirò Rv. 591925-01; Sez. 3, n. 17211 del 2015, Vincenti, Rv. 636902-01). Questo orientamento giurisprudenziale va condiviso, in quanto, diversamente opinando, si ammetterebbe, non la parziale disponibilità, ma la totale rinunciabilità del diritto all’immagine, la quale non può invece ritenersi ammissibile, in quanto contrastante con la natura del diritto medesimo (C.M. BIANCA, Diritto civile, I, cit., 185).

6. La capacità espansiva del diritto all’immagine nell’ordinamento “vivente”. La rilevanza di Cass. civ., Sez. 3, n. 8880 del 2020.

Si è detto che il diritto all’immagine ha un duplice contenuto, negativo e positivo. Sotto il primo profilo il diritto tutela l’interesse del titolare a che la sua immagine non venga diffusa o esposta in pubblico; la correlativa situazione giuridica soggettiva passiva posta in capo alla totalità (erga omnes) dei consociati consiste in un dovere di astensione.

Sotto il secondo profilo, il diritto tutela l’interesse del titolare ad apparire agli altri solo nella misura in cui voglia farlo; la correlativa situazione giuridica soggettiva passiva posta in capo alla totalità (erga omnes) dei consociati consiste in un obbligo di pati.

Tanto il primo quanto il secondo aspetto del diritto hanno avuto, nell’elaborazione giurisprudenziale e negli orientamenti di legittimità che si sono andati consolidando o che sono in via di consolidamento, un’evoluzione verso forme sempre più estese di tutela, sicché può dirsi che il diritto all’immagine ha manifestato nel diritto vivente una continua capacità espansiva, tutt’ora in atto.

Per quanto concerne l’aspetto positivo, il crescente riconoscimento sociale della facoltà della persona di apparire in pubblico nella misura in cui abbia interesse a farlo, si è tradotto nel giudizio di meritevolezza di tutela (art. 1322 c.c.) dell’interesse patrimoniale del soggetto allo sfruttamento commerciale della propria immagine verso un corrispettivo.

Da un lato, infatti, l’autonomia negoziale ha determinato la nascita e la diffusione del contratto atipico di sponsorizzazione (sul tema v., in generale, MIR. BIANCA, I contratti di sponsorizzazione, Rimini, 1990, 1 e ss.), nel quale una parte (sponseè) si obbliga ad utilizzare la propria immagine pubblica e il proprio nome per promuovere un marchio o un prodotto specificamente marcato e l’altra parte (sponsor) si obbliga a versare un corrispettivo in danaro. In ordine a questo contratto la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che l’obbligazione assunta dallo sponseè ha natura patrimoniale, ai sensi dell’art.1174 c.c., e che ciò dipende dal fenomeno di commercializzazione del nome e dell’immagine personali determinatosi nel costume sociale (Sez. 1, n. 9880 del 1997, Berruti, Rv. 508745 01; Sez. 3, n. 7083 del 2006, Segreto, Rv. 588669 -01; Sez. 3, n.12801 del 2006, Durante, Rv. 589587 -01; Sez. 1, n.18218 del 2009, Tavassi, Rv. 609424 -01).

Dall’altro lato, la stessa giurisprudenza di legittimità, sancendo la risarcibilità del pregiudizio economico rappresentato dalla perdita del corrispettivo dell’utilizzazione della propria immagine a fini pubblicitari (Sez. 1, n. 22513 del 2004, Berruti, Rv. 578339 -01; Sez. 1, n. 1875 del 2019, Genovese, Rv. 652419 -01) ha autorizzato la dottrina a ritenere esistente, anche nel nostro ordinamento, la figura, di derivazione americana, del right of publicity (in tema v., ancora, MIR. BIANCA, op. cit., 199), quale diritto esclusivo all’utilizzazione economica della propria immagine (Sez. 3, n.12433 del 2008, Lanzillo, Rv. 603320 -01; Sez. 3, n. 11353 del 2010, Vivaldi, Rv. 613003 -01).

Con riguardo all’aspetto negativo del diritto, quale diritto della persona a non subire la diffusione o esposizione pubblica della sua immagine, la Corte di cassazione in diverse pronunce ha evidenziato la tendenza ad operare una integrazione delle fonti della disciplina del diritto soggettivo, individuandole non più soltanto nella norma codicistica (art.10 c.c.) e nelle disposizioni della legge sul diritto d’autore (artt. 96 e 97 della l. n. 633 del 1941) ma anche nel Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. n. 196 del 1993).

In tema di informazione fornita con il servizio televisivo (e con specifico riguardo al caso di diffusione dell’immagine di persone riprese di nascosto) è stato, ad es., ripetutamente affermato che la presenza delle condizioni legittimanti l’esercizio del diritto di cronaca non implica, di per sé, la legittimità della pubblicazione o diffusione anche dell’immagine delle persone coinvolte, la cui liceità è subordinata, oltre che al rispetto delle prescrizioni contenute negli artt. 10 c.c., 96 e 97 della l. n. 633 del 1941, anche di quelle contenute nell’art. 137 del d.lgs. n. 196 del 2003 e nell’ art. 8 del codice deontologico dei giornalisti, nonché alla verifica in concreto della sussistenza di uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata, nell’ottica della essenzialità di tale divulgazione ai fini della completezza e correttezza della informazione fornita (Sez 1, n. 15360 del 2015, Mercolino, Rv. 636199 -01; Sez. 1, n. 18006 del 2018, Lamorgese, Rv. 649524 -02).

Sempre in tema di attività giornalistica (con riguardo alla pubblicazione su quotidiano di fotografia di persona in stato di detenzione) è stato inoltre statuito che la pubblicazione è legittima se sia rispettosa, oltre ai limiti, fissati dagli artt. 20 e 25 della l. n. 675 del 1996 (ratione temporis applicabili) e, comunque, riprodotti nell’art. 137 del d.lgs. n. 196 del 2033, di essenzialità per illustrare il contenuto della notizia e quelli dell’esercizio del diritto di cronaca, anche delle particolari cautele imposte a tutela della persona ritratta, previste dall’art. 8 del codice deontologico dei giornalisti, che costituisce fonte normativa integrativa; si è inoltre puntualizzato che l’osservanza dei suddetti limiti va accertata con maggior rigore rispetto alla semplice pubblicazione della notizia, per la maggiore potenzialità lesiva dello strumento visivo e la maggiore idoneità ad una diffusione decontestualizzata e insuscettibile di controllo da parte della persona ritratta (Sez. 3, n. 12834 del 2014, Rubino, Rv. 631584 -01).

L’individuazione della fonte regolatrice del diritto anche nelle norme del codice della privacy, determina, anzitutto, conseguenze di carattere sistematico (ma non scevre di ricadute applicative) sulla controversa questione della natura giuridica dello stesso. Infatti, se, da un lato, la capacità espansiva del diritto esclude che possa essere qualificato come mera manifestazione del più ampio diritto alla riservatezza, dall’altro lato l’incidenza della disciplina della riservatezza medesima sui limiti di liceità della pubblicazione dell’immagine esclude altresì che i due diritti possano essere configurati alla stregua di diritti soggettivi distinti e reciprocamente indipendenti. Sembrerebbe dunque trovare ulteriore conferma la tesi che individua nel diritto all’immagine e nel diritto alla riservatezza due autonome specificazioni del più ampio diritto fondamentale all’intimità o sfera privata della persona (così C.M. BIANCA, Diritto civile, I, cit., 174, 184, il quale individua la terza specificazione del diritto all’intimità personale nel diritto al segreto).

In secondo luogo, l’illustrata tendenza giurisprudenziale ad integrare le fonti regolatrici del diritto soggettivo in esame, si traduce nel riconoscimento di una sua maggiore estensione e di una più penetrante e satisfattiva protezione in sede giudiziaria, in quanto comporta implicazioni sul giudizio di comparazione tra l’esigenza di tutela dell’interesse della persona a non veder diffusa o esposta in pubblico la propria immagine e l’esigenza di tutela del contrario interesse sociale di pubblica conoscenza dell’immagine medesima, che giustifica la deroga al divieto di esposizione o pubblicazione nelle specifiche ipotesi tassativamente indicate dalla legge.

L’individuazione della fonte regolatrice del diritto anche nelle norme del codice della privacy, implica, infatti, che nel giudizio di bilanciamento assuma un peso maggiore l’esigenza di protezione della sfera privata della persona rispetto alla contraria esigenza di consentirne l’esposizione e la diffusione dell’immagine in quelle tassative fattispecie in cui -escluso comunque il pregiudizio all’onore, al decoro o alla reputazione -sussista un interesse pubblico a renderla pubblica.

Del progressivo consolidarsi dell’indirizzo giurisprudenziale volto ad operare un allargamento delle fonti regolatrici del diritto all’immagine, costituisce espressione paradigmatica la sentenza n. 8880 del 2020 della Terza Sezione civile relativa alla riproduzione fotografica dell’immagine di due bambine, riprese nell’atto di percorrere uno scivolo all’interno di un parco acquatico, in occasione della manifestazione di massa connessa con la sua inaugurazione.

Come si è detto, infatti, questa pronuncia -pur escludendo che si integrasse l’ipotesi limite della lesione del decoro, della reputazione o dell’onore della persona e pur concedendo che invece ricorresse, in astratto, una delle fattispecie (il collegamento con un evento di interesse pubblico o comunque svoltosi in pubblico) previste dall’art.97 della legge sul diritto d’autore -ha nondimeno escluso che potesse operare, in concreto, la deroga legale al divieto di riproduzione dell’immagine prevista dalla stessa norma, e ha affermato l’illiceità della pubblicazione della fotografia, in ragione della sussistenza delle due circostanze, soggettiva (la minore età delle persone fotografate) ed oggettiva (la non casualità della ripresa fotografica, volta a polarizzare l’attenzione sull’identità delle minori e sulla loro riconoscibilità), contrastanti con l’esigenza di tutela della riservatezza.

Si assiste pertanto, plasticamente, nella sentenza in esame, ad una restrizione delle limitazioni legali al diritto all’immagine (connesse con la presenza dell’interesse alla pubblica informazione, tutelato dalla specifica deroga al divieto di pubblicazione prevista nell’art.97 della l. n. 633 del 1941), con contestuale espansione del diritto medesimo e con conseguente estensione del divieto di pubblicazione ad una fattispecie in cui la diffusione dell’immagine, ove non concorresse l’esigenza di tutela della riservatezza e della non riconoscibilità della persona minore d’età, sarebbe invece consentita.

7. Riflessi sulla tutela giudiziaria del diritto.

La capacità espansiva del diritto all’immagine nell’ordinamento “vivente” si riflette sulle forme e sull’estensione della sua tutela giudiziaria.

Si è già accennato che la norma del codice tutela il diritto all’immagine mediante la concessione di due diverse azioni, quella inibitoria e quella risarcitoria.

Legittimati all’esercizio di tali azioni sono, oltre al titolare del diritto, il coniuge,i genitori e i figli, ai quali eccezionalmente è conferito il potere di agire in giudizio per far valere il diritto del proprio congiunto (A. DE CUPIS, op. cit., 3; G. BAVETTA, op. cit., 153; C.M. BIANCA, Diritto civile, I, cit., 187). Secondo parte della dottrina, la legittimazione spetterebbe anche al convivente (A. ANSALDO, op. cit., 315). Un’opinione minoritaria sostiene, tuttavia, che legittimato sarebbe unicamente il titolare del diritto leso, e che i congiunti, pur menzionati dalla norma, acquisirebbero la legittimazione solo dopo la morte del titolare medesimo, allorché assumerebbero un diritto proprio alla gestione dell’immagine del defunto (P. VERCELLONE, op. cit., 48; A. DE VITA, op. cit., 640, 641). L’opinione non pare, peraltro, condivisibile, perché il diritto all’immagine, in quanto diritto della personalità, si estingue con la morte della persona (mentre i diritti spettanti ai superstiti trovano una compiuta disciplina nella legge speciale: art.96 comma 2, l. n. 633 del 1941) e perché la legittimazione straordinaria (o sostituzione processuale) è un istituto specificamente previsto dal nostro ordinamento processuale, il quale consente, sia pure nei soli casi stabiliti dalla legge, di far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui (art.81 c.p.c.).

L’azione inibitoria tende a suscitare dal giudice l’emissione di un ordine volto a far cessare l’abusiva esposizione o pubblicazione dell’immagine. Questo ordine può essere emesso, oltre che all’esito di un ordinario processo contenzioso a cognizione piena (nel qual caso esso sarà contenuto in una sentenza di condanna), anche all’esito di un procedimento cautelare atipico (nel qual caso esso sarà normalmente contenuto in un provvedimento d’urgenza, dato ai sensi dell’art.700 c.p.c.). Lo strumento del procedimento cautelare atipico, volto ad ottenere un provvedimento d’urgenza, si mostra quello più appropriato in materia di diritto all’immagine, atteso che tale diritto, per sua natura, non è suscettibile di essere pienamente reintegrato attraverso il rimedio risarcitorio e sussiste dunque il pericolo (cd. periculum in mora) che, durante il tempo occorrente per farlo valere in via ordinaria, possa subìre un pregiudizio irreparabile (A. DE VITA, op. cit., 646 e ss.; A. ANSALDO, op. cit., 316).

È pacifico che, diversamente da quella risarcitoria, l’azione inibitoria specifica prevista dalla norma in esame possa essere esercitata anche in mancanza della colpa (e, a fortiori, del dolo) del convenuto (A. DE CUPIS, op. cit., 4; A. DE VITA, op. cit., 643).

In ordine ai presupposti obiettivi, invece, la norma codicistica, facendo riferimento alla cessazione dell’abuso, sembrerebbe esigere, ai fini dell’esperibilità del rimedio, che l’abusiva divulgazione dell’immagine sia già iniziata e che, dunque, l’illecito sia già completo di tutti i suoi elementi costitutivi, compreso il danno. In proposito va, peraltro, precisato che l’inibitoria costituisce un rimedio preventivo, il quale può essere esercitato indipendentemente dal verificarsi del danno che tende, anzi, ad impedire. D’altra parte, è anche da ritenere che l’ordine giudiziale di cessazione non può essere invocato, diversamente da quanto sembra sostenere parte della dottrina (A. DE VITA, op. cit., 644), in relazione ai meri atti preparatori, allorché questi ultimi siano neutri e non lascino ragionevolmente prevedere il verificarsi di un fatto lesivo. Conformemente alle indicazioni provenienti dalla dottrina che ha condotto l’analisi dell’inibitoria quale rimedio generale dell’illecito extracontrattuale (C.M. BIANCA, Diritto civile, 5, La Responsabilità, Milano, 1994, 583, 786), deve allora concludersi che, anche in relazione alla lesione del diritto all’immagine, il rimedio inibitorio è esperibile al verificarsi di un fatto idoneo a produrre il danno, e cioè di un fatto che crei il rischio specifico della predetta lesione. Così, ad es., la persona non famosa non sarà legittimata a ricorrere al giudice per il solo fatto di essere stata fotografata da un suo conoscente, perché la semplice fissazione dell’immagine in un supporto fotografico o di altro genere, avulsa dalla sua esposizione o pubblicazione, non è illegittima ai sensi dell’art.10 c.c. (A. DE CUPIS, op. cit., 1) e perché un tale comportamento non lascia ragionevolmente temere una successiva divulgazione abusiva dell’immagine stessa. Al contrario, la persona famosa potrà già esperire il rimedio inibitorio per il solo fatto di essere stata fotografata da un fotoreporter professionista (sempreché, s’intende, non operi il limite di cui all’art.97, comma 1, della legge sul diritto d’autore), perché a tale atto consegue normalmente quello dell’utilizzazione commerciale della fotografia.

Concorrendo gli altri requisiti costitutivi dell’illecito (in particolare, il danno, il nesso causale di quest’ultimo con il fatto, e, sotto il profilo soggettivo, la colpa dell’autore dell’abuso), il titolare del diritto all’immagine può, inoltre, agire per il risarcimento del danno.

Risarcibile è, ovviamente, non solo il pregiudizio patrimoniale ma anche quello non patrimoniale, consistente nella lesione del diritto all’intimità o sfera privata della persona in sé e per sé considerata, indipendentemente dalle conseguenze economiche negative.

La risarcibilità di tale pregiudizio, da liquidarsi in via equitativa ai sensi degli artt.1226 e 2056 c.c., trova fondamento nella particolare rilevanza dell’interesse protetto, elevato a valore costituzionale e tutelato come diritto fondamentale della persona (Sez. 3, n.12433 del 2008, Lanzillo, Rv. 603319 -01).

Il danno patrimoniale consiste, invece, nel pregiudizio economico sofferto in conseguenza della pubblicazione dell’immagine e di esso deve fornirsi specifica prova, sia in relazione all’esistenza sia in relazione all’ammontare.

Al riguardo la giurisprudenza di legittimità tende a distinguere a seconda che il danneggiato sia o meno persona famosa.

Nell’ipotesi di persona non famosa si prende atto della maggiore difficoltà (o addirittura dell’impossibilità) per l’onerato di fornire la prova di specifiche voci di danno patrimoniale e -facendo applicazione dei criteri enunciati nell’art.128 l. n. 633 del 1941 -si ammette che egli possa far valere il diritto al pagamento di una somma corrispondente al compenso che avrebbe presumibilmente richiesto per concedere il suo consenso alla pubblicazione dell’immagine, importo che il giudice sarà chiamato a liquidare in via equitativa, avuto riguardo al vantaggio economico presumibilmente conseguito dall’autore dell’illecito in relazione alla diffusione del mezzo sul quale la pubblicazione è avvenuta, alle finalità perseguite e ad ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione (Sez. 3, n.12433 del 2008, Lanzillo, Rv. 603320 -01; Sez. 3, n. 11353 del 2010, Vivaldi, Rv. 613003 -01).

Nell’ipotesi di persona famosa il pregiudizio economico è invece suscettibile di essere provato con maggior precisione nel suo ammontare, facendo riferimento al valore che l’immagine della persona ha sul mercato e al corrispettivo che essa avrebbe dunque potuto ottenere esercitando il suo diritto di utilizzazione economica (right of publicity) della stessa per fini pubblicitari. In proposito, la Corte di cassazione ha da tempo chiarito che il danno risarcibile è dato dalla perdita economica consistente nel non potere più offrire l’uso della propria immagine a scopo pubblicitario in relazione a prodotti o servizi analoghi a quelli in relazione ai quali è stata abusivamente divulgata, nonché nell’eventuale difficoltà alla migliore commercializzazione della propria immagine con riferimento a prodotti o servizi di diversa natura (Sez. 1, n. 4785 del 1991, Rv. 471928 -01). La stessa Suprema Corte ha anche precisato che il predetto pregiudizio non è escluso dall’eventuale rifiuto del danneggiato di consentire a chicchessia la pubblicazione dei ritratti abusivamente utilizzati, in quanto il diritto all’immagine comprende la facoltà di non pubblicare determinati ritratti per il tempo ritenuto necessario (sicché un simile rifiuto non ha alcun effetto ablativo e non può essere equiparato all’abbandono del diritto, con conseguente caduta in pubblico dominio), e in quanto la stessa gestione economica può comportare la scelta di non sfruttare un certo ritratto, la cui utilizzazione potrebbe, in prospettiva, risultare lesiva del bene protetto. In una simile ipotesi, anzi, lo sfruttamento illecito dell’immagine può risultare fonte di danno ben più grave di quello corrispondente al solo valore commerciale della specifica attività abusiva, risarcibile in termini di perdita della reputazione professionale e liquidabile nei limiti della ricchezza non conseguita dal danneggiato ovvero anche con il ricorso al criterio equitativo (Sez. 1, n. 22513 del 2004, Berruti, Rv. 578339 -01; Sez. 1, n. 1875 del 2019, Genovese, Rv. 652419 -01).

Oltre all’inibitoria e al risarcimento del danno per equivalente, l’ordinamento offre anche altri rimedi contro l’abusiva esposizione o pubblicazione dell’immagine. Intanto, il risarcimento può essere chiesto anche in forma specifica, ai sensi dell’art.2058 c.c. In sede esecutiva, poi, si può ottenere la distruzione, a spese dell’autore, delle copie abusive del ritratto, ai sensi dell’art.2933 c.c. (A. DE CUPIS, op. cit., 4; G. BAVETTA, op. cit., 154). Il giudice può, inoltre, ordinare la pubblicazione della sentenza, ai sensi dell’art.120 c.p.c., in quanto tale rimedio possa contribuire alla riparazione del danno (A. DE CUPIS, op. cit., 4; G. BAVETTA, op. cit., 154). Ulteriori rimedi, ancora, consistono nella rimozione o nel ritiro dal commercio delle copie abusivamente diffuse (A. DE VITA, op. cit., 645). Infine, è possibile ottenere dal giudice anche un provvedimento di sequestro del materiale lesivo (fotografie ecc.) destinato alla stampa, ma non della riproduzione a stampa già effettuata, salvo che non ricorrano gli specifici presupposti richiesti a tal fine dall’art.21, comma 3, Cost. (Sez. 1, n. 2129 del 1975, Santosuosso, Rv. 375879 -01).

L’ampiezza della tutela giudiziaria del diritto all’immagine, riconosciuta dalle specifiche norme di legge volte a prevedere i singoli rimedi alla sua lesione, trova conferma nel richiamato orientamento giurisprudenziale (di cui costituisce l’ultima, espressione, in ordine di tempo, l’esaminata sentenza n. 8880 del 2020 della Terza Sezione civile della Corte di cassazione) che, attraverso l’integrazione delle fonti regolatrici, per un verso, comporta, sul piano sistematico, unitamente alla necessità di riconoscerne la specifica identità quale autonomo diritto fondamentale della persona, anche quella di individuare in esso una specifica manifestazione (unitamente al diritto alla riservatezza) del più ampio diritto all’intimità o sfera privata della persona; per altro verso, induce, sul piano dell’estensione del diritto, a riconoscerne una attitudine espansiva capace di erodere progressivamente, nell’evoluzione del diritto vivente, le limitazioni legali tradizionali, enucleate nelle fattispecie contemplate dall’art.97 della l. n. 633 del 1941.

Va peraltro ribadito e precisato che il progressivo restringimento dell’ambito di operatività delle limitazioni al diritto di immagine riguarda esclusivamente le limitazioni legali (art. 97 l. n. 633 del 1941) e non anche quelle che possono discendere dall’autonomia privata attraverso il consenso dell’avente diritto (art.96 stessa legge).

Infatti, come si è accennato, l’esposizione, riproduzione o pubblicazione dell’immagine di una persona (in tutte le forme rappresentative di cui si è detto, dirette o indirette) resta fuori dalle fattispecie disciplinate dalle disposizioni sul trattamento dei dati personali, introdotte dal recente d.lgs. n. 101 del 2018, emanato per esigenze di adeguamento della normativa interna a quella europea.

L’immagine della persona (ad es. la sua fotografia facciale) soggiace, infatti, a tale rinnovata disciplina solo quando presenti caratteristiche tali da farla rientrare in quella specifica categoria di dati personali costituita dai ccdd. “dati biometrici”, contraddistinti da un trattamento tecnico specifico concernente le caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica, tale da consentirne o confermarne l’identificazione univoca.

8. Postilla.

Durante la correzione della bozza di questo contributo, è stata pubblicata l’ordinanza 9 febbraio 2021, n. 4477, della Prima Sezione civile della Corte di cassazione, con cui la S.C. ha affermato il principio secondo cui l’interesse pubblico alla diffusione di una notizia, in presenza delle condizioni che giustificano l’esercizio del diritto di cronaca, non rileva ai fini della legittimità della pubblicazione delle immagini delle persone coinvolte nella vicenda narrata, dovendosi accertare uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti, ovvero il loro consenso o le altre condizioni eccezionali previste dall’ordinamento giuridico.

In applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha dunque cassato con rinvio la sentenza d’appello che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno subito da una bambina, la quale in occasione di un articolo pubblicato su talune testate giornalistiche, era apparsa ritratta insieme ad un noto calciatore che si era appositamente recato in ospedale per farle visita.

Questa nuova pronuncia fornisce conferma della evoluzione del diritto vivente nel senso di una progressiva estensione dell’ambito del divieto di pubblicazione dell’immagine della persona (con correlativa erosione delle fattispecie legali in cui il divieto non trova applicazione) che costituisce, a sua volta, espressione di quella attuale capacità espansiva del diritto all’immagine, dovuta alla riconosciuta prevalenza dell’interesse in esso tutelato rispetto ad altri interessi e valori di rango costituzionale, allorché, in funzione del concorso di circostanze obiettive o subiettive (anche nella fattispecie considerata dalla pronuncia del 2021 la pubblicazione riguardava l’immagine di una persona minore d’età), l’esigenza di tutela della riservatezza assume particolare rilievo.

In questa prospettiva, l’ordinanza n. 4477 del 19 febbraio 2021 della Prima Sezione civile, si pone in perfetta linea di continuità con l’esaminata sentenza della Terza Sezione civile n.8880 del 13 maggio 2020.

SEZIONE III DIRITTI REALI E CONDOMINIO

  • condominio
  • comproprietà
  • proprietà privata
  • servitù
  • spesa di consumo
  • bene comunale
  • riscaldamento

VI)

I RAPPORTI TRA I DIRITTI REALI ED IL CONDOMINIO.

(di Andrea Penta )

Sommario

1 Premessa. - 2 La deroga alla presunzione di condominialità di cui all’art. 1117 c.c. - 2.1 La trasformazione di un’area cortilizia in autorimesse. - 4 I sistemi centralizzati per l’accesso ai flussi informativi. - 4 Le deroghe al principio di accessione. - 4.1 La costruzione realizzata da uno dei comunisti sull’area comune: i due orientamenti. - 4.2 Le critiche mosse all’orientamento prevalente. - 4.3 Il titolo di proprietà. - 4.4 La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 3873 del 2018. - 4.5 L’elemento comune alle ipotesi di accessione regolate dal codice civile. - 4.6 Il regime giuridico dei rapporti tra il comproprietario costruttore e gli altri. - 4.7 I residui profili problematici. - 5 Le deroghe all’accessione. - 5.1 La decisione n. 8434/2020 delle Sezioni Unite. - 5.2 I “titoli” in deroga al principio di accessione. - 5.3 Il possibile tenore di una clausola in deroga. - 5.4 Una concessione con effetti meramente obbligatori o necessariamente reali? I riflessi sul regime giuridico applicabile. - 5.5 L’inquadramento giuridico della fattispecie. - 5.6 Il contratto ad effetti obbligatori: la disciplina applicabile. - 5.7 I poteri del singolo condomino. - 6 I rapporti tra l’uso della cosa comune ed il diritto di servitù. - 7 Conclusioni. Il principio superficie solo cedit. - 7.1 L’opera realizzata da un terzo. - 7.2 I parametri per l’inquadramento giuridico della fattispecie. - 7.3 La titolarità dell’opera.

1. Premessa.

Il codice del 1865 regolava l’istituto del condominio solo in via marginale, riservando agli “edifici”1 poche disposizioni, rinvenibili, del resto, nella più ampia disciplina delle servitù prediali2: sicché, difettando norme volte a regolamentare l’amministrazione delle parti comuni oppure (come l’attuale art. 1139 c.c.) di rinvio generico alle disposizioni sulla comunione3, si riteneva che la gestione di dette parti richiedesse sempre e necessariamente l’unanimità dei consensi dei proprietari dei singoli piani o porzioni di piano, con conseguente ampio ricorso all’autorità giudiziaria, chiamata a dirimere le controversie che da tale assetto normativo scaturivano tra i contitolari.

L’entrata in vigore dell’attuale codice civile ha generato plurime questioni applicative, alcune delle quali risolte solo negli ultimi anni, spesso grazie all’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite.

2. La deroga alla presunzione di condominialità di cui all’art. 1117 c.c.

La prima questione che si posta è in ordine alla portata applicativa della presunzione di condominialità sancita dall’art. 1117 c.c.

L'individuazione delle parti comuni operata da quest’ultima disposizione si fonda su una presunzione di comune appartenenza a tutti i condomini superabile non con qualsiasi prova contraria, ma soltanto sulla base delle opposte risultanze di quel determinato titolo che ha dato luogo alla formazione del condominio per effetto del frazionamento dell'edificio in più proprietà individuali (Sez. 2, Ordinanza n. 03852 del 17/02/2020, Scarpa, Rv. 657106 -02). La deliberazione condominiale con la quale vengono assegnate parti comuni (si pensi ad una caldaia) in proprietà esclusiva ad alcuni condomini richiede l'unanimità degli stessi, incidendo sulla pregressa comproprietà originaria ex lege di parti comuni e comportando l'esclusione dal vincolo reale di alcuni dei condomini (Sez. 2, Ordinanza n. 06090 del 04/03/2020, Carrato, Rv. 657126 -01).

Spesso gli atti di trasferimento immobiliare riportano locuzioni del tipo “concesso in uso esclusivo”o“porzione ad uso esclusivo e perpetuo”. Si riserva, così, al beneficiario la facoltà di utilizzare uno spazio o un’area comune in una maniera più intensa rispetto alle normali attribuzioni che gli competerebbero quale comproprietario, onde garantirgli il miglior godimento della sua proprietà esclusiva.

La clausola attributiva del diritto d’uso esclusivo di un bene condominiale può essere inserita:

-nel regolamento condominiale, disciplinando le relative assegnazioni ed il riparto delle loro spese;

-negli atti di acquisto delle singole unità immobiliari.

La permanenza del diritto di uso esclusivo verso i successivi acquirenti dipende o dal richiamo nell’atto di tutti i preesistenti vincoli gravanti sull’immobile ceduto fra i quali, appunto, l’uso esclusivo -oppure dall’accettazione, da parte dell’acquirente, del regolamento di condominio includente, fra le sue clausole, l’uso privilegiato. La trascrizione di tali compravendite comporta pure quella del vincolo di uso esclusivo nei pubblici registri ai fini della sua opponibilità a terzi.

Come recentemente chiarito da Cass. 4 ottobre 2018, n. 24301, non massimata, tale "uso esclusivo" è, però, inidoneo ad incidere sul regime proprietario, sì da determinare il superamento della “presunzione” ex art. 1117 c.c., riflettendosi non sull’appartenenza delle dette parti comuni alla collettività, ma sul solo riparto delle correlate facoltà di godimento fra i condomini, che avviene secondo modalità non paritarie determinate dal titolo.

Nel medesimo senso si sono espresse anche Sez. U, Ordinanza n. 06458 del 06/03/2020, Giusti, Rv. 657211 -01, per le quali la proprietà comune non è intaccata dall’uso esclusivo che del bene faccia il singolo condomino il quale si attenga al divieto di alterarne la destinazione ed all’obbligo di consentirne un uso paritetico agli altri comproprietari.

2.1. La trasformazione di un’area cortilizia in autorimesse.

Il profilo analizzato nel precedente paragrafo è stato approfondito da Sez. 2, Sentenza n. 16070 del 14/06/2019, Scarpa, Rv. 654086 -01, con riferimento alla trasformazione di un’area cortilizia in autorimesse destinate a servire alcuni condomini soltanto: cortili ed aree destinate a parcheggio (dopo l’entrata in vigore della legge n. 220 del 2012), privi di un’espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del condominio, rientrano tra le parti comuni dell’edificio condominiale, ex art. 1117 c.c. (Sez. 6 -2, Ordinanza n. 05831 del 08/03/2017, Scarpa, Rv. 643173 -01), e la loro trasformazione in un’area che accolga, con stabili opere edilizie, autorimesse, a beneficio di alcuni soltanto dei condomini, sebbene elimini la funzione dell’area comune, non li sottrae al regime della condominialità sotto il profilo dominicale (arg. da Sez. 2, Sentenza n. 06673 del 09/12/1988, Garofalo, Rv. 460955 -01; Sez. 2, Sentenza n. 04996 del 21/05/1994, Corona, Rv. 486713 -01); i nuovi manufatti, anzi, devono intendersi acquisiti per accessione, giusta l’art. 934 c.c., alla proprietà comune pro indiviso di tutti i condomini dell’immobile -salvo contrario accordo, che deve, però, rivestire la forma scritta ad substantiam (arg. da Sez. U, Sentenza n. 03873 del 16/02/2018, Lombardo, Rv. 647093 -01) -, siccome comproprietari ex art. 1117 c.c. del cortile sul cui suolo sono stati costruiti.

Era, tuttavia, controversa la natura di tale diritto: dando atto dell’esistenza di un orientamento (propugnato da Cass. n. 24301/2018, cit.) che ne esclude la riconducibilità al diritto reale d’uso previsto dall’art. 1021 c.c. (nel solo qual caso esso sarebbe tendenzialmente perpetuo e trasferibile ai successivi aventi causa dell’unità immobiliare cui accede), la Seconda Sezione civile della Suprema Corte, con ordinanza interlocutoria 2 dicembre 2019, n. 31420, aveva rimesso gli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione concernente la natura, i limiti e l’opponibilità di tale diritto, ipotizzando che potrebbe essersi in presenza di un diritto reale atipico di creazione pretoria, di un diritto d’uso "tipico" o, infine, di un diritto personale di godimento.

Le Sezioni Unite (S.U., sentenza n. 28972 del 17.12.2020, Pres. P. Curzio, Est. M. Di Marzio), pronunciando ex art. 363 c.p.c. sulla questione di massima di particolare importanza, hanno affermato il seguente principio di diritto: “La pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell’edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall’art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi”. Mentre in forza del primo principio (quello del numerus clausus) solo la legge può istituire figure di diritti reali, per effetto del secondo i privati non possono incidere sul contenuto, snaturandolo, dei diritti reali che la legge ha istituito.

Se può ammettersi che il titolo costitutivo restringa il contenuto del diritto d’uso con l’esclusione di talune facoltà in esso naturalmente comprese, deve, al contrario, ritenersi che l’attribuzione di una soltanto tra le facoltà di uso consentite dalla natura del bene possa dar vita ad un rapporto obbligatorio, ma non possa configurarsi come costitutiva di un diritto reale di uso, che sarebbe essenzialmente diverso da quello previsto dalla legge e, come tale, inammissibile nel nostro ordinamento.

Questo approccio è in linea con Sez. 2, Sentenza n. 00193 del 09/01/2020, Giuseppe Grasso, Rv. 656828 -01), secondo cui, in tema di condominio, non può ipotizzarsi, in favore di una persona giuridica, la costituzione di un uso reale atipico, esclusivo e perpetuo, che priverebbe del tutto di utilità la proprietà e darebbe vita ad un diritto reale incompatibile con l'ordinamento.

Ciò non esclude la possibilità di un “uso” più intenso da parte di un condomino rispetto agli altri (Cass. 30 maggio 2003, n. 8808; Cass. 27 febbraio 2007, n. 4617; Cass. 21 ottobre 2009, n. 22341; Cass. 16 aprile 2018, n. 9278), tanto più che l’art. 1123, comma 2, c.c. contempla espressamente la possibile esistenza di cose destinate a servire i condomini “in misura diversa”, previsione che trova ulteriore specificazione nel successivo art. 1124 c.c., con riguardo alla manutenzione e sostituzione di scale ed ascensori.

4. I sistemi centralizzati per l’accesso ai flussi informativi.

Altra questione che di recente si è posta, in tema di condominialità dei beni, è quella concernente i sistemi centralizzati.

L’art. 1117, n. 3, c.c. è stato integralmente riscritto, nella sua parte centrale, sottoponendo a regime condominiale i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti1.

Tali impianti e sistemi centralizzati soggiacciono al detto regime, ove destinati all’uso comune, fino al punto di diramazione ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini (sotto tale profilo la formulazione della norma è rimasta invariata) ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza (formulazione innovativa), giacché, arrivato al punto di diramazione, l’impianto cessa di fornire utilità a tutte le unità immobiliari (da qui la ricomprensione nella condominialità) e si rivolge, piuttosto, esclusivamente al godimento ed al servizio di beni in proprietà individuale (con conseguente attrazione nell’ambito del dominio esclusivo).

Restano incertezze in ordine al regime proprietario delle tubazioni, delle condutture ovvero delle altre strutture necessarie al funzionamento dell’impianto medesimo che siano collocate anche in porzioni dell’edificio in proprietà esclusiva, con conseguente sviluppo, all’interno di esse, di parte del loro percorso.

La giurisprudenza risalente (benché riferita al regime pregresso alla Riforma del 2012; Sez. 2, Sentenza n. 02151 del 29/07/1964, Marletta, Rv. 303162 -01) aveva incluso nella "presunzione" di comunione non soltanto la parte di impianto che si sviluppa in aree comuni, ma anche quella che passa attraverso parti di proprietà esclusiva del singolo condomino, purchè in queste ultime si innestassero uno o più altri canali a servizio di altri condomini.

In applicazione di tale principio, è stato allora chiarito che la collocazione delle tubazioni di un impianto idrico destinato al servizio di alcuni appartamenti dell'edificio all'interno delle mura di uno di essi comporta, in virtù del vincolo di accessorietà necessaria che intercorre, nel condominio di edifici, fra beni di proprietà esclusiva e beni comuni, l'instaurazione di un rapporto di comproprietà tra i condomini titolari delle unità immobiliari servite dall'impianto, in virtù del quale il titolare dell'appartamento (vano o struttura) al cui interno le tubazioni sono collocate, pur non subendo limitazioni nel suo autonomo ed esclusivo godimento, ha l'obbligo di consentirne e conservarne la destinazione al servizio comune (cioè dell’intero edificio condominiale), configurandosi l'impedimento all'utilizzazione del servizio da parte degli altri comproprietari come un uso illegittimo dei poteri a lui spettanti in qualità di comproprietario. In questa ottica, le limitazioni dell’esclusivo diritto di proprietà concreterebbero corrispondenti servitù (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 05978 del 19/05/1992, Paolella, Rv. 477270 -01; Sez. 2, Sentenza n. 07761 del 30/03/2010, Migliucci, Rv. 612307 -01)1.

Le esposte considerazioni non sono, però, pacifiche in giurisprudenza, essendosi al contrario affermato che la presunzione di proprietà comune dell’impianto (ad esempio, di riscaldamento) di un immobile condominiale, ex art. 1117, n. 3, c.c., non potrebbe estendersi a quella parte dello stesso ricompresa nell’appartamento dei singoli condomini -cioè nella sfera di loro proprietà esclusiva -né, conseguentemente, ai componenti radianti che vengono installati nelle unità immobiliari di proprietà individuale, anche se collegati tramite tubi alla caldaia comune, sicchè sarebbe il singolo proprietario dell’appartamento a doverne curare la manutenzione (Sez. 2, Sentenza n. 27248 del 26/10/2018, Besso Marcheis, Rv. 650851 -01; Sez. 6 -2, Ordinanza n. 16608 del 05/07/2017, Scarpa, Rv. 645062 01).

Da questo punto di vista, la presunzione di comunione non potrebbe estendersi alle diramazioni che, innestandosi nel tratto di proprietà esclusiva, anche se questo sia allacciato a quello comune, servono ad addurre acqua negli appartamenti degli altri proprietari (Sez. 2, Sentenza n. 02043 del 23/07/1963, Pratillo, Rv. 263147 01).

Sulla questione sarebbe, pertanto, auspicabile un intervento chiarificatore della Seconda Sezione o delle Sezioni Unite.

4. Le deroghe al principio di accessione.

La principale questione che ha impegnato di recente la Cassazione è stata quella di individuare l’ambito applicativo del principio di accessione.

In termini generali, l’accessione (e, in particolare, il principio superficies solo cedit) opera solo in assenza di deroghe risultanti da un titolo o dalla legge.

Quanto ai contratti che regolano gli effetti della costruzione su suolo altrui, il titolo che, di norma, consente di derogare alla disciplina dell’accessione è quello costitutivo del diritto di superficie (v. cap. 6), nel qual caso l’ordinamento giuridico accetta la coesistenza di ‘proprietà separate’ in via negoziale (Sez. 3, Sentenza n. 04337 del 07/07/1980, Finaldi, Rv. 408203 -01). Avuto riguardo alle deroghe individuate dalla legge (artt. 935, 936 e 937 c.c.), l’eccezione più vistosa al principio generale dell’art. 934 c.c. è costituita dalla cd. accessione invertita, in presenza della quale il proprietario dell’opera acquista, ex art. 938 c.c., la proprietà del suolo.

A certe condizioni, pertanto, l’interesse del terzo prevale su quello dominicale, precludendo al proprietario del suolo di avvantaggiarsi del tutto dell’operatività dell’accessione.

In questo contesto diventa, allora, importante individuare la figura del “terzo”. In dottrina è diffusa l’opinione che tale sia chi non abbia con il proprietario del terreno un rapporto giuridico rilevante ai fini dell’esistenza della sua facoltà di costruire. Dunque, non sarebbero terzi i soggetti che hanno un rapporto di natura reale o personale con il fondo che li potrebbe legittimare a costruire.

Problemi sorgono, però, ove l’accessione entri in contatto con altri istituti oggetto di specifica disciplina legislativa, come la comunione ed il condominio.

4.1. La costruzione realizzata da uno dei comunisti sull’area comune: i due orientamenti.

L’attenzione della S.C. si è concentrata sull’operatività dell’accessione rispetto all’opera realizzata, sull’area comune, da uno solo dei comunisti, senza il consenso degli altri.

La questione che aveva dato adìto a dei dubbi (illustrata con relazione di questo Ufficio n. 126 del 2017, Cavallari) era se, in caso di edificazione effettuata sul terreno comune da uno dei comproprietari senza il consenso degli altri, questi ultimi ne sarebbero diventati proprietari pro quota, operando il meccanismo dell’accessione, o se, al contrario, si sarebbe dovuto riconoscere la proprietà esclusiva in capo al costruttore. In altri termini, se l’esistenza di una comunione potesse o meno incidere sull’operatività dell’accessione, come disciplinata dagli artt. 934 ss. c.c.1

Sul punto si contrastavano due orientamenti.

Il primo, più risalente, secondo cui, per il principio dell’accessione, la costruzione su suolo comune da parte del comunista era pure comune, man mano che veniva edificata, salvo contrario accordo scritto.

Pertanto, la presenza di una comunione non sarebbe stata di ostacolo all’operatività dell’accessione.

La nuova costruzione sarebbe diventata automaticamente, in virtù del meccanismo di cui all’art. 934 c.c., di proprietà pro indiviso degli originari contitolari del suolo secondo le quote (proporzionali a quelle di originaria appartenenza dominicale) spettanti ad ognuno di loro sul detto suolo, e ciò a prescindere dal consenso degli altri (Sez. 2, Sentenza n.03479 del 11/07/1978, Pierantoni, Rv. 392960 -01); salvo il diritto di credito del costruttore per le spese anticipatamente erogate.

Il secondo, invece, era contrario all’applicabilità delle disposizioni sull’accessione nei rapporti fra comunisti e condomini.

La disciplina sull’accessione prevista dall’art. 934 c.c. era, secondo tale indirizzo, riferibile alle sole costruzioni su terreno altrui, sicchè sarebbe stata inapplicabile a quelle eseguite da un comproprietario su terreno comune, da ricondursi, invece, a quella in tema di comunione.

Corollario di quest’ultima tesi era che la comproprietà della nuova opera sarebbe sorta in favore dei condomini non costruttori (nelle medesime quote di contitolarità del suolo) solo se realizzata rispettando le regole sulla comunione (cioè le norme artt. 1102, 1108, 1120 c.c. -sui limiti all’uso della cosa comune, sulla sopraelevazione e sulle innovazioni).

Diversamente, la costruzione avrebbe rappresentato una violazione delle utilizzazioni consentite ai singoli compartecipi dall’art. 1102 c.c. (costituendo, per l’effetto, un’innovazione “illegittima” o “abusiva”) ed avrebbe dato luogo alla separazione della proprietà del suolo da quella del manufatto, cosicché le opere abusivamente realizzate (così come la sottostante area di sedime) non avrebbero potuto considerarsi beni condominiali per accessione, ma di proprietà del solo comproprietario-costruttore1.

Da ciò sarebbe discesa l’inoperatività dell’accessione, quale generale modo di acquisto a titolo originario della proprietà, data l’incompatibilità ontologica e funzionale, anche sul piano della ratio, esistente tra la disciplina della comunione e quella dell’accessione.

Per i giudici di legittimità, fino almeno alla decisione delle Sezioni Unite n. 3873 del 2018 (su cui postea), la situazione di comproprietà dell’area edificabile era di per sé sufficiente a determinare l’inoperatività dell’accessione e l’applicazione degli artt. 1100 ss. c.c., rientrando le norme della comunione nella riserva legale testualmente prevista dall’art. 934 c.c. e, quindi, rappresentando una disciplina speciale destinata a prevalere sulla regola generale superficies solo cedit.

4.2. Le critiche mosse all’orientamento prevalente.

La ricostruzione prevalente non chiariva la ragione tecnico-giuridica per cui il comunista che operasse senza o contro il consenso altrui ottenesse, quasi a mò di premio, la proprietà del nuovo manufatto.

Tale impostazione entrava in crisi, allorquando mancava la volontà dei contitolari di rimuovere la res oppure non emergeva, da parte loro, un atteggiamento di noncuranza nella gestione del cespite comune.

Il favor verso il costruttore conduceva a legalizzare una sorta di espropriazione di fatto, anche quando gli altri comunisti non si erano disinteressati ed il singolo era in mala fede.

La disciplina generale dell’art. 934 c.c., del resto, non sembra(va) presupporre, per la sua operatività, la terzietà del costruttore, aprendosi ad una interpretazione in senso estensivo, fino a ricomprendervi altresì il comproprietario. Il fatto stesso che il legislatore avesse previsto una normativa ad hoc con gli artt. 936 e 937 c.c. per disciplinare le opere fatte da un terzo avrebbe dimostrato che l’accessione, nella sua configurazione generale, non postulava sempre la scissione soggettiva tra l’autore dell’opera ed il proprietario del suolo.

In caso contrario, si sarebbe verificata la singolare situazione per la quale, mentre nell’ipotesi in cui il comproprietario avesse costruito con il consenso degli altri, avrebbe trovato applicazione la disciplina dell’accessione con acquisizione in proprietà del bene a tutti pro quota, nel caso in cui la medesima condotta fosse stata posta in essere senza o contro la volontà altrui, pur essendosi al cospetto di una innovazione illegittima e di un illecito civile, si sarebbe verificato un acquisto della proprietà esclusiva della nuova opera (solo) in favore dell’autore del medesimo illecito.

Questa soluzione avrebbe potuto porsi in contrasto pure con l’art. 1102, comma 2, c.c., il quale stabilisce che il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, ove non compia atti idonei a mutare il titolo del suo possesso. Infatti, la detta disposizione si riferisce fondamentalmente all’usucapione della res (o di una quota maggiore di essa) ad opera del comunista, usucapione che avviene molto spesso proprio tramite una inaedificatio.

Tale norma avrebbe dovuto essere letta in correlazione con l’art. 834, comma 1, c.c., in base al quale nessuno può essere privato, in tutto o in parte, dei beni di sua proprietà, se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata, e dietro il pagamento di una giusta indennità.

Un problema per certi versi analogo si era posto nell’ambito dell’art. 177, lett. a), c.c. (nel caso in cui uno dei coniugi avesse realizzato la nuova opera su un bene rientrante nella propria sfera patrimoniale esclusiva), atteso che l’estensione della comunione alle costruzioni edificate su suolo personale di uno dei coniugi avrebbe privato il coniuge proprietario non solo di metà del fabbricato, ma, nella stessa misura, della potenzialità edificatoria del terreno, con esproprio, in favore della comunione, del fondo del coniuge (bene rientrante fra quelli esclusi dalla comunione ex art. 179 c.c.). Il contrasto, come è noto, è stato risolto dalla Suprema Corte (Sez. U, Sentenza n. 00651 del 27/01/1996, Carbone V., Rv. 495599 -01), che ha attribuito l’acquisto al coniuge proprietario del suolo, riconoscendo all’altro un diritto di credito pari al valore dei materiali e della manodopera impiegati (conf., da ultimo, Sez. 1, Ordinanza n. 28258 del 04/11/2019, Marulli, Rv. 655630 -01).

L’affermazione che gli artt. 1100 ss. costituirebbero una deroga legale all’operatività dell’accessione si sarebbe posta, allora, in contrasto con gli artt. 834, comma 1, e 1102, comma 2, c.c., integrando un’indebita espropriazione ai danni dei partecipanti non costruttori, senza, inoltre, prevedere un corrispettivo. Peraltro, il nostro ordinamento prevede modi di acquisto della proprietà a titolo originario e a titolo derivativo che, come si evince dall’art. 922 c.c., possono essere solo legali.

La tesi più recente seguita dalla giurisprudenza di legittimità ed abbandonata nel 2018 avrebbe introdotto, al contrario, una nuova fattispecie acquisitiva nel sistema, contravvenendo alla suddetta tipicità.

In dottrina1 si è osservato che il comproprietario, ove avesse agito in violazione delle norme sulla comunione, avrebbe dovuto vedere il frutto della sua attività disciplinato come una costruzione fatta da un terzo con materiali propri od altrui, a seconda dei casi, con applicazione della disciplina degli artt. 936 o 937 c.c. Invero, l’attività innovativa del comunista sarebbe stata assimilabile a quella di un soggetto che non aveva poteri sulla res ed egli, non avendo agito quale condomino, sarebbe stato qualificabile come terzo, ai sensi dell’art. 936 c.c., perché costruttore in alieno.

4.3. Il titolo di proprietà.

La giurisprudenza non aveva chiarito a quale titolo il singolo comunista diventasse proprietario. Infatti, l’acquisto doveva avvenire presumibilmente a titolo originario, ma nessuna delle modalità indicate nell’art. 922 c.c. sembrava ricorrere nella specie, né poteva ritenersi che fosse stato introdotto nell’ordinamento un nuovo modo atipico di acquisto della proprietà.

La tesi dominante in giurisprudenza sembrava non tener conto che la disciplina dell’accessione era espressione di un principio generale del nostro diritto civile, sicchè vi era la necessità di applicarla, ove ne ricorressero i presupposti, a meno che ad essa non potesse contrapporsi una disciplina contraria espressione di altro principio generale.

L’esistenza di un pari diritto di ogni comunista sulla res era incompatibile con l’assunto che uno solo di essi divenisse proprietario dell’opera costruita con esclusione degli altri.

Conseguiva a queste considerazioni che, in linea di principio, il fenomeno della comunione non presentava alcuna incompatibilità di fondo con la disciplina dell’accessione.

Ciò chiariva perché fosse necessario rinvenire disposizioni che regolassero la fattispecie de qua in modo specifico, così da escludere il ricorso agli artt. 934 ss. c.c.

Tuttavia, gli artt. 1102, 1108 e 1120 c.c. non sembravano occuparsi espressamente della questione. Infatti, l’art. 1108 c.c., al terzo comma, non ammette la nascita di diritti reali sulla res, in assenza di una autorizzazione unanime. La tesi che assegnava il manufatto in proprietà esclusiva ad un solo interessato, invece, consentiva a quest’ultimo di creare, per sua iniziativa, tale nuovo diritto. A sua volta, l’art. 1102 c.c., come si è visto, vieta al comunista di estendere il suo diritto sulla res in danno degli altri partecipanti, se non tramite atti idonei a mutare il titolo del suo possesso. In tale maniera, però, l’art. 1102 c.c. sancisce indirettamente che l’usucapione è l’unico modo per privare gli altri condomini della proprietà o del godimento anche solo di parte della res, situazione che, invece, si sarebbe verificata sempre in presenza dell’edificazione di un manufatto sul fondo senza il consenso degli altri condomini, qualora se ne fosse riconosciuto il passaggio nella proprietà esclusiva del comunista costruttore. Ne derivava che, in assenza dei presupposti dell’usucapione, il manufatto sarebbe dovuto cadere nella comunione con il meccanismo dell’accessione.

Solo il comunista che avesse operato nel rispetto degli artt. 1102, 1108 e 1120 c.c. sarebbe stato qualificabile come proprietario, dato che, come quest’ultimo, avrebbe agito legittimamente. Nel caso, invece, in cui la normativa non fosse stata rispettata, egli sarebbe stato un edificatore illegittimo.

In tale ultima evenienza l’innovatore, non agendo quale condomino, sarebbe stato qualificabile come terzo, ex art. 936 c.c., con la conseguenza che i comunisti avrebbero dovuto poter domandare la rimozione della costruzione ed il suo autore, in presenza dei requisiti di legge, avrebbe avuto diritto ad un indennizzo1.

4.4. La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 3873 del 2018.

La Seconda Sezione civile della Corte Suprema di cassazione aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione concernente l’esistenza del ricostruito contrasto nella giurisprudenza di legittimità, ritenendo che l’impostazione più recente meritasse di essere rimeditata, «destando perplessità che l’edificazione sull’area comune da parte di uno solo dei comunisti in violazione degli artt. 1102 e ss. cod. civ., riceva il beneficio dell’assegnazione della proprietà esclusiva della costruzione, difficilmente inquadrabile in uno dei modi di acquisto stabiliti dall’art. 922 cod. civ.».

Con la sentenza n. 03873 del 16 febbraio 2018, rv. 647093 -01 e 647093 -02 (Pres. Rordorf R.; Rel. Lombardo L.G.), le Sezioni Unite hanno enunciato due principi di diritto così massimati:

1) «La costruzione eseguita dal comproprietario sul suolo comune diviene, per accessione, ai sensi dell’art. 934 c.c., di proprietà comune agli altri comproprietari dell’immobile, salvo contrario accordo, traslativo della proprietà del terreno o costitutivo di un diritto reale su di esso, che deve rivestire la forma scritta ad substantiam».

2) «In tema di accessione, il consenso alla costruzione eseguita da uno dei comproprietari del suolo, manifestato dal comproprietario non costruttore, pur non essendo idoneo a costituire un diritto di superficie o altro diritto reale, preclude l’esercizio dello ius tollendi. Peraltro, ove tale diritto non venga o non possa essere esercitato, i comproprietari del suolo sono tenuti a rimborsare al comproprietario costruttore, in proporzione alle rispettive quote di proprietà, le spese sostenute per l’edificazione dell’opera».

La pronuncia si fonda su tre argomenti logici:

a) in materia di comunione e condominio, non vi sono disposizioni in grado di derogare alla disciplina dell’accessione, istituto di carattere generale e, pertanto, da applicare ove non vi siano norme che ne escludano espressamente l’operatività;

b) il rapporto fra il proprietario edificatore e gli altri non è regolato dall’articolo 936 c.c., non potendosi qualificare il condomino costruttore quale terzo rispetto alla comunione, ma dagli articoli 1108, 1120 e 1121 c.c. in tema di comunione e condominio, che impongono di costruire solo se autorizzati e in maniera da non arrecare pregiudizio al diritto di utilizzare la cosa comune degli altri partecipanti;

c) il condomino leso dalla realizzazione dell’opera può agire con le azioni a tutela della proprietà e del possesso, nonché esercitare lo ius tollendi. Tale ultimo strumento, inoltre, spetta pure alla maggioranza dei comproprietari ex art. 1108 c.c. Qualora, per, non sia stata domandata la demolizione della costruzione, i comproprietari non edificatori devono rimborsare, a chi l’abbia eseguita, le spese sostenute. In particolare, ove il costruttore abbia agito con il consenso, anche non scritto, dell’altro comproprietario, a quest’ultimo è precluso l’esercizio dello ius tollendi.

4.5. L’elemento comune alle ipotesi di accessione regolate dal codice civile.

Fattore unificante delle dette ipotesi è la regola generale dell’art. 934 c.c., per cui il proprietario della cosa principale diviene proprietario di quella accessoria, quando la seconda si congiunga stabilmente alla prima.

Le Sezioni Unite hanno negato che presupposto dell’accessione sia la qualità di terzo del costruttore rispetto al dominus soli e che l’efficacia dell’istituto sia preclusa dal fatto che, in presenza di una comunione del suolo, la costruzione venga realizzata da uno dei comproprietari. Ciò perché l’art. 934 c.c. concerne anche le opere eseguite dal proprietario (recte,comproprietario) del suolo comune, non presupponendo l’accessione la distinzione soggettiva tra proprietario del suolo e costruttore.

Questa interpretazione, secondo il Collegio, trae conferma dalla circostanza che i casi di accessione in cui il costruttore è terzo rispetto ai proprietari del fondo vengono regolati dagli artt. 936 e 937 c.c., il che esclude che l’art. 934 c.c. possa riferirsi alle costruzioni del terzo.

La Suprema Corte ha negato, poi, che, ove il fondo appartenga a più soggetti, l’art. 934 c.c. venga derogato dalla disciplina della comunione, non rilevando il fatto che tale disposizione abbia fatto salve le deroghe alla regola dell’accessione previste dalla legge o dal titolo.

Infatti, nessuna delle eccezioni stabilite dalla legge riguarda la comunione del suolo, essendo a tal fine necessario un contratto stipulato tra il proprietario del suolo ed il costruttore che attribuisca a quest’ultimo il diritto di proprietà sulle opere realizzate, con la costituzione di un diritto di superficie, e che sia redatto per iscritto ex art. 1350 c.c.

4.6. Il regime giuridico dei rapporti tra il comproprietario costruttore e gli altri.

Le Sezioni Unite, pertanto, dopo aver stabilito che la costruzione su suolo comune appartiene a tutti i comproprietari del medesimo in proporzione alle rispettive quote, hanno tentato di definire il regime giuridico dei rapporti tra il comproprietario costruttore e gli altri.

Esse hanno rilevato che l’art. 934 c.c. nulla dispone circa la relazione tra edificatore e dominus soli e che deve escludersi che la materia possa essere regolata dall’art. 936 c.c., trattandosi di disposizione relativa alle «Opere fatte da un terzo» e non potendo il comproprietario del fondo essere qualificato terzo rispetto agli altri comunisti.

Hanno ricavato, quindi, la disciplina dei rapporti tra comproprietario costruttore e non costruttore dalle norme sulla comunione, in primis da quelle sull’uso della cosa comune e sulle innovazioni.

Infatti, la costruzione su terreno comune, in quanto innovazione, deve essere deliberata ai sensi degli artt. 1108 c.c. (per la comunione ordinaria) e 1120 e 1121 c.c. (per il condominio), con il limite di non pregiudicare l’utilizzo della res da parte di alcuno dei partecipanti; quando la costruzione sia stata edificata senza autorizzazione della maggioranza dei condomini ovvero abbia leso il godimento della cosa comune di tutti i comproprietari, colui che abbia patito un danno dall’opera può esercitare le ordinarie azioni possessorie e l’azione di rivendicazione.

Il comproprietario può anche avvalersi dello ius tollendi e pretendere la demolizione del manufatto lesivo del suo diritto tramite la tutela in forma specifica ex art. 2933 c.c.1

La Corte di cassazione ha ritenuto, però che il ricorso allo ius tollendi debba essere coniugato con i principi di tolleranza, affidamento e buona fede, che sono sottesi all’art. 936, comma 4, c.c.2, non essendo di ostacolo alla applicazione di quest’ultima disposizione la circostanza che non riguardi le opere edificate dal comproprietario sul suolo comune.

Essa ha, quindi, distinto la fattispecie del comproprietario costruttore che abbia agito contro l’esplicito divieto dei condomini, o a loro insaputa, da quella in cui egli abbia operato, se non col consenso, con scienza e senza opposizioni degli altri comproprietari.

Nella prima eventualità, le Sezioni Unite hanno riconosciuto lo ius tollendi al comproprietario non costruttore. Nella seconda, invece, hanno negato tale diritto, a tutela della buona fede e dell’affidamento del costruttore. Per lo stesso motivo hanno affermato che pure la mera tolleranza (ossia la mancata reazione del comproprietario non costruttore all’abuso intrapreso dal comunista costruttore), protratta per un congruo periodo di tempo dal giorno della notizia dei lavori, precluderebbe l’esercizio dello ius tollendi.

Infine, la S.C. ha precisato che, ove quest’ultima facoltà non sia (o non possa essere) azionata, sorge, in favore del comproprietario costruttore, un diritto di credito verso gli altri comunisti, divenuti per accessione comproprietari dell’opera, al fine di ottenere il rimborso delle spese di edificazione dal medesimo sopportate.

4.7. I residui profili problematici.

La decisione delle Sezioni Unite di ammettere l’applicabilità della disciplina dell’accessione in caso di costruzione realizzata su suolo comune da uno dei comproprietari è stata accolta positivamente in dottrina.

Può peraltro, già prevedersi che, essendo i confini dello ius tollendi poco definiti, si assisterà ad un aumento delle questioni applicative, soprattutto nell’ambito dei diritti reali.

In tale ottica, sarebbe stato forse più opportuno ricorrere ad una applicazione estensiva od analogica, anziché diretta, del menzionato art. 936 c.c.

5. Le deroghe all’accessione.

Partendo dal presupposto per cui l’accessione rappresenta un principio generale, la S.C. si è altresì domandata quando lo stesso non trovi applicazione.

Gli artt. 935, 936 e 937 non costituiscono deroghe all’istituto dell’accessione, poiché non escludono l’acquisto della proprietà in capo al proprietario del fondo, ma lo presuppongono.

Una vera e propria deroga, invece, è ravvisabile nella fattispecie disciplinata dall’art. 938 c.c., essendo attribuito al proprietario dell’opera il diritto di proprietà del suolo sul quale la stessa insiste, e non viceversa.

Premesso che l’ultima parte dell’art. 934 c.c. contempla le deroghe contenute in una normativa di legge o in un titolo che disponga diversamente1 (sul punto v. § 5.2.), occorre, a quest’ultimo fine, una convenzione (che richiede la forma scritta ad substantiam) tra il proprietario del suolo e il costruttore, dalla quale emerga la volontà di escludere l’effetto acquisitivo in capo al dominus soli, non rilevando dichiarazioni di volontà unilaterali2.

Parte della dottrina e la giurisprudenza prevalente ritengono che la nozione di titolo ricomprenda pure le concessioni ad aedificandum, con le quali il proprietario del suolo rinuncia a far propria la costruzione che insisterà su di esso (Sez. 2, Sentenza n. 04111 del 10/07/1985, Giavedoni, Rv. 441636 -01; v. § 5.6.).

5.1. La decisione n. 8434/2020 delle Sezioni Unite.

Con la sentenza n. 08434 del 30 aprile 2020 (Pres. G. Mammone, Est. A. Cosentino; Rv. 657604 -01/02/03) le Sezioni Unite hanno risolto la questione di massima di particolare importanza sul «se è necessario il consenso di tutti i partecipanti, ai sensi dell'art. 1108, comma 3, c.c., per l'approvazione del contratto col quale un condominio conceda in godimento ad un terzo, dietro il pagamento di un corrispettivo, il lastrico solare, o altra idonea superficie comune, allo scopo precipuo di consentirgli l'installazione di infrastrutture ed impianti (nella specie, necessari per l'esercizio del servizio di telefonia mobile), che comportino la trasformazione dell'area, riservando comunque al detentore del lastrico di acquisire e mantenere la proprietà dei manufatti nel corso del rapporto come alla fine dello stesso», enunciando i seguenti principi di diritto:

1) Il programma negoziale con cui il proprietario di un lastrico solare intenda cedere in godimento ad altri, a titolo oneroso, la facoltà di installarvi e mantenervi per un certo tempo un ripetitore, o altro impianto tecnologico, con il diritto di mantenere la disponibilità ed il godimento dell'impianto ed asportare il medesimo alla fine del rapporto, può astrattamente essere perseguito sia attraverso un contratto ad effetti reali, sia attraverso un contratto ad effetti personali; la riconduzione del contratto concretamente dedotto in giudizio all'una o all'altra delle suddette categorie rappresenta una questione di interpretazione contrattuale, che rientra nei poteri del giudice di merito. (Rv. 657604 -01).

2) Qualora le parti abbiano inteso attribuire all'accordo con cui il proprietario di un lastrico solare conceda in godimento ad altri, a titolo oneroso, la facoltà di installarvi e mantenervi per un certo tempo un ripetitore, o altro impianto tecnologico -con il diritto di mantenere la disponibilità ed il godimento dell'impianto ed asportare il medesimo alla fine del rapporto -, effetti reali, lo schema negoziale di riferimento è quello del contratto costitutivo di un diritto di superficie, il quale attribuisce all'acquirente la proprietà superficiaria dell'impianto installato sul lastrico solare, può essere costituito per un tempo determinato e può prevedere una deroga convenzionale alla regola che all'estinzione del diritto per scadenza del termine il proprietario del suolo diventi proprietario della costruzione; il contratto con cui un condominio costituisca in favore di altri un diritto di superficie, anche temporaneo, sul lastrico solare del fabbricato condominiale, finalizzato alla installazione di un ripetitore, o altro impianto tecnologico, richiede l'approvazione di tutti i condomini. (Rv. 657604 -02).

3) Qualora le parti abbiano inteso attribuire all'accordo con cui il proprietario di un lastrico solare conceda in godimento ad altri, a titolo oneroso, la facoltà di installarvi e mantenervi per un certo tempo un ripetitore, o altro impianto tecnologico -con il diritto di mantenere la disponibilità ed il godimento dell'impianto ed asportare il medesimo alla fine del rapporto -, effetti obbligatori, lo schema negoziale di riferimento è quello del contratto atipico di concessione ad aedificandum di natura personale, con rinuncia del concedente agli effetti dell'accessione, con il quale il proprietario di un'area concede ad altri il diritto personale di edificare sulla stessa, di godere e disporre dell'opera edificata per l'intera durata del rapporto e di asportare tale opera al termine del rapporto. Tale contratto è soggetto alla disciplina dettata, oltre che dai patti negoziali, dalle norme generali contenute nel titolo II del libro IV del codice civile (art. 1323 c.c.), nonché, per quanto non previsto dal titolo, dalle norme sulla locazione, tra cui quelle dettate dagli artt. 1599 c.c. e 2643, n. 8, c.c. e, ove stipulato da un condominio per consentire a terzi l'installazione del ripetitore sul lastrico solare del fabbricato condominiale, richiede l'approvazione di tutti i condomini solo se la relativa durata sia convenuta per più di nove anni. (Rv. 657604 -03).

Come è immediatamente percepibile, le Sezioni Unite hanno sfruttato alcuni dei principi enunciati nel 2018, adattandoli alla fattispecie concreta analizzata e sviluppandoli lungo una linea di coerenza interna.

5.2. I “titoli” in deroga al principio di accessione.

Con riferimento ai ‘titoli’ finalizzati ad escludere che il bene immobilizzato nel suolo dal conduttore sia ritenuto, in deroga al principio dell’accessione (art. 934 c.c.), dal proprietario, occorre distinguere le disposizioni contrarie contenute nella legge dalle eccezioni contenute nel titolo.

Tra le prime rientrano: a) le addizioni dell’enfiteuta (art. 975, comma 3, c.c.) e dell’usufruttuario (art. 986, comma 2, c.c.) e b) le addizioni del possessore (art. 1150, comma 5, c.c.) e quelle del locatore (art. 1593 c.c.)1.

Le seconde includono: a) la costituzione diretta di un diritto di superficie (artt. 952 ss. c.c.) e b) la concessione ad aedificandum (nel qual caso il proprietario del suolo rinuncia a far propria la costruzione che sorgerà sul suolo), prescrivendo in entrambi i casi l’atto scritto ad substantiam negotii (trattandosi di accordi negoziali relativi a diritti reali o che importano il trasferimento di proprietà immobiliari; cfr. Sez. 1, Sentenza n. 1543 del 23/02/1999, Rv. 523557 -01, Sez. 2, Sentenza n. 11120 del 11/11/1997, Rv. 509736 -01, Sez. 2, Sentenza n. 3714 del 19/04/1994, Rv. 486273 -01, Sez. 2, Sentenza n. 5511 del 27/10/1984, Rv. 437174 -01); come anche per iscritto deve risultare la rinuncia del proprietario al diritto di accessione, che si traduce sostanzialmente nella costituzione di un diritto di superficie.

5.3. Il possibile tenore di una clausola in deroga.

Sul piano pratico, una clausola può assumere, in astratto, un duplice alternativo tenore, a seconda che: a) il locatore abbia autorizzato il conduttore ad eseguire sul suolo locato miglioramenti ed accessioni, escludendo lo jus tollendi (e, quindi, acquisendo la proprietà) anche riguardo alle addizioni separabili senza nocumento (nel qual caso il conduttore vanterebbe solo un diritto di credito, e non anche la proprietà sulle future costruzioni; Sez. 1, Sentenza n. 03028 del 14/11/1973, Rv. 366746 -01), o b) si sia stabilito che le addizioni (id est, le costruzioni realizzate dal conduttore nel corso del rapporto), alla cessazione della locazione, non passino mai al locatore in proprietà, ponendo a carico del conduttore solo l’obbligo della rimessione in pristino alla fine del rapporto (Sez. 1, Sentenza n. 03721 del 19/11/1974, Rv. 372245 -01).

Avuto riguardo alle fattispecie ricomprese nel secondo gruppo, occorre ricordare che, per quanto l'art. 953 c.c. disponga che, "se la costituzione del diritto è stata fatta per un tempo determinato, allo scadere del termine il diritto di superficie si estingue e il proprietario del suolo diventa proprietario della costruzione", tale norma ha natura dispositiva ed è perciò derogabile dalle parti.

5.4. Una concessione con effetti meramente obbligatori o necessariamente reali? I riflessi sul regime giuridico applicabile.

Uno dei dubbi necessariamente da risolversi riguardava il se il "titolo" ex art. 934 c.c., da cui eventualmente risulti l'inoperatività del principio superficies solo cedit, potesse consistere (anche) in una concessione con effetti meramente obbligatori1 o dovesse avere necessariamente natura reale, sia per la sua incidenza su beni immobili, sia per le esigenze tipiche della pubblicità immobiliare, in quanto solo la trascrizione dell'atto, che riserva al costruttore-conduttore la proprietà dell'incorporazione, avrebbe garantito l'opponibilità della convenzione ai terzi (ovvero, in particolare, a coloro che sarebbero subentrati nel diritto di proprietà o di comproprietà del suolo).

Per gli atti costitutivi (in favore di terzi) di diritti reali (di godimento) sulle parti condominiali (quale anche il contratto costitutivo di un diritto di superficie), ivi compreso di superficie sul lastrico solare o su altra area condominiale, occorre il consenso di tutti i partecipanti, ai sensi dell'art. 1108, comma 3, c.c. (Sez. 2, Sentenza n. 04258 del 24/02/2006, Rv. 587176 -01; Sez. 2, Sentenza n. 15024 del 14/06/2013, Rv. 626960 -01). Peraltro, anche a voler inquadrare la fattispecie tra le innovazioni ex art. 1120 c.c.2, qualora le innovazioni da approvare rendessero la parte comune dell'edificio inservibile all'uso o al godimento anche di un solo condomino, sarebbe del pari necessaria l'unanimità dei consensi dei partecipanti (Sez. 2, Sentenza n. 13752 del 14/06/2006, Rv. 593943 -01; Cass. Sez. 6 -2, 08/10/2018, n. 24767).

Nel risolvere le riportate questioni, illustrate con relazione di questo Ufficio n. 89 del 2019 (Penta), le Sezioni Unite hanno premesso che è la qualificazione del contratto intercorso tra il condominio ed il terzo ad orientare la soluzione della questione relativa alla necessità del consenso di tutti i condomini per la relativa approvazione.

In particolare, si trattava di stabilire se un contratto con cui il proprietario di un lastrico solare (condominiale) attribuisca all'altro contraente, a titolo oneroso, il diritto di installarvi e mantenervi per un certo tempo un ripetitore e di asportarlo al termine del rapporto dovesse qualificarsi come contratto ad effetti reali (recte, costitutivo di un diritto reale di superficie) o come contratto ad effetti obbligatori (id est, concessione di un diritto personale di godimento lato sensu riconducibile al tipo negoziale della locazione).

5.5. L’inquadramento giuridico della fattispecie.

Ai fini della soluzione della questione della necessità del consenso unanime dei condomini per l'approvazione della cessione temporanea a terzi di un lastrico condominiale, finalizzata all'installazione di un ripetitore di segnale, i giudici di legittimità hanno, in primo luogo, escluso che venga in rilievo la disciplina dettata dall'art. 1120 c.c. per le innovazioni, atteso che si è al cospetto dell'installazione, ad opera del condominio, di un impianto tecnologico destinato non all'uso comune del quale il medesimo condominio abbia deciso di dotarsi -, ma (ad opera ed a spese di un terzo) all'utilizzo esclusivo di tale terzo.

Va parimenti esclusa la utilizzabilità dei modelli sia della servitù volontaria (anche industriale, ex art. 1028, ultima parte, c.c.), per l'assorbente considerazione che la servitù presuppone una utilitas per il fondo dominante e, quindi, l'esistenza di un fondo dominante, nella specie non configurabile (ma, sul punto, v. cap. 6), sia del diritto reale di uso disciplinato dall'art. 1021 c.c., atteso che l'unica facoltà che contrattualmente competerebbe alla concessionaria del lastrico sarebbe quella di installare sullo stesso un ripetitore, in contrasto con l'ampiezza e tendenziale illimitatezza del potere dell'usuario di servirsi della cosa traendone ogni utilità ricavabile (Sez. 2, Sentenza n. 17320 del 31/08/2015, Rv. 636220 -01; Sez. 2, Sentenza n. 05034 del 26/02/2008, Rv. 601842 -01).

Operate tali esclusioni sul piano dell’inquadramento, le Sezioni Unite hanno evidenziato che, quando non risulti possibile l'uso diretto della cosa comune per tutti i partecipanti al condominio, in proporzione alle rispettive quote millesimali (promiscuamente o con turnazioni temporali o con frazionamento degli spazi), la compagine condominiale può deliberare l'uso indiretto della cosa comune e tale deliberazione, quando si tratti di atto di ordinaria amministrazione (come nel caso della locazione di durata non superiore a nove anni), può essere adottata a maggioranza (Sez. 2, Sentenza n. 08528 del 19/10/1994, Rv. 488150 -01, Sez. 2, Sentenza n. 10446 del 21/10/1998, Rv. 519937 -01, 04131/2001, cit., e, più recentemente, 22435/2011, cit.).

I ripetitori di segnale, secondo il Supremo consesso, debbono considerarsi, in base al disposto dell'art. 812, comma 2, c.c., beni immobili (e, più specificamente, costruzioni, agli specifici effetti tanto dell'art. 934 c.c. -e, dunque, suscettibili di accessione -, quanto dell'art. 952 c.c. -e, dunque, suscettibili di costituire oggetto di un diritto di superficie -), rientrando essi tra le «altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio», sicchè è possibile in astratto qualificare il contratto di cui si tratta come costitutivo di un diritto di superficie (Sez. 1, Sentenza n. 00679 del 04/03/1968, Rv. 331864 -01; Sez. 2, Sentenza n. 20574 del 28/09/2007, Rv. 599914 -01; Sez. 2, Sentenza n. 22127 del 19/10/2009, Rv. 609622 -01).

Nel caso in cui lo schema negoziale adottato sia quest’ultimo, il diritto reale di superficie può essere a tempo determinato, in conformità al disposto dell'art. 953 c.c. e, al momento della sua estinzione per la scadenza del termine, il titolare della proprietà superficiaria può asportare il manufatto, ove ciò le parti abbiano pattuito, in deroga alla norma contenuta nel medesimo dell'art. 953 c.c. (dispositiva e non imperativa), alla cui stregua il proprietario del suolo diventa proprietario della costruzione quando il diritto di superficie si estingue.

5.6. Il contratto ad effetti obbligatori: la disciplina applicabile.

Posto che la realità è caratterizzata dall'efficacia erga omnes (ossia dalla possibilità di far valere il diritto nei confronti di tutti, e non solo del concedente), dalla trasferibilità a terzi e dall'assoggettabilità al gravame ipotecario, analogo risultato socio-economico (attribuendo ad altri il diritto personale di installare sul lastrico solare di un fabbricato un ripetitore di segnale, o altro impianto tecnologico, con facoltà per il beneficiario di mantenere la disponibilità ed il godimento dell'impianto e di asportare il medesimo alla fine del rapporto) può essere conseguito, nell'esercizio dell'autonomia privata riconosciuta dall'articolo 1322 c.c., anche mediante un contratto ad effetti obbligatori. In particolare, l'accordo con cui il proprietario di un'area conceda ad altri il diritto personale di edificare sulla stessa e rinunci agli effetti dell'accessione e, così, consenta alla controparte di goderne è inquadrabile nello schema del contratto atipico di concessione dello jus ad aedificandum ad effetti obbligatori (Sez. 1, Sentenza n. 02851 del 30/11/1967, Rv. 330444 -01; conf. Sez. 1, Sentenza n. 02036 del 20/06/1968, Rv. 334104 -01, Sez. 2, Sentenza n. 03318 del 16/10/1968, Rv. 336321 -01, Sez. 1, Sentenza n. 03721 del 19/11/1974, Rv. 372245 -01, Sez. U, Sentenza n. 03351 del 02/06/1984, Rv. 435374 -01, Sez. 2, Sentenza n. 04111 del 10/07/1985, Rv. 441636 -01, Sez. 2, Sentenza n. 01392 del 11/02/1998, Rv. 512480 -01 e Sez. 2, Sentenza n. 07300 del 29/05/2001, Rv. 547101 -01). In siffatta evenienza è configurabile un negozio ad effetti obbligatori, qualificabile come tipo anomalo di locazione, in cui al locatario si concede il godimento di un terreno, con facoltà di farvi delle costruzioni di cui godrà precariamente come conduttore e che, alla fine del rapporto, dovranno essere rimosse a sua cura.

Anzi, deve ritenersi, per il Collegio, che un contratto di tal fatta vada tendenzialmente ricondotto -in mancanza di indicazioni di segno contrario suggerite dall'interpretazione della singola fattispecie negoziale -proprio allo schema del contratto atipico di concessione ad aedificandum ad effetti obbligatori; concessione soggetta, oltre che ai patti negoziali, alle norme generali contenute nel titolo II del libro IV del codice civile (art. 1323 c.c.), nonché, per quanto non previsto dal titolo, alle norme sul contratto tipico di locazione. Il tutto a meno che non vi siano evidenze ermeneutiche da cui emerga che, nella specifica situazione dedotta in giudizio, i contraenti abbiano inteso conferire al concessionario del godimento del lastrico proprio un diritto reale di superficie, sia pure temporaneo.

Quanto alla disciplina applicabile, le Sezioni Unite ricordano che ai contratti atipici, o innominati, possono legittimamente applicarsi, oltre alle norme generali in materia di contratti, anche quelle regolatrici dei negozi nominati (si pensi alle disposizioni sul contratto di locazione), quante volte il concreto atteggiarsi del rapporto, quale risultante dagli interessi coinvolti, faccia emergere situazioni analoghe a quelle disciplinate dalle norme dettate per i contratti tipici (Sez. 3, Sentenza n. 18229 del 28/11/2003, Rv. 568524 -01). Da ciò discende che al contratto atipico di concessione ad aedificandum di natura personale si applica tanto l'articolo 1599 c.c., in tema di opponibilità del contratto al terzo acquirente dell’immobile (per quanto concerne sia la pattuizione relativa alla concessione dell'occupazione del lastrico sia la pattuizione che attribuisca incondizionatamente lo jus tollendi, al termine del rapporto, alla compagnia di telecomunicazioni), quanto l'articolo 2643, n. 8, c.c., in tema di trascrizione dei contratti di locazione immobiliare di durata superiore ai nove anni (Sez. 2, Sentenza n. 11767 del 29/10/1992, Rv. 479210 -01).

Sarebbe valida la pattuizione che sottraesse al proprietario del lastrico il diritto di ritenere le addizioni (il ripetitore) alla cessazione del rapporto e, specularmente, attribuisse lo jus tollendi alla compagnia di telecomunicazioni concessionaria del godimento del lastrico (salvo l'obbligo di ripristino dello stesso in caso di eventuali danneggiamenti derivanti dalle operazioni di rimozione), non essendo il disposto del primo comma dell'articolo 1593 c.c. -che attribuisce al locatore lo jus retinendi in ordine alle addizioni eseguite dal conduttore -una norma imperativa (Sez. 3, Sentenza n. 01126 del 11/02/1985, Rv. 439254 -01, Sez. 3, Sentenza n. 00192 del 11/01/1991, Rv. 470447 -01, Sez. 3, Sentenza n. 06158 del 20/06/1998, Rv. 516630 -01, Sez. 3, Sentenza n. 13245 del 31/05/2010, Rv. 613315 -01)1.

I giudici di legittimità ribadiscono che la locazione costituisce titolo idoneo ad impedire l'accessione (Sez. 2, Sentenza n. 00233 del 25/01/1968, Rv. 331130 -01; conf. Sez. 2, Sentenza n. 02413 del 26/06/1976, Rv. 381194 -01; nello stesso senso si sono poi pronunciate Sez. 2, Sentenza n. 04111 del 10/07/1985, Rv. 441636 -01, Sez. 1, Sentenza n. 04887 del 04/06/1987, Rv. 453505 -01, 01392/1998, cit., Sez. 2, Sentenza n. 07300 del 29/05/2001, Rv. 547101 -01, Sez. 2, Sentenza n. 03440 del 21/02/2005, Rv. 581468 -01), trovando l'art. 936 c.c. applicazione solo nel caso in cui il costruttore possa effettivamente considerarsi terzo, per non essere legato al proprietario del suolo da un vincolo contrattuale o, comunque, negoziale, e facendo l'art. 934 c.c. salve le deroghe alla regola dell'accessione previste dalla "legge" o dal "titolo", includendo, tra le prime, quelle relative alle addizioni eseguite dal locatore. Peraltro, il contratto di locazione vale ad impedire l'accessione finché vige il contratto medesimo e il diritto del conduttore sul bene costruito è un diritto non reale, che si estingue al venir meno del contratto e con il riespandersi del principio dell'accessione (Sez. 6 -2, Ordinanza n. 02501 del 04/02/2013, Rv. 624896 -01).

Da ultimo, le Sezioni Unite, premesso che il lastrico solare destinato a ricevere l'installazione di un ripetitore di segnale costituisce parte comune di un edificio condominiale ex art. 1117 c.c., ricordano che, mentre ai sensi dell'art. 1108, comma 3, c.c., per la costituzione di un diritto reale (temporaneo) di superficie sul lastrico condominiale è necessario il consenso di tutti i condomini, per il rilascio di una concessione ad aedificandum di durata non superiore a nove anni2 è sufficiente la maggioranza prevista per gli atti di ordinaria amministrazione dall’art. 1108, commi 2 e 3, c.c.

5.7. I poteri del singolo condomino.

Dubbi sono sorti in ordine alla natura dell’atto di disposizione sul bene comune compiuto dal singolo condomino.

Quest’ultimo è, in astratto, libero di concorrere all’amministrazione della cosa comune, a mente di quanto disposto dall’art. 1105 c.c. Secondo tale costruzione, ciò è possibile, senza ostacoli, per gli atti di ordinaria amministrazione, che si presumono fino a prova contraria compiuti nell’interesse di tutti e che trovano un riferimento nelle norme di gestione d’affari non rappresentativa (Cass. 23/04/1996, n. 03831, Cass. 27/01/2005, n. 01662, Cass., sez. un., 04/07/2012, n. 11135).

Un contratto di locazione è valido anche se viene stipulato da un solo comproprietario. Il rapporto tra comproprietari viene qualificato dalla giurisprudenza come una ipotesi di gestione di affari altrui.

Gli altri comproprietari possono ratificare, ai sensi dell’art. 2032 c.c., l’atto compiuto e sono legittimati a riscuotere il canone di locazione pro quota.1

Quanto alla fattispecie esaminata, se è vero che esistono parti comuni suscettibili di uso separato, tale possibilità rimane certamente assodata in capo al singolo, ma non è così scontata in riferimento ad un soggetto terzo ed estraneo al condominio.

6. I rapporti tra l’uso della cosa comune ed il diritto di servitù.

Si è visto, nell’analizzare soprattutto i sistemi centralizzati per l’accesso ai flussi informativi (cap. 3), che non è semplice configurare, all’interno di un condominio, una servitù prediale.

Il principio nemini res sua servit non si applica in tema di condominio negli edifici, non sussistendo, in tal caso, la (necessaria) identità delle posizioni soggettive tra titolare del fondo dominante e titolare del fondo servente (dovendosi, all’uopo, distinguere tra la qualità di proprietario e quella di comproprietario), cosicchè la possibilità di costituire la servitù sulle parti comuni dell’edificio a vantaggio dei piani (o degli appartamenti) in proprietà esclusiva si ammette quando il condomino non usi delle cose comuni iure proprietatis, bensì iure servitutis, alla stregua di una valutazione rimessa al giudice di merito.

Riconosciuto al condomino, con carattere definitivo, il diritto di godere degli impianti e dei servizi comuni in modo diverso da quello consentito dalla loro specifica destinazione (cfr. cap. 2) e qualora tale godimento si risolva in un peso imposto su di esse a vantaggio di un piano (o di una porzione di piano) di proprietà esclusiva, tale diritto deve qualificarsi come vera e propria servitù prediale costituita su una cosa comune a vantaggio del piano.

Solo una volta che sia preliminarmente esclusa l’esistenza di una servitù a carico del muro ed a favore della proprietà individuale, è possibile valutare l’avvenuto rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 c.c.

A tal ultimo riguardo, occorre tener presente che la destinazione della cosa comune (che, a norma dell’art. 1102 c.c., ciascun partecipante alla comunione non può alterare, divenendo altrimenti illecito l’uso del bene) deve essere determinata attraverso elementi economici, quali gli interessi economici appagabili con l’uso della cosa, elementi giuridici, quali le norme tutelanti quegli interessi, ed elementi di fatto, quali le caratteristiche della cosa (Sez. 2, Sentenza n. 18038 del 28/08/2020, Scarpa, Rv. 658947 -01). In particolare, in mancanza di accordo unanime o di deliberazione maggioritaria circa l'uso delle parti comuni, la destinazione di queste ultime, rilevante ai fini del divieto di alterazione ex art. 1102 cit., può risultare anche dalla pratica costante e senza contrasti dei condomini e, cioè, dall'uso ultimo voluto e realizzato dai partecipanti alla comunione, che il giudice di merito deve accertare.

7. Conclusioni. Il principio superficie solo cedit.

Il principio dal quale traggono origine molte delle considerazioni che precedono è quello secondo cui superficies solo cedit.

La Suprema Corte ha offerto, a tal riguardo, numerosi chiarimenti, seguendo un minimo comune denominatore:

1) l’accessione non presuppone la distinzione soggettiva tra proprietario del suolo e costruttore, potendosi, per l’effetto, invocare anche quando l’opera venga realizzata da un comproprietario;

2) l’accessione non trova, invece, applicazione tutte le volte in cui preesista un rapporto giuridico tra il proprietario del fondo e il costruttore per il quale il legislatore preveda una disciplina ad hoc diversa e sostanzialmente incompatibile con quella dell’art. 934 c.c.;

3) ove il fondo appartenga a più soggetti, l’art. 934 c.c. non viene derogato dalla disciplina della comunione, atteso che, sebbene faccia salve le deroghe alla regola dell’accessione previste dalla legge o dal titolo, nessuna delle eccezioni stabilite dalla legge riguarda la comunione del suolo (o, per dirla diversamente, in materia di comunione e condominio, non vi sono disposizioni in grado di derogare alla disciplina dell’accessione);

4) anche nel caso di costruzione illegittima realizzata da uno dei comproprietari trovano applicazione (in via diretta, ma sarebbe forse più corretto dire in via estensiva o analogica) i principi di tolleranza, affidamento e buona fede, che sono sottesi all’art. 936, comma 4, c.c.;

5) la deroga all’art. 934 c.c. dovrebbe derivare da una disposizione di carattere speciale, e non da una di valenza generale priva di contenuto precettivo (quale, ad esempio, l’art. 177 c.c.).

7.1. L’opera realizzata da un terzo.

Avuto riguardo all’ipotesi dell’opera realizzata da un terzo, occorre evidenziare che dalla convenzione (che richiede la forma scritta ad substantiam) tra il proprietario del suolo e il costruttore può emergere la volontà di escludere l’effetto acquisitivo in capo al dominus soli.

Il titolo in deroga al principio di accessione può sostanziarsi in un contratto costitutivo di un diritto di superficie o in un contratto atipico di concessione "ad aedificandum" di natura personale (con effetti meramente obbligatori).

In entrambi i casi, per quanto, di regola, l’opera nuova realizzata dal terzo dovrebbe appartenere al dominus soli, è possibile convenire che la stessa venga trattenuta dal terzo.

Invero, quando il diritto di superficie è costituito a tempo determinato, le parti possono derogare all’art. 953 c.c., trattandosi, come si è visto, di una norma con natura dispositiva.

Al contempo, in presenza di un rapporto negoziale qualificabile come tipo anomalo di locazione, si può assistere ad una rinuncia del concedente agli effetti dell'accessione, attraverso una pattuizione che attribuisca incondizionatamente lo jus tollendi, al termine del rapporto, al terzo. In particolare, si tratterebbe di una pattuizione che sottrarrebbe al proprietario del “fondo” il diritto di ritenere le addizioni alla cessazione del rapporto e, specularmente, attribuirebbe lo jus tollendi alla concessionaria del godimento (salvo l'obbligo di ripristino del “fondo” altrui in caso di eventuali danneggiamenti derivanti dalle operazioni di rimozione), non essendo il disposto del primo comma dell'articolo 1593 c.c. -che attribuisce al locatore lo jus retinendi in ordine alle addizioni eseguite dal conduttore -una norma imperativa.

In quest’ottica, la locazione costituisce titolo idoneo ad impedire l'accessione.

7.2. I parametri per l’inquadramento giuridico della fattispecie.

Al fine di individuare quale sia la fattispecie negoziale adottata, occorre innanzi tutto valutare l'effettiva volontà delle parti, desumibile, oltre che dal nomen juris, anche da altri elementi testuali, quali la previsione relativa alla durata, la disciplina negoziale della sorte del manufatto al momento della cessazione del rapporto, la determinazione del corrispettivo come unitario o come canone periodico, la regolazione degli obblighi del cessionario in ordine alla manutenzione del bene, l'eventuale richiamo a specifici aspetti della disciplina delle locazioni non abitative; nonché da elementi extratestuali, quali la forma dell'atto e il comportamento delle parti.

Il tutto considerando che si è al cospetto dell’esercizio dell'autonomia privata riconosciuta dall'art. 1322 c.c. Non vi sono, infatti, ragioni per ritenere non meritevole di tutela l'interesse che il locatore e il conduttore vogliano realizzare attribuendo a quest’ultimo, in deroga al principio dell'accessione, il diritto personale di godere delle costruzioni da lui realizzate e di asportarle al termine del rapporto.

7.3. La titolarità dell’opera.

Quanto al profilo della titolarità, in capo al comproprietario-costruttore, dell’opera, occorre tener presente che, in base all’art. 834, comma 1, c.c., nessuno può essere privato, in tutto o in parte, dei beni di sua proprietà, se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata, e dietro il pagamento di una giusta indennità.

Inoltre, i modi di acquisto della proprietà a titolo originario e a titolo derivativo, come si evince dall’art. 922 c.c., possono essere solo legali, con ciò escludendosi l’esistenza di cause di acquisto diverse da quelle disciplinate dal legislatore.

Non vi è, tra accessione e comunione, rapporto di genere a specie, poiché la seconda non incide sui modi di acquisto della proprietà in deroga al principio dell’accessione.

Secondo le Sezioni Unite del 2018, la tesi non condivisa (acquisto in capo al comproprietario costruttore illegittimo) avrebbe creato una nuova figura di acquisto a titolo originario della proprietà priva di base legale, nonostante la riserva di legge imposta dall’art. 42 Cost., non essendo contemplata dall’art. 922 c.c., né da una norma specifica. Si sarebbe avuta, quindi, una sorta di espropriazione della proprietà privata in assenza di un interesse generale e senza indennizzo, che avrebbe premiato, invece di sanzionare, il comproprietario che avesse commesso un abuso.

Il tutto alla luce del principio generale, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi.

  • contratto
  • condominio
  • comproprietà
  • servitù

VII)

ANCHE IL CONDOMINIO HA IL SUO “DECALOGO”

(di Gian Andrea Chiesi )

Sommario

1 Premessa. - 2 La legittimazione passiva nel giudizio concernente la delibera di approvazione (e revisione) delle tabelle millesimali. - 3 Il regime proprietario della parte dell'impianto di riscaldamento ricompresa nell'unità immobiliare in proprietà esclusiva. - 4 Oneri condominiali e sinallagmaticità rispetto al funzionamento dei servizi comuni. - 5 La legittimazione ad impugnare l'assemblea per omessa convocazione di taluno degli aventi diritto. - 6 Le maggioranze necessarie all'approvazione (ed alla revisione) delle tabelle millesimali. - 7 Il criterio di calcolo delle spese di riscaldamento: la superficie radiante. - 8 L'efficacia non retroattiva delle tabelle di formazione giudiziale. - 9 Una postilla sul risarcimento del danno non patrimoniale da lesione della (com)proprietà.

1. Premessa.

Con sentenza Sez. 2, n. 06735/2020, Scarpa, Rv. 657132-01 e 657132-02, la seconda sezione civile della Corte di Cassazione, muovendo da un ricorso principalmente incentrato su argomentazioni inerenti al riparto delle spese di riscaldamento centralizzato, ha approfittato dell'occasione -propiziata, invero, dall'elevato numero dei motivi di gravame e delle problematiche agli stessi sottese per affrontare funditus una più ampia serie di questioni tipicamente condominiali, in taluni casi ribadendo principi consolidati, in altri, meglio perimetrandone il raggio di azione e, in altri ancora, infine, giungendo a conclusioni innovative.

Si giunge, così, all’enucleazione di un vero e proprio “decalogo” di regole applicative, di rilevante utilità per affrontare molte delle problematiche rimaste irrisolte, nonostante l’approvazione della l. n. 220 del 2012, di riforma della disciplina condomiale.

2. La legittimazione passiva nel giudizio concernente la delibera di approvazione (e revisione) delle tabelle millesimali.

La prima delle tematiche affrontate concerne l'individuazione del legittimato passivo nel giudizio avente ad oggetto l'impugnativa di una delibera di approvazione (o revisione) delle tabelle millesimali1, avendo parte ricorrente contestato la formazione del giudicato interno sulla pronunzia di prime cure, per non avere i singoli condomini -ritualmente evocati in giudizio e rimasti contumaci -proposto appello avverso tale decisione ed essendosi in tal senso mosso il solo amministratore di condominio.

L’argomentazione della Corte muove dall'esame dell'oggetto del giudizio, originariamente concernente l'impugnazione di una deliberazione assembleare la quale aveva approvato, fra l'altro, le "superfici radianti riscaldamento" e la tabella millesimale per la ripartizione delle spese di riscaldamento.

Orbene, in proposito è pacifico l'orientamento in base al quale, ove tale impugnazione non tragga fondamento dall'errore iniziale o dalla sopravvenuta sproporzione dei valori del prospetto, ma dai vizi concernenti l'atto e la sua formazione, la domanda va proposta contro l'amministratore del condominio, perché questi è sempre legittimato a resistere contro l'impugnazione delle deliberazioni assunte dall'assemblea, senza necessità di integrare il contraddittorio (Sez. 2, n. 11757/2012, Giusti, Rv. 623210-01; Sez. 2, n. 03542/1994, Corona, Rv. 486198-01). Da ciò il Collegio trae l'ulteriore conclusione per cui "essendo l'amministratore l'unico legittimato passivo nelle controversie ex art. 1137 c.c., in forza dell'attribuzione conferitagli dall'art. 1130, n. 1, c.c., e della corrispondente rappresentanza in giudizio ai sensi dell'art. 1131 c.c., allo stesso spetta altresì la facoltà di gravare la relativa decisione del giudice, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell'assemblea (Cass. Sez. 2, 23/01/2014, n. 1451; Cass. Sez. 2, 20/03/2017, n. 7095)".

Conclusione che, invero, appare scontata, versandosi in presenza di una controversia che non concerne il regime della proprietà ed i diritti relativi a parti comuni del fabbricato (relativamente alla quale ciascuno condomino ha una legittimazione alternativa concorrente con quella dell'amministratore) quanto, piuttosto, un interesse gestorio collettivo dei condomini (cfr. anche Sez. U, n. 10934/2019, D’Ascola, Rv. 653787-01).

D'altra parte -si osserva -a seguito della mutata posizione della giurisprudenza rispetto alla natura dell'atto di approvazione delle tabelle millesimali (sul punto si tornerà funditus infra, sub § 5), queste ultime non devono essere approvate con il consenso unanime dei condomini, essendo sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 2, cod. civ. (così Sez. U, n. 18477/2010, Triola, Rv. 61440101): sicché, alcuna limitazione può sussistere in relazione alla legittimazione, dal lato passivo, dell'amministratore per qualsiasi azione, ai sensi dell'art. 1131, comma 2, c.c., volta alla determinazione giudiziale di una tabella millesimale che consenta la distribuzione proporzionale delle spese in applicazione aritmetica dei criteri legali, trattandosi di controversia rientrante tra le attribuzioni dell'amministratore stabilite dall'art. 1130 c.c. e nei correlati poteri rappresentativi processuali dello stesso, senza alcuna necessità del litisconsorzio di tutti i condomini (in tal senso cfr. anche Sez. 2, n. 19651/2017, Scarpa, 645851-02).

La logica conseguenza che discende da quanto precede è -per usare le parole della Corte, che "...in una controversia avente ad oggetto l'impugnativa di deliberazioni dell'assemblea condominiale, la legittimazione esclusiva ad agire e quindi a proporre gravame spettante all'amministratore [non] può essere perciò inficiata dall'acquiescenza di uno o picondomini evocati in giudizio"1.

3. Il regime proprietario della parte dell'impianto di riscaldamento ricompresa nell'unità immobiliare in proprietà esclusiva.

La seconda questione risolta dalla Corte concerne la corretta interpretazione da fornire all'art. 1117, n. 3, cod. civ., con specifico riferimento a cosa debba esattamente intendersi con l'espressione "punto di diramazione ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini", ivi usata per delimitare il regime di condominialità relativamente, tra l'altro, agli impianti centralizzati di riscaldamento e condizionamento: l'occasione è fornita da una delle contestazioni svolte dalla parte ricorrente che, sull'assunto del mancato funzionamento di uno dei caloriferi esistenti nel proprio appartamento, censura la decisione di merito per non avere tenuto conto di tale circostanza (risultante dalle dichiarazioni rese a verbale dal C.T.U.) al fine di escludere la propria partecipazione alle spese di riscaldamento centralizzato2.

Invero, la nuova formulazione dell'art. 1117, n. 3, cod. civ., reca alcune novità di rilievo, giacché non solo ad acquedotti, fognature, canali di scarico ed impianti per l'acqua è stata sostituita la più generale (ed omnicomprensiva) dizione "impianti idrici e fognari", ma è stato integralmente riscritto il cuore della norma, sottoponendo a regime condominiale i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell'aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti: restyling che si accompagna alle previsioni contenute nel successivo art. 1120, comma 2, nn. 2 e 3, cod. civ. che consente all'assemblea di deliberare opere ed interventi per la produzione di energia mediante l'utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio nonché l'installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze.

Tali impianti e sistemi centralizzati (racchiusi in una elencazione che, si badi, non ha carattere tassativo) soggiacciono al regime condominiale, ove destinati all'uso comune, fino al punto di diramazione ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini (ovvero, in caso di impianti unitari, fino al "punto di utenza", salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche): la ratio della scelta legislativa appare chiara giacché, arrivato al punto di diramazione, l'impianto cessa di fornire utilità a tutte le unità immobiliari (donde l'attrazione nel regime proprietario della condominialità) e si rivolge, piuttosto, esclusivamente al godimento ed al servizio di beni in proprietà individuale (con conseguente attrazione nell'orbita della proprietà esclusiva).

Siffatta considerazione, però non risolve affatto il problema con riferimento al regime proprietario delle tubazioni, delle condutture ovvero delle altre strutture necessarie al funzionamento dell'impianto medesimo che siano collocate anche in porzioni dell'edificio in proprietà esclusiva, con conseguente sviluppo, all'interno di esse, di parte del loro percorso (cd. “passanti”): ne è derivata, dunque, una dibattuta questione interpretativa circa il regime proprietario di tali porzioni di impianto.

Con riferimento al regime anteriore alla Riforma del 2012, la giurisprudenza aveva sottoposto alla "presunzione" di comunione non soltanto quella parte di impianto che si sviluppa in aree comuni, ma anche quella che passa attraverso parti di proprietà esclusiva, purché risultasse preservato il nesso di accessorietà rispetto al servizio collettivo dell'intero edificio. Estremamente chiara è la posizione assunta, al riguardo, da Sez. 2, n. 02151/1964, Marletta, Rv. 303162-01, la quale ha osservato che la presunzione di comunione delle parti comuni, elencate, in forma non tassativa, al n. 3 dell'art. 1117 c.c. (fognature, canali di scarico, impianti per l'acqua, per il gas, per la energia elettrica, per il riscaldamento e simili), fino al punto di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini, non sempre implica che, nell'ambito della porzione di fabbricato esclusiva del singolo condomino, non ricada alcuna parte comune, in quanto gli impianti di eduzione e di scarico delle acque, per le esigenze tecniche costruttive dell'intero edificio, di frequente, attraversano la proprietà esclusiva del singolo condomino, con la conseguenza che il punto o i punti di diramazione degli impianti a servizio esclusivo degli altri condomini ricadono nella quota della proprietà esclusiva di un altro di essi; nondimeno, le parti comuni non perdono tale caratteristica neanche nei tratti suddetti, il criterio distintivo tra parti comuni e parti esclusive del condomino dovendosi rinvenire solo nella loro destinazione, la quale può essere così ricostruita nella specie: il condotto di acque, cioè, è di proprietà esclusiva, indipendentemente dalla sua ubicazione, per la parte in cui direttamente afferisce al servizio del singolo, mentre è comune in tutta la restante porzione, in cui ad esso si innestano uno o più altri canali a servizio di altri condomini.

In applicazione di tale principio è stato allora chiarito che la collocazione in un vano (o altro ambiente o spazio) compreso nel perimetro del condominio delle tubazioni (o parte di esse) dell'impianto termico centralizzato (o di altro servizio comune), non rende di per sé quel vano insuscettibile di autonomo ed esclusivo diritto di proprietà, salve le limitazioni di tale diritto - concretanti corrispondenti servitù - correlata all'obbligo di consentire e conservare la destinazione di tali tubazioni al servizio ed a vantaggio dell'intero edificio condominiale (cfr. anche Sez. 2, n. 05978/1992, Paolella, Rv. 477270-01); analogamente Sez. 2, n. 07761/2010, Migliucci, Rv. 612307-01 aveva specificato che il proprietario del vano o della struttura al cui interno scorre parte dell'impianto comune ha l'obbligo di consentirne e conservarne la destinazione al servizio collettivo, configurandosi l'impedimento all'utilizzazione del servizio da parte degli altri comproprietari come un uso illegittimo dei poteri a lui spettanti in qualità di comproprietario. Corollario di tali principi è la conclusione per cui, in caso di attraversamento, ad opera dei tubi dell'impianto centralizzato di riscaldamento, di un vano in proprietà esclusiva che di tale servizio non fruisca, dovrebbe ritenersi esistente una servitù di conduttura di liquidi a carico di tale cespite ed in favore delle altre parti dell'edificio condominiale (Sez. 2, n. 00369/1982, Pafundi, 418065-01).

Non sempre, però, le esposte considerazioni sono state sostenute in giurisprudenza, essendosi al contrario affermato che, non potendosi la presunzione di comunione estendere a quella parte dell'impianto compresa nell'ambito della proprietà esclusiva di singoli condomini, non possono conseguentemente avvantaggiarsene neppure le diramazioni (necessarie a servire altre utenze e) passanti in tali unità di proprietà individuale (Sez. 2, n. 02043/1963, Pratillo, Rv. 263147-01).

Tale ultima soluzione -contraria, pertanto, al riconoscimento della proprietà comune della parte di impianto "passante" per le proprietà esclusive -è stata di recente riproposta da Sez. 2, n. 27248/2018, Besso Marcheis, Rv. 650851-01 che, pur dando atto del contrario orientamento, se ne discosta motivatamente, osservando come lo stesso -che, per individuare la "diramazione degli impianti" di cui all'art. 1117 c.c., fa riferimento unicamente alla destinazione del condotto delle acque, prescindendo dal tutto dalla sua ubicazione -non convinca, in quanto l'art. 2051 c.c. (normativa invocabile in caso di danni derivanti da percolazioni in condominio) prevede una forma di responsabilità che ha fondamento giuridico nella circostanza che il soggetto chiamato a rispondere si trovi in una relazione particolarmente qualificata con la cosa, intesa come rapporto di fatto o relazione fisica implicante l'effettiva disponibilità della stessa -ciò che, nella specie, difetterebbe in capo al condominio, proprio per l'ubicazione, in proprietà privata, della parte dell'impianto medesimo. Ancora nel medesimo senso Sez. VI-2, n. 16608/2017, Scarpa, Rv. 645062-01 che, con riferimento all'impianto condominiale di distribuzione e trasmissione dell'energia elettrica, individua il suo "confine", rispetto all'inizio degli impianti rientranti nelle proprietà esclusive delle rispettive unità immobiliari, in quella parte del sistema posto prima delle diramazioni negli appartamenti, rimanendo i singoli condomini tenuti alla manutenzione degli impianti interni.

L'indirizzo da ultimo esposto è stato infine confermato e fatto proprio dalla pronunzia in commento la quale, relativamente all'irrilevanza del malfunzionamento del calorifero presente nell'unità immobiliare di proprietà esclusiva della parte ricorrente rispetto alla partecipazione alle spese di riscaldamento centralizzato, si è così espressa:"la presunzione di proprietà comune dell'impianto di riscaldamento di un immobile condominiale, ex art. 1117, n. 3, c.c., non può estendersi a quella parte dell'impianto ricompresa nell'appartamento dei singoli condomini, cioè nella sfera di proprietà esclusiva di questi e, di conseguenza, nemmeno ai componenti radianti che vengono installati nelle unità immobiliari di proprietà individuale, anche se collegati tramite tubi alla caldaia comune, sicché è il proprietario dell'appartamento che deve curarne la manutenzione".

4. Oneri condominiali e sinallagmaticità rispetto al funzionamento dei servizi comuni.

La medesima circostanza fattuale (i.e. il malfunzionamento di un elemento radiante nell'immobile di proprietà esclusiva della parte ricorrente) ha consentito alla Corte una terza precisazione, con precipuo riferimento all'affermazione della insussistenza di un principio di sinallagmaticità tra il pagamento degli oneri condominiali e la fruizione -in concreto -di un servizio comune -comunque astrattamente nella disponibilità del singolo condomino.

Muovendo dalla premessa che i caloriferi collocati nella propria unità immobiliare fossero comuni (in quanto parte dell'impianto di riscaldamento centralizzato), il ricorrente aveva invocato una riduzione del valore millesimale attribuibile alla propria abitazione, a cagione del minore consumo a sé ascrivibile, in conseguenza del mancato funzionamento di un elemento radiante.

Sennonché, pur prescindendo dalla erroneità di tale affermazione (per essere i caloriferi, alla luce di quanto illustrato al precedente § 3, di proprietà privata), la Corte chiarisce come, a tutto volere ed anche diversamente opinando, l'esposta circostanza in ogni caso non consentirebbe al ricorrente di sottrarsi al pagamento del dovuto né, tampoco, sarebbe in grado di incidere sulla determinazione delle tabelle millesimali.

Invero, già Sez. VI-2, n. 16608/2017, cit. aveva chiarito che il singolo condomino non è titolare, verso il condominio, di un diritto di natura sinallagmatica relativo al buon funzionamento degli impianti condominiali, che possa essere esercitato mediante un'azione di condanna della stessa gestione condominiale all'adempimento corretto della relativa prestazione contrattuale, trovando causa l'uso dell'impianto che ciascun partecipante vanta nel rapporto di comproprietà delineato negli artt. 1117 e ss. c.c.; principio, in realtà, a suo tempo già affermato da Sez. U, n. 10492/1996, Volpe, Rv. 500810-01 (puntualmente richiamata dalla pronunzia in commento), ove si chiarì che l'obbligo del condomino di contribuire alle spese necessarie alla conservazione ed al godimento delle parti comuni dell'edificio, alla prestazione dei servizi nell'interesse comune e alle innovazioni deliberate dalla maggioranza trova la sua fonte nella comproprietà delle parti comuni dell'edificio, con la conseguenza che la semplice circostanza che l'impianto centralizzato di riscaldamento non eroghi sufficiente calore non può giustificare un esonero dal contributo, neanche per le sole spese di esercizio dell'impianto, dato che il condomino non è titolare, nei confronti del condominio, di un diritto di natura contrattuale sinallagmatica e, quindi, non può sottrarsi dal contribuire alle spese allegando la mancata o insufficiente erogazione del servizio.

A tale principio, invero, si dà continuità nella specie, essendosi chiarito che "poiché l'approvazione della tabella millesimale (di contenuto non convenzionale) deve determinare quantitativamente la portata dei rispettivi diritti ed obblighi di partecipazione alla vita del condominio, sulla base di un'obiettiva congruenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari ed il valore proporzionale ad esse attribuito, la semplice circostanza che uno dei caloriferi dell'impianto centralizzato di riscaldamento non eroghi calore non può giustificare una incidenza sull'obbligo del condomino di contribuire alle spese di esercizio dell'impianto, dato che il condomino non è titolare, nei confronti del condominio, di un diritto di natura contrattuale sinallagmatica".

Per completezza espositiva va, infine, evidenziato che, in ipotesi di malfunzionamento dell'impianto comune, il condomino non ha comunque azione per richiedere la condanna del condominio ad un facere, consistente nella messa a norma ovvero nel corretto funzionamento dell'impianto comune, potendo al più avanzare, verso il condominio, una pretesa risarcitoria nel caso di colpevole omissione dello stesso nel provvedere alla riparazione o all'adeguamento dell'impianto (arg. da Sez. 2, n. 12956/2006, Trombetta, Rv. 589652-01 e Sez. 2, n. 12420/1993, Moscato, Rv. 484739-01), ovvero sperimentare altri strumenti di reazione e di tutela, quali, ad esempio, le impugnazioni delle deliberazioni assembleari ex art. 1137 cod. civ., i ricorsi contro i provvedimenti dell'amministratore ex art. 1133 cod. civ., la domanda di revoca giudiziale dell'amministratore ex art. 1129, comma 11, cod. civ., o il ricorso all'autorità giudiziaria in caso di inerzia agli effetti dell'art. 1105, comma 4, cod. civ. (così Sez. VI-2, n. 16608/2017, cit.)

5. La legittimazione ad impugnare l'assemblea per omessa convocazione di taluno degli aventi diritto.

La Corte affronta, poi, la questione concernente la legittimazione ad impugnare l'assemblea per omessa convocazione di taluno degli aventi diritto1.

In linea generale va osservato che Sez. U, n. 04806/2005, Elefante, Rv. 57943901, a composizione di un contrasto esistente al riguardo, aveva incluso la mancata comunicazione, a taluno dei condomini, dell'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale tra le cause non già di nullità quanto, piuttosto, di annullabilità della delibera: tale principio, costantemente seguito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr., da ultimo, Sez. 2, n. 22573/2016, Cosentino, Rv. 641638-01), è stato infine fatto proprio dal legislatore della Riforma del 2012 che, nel riformulare l'art. 66, comma 3, disp. att. cod. civ., ha espressamente fatto riferimento a tale categoria invalidante per il caso di "omessa, tardiva o incompleta convocazione degli aventi diritto"2.

Su tale questione preliminare si innesta quella ulteriore -affrontata nella specie -concernente la legittimazione del condomino, regolarmente convocato, ad impugnare la delibera assembleare per l'esistenza di vizi relativi alla convocazione afferente altri condomini, registrandosi in proposito un contrasto interpretativo tutto interno alla giurisprudenza di merito -tra chi ammetteva tale possibilità (Trib. Bari, 17 novembre 2015; Trib. Firenze, 24 marzo 2014; Trib. Torre Annunziata, 30 gennaio 2009) e chi, al contrario, la negava (cfr. Trib. Bari, 5 luglio 2016; Trib. Como 21 maggio 2012; Trib. Salerno 9 febbraio 2010; Trib. Roma 22 luglio 2009); univoca era stata, al contrario, la posizione del giudice di legittimità che aveva da sempre escluso, per carenza di interesse, la legittimazione ad impugnare la delibera condominiale da parte del condomino assente, che avesse fatto valere, quale vizio di annullabilità, la mancanza dell'avviso di convocazione dell'assemblea relativamente ad altro condomino (cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 09082/2014, Migliucci, Rv. 630113-01).

Tale conclusione, alla luce della nuova formulazione dell'ultimo periodo del comma 3 cit., deve ritenersi definitivamente acquisita, (a) trattandosi di vizio che inerisce all'altrui sfera giuridica e (b) considerando che, versandosi in presenza di un motivo di annullamento e non di nullità, delle deliberazioni assunte dall'assemblea, il secondo periodo del comma 3 in esame rappresenta, tutto sommato, una coerente applicazione, in materia condominiale, dell'art. 1441 cod. civ., secondo il quale l'annullamento può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse esso è stabilito dalla legge (Sez. 2, n. 08520/2017, Lombardo, non massimata sotto tale profilo).

Il principio da ultimo suesposto è stato recepito anche dalla pronunzia in commento, la quale aggiunge, ad ulteriore specificazione di esso, che "l'interesse del condomino che faccia valere un vizio di annullabilità, e non di nullità, di una deliberazione dell'assemblea, non può, infatti, ridursi al mero interesse alla rimozione dell'atto, ovvero ad un'astratta pretesa di sua assoluta conformità al modello legale, ma deve essere espressione di una sua posizione qualificata, diretta ad eliminare la situazione di obiettiva incertezza che quella delibera genera quanto all'esistenza dei diritti e degli obblighi da essa derivanti: la delibera assembleare è annullabile sulla base del giudizio riservato al soggetto privato portatore di quella particolare esigenza di funzionalità dell'atto collegiale tutelata con la predisposta invalidità, esigenza che si muove al di fuori del complessivo rapporto atto-ordinamento. Del pari, al condomino non ritualmente avvisato, il quale invochi l'annullamento, deve spettare l'onere di dedurre e provare, in caso di contestazione, i fatti dai quali l'omessa comunicazione risulti, in coerenza con i principi generali in tema di annullamento dell'atto e con le regole di distribuzione del carico istruttorio poste dall'art. 2697 c.c.".

6. Le maggioranze necessarie all'approvazione (ed alla revisione) delle tabelle millesimali.

Come anticipato nel precedente § 2, l'esame del ricorso ha consentito alla Corte di svolgere, altresì, talune precisazioni -di carattere non meramente incidentale -in relazione alle maggioranze necessarie per l'approvazione delle tabelle millesimali1.

Il tema è stato tra quelli maggiormente dibattuti in materia condominiale, dovendosi registrare, in proposito un contrasto giurisprudenziale risolto dall'intervento delle Sezioni Unite nel corso del 2010, ed avente ad oggetto la qualificazione dell'atto di approvazione della tabella millesimale in termini di negozio di accertamento dei valori delle quote condominiali (con funzione puramente valutativa del patrimonio agli effetti della distribuzione del carico delle spese e della misura del diritto di partecipazione all'espressione della volontà assembleare), ovvero in termini di negozio di carattere dispositivo dei diritti dei singoli.

Tralasciando l'esame, in questa sede, delle ragioni sottese all'orientamento risultato infine "soccombente", Sez. U., n. 18477/2010, Triola, Rv. 614401-01 (cfr. recentemente, nel medesimo senso, Sez. 2, n. 27159/2018, Scarpa, Rv. 650789-01) ha infine chiarito che l'atto di approvazione, come di revisione, delle tabelle millesimali condominiali non ha natura negoziale, ma funzione puramente valutativa del patrimonio, agli effetti della distribuzione del carico delle spese e della misura del diritto di partecipazione all'espressione della volontà assembleare: trattandosi, dunque, di un mero atto (e, cioè, una dichiarazione di scienza relativa ad una situazione giuridica preesistente) esso non richiede il consenso unanime dei condomini, essendo a tal fine sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 2, cod. civ. In sostanza: 1) l'art. 1118 cod. civ. fa riferimento, per determinare l'ammontare della quota di ciascun partecipante al condominio e sempre salvo che il titolo disponga altrimenti, al valore dell'unità immobiliare: quale approvazione del risultato di una mera operazione tecnica di calcolo, tale atto non sottende affatto un'attività negoziale volta all'eliminazione di una situazione di incertezza, ma una semplice ricognizione di una realtà empirica preesistente; 2) conseguentemente, le tabelle non incidono sul valore della proprietà, ma semplicemente sugli obblighi contributivi e, per ciò stesso, la loro approvazione o modifica non è atto inquadrabile nella categoria del negozio di accertamento del diritto di proprietà sulle singole unità immobiliari e sulle parti comuni, semplicemente in quanto non finalizzato ad eliminare un'incertezza. Esse rappresentano una documentazione tecnico-ricognitiva di una realtà empirica, riassumendosi in un parametro dì quantificazione dei diritti ed oneri condominiali, e servono unicamente ad esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore tra i diritti dei vari condomini, senza incidere in alcun modo su tali diritti; 3) l'approvazione delle tabelle millesimali non ha, pertanto, natura negoziale, perché viene meno la caratteristica, propria del negozio giuridico, della conformazione della realtà oggettiva alla volontà delle parti; 4) consegue ulteriormente a quanto precede che le tabelle millesimali possono esistere (o non esistere) indipendentemente dal regolamento condominiale, la loro allegazione rappresentando un fatto meramente formale che non muta la natura di entrambi gli atti (Sez. 2, n. 26042/2019, ); 5) "Se dunque -chiarisce nell'occasione la Corte -una tabella meramente ricognitiva dei criteri di ripartizione legali sia stata approvata, e se essa risulti viziata da errori originari o da sopravvenute sproporzioni, a tali situazioni può rimediare la maggioranza del 1136, comma 2, c.c., per ripristinarne la correttezza aritmetica (arg., di recente, da Cass. Sez. 6 -2, 25/01/2018, n. 1848; Cass. Sez. 2, 25/10/2018, n. 27159)".

Residua, invero, un limitato spazio di operatività per il principio unanimistico, con precipuo riferimento all'ipotesi in cui i condomini, con l'approvazione delle tabelle abbiano inteso espressamente derogare ai principi legali di ripartizione delle spese ovvero assegnare valori diversi da quelli effettivamente attribuibili alle unità abitative sulla base di meri calcoli ricognitivi (dunque, in ultima analisi, ove si sia inteso approvare la "diversa convenzione" richiamata dall'art. 1123, comma 1, cod. civ.): qualora essi, cioè, nell'esercizio della loro autonomia negoziale, abbiano espressamente accettato che la caratura della loro partecipazione al condominio venga determinata in maniera difforme da quanto previsto negli artt. 1118 cod. civ. e 68 disp. att. cod. civ., tale comportamento ha valore negoziale, richiede il consenso unanime di tutti i partecipi al condominio e, soprattutto, risolvendosi nell'impegno irrevocabile di determinare le quote in un certo modo, impedisce di ottenerne la revisione ex art. 69 disp. att. cod. civ. (Sez. VI-2, n. 01848/2018, Scarpa, Rv. 64738501).

La Corte ribadisce, infine, che, giusta il disposto degli artt. 1138, comma 4, cod. civ. e 72 disp. att. cod. civ., le maggioranze innanzi indicate sono inderogabili, nonostante una eventuale prescrizione contraria contenuta nel regolamento di condominio la quale, ove esistente, sarebbe, perciò nulla (più in generale, il regolamento non può sancire l'immodificabilità delle tabelle -il diritto alla loro revisione è imprescrittibile -né, in senso contrario, consentire la loro modificazione in casi diversi da quelli previsti dal legislatore).

7. Il criterio di calcolo delle spese di riscaldamento: la superficie radiante.

Nell'affrontare la questione delle maggioranze necessarie all'approvazione delle tabelle il Supremo consesso si sofferma, poi, sul caso specifico delle tabelle del riscaldamento centralizzato e del criterio di calcolo dei relativi consumi1.

Alcuni principi generali vanno preliminarmente chiariti: a) in caso di regolare fruizione del riscaldamento mediante sistema centralizzato, ad opera di tutte le unità immobiliari comprese nel condominio, la ripartizione dei relativi costi di gestione deve avvenire tra tutti i condomini in proporzione all'uso e, solo in mancanza di sistemi che consentano la misurazione del calore erogato in favore di ciascuna delle unità servite, le spese sono legittimamente ripartite in base al valore millesimale delle singole unità immobiliari servite (Sez. 2, n. 22573/2016, Cosentino, Rv. 641639-01);

b) in ipotesi di mancanza del vincolo di comproprietà dell'impianto rispetto a talune proprietà individuali, in conseguenza dell'assenza di accessorietà del primo alle seconde, per non essere talune di esse collegate, i relativi titolari non concorrono alle spese di conservazione e gestione del servizio (Sez. 2, n. 24296/2015, Giusti, Rv. 637500-01), in piana applicazione dei principi posti dall'art. 1123 c.c.; c) quanto, ancora, all'ipotesi di legittimo distacco dall'impianto, l'orientamento -anteriore alla l. n. 220 del 2012 -favorevole a tale possibilità riteneva comunque fermo l'obbligo, per il condomino beneficiario, di pagare le spese per la conservazione dell'impianto (arg. ex art. 1118, comma 2, ultima parte, originaria formulazione), nonché le spese di gestione, se e nei limiti in cui il suo distacco non si fosse risolto in una diminuzione degli oneri del servizio di cui continuavano a godere gli altri condomini (Sez. 2, n. 19893/2011, Bursese, Rv. 619283-01): in altri termini, il condomino, dopo aver distaccato la propria unità abitativa dall'impianto di riscaldamento centralizzato continuava ad essere obbligato a partecipare alle spese di esercizio, se e nella misura in cui il distacco non avesse comportato una diminuzione degli oneri del servizio a carico degli altri condomini, in quanto ove, successivamente al distacco, il costo di esercizio dell'impianto (rappresentato anche dall'acquisto di carburante necessario per l'esercizio dello stesso) non fosse diminuito e la quota non fosse stata posta a carico dello stesso condomino rinunciante, gli altri condomini sarebbero stati altrimenti costretti a farsi carico anche della quota spettante al condomino distaccato (cfr. anche Sez. 2, n. 8924/2001, Settimj, Rv. 547851-01). Il novellato art. 1118, comma 4, cod. civ. fa ricorso al criterio della distinzione tra costi di conservazione della cosa comune (considerati già dall'art. 1104 c.c. come un'obbligazione propter rem ed al cui pagamento il singolo condomino non può sottrarsi), cui il rinunziante resta tenuto e spese di gestione, relative al funzionamento degli impianti ed al godimento dei beni comuni.

Così individuati -secondo le direttrici che precedono -i titolari, dal lato passivo, dell'obbligazione contributiva, la giurisprudenza di legittimità è chiara nel precisare che la ripartizione dei costi di gestione deve avvenire ad opera di tutti i condomini in proporzione all'uso (i.e. sulla base della superficie radiante. Cfr. anche Sez. 2, n. 00946/1995, Triola, Rv. 489999-01) e, solo in mancanza di sistemi che consentano la misurazione del calore erogato in favore di ciascuna delle unità servite, le spese sono legittimamente ripartite in base al valore millesimale delle singole unità immobiliari servite (Sez. 2, n. 22573/2016, Cosentino, Rv. 641639-01); così, ad esempio, per Sez. 2, n. 19651/2017, Scarpa, Rv. 645851-01 è nulla, per impossibilità dell'oggetto, la delibera condominiale che, a maggioranza ed in deroga ai suddetti criteri legali, del consumo effettivamente registrato ovvero del valore millesimale delle singole unità immobiliari servite, ripartisca in parti uguali tra queste ultime le spese di esercizio dell'impianto di riscaldamento centralizzato, giacché tale statuizione, incidendo sulla misura degli obblighi dei singoli condomini fissata dalla legge o per contratto, eccede le attribuzioni dell'assemblea e pertanto richiede, per la propria approvazione, l'accordo unanime di tutti i condomini, quale espressione della loro autonomia negoziale.

Nella specie, la Corte precisa ulteriormente i principi che precedono, osservando che "in ipotesi di adozione di tabelle millesimali per la ripartizione delle spese del riscaldamento centralizzato secondo il criterio della superficie radiante, mancando sistemi di misurazione del calore, spetta al giudice del merito verificare i valori delle quote, tenendo conto di tutti gli elementi oggettivi incidenti su di esse (posizione delle superfici radianti, struttura, esposizione e volumetria di ogni appartamento, ecc.) ed eliminando gli errori riscontrati, e la relativa decisione non è sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo della violazione di legge, come auspica il sesto motivo di ricorso", nonché puntualizzando ulteriormente che (a) "una volta determinata la quantità dell'uso che un singolo appartamento può fare del servizio di riscaldamento centralizzato stesso, a norma dell'art 1123, comma, 2, c.c., secondo il criterio della superficie radiante, non può apportarsi alcuna diminuzione alla correlativa spesa proporzionale per effetto di ragioni particolari (ad esempio: temperatura degli appartamenti dell'ultimo piano del fabbricato inferiore a quella degli altri che determinano quel fabbisogno o che lo aumentano rispetto ad appartamenti di eguale estensione od eguale cubatura: Cass. Sez. 2, 04/08/1978, n. 3839)"e (b) "se le caratteristiche di posizione, struttura ed esposizione di un appartamento siano tali da determinare nelle ore di interruzione del funzionamento dell'impianto un calo della temperatura più accentuato che negli altri appartamenti, il condomino interessato ha diritto di ottenere una maggiore fruizione del servizio comune di riscaldamento, restando a carico del richiedente la maggiore spesa derivante dal protratto o più intenso funzionamento dell'impianto e quella che possa rendersi necessaria per la messa in opera di strumenti o l'adozione di accorgimenti tecnici atti ad evitare un eccesso di calore negli altri appartamenti (Cass. Sez. 2, 10/06/1981, n. 3775)".

Per mera completezza espositiva, infine, vanno affrontati due ulteriori profili (non esaminati dalla pronunzia in commento ma) qualificanti la tematica della distribuzione delle spese inerenti al riscaldamento centralizzato, sì da risultare essenziali per perimetrare e definire la relativa disciplina1.

La recente Sez. 2, n. 28282/2019, Scarpa, Rv. 655689-01 ha affrontato il tema del riparto delle spese del riscaldamento centralizzato di un edificio in condominio ove sia stato adottato un sistema di contabilizzazione del calore, precisando che le stesse devono essere ripartite in base al consumo effettivamente registrato: ne consegue che risulta perciò illegittima una suddivisione di tali oneri - sia pure solamente parziale - alla stregua dei valori millesimali delle singole unità immobiliari, né possono a tal fine rilevare i diversi criteri di riparto dettati da una delibera di giunta regionale, che pur richiami specifiche tecniche a base volontaria, in quanto atto amministrativo comunque inidoneo ad incidere sul rapporto civilistico tra condomini e condominio (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza gravata, la quale aveva ritenuto legittima una delibera condominiale che, in presenza di un sistema di contabilizzazione del calore, aveva ripartito le spese di riscaldamento per il metano al 50% in base al consumo registrato e, per il restante 50%, in base ai millesimi di proprietà, secondo quanto previsto dal punto 10.2 della Delibera della Giunta regionale della Lombardia n. IX/2601 del 30 novembre 2011).

Da ultimo, poi, Sez. 2, n. 18131/2020, Scarpa, Rv. 658905-01, ha opportunamente distinto il regime di contribuzione alle spese in caso di distacco “unilateralmente voluto” e, al contrario “provocato ab externo”, chiarendo che, mentre il condomino autorizzato a rinunziare all'uso del riscaldamento centralizzato e a distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall'impianto comune rimane obbligato a pagare le sole spese di conservazione di quest'ultimo -quali, ad esempio, quelle di sostituzione della caldaia -perché l'impianto centralizzato è comunque un accessorio di proprietà comune, al quale egli potrà, in caso di ripensamento, riallacciare la propria unità immobiliare, al contrario, qualora, in seguito ad un intervento di sostituzione della caldaia, il mancato allaccio non sia espressione della volontà unilaterale di rinuncia o distacco, ma una conseguenza dell'impossibilità tecnica di fruire del nuovo impianto, che non consente neppure un futuro collegamento, il medesimo condomino non può essere più considerato titolare di alcun diritto di comproprietà su tale impianto e, perciò, non deve più partecipare ad alcuna spesa ad esso relativa.

8. L'efficacia non retroattiva delle tabelle di formazione giudiziale.

L'ultima questione di rilievo affrontata dalla decisione in esame è quella concernente l'efficacia della pronunzia con cui l'A.G. determina o modifica le tabelle millesimali1.

Invero, la recente Sez. 2, n. 04844/2017, Orilia, Rv. 643057-01, in ossequio ad un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr., ex multis, Sez. 3, n. 05690/2011, Filadoro, Rv. 616228-01), aveva ribadito che la sentenza che accoglie la domanda di revisione o modifica dei valori proporzionali di piano nei casi previsti dall'art. 69 disp. att. cod. civ., avendo natura costitutiva, non ha efficacia retroattiva e non consente, pertanto, di ricalcolare la ripartizione delle spese pregresse tra i condomini, ai quali, invece, va riconosciuta la possibilità di esperire l'azione di indebito arricchimento ex art. 2041 cod. civ..

A tali principi si conforma, nell'occasione, la Corte, osservando che "la portata non retroattiva della pronuncia di formazione giudiziale delle tabelle comporta, poi, che non possa affatto affermarsi l'invalidità di tutte le delibere approvate sulla base delle tabelle precedentemente in vigore, il che provocherebbe correlate pretese restitutorie relative alle ripartizioni delle spese medio tempore operate, in applicazione della cosiddetta "teoria del saldo" (arg. da Cass. Sez. 2, 24/02/2017, n. 4844; Cass. Sez. 3, 10/03/2011, n. 5690; Cass. già Cass. Sez. U, 30/07/2007, n. 16794)".

Tale efficacia ex nunc -e, in specie, dal passaggio in giudicato della sentenza definisce il giudizio -rinviene, dunque, la propria ratio nella natura costitutiva della pronuncia, in quanto volta ad assolvere "la stessa funzione dell'accertamento raggiunto all'unanimità dei condomini" (cfr. Sez. 2, n. 07696/1994, Moscato, Rv. 487858-01): con la conseguenza che le tabelle pregresse, benché oggetto di revisione giudiziale, conservano la propria efficacia fino al suddetto momento e legittimamente sono poste alla base del calcolo dei quorum costitutivi e deliberativi delle delibere assembleari medio tempore adottate, nonché della raccolta degli oneri condominiali.

9. Una postilla sul risarcimento del danno non patrimoniale da lesione della (com)proprietà.

Pur non essendo stato affrontato dalla decisione in esame, infine, nell’ottica di una ricostruzione dei principi cardine regolanti la materia merita attenzione la tematica -particolarmente sensibile, a causa della stretta (e teoricamente indissolubile, arg. ex art. 1119 cod. civ.) convivenza imposta dalla stessa struttura del condominio -della risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente alla lesione del diritto di (com)proprietà1.

Le note sentenze cd. di San Martino dell’11 novembre 2008 (Sez. U, n. 26972/2008, Preden, Rv. 605491-01 e successive conformi), negando in modo esplicito il risarcimento del danno non patrimoniale in relazione ai diritti riconosciuti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, giacché non parificabile al danno connotato da un’ingiustizia costituzionalmente qualificata, non lasciavano spazio alla risarcibilità del danno non patrimoniale alla proprietà: in altri termini, secondo l’impostazione accolta da quelle pronunzie, vi possono essere violazioni del principio del neminem laedere ex art. 2043 c.c. che arrecano un danno alla proprietà in sé ingiusto (nel suo duplice aspetto di danno prodotto contra ius e di danno non iure), e però risarcibile soltanto se patrimoniale -e, cioè, se connotato da immediata rilevanza economica, ovvero anche se non patrimoniale, ma nei soli casi in cui la lesione della proprietà costituisca anche reato. Ciò, si badi, non perché, ovviamente, il rapporto di appartenenza, che intercorre tra il dominus e la res, sia “privo di copertura costituzionale” quanto, piuttosto, perché la natura economica del diritto e la sua funzione tipicamente (seppur non esclusivamente) patrimoniale ne impediscono la risarcibilità quale forma di tutela della persona.

Sennonché, nel corso di oltre un decennio la realtà giuridica è mutata e, con essa, la sensibilità verso il tema di indagine in esame: è stato introdotto l’art. 34 del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 111 del 2011, che ha introdotto nel Testo Unico in materia di espropriazione per pubblica utilità l’art. 42bis, ove si prevede che l’autorità, la quale, senza un valido titolo espropriativo, utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, può disporne l’acquisizione sanante al suo patrimonio indisponibile, corrispondendo al proprietario un indennizzo “per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene”; è entrato in vigore il nuovo testo dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea;l’art. 1 del Primo Protocollo addizionale della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali appresta un’intensa tutela del diritto di proprietà, unico diritto di contenuto patrimoniale cui è dedicata una disposizione convenzionale; ampio riconoscimento del diritto di proprietà è contenuto, ancora, nell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Rispetto alle fonti da ultimo citate, peraltro, la giurisprudenza unionale è granitica nel ricomprendere il diritto di proprietà tra quelli involabili, con il conseguente riconoscimento del ristoro dei danni non patrimoniali in caso di violazione del citato Protocollo n. 1 (cfr., ex multis, Corte europea diritti dell’uomo, 7 giugno 2012, Centro Europa 7 s.r.l. e Di Stefano c. Italia; Corte europea diritti dell’uomo, 12 ottobre 2010, Atanasiu c. Romania; Corte europea diritti dell’uomo, 4 dicembre 2007, Pasculli c. Italia; Corte europea diritti dell’uomo, 21 febbraio 2002, Ghidotti c. Italia).

È in questo contesto, volto al sempre maggiore appezzamento, in ottica risarcitoria, del “valore” proprietà, che dunque vanno letti ed esaminati gli ultimi approdi della giurisprudenza di legittimità: se, infatti, Sez. 6-2, n. 17460/2018, Scarpa, Rv. 649269-01, ha escluso la configurabilità di un danno non patrimoniale conseguente alla mancata utilizzazione di un’area comune condominiale, non ravvisandovi alcuna lesione di interessi della persona di rango costituzionale e Sez. 2, n. 23076/2018, Scarpa, Rv. 651006-01, pur non affrontando espressamente la questione, sembra tuttavia limitare al solo danno patrimoniale il ristoro da privazione dei diritti del singolo conseguente all’esecuzione di una delibera assembleare nulla, al contrario Sez. 2, n. 23134/2018, Cavallari, non massimata, pur negando all’acquirente di un immobile la risarcibilità del danno non patrimoniale cagionato dalla temporanea non disponibilità dell’appartamento alienato, per difetti del’immobile, ciò però ha fatto considerando che il presunto danneggiato aveva potuto soddisfare le proprie esigenze abitative in altro luogo comunque idoneo, e non già, dunque, a monte, per la natura esclusivamente economica e la funzione tipicamente patrimoniale del diritto del compratore di pretendere, con la consegna del bene, la piena affermazione del suo diritto di proprietà nell’interezza dell’oggetto acquistato.

La più ampia apertura verso il ristoro dei danni non patrimoniali conseguenti alla lesione del diritto alla proprietà attualmente si registra, però con Sez. U, n. 02611/2017, Bianchini, Rv. 642418-011 (in senso conforme cfr. anche Sez. 2, n. 10861/2018, Carrato, Rv. 648017-01) che, nel riconoscere la risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite, pur in assenza di danno biologico documentato ed in conseguenza del pregiudizio del diritto al normale svolgimento della vita familiare e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, ha radicato il referente normativo della lesione al godimento della propria abitazione non soltanto nell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma -sia pure in obiter -anche “nell’art. 42, comma 2, Cost., che tutela la proprietà privata e detta i limiti per la compressione del relativo diritto”.

SEZIONE IV OBBLIGAZIONI E CONTRATTI

  • contratto
  • obbligazione
  • protezione delle libertà

VIII)

GLI OBBLIGHI DI PROTEZIONE

(di Luigi La Battaglia )

Sommario

1 Gli obblighi di protezione: inquadramento della fattispecie. - 2 Gli obblighi di protezione accessori alla prestazione contrattuale. - 2.1 Obblighi preordinati alla protezione di interessi non patrimoniali. - 2.2 Obblighi preordinati alla protezione di interessi patrimoniali. - 3 Gli obblighi di protezione senza prestazione. - 4 Gli obblighi di protezione nei confronti dei terzi. - 5 La “dimensione protettiva” della prestazione sanitaria. - 5.1 Gli obblighi di protezione nei confronti dei pazienti “deboli”. - 5.2 Gli obblighi di protezione nei confronti dei terzi in ambito sanitario. - 5.3 I limiti della fattispecie: la sentenza n. 14258/2020. - 6 Gli obblighi di protezione di interessi patrimoniali dei terzi.

1. Gli obblighi di protezione: inquadramento della fattispecie.

In linea generale, la differenza tra responsabilità aquiliana e contrattuale risiede nella circostanza che, mentre la prima discende dalla lesione arrecata (da un qualsiasi soggetto) a un qualsivoglia interesse meritevole di tutela facente capo alla sfera giuridica altrui, la seconda deriva dalla divergenza della condotta concretamente tenuta da un soggetto determinato (il debitore) rispetto a quella richiesta da un preesistente vinculum iuris. Quest’ultima definizione consente di discorrere di responsabilità contrattuale anche al cospetto della violazione di obblighi che non abbiano origine nel contratto, ma in un’altra delle fonti contemplate dall’art. 1173 c.c. La mancanza di un preesistente obbligo funzionale alla realizzazione di uno specifico diritto vantato dalla controparte rende ragione della necessità, ai fini dell’integrazione della fattispecie di responsabilità extracontrattuale, della ricorrenza del requisito dell’ingiustizia del danno, il quale funge da criterio di selezione del danno risarcibile, riconnettendolo alla lesione di una situazione giuridica soggettiva meritevole di tutela alla stregua dell’ordinamento giuridico.

Una sovrapposizione tra le due forme di responsabilità può aversi allorquando la condotta dalla quale sia derivato il danno integri violazione di un rapporto obbligatorio e, al contempo, produca la lesione di una situazione soggettiva facente capo al soggetto danneggiato, a prescindere dall’esistenza del suddetto rapporto obbligatorio. In tal caso, si ritiene che il danneggiato possa agire in giudizio, prospettando i due rimedi in via alternativa, ovvero invocando quello ritenuto, in concreto, più vantaggioso1. Si parla, invece, di cumulo di responsabilità allorquando uno dei due rimedi sia divenuto impraticabile (per esempio, per l’intervenuto decorso del più breve termine di prescrizione di cui all’art. 2947 c.c.), ovvero nell’ipotesi in cui il danneggiato miri a far propri i vantaggi propri dei due regimi2.

Terreno elettivo di applicazione della teoria del concorso di responsabilità è rappresentato dalla violazione dei c.d. obblighi di protezione, i quali determinano un’attrazione nell’orbita (della responsabilità) contrattuale di interessi che, in mancanza di un pregresso rapporto, sarebbero tutelati unicamente alla stregua dell’art. 2043 c.c.

Gli obblighi di protezione, gravanti su entrambe le parti del rapporto obbligatorio, scaturiscono ex lege dal principio di buona fede (enucleabile dagli artt. 1175 e 1375 c.c. e, in ultima analisi, dall’art. 2 Cost.) e mirano a preservare la sfera giuridica (personale e/o patrimoniale) altrui dai pericoli di danno che l’esecuzione della prestazione è suscettibile di arrecare3. Afferma, al riguardo, Sez. 1, n. 14188/2016, Valitutti, Rv. 640485-01 (in motivazione), che “la teoria degli obblighi di protezione (ha un preciso fondamento dogmatico nelle norme che costruiscono il rapporto obbligatorio come un “rapporto complesso”, le cui finalità di tutela non si riducono al solo interesse alla prestazione, definito dall’art. 1174 c.c., ma (..) ricomprendono anche l’interesse di protezione, preso in considerazione dalla norma successiva di cui all’art. 1175 c.c.”.

In presenza di un contratto, la figura in discorso si affianca alle obbligazioni oggetto della prestazione. Ne consegue che il creditore, oltre a vantare un interesse specificamente preordinato al conseguimento della prestazione, è titolare dell’interesse a non subire un pregiudizio alla propria persona e/o ai propri beni in occasione dell’esecuzione della stessa1.

Sulla scorta di un’impostazione dottrinale di ascendenza tedesca, l’esistenza degli obblighi di protezione è venuta profilandosi, peraltro, anche al di fuori di un contratto (e dunque in assenza di un obbligo di prestazione propriamente detto), dando luogo alla figura dell’obbligazione senza prestazione (il cui prototipo è costituito dalla culpa in contrahendo). In questi casi, il vincolo preordinato alla protezione della sfera giuridica altrui sorge dall’affidamento che un soggetto ha ragione di nutrire nell’operato di un altro soggetto con cui viene in contatto2, in considerazione dello status professionale di quest’ultimo; da tale affidamento, “in forza del principio di buona fede, nascono obblighi di conservazione della sfera giuridica altrui che si interpongono tra la condotta e il danno e sottraggono l’eventuale responsabilità al regime del torto aquiliano”3.

In una prospettiva di ulteriore estensione (questa volta soggettiva), la teoria degli obblighi di protezione è stata applicata anche nei confronti di terzi legati da un particolare rapporto con il creditore della prestazione, la cui sfera giuridica sia parimenti esposta a rischi in occasione dello svolgimento della prestazione.

La giurisprudenza di legittimità si è servita dello schema teorico in discorso in settori diversi, al fine pratico di sottrarre le fattispecie di volta in volta considerate al regime della responsabilità extracontrattuale, assoggettandole a quello della responsabilità da inadempimento, più favorevole per il danneggiato sotto il profilo (tra gli altri) della prescrizione e dell’onere della prova.

2. Gli obblighi di protezione accessori alla prestazione contrattuale.

2.1. Obblighi preordinati alla protezione di interessi non patrimoniali.

Nell’ambito di contratti aventi ad oggetto prestazioni che implicano un “contatto” con la persona del creditore, accanto all’obbligazione principale è possibile enucleare un’obbligazione accessoria di protezione, che impone al debitore di osservare, nell’esecuzione della prima, l’attenzione e la cura richieste dalla necessità di evitare che ne derivi un danno alla persona del creditore.

È quanto avviene, per esempio, con riguardo all’istituto scolastico, sul quale, per effetto dell’accoglimento della domanda di iscrizione, sorge “l'obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l'incolumità dell'allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni” (Sez. 3, n. 22752/2013, Scarano, Rv. 628691-01); obbligazione che evidentemente si affianca a quella principale volta ad apprestare un’adeguata istruzione in favore dell’alunno1. Analogamente, Sez. 3, n. 3612/2014, Vivaldi, Rv. 629845-01, ha qualificato come contrattuale la responsabilità della scuola di sci per i danni occorsi a un allievo a seguito di una caduta verificatasi durante una lezione.

Significativa, da tale angolo visuale, è pure Sez. 3, n. 24071/2017, Olivieri, Rv. 645832-01, in cui il personale di un centro termale non aveva dato corso alle richieste di assistenza provenienti dalla cliente, la quale si era procurata lesioni uscendo da una piscina. In tale occasione, la Corte ha affermato che, accanto alla prestazione principale, volta a mettere a disposizione del cliente i locali in cui svolgere i trattamenti terapeutici con le acque termali, sulla struttura grava un dovere di protezione (discendente dal disposto degli artt. 2 Cost., e 1175 e 1375 c.c.), la cui inosservanza è produttiva di responsabilità contrattuale. Nel fornire l’inquadramento generale della fattispecie, la Terza Sezione ha cura di sottolineare come “il “contatto sociale qualificato” (..) dal quale derivano, a carico delle parti, (..) reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c., opera anche nella materia contrattuale, in relazione a quegli aspetti che non attengono alla esecuzione della prestazione principale (..)”. In tal caso, il “dovere di salvaguardia (..) si inserisce a pieno titolo nello stesso rapporto contrattuale, prescrivendo un autonomo obbligo di condotta che si aggiunge e concorre con l'adempimento della obbligazione principale (..)”. Sicché il mancato tempestivo intervento del personale della struttura termale, in ausilio al soggetto che versava in una momentanea difficoltà, “indipendentemente dal contenuto della prestazione principale (di natura alberghiera e od anche sanitaria) e dalla previsione di impiego di personale ausiliario di sostegno soltanto per i pazienti disabili, integra una condotta violativa del «dovere di protezione»” suddetto.

Con riferimento a un caso in cui il cliente di un ristorante era rimasto ustionato da una pizza rovesciatagli addosso da un cameriere (a seguito dell’urto che questi aveva ricevuto da un altro avventore) si è espressa, di recente, Sez. 3, n. 9997/2020, Rossetti, Rv. 657746-01, la quale ha affermato che il contratto di ristorazione (concluso, per facta concludentia, da colui che accede in un ristorante) “nella sua struttura socialmente tipica comporta l'obbligo del ristoratore di dare ricetto ed ospitalità all'avventore”, il quale (così come avviene nel contratto d'albergo o di trasporto), “affida la propria persona alla controparte: e tanto basta per fare sorgere a carico di quest'ultima l'obbligo di garantire l'incolumità dell'avventore, quale effetto naturale del contratto ex art. 1374 c.c.”. La fonte di integrazione del contratto evocata, nel caso di specie, dalla Corte, è non già l’obbligo della “buona fede esecutiva” di cui all’art. 1375 c.c., ma direttamente la legge, in particolare l’art. 32 Cost., riguardato dall’angolo visuale della sua diretta applicabilità nei rapporti “orizzontali” tra privati. Di notevole interesse si mostra, dunque, la statuizione posta a suggello del ragionamento seguito, secondo cui un obbligo di salvaguardare l’incolumità fisica della controparte “sussiste necessariamente in tutti i contratti in cui una delle parti affidi la propria persona all'altra: e dunque non solo nei contratti di spedalità o di trasporto di persone, ma anche in quelli -ad esempio -di albergo, di spettacolo, di appalto (quando l'opus da realizzare avvenga in presenza del committente), di insegnamento d'una pratica sportiva, di ristorazione”.

In tutti i casi, quindi, in cui la persona del creditore sia in qualche modo “implicata” nell’esecuzione della prestazione, la protezione della sua integrità psicofisica integrerebbe, dunque, una vera e propria obbligazione contrattuale (sorta per effetto dell’automatico operare dell’integrazione ex lege della volontà della parti).

È evidente, peraltro, come, aderendo a una ricostruzione di tal fatta, il richiamo alla categoria degli obblighi di protezione si mostri financo superfluo.

2.2. Obblighi preordinati alla protezione di interessi patrimoniali.

La teoria degli obblighi di protezione, grazie alla quale il principio di buona fede entra a permeare il tessuto dei rapporti contrattuali, viene utilizzata anche a presidio dell’integrità patrimoniale dei contraenti.

In argomento, si può ricordare Sez. 3, n. 22819/10, Amendola, Rv. 614831-01, che riconobbe la responsabilità contrattuale della banca nei confronti del correntista, per aver elevato in suo danno il protesto di due assegni, nonostante il mancato decorso del termine di quindici giorni di cui al combinato disposto degli artt. 32 e 46 del r.d. n. 1736/1933. In tale occasione, considerando tutte le circostanze del caso concreto, la Corte ritenne che la banca avesse violato un obbligo di protezione su di essa gravante nei confronti del cliente; obbligo (definito “collaterale” a quelli nascenti dal contratto di conto corrente, “ e a questo, per così dire, consustanziale”) che le “imponeva per vero di interpretare il termine di quindici giorni di cui alle norme innanzi menzionate, non solo come termine entro il quale andava levato il protesto, ma come termine prima del quale questo non poteva essere, nella fattispecie, levato”.

Tipologia significativa e ricorrente, enucleata dalla giurisprudenza in seno agli obblighi di protezione, è quella degli obblighi di informazione, il cui archetipo, con riguardo alla fase delle trattative precontrattuali, è rappresentato dall’art. 1338 c.c. Caratteristica intrinseca agli obblighi informativi è che essi si spingono fin dove è necessario per preservare l’incolpevole affidamento della controparte, sicché dev’esserne esclusa l’operatività rispetto a quelle circostanze ricadenti nella sfera di conoscenza (o conoscibilità) dell’altro contraente.

Sez. 3, n. 8412/2015, Rossetti, Rv. 635202-01, in un caso nel quale l’assicurato lamentava la mancanza di una esaustiva informazione, da parte dell’assicuratore, circa la reale entità dei costi di gestione della polizza, nonché la circostanza che il rendimento da essa garantito potesse essere inferiore all’ammontare dei premi versati, affermò che il dovere di correttezza, discendente dall’art. 1175 (nonché 1337 e 1375) c.c., impone all’assicuratore di proporre al cliente prodotti assicurativi per lui utili e di metterlo nelle condizioni di compiere una scelta consapevole attraverso un’informazione completa circa le caratteristiche del prodotto.

Sez. 3, n. 17010/2018, Scarano, Rv. 649439-01, ha esentato da responsabilità professionale il notaio che aveva omesso di indicare la presenza di un’iscrizione ipotecaria su un’immobile oggetto di un atto di compravendita da lui rogato, dal momento che risultava provato, in fatto, che il compratore fosse a conoscenza della circostanza.

Ancor più di recente, un’interessante fattispecie in tema di somministrazione di lavoro è stata affrontata da Sez. 3, n. 26525/2020, Sestini, Rv. 659791-01. A seguito della costituzione giudiziale, in suo danno, di due rapporti di lavoro, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del d. lgs. n. 276/2003, la società utilizzatrice aveva convenuto in giudizio la società somministratrice di lavoro, invocandone la responsabilità contrattuale “per violazione dei doveri di buona fede e correttezza”, che le imponevano di informarla della necessità di maggiore specificazione delle causali del contratto. Secondo la prospettazione dell’attrice, a fronte dell’indicazione, da parte dell’utilizzatrice, di ragioni “insufficienti”, la convenuta non avrebbe potuto limitarsi a recepirle nel contratto concluso con i lavoratori, ma, in considerazione della sua specifica professionalità, avrebbe dovuto metterla sull’avviso circa le conseguenze giuridiche derivanti dalla genericità dell’indicazione. La Terza Sezione ha confermato il ragionamento del giudice di merito, nel senso dell’insussistenza, in capo al somministratore, di obblighi informativi discendenti dal principio della buona fede, aventi ad oggetto circostanze (quali i presupposti per la regolarità della somministrazione di manodopera) evincibili dalla legge, e pertanto rientranti nella sfera di conoscibilità (anche) dell’utilizzatore. Quest’ultimo, si legge nella motivazione, “si trova già nella condizione di conoscere direttamente e compiutamente -sulla base delle specifiche previsioni normative -sia gli elementi che debbono essere contenuti nel contratto di somministrazione che le conseguenze della «somministrazione irregolare»”, e pertanto nei suoi confronti “non è predicabile un obbligo (..) di verificare l’adeguatezza della “causale” indicata (col corollario di doverne risponderne in via risarcitoria)”. Un’eccezione - prosegue la Corte - può rinvenirsi nelle sole ipotesi in cui il contratto non contenga alcuna causale, ovvero il somministratore sia stato coinvolto in “situazioni identiche sottoposte a vaglio giudiziale negativo”: in tali casi, “evidenti ragioni di correttezza impongono di informare l’utilizzatore al fine di non esporlo ad un accertamento di irregolarità della somministrazione”.

3. Gli obblighi di protezione senza prestazione.

Secondo un’impostazione ormai acquisita in dottrina e giurisprudenza, obblighi di protezione della sfera giuridica altrui possono sorgere, come già anticipato, in virtù del principio di buona fede (o comunque dell’affidamento ingenerato dallo status professionale di un determinato soggetto), anche in mancanza di uno specifico obbligo di prestazione gravante su colui il cui comportamento è suscettibile di produrre danno.

Un esempio è dato dal c.d. trasporto di cortesia, nel quale, dal contatto sociale instauratosi tra vettore e trasportato, sorgerebbe in capo al primo non già un obbligo di trasporto (sicché il passeggero potrebbe essere fatto scendere in qualsiasi momento), bensì soltanto un obbligo di protezione per l’incolumità del passeggero e delle cose che questi porti con sé1.

Altra applicazione giurisprudenziale di tale ricostruzione si riscontra in tema di responsabilità degli istituti bancari. Sez. U, n. 14712/2007, Rordorf, Rv. 597395-01, risolse il contrasto venutosi a creare nella precedente giurisprudenza di legittimità, affermando la natura contrattuale della responsabilità della banca c.d. negoziatrice, per avere consentito, in violazione delle regole poste dall'art. 43 l. ass., l'incasso di un assegno bancario non trasferibile a persona diversa dal beneficiario. Anche in questo caso, la Suprema Corte pose l’accento sull’esistenza, in capo alla banca, di un obbligo professionale di protezione, “operante nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante operazione, di far sì che il titolo stesso sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l'incasso”. Il prenditore dell’assegno (ma anche colui che abbia eventualmente costituito la provvista presso la banca trattaria), pur non essendo legato da alcun rapporto contrattuale con la banca negoziatrice, legittimamente confida che quest’ultima, quale “soggetto dotato di specifica professionalità a questo riguardo”, si uniformi rigorosamente alle regole di circolazione dei titoli di credito previste dalla legge, cosicché la violazione degli obblighi posti da tali regole dà luogo a responsabilità contrattuale da contatto sociale qualificato2.

Per quel che riguarda la responsabilità precontrattuale, recentemente Sez. 2, n. 24738/2019, Casadonte, Rv. 655259-01, l’ha ricondotta all’alveo dell’art. 2043 c.c., con la conseguenza che spetta a colui che allega il recesso ingiustificato dalle trattative dimostrare che esso esuli dai limiti della correttezza e buona fede postulati dall’art. 1337 c.c. La pronuncia si pone in contrasto con la precedente Sez. 1, n. 14188/2016, Valitutti, Rv. 640485-01, che, nel ravvisare, nel contegno della P.A. che aveva omesso di “perfezionare” un contratto già concluso mediante l’approvazione ministeriale ex art. 19 del r.d. n. 2440/1923, una responsabilità riconducibile agli artt. 1337 e 1338 c.c., l’aveva inquadrata “nella responsabilità di tipo contrattuale da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art. 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c., con conseguente applicabilità del termine decennale di prescrizione sancito dall'art. 2946 c.c.”.

Da ultimo, Sez. Un., n. 8236/2020, Cosentino, Rv. 657613-01, pronunciandosi in sede di regolamento di giurisdizione, ha concluso per la devoluzione al giudice ordinario delle controversie risarcitorie nelle quali il privato deduca la lesione dell’affidamento ingenerato dal contegno della P.A. (pur non tradottosi nell’emissione di un provvedimento favorevole). In tale occasione le Sezioni Unite hanno ribadito che “il dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede rappresenta (..) una manifestazione del più generale dovere di solidarietà sociale, che trova il suo principale fondamento nell'articolo 2 della Costituzione e grava reciprocamente su tutti i membri della collettività”, e che “tale dovere si intensifica e si rafforza, trasformandosi in dovere di correttezza e di protezione, quando tra i consociati si instaurano momenti relazionali socialmente o giuridicamente qualificati, tali da generare, unilateralmente o, talvolta, anche reciprocamente, ragionevoli affidamenti sull'altrui condotta corretta e protettiva”. Questo “quid pluris rispetto al generale precetto del neminem laedere” esclude che dalla violazione di tali doveri possa sorgere una “generica “responsabilità del passante””, trattandosi piuttosto “della responsabilità che sorge tra soggetti che si conoscono reciprocamente già prima che si verifichi un danno”, ovvero una responsabilità (di tipo) contrattuale.

La più celebre applicazione della teoria dell’obbligazione senza prestazione si deve, peraltro, a Sez 3, n. 589/99, Vella, Rv. 529409-01, in tema di responsabilità del medico dipendente della struttura ospedaliera. Affermò la Corte, in tale occasione, che, sebbene un contratto generalmente intercorra soltanto tra la struttura sanitaria e il paziente, tra quest’ultimo e il medico dipendente dalla prima si instaura un rapporto fondato sull’affidamento nel corretto espletamento della prestazione sanitaria, in ragione dello status professionale del medico, il quale “sembra idone[o] come tale a fondare una pretesa specifica di protezione in capo al malato nei confronti del terzo”1. Se, dunque, il medico, pur non essendovi obbligato nei confronti del paziente, intervenga su quest’ultimo, “l’esercizio della sua attività sanitaria (e quindi il rapporto paziente-medico) non potrà essere differente nel contenuto da quello che abbia come fonte un comune contratto tra paziente e medico”. In tale occasione, la Cassazione precisò altresì che non pertinente, rispetto alla fattispecie considerata, doveva considerarsi la teoria del contratto (tra medico e struttura) con effetti protettivi nei confronti del terzo (il paziente), dal momento che quest’ultimo è titolare del diritto a conseguire la prestazione principale, e non già semplicemente dell’interesse di non subire danni correlati all’esecuzione della medesima (contraltare dell’obbligo di protezione). Dall’angolo visuale del rapporto col paziente, sul medico incombe, dunque, un obbligo di protezione della sua salute; obbligo autonomo, dal momento che non accede a un obbligo di prestazione (cui come detto -il medico è tenuto nei soli confronti della struttura sanitaria di riferimento)1 . Come noto, l’impostazione appena illustrata (che aveva trovato il favore unanime della giurisprudenza dei due decenni successivi) è stata sovvertita dall’intervento del legislatore il quale, all’art. 7, comma 3, della l. n. 24/2017, ha espressamente sancito la natura extracontrattuale della responsabilità del medico (a meno che -s’intende -egli non abbia concluso uno specifico contratto col paziente).

Sulla stessa scia si pose S.U., n. 9346/2002, Preden, Rv. 555386-01, che sancì la natura contrattuale della responsabilità dell’insegnante dipendente di un istituto pubblico per i danni cagionati dall’allievo a se stesso durante l’orario scolastico. In considerazione del ruolo professionalmente svolto dall’insegnante, le Sezioni Unite ravvisarono un contatto sociale tra costui e l’allievo, dal quale scaturiscono obblighi di protezione e vigilanza, funzionali ad evitare che l’allievo si procuri, da se medesimo, un danno alla persona2.

4. Gli obblighi di protezione nei confronti dei terzi.

Nella categoria dei contratti con effetti protettivi in favore dei terzi si annoverano le ipotesi in cui “l'inesatta esecuzione di un contratto può arrecare un pregiudizio alla persona ovvero alle cose di un terzo, che si trovi in una relazione di “prossimità” con una delle parti del contratto”1. In questo caso, ad entrare in contatto con la prestazione non sono, dunque, interessi del creditore diversi rispetto a quello sotteso alla prestazione, ma -per l’appunto -gli interessi di un terzo, ai quali, in forza del principio di buona fede viene estesa, a determinate condizioni, la medesima tutela riconosciuta ai primi.

Nel sistema giuridico tedesco2, la condizione di “vicinanza” del terzo è stata tradizionalmente declinata mediante l’estensione della stessa forma di protezione riconosciuta al creditore della prestazione (si pensi ai danni alla salute patiti dai dipendenti dell’imprenditore, a causa dei vizi di macchinari acquistati da terzi, o dai familiari di colui che abbia incaricato un prestatore d’opera di svolgere lavori di manutenzione all’interno della propria abitazione); ovvero in funzione del particolare affidamento riposto dal terzo nella corretta esecuzione della prestazione, fondantesi sulle qualità professionali del debitore (è il caso, per esempio, dei danni patrimoniali subiti da un contraente, a causa delle informazioni inesatte contenute in perizie redatte da professionisti incaricati dall’altro contraente).

Con riguardo alla protezione degli interessi non patrimoniali del terzo, la dottrina tedesca subordina l’operatività del modello alla ricorrenza di tre presupposti: un rapporto di stretta contiguità del terzo con (l’esecuzione del)la prestazione del debitore; un interesse del creditore alla protezione del terzo; la conoscibilità dei suddetti requisiti da parte del debitore3. A venire in rilievo sono, in particolare, le situazioni di convivenza o di esposizione al rischio legate alle relazioni familiari o lavorative nelle quali è coinvolto il creditore, che portano in esponente una condizione del terzo difficile da ricondurre nell’orbita extracontrattuale, siccome evidentemente differenziata da quella del quisque de populo.

Nella giurisprudenza italiana, la categoria del contratto con effetti protettivi è stata richiamata, nel campo del danno non patrimoniale, essenzialmente con riguardo ai pregiudizi da c.d. wrongful birth, vale a dire ai pregiudizi alla salute del nascituro, derivanti dall’inadempimento del ginecologo, nonché a quelli patiti dalla madre, dal padre e dai fratelli del soggetto nato con malformazioni congenite, in conseguenza dell’omessa (o tardiva) diagnosi delle stesse, che abbia impedito alla madre di esercitare il diritto all’interruzione della gravidanza.

Nel settore del danno patrimoniale, invece, nel novero dei soggetti protetti dal contratto vengono fatti rientrare anche terzi portatori di interessi in conflitto con quello del creditore della prestazione (si pensi alla “generosa” stima del valore di un bene, effettuata dal perito incaricato dal promittente venditore, che determina un pregiudizio in capo all’acquirente che si avveda successivamente di un valore effettivo notevolmente inferiore). Ciò induce a rintracciare il fondamento dell’obbligo di protezione del terzo al di fuori del contratto, e precisamente nel principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.1, ovvero nella previsione legislativa della buona fede, che giustifica l’estensione della disciplina contrattuale al rapporto che viene a crearsi tra una parte del contratto e un determinato terzo, la cui sfera giuridica venga messa in pericolo dall’esecuzione della prestazione. Anche in questo caso, un ruolo fondamentale compete alla caratterizzazione professionale dello “status” del debitore, che induce a confidare nella corretta esecuzione della prestazione non solo la sua controparte contrattuale, ma anche altri soggetti la cui sfera giuridica patrimoniale è suscettibile di essere incisa, per l’appunto, dalla prestazione stessa.

5. La “dimensione protettiva” della prestazione sanitaria.

Nella misura in cui si svolge sulla persona del paziente, la prestazione che (per antonomasia, si potrebbe dire) implica un profilo di protezione dell’integrità fisica del creditore è quella medico-chirurgica. Si è già detto che un obbligo di protezione nei confronti del paziente pusorgere, in capo al medico, anche in assenza di contratto, in virtù dell’affidamento indotto dal contatto sociale instauratosi tra i due soggetti2 . Ma, nell’ipotesi in cui un contratto vi sia, che ruolo gioca, in seno ad esso, la finalità di protezione del paziente? A questa va riconosciuta la veste di obbligo di protezione, che si affianca alla prestazione oggetto del contratto, ovvero, in considerazione del peculiare contenuto di quest’ultima, si può ritenere che permei la stessa causa concreta del contratto?

Allargando l’analisi al rapporto che il paziente instaura con la struttura ospedaliera all’interno della quale riceve le cure, si deve osservare come la responsabilità della struttura abbia conosciuto un processo di progressivo sganciamento dalla dimensione del facere professionale del medico, in consonanza con l’autonoma configurazione del contratto atipico c.d. di spedalità (o assistenza sanitaria), del quale il suddetto facere è solo un segmento.

A partire da Sez. Un., n. 577/2008, Segreto, Rv. 600903-01, la Cassazione ha affermato, infatti, che, dal contratto concluso dal paziente con l’ente ospedaliero discendono, oltre all’obbligazione relativa alla prestazione di cura vera e propria (espletata dalla struttura, ex art. 1228 c.c., per il tramite del medico), tutta una serie di “obblighi cd. di protezione ed accessori”, tra cui la fornitura di servizi alberghieri e la messa a disposizione di farmaci, attrezzature e personale sanitario ausiliario. La prestazione sanitaria s’inscrive, cioè, in una dimensione organizzativa più ampia, evocata dal concetto di “sicurezza delle cure” di cui all’art. 1 della legge n. 24/2017. Da ciò deriva che le strutture sanitarie sono tenute a uniformarsi a precisi standards strutturali, tecnologici e organizzativi previsti ex lege, i quali finiscono per acquisire “rilievo nella valutazione dell’(in)esatto adempimento della prestazione di assistenza sanitaria, che in sé include anche l’organizzazione dell’attività necessaria per il compimento del singolo atto medico”1 . In questa prospettiva, l’attenzione si focalizza sulla preventiva “presa in carico” del paziente all’interno di un contesto organizzativo di riferimento, finalizzato al “perseguimento dell’obiettivo di tutela della salute «come diritto fondamentale dell’individuo (..) da tutelare nel rispetto della dignità e della libertà della persona» (secondo l’art. 1 del d. lgs. n. 502/1992)”2. Tale approccio fa emergere un’istanza lato sensu “protettiva” dell’integrità psico-fisica del paziente, che può ritenersi compresente in qualsivoglia atto medico svolto in sede nosocomiale, nella misura in cui esso si ponga come concretizzazione, in rapporto al singolo paziente, dell’organizzazione di cui s’è detto1. Per designare queste obbligazioni “organizzative” -le quali, come detto, fanno da contorno alla prestazione sanitaria principale -si trova non di rado utilizzata (in primis, dalla sentenza n. 577/2008) l’espressione “obblighi di protezione”. Tuttavia, esse, a ben vedere, non sembrano rientrare nella nozione classica degli obblighi di protezione, dal momento che, per quanto “accessorie” alla prestazione principale, rientrano pur sempre tra quelle direttamente scaturenti dal contratto (di cui, unitamente alla prima, costituiscono componente essenziali2).

Se, nei casi sopra esaminati della lesione auto-infertasi dall’alunno, ovvero occorsa al cliente del centro termale o del ristorante, è possibile individuare una prestazione che non ha come immediato referente oggettivo la “fisicità” della persona (involgendo, rispettivamente, l’istruzione e l’educazione degli studenti, ovvero la fornitura dei servizi termali e di ristorazione), nel caso dell’assistenza sanitaria l’obbligo di apprestare tutte le cautele necessarie alla conservazione e al recupero della salute del paziente pertiene, invero, al nucleo qualificante della prestazione. La salute entra, infatti, nella causa del contratto, quale bene giuridico immediatamente implicato dall’esecuzione della prestazione. E sebbene ciò sia più immediatamente evidente per la prestazione professionale del medico in senso stretto3 , nondimeno alla salute del paziente le prestazioni di tipo “alberghiero assistenziale”, predicabili nei confronti della struttura, si mostrano tanto intensamente correlate, che non sembra possibile predicarne la natura “di protezione”, se non in funzione puramente descrittiva1 di un’accessorietà comunque non esorbitante dal perimetro della prestazione. Si pensi, per esempio, all’“obbligo protettivo di informazione” circa l’inadeguatezza degli strumenti diagnostici, cui, con specifico riguardo alla diagnosi di malformazioni fetali, fa riferimento Sez. 3, n. 4540/2016, Vincenti, Rv. 639375-01, laddove afferma che esso “nasce in uno con l'inadempimento, da parte della struttura sanitaria, dell'obbligo di adeguatezza organizzativa in rapporto all'assunzione della prestazione di spedalità in favore del paziente nonostante il deficit organizzativo”: ebbene, tale obbligo -che impone al nosocomio di avvisare il paziente dell’inadeguatezza della propria dotazione, sì da consentirgli di valutare l’opportunità di rivolgersi ad altro centro più attrezzato altro non è che un corollario di quello più generale di adeguatezza organizzativa.

In definitiva, dalla prospettiva del paziente creditore della prestazione, non si rende necessario ricorrere alla buona fede per raccordare al rapporto obbligatorio un interesse (quale quello all’integrità della propria persona) da ritenersi già dedotto nel contratto.

5.1. Gli obblighi di protezione nei confronti dei pazienti “deboli”.

Al di là della componente di protezione immanente alla stessa prestazione medica intesa in senso generale, nei confronti di alcuni soggetti i quali, come i pazienti psichiatrici, versano in condizioni di particolare fragilità o “debolezza”, si pongono specifici obblighi di protezione e/o sorveglianza, volti a scongiurare il compimento di atti lesivi per se stessi o per i terzi. Si tratta coloro “che possano, con alto grado di probabilità, porre in essere comportamenti autolesionistici o comunque imprevedibili, tali, in ogni caso, da legittimare, se non il sacrificio della libertà di movimento dei medesimi, quantomeno modalità di sorveglianza appropriate secondo una ragionevole prognosi ex ante” (Sez. 3, n. 7997/2005, Travaglino, Rv. 582983-01).

Sez. 3, n. 12965/2005, Purcaro, Rv. 582022-01, per esempio, riconobbe la responsabilità ex art. 2047 c.c. della struttura sanitaria, per l’omicidio commesso, da un paziente psichiatrico ivi ricoverato, ai danni di un altro paziente suo compagno di stanza. In Sez. 3, n. 22818/2010, Amendola, Rv. 615165-01, era stata, invece, una paziente oligofrenica a subire violenza carnale all’interno dell’istituto ove era ricoverata, il quale fu riconosciuto responsabile, a titolo contrattuale, per l’inadempimento degli obblighi di sorveglianza su di esso incombenti. Di un caso di danno procurato a se stesso da un paziente epilettico ricoverato per un night-hospital si occupò invece, Sez. 3, n. 7997/2005, Travaglino, Rv. 582983-01).

In questi casi, l’obbligo di sorveglianza non è generico ma specifico, in quanto correlato a una precisa diagnosi, sicché la protezione “costituisce la parte essenziale della cura”, secondo l’espressione utilizzata da Sez. 3, n. 22331/2014, Rossetti, Rv. 633104-01 (relativa al caso di un paziente psichiatrico il quale, allontanatosi dalla clinica ove era ricoverato per la cura dei disturbi mentali da cui era affetto, si era gettato contro un treno, finendo per perdere la mano).

La finalità protettiva, in questi casi, entra, dunque, a far parte del nucleo qualificante della prestazione, dovendo peraltro modularsi in funzione delle concrete condizioni del paziente e delle peculiarità del caso concreto1 , “al fine di prevenire tutti i rischi potenzialmente incombenti sul degente, alla sola condizione che rientrino nello spettro della prevedibilità”2. E ciò anche quando si tratti non solo e non tanto di curare, bensì di fornire servizi più spiccatamente residenziali o socio-assistenziali a soggetti non autosufficienti o psichicamente labili.

Di notevole interesse, in tal senso, sono due pronunce recenti della Corte di Cassazione. In Sez. 3, n. 9714/2020, Olivieri, Rv. 657767-01, un disabile, mentre era affidato a una Onlus dedita all’attività di “terapia occupazionale”, era morto per soffocamento da ingestione di cibo. La Corte ha riscontrato gli estremi della responsabilità dell’ente, sul presupposto che “le obbligazioni assunte dalla Associazione includevano oltre alle prestazioni strettamente inerenti alle attività occupazionali, anche tutte quelle prestazioni accessorie che si rendevano necessarie alla protezione del soggetto disabile e dunque volte a salvaguardare la sua incolumità -nei locali della Associazione durante il periodo in cui rimaneva affidato agli operatori -anche da atti lesivi compiuti da terzi o autoinflitti (..)”. Al contrario, Sez. 3., n. 14260/20, Gorgoni, Rv. 658317-01, non ha ritenuto sussistente, in capo a un’Onlus che forniva accoglienza ai rifugiati nell’ambito del sistema di cui al d. lgs. n. 140/2005, un obbligo di sorveglianza esteso fino ad impedire il suicidio di un soggetto affetto da schizofrenia (ospitato in una propria struttura), sul presupposto che “il contenuto dell'obbligo di vigilanza e di sorveglianza andava individuato in concreto in relazione a quelle prestazioni di bisogno non strettamente terapeutico e di sorveglianza esigibili da una struttura residenziale aperta, erogante servizi ai rifugiati, anche quelli in condizioni di vulnerabilità, all'interno del complesso sistema dello SPRAR”, sicché non poteva estendersi fino a limitare la libertà personale degli ospiti, dotando l’edificio di presidi (quali lo sbarramento delle finestre per evitare il suicidio per precipitazione) che avrebbero finito per trasformarlo in una struttura di reclusione.

Coerente con tale assetto è la riconduzione di questi obblighi (che, anche se solo con finalità descrittiva, si possono definire “di protezione”) non già all’art. 1375 c.c., bensì all’art. 1374 c.c., quale effetto naturale del contratto concluso con la struttura sanitaria (in tal senso, Sez. 3, n. 22331/14, Rossetti, Rv. 633104-01)1. Non mancano, peraltro, affermazioni secondo cui la salvaguardia dell’incolumità del paziente psichiatrico andrebbe ricondotta “tra quegli obblighi di protezione destinati ad integrare il contenuto del contratto ex art. 1375 c.c.”. In tal senso si segnala, da ultimo, Sez. 3, n. 25288/2020, Guizzi, Rv. 659778-01, relativa al caso di una donna incinta ricoverata nel reparto psichiatrico di un ospedale, la quale, sulla base della diagnosi di “sintomatologia psicotica e gesti autolesivi”, era stata sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio mediante sistemi di contenzione fisica, ma ciononostante era riuscita, con movimento fulmineo, a cavarsi l’occhio, eludendo la sorveglianza visiva posta in essere dal personale sanitario1.

5.2. Gli obblighi di protezione nei confronti dei terzi in ambito sanitario.

Leading case in materia viene tradizionalmente considerato quello in cui la Corte di Cassazione si trovò ad affrontare il problema della legittimazione del neonato a domandare il risarcimento dei danni occorsigli in conseguenza di un’errata manovra ostetrica, posta in essere prima della nascita. Dopo aver escluso che il nascituro potesse assumere la qualità di creditore della prestazione sanitaria secondo il modello del contratto in favore di terzo, la Corte evocò lo schema del contratto protettivo, sul presupposto che “col ricovero della gestante l'ente ospedaliero si obbliga non soltanto a prestare alla stessa le cure e le attività necessarie al fine di consentirle il parto, ma altresì ad effettuare, con la dovuta diligenza e prudenza, tutte quelle altre prestazioni necessarie al feto (ed al neonato), sì da garantirne la nascita, evitandogli -nei limiti consentiti dalla scienza (da valutarsi sotto il profilo della perizia) -qualsiasi possibile danno” (Sez 3, n. 11503/93, Nicastro, Rv. 484431-01).

La responsabilità contrattuale del ginecologo per l’omessa diagnosi di una malformazione fetale venne successivamente riconosciuta, anche nei confronti del padre, da Sez. 3, n. 6735/2002, Vittoria, Rv. 554299-01, che ricondusse anche costui (nonostante l’ordinamento non gli attribuisca alcun potere in ordine alla scelta abortiva della donna) “tra i soggetti protetti dal contratto ed in confronto del quale la prestazione del medico è dovuta”, in virtù “del tessuto dei diritti e dei doveri che secondo l’ordinamento si incentrano sul fatto della procreazione -quali si desumono sia dalla legge 194 del 1978; sia dalla Costituzione e dal codice civile, quanto ai rapporti tra coniugi ed agli obblighi dei genitori verso i figli (artt. 29 e 30 Cost.; artt. 143 e 147, 261 e 279 cod. civ.)”.

Sez. 3, n. 14488/2004, Segreto, Rv. 575702-01, qualificò il contratto concluso tra la gestante e il medico facendo espresso riferimento alla “figura individuata dalla dottrina tedesca” del “contratto con effetti protettivi” nei confronti del nascituro, il quale, una volta venuto al mondo e acquisita la capacità giuridica, potrà “agire per far valere la responsabilità contrattuale per l’inadempimento delle obbligazioni accessorie, cui il contraente sia tenuto in forza del contratto stipulato col genitore o con terzi, a garanzia di un suo specifico interesse”. Quanto al marito della gestante, la sentenza appena citata riprodusse pedissequamente le considerazioni di cui al precedente del 2002. Seguirono, poi, sulla stessa scia, Sez. 3, n. 20320/2005, Purcaro, Rv. 584525-01; Sez. 3, n. 10741/2009, Spagna Musso, Rv. 608388-01; Sez. 3, n. 13/2010, Filadoro, Rv. 611041-01; Sez. 3, n. 2354/2010, Chiarini, Rv. 611337-01; Sez. 3, n. 16754/2012, Travaglino, Rv. 623594-01; Sez. 3, n. 10812/2019, Scarano, Rv. 653826-01, tutte ripetitive del principio di diritto che riconnette la natura contrattuale della responsabilità alla comunanza degli interessi familiari suscettibili di essere incisi dall’inadempimento1. Merita di essere ricordata, in argomento, Sez. 3, n. 9048/2018, Rossetti, Rv. 648487-01, secondo cui un danno risarcibile non può configurarsi, invece, in capo ai fratelli non ancora nati al momento della venuta al mondo del bambino vittima di danno iatrogeno perinatale. Il pregiudiziorappresentato dall’entrare a far parte, con la nascita, di una famiglia più turbata e infelice di quanto sarebbe accaduto se il loro fratello maggiore fosse nato sano, integra, infatti, secondo la Corte, una conseguenza che, in quanto intermediata dalla scelta libera e consapevole dei genitori di concepirli, non può definirsi “immediata e diretta”, alla stregua dell’art. 1223 c.c., rispetto al contegno colposo del medico.

5.3. I limiti della fattispecie: la sentenza n. 14258/2020.

Con la pronuncia n. 14258 dell’8 luglio 2020, la Terza Sezione ha affrontato per la prima volta in maniera diretta la questione del titolo della responsabilità sanitaria invocata, iure proprio, dai parenti del paziente, per il risarcimento dei pregiudizi subiti in conseguenza della morte del proprio congiunto. I precedenti citati nella motivazione (Sez 3., n. 6914/2012, Barreca, non massimata, relativa alla domanda risarcitoria proposta dalla figlia di una degente in una casa di riposo, che era deceduta precipitando dalla finestra della sua stanza; e Sez. 3, n. 5590/2015, Rubino, non massimata, nella quale la qualificazione come extracontrattuale della responsabilità era stata affermata ai soli fini dell’applicazione del termine di prescrizione di cui all’art. 1947 c.c.) non si erano, infatti, confrontati espressamente con la possibilità di inquadrare la fattispecie nell’ambito degli obblighi di protezione, limitandosi ad affermare la natura extracontrattuale della responsabilità, in ragione dell’insussistenza di un contratto tra gli attori e la casa di cura convenuta. Lo stesso era accaduto in altri precedenti che è possibile rinvenire nella materia lavoristica, con riferimento alle domande risarcitorie avanzate (iure proprio) dai familiari della “vittima primaria” di un infortunio, in relazione alla responsabilità del datore ex art. 2087 c.c.

Un consolidato orientamento1 formatosi in tema di ripartizione delle controversie tra giudice ordinario e giudice del lavoro, afferma, a tal proposito, che “esula dalla competenza per materia del giudice del lavoro e resta devoluta alla cognizione del giudice competente secondo il generale criterio del valore la domanda di risarcimento dei danni proposta dai congiunti del lavoratore deceduto non jure hereditario, per far valere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro nei confronti del loro dante causa, bensì jure proprio, quali soggetti che dalla morte del loro congiunto hanno subìto danno e, quindi, quali portatori di un autonomo diritto al risarcimento che ha la sua fonte nella responsabilità extracontrattuale di cui all'art. 2043 c.c.”. Di recente, poi, Sez. L, n. 2/2020, Blasutto, Rv. 656405-01, ha ribadito che “la domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla perdita del rapporto parentale, proposta iure proprio dai congiunti del lavoratore, quali soggetti estranei al rapporto di lavoro, (..) trova la sua fonte esclusiva nella responsabilità extracontrattuale di cui all'art. 2043 c.c.”. Ai fini della ripartizione dell’onere probatorio circa i fatti costitutivi della pretesa, non rileva, quindi, che, quale causa petendi della suddetta domanda, venga dedotto l’inadempimento degli obblighi gravanti sul datore di lavoro alla stregua dell’art. 2087 c.c., “né la circostanza che l'azione aquiliana, oggetto del giudizio, individui il nucleo dell'elemento soggettivo del convenuto in una “porzione” di un’azione contrattuale, soggetta a regole probatorie differenti, sposta il relativo onere ex art. 2697 c.c.”.

Tornando alla sentenza n. 14258 del 2020, il caso affrontato dalla Terza Sezione riguardava un uomo che, a causa dell’insorgenza di difficoltà respiratorie, era stato ricoverato nell’ospedale in cui più volte era già stato curato in passato, per patologie psichiatriche che lo affliggevano da lungo tempo. Durante il ricovero, il paziente si era gettato dalla finestra, morendo. Nel convenire in giudizio la struttura sanitaria per il risarcimento dei danni da perdita del rapporto parentale, i figli ne avevano invocato la responsabilità contrattuale, lamentando la mancata adozione delle misure idonee a scongiurare il suicidio (anche tenuto conto del fatto che la struttura era da tempo a conoscenza delle condizioni psichiche del paziente). Orbene, a fronte della prospettazione degli attori, secondo cui la responsabilità contrattuale sorgerebbe in virtù di un “contatto sociale qualificato, con effetti protettivi anche nei confronti di soggetti terzi” (in primis, gli stretti congiunti del paziente), la Corte opta per la qualificazione extracontrattuale della responsabilità, dal momento che, oltre a non essere parte del contratto concluso dal paziente con la struttura, i suoi familiari non possono neppure essere considerati “terzi protetti” dal suddetto contratto. Lo schema del contratto con effetti protettivi -sostiene la Corte -è infatti applicabile, nel campo della responsabilità sanitaria, alle sole fattispecie che chiamano in causa i c.d. danni da wrongful birth.

Si legge nella motivazione, che, per poter integrare il contenuto del contratto “in chiave di efficacia protettiva verso i terzi”, sotto l’egida della buona fede di cui all’art. 1375 c.c., è necessario “che l’interesse di cui essi siano portatori risulti anch’esso strettamente connesso a quello «regolato già sul piano della programmazione negoziale»”. Ad essere “protetto” dal contratto concluso tra la gestante e la struttura sanitaria è anzitutto il neonato (rectius, il nascituro), la cui posizione è presa in considerazione da diversi indici normativi (non solo la l. n. 194/1978, ma anche la l. n. 1204/1971 e la l. n. 903/1977, e le disposizioni costituzionali di cui all’art. 31, comma 2, e 37, comma 1, Cost.). Ma gli effetti di protezione si irradiano anche a beneficio degli altri membri della famiglia nucleare (padre e fratelli), in quanto titolari dell’interesse correlato al rapporto familiare nel quale il nascituro andrà a inserirsi (e sul quale, quindi, inevitabilmente è destinata a incidere la prestazione, cui la struttura o il medico sono tenuti). La soluzione, supportata dal riferimento all’art. 1375 c.c., sembra effettivamente rispondere a tutti i requisiti enucleati nella riflessione della dottrina tedesca: il terzo è portatore di un interesse (quello all’integrità del rapporto parentale con il nascituro) analogo a quello della madre, creditrice della prestazione; quest’ultima, a sua volta, è titolare di un interesse qualificato alla salvaguardia della posizione giuridica del terzo (in quanto membro dello stesso nucleo familiare); l’eventualità dell’incidenza negativa dell’inadempimento sull’interesse (anche) del terzo è prevedibile dal medico, debitore (o ausiliario del debitore) della prestazione: questi, infatti, non può non prefigurarsi le conseguenze che la nascita di un bambino malformato è suscettibile di determinare nella cerchia dei suoi più stretti congiunti. Il ragionamento ruota, allora, attorno alla convergenza dell’interesse dei terzi verso la salvaguardia dell’incolumità fisica del nascituro, la quale, a sua volta, costituisce l’interesse primario (insieme a quello della puerpera) “strettamente connesso a quello regolato già sul piano della programmazione negoziale”. Focalizzando, quindi, l’attenzione sul rapporto parentale intercorrente tra il paziente psichiatrico e i suoi familiari, la fattispecie esaminata dalla sentenza in esame potrebbe, invero, rivelare punti di contatto con quelle da wrongful birth, nella misura in cui, in entrambi i casi, il medico “prende in carico” la salute (e, in definitiva, la vita) di un soggetto legato agli attori (o in procinto di esserlo) da uno stretto rapporto familiare: rapporto sul quale la scorretta esecuzione della prestazione -attraverso la lesione di quella salute (o la soppressione di quella vita) -è suscettibile di proiettare conseguenze negative.

La Terza Sezione è tornata, peraltro, a marcare la differenza tra le due fattispecie in altre due successive occasioni. In Sez. 3, n. 14615/2020, Sestini, Rv. 658328-01 (di un solo giorno successiva alla n. 14258), la configurabilità del contratto con effetti protettivi del terzo nel solo ambito delle “prestazioni sanitarie afferenti alla procreazione” viene giustificato con la circostanza che in questo campo “il rapporto tra la struttura o il medico e la gestante è idoneo -per la peculiarità della prestazione -a incidere in modo diretto sulla posizione del nascituro e del padre, sì da farne scaturire una tutela necessariamente estesa a tali soggetti (..)”, mentre “non altrettanto può affermarsi (..) in relazione alle prestazioni sanitarie di altro tipo giacché, difettando un’incidenza diretta dell’obbligazione sanitaria sulla loro posizione, non v’è possibilità di sostenere l’esistenza di effetti protettivi e di affermare una responsabilità contrattuale al di fuori del rapporto fra la struttura o il medico e il paziente”. Sez. 3, n. 19188/2020, Cricenti, non massimata, da parte sua individua il discrimen tra le due fattispecie nell’identità/diversità degli interessi dello stipulante (creditore della prestazione) e del terzo: mentre nel contratto finalizzato al parto l’esecuzione della prestazione soddisfa l’interesse del padre allo stesso modo di come soddisfa quello della gestante contraente (cosicché, specularmente, l’inadempimento della prestazione pone i due genitori danneggiati nella medesima posizione); nei contratti finalizzati ad altre prestazioni sanitarie l’interesse (alla cura della salute) del paziente contraente è diverso da quello (all’integrità del rapporto parentale) vantato dai congiunti.

6. Gli obblighi di protezione di interessi patrimoniali dei terzi.

La fattispecie degli obblighi di protezione nei confronti dei terzi può essere declinata anche con riferimento a interessi patrimoniali di questi ultimi.

Assai interessanti si mostrano, in proposito, due recenti pronunce della Terza Sezione, che hanno deciso in maniera opposta fattispecie di responsabilità professionale.

In Sez. 3, n. 7746/2020, Guizzi, Rv. 657617-01, l’attore aveva concluso un contratto di compravendita immobiliare con colui che appariva essere il rappresentante della venditrice, in virtù di una procura speciale autenticata da un notaio. Una volta scoperto di essere stato vittima di una truffa, dal momento che la vera proprietaria dell’immobile non risultava aver rilasciato alcuna procura per la vendita, l’acquirente aveva convenuto in giudizio il notaio che, a suo dire, in sede di redazione della procura speciale, aveva omesso di identificare diligentemente la donna. La Corte giunge a predicare la natura contrattuale della responsabilità azionata dal terzo nei confronti del notaio, non tanto in virtù degli effetti protettivi del contratto di prestazione d’opera intellettuale, intercorso tra la sedicente proprietaria dell’immobile e il professionista e finalizzato al conferimento della citata procura, quanto piuttosto nel “comportamento fonte di obblighi, tanto ai sensi dell'ultima alinea dell'art. 1173 c. c. quanto dell'art. 1375 c. c., anche nei confronti del terzo (..) destinato ad acquistare l'immobile dal soggetto rappresentato in forza di tale procura”. Richiamando un passo della motivazione di Sez. 1, n. 11642/2012, Scaldaferri, Rv. 623270-01 (relativa alla responsabilità dell’advisor per l’erronea fissazione del prezzo di emissione di nuove azioni in occasione di un aumento del capitale di una società), il Collegio sottolinea il ruolo che, al riguardo, riveste la connotazione professionale dell’attività svolta dal convenuto, che giustifica il sorgere di “obblighi (essenzialmente di protezione) nei confronti di tutti coloro che siano titolari degli interessi la cui tutela costituisce la ragione della prescrizione di quelle specifiche condotte”. Logica conclusione del ragionamento è la statuizione che, a fronte dell’allegazione dell’inadempimento da parte del terzo “protetto”, grava sul notaio -secondo lo schema tipico della responsabilità contrattuale -l’onere della prova di avere adempiuto alla propria obbligazione con la diligenza esigibile alla stregua dell’art. 1176, comma 2, c.c.

A conclusioni sostanzialmente analoghe era giunta Sez. 2, n. 9320/2016, Scarpa, Rv. 639919-01, occupatasi di un caso in cui un istituto di credito aveva concesso alcuni mutui a una società costruttrice, a garanzia dei quali era stata iscritta ipoteca su un’area gravata da un vincolo di inedificabilità (non rilevato nella relazione redatta dal notaio su incarico del mutuatario), che aveva successivamente comportato l’annullamento della concessione edilizia e la demolizione delle opere realizzate. La banca mutuante aveva allora convenuto in giudizio il notaio, invocandone la responsabilità contrattuale, in virtù della quale chiedeva di essere risarcita dei conseguenti danni patrimoniali. La Seconda Sezione accolse tale prospettazione, ponendovi a fondamento un duplice (alternativo e/o concorrente) titolo: un vero e proprio contratto a favore di terzo, quale poteva qualificarsi quello concluso dal mutuatario col notaio; ovvero un’ipotesi di responsabilità da contatto sociale, “fondata sull'affidamento che la banca mutuante ripone nel notaio, in quanto esercente una professione protetta, ed avente perciò lo stesso contenuto di un'obbligazione contrattuale”.

A diverso esito è pervenuta, invece, Sez. 2, n. 29711/2020, Abete, Rv. 660023-01. In vista della vendita di un immobile, la proprietaria aveva incaricato un geometra di redigere una relazione tecnica, nella il bene era stato classificato come “non di lusso”. A seguito di un accertamento fiscale, l’Agenzia delle Entrate aveva qualificato, al contrario, il cespite come “di lusso”, sanzionando l’acquirente e costringendola a sopportare i costi del frazionamento dell’appartamento, al fine di ricondurlo alla categoria “non di lusso”. L’acquirente aveva, quindi, convenuto in giudizio il professionista, invocandone la responsabilità di natura contrattuale. La Cassazione ha rigettato la domanda, motivando non già in ordine ai possibili effetti protettivi che il contratto stipulato tra il geometra e la proprietaria potesse spiegare nei confronti dell’acquirente, bensì sul terreno della responsabilità da “contatto sociale”, ritenuta configurabile “non in ogni ipotesi in cui taluno, nell'eseguire un incarico conferitogli da altri, nuoccia a terzi, come conseguenza riflessa dell'attività così espletata, ma soltanto quando il danno sia derivato dalla violazione di una precisa regola di condotta, imposta dalla legge allo specifico fine di tutelare i terzi potenzialmente esposti ai rischi dell'attività svolta dal danneggiante, tanto più ove il fondamento normativo della responsabilità si individui nel riferimento dell'art. 1173 c.c. agli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell'ordinamento giuridico”

  • obbligazione
  • responsabilità
  • responsabilità contrattuale
  • danni e interessi

IX)

DANNO CONTRATTUALE E DANNI CONSEQUENZIALI

(di Laura Mancini )

Sommario

1 I modelli teorici del danno giuridicamente rilevante. - 2 Il danno come categoria unitaria. - 3 Il risarcimento nella teoria dell’obbligazione. - 4 La tesi dell’autonomia del danno contrattuale. - 5 La semplificazione probatoria nel risarcimento del danno contrattuale. - 6 I c.d. danni consequenziali. - 7 Il lucro cessante tra danno meramente patrimoniale e danno consequenziale. - 8 Prevedibilità del danno risarcibile e causa concreta del contratto. - 9 Il danno contrattuale nella giurisprudenza di legittimità.

1. I modelli teorici del danno giuridicamente rilevante.

La riflessione giuridica sul danno è stata a lungo dominata dalla tendenza ad elaborare, attraverso un processo di induzione generalizzante, un modello teorico unitario in grado di comprendere e descrivere ogni forma di pregiudizio giuridicamente rilevante.

Tale approccio ricostruttivo è stato condizionato sia dalla concezione materialistica di matrice romanistica, incline a considerare il danno esclusivamente in termini fenomenico-naturalistici, sia dal dibattito dogmatico sul nesso di causalità, dalle cui suggestioni è scaturita una nozione di pregiudizio risarcibile chiaramente tributaria delle strutture concettuali della responsabilità extracontrattuale.

Della stretta assonanza tra la nozione di danno così elaborate e il paradigma aquiliano si ha traccia nella stessa disciplina del codice civile e, in particolare, negli artt. 1223, 1225 e 1227 c.c., la cui formulazione sembra postulare un pregiudizio conformato come conseguenza ontologicamente distinta dall’evento lesivo.

Nel corso del tempo è andato, tuttavia, delineandosi un indirizzo interpretativo che ha rifiutato la reductio ad unum auspicata dall’impostazione tradizionale, sul presupposto che la trasposizione delle categorie concettuali proprie del paradigma aquiliano nella responsabilità contrattuale comporta una svalutazione dei profili di spiccata autonomia esibiti dal danno da inadempimento.

Al contrario, avverte la dottrina per cui è parola, l’inerenza della responsabilità contrattuale al rapporto obbligatorio incide significativamente sulla fisionomia del danno -che si configura come la frustrazione dell’aspettativa di realizzazione dell’utilità perseguita mediante la stipula del contratto -e sull’oggetto del risarcimento, che coincide con l’equivalente monetario della prestazione rimasta inadempiuta.

Tale impostazione riposa sull’idea secondo la quale il sorgere della responsabilità per inadempimento comporta una conversione dell’obbligazione originaria nell’obbligazione risarcitoria senza, tuttavia, che ne risulti alterata l’identità, di modo che il risarcimento, lungi da costituire oggetto di un obbligo autonomo e succedaneo, vale a surrogare la situazione di interesse presidiata dal diritto di credito inadempiuto.

Il confronto tra la prospettiva unitaria e la concezione autonomistica del danno contrattuale, al quale anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione, soprattutto in tempi recenti, ha offerto un significativo contributo, trae origine dal più ampio dibattito dogmatico sulla nozione generale di danno.

È, infatti, noto come la riflessione dottrinale dell’ultimo secolo abbia identificato l’oggetto della deminutio in cui si sostanzia il danno risarcibile ora con l’interesse protetto dall’ordinamento, ora con il bene attinto dalla condotta antigiuridica. Dall’osservazione da tali diversi angoli prospettici sono scaturiti esiti interpretativi variegati, ma sintetizzabili in due fondamentali orientamenti facenti capo alla teoria normativa e alla concezione causale del danno.

La prima di tali ricostruzioni, che risale alla dottrina tedesca (NEUNER, Interesse und Vermensschaden, in Arch. civ. pr., CXXXIII, 1931, 277 e ss.), ma che è stata recepita anche da alcuni autori italiani ((DE CUPIS, Danno, in Enc. del dir., XI, Milano, 1962; ALPA, Trattato di diritto civile, IV, Milano, 1999), si pone nel solco del progressivo superamento -avviato dalla dottrina francese attraverso l’elaborazione della nozione di danno, quale sintesi dei dommages e degli intérêts, recepita nel Codice Napoleonico -tanto della teoria reale di tradizione romanistica, quanto della teoria differenziale di matrice tedesca, rivelatesi nel tempo inidonee ad offrire un fondamento dogmatico valido per tutte le forme di pregiudizio suscettibili di riparazione, ivi compreso il danno non patrimoniale (tra i detrattori della teoria differenziale si veda, nella dottrina italiana, SCOGNAMIGLIO, Appunti sulla nozione di danno, in Scritti giuridici, Padova, 1996, I, 470 e ss.).

Infatti, alla stregua del modello reale, la tutela risarcitoria era limitata alle ipotesi di distruzione o alterazione della realtà materiale, mentre per la teoria differenziale (MOMMSEN, Zur Lehre von dem Interesse, Braunschweig, 1855) il danno risarcibile poteva essere identificato esclusivamente con la differenza tra l’ammontare del patrimonio in un certo momento e l’ammontare che il patrimonio avrebbe avuto senza il verificarsi dell’evento dannoso (cd. differenzehypothese).

La concezione normativa si prefigge, quindi, di superare le insufficienze dell’approccio patrimonialistico proprio di tali ultime impostazioni contrapponendovi una nozione di danno esclusivamente giuridica, in forza della quale elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria non è più la distruzione del bene o la diminuzione del patrimonio, ma la stessa lesione dell’interesse protetto dalla norma giuridica.

Il danno non costituisce un’entità materialmente percepibile e ulteriore rispetto all’evento dannoso (o all’inadempimento), ma semplicemente una valutazione economica dell’evento stesso (REALMONTE, Il problema del rapporto di causalità nel risarcimento del danno, Milano, 1967).

Sulla dematerializzazione e depatrimonializzazione del danno implicate da tale ricostruzione si sono, tuttavia, concentrate le critiche dei sostenitori della teoria causale (per la quale si vedano, tra gli altri, GORLA, Sulla cosiddetta causalità giuridica: «fatto dannoso e conseguenze», in Riv. dir. comm., 1951, I, 405 e più recentemente FRANZONI, L’illecito, Milano, 2010), secondo la quale l’evento di danno, risultante dalla violazione di una situazione giuridica soggettiva meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, deve, invece, essere considerato autonomamente rispetto al danno vero e proprio (cd. danno conseguenza), da individuarsi nelle perdite patrimoniali o non patrimoniali ad esso conseguenti.

Muovendo dall’interpretazione sistematica degli artt. 1223 c.c. e 2043 c.c., l’approccio causale scompone l’accertamento del danno risarcibile in due autonomi e consecutivi segmenti, il primo dei quali volto a identificare il nesso di causalità materiale che avvince la condotta all’evento di danno, e il secondo diretto a verificare il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose (GORLA, Sulla cosiddetta causalità giuridica: «fatto dannoso e conseguenze», cit.).

Tale ricostruzione riposa sul principio di integrale riparazione del danno, secondo il quale il risarcimento deve porre il danneggiato nella medesima situazione in cui si trovava prima dell’inadempimento - e, quindi, sul più generale canone privatistico in forza del quale ogni attribuzione patrimoniale deve avere una causa in grado di giustificarla - e rappresenta la fase più matura del processo di secolarizzazione della responsabilità civile di cui sono espressioni significative la sempre più netta emancipazione dell’illecito civile dall’illecito penale, il dissolvimento della connotazione sanzionatoria della responsabilità civile e la configurazione della tutela risarcitoria in termini di pura reazione al danno.

L’evento, per quanto ingiusto, non è mai di per sé dannoso. Esso si inserisce in una realtà più complessa e induce il danneggiato a compiere una scelta tra sopportare il prodursi del danno o agire positivamente per evitarlo. Solo questa situazione di inerzia o di attività è valutabile sotto il profilo economico, mentre “l’evento, in quanto fatto fisico contrastante con il soddisfacimento di un interesse, in sé considerato non è mai un danno, ma produce un danno che consisterà o nell’insoddisfazione di un bisogno o in un’attività economicamente costosa della persona colpita che assicuri ugualmente a questa il soddisfacimento del suo interesse” (CORSARO, Responsabilità civile, in Enc. giur., XXI, Roma, 1988).

La dottrina in esame prende in considerazione la situazione determinata dall’evento e non l’evento in sé, in ossequio al tenore dell’art. 2043 c.c., a mente del quale il danno risarcibile è quello ‘causato’ da un fatto illecito.

Il danno costituisce, dunque, un elemento eventuale del fatto illecito, ben potendo la condotta dolosa o colposa determinare un evento di danno ingiusto senza che ad esso consegua un pregiudizio, mentre la tutela risarcitoria risulta predisposta dall’ordinamento quale specifica reazione ad un effettivo depauperamento patrimoniale o non patrimoniale.

L’approccio causale tende, in definitiva, ad attribuire rilevanza indefettibile alla perdita o alla diminuzione di un’utilità ottenuta dal danneggiato attraverso il bene-interesse oggetto della situazione giuridica soggettiva lesa. In tale ottica la lesione della situazione giuridica soggettiva cagiona un danno risarcibile nella misura in cui comporta la frustrazione del soddisfacimento dei bisogni o del conseguimento delle utilità per i quali la stessa situazione giuridica soggettiva è predisposta dall’ordinamento giuridico.

Tale impostazione è stata recepita in via maggioritaria dalla giurisprudenza di legittimità, ad avviso della quale il vigente sistema della responsabilità civile sia «improntato al concetto di perdita-conseguenza e non sull’evento lesivo in sé considerato» (Sez. 6-3, n. 21508/2020, Gorgoni, Rv. 659566-01).

Secondo tale orientamento, cui ha mostrato di prestare adesione la Terza Sezione civile, il sistema del risarcimento del danno delineato dal codice civile esclude in modo irrevocabile l’ipotesi di una configurabilità del danno patrimoniale in re ipsa, in quanto l’obbligazione risarcitoria non insorge in seguito alla mera colposa o dolosa violazione del diritto (antigiuridicità della condotta), ma soltanto a causa delle conseguenze pregiudizievoli eventualmente prodottesi come effetto di tale violazione, conseguenze che, riguardate sul piano degli accadimenti fenomenici implicano un evento ulteriore ed ontologicamente apprezzabile rispetto a quello determinativo della violazione del diritto (Sez. 3, n. 11203/2019, Olivieri, Rv. 653590-01; Sez. 3, n. 13071/2018, Graziosi, Rv. 648709-01).

2. Il danno come categoria unitaria.

I fautori dell’omogeneità strutturale tra il danno aquiliano e il danno contrattuale definiscono quest’ultimo come la ripercussione che la mancata attuazione della prestazione produce nel patrimonio del creditore (PACIFICO, Il danno nelle obbligazioni, Napoli, 2008, 119; SMORTO, Il danno da inadempimento, Padova, 2005, 61).

Secondo tale prospettiva, il danno non si identifica, quindi, con la mancata attuazione del rapporto contrattuale, ma coincide con la conseguenza del mancato soddisfacimento dell’interesse del creditore. Pertanto, anche in materia di danno contrattuale deve trovare applicazione il principio secondo il quale il risarcimento può essere riconosciuto solo in caso di pregiudizio effettivamente sussistente, senza che assuma rilevanza se il fatto generatore sia da identificarsi nell’illecito o nell’inadempimento.

La teoria unitaria intravede una conferma testuale dell’uniformità ontologica dei danni nell’art. 1223 c.c., ritenendo che la relativa formulazione, rievocando la configurazione del pregiudizio risarcibile in termini di conseguenza immediata e diretta, sia egualmente congeniale al contesto aquiliano e a quello della responsabilità per inadempimento.

Vengono, altresì, valorizzati la collocazione della norma nell’ambito della disciplina dell’inadempimento delle obbligazioni e il rinvio operato dall’art. 2056 c.c., per effetto del quale l’art. 1223 c.c. trova applicazione, quale regola di determinazione del risarcimento, anche nella responsabilità per fatto illecito.

Le indicazioni offerte dalla lettera di tali disposizioni inducono la dottrina in esame, per un verso, a porre il danno contrattuale e quello extracontrattuale sullo stesso piano o ad avvicinarli sensibilmente (così GRISI, Sub art. 1223 c.c., in Commentario del codice civile, diretto da GABRIELLI, Torino, 154-155) e, per altro verso, a identificare il danno contrattuale nelle sole conseguenze dell’inadempimento rappresentate dal danno emergente e dal lucro cessante, così escludendo dal novero dei danni risarcibili la prestazione inadempiuta in sé considerata. L’inadempimento deve, quindi, considerarsi estraneo alla struttura del danno in quanto evento in sé insuscettibile di arrecare un qualsiasi pregiudizio nel patrimonio del soggetto che lo subisce (PACIFICO, Il danno nelle obbligazioni, cit., 3-4).

L’assunto dell’unitarietà del danno contrattuale ed extracontrattuale è, inoltre, accolto da chi rimarca l’autonomia dell’azione di risarcimento rispetto a quella di adempimento, sul presupposto che il pregiudizio non possa identificarsi con l’aspettativa non realizzata e, cioè, con il valore della prestazione non adempiuta, ma, come nel danno aquiliano, deve essere commisurato alla perdita effettivamente subita dal creditore sempre che questi ne abbia offerto la prova (NICOLÒ, Tutela dei diritti, in Commentario del codice civile a cura di SCIALOJA-BRANCA, sub artt. 2740-2899, Bologna-Roma, 1945, 5 e ss.).

Altra dottrina trae conferma della validità dell’approccio unitarista dall’unificazione, operata dall’art. 2056 c.c., tra la disciplina sul danno nei contesti contrattuale ed extracontrattuale, precisando, tuttavia, che i danni prodotti nelle due specie di responsabilità sono assimilabili solo con riferimento alle conseguenze del fatto dannoso (così BUSNELLI-PATTI, Danno e responsabilità civile, Torino, 2013, 10 e ss.; in senso analogo FRANZONI, Il danno risarcibile, in Trattato della responsabilità civile, Milano, 2010, 9).

Anche in giurisprudenza si registrano enunciazioni coerenti con l’impostazione unitaria, segnata dalla matrice pervasiva del paradigma aquiliano, in forza della quale il danno contrattuale, al pari di quello aquiliano, integra una conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento che deve essere allegata e provata dal creditore.

Paradigmatica, in proposito, è Sez. 1, n. 21140/2007, Ceccherini, Rv. 599341-01, secondo la quale anche in tema di responsabilità contrattuale spetta al danneggiato fornire la prova dell’esistenza del danno lamentato e della sua riconducibilità al fatto del debitore. Infatti, secondo la pronuncia in esame, l’art. 1218 cod. civ., che pone una presunzione di colpevolezza dell’inadempimento, non modifica l’onere della prova che incombe sulla parte che abbia agito per l’accertamento di tale inadempimento, allorché si tratti di accertare l’esistenza del danno (in senso conforme si veda Sez. 3, n. 5960/2005, Lupo, Rv. 580853-01).

Nel solco di tale insegnamento la Corte di Cassazione ha recentemente chiarito che, nel caso di ritardo nella consegna di immobile conseguente all’inadempimento di incarico d’opera professionale (nella specie, progettazione e direzione dei lavori di costruzione), il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno con l’evento dannoso e a configurare un vero e proprio danno punitivo, ponendosi così in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (n. 26972 del 2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore e più recente intervento nomofilattico (n. 16601 del 2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost.; ne consegue che è onere del proprietario provare di aver subito un’effettiva lesione del proprio patrimonio per non aver potuto locare l’immobile ovvero per aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, con valutazione rimessa al giudice del merito, che può al riguardo avvalersi di presunzioni, sulla base però di elementi indiziari allegati dallo stesso danneggiato, diversi dalla mera mancata disponibilità o godimento del bene (Sez. 3, n. 31233/2018, Iannello, Rv. 651942-01).

La tesi della fisionomia unitaria del danno riposa, quindi, sull’assunto per il quale la delimitazione del danno risarcibile è affidata a regole di natura causale egualmente valide in entrambi i contesti, contrattuale e aquiliano, così ponendosi in continuità con la nota teoria, cui si è fatto cenno, che propone una scomposizione del nesso causale in due segmenti, il primo dei quali, il nesso di causalità materiale, è interno al fatto dannoso e soggiace alla regola condizionalistica, sia pure corretta secondo i criteri della causalità adeguata, e il secondo, è esterno al fatto dannoso ed è soggetto alla causalità giuridica.

Orbene, l’affermazione dell’opposta tesi fautrice dell’autonomia del danno contrattuale rispetto a quello aquiliano prende le mosse proprio dalla confutazione dell’approccio causale.

Invero, sul finire degli anni ’60 del secolo scorso, una parte della dottrina ha sottoposto a critica tale impostazione, evidenziando che, se il pregiudizio risarcibile consiste nella perdita o nella diminuzione di valore del bene, esso non puidentificarsi in una «realtà del mondo esteriore», ma si risolve nella portata economica di tali modificazioni e, segnatamente, nel loro valore oggettivo espresso dal mercato (REALMONTE, Il problema del rapporto di causalità nel risarcimento del danno, cit., 85-86).

Ha iniziato, così, a prendere corpo il convincimento che tra le diverse poste di danno che l’art. 1223 c.c. implica non possa essere annoverato il danno da mancata prestazione o consistente nella perdita del bene, ma soltanto quei pregiudizi consequenziali che «rappresentano lo strumento tramite il quale introdurre una componente soggettiva nella valutazione del danno» (SMORTO, Il danno da inadempimento, cit., 89), il cui prototipo è costituito dal lucro cessante.

Nella nuova prospettiva il danno contrattuale non si risolve in una valutazione economica di un accadimento naturale, ma si verifica con la mediazione di un fatto negativo che costituisce conseguenza immediata e diretta dell’evento.

Con specifico riguardo al lucro cessante, la dottrina in esame discerne tra l’ipotesi in cui esso costituisce un evento distinto e successivo rispetto all’inadempimento (quale potrebbe essere quella della perdita economica derivante dal mancato compimento di negozi di sfruttamento economico o di disposizione del bene danneggiato o perduto) da quelle in cui il mancato guadagno consiste nella valutazione del diritto leso sotto il profilo non del valore di scambio, ma del valore d’uso (ovvero del riflesso in forma monetaria della compromissione delle possibilità di impiego di un bene), così introducendo la classificazione tra lucro cessante intrinseco ed estrinseco (BELVEDERE, Causalità giuridica?, in Riv. dir. civ., 2006, 19).

Da tali riflessioni scaturisce, altresì, la considerazione secondo la quale la teoria causale, che concepisce il danno risarcibile in termini di entità distinta dall’evento di danno e a questo collegata da un nesso di causalità giuridica, risulta confacente alla sola responsabilità aquiliana, mentre non può essere trasposta nel rapportoobbligatorio se non nell’ipotesi in cui l’inadempimento, di per sé solo suscettibile di tutela risarcitoria, attinga anche beni-interessi esterni all’oggetto della prestazione.

3. Il risarcimento nella teoria dell’obbligazione.

Il processo di emancipazione del danno contrattuale dallo schema causalistico aquiliano muove dall’esigenza di estendere l’indagine, a lungo concentrata sui soli profili strutturali del danno, al contenuto dell’obbligazione risarcitoria e al suo legame con il rapporto obbligatorio.

È venuta, così, delineandosi una tendenza che attribuisce al risarcimento del danno contrattuale portata surrogatoria dell’inattuazione dell’obbligazione originaria e funzione sostitutiva della prestazione rimasta inadempiuta, nell’ottica della rivalutazione del legame che intercorre tra la disciplina del risarcimento e il regime dell’obbligazione e che, invece, come si è visto, le stesse norme codiscistiche sul risarcimento del danno da inadempimento sembrano trascurare (PACIFICO, Il danno nelle obbligazioni, cit., 80).

Una delle versioni più autorevoli di tale ricostruzione configura il risarcimento del danno non come l’oggetto di un’obbligazione nuova ed autonoma, ma come un vincolo intrinseco e coessenziale all’obbligazione originaria (SATTA, L’esecuzione forzata, Torino, 1954, 5-7). In particolare, l’attivazione della responsabilità determina una trasformazione del rapporto obbligatorio che, tuttavia, non vede alterata la sua identità giuridica, dal momento che l’obbligo risarcitorio rappresenta lo svolgimento del vincolo di responsabilità coevo al sorgere dell’obbligazione, nonché lo strumento di regolamentazione della medesima situazione di interessi protetta dal diritto di credito inadempiuto.

Tra i sostenitori della teoria della persistenza dell’obbligazione nonostante l’inadempimento e, precisamente, del trapasso dall’obbligazione primaria a quella, succedanea, avente ad oggetto il risarcimento del danno, vi è chi ha evidenziato che con l’azione risarcitoria si fa valere pur sempre l’obbligazione originaria con le sue naturali appendici, così che, anche ai fini dell’azione risarcitoria è sufficiente fornire la prova della costituzione del rapporto obbligatorio (POLACCO, Le obbligazioni nel diritto civile italiano, Roma, 1915, 479).

Secondo un’altra impostazione (MENGONI, Responsabilità contrattuale, in Enc. del dir., XXXIX, Milano, 1988 1072-1073), nel caso in cui la prestazione inadempiuta divenga impossibile, l’obbligazione si estingue, ma continua ad esistere identico a sé stesso il rapporto obbligatorio inteso come rapporto fondamentale, ovvero come struttura complessa formata da diritti e obblighi, poteri e soggezioni, il cui contenuto può modificarsi senza che il rapporto perda la sua identità giuridica.

Si evidenzia che l’art. 1218 c.c. non regola espressamente la sorte dell’obbligazione in caso di impossibilità sopravvenuta imputabile al debitore, limitandosi a sancire l’obbligo risarcitorio. Eppure, poiché l’estinzione è espressamente prevista per la sola ipotesi di impossibilità non imputabile, ai sensi dell’art. 1256, comma 1, c.c., deve ritenersi, a contrario, che, in caso di impossibilità imputabile, l’obbligazione persista, sia pure trasformandosi in obbligazione risarcitoria (MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, III, Milano, 1959, 124; GIORGIANNI, L’inadempimento, Milano, 1975, 175).

Taluno ha spiegato il mutamento legale dell’oggetto dell’obbligazione primaria inadempiuta in prestazione secondaria risarcitoria invocando l’istituto della surrogazione oggettiva. Si sarebbe, dunque, al cospetto di una perpetuatio obligationis in forza della quale il debitore deve eseguire una nuova prestazione volta a soddisfare un interesse succedaneo del creditore coincidente con quello alla riparazione del danno. La persistenza, sia pure con oggetto mutato, dell’obbligazione originaria fa sì che rimanga immutato il titolo dell’obbligazione, con la conseguenza che la sua eventuale caducazione travolge anche l’obbligazione risarcitoria, e che restino fermi i diritti accessori, le garanzie e il diritto alla controprestazione correlati all’obbligazione originaria (BIANCA, Diritto civile, V, Milano, 2012, 122).

Sulla stessa linea, altra dottrina ha posto in evidenza come l’obbligo risarcitorio sia funzionale al regolamento della medesima situazione di interessi, nel senso che mira a garantire al contraente non inadempiente il conseguimento del medesimo risultato economico che avrebbe ottenuto se il contratto fosse stato esattamente inadempiuto. Detto obiettivo rientra nel processo di manutenzione del contratto (DI MAJO, Le tutele contrattuali, cit.,155).

In tale prospettiva il risarcimento del danno contrattuale rappresenta, in definitiva, una forma di attuazione dell’interesse perseguito dalla parte non inadempiente e, segnatamente, di soddisfazione dello stesso, sia pure nella sola dimensione economica.

Ciò non significa che deve sussistere una perfetta corrispondenza tra il perimetro della prestazione e quello del risarcimento, ben potendo quest’ultimo estendersi all’interesse rimasto inattuato e includere le conseguenze ulteriori dell’inadempimento che non si esauriscono con la perdita costituita dal valore oggettivo e soggettivo della prestazione rimasta inattuata.

Tali conseguenze soggiacciono al regime delineato dall’art. 1223 c.c. e, pertanto, sono risarcibili soltanto se riconducibili all’interesse inattuato espresso dall’obbligazione e ad esso legati da un nesso di causalità giuridica (DI MAJO, Le tutele contrattuali, cit., 162).

In senso analogo si è espressa l’opinione secondo la quale, se l’interesse del creditore rimane insoddisfatto a causa dell’inadempimento, all’obbligo primario si aggiunge (ove la prestazione sia possibile o utile) o si sostituisce, in caso contrario, un’obbligazione risarcitoria che costituisce una conversione legale dell’obbligo primario e si commisura all’interesse creditorio (BRECCIA, Le obbligazioni, in Trattato di diritto privato a cura di IUDICA-ZATTI, Milano, 1991, 63).

Anche per altra dottrina il risarcimento del danno è intrinseco al rapporto obbligatorio inteso come struttura complessa costituita da un insieme funzionalmente unitario di effetti giuridici, i quali possono mutare senza che il rapporto perda la sua identità. «Esso non è un’entità normativa ontologicamente distinta dalle singole posizioni giuridiche che lo costituiscono, ma nemmeno è semplicemente la loro somma: i singoli elementi ricevono la loro determinazione di senso dall’essere posti nella struttura unitaria del rapporto; se ne fossero separati cesserebbero di essere ciò che prima erano. Si chiarisce così l’affermazione, del tutto esatta, che “il risarcimento del danno è intrinseco e coessenziale all’obbligazione”. Pur avendo un oggetto diverso da quello del dovere primario di prestazione rimasto inadempiuto, l’obbligo risarcitorio, in cui si svolge il vincolo di responsabilità coevo al sorgere dell'obbligazione, è pur sempre ordinato al regolamento della medesima situazione di interessi» (MENGONI, Responsabilità contrattuale, cit., 1096).

In senso contrario all’impostazione in esame, una parte della dottrina ha rimarcato la netta differenza tra l’obbligazione primaria e quella risarcitoria, ponendo, tuttavia, in evidenza come la seconda sorgendo non estingue la prima come nel caso della novazione (CARNELUTTI, Appunti sull’obbligazione, in Riv. dir. comm., 1915, 1, 621)

Altri autori hanno, invece, affermato che l’obbligazione risarcitoria nasce dalla legge e non costituisce una fase successiva dell’obbligazione rimasta inadempiuta, la quale si estingue con l’impossibilità sopravvenuta senza che assuma rilevanza l’imputabilità della stessa (GRISI, Inadempimento e fondamento dell’obbligazione risarcitoria, a cura di FRANCESCO RISCELLO, Studi in onore di Davide Messinetti, Napoli,127).

La stessa dottrina ha, tuttavia, precisato che il risarcimento ha una duplice valenza, sostitutiva in ipotesi di inadempimento definitivo che non è associato all’estinzione dell’obbligazione, e compensativa laddove la prestazione sia risultata inadempiuta per impossibilità sopravvenuta.

La costruzione teorica che valorizza il collegamento tra obbligazione originaria e obbligazione risarcitoria sembra avere ispirato il codice civile tedesco nel quale vige la distinzione tra il risarcimento Statt der leistung (invece della prestazione) e il risarcimento Neben der leistung (oltre alle prestazioni) (per la valorizzazione di tale spunto comparatistico, si veda ancora DI MAJO, Le tutele contrattuali, cit., spec. 101).

Una parte della dottrina ritiene che tale impostazione sia stata recepita anche nel nostro ordinamento e che di tanto si avrebbe riscontro nella previsione dell’art. 1225 c.c., a mente del quale, in caso di inadempimento non dipendente da dolo, limita il risarcimento al «danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione». Alla stregua di tale indicazione positiva alcune poste di danno, pur prodottesi nella sfera giuridica del creditore e pur collegate eziologicamente all’inadempimento, restano a carico del creditore, se non erano prevedibili al momento della nascita dell’obbligazione.

Alla stregua dell’interpretazione in esame, l’art. 1225 c.c. introduce il principio per il quale non è risarcibile la lesione degli interessi che non siano presidiati dall’obbligazione, ma risultino esorbitanti rispetto all’aspettativa del creditore. Si è, quindi, al cospetto di un importante parametro di delimitazione del danno contrattuale risarcibile, coincidente con l’insieme degli interessi dedotti in contratto, in forza del quale non è suscettibile di ristoro il danno che abbia un legame soltanto occasionale con il contratto (DI MAJO, La responsabilità contrattuale. Modelli e rimedi, cit., 120-121). In materia contrattuale tale criterio si sostituisce a quello della normalità dei vantaggi connessi all’adempimento e vanificati dall’inadempimento che costituisce estrinsecazione della regola della causalità giuridica.

In definitiva, secondo l’orientamento interpretativo in parola, la regola dettata dall’art. 1225 c.c. costituisce un corollario dell’aspettativa del creditore alla prestazione che, in sede di risarcimento, si converte nel suo valore economico (il danno emergente), nonché nei profitti da essa conseguibili (lucro cessante).

In tale prospettiva il danno contrattuale è un danno da aspettativa irrealizzata, da intendersi come una situazione giuridica inattiva consistente nella destinatarietà dell’obbligo di cui altri è titolare, contrapposta all’obbligazione risarcitoria della responsabilità extracontrattuale, che, invece, mira a rimuovere il costo dei danno prodotto dall’azione dannosa e ad essa giuridicamente riconducibile in virtù del nesso di causalità adeguata (DI MAJO, Le tutele contrattuali, cit., spec. 107).

Difatti l’art. 2056 c.c. non rinvia all’art. 1225 c.c. proprio perché in ambito aquiliano manca un criterio selettivo del danno risarcibile che non sia il nesso eziologico, sia pure temperato mediante il canone della causalità adeguata al fine di scongiurare derive sanzionatorie.

Tale filtro è, invece, previsto nella responsabilità per inadempimento perché l’obbligazione risarcitoria mira a soddisfare l’interesse primario del creditore, sia pure nella forma succedanea e necessariamente imperfetta dell’equivalente monetario, e ad attribuire all’avente diritto insoddisfatto il valore di scambio della sua pretesa creditoria che non sia più attuabile in natura ovvero non più utile.

4. La tesi dell’autonomia del danno contrattuale.

Superando l’atteggiamento dottrinale incline a privilegiare un’analisi soltanto strutturale -e non contenutistica -del danno, le tesi autonomiste sono accomunate dall’intendimento secondo il quale il danno contrattuale gode di una propria identità ed autonomia funzionale rispetto all’omologa figura aquiliana in quanto, a differenza di questo, è diretto a porre rimedio alla mancata attuazione dello scambio. In particolare, l’interesse all’attuazione dello scambio integra un’aspettativa che, con la stipula del contratto, sorge nel patrimonio del contraente.

Invero, se la disciplina del risarcimento del danno extracontrattuale mira a porre a carico del danneggiante il costo del pregiudizio arrecato nella sfera del danneggiato, il risarcimento del danno contrattuale tende a far conseguire al contraente non inadempiente il medesimo risultato economico che avrebbe ottenuto se il contratto fosse stato esattamente adempiuto.

Nel primo caso il risarcimento assolve ad una funzione riparatorio-compensativa, nel secondo ad una funzione sostitutiva.

Il danno aquiliano costituisce un elemento autonomo nella fattispecie dell’illecito, in quanto consiste nell’equivalente pecuniario di un fatto esterno rispetto alla condotta o all’evento lesivo. Il danno contrattuale viene, invece, ad identificarsi con l’inadempimento (DI MAJO, Le tutele contrattuali, cit., 91 e ss.).

Sulla scorta di tali premesse, le dottrine autonomistiche ritengono che la stessa impostazione codicistica, la quale, attraverso i richiami contenuti nell’art. 2056 c.c. sembra confermare la conformazione unitaria del danno contrattuale e aquiliano, non sia, in verità, decisiva, essendo contrastata da solide argomentazioni sistematiche di segno contrario.

La ragione principale che vale a denotare il danno contrattuale in termini di autonomia viene identificata nel fatto che l’aspettativa dalla cui inattuazione esso origina si colloca in un rapporto e, nella maggior parte dei casi, in un rapporto di scambio.

Secondo una prima impostazione, il creditore intanto può pretendere il valore economico della prestazione rimasta inadempiuta, in quanto adempia la propria obbligazione, di modo che soltanto la realizzazione di entrambe le aspettative determina la loro soddisfazione.

Per un’altra tesi, il contraente può pretendere la differenza tra le due prestazioni oggetto di scambio, la quale identifica l’ammanco subito dal contraente non inadempiente. Ne deriva che il danno contrattuale risarcibile è dato dal valore patrimoniale assegnato all’aspettativa insoddisfatta, detratto il risparmio costituito dalla controprestazione.

Alla teoria differenziale (accolta da BIANCA, Dell’inadempimento, 108; SALVI, Risarcimento del danno, in Enc. del dir., XL, 1987, 1087 ss.; in giurisprudenza mostrano di aderire a tale impostazione Sez. 1, n. 3352/1989, Carbone, Rv. 463399-01; Sez. 2, n. 11629/1999, Carbone, Rv. 530665-01; Sez. 2, n. 18832/2016, Picaroni, Rv. 641340-01) è stato, tuttavia, obiettato che un meccanismo di determinazione siffatto postula, senza provvedervi, la risoluzione formale del vincolo contrattuale.

Secondo l’approccio autonomistico, il danno contrattuale, risolvendosi nella traduzione economica della prestazione inadempiuta o inesattamente adempiuta, è un pregiudizio meramente patrimoniale e, in quanto tale, è estraneo alle questioni della causalità materiale rilevante in relazione al primo snodo causale che, nella struttura dell’illecito aquiliano, avvince l’evento di danno, generatore del danno-conseguenza, alla condotta.

A differenza del danno extracontrattuale, quello contrattuale non assume, dunque, la fisionomia di una perdita in senso naturalistico, ma consiste in una pura posta di conto tra l’entità del patrimonio a seguito dell’inadempimento e l’ammontare dello stesso quale avrebbe dovuto essere in conseguenza dell’adempimento.

Sulla scorta di tale constatazione, una parte della dottrina parla di danno da aspettativa, il quale per la sua natura meramente patrimoniale non è configurabile nella responsabilità extracontrattuale, a meno che non venga reso risarcibile da una specifica disposizione di legge (DI MAJO, La tutela dei diritti, 233 e ss.). Si è già evidenziato come tale impostazione, che trova conferma nella dottrina e nel diritto positivo tedeschi (par. 281 BGB), individua il ristoro per il pregiudizio in questione nel risarcimento sostitutivo della prestazione.

Altri intravede nel risarcimento del danno contrattuale un rimedio che completa il piano contrattuale di realizzazione degli interessi (MAZZAMUTO, Manuale di diritto privato europeo, II, 732).

L’opinione maggioritaria, valorizzando lo stretto legame del risarcimento in parola con l’obbligazione, giunge, invece, a configurare una fattispecie di conversione (GIORGIANNI, L’inadempimento, Milano, 1975) o di modificazione oggettiva dell’obbligazione (RESCIGNO, Obbligazioni, in Enc. del dir., XXIX, 1979, 205).

Occorre, tuttavia, evidenziare come nella ricostruzione interpretativa in esame il danno consequenziale non è del tutto estraneo alla fattispecie della responsabilità per inadempimento.

Al contrario, ricorre nell’elaborazione della dottrina in esame l’affermazione secondo la quale l’inadempimento contrattuale può generare un pregiudizio ulteriore rispetto a quello da lesione dell’aspettativa di adempimento e precisamente l’insieme delle perdite ulteriori rispetto al valore in sé della prestazione inattuata, delimitate dal criterio della immediatezza e della derivazione diretta sancito dall’art. 1223 c.c.

Di tale categoria di danno sono manifestazione il lucro cessante (DI MAJO, Le tutele contrattuali, 167 e ss.; PACIFICO, Il danno nelle obbligazioni, cit., 123 e ss.) e il pregiudizio derivante dall’inadempimento degli obblighi di protezione (CASTRONOVO, Il risarcimento del danno, in Riv. dir. civ., 2006, 90).

In tale prospettiva, nella responsabilità contrattuale il danno consequenziale si pone rispetto al nucleo imprescindibile del danno coincidente con l’equivalente della prestazione come una eventualità.

Ed è proprio in ragione di tale connotazione che da più parti si ritiene che al danno contrattuale non possa essere esteso il risarcimento in forma specifica -non a caso disciplinato in ambito aquiliano -quale rimedio inteso alla riparazione della modifica peggiorativa della situazione di fatto preesistente tramite il suo ripristino, se possibile e non eccessivamente oneroso.

Invero, secondo la visione in esame, nel rapporto obbligatorio non vi è, di norma, l’esigenza di eliminare conseguenze negative, ma, semmai, quella attuare la prestazione e, finché tale attuazione è possibile, non dovrebbe, a rigore, configurarsi un pregiudizio risarcibile (anche in forma specifica), ma di interesse alla cooperazione del debitore e comunque in ambiente contrattuale all’esigenza della reintegrazione in natura assolve il risarcimento in forma specifica (DI MAJO, Le tutele contrattuali, cit., 105; PIRAINO, Adempimento e responsabilità contrattuale, Napoli, 2011, 649).

L’inerenza della responsabilità al rapporto obbligatorio fa sì che prevalga l’esigenza di conservare l’assetto di interessi delineato dal sorgere dell’obbligazione, così che la responsabilità viene ad atteggiarsi quale forma ultima di soddisfacimento dell’interesse del creditore ove esso risulti irrealizzato e non ne sia più possibile né utile l’attuazione in natura .

5. La semplificazione probatoria nel risarcimento del danno contrattuale.

Nella responsabilità aquiliana l’assenza di un rapporto di derivazione del danno da un vincolo rimasto irrealizzato implica la necessità della prova, da parte del danneggiato, della sussistenza di una perdita e della sua natura contra ius (DI MAJO, Le tutele contrattuali, 164; Id., La responsabilità contrattuale. Modelli e rimedi, 109 e ss.).

Secondo le dottrine autonomistiche, l’azione di risarcimento del danno da mancata realizzazione dell’aspettativa di prestazione gode, invece, di una semplificazione della prova del pregiudizio dovuta al fatto che la perdita viene a identificarsi con la mancata ricezione della prestazione da parte del creditore. Ne consegue che al creditore che non possa più pretendere l’adempimento o non vi abbia più interesse è sufficiente provare il titolo e, quindi, il contratto.

L’agevolazione probatoria che, secondo l’impostazione in esame, vale a distinguere l’azione di risarcimento del danno contrattuale dall’omologo rimedio aquiliano deriva dal fatto che il danno da inadempimento viene concepito di per sé come perdita patrimoniale e, precisamente, come conteggio ipotetico di ciò che avrebbe dovuto essere e non è stato, a meno che il danneggiante non pretenda il risarcimento del lucro cessante o di danni consequenziali ovvero ulteriori rispetto al valore in sé della prestazione, rispetto ai quali tale automatica inferenza non opera.

In tale ultimo caso l’allegazione del titolo è sufficiente a dimostrare la titolarità del diritto di credito che costituisce di per sé un’attribuzione che, se di natura patrimoniale e non intuitus personae, assume già la consistenza di elemento attivo del patrimonio del creditore (in questi termini, PIRAINO, Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 667).

Infatti, l’inadempimento comporta almeno una voce certa di danno, rappresentata dalla perdita del valore della prestazione, la quale non costituisce un autonomo thema probandum in quanto è insita nel fatto stesso dell’inadempimento. Tale nesso di derivazione necessaria, avverte la dottrina sopra richiamata, dà luogo ad una specie di danno in re ipsa, ma non impedisce al debitore di allegare e provare l’assenza in concreto di un danno. Il discorso cambia in tutte le ipotesi in cui la prestazione non riveste un valore patrimoniale autonomo e in sé apprezzabile, ma, pur essendo suscettibile di valutazione economica, si limita ad incorporare un’utilità priva di una sua oggettività perché «volta soltanto a propiziare una modificazione o una conservazione della situazione di fatto iniziale, come è tipicamente nelle obbligazioni di carattere professionale e, in particolare, in quelle sanitarie, nelle quali la regola non è la mancata attuazione della prestazione (il c.d. inadempimento totale), ma la sua inesatta attuazione, che, peraltro, può dare luogo a perdite ulteriori rispetto al mancato conseguimento del valore incorporato nella prestazione correttamente eseguita […]» (così PIRAINO, Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 668).

In conclusione, secondo le dottrine autonomiste il danno da mancata realizzazione della aspettativa di prestazione è un pregiudizio in re ipsa nel senso che si configura come un danno da mancata realizzazione di un’aspettativa di prestazione e, quindi, di traduzione del patrimonio potenziale in patrimonio attuale.

Il principale precipitato di tale ricostruzione è costituito dalla semplificazione della fase rimediale mediante che si manifesta nella predeterminazione e nell’articolazione delle sanzioni (l’azione di adempimento, di risoluzione, di risarcimento del danno, l’eccezione di inadempimento) e mediante la tipizzazione del danno identificato nella perdita del valore della prestazione, la quale si desume direttamente dalla mancata attuazione dell’obbligazione. Secondo la teoria in esame l’obbligazione contrattuale contiene in sé stessa una regola di risarcimento in quanto finisce per delimitare lo stesso danno risarcibile.

La semplificazione probatoria si arresta, tuttavia, davanti alle ipotesi di inesatto adempimento, di lucro cessante c.d. estrinseco e di danno conseguente alla violazione di un obbligo di protezione, in relazione alle quali tornano ad applicarsi le ordinarie regole di riparto dell’onere della prova che vedono il creditore onerato dell’allegazione e della dimostrazione delle specifiche conseguenze dannose scaturite dall’inadempimento.

6. I c.d. danni consequenziali.

La dottrina che riconosce al danno contrattuale uno statuto autonomo rispetto alla corrispondente figura aquiliana ammette, comunque, che al suo interno occorre distinguere tra il pregiudizio derivante dall’inattuazione dell’obbligazione e il pregiudizio costituente un’ulteriore conseguenza di essa e per questo non ricompreso nella valutazione della prestazione.

In tale prospettiva, al danno da inadempimento, da intendersi come una traduzione economica dell’obbligo contrattuale in senso proprio, si affianca, dunque, l’autonoma categoria dei danni c.d. consequenziali soggetta alla regola causale delineata dall’art. 1223 c.c. (DI MAJO, Le tutele contrattuali, cit., 167 e ss.; NIVARRA, I rimedi specifici, cit., 346; PIRAINO, Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 649; GNANI, Sistema di responsabilità e prevedibilità del danno, 129 e ss.; MAZZAMUTO, Le nuove frontiere della responsabilità contrattuale, cit. 786).

Ai due tipi di danno corrisponde una diversa funzione del rimedio risarcitorio, satisfattivo-dinamica (di soddisfazione del credito), nel primo, risarcitorio-conservativa (di ripristino dello status quo ante) nel secondo (DI MAJO, Le tutele contrattuali, 169 e ss.; GRISI, Sub art. 1223 c.c., cit., 173 e ss.).

È stato, in particolare, evidenziato che, con riferimento ai danni consequenziali, il giudizio di responsabilità riacquista, almeno in parte, la ragion d’essere sua propria, di restaurazione dell’integrità del patrimonio comprensivo dei valori economici ed esistenziali del soggetto che abbia subito un’interferenza illecita nella propria sfera giuridica soggettiva, in tal modo assolvendo, altresì, ad una funzione tipicamente conservativa (NIVARRA, Alcune precisazioni in tema di responsabilità contrattuale, cit., 50).

La distinzione tra danno intrinseco e danno estrinseco -ossia tra danno che riflette la cosa dedotta in obbligazione e danno che copre il rimanente patrimonio del creditore -, così delineata ricalca la distinzione di Paolo tra damnum circa rem e damnum extra rem e trova riscontro nella stessa formulazione dell’art. 1223 c.c.

Una recente dottrina individua lo specifico fondamento positivo di tale classificazione nell’art. 1225 c.c., intravedendovi un principio in grado di istituire un collegamento tra l’area del danno risarcibile e quella degli interessi contemplati dal contratto.

Invero, se, per un verso, l’obbligazione contrattuale è funzionale all’arricchimento del creditore, così che il risarcimento del danno contrattuale si traduce nel ristoro dell’interesse accrescitivo frustrato, per altro verso, laddove l’esecuzione del contratto involga interessi altri (come, ad esempio, la salute nel contratto d’opera professionale sanitaria) rispetto a quelli corrispondenti alla prestazione, la tutela risarcitoria perde la connotazione satisfattiva sua propria per trascorrere nel paradigma aquiliano della tutela risarcitoria dell’appartenenza (PELLEGRINI, Interesse alla prestazione e prevedibilità del danno, Torino, 2018, 225).

Una delle conseguenze più significative di tale distinzione va individuata nell’inapplicabilità al danno consequenziale della regola di delimitazione del danno risarcibile fissata dall’art. 1225 c.c., il quale condiziona la risarcibilità del danno alla sua prevedibilità da rapportarsi al tempo del contratto ovvero al momento della nascita dell’obbligazione (GNANI, Sistema di responsabilità e prevedibilità del danno, 190-192).

Si precisa, invero, che, poiché la regola in questione delimita l’oggetto del contratto, un danno, come quello consequenziale, che si riconnette al contratto non come atto negoziale, ma come vicenda storica, non può ritenersi ad essa assoggettato.

Anche per tale impostazione, ai danni consequenziali si applica sicuramente l’art. 1223 c.c., essendo i criteri risarcitori ivi enunciati modellati più sul danno aquiliano che su quello da inadempimento dell’obbligazione contrattuale PELLEGRINI, Interesse alla prestazione e prevedibilità del danno, cit., 230; 257258).

7. Il lucro cessante tra danno meramente patrimoniale e danno consequenziale.

L’impostazione sin qui richiamata, sostenendo che il ristoro del danno patrimoniale tende ad assicurare al danneggiato l’utilità che lo scambio, ove attuato, avrebbe prodotto, tende ad includervi anche il lucro cessante.

Tale affermazione riposa sull’assunto per il quale secondo la logica del valore di scambio che governa il risarcimento del danno patrimoniale, nel danno da inadempimento rientra tutto il profitto che si sarebbe potuto trarre dalla prestazione correttamente eseguita (in questi termini, SALVI, La responsabilità civile, cit., 250). Invero, l’aspettativa del creditore non ha ad oggetto la sola prestazione, ma anche l’uso e il conseguimento, per mezzo di essa, di un profitto (DI MAJO, La tutela civile dei diritti, Milano, 2003, 234).

Poiché tale risultato utile costituisce una condizione dell’investimento effettuato mediante il contratto, anche il risarcimento del lucro cessante assolve alla funzione di ripristinare l’equilibrio contrattuale in rapporto alla controprestazione. Ne deriva che lo stesso lucro cessante rientra nel valore della prestazione e per tale ragione il risarcimento di tale voce di danno assolve a una funzione non reintegrativa, ma, ancora una volta, satisfattiva (NIVARRA, I rimedi specifici, cit., 338).

La prospettiva in esame non configura, dunque, il mancato guadagno in termini di danno consequenziale, ma come danno intrinseco che incide sul valore della prestazione, da intendersi nel duplice senso di valore a questa attribuito dal creditore (valore del suo interesse oggettivizzato nel contratto) e dal debitore (valore della controprestazione).

In definitiva, stregua dell’impostazione in parola, danno emergente e lucro cessante «si semplificano e si concentrano in una sola dimensione» (così MESSINETTI, Danno giuridico, in Enc. del dir., Agg., I, Milano, 1997, 491).

Altra parte della dottrina pone, invece, in luce come non ogni lucro perduto dal creditore possa ritenersi intrinseco alla prestazione e, quindi, incluso nel suo valore di mercato, ben potendo configurarsi un interesse che, pur non essendo direttamente e immediatamente soddisfatto attraverso la prestazione, sia a questa collegato.

A tale proposito è stato precisato che la distinzione tra il lucro cessante intrinseco ed estrinseco riposa sull’intensità della correlazione che sussiste tra il mancato guadagno e la prestazione mancata, ovvero sulla possibilità che tale lucro rientri o meno nel valore di uso della stessa.

Il lucro cessante estrinseco è risarcibile se sussiste la prova, di cui è onerato il creditore, della sua riconducibilità, in virtù di un nesso di causalità giuridica, non solo all’inadempimento, ma anche ad un ulteriore elemento rappresentato da un evento esterno al rapporto obbligatorio (GRISI, Sub art. 1223 c.c., cit., 173).

A tale riguardo è stato affermato che nell’accezione in esame i mancati guadagni «si presentano di regola non solo concettualmente, ma anche cronologicamente distinti dall’evento naturalistico» (REALMONTE, Il problema del rapporto di causalità nel risarcimento del danno, cit., 85).

In tal senso sembra orientata anche la giurisprudenza di legittimità che di recente ha affermato che il danno subito dal promittente venditore per la mancata stipulazione del contratto definitivo di compravendita di un immobile consiste nella differenza tra il valore commerciale del bene al momento della liquidazione e il prezzo offerto dal promissario acquirente rivalutato al medesimo tempo, potendosi tener conto anche di circostanze future, suscettibili di determinare un incremento o una riduzione del pregiudizio, a condizione che esse siano allegate e provate e appaiano ragionevolmente prevedibili e non meramente ipotizzate (Sez. 6-3, n. 26042/2020, Rossetti, Rv. 659919-01; v. anche Sez. 3, n. 19981/2016, Olivieri, Rv. 642602-01).

8. Prevedibilità del danno risarcibile e causa concreta del contratto.

Per i fautori della tesi autonomistica, il fatto che il danno contrattuale si inserisca in un rapporto obbligatorio preesistente non costituisce, quindi, un dato meramente empirico, ma comporta significative ricadute sulla fisionomia e sulla consistenza dell’obbligazione risarcitoria, la quale di norma si configura come sviluppo della stessa obbligazione rimasta inadempiuta e, in particolare, come la sua traduzione in equivalente monetario.

Il danno contrattuale non è, dunque, l’equivalente monetario di una perdita in senso naturalistico, ma un danno da aspettativa, «una pura posta di conto tra l’ammontare del patrimonio qual è a seguito dell’inadempimento e l’ammontare del patrimonio quale avrebbe dovuto essere in conseguenza dell’adempimento» (PIRAINO, Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 648).

Per tale ragione è stato affermato che nella responsabilità da inadempimento il risarcimento assolve ad una funzione satisfattoria, analoga a quella del pagamento (REMY, La «responsabilité contractuelle»: histoire d’un faux concept, in RTDCiv, 1997, 351; PELLEGRINI, Interesse alla prestazione e prevedibilità del danno, cit., 169).

Il rimedio risarcitorio si arricchisce, così, di una vocazione propulsiva, atteggiandosi a surrogato della prestazione divenuta impossibile per causa imputabile al debitore, diretto al procacciamento di un’utilità, ovvero all’erogazione di una risorsa destinata ad incidere, sia pure in senso soltanto quantitativo, sulla composizione e sulla fisionomia del patrimonio del creditore.

Si è già posto in evidenza il un ruolo essenziale che la tesi in esame riconosce all’art. 1225 c.c., intravedendovi un elemento di congiunzione tra l’area del danno risarcibile e quella degli interessi contemplati nel contratto (DI MAJO, Le tutele contrattuali, cit., 188).

Attraverso tale disposizione si giunge ad affermare che la funzione economica del contratto e la funzione del risarcimento sono sovrapponibili, tanto che, come già detto, il risarcimento del danno contrattuale ha natura satisfattiva e mira a far conseguire al creditore proprio l’utilità che lo scambio avrebbe prodotto.

Il profilo di più maggiore originalità della ricostruzione in esame va, tuttavia, individuato nell’affermazione secondo la quale è l’interesse condiviso dalle parti a strutturare il risarcimento, con la conseguenza che l’area del danno risarcibile non incontra altro limite se non quello degli interessi rappresentati nel contratto.

Taluno suggerisce l’accostamento dell’interesse condiviso con l’interesse ex art. 1174 c.c., sul presupposto che detto interesse, proprio in quanto è alla base dell’obbligazione, è da ritenersi sempre prevedibile (RAVAZZONI, La formazionedel contratto, 185).

Altra opinione sostiene, invece, che l’interesse ex art. 1174 c.c. è l’interesse su cui deve essere fondata la quantificazione del danno (GORLA, Il contratto, 227).

Secondo altri tale identificazione non è predicabile ai fini del risarcimento, giacché l’interesse ex art. 1174 c.c. potrebbe essere sconosciuto alla controparte (CIAN, Interesse del creditore e patrimonialità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1968, 212).

Di particolare interesse è, infine, l’identificazione tra l’interesse condiviso e la causa del contratto nella sua accezione concreta (DI GRAVIO, Prevedibilità del danno e inadempimento doloso, 86), identificata come elemento delimitante la prevedibilità e, quindi, l’ambito del danno risarcibile.

9. Il danno contrattuale nella giurisprudenza di legittimità.

Alcune delle suggestioni offerte dall’elaborazione dottrinale in materia di danno contrattuale sembrano essere state recepite dalla più recente giurisprudenza di legittimità.

Particolarmente attenta all’evoluzione della riflessione scientifica, la Suprema Corte ne ha rivisitato in chiave critica alcuni spunti ricostruttivi, giungendo a soluzioni ermeneutiche caratterizzate da originalità e coerenza sistematica.

Alcune pronunce hanno mostrato di accedere alla concezione sostitutiva del risarcimento del danno contrattuale, affermando che in tema di inadempimento contrattuale, il risarcimento riveste natura e svolge funzione sostitutiva della prestazione mancata e gli effetti della situazione pregiudizievole permangono sino a quando il danno sia risarcito, ossia fino alla data della sentenza se la riparazione sia stata richiesta al giudice, sicché il pregiudizio derivante dalla mancata acquisizione di un bene deve essere risarcito con la prestazione del suo equivalente in danaro, determinato con riferimento al momento in cui avviene la liquidazione e non a quello in cui si realizza la violazione contrattuale (Sez. 2, n. 3940/2016, Giusti, Rv. 638977-01; in senso conforme Sez. 2, n. 6651/2003, Cioffi, Rv. 562517-01; Sez. 3, n. 7338/1998, Durante, Rv. 517509-01; Sez. 2, n. 9043/1992, Beneforti, Rv. 47837201; Sez. 2, n. 7971/1990, Garofalo, Rv. 468644-01; Sez. 2, n. 4397/1982, Colasurdo, Rv. 422382-01).

Di recente la Corte ha offerto importanti indicazioni ricostruttive anche in merito alla questione dei danni consequenziali da inesatto adempimento delle obbligazioni di facere nascenti dal contratto d’opera professionale, enunciando il principio secondo il quale, in tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione (perseguimento delle leges artis nella cura dell’interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicché, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione (Sez. 3, n. 28991/2019, Scoditti, Rv. 655828-01; in senso conforme Sez. 3, n. 25288/2020, Guizzi, Rv. 659778-01; Sez. 6-3, n. 26905/2020, Positano, non massimata; Sez. 3, n. 17808/2020, Scoditti, non massimata).

La Terza Sezione civile, dopo aver premesso la distinzione tra causalità e imputazione -identificando le rispettive nozioni nel collegamento naturalistico tra fatto accertato sulla base delle cognizioni scientifiche o di ragionamenti logico-inferenziali, e nell’effetto giuridico che la norma ricollega ad un determinato comportamento sulla base di un criterio di valore (l’inadempimento, nella responsabilità contrattuale, e il dolo o la colpa in quella extracontrattuale) -, ha ricordato che ogni forma di responsabilità è connotata dalla congiunzione di detti elementi.

Ha, quindi, delineato la differenza tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale ponendo in luce che nella prima il danno deriva dall’inadempimento, così che non è richiesta l’ingiustizia -che, invece, nella responsabilità aquiliana costituisce elemento necessario -, posto che l’interesse leso è rilevante e meritevole di tutela in forza della fonte contrattuale. Ne deriva che «la lesione dell’interesse, in cui si concretizza il danno evento, è cagionata dall’inadempimento» e che la causalità materiale, pure teoricamente distinguibile non è praticamente separabile dall’inadempimento, proprio in ragione del fatto che quest’ultimo corrisponde alla lesione dell’interesse tutelato dal contratto e, dunque, al danno evento. Verificandosi un assorbimento pratico della causalità materiale nell’inadempimento, nella responsabilità contrattuale la causalità assume rilievo solo con riferimento alla delimitazione del danno risarcibile.

Coerente con tale premessa è l’indirizzo giurisprudenziale inaugurato dalle Sezioni Unite n. 13533 del 2001, per il quale è onere del creditore allegare soltanto l’inadempimento, gravando sul debitore l’onere di provare l’adempimento o l’impossibilità dello stesso dovuta a causa a lui non imputabile. In sintesi, allegare l’inadempimento significa allegare anche il nesso di causalità tra danno evento e danno conseguenza.

La Terza Sezione civile ha, tuttavia, precisato che tale ricostruzione si attaglia alle obbligazioni di dare e di facere, ma non alle obbligazioni di facere professionale,

nelle quali la causalità materiale torna a confluire nella dimensione dell’accertamento della riconducibilità dell’evento alla condotta secondo le regole generali.

Infatti, se l’interesse corrispondente alla prestazione è solo strumentale all’interesse primario del creditore, causalità e imputazione per inadempimento tornano a distinguersi sul piano funzionale «perché il danno evento consta non della lesione dell’interesse alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione, ma della lesione dell’interesse presupposto a quello contrattualmente regolato».

La Corte traccia, quindi, una fondamentale distinzione, nell’ambito delle obbligazioni professionali, tra interesse strumentale, affidato alla cura della prestazione oggetto di obbligazione, e interesse primario, corrispondente al diritto alla salute.

Invero, precisa la pronuncia in esame, nel rapporto d’opera professionale medica la prestazione non ha ad oggetto la guarigione, ma l’esecuzione di un facere professionale conforme alle leges artis, mentre il danno evento non coincide con l’inadempimento, ma con la lesione dell’interesse presupposto alla prestazione. La guarigione o la vittoria in giudizio sono interessi non esterni al contratto, ma connessi all’interesse con esso regolato, perché la possibilità del loro soddisfacimento «è condizionata dai mutamenti intermedi nello stato di fatto determinati dalla prestazione professionale».

Segue l’essenziale snodo argomentativo con il quale la Corte traccia la distinzione tra la prestazione oggetto dell’obbligazione professionale, cui viene attribuita portata strumentale, e l’interesse primario o presupposto, il quale non integra un motivo irrilevante dal punto di vista contrattuale, perché non attiene alla soddisfazione del contingente ed occasionale bisogno soggettivo, ma è connesso all’interesse regolato nel contratto e quindi assume rilevanza sul piano causale. E siccome il danno evento nelle obbligazioni di diligenza professionale riguarda non l’interesse alla prestazione, ma l’interesse primario, la causalità materiale torna ad assumere autonoma rilevanza non potendosi ritenere assorbita dall’inadempimento. Ne discende che l’allegazione dell’inadempimento non include il danno evento, il quale necessita di specifica affermazione e dimostrazione.

La distinzione tra danno contrattuale in re ipsa e danno consequenziale si rinviene anche in Sez. 2, n. 13792/2017, Scarpa, Rv. 644471-01, la quale, in tema di preliminare di vendita immobiliare, ha stabilito che al promittente venditore che agisca per la risoluzione del contratto e per il risarcimento del danno, per il caso di inadempimento del promissario acquirente, deve essere liquidato il pregiudizio per la sostanziale incommerciabilità del bene nella vigenza del preliminare, la cui sussistenza è in re ipsa e non necessita di prova, mentre, laddove le domande risolutoria e risarcitoria siano proposte dal promissario acquirente, a causa dell’inadempimento del promittente venditore, il risarcimento spetta solo se i danni lamentati siano conseguenza immediata e diretta del dedotto inadempimento e sempre che il danneggiato, anche se invochi l’esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa, ex art. 1226 c.c., fornisca la prova della loro effettiva esistenza.

Utili spunti ricostruttivi presenta, infine, Sez. 1, n. 14335/2019, Amatore, Rv. 653890-01, secondo la quale nelle azioni di responsabilità per danni subiti dall’investitore, nelle quali occorre accertare se l’intermediario abbia diligentemente adempiuto alle obbligazioni scaturenti dal contratto di negoziazione, il riparto dell’onere della prova si atteggia nel senso che l’investitore ha l’onere di allegare l’inadempimento delle citate obbligazioni da parte dell’intermediario, nonché fornire la prova del danno e del nesso di causalità fra questo e l’inadempimento anche sulla base di presunzioni; l’intermediario, a sua volta, avrà l’onere di provare l’avvenuto adempimento delle specifiche obbligazioni poste a suo carico, allegate come inadempiute dalla controparte e, sotto il profilo soggettivo, di aver agito con la specifica diligenza richiesta (in senso conforme Sez. 1, n. 810/2016, Nazzicone, Rv. 638346-01).

  • interesse
  • comune
  • diritto bancario

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GLI INTEREST RATE SWAP E LE SEZIONI UNITE N. 8770/2020 PRIME RIFLESSIONI.

(di Dario Cavallari )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le caratteristiche di base dell’IRS. - 3 L’IRS in una prospettiva storica. - 4 La causa dell’IRS. - 5 Gli IRS dei privati e quelli dei Comuni: una prima comparazione. - 6 L’upfront e gli IRS conclusi dai Comuni

1. Premessa.

Fra le principali decisioni emesse dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nel 2020 va annoverata la sentenza n. 8770 del 2020, la quale concerne uno dei più particolari negozi utilizzati nel nostro ordinamento, ovvero il contratto di swap, nella specie, l’interest rate swap.

Si tratta di una figura giuridica di derivazione straniera, anche se ne esistono versioni esclusivamente italiane.

Caratteristica dello swap è la sua appartenenza alla categoria dei contratti atipici, i quali assumono rilievo in Italia grazie al meccanismo previsto dall’art. 1322 c.c.

Gli swap esprimono in maniera estremamente significativa la capacità del nostro sistema giuridico di consentire ad istituti non nazionali di essere operativi nel nostro paese.

In particolare, essi si collocano al centro del sistema codicistico italiano in quanto toccano, e la decisione delle Sezioni Unite che li ha riguardati lo dimostra, la tematica della causa, quella dell’oggetto e, seppure in maniera meno interessante, quella della volontà e della forma.

2. Le caratteristiche di base dell’IRS.

Le Sezioni Unite hanno chiarito che l’interest rate swap è un contratto derivato, le cui caratteristiche sono:

a) è over the counter, vale a dire ha un contenuto fondamentale non eteroregolamentato, ma deciso dalle parti sulla base delle specifiche esigenze dell’interessato;

b) è non standardizzato e, quindi, non è destinato alla circolazione, essendo privo del requisito della cd. negoziabilità;

c) l’intermediario versa in una situazione di naturale conflitto di interessi poiché, assommando le qualità di offerente e di consulente, è tendenzialmente controparte del proprio cliente.

Elementi essenziali di tale contratto sono la data di stipulazione, quelle di inizio della decorrenza degli interessi, di scadenza e di pagamento, il capitale di riferimento (cd. nozionale) e i diversi tassi di interesse ad esso applicabili.

Risulta estremamente importante che la S.C. abbia individuato le caratteristiche base dell’interest rate swap.

Infatti, in questo modo ha reso evidente, in primo luogo, che l’interest rate swap è un contratto non negoziato nei mercati regolamentati, ma comune in quelli non regolamentati. Ciò consente alle parti di non essere vincolate ad un contenuto prestabilito, benché, nella prassi, pure questi negozi così atipici tendano ad essere ricondotti a modelli standard.

Esso è, almeno in origine, pensato per il singolo richiedente, il che rende più complicato comprenderne il funzionamento.

Proprio perché risulta non standardizzato è più evidente come il suo contenuto sia destinato a variare.

Questa varietà contenutistica è stata spesso foriera di equivoci a livello dottrinario, essendosi con frequenza confusa la natura del negozio in esame.

Un profilo molto importante sottolineato dalle Sezioni Unite concerne la circostanza che gli interest rate swap (e gli swap in generale) sono spesso proposti da intermediari.

Si è abbandonato, quindi, il modello classico, che vede i contratti come conclusi fra le parti degli stessi su un piano di parità, mentre si è diffuso un sistema all’interno del quale il contratto è un prodotto già formato, che un soggetto ad esso estraneo (o una delle parti che, però, lo ha predisposto in totale autonomia) vende sul mercato ad individui che sono interessati semplicemente ad un investimento.

Ciò comporta delle rilevanti conseguenze in quanto la materia in questione è sempre meno riservata a soggetti in grado di comprendere le conseguenze degli accordi conclusi, ma è ormai aperta ad individui privi delle competenze minime per essere ritenuti “contraenti consapevoli”.

Il settore degli IRS si caratterizza, pertanto, per la presenza di rilevanti asimmetrie informative, per effetto delle quali l’intermediario versa in una situazione di naturale conflitto di interessi poiché, come rilevato dalle Sezioni Unite e sopra accennato, assommando le qualità di offerente e di consulente, egli è tendenzialmente controparte del proprio cliente.

Se ne ricava che, in molte circostanze, non è possibile trattare l’interest rate swap come un normale contratto.

Infatti, deve essere verificata con estrema cura l’idoneità del consenso prestato dalla parte alla stipulazione del negozio a consentire l’instaurazione di un valido vincolo giuridico e, soprattutto, si impone l’opportunità di prescrivere una serie di strumenti che proteggano detta parte, ove non in possesso delle nozioni essenziali occorrenti a capire l’operazione.

Questa esigenza di tutela puconcretizzarsi in vari modi, in particolare con l’inserimento di oneri formali e un controllo, sull’oggetto e la causa del contratto, assai penetranti.

3. L’IRS in una prospettiva storica.

La segnalata evoluzione degli swap è evidente se si fa una analisi storica del fenomeno.

I moderni derivati si diffondono nel Regno Unito agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, ove erano utilizzati per ovviare alle restrizioni valutarie all’epoca vigenti, che imponevano agli operatori residenti il pagamento di consistenti premi sull’acquisto di valute estere finalizzato ad operazioni di investimento.

Per evitare dette imposizioni gli operatori de quibus ricorsero a complesse operazioni abbinate di mutuo, in modo da riuscire a procurarsi a minor prezzo la valuta estera necessaria per investire in paesi stranieri (erano impiegati, talvolta, dei mutui paralleli, i parallel loans, non collegati giuridicamente fra loro, oppure dei prestiti fra capogruppo, back to back loans, che, poi, giravano la dotazione valutaria conseguita alle loro filiali di oltre confine1).

In Italia, la dottrina ha adottato, all’inizio, un approccio simile a quello tenuto in passato per i contratti differenziali, sottolineando che questi nuovi contratti presentavano i tratti di vere e proprie compravendite o somministrazioni2.

I derivati, però hanno la caratteristica, talvolta, di essere conclusi espressamente per la differenza, ipotesi in cui sorgono gli stessi problemi nati, in precedenza, con i contratti differenziali semplici.

Parte della dottrina ha ritenuto che il patto di liquidazione per differenza non incidesse sulla natura del derivato, non snaturandone “l’indole di compravendita”3.

Peraltro, il derivato, per come è strutturato, si allontana in molte ipotesi dallo schema della vendita, rendendo difficile una sua qualificazione in tal senso.

Se questa è la realtà dei fatti, per la quale i contratti derivati rappresentano negozi spesso equiparabili ai differenziali semplici, sorge il problema se, in simili situazioni, sia inevitabile una loro identificazione con le scommesse.

Questa considerazione assume particolare rilievo ove si ritenga che i derivati abbiano una causa comune, fondata sulla “differenzialità”1.

Per quanto qui interessa, la tematica emerge con riferimento allo swap, in ordine al quale è pure discusso se si sia al cospetto di uno o più tipi di contratto2.

In realtà, l’approccio che vede nei derivati una compravendita serve a rendere più astratta e formale l’operazione, in modo che questa si spersonalizzi e non riveli gli interessi reali dei contraenti, evitando agli operatori l’assunzione dei rischi del soddisfacimento delle finalità della controparte.

Ciò evidenzia che nel sistema finanziario, ove sono nati e si sono sviluppati gli swaps, assume massimo valore la tendenza ad astrarre i derivati dai rapporti sottostanti e chiarisce perché questi negozi incontrino meno difficoltà applicative nei sistemi di common law, nei quali si parla non di causa, ma di consideration ed il controllo del patto ad opera del giudice è più circoscritto, non indagando egli ad ogni costo lo scopo comune delle parti.

Con riguardo all’IRS, sorgono le medesime questioni appena accennate e che hanno interessato i contratti differenziali.

Alcuni autori sostengono che l’interest rate swap non avrebbe nulla a che vedere con il negozio differenziale, in quanto il primo non sarebbe mai concluso per la differenza, ma prevederebbe pagamenti reciproci a scadenze diverse3, con la mera eventualità delle prestazioni contestuali4.

Altri affermano che l’accostamento sarebbe improprio perché lo swap perseguirebbe interessi più meritevoli, soprattutto di copertura, e più complessi del negozio differenziale5.

Si è proposto, altresì, di vedere nei derivati solamente un concetto finanziario, privo di valenza giuridica1, rientrando nella categoria figure contrattuali non riconducibili ad unità.

Si è rilevato che sarebbe inutile tentare di individuare una definizione che possa ricomprendere realtà così diverse fra loro2.

Questa dottrina, al fine di sottolineare la superfluità di un simile sforzo, ha individuato cinque strutture base di derivati3.

Di queste, due sarebbero tipiche e commutative (compravendita ed opzione ex articolo 1331 c.c.), una atipica e commutativa (swap di pagamenti) e due atipiche ed aleatorie (differenziale e contratto di pagamento condizionato).

La tesi de qua sostiene come non sia stato subito da tutti colto che nel contratto differenziale classico, assimilabile alla compravendita, la cd. differenzialità era ben diversa da quella degli odierni derivati, ove detta differenzialità rappresenta l’oggetto stesso del negozio4.

Pertanto, si è autorevolmente detto che il dibattito sui contratti differenziali non può essere immediatamente posto in continuità con i moderni derivati, nonostante presentino delle assonanze5.

Solo una parte delle strutture negoziali tipiche in cui possono essere inquadrati i derivati, infatti, è riconducibile al contratto differenziale.

In questo modo, si comprende come non possa ricorrere lo schema della vendita o della somministrazione6, dovendosi riconoscere, invece, la novità delle operazioni de quibus e dare rilievo alle loro peculiarità, fra cui, principalmente, l’esistenza di una particolare aleatorietà giuridica che le caratterizza. Altri studiosi sono nel senso dell’affinità delle tematiche7.

Diversa dottrina ritiene che, invece, lo swap dovrebbe essere sempre messo in correlazione con il gioco, prescindendo dalla valutazione del rapporto con il contratto differenziale1.

Queste impostazioni colgono tutte un aspetto della questione, vale a dire che il contratto differenziale semplice e lo swap sono due figure distinte che, però investono profili fra loro simili2.

Soprattutto, però, esse palesano come l’IRS, pur rientrando nella categoria dei contratti, non possa essere sic et simpliciter assimilato a questi.

Infatti, pur non potendo essere ormai classificati come mere compravendite o somministrazioni, provengono da sistemi nei quali i profili causali svolgono un ruolo diverso dal nostro e, in particolare, sono utilizzati, in origine da operatori super qualificati, i quali sono interessati, alla fine, a rendere il più possibile formale l’operazione, in modo che questa si spersonalizzi e non riveli gli interessi reali dei contraenti, evitando ai medesimi operatori l’assunzione dei rischi del soddisfacimento delle finalità della controparte.

Abbiamo a che fare, allora, con contratti che le parti vogliono rendere astratti, ma fare circolare in un ordinamento giuridico, come quello italiano, che vede come elemento costitutivo del contratto la causa, per di più intesa in senso concreto.

A questa circostanza, si aggiunge un ulteriore elemento di rilievo, ovvero che dei contratti, concepiti per essere utilizzati esclusivamente nel settore finanziario, sono oggi offerti in grande misura a soggetti che a tale settore sono estranei.

4. La causa dell’IRS.

Un ulteriore profilo rilevante in tema di IRS concerne l’individuazione della sua causa.

Tradizionalmente, come già rilevato, i derivati (ma la questione si era posta già per i contratti differenziali) sono stati accostati alla vendita od alla somministrazione oppure, con un notevole cambiamento di impostazione, alla scommessa.

Pertanto, la loro causa veniva a coincidere con quella delle figure tipiche appena menzionate.

Le Sezioni Unite in commento hanno, però approfondito la questione.

Innanzitutto, deve sottolinearsi che il Supremo Collegio ha qualificato come contratto aleatorio l’IRS, così superando definitivamente le tesi per le quali esso avrebbe avuto natura commutativa.

Peraltro, hanno evidenziato che la causa dell’interest rate swap, per la cui individuazione non rileva la funzione di speculazione o di copertura in concreto perseguita dalle parti, non coincide con quella della scommessa, ma consiste nella negoziazione e monetizzazione di un rischio finanziario, che si forma nel relativo mercato e che può appartenere o meno alle parti, atteso che tale contratto, frutto di una tradizione giuridica diversa da quella italiana, concerne dei differenziali calcolati su flussi di denaro, destinati a formarsi durante un lasso temporale più o meno lungo, ed è espressione di una logica probabilistica, dato che non ha ad oggetto un’entità specificamente ed esattamente determinata (Sez. U, n. 08770/2020, Genovese, Rv. 657963-02).

Di conseguenza, ai fini della validità del contratto, è stato ritenuto necessario accertare la presenza di un accordo tra intermediario ed investitore sulla misura dell’alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti ed oggettivamente condivisi.

In particolare, le Sezioni Unite hanno messo bene in luce che detto accordo non si può limitare al mark to market, ossia al costo, pari al valore effettivo del derivato ad una certa data, al quale una parte può anticipatamente chiudere tale contratto od un terzo (estraneo all’operazione) è disposto a subentrarvi, ma deve investire, altresì, gli scenari probabilistici e concernere la misura qualitativa e quantitativa della menzionata alea e dei costi, pur se impliciti, assumendo rilievo i parametri di calcolo delle obbligazioni pecuniarie nascenti dall’intesa, che sono determinati in funzione delle variazioni dei tassi di interesse nel tempo (Sez. U, n. 08770/2020, Genovese, Rv. 657963-03).

Questa affermazione, di grande rilievo, va correttamente inquadrata.

Infatti, la Suprema Corte ha evidenziato l’assoluta necessità che, con riferimento ai contratti in esame, siano palesati tutti i costi che ciascuna parte ha posto a carico dell’altra.

Ciò in ragione pure del fatto che solo conoscendo detti costi è possibile verificare se l’alea contrattuale (la quale, stante la natura aleatoria del contratto, deve essere presente) sia stata in concreto neutralizzata a vantaggio di uno dei contraenti.

Pertanto, rileva l’indicazione degli scenari probabilistici perché tramite essa è possibile comprendere se sussiste in concreto un’alea bilaterale o se, dietro l’apparenza di un contratto aleatorio, non vi sia un negozio nel quale solo una delle parti è assoggettata ad un rischio.

Infatti, i costi dell’operazione sono spesso mantenuti occulti e non vengono dichiarati.

Peraltro, essi assumono di fatto rilievo nella determinazione del mark to market, il quale risente, nella sua quantificazione, di tutti i costi che, alla fine, vengono sostenuti dalle parti, pur se non risultano menzionati nel contratto.

Per questo la S.C. ha evidenziato che non è di interesse tanto il menzionato mark to market, quanto i citati scenari probabilistici, dei quali il mark to market è, appunto, la media, e che possono essere utilizzati per comprendere se dei costi siano stati messi in maniera occulta a carico di una sola delle parti.

Alla fine, ciò che rileva è, quindi, che ogni parte sia stata resa edotta dei costi su di lei gravanti.

Questa conclusione vale a maggior ragione se si considera che il giudizio concerneva gli IRS conclusi da pubbliche amministrazioni e che, nei contratti stipulati con esse, tutti gli elementi rilevanti dell’accordo (quindi causa, oggetto, prezzo, costi ecc.) devono risultare per iscritto.

Se ne ricava, allora, che le Sezioni Unite pongono non tanto un obbligo specifico di indicare gli scenari probabilistici fine a se stesso, ma, piuttosto, un obbligo generale di formalizzare nel contratto tutti i costi sostenuti dalle parti nell’operazione e che il Supremo Collegio sanziona con la nullità le intese che, non esplicitando siffatti costi, non consentono di verificare la presenza di un’alea bilaterale.

Viene così istituzionalizzato un divieto di mantenere occulti i costi in esame, non essendo dirimente, invece, la mera indicazione di una cifra astratta, come il mark to market, ove non permetta di accertare se l’aleatorietà del negozio non sia stata neutralizzata a vantaggio di una delle parti.

5. Gli IRS dei privati e quelli dei Comuni: una prima comparazione.

Le Sezioni Unite hanno, poi, affrontato nel dettaglio la questione relativa all’acquisto di titoli derivati da parte dei Comuni.

Esse hanno, prima di tutto, evidenziato che la normativa, che ne ha autorizzato la conclusione, fino al divieto introdotto dalla l. n. 147 del 2013 -rendendo in questo modo tipici i relativi contratti che, altrimenti, fra privati, sarebbero rimasti innominati -ha carattere eccezionale ed è di stretta interpretazione, poiché ha consentito alla P.A. di stipulare contratti che, in quanto aleatori, non avrebbe potuto, di per sé, sottoscrivere.

In particolare, la menzionata normativa deve essere intesa nel senso che il riconoscimento della legittimazione dell’Amministrazione a concludere tali contratti è stato limitato ai derivati di copertura, con esclusione di quelli speculativi, in base al criterio del diverso grado di rischiosità di ciascuno di essi.

Inoltre, i menzionati contratti devono essere stipulati con intermediari finanziari qualificati e il relativo oggetto deve essere determinato con precisione, mediante l’indicazione del mark to market, degli scenari probabilistici e dei costi occulti, allo scopo di ridurre al minimo e di rendere evidente all’ente ogni aspetto di aleatorietà del rapporto, comportando tale caratteristica una rilevante disarmonia nell’ambito delle regole della contabilità pubblica, dal momento che introduce variabili non compatibili con la certezza degli impegni di spesa riportati in bilancio (Sez. U, n. 08770/2020, Genovese, Rv. 657963-04).

Risulta di estremo interesse la differenziazione introdotta dalle Sezioni Unite fra gli IRS stipulati con la P.A. e quelli che, invece, una P.A. non coinvolgono.

I primi, infatti, sono da considerare tipizzati legislativamente e, dunque, il loro contenuto minimo non è derogabile e deve risultare per iscritto, a pena di nullità, comprendendo ogni elemento di rilievo idoneo ad incidere, quale costo, sull’alea.

I secondi, al contrario, sono ancora qualificati come innominati, rientrando, allora, nella sfera di applicazione dell’art. 1322 c.c.

Le cautele imposte dalle Sezioni Unite per gli IRS fra privati, quindi, sono ancora più accentuate ove siano coinvolti dei soggetti pubblici.

Non va sottovalutata, inoltre, la considerazione che la P.A., in assenza di specifica autorizzazione legislativa, non può stipulare contratti aleatori.

Viene così in rilievo un riferimento, almeno implicito, all’autonomia contrattuale degli enti pubblici ed al fatto che, forse, una totale parificazione delle pubbliche amministrazioni ai privati non è consentita, sic et simpliciter, nel nostro ordinamento, per quel che concerne la capacità di diritto privato.

D’altronde, in molti sistemi giuridici prossimi al nostro, come quello del Regno

Unito, è ravvisata una incapacità legale della P.A. a concludere i contratti in esame. Le Sezioni Unite non si sono spinte fino al punto di ipotizzare, con riferimento all’autonomia privata uno stato giuridico distinto per gli enti pubblici e per i privati, ma è chiaro che la tematica potrebbe essere in futuro oggetto di specifica riflessione.

6. L’upfront e gli IRS conclusi dai Comuni

Un passaggio fondamentale della decisione concerne il cd. upfront.

Se lo swap è non par, lo squilibrio può essere eliminato attraverso il pagamento, al momento della stipulazione, di una somma di denaro al soggetto che accetta le pattuizioni deteriori.

Questo importo è chiamato upfront.

Si tratta, in pratica, del pagamento anticipato di una somma di denaro effettuato da una parte del contratto di swap in favore dell’altra.

Dottrina e giurisprudenza continuano a rimanere ancora incerte e divise sulla natura dell’upfront.

Taluni sostengono che con l’upfront la banca non eroga un finanziamento assistito da un obbligo di rimborso, bensì anticipa i flussi positivi che, secondo la valutazione dell’intermediario, il derivato andrà a generare in futuro a favore del cliente1.

Si è fatto coerentemente notare che il perfezionamento del nuovo contratto derivato non richiede di per sé un nuovo finanziamento, essendo caratteristica dello swap di consentire di investire senza immobilizzare capitali, venendo sospeso, invece, il pagamento dei debiti pregressi.

D’altronde, si è evidenziato che comunemente non è previsto un espresso obbligo di restituire l’importo di denaro indicato nell’upfront.

I clienti che, alla stipula, beneficiano dell’upfront, lo hanno spesso indicato, quindi, come ricavo da operazioni finanziarie.

Questa era la tecnica di contabilizzazione in uso presso gli enti locali e, infatti, era sostenuta dalla dottrina favorevole all’impiego degli swaps ad opera di Regioni e Comuni per procurarsi liquidità2.

Era molto frequente in passato, infatti, che gli enti locali stipulassero degli swaps con contestuale ottenimento di denaro il quale, formalmente, non risultava essere un finanziamento.

Il vantaggio consisteva nel ricevere denaro immediatamente utilizzabile, differendo le passività prodotte su esercizi futuri, scaricandole, così, sulle amministrazioni successive.

Tale ultima impostazione attribuisce, quindi, all’upfront natura di prezzo o premio che una parte del contratto (l’intermediario) paga all’altra (il cliente) affinché assuma a suo carico un rischio, cedendo alla controparte l’alea positiva corrispondente.

Detto rischio consiste nel dovere corrispondere all’altro contraente in futuro, per effetto degli scambi dei pagamenti che dovranno verificarsi e che sono di ammontare incerto, più denaro di quanto esso avrà diritto di ricevere.

In molti casi, gli istituti di credito, però hanno realizzato una distorsione di questo tipo di operazione che, peraltro, non è dovuta alla presenza dell’upfront, di per sé neutro, ma all’applicazione di nuovi costi impliciti o alla conclusione di un nuovo derivato solo apparentemente di copertura e, in realtà, spiccatamente speculativo1.

Pertanto, benché l’upfront sia indicato finanziariamente come un anticipo sui flussi di cassa, le banche coinvolte spesso non si limitano a sbilanciare di una somma equivalente alla sua restituzione il tasso fisso pagato dal privato, ma modificano pure il tasso fisso di un ulteriore spread, pari al rischio di non ricevere la restituzione della somma ed al compenso per l’anticipo de quo2.

Parte della dottrina ha parificato, allora, criticando l’impostazione appena descritta, l’upfront ad un finanziamento3.

Indubbiamente, le parti hanno spesso utilizzato l’upfront a tale fine.

L’esperienza del contenzioso concernente gli IRS costituiti da privati e da pubbliche amministrazioni evidenzia come l’utilizzo della clausola upfront faccia emergere uno scopo di finanziamento che deforma la causa concreta del contratto perché incide sugli interessi che è idoneo a realizzare.

Non si tratterebbe, dunque, di un meccanismo, aleatorio, che serve a ridurre il costo del debito sottostante, ma dell’occasione di un nuovo prestito, il costo del quale è espresso dal valore nominale delle prestazioni previste in sua esecuzione a carico del cliente ed il cui valore sostanziale è dato dalla differenza fra gli interessi che il cliente avrebbe pagato ove non lo avesse concluso e quelli che, in effetti, versa.

Verrebbe meno, allora, ogni funzione di copertura, persino parziale, ed all’originaria scommessa sull’andamento dei tassi si aggiungerebbe un nuovo interesse che, però solo erroneamente sarebbe visto in quello alla ristrutturazione del debito preesistente, coincidendo, esso, invece, con una finalità puramente speculativa4.

In particolare, si è sostenuto che l’upfront, in caso di rinegoziazione, sarebbe un mutuo, concesso dall’intermediario per continuare l’operazione.

Si è osservato che il flusso di denaro, al di là delle mere poste contabili, è unico, costituito dal differenziale aleatorio che, in quanto tale, mal si concilia con forme di anticipazione che, peraltro, verrebbero ad essere calcolate a tassi più elevati di quello free risk implicito nello swap1.

Praticamente, più che valutare i flussi futuri a credito da attualizzare, nella prassi è fissato l’upfront da erogare, calcolandosi in corrispondenza lo spread che occorre aggiungere al flusso aleatorio del derivato per recuperare il finanziamento erogato ed i relativi interessi che, poiché non sono computati al tasso free risk, ma a quello corrispondente al merito di credito del cliente, rendono sistematicamente non par l’operazione.

Per determinare la correzione che occorre operare per il rimborso dell’upfront, l’intermediario, nello stabilire i maggiori flussi posti a carico del cliente, utilizza un tasso di sconto più elevato del tasso swap di un derivato par, commisurandolo al merito di credito del cliente finanziato, perché, altrimenti, non conseguirebbe per l’importo erogato la debita copertura del rischio proprio della controparte.

L’upfront, quindi, non potrebbe essere inteso come l’anticipazione dei futuri flussi finanziari attesi, senza coglierne la sostanza.

Infatti, in assenza di uno spread incrementativo dei flussi attesi dall’intermediario -che copra al tempo stesso l’importo del capitale finanziato e i relativi interessi commisurati al merito di credito della controparte -non vi sarebbe equilibrio finanziario che giustifichi l’upfront.

La componente aleatoria connaturata al genus del contratto non viene sostanzialmente alterata, ma più semplicemente è affiancata da un diverso negozio giuridico.

La maggiorazione del tasso swap e l’implicito margine di intermediazione risulteranno tanto più elevati quanto minore è il merito di credito, più ristretto il periodo del contratto, più elevata la quota di upfront in rapporto al nozionale.

L’aggiunta di una maggiorazione a carico del cliente -necessaria a coprire l’upfront -modifica il flusso degli introiti/pagamenti in maniera uniforme, determinando il recupero del capitale finanziato secondo un piano di ammortamento a rata costante.

Il rimborso dell’upfront e dei relativi interessi risulta commisto al contratto aleatorio, ma non è eventuale o aleatorio.

Non è, quindi, agevole escludere la qualificazione dell’upfront in termini di finanziamento.

Di solito, il contratto non prevede esplicitamente un obbligo dell’operatore di restituire l’importo relativo all’upfront, ma, più semplicemente, viene rincarato il saldo dei flussi per ricomprendere il pagamento in un piano di rimborso, che è certo e determinato, mentre la componente pura dello swap continua a rimanere aleatoria, rendendo incerta la commistione del flusso risultante dall’aggregazione di un finanziamento e uno swap1.

Nelle ordinarie operazioni di IRS risulta, però per questi autori, di immediata evidenza la natura di finanziamento dell’upfront, che trova nella maggiorazione del tasso, fisso o variabile, un rimborso commisurato al capitale erogato e allo specifico tasso di interesse, implicito nella maggiorazione stessa e valutato coerente con il merito di credito del cliente.

Nello swap usuale, sia in sede di prima sottoscrizione sia di unwinding, con l’upfront si configura un finanziamento da parte dell’intermediario al quale corrisponde un rimborso distribuito nel tempo, usualmente certo e predefinito, ancorché occultato nella commistione con il derivato.

Lo spread aggiunto -commisurato al nozionale dell’operazione che, di regola, è un multiplo dell’upfront -viene a coincidere con la rata costante (o proporzionale, se il nozionale è decrescente nel tempo) necessaria all’ammortamento dell’upfront finanziato. Secondo questa ricostruzione, pertanto, sarebbe opportuno tenere separate le due operazioni, l’una commutativa e l’altra aleatoria: la parte aleatoria rimane circoscritta al puro swap, mentre il rimborso dell’upfront assume la natura di una costante che non altera il rischio posto a carico dell’operatore2.

Nell’affiancare alla componente aleatoria una commutativa, il rischio rimane invariato, ma aumenta il costo.

In taluni swaps la presenza di un upfront arriva a determinare una struttura contrattuale nella quale i flussi di pagamento dell’intermediario -al netto di quelli posti a carico del cliente -risultano probabilisticamente assai remoti e modesti.

In questo caso, la componente finanziamento è prevalente e il flusso si configura come il pagamento della rata di rimborso del finanziamento corretta per il pimodesto flusso aleatorio che riviene dalla componente di swap.

In simili circostanze, è svilita la funzione connaturata al genus del contratto, il quale risulta deviato a realizzare, attraverso una forma atipica, un finanziamento1.

In altri contratti, la presenza dell’upfront è, invece, accompagnata da un più significativo scambio di rischio, con liquidazione di un differenziale aleatorio: le due componenti fuse in un unico flusso determinano alterne movimentazioni finanziarie, seppur prevalentemente a carico del cliente, per la necessaria compensazione dell’upfront.

Alla luce di queste considerazioni, si è sostenuto, allora, che la presenza dell’upfront non troverebbe giustificazione, nella maggioranza dei casi, né nella costruzione dello swap né in particolari esigenze o opportunità di mercato.

Pertanto, la dottrina, in virtù degli esposti rilievi, ha fornito una peculiare ricostruzione della figura dell’upfront2, evidenziando come non vi sia alcun elemento che connaturi l’upfront allo swap, risultando la funzione del primo distinta da quella del secondo3.

Anzi, la funzione di copertura del rischio che sovente accompagna lo swap, impiegata alla stregua di un prodotto assicurativo, sarebbe più consona al pagamento di un premio che all’incasso di un upfront.

Per questi autori, l’elemento determinante la figura dello swap sarebbe la diversa aspettativa sulla posizione relativa e non assoluta dei tassi (o delle valute).

Oggetto del contratto sarebbe la differenza a termine e l’alea che permea il contratto non sarebbe riferita ai distinti tassi (o valute) che lo compongono, bensì alla loro differenza.

Siffatti aspetti sarebbero del tutto assenti nel finanziamento, ove si realizza un effettivo scambio di un ammontare iniziale contro importi futuri.

Nell’IRS le parti si accorderebbero sulla corresponsione a termine del differenziale, spartendosi l’alea sulla base di una suddivisione paritaria espressa dal mercato, ma alla quale esse attribuirebbero una diversa valutazione probabilistica4.

L’elemento determinante il contratto di mutuo o di finanziamento sarebbe, invece, la necessità di risorse finanziarie.

Il tasso, se fisso o variabile, non sarebbe un aspetto primario, ancorché la sua valutazione sia assunta, congiuntamente ad altri fattori, in funzione delle aspettative future dei tassi.

Coerentemente con tale prospettazione, il valore del derivato, espresso dal mark to market -pari inizialmente all’upfront, detratte le commissioni di intermediazione sarebbe stato ricompreso nelle segnalazioni alla Centrale dei rischi, alla stregua di un ordinario finanziamento1.

La stessa Commissione europea, occupandosi dei contratti di swap con upfront (off-market swaps) in sede di rilevazione dei deficit dei governi (Excessive Deficit Procedure), avrebbe rilevato la distinzione fra la componente di finanziamento e quella propriamente aleatoria2.

Altri autori sono giunti a conclusioni non troppo dissimili, pur svolgendo un’analisi diversa.

La ricostruzione che vede nell’upfront una anticipazione di futuri flussi positivi è contestata3 da chi osserva che, in primo luogo, così sarebbe esaltato il carattere speculativo dell’operazione, rispetto a quello di copertura gradito alle pubbliche amministrazioni.

Inoltre, si evidenzia che, in questo modo, è individuato illogicamente l’oggetto dell’operazione.

L’IRS concerne l’alea che il futuro andamento dei tassi si discosti dalle previsioni delle parti e, quando lo swap è par, il suo valore di mercato è zero.

In presenza di un upfront, però, lo swap non è par, perché, proprio in base all’accordo sui tassi raggiunto dalle parti al momento della nascita del contratto, lo swap produrrà perdite per chi lo ha ricevuto, recando il contratto ab origine un divario.

Il fair value dello swap sarebbe, quindi, in caso di upfront, negativo per il cliente.

A ciò si aggiunge che, di solito, l’upfront è inferiore a quanto occorre per pareggiare il valore di mercato dell’IRS.

Così ragionando, però, l’upfront non è un semplice prezzo, ma una erogazione finanziaria, un finanziamento di cassa il quale, per sua natura, non genera ricavi per il cliente, ma solo disponibilità di denaro e costi, come confermato, ad esempio, dall’articolo 3, comma 17, della legge n. 350 del 2003, poi modificato dall’articolo 62, comma 3 bis, della legge n. 133 del 2008, disposizione dettata in tema di derivati pubblici che ha incluso, fra le diverse forme di indebitamento, pure “l’eventuale premio incassato al momento del perfezionamento delle operazioni derivate”.

In questa ottica, non rileva che, nella realtà, i derivati con upfront non stabiliscano l’obbligo del percettore di restituirlo.

Infatti, la restituzione è indiretta, ricompresa nell’intesa che prevede, nel corso dell’esecuzione dell’IRS, di effettuare pagamenti futuri determinati, al momento della stipulazione, in modo da rimborsare l’upfront con gli interessi.

Indubbiamente, non può negarsi che, se si vede nel derivato un contratto aleatorio, l’upfront potrebbe non essere reso, ma ciò non ne esclude la previsione nell’intesa iniziale.

In effetti, se si guarda alle fattispecie nelle quali l’upfront non è restituito, può sostenersi che non si tratta di un finanziamento1.

Peraltro, a prescindere dalla circostanza che, nella grande maggioranza delle ipotesi, detto upfront è restituito, questa considerazione si presta all’obiezione che, nel nostro ordinamento, sono perfettamente ammissibili finanziamenti aleatori2.

Inoltre, si è osservato che, nella prassi, lo swap con upfront può essere ceduto, dopo la stipulazione, dalla banca, incassando una somma pari o superiore all’upfront, o dal cliente (se non sono presenti le comuni clausole di incedibilità del derivato), il quale verserà un importo pari o maggiore dell’upfront ottenuto.

Pertanto, nell’uso commerciale, l’unico che veramente conta, l’upfront sarebbe inteso come un costo per il cliente, il quale per cederlo dovrebbe pagare un sovrapprezzo; al contrario, l’istituto di credito, ove trasferisca a terzi l’IRS, riceverebbe un premio in ragione della presenza dell’upfront.

D’altronde, la tesi che vede nell’upfront il versamento di una parte dei flussi positivi netti che il contratto genererà in futuro in favore del cliente prende in esame solo quella che è la previsione di quest’ultimo mentre, invece, l’intermediario considererà l’upfront de quo una componente dei flussi netti che il derivato produrrà a vantaggio suo ed a debito del detto cliente.

In pratica, nella logica dello swap, almeno nell’ottica di chi paga l’upfront, non è tanto la banca che corrisponde al cliente il capitale attualizzato di una rendita che quest’ultimo dovrebbe ricevere, ma, piuttosto, è l’istituto di credito che ottiene la promessa di una futura rendita ed accetta di pagare subito il capitale equivalente alla sua attualizzazione, con l’intesa che verrà restituito con gli interessi.

Se veramente l’upfront fosse una anticipazione di quanto dovuto in futuro al cliente, non è chiaro perché nel contratto dovrebbe essere concordato un meccanismo che ne consenta, almeno in teoria, la restituzione.

Qualora realmente fosse previsto l’upfront, ma non la sua restituzione neppure indiretta, l’operazione sarebbe anomala, atteso che l’intermediario arricchirebbe il cliente senza ricevere nulla in cambio, poiché non solo concluderebbe un derivato favorevole alla controparte, ma addirittura le pagherebbe in anticipo l’atteso guadagno.

Questa dottrina ne desume che lo swap con upfront andrebbe ascritto alla categoria dei contratti di credito, ancorché con la caratteristica di presentare il carattere (teorico) della aleatorietà nella restituzione della somma versata, con la conseguenza che andrebbe trattato contabilmente “a segni invertiti”, nel senso che chi la percepisce non ha un ricavo e deve segnare la posizione assunta con il contratto con un meno, che esprime il debito contratto, mentre il corrispondente segno più dovrebbe risultare nei conti di cassa.

Con riguardo agli enti pubblici, le Sezioni Unite hanno precisato che, qualora detti enti, nello stipulare contratti derivati, ricevano importi a titolo di upfront, tali somme rappresentano un finanziamento, che deve essere qualificato come indebitamento, ai fini della normativa di contabilità pubblica e dell’art. 119 Cost. (anche per il periodo antecedente l’approvazione dell’art. 62, comma 9, d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 133 del 2008, successivamente sostituito dall’art. 3 l. n. 203 del 2008, che ha solo preso atto della natura di indebitamento di quanto conseguito con detto upfront), mentre lo stesso non può dirsi della collegata operazione di swap, la quale deve essere guardata nel suo complesso, al fine di verificare se l’effetto che produce può consistere sostanzialmente in un indebitamento (Sez. U, n. 08770/2020, Genovese, Rv. 657963-05).

In tale quadro, secondo le Sezioni Unite, l’autorizzazione alla conclusione di un contratto di swap da parte dei comuni italiani, in particolare se del tipo con finanziamento upfront -ma anche in tutti quei casi nei quali la negoziazione si traduce comunque nell’estinzione dei precedenti rapporti di mutuo sottostanti, ovvero nel loro mantenimento in vita ma con rilevanti modificazioni -deve essere data, a pena di nullità, dal consiglio comunale, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. i), T.U.E.L., non potendo essere assimilata ad un semplice atto di gestione dell’indebitamento dell’ente locale con finalità di riduzione degli oneri finanziari ad esso inerenti, di competenza della giunta comunale, in virtù della sua residuale attribuzione gestoria ex art. 48, comma 2, dello stesso testo unico.

In particolare, l’autorizzazione compete al consiglio comunale quando l’IRS negoziato incida sull’entità globale dell’indebitamento del Comune, tenuto conto che la ristrutturazione del debito deve essere accertata considerando l’operazione nel suo complesso, con la ricomprensione dei costi occulti che gravano sul rapporto (Sez. U, n. 08770/2020, Genovese, Rv. 657963-06).

SEZIONE V DIRITTO DEL LAVORO

  • licenziamento
  • contratto di lavoro
  • diritto del lavoro

XI)

I PRINCIPALI INTERVENTI IN MATERIA DI RAPPORTO DI LAVORO NELLA NORMATIVA EMERGENZIALE IN TEMPO DI PANDEMIA.

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 Le linee di intervento del legislatore dell’emergenza - 2 Le fonti normative - 3 Il lavoro agile - 4 La proroga dei contratti a termine. - 5 Il divieto di licenziamento.

1. Le linee di intervento del legislatore dell’emergenza

L’emergenza epidemiologica in atto dal mese di febbraio ha comportato la necessità di intervenire su una pluralità di fronti fra cui, per evidenti ragioni di tutela dell’ordine pubblico economico e sanitario (collettivo ed individuale), anche quello del lavoro e della previdenza.

Gli interventi si sono sviluppati in direzioni diverse volte a tutelare (per certi versi, si potrebbe dire “conservare”) le posizioni dei lavoratori, a proteggere i datori di lavoro mediante la predisposizione di strumenti funzionali ad agevolare modalità di esecuzione della prestazione lavorativa anche in luoghi diversi dagli stabilimenti aziendali o dagli uffici pubblici, individuare forme di “sterilizzazione” delle prestazioni previdenziali.

Gli obiettivi perseguiti dalla legislazione di emergenza sono stati (e sono tuttora) quelli di proteggere la salute individuale e collettiva, di conservare, il più possibile, i livelli occupazionali ed il tessuto produttivo pubblico e privato preesistenti all’inizio della situazione di emergenza, fornire strumenti di integrazione salariale attraverso forme di assistenza ai soggetti (inclusi i percettori di reddito da attività libero professionale) impossibilitati a rendere prestazioni lavorative.

In tale ottica si pongono anche le norme (inizialmente contenute nel titolo I, capo II, d.l. n. 18 del 2020) in tema di riduzione dell’orario di lavoro anche in ragione della indisponibilità dei servizi per l’infanzia.

Più precisamente, gli interventi in materia di lavoro si sono concentrati sulla conservazione del rapporto di lavoro (proroga dei contratti di lavoro a tempo determinato e divieto di licenziamenti individuali e collettivi) e sulla previsione della possibilità di svolgimento della prestazione lavorativa presso l’abitazione privata del lavoratore.

Si tratta di una normativa che ha subito (e continua tuttora a subire) progressive modifiche, integrazioni e, comunque, “aggiornamenti” in base all’evoluzione dell’andamento dell’epidemia anche perché (almeno in parte) ha comportato l’effettiva trasformazione di alcuni istituti già esistenti (si pensi al lavoro agile, disciplinato normativamente con legge 22 maggio 2017, n. 81 e sul quale l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale è tuttora nella fase iniziale) e l’inevitabile limitazione (inizialmente assoluta, in seguito relativa) di prerogative datoriali riguardanti l’organizzazione dell’attività imprenditoriale interessate da norme di rango costituzionale (art. 41 Cost.) rispetto alle quali, secondo le letture più severe e rigorose, le disposizioni introdotte potrebbero porre seri problemi di compatibilità.

Si è venuto così a creare un sottosistema normativo caratterizzato dalla presenza di norme eccezionali di natura derogatoria con durata temporale limitata che, tuttavia, è stata più volte modificata in ragione dell’andamento della pandemia.

Modifiche che certificano la natura eccezionale delle disposizioni che mutano (quanto meno nella loro durata) man mano che si modifica l’estensione della ragione che vi ha dato causa.

Una disciplina che, come è stato segnalato, ricorda quanto avvenuto nella fase post bellica quando con d.lgt. 21 agosto 1945, n. 523 venne disposto il blocco dei licenziamenti con vigenza fino all’agosto 1947.

Secondo una opzione interpretativa la lettura complessiva della normativa va operata in termini di c.d. “solidarietà sociale”; un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina civilistica contrattuale che consenta di indirizzare l’ermeneutica delle disposizioni eccezionali attraverso l’esigenza di affermare il valore della solidarietà nel diritto dei contratti in ragione della necessità di tenere conto, nel sottosistema in esame, delle sopravvenienze.

A questa lettura se ne contrappone altra che nella previsione di limiti alle prerogative datoriali in materia di recesso dal rapporto di lavoro intravede una pesante frizione con il principio costituzionale di cui all’art. 41 Cost., specie se si considera l’assenza di misure idonee ad annullare gli effetti economici della limitazione per i datori di lavoro.

Il tema sarà affrontato più dettagliatamente nel paragrafo relativo al divieto di licenziamento.

L’obiettivo avuto di mira dal legislatore dell’emergenza è stato quello di tutelare il lavoro e le attività produttive attraverso limitazioni a provvedimenti espulsivi ed il ricorso ad interventi di solidarietà economica e sociale per il tramite degli enti preposti a tali compiti a norma dell’art. 2 Cost..

Ciò in quanto il sostanziale blocco delle attività produttive non ha permesso ai datori di lavoro di consentire lo svolgimento della prestazione, ma nemmeno di “eliminare” le forze lavorative non necessarie.

L’intervento della cassa integrazione ordinaria o in deroga è stato giustificato dalla chiusura totale o parziale della attività produttive che ha reso temporaneamente impossibili le prestazioni delle parti del rapporto di lavoro.

Da qui anche la segnalata trasformazione della cassa integrazione che, nell’economia della normativa emergenziale ha la funzione di indennizzo per l’impossibilità che grava sull’azienda di continuare la sua operatività; funzione che è diversa da quella tradizionale da individuarsi nel consentire una riorganizzazione aziendale per gli imprenditori colpiti da condizioni di particolari crisi di mercato o produttive.

Ciò nonostante, la procedura descritta dal legislatore richiede pur sempre l’attivazione da parte del datore di lavoro (per la cassa ordinaria) e la cooperazione con i sindacati (per quella in deroga) con conseguenti problematiche che potrebbero insorgere in ordine alla natura della responsabilità datoriale nel caso in cui non venga attivata la procedura collettiva laddove ne ricorressero i presupposti.

Dunque, il tema della sospensione dell’attività lavorativa e della mancata esecuzione della prestazione per causa non imputabile al datore di lavoro o al lavoratore è stato affrontato nella legislazione di emergenza con la predisposizione di una doppia forma di indennizzo che non ha natura di rimedio esclusivo per la conservazione del posto di lavoro lasciando, in ogni caso, ferma la possibilità (auspicata da una certa dottrina) dei patti sulla riduzione della retribuzione entro i minimi contrattuali, della utilizzazione dell’orario multiperiodale per integrare la retribuzione dei lavoratori che percepiscono la retribuzione ridotta per cassa integrazione in deroga o delle ferie e dei permessi come alternative alla medesima cassa.

2. Le fonti normative

I principali interventi normativi nella materia si sono avuti con i seguenti decreti legge:

decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 37 (c.d. Cura Italia);

decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 (c.d. Rilancio);

decreto legge 14 agosto 2020, n. 104, convertito con modificazioni dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126 (c.d. Agosto);

decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137 (c.d. Ristori), convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176 che ha contestualmente abrogato i d.l. 9 novembre 2020, n. 149 (Ristori-bis), 23 novembre 2020, n. 154 (Ristori-ter) e 30 novembre 2020, n. 157 (Ristori-quater) riunendo, così, le misure adottate nel mese di novembre in un unico provvedimento.

Inoltre la legge 30 dicembre 2020, n. 178 (legge di Bilancio 2021) è intervenuta con disposizioni sia in materia di ammortizzatori sociali, proroga dei contratti a termine e prolungamento al 31.3.2021 del blocco dei licenziamenti collettivi ed individuali.

Ancora, rilevano, sebbene come norme di rango inferiore, gli innumerevoli D.P.C.M. che si sono succeduti nell’anno 2020 e che continuano ad essere emessi per adeguare la regolamentazione (anche) di materie rilevanti in questa sede all’andamento della situazione sanitaria del Paese.

In particolare, si ricorda, tra gli ultimi ed ai fini della disciplina del lavoro agile nella Pubblica Amministrazione, il D.P.C.M. 13 ottobre 2020 cui ha fatto seguito di decreto del Ministro della Funzione Pubblica del 19 ottobre 2020

3. Il lavoro agile

La direzione nella quale si è mosso il legislatore è quella di estendere la possibilità di ricorrere a forme di lavoro da remoto e garantire la possibilità (in alcuni casi individuando un vero e proprio diritto soggettivo) dello svolgimento della prestazione in luogo diverso dal posto di lavoro limitando quello “in presenza” alle attività per le quali tale modalità sia imprescindibile.

L’originaria funzione del lavoro agile risiede nello “scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”, mentre il potenziamento, nei termini che si vedranno, del ricorso a tale forma di lavoro, nella disciplina emergenziale ha la finalità, come detto, di garantire esigenze di ordine pubblico economico e sanitario e, specie per quanto riguarda la Pubblica Amministrazione, di assicurare la continuità dei servizi.

Le disposizioni hanno lo scopo di far sì che lo svolgimento della prestazione lavorativa fuori dai luoghi di pertinenza del datore di lavoro avvenga in maniera molto più diffusa e con previsioni che prescindano dagli accordi individuali e dagli obblighi informativi previsti dalla legge 81 del 2017 che, per prima, ha disciplinato il lavoro da remoto.

Uno degli elementi che caratterizza la forma tipica del lavoro agile è costituto dall’accordo individuale di cui all’art. 19 della legge n. 81 del 2017.

La norma, infatti, stabilisce, specificando il contenuto della pattuizione alla quale fa riferimento il precedente art. 18, che “l'accordo relativo alla modalità di lavoro agile è stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova, e disciplina l'esecuzione della prestazione lavorativa svolta all'esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore. L'accordo individua altresì i tempi di riposo del lavoratore nonchè le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”.

In ciò è stato detto, risiede il nucleo della particolarità del lavoro agile: l’atteggiarsi assolutamente peculiare della subordinazione (da alcuni definita espressamente “attenuata”) e dell’esercizio del potere direttivo e conformativo del datore di lavoro che, nella fattispecie, è frutto di una sorta di contrattualizzazione. Allo scopo di implementare il ricorso alla forma del lavoro agile, fino a renderla, nel pubblico impiego (almeno nella fase acuta dell’emergenza sanitaria) il modo preferibile di svolgimento dell’attività lavorativa, il legislatore è intervenuto, in primo luogo, proprio sulla non necessità dell’accordo individuale.

L'art. 87 del d.l. n. 18 del 2020 ha previsto la possibilità di ricorrere al lavoro agile anche in assenza degli accordi individuali di cui all’art. 19 della legge n. 81 del 2017 con l'assolvimento in via telematica degli obblighi di informativa indicati dal successivo art. 22 della legge n. 81 del 2017.

In particolare, ha stabilito quanto segue: “Fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-2019, ovvero fino ad una data antecedente stabilita con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro per la Pubblica Amministrazione, il lavoro agile è una delle modalità ordinarie di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che, conseguentemente: a) limitano la presenza del personale nei luoghi di lavoro per assicurare esclusivamente le attività che ritengono indifferibili e che richiedono necessariamente tale presenza, anche in ragione della gestione dell'emergenza; b) prescindono dagli accordi individuali e dagli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81. 2. La prestazione lavorativa in lavoro agile può essere svolta anche attraverso strumenti informatici nella disponibilità del dipendente qualora non siano forniti dall'amministrazione. In tali casi l'articolo 18, comma 2, della legge 22 maggio 2017, n. 81 non trova applicazione”.

La funzione dell’eliminazione del (necessario) accordo individuale e dell’informativa sui rischi ai sensi dell’art. 22 legge n. 81 del 2017 (che, con modalità più snelle, rimane per i datori di lavoro privati ai sensi dell’art. 90, d.l. n. 34 del 2020 del quale si dirà in seguito) risiede, ovviamente, nell’esigenza di aumentare il ricorso al lavoro agile riducendo i correlati adempimenti formali.

La mancanza della necessità dell’accordo comporta, in sostanza, che la modalità di lavoro agile è determinata dall’esercizio da parte del datore di lavoro dello ius variandi; essa diviene una forma di gestione dell’esecuzione del rapporto nell’ambito del potere direttivo e conformativo che spetta alla Pubblica Amministrazione in virtù della nuova disciplina legislativa dell’istituto.

Disciplina che ha subito, come si vedrà, modificazioni in occasione dei successivi interventi normativi di urgenza essendo stata modificata l’impostazione iniziale che ha visto prevalere una sorta di “obbligatorietà” del lavoro agile nella Pubblica Amministrazione con esclusione delle sole attività indifferibili e che richiedono necessariamente la presenza, anche in ragione della gestione dell'emergenza.

Quindi: lavoro agile come modalità con la quale ordinariamente viene svolta la prestazione lavorativa e presenza come eccezione.

La prestazione, peraltro, può essere svolta anche con strumenti nella disponibilità del lavoratore con esonero della Pubblica Amministrazione dalla responsabilità su essa gravante ex art. 18, comma 2 legge 81 del 2017.

Esonero che deve ritenersi esteso alle condizioni di sicurezza del “non luogo” di lavoro nel quale il prestatore rende la sua attività lavorativa

La norma prevede altresì, per l’ipotesi in cui la prestazione non possa essere svolta in modalità di lavoro agile, la possibilità per il datore di lavoro pubblico di ricorrere agli strumenti delle “ferie pregresse, del congedo, della banca ore, della rotazione e di altri analoghi istituti, nel rispetto della contrattazione collettiva” e che “esperite tali possibilità le amministrazioni possono motivatamente esentare il personale dipendente dal servizio”.

La disciplina del lavoro agile nella Pubblica Amministrazione è stata in seguito aggiornata, in base all’andamento dei contagi che ha consentito la parziale riapertura dei servizi, degli uffici e delle attività produttive e commerciali.

E’ stata, dunque, individuata la percentuale di attività da svolgere con la modalità del lavoro agile nella misura del 50% (mentre, in precedenza, si era fatto riferimento all’attività “indifferibile”) stabilendo che alla data del 15.9.2020 l’art. 87, comma 1, lett. a) d.l. n. 18 del 2020 (norma che indica il presupposto della indifferibilità), avrebbe cessato di avere efficacia.

La disposizione si rinviene nell’art. 263 d.l. n. 34 del 2020 ove si legge che: “al fine di assicurare la continuità dell'azione amministrativa e la celere conclusione dei procedimenti, le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, adeguano l'operatività di tutti gli uffici pubblici alle esigenze dei cittadini e delle imprese connesse al graduale riavvio delle attività produttive e commerciali. A tal fine, fino al 31 dicembre 2020, in deroga alle misure di cui all'articolo 87, comma 1, lettera a), e comma 3, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, organizzano il lavoro dei propri dipendenti e l'erogazione dei servizi attraverso la flessibilità dell'orario di lavoro, rivedendone l'articolazione giornaliera e settimanale, introducendo modalità di interlocuzione programmata, anche attraverso soluzioni digitali e non in presenza con l'utenza, applicando il lavoro agile, con le misure semplificate di cui al comma 1, lettera b), del medesimo articolo 87, al 50 per cento del personale impiegato nelle attività che possono essere svolte in tale modalità e comunque a condizione che l'erogazione dei servizi rivolti a cittadini ed imprese avvenga con regolarità, continuità ed efficienza, nonchè nel rigoroso rispetto dei tempi previsti dalla normativa vigente. In considerazione dell'evolversi della situazione epidemiologica, con uno o più decreti del Ministro per la Pubblica Amministrazione possono essere stabilite modalità organizzative e fissati criteri e principi in materia di flessibilità del lavoro pubblico e di lavoro agile, anche prevedendo il conseguimento di precisi obiettivi quantitativi e qualitativi. Alla data del 15 settembre 2020, l'articolo 87, comma 1, lettera a), del citato decreto-legge n. 18 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 27 del 2020 cessa di avere effetto”.

La norma ha demandato ad uno o più decreti del Ministro della Pubblica Amministrazione l’individuazione di “modalità organizzative e criteri e principi in materia di flessibilità del lavoro pubblico e di lavoro agile, anche prevedendo il conseguimento di precisi obiettivi quantitativi e qualitativi”.

La disposizione, secondo l’interpretazione data con Circolare della funzione pubblica n. 3 del 2020, impedisce di ritenere applicabile, a partire dalla entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 34 del 2020, anche il comma 3 dell’art. 87 del d.l. n. 18 del 2020 che ha previsto la possibilità di esonero dal servizio per i dipendenti le cui attività non sia possibile organizzare in modalità agile.

Il decreto del Ministro della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 263, comma 1, d.l. n. 34 del 2020 è stato emanato il 19.10.2020 ed è stato già bersaglio di numerose critiche, in particolare per la (asserita) pretesa di disciplinare aspetti del lavoro agile già regolamentati con normazione primaria e, quindi, in violazione del principio della gerarchia delle fonti.

Preme segnalare come il decreto abbia indicato la forma del lavoro agile come una delle modalità ordinarie di svolgimento della prestazione lavorativa e come, fino al 31.12.2020, continui a non essere richiesto l’accodo individuale di cui all’art. 19 legge n. 81 del 2017.

Inoltre, al di là delle disposizioni dettate per la dirigenza che è tenuta a disciplinare l’organizzazione della specifica modalità lavorativa della quale si sta trattando, è interessante rilevare come il decreto abbia avuto cura di specificare che “il lavoro agile si svolge ordinariamente in assenza di precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro. In ragione della natura delle attività svolte dal dipendente o di puntuali esigenze organizzative individuate dal dirigente, il lavoro agile può essere organizzato per specifiche fasce di contattabilità. Nei casi di prestazione lavorativa in modalità agile, svolta senza l’individuazione di fasce di contattabilità, al lavoratore sono garantiti i tempi di riposo e la disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro” (art. 5).

Esplicitato, quindi, che ci si trova di fronte ad un rapporto di lavoro nel quale gli elementi “classici” della prestazione, del luogo di svolgimento dell’attività, dell’orario, dell’inserimento nell’organizzazione si atteggiano in maniera affatto peculiare.

In funzione dell’implementazione dell’utilizzazione dello strumento del lavoro agile anche il decreto semplificazioni (d.l. n. 76 del 2020, convertito dalla legge n. 120 del 2020) ha previsto specifiche disposizioni in tema di potenziamento della strumentazione tecnologica da parte della Pubblica Amministrazione per garantire l’incremento di tale forma particolare di svolgimento dell’attività lavorativa.

Una modalità che, in prospettiva, potrebbe anche essere sganciata dalla contingenza dettata dall’emergenza epidemiologica in corso e divenire uno strumento ordinario di assolvimento della prestazione di lavoro.

Va ricordato che il D.P.C.M. del 3.11.2020 ha disposto che nelle pubbliche amministrazioni, tenuto conto dell'evolversi della situazione epidemiologica, ciascun dirigente organizza il proprio ufficio assicurando, su base giornaliera, settimanale o plurisettimanale, lo svolgimento del lavoro agile nella percentuale più elevata possibile, e comunque in misura non inferiore a quella prevista dalla legge, del personale preposto alle attività che possono essere svolte secondo tale modalità, compatibilmente con le potenzialità organizzative e l'effettività del servizio erogato.

E’ demandato, quindi, all’iniziativa organizzativa dei dirigenti l’individuazione della maggiore percentuale possibile di lavoratori che svolgano la prestazione in modalità agile, senza, tuttavia, che venga pregiudicata l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa.

Il legislatore, così come le fonti normative di rango inferiore, continua a tentare una mediazione tra le esigenze della continuità dell’azione amministrativa e quelle della tutela della salute individuale e pubblica.

Mentre nel settore pubblico la modalità di lavoro agile è ordinaria, nel settore privato, il datore di lavoro, tranne i casi che si vedranno, può utilizzare tale forma di organizzazione della prestazione lavorativa.

E’ demandata alla scelta datoriale la possibilità di ricorrere al lavoro agile.

La struttura dell’art. 90 del d.l. n. 34 del 2020 prevede al primo comma l’individuazione dei casi in cui il lavoratore ha diritto (casi successivamente ampliati dalla normativa succedutasi nel tempo) allo svolgimento della prestazione agile con la conseguente descrizione delle modalità e delle prescrizioni formali.

Assumono particolare rilievo il comma 1 della norma che ha affermato il diritto allo svolgimento del lavoro agile per “i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di anni 14, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell'attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore, (…) anche in assenza degli accordi individuali, fermo restando il rispetto degli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, e a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione.”

Lo stesso diritto è stato riconosciuto “ ai lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio da virus SARS-CoV-2, in ragione dell'età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o, comunque, da comorbilità che possono caratterizzare una situazione di maggiore rischiosità accertata dal medico competente, nell'ambito della sorveglianza sanitaria di cui all'articolo 83 del presente decreto, a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione lavorativa”.

Il diritto del lavoratore è riconosciuto a condizione che vi sia la compatibilità della modalità di lavoro agile con le “caratteristiche della prestazione”, ossia deve trattarsi di una prestazione lavorativa che sia effettivamente realizzabile senza la presenza fisica del lavoratore nei luoghi “ordinari”.

Analogamente a quanto previsto per il pubblico impiego “la prestazione lavorativa in lavoro agile può essere svolta anche attraverso strumenti informatici nella disponibilità del dipendente qualora non siano forniti dal datore di lavoro”.

Sempre in analogia con quanto previsto in materia di pubblico impiego, la modalità di lavoro agile può essere applicata dai datori di lavoro privati a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dagli artt. da 18 a 23 della lege n. 81 del 2017, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti (comma 4 dell’art. 90).

Dunque, rispetto al lavoro pubblico, la prospettiva cambia radicalmente: in quel caso è prevista una modalità organizzativa in cui il lavoro agile deve essere preferito, nel lavoro privato la scelta, con le eccezioni dei casi in cui è configurabile un diritto soggettivo del lavoratore, è rimessa al potere conformativo ed organizzativo del datore di lavoro, pur trattandosi di modalità che (secondo il D.P.C.M. del 3.11.2020 è “raccomandata fortemente” ex art. 5.6.).

Ulteriori casi in cui è stato previsto il diritto allo svolgimento dell’attività lavorativa in modalità agile riguardano, in primo luogo, i lavoratori affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa (che hanno la priorità nell'accoglimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile ex art. 39, comma 2, d.l. n. 18 del 2020).

Altra categoria che fruisce di analogo diritto è quella dei dipendenti pubblici e privati in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali, attestante una condizione di disabilità grave, di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita.

Il diritto allo svolgimento del lavoro in modalità agile può essere realizzato anche attraverso la destinazione a mansione diversa o lo svolgimento di specifiche attività di formazione professionale anche da remoto ex art. 26, comma 2bis, d.l. n. 18 del 2020.

Inoltre, i genitori lavoratori dipendenti privati con almeno un figlio con disabilità grave o in quarantena per contatti scolastici hanno diritto di svolgere l'attività lavorativa in modalità agile, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore non lavoratore e che l'attività lavorativa non richieda necessariamente la presenza fisica fino al 30.6.2021 (caso in cui, invece, il lavoratore ha diritto ad un congedo straordinario retribuito al 50% per tutto o parte del periodo corrispondente alla durata della quarantena del figlio) ai sensi degli artt. 21bis e 21 ter d.l. n. 104 del 2020 per come modificati anche dal più recente d.l. n. 137 del 2020.

Analogamente per il personale docente e ATA assunto con contratti a tempo determinato nell'anno scolastico 2020/2021, in caso di sospensione delle attività didattiche.

Si tratta, dunque, di casi in cui il lavoro agile è un diritto, per come riconosciuto dalla prime decisioni di merito edite sul punto.

Si registrano i casi di lavoratrice madre con l’esigenza di controllare un figlio disabile per il quale la genitrice ha certificato l’importanza della propria presenza per l’equilibrio e la stabilità dello stesso figlio, per la quale risulta meglio garantita la possibilità di svolgere il lavoro (dipendente asl) presso la propria residenza; lavoro che, in concreto non è incompatibile con la modalità agile (Trib. Roma 20.6.2020).

Ancora, è stato affermato il diritto allo svolgimento del lavoro agile della lavoratrice madre invalida con figlia disabile a carico che può lavorare da casa utilizzando il telefono e strumenti informatici per prevenire il contagio da COVID19 per sé e per la figlia (Trib. Bologna 23.4.2020).

Infine, nel settore privato, è stato affermato che condizione per avvalersi del diritto al lavoro agile è costituita dalla compatibilità della prestazione da casa con le caratteristiche del lavoro richiesto al dipendente.

E’ stato escluso che il lavoro del quadro direttivo con mansioni di responsabile di progettazione impianti nuove strutture ed assistenza tecnica per società di parcheggi possa essere compatibile con la modalità di lavoro agile laddove l’accudimento della figlia venga svolto dalla moglie che, a sua volta, svolge lavoro agile (Trib. Mantova 26.6.2020).

4. La proroga dei contratti a termine.

E’ stato ampliato il ricorso al lavoro a termine individuando deroghe alla possibilità di stipulare o prorogare contratti a termine.

Nel contesto delle misure a sostegno del lavoro ed, in particolare, di quelle in tema di ammortizzatori sociali, l’art. 19-bis d.l. n. 18 del 2020 ha previsto che “ai datori di lavoro che accedono agli ammortizzatori sociali di cui agli articoli da 19 a 22 del presente decreto, nei termini ivi indicati, è consentita la possibilità, in deroga alle previsioni di cui agli articoli 20, comma 1, lettera c), 21, comma 2, e 32, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, di procedere, nel medesimo periodo, al rinnovo o alla proroga dei contratti a tempo determinato, anche a scopo di somministrazione”.

Fra le misure urgenti in materia di lavoro e politiche sociali, l’art. 93 d.l. n. 34 del 2020 ha inizialmente previsto che “per far fronte al riavvio delle attività in conseguenza all'emergenza epidemiologica da COVID-19, è possibile rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere alla data del 23 febbraio 2020, anche in assenza delle condizioni di cui all'articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81”, ovvero in assenza delle causali che legittimano l’apposizione del termine al contratto di lavoro e cioè: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell'attività ordinaria.

La norma ha subito modificazioni per effetto dell’art. 8 d.l. n. 104 del 2020 che ha esteso la possibilità del rinnovo e della proroga eliminando il riferimento alla data del 23.2.2020 in ordine alla esistenza del contratto a termine, stabilendo ed individuando un periodo massimo di dodici mesi, purchè si tratti di proroga o rinnovo intervenuti entro il 31.12.2020 e con il limite di una sola volta.

La disposizione va intesa nel senso che la proroga o il rinnovo debbano intervenire entro il 31.12.2020 potendo il contratto protrarsi anche successivamente.

In sede di conversione del d.l. n. 34 del 2020 è stato introdotto il comma 1-bis dell’art. 93 secondo cui per cui gli apprendisti ed i titolari di contratti a termine, anche in somministrazione, a cui sia stata sospesa l'attività lavorativa in conseguenza dell'emergenza, possono vedersi prorogato il termine in misura equivalente al periodo per i quali gli stessi sono stati sospesi.

La disposizione è stata poi abrogata dal d.l. n. 104 del 2020 (art. 8 cit.).

Con il dichiarato obiettivo di promuovere il lavoro agricolo l’art. 94 d.l. n. 34 del 2020 ha previsto che i percettori di ammortizzatori sociali, limitatamente al periodo di sospensione a zero ore della prestazione lavorativa, di NASPI e DIS-COLL nonche' di reddito di cittadinanza possono stipulare con datori di lavoro del settore agricolo contratti a termine non superiori a 30 giorni, rinnovabili per ulteriori 30 giorni, senza subire la perdita o la riduzione dei benefici previsti, nel limite di 2000 euro per l'anno 2020.

In relazione ai contratti di somministrazione è stato previsto che, con efficacia fino al 31.12.2021, nel caso in cui il contratto tra agenzia di somministrazione e lavoratore sia a tempo indeterminato, non trovino applicazione i limiti di durata complessiva della missione a tempo determinato presso un soggetto utilizzatore.

L’art. 1, comma 279, della legge 178/2020 (legge di Bilancio 2021) ha sostituito la data 31.12.2020 contenuta nell’art. 93 sopra citato con quella 31.3.2021.

5. Il divieto di licenziamento.

Si è detto che l’intervento del legislatore in materia di licenziamenti ricorda il blocco dei recessi datoriali previsto nell’immediata fase post bellica.

Ciò rende, probabilmente, l’idea della fase economica e sociale venutasi a creare e degli sviluppi che è lecito attendersi.

Il legislatore si è dunque preoccupato di individuare una sorta di sottosistema di tutele nel quale si inserisce la riforma temporanea della disciplina dei licenziamenti che, anche in questo caso, come avvenuto per il lavoro agile, ha risentito dell’evoluzione dell’andamento epidemico ed, evidentemente, dei riflessi pratici che hanno avuto le misure di volta in volta adottate.

La prima norma introdotta è stata l’art. 46, comma 1, d.l. n. 18 del 2020 nella quale è stato previsto che “a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l'avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per cinque mesi e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell'appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d'appalto. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604. Sono altresì sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604”.

L’eccezione riguarda, dunque, i soli casi in cui sia la contrattazione nazionale (e non quella decentrata) a prevedere la riassunzione, mentre il riferimento ai casi in cui sia la legge a disporla, viene ritenuto ininfluente non essendo la materia disciplinata da alcuna norma primaria.

Nonostante la previsione letterale della norma sembrerebbe riferirla ai soli licenziamenti collettivi, pare preferibile, secondo quanto sostenuto dalla prevalente dottrina, l’interpretazione secondo cui essa riguarda sia i licenziamenti collettivi che quelli individuali, dovendosi privilegiare una lettura della norma secondo quelle che sono le intenzioni del legislatore ai sensi dell’art. 12 preleggi

Il divieto è stato inizialmente previsto per cinque mesi.

Il comma 1-bis della medesima disposizione ha inoltre previsto un’ipotesi eccezionale di revoca del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo stabilendo che “il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020 abbia proceduto al recesso dal contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, può in deroga alle previsioni di cui all'articolo 18, comma 10, della legge 20 maggio 1970, n. 300, revocare in ogni tempo il recesso purchè contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale, di cui agli articoli da 19 a 22, a partire dalla data in cui ha efficacia il licenziamento. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri nè sanzioni per il datore di lavoro”.

Si è individuato un collegamento tra le vicende del rapporto di lavoro e la cassa integrazione subordinando il (sostanziale) ripristino del rapporto alla richiesta di intervento degli ammortizzatori sociali.

Si tratta di una norma di favore per il datore di lavoro che ha la funzione di “alleggerire” il peso della permanenza del rapporto in un momento di (probabile) difficoltà del datore nel consentire il ripristino del rapporto. Il quadro normativo di riferimento è stato modificato per effetto dell’art. 14 d.l. n. 104 del 2020 che ha previsto un divieto subordinato alla ricorrenza di determinate condizioni.

La norma si pone in discontinuità rispetto alla precedente disciplina della quale ha ridisegnato i contorni ed i presupposti, verosimilmente, in ragione della prevista e prevedibile maggiore durata di vigenza, nonostante l’utilizzazione di terminologia che parrebbe lasciare intendere una volontà di esprimere continuità (“il licenziamento resta precluso”).

I primi due commi della norma così recitano: “Ai datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all'emergenza epidemiologica da COVID-19 di cui all'articolo 1 ovvero dell'esonero dal versamento dei contributi previdenziali di cui all'articolo 3 del presente decreto resta precluso l'avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223 e restano altresì sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell'appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto di appalto. 2. Alle condizioni di cui al comma 1, resta, altresì', preclusa al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e restano altresì sospese le procedure in corso di cui all'articolo 7 della medesima legge”.

Si è verificato, dunque, il passaggio dal divieto generalizzato a quello condizionato alla impossibilità per il datore di fruire della cassa integrazione o dell’esonero contributivo come disciplinati dal d.l. 104 del 2020.

E’ stata introdotta una condizione per rendere legittimo l’esercizio del licenziamento, ossia l’esaurimento delle misure di integrazione salariale o esonero contributivo.

Occorre, inoltre, che il datore di lavoro abbia sospeso o ridotto l’attività a seguito Covid; ciò viene desunto, secondo una parte della dottrina, dal meccanismo di rinvii al sistema di integrazione salariale ed esonero contributivo.

Il terzo comma ha previsto una serie di eccezioni alle preclusioni di cui ai punti precedenti:

licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell'attivita' dell'impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della societa' senza continuazione, anche parziale, dell'attivita', nei casi in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni od attivita' che possano configurare un trasferimento d'azienda o di un ramo di essa ai sensi dell'articolo 2112 del codice civile;

accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, a detti lavoratori è comunque riconosciuto il trattamento di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22;

fallimento, quando non sia previsto l'esercizio provvisorio dell'impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione.

Nel caso in cui l'esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell'azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso.

La fattispecie che, allo stato, ha suscitato il maggiore interesse della dottrina è senza dubbio quella degli accordi collettivi aziendali ai quali il singolo lavoratore può aderire.

Si tratta di una fattispecie risolutiva consensuale a formazione progressiva che presuppone la premessa dell’accordo aziendale e che si conclude con l’accesso del lavoratore alla NASPI.

Una fattispecie (che ricorda l’analoga procedura prevista dall’art. 7 legge n. 604 del 1966, come modificato dall’art. 1, comma 40, legge n. 92 del 2012 per i lavoratori assunti entro il 6.3.2015) che non richiede l’attivazione delle procedure per il licenziamento collettivo, né una dichiarazione di eccedenza del personale.

La norma è stata prorogata fino al 31.1.2021 dall’art. 12 del d.l. n. 137 del 2020 con il quale è stato previsto un ulteriore periodo massimo di sei settimane di trattamenti di integrazione salariale, ordinari e in deroga, e di assegno ordinario esclusivamente per periodi intercorrenti tra il 16 novembre 2020 e il 31 gennaio 2021 in favore dei datori di lavoro ai quali sia stato già interamente autorizzato l'ulteriore periodo di nove settimane previsto dal d.l. n. 104 del 2020, decorso il periodo già autorizzato, nonché dei datori di lavoro operanti nei settori oggetto delle nuove restrizioni disposte dal D.P.C.M. 24 ottobre 2020.

Altra causa di sospensione della procedura di licenziamento già avviata è stata individuata dall'art. 60, comma 3, lett. c), d.l. n. 104 del 2020 per l’ipotesi di proroga della CIG di sei mesi per cessazione dell'azienda (ex art. 44 d.l. n. 109 del 2018).

Un’ipotesi particolare di divieto di licenziamento è stata prevista anche dall’art. 23 d.l. 18 del 2020 ove è stato stabilito che “i genitori lavoratori dipendenti del settore privato con figli minori di anni 16, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell'attività lavorativa o che non vi sia altro genitore non lavoratore, hanno diritto di astenersi dal lavoro per l'intero periodo di sospensione dei servizi educativi per l'infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, senza corresponsione di indennità nè riconoscimento di contribuzione figurativa, con divieto di licenziamento e diritto alla conservazione del posto di lavoro”.

Si tratta, evidentemente, di un licenziamento nullo per contrarietà a norma imperativa in quanto l’assenza del lavoratore dal posto di lavoro, in tal caso, costituisce esercizio di un diritto.

Altro divieto temporaneo è stato previsto dall’art. 47, comma 2, d.l. n. 18 del 2020: “Fermo quanto previsto dagli articoli 23, 24 e 39 del presente decreto e fino alla data del 30 aprile 2020, l'assenza dal posto di lavoro da parte di uno dei genitori conviventi di una persona con disabilità non può costituire giusta causa di recesso dal contratto di lavoro ai sensi dell'articolo 2119 del codice civile, a condizione che sia preventivamente comunicata e motivata l'impossibilità di accudire la persona con disabilità a seguito della sospensione delle attività dei Centri di cui al comma 1”.

L’art. 1, comma 309, legge n. 178 del 2020 ha esteso il blocco dei licenziamenti fino al 31.3.2021.

La “ratio” della disciplina originariamente introdotta dall’art. 46 cit., secondo una plausibile lettura, non è unica e non può essere individuata solo nella logica contrattualistica del rapporto di lavoro articolandosi, piuttosto in una pluralità di ragioni: “la tutela del reddito e della stabilità in una fase in cui il mercato del lavoro non darebbe alternative, la stabilità del mercato e del sistema economico nel suo complesso (sia come conservazione del capitale umano sia nelle dinamiche di consumo in una economia già fortemente rallentata dai provvedimenti restrittivi), lo stesso contributo alla prevenzione dei contagi, concorrendo alla stabilità delle relazioni sociali”.

Un sistema complesso e multiforme di tutele con una pluralità di interventi su più fronti che, nel caso dei limiti al recesso datoriale, trova la sua massima applicazione essendo indissolubilmente legata la disciplina del blocco (o della sospensione) dei licenziamenti con quella degli ammortizzatori sociali.

Tanto più con l’introduzione delle c.d. condizionalità per effetto del d.l. n. 104 del 2020.

Ciò porta a qualche cenno sui dubbi di costituzionalità che, una parte dei commentatori, ha sollevato con riferimento alla disciplina introdotta dalla normativa emergenziale.

Secondo una lettura la temporaneità del divieto dei licenziamenti, le ragioni che l’hanno ispirata, in uno con la previsione di misure di sostegno alle imprese consentono di individuare una compatibilità con l’art. 41 Cost., specie se si tiene conto della previsione di cui al secondo comma della norma costituzionale che individua il limite del contrasto con l’ “utilità sociale” della (libera) iniziativa economica.

A tale proposito si richiama il vincolo posto al licenziamento nella disciplina di tutela della maternità di cui alla legge n. 151 del 2001 nella quale le ragioni del recesso datoriale sono subvalenti rispetto alla necessità di garantire la tutela della stabilità del rapporto di lavoro.

Altri sostengono che il lungo blocco dei licenziamenti costituisca un ostacolo alla libertà di impresa in quanto non fornisce alcun parametro per garantire, nel rispetto dell’art. 41 Cost. , un bilanciamento tra il libero esercizio dell’attività d’impresa ed il diritto del lavoro e dell’occupazione.

A proposito dell’ampiezza del blocco è stata evocata la possibile rilevanza di quanto sostenuto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018 in punto di “principio di ragionevolezza”.

Sul punto si ricordano altre sentenze della Corte costituzionale (nn. 548 del 1990 e 339 del 2001) con le quali è stata proposta una interpretazione dell’art. 41 Cost. in termini di “riconoscimento del mercato concorrenziale”, con la conseguenza, secondo tale lettura, che non sarebbero legittimi interventi che possano così rigidamente limitare le libere scelte imprenditoriali.

Perplessità sono state sollevate anche con riferimento alla presunta violazione dell’art. 3 Cost. in quanto l’art. 14 d.l. n. 104 del 2020 ha disciplinato in maniera identica molteplici fattispecie l’una diversa dall’altra.

Dubbi sono stati espressi anche con il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 78 del 1958 traducendosi il blocco in un imponibile di manodopera.

Con la sentenza in questione è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale (per contrasto con l’art. 41 Cost.) del d.l.c.p.s. n. 929 del 1947 che, tramite un decreto prefettizio, le proposte e i criteri formulati dalla Commissione provinciale, gli elenchi delle aziende e dei lavoratori agricoli predisposti dalla Commissione comunale, imponevano "l'obbligo per i conduttori a qualsiasi titolo di aziende agrarie o boschive di assumere la mano d'opera da adibirsi nell'annata agricola o durante le singole stagioni di essa alla coltivazione e alla manutenzione ordinaria o straordinaria dei fondi"1.

Le ragioni che hanno determinato l’introduzione della disciplina limitativa del recesso datoriale e la natura dell’antecedente fattuale (di portata planetaria e non limitato a singole -marginali -realtà) che l’ha generata paiono deporre, in ragione della eccezionalità della situazione, per la compatibilità della limitazione con l’assetto costituzionale.

Va peraltro precisato che l’attuale disciplina di cui all’art. 14 d.l. n. 104 del 2020 e le relative modifiche che sono state introdotte alla disciplina del blocco dei licenziamenti pone, senza dubbio, minori problemi di costituzionalità essendo stati modificati i presupposti e le eccezioni all’operatività del divieto, nonchè la possibilità della revoca del licenziamento (ora soppressa dalla legge n. 126 del 2020).

In relazione all’ambito di applicazione del blocco dei licenziamenti, qualche problema sorge in punto di esatta individuazione dell’area di applicabilità per i licenziamenti individuali.

Si propone, da autorevoli commentatori, un approccio non formalistico che consenta di operare una interpretazione estensiva della limitazione con particolare riferimento ai licenziamenti per superamento del periodo di comporto, di quello per inidoneità sopravvenuta o altre ragioni oggettive collegate alla persona del lavoratore.

Nell’ottica di una lettura non formalistica delle norme che limitano il licenziamento si propone l’estensione del blocco anche ai licenziamenti per giustificato motivo soggettivo con preavviso.

Per quanto riguarda i dirigenti, invece, si esclude l’applicabilità del divieto nel caso di licenziamenti collettivi, ma non nell’ipotesi di licenziamenti individuali.

Viene ritenuta estendibile il blocco anche alle ipotesi di licenziamento per inidoneità fisica o psichica del lavoratore, per superamento del periodo di comporto e di recesso ante tempus nel contratto a termine.

Così come si ritiene rientrante nella preclusione ogni ipotesi di recesso datoriale giustificato ai sensi degli artt. 1256, 1463 e 1464 c.c.

In ordine al mancato superamento del periodo di prova, si propone, invece, una lettura che vede prevalere “l'elemento causale della valutazione”, con la precisazione che quando l’attività lavorativa sia stata sospesa, anche il decorso della prova dovrebbe esserlo ed il lavoratore dovrebbe potere accedere agli ammortizzatori .

Quanto, poi, alla valutazione negativa posta a giustificazione del recesso, essa non potrebbe fondarsi sulla modifica del contesto economico e, dunque, di convenienza direttamente ricollegabile alla pandemia in quanto si determinerebbe una contraddizione con le ragioni del blocco dei licenziamenti.

E’ pacifica l’esclusione dal blocco per i lavoratori domestici per i quali vi è altresì l’esclusione dalla fruizione degli ammortizzatori sociali.

Sono certamente esclusi dal blocco i licenziamenti per giusta causa ex art. 2119 c.c., quelli per giustificato motivo soggettivo ex art. 3 legge n. 604 del 1966 e quelli ad nutum senza necessità di giustificazione con il solo limite del preavviso.

Dovrebbe essere escluso anche il licenziamento per scarso rendimento che, secondo la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione (Sez. L, 8 maggio 2018, n. 10963, in motivazione), rientra tra le ipotesi di giustificato motivo soggettivo.

Per quanto riguarda i licenziamenti collettivi, si pone solo il problema della sospensione delle procedure amministrative pendenti, avviate fino al 23 febbraio 2020 che, ad una lettura formalistica delle norme non sarebbero “coperte” e potrebbero trovarsi in diversi stadi (fase sindacale, fase amministrativa, esaurita la procedura ma non ancora comunicati i recessi).

Si è affermato che essendo l’atto di recesso all’esito della procedura di licenziamento collettivo, comunque, un licenziamento individuale per giustificato motivo, sarebbe comunque precluso dal blocco.

In tal senso deporrebbe anche la ratio complessiva delle norme limitatrici del recesso.

Sembra esserci unanimità in ordine alle conseguenze del licenziamento intimato in violazione dei divieti introdotti con le norme in commento.

Si parla espressamente, a tale proposito, di nullità e di conseguente applicazione, nelle sue diverse declinazioni, della tutela ripristinatoria del rapporto, sia che si intenda fare applicazione dell’art. 18 legge n. 300 del 1970, sia che si voglia ricondurre la fattispecie ad una ipotesi di nullità per violazione di norme imperative ai sensi dell’art. 1418 c.c.

Analogamente deve concludersi per il licenziamento intimato in violazione dell’art. 23 d.l. n. 18 del 2020 che prevede per i genitori dipendenti del settore privatocon figli minori di 16 anni il diritto di assentarsi dal lavoro per i periodi di sospensione dei servizi per l’infanzia.

In assenza di una espressa disposizione si deve ritenere che il termine di 60 giorni per l’impugnazione del licenziamento eventualmente intimato non sia sospeso, mentre lo è stato quello per l’impugnazione giudiziale ex art. 83, comma 2, d. l. n. 18 del 2020 ed ex art. 36, comma 1, d.l. n. 23 del 2020

  • salute
  • indennizzo
  • lavoratore (UE)
  • danno
  • diritto del lavoro

XII)

LA TUTELA DEL DANNO ALLA SALUTE DEL LAVORATORE TRA INDENNIZZO INAIL E RISARCIMENTO DEL DANNO; DUE RIMEDI ALLA PROVA DELLA PANDEMIA DA COVID-19.

(di Milena D'oriano )

Sommario

1 Premessa. - 2 Indennizzo e risarcimento: una difficile coesistenza. - 3 Esonero, danno differenziale, regresso: le disarmonie ormai composte. - 3.1 La natura non integralmente satisfattiva dell’indennizzo sociale. - 3.2 Gli oneri di allegazione nell’azione per il danno differenziale. - 4 L’esonero: ambito applicativo, superamento e conseguenze. - 4.1 I criteri di accertamento della responsabilità del datore di lavoro per un fatto costituente reato. - 5.1 La legge 30 dicembre 2018 n. 145: una novella di breve durata. - 6 I danni complementari. - 7 Il presupposto del risarcimento: la responsabilità ex art. 2087 c.c. - 8 La tutela della salute del lavoratore ai tempi del COVID 19

1. Premessa.

La tutela del danno alla salute del lavoratore costituisce un sottosistema, peculiare ma non autonomo, nell’articolato panorama del risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali; un sottosistema complesso ed articolato in quanto nell’ambito dei rapporti di lavoro opera l’assicurazione obbligatoria gestita dall’INAIL che, finanziata dai premi versati dal datore di lavoro, prevede al verificarsi di eventi protetti l’erogazione di un indennizzo sociale a favore del lavoratore. La tutela indennitaria in caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale trova il suo fondamento nell’art. 38 della Cost.: la sua finalità è quella di garantire al lavoratore un sostegno adeguato ed immediato, di tipo economico e sanitario, per liberarlo dal bisogno in un momento in cui è impossibilitato a rendere la prestazione lavorativa.

Le prestazioni erogate dall’INAIL, avendo una esclusiva finalità sociale, sono parametrate sull’adeguatezza rispetto alle esigenze di vita, e sebbene si collochino ad un livello superiore a quello necessario ad assicurare il bisogno minimo vitale che caratterizza le prestazioni assistenziali, scontano comunque un’insufficienza rispetto all’integralità del risarcimento assicurata in ambito civilistico.

Al fine di evitare, da un lato che l’istituto dell’indennizzo sociale da misura di sostegno e di favore del lavoratore infortunato o tecnopatico degradi ad ostacolo all’integralità del risarcimento del danno, dall’altro che il doppio binario di tutela determini una indebita duplicazione delle poste risarcitorie con un effetto di locupletazione per il lavoratore, l’ordinamento ha previsto delle misure correttive.

La coesistenza della tutela assicurativa, immediata ma non esaustiva, garantita ai lavoratori, con la tutela risarcitoria integrale del danno spettante a qualsiasi cittadino è regolata dagli art. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965 (di seguito T.U.) incentrato sull’istituto dell’esonero e sull’endiadi danno differenziale/regresso.

Si tratta di un meccanismo complesso che ha origini risalenti, sovrapponibile addirittura a quello regolato dai previgenti artt. 4 e 5 del r.d. n. 1765 del 1935, sicché non meraviglia tanto che sia stato inciso da ripetuti interventi correttivi della Corte costituzionale quanto piuttosto che sia sopravvissuto al mutato contesto costituzionale ed alle evoluzioni giurisprudenziali in materia di risarcimento del danno.

Dove sussiste la copertura assicurativa, e quindi solo per quei danni che rientrano nella tutela indennitaria, opera l’esonero, per questo motivo definito parziale, che può essere superato nel caso in cui l’evento assicurato consegua ad una condotta del datore di lavoro che costituisce reato perseguibile d’ufficio; in tal caso il datore di lavoro sarà chiamato a rispondere dell’eventuale differenza, tra il danno civilistico e quello coperto da assicurazione, nei confronti del lavoratore, e pur avendo pagato i contributi assicurativi sarà tenuto a rispondere per l’intero, inoltre sarà esposto all’azione di regresso da parte dell’Istituto assicuratore per il recupero, nei limiti del danno civilistico, di quanto già erogato al lavoratore a titolo di indennizzo.

2. Indennizzo e risarcimento: una difficile coesistenza.

Il sistema virtuoso predisposto dal nostro ordinamento per il risarcimento del danno da infortuni sul lavoro e malattia professionale appare a prima vista di facile attuazione.

Il lavoratore ha diritto di ottenere, nell’immediatezza ed a prescindere da ogni indagine su di un suo concorso colposo al verificarsi del danno, con il solo limite del dolo e del rischio elettivo, le prestazione economiche e sanitarie erogate in suo favore dall’INAIL; ha diritto inoltre al risarcimento del danno nei confronti del datore di lavoro colpevole, per intero e secondo le regole generali della responsabilità civile, in presenza di voci di danno non indennizzate dall’INAIL (cd danni complementari), mentre per le voci oggetto di copertura assicurativa, nell’ipotesi in cui venga accertata una responsabilità datoriale per un fatto che costituisce reato perseguibile d’ufficio, entro i limiti del cd danno differenziale.

L’Istituto assicuratore, nei limiti del danno liquidabile in sede civile, e sulla base degli stessi presupposti richiesti per il danno differenziale, è abilitato ad agire in regresso nei confronti del datore di lavoro per il recupero di quanto erogato in favore del lavoratore.

L’effetto finale, nel caso in cui venga accertata una responsabilità civile del datore di lavoro idonea ad escludere il beneficio dell’esonero, sarà che, applicato il diffalco dell’indennizzo Inail dal risarcimento spettante civilisticamente, il lavoratore avrà ricevuto il ristoro integrale del suo pregiudizio, senza alcuna locupletazione, il datore di lavoro sarà stato chiamato a risarcire integralmente il danno arrecato, l’Istituto avrà recuperato quanto erogato rifinanziando così le sue finalità sociali.

Molti tuttavia sono gli ostacoli, sia di natura processuale che sostanziale, che si frappongono a tale idilliaca ricostruzione:

a) la tutela del lavoratore, ed eventualmente dei suoi prossimi congiunti, viene garantita dalla sinergia di una pluralità di azioni, ciascuna caratterizzata da autonomi presupposti e regole sostanziali e di rito, con un evidente aggravio in termini di lungaggini processuali e risorse: quella di natura previdenziale, esperibile nei confronti dell’Istituto assicuratore per far valere il diritto alle prestazioni indennitarie, e quella lavoristica di c.d. danno differenziale, ex art. 1218 e 2087 c.c., esercitabile nei confronti del datore di lavoro per completare l’integralità del risarcimento del danno, nelle due diverse accezioni del danno differenziale quantitativo e qualitativo, quest’ultimo definito anche danno complementare;

b) il sistema pubblico dell’assicurazione INAIL si caratterizza per una marcata selettività, nel senso che non garantisce una protezione globale e capillare per tutti i lavoratori, per tutte le attività, per tutti gli eventi dannosi, per tutti i danni.

Sebbene sia in atto da anni un lento processo di ampliamento dell’ambito applicativo iniziale, grazie ad interventi legislativi e giurisprudenziali, sia costituzionali che di legittimità, la tutela resta di tipo selettivo e si è ben lontani dall’utopia di una copertura assicurativa universale del lavoro in quanto tale.

La selezione opera sul piano soggettivo, in quanto l’assicurazione sociale è riconosciuta solo a determinate categorie di lavoratori, e sul piano oggettivo, sia perché è limitata a determinate attività ritenute protette o pericolose, sia perché garantisce la copertura di limitate voci di danno rispetto a quelle potenzialmente risarcibili in ambito civilistico.

c) la tutela indennitaria si presenta parcellizzata e modulata secondo parametri autonomi, non sempre coincidenti con quelli convenzionalmente utilizzati dalla giurisprudenza civile per la liquidazione del danno sia patrimoniale che non patrimoniale, caratteristiche che rendono non agevoli le operazioni di computo e scomputo in sede di calcolo del danno differenziale, che viene individuato nella maggior somma eventualmente dovuta per il risarcimento della stessa voce di danno in ambito civilistico rispetto a quanto corrisposto dall’INAIL per la stessa lesione.

In tema di danno patrimoniale, ad esempio, mentre per la liquidazione dell’indennità temporanea erogata dall’INAIL rileva la capacità di guadagno, misurata secondo il criterio molto favorevole della retribuzione concretamente percepita, ai fini dell’inabilità permanente si tiene conto solo dell’astratta attitudine al lavoro e non anche della cd invalidità specifica.

In tema di danno non patrimoniale, l’indennizzo INAIL si limita alla copertura del danno biologico, inteso come menomazione dell’integrità fisico-psichica medicalmente accertabile, che pur includendo gli aspetti dinamici-relazionali medi, non contempla la cd personalizzazione, né tanto meno le voci di danno morale, esistenziale o da perdita del diritto alla vita, cd terminale.

In tema di rendita ai superstiti, prestazione del tutto autonoma rispetto alla rendita dell'assicurato, spettante iure proprio e non iure hereditatis, risulta indennizzato il solo pregiudizio patrimoniale subito dagli eredi in ragione del loro rapporto di dipendenza economica con il defunto, ma non anche il danno parentale o tanto meno la perdita del diritto alla vita né il danno terminale, biologico e morale, patito dalla vittima.

Da tale disamina si evince che le tutele previste in caso di danni arrecati ad un lavoratore sono estremamente ampie per i valori costituzionali di cui costituiscono espressione, ma sono anche assicurate da norme che pongono problemi di coordinamento.

Per i lavoratori non protetti, per le attività che non rientrano nella copertura assicurativa, per le voci non indennizzate, il risarcimento del danno spetta per intero e, secondo le regole della responsabilità civile di cui agli artt. 1218 e 2087 c.c., previa verifica dell’imputazione per colpa a carico del datore di lavoro. Per i lavoratori, le attività e le voci indennizzabili, operando l’assicurazione obbligatoria INAIL, il risarcimento del danno spetta a condizione che, accertata una responsabilità del datore di lavoro per un fatto costituente reato, sussistano i presupposti per il superamento dell’esonero; in tal caso il danno verrà risarcito nei limiti del cd danno differenziale, pari alla differenza tra il risarcimento spettante secondo i criteri civilistici e le indennità potenzialmente erogabili dall’INAIL.

Il sistema, che coinvolge settori giuridici differenti, quali il diritto previdenziale e del lavoro, il diritto civile, il diritto penale, il diritto processuale civile e penale, presenta da sempre incongruenze che hanno costretto gli interpreti a composizioni ermeneutiche articolate; esse sono la conseguenza di una normazione stratificata nel tempo, che è stata oggetto di significativi adeguamenti manipolativi della Corte costituzionale e di una elaborazione giurisprudenziale settoriale e spesso disomogenea, sempre in bilico tra l’esigenza di adeguarsi alle spinte innovative provenienti dall’evoluzione della tematica generale del risarcimento del danno alla persona, prima di tutto quella relativa alle aperture all’ampliamento alla tutela del danno non patrimoniale, e quella di restare ancorata alle peculiarità del microsistema lavoristico.

Difficile infatti coordinare:

1) il diritto del lavoratore al riconoscimento di una tutela piena ed effettiva in presenza di una lesione all’integrità fisica e alla dignità morale;

2) l’aspirazione del datore di lavoro a contenere i suoi obblighi risarcitori, avvantaggiandosi del meccanismo dell’esonero dalla responsabilità civile di cui all’art. 10 del T.U., quale contropartita al pagamento dei premi assicurativi;

3) la necessità dell’Istituto assicuratore di recuperare, nella misura più ampia possibile, quanto erogato all’avverarsi dell’evento assicurato, ai fini di una più efficiente gestione delle sue finalità istituzionali.

3. Esonero, danno differenziale, regresso: le disarmonie ormai composte.

Nel corso degli ultimi anni molte questioni che avevano per lungo tempo animato dibattiti dottrinali e dato vita a contrasti giurisprudenziali, specie a seguito dell’ampliamento della tutela assicurativa al danno biologico di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, hanno trovato una definitiva ed ottimale composizione grazie ad un capillare intervento nomofilattico della Suprema Corte; pochi dunque i nodi ancora da sciogliere, mentre resta sempre attuale ed in evoluzione il tema della tutela della sicurezza sul lavoro e della salute del lavoratore, come la recente emergenza pandemica ci ha confermato.

3.1. La natura non integralmente satisfattiva dell’indennizzo sociale.

È ormai definitivamente acquisito che le somme versate dall’INAIL a titolo di indennizzo ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 non possono ritenersi integralmente satisfattive.

A seguito della riforma si era posto il problema se vi fosse ancora spazio per un danno differenziale; ci si è chiesti cioè se il danno biologico, come liquidato o liquidabile dall’Istituto, si potesse ritenere esaustivo e quindi idoneo e sufficiente a coprire tutto il danno biologico subito dal lavoratore, senza spazio per un danno differenziale ulteriore.

Dopo un iniziale dibattito, sia nella dottrina che nella giurisprudenza di merito, la S.C. ha definitivamente escluso "che le prestazioni eventualmente erogate dall'INAIL esauriscano di per sé e a priori il ristoro del danno patito dal lavoratore infortunato od ammalato." (Vedi Sez. L, n. 09166/2017, F. Amendola, Rv. 644028-01; Sez. L, n. 20392/2018, Calafiore, Rv. 650088-01)

L'erogazione effettuata dall'INAIL è strutturata in termini di mero indennizzo, indennizzo che, a differenza del risarcimento, è svincolato dalla sussistenza di un illecito e può essere disposto anche a prescindere dall'elemento soggettivo di chi ha realizzato la condotta dannosa e da una sua responsabilità.

Si sono così evidenziate le notevoli divergenze strutturali tra l'indennizzo erogato dall'INAIL e il risarcimento del danno biologico in quanto "mentre quest'ultimo trova titolo nell'art. 32 Cost., l'indennizzo INAIL è invece collegato all'art. 38 Cost., e risponde alla funzione sociale di garantire mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore" e quindi dalla "differenza strutturale e funzionale tra l'erogazione INAIL ex art. 13 cit. e il risarcimento del danno biologico" se ne è fatta discendere la preclusione "a ritenere che le somme eventualmente a tale titolo versate dall'istituto assicuratore possano considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico in capo al soggetto infortunato od ammalato, nel senso che esse devono semplicemente detrarsi dal totale del risarcimento spettante al lavoratore", anche perché ritenere il contrario significherebbe attribuire al lavoratore "un trattamento deteriore -quanto al danno biologico -del lavoratore danneggiato rispetto al danneggiato non lavoratore", con dubbi di legittimità costituzionale.

3.2. Gli oneri di allegazione nell’azione per il danno differenziale.

Risolto anche il tema degli oneri di allegazione del lavoratore nell’ambito dell’azione per danno differenziale.

Da una parte della dottrina e della giurisprudenza di merito si era sostenuto che, a pena di inammissibilità per difetto di specificità, la domanda di danno differenziale dovesse contenere una puntuale e formale qualificazione dei fatti in termini di illiceità penale nonché delle deduzioni sul quantum, in termini differenziali con l’indennizzo liquidato (o liquidabile) dall’INAIL, che ne prospettassero l’esistenza in concreto.

Di contrario avviso altra parte della dottrina rilevava, quanto all’illiceità penale del fatto, che la qualificazione giuridica dei fatti rientra nei compiti del giudice per cui l’allegazione nel ricorso introduttivo di un fatto integrante, in astratto, nei suoi presupposti oggettivi e soggettivi, un reato perseguibile di ufficio è sufficiente a incardinare validamente la causa per danno biologico nei confronti del datore di lavoro, radicando nel giudice il potere -dovere di dar corso all’istruttoria attraverso l’accertamento anzitutto dell’esistenza del fatto-reato e poi, superato positivamente tale accertamento, dell’esistenza in concreto di un danno differenziale; in ordine al quantum si osservava che la regola cardine dell'esonero costituisce un precetto di necessaria applicazione che attiene agli elementi costitutivi della responsabilità, per cui il giudice deve scomputare dai danni quanto ottenuto o ottenibile dall'INAIL per effetto dell'assicurazione obbligatoria anche d’ufficio, e quindi anche in assenza di specifica allegazione.

Tali ultime posizioni hanno trovato l’avallo della giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai fini dell'accertamento del danno differenziale, è sufficiente che siano dedotte in fatto dal lavoratore circostanze che possano integrare gli estremi di un reato perseguibile d'ufficio, sottolineando che anche la violazione delle regole di cui all'art. 2087 c.c. è idonea a concretare la responsabilità penale; che la richiesta del lavoratore di risarcimento dei danni, patrimoniali e non, è idonea a fondare un petitum rispetto al quale il giudice dovrà applicare d’ufficio il meccanismo legale previsto dall'art. 10 del TU, pur dove non sia specificata la superiorità del danno civilistico in confronto all'indennizzo, atteso che, rappresentando il differenziale normalmente un minus rispetto al danno integrale preteso, non può essere considerata incompleta una domanda in cui si richieda l'intero danno ed anche perché la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale è una domanda di carattere onnicomprensivo che si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate dalla condotta denunciata. (Vedi, da ultimo, Sez. 6-L, n. 17655/2020, Riverso, Rv. 658658-01).

4. L’esonero: ambito applicativo, superamento e conseguenze.

Altri dubbi finalmente dissipati quelli relativi all’ambito di operatività ed alla sopravvivenza dell’esonero ed alle conseguenze del suo superamento.

L’esonero è un meccanismo complesso il cui raggio di azione risulta delimitato da confini esterni, dettati dall’estensione della copertura assicurativa, ed è condizionato all’interno dalla possibilità di un suo superamento nel caso in cui l’evento assicurato consegua ad una condotta del datore di lavoro che costituisce reato perseguibile d’ufficio.

Come affermato dalla Corte cost. nelle note sentenze n. 356 e n. 485 del 1991 “se non si fa luogo a prestazione previdenziale non c’è assicurazione; mancando l’assicurazione cade l’esonero”.

Per gli eventi ed i danni riconducibili all'assicurazione obbligatoria l’art. 10 del TU pone al comma 1 la regola dell’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile ed ai commi successivi prevede quale eccezione un meccanismo in relazione al quale permane la responsabilità del datore di lavoro; ai sensi del comma 2, l’esonero viene meno “a carico di coloro che abbiano riportato condanna penale per il fatto dal quale l’infortunio è derivato”.

L’istituto dell’esonero, da sempre al centro di numerose questioni interpretative, è legato a doppio filo con i presupposti dell’azione di regresso e della risarcibilità del danno differenziale; poiché è destinato a cadere nell'ipotesi in cui l'infortunio o la malattia professionale siano conseguenza di una condotta datoriale integrante gli estremi di una fattispecie di reato perseguibile d'ufficio, il suo superamento espone il datore di lavoro sia all'azione di regresso dell'istituto assicuratore per le somme versate all'assicurato sia all'azione di risarcimento da parte del lavoratore, seppur limitatamente al ristoro del danno differenziale.

La norma di natura speciale consente al lavoratore di ricevere dal datore di lavoro esonerato, ma di cui sussista una responsabilità di rilievo penale, il danno “differenziale”, che viene individuato per differenza, nell’ambito di quei danni qualitativamente coperti dall’assicurazione e quindi soggetti al regime dell’esonero, in quanto danno quantitativamente superiore a quello oggetto dell’assicurazione INAIL.

In presenza delle stesse condizioni l’art. 11, consente all’Istituto assicuratore di

rivalersi di quanto erogato nei confronti del datore e di altri responsabili.

La regola dell’esonero parziale, destinata ad operare nei limiti innanzi delineati, seppure mai modificata nella sua formulazione originaria, né investita direttamente da dichiarazioni di illegittimità costituzionale, ha subito negli anni un lento processo di svuotamento che ha inciso su due distinti fronti:

a) quello procedurale, in seguito al superamento del vincolo di pregiudizialità del processo penale;

b) quello sostanziale, dovuto da un lato all’ampliamento del campo operativo della deroga prevista in presenza di un reato perseguibile d’ufficio che è conseguito all’utilizzo ad opera della giurisprudenza penale dell’art. 2087 c.c. quale criterio di imputazione soggettiva della colpa penale, e dall’altro alla storica evoluzione della giurisprudenza civilistica in tema di risarcimento del danno non patrimoniale.

I due profili, pur incidendo su piani diversi, hanno avuto insieme un effetto potenziato, in quanto la possibilità riconosciuta al giudice civile di procedere autonomamente all’accertamento del reato si è evoluta nell’ammettere l’applicazione delle regole probatorie civilistiche anche in sede di verifica dell’illiceità penale.

L’effetto finale è stato quello di una progressiva restrizione del raggio di azione dell’esonero e la sua trasfigurazione da regola ad eccezione, idonea ad inibire solo in ipotesi residuali l’ingresso dei principi generali in tema di responsabilità civile nel sottosistema dell’assicurazione contro gli infortuni.

Una parte della dottrina ha addirittura dubitato della sopravvivenza dell’istituto, individuando una crisi di effettività e di legittimità dell’esonero, ma da altri è stato giustamente evidenziato che la regola esiste e continua ad esistere seppure nell’ambito residuale di efficacia incondizionata a cui è stato relegato: quello delle ipotesi in cui l’infortunio o la tecnopatia integrino il reato di lesioni colpose lievi, guaribili sino a 40 gg, e quindi perseguibili a querela, e sempre che si raggiunga la soglia minima di indennizzabilità del 6%, al di sotto della quale non opera la tutela indennitaria e quindi neanche l’esonero.

In ipotesi di responsabilità datoriale per un fatto che integri un reato procedibile esclusivamente a querela di parte (quali le lesioni colpose lievi, guaribili sino a 40 gg), che dia luogo a postumi permanenti indennizzabili (cioè superiori al 6%), il datore di lavoro resta sempre esonerato ed il lavoratore non potrà mai avanzare una domanda di danno differenziale ma dovrà accontentarsi dell’indennizzo previdenziale -salvo agire per le voci di danno complementare conseguenti a queste stesse lesioni che non rientrino nella copertura assicurativa -né il datore di lavoro potrà essere chiamato a rispondere in regresso per quanto indennizzato dall’Istituto .

4.1. I criteri di accertamento della responsabilità del datore di lavoro per un fatto costituente reato.

Quanto ai presupposti del superamento dell’esonero, solo di recente la S.C. ha esaminato e risolto la questione, molto dibattuta in dottrina, dei criteri di accertamento della responsabilità del datore di lavoro per un fatto costituente reato.

Affidata al giudice civile la verifica della illiceità penale del fatto a seguito del superamento della pregiudizialità penale, è restata a lungo questione controversa se il giudice civile, tenuto a procedere nell’individuazione della responsabilità del datore di lavoro riconducibile ad un fattispecie di reato, nelle sue componenti oggettive e soggettive, fosse tenuto a farlo applicando i più rigidi criteri di imputazione e le più severe regole probatorie della responsabilità penale, o gli fosse consentito giovarsi di quelli rispettivamente più favorevoli operanti in tema di responsabilità civile di natura contrattuale.

Mutuando una felice immagine utilizzata per descrivere la posizione del giudice nazionale nella gestione dei rapporti tra ordinamento nazionale ed ordinamento europeo, ci si è chiesti se il giudice civile nell’effettuare l’accertamento della illiceità penale del fatto dovesse continuare a vestire i suoi panni o piuttosto indossare la “giacca” del giudice penale.

Le ricadute di tale scelta non sono di poco momento.

L’opzione penalistica impone di utilizzare nella verifica del nesso causale, il cui onere probatorio incomberebbe sul lavoratore, la regola probatoria dell’”oltre ogni ragionevole dubbio” e di porre sempre a carico del lavoratore la prova della colpevolezza del datore di lavoro.

L’opzione civilistica consente di utilizzare, in tema di causalità materiale, la regola probatoria del “più probabile che non”, ed al lavoratore di avvantaggiarsi dell’inversione dell’onere della prova sull’elemento soggettivo, di cui all’art. 1218 c.c., con possibilità del datore di lavoro di provare la non imputabilità dell’evento e quindi l’assenza di colpa.

Quanto al nesso causale, (a partire da Sez. U, n. 00576/2008, Segreto, Rv. 600899-01; conformi tra le tante Sez. 3, n. 16123/2010, Spirito, Rv. 613967-01; Sez. 3, n. 08430/2011, Vivaldi, Rv. 616864-01) si sottolinea da tempo come il più importante divario tra il campo penale (da cui si sono elaborati i principi anche per la causalità civile) e il campo civile stia proprio nella regola probatoria: "Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico - giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” …mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti", conformemente agli standard delle prove negli ordinamenti occidentali e anche alla giurisprudenza della C.G.U.E.

Quanto all’elemento soggettivo - posto che in ambito civilistico risulta sufficiente la colpa, ed ininfluente il dolo, e che, seppure con qualche perdurante rimostranza della dottrina più attenta, risulta ormai affermato un concetto unitario di colpa, generica per negligenza, imperizia e imprudenza, specifica per violazione di norme, regolamenti, ordini e discipline, determinato dal fatto che anche in sede penale la violazione della regola cautelare generale desumibile dall’art. 2087 c.c. è sufficiente a configurare la colpa -la differenza tra responsabilità civile contrattuale e responsabilità penale opera sul piano del riparto degli oneri probatori.

In ambito penalistico l’accusa è tenuta a dimostrare la colpa in concreto e in positivo, la regola probatoria è sempre quella generale” dell’oltre ogni ragionevole dubbio” di cui all’art. 533 c.p.p.; anche nell’ambito della responsabilità civile extracontrattuale, ad eccezione che per le ipotesi speciali di responsabilità oggettiva di cui agli artt. da 2047 a 2054 c.c., l’onere della prova dell’elemento soggettivo della colpa incombe sul danneggiato.

In riferimento alla responsabilità contrattuale opera, invece, il meccanismo dell’inversione dell’onere della prova di cui all’art. 1218 c.c., costituendo ormai principio consolidato che in tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento.

La dottrina, nella consapevolezza delle conseguenze collegate alla selezione del criterio di accertamento, si era da subito appassionata al tema distinguendosi tra posizioni più intransigenti, seppure con qualche distinguo, a favore dell’utilizzo dei criteri penalistici, in difesa della specialità di un sottosistema frutto della combinazione di tutele indennitarie e risarcitorie, e posizioni evolutive che ne hanno propugnato il superamento attraverso l’adozione dei criteri civilistici, in nome della tutela dei principi costituzionali desumibili dagli artt. 32 e 38 Cost. In passato la giurisprudenza di legittimità era intervenuta sullo sganciamento dell’accertamento del fatto costituente reato perseguibile d’ufficio dai rigidi criteri penalistici, sia con riferimento al danno differenziale sia con riguardo all'azione di regresso, ma in termini puramente assertivi e senza esplicitare le motivazioni di tale scelta di campo. (Vedi Sez. L, n. 09817/2008, De Matteis, Rv. 602899-01, in tema di danno differenziale; Sez. L, n. 10529/2008, De Matteis, Rv. 602947-01, in tema di regresso, cui contra Sez. L. n. 15715/2012, Blasutto, non massimata, che ha optato per i criteri civilistici per il danno differenziale e per quelli penalistici in caso di regresso.)

Da ultimo una maggiore attenzione al tema era rinvenibile nelle decisioni di legittimità che, con un significativo percorso evolutivo in materia previdenziale, hanno valorizzato da un lato l’ampliamento soggettivo del regresso nei confronti dei terzi, portando l’azione oltre l'ambito dei datori assicurati, e dall’altro hanno individuato espressamente il fondamento della tutela assicurativa nel precetto costituzionale dell’art. 38, da coordinarsi con l’art. 32 Cost. ed evidenziato che, al fine di garantire massima efficacia alla tutela fisica e sanitaria dei lavoratori, non può più sostenersi che il premio assicurativo INAIL abbia la funzione di delimitare la tutela assicurativa a rischi precisamente individuati in base alle tabelle, assolvendo invece quella di provvedere al finanziamento del sistema. (Vedi Sez. L, n. 05066/2018, Riverso, Rv. 647460-01; Sez. L, n. 26497/2018, Riverso, non massimata; Sez. L, n. 27102/2018, Calafiore, Rv. 651255-01; Sez. L, n. 08948/2020, Ciriello, Rv. 657630-01; Sez. 6-L, n. 12465/2020, Riverso, Rv. 658114-01).

Sez. L, n. 12041/2020, F. Amendola, Rv. 657981-01 all’esito di una rivisitazione sistematica di tutti gli aspetti processuali e sostanziali più rilevanti, si è orientata a netto favore dell’opzione civilistica, sia per il danno differenziale che per il regresso, affermando che gli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965 devono essere interpretati nel senso che l'accertamento incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato, sia nel caso di azione proposta dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al risarcimento del cd danno differenziale, sia nel caso dell'azione di regresso proposta dall'INAIL, deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in ordine all'elemento soggettivo della colpa ed al nesso causale tra fatto ed evento dannoso.

Nel dettaglio la S.C. evidenzia il definitivo superamento della pregiudizialità penale, l’estensione della tutela assicurativa al danno biologico, l’evoluzione che ha portato il sistema dell’assicurazione sociale ad abbandonare la logica originaria della transazione sociale, legata alla corrispettività tra contributi ed esonero, ed a privilegiare la funzione di socializzazione del rischio e di tutela previdenziale imposta dall'art. 38 Cost., trasformando l'esonero da regola cardine ad elemento tendenzialmente recessivo rispetto all'esigenza prioritaria di assicurare alla vittima dell'infortunio una integrale riparazione del danno alla persona.

Molteplici e concorrenti gli argomenti che indirizzano la scelta verso le regole di ingaggio civilistiche:

a) la posizione già espressa dalla giurisprudenza di legittimità in casi analoghi in cui è stata chiamata ad esaminare i rapporti tra giudizio penale e giudizio civile; il riferimento è alle pronunce che, a partire da Sez. U, n. 27337/2008, Segreto, Rv. 605537-01, seguita tra le tante da Sez. 3, n. 24988/2014, Armano, Rv. 633383-01; Sez. 3, n. 02350/2018, Ambrosi, Rv. 647930-01, in tema di individuazione del termine di prescrizione del fatto illecito ai sensi dell’art. 2947, comma 3, c.c., ( la norma prevede che in presenza di un fatto considerato dalla legge come reato, il termine di prescrizione quinquennale per l’azione di responsabilità extracontrattuale beneficia della prescrizione più lunga eventualmente prevista per il reato) hanno affermato che l’attuale autonomia del giudizio civile da quello penale comporta la necessità che il giudice civile, chiamato ad accertare in via incidentale la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi ed oggettivi, utilizzi i mezzi propri previsti dal codice di rito civile, e quindi strumenti probatori, quali le presunzioni legali e le prove legali del tutto sconosciute all'ordinamento penale, ed i diversi standard di certezza probatoria, operando nel processo penale la regola probatoria della prova "oltre il ragionevole dubbio" mentre nel processo penale quella della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti.

b) la necessità di evitare che, in caso di infortunio o malattia, il lavoratore subisca un trattamento deteriore rispetto a quello garantito ad un semplice cittadino-danneggiato che in un rapporto contrattuale agisca per la tutela dello stesso danno, in conseguenza di un aggravamento dei suoi carichi probatori.

La tutela indennitaria deve restare una prerogativa ulteriore, aggiuntiva, tutelata costituzionalmente dall’art. 38 Cost., ma non tramutarsi in un ostacolo ingiustificato al pieno risarcimento del danno alla persona dando la stura ad una immotivata disparità di trattamento, con il rischio che nella stessa sede processuale e rispetto al medesimo fatto, il giudice operi con criteri di giudizio diversi a seconda che sia chiamato a determinare danni "complementari" oppure "differenziali", arrivando addirittura a riconoscere i primi e a negare i secondi per il diverso onere probatorio applicato.

Ne consegue che tra le interpretazioni possibili va certamente privilegiata quella “conforme ai principi costituzionali laddove quella diversa ponga dubbi di compatibilità con la Carta fondamentale”, specie in un ambito che ha ad oggetto la garanzia della salute, quale diritto fondamentale ed inviolabile della persona umana, per il quale opera il principio dell'integrale riparazione del pregiudizio quale aspetto essenziale della tutela risarcitoria;

c) l’evoluzione giurisprudenziale, innanzi evidenziata, che ha portato al superamento della logica transattiva per cui il rischio professionale assicurato non è più soltanto quello dell'impresa, ma anche quello del lavoratore vittima di infortuni e malattie professionali, ed il premio assicurativo ha assunto la veste di una forma di finanziamento di un sistema finalizzato a garantire tutela alla salute del lavoratore.

Completa l’iter della motivazione la confutazione dell’obiezione secondo cui l’applicazione dei criteri di accertamento civilistici determinerebbe in modo surrettizio l’eliminazione dell’istituto dell’esonero.

Sebbene un processo di ridimensionamento sussista, e l’opzione scelta possa contribuire ad accentuarlo, la Corte sottolinea che l’esonero è destinato a sopravvivere anche a tale soluzione interpretativa in quanto:

1) la responsabilità civile non è mai oggettiva, ma presuppone comunque la prova della colpa, seppure agevolata dall’inversione dell’onere probatorio;

2) qualsiasi posizione si assuma rispetto ai criteri di accertamento permane un’area, quella della responsabilità datoriale per un fatto che integri un reato procedibile a querela di parte, quali le lesioni colpose lievi guaribili in meno di 40 gg, da cui consegua una invalidità permanente superiore alla franchigia del 6%, per la quale il lavoratore non potrà mai avanzare una domanda di danno differenziale né il datore di lavoro essere chiamato a risponderne in regresso;

3) il lavoratore assicurato non potrà mai pretendere in prima battuta dal datore di lavoro il risarcimento integrale del danno, potendo questi sempre opporgli l’operatività dell’esonero, con la conseguenza che, nell’eventualità che il lavoratore non abbia poi, per qualsiasi ragione processuale, sostanziale o per sua semplice inerzia, ricevuto in concreto l’indennizzo dall’INAIL, che secondo la più recente giurisprudenza va detratto anche d’ufficio e pur se non corrisposto, il datore di lavoro potrà avvantaggiarsi di tale mancata erogazione non essendone chiamato a rispondere né in sede di differenziale né in sede di regresso; analogamente potrebbe anche avvantaggiarsi del mancato esperimento dell’azione di regresso da parte dell’Istituto, ad esempio nei casi di intervenuta prescrizione triennale dell’azione ex art. 112 del TU.

5. I criteri di calcolo del danno differenziale e del regresso.

In tema di liquidazione del danno differenziale si sono contrapposti due orientamenti, uno secondo il quale la determinazione dovesse avvenire secondo un calcolo per sommatoria, un altro che optava per la scomposizione per voci omogenee.

Secondo il primo indirizzo il danno risarcibile si distingue in due poli unitariamente identificati, quelli del danno non patrimoniale e del danno patrimoniale con cui è necessario operare un confronto per sommatoria, sottraendo dal danno civile, complessivamente considerato, la somma delle indennità previdenziali indistintamente erogate dall’INAIL.

La tecnica del calcolo per sommatoria svantaggia tendenzialmente il lavoratore perché comprime l’area del danno non patrimoniale con il surplus di danno patrimoniale tendenzialmente liquidato in misura maggiore dall’INAIL, e avvantaggia specularmente l’INAIL a cui è consentito un recupero integrale, in via di regresso, della quota aggiuntiva di rendita per l’invalidità permanente, anche nei casi in cui essa, come quasi sempre avviene, sia superiore al danno patrimoniale civilistico.

Per il secondo indirizzo, poiché nel sottosistema dell’assicurazione contro gli infortuni, retto dalle speciali previsioni di cui al T.U. ed al d.lgs. n. 38 del 2000, vi sarebbe una distinzione netta del danno biologico (statico o puro) dalle altre componenti del danno non patrimoniale, oltre che come ovvio dal danno patrimoniale, tale distinzione andrebbe mantenuta anche ai fini della liquidazione del danno differenziale effettuando un calcolo non già per sommatoria, ma per singole voci o poste omogenee.

La S.C., a partire da Sez. 3, n. 13222/2015, Rossetti, non massimata, seguita da Sez. 6-3, n. 17407/2016, Rossetti, non massimata; Sez. 6-3, n. 03296/2018, Rossetti, Rv. 647577-01; Sez. 6-3, n. 25618/2018, Rossetti, Rv. 651368-01, ha fatto proprio tale ultimo indirizzo.

Secondo tale orientamento, che si è poi consolidato nella Sezione lavoro, ai fini del calcolo della differenza, lo scomputo va operato mettendo a confronto valori omogenei; si è così statuito che ai fini della liquidazione del danno biologico cd. differenziale, di cui il datore di lavoro è chiamato a rispondere nei casi in cui opera la copertura assicurativa INAIL in termini coerenti con la struttura bipolare del danno-conseguenza, va operato un computo per poste omogenee, sicché, dall'ammontare complessivo del danno biologico, va detratto non già il valore capitale dell'intera rendita costituita dall'INAIL, ma solo il valore capitale della quota di essa destinata a ristorare, in forza dell'art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata alla retribuzione ed alla capacità lavorativa specifica dell'assicurato, volta all'indennizzo del danno patrimoniale. (Vedi Sez. L, Sentenza n. 20807/2016, Spena, Rv. 641425-01)

È stato anche chiarito che il giudice di merito deve procedere d’ufficio allo scomputo, dall’ammontare liquidato a detto titolo, dell’importo della rendita INAIL, anche se l’istituto assicuratore non abbia, in concreto, provveduto all'indennizzo, trattandosi di questione attinente agli elementi costitutivi della domanda, in quanto l’art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965, ai commi 6, 7 e 8, fa riferimento a rendita “liquidata a norma”, implicando, quindi, la sola liquidazione, un’operazione contabile astratta, che qualsiasi interprete può eseguire ai fini del calcolo del differenziale. Diversamente opinando, il lavoratore locupleterebbe somme che il datore di lavoro comunque non sarebbe tenuto a pagare, né a lui, perché, anche in caso di responsabilità penale, il risarcimento gli sarebbe dovuto solo per l’eccedenza, né all’INAIL, che può agire in regresso solo per le somme versate; inoltre, la mancata liquidazione dell’indennizzo potrebbe essere dovuta all’inerzia del lavoratore, che non abbia denunciato l’infortunio, o la malattia, o abbia lasciato prescrivere l’azione. (Vedi Sez. L, n. 13819/2017, Patti, Rv. 644529-01)

Si è infine precisato che il credito risarcitorio residuo spettante a chi, avendo patito una lesione della salute, abbia ottenuto dall’INAIL un indennizzo del danno biologico ai sensi del d.lgs. n. 38 del 2000, va liquidato non già sottraendo dal grado percentuale di invalidità permanente, individuato sulla base dei criteri civilistici, quello determinato dall’INAIL coi criteri dell’assicurazione sociale, bensì, dapprima, monetizzando l’uno e l’altro grado di invalidità, e successivamente sottraendo il valore capitale dell’indennizzo Inail dal credito risarcitorio aquiliano. (Vedi Sez. 63, n. 25327/2016, Rossetti, Rv. 642318-02)

Quanto al regresso, in assenza di precedenti di legittimità sul punto, sembra corretto ritenere che specularmente a quanto avvenuto in sede di liquidazione di danno differenziale a favore del lavoratore, il limite andrà verificato voce per voce, e quindi confrontando il danno patrimoniale spettante civilisticamente con la corrispondente posta liquidata dall’INAIL per le rendite superiori al 16% e le indennità per inabilità temporanea, ed il danno non patrimoniale civilistico con la quota liquidata dall’INAIL a titolo di danno biologico per le rendite superiori al 6%.

Mentre in punto di danno differenziale il diffalco per poste omogenee avvantaggia il lavoratore, perché in genere la liquidazione del danno patrimoniale Inail è sempre sufficientemente, se non maggiormente, satisfattiva, a differenza di quanto avviene per la liquidazione del danno biologico INAIL rispetto al complesso danno non patrimoniale civilistico, in sede di regresso tale criterio opera a vantaggio del datore di lavoro in quanto evita che ricada sullo stesso quella eventuale parte di danno patrimoniale liquidata in eccesso dall’Istituto. In caso di azione di regresso ex art. 11 del TU, l’INAIL è infatti legittimato a recuperare dal datore di lavoro penalmente responsabile quanto erogato al lavoratore a titolo di indennizzo solo nei limiti del danno civile, sicché non sarà recuperabile quanto l’Istituto abbia eventualmente corrisposto in eccesso a titolo di danno patrimoniale.

5.1. La legge 30 dicembre 2018 n. 145: una novella di breve durata.

La soluzione giurisprudenziale della liquidazione per poste omogenee era stata contraddetta dalla previsione contenuta nell’art. 1, comma 1126, della l. n. 145 del 2018, entrata in vigore a decorrere dal 1° gennaio 2019; la cd legge di bilancio 2019 era infatti intervenuta novellando il testo degli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965 in materia di danno differenziale e di azione di regresso dell’INAIL, nonché il testo dell’art. 142 del codice delle assicurazioni in tema di azione di surroga dell’INAIL nei confronti dell’impresa di assicurazione, attraverso la ripetuta interposizione all’interno dei testi di legge dell’avverbio “complessivamente” (e dell’aggettivo “complessivo”), sia con riferimento al risarcimento dovuto al lavoratore che per la rendita da rapportare ai fini del calcolo, sia per l’azione di regresso che per quella surroga ex art. 142

A seguito di questo intervento normativo il raffronto tra l’entità dell’importo del danno differenziale spettante al lavoratore e quello dell’azione di regresso e surroga spettanti all’INAIL non poteva che avvenire secondo un calcolo per voci complessive ovvero per sommatoria, e non più per voci distinte, come ritenuto dalla giurisprudenza prevalente.

La previsione è risultata da subito estremamente problematica e di dubbia legittimità costituzionale, tanto da suscitare un animato dibattito dottrinale.

Secondo una prima opzione esegetica , l’effetto della riforma degli artt. 10 e 11 TU sarebbe stato nel senso di consentire all’INAIL di pretendere in regresso anche somme destinate a risarcire danni che non erano oggetto di copertura assicurativa, riducendo di conseguenza il credito dell’assicurato verso il datore civilmente responsabile; per una seconda lettura, costituzionalmente orientata, l’innovazione legislativa doveva invece intendersi strettamente limitata al mero danno differenziale (quantitativo), escludendo qualunque incidenza della stessa sul danno propriamente complementare.

In assenza di una chiara disposizione di natura transitoria, si era posta anche una questione di diritto intertemporale, che Sez. L, n. 08580/2019, Ponterio, Rv. 653211-01, trattandosi di innovazione di diritto sostanziale incidente sul riparto di competenze tra tutela previdenziale antinfortunistica e tutela civile risarcitoria, ha risolto secondo la regola generale dell’art. 11 delle preleggi, nel senso che le nuove norme sarebbero state applicabili soltanto agli infortuni sul lavoro occorsi successivamente all’entrata in vigore della legge n. 145 del 2018, come anche alle malattie professionali denunciate dopo il 1° gennaio 2019, mentre ai giudizi pendenti avrebbero continuato ad applicarsi -alla stregua del generale principio tempus regit actum -le regole in vigore sino al 31 dicembre 2018, così come interpretate dalla consolidata giurisprudenza di legittimità.

L’intervento legislativo di cui all'art. 1, comma 1126, cit. ha avuto breve durata; la legge 28 giugno 2019 n. 58, di conversione, con modificazioni, del d.l. 30 aprile 2019 n. 34 (c.d. Decreto crescita) con l’aggiunta dell'art. 3-sexies ne ha abrogato le lettere a), b), c), d), e) e f), e previsto che le disposizioni ivi indicate riacquistassero efficacia nel testo vigente prima della data di entrata in vigore della medesima l. n. 145 del 2018.

Del precedente contesto normativo sopravvive una sola norma, introdotta dalla lett. g) del comma 1126, al comma 3 dell'art. 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965, che consente al giudice di liquidare l'importo dovuto dal datore di lavoro all'INAIL in sede di regresso operando una riduzione della somma tenendo conto della condotta precedente e successiva al verificarsi dell'evento lesivo e dell'adozione di efficaci misure per il miglioramento dei livelli di salute e sicurezza sul lavoro.

Al giudice viene attribuito un potere discrezionale, di natura sostanzialmente equitativa, modulato su criteri di valutazione originali, rispetto a quelli valevoli ai fini della determinazione del danno civilistico risarcibile, che richiamano parametri tipici del diritto penale, facendo riferimento alla condotta del responsabile, precedente e successiva al verificarsi dell’evento lesivo, e all’adozione, da parte di questi di efficaci misure per il miglioramento dei livelli di salute e sicurezza sul lavoro, come una sorta di misura premiale, o uno sconto di pena rispetto a comportamenti “virtuosi”, posti in essere sia a favore del danneggiato sia indistintamente a favore della generalità dei dipendenti.

Venuta meno la novella, per abrogazione espressa ad opera di una normativa successiva, nessun dubbio si pone sulla riemersione della disciplina precedente in quanto il legislatore ha espressamente previsto la riviviscenza delle disposizioni modificate, che riacquistano efficacia nel testo previgente.

Resta tuttavia il problema della disciplina applicabile in riferimento agli infortuni verificatesi o alla malattia manifestatesi nel periodo di limitata vigenza della normativa che va dal 1° gennaio al 30 giugno 2019, in quanto il legislatore non ha anche disposto che la reviviscenza avesse effetto retroattivo.

Come efficacemente osservato da Sez. L n. 8580/2019 già cit., la legge finanziaria del 2019 aveva mutato i criteri di calcolo del danno differenziale rendendo indistinte le singole poste (di danno biologico e patrimoniale) oggetto specularmente di risarcimento civilistico e di tutela indennitaria Inail, ed aveva direttamente inciso sul contenuto del danno differenziale cioè sulle componenti dello stesso, con inevitabili ripercussioni sulla integralità del risarcimento del danno alla persona; ad essa era dunque inapplicabile la giurisprudenza che in materia di criteri generali equitativi di risarcimento del danno formatasi in tema delle tabelle di liquidazione dei danni non patrimoniali, ha affermato l'obbligo di utilizzare parametri vigenti al momento della decisione,

Ne deriva che l’abrogazione di tali norme, che non consegue ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale ma ad un intervento normativo successivo, non può che operare per l’avvenire, senza escluderne l’applicabilità nel limitato periodo di vigenza.

Siamo dunque in presenza di un insolito intervento del legislatore che dopo aver introdotto una significativa modifica dei criteri di liquidazione del danno biologico e dell’azione di regresso Inail, ha avuto una repentina resipiscenza ripristinando dopo appena sei mesi la vecchia disciplina, senza attendere neppure di verificare le ricadute pratiche della novella.

L’effetto paradossale prodotto è l’applicazione di una disciplina significativamente meno favorevole agli eventi assicurati che sono maturati nel breve tempo di vigenza, con una evidente ed illogica disparità di trattamento con casi analoghi antecedenti ed immediatamente successivi.

Tale effetto forse potrebbe essere evitato grazie ad una lettura costituzionalmente orientata della norma, che attribuisca retroattività alla ripresa di efficacia della vecchia normativa, puntando su una sorta di ricostruzione dell’intenzione per così dire obiettivata del legislatore ed avendo come fattore di ispirazione la razionalità del sistema normativo.

6. I danni complementari.

Definitivamente acquisito è anche che le voci di danno subite dal lavoratore non coperte dall’assicurazione, e quindi ulteriori rispetto a quelle oggetto di tutela indennitaria, vanno considerate danni complementari, vanno poste integralmente a carico del datore di lavoro, non costituiscono oggetto di esonero, vanno liquidate in giudizio secondo gli ordinari criteri civilistici senza che delle stesse si debba tenere conto ab origine nella determinazione del danno differenziale.

Per il riconoscimento di tali danni non si pone una questione di rilevanza penale del fatto, non rientrando gli stessi nel raggio di operatività degli art. 10 e 11 del TU in quanto non oggetto di assicurazione.

L’individuazione dei danni complementari come ad origine estranei alla copertura assicurativa, e delle ripercussioni di tale differenza qualitativa sul calcolo del danno differenziale, risulta ormai acquisita dalla giurisprudenza di legittimità come ricostruito da Sez. L, n. 09112/2019, Boghetich, Rv. 653452-01 secondo cui il giudice di merito, dopo aver liquidato il danno civilistico, deve procedere alla comparazione di tale danno con l'indennizzo erogato dall'INAIL secondo il criterio delle poste omogenee, tenendo presente che detto indennizzo ristora unicamente il danno biologico permanente e non gli altri pregiudizi che compongono la nozione pur unitaria di danno non patrimoniale; pertanto, occorre dapprima distinguere il danno non patrimoniale dal danno patrimoniale, comparando quest'ultimo alla quota Inail rapportata alla retribuzione e alla capacità lavorativa specifica dell'assicurato; successivamente, con riferimento al danno non patrimoniale, dall'importo liquidato a titolo di danno civilistico vanno espunte le voci escluse dalla copertura assicurativa (danno morale e danno biologico temporaneo) per poi detrarre dall'importo così ricavato il valore capitale della sola quota della rendita Inail destinata a ristorare il danno biologico permanente.

In tale arresto la S.C. precisa che nell'ambito della categoria del danno non patrimoniale (categoria giuridicamente, anche se non fenomenologicamente, unitaria), vi sono alcune voci escluse in apicibus dalla copertura assicurativa INAIL, definite danni complementari, quali il danno biologico temporaneo, il danno biologico in franchigia (fino al 5%,), il danno morale.

La definizione di danno biologico che si ricava dall’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 comprende sia la lesione statica che le ripercussioni dinamico-relazionali nella vita del danneggiato, ma dalla nozione legislativa appaiono senz'altro escluse voci che concorrono pur sempre a costituire il danno non patrimoniale: le lesioni all'integrità psicofisica di natura transitoria (il danno biologico temporaneo), le lesioni sotto una determinata soglia minima, il danno morale ossia la sofferenza interiore (ad esempio il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione) che non ha base organica ed è estranea alla determinazione medico-legale.

La nozione di danno biologico in senso omnicomprensivo, quale lesione alla salute, secondo i criteri civilistici, comprende invece la lesione medico legale (ossia la perdita anatomica o funzionale), il danno dinamico-relazionale sia nei suoi aspetti ordinari, comuni a qualunque persona con la medesima invalidità, sia in quelli peculiari, specifici del caso concreto), e tutti i conseguenti pregiudizi che la lesione produce sulle attività quotidiane, personali e relazionali.

La S.C. non si è espressamente pronunciata in tema di cd personalizzazione e, a differenza di quanto avvenuto per il danno morale ed il biologico temporaneo, non ha chiarito se costituisca danno complementare o rientri nella comparazione per il danno differenziale.

Dall’esame della fattispecie risulta che la quota di risarcimento imputabile alla personalizzazione non sia stata ritenuta estranea alla copertura assicurativa, e quindi autonomamente ed integralmente risarcibile in quanto danno di natura complementare, ma inserita come componente del danno civilistico non patrimoniale da utilizzare poi ai fini dello scomputo per poste omogenee con l’indennizzo Inail.

Nel caso esaminato questa soluzione non ha determinato delle conseguenze pratiche in quanto era stato applicato il criterio della comparazione per poste omogenee e la voce civilistica liquidata a titolo di danno biologico permanente, già al netto della personalizzazione era superiore all’indennizzo INAIL, per cui per la quota eccedente si poneva solo un problema definitorio.

L’esatta qualificazione avrebbe avuto invece rilevanza qualora fosse stato applicato il criterio di comparazione cumulativo per sommatoria (quale quello che era stato introdotto dalla cd legge di bilancio 2019), perché in tal caso considerare o meno la personalizzazione tra le voci scomputabili o piuttosto estranee alla copertura assicurativa ha delle ricadute in termini quantitativi

Sussistono posizioni in dottrina che, partendo dalla definizione del danno biologico ai fini INAIL, e confrontando la stessa con le componenti del risarcimento del danno non patrimoniale ritenute rilevanti in ambito civilistico, come individuate dalla giurisprudenza, anche di legittimità, tenuto conto dei criteri elaborati con le Tabelle milanesi, ritengono concettualmente estranea alla copertura assicurativa anche la cd personalizzazione.

Secondo la definizione normativa di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, come integrata dal d.m. 12 luglio 2000, il danno biologico INAIL copre gli aspetti dinamico relazionali di tipo medio/standardizzato e non quelli eventualmente specifici della persona, connessi alle ripercussioni in concreto delle lesioni sulla sfera personale e relazionale del singolo.

I danni incidenti su tali ultimi aspetti, in quanto esterni alla copertura assicurativa, dovrebbero pertanto essere liquidati al lavoratore al di fuori dei limiti dell’esonero, previo assolvimento dei necessari oneri di allegazione e prova.

Nella relazione esplicativa delle Tabelle milanesi si legge che nella prima colonna sono ricompresi indici legati ad una tabella di valori monetari “medi”, corrispondenti al caso di incidenza della lesione in termini “standardizzabili” in quanto frequentemente ricorrenti” sia del danno non patrimoniale conseguente a "lesione permanente dell'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale", anche nei suoi risvolti anatomo-funzionali e relazionali medi ovvero peculiari, sia del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di “dolore”, “sofferenza soggettiva”, in via di presunzione in riferimento ad un dato tipo di lesione. Il dato economico contenuto in tale tabella, articolata sempre sulla base del valore di punto parametrata alla gravità della lesione ed all’età del danneggiato, attiene, a detta dei giudici di Milano, alla liquidazione congiunta dei pregiudizi in passato liquidati a titolo di: c.d. danno biologico “standard”, c.d. personalizzazione -per particolari condizioni soggettive -del danno biologico, c.d. danno morale.

Il secondo indice, invece, attiene alla percentuale di aumento dei valori “medi” da utilizzarsi “onde consentire una adeguata "personalizzazione" complessiva della liquidazione, laddove il caso concreto presenti peculiarità che vengano allegate e provate (anche in via presuntiva) dal danneggiato, in particolare: sia quanto agli aspetti anatomo-funzionali e relazionali (ad es. lavoratore soggetto a maggior sforzo fisico senza conseguenze patrimoniali; lesione al "dito del pianista dilettante"), sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva (ad es. dolore al trigemino; specifica penosità delle modalità del fatto lesivo).

Dal raffronto dell’indennizzo Inail, per il quale si ripete rilevano solo gli aspetti dinamico relazionali medi, ed i criteri di liquidazione applicati in ambito civile, si evince che gli aspetti dinamico relazionali medi rientrano interamente nel punto di danno non patrimoniale standard, con la conseguenza che la percentuale di personalizzazione dovrebbe costituire anch’essa una voce in apicibus esclusa dalla copertura assicurativa.

Questione problematica è anche quella relativa al cd danno terminale in caso di morte del lavoratore assicurato.

Innanzitutto va sgombrato il campo dall’equivoco che in sede di calcolo del differenziale si possa tenere conto della rendita ai superstiti che costituisce una prestazione di natura patrimoniale spettante iure proprio agli eredi, e non all’infortunato, in conseguenza della morte del congiunto, che non ha alcuna rilevanza ai fini della liquidazione del danno differenziale, non potendo scomputarsi quanto dovuto a soggetti diversi dal danneggiato-lavoratore; né tanto meno, quale voce di danno patrimoniale può scomputarsi dal danno biologico INAIL.

Tale prestazione, ex art. 85 del TU, presuppone, ai sensi del successivo art. 106, la cosiddetta "vivenza a carico", la quale sussiste ove i superstiti a seguito dell’evento vengano a trovarsi senza sufficienti mezzi di sussistenza autonoma in quanto in precedenza al loro mantenimento concorreva in modo efficiente il lavoratore defunto (Vedi Sez. L, n. 18658/2020, Cavallaro, Rv. 658597-01); il riconoscimento di tale rendita del resto prescinde dalla circostanza che per quello stesso evento dall’esito infausto fosse già stata costituita la rendita in favore del lavoratore deceduto (Vedi Sez. 6-L, n. 30879/2019, Riverso, Rv. 655901-01)

Analogo ragionamento va effettuato per il cd danno da perdita parentale da perdita di congiunto che, pur costituendo danno non patrimoniale, viene riconosciuto sempre iure proprio ai superstiti e quindi a soggetti diversi dal lavoratore.

Residua il danno non patrimoniale eventualmente trasmesso iure hereditatis dal lavoratore; esclusa la risarcibilità di un danno da perdita della vita tout court (da Sez. U, n. 15350/2015, Salmè, Rv. 635985-01), la risarcibilità del danno biologico "terminale", cioè da invalidità temporanea assoluta, si ritiene configurabile in capo alla vittima solo nell'ipotesi in cui la morte sopravvenga dopo apprezzabile lasso di tempo dall'evento lesivo e di danno morale "terminale o catastrofale o catastrofico", quale danno consistente nella sofferenza patita dalla vittima che lucidamente attende lo spegnersi della propria vita. (tra le tante. Sez. L, n. 17577/2019, F. Amendola, Rv. 654381-01; Sez. 3, n. 18056/2019, Rossetti, Rv. 654378 -01).

Ebbene il danno terminale biologico e morale del lavoratore spettante iure hereditatis ai superstiti non rientra tra le voci indennizzabili dall'INAIL in quanto la perdita della vita non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute e pertanto non rientra nella nozione di danno biologico recepita dall'art. 13 del d.lgs. n 38 del 2000, che fa riferimento alla "lesione dell'integrità psicofisica", suscettibile di valutazione medico-legale e causativa di una menomazione valutabile secondo le tabelle di cui al d.m. 12 luglio 2000; venendo in questione un bene, quale la vita, diverso dalla salute va escluso che l'INAIL indennizzi, se configurabile il danno da "perdita del diritto alla vita"(Sez. 3, n. 24474/2020, Gorgoni, Rv. 659761-01)

Il danno terminale va quindi collocato tra i danni complementari da liquidarsi per intero, e senza che dallo stesso possa scomputarsi quanto eventualmente erogato in vita al lavoratore a titolo di rendita in conseguenza dei postumi permanenti ma ingravescenti che poi lo hanno portato alla morte.

7. Il presupposto del risarcimento: la responsabilità ex art. 2087 c.c.

Mentre la tutela indennitaria Inail spetta al lavoratore a prescindere da un accertamento in merito ad una responsabilità del datore di lavoro, ovvero di un terzo, operando anche nei casi in cui l’evento assicurato sia riconducibile a negligenza o imperizia dello stesso lavoratore o caso fortuito, con il solo limite del dolo e del rischio elettivo, la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno presuppone l’accertamento di una sua responsabilità per colpa.

In presenza di infortuni sul lavoro o malattie professionali il lavoratore agisce per il risarcimento del danno alla salute nei confronti del datore di lavoro invocando la sua responsabilità ex art. 2087 c.c.; tale disposizione impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore adottando tutte le misure richieste dalla particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica.

In relazione al disposto dell'art. 2087 c.c. si registrano posizioni ormai consolidate, quali quelle relative alla natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro ed all’estensione degli obblighi di sicurezza e protezione; qualche incertezza sussiste ancora per gli aspetti relativi all’ampiezza degli oneri di allegazione e prova incombenti sul lavoratore ed al profilo dell’accertamento della colpa del datore di lavoro.

Pacifico che l'obbligo di sicurezza operi all'interno della struttura del rapporto di lavoro e sia fonte di obblighi positivi e negativi del datore che è tenuto a predisporre un ambiente ed una organizzazione di lavoro idonei alla protezione del bene fondamentale della salute, funzionale alla stessa esigibilità della prestazione lavorativa con la conseguenza che è possibile per il prestatore di eccepirne l'inadempimento e rifiutare la prestazione pericolosa (art. 1460 c.c.).

L'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 c.c. impone all'imprenditore di adottare non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificità del rischio, atteso che la sicurezza del lavoratore è un bene protetto dall'art. 41, comma 2, Cost. (Vedi Sez. L, n. 15112/2020, Piccone, Rv. 658187-01; Sez. L, n. 16749/2019, Ponterio, Rv. 654359 -01)

In quanto norma “aperta”, il cui contenuto va determinato sulla base di parametri desumibili dal complesso di rischi e pericoli che caratterizzano la specifica attività lavorativa, aggiornati tenendo conto del progresso scientifico e tecnologico, costituisce la norma di chiusura del sistema di prevenzione, operante cioè anche in assenza di specifiche regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.

Alla disposizione viene attribuita una 'funzione dinamica', quale norma diretta a spingere l'imprenditore ad attuare, nell'organizzazione del lavoro, un'efficace attività di prevenzione con la continua e permanente ricerca delle misure suggerite dall'esperienza e dalla tecnica più aggiornata al fine di garantire, nel miglior modo possibile la sicurezza dei luoghi di lavoro. (Sez. L, n. 08911/2019, Marotta, Rv. 653217-01).

Secondo la giurisprudenza unanime la disposizione, come tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento permanente dell'ordinamento alla sottostante realtà socio-economica, e vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto a quest'ultima e di adeguamento di essa al caso concreto.

Nel nostro ordinamento, in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, opera un corpus normativo molto articolato, che trova il suo testo fondamentale nel d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81 (che ha sostituito il d.lgs. 19 settembre 1994 n. 626) e la sua sintesi nell’art. 2087 c.c., che impone il rispetto non solo di regole d'esperienza e regole tecniche preesistenti e già collaudate, ma anche tutte quelle misure e cautele, cd innominate, che si rendano indispensabili in un determinato momento storico, in base alle conoscenze scientifiche e delle tecnologie disponibili ( richiamate anche nel d.lgs. n. 81 del 2008, all’art. 2, lett. n).

Gli obblighi di prevenzione sul lavoro non operano limitatamente a rischi specifici, predeterminati, già analizzati e neutralizzati in prevenzione da disposizioni normative, ma si estendono anche a rischi nuovi, imprevisti, rispetto ai quali non è stato ancora possibile intervenire con la previsione di norme di cautela specifiche, ma di cui si abbia comunque consapevolezza e conoscenza.

L'art. 2087 c.c. non configura in ogni caso un'ipotesi di responsabilità oggettiva ma è necessario che l'evento dannoso sia riferibile ad una colpa del datore di lavoro, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore.

Il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 2087 c.c., è tenuto a prevenire anche le condizioni di rischio insite nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia del lavoratore, dimostrando di aver messo in atto a tal fine ogni mezzo preventivo idoneo, non potendo essere ragione di esonero totale da responsabilità l'eventuale concorso di colpa di altri dipendenti, se non quando la loro condotta rappresenti la causa esclusiva dell'evento. (Sez. L, n. 30679/2019, Bellè, Rv. 655882-02)

L'unico limite è sempre quello del cd. rischio elettivo, da intendere come condotta personalissima del dipendente, intrapresa volontariamente e per motivazioni personali, al di fuori delle attività lavorative ed in modo da interrompere il nesso eziologico tra prestazione e attività assicurata avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa o ad essa riconducibile, esercitata ed intrapresa volontariamente in base a ragioni e a motivazioni del tutto personali, al di fuori dell'attività lavorativa e prescindendo da essa, come tale idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata. (Sez. L, n. 16026/2018, Bellè, Rv. 649356-02; Sez. L, n. 07649/2019, Ghinoy, Rv. 653410-01)

Da ultimo la giurisprudenza ha precisato che non può desumersi dall'indicata disposizione un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a 'rischio zero', quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di un'attrezzatura non sia eliminabile; egualmente non può pretendersi l'adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche ragionevolmente impensabili ; la responsabilità datoriale dunque non è suscettibile di essere ampliata fino al punto da comprendere, sotto il profilo meramente oggettivo, ogni ipotesi di lesione dell'integrità psico-fisica dei dipendenti e di correlativo pericolo. (Sez. L, n. 14066/2019, Patti, Rv. 653969-01; Sez. L, n. 26495/2018, Marchese, Rv. 651196-01)

Né è ascrivibile al datore di lavoro qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile, in quanto non si può presupporre dal semplice verificarsi del danno, l'inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto.

Tale precisazione si ripercuote sulla ripartizione degli oneri di allegazione e prova.

Secondo la impostazione tradizionale, il lavoratore che agisca per il riconoscimento del danno deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa e del danno, nonché il nesso causale tra quest'ultimo e la prestazione, mentre incombe sul datore di lavoro provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile, vale a dire di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno, e che gli esiti dannosi sono stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile Sez. L, n. 16869/2020, Negri della Torre, non massimata).

Ne consegue che il lavoratore, in parziale deroga al principio generale stabilito dall'art. 2697 c. c., non è gravato dall'onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, onere che incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell'inadempimento; ai fini del superamento della presunzione di cui all’art. 1218 c.c., grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all’attività svolta, e di aver adottato tutte le misure che, in considerazione della peculiarità dell’attività e tenuto conto dello stato della tecnica, siano necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza. (Sez. L, n. 14468/2017, Tricomi, Rv. 644681-01)

Con posizione più rigorosa, ed un aggravamento degli oneri probatori del lavoratore, si è però ritenuto che il concetto di specificità del rischio, da cui consegue l'obbligo del datore di provare di avere adottato le misure idonee a prevenire ragioni di danno al lavoratore, va inteso nel senso che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di allegare e provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi (Sez. L, n. 24742/2018, F. De Gregorio, Rv. 650725-01; Sez. L, n. 26495/2018, Marchese, Rv. 651196-01)

In altra recente decisione, ai fini della responsabilità datoriale, ai sensi dell'art. 2087 c.c., si richiede la sola allegazione (e quindi non anche la prova) da parte del lavoratore, che agisce deducendo l'inadempimento, degli indici della nocività dell'ambiente lavorativo cui è esposto, da individuarsi nei concreti fattori di rischio, circostanziati in ragione delle modalità della prestazione lavorativa. (Sez. L, n. 28516/2019, Blasutto, Rv. 655608-01)

Fermo un onere di allegazione del lavoratore, il contenuto dei rispettivi oneri probatori viene poi ricostruito in termini diversi a seconda che le misure di sicurezza siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici (quali le misure previste dal d.lgs. n. 81 del 2008 e successive integrazioni e modificazioni come dal precedente d.lgs. n. 626 del 1994 e prima ancora dal precedente n. 547 del 1955), oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 c.c., che impone l'osservanza del generico obbligo di sicurezza.

Nel primo caso -riferibile alle misure di sicurezza cosiddette 'nominate' -il lavoratore ha l'onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa -ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere-nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l'inosservanza della misura ed il danno subito.

La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell'insussistenza dell'inadempimento e del nesso eziologico tra quest'ultimo e il danno.

Nel secondo caso -in cui si discorre di misure di sicurezza cosiddette 'innominate' -la prova liberatoria a carico del datore di lavoro (fermo restando il suddetto onere probatorio spettante al lavoratore) viene correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe. (Sez. L, n. 00034/2016, Tria, Rv. 638243-01; Sez. L, n. 10319/2017, Patti, Rv. 644034-01; Sez. L, n. 29879/2019, Balestrieri, Rv. 65585601)

8. La tutela della salute del lavoratore ai tempi del COVID 19

Il sistema vigente per la protezione dei luoghi di lavoro ha dato prova di completezza ed esaustività; in occasione dell’imprevedibile emergenza pandemica del COVID-19, per la cui gestione non si sono resi necessari interventi di modifica o di integrazione normativa ma è stato sufficiente ricorrere ad indicazioni operative e mere raccomandazioni. Regole pratiche che, anche in mancanza di disposizioni prescrittive specifiche, sarebbero divenute ugualmente obbligatorie per ogni imprenditore, all’atto dello svolgimento di una qualsiasi prestazione di lavoro, ai sensi dell’art.2087 c.c. perché imposte in questo momento storico dalla prudenza, dall’esperienza e dalle conoscenze scientifiche acquisite e conoscibili in quanto di dominio pubblico.

All’uopo il 14 marzo 2020 è stato sottoscritto fra il Governo e le parti sociali un protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, ulteriormente integrato il 24 aprile 2020.

Tali protocolli, poiché volti a procedimentalizzare le modalità con cui vengono esercitati i poteri datoriali e, in particolare, l’adempimento dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c., sono stati qualificati come contratti collettivi gestionali, applicabili alla generalità dei lavoratori in quanto finalizzati a realizzare il superiore obiettivo del bilanciamento tra il diritto alla salute e la libertà di iniziativa economica privata.

Diversi i d.p.c.m. che sono stati emanati in attuazione del d.l. 25 marzo 2020 n. 19, conv. con modif. dalla l. 23 maggio 2020 n. 35, in base all’evoluzione dell’emergenza sanitaria; il d.p.c.m. del 10 aprile 2020 all’art. 2, comma 10, ha disposto che le imprese le cui attività non sono sospese rispettino “i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali”, mentre all’art. 1, lett. ii), con riferimento alle attività professionali, che proseguono, raccomanda, tra l’altro, di assumere protocolli di sicurezza anti-contagio, con adozione, “laddove non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento”, di strumenti di protezione individuale, e di incentivare le operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro.

Il d.p.c.m. del 26 aprile 2020 contiene analoghe previsioni rispettivamente, all’art. 2, comma 6, con riferimento al Protocollo sottoscritto il 24 aprile 2020 per le attività produttive, di cui è stato anche disposto l’inserimento come allegato 6, ed all’art. 1, lett. 11), punto c), per le attività professionali.

I provvedimenti innanzi menzionati assicurano al Protocollo una sorta di copertura legislativa, sebbene le misure dallo stesso previste, rispecchiando sostanzialmente le raccomandazioni precauzionali fornite dall’OMS, già si integravano perfettamente con i principi e i precetti propri del sistema di prevenzione delineato dal d.lgs. n. 81 del 2008 e dall’art. 2087 c.c.

Alcune prescrizioni risultano obbligatorie, altre solo raccomandate, ciò che rileva è che vengano garantite le condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative: la mancata attuazione del Protocollo che non assicuri adeguati livelli di protezione può comportare la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni richieste.

Anche con riguardo alle attività pubbliche sono stati stipulati dal Ministro per la pubblica amministrazione con le sigle sindacali maggiormente rappresentative nella pubblica amministrazione, in data 3 e 8 aprile 2020, due protocolli di sicurezza analoghi a quelli del settore privato.

L'art. 42, comma 2, del d.l. 17 marzo 2020 n. 18 ("Decreto Cura Italia"), conv. con modif. dalla l. 24 aprile 2020 n. 27, ha previsto che l'infezione da Covid-19 contratta "in occasione di lavoro" costituisce infortunio sul lavoro indennizzabile dall’INAIL.

Sulla base di tale norma, se il contagio da Coronavirus avviene in “occasione di lavoro”, l’INAIL è obbligato ad erogare le prestazioni dovute ai soggetti protetti a seconda dell’evento subito (lesione o decesso) e delle conseguenze riportate dal lavoratore, sia esso pubblico o privato. Coloro che hanno contratto il virus sul lavoro avranno quindi diritto all’indennizzo per il periodo di inabilità temporanea assoluta e all’indennizzo in capitale o alla rendita per i postumi permanenti; in caso di morte, ai loro familiari spetterà poi la rendita ai superstiti.

La norma oltre a riconoscere una protezione economica di natura sociale per il danno alla salute ed alla capacità lavorativa dei lavoratori, nonché alle loro famiglie per la perdita del reddito nell’ipotesi del decesso prevede anche che non vi sarà alcun onere aggiuntivo per le imprese in termini di aumento di premi assicurativi.

In linea con una elaborazione giurisprudenziale ormai consolidata, la disposizione chiarisce che in caso di infezione da coronavirus si applica la protezione più ampia garantita dall’art. 2 per infortunio (subito “in occasione di lavoro”), anche in itinere, e non quella prevista dall’art. 3 per la malattia professionale che, richiedendo un nesso causale col lavoro (“a causa delle lavorazioni”), è meno agevole da provare.

Così l’INAIL interviene non solo nelle ipotesi in cui il lavoro ne sia stato la causa (come avverrebbe, ai sensi dell’art. 3 del T.U), ma anche quando il lavoro ne rappresenti la semplice occasione (ai sensi dell’art. 2 T.U.).

La differenza tra i due tipi di evento si fonda sulla concentrazione e violenza del fattore causale: la “causa virulenta” (l’azione di fattori microbici o virali) viene considerata “causa violenta”, per cui l’evento è protetto come infortunio sul lavoro e non come malattia.

La giurisprudenza ha chiarito da tempo che costituisce causa violenta (e quindi infortunio) anche l'azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell'organismo umano, ne determinino l'alterazione dell'equilibrio anatomofisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell'attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell'infezione.

La circostanza molto frequente che la malattia da Coronavirus colpisca persone che già soffrono di altre patologie importanti non preclude né limita la tutela INAIL in quanto altro principio pacifico è quello dell’applicazione della regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dalla regola dell’equivalenza delle condizioni, sicché va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, anche soltanto quale fattore accelerante, salvo il caso in cui il nesso di causalità sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento

Sul piano probatorio, premesso che in materia di infortuni sussiste sempre la possibilità di ricorrere alle presunzioni gravi, precise e concordanti ex art. 2729 c.c. ai fini della prova presuntiva del rapporto di occasionalità, per chi opera in ambienti sanitari, come ospedali, cliniche, ambulatori medici o farmacie, è senz’altro legittimo il ricorso a presunzioni semplici anche quando l’identificazione delle specifiche cause lavorative del contagio si presenti problematica; ciò perché, sebbene alcune infezioni si possano contrarre anche in condizioni estranee al lavoro, per quei lavoratori che operano in un determinato ambiente e che sono adibiti a specifiche mansioni, con una ripetuta e consistente esposizione ad un particolare rischio, la presunzione dell’origine lavorativa è così grave da raggiungere quasi la certezza .

Il ricorso alle presunzioni è poi consentito anche ai lavoratori che non operano nel settore sanitario; seppure per essi la presunzione di sussistenza del nesso eziologico/occasionale con l’attività lavorativa ha minore forza rispetto agli operatori sanitari, sarà comunque possibile fare riferimento alla specificità delle mansioni e del lavoro svolto, alla diffusione del virus nella località o nell’azienda dove sono stati costretti ad operare e agli altri fatti noti dai quali sia possibile evincere un collegamento della patologia da COVID-19 con l’attività protetta.

Trattandosi di infortunio, e non di malattia, va certamente ammessa la tutela anche dell’infortunio in itinere, per chi contrae la malattia da Coronavirus andando e tornando dal lavoro; sarà quindi solo un problema di prova (per esempio quella di aver viaggiato con un compagno di lavoro, precedentemente infettato dal virus) da fornire anche a mezzo presunzioni (es. uso di mezzi pubblici affollati in zona ad alto rischio).

L’art. 42 citato riconosce espressamente l’indennizzo dell’inabilità temporanea per il periodo in cui il lavoratore si trova in quarantena o in isolamento domiciliare per fini precauzionali in conseguenza della malattia da Coronavirus, immediatamente dopo la guarigione o per l’intervenuto accertamento della positività al virus, trattandosi di situazioni di impedimento assoluto al lavoro che, come quelle derivanti da altri stati patologici vanno tutelati nel caso in cui siano state occasionate dal lavoro.

L’INAIL già si era conformato alla giurisprudenza in tema di causa virulenta a partire dagli anni 90 con la Circolare del 1° luglio 1993, relativa alle “Modalità di trattazione dei casi di epatite virale a trasmissione parenterale e AIDS” e la Circolare Inail n. 74 del 23 novembre 1995 e “Linee guida per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie” del 1° dicembre 1998; con l’Istruzione operativa del 17 marzo 2020 ha ribadito che la malattia da Coronavirus, contratta nell’ambiente di lavoro o a causa dello svolgimento dell’attività lavorativa, va tutelata come infortunio sul lavoro.

Sebbene la norma avesse una esclusiva valenza sul piano dell’assicurazione sociale, da più parti si è temuto che la stessa avesse accentuato per i datori di lavoro il rischio di incorrere in responsabilità civile e penale allorché il contagio da Covid19 avvenga all’interno dei luoghi di lavoro.

Il legislatore è così nuovamente intervenuto e con l'art. 29-bis della l. 5 giugno 2020 n. 40, di conversione del d.l. 8 aprile 2020 n. 23, ha stabilito che i datori di lavoro adempiono all'obbligo di garantire la sicurezza dei lavoratori previsto dall'art. 2087 c.c. mediante l'applicazione del Protocollo sottoscritto il 24 aprile 2020 dal Governo e dalle Parti Sociali.

Questo intervento normativo potrà porre a lungo termine qualche problema interpretativo in quanto, cristallizzando il rispetto degli obblighi di protezione e sicurezza imposti dall’art. 2087 c.c. al rispetto di specifiche disposizioni, adottate a mezzo protocolli tra le parti sociali, si pone in antitesi con la funzione dinamica della norma e la sua ratio di norma aperta.

Le perplessità sono dovute al fatto che si è tipizzato un obbligo di sicurezza per definizione dinamico; indubbiamente le misure indicate dai Protocolli condivisi risultano ad oggi esaustive, in quanto rappresentano l’approdo della scienza nel contrasto alla diffusione del coronavirus, ma se dall’evoluzione delle conoscenze scientifiche si evidenziasse l’inadeguatezza e l’insufficienza delle misure adottare con i Protocolli, basti pensare alle nuove prospettive aperte dalla campagna vaccinale sul piano degli obblighi di prevenzione, sarebbe difficile sostenere che i datori di lavoro non siano tenuti ad adeguarsi ai nuovi standard di sicurezza.

Conforta in ogni caso la tenuta del sistema, nella speranza che l’adozione di misure precauzionali in tema di tutela della salute nel mondo del lavoro restino anche nel futuro una priorità condivisa.

  • licenziamento collettivo
  • diritti sindacali
  • trasferimento d'impresa
  • diritto del lavoro
  • impresa in difficoltà

XIII)

TRASFERIMENTO D’AZIENDA E TUTELA DEI LAVORATORI.

(di Giovanni Maria Armone )

Sommario

1 La vicenda Alitalia-Etihad Airways. - 2 Licenziamenti collettivi, accordi sindacali e trasferimento d’azienda: gli interventi della Suprema Corte. - 3 Le questioni ancora aperte. - 4 La giurisprudenza della Corte di giustizia sul tema dei diritti dei lavoratori in caso di cessione d’azienda. - 5 Le nuove regole del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

1. La vicenda Alitalia-Etihad Airways.

Il licenziamento collettivo disposto nel 2014 da CAI-Alitalia, in occasione del trasferimento di parte del compendio aziendale a una società di nuova creazione, denominata SAI-Alitalia, nell’ambito della partnership commerciale con Etihad Airways, ha dato luogo a un ampio contenzioso, sfociato nel 2020 davanti alla Corte di cassazione.

La vicenda ha costituito il punto di emersione di alcuni gravi problemi nel rapporto tra l’ordinamento italiano e il diritto dell’Unione europea in materia di garanzie dell’occupazione in caso di trasferimento d’azienda1.

Sullo sfondo si staglia infatti la direttiva 2001/23/CE del Consiglio del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, che già in passato aveva dato origine a una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia.

In estrema sintesi, tale direttiva prevede, in occasione del trasferimento e a protezione dei diritti dei lavoratori, alcuni limiti sia al potere unilaterale dell’imprenditore-cedente di licenziare, sia agli accordi sindacali di derogare alle previsioni della direttiva stessa. Il trasferimento dell’azienda o di parte di essa non può giustificare di per sé il licenziamento dei lavoratori, a meno che la riduzione dell’occupazione non sia realizzata nell’ambito di una procedura liquidatoria dell’impresa cedente, che si svolga sotto il controllo di un’autorità pubblica.

Nell’ordinamento nazionale, simili divieti erano già contenuti di fatto nell’art. 2112 c.c., ma l’art. 47 della l. n. 428 del 1990, nel testo ratione temporis vigente, prevedeva che l’art. 2112 non trovasse applicazione, con la conseguente possibilità di non far transitare tutti i lavoratori presso il cessionario, non solo quando l’impresa fosse stata dichiarata fallita o comunque sottoposta a procedura concorsuale, ma anche quando lo stato di crisi aziendale fosse stato accertato nell’ambito della procedura speciale disciplinata dall’art. 2, comma 5, lett. c), della l. n. 675 del 1977. Si tratta di una procedura amministrativa, in cui la situazione di crisi aziendale che presenti “particolare rilevanza sociale in relazione alla situazione occupazionale locale ed alla situazione produttiva del settore”è accertata dal CIPI su proposta del Ministro del lavoro (oggi, abolito il CIPI, la decisione è del Ministro del lavoro).

La previsione non è stata ritenuta conforme alla direttiva dalla Commissione europea, che ha avviato una procedura d’infrazione, sfociata nella sentenza della Corte di giustizia 11 giugno 2009, causa C-561/07, Commissione c. Repubblica Italiana. Dopo aver ripercorso la genesi della direttiva 2001/23, i giudici di Lussemburgo hanno osservato che “l’accertamento dello stato di crisi aziendale non può necessariamente e sistematicamente rappresentare un motivo economico, tecnico o d’organizzazione che comporti variazioni sul piano dell’occupazione” e hanno escluso che la procedura prevista dall’art. 47, sesto comma, della legge n. 428 del 1990, potesse rientrare tra i casi, contemplati dalla direttiva ma tassativi, in cui le garanzie in favore dei lavoratori possono essere derogate.

Ne è scaturita la condanna dell’Italia e, a seguire, la modifica dell’art. 47 e l’introduzione al suo interno di un comma 4-bis1 . All’interno di tale nuova disposizione, la procedura amministrativa guidata dal CIPI (poi dal Ministero del lavoro) continua a costituire il presupposto per derogare all’art. 2112 in caso di trasferimento d’azienda, ma con la mediazione necessaria di un accordo sindacale sul mantenimento, almeno parziale, dell’occupazione.

Il comma 4 bis è stato immediatamente sottoposto a severa critica dalla dottrina, che l’ha giudicato elusivo della sentenza della Corte di giustizia1. Ma è sopravvissuto, alla stregua di un ordigno inesploso, fino alla crisi aziendale Alitalia del 2014, in cui ha mostrato concretamente tutte le sue incongruenze2.

La procedura di licenziamento collettivo in questione, con il connesso accordo sindacale, è stata infatti avviata sulla base dell’espresso presupposto che la riduzione si rendesse necessaria perché era stato raggiunto un accordo commerciale volto al trasferimento dell’azienda.

Una parte della giurisprudenza di merito ha cominciato a sindacare la legittimità dell’accordo e dei conseguenti licenziamenti, evidenziando due profili, tra loro strettamente collegati:

a) in primo luogo, ci si è interrogati sulla legittimità in sé del licenziamento, una volta che si sia escluso che lo stato di crisi aziendale certificato in sede amministrativa sia idoneo a giustificare il recesso e che si sia dunque ravvisato nel trasferimento d’azienda il vero e unico motivo della riduzione del personale; una parte dei giudici di merito ha negato che il comma 4 bis sia rispettoso della direttiva e, attraverso la sua interpretazione conforme e/o la sua disapplicazione, è giunta a dichiarare nullo il licenziamento ex art. 2112, comma 4, c.c.3;

b) a seguire, si è posto il problema, una volta accertata l’illegittimità del licenziamento, se la reintegrazione debba essere disposta presso il cedente o presso il cessionario, visto che anche su questo l’accordo sindacale conteneva previsioni derogatorie all’art. 2112; tale secondo profilo è stato analizzato sia dalla giurisprudenza che ha aderito all’idea esposta sub a), della radicale nullità del licenziamento, sia da quelle sentenze che, pur non condividendola, hanno comunque riscontrato un vizio del licenziamento meritevole della tutela reale1.

Come si vedrà, la Suprema Corte si è dovuta confrontare solo con il secondo dei problemi appena illustrati, poiché nessuna delle decisioni che avevano dichiarato tout court la nullità del licenziamento ha sinora resistito ai vari gradi del rito Fornero e davanti alla Cassazione il problema non è stato riproposto dai lavoratori in forma di ricorso incidentale.

Si tratta tuttavia del nodo più difficile da sciogliere ed è verosimile pensare che il confronto con esso offrirà l’occasione per un interpello della Corte di giustizia e/o della Corte costituzionale, costituirà in altri termini una nuova tessera del dialogo multilivello2.

2. Licenziamenti collettivi, accordi sindacali e trasferimento d’azienda: gli interventi della Suprema Corte.

La risposta fornita dalla S.C. alle questioni ad essa sottoposte è stata ad ampio raggio e ha costituito l’occasione per numerose puntualizzazioni in tema di trasferimento d’azienda e impugnazione dei licenziamenti connessi (Sez. L, n. 10414/2020, Blasutto, Rv. 657851-01 Sez. L, n. 10415/2020, F. Amendola, Rv. 657871-01)3.

Anzitutto, la Cassazione (Sez. L, n. 10415/2020, F. Amendola, Rv. 657871-01) ha confermato che il rito speciale cd. Fornero è utilizzabile anche quando il lavoratore, impugnando il licenziamento, chieda di essere reintegrato presso un soggetto diverso dal datore di lavoro che lo ha adottato. L’ampiezza della formula utilizzata dall’art. 1, comma 47, della l. n. 92 del 2012 consente di far operare il rito speciale ogni qualvolta la domanda miri, secondo la prospettazione attorea non palesemente artificiosa, a ottenere una tutela rientrante nella sfera dell’art. 18 st.lav. novellato, anche quando dunque presupponga una dissociazione tra autore del licenziamento e destinatario del provvedimento di reintegrazione. Solitamente utilizzato per le ipotesi di dedotta interposizione fittizia, questo allargamento vale a fortiori per le ipotesi di cessione d’azienda, in cui la dissociazione dipende non frodi realizzate in sede di costruzione del rapporto di lavoro, ma da illegittimità connesse a un trasferimento che di per sé rimane valido. A ben vedere, l’impugnativa di licenziamento e l’azione di tutela conseguente, reale o indennitaria poco importa, restano domande diverse, solitamente indirizzate nei confronti dello stesso soggetto; qualora però questa coincidenza non vi sia, le due domande restano tra loro connesse e sono fondate sugli identici fatti costitutivi del rapporto di lavoro e del licenziamento, con conseguente piena applicabilità dell’art. 1, comma 48, terzo periodo.

Ma il cuore delle decisioni del 2020 (Sez. L, n. 10414/2020, Blasutto, Rv. 657851-01) riguarda l’interpretazione dell’art. 47, commi 4-bis e 5, della l. n. 428 del 1990, alla luce della direttiva n. 2001/223 e della giurisprudenza della Corte di giustizia U.E., nei termini sintetizzati nel paragrafo precedente.

Al riguardo, va ricordato che nei casi giunti davanti al giudice di legittimità la questione controversa non riguardava (più il potenziale contrasto con la direttiva n. 2001/23 della decisione di licenziare in sé considerata. Le sentenze d’appello avevano infatti affermato l’illegittimità del licenziamento per motivi diversi da questo, perlopiù per violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, ma avevano poi ordinato la reintegrazione nei confronti del cedente.

La Cassazione si è dovuta dunque confrontare con la l. n. 428 del 1990 non già per valutare la legittimità dell’accordo sindacale in funzione della scelta, a monte, di riduzione del personale, bensì per giudicarne gli effetti nei rapporti tra cedente e cessionario.

La cosa è significativa e paradossale, dato che l’accordo sindacale si inseriva comunque in una procedura di riduzione del personale, in un contesto cioè in cui la decisione delle parti sociali era concorde nel senso di sacrificare una parte dei lavoratori in ragione dello stato di crisi dell’azienda cedente. Se dunque un appello alle esigenze di parziale mantenimento dell’occupazione, ossia all’inevitabilità del male minore, può comprendersi per difendere l’avvio della procedura di licenziamento collettivo e la conclusione di un accordo sindacale volto comunque a salvare una parte dei lavoratori trasferendo la titolarità dei loro rapporti al più solido cessionario, molto meno un simile appello si giustifica, dopo che l’illegittimità del licenziamento sia stata accertata per altre cause, al fine di invocare la reintegrazione nei confronti del cedente, ossia del soggetto il cui stato di difficoltà economica è all’origine dell’intera vicenda.

Il fatto è che la procedura di mobilità collettiva “sembra presidiare i soli interessi del sindacato”1, senza che i lavoratori possano intervenire per contestare le informazioni rese in quella fase, mentre, in sede giudiziaria, a difendere quella procedura e gli accordi con le parti sociali ivi raggiunti è solo l’azienda, la quale ben può strumentalizzare a proprio vantaggio il senso e la funzione di detti accordi. Appare tuttavia davvero incongruo che, dopo essersi affermato che lo stato di crisi del cedente rende legittimo da parte sua un licenziamento in vista del trasferimento d’azienda, la reintegrazione possa essere disposta proprio presso quello stesso soggetto, ossia presso l’azienda che si trova in uno stato certificato di difficoltà economica e che, con più facilità e fondamento, potrà presto o tardi rinnovare il licenziamento.

La Cassazione ha così avuto buon gioco nello smontare una simile ricostruzione, attraverso una rigorosa analisi del dato normativo e delle vicende storiche che lo hanno riguardato.

La Corte ha anzitutto ripreso i brani salienti della sentenza della Corte di giustizia del 2009 per sottolineare la diversità di ratio dei due attuali commi 4-bis e 5 dell’art. 47. Se il vecchio comma 5 è stato sdoppiato e riformulato, ciò è dipeso proprio da quella sentenza e dalla necessità per il legislatore italiano di conformarsi al fondamentale principio espresso dal diritto eurounitario (ma in realtà anche italiano), secondo cui il trasferimento dell’azienda di regola non può mutare l’assetto del personale.

A tale principio può derogarsi solo quando il trasferimento si inserisca in una procedura concorsuale liquidatoria della società cedente, svolta sotto il controllo di un’autorità pubblica e vi siano dunque adeguate garanzie che l’accordo sindacale raggiunto non serve a liberarsi di una parte dei lavoratori; solo in tal caso, può escludersi che l’art. 2112 trovi applicazione, salve condizioni di miglior favore per i lavoratori (nuovo comma 5).

Qualora invece la crisi aziendale sia solo certificata dall’autorità amministrativa o ci si trovi in una fase preliquidatoria (comma 4-bis) l’art. 2112 può essere sì derogato, ma non sino al punto di rendere l’ipotesi in esame equivalente (“con sovrapposizione di effetti”, sottolinea la S.C.) a quella disciplinata nel comma 5.

Resta indifferente, secondo le sentenze, che entrambi i commi facciano riferimento al raggiungimento di “un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione” poiché, se l’espressione avesse la stessa portata nelle due ipotesi, tra le stesse non vi sarebbe differenza e il comma 4-bis equivarrebbe a un aggiramento della pronuncia della Corte di giustizia che è stata all’origine del suo inserimento nel corpo dell’art. 47.

In altri termini, le deroghe all’art. 2112 c.c. sono ammissibili nei confronti dei lavoratori “il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente” (comma 5), il che presuppone come già risolta positivamente la questione del loro passaggio al cessionario, sia che si tratti dei lavoratori originariamente compresi nell’accordo, sia che il passaggio sia dipeso dall’intervento del giudice che abbia dichiarato illegittima la loro esclusione.

A contrario, e in linea con il diritto dell’Unione europea, è da “escludere che l’accordo sindacale di cui al comma 4-bis possa disporre in senso limitativo del diritto al trasferimento dei rapporti di lavoro” (§ 5.7. della motivazione). La Cassazione ne ha così tratta la conclusione che in simili ipotesi la reintegrazione debba essere necessariamente disposta presso il cessionario.

3. Le questioni ancora aperte.

Come accennato, le questioni più delicate sono quelle che la Suprema Corte si troverà ad affrontare nel prossimo futuro.

Prima della (e indipendentemente dalla) illegittimità del licenziamento per vizi attinenti alle modalità di svolgimento della procedura, occorre infatti chiedersi se il diritto U.E. sia di ostacolo a una normativa nazionale che consenta di licenziare in occasione del trasferimento d’azienda, sulla base di una situazione di crisi che, certificata o meno in via amministrativa, non conduca alla liquidazione dei beni aziendali del cedente sotto il controllo di un’autorità pubblica; se e a quali condizioni la crisi aziendale, che inevitabilmente emerge allorché si faccia ricorso a una procedura collettiva di riduzione del personale, debba essere immediatamente sospettata di illegittimità allorché si ponga in connessione anche solo temporale con la cessione dell’azienda1.

Le argomentazioni utilizzate dalle sentenze del 2020 per affermare la reintegrabilità presso il cessionario sono spendibili anche allo scopo di affermare la illegittimità del licenziamento?

Prendiamo le mosse dall’ambito nazionale.

Fino a non poco tempo fa, i poli entro cui il dibattito era calato erano i seguenti.

Secondo dottrina e giurisprudenza assolutamente prevalenti, “il licenziamento motivato con il fatto del trasferimento in sé o intimato per cessazione dell’attività da un datore di lavoro che l’abbia, in realtà, ceduta ad altri, o proseguita altrove, è nullo per violazione di norma imperativa”1. La nullità del licenziamento portava poi alla tutela reale, sia sotto il vecchio testo dell’art. 18 st.lav., sia nel regime novellato dalla legge Fornero.

Nondimeno, la giurisprudenza non escludeva la possibilità che il cedente, prima di realizzare il trasferimento, potesse procedere a un licenziamento, individuale o collettivo, fondato su autonome e ordinarie giustificazioni. E giungeva perfino ad ammettere che la cessione d’azienda, pur non potendo costituire in sé un giustificato motivo di licenziamento del lavoratore da parte dell’imprenditore cedente, “può concorrere a costituirlo qualora quest’ultimo possa dimostrare la sussistenza di un ulteriore elemento consistente nella necessità di provvedere, al fine di attuare la cessione, ad un ridimensionamento dell’aspetto organizzativo dell’azienda, afferente al personale occupato, per avere il cessionario accettato l’operazione solo a condizione di una preventiva e drastica riduzione dei dipendenti dell’azienda medesima”2.

In breve tempo, lo sfondo è radicalmente mutato3. Il d.lgs. n. 23 del 2015 ha fortemente ridotto lo spazio della tutela reintegratoria.

Rispetto ai licenziamenti individuali nulli, l’art. 2 richiede, ai fini dell’applicazione della tutela reale, che la nullità sia espressamente prevista dalla legge, mettendo in discussione la possibilità che la reintegrazione possa essere disposta in caso di semplice nullità virtuale (come sarebbe l’art. 2112 c.c.). L’art. 10 ha poi riportato la maggior parte dei vizi del licenziamento collettivo (dalle violazioni procedurali all’inosservanza dei criteri di scelta) sotto l’ombrello della tutela indennitaria ex art. 3.

Più o meno nello stesso frangente, è intervenuta una pronuncia della S.C., che è in attesa di trovare conferma, ma che per il momento ha sconfessato il tradizionale orientamento che vedeva nel licenziamento motivato dal trasferimento d’azienda un recesso nullo. Sez. L, n. 03186/2019, Balestrieri, Rv. 652879-01, ha infatti affermato che il licenziamento causato dal trasferimento d'azienda non è nullo ma annullabile per difetto di giustificato motivo oggettivo, in quanto l'art. 2112 c.c. non pone un generale divieto di recesso datoriale, ma si limita ad escludere che la vicenda traslativa possa di per sé giustificarlo; ne consegue che il licenziamento intimato in vista di una futura fusione societaria -non ancora attuale al momento del recesso -concretizza l'ipotesi della manifesta insussistenza del fatto ex art. 18, comma 7, st.lav., come novellato dalla l. n. 92 del 2012.

Se dal contesto interno volgiamo però lo sguardo al diritto sovranazionale ci rendiamo conto che i profondi mutamenti sin qui descritti sono avvenuti a legislazione e giurisprudenza eurounitaria invariate.

In un quadro di riferimento così frastagliato e contraddittorio, potrebbe affermarsi che le sentenze analizzate abbiano compiuto lo sforzo massimo esigibile e che, quando verrà in evidenza la questione della legittimità in sé del licenziamento collettivo in vista del trasferimento d’azienda, la Corte di cassazione non mancherà di recepire i suggerimenti della dottrina, di affidarsi alla Corte di giustizia e/o alla Corte costituzionale prima di dire la parola definitiva sulla portata del comma 4-bis dell’art. 47.

Il prossimo paragrafo sarà per questo motivo dedicato a una rapida panoramica degli orientamenti della Corte di giustizia sul tema, onde tracciare le coordinate entro le quali i giudici nazionali sono chiamati a muoversi.

Sin d’ora si può dire però che le sentenze della Cassazione qui analizzate hanno già ricostruito con grande completezza e lucidità l’assetto dei rapporti tra diritto nazionale e diritto eurounitario in tema di trasferimento d’azienda. La nettezza della conclusione raggiunta, secondo la quale l’accordo sindacale di cui al comma 4-bis non può disporre in senso limitativo del diritto al trasferimento dei rapporti di lavoro, autorizza a pensare che la S.C. abbia inteso ascrivere l’ipotesi in esame tra quelle in cui l’imprenditore, anche se appoggiato dalle parti sociali, versa in una condizione di carenza di potere sui diritti dei lavoratori. E la carenza di potere è, in ambito privatistico, il preludio alla nullità dell’atto adottato e alla pienezza della tutela conseguente1.

Se a questo si aggiunge che l’evoluzione normativa nel frattempo intervenuta (su cui v. il par. 5, dedicato alla riforma attuata dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza) va nella medesima direzione, non sembrano esservi molti spazi per il

4. La giurisprudenza della Corte di giustizia sul tema dei diritti dei lavoratori in caso di cessione d’azienda.

Benché ripetutamente sollecitata sul tema dei diritti dei lavoratori in caso di

trasferimento d’azienda, la Corte di giustizia non ha sinora dovuto affrontare direttamente e in sé il problema del licenziamento collettivo disposto dal cedente in una situazione di difficoltà economica. Il nodo da sciogliere è infatti quello se le ragioni oggettive di riorganizzazione e dunque di licenziamento, fatte salve dall’art. 5 della direttiva n. 2001/23/CE, possano essere fatte valere dal cedente anche quando, sotto altri aspetti, la procedura utilizzata confligge con i dettami della direttiva e l’accordo sindacale eventualmente raggiunto realizza una deroga illegittima alle norme sul trasferimento dei diritti dei lavoratori.

La pronuncia con la quale i giudici di Lussemburgo sono andati più vicini ad analizzare la questione cruciale appena delineata è Corte giust. 22 giugno 2017, C-126/16, Federatie Nederlandse Vakvereniging.

Qui la Corte ha anzitutto operato una ricapitolazione dei principi che guidano la propria giurisprudenza, tanto sotto la precedente direttiva (la direttiva n. 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 98/50/CE) quanto nel vigore della nuova.

L’obiettivo di tali strumenti comunitari è quello di tutelare i lavoratori in caso di trasferimento d’impresa. Ne consegue che tutte le norme ivi contenute, che deroghino a tale obiettivo, in particolare l’art. 5, comma 1, devono essere interpretate restrittivamente (§ 41). L’art. 5, comma 1, può dunque trovare applicazione a condizione che la procedura scelta dalle parti soddisfi le condizioni stabilite in tale disposizione, ossia a condizione che il cedente sia oggetto di una procedura di fallimento o di una procedura di insolvenza analoga. Inoltre, questa procedura deve essere aperta per la liquidazione dei beni del cedente e deve svolgersi sotto il controllo di un’autorità pubblica competente.

Nella fattispecie, la Corte di giustizia ne ha tratto la conclusione che la tutela dei lavoratori garantita dagli articoli 3 e 4 della direttiva n. 2001/23 permane in una situazione, in cui un’impresa sia trasferita in seguito ad una dichiarazione di fallimento nell’ambito di un cd. pre-pack, ossia un accordo preparato anteriormente a detta dichiarazione e realizzato immediatamente dopo la pronuncia di fallimento, nell’ambito del quale, in particolare, un «curatore designato», nominato da un giudice, esamini le possibilità di un’eventuale prosecuzione delle attività dell’impresa ad opera di un terzo e prepari azioni da svolgere subito dopo la pronuncia di fallimento per realizzare tale prosecuzione. Resta inoltre irrilevante, per la Corte, che l’obiettivo perseguito da tale operazione di pre-pack miri anche a massimizzare gli introiti della cessione per l’insieme dei creditori dell’impresa in oggetto.

Già questo inquadramento dovrebbe rendere chiaro che, nell’ottica della Corte di giustizia, la soglia oltre la quale le procedure scelte sono considerate elusive delle tutele garantite dalla direttiva è molto bassa.

Basti considerare che la procedura esaminata dalla sentenza Federatie Nederlandse Vakvereniging, prevista dalla legislazione dei Paesi Bassi, è liquidatoria e contempla la presenza di organi pubblici (curatore e giudice) al momento di certificazione della crisi e di trasferimento dell’azienda. Nonostante ciò, la Corte ha ravvisato un’elusione della direttiva perché tali organi pubblici non hanno reali poteri e intervengono in seconda battuta, limitandosi a ratificare le decisioni prese dall’organo amministrativo dell’impresa che conduce le trattative e adotta le decisioni in preparazione alla vendita dell’impresa in fallimento.

Non basta dunque che la procedura che conduce al trasferimento preveda comunque la liquidazione dei beni del cedente, perché tale operazione mira a massimizzare la soddisfazione collettiva dei creditori e dunque si pone in potenziale conflitto con le esigenze dei lavoratori1. Di qui la necessità che la liquidazione avvenga sotto il controllo di un’autorità pubblica.

In sintesi, si ha elusione quando la procedura tiene (o si ha il sospetto che tenga) in considerazione i soli interessi dell’impresa. E tale risultato si verifica (o rischia di verificarsi) sia quando i lavoratori vengono licenziati nonostante che l’impresa prosegua sostanzialmente immutata nelle mani di un diverso soggetto, sia quando la liquidazione dei beni del cedente avvenga senza controllo pubblico, perché vi è la seria possibilità che il compendio trasferito sia ridotto al minimo, sì da soddisfare i creditori con la liquidazione della parte non ceduta e rendere oggettivamente ingiustificato il passaggio al cessionario di tutti i lavoratori. Per questa ragione, le due condizioni (liquidazione dei beni del cedente e controllo pubblico) devono sussistere cumulativamente affinché la riduzione degli occupati possa dirsi legittima.

Un’altra forma di elusione sulla quale la giurisprudenza di Lussemburgo ha posto la sua attenzione è quella che tende a verificarsi in caso di cambi d’appalto nella gestione di un servizio.

Dapprima, è intervenuta Corte giust. 7 agosto 2018, C-472/16, Colino Siguenza, che ha portato nel cono di luce della direttiva n. 2001/23 l’ipotesi in cui l’aggiudicatario di un appalto di servizi avente ad oggetto la gestione di una scuola, che riceve dall’amministrazione comunale tutti i mezzi materiali necessari all’esercizio di tale attività, cessa l’attività due mesi prima della conclusione dell’anno scolastico in corso, licenziando il personale e restituendo detti mezzi materiali all’amministrazione comunale, la quale procede a una nuova aggiudicazione esclusivamente per l’anno scolastico successivo e trasferisce al nuovo aggiudicatario gli stessi mezzi materiali.

Più di recente vi è stata poi Corte giust. 16 maggio 2019, C-509/17, Plessers.

La legislazione belga prevede che, in caso di cessione d’azienda, il cessionario sia libero di scegliere i lavoratori da riassumere tra quelli alle dipendenze del precedente datore di lavoro (il cedente), purché la scelta si fondi su motivi tecnici, economici e organizzativi, e sia compiuta senza disparità di trattamento. Se tuttavia tale libertà viene inquadrata nell’ambito della più ampia operazione di trasferimento, si vede che essa comporta un rischio di riduzione ulteriore dell’occupazione, perché la facoltà di non riassunzione riguarda i lavoratori il cui contratto di lavoro sia stato trasferito e non tutti quelli alle dipendenze del cedente. Il cessionario è così esonerato dall’obbligo di dimostrare che i licenziamenti intervenuti nell’ambito del trasferimento siano dovuti a motivi di ordine tecnico, economico o organizzativo, quando invece la direttiva responsabilizza anche lui nella dimostrazione della correttezza della complessiva operazione. Ciò secondo la Corte, rischia di compromettere seriamente il rispetto dell’obiettivo principale della direttiva 2001/23, ossia garantire, per quanto possibile, la continuazione dei contratti o dei rapporti di lavoro, senza modifiche, con il cessionario, per impedire che i lavoratori interessati si trovino in una situazione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento (v. già Corte giust. 15 settembre 2010, C-386/09, Briot).

La conclusione è che la direttiva osta a una legislazione nazionale, la quale, in caso di trasferimento di un’impresa intervenuto nell’ambito di una procedura di riorganizzazione giudiziale mediante trasferimento soggetto a controllo giudiziario, applicata al fine di conservare in tutto o in parte l’impresa cedente o le sue attività, prevede, per il cessionario, il diritto di scegliere i lavoratori che intende riassumere1.

Com’è facile rilevare, si tratta di un approdo in grado di mettere in seria crisi gli accordi collettivi che, nell’ordinamento italiano, tendono a essere raggiunti in caso di cambio d’appalto. È vero che la sostituzione dell’appaltatore non dà luogo di per sé a trasferimento d’azienda, ma è noto come, specie nelle ipotesi di appalti labour intensive e nonostante alcune modifiche legislative1, il confine tra le due fattispecie sia labile e i tentativi di aggiramento delle norme sul mantenimento dell’occupazione perpetrati attraverso sostituzioni fittizie dell’appaltatore siano frequenti nella prassi2.

Anche questo aspetto è dunque da tenere in conto nel valutare la sorte dei lavoratori all’interno delle complesse operazioni di cessione dei compendi aziendali.

5. Le nuove regole del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

La materia della protezione dei lavoratori in caso di trasferimento dell’azienda in crisi è stata profondamente modificata dal d.lgs. n. 14 del 2019 (codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza), che sembra aver recepito la maggior parte degli indirizzi dottrinali e giurisprudenziali sintetizzati nei paragrafi precedenti.

Attraverso l’art. 368, comma 4, il codice, la cui entrata in vigore è stata più volte differita, almeno per le parti che qui interessano, da ultimo al 1° settembre 20213, è nuovamente intervenuto sugli artt. 4-bis e 5 dell’art. 47 della l. n. 428 del 19904.

Il comma 4-bis è stato sostituito e disciplina ora le ipotesi di procedure non liquidatorie, con due importanti novità.

Anzitutto, nell’ambito di tali procedure non trova più posto la procedura amministrativa di cui all'articolo 2, quinto comma, lettera c), della l. n. 675 del 1977 (lo stato di crisi aziendale certificato dal CIPI).

Inoltre, è stato esplicitato ciò che la giurisprudenza aveva, in linea con la disciplina unionale, già evidenziato, e cioè che l’accordo sindacale raggiunto nel corso della procedura non liquidatoria non può non essere finalizzato al mantenimento dell’occupazione, con conseguente applicazione dell’art. 2112. La norma appare però depotenziata dal fatto che l’accordo, “da concludersi anche attraverso i contratti collettivi di cui all'articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81”, pucomunque introdurre limitazioni all’ambito applicativo della norma codicistica, quanto alle condizioni di lavoro. In dottrina, si è sottolineato come “ancora una volta non è fissato un argine al dispiegarsi dell’esercizio dell’autonomia privata e, quindi, alle possibilità di deroga alle garanzie stabilite dall’art. 2112 c.c. almeno per quel che concerne le condizioni di lavoro”1. Dovrebbe essere tuttavia ormai chiaro che, in caso di procedure non liquidatorie, le deroghe non possono mai concernere il mantenimento dell’occupazione e dunque la possibilità di licenziare.

Il nuovo comma 5 dell’art. 47 riguarda invece le procedure liquidatorie (liquidazione giudiziale, concordato preventivo liquidatorio, liquidazione coatta amministrativa). Se la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata, i rapporti di lavoro di regola continuano con il cessionario, ma i contratti collettivi appositamente stipulati possono derogare ai commi 1, 3 e 4, dell’art. 2112. Anche il licenziamento è dunque da considerare possibile, se funzionale alla salvaguardia parziale dell’occupazione.

In una posizione intermedia si colloca invece il nuovo comma 5-ter dell’art. 47 nell’ipotesi di amministrazione straordinaria liquidatoria. Qui è sostanzialmente riprodotto il vecchio testo del comma 5, con conseguente inapplicabilità dell’art. 2112, salve le condizioni di miglior favore, e possibilità che il personale eccedentario resti alle dipendenze dell’alienante.

Se però il comma 5-ter viene messo a raffronto con il nuovo comma 5, in cui, come detto, la possibilità di deroga si estende anche al comma 4 dell’art. 2112, sembra doversene concludere che nell’amministrazione straordinaria liquidatoria non può esservi mai un licenziamento neanche parziale che trovi origine nella procedura liquidatoria.