PARTE QUARTA 

  • consumatore
  • marchio commerciale
  • brevetto
  • diritto d'autore
  • concorrenza

CAPITOLO XIII

I DIRITTI DI PRIVATIVA E LA CONCORRENZA

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 La confondibilità e la contraffazione di marchi e brevetti. - 2 Il preuso del marchio. - 3 La decadenza dal brevetto. - 4 Il diritto d’autore. - 5 Le condotte anticoncorrenziali ex lege 10 ottobre 1990, n. 287. - 6 Il divieto di concorrenza e la concorrenza sleale. - 7 Le clausole vessatorie nel contratto tra consumatore e professionista.

1. La confondibilità e la contraffazione di marchi e brevetti.

Sulla distinzione tra marchi forti e deboli e sulle conseguenze in tema di contraffazione, nella specie ai fini della individuazione di atti di concorrenza sleale, ha avuto modo di esprimersi, con pronuncia in continuità rispetto a quelle più recenti, Sez. 1, n. 08942/2020, Falabella, Rv. 657905-01 con la quale è stato affermato che in tema di marchi d’impresa, la qualificazione del segno distintivo come marchio debole non incide sull’attitudine dello stesso alla registrazione, ma soltanto sull’intensità della tutela che ne deriva, nel senso che, a differenza del marchio forte, in relazione al quale vanno considerate illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l’identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l’idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante, per il marchio debole sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte.

La Corte ha dunque condiviso quanto precedentemente affermato con arresti conformi da Sez. 1, n. 15927, Tricomi, Rv. 649528-01 e Sez. 1, n. 13160/2016, Genovese, Rv. 640226-01, non senza ricordare che, esiste un indirizzo parzialmente difforme secondo cui in tema di marchi di impresa, la qualificazione del segno distintivo come marchio debole non preclude la tutela nei confronti della contraffazione in presenza dell’adozione di mere varianti formali, in sé inidonee ad escludere la confondibilità con ciò che del marchio imitato costituisce l’aspetto caratterizzante, non potendosi, invero, limitare la tutela del marchio debole ai casi di imitazione integrale o di somiglianza prossima all’identità, cioè di sostanziale sovrapponibilità del marchio utilizzato dal concorrente a quello registrato anteriormente (Sez.1, n. 1861/2015, Lamorgese A.P., Rv. 634265-01) ma rilevando che, nel caso di specie, in ogni caso, i giudici di merito avevano evidenziato, sulla scorta di un giudizio di fatto non censurabile, l’esistenza di plurimi elementi di differenziazione tra i segni idonei ad escluderne la confondibilità.

Sul punto si ricorda anche la più recente Sez. 1, n. 10205/2019, Caiazzo, Rv. 653877-03.

La Corte si è altresì soffermata sul punto relativo al parametro di valutazione da compiere in merito alla confondibilità del marchio e sul punto ha messo in rilievo la necessità di avere riguardo alla particolare categoria di soggetti ai quali i prodotti sono destinati.

Con altro principio di diritto massimato ha infatti precisato che in tema di marchi, ai fini della valutazione della capacità distintiva dei segni utilizzati dall’imprenditore per contraddistinguere i propri prodotti e servizi, in modo da consentire l’immediata individuazione della loro provenienza, differenziandoli da quelli dei concorrenti, occorre fare riferimento alla capacità percettiva non del pubblico in genere, ma di quella particolare categoria di soggetti ai quali i prodotti sono destinati, le cui facoltà di discernimento devono essere rapportate alla capacità critica propria di un destinatario mediamente intelligente, accorto ed informato sui prodotti del genere merceologico di appartenenza (Sez. 1, n. 08942/2020, Falabella, Rv. 657905-01).

Anche in questo caso si tratta di arresto conforme al precedente costituito da Sez. 1, n. 21588/2014, Mercolino, Rv. 632970-01.

Il riferimento al parametro della destinazione del prodotto allo scopo di verificare la capacità distintiva dei segni utilizzati si rinviene anche in altri precedenti della Corte tra cui si segnala Sez. 1, n. 2405/2015, Lamorgese A.P., Rv. 634215-01.

Una importante sentenza si registra sul tema del marchio patronimico e sul rapporto esistente tra la cessione a terzi dello stesso e dell’inserimento dello stesso nome anagrafico in altro marchio da parte del cedente.

Sez. 1, n. 10298/2020, Marulli, Rv. 657712-01 ha infatti esaminato la decisione di merito che aveva escluso la contraffazione del marchio nel caso in cui l’imprenditore, dopo aver ceduto il marchio patronimico “Fiorucci”, aveva registrato un altro marchio, recante la sequenza linguistica “Love Therapy by Elio Fiorucci”, riferito a prodotti riconducibili al medesimo “brand” commerciale dell’acquirente del marchio anteriore.

In particolare, secondo la Corte di legittimità, i giudici di merito avevano omesso di valutare il comportamento alla luce dei principi della correttezza professionale, parametro in base al quale, invece, quel comportamento potrebbe ritenersi non consentito. È stata così operata una lettura della clausola generale dell’art. 21 d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 secondo cui i diritti di marchio d’impresa registrato non permettono al titolare di vietare ai terzi l’uso nell’attività economica, purché esso sia conforme ai principi della correttezza professionale. In altri termini, secondo la S.C. l’imprenditore che abbia ceduto a terzi un marchio patronimico, incentrato sul proprio nome anagrafico, può procedere alla registrazione di altro marchio che rechi lo stesso nome, ma deve rispettare i principi di correttezza professionale, sicché il giudice di merito deve considerare, insieme all’indebito beneficio che l’imprenditore tragga dallo sfruttamento del patronimico contenuto nel marchio ceduto, anche il pregiudizio che in tal modo viene arrecato al nuovo titolare dello stesso.

Sul punto la S.C. ha richiamato altri precedenti proprio riferiti alla medesima fattispecie tra le stesse parti; precedenti con i quali è stato affermato che, in tema di cessione del marchio (nella specie “Fiorucci”), un segno distintivo costituito da un certo nome anagrafico e validamente registrato come marchio denominativo (nella specie, fra gli altri, “Love Therapy by Elio Fiorucci”), non può essere di regola adottato come marchio (oltre che come denominazione sociale) in settori merceologici identici o affini, , salvo il suo impiego limitato secondo il principio di correttezza professionale, neppure dalla persona che legittimamente porti quel nome, atteso che il diritto al nome trova, se non una vera e propria elisione, una sicura compressione nell’ambito dell’attività economica e commerciale, ove esso sia divenuto oggetto di registrazione, prima, e di notorietà, poi, ad opera dello stesso creativo che poi l’abbia ceduto ad altri.

In tema di cessione di marchio, inoltre, l’inserimento, in quest’ultimo, di un patronimico coincidente con il nome della persona che in precedenza l’abbia incluso in un marchio registrato, divenuto celebre, e poi l’abbia ceduto a terzi, non è conforme alla correttezza professionale se non sia giustificato, in una ambito strettamente delimitato, dalla sussistenza di una reale esigenza descrittiva inerente all’attività, ai prodotti o ai servizi offerti dalla persona, che ha certo il diritto di svolgere una propria attività economica ed intellettuale o creativa ma senza trasformare la stessa in un’attività parallela a quella per la quale il marchio anteriore sia non solo stato registrato ma abbia anche svolto una rilevante sua funzione distintiva (entrambe Sez. 1, n. 10826/2016, Genovese, Rv. 639860-01-02).

Sul punto, sempre tra le medesime parti, Sez. 1, n. 12995/2017, Falabella, Rv. 644319-01 che ha precisato come in tema di marchi, ai sensi dell’art. 1-bis del r.d. n. 929 del 1942, ratione temporis vigente, interpretato alla luce della direttiva n. 89/104/CE, contrasta coi principi della correttezza professionale l’uso del proprio nome anagrafico che pregiudichi il valore di un marchio già registrato contenente lo stesso patronimico, in quanto in tal modo si trae indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà, sicché il giudice di merito avanti al quale si dibatta della nullità della registrazione del successivo marchio deve sempre accertare l’eventuale produzione di tale effetto, che normalmente avviene, anche in assenza di rischio di confusione, laddove l’utilizzazione sia priva di funzione descrittiva e determini, pertanto, un agganciamento dei segni e l’attenuazione della funzione distintiva del primo.

Preme segnalare come l’orientamento ribadito anche nell’anno 2020 sposti la valutazione della “correttezza professionale”, di cui all’art. 21 d.lgs. n. 30/2005 cit., sulla capacità di identificazione del marchio in relazione alla qualità del prodotto (“esigenza descrittiva”) e non anche alla capacità distintiva del marchio.

Particolare la fattispecie considerata da Sez. 1, n. 04721/2020, Caiazzo, Rv. 657065-01 secondo cui in tema di segni distintivi atipici, la registrazione di un domain name di sito internet che riproduca o contenga il marchio altrui costituisce una contraffazione del marchio poiché permette di ricollegare l’attività a quella del titolare del marchio, sfruttando la notorietà del segno e traendone, quindi, un indebito vantaggio, sicché solo il titolare di un marchio registrato potrebbe legittimamente usarlo sul proprio sito o come nome di dominio.

La fattispecie esaminata e decisa ha riguardato l’esclusione della convalidazione del marchio “grazia.net” in quanto comportante un oggettivo agganciamento, atteso il medesimo nucleo ideologico-semantico, al marchio forte “Grazia”, rinomato ed altamente distintivo dell’omonima testata editoriale.

Nel caso concreto è stato escluso che fosse sufficiente l’uso del suffisso “net” per contraddistinguere il marchio “grazia.net” rispetto a quello “Grazia”.

Invero, la Corte ha richiamato l’orientamento secondo cui nel periodo anteriore all’entrata in vigore del codice della proprietà industriale (d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30), anche ai nomi di dominio (di sito Internet) deve applicarsi, sebbene si tratti di segni distintivi atipici, il r.d. 21 giugno 1942, n. 929, essendo essi strumenti attraverso cui accedere, nell’ambito di internet, ad un vasto mercato commerciale di dimensioni globali che consentono di identificare il titolare del sito web ed i prodotti e servizi offerti al pubblico, onde tali nomi rivestono una vera e propria capacità distintiva, in quanto, secondo la attuale concezione sulla natura e sulla funzione del marchio, non si limitino ad indicare la provenienza del prodotto o del servizio, ma svolgano una funzione pubblicitaria e suggestiva che ha la finalità di attrarre il consumatore, inducendolo all’acquisto (Sez. 1, n. 24620/2010, Ragonesi, Rv. 615716-01).

In tema di contraffazione per equivalenza di brevetti industriali, merita poi di essere segnalata Sez. 1, n. 02977/2020, Scotti, Rv. 656624-01 del tutto inedita nel panorama della giurisprudenza di legittimità che ha affermato, per la prima volta, il principio per cui, in tema di contraffazione di brevetti per invenzioni industriali posta in essere per equivalenza ai sensi dell’art. 52, comma 3 bis, d.lgs. n. 30 del 2005, come modificato dal d.lgs. n. 131 del 2010, il giudice, nel determinare l’ambito della protezione conferita dal brevetto, non deve limitarsi al tenore letterale delle rivendicazioni, interpretate alla luce della descrizione e dei disegni, ma deve contemperare l’equa protezione del titolare con la ragionevole sicurezza giuridica dei terzi, e pertanto deve considerare ogni elemento che sia sostanzialmente equivalente ad uno indicato nelle rivendicazioni; a tal fine può avvalersi di differenti metodologie dirette all’accertamento dell’equivalenza della soluzione inventiva, come il verificare se la realizzazione contestata permetta di raggiungere il medesimo risultato finale adottando varianti prive del carattere di originalità, perché ovvie alla luce delle conoscenze in possesso del tecnico medio del settore che si trovi ad affrontare il medesimo problema; non può invece attribuire rilievo alle intenzioni soggettive del richiedente del brevetto, sia pure ricostruite storicamente attraverso l’analisi delle attività poste in essere in sede di procedimento amministrativo diretto alla concessione del brevetto.

Nella fattispecie, la Corte ha cassato la sentenza d’appello che nell’accertamento alla contraffazione aveva valorizzato il comportamento tenuto in sede amministrativa dal presentatore della domanda di brevetto.

La norma decisiva per la soluzione della controversia (relativa alla contraffazione per equivalente di un brevetto su un complesso procedimento di estrazione del tannino dal legno) è costituita dall’art. 52 d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, così come modificato dal d.lgs. 13 agosto 2010, n. 131. Al primo comma la disposizione indica ciò che debba intendersi per oggetto del brevetto, mentre il secondo ed il terzo comma aggiungono che i limiti alla protezione sono fissati dalle rivendicazioni ed attribuiscono alla descrizione ed ai disegni la funzione di interpretare le rivendicazioni. Tale operazione deve, tuttavia, avvenire secondo “una regola di contemperamento, ossia in modo da garantire un’equa protezione al titolare e una ragionevole sicurezza ai terzi”.

Inoltre, la motivazione della sentenza ha ricordato come il comma 3 bis della disposizione (introdotto con la modifica del 2010) preveda il “riconoscimento normativo della cosiddetta «teoria degli equivalenti»” e dunque che “per determinare l’ambito della protezione conferita dal brevetto, si deve tenere nel dovuto conto ogni elemento equivalente ad un elemento indicato nelle rivendicazioni” (che fissano, pertanto, i limiti della protezione).

Sul piano interpretativo la Corte ha chiarito che la teoria degli equivalenti consiste in una regola di interpretazione brevettuale in base alla quale un prodotto o procedimento, pur formalmente diverso dall’invenzione brevettata, può essere comunque a quest’ultima equiparato e così ricondotto nell’ambito di protezione della privativa e mira in tal modo a tutelare i diritti del titolare e a garantirgli una protezione effettiva, non subordinata cioè alla riproduzione integrale e letterale di tutti gli elementi dell’invenzione. Il principio risponde inoltre alla più generale esigenza di una equa protezione del titolare del brevetto, cercando di evitare l’elusione e lo svuotamento di contenuto del diritto di esclusiva attuato mediante modeste e non significative varianti apportate dal contraffattore.

Ripercorrendo la giurisprudenza sul punto (sin dalla remota Sez. 1, n. 03443/1958, Berri, Rv. 88734-01, Sez. 1, n. 00257/2004, Ceccherini, Rv. 569303-01, Sez. 1, n. 30234/2011, Ceccherini, Rv. 620898-01) la S.C. ha messo in evidenza come, secondo i più recenti arresti, in tema di contraffazione di brevetto per equivalenza, al fine di valutare se la realizzazione contestata possa considerarsi equivalente a quella brevettata, sì da costituirne una contraffazione, occorre accertare se, nel permettere il raggiungimento del medesimo risultato finale, essa presenti carattere di originalità, offrendo una risposta non banale, né ripetitiva della precedente, dovendosi qualificare per tale quella che ecceda le competenze del tecnico medio che si trovi ad affrontare il medesimo problema, poiché solo in questo caso si può ritenere che la soluzione si collochi al di fuori dell’idea di soluzione protetta. Tuttavia, una riproduzione solo parziale del dispositivo brevettato non è idonea ad escludere, di per sé, la contraffazione laddove la parzialità non impedisca, secondo un accertamento che costituisce una questione di fatto, affidata all’apprezzamento del giudice di merito, insindacabile se sorretto da motivazione adeguata ed esente da vizi logici, di ritenere l’utilizzazione del brevetto, nella sua struttura generale, anteriore (Sez. 1, n. 22351/2015, Nappi, Rv. 637807-01).

La Corte ha, altresì, precisato che non è possibile abbandonare il criterio fondamentale che assegna rilievo principale al contenuto obiettivo delle rivendicazioni, espressione della volontà di protezione dal richiedente il brevetto, atteso che “affermando che ogni elemento della rivendicazione è espressione di volontà dell’inventore (o del titolare del brevetto) e determina l’ambito di tutela e attribuendo rilievo esclusivo al contenuto letterale delle rivendicazioni è chiaro che l’art. 52, comma 3 bis, non potrebbe mai trovare applicazione. Proprio per questo motivo la teoria degli equivalenti mira a trovare un giusto bilanciamento tra gli interessi del titolare del brevetto (che mira ad estendere la sua protezione il più possibile) e gli interessi dei terzi (che vorrebbero limitare la tutela del brevetto al mero dato letterale)”.

Tenuto conto della premessa così come riassunta e del fatto che i giudici di merito si sono completamente disinteressati dell’aspetto relativo al raggiungimento del medesimo risultato tecnico da parte del brevetto asseritamente contraffatto, la Corte è pervenuta ad affermare il principio di diritto di cui alla massima sopra riportata.

La Corte ha inoltre reso una interessante sentenza in argomenti intersecanti sia il tema della confusione di modelli, che di cumulo dell’azione a tutela della privativa con quella volta a sanzionare atti di concorrenza sleale.

Su tale ultimo aspetto Sez. 1, n. 08944/2020, Falabella, Rv. 657907-01 ha affermato che in tema di proprietà industriale, qualora sussista la contraffazione del modello, la tutela accordata per la violazione della privativa può concorrere con quella prevista per la concorrenza confusoria per imitazione servile sul presupposto che il prodotto rechi una forma individualizzante, tale da essere percepibile, oltre che dall’utilizzatore informato, anche dal consumatore medio.

Si tratta di tema già affrontato pressoché negli stessi termini da Sez. 1, n. 02473/2019, Falabella, Rv. 652421-01 e Sez. 1, n. 26647/2008, Tavassi, Rv. 604041 – 01 secondo cui l’attività illecita, consistente nell’appropriazione o nella contraffazione di un marchio, mediante l’uso di segni distintivi identici o simili a quelli legittimamente usati dall’imprenditore concorrente, può essere da quest’ultimo dedotta a fondamento non soltanto di un’azione reale, a tutela dei propri diritti di esclusiva sul marchio, ma anche, e congiuntamente, di un’azione personale per concorrenza sleale, ove quel comportamento abbia creato confondibilità fra i rispettivi prodotti.

Per completezza (anche se il tema verrà affrontato in apposito paragrafo) si segnala che dalla stessa sentenza sono state estratte altre due massime. In primo luogo (Sez. 1, n. 08944/2020, Falabella, Rv. 657907-03) è stato affermato che, in tema di concorrenza sleale per confusione dei prodotti, l’imitazione rilevante ai sensi dell’art. 2598, n. 1, c.c. non esige la riproduzione di qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo di quella che investe le caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante, in quanto idonee, per capacità distintiva, a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa, sempreché la ripetizione dei connotati formali non si limiti a quei profili resi necessari dalle caratteristiche funzionali del prodotto. Si tratta di massima in continuità con Sez. 1, n. 3478/2009, Tavassi, Rv. 606756-01.

In secondo luogo, Sez. 1, n. 08944/2020, Falabella, Rv. 657907-02, in punto di criteri di liquidazione del danno, ha affermato che, in tema di proprietà industriale, il titolare del diritto di privativa leso, in alternativa alla domanda di risarcimento del lucro cessante, può fare ricorso al criterio della cd. “retroversione degli utili”, di cui all’art. 125 del d.lgs. n. 30 del 2005 (cd. “codice della proprietà industriale”, nel testo modificato dall’art. 17 d.lgs. n. 140 del 2006), secondo cui il danno va liquidato tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto, vale a dire considerando il margine di profitto conseguito deducendo i costi sostenuti dal ricavo totale.

In tema di contraffazione del modello comunitario e sulla natura del sindacato della Corte di cassazione ha avuto modo di pronunciarsi Sez. 1, n. 23975/2020, Nazzicone, Rv. 659601-01 in base alla quale in tema di proprietà industriale, la verifica circa la sussistenza di una contraffazione di un modello comunitario, che va condotta valutando se il nuovo modello non susciti nel c.d. utilizzatore informato la stessa impressione generale del precedente, sulla base della combinazione delle caratteristiche estetiche, e tenendo conto del settore merceologico più o meno affollato da prodotti simili, integra un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, donde l’impossibilità di sollecitare, in sede di legittimità, un giudizio alternativo più favorevole sui medesimi elementi che quel giudice abbia già prudentemente apprezzato.

La Corte ha così confermato la sentenza impugnata, nella quale era stato ritenuto che un contenitore in plastica con manici non costituisse contraffazione di un precedente modello similare sul rilievo che non poteva essere richiesto un nuovo giudizio sugli elementi già valutati dal giudice di merito.

2. Il preuso del marchio.

Ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. b, d.gs. n. 30 del 2005 cit., «non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni che alla data del deposito della domanda:

(…)

b) siano identici o simili a un segno già noto come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio usato nell’attività economica, o altro segno distintivo adottato da altri, se a causa della identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra l’attività d’impresa da questi esercitata ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è registrato possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni. L’uso precedente del segno, quando non importi notorietà di esso, o importi notorietà puramente locale, non toglie la novità. L’uso precedente del segno da parte del richiedente o del suo dante causa non è di ostacolo alla registrazione (…)».

In ordine a tale norma, Sez. 1, n. 02976/2020, Scotti, Rv. 657028-02 ha affermato che, in tema di marchio d’impresa, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 30 del 2005, il precedente uso del segno distintivo in ambito ultra-locale priva il marchio del requisito della novità precludendone la registrazione, salvo che la richiesta provenga dal medesimo soggetto che ne abbia fatto precedente uso esclusivo, sicché ove i preutenti siano due, sia pure in regime di tollerata coesistenza, il preuso ultra-locale dell’altro imprenditore priva il segno della novità impedendo la sua registrazione.

Vertendosi in tema di marchio complesso, ossia di marchio costituito da un insieme di patronimici, termini indicativi della tipologia di merce commercializzata e segni grafici, la Corte ha dapprima ricordato come, sia pure in tema di contraffazione, secondo un risalente orientamento, “l’inclusione in un marchio complesso dell’unico elemento, nominativo o emblematico, che caratterizza un marchio semplice precedentemente registrato, si traduce in una contraffazione, anche se il nuovo marchio sia costituito da altri elementi che lo differenziano da quello precedente; in tal caso ai fini dell’accertamento dell’esistenza della contraffazione non può essere attribuita a ciascun elemento del marchio complesso uguale funzione individualizzante e differenziatrice, ma è necessario stabilire a quali dei molteplici elementi del marchio complesso può essere diretta di preferenza l’attenzione dei consumatori” (fra le altre, Sez. 1, n. 10205/2019, Caiazzo, Rv. 653877 – 01).

Il nucleo della questione decisa riguarda il tema del precedente uso di insegna e marchio, oggettivamente confondibili, in ambito non meramente locale, da parte di due imprenditori concorrenti, che tollerino per fatti concludenti la reciproca attività per un prolungato periodo di tempo.

Il quesito al quale ha dato risposta la Corte riguarda la possibilità di procedere alla registrazione di tale marchio da parte di uno dei preutenti.

Nella pronuncia è stata affermata la correttezza della soluzione adottata dai giudici di merito che hanno ritenuto la nullità della successiva registrazione del marchio preceduta dal preuso in ambito ultra locale (nel caso di specie, regionale) essendo limitata la possibilità della successiva registrazione nel solo caso di preuso locale del marchio.

Particolarmente significativo il passaggio della motivazione nella quale la Corte ha concluso traendo le somme del proprio argomentare: “nessuno dei due preutenti può registrare il segno senza il consenso dell’altro; certamente un terzo non potrebbe registrare a sua volta il segno, a ciò impedito dal difetto di novità e dall’interferenza con i segni dei due preutenti, né potrebbe adottarlo a sua volta di fatto, senza incorrere in una concorrenza confusoria ex art.2598, n.1, c.c. in presenza di un effettivo rapporto concorrenziale; ciascuno dei due preutenti, infine è costretto a tollerare l’attività dell’altro, che non può impedire in ragione dell’accertata e prolungata coesistenza dell’uso dei due segni, in difetto di effettiva priorità”.

3. La decadenza dal brevetto.

Con Sez. 1, n. 01103/2020, Scotti, Rv. 656874-01 la Corte è tornata sul tema della decadenza dal brevetto per mancato pagamento dei diritti annuali (questione già affrontata da Sez. 1, n. 12849/2019, Iofrida, Rv. 654249 – 01).

Ha così deciso che in tema di brevetti, la decadenza per ritardo nel pagamento dei diritti annuali di mantenimento superiore a sei mesi, prevista dall’art. 230, comma 3, del d.lgs. n. 30 del 2005 (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 131 del 2010), opera non solo nel caso di omissione totale del pagamento, ma anche in quello di pagamento parziale o irregolare, in considerazione della logica complessiva del sistema, scandita da precisi termini e scadenze, e dell’esigenza di certezza delle situazioni giuridiche connesse alla validità ed efficacia del brevetto.

La fattispecie esaminata e decisa ha riguardato una richiesta di integrazione dei diritti annuali avanzata nel 2006, per la quale erano decorsi i sei mesi dalla scadenza e difettava il presupposto della non imputabilità dell’omissione del pagamento.

La Corte, con il provvedimento in rassegna ha preso in esame il dato testuale degli artt. 193, 227 e 230 d.lgs. n. 30/2005 (quest’ultimo nel testo vigente antecedentemente alle modifiche di cui al d.lgs. n. 131/2010) pervenendo alla conclusione che il terzo comma della norma da ultimo citata (secondo cui “il ritardo nel pagamento che sia superiore a sei mesi comporta la decadenza del diritto di proprietà industriale”) non potesse riferirsi esclusivamente ai pagamenti integralmente omessi proprio perché dettata per le ipotesi di pagamento incompleto o irregolare integranti, pur sempre, un inadempimento dell’obbligazione.

D’altronde, la tesi contraria consentirebbe la possibilità di un’integrazione sine die per la quale, non operando il terzo comma dell’art. 230 cit., non opererebbe alcun termine in contrasto con la logica complessiva del sistema, scandita da precisi termini e scadenze, e con l’esigenza di certezza nelle situazioni giuridiche connesse alla validità ed efficacia dei titoli di proprietà industriale.

Peraltro, conclusivamente, la Corte ha evidenziato che sarebbe paradossale che attraverso la regolarizzazione, che presuppone un errore evidente o altro scusabile motivo, possa essere conseguita una sanatoria sine die, mentre la norma generale dell’art. 193 c.p.i., che, seppur con altra terminologia, considera comunque una omissione incolpevole, condiziona la reintegrazione al rispetto del termine di due mesi dal venir meno della causa giustificativa e comunque di un anno dalla scadenza del termine inadempiuto; e ciò anche nel caso in cui l’omissione sia totalmente incolpevole, o comunque non meno incolpevole di quella considerata dall’art. 230, visto che l’art. 193 esige da parte del richiedente la prestazione della «diligenza richiesta dalle circostanze».

4. Il diritto d’autore.

In tema di tutela del diritto di autore, si segnalano due interventi della Corte.

Con il primo (Sez. 1, n. 10300/2020, Marulli, Rv. 657713-01) è stato affermato il principio che la protezione del diritto d’autore postula il requisito dell’originalità e della creatività, consistente non già nell’idea che è alla base della sua realizzazione, ma nella forma della sua espressione, ovvero dalla sua soggettività, presupponendo che l’opera rifletta la personalità del suo autore, manifestando le sue scelte libere e creative; la consistenza in concreto di tale autonomo apporto forma oggetto di una valutazione destinata a risolversi in un giudizio di fatto, come tale sindacabile in sede di legittimità soltanto per eventuali vizi di motivazione.

Si tratta di fattispecie nella quale la Corte ha confermato la pronuncia di merito che aveva escluso il carattere dell’originalità e creatività in un regolamento disciplinante un servizio anticontraffazione, poiché si trattava di un testo giuridico standard di uso tecnico-professionale, che non conteneva alcuna peculiare e creativa elaborazione di nozioni giuridiche, prassi del settore, esperienze del professionista, ma solo indicazioni pratiche e funzionali.

La sentenza ha fatto sostanziale applicazione dei principi già affermati dalla Corte laddove ha specificato che la protezione del diritto riguardante programmi per elaboratori al pari di quella riguardante qualsiasi altra opera, postula il requisito dell’originalità, occorrendo pertanto stabilire se il programma sia o meno frutto di un’elaborazione creativa originale rispetto ad opere precedenti, fermo restando che la creatività e l’originalità sussistono anche quando l’opera sia composta da idee e nozioni semplici, comprese nel patrimonio intellettuale di persone aventi esperienza nella materia propria dell’opera stessa, purché formulate ed organizzate in modo personale ed autonomo rispetto alle precedenti (Sez. 1, n. 13524/2014, Genovese, Rv. 631378-01) e che il carattere creativo e la novità dell’opera sono elementi costitutivi del diritto d’autore sull’opera dell’ingegno.

Pertanto, prima ancora di verificare se un’opera possa costituire plagio di un’altra, il giudice del merito deve verificare se quest’ultima abbia o meno i requisiti per beneficiare della protezione richiesta, e ciò sia sotto il profilo della compiutezza espressiva, sia sotto il profilo della novità (Sez. 1, n. 25173/2011, Ragonesi, Rv. 620652-01) ricordando, altresì, la giurisprudenza eurounitaria in base alla quale il concetto di creatività suscettibile di essere tutelato, ex l. n. 633 del 1941, richiede che l’opera dell’ingegno “rifletta la personalità del suo autore, manifestando le scelte libere e creative di quest’ultimo (CGUE 12.9.2019, C-683/17, Cofemel).

Presenta profili di interesse anche la fattispecie esaminata da Sez. 1, n. 02981/2020, Fidanzia, Rv. 656879-01 che si è occupata del caso della collocazione in una piazza della copia di una scultura (il busto di un defunto senatore) il cui originale era stato esposto in una casa di cura.

Quest’ultima è stata condannata dai giudici di merito per violazione del diritto di autore commessa a carico dell’autore della scultura avendo commissionato a terzi una riproduzione non autorizzata dell’opera contenente, peraltro, palesi alterazioni delle caratteristiche originarie della stessa e recante la firma dell’autore.

Nell’occasione la Corte ha enunciato il principio di diritto per cui in tema di diritto d’ autore, l’art. 98 della l. n. 633 del 1941, secondo cui il ritratto fotografico eseguito su commissione può essere riprodotto o fatto riprodurre senza il consenso dell’autore o della persona ritratta e dei loro aventi causa, non è applicabile in via analogica a tutte le altre opere riproduttive del ritratto, quali quelle pittoriche o scultoree, poiché in esse assume rilievo prevalente l’apporto creativo dell’ autore.

Con il provvedimento così massimato è stato limitato il riferimento della norma al solo ritratto fotografico, avendo disciplinato in maniera diversa (artt. 96 e 97 della l. n. 633 del 1941 cit.) i casi in cui i ritratti siano contenuti in supporti diversi da quelli fotografici.

La Corte ha dunque negato la possibilità di procedere ad una interpretazione analogica della disposizione in esame difettando il presupposto fondamentale per poter compiere siffatta operazione, ossia l’esistenza di un “vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria”. Inoltre, ha sostenuto che la riproduzione dell’opera senza il consenso dell’autore sia riservata ai soli ritratti fotografici, ovvero alle riproduzioni di immagini prive del requisito della creatività che ricorre laddove non vi sia mera rappresentazione della realtà.

La fattispecie è chiaramente diversa dal caso delle opere scultoree contenenti ritratti nelle quali non è in discussione la creatività dell’opera atteso che l’opera scultorea è un’opera che interpreta la realtà, non la riproduce in via di rispecchiamento con mezzo meccanico, sicché ogni rappresentazione che venga fatta con il mezzo della scultura costituisce opera d’arte, espressione di tecnica e sentimento del proprio autore.

5. Le condotte anticoncorrenziali ex lege 10 ottobre 1990, n. 287.

Una (la sola registratasi quest’anno sul tema) articolata ed importante decisione ha affermato inediti principi in tema di azione di danno conseguente ad attività anticoncorrenziale, con specifico riferimento alla questione della prescrizione della relativa azione risarcitoria e di elementi di prova utilizzabili nel giudizio civile ed acquisiti nel procedimento davanti all’AGCOM conclusosi con l’impegno assunto dall’impresa ai sensi dell’art. 14-ter legge 10 ottobre 1990, n. 287.

In particolare, si tratta di Sez. 1, n. 05381/2020, Iofrida, Rv. 657038-01, 657038-02 e 657038-03 con le quali è stato, rispettivamente, affermato che:

i) in tema di azioni risarcitorie derivante dalla violazione delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione europea, proposte anteriormente alla data del 26 dicembre 2014, data individuata dalle disposizioni transitorie di cui all’art. 22 della dir. 2014/104/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa alle norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione Europea, ed all’art. 19 del d.lgs. n. 3 del 2017 di attuazione nell’ordinamento italiano della medesima direttiva, non si applicano le norme di natura sostanziale in essa previste né quelle nazionali che le recepiscono, che abbiano ad oggetto la prescrizione delle menzionate azioni risarcitorie, non avendo le stesse valenza retroattiva;

ii) in materia di disciplina della concorrenza nell’ordinamento italiano, anche nel regime anteriore all’entrata in vigore della dir. 2014/104/UE, il diritto al risarcimento del danno da illecito antitrust risulta garantito, senza che possa ravvisarsi un’impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio al punto di vanificare il principio di effettività della tutela posto dall’art. 102 T.F.U.E., dalla previsione di un termine quinquennale di prescrizione dettato dalla normativa nazionale, che cominci a decorrere dal momento in cui sia stato dato, con pubblicità legale, avvio al procedimento amministrativo dinanzi all’Autorità Garante per l’accertamento dell’abuso di posizione dominante rispetto ad un’impresa concorrente;

iii) in tema di concorrenza, nel giudizio instaurato ai sensi dell’art. 33, comma 2, della l. n. 287 del 1990, per il risarcimento dei danni derivanti da illeciti anticoncorrenziali, nell’ipotesi in cui il procedimento avanti all’AGCOM si sia concluso con una decisione con impegni assunti dall’impresa a norma dell’art. 14 ter l. cit., in ordine alla sua posizione rivestita sul mercato ed alla sussistenza di un comportamento implicante un abuso di posizione dominante, il giudice di merito può porre a fondamento del proprio accertamento gli elementi di prova acquisiti nel corso dell’istruttoria svolta e, segnatamente, quelli desumibili dalla comunicazione delle sue risultanze, sebbene gli stessi non costituiscano prova privilegiata potendo essere contrastati da emergenze di diverso tenore.

La complessa vicenda ha avuto riguardo all’azione promossa da una società operante nel settore dei servizi di telefonia contro una società che eroga servizi di comunicazione mobile attraverso proprie reti allo scopo di accertare, all’esito di un provvedimento sanzionatorio dell’AGCOM, l’illecito per abuso di posizione dominante in violazione degli artt. 101 e 102 TFUE e l’illecito extracontrattuale ed anticoncorrenziale, in violazione degli artt. 2598 e 2043 c.c. con conseguenti pronunce inibitorie, risarcitorie ed accessorie, oltre che per la risoluzione del contratto stipulato inter partes.

Nel percorso motivazionale seguito dalla Corte, peraltro, si è data conferma a quanto già deciso da Sez. 1, n. 18176/2019, Scotti, Rv. 654545-02, ove è stato affermato che nel giudizio instaurato ai sensi dell’art. 33, comma 2, della l. n. 287 del 1990 per il risarcimento dei danni derivanti da illeciti anticoncorrenziali, i provvedimenti assunti dall’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) e le decisioni del giudice amministrativo, che eventualmente abbiano confermato o riformato quei provvedimenti, costituiscono prova privilegiata in relazione alla sussistenza del comportamento accertato o della posizione rivestita sul mercato e del suo eventuale abuso e che (Sez. 1, n. 18176/2019, Scotti, Rv. 654545 – 01) in tema di risarcimento del danno da illecito anticoncorrenziale, riconducibile alla categoria del danno lungolatente, il termine di prescrizione della relativa azione comincia a decorrere, non dal momento in cui il fatto si verifica nella sua materialità e realtà fenomenica, ma da quando esso si manifesta all’esterno con tutti i connotati che ne determinano l’illiceità.

Sull’argomento, con specifico riguardo al profilo della decorrenza del termine di prescrizione, ha rilievo Sez. 1, n. 07677/2020, Iofrida, Rv. 657474-01 con la quale è stato deciso che in tema di risarcimento del danno da illecito anticoncorrenziale, il termine di prescrizione della relativa azione comincia a decorrere dal momento in cui il titolare sia stato adeguatamente informato o si possa pretendere ragionevolmente e secondo l’ordinaria diligenza che lo sia stato, non solo dell’altrui violazione ma anche dell’esistenza di un possibile danno ingiusto.

Il principio è stato affermato proprio con riguardo ad una decisione di merito avente ad oggetto una pretesa risarcitoria da illecito antitrust, avanzata da un’impresa concorrente che operava nel medesimo settore di quella dominante.

A tale proposito è stato ritenuto che il dies a quo della prescrizione potesse essere anticipato alla data di avvio dell’istruttoria dinanzi all’AGCM, rispetto a quella di pubblicazione del provvedimento sanzionatorio assunto all’esito della ridetta istruttoria.

Per come si desume dalla motivazione della sentenza, si tratta di un’applicazione del principio operante in materia enunciato da Sez. 1, n. 18176/2019 poco sopra richiamata e parimenti di quello (ancor più generale) per cui in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno lungolatente, l’azione risarcitoria da intesa anticoncorrenziale, proposta ai sensi del secondo comma dell’art. 33 della legge 10 ottobre 1990 n. 287, si prescrive, in base al combinato disposto degli art. 2935 e 2947 c.c., in cinque anni dal giorno in cui chi assume di aver subito il danno abbia avuto, usando l’ordinaria diligenza, ragionevole ed adeguata conoscenza del danno e della sua ingiustizia, mentre resta a carico di chi eccepisce la prescrizione l’onere di provarne la decorrenza, e il relativo accertamento compete al giudice del merito ed è incensurabile in cassazione, se sufficientemente e coerentemente motivato (Sez. 3, n. 02305/2007, Spirito, Rv. 595539-01).

6. Il divieto di concorrenza e la concorrenza sleale.

Nell’anno in rassegna si sono registrati alcuni interessanti interventi in tema di concorrenza sleale. La S.C. ha infatti confermato orientamenti da tempo consolidati ed ha affermato principi, in parte, inediti.

Con Sez. 1, n. 02980/2020, Nazzicone, Rv. 656684-01 ha deciso che la vendita sottocosto o comunque a prezzi non immediatamente remunerativi, è contraria ai doveri di correttezza ex art. 2598, comma 1, n. 3), c.c. solo se si connota come “illecito antitrust”, in quanto posta in essere da un’impresa in posizione dominante e praticata con finalità predatorie di soppressione della concorrenza, traducendosi così in un danno per i consumatori ed il mercato, realizzandosi in tale ipotesi l’illecito concorrenziale da “dumping” interno.

Si tratta di arresto conforme a Sez. 1, n. 01636/2006, Rordorf, Rv. 585933-01.

La Corte ha ripercorso le fonti normative della disciplina delle vendite sottocosto (art. 15 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 e d.P.R. 6 aprile 2001, n. 218) definite dalla giurisprudenza di legittimità come vendita di “prodotti sul mercato ad un prezzo particolarmente basso, tale da non apparire (almeno nell’immediato) remunerativo per l’offerente, ma, per ciò stesso, idoneo a porre in difficoltà i concorrenti che praticano un prezzo più elevato oppure come artificioso abbattimento sottocosto dei prezzi non giustificato dalle obiettive condizioni di acquisto dei beni” (Sez. 1, n. 01636/2006 cit., e Sez. 1, n. 06865/2009 non massimata).

L’orientamento tendenzialmente contrario a tale pratica commerciale è stato oggetto di rivisitazione proprio con la sentenza del 2006 citata il cui ragionamento ha preso le mosse dalla considerazione che la clausola, di cui all’art. 2598, comma 1, n. 3, c.c., deve essere letta in sinergia con l’art. 41 Cost. in punto di libertà di iniziativa economica che costituisce principio generale in materia e che la “scelta dell’imprenditore in ordine alla politica dei prezzi sia in via di principio lecita, trattandosi di un comportamento strettamente legato alle valutazioni di rischio, che solo a lui competono, nel rispetto, naturalmente, delle regole sulla disciplina del commercio. Mentre l’utilità sociale, dalla medesima disposizione costituzionale prevista a limite della libertà d’impresa, va intesa pur sempre con riguardo al c.d. interesse del mercato, ossia a quello che nuoce o giova al buon funzionamento del medesimo, e, quindi alla generalità dei consumatori: e non al mero interesse di un altro concorrente a non essere messo in difficoltà”.

Pertanto, la vendita sottocosto integra un illecito anticoncorrenziale nel caso in cui diviene un illecito “antitrust” poiché “posto in essere da una impresa dominante e praticata con finalità predatorie”; essa è favorevole ai consumatori ed al mercato a condizione che non sopprima la concorrenza e determini un danno agli stessi.

A tale proposito la recente pronuncia richiama anche decisioni della Corte di Giustizia che confortano tale orientamento (CGUE 19 ottobre 2017, n. 295/16).

Altre due decisioni hanno reso pronunce in tema di condotta anticoncorrenziale di cui all’art. 2598, comma 1, n. 3 c.c.

Sez. 1, n. 03865/2020, Scotti, Rv. 657056-01 ha affermato che per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale, commessi per mezzo dello storno di dipendenti e/o collaboratori, è necessario che l’attività distrattiva delle risorse di personale dell’imprenditore sia stata posta in essere dal concorrente con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente, disgregando in modo traumatico l’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore e procurandosi un vantaggio competitivo indebito. A tal fine assumono rilievo innanzitutto le modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori dall’una all’altra impresa, che non può che essere diretto, ancorché eventualmente dissimulato, per potersi configurare un’attività di storno, la quantità e la qualità del personale stornato, la sua posizione nell’ambito dell’organigramma dell’impresa concorrente, le difficoltà ricollegabili alla sua sostituzione e i metodi adottati per indurre i dipendenti e/o collaboratori a passare all’impresa concorrente.

Nel percorso motivazionale, la Corte ha richiamato il proprio orientamento secondo cui, affinché lo storno dei dipendenti di un’impresa concorrente possa costituire atto di concorrenza sleale, sono necessari la consapevolezza nel soggetto agente dell’idoneità dell’atto a danneggiare l’altrui impresa ed altresì l’animus nocendi, cioè l’intenzione di conseguire tale risultato, da ritenersi sussistente ogni volta che lo storno sia stato posto in essere con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente (Sez. 1, n. 31203/2017, Falabella, Rv. 646493-01).

Nella materia si intersecano i profili del diritto alla libera iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. e del diritto al lavoro dei collaboratori dell’imprenditore e alla sua adeguata remunerazione (artt. 4 e 36 Cost.).

Dunque, la semplice assunzione di personale proveniente dal concorrente “non può essere considerata di per sé illecita, essendo espressione del principio di libera circolazione del lavoro e della libertà d’iniziativa economica”.

Pertanto, in linea di principio, non può essere negato “il diritto di ogni imprenditore di sottrarre dipendenti al concorrente, purché ciò avvenga con mezzi leciti, quale ad esempio la promessa di un trattamento retributivo migliore o di una sistemazione professionale più soddisfacente; è indiscutibile il diritto di ogni lavoratore di cambiare il proprio datore di lavoro, senza che il bagaglio di conoscenze ed esperienze maturato nell’ambito della precedente esperienza lavorativa, lungi dal permettergli il reperimento di migliori e più remunerative possibilità di lavoro, si trasformi in un vincolo oppressivo e preclusivo della libera ricerca sul mercato di nuovi sbocchi professionali”.

L’elemento soggettivo che contribuisce ad integrare la configurazione dell’illecito concorrenziale è integrato dall’intenzione di danneggiare l’altra impresa e la condotta deve risultare “inequivocabilmente idonea a cagionare danno all’azienda nei confronti della quale l’atto di concorrenza asseritamente sleale viene rivolto”.

Deve poi richiamarsi Sez. 1, n. 07676/2020, Iofrida, Rv. 657465-01, con la quale la S.C. ha affermato che in tema di concorrenza sleale, la violazione di norme pubblicistiche che non siano direttamente rivolte a porre limiti all’esercizio dell’attività imprenditoriale non integra di per sé la fattispecie illecita di cui all’art. 2598, n. 3, c.c., dovendo piuttosto accompagnarsi alla violazione anzidetta il compimento di atti di concorrenza potenzialmente lesivi dei diritti altrui, mediante malizioso ed artificioso squilibrio delle condizioni di mercato.

La fattispecie esaminata dalla Corte ha riguardato una sentenza della corte d’appello che aveva respinto la domanda tesa ad accertare gli atti di concorrenza sleale, posti in essere mediante l’apertura domenicale di un esercizio commerciale, in violazione dei requisiti richiesti dal comune.

Sul punto, la S.C. ha richiamato quanto precedentemente deciso da Sez. 1, n. 08012/2004, Berruti G.M., Rv. 572356-01 con la quale è stato precisato che in tema di concorrenza sleale, i comportamenti lesivi di norme di diritto pubblico non è necessario che integrino, di per sé stessi, atti di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598, n. 3, c.c., atteso che l’obbiettivo anticoncorrenziale può essere raggiunto anche attraverso comportamenti che, benché non siano previsti dalla legge, siano connotati dallo stesso disvalore di quelli espressamente regolati. In particolare, la violazione delle norme pubblicistiche è sufficiente ad integrare la fattispecie illecita quando essa è stata causa diretta della diminuzione dell’altrui avviamento ovvero quando essa, di per sé stessa, anche senza un comportamento di mercato, abbia prodotto il vantaggio concorrenziale che non si sarebbe avuto se la norma fosse stata osservata.

In quel caso la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso la sussistenza dell’illecito concorrenziale nel fatto di un gestore di una sala cinematografica che aveva ampliato la capienza del locale, portandola da 308 a 1000 posti, senza alcuna autorizzazione amministrativa.

La Corte, nella sentenza in rassegna, ha richiamato l’interpretazione fornita dall’AGCOM in relazione agli artt. 12 e 13 d.ls. 31 marzo 1998, n. 214 in punto di individuazione del criterio della “prevalenza” nella commercializzazione di determinati beni per poter fruire della sostanziale liberalizzazione degli orari di apertura prevista dalle due norme. La S.C. ha dunque condiviso il parere dell’Autorità del 24 ottobre 2008, n. AS480, confermato con altro parere del 22 novembre 2010, n. AS775, ed ha ritenuto che il criterio della prevalenza deve essere individuato sulla base del volume di affari totale dell’esercizio commerciale “per cui si ha prevalenza quando viene superata la soglia del 50% di fatturato dell’esercizio commerciale” e che “ogni disposizione che promuove o tutela la concorrenza prevale su disposizioni adottate dagli enti territoriali che al contrario impediscono o non favoriscono l’attuazione dei principi concorrenziali contenuti nel Trattato CE e richiamati nella legge n. 287/90, anche ove tali disposizioni riguardino la materia del commercio”.

Conseguentemente, le disposizioni “aventi carattere pro-concorrenziale” tra cui gli artt. 12 e 13 cit., trovano piena efficacia anche rispetto a “disposizioni concernenti materie riservate alla competenza legislativa regionale esclusiva quale quella del commercio; ciò con il conseguente obbligo di disapplicazione di tutta la regolamentazione regionale o locale contrastante con i principi concorrenziali da parte delle amministrazioni”.

Infine, sull’argomento in esame, si segnala Sez. 1, n. 02551/2020, Fidanzia, Rv. 656622-01 che ha affermato che integra attività di concorrenza sleale la stipula di un contratto di locazione di immobile destinato allo svolgimento della medesima attività economica esercitata da una società cui il conduttore sia legato da un patto di non concorrenza.

Si tratta di applicazione dei principi generali affermati in tema di violazione del divieto di concorrenza previsto a carico del prestatore di lavoro subordinato nei confronti del datore di lavoro ma applicabili anche all’ipotesi della violazione dell’art. 2596 c.c.

In base ad essi “integrano atti di concorrenza sleale non solo gli iniziali atti di gestione di un’attività economica concorrente, purché non meramente preparatori, ma anche soltanto la costituzione di una società avente lo stesso oggetto sociale o un oggetto interferente (Sez. L, n. 19132/2003, Roselli, Rv. 568897-01; Sez. L, n. 16377/2006, Monaci, Rv. 591689-01; Sez. L, n. 6654/2004, Filadoro, Rv. 571838-01).

7. Le clausole vessatorie nel contratto tra consumatore e professionista.

La Corte, adita in sede di regolamento di competenza ai sensi dell’art. 47 c.p.c., ha reso la pronuncia Sez. 6 - 1, n. 00742/2020, Dolmetta, Rv. 656803-01 con la quale ha affermato che nel contratto di fideiussione, i requisiti soggettivi per l’applicazione della disciplina consumeristica devono essere valutati con riferimento alle parti di esso, senza considerare il contratto principale, come affermato dalla giurisprudenza unionale (CGUE, 19 novembre 2015, in causa C-74/15, Tarcau, e 14 settembre 2016, in causa C-534/15, Dumitras), dovendo pertanto ritenersi consumatore il fideiussore persona fisica che, pur svolgendo una propria attività professionale (o anche più attività professionali), stipuli il contratto di garanzia per finalità estranee alla stessa, nel senso che la prestazione della fideiussione non deve costituire atto espressivo di tale attività, né essere strettamente funzionale al suo svolgimento (cd. atti strumentali in senso proprio).

Nel caso deciso dalla Corte, è stata ritenut operante l’esclusività del foro del consumatore con riferimento al contenzioso tra banca e fideiussore non professionista, ancorché l’obbligato principale avesse assunto il debito garantito per lo svolgimento di attività d’impresa.

Si tratta di un tema sul quale sussiste un contrasto in giurisprudenza.

Secondo l’orientamento più recente, di cui fa parte il recente arresto citato, i requisiti soggettivi di applicabilità della disciplina legislativa consumeristica, in relazione ad un contratto di fideiussione stipulato da un socio in favore della società, devono essere valutati con riferimento alle parti dello stesso (e non già del distinto contratto principale), dando rilievo - alla stregua della giurisprudenza comunitaria - all’entità della partecipazione al capitale sociale nonché all’eventuale qualità di amministratore della società garantita assunta dal fideiussore. (Si veda in particolare Sez. 3, n. 32225/2018, Gorgoni, Rv. 651951-01 dove la S.C. ha confermato la pronuncia di merito che aveva escluso la qualità di consumatore in capo al fideiussore detentore del 70% del patrimonio sociale della società garantita, ancorché non amministratore della stessa, ed in assenza di prove idonee ad escludere il collegamento tra la fideiussione e lo svolgimento dell’attività professionale).

Rispetto a tale indirizzo se ne registra altro difforme in base al quale in presenza di un contratto di fideiussione, ai fini dell’applicabilità della specifica normativa in materia di tutela del consumatore di cui agli artt. 1469 bis e segg. c.c., nel testo vigente ratione temporis, il requisito soggettivo della qualità di consumatore deve riferirsi all’obbligazione garantita, cui quella del fideiussore è accessoria, sicché, difettando tale condizione, è valida la clausola derogativa della competenza territoriale contenuta nel contratto di fideiussione per le esposizioni bancarie di una società di capitali stipulato da un socio o da un terzo (Sez. 1, n. 16827/2016, Valitutti, Rv. 640914-01; Sez. 3, n. 25212/2011, Armano, Rv. 620445-01).

Il nucleo della motivazione della massima si registra nel passaggio in cui si legge che “quello dell’accessorietà fideiussoria si manifesta tratto oggettivamente estraneo alla normativa di protezione del consumatore. Connotante la struttura disciplinare dell’impegno e dell’obbligazione assunti dal fideiussore, l’accessorietà non può non rimanere confinata entro tale ristretto ambito; di certo, non può venire proiettata fuori da esso, per spingerla sino a incidere sulla qualificazione dell’attività - professionale o meno - di uno dei contraenti; tanto meno, l’accessorietà potrebbe far diventare un soggetto (il fideiussore o, più in generale, il terzo garante) il replicante, ovvero il duplicato, di un altro soggetto (il debitore principale)”.

Assume rilievo, sul punto, anche quanto deciso da Sez. 6-3, n. 08268/2020, D’Arrigo, Rv. 657607-01 ove è stato deciso che nel contratto tra consumatore e professionista predisposto unilateralmente da quest’ultimo l’efficacia della clausola convenzionale di deroga alla competenza territoriale del foro del consumatore è subordinata non solo alla specifica approvazione per iscritto prevista dall’art. 1341 c.c., ma anche - a norma dell’art. 34, comma 4, d.lgs. n. 206 del 2005 - allo svolgimento di una trattativa individuale con il consumatore sulla clausola stessa, la cui prova è posta a carico del professionista dal comma 5 del citato art. 34.

Si tratta di fattispecie in cui la Corte, pronunciando su un’istanza di regolamento di competenza, ha dichiarato la competenza del foro del consumatore considerando inefficace la clausola derogatoria della competenza territoriale contenuta in un contratto assicurativo, la quale, anche se specificamente approvata per iscritto, non risultava essere stata oggetto di trattativa individuale.

Infine, rileva Sez. 6-3, n. 12981/2020, Iannello, Rv. 658228-01 in base alla quale in tema di foro del consumatore, la nullità della relativa clausola derogatoria non è rilevante se l’iniziativa dell’azione giudiziale è presa dal consumatore, che si fa attore in giudizio e non si avvale del foro a lui riferibile nella detta qualità, cioè del foro della sua residenza o domicilio elettivo; tale nullità, quindi, non potrà essere rilevata né dalla controparte, a cui vantaggio non opera, né d’ufficio dal giudice; mentre, se il consumatore è convenuto di fronte ad un foro diverso da quello della sua residenza o del suo domicilio elettivo, il potere di eccepire la violazione della regola della competenza correlata a tale foro è esercitabile non solo da lui, se costituito, ma anche d’ufficio dal giudice, ove non lo sia.

Nella specie, la Corte ha considerato inammissibile la doglianza, chiarendo, altresì, che, una volta dichiarata l’incompetenza da parte del giudice adito, l’attore, soccombente sotto tale profilo, non può invocare, per contrastare la decisione, le norme in tema di foro del consumatore alle quali ha egli stesso derogato né può impugnare, con riferimento sempre a dette norme, il provvedimento che abbia attribuito, comunque, la competenza ad uno dei possibili fori del consumatore.

Si tratta di orientamento che si pone in continuità con quanto deciso da Sez. 6-3, n. 05933/2012, Frasca, Rv. 622086-01.

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  • liquidazione di società
  • socio
  • società
  • società di capitali
  • diritto delle società

CAPITOLO XIV

IL DIRITTO DELLE SOCIETÀ

(di Eleonora Reggiani )

Sommario

1 Le società in generale. - 1.1 Società ed esercizio dell’azienda ereditaria. - 1.2 Società di fatto. - 1.3 Intestazione fiduciaria di partecipazioni societarie. - 1.4 La clausola compromissoria e le controversie compromettibili. - 1.5 Le vicende modificative ed estintive delle società. - 2 Le società di persone. - 2.1 La responsabilità solidale dei soci e il beneficium excussionis. - 2.2 Scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio e scioglimento della società. - 3 Le società di capitali. - 3.1 Diritti e doveri del socio. - 3.2 Finanziamenti e conferimenti a vario titolo. - 3.3 Le deliberazioni dell’assemblea. - 3.4 Gli amministratori. - 3.5 Le azioni di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci. - 3.6 La responsabilità del liquidatore. - 4 Particolari società di capitali. - 4.1 Le società cooperative. - 4.2 Le società consortili. - 5 L’associazione in partecipazione.

1. Le società in generale.

Nel corso del 2020 la S.C. ha adottato alcune pronunce che hanno interessato in generale la materia societaria, in particolare esaminando le differenze rispetto alla comunione d’azienda, le caratteristiche delle società di fatto, le vicende modificative ed estintive delle società.

Vengono di seguito riportate le decisioni appena menzionate, unitamente a quelle adottate sulle medesime questioni, o su questioni connesse, ma riferite alle particolari tipologie di società, in modo tale da esaltare, insieme agli aspetti comuni, anche quelli propri di ciascuna categoria, ove esistenti.

1.1. Società ed esercizio dell’azienda ereditaria.

Si deve in proposito menzionare Sez. L, n. 24197/2020, Lorito, Rv. 659439-01, ove la S.C. ha rilevato che lo sfruttamento da parte di uno o più eredi dell’azienda facente parte del compendio ereditario, stante il fine lucrativo dell’attività imprenditoriale, non costituisce mera amministrazione dei beni ereditari, ma esercizio dell’impresa in forma individuale o societaria, anche di fatto, con conseguente assunzione da parte degli eredi della responsabilità relativa ai debiti contratti nell’esercizio dell’attività, senza che rilevi la qualità successoria o trovino applicazione le correlate limitazioni di responsabilità.

La pronuncia si pone in linea con i precedenti che hanno affrontato lo stesso argomento. In particolare, Sez. 2, n. 10188/2019, F. Manna, Rv. 653493-01, ha spiegato che l’azienda ereditaria deve ritenersi oggetto di comunione se tra gli eredi vi è la finalità del solo godimento comune, secondo la sua consistenza al momento dell’apertura della successione. Se invece tale azienda viene esercitata per finalità speculative, con nuovi conferimenti e in vista di ulteriori utili, la Corte ha ritenuto esservi esercizio d’impresa, la quale può avvenire da parte di tutti i coeredi oppure di uno (o alcuni) di essi. Nel primo caso, l’originaria comunione incidentale si trasforma in una società (sia pure irregolare o di fatto), mentre nel secondo caso la comunione incidentale è limitata all’azienda, così come relitta dal de cuius, con gli elementi esistenti all’apertura della successione, e l’impresa esercitata dal singolo (o da alcuni dei coeredi) è riferibile soltanto ad esso (o ad essi), con gli utili e le perdite ad essa relativi (conf. Sez. 2, n. 01366/1975, Bologna, Rv. 374900-01).

Particolare rilievo assume, in argomento, anche Sez. 2, n. 03028/2009, Mazzacane, Rv. 606476-01 (v. anche Sez. L, n. 13291/1999, Evangelista, Rv. 531591-01).

1.2. Società di fatto.

Si è occupata della prova della società di fatto, Sez. 6-5, n. 19234/2020, Conti, Rv. 658876-01, secondo la quale l’esistenza di una società di fatto, nel rapporto tra i soci, non può essere desunta soltanto dalle dichiarazioni rese dalle persone coinvolte, essendo necessaria la dimostrazione, eventualmente anche con prove orali o mediante presunzioni, del patto sociale e dei suoi elementi costitutivi, quali: il fondo comune, l’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite, il vincolo di collaborazione in vista di detta attività (la fattispecie, attinente alla materia tributaria, ha riguardato un caso in cui l’Amministrazione aveva ripreso a tassazione maggiori redditi, derivanti dalla ritenuta partecipazione del contribuente ad una società di fatto).

La pronuncia si presenta come una precisazione del principio oramai consolidato, secondo cui la mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l’accertamento aliunde, mediante ogni mezzo di prova previsto dall’ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell’esistenza di una struttura societaria, all’esito di una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e l’affectio societatis, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi. In tale ottica, è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, ai sensi dell’art. 2297 c.c., l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole affidamento circa l’esistenza della società (v. da ultimo Sez. 6-1, n. 08981/2016, Genovese, Rv. 639539-01).

Tali accertamenti, risolvendosi nell’apprezzamento di elementi di fatto, non sono censurabili in sede di legittimità, se sorretti da motivazioni adeguate ed immuni da vizi logici o giuridici (v. ancora Sez. 6-1, n. 08981/2016, Genovese, Rv. 639539-01).

1.3. Intestazione fiduciaria di partecipazioni societarie.

Con riferimento alla forma dei negozi fiduciari riguardanti partecipazioni societarie, Sez. 1, n. 09139/2020, Falabella, Rv. 657636-01, ha rilevato che il pactum fiduciae che abbia ad oggetto il trasferimento di quote sociali non richiede la forma scritta ad substantiam o ad probationem, perché tale patto deve essere equiparato al contratto preliminare, per il quale l’art. 1351 c.c. prescrive la stessa forma del contratto definitivo, e la cessione di quote è un negozio che non richiede alcuna forma particolare, neppure nel caso in cui la società sia proprietaria di beni immobili.

Diversamente si è pronunciata Sez. 2, n. 32108/2019, Carbone, Rv. 656210-01, ove – sul presupposto che il pactum fiduciae esiga sempre la forma scritta ad substantiam, qualora comporti il trasferimento, sia pure indiretto, di un bene immobile – si è affermata la necessaria forma scritta del patto fiduciario, comportante il trasferimento indiretto di un immobile, attraverso l’intestazione della quota di partecipazione alla società proprietaria del bene.

Tale orientamento è comunque da ritenersi destinato ad essere superato a seguito dell’importante pronuncia delle Sezioni Unite, relativa proprio alla forma del pactum fiduciae inerente beni immobili (Sez. U, n. 06459/2020, Giusti, Rv. 657212-01), in cui viene precisato che non è necessaria la forma scritta ad substantiam per il patto fiduciario avente ad oggetto beni immobili, che si innesti su un acquisto effettuato dal fiduciario per conto del fiduciante, trattandosi di atto meramente interno tra fiduciante e fiduciario, il quale dà luogo ad un assetto di interessi che si esplica esclusivamente sul piano obbligatorio.

1.4. La clausola compromissoria e le controversie compromettibili.

In linea con i precedenti, che hanno ritenuto applicabile anche alle società di persone le previsioni dell’art. 34 d.lgs. n. 5 del 2003 (Sez. 1, n. 03665/2014, Di Virgilio, Rv. 630038-01), Sez. 1, n. 16556/2020, Lamorgese, Rv. 658602-03, ha ribadito che la clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società di persone, che preveda la nomina di un arbitro unico ad opera dei soci e, nel caso di disaccordo, ad opera del presidente del tribunale, su ricorso della parte più diligente, è affetta, sin dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2003, da nullità sopravvenuta rilevabile d’ufficio – ove non fatta valere altra e diversa causa di illegittimità in via d’azione – con la conseguenza che la clausola non produce effetti e la controversia può essere introdotta solo davanti al giudice ordinario (nella specie, la S.C. ha comunque escluso la rilevabilità d’ufficio della predetta nullità, in quanto il ricorrente aveva infondatamente denunciato, nel giudizio impugnatorio, una diversa causa di inesistenza della potestas iudicandi degli arbitri, dunque di illegittimità o inoperatività della clausola, in relazione al profilo del difetto di legittimazione degli eredi ad avvalersene).

Con riferimento alla individuazione delle controversie compromettibili, invece, Sez. 6-1, n. 04956/2020, Dolmetta, Rv. 657009-01, ha precisato che la controversia avente ad oggetto l’esecuzione della delibera di aumento del capitale sociale di una società è compromettibile in arbitri ai sensi dell’art. 34 d.lgs. n. 5 del 2003, perché è relativa a diritti inerenti al rapporto sociale, inscindibilmente correlati alla partecipazione del socio, sicché, nel caso di fallimento della società, la clausola compromissoria statutaria resta opponibile al curatore fallimentare che agisca per l’esecuzione dell’aumento deliberato (conf. Sez. 1, n. 24444/2019, Terrusi, Rv. 655346-01).

1.5. Le vicende modificative ed estintive delle società.

In tema di fusione per incorporazione di società, e con riguardo agli effetti processuali, Sez. 1, n. 10301/2020, Scotti, Rv. 657776-01, ha evidenziato che l’atto di citazione notificato ad una società già incorporata in un’altra è nullo per inesistenza della parte convenuta, ma tale nullità, rilevabile d’ufficio, resta sanata per effetto della costituzione in giudizio della società incorporante, indipendentemente dalla volontà e dall’atteggiamento processuale di questa, atteso che la vocatio in ius di un soggetto non più esistente, ma nei cui rapporti sia succeduto un altro soggetto, consente comunque di individuare il rapporto sostanziale dedotto in giudizio, realizzando un vizio meno grave rispetto a quello da cui è affetta la vocatio mancante dell’indicazione della parte processuale convenuta, che pure è sanabile mediante la costituzione in giudizio di chi, malgrado il vizio, si sia riconosciuto come convenuto.

Sez. 1, n. 07920/2020, Falabella, Rv. 657497-01, ha poi evidenziato che il rapporto di cambio tra le azioni di risparmio dell’incorporata e quelle ordinarie dell’incorporante deve calcolarsi tenendo conto che il valore delle prime non è necessariamente coincidente con quello delle azioni ordinarie della medesima incorporata, giacché il valore delle azioni, che può essere desunto anche dalle quotazioni di mercato dei titoli, dipende dai diritti, non solo di natura patrimoniale, ma anche di natura amministrativa, da esse conferiti.

Guardando agli effetti dell’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto di fusione, Sez. 1, n. 05602/2020, Iofrida, Rv. 657043-01, ha precisato che la preclusione alla declaratoria di invalidità dell’atto di fusione, sancita dall’art. 2504 quater c.c. per effetto di tale iscrizione, tutela l’affidamento dei terzi e la certezza dei traffici, sicché, quando l’iscrizione dell’atto di fusione nel registro delle imprese sia avvenuta in base ad una sequenza procedimentale priva di riconoscibili anomalie esteriori, l’inesistenza giuridica di una delle delibere assembleari propedeutiche alla fusione, non determina l’inesistenza anche dell’atto di fusione ormai iscritto, restando esclusa l’impugnabilità di quest’ultimo.

Per quanto riguarda la trasformazione di una società da un tipo ad un altro previsto dalla legge, Sez. 6-L, n. 23030/2020, Marchese, Rv. 659351-01, ha ribadito che tale trasformazione non si traduce nell’estinzione di un soggetto e nella correlata creazione di uno nuovo in luogo di quello precedente, ma configura una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale comporta soltanto una variazione di assetto e di struttura organizzativa, senza incidere sui rapporti processuali e sostanziali facenti capo all’originaria organizzazione societaria (conf. tra le tante Sez. 1, n. 10332/2016, Di Virgilio, Rv. 639805-01).

In materia di trasformazione di società di persone in società a responsabilità limitata, Sez. 2, n. 29745/2020, Tedesco, Rv. 659982-01, ha ritenuto che la trasformazione non libera i soci per le obbligazioni sociali anteriori alla iscrizione della delibera di trasformazione nel registro delle imprese, se non risulta che i creditori sociali abbiano dato il loro consenso alla trasformazione. Tale consenso si presume nei casi previsti dall’art. 2500 quinquies c.c., ma la comunicazione deve essere necessariamente effettuata, potendosi avere un consenso “presunto” esclusivamente a seguito della stessa, senza che abbia valore la conoscenza acquisita aliunde da parte dei creditori, né l’invio a questi ultimi di atti dai quali possa essere riconosciuta l’avvenuta trasformazione e neppure la notizia che derivi dalla pubblicità della relativa delibera.

Numerose sono, infine, le pronunce in tema di cancellazione delle società dal registro delle imprese e di estinzione delle stesse.

È importante distinguere subito l’ipotesi della cancellazione a seguito del trasferimento della sede sociale all›estero, perché, come affermato da Sez. 5, n. 16775/2020, Fichera, Rv. 658695-01, in questo caso, la cancellazione non determina alcun effetto estintivo ex art. 2945 c.c., continuando la società a svolgere la propria attività sua pure in un altro stato (la pronuncia, adottata in materia tributaria, ha conseguentemente evidenziato che, in tale eventualità, rimangono fermi la titolarità passiva delle obbligazioni tributarie e la capacità della persona giuridica contribuente).

Più in generale, Sez. U, n. 29108/2020, Giusti, Rv. 660008-01, ha rilevato, come aveva già fatto in altri casi, che, qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno successorio, in virtù del quale si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) che, non essendo stata espletata, consente di ritenere l’intervenuta rinuncia da parte della società. Negli stessi termini si è subito pronunciata Sez. 6-1, n. 30075/2020, Nazzicone, Rv. 660194-01.

In generale, Sez. 3, n. 28439/2020, Rossetti, Rv. 659863-01, nel ricordare che la remissione del debito, quale causa di estinzione delle obbligazioni, esige che la volontà abdicativa del creditore sia espressa in modo inequivoco e anche con un comportamento tacito, che sia però privo di alcun’altra giustificazione razionale, ha affermato che i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a meno che tale omissione non sia accompagnata da ulteriori circostanze, tali da non consentire dubbi sul fatto che l’omessa appostazione in bilancio possa fondarsi su altra causa, diversa dalla volontà della società di rinunciare al credito (in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto esente da critiche la sentenza che aveva escluso che la mera omissione dell’indicazione d’un credito nel bilancio finale di liquidazione potesse indicare la volontà di rinunciarvi).

Per il caso in cui la cancellazione intervenga in pendenza di un giudizio intrapreso dalla stessa società cancellata, Sez. 1, n. 09464/2020, Nazzicone, Rv. 657639-01, ha ritenuto che la conseguente estinzione della società non determina anche l’estinzione della pretesa azionata, salvo che il creditore abbia manifestato, anche attraverso un comportamento concludente, la volontà di rimettere il debito, comunicandola al debitore, e sempre che quest’ultimo non abbia dichiarato, in un congruo termine, di non volerne profittare (in applicazione di tale principio la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che ha ritenuto dovute agli ex soci di una società di capitali, estintasi nel corso della causa, le somme inizialmente pretese dalla medesima).

Sempre con attenzione agli effetti nel processo della cancellazione delle società, Sez. 3, n. 25869/2020, Iannello, Rv. 659853-01, ha evidenziato che, qualora l’estinzione a seguito di cancellazione dal registro delle imprese intervenga in pendenza di un giudizio in cui la società è parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 e ss. c.p.c., con eventuale prosecuzione o riassunzione ad opera o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 c.p.c. Ove l’evento non sia stato fatto constare nei modi di legge, o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non sia più stato possibile, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, purché dei presupposti della legitimatio ad causam sia da costoro fornita la prova (nella specie, in applicazione di tale principio la S.C. ha confermato la sentenza d’appello, che aveva dichiarato l’inammissibilità dell’appello proposto da un socio, che si era limitato a definirsi accomandatario, senza in alcun modo fare cenno d’essere succeduto alla società estinta).

In termini simili, con riferimento al processo tributario, Sez. 5, n. 16362/2020, Putaturo Donati Viscido di Nocera, Rv. 658435-01, ha affermato, che l’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, determina un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono – venendo altrimenti sacrificato ingiustamente il diritto dei creditori sociali – ma si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti pendente societate. Ne discende che i soci, quali successori della società, subentrano ex art. 110 c.p.c. nella legittimazione processuale facente capo all’ente, in situazione di litisconsorzio necessario per ragioni processuali, ovvero a prescindere dalla scindibilità o meno del rapporto sostanziale, dovendo invece escludersi la legittimazione ad causam del liquidatore della società estinta (nella specie destinatario di cartella di pagamento, quale coobbligato ai sensi dell’art. 2495, comma 2, c.c.), il quale può essere destinatario di un’autonoma azione risarcitoria ma non della pretesa attinente al debito sociale.

Sempre in materia di estinzione delle società per effetto della cancellazione dal registro delle imprese, ma applicando una disciplina tutta particolare, Sez. 6-5, n. 04536/2020, Dell’Orfano, Rv. 657323-01, ha precisato che il differimento quinquennale degli effetti dell’estinzione della società derivanti dall’art. 2495, comma 2, c.c. - che, ai sensi dell’art. 28, comma 4, d.lgs. n. 175 del 2014, opera soltanto nei confronti dell’Amministrazione finanziaria e degli altri enti creditori o di riscossione ivi indicati, con riguardo a tributi o contributi - si applica esclusivamente ai casi in cui la richiesta di cancellazione della società dal registro delle imprese, che costituisce il presupposto di tale differimento, sia stata presentata nella vigenza della disposizione, e pertanto il 13 dicembre 2014 o successivamente, in quanto la norma reca disposizioni di natura sostanziale sulla capacità della società cancellata dal registro delle imprese e non ha efficacia retroattiva.

2. Le società di persone.

Vengono di seguito riportate le decisioni adottate dalla Corte di cassazione, nel corso 2020, in tema di società di persone che riguardano, in particolare, la responsabilità dei soci per i debiti della società e il beneficium excussionis, la ripartizione dei guadagni e delle perdite, lo scioglimento della società e la cessazione del rapporto sociale limitatamente a un socio.

2.1. La responsabilità solidale dei soci e il beneficium excussionis.

Com’è noto, in tema di società semplice, l’art. 2268 c.c. prevede che il socio richiesto dei pagamenti dei debiti sociali può domandare (anche se la società è in liquidazione) la preventiva escussione del patrimonio sociale, indicando i beni sui quali il creditore può soddisfarsi. Per quanto riguarda le società in nome collettivo, in virtù dell’art. 2304 c.c., i creditori sociali (anche se la società è in liquidazione) non possono pretendere il pagamento dai singoli soci, se non dopo l’escussione del patrimonio sociale. Quest’ultima disposizione si applica anche alla società in accomandita semplice e alla società in accomandita per azioni (limitatamente ai soci accomandatari), operando il rinvio ad essa stabilito rispettivamente dagli artt. 2315 c.c. 2461 c.c.

In sintesi, a differenza di quanto previsto per la società semplice, nelle società in nome collettivo e nelle società in accomandita semplice (come pure nella società in accomandita per azioni, sia pure per i soli soci accomandatari), la previa escussione del patrimonio sociale da parte del creditore procedente non forma una eccezione del socio, che può invocare il beneficio indicando i beni sui quali il creditore può agevolmente soddisfarsi, ma rappresenta una vera condizione dell’azione promossa dal creditore, che non può pretendere il pagamento dal socio, se non dopo l’escussione del patrimonio sociale (così Sez. L, n. 11921/1990, Paolucci, Rv. 470157- 01).

Nell’anno in rassegna, Sez. 3, n. 22629/2020, Moscarini, Rv. 659033-01, ha precisato che il beneficio d’escussione previsto dall’art. 2304 c.c. ha efficacia limitatamente alla fase esecutiva, nel senso che il creditore sociale non può procedere coattivamente a carico del socio se non dopo aver agito infruttuosamente sui beni della società, ma non impedisce allo stesso creditore d’agire in sede di cognizione per munirsi di uno specifico titolo esecutivo nei confronti del socio stesso, sia per poter iscrivere ipoteca giudiziale sugli immobili di quest’ultimo, sia per poter agire in via esecutiva contro il medesimo senza ulteriori indugi, una volta che il patrimonio sociale risulti incapiente o insufficiente al soddisfacimento del suo credito (nel riaffermare il principio, la S.C. ha confermato che la responsabilità illimitata e solidale del socio accomandatario può essere fatta valere dal creditore per tutte le obbligazioni contrattualmente assunte nel nome della società, anche se è diverso il soggetto che per quest’ultima abbia contratto con il terzo).

Numerose pronunce si pongono in linea con tale principio, che può ritenersi indubbiamente consolidato (tra le tante, v. Sez. 3, n. 25378/2018, Ambrosi, Rv. 651164-01; Sez. 3, n. 21768/2019, Rossetti, Rv. 655030-02; v. anche Sez. 1, n. 01040/2009, Rordorf, Rv. 606371-01 e Sez. 2, n. 28146/2013, Matera, Rv. 629195-01).

In tale quadro, guardando alla riscossione a mezzo di ruolo di tributi dovuti dalla società, le Sezioni Unite (Sez. U, n. 28709/2020, Perrino, Rv. 659872-01) hanno affermato che, in tema di riscossione ed esecuzione a mezzo ruolo di tributi, il cui presupposto impositivo sia stato realizzato dalla società e la cui debenza risulti da un avviso di accertamento notificato alla società, e da questa non impugnato, il socio può impugnare la cartella notificatagli, eccependo (tra l’altro) la violazione del beneficio di preventiva escussione del patrimonio sociale.

Dando applicazione ai principi sopra richiamati, le Sezioni Unite hanno ribadito che, se si tratta di società semplice (o irregolare), incombe sul socio l’onere di provare che il creditore possa soddisfarsi in tutto o in parte sul patrimonio sociale, mentre, se si tratta di società in nome collettivo, in accomandita semplice o per azioni, è l’Amministrazione creditrice a dover provare l’insufficienza totale o parziale del patrimonio sociale (a meno che non risulti aliunde dimostrata in modo certo l’insufficienza del patrimonio sociale per la realizzazione anche parziale del credito, come, ad esempio, in caso in cui la società sia cancellata). Da ciò consegue che: se l’Amministrazione prova la totale incapienza patrimoniale, l’impugnazione della cartella dovrà essere respinta; se il coobbligato beneficiato prova la sufficienza del patrimonio, il ricorso dovrà essere accolto; se la prova della capienza è parziale, il ricorso sarà accolto negli stessi limiti; se nessuna prova si riesce a dare, l’applicazione della regola suppletiva posta dall’art. 2697 c.c. comporterà che il ricorso sarà accolto o respinto, a seconda che l’onere della prova gravi sul creditore, oppure sul coobbligato sussidiario.

2.2. Scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio e scioglimento della società.

Con riferimento al giudizio instaurato per la liquidazione della quota del socio uscente, Sez. 1, n. 08222/2020, Nazzicone, Rv. 657609-02, in una fattispecie riguardante una società in nome collettivo, ha ribadito, come da sempre affermato, che è la società la parte titolare della legittimazione passiva, aggiungendo tuttavia che l’unico socio superstite può essere convenuto in lite, sia in nome della società che in nome proprio, in modo tale che possa essere fatta valere la sua responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali.

Si pone nello stesso indirizzo, Sez. 1, n. 16556/2020, Lamorgese, Rv. 658602-01, ove, con riferimento alla domanda di liquidazione della quota da parte degli eredi del socio di società in nome collettivo defunto, si è ritenuto che il necessario contraddittorio nei confronti della società, titolare esclusiva della legittimazione passiva, può ritenersi regolarmente instaurato anche nel caso in cui sia convenuta in giudizio non la società, ma tutti i suoi soci, ove risulti accertato, attraverso l’interpretazione della domanda e con apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, che l’attore abbia proposto l’azione nei confronti della società per far valere il proprio credito vantato contro di essa (conf. Sez. 1, n. 05248/2012, Scaldaferri, Rv. 622617-01).

Sempre in tema di liquidazione della quota al socio uscente, Sez. 1, n. 04260/2020, Marulli, Rv. 657074-01, ha evidenziato che il criterio di ripartizione dei guadagni e delle perdite, stabilito dall’art. 2263, comma 2, c.c. per il socio d’opera, vale anche in caso di scioglimento della società limitatamente a quest’ultimo. Pertanto, se il contratto sociale non determina la quota spettante al socio uscente, ai fini della liquidazione, il valore di essa viene fissato dal giudice in base ad una valutazione equitativa, la quale, sebbene consenta di dare rilievo alla particolare natura della prestazione resa, per risultare conforme a diritto e non sconfinare nell’arbitrio deve basarsi sulla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento (nella specie, la sentenza cassata aveva liquidato la quota del socio d’opera occulto assumendo a base del giudizio d’equità non la situazione patrimoniale al momento dello scioglimento del rapporto sociale, ma l’utile d’esercizio relativo ad un determinato anno).

Di particolare interesse è Sez. 1, n. 08222/2020, Nazzicone, Rv. 657609-01, ove si rileva che tra coniugi in regime di comunione legale può essere costituita una società di persone, con un patrimonio costituito dai beni conferiti dagli stessi, essendo anche le società personali dotate di soggettività giuridica, sicché, in caso di recesso di un socio, sorgendo a carico della società l’obbligo della liquidazione della sua quota, la domanda del coniuge receduto di accertamento della comproprietà dei beni sociali può essere interpretata dal giudice come tesa alla liquidazione della sua quota sociale (nella specie, la S.C. ha ritenuto che potesse riqualificarsi come istanza di liquidazione della quota sociale, la domanda della moglie nei confronti del marito tesa all’accertamento della comproprietà dei beni appartenenti ad una società in nome collettivo, di cui i coniugi in regime di comunione dei beni erano unici soci).

Merita di essere menzionata anche Sez. 1, n. 04779/2020, Federico, Rv. 657029-01, che affronta il tema del rapporto tra scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio e scioglimento della società di persone composta da due soli soci.

In tale pronuncia, la S.C. ha rilevato che, nell’ambito del giudizio pendente fra i due soli soci, la decisione sulla ricorrenza di una causa di esclusione dell’uno è pregiudiziale rispetto a quella sull’avvenuto scioglimento della società, considerato che l’eventuale pronuncia di esclusione, di natura costitutiva, spiega effetto dal passaggio in giudicato e che da tale momento il socio superstite ha sei mesi per ricostituire la pluralità dei soci, così evitandone appunto lo scioglimento.

Con attenzione alle operazioni di liquidazione della società di persone, Sez. 6-1, n. 05945/2020, L. Tricomi, Rv. 657233-01, ha evidenziato che, nel caso di società di persone posta in liquidazione, e poi estinta, i soci non possono pretendere somme ulteriori rispetto a quelle risultanti dal bilancio finale di cui all’art. 2311 c.c., quando quest’ultimo risulti ormai approvato, poiché tutte le contestazioni riguardanti le voci del bilancio possono farsi valere esclusivamente con la sua impugnazione.

Da ultimo, deve essere menzionata Sez. 6-2, n. 15686/2020, Tedesco, Rv. 658780-01, ove la S.C. ha spiegato che, in tema di società di persone, è valida la clausola, contenuta nel contratto sociale, che attribuisca ai soci superstiti la facoltà di continuare la società con gli eredi del socio deceduto, così imponendo a questi ultimi, ove la facoltà sia esercitata, l’obbligo di proseguire l’attività sociale del loro dante causa, fermo restando che la continuazione della società da parte di questi ultimi non avviene mortis causa, ma in virtù dell’accordo inter vivos intercorso con i soci superstiti, che può manifestarsi anche per il tramite di comportamenti concludenti.

3. Le società di capitali.

Vengono di seguito riportate le decisioni adottate dalla Corte di cassazione, nel corso del 2020, con specifico riferimento alle società di capitali. Trattano in particolare i diritti e i doveri del socio, i finanziamenti e i conferimenti a vario titolo di quest’ultimo, l’assemblea e le delibere assembleari, l’amministrazione, la liquidazione e le azioni di responsabilità. In alcuni casi, la Corte di cassazione ha affrontato le singole questioni, riferendosi in generale alle società di capitali, mentre, in altri casi, come di volta in volta precisato, ha esaminato in particolare la disciplina propria delle s.p.a. o delle s.r.l.

3.1. Diritti e doveri del socio.

Con riferimento in generale alla società di capitali, Sez. L, n. 25045/2020, Cinque, Rv. 659446-01, ha evidenziato che, quando il socio di una società di capitali presta la propria attività professionale a favore della società senza corrispettivo, è configurabile un arricchimento senza giusta causa di quest’ultima per l’incremento patrimoniale derivante dalla mancata spesa, con corrispondente danno per il socio, ma, nel determinare la misura del ristoro a quest’ultimo dovuto, il giudice deve indagare anche se, e in che misura, il vantaggio della società si sia risolto in un concreto incremento economico anche per il socio a titolo di maggiori utili, influendo riduttivamente sulla diminuzione patrimoniale da lui subita e, quindi, sull’indennità a lui spettante ex art. 2041 c.c.

In ordine al diritto di recesso dalla s.p.a., Sez. 1, n. 04716/2020, Iofrida, Rv. 657081-01, ha precisato che deve ritenersi escluso il diritto di recesso ad nutum del socio nel caso in cui lo statuto preveda una prolungata durata della società (nella specie, fino al 2100), non potendo tale ipotesi essere assimilata a quella prevista dall’art. 2437, comma 3, c.c., riguardante la società costituita per un tempo indeterminato, stante la necessaria interpretazione restrittiva delle cause di recesso e dovendo anche escludersi l’estensione della disciplina prevista dall’art. 2285 c.c. per le società di persone, ove prevale l’intuitus personae, ostandovi esigenze di certezza e di tutela dell’interesse dei creditori delle società per azioni al mantenimento dell’integrità del patrimonio sociale, potendo essi fare affidamento solo sulla garanzia generica da quest’ultimo offerta, a differenza dei creditori delle società di persone, che invece possono contare anche sui patrimoni personali dei soci illimitatamente responsabili.

Nella stessa linea, e con analoghi argomenti, si è già posta Sez. 1, n. 08962/2019, Iofrida, Rv. 653568-01, sia pure in tema di recesso dalla s.r.l. Invece, Sez. 1, n. 09662/2013, Bisogni, Rv. 626392-01, ha ritenuto che la previsione statutaria di un termine di durata particolarmente lungo, e tale da superare qualsiasi orizzonte previsionale anche per un soggetto collettivo, determina l’assimilazione della s.r.l. a tempo determinato ad una s.r.l. a tempo indeterminato, consentendo al socio di esercitare il diritto di recesso in qualsiasi momento (perché deve essere assicurata la tutela del suo affidamento circa la possibilità di disinvestire la quota), sicché, la modifica dello statuto, che riduca notevolmente tale termine di durata, in origine estremamente lungo, comporta anche l’eliminazione della menzionata causa di recesso (il principio è stato enunciato proprio con riferimento a una modifica della durata della società, prevista in origine fino al 2100 e poi fino al 2050).

Importante è una pronuncia della S.C., riferita al caso in cui il socio di s.r.l. si renda moroso nell’esecuzione dei versamenti dovuti a titolo di conferimento per il debito da sottoscrizione dell’aumento del capitale deliberato nel corso della vita della società.

La Corte di cassazione ha, infatti, affermato che, in tale ipotesi, il socio moroso non può essere escluso dalla società, essendo egli titolare della partecipazione sociale sin dalla costituzione della stessa. Ferma la permanenza del socio nella società per la quota già posseduta, l’assemblea deve, tuttavia, deliberare la riduzione del capitale sociale solo per la misura corrispondente al debito di sottoscrizione, derivante dall’aumento non onorato, fatto salvo il caso in cui lo statuto preveda l’indivisibilità della quota (Sez. 1, n. 01185/2020, Nazzicone, Rv. 656877-01).

Nella stessa statuizione, la medesima Corte ha anche rilevato che il socio moroso di s.r.l. non è ammesso, secondo il disposto dell’art. 2466 c.c., ad esprimere il proprio voto nelle decisioni assembleari, ma non perde anche il diritto di controllo sugli affari sociali, ai sensi dell’art. 2476, comma 2, c.c., sino a che resti parte della compagine societaria, in esito al procedimento intrapreso dagli amministratori nei suoi confronti (Sez. 1, n. 01185/2020, Nazzicone, Rv. 656877-02).

In motivazione è spiegato che il socio moroso di società a responsabilità limitata non è ammesso, secondo il disposto dell’art. 2466 c.c., a partecipare alle decisioni o alle deliberazioni assembleari, esprimendo il proprio voto, ma non perde anche il diritto di controllo sugli affari sociali, sino a che resti parte della compagine societaria. In altre parole, fino al completamento del procedimento di vendita coattiva o di esclusione, egli non cessa di essere socio (ad es., è computato nel quorum costitutivo, ma non nel quorum deliberativo, come si desume dall’art. 2368, comma 3, c.c.).

Mentre, dunque, il voto resta “sospeso” per il tempo della morosità, quale misura sanzionatoria e sollecitatoria dell’adempimento, non così i diritti amministrativi e, in primis, il diritto di informazione e di ispezione di cui all’art. 2476, comma 2, c.c., che resta a presidiare la trasparenza dell’andamento societario, e tanto più necessario (salvo abusi, di cui però nella specie non si discute) proprio nel momento del conflitto con gli altri soci o con la gestione societaria.

3.2. Finanziamenti e conferimenti a vario titolo.

Anche nell’anno in rassegna, la S.C. ha adottato alcune pronunce in ordine alle varie fattispecie a cui possono essere ricondotti i versamenti di denaro operati dai soci in favore delle società dagli stessi partecipate.

Sez. 1, n. 07919/2020, Falabella, Rv. 657564-01, ha ancora una volta affermato che l’erogazione di tali somme può avvenire a titolo di mutuo, con il conseguente obbligo per la società di restituire la somma ricevuta ad una determinata scadenza, oppure di versamento destinato a confluire in apposita riserva “in conto capitale”, aggiungendo che, in quest’ultimo caso non nasce un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società, e nei limiti dell’eventuale attivo del bilancio di liquidazione, connotato dalla postergazione della sua restituzione rispetto al soddisfacimento dei creditori sociali e dalla posizione del socio quale residual claimant (negli stessi termini, Sez. 1, n. 24861/2015, Didone, Rv. 637899-01).

In realtà, come evidenziato da Sez. 1, Nazzicone, n. 29325/2020, Rv. 660207-03, le figure in cui le menzionate dazioni di denaro possono essere inquadrate sono ancora più numerose (conferimenti, finanziamenti, versamenti a fondo perduto o in conto capitale, versamenti finalizzati ad un futuro aumento del capitale).

Decisiva, ai fini di una corretta qualificazione, è l’interpretazione della volontà delle parti, rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito, chiamato a verificare se si tratta di un rapporto di finanziamento riconducibile allo schema del mutuo o di un contratto atipico di conferimento, ed, in quest’ultimo caso, se esso sia stato – in modo inequivoco – condizionato o meno, nella restituzione, ad un futuro aumento del capitale nominale della società. L’indagine può tener conto di ogni elemento, quali le clausole statutarie che tali versamenti prevedano, il comportamento delle parti, i fini perseguiti, le scritture contabili, i bilanci e qualsiasi altra circostanza del caso concreto, capace di svelare la comune intenzione delle parti e gli interessi coinvolti.

In tale quadro, come puntualizzato dalla decisione richiamata, l’organo amministrativo non è libero di appostare in bilancio le dazioni dei soci dove vuole, né di mutare la voce ad esse relativa dopo l’iscrizione originaria, dovendo essa rigorosamente rispecchiare l’effettiva natura e la causa concreta delle medesime, il cui accertamento, nella interpretazione della volontà delle parti, è rimesso all’apprezzamento riservato al giudice del merito.

Nella decisione menzionata, pertanto, la S.C. ha ritenuto viziata la delibera di approvazione del bilancio, nella parte relativa alla contabilizzazione di alcune dazioni dei soci in favore della società, in una fattispecie in cui il giudice di merito aveva ritenuto che i soci avessero effettuato versamenti in conto futuro aumento capitale sociale, non restituibili fino alla liquidazione della società, perché tali dazioni erano state correttamente indicate, nel bilancio di riferimento, tra le riserve, ma poi, nell’esercizio successivo, erano state appostate tra i debiti sociali, senza alcuna giustificazione e, dunque, in violazione del principio di continuità di cui all’art. 2423 bis, comma l, n. 6, c.c., derogabile solo in casi eccezionali.

3.3. Le deliberazioni dell’assemblea.

In argomento, si deve richiamare ancora Sez. 1, Nazzicone, n. 29325/2020, Rv. 660207-01, ove la S.C. ha spiegato che, ai sensi dell’art. 2377, comma 7, c.c., la caducazione della deliberazione dell’assemblea dei soci di s.p.a. – perché annullata o dichiarata nulla – ha effetto nei confronti di tutti i soci, in quanto partecipi all’ente societario, la cui deliberazione viene meno con effetto assoluto, senza che sia configurabile alcun litisconsorzio necessario.

Si tratta, ha precisato la Corte, di un’ipotesi nella quale è riconosciuta a più soggetti la legittimazione disgiuntiva ad agire per rimuovere una situazione giuridica, ma in cui, del pari, il legislatore ha espressamente previsto che l’accoglimento della domanda determina gli effetti del giudicato sostanziale nei confronti di tutti i soci e di qualsiasi altro legittimato all’impugnazione.

La sentenza di accoglimento dell’impugnazione (non così la pronuncia di rigetto, che non impedisce agli altri legittimati di proporre l’azione, ove non decaduti) “consuma”, infatti, l’interesse ad agire degli altri legittimati non partecipanti al giudizio, essendo ormai soddisfatto lo scopo cui tende la legittimazione concorrente, e impedisce una successiva azione di impugnazione.

La pronuncia sopra menzionata è importante anche per l’enunciazione di un altro principio a conferma di orientamento già espresso tempo addietro.

In particolare, Sez. 1, n. 29325/2020, Nazzicone, Rv. 660207-02, ha ribadito che non è privo di legittimazione ad impugnare, né abusa del diritto di impugnativa il socio-amministratore, che impugni la deliberazione assembleare di approvazione del bilancio, dopo aver approvato il progetto di bilancio in qualità di componente del consiglio di amministrazione.

A fondamento di tale affermazione, la S.C. ha evidenziato la mancanza di qualsiasi restrizione all’esercizio del diritto di impugnazione delle delibere difformi dalla legge o dall’atto costitutivo, rilevando che, nel caso esaminato, il soggetto esercita funzioni e ruoli distinti (quello di amministratore e quello di socio), onde è ben possibile che possa esprimere due diverse valutazioni, senza che sia per ciò solo configurabile una violazione del divieto di venire contra factum proprium, aggiungendo, poi, che l’azione di nullità, qual è quella esperita contro l’approvazione del bilancio, è attribuita a chiunque vi abbia interesse, in quanto il legislatore ha preventivamente valutato la coesistenza di un interesse superindividuale (anzitutto, della società, accanto a quello dell’attore) alla caducazione di una deliberazione così gravemente viziata.

Sempre in tema di impugnazione del bilancio di società di capitali, Sez. 1, n. 21494/2020, Iofrida, Rv. 659514-01, ha affermato che l’iscrizione dei conti d’ordine in calce allo stato patrimoniale (secondo la disciplina previgente al d.lgs. n. 139 del 2015) assolve alla funzione di informare i terzi, e soprattutto i soci, dell’esistenza di rischi ed impegni futuri, connessi a operazioni nel presente prive di rilievo contabile, ma suscettibili di influire sul saldo degli esercizi successivi, offrendo notizie utili per valutare, sul piano qualitativo, le condizioni patrimoniali e reddituali della società e la loro futura evoluzione, sicché, sebbene la scelta delle operazioni da indicare nei conti d’ordine sia rimessa alla discrezionalità del redattore del bilancio, essa deve comunque rispondere al limite dato dal rispetto della clausola generale della chiarezza dell’informazione contabile.

Nell’affermare tale principio, la S.C. ha ritenuto corretta la valutazione del giudice di merito, secondo il quale, nella redazione del bilancio, era stata violata la menzionata clausola generale, per essere stata cancellata, senza alcuna spiegazione, l’iscrizione di un’ingente somma di denaro, inserita nel bilancio precedente tra i conti d’ordine sotto la voce “impegni verso terzi”.

In argomento, rileva anche la già menzionata Sez. 1, n. 29325/2020, Nazzicone, Rv. 660207-03, ove è stata affermata l’illegittimità della diversa appostazione in bilancio di dazioni di denaro dei soci in favore della società, mutata da un anno all’altro (dalle riserve ai debiti sociali) senza alcuna giustificazione e in violazione del principio di continuità contabile.

Per quanto riguarda le deliberazioni di aumento del capitale sociale, adottate da una s.p.a., Sez. 2, n. 02670/2020, Abete, Rv. 657090-03, ha affermato che tale deliberazione, ove sia stata assunta con violazione del diritto di opzione, non è nulla, ma meramente annullabile, in quanto tale diritto è tutelato dalla legge solo in funzione dell’interesse individuale dei soci ed il contrasto con norme, anche cogenti, rivolte alla tutela di tale interesse determina un’ipotesi di mera annullabilità (conf. Sez. 1, n. 01361/2011, Rordorf, Rv. 616236-01).

Sempre in tema di deliberazioni di aumento del capitale sociale, adottate però da s.r.l., Sez. 6-1, n. 15647/2020, Nazzicone, Rv. 658500-01, ha precisato che tale deliberazione è legittimamente assunta senza che ne siano esplicitate le ragioni, perché, nel diritto societario, costituiscono un numero limitato le decisioni degli organi sociali soggette per legge all’obbligo di motivazione e, sebbene in via interpretativa ne possano essere individuate altre in cui essa è comunque necessaria (quali le deliberazioni di interruzione del rapporto sociale, gestorio o sindacale), la regola è che tali decisioni, ivi compresa quella prevista dall’art. 2438 c.c., non richiedono una specifica motivazione.

3.4. Gli amministratori.

Nel periodo in rassegna, sono state adottate significative pronunce che hanno riguardato il rapporto intercorrente tra amministratore e società, i poteri di quest’ultimo, i casi di revoca del medesimo e il regime delle impugnazioni delle deliberazioni assunte dall’organo gestorio in forma collegiale.

In primo luogo, deve essere menzionata Sez. 6-3, n. 00345/2020, Scrima, Rv. 657011-01, ove la S.C. ha affermato che l’amministratore unico e il consigliere di amministrazione di una s.p.a. sono legati a quest’ultima da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso fra quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c., con la conseguenza che, in questa ipotesi, la cognizione della vertenza relativa all’azione di responsabilità esercitata contro di essi spetta alla sezione specializzata in materia di impresa di cui all’art. 3 d.lgs. n. 168 del 2003. Peraltro, ciò non esclude che, tra la detta società e la persona fisica che la rappresenta e gestisce, possa instaurarsi un autonomo, parallelo e diverso rapporto che assuma le caratteristiche di quello subordinato, parasubordinato o d’opera, con l’effetto che, in tali situazioni, la competenza a conoscere della medesima azione va riconosciuta al giudice del lavoro (nella specie, la S.C. ha ritenuto, in sede di regolamento di competenza, che dovesse essere decisa dal giudice del lavoro la domanda di risarcimento del danno promossa da una società cooperativa nei confronti di un dipendente poiché, nonostante ne fosse stata prospettata, in via alternativa, la qualità di direttore generale, nominato al di fuori delle ipotesi indicate dall’art. 2396 c.c., oppure di amministratore di fatto, parte attrice mirava ad ottenere il ristoro del pregiudizio derivante da violazioni riconducibili allo svolgimento del rapporto di lavoro).

Con specifico riferimento all’incarico gestorio conferito all’amministratore di s.p.a., Sez. 6-2, n. 04498/2020, Scarpa, Rv. 657254-01, ha rilevato che, cessato tale incarico, l’amministratore nominato dall’assemblea non può essere confermato – atteso che il codice civile non prevede la “conferma” dell’amministratore - ma eventualmente rieletto, laddove la delibera di nomina e la delibera di rielezione hanno contenuto ed effetti giuridici eguali, differendo soltanto nella circostanza che la rielezione riguarda persona già in carica, mentre la nomina riguarda persona nuova. Ne consegue che la cessazione dell’amministratore dall’ufficio, benché rieletto, determina l’obbligo per il collegio sindacale di iscrivere la notizia nel registro delle imprese, a fini dell’opponibilità ai terzi.

In tema di revoca dell’amministratore di s.p.a., invece, Sez. 1, n. 21495/2020, Iofrida, Rv. 659025-01, ha ribadito (conf. Sez. 1, n. 02037/2018, Nazzicone, Rv. 647624-02) che le ragioni che integrano la giusta causa, ai sensi dell’art. 2383, comma 3, c.c., devono essere specificamente enunciate nella delibera assembleare che adotta tale decisione, senza che sia possibile la successiva deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori (in applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto priva di giusta causa la revoca dell’amministratore per motivi che non erano stati descritti neanche nel corso della discussione su di essa).

Peraltro, come precisato da Sez. 6-1, n. 04954/2020, Caiazzo, Rv. 656987-01, nel silenzio dell’art. 2381 c.c. anche la revoca della delega all’amministratore delegato da parte del consiglio di amministrazione deve essere assistita da giusta causa, sussistendo, in caso contrario, il diritto del revocato al risarcimento dei danni eventualmente patiti, in applicazione analogica dell’art. 2383, comma 3, c.c. che disciplina la revoca degli amministratori da parte dell’assemblea.

In generale, con riferimento ai poteri degli amministratori delle società di capitali, Sez. 2, n. 12640/2020, Besso Marcheis, Rv. 658275-01, ha precisato che i menzionati amministratori hanno il potere di rappresentanza della società ma, in base allo statuto o alle determinazioni dell’organo deliberativo, possono conferirlo anche a soggetti che siano preposti a un settore con poteri di rappresentanza sostanziale o che siano inseriti con carattere sistematico nella gestione sociale o in un ramo della stessa.

Inoltre, Sez. 1, n. 21730/2020, Falabella, Rv. 659274-01, ha rilevato come l’amministratore di fatto di una società di capitali, pur privo di un’investitura formale, esercita sotto il profilo sostanziale, nell’ambito sociale, un’influenza, completa e sistematica, che trascende la titolarità delle funzioni, con poteri analoghi se non addirittura superiori a quelli spettanti agli amministratori di diritto, potendo concorrere con questi ultimi a cagionare un danno alla società, attraverso il compimento o l’omissione di atti di gestione, aggiungendo, pertanto, che anche nei suoi confronti può essere promossa l’azione di responsabilità.

Sez. 1, n. 28359/2020, Scotti, Rv. 659741-01, ha, infine, affermato che, anche nel regime precedente alla modifica dell’art. 2388, comma 4, c.c., intervenuta ad opera del d.lgs. n. 6 del 2003, le deliberazioni del consiglio di amministrazione contrastanti con la legge o con lo statuto potevano essere impugnate dai soci nel caso in cui si fosse configurata una lesione diretta dei loro diritti (nella specie, la S.C., cassando la sentenza con la quale la corte d’appello aveva considerato lesiva dei diritti dei soci la delibera del consiglio, assunta in violazione della norma statutaria, che attribuiva all’assemblea la competenza a deliberare la nomina del direttore generale, ha osservato che comunque i soci non erano titolari del diritto di scelta del direttore generale, ma solo di quello di partecipare all’assemblea).

3.5. Le azioni di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci.

Le pronunce adottate in argomento hanno sostanzialmente confermato l’orientamento espresso negli anni precedenti.

Per quanto riguarda gli aspetti processuali, Sez. 1, n. 21497/2020, Iofrida, Rv. 659419-01, ha ribadito che, in tema di responsabilità degli amministratori di società, ove la relativa azione venga proposta nei confronti di una pluralità di soggetti, in ragione della comune partecipazione degli stessi, anche in via di mero fatto, alla gestione amministrativa e contabile, tra i convenuti non si determina una situazione di litisconsorzio necessario, attesa la natura solidale della obbligazione dedotta in giudizio che, dando luogo ad una pluralità di rapporti distinti, anche se collegati tra loro, esclude l’inscindibilità delle posizioni processuali, consentendo quindi di agire separatamente nei confronti di ciascuno degli amministratori (conf. Sez. 1, n. 21567/2017, Mercolino, Rv. 645412-01).

In ordine all’azione dei creditori sociali esperita dal curatore fallimentare ai sensi dell’art. 146 l.fall., Sez. 6-1, n. 15839/2020, Nazzicone, Rv. 658712-01, ha precisato che tale azione soggiace al termine prescrizionale di cui all’art. 2394 c.c., decorrente dal momento in cui i creditori sono oggettivamente in grado di avere percezione dell’insufficienza del patrimonio sociale, per l’inidoneità dell’attivo – raffrontato alle passività – a soddisfare i loro crediti.

Sez. 1, n. 21730/2020, Falabella, Rv. 659274-02 ha, poi, esaminato la questione della quantificazione del danno e, sempre in relazione all’azione di responsabilità promossa dal curatore ex art. 146 l.fall., ha affermato che il danno può essere correttamente quantificato avendo riguardo all’accertata colpevole dispersione di elementi dell’attivo patrimoniale da parte degli amministratori, oltre che al colpevole protrarsi di un’attività produttiva implicante l’assunzione di maggiori debiti della società, senza che rilevi la circostanza che l’importo determinato sulla base di tali criteri sia poi ridotto ad una minor somma (nella specie corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare), in ragione del limite quantitativo della pretesa fatta valere.

In motivazione, la S.C. ha evidenziato come il giudice di merito avesse correttamente utilizzato un criterio di valutazione che prescindeva dall’apprezzamento della differenza tra l’attivo e il passivo fallimentare – in ossequio a quanto stabilito da Sez. U, n. 09100/2015, Rordorf, Rv. 635451-01 – spiegando che tale differenza aveva assunto rilievo solo in un secondo momento, perché il danno accertato risultava superiore a quello di cui era stato domandato il risarcimento (avendo la curatela richiesto di commisurare il pregiudizio alla menzionata differenza tra attivo e passivo fallimentare) e la somma da liquidare andava quindi ridotta in relazione a tale più contenuto petitum.

In generale, sull’azione sociale di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci di società di capitali, Sez. 1, n. 02975/2020, Scotti, Rv. 656998-01, ha ribadito che tale azione ha natura contrattuale, dovendo di conseguenza l’attore provare la sussistenza delle violazioni contestate e il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, mentre sul convenuto incombe l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla sua condotta, fornendo la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi imposti (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, a fronte della contestazione di poste passive ingiustificate esposte in bilancio, aveva ritenuto dimostrata dagli amministratori convenuti l’insussistenza dell’illecito mediante la produzione di documentazione giustificativa solo genericamente contestata dagli attori).

La pronuncia esprime un orientamento oramai consolidato, come si evince, tra le tante, da Sez. 1, n. 17441/2016, M. Di Marzio, Rv. 641164-01 e da Sez. 1, n. 22911/2010, Rordorf, Rv. 614695-01, a cui si rinvia.

In tale ottica, come precisato da Sez. 1, n. 25056/2020, Falabella, Rv. 659656-01, ove i comportamenti che si assumono illeciti non siano in sé vietati dalla legge o dallo statuto, l’onere della prova gravante sulla parte attrice non si esaurisce nella dimostrazione dell’atto posto in essere dall’amministratore, ma investe anche quegli elementi di contesto dai quali è possibile dedurre che tale atto implica la violazione del dovere di lealtà o di quello di diligenza, spettando poi all’amministratore, una volta provata detta violazione, allegare e provare i fatti idonei ad escludere o ad attenuare la sua responsabilità (in applicazione del principio, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione impugnata che, in un caso di protratta erogazione di merce a un cliente che continuava a non pagare le forniture, aveva addossato alla società attrice le conseguenze della mancata prova della solvenza del fideiussore reperito dall’amministratore, mentre era quest’ultimo a dover dimostrare che il danno non gli era imputabile, per avere egli procurato la garanzia di un soggetto solvibile).

Per quanto riguarda l’azione individuale di responsabilità esperita dai soci ex art. 2935 c.c., Sez. 6-1, n. 09206/2020, Dolmetta, Rv. 657987-01, ha evidenziato che il comportamento doloso o colposo dell’amministratore, posto in essere tanto nell’esercizio dell’ufficio quanto al di fuori delle correlate incombenze, deve avere determinato un danno direttamente sul patrimonio del socio o del terzo, restando irrilevante che tale comportamento sia conforme agli interessi della società o a vantaggio di quest’ultima (conf. Sez. 1, n. 08359/2007, Salvato, Rv. 595809-01).

Comunque, Sez. 1, n. 10096/2020, Nazzicone, Rv. 657709-01, ha escluso che potesse costituire condotta illecita, causa di responsabilità ex art. 2395 c.c. nei confronti dei soci, la mancata rivalutazione, in sede di redazione di bilancio, delle partecipazioni in imprese controllate o collegate, pure consentita dall’art. 2426, comma 1, n. 4, c.c., perché si tratta di una scelta discrezionale rimessa all’organo gestorio, che ha la facoltà, e non l’obbligo, di valutare le menzionate immobilizzazioni finanziarie con il metodo del patrimonio netto, seguendo le modalità indicate dalla norma, invece di iscriverle al costo di acquisto.

Guardando, infine, alla responsabilità dei componenti del collegio sindacale ex art. 2407 c.c., Sez. 1, n. 28357/2020, Terrusi, Rv. 660045-01, ha precisato che l’accertamento di tale responsabilità richiede, come in tutti i casi di concorso omissivo nel fatto illecito altrui, non solo la prova dell’inerzia del sindaco rispetto ai propri doveri di controllo e del danno conseguente alla condotta dell’amministratore, ma anche la dimostrazione del nesso causale tra di essi, che deve essere offerta da chi agisce in responsabilità, nel senso che l’omessa vigilanza è da intendersi causa del pregiudizio se, in base a un ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione del controllo lo avrebbe ragionevolmente evitato o limitato (nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione impugnata che aveva ritenuto sussistente la responsabilità del sindaco, in un caso in cui, in assenza di documentazione contabile, non erano state più rinvenute ingenti somme, incassate dal liquidatore e subito versate nel conto della società, non avendo il giudice di merito spiegato le ragioni della ritenuta responsabilità del sindaco, che si era dimesso poco dopo il menzionato incasso).

3.6. La responsabilità del liquidatore.

Nel corso del 2020 la S.C. ha adottato un’interessante pronuncia che ha descritto con chiarezza i compiti del liquidatore di società di capitali, evidenziando anche la natura e i presupposti della sua responsabilità.

In primo luogo, la Corte di cassazione ha evidenziato che il liquidatore di società di capitali ha il dovere di procedere a un’ordinata liquidazione del patrimonio sociale, pagando i debiti secondo il principio della par condicio creditorum, pur nel rispetto dei diritti di precedenza dei creditori aventi una causa di prelazione. Egli ha, in particolare, l’obbligo di accertare la composizione dei debiti sociali e di riparare eventuali errori od omissioni commessi dagli amministratori cessati dalla carica nel rappresentare la situazione contabile e patrimoniale della società, riconoscendo debiti eventualmente non appostati nei bilanci e graduando l’insieme dei debiti sociali, dopo averli verificati, in base ai privilegi legali che li assistono, il pagamento dei quali deve avvenire prima di quello dei crediti non garantiti da cause di prelazione. Da ciò consegue che, ove nello svolgimento del suo operato il liquidatore abbia soddisfatto un creditore per importi inferiori a quelli di altri creditori di pari grado, il pregiudizio subito da quest’ultimo, suscettibile di essere risarcito, equivale all’importo che il medesimo creditore avrebbe avuto diritto di ricevere, ove il liquidatore avesse correttamente applicato il principio della par condicio creditorum (Sez. 3, n. 00521/2020, Fiecconi, Rv. 656629-01).

La responsabilità del liquidatore verso i creditori sociali, sancita dall’art. 2495 c.c., è qualificata dalla medesima Corte come una responsabilità di natura aquiliana che pone a carico del creditore rimasto insoddisfatto l’onere di dedurre che la fase di pagamento dei debiti sociali non si è svolta nel rispetto del principio della par condicio creditorum. In particolare, quanto alla dimostrazione della lesione patita, il medesimo creditore, qualora faccia valere la responsabilità del liquidatore affermando di essere stato pretermesso a vantaggio di altri creditori, deve dedurre il mancato soddisfacimento di un diritto di credito – provato come esistente, liquido ed esigibile al tempo dell’apertura della fase di liquidazione – e il conseguente danno determinato dall’inadempimento del liquidatore alle sue obbligazioni, astrattamente idoneo a provocarne la lesione, con riferimento alla natura del credito e al suo grado di priorità rispetto ad altri andati soddisfatti. Grava, invece, sul liquidatore l’onere di dimostrare l’adempimento dell’obbligo di procedere a una corretta e fedele ricognizione dei debiti sociali e di averli pagati nel rispetto della par condicio creditorum, secondo il loro ordine di preferenza, senza alcuna pretermissione di crediti all’epoca esistenti (Sez. 3, n. 00521/2020, Fiecconi, Rv. 656629-02).

La stessa Corte ha affermato che il conseguimento, nel bilancio finale di liquidazione, di un azzeramento della massa attiva non in grado di soddisfare un credito non appostato nel bilancio finale di liquidazione, ma comunque provato, quanto alla sua sussistenza, già nella fase di liquidazione, è fonte di responsabilità illimitata del liquidatore verso il creditore pretermesso, qualora sia allegato e dimostrato che la gestione operata dal liquidatore evidenzi l’esecuzione di pagamenti in violazione del principio della par condicio creditorum, applicato nel rispetto delle cause legittime di prelazione ex art. 2741, comma 2, c.c. Pertanto, ove il patrimonio si riveli insufficiente a soddisfare alcuni creditori sociali, il liquidatore, per liberarsi dalla responsabilità su di lui gravante in riferimento al dovere di svolgere un’ordinata gestione liquidatoria, ha l’onere di allegare e dimostrare che l’intervenuto azzeramento della massa attiva tramite il soddisfacimento dei debiti sociali non è riferibile a una condotta assunta in danno del diritto del singolo creditore di ricevere uguale trattamento rispetto ad altri creditori, salve le cause legittime di prelazione (Sez. 3, n. 00521/2020, Fiecconi, Rv. 656629-03).

Infine, in applicazione dei principi enunciati, e con specifico riferimento alla domanda in concreto formulata, la menzionata Corte ha ritenuto che, qualora il liquidatore ometta di considerare un credito dell’ENASARCO, rientrante fra quelli contemplati dagli artt. 2753 e 2754 c.c. (che istituiscono un privilegio generale sui beni mobili del datore di lavoro per i crediti contributivi), il danno lamentato deve essere valutato facendo riferimento all’ordine preferenziale di pagamento che, in ipotesi, tale credito, ove non fosse stato pretermesso, avrebbe dovuto ricevere nella fase in cui gli altri debiti sociali sono stati soddisfatti (Sez. 3, n. 00521/2020, Fiecconi, Rv. 656629-04).

4. Particolari società di capitali.

Vengono di seguito riportate le pronunce della S.C. che hanno esaminato società regolate da una disciplina del tutto speciale.

Nel corso del 2020 l’attenzione del giudice di legittimità si è incentrata sulle società cooperative e su quelle consortili. A tali figure devono essere affiancate le società a partecipazione pubblica, comprese le società in house, a cui, proprio per l’accentuata specificità, viene dedicato un autonomo capitolo, nella parte riservata ai rapporti con i pubblici poteri, cui si rinvia.

4.1. Le società cooperative.

Anche in tema di società cooperative la S.C. ha affrontato la questione del finanziamento dei soci. In particolare, Sez. 1, n. 00732/2020, Lamorgese, Rv. 657420-01, ha ritenuto che il finanziamento del socio di cooperativa edilizia in favore della società partecipata è riconducibile alla figura dei contratti con scopo di mutuo, ove l’obbligo di restituzione è insito nell’operazione compiuta, senza che sia necessaria una esplicita pattuizione che lo preveda; il mutuante può infatti ricorrere al giudice per ottenere la fissazione del termine di adempimento di tale obbligo, qualora non indicato dalle parti, fermo restando che la prescrizione del corrispondente diritto comincia a decorrere dalla data di stipula del mutuo.

Sez. 1, n. 07918/2020, Falabella, Rv. 657496-01, ha, poi, evidenziato che costituisce principio generale desumibile anche dagli art. 1373, commi 1 e 2, e 2285 c.c., quello per cui il recesso del socio non vale né ad escludere la responsabilità del medesimo per gli obblighi sociali validamente assunti dall’ente associativo durante il corso del rapporto e neppure la sua soggezione alla disciplina societaria vigente all’epoca del recesso.

Con riferimento alle cooperative edilizie, la S.C. ha precisato che il socio escluso può fare valere i vizi della relativa delibera solo mediante l’opposizione ex art. 2527 c.c., da proporre entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione. Ne consegue che, nel giudizio avente ad oggetto la domanda di rilascio dell’immobile della società, abusivamente occupato dal detto socio, il giudice non può sindacare la legittimità del menzionato provvedimento di esclusione (Sez. 3, n. 10804/2020, Rossetti, Rv. 657964-01).

In argomento, la Corte di cassazione ha anche affermato che il danno subito da una società cooperativa edilizia, per effetto del ritardato rilascio dell’alloggio da parte del socio estromesso, può essere liquidato in via equitativa ex art. 2727 c.c., anche in mancanza di una prova specifica del suo esatto ammontare, avuto riguardo all’oggetto sociale, al presumibile uso che la medesima società avrebbe fatto del bene nel caso di tempestiva riconsegna, alla durata dell’occupazione illegittima e alle caratteristiche dell’immobile (Sez. 3, n. 10804/2020, Rossetti, Rv. 657964-02).

Sempre in tema di cooperative edilizie, merita di essere menzionata anche Sez. 3, n. 12114/2020, Rubino, Rv. 658169-01, secondo la quale, in caso di separazione personale, sia essa giudiziale o consensuale, il coniuge assegnatario della casa familiare succede ex lege e alle stesse condizioni nel rapporto di godimento dell’alloggio adibito a residenza della famiglia, già assegnato al socio di cooperativa edilizia di categoria con finalità mutualistica.

Con attenzione, invece, alle cooperative agricole, Sez. 3, n. 17827/2020, Tatangelo, Rv. 658691-01, ha dichiarato che l’assunzione da parte dello Stato dei debiti contratti dai soci fideiussori di cooperative agricole dichiarate fallite o sottoposte a liquidazione coatta amministrativa, con conseguente liberazione dei soci garanti, ai sensi dell’art. 1, comma 1 bis, d.l. n. 149 del 1993 (inserito dalla legge di conversione n. 237 del 1993), pur essendo un diritto a questi attribuito dalla legge, non costituisce un effetto automatico della stessa ma richiede un provvedimento espresso, da adottare all’esito di un procedimento amministrativo, in conformità con la generale previsione di cui all’art. 2, comma 1, l. n. 241 del 1990.

D’altronde, come rilevato da Sez. 1, n. 04333/2020, Federico, Rv. 657076-01, la menzionata assunzione da parte dello Stato delle garanzie prestate dai soci di cooperative agricole in favore delle cooperative stesse, in applicazione del menzionato art. 1, comma 1 bis, d.l. cit., n. 149 del 1993, ha determinato la liberazione dei soci garanti nei confronti dei terzi creditori, a nulla rilevando che tale effetto sia stato espressamente previsto soltanto nei decreti attuativi della legge, giacché esso era comunque desumibile in via interpretativa dalla stessa finalità della legge, tant’è che l’estinzione delle garanzie, ove ne sussistano i presupposti di legge, non può essere limitata dai decreti attuativi e, in particolare, dal mancato inserimento degli aventi diritto nell’elenco redatto dall’amministrazione.

4.2. Le società consortili.

In linea generale, Sez. 5, n. 15863/2020, Catallozzi, Rv. 658364-01, ha affermato che, qualora un consorzio assuma veste societaria, come consentito dall’art. 2615 ter c.c., la responsabilità per le obbligazioni assunte segue la disciplina tipica della forma societaria adottata, con la conseguenza che, in presenza di una società consortile a responsabilità limitata, i soci non possono essere chiamati a rispondere delle obbligazioni assunte dalla società, trovando applicazione l’art. 2472, comma 1, c.c. (nel testo vigente ratione temporis), e non già l’art. 2615 c.c., dal momento che l’inserimento della causa consortile in una certa struttura societaria può comportare la deroga delle norme che disciplinano il tipo adottato, ove la loro applicazione sia incompatibile con profili essenziali del fenomeno consortile, ma non può giustificare lo stravolgimento dei connotati fondamentali del tipo legale prescelto, tra cui rientra, nel caso di società a responsabilità limitata, la regola per cui delle obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva annullato una cartella esattoriale, emessa nei confronti del socio di una società consortile a responsabilità limitata, per i debiti erariali della società).

Inoltre, Sez. 5, n. 16146/2020, Catallozzi, Rv. 658434-01, nel richiamare l’operatività dell’art. 2472, comma 1, c.c. nel consorzio costituito in forma di s.r.l., ha precisato che la regola ivi stabilita è applicabile anche per le obbligazioni tributarie connesse alle operazioni realizzate in esecuzione del patto mutualistico da ciascuna consorziata e dalla società consortile, nei limiti in cui dette operazioni siano connotate dalla coesistenza della causa consortile con lo scopo lucrativo (dovendosi a tal fine accertare, alla luce dei patti consortili e dell’attività in concreto esercitata, che il ricorso all’organizzazione consortile non sia finalizzato unicamente a conseguire un indebito risparmio fiscale, ravvisabile laddove lo scopo mutualistico risulti del tutto residuale rispetto all’attività commerciale svolta dalla società consortile).

5. L’associazione in partecipazione.

Nel corso del 2020, la S.C. ha adottato anche pronunce riguardanti il contratto di associazione in partecipazione, trattato in questo capitolo perché con esso si verifica, sia pure in modo del tutto peculiare, una forma di partecipazione al rischio d’impresa.

In particolare, Sez. 1, n. 10496/2020, Iofrida, Rv. 658048-01, ha evidenziato che la natura sinallagmatica del contratto di associazione in partecipazione rende applicabile la disciplina della risoluzione per inadempimento, che richiede una valutazione di gravità degli addebiti, da effettuarsi alla luce del complessivo comportamento delle parti, dell’economia generale del rapporto e del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto sancito dall’art. 1375 c.c., che, per l’associante, si traduce, nel dovere di portare a compimento l’impresa o l’affare nel termine ragionevolmente necessario. Alla pronuncia di risoluzione consegue, oltre all’effetto liberatorio per le prestazioni ancora da eseguire, anche quello restitutorio per quelle già eseguite, con obbligo, per l’associante, di restituire l’apporto ricevuto dall’associato, non essendo l’associazione in partecipazione riconducibile alla categoria dei contratti ad esecuzione continuata (nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia di risoluzione del contratto per inadempimento dell’associante, adottata dal giudice di merito, dopo aver riscontrato plurimi inadempimenti, tra cui l’omessa destinazione all’attività d’impresa dell’apporto in denaro dell’associato, ritenuta espressiva di una condotta contraria a buona fede, per essere tale apporto strumentale all’esercizio dell’impresa oggetto dell’associazione).

Sono stati poi individuati i criteri per distinguere la prestazione lavorativa dall’associato da quella del lavoratore dipendente dell’associante.

Secondo Sez. L, n. 25221/2020, Amendola, Rv. 659541-01, la riconducibilità del rapporto di lavoro al contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato, ovvero al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili esige un’indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa, il secondo comporta un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell’associante di impartire direttive e istruzioni al cointeressato, con assoggettamento al potere gerarchico e disciplinare di colui che assume le scelte di fondo dell’organizzazione aziendale (nella specie, la S.C. ha reputato incensurabile l’accertamento compiuto dal giudice di merito, che aveva desunto il carattere simulato del rapporto di associazione in partecipazione dalla mancata prova della consegna del rendiconto da parte dell’associante).

Infine, anche Sez. L, n. 26273/2020, Negri Della Torre, Rv. 659445-01, ha evidenziato che, in tali casi, è necessario che l’indagine del giudice di merito sia volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che quello di associazione in partecipazione implica l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa, configurabile pure laddove le parti abbiano escluso la partecipazione alle perdite, poiché in tal caso l’eventuale assenza di utili determina l’assenza di compensi, necessariamente correlati all’andamento economico dell’impresa (nella specie, è stata confermata la sentenza di merito che aveva qualificato come subordinato un rapporto formalmente contrattualizzato in regime di associazione in partecipazione essenzialmente sul rilievo che alle lavoratrici era stato assicurato un compenso garantito mensile, sostanzialmente corrispondente alla retribuzione fissata dalla contrattazione collettiva per il profilo professionale corrispondente alle mansioni di fatto svolte – commesse di negozio – senza partecipazione alle perdite).

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CAPITOLO XV

CONTRATTI BANCARI, TITOLI DI CREDITO E INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA

(di Eleonora Reggiani )

Sommario

1 La vigilanza sull’operato di banche e intermediari finanziari. - 2 La cessione di rapporti giuridici in blocco. - 3 I servizi di pagamento effettuati a mezzo di strumenti elettronici. - 4 Interessi moratori e disciplina antiusura nei rapporti bancari. - 5 Contratti di conto corrente e contratti regolati in conto corrente. - 5.1 La nullità delle clausole relative agli interessi. - 5.2 La rideterminazione del saldo e le restituzioni. - 6 Il mutuo fondiario. - 7 Gli assegni, le cambiali e i buoni postali. - 8 I fondi comuni d’investimento. - 9 L’intermediazione finanziaria. - 9.1 Nullità contrattuali e statuizioni conseguenti. - 9.2 Gli obblighi informativi: contenuto, violazione e rimedi. - 9.3 L’operato dei promotori. - 10 I singoli contratti d’investimento. - 10.1 L’offerta fuori sede. - 10.2 La gestione di portafogli. - 10.3 Il contratto di swap. - 10.4 Il contratto “4You”.

1. La vigilanza sull’operato di banche e intermediari finanziari.

Prima ancora di esaminare le pronunce della S.C. che, nel corso del 2020, si sono interessate dei singoli contratti o i servizi svolti, vengono illustrate alcune decisioni che hanno coinvolto gli enti deputati all’attività di vigilanza e di controllo sull’operato di banche e intermediari finanziari.

In tale quadro, deve senza dubbio, essere menzionata Sez. U, n. 06324/2020, Lamorgese, Rv. 657222-01, ove le Sezioni Unite hanno precisato che le controversie relative alle domande proposte da investitori e azionisti nei confronti delle autorità di vigilanza (Banca d’Italia e CONSOB) per i danni conseguenti alla mancata, inadeguata o ritardata vigilanza su banche e intermediari sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, non venendo in rilievo la contestazione di poteri amministrativi, ma di comportamenti “doverosi” posti a tutela del risparmio, che non investono scelte ed atti autoritativi, essendo tali autorità tenute a rispondere delle conseguenze della violazione dei canoni comportamentali della diligenza, prudenza e perizia, nonché delle norme di legge e regolamentari, relative al corretto svolgimento dell’attività di vigilanza, quali espressione del principio generale del neminem laedere.

Sempre con riferimento a tale tipologia di azioni, Sez. 3, n. 07016/2020, Fiecconi, Rv. 657505-01, ha ritenuto che, in tema di danni patiti per perdita di capitali investiti in prodotti finanziari proposti da società di intermediazione, la domanda di ammissione al passivo di tale società, assoggettata a procedura concorsuale, finalizzata alla “restituzione” dei menzionati capitali, è idonea ad interrompere il decorso del termine di prescrizione del diritto al risarcimento nei confronti della CONSOB, fondato sull’illecito extracontrattuale consistente nella mancata vigilanza sull’operato della detta società di intermediazione, perché deve aversi riguardo – non alla differente natura, restitutoria o risarcitoria, dei crediti azionati o alla diversità delle condotte contestate e dei soggetti coinvolti, ma – all’unicità dell’evento pregiudizievole che, derivando da azioni od omissioni tutte causalmente convergenti alla sua produzione, comporta una responsabilità solidale ex art. 2055 c.c., con conseguente applicazione dell’effetto estensivo dell’interruzione della prescrizione di cui all’art. 1310, comma 1, c.c. (nella specie, la richiesta di ammissione al passivo, fondata sulla responsabilità, ai sensi dell’art. 2395 c.c., degli amministratori e dei sindaci, era stata qualificata dal giudice di primo grado come domanda di “restituzione”, per inadempimento contrattuale, delle somme versate).

Di diverso avviso è Sez. 3, n. 04683/2020, Tatangelo, Rv. 656911-02, ove la S.C., in tema di danni patiti da investitori per perdita di risparmi affidati a società fiduciaria del Ministero dello sviluppo economico, ha ritenuto che la domanda di ammissione al passivo della società assoggettata a procedura concorsuale del credito alla restituzione dei capitali investiti, per inadempimento del contratto di deposito in amministrazione fiduciaria delle somme, non è idonea ad interrompere il decorso del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno nei confronti del Ministero, fondato sul diverso e distinto fatto illecito extracontrattuale consistente nell’omessa vigilanza sull’operato della società finanziaria e nella mancata tempestiva revoca dell’autorizzazione ad operare alla stessa rilasciata, evidenziando che non trova applicazione il disposto dell’art. 1310 c.c., attesi la diversità degli interessi lesi dalle autonome condotte dannose e il difetto di un vincolo di solidarietà tra i soggetti a vario titolo obbligati.

Per un approfondimento delle ragioni a fondamento delle diverse soluzioni interpretative, si rinvia alla segnalazione di contrasto n. 36 del 2020 di questo Ufficio.

2. La cessione di rapporti giuridici in blocco.

Com’è noto, l’art. 58 T.U.B. disciplina la cessione a banche di aziende, rami d’azienda, beni e rapporti giuridici individuabili in blocco, demandando alla Banca d’Italia di impartire le relative istruzioni.

Al comma 2 dell’art. citato è, in particolare, stabilito che la banca cessionaria dà notizia dell’avvenuta cessione mediante iscrizione nel registro delle imprese e pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana (ma la Banca d’Italia può stabilire anche forme integrative di pubblicità).

Sul punto, Sez. 6-1, n. 20495/2020, Acierno, Rv. 659146-01, ha precisato che la disposizione appena richiamata ha inteso agevolare la realizzazione della cessione “in blocco” di rapporti giuridici, prevedendo, quale presupposto di efficacia della stessa nei confronti dei debitori ceduti, la pubblicazione di un avviso nella Gazzetta Ufficiale, e dispensando la banca cessionaria dall’onere di provvedere alla notifica della cessione alle singole controparti dei rapporti acquisiti, ma tale adempimento, ponendosi sullo stesso piano di quelli prescritti in via generale dall’art. 1264 c.c., può essere validamente surrogato da questi ultimi, e segnatamente dalla notificazione della cessione, che non è subordinata a particolari requisiti di forma, e può quindi aver luogo anche mediante l’atto di citazione con cui il cessionario intima il pagamento al debitore ceduto o nel corso del giudizio (conf. Sez. 1, n. 05997/2006, Marziale, Rv. 588138- 01).

Ovviamente, come precisato da Sez. 6-1, n. 24798/2020, Terrusi, Rv. 659464-01, la parte che agisce affermandosi successore a titolo particolare del creditore originario, in virtù di un’operazione di cessione in blocco secondo la speciale disciplina di cui all’art. 58 T.U.B., ha anche l’onere di dimostrare l’inclusione del credito medesimo in detta operazione, in tal modo fornendo la prova documentale della propria legittimazione sostanziale, sempre che il resistente non l’abbia esplicitamente o implicitamente riconosciuta.

3. I servizi di pagamento effettuati a mezzo di strumenti elettronici.

Nell’anno in rassegna, la S.C. ha avuto occasione di confermare l’orientamento già espresso in ordine al regime giuridico delle operazioni effettuate per il mezzo di strumenti elettronici.

Sez. 6-3, n. 26916/2020, Porreca, Rv. 659904-01, ha infatti affermato che, in caso di operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, occorre ricondurre nell’area del rischio professionale della banca o del prestatore dei corrispondente servizio di pagamento – quale rischio prevedibile ed evitabile con appropriate misure destinate a verificare la riconducibilità delle operazioni alla volontà del cliente – la possibilità di un’utilizzazione dei codici di accesso al sistema da parte dei terzi, che non sia non attribuibile al dolo del titolare o a comportamenti talmente incauti da non poter essere fronteggiati in anticipo, con la conseguenza che, anche prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 11 del 2010 (attuativo della direttiva n. 2007/64/CE, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno), è l’erogatore di tali servizi (al quale è richiesta una diligenza di natura tecnica, da valutarsi con il parametro dell’accorto banchiere) che deve fornire la prova della riconducibilità dell’operazione al cliente (nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che, disattendendo l’indicato criterio di riparto dell’onere della prova, aveva ritenuto raggiunta la prova presuntiva dell’idoneità delle protezioni adottate contro l’uso non autorizzato della carta prepagata postepay, ponendo a carico del titolare della carta l’onere di provare di aver tenuto un comportamento esente da colpa nella custodia della carta e dei codici).

In tutto conforme è Sez. 1, n. 02950/2017, De Marzo, Rv. 643717-01.

Anche Sez. 3, n. 18045/2019, Guizzi, Rv. 654563-01, ha operato la stessa ricostruzione giuridica, ritenendo che la responsabilità della banca per operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, in particolare con riguardo alla verifica della loro riconducibilità alla volontà del cliente mediante il controllo dell’utilizzazione illecita dei relativi codici da parte di terzi, ha natura contrattuale, sia pure precisando che deve essere esclusa se ricorre una situazione di colpa grave dell’utente, configurata nel caso di protratta mancata attivazione di una qualsiasi forma di controllo degli estratti conto.

4. Interessi moratori e disciplina antiusura nei rapporti bancari.

Nell’anno in rassegna, le Sezioni Unite, hanno risolto alcune questioni di massima di particolare importanza, destinate ad avere grande incidenza su molteplici contratti e rapporti bancari (Sez. U, n. 19597/2020, Nazzicone, Rv. 658833-01, 658833-02, 658833-03).

In primo luogo, hanno affermato che le norme antiusura si applicano agli interessi moratori, trattandosi di disciplina volta a sanzionare non solo la pattuizione di interessi eccessivi, quale corrispettivo per la concessione di denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria dovuta in relazione al contratto concluso (Sez. U, n. 19597/2020, Nazzicone, Rv. 658833-01).

La statuizione si pone in linea con l’orientamento dominante della S.C. (così Sez. 3, n. 26286/2019, D’Arrigo, Rv. 655639-02; Sez. 3, n. 27442/2018, Rossetti, Rv. 651333-02; Sez. 6-1, n. 05598/2017, Di Virgilio, Rv. 643977-01; v. però Sez. 3, n. 22890/2019, Vincenti, Rv. 654942-01), dal quale tuttavia si era discostata una grande parte della giurisprudenza di merito.

D’altronde, pochi mesi prima della richiamata decisione a Sezioni Unite, Sez. 3, n. 09237/2020, Cricenti, Rv. 657782-01, ha ribadito la nullità della convenzione riguardante gli interessi di mora stabiliti in misura superiore al tasso soglia di cui all’art. 2 della l. n. 108 del 1996, aggiungendo che tale nullità non si estende alla pattuizione concernente gli interessi corrispettivi in quanto, pur avendo entrambi l’analoga funzione di remunerare chi ha prestato il denaro, i due interessi non coesistono nell’attuazione del rapporto, ma si succedono, sostituendosi gli uni agli altri dopo la scadenza del termine di restituzione della somma, e vanno considerati, anche in caso di inadempimento, come autonomi e non cumulabili ai fini del calcolo del loro ammontare.

La decisione delle Sezioni Unite ha anche precisato che la mancata ricomprensione degli interessi moratori nell’ambito del Tasso effettivo globale medio (T.e.g.m.) non preclude l’applicazione dei decreti ministeriali di cui all’art. 2, comma 1, l. n. 108 del 1996, ove questi contengano comunque la rilevazione del tasso medio degli interessi moratori praticato dagli operatori professionali: in questo caso, il tasso-soglia è dato dal T.e.g.m., incrementato della maggiorazione media degli interessi moratori, moltiplicato per il coefficiente in aumento e con l’aggiunta dei punti percentuali previsti quale ulteriore margine di tolleranza dal quarto comma dell’art. 2 sopra citato. Ove, invece, i decreti ministeriali non rechino tale rilevazione, la comparazione deve essere effettuata tra il Tasso effettivo globale (T.e.g.) del singolo rapporto, comprensivo degli interessi moratori, e il T.e.g.m. così come rilevato nei suddetti decreti (ancora Sez. U, n. 19597/2020, Nazzicone, Rv. 658833-01).

Dall’accertamento dell’usurarietà discende, inoltre, l’applicazione dell’art. 1815, comma 2, c.c., di modo che gli interessi moratori non sono dovuti nella misura (usuraria) pattuita, bensì in quella dei corrispettivi lecitamente convenuti, in applicazione dell’art. 1224, comma 1, c.c. Inoltre, nei contratti conclusi con i consumatori, è applicabile anche la tutela prevista dagli artt. 33, comma 2, lett. f) e 36, comma 1, del d.lgs. n. 206 del 2005 (codice del consumo), con la conseguenza che, in questo caso, i clienti possono scegliere tra l’uno o l’altro rimedio (sempre Sez. U, n. 19597/2020, Nazzicone, Rv. 658833-01).

Fondamentale rilievo assume anche l’ulteriore principio affermato nella stessa sentenza, secondo il quale, nei contratti di finanziamento, sussiste l’interesse ad agire per la declaratoria di usurarietà degli interessi moratori pattuiti nel corso dello svolgimento del rapporto, e non solo ove l’inadempimento e, dunque, i presupposti della mora si siano già verificati, fermo restando che, ove gli interessi moratori non siano stati ancora applicati, il giudizio riguarderà la declaratoria della illiceità del patto, in base al tasso-soglia esistente al momento dell’accordo mentre, nel caso in cui il finanziato si sia già reso inadempiente, la valutazione di usurarietà avrà ad oggetto l’interesse concretamente praticato (v. Sez. U, n. 19597/2020, Nazzicone, Rv. 658833-02).

È fondamentale comprenderne l’effettiva portata di tale principio.

In sentenza viene rilevato che spesso il contratto di finanziamento prevede un determinato tasso di interessi moratori, anche se, poi, al momento dell’inadempimento, viene applicato un tasso di misura inferiore.

Da ciò vengono fatte derivare due questioni.

La prima: se può essere domandata la nullità (per varie cause) di una clausola sugli interessi moratori in corso di svolgimento regolare del rapporto.

La seconda: se, una volta verificatosi l’inadempimento e, quindi, il presupposto per l’applicazione degli interessi di mora, l’indagine sulla usurarietà dei medesimi (sempre per cause varie) deve tener conto di quelli in astratto dedotti in contratto o di quelli in concreto applicati.

Alla prima questione, le Sezioni Unite hanno dato risposta affermativa.

L’interesse ad agire in relazione ad una clausola reputata nulla o inefficace sussiste sin dalla pattuizione della medesima, rispondendo ad esigenze di certezza del diritto che le convenzioni negoziali siano accertate come valide ed efficaci, oppure no. Tuttavia, il tasso rilevante è quello in concreto applicato dopo l’inadempimento, sicché, in questi casi, la sentenza è di mero accertamento dell’usurarietà del tasso, ma in astratto, senza alcuna relazione con lo specifico diritto vantato dalla banca, posto che ancora non è attuale l’inadempimento ed il finanziatore ancora non ha preteso alcunché a tale titolo.

In altri termini, se il finanziato agisce in corso di regolare rapporto ed ottiene una sentenza di nullità della clausola, ciò non vuol dire che da quel momento in poi egli potrà non adempiere e pretendere che nessun interesse gli sia applicato oltre a quello corrispettivo, già incluso nelle rate scadute.

Realizzatosi l’inadempimento, rileva unicamente il tasso che di fatto viene applicato al debitore inadempiente e cade l’interesse ad agire per l’accertamento della eventuale illegittimità del tasso astratto non applicato, anche se i parametri di riferimento dell’usurarietà restano quelli esistenti al momento della conclusione del contratto che comprende la clausola censurata.

In sintesi, in ipotesi di inadempimento, ciò che rileva è il tasso moratorio in concreto applicato. Se il finanziato intende agire prima allo scopo di far accertare l’illiceità del patto sugli interessi rispetto alla soglia usuraria, come fissata al momento dell’accordo, la sentenza ottenuta vale come accertamento, in astratto, di detta nullità, utile per il caso in cui tale patto dovesse in futuro essere azionato dal finanziatore, ma non avrà ancora, in concreto, l’effetto di rendere dovuto solo un interesse moratorio pari al tasso degli interessi corrispettivi lecitamente pattuiti (ex art. 1224 c.c.), potendo verificarsi tale evenienza solo alla condizione che quello previsto in contratto sia stato, in seguito, il tasso effettivamente applicato, o comunque che, al momento della mora effettiva, il tasso applicato sulla base della clausola degli interessi moratori sia sopra la soglia. Ove il tasso applicato in concreto sia, invece, sotto soglia, esso sarà dovuto, senza che possa farsi valere la sentenza di accertamento mero, che su di esso non ha statuito.

Le Sezioni Unite hanno, poi, affermato un ultimo importante principio, precisando che, nelle controversie relative alla spettanza e alla misura degli interessi moratori, l’onere della prova si atteggia nel senso che il debitore che intenda dimostrare l’entità usuraria degli stessi è tenuto a dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale relativa agli interessi moratori e quelli applicati in concreto, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato e gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento, mentre la controparte deve allegare e provare i fatti modificativi o estintivi dell’altrui diritto (v. Sez. U, n. 19597/2020, Nazzicone, Rv. 658833-03).

In proposito, si deve subito richiamare Sez. 3, n. 08883/2020, Fiecconi, Rv. 657840-01, ove la S.C. ha ritenuto che le prescrizioni dei decreti ministeriali di fissazione del tasso soglia, rilevanti ai fini dell’individuazione dell’usurarietà degli interessi concernenti i rapporti bancari hanno, nella fase dei giudizi di merito, natura integrativa della legge penale e civile e, pertanto, devono esser conosciute ed applicate dal giudice, indipendentemente dall’attività probatoria delle parti che le hanno invocate, essendo delle disposizioni di carattere secondario, continuamente aggiornate, che completano il precetto normativo. Detto giudice, quindi, a prescindere dalla mancata produzione dei menzionati decreti, può acquisirne conoscenza o attraverso la sua scienza personale o con la collaborazione delle parti o con la richiesta di informazioni alla P.A. o con una CTU contabile. Tale attività è, invece, preclusa in sede di legittimità, ove è inammissibile l’ingresso di documentazione non prodotta nei precedenti gradi e non può trovare spazio, con riferimento ai menzionati decreti, il principio iura novit curia, trattandosi di atti amministrativi.

5. Contratti di conto corrente e contratti regolati in conto corrente.

Le statuizioni di seguito riportate riguardano, in generale, il contratto di conto corrente e i contratti regolati in conto corrente. Al tema della nullità della pattuizione sugli interessi in tali contratti e al conseguente problema della rideterminazione del saldo sono dedicati i successivi paragrafi.

In primo luogo, deve richiamarsi Sez. 6-3, n. 21362/2020, Cricenti, Rv. 659159-02, ove la S.C., confermando un orientamento già espresso (Sez. 6-1, n. 08576/2014, Scaldaferri, Rv. 630658-01), ha ritenuto che la clausola derogatoria della competenza per territorio, contenuta nel contratto di conto corrente per il quale è sorta controversia, determina l’estensione del foro convenzionale anche alla lite concernente la relativa garanzia fideiussoria, in ragione del disposto dell’art. 31 c.p.c. e nonostante la coincidenza solo parziale dei soggetti processuali, tenuto conto dello stretto legame esistente tra i due rapporti e del rischio che, in caso di separazione dei procedimenti, si formino due diversi giudicati in relazione ad un giudizio sostanzialmente unico.

In tema di delega a terzi per il compimento di operazioni in conto corrente, Sez. 3, n. 00859/2020, Cricenti, Rv. 656573-01, ha evidenziato che l’accordo tra il cliente e la banca, in base al quale anche un altro soggetto, a ciò delegato, è autorizzato a compiere operazioni sul conto corrente, spiega unicamente l’effetto, per le operazioni e nei limiti di importo stabiliti, di vincolare la medesima banca a considerare alla stessa stregua di quella del delegante la firma di tale delegato, ma non comporta il conferimento a quest’ultimo di un potere generale di agire in rappresentanza del detto delegante per il compimento di qualsiasi tipo di atto negoziale riferibile al conto (nello stesso senso, v. già Sez. 3, n. 11866/2007, Travaglino, Rv. 597717-01).

In ordine al diritto del cliente di ottenere copia della documentazione relativa alle operazioni compiute, si deve menzionare Sez. 3, n. 24181/2020, Moscarini, Rv. 659530-01, ove viene, prima di tutto, affermato che il titolare del rapporto di conto corrente ha sempre diritto di ottenere dalla banca il rendiconto, ai sensi dell’art. 119 T.U.B., anche in sede giudiziaria, fornendo la sola prova dell’esistenza del rapporto contrattuale, non potendosi ritenere corretta una diversa soluzione sul fondamento del disposto di cui all’art. 210 c.p.c., perché non può convertirsi un istituto di protezione del cliente in uno strumento di penalizzazione del medesimo, trasformando la sua richiesta di documentazione da libera facoltà ad onere vincolante. Nella stessa decisione è, tuttavia, enunciato anche un altro importante principio, perché la S.C. ha precisato che il diritto appena descritto spetta anche al fideiussore il quale, in ragione dell’accessorietà del rapporto di fideiussione rispetto al contratto di conto corrente, può definirsi, in senso lato, un cliente della banca, non diversamente dal correntista debitore principale.

Proprio con riferimento alle operazioni contabili effettuate in pendenza del rapporto di conto corrente, Sez. 1, n. 29415/2020, Lamorgese, Rv. 660110 – 01, ha evidenziato che, ove non sia provato l’invio degli estratti conto periodici, ma risulti che il correntista abbia comunque controllato periodicamente le operazioni annotate, recandosi in banca e acquisendo copia degli estratti conto presso lo sportello, opera lo stesso la presunzione di veridicità delle scritturazioni, in applicazione dell’art. 1832 c.c., quando il cliente neghi in modo generico la propria esposizione debitoria senza operare alcuna contestazione specifica (nello stesso senso, sia pure con riferimento ad una diversa fattispecie, Sez. 1, n. 09008/2000, Ferro, Rv. 538276-01).

Ovviamente, il correntista può operare il disconoscimento della documentazione contabile ad apparente sua firma ed anche proporre querela di falso contro di essa senza aspettare che venga disconosciuta.

In proposito, deve essere menzionata Sez. 6-1, n. 15823/2020, Terrusi, Rv. 658501-01, ove la S.C. – dopo avere affermato, in via generale, che alla parte cui sia riferita una scrittura privata è sempre consentito non solo il disconoscimento della stessa, così ponendo a carico della controparte l’onere della verificazione, ma anche, e in via alternativa, la proposizione della querela di falso, al fine di negare definitivamente la genuinità del documento – ha cassato la sentenza d’appello che aveva reputato non proponibile la querela di falso, se non dopo l’esito sfavorevole di un’eventuale verificazione, proprio con riguardo ad alcune distinte bancarie di versamento e prelevamento, apparentemente sottoscritte dal correntista.

Sempre con riguardo alle operazioni eseguite in pendenza di rapporto di conto corrente, si deve, infine, menzionare Sez. 6-1, n. 01445/2020, Iofrida, Rv. 656820-01, ove la S.C. ha esaminato l’operatività dell’art. 1853 c.c., rilevando che tale disposizione (a mente della quale, se tra la banca ed il correntista esistono più rapporti o più conti, i saldi attivi e passivi si compensano reciprocamente, salvo patto contrario) prevede che la compensazione tra saldi attivi e passivi (anche a favore del correntista) sia attuata mediante annotazioni in conto e, in particolare (alla luce del principio dell’unità dei conti), attraverso l’immissione del saldo di un conto, come posta passiva, in un altro conto ancora aperto (con le modalità proprie di tale tipo di operazione), salva manifestazione di volontà di segno contrario da parte del cliente.

Passando ad esaminare i contratti regolati in conto corrente, si deve senza dubbio menzionare Sez. 1, n. 29317/2020, Amatore, Rv. 660151 – 01, ove la S.C. ha precisato che, nel corso dell’esecuzione di un rapporto di apertura di credito bancario a tempo indeterminato, risulta legittimo l’esercizio del diritto di recesso ad nutum dell’istituto di credito, purché anticipato dalla comunicazione al cliente di un congruo preavviso, tenuto conto che tale facoltà è espressamente prevista dall’art. 1845, comma 3, c.c. La Corte ha anche rilevato che l’esercizio di tale facoltà non entra neanche in conflitto con il principio generale di buona fede esecutiva di cui all’art. 1375 c.c., allorquando sia tenuta in presenza di comportamenti inaffidabili del debitore che, ripetutamente ed in modo ingiustificato, superi il limite di affidamento concesso, senza che la condotta omissiva della banca di fronte a tali sconfinamenti possa essere intesa come autorizzazione ad un innalzamento del limite dell’apertura di credito, dovendo essere, invece, ricondotta ad un atteggiamento di mera tolleranza, in attesa del corretto adempimento da parte del correntista dell’obbligo di rientrare dall’esposizione debitoria non autorizzata.

Una particolare fattispecie è stata, infine, esaminata da Sez. 3, n. 09250/2020, Olivieri, Rv. 657687-01, riguardante gli enti pubblici sottoposti a regime di tesoreria unica mista, ai sensi dell’art. 7 d.lgs. n. 279 del 1997, ove la Corte ha ritenuto che l’esposizione dell’ente pubblico per anticipazioni di cassa erogate in conto corrente bancario dalla banca-tesoriere, ove non sia ripianata attraverso le rimesse delle entrate non vincolate dell’ente, deve essere estinta a valere sulle eventuali risorse pubbliche trasferite, senza vincolo di destinazione, sul conto corrente in contabilità speciale, previa emissione del titolo di spesa in favore della banca creditrice, secondo la procedura di cui al d.m. 4 agosto 2009, la quale non introduce alcun titolo di preferenza, in deroga al principio ex art. 2741 c.c., a favore della banca titolare del servizio di tesoreria, ma realizza lo stesso effetto solutorio della rimessa eseguita su un conto corrente affidato.

5.1. La nullità delle clausole relative agli interessi.

Nell’anno in rassegna, la S.C. ha esaminato la questione della nullità delle clausole relative alla pattuizione del tasso d’interesse sotto molteplici punti di vista.

In primo luogo, vengono richiamate le decisioni che hanno nuovamente affrontato il tema della capitalizzazione periodica degli interessi a debito del cliente.

Com’è noto, la giurisprudenza di legittimità – operando un vero e proprio revirement rispetto al consolidato indirizzo precedente – a partire dal 1999 ha adottato una serie di pronunce, in cui ha ritenuto la nullità della clausola contenuta nei contratti bancari, che prevede la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente.

Le richiamate statuizioni, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con le pronunce del ventennio precedente, hanno enunciato il principio secondo cui gli “usi contrari”, idonei ex articolo 1283 c.c. a derogare il precetto ivi stabilito, sono solo gli usi “normativi” in senso tecnico, mentre le clausole che prevedono l’anatocismo bancario sono espressione di un mero uso negoziale.

Tale soluzione interpretativa è stata fatta propria dal legislatore, considerato che con l’emanazione del d.lgs. n. 342 del 1999, in attuazione della delega conferita dalla l. n. 128 del 1998 (legge comunitaria 1995/1997), ha ritenuto di dover modificare il T.U.B., per introdurre regole specificamente dedicate all’anatocismo nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria.

In particolare, l’art. 25 d.lgs. cit., al comma 2, modificando l’art. 120 T.U.B., ha demandato al CICR (che vi ha provveduto con delibera del 9 febbraio 2000) di stabilire modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi, imponendo alle banche, relativamente alle operazioni regolate in conto corrente, di assicurare nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori.

Al successivo comma 3, l’art. 25 d.lgs. cit. ha previsto una fase di transizione, durante la quale è stata mantenuta validità ed efficacia alle clausole anatocistiche in precedenza stipulate fino al decorso del termine di adeguamento alle nuove norme, che doveva essere fissato nella sopra menzionata delibera CICR.

In altre parole l’art. 25, comma 3, d.lgs. n. 342 del 1999 ha reso valide ed efficaci, sino alla data di entrata in vigore della deliberazione del CICR, tutte le clausole anatocistiche previste nei contratti stipulati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. (e cioè prima del 19 ottobre 1999) e prima dell’entrata in vigore della delibera CICR (e cioè prima del 22 aprile 2000), sia pure con effetti limitati sino al termine indicato dalla menzionata delibera per l’adeguamento delle condizioni contrattuali.

Si deve precisare che l’art. 25, comma 3, d.lgs. cit. ha attribuito al CICR la potestà di stabilire non solo i tempi, ma anche le modalità di adeguamento delle clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera CICR. E l’art. 7 di detta delibera, recante la disciplina transitoria, oltre a individuare, al comma 1, il termine entro il quale avrebbero dovuto essere adeguati i contratti in corso (30 giugno 2000), ha anche stabilito, al successivo comma 2, che l’adeguamento delle condizioni contrattuali poteva essere operato, in via generale, mediante pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, se non comportava un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, stabilendo che le nuove condizioni avrebbero dovuto essere rese note alla clientela alla prima occasione utile e comunque entro il 31 dicembre 2000.

Com’è noto, la Corte costituzionale (con sentenza n. 425 del 2000) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 25, comma 3, d.lgs. n. 342 del 1999, per violazione dell’art. 76 Cost. (eccesso di delega), nella parte in cui ha dichiarato valide ed efficaci le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della menzionata delibera CICR.

Le Sezioni Unite della S.C. si sono pronunciate sugli effetti di tale statuizione, evidenziando che, a seguito della decisione della Corte costituzionale, le clausole anatocistiche stipulate prima dell’entrata in vigore della delibera CICR, devono ritenersi disciplinate dalla normativa anteriormente in vigore e, quindi, richiamato l’orientamento fino ad allora maturato, sono da considerarsi nulle, perché stipulate in violazione dell’art. 1283 c.c. (Sez. U, n. 21095/2004, Morelli, Rv. 577944-01).

Tale sentenza ha trovato conferma in numerose pronunce a sezioni semplici della Corte di cassazione (tra le tante, v. Sez. 1, n. 10599/2005, Celentano, Rv. 582117- 01).

Nell’anno in rassegna, Sez. 1, n. 09140/2020, Falabella, Rv. 657637-01, ha ribadito che, in ragione della pronuncia di incostituzionalità dell’art. 25, comma 3, d.lgs. n. 342 del 1999, le clausole anatocistiche inserite in contratti di conto corrente, conclusi prima dell’entrata in vigore della delibera CICR 9 febbraio 2000, sono radicalmente nulle, ma – ed è ciò che maggiormente interessa – ha affermato che tale nullità impedisce di effettuare quel giudizio di comparazione, previsto dal sopra menzionato art. 7, comma 2, della delibera del CICR, teso a verificare se le nuove pattuizioni abbiano o meno comportato un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, sicché, in tali contratti, perché sia introdotta validamente una nuova clausola di capitalizzazione degli interessi, è necessaria una espressa pattuizione scritta formulata nel rispetto dell’art. 2 della predetta delibera.

In motivazione, si precisa che la pronuncia di incostituzionalità non ha interessato quella parte del comma 3 dell’art. 25 cit. in cui è stato regolamentato l’adeguamento dei vecchi contratti alle prescrizioni della delibera CICR. Viene, tuttavia, evidenziato che l’art. 7, comma 2, della delibera richiede una valutazione comparativa tra vecchie e nuove condizioni contrattuali, per verificare se vi sia stato un peggioramento delle stesse, con la precisazione che tale valutazione deve riguardare esclusivamente le clausole relative alla capitalizzazione degli interessi (e non le altre), essendo questo l’ambito di intervento normativo, sicché, tenuto conto che quelle contenute nei vecchi contratti devono ritenersi nulle, la comparazione non può essere in concreto effettuata, non essendovi pregresse clausole valide da porre in comparazione con le nuove.

Tale pronuncia è stata confermata da Sez. 1, n. 29420/2020, Amatore, Rv. 660127-01.

Sempre in tema di nullità delle clausole del contratto di conto corrente, ma con riferimento a tutt’altra questione, si deve menzionare Sez. 6-1, n. 11876/2020, Dolmetta, Rv. 657990-01, ove la S.C. ha affermato che, quando sia contestata l’indeterminatezza del contenuto del contratto di conto corrente in relazione all’ammontare del tasso convenzionale d’interesse, trova applicazione la sanzione generale prevista dall’art. 1346 c.c., perché la disciplina della nullità delle clausole dei contratti bancari contenuta nell’art. 117, comma 7, d.lgs. n. 385 del 1993, si applica esclusivamente ai casi espressamente richiamati dalla norma, di cui ai commi 4 («I contratti indicano il tasso d’interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora») e 6 («Sono nulle e si considerano non apposte le clausole contrattuali di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi di interesse e di ogni altro prezzo e condizione praticati nonché quelle che prevedono tassi, prezzi e condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati») dello stesso art. 117.

La fattispecie ha riguardato una clausola che è stata ritenuta avente un oggetto non determinato e non determinabile, perché stabiliva l’applicazione di un tasso variabile, ma non in relazione a fattori esterni, su cui le parti contrattuali non avevano l’oggettiva possibilità di incidere, bensì in relazione alla mera discrezionalità di una di esse (la banca).

La Corte di cassazione ha escluso l’applicazione dell’art. 117, comma 7, T.U.B., perché, come indica chiaramente la formula di apertura («in caso di inosservanza del comma 4 e ipotesi di nullità indicate nel comma 6»), la disciplina “rimediale”, prevista da tale norma, riguarda unicamente le ipotesi in cui la nullità sia stata dichiarata in ragione della violazione delle citate disposizioni.

La stessa Corte ha anche rilevato che tale regola si pone come disciplina correttiva e limitativa del principio della c.d. nullità a vantaggio (di protezione del cliente, cioè), che – ai sensi del successivo art. 127, comma 2, – informa le peculiari ipotesi di nullità previste dal titolo del T.U.B., dedicato alla materia della trasparenza delle condizioni contrattuali, mentre, invece, la causa di nullità prevista dall’art. 1346 c.c. è di ordine generale e richiama, per la definizione dei suoi aspetti disciplinari ed effettuali rispetto alla relativa dichiarazione, le semplici regole di diritto comune.

In argomento, ma con riferimento al tasso di interesse previsto per l’apertura di credito in conto corrente, Sez. 1, n. 29576/2020, M. Di Marzio, Rv. 660184-01, ha risposto al problema dell’individuazione del tasso in concreto applicabile, ai sensi dell’art. 117, comma 7, T.U.B., in una fattispecie in cui era mancata la pattuizione relativa al tasso d’interesse dovuto in assenza di sconfinamento del fido, evidenziando che, sulla base delle comuni regole di tecnica bancaria, il riferimento alle operazione attive e a quelle passive, contenuto nella norma sopra richiamata, debba essere inteso nel senso dell’applicazione del tasso minimo ai saldi debitori del conto (saldi dare), che infatti derivano da operazioni attive (per la banca), e del tasso massimo ai saldi creditori (saldi avere), derivanti dalle operazioni passive (per la banca).

Sempre con riguardo al contratto di apertura di credito in conto corrente, il giudice di legittimità ha, poi, confermato l’orientamento espresso nell’anno precedente dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 15895/2019, Sambito, Rv. 654580-01), ove, in tema di prescrizione estintiva, si è precisato che l’onere di allegazione gravante sull’istituto di credito che, convenuto in giudizio, intenda opporre l’eccezione di prescrizione al correntista, che abbia esperito l’azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da apertura di credito, è soddisfatto con l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare, senza che sia necessaria l’indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte (così Sez. 3, n. 07013/2020, Sestini, Rv. 657160-01).

Sez. 6-1, n. 14958/2020, Falabella, Rv. 658366-01, sempre con riguardo all’apertura di credito in conto corrente, ha poi precisato che, nel caso in cui il cliente agisca per la ripetizione di importi relativi ad interessi non dovuti e la banca sollevi l’eccezione di prescrizione, la questione della natura solutoria o ripristinatoria delle rimesse, rilevante ai fini della decorrenza della prescrizione decennale dell’azione, può essere sollevata anche per la prima volta in appello, in quanto è la stessa proposizione dell’eccezione di prescrizione ad imporre di prendere in esame tale profilo, tenuto conto che, come appena evidenziato, l’onere di allegazione gravante sull’istituto di credito è soddisfatto semplicemente con l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare.

In tema, Sez. 1, n. 09141/2020, Fidanzia, Rv. 658248-01, ha inoltre affermato che, ove il cliente agisca in giudizio per la ripetizione di importi relativi ad interessi non dovuti per nullità delle clausole anatocistiche del contratto di apertura di credito in conto corrente, e la banca sollevi l’eccezione di prescrizione, al fine di verificare se un versamento abbia avuto natura solutoria o ripristinatoria, occorre previamente eliminare tutti gli addebiti indebitamente effettuati dall’istituto di credito e conseguentemente rideterminare il reale saldo passivo del conto, verificando poi se siano stati superati i limiti del concesso affidamento ed il versamento possa perciò qualificarsi come solutorio.

5.2. La rideterminazione del saldo e le restituzioni.

Una volta accertata la non debenza a vario titolo di importi addebitati in conto, occorre ricostruire il rapporto dare-avere regolato in conto corrente, alla cui soluzione concorrono diverse varianti.

Anche nell’anno in rassegna, come in quelli immediatamente precedenti, la S.C. è stata chiamata a pronunciarsi su tale problema, rendendo sempre più chiaro il percorso logico che il giudice è chiamato ad effettuare.

Si è già richiamata Sez. 1, n. 09141/2020, Fidanzia, Rv. 658248-01, in ordine alla procedura da seguire al fine di verificare la natura solutoria o ripristinatoria della rimessa effettuata in conto.

In argomento, occorre senza dubbio menzionare Sez. 1, n. 29411/2020, Falabella, Rv. 660126-01, ove la S.C. ha cassato la decisione di merito, in una fattispecie in cui il giudice, dopo aver svolto attività istruttoria, aveva deferito al correntista il giuramento estimatorio per determinare l’importo preciso a credito di quest’ultimo per gli interessi indebitamente corrisposti alla banca, spiegando che detto giuramento non può essere ammesso nel caso in cui, trattandosi di stabilire l’ammontare della somma spettante al creditore, il giudice abbia acquisito gli elementi di prova utili per tale accertamento.

In motivazione, la Corte ha affermato che, sebbene il giuramento estimatorio possa avere ad oggetto una somma di danaro, allo scopo di stabilirne l’esatto ammontare, tuttavia esso non può essere utilizzato per supplire a un esame del materiale probatorio acquisito al processo che, invece, il giudice è chiamato a valutare.

Con riferimento ai casi in cui occorre rideterminare gli importi a credito del correntista, per essere stati illegittimamente trattenuti dalla banca in virtù di addebiti ritenuti illegittimi, ma non siano stati prodotti tutti gli estratti conto necessari, Sez. 1, n. 29190/2020, Lamorgese, Rv. 660146-01, ha ritenuto che, in questi casi, non può rigettarsi la domanda del correntista, in conseguenza della mancata produzione di alcuni degli estratti conto, senza valutare la possibilità che la prova dell’indebito sia desumibile aliunde, ben potendo, ad esempio, il giudice integrare quella offerta dal correntista, eventualmente con mezzi di cognizione disposti d’ufficio, come la CTU, alla quale può ricorrere quando, sebbene non sia contestato il rapporto, la prova dei movimenti del conto, di cui il correntista è onerato, non sia completa.

La Corte ha, in particolare, precisato che gli estratti conto non forniscono la prova legale di fatti relativi al rapporto di conto corrente, i quali sono suscettibili di prova libera, potendo anche essere dimostrati da argomenti di prova o elementi indiretti, che compete al giudice di merito valutare nell’ambito del suo prudente apprezzamento.

Per il caso in cui nel processo siano formulate domande contrapposte dal correntista e dalla banca, Sez. 1, n. 23852/2020, Falabella, Rv. 659438-01, ha ritenuto che, nei rapporti bancari di conto corrente, una volta che sia stata esclusa la validità della pattuizione di interessi ultralegali o anatocistici a carico del correntista e si riscontri la mancanza di una parte degli estratti conto, il primo dei quali rechi un saldo iniziale a debito del cliente, la proposizione di contrapposte domande da parte della banca e del correntista implica che ciascuna delle parti sia onerata della prova della propria pretesa. Ne deriva che, in assenza di elementi di prova che consentano di accertare il saldo nel periodo non documentato, ed in mancanza di allegazioni delle parti che permettano di ritenere pacifica l’esistenza, in quell’arco di tempo, di un credito o di un debito di un certo importo, deve procedersi alla determinazione del rapporto di dare e avere, con riguardo al periodo successivo, documentato dagli estratti conto, procedendosi all’azzeramento del saldo iniziale del primo di essi.

6. Il mutuo fondiario.

Quest’anno l’attenzione della S.C. si è più volte soffermata sui contratti di mutuo fondiario, esaminandone diversi.

Si richiama subito, in tal senso, Sez. 3, n. 14603/2020, Porreca, Rv. 658324-01, ove la Corte di cassazione ha precisato che l’elezione di domicilio inserita dal mutuatario nel contratto di mutuo, priva della dichiarazione espressa di obbligatorietà, non è utile per la notifica degli atti processuali ai sensi dell’art. 141 c.p.c., restando irrilevante a tal fine il disposto dell’art. 39 T.U.B., che abilita all’elezione di domicilio, ai fini dell’iscrizione ipotecaria, il solo creditore bancario.

Con riguardo ai requisiti per l’applicazione della disciplina propria del mutuo fondiario, Sez. 1, n. 00219/2020, Amatore, Rv. 656517-01, ha evidenziato che, nel caso di cancellazione dell’originaria iscrizione ipotecaria di primo grado su bene immobile effettuata in applicazione dell’art. 38 T.U.B., la successiva iscrizione ipotecaria, operata ai sensi dell’art. 2881 c.c. da parte dello stesso creditore, in relazione al medesimo credito, non muta la natura fondiaria del credito, qualora nel frattempo non sia intervenuta sul bene immobile oggetto di garanzia altra iscrizione ipotecaria di primo grado.

Secondo la S.C., infatti, gli elementi costitutivi della qualifica fondiaria del credito sono, da un lato, la concessione da parte di un istituto di credito di “finanziamenti a medio e lungo termine” e, dall’altro, la garanzia da “ipoteca di primo grado su immobili”, senza che occorra, per l’acquisto della sopra ricordata qualifica, la necessaria contestualità temporale tra l’atto di concessione della garanzia ipotecaria da parte del debitore (art. 2741 c.c.) e la successiva iscrizione da parte del creditore della garanzia stessa nell’ufficio dei registri immobiliari del luogo ove si trovano gli immobili (art. 2827 c.c.), fermo restando che l’iscrizione riveste comunque natura costitutiva.

Con riguardo a casi in cui venga operato il frazionamento del mutuo fondiario, Sez. 3, n. 24952/2020, Olivieri, Rv. 659771-01, ha affermato che tale frazionamento costituisce una rinuncia all’indivisibilità dell’ipoteca e, dunque, è da qualificare alla stregua di atto unilaterale del creditore ipotecario, che non muta natura quand’anche a tale rinuncia sia stato fatto riferimento in eventuali accordi raggiunti dal concedente con il mutuatario o da quest’ultimo con i promissari acquirenti. Ne consegue che il rifiuto opposto dalla banca, in quanto esercizio di un diritto del creditore ipotecario, non potrà integrare di per sé una condotta omissiva colposa, salvo che la rinuncia alla indivisibilità dell’ipoteca abbia costituito oggetto di assunzione di specifica obbligazione avente fonte in un titolo negoziale, ovvero la legge preveda espressamente detta rinuncia quale corrispondente obbligo dell’attribuzione di un diritto al frazionamento posto in capo a specifici soggetti legittimati a richiederlo.

7. Gli assegni, le cambiali e i buoni postali.

Le pronunce di rilievo, adottate nell’anno in esame in materia di assegni, attengono non solo alla materia strettamente bancaria ma anche a quella negoziale in genere, ove tali titoli sono impiegati in vario modo per dare certezza in ordine alla serietà delle trattative.

In primo luogo, deve essere richiamata Sez. U, n. 09769/2020, Mercolino, Rv. 657884-01, che risolvendo un contrasto, ha evidenziato come la spedizione per posta ordinaria di un assegno, ancorché munito di clausola d’intrasferibilità, costituisce, in caso di sottrazione del titolo e riscossione da parte di un soggetto non legittimato, condotta idonea a giustificare l’affermazione del concorso di colpa del mittente, comportando, in relazione alle modalità di trasmissione e consegna previste dalla disciplina del servizio postale, l’esposizione volontaria del mittente ad un rischio superiore a quello consentito dal rispetto delle regole di comune prudenza e del dovere di agire per preservare gl’interessi degli altri soggetti coinvolti nella vicenda, e configurandosi dunque come un antecedente necessario dell’evento dannoso, concorrente con il comportamento colposo eventualmente tenuto dalla banca nell’identificazione del presentatore.

Il principio è stato subito ribadito da Sez. 3, n. 25873/2020, Olivieri, Rv. 659854-01, in tutto conforme.

Sempre in tema di pagamento dell’assegno a soggetto diverso dall’effettivo beneficiario, Sez. 6-1, n. 09204/2020, Dolmetta, Rv. 657736-01, ha evidenziato che la relativa controversia non è sottoposta alla mediazione obbligatoria, trattandosi di fattispecie che non rientra nell’ambito dei “contratti bancari”, perché la convenzione di assegno, se può trovarsi inserita anche nel corpo dei detti contratti, conserva sempre la propria autonomia, rientrando l’assegno nel novero dei “servizi di pagamento”, ai sensi dell’art. 2, lett. g), d.lgs. n. 11 del 2010, che prescindono dalla natura “bancaria” del soggetto incaricato di prestare il relativo servizio.

In generale, sulla legittimazione a riscuotere l’assegno bancario, Sez. 1, n. 00731/2020, Lamorgese, Rv. 656756-01, ha affermato che il mero possessore, il quale non risulti prenditore o giratario dello stesso (nella specie, mancante dell’indicazione del beneficiario), non è legittimato alla pretesa del credito ivi contenuto se non dimostrando l’esistenza del rapporto giuridico da cui deriva il credito, poiché il semplice possesso del titolo non ha un significato univoco ai fini della legittimazione (non potendo escludersi che l’assegno sia a lui pervenuto abusivamente), aggiungendo che, in questo caso, l’assegno non può neppure valere come promessa di pagamento ai sensi dell’art. 1988 c.c., atteso che l’inversione dell’onere della prova, prevista da tale disposizione, opera solo nei confronti del soggetto a cui la promessa sia stata effettivamente fatta, sicché anche in tal caso il mero possessore di un titolo all’ordine (privo del valore cartolare), non risultante dal documento, deve fornire la prova della promessa di pagamento a suo favore (conf. Sez. 1, n. 15688/2013, Lamorgese, Rv. 627233-01).

Con riferimento, invece, alla revoca dell’autorizzazione ad emettere assegni, Sez. 2, n. 20514/2020, Oliva, Rv. 659194-01, ha ritenuto che la circostanza che il preavviso di tale revoca sia stato notificato al traente oltre il termine di dieci giorni dalla presentazione al pagamento del titolo, importa che il trattario è obbligato a pagare gli assegni emessi dal traente dopo tale data e fino al giorno successivo alla comunicazione, anche se manca o è insufficiente la provvista, nel limite di euro 10.329,14 per ogni assegno, ai sensi dell’art. 9 bis, comma 5 l. n. 386 del 1990, ma non produce alcun effetto ai fini dell’iscrizione del nominativo del traente nell’archivio informatizzato degli assegni bancari e postali e delle carte di pagamento irregolari, istituito presso la Banca d’Italia (cd. Centrale di allarme interbancaria, CAI), di cui all’art. 10 bis l. cit., tenuto conto che tale iscrizione non può comunque aver luogo se non dopo il decorso di almeno dieci giorni dalla data di ricevimento del preavviso di revoca.

Per quanto riguarda la disciplina dell’ammortamento, occorre menzionare Sez. 6-3, n. 18098/2020, Gorgoni, Rv. 658765-01, ove è precisato che la notificazione del decreto di ammortamento non è idonea ad interrompere la prescrizione del credito, atteso che detta notificazione non è un atto volto ad esercitare il diritto di credito, ma ha pacificamente la funzione di impedire che il pagamento eseguito nelle mani di un soggetto, detentore del titolo, diverso dal notificante sia valido (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza gravata che aveva escluso efficacia interrutiva della prescrizione alla notificazione di un decreto di ammortamento relativo ad un assegno bancario).

Infine, con riferimento all’impiego dell’assegno nelle trattative negoziali, si deve richiamare la particolare fattispecie esaminata da Sez. 6-1, n. 09114/2020, Dolmetta, Rv. 657675-01, ove, sul presupposto che la promessa del fatto del terzo ex art. 1381 c.c. si connota per la funzione di garanzia di un determinato risultato, la S.C. ha ritenuto che la possibilità di operare tale qualificazione laddove, nel corso delle trattative per la stipula di un contratto di vendita, un terzo estraneo consegni ad una delle parti contraenti un assegno bancario, la cui restituzione sia condizionata alla successiva effettiva conclusione dell’affare.

Per quanto riguarda, invece, le pronunce adottate in tema di cambiali, deve senza dubbio menzionarsi Sez. 1, n. 02549/2020, Fidanzia, Rv. 656621-01, ove la S.C. ha precisato che gli obblighi di diligenza che gravano su una banca, cui sia stato conferito mandato al pagamento di una cambiale impongono, una volta avvenuto l’atto solutorio, di attivarsi immediatamente per intervenire sul processo di levata del protesto e, ove tale meccanismo si trovi in una fase così avanzata da non poter più essere interrotto, di avvisare prontamente il mandante al fine di consentirgli di accedere tempestivamente alla procedura di cancellazione del protesto, secondo quanto previsto dall’art. 12 l. n. 349 del 1973, salvo in ogni caso l’obbligo per la banca – ove sia intervenuta comunque la levata del protesto – di restituire la provvista utilizzata per l’operazione non andata a buon fine.

La S.C. si è anche pronunciata in tema di buoni postali fruttiferi cointestati, evidenziando che, in assenza di una previsione specifica, al loro rimborso è applicabile per analogia la disciplina prevista dall’art. 187, comma 1, d.P.R. n. 256 del 1989, relativo ai libretti di risparmio postale (per effetto del rinvio di cui all’art. 203, comma 1, dell’anzidetto regolamento), sicché, nel caso di decesso di uno degli intestatari, tale rimborso deve essere eseguito con quietanza di tutti gli aventi diritto (Sez. 6-1, n. 11137/2020, Meloni, Rv. 658206-01).

8. I fondi comuni d’investimento.

Anche nel corso del 2020 la S.C. si è pronunciata sulla possibilità di ricondurre la disciplina dei fondi comuni di investimento alla disciplina propria dei titoli di credito.

In particolare, Sez. 6-1, n. 11177/2020, L. Tricomi, Rv. 658207-01, ha ritenuto che la partecipazione al fondo comune di investimento, in assenza del certificato individuale, autonomo e separato, costituisce non un titolo di credito nei confronti del fondo, ma solo un credito, rappresentato dall’obbligo della società di investimento di gestire il fondo e di restituire al partecipante il valore della quota di partecipazione. In conseguenza di ciò, ha ritenuto legittimo il pegno costituito sulla quota di partecipazione solo nel caso in cui sia rispettata la disciplina prevista (per il pegno di crediti) dall’art. 2800 c.c., essendo cioè necessaria la notifica della costituzione del pegno al debitore ovvero la sua accettazione con atto di data certa (nella specie la S.C. ha confermato il decreto impugnato che aveva ritenuto che la girata non fosse sufficiente a far ritenere integrata la notificazione della costituzione del pegno al debitore o la sua accettazione).

La Corte si è già pronunciata in questi termini.

In tutto conformi alla pronuncia appena riportata si rivelano, infatti, Sez. 1, n. 28900/2011, Di Virgilio, Rv. 620999-01 e Sez. 3, n. 10990/2003, Calabrese, Rv. 565017-01.

Nella stessa ottica, ma in presenza dei menzionati certificati (nella specie, nominativi), Sez. 1, n. 14325/2019, Amatore, Rv. 653889-01, ha affermato che i certificati di partecipazione al fondo, previsti dall’art. 36, comma 5, T.U.F. posseggono la natura giuridica di titoli di credito, perché incorporano il diritto alla prestazione e possono circolare secondo le regole che li caratterizzano, quali titoli nominativi o al portatore, limitatamente ad uno dei soggetti partecipanti al fondo comune.

9. L’intermediazione finanziaria.

Vengono di seguito illustrate le pronunce adottate dalla S.C., nell’anno in rassegna, relative all’attività di intermediazione finanziaria, svolta dalle banche e dagli altri soggetti abilitati.

Le statuizioni riguardano essenzialmente la prestazione dei servizi d’investimento.

Per quanto riguarda le decisioni che hanno esaminato le condotte rilevanti ai fini dell’applicazione di sanzioni amministrative, si rinvia alla parte di questa rassegna dedicata a questo argomento.

In questa sede vengono prima richiamate le pronunce che hanno affrontato alcune comuni questioni processuali e poi quelle che si sono interessate, in generale, dell’attività d’intermediazione finanziaria. Ai singoli contratti d’investimento viene dedicato un distinto paragrafo.

Con riferimento alle questioni processuali, si deve, dunque, menzionare Sez. 1, n. 18121/2020, Amatore, Rv. 658608-01, ove la S.C. ha ribadito un orientamento già espresso, secondo il quale, in tema di intermediazione mobiliare, non importa incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c. per i dipendenti dell’intermediario la circostanza che quest’ultimo, evocato in giudizio da un risparmiatore, potrebbe convenirli in garanzia nello stesso giudizio, per essere responsabili dell’operazione che ha dato origine alla controversia, poiché le due cause, anche se proposte nello stesso giudizio, si fondano su rapporti diversi ed i dipendenti hanno un interesse solo riflesso ad una determinata soluzione della causa principale, che non li legittima a partecipare al giudizio promosso dal risparmiatore, in quanto l’esito di questo, di per sé, non è idoneo ad arrecare ad essi pregiudizio (conf. Sez. 1, n. 08462/2014, Didone, Rv. 630885-01).

In proposito, assume rilievo anche Sez. 1, n. 18122/2020, Amatore, Rv. 658608-01, ove la S.C. ha affermato che la dichiarazione resa dal cliente su modulo sottoscritto predisposto dall’intermediario in ordine alla propria consapevolezza, conseguente alle informazioni ricevute, della rischiosità dell’investimento suggerito dal medesimo intermediario e della inadeguatezza dello stesso rispetto al suo profilo d’investitore, non costituisce dichiarazione confessoria, essendo rivolta alla formulazione di un giudizio e non all’affermazione di scienza e verità di un fatto obiettivo (nello stesso senso, Sez. 1, n. 06142/2012, Schirò, Rv. 622512-01).

9.1. Nullità contrattuali e statuizioni conseguenti.

Fondamentale rilievo assume, in argomento, Sez. 1, n. 18122/2020, Amatore, Rv. 658609-02, ove la S.C. ha evidenziato che l’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998, nella parte in cui impone la forma scritta a pena di nullità per i contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento, si riferisce ai contratti quadro, e non ai singoli ordini di investimento (o disinvestimento) impartiti nel corso del rapporto, la cui validità non è soggetta a requisiti formali, salvo diversa previsione nello stesso contratto quadro, precisando che tali ordini rappresentano un elemento di attuazione delle obbligazioni previste dal contratto di investimento, del quale condividono la natura negoziale, come negozi esecutivi, concretandosi attraverso di essi i negozi di acquisizione – per il tramite dell’intermediario – dei titoli che poi sono destinati ad essere custoditi secondo le clausole contenute nel contratto quadro (alle stesse conclusioni è, da ultimo, pervenuta Sez. 1, n. 19759/2017, Falabella, Rv. 645194-02).

Con riguardo agli effetti della menzionata nullità, Sez. 1, n. 23448/2020, Ferro, Rv. 659602-01, ha affermato che la prescrizione dell’azione dell’intermediario volta alla restituzione dei titoli, conseguente all’accertamento della nullità del contratto di investimento finanziario, decorre ex art. 2935 c.c. da quando la nullità, quale azione di parte, o l’omologo rilievo officioso, siano intervenuti, pur se ciò determina che la domanda di ripetizione assuma portata dipendente dal giudizio promosso dall’investitore.

Nel dare applicazione a Sez. U, n. 28314/2019, Acierno, Rv. 655800-01, la S.C. ha, infine, rilevato che, nel caso in cui l’intermediario opponga l’eccezione di buona fede per evitare un uso oggettivamente distorsivo delle regole di legittimazione in tema di nullità protettive, al solo fine di paralizzare, in tutto o in parte, gli effetti restitutori conseguenti all’esperimento selettivo dell’azione di nullità da parte del cliente investitore, nei limiti della complessiva utilitas economica ritratta da quest’ultimo, grazie all’esecuzione del contratto quadro affetto dalla nullità dal medesimo fatta valere, le cedole medio tempore riscosse dall’investitore non vengono in considerazione né come oggetto dell’indebito, né quali frutti civili ex art. 820 e 2033 c.c., ma rilevano solo come limite quantitativo all’efficace esperimento della domanda di indebito esperita dall’investitore (Sez. 1, n. 10505/2020, Scotti, Rv. 657894-01).

9.2. Gli obblighi informativi: contenuto, violazione e rimedi.

In argomento, confermando un orientamento già espresso (da ultimo, Sez. 1, n. 10112/2018, M. Di Marzio, Rv. 658571-01), Sez. 1, n. 17949/2020, Nazzicone, Rv. 658571-01 ha affermato, in via generale, che gli obblighi informativi gravanti sull’intermediario ai sensi dell’articolo 21, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 58 del 1998 sono finalizzati a consentire al cliente di effettuare investimenti pienamente consapevoli, sicché tali obblighi, al di fuori dei contratti di gestione e di consulenza, devono essere adempiuti in vista dell’operazione da compiere e si esauriscono con essa (nella specie, la S.C. ha respinto il ricorso dell’investitore, che si era avvalso dell’intermediario per acquistare titoli di stato argentini, lamentando si non essere stato informato, dopo l’acquisto, sull’andamento dei titoli, neppure nel caso di abbassamento del loro “rating” o di rischio di “default” dell’emittente).

Sez. 1, n. 18153/2020, Nazzicone, Rv. 658879-01, ha, poi, rilevato che, pure in presenza di un investitore aduso ad operazioni finanziarie a rischio elevato che risultino dalla sua condotta pregressa, l’intermediario non è esonerato dall’assolvimento degli obblighi informativi previsti dal d.lgs. n. 58 del 1998 e dalle relative prescrizioni di cui al regolamento Consob n. 11522 del 1998 e successive modificazioni, permanendo in ogni caso il suo obbligo di offrire la piena informazione circa la natura, il rendimento ed ogni altra caratteristica del titolo.

Nello stesso senso si è pronunciata Sez. 6-1, n. 17640/2020, Caiazzo, Rv. 658722-02, ove la S.C. ha anche precisato che, a fronte di un’operazione non adeguata, l’intermediario può darvi corso soltanto a seguito di un ordine impartito per iscritto, in cui l’investitore faccia esplicito riferimento alle avvertenze ricevute.

Identico principio è affermato da Sez. 1, n. 18121/2020, Amatore, Rv. 658608-02.

In argomento, Sez. 1, n. 23131/2020, Amatore, Rv. 659519-01, ha precisato che la sottoscrizione da parte del cliente della clausola in calce al modulo d’ordine, contenente la segnalazione d’inadeguatezza dell’operazione sulla quale egli è stato avvisato, è idonea a far presumere assolto l’obbligo previsto in capo all’intermediario dall’art. 29, comma 3, regolamento Consob n. 11522 del 1998, ma, a fronte della contestazione del cliente, il quale alleghi l’omissione di specifiche informazioni dovute, grava sulla banca l’onere di provare, con qualsiasi mezzo, di averle specificamente rese (nello stesso senso, v. già Sez. 1, n. 11578/2016, Nazzicone, Rv. 639884-01).

Anche Sez. 1, n. 23570/2020, Rv. 659599-01, ha affermato lo stesso principio, ribadendo che, quando il cliente allega l’omissione di specifiche informazioni, grava sull’intermediario l’onere di provare, con ogni mezzo, che quelle informazioni siano state fornite o che non fossero dovute.

Si deve comunque tenere presente che, come evidenziato da Sez. 1, n. 18119/2020, Nazzicone, Rv. 658607-01, non sussiste un obbligo di “diffidenza” dell’intermediario nei confronti delle dichiarazioni rese dal cliente ai sensi dell’art. 28 regolamento Consob n. 11522 del 1998, in ordine all’elevata propensione al rischio e all’attesa di ingenti guadagni, sicché nessuna responsabilità è al medesimo intermediario addebitabile ove, dopo avere dettagliatamente informato l’investitore delle criticità delle operazioni prospettate, abbia dato esecuzione agli ordini impartiti.

Con riguardo al nesso causale tra carenza informativa e pregiudizio dell’investitore, Sez. 1, n. 07905/2020, Scotti, Rv. 657681-01, ha ritenuto che dalla funzione sistematica assegnata all’obbligo informativo gravante sull’intermediario finanziario, preordinato al riequilibrio dell’asimmetria del patrimonio conoscitivo-informativo delle parti in favore dell’investitore, al fine di consentire a quest’ultimo una scelta realmente consapevole, scaturisce una presunzione legale di sussistenza del nesso causale fra inadempimento informativo e pregiudizio, pur suscettibile di prova contraria da parte dell’intermediario, anche se tale prova non può consistere nella dimostrazione di una generica propensione al rischio dell’investitore, desunta anche da scelte intrinsecamente rischiose pregresse, perché anche l’investitore speculativamente orientato e disponibile ad assumersi rischi deve poter valutare la sua scelta speculativa e rischiosa nell’ambito di tutte le opzioni dello stesso genere offerte dal mercato, alla luce dei fattori di rischio che gli sono stati segnalati.

Lo stesso principio è stato enunciato da Sez. 1, n. 16126/2020, Campese, Rv. 658562-01, in una fattispecie in cui la S.C. ha confermato la decisione di merito, in cui l’intermediario era stato condannato al risarcimento dei danni subiti da un cliente per l’acquisto di bond Cirio, avendo ritenuto determinante, per la formazione del consenso di quest’ultimo, l’inadempimento degli obblighi informativi gravanti sullo stesso intermediario, che non aveva dedotto l’intervento di fattori causali esterni, autonomamente idonei a determinare l’evento dannoso.

Inoltre, Sez. 1, n. 17948/2020, Iofrida, Rv. 658606-01, ha ritenuto che, ove l’intermediario sia condannato a risarcire il danno cagionato al cliente, per avere dato corso a un ordine di acquisto di titoli ad alto rischio in violazione degli obblighi informativi su di lui gravanti, senza che sia pronunciata anche la risoluzione del contratto di negoziazione, si deve tenere conto che l’investitore resta in possesso dei titoli, sicché, in applicazione del criterio generale della compensatio lucri cum damno, dalla liquidazione va decurtato il valore residuo dei titoli acquistati – così come risultante dalle quotazioni ufficiali al momento della decisione – nonché l’ammontare delle cedole nel frattempo riscosse.

Da ultimo, deve essere menzionata Sez. 1, n. 08212/2020, Federico, Rv. 657629-01, ove, nel pronunciarsi, in generale, sulla risoluzione per inadempimento, la S.C. ha rilevato che la valutazione di gravità ai sensi dell’art. 1455 c.c. deve essere sempre commisurata all’interesse che la parte adempiente abbia o potrebbe avere alla regolare esecuzione del contratto, così cassando la decisione di merito che, dopo avere accertato l’inadempimento della banca agli obblighi informativi correlati ad un’operazione di acquisto di bond argentini del 1997, aveva poi escluso l’importanza dell’inadempimento, in ragione della successiva stipula nel 2000, da parte del medesimo cliente, di un contratto di intermediazione finanziaria con identico oggetto.

9.3. L’operato dei promotori.

Anche nell’anno in rassegna, si rinvengono alcune pronunce in tema di responsabilità delle società di intermediazione mobiliare per le condotte dei promotori.

In particolare, Sez. 3, n. 00857/2020, Iannello, Rv. 656687-01, ha affermato che la società preponente risponde del danno causato al risparmiatore dai promotori finanziari in tutti i casi in cui sussista un nesso di occasionalità necessaria tra il danno e l’esecuzione delle incombenze affidate al promotore, aggiungendo che la condotta del terzo investitore può fare venire meno questa responsabilità solo quando sia per lui chiaramente percepibile che il preposto, abusando dei suoi poteri, agisca per finalità estranee a quelle del preponente, ovvero quando il medesimo danneggiato sia consapevolmente coinvolto nell’elusione della disciplina legale da parte dell’intermediario od abbia prestato acquiescenza all’irregolare agire dello stesso, palesata da elementi presuntivi, quali il numero o la ripetizione delle operazioni poste in essere con modalità irregolari, il loro valore complessivo, l’esperienza acquisita nell’investimento di prodotti finanziari, la conoscenza del complesso iter funzionale alla sottoscrizione di programmi di investimento e le sue complessive condizioni culturali e socio-economiche (conf. Sez. 3, n. 30161/2018, Scarano, Rv. 651665-01).

Anche Sez. 1, n. 17947/2020, Iofrida, Rv. 658570-01, ha ritenuto che la società preponente non risponde solidalmente del danno causato al risparmiatore dai suoi promotori finanziari, qualora il nesso di occasionalità necessaria tra il danno e l’esecuzione delle incombenze affidate a questi ultimi sia interrotto dalla condotta del danneggiato, il quale, inosservante ai canoni di prudenza e agli oneri di cooperazione nel compimento dell’attività di investimento, serbi un contegno anomalo, contrassegnato da collusione o consapevole acquiescenza alla violazione delle regole ordinarie sul rapporto professionale con il cliente e sulle modalità di affidamento dei capitali da investire (nel caso di specie, la S.C. ha confermato la sentenza d’appello che aveva respinto il ricorso dell’investitore contro l’istituto di credito per il danno provocato dal suo promotore, il quale aveva incamerato le somme ricevute, valorizzando la consegna da parte del cliente di denaro con modalità difformi da quelle con cui il promotore sarebbe stato legittimato a riceverlo, l’omessa compilazione e sottoscrizione di contratti o moduli, l’assenza di evidenza contabile dei supposti investimenti).

10. I singoli contratti d’investimento.

La Corte di cassazione, nel corso del 2020, ha adottato importanti decisioni che approfondiscono la disciplina propria di alcuni tra i più frequenti contratti d’investimento.

10.1. L’offerta fuori sede.

Com’è noto, l’art. 30 T.U.F. contiene la disciplina dell’offerta fuori sede, che comprende la promozione e il collocamento presso il pubblico: a) di strumenti finanziari in luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze dell’emittente, del proponente l’investimento o del soggetto incaricato della promozione o del collocamento; b) di servizi di investimento in luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze di chi presta, promuove o colloca il servizio.

In proposito, Sez. 1, n. 23569/2020, Falabella, Rv. 659238-01, ha rilevato che, per escludere l’applicabilità della disciplina relativa all’offerta fuori sede di cui all’art. cit., nella vigenza del regolamento Consob n. 16190 del 2007, non è sufficiente che la promozione e il collocamento di strumenti finanziari si attuino in luogo di pertinenza del promotore finanziario, ma è necessario che tali attività si perfezionino presso la sede legale dell’intermediario autorizzato, ovvero presso una dipendenza dello stesso, per tale dovendosi intendere l’unità locale costituita da una stabile organizzazione di mezzi e di persone, aperta al pubblico, dotata di autonomia tecnica e decisionale, che presta in via continuativa servizi e attività di investimento.

Nel contempo, Sez. 1, n. 18155/2020, Amatore, Rv. 658615-01, ha ritenuto che, nel caso di contratti d’investimento stipulati fuori della sede dell’intermediario, ai sensi dell’art. 30 d.lgs. n. 58 del 1998, la circostanza che la sola sottoscrizione del contratto sia avvenuta presso l’abitazione dell’investitore non è sufficiente per qualificare l’offerta come avvenuta fuori sede, occorrendo a tal fine che l’investimento sia stato sollecitato presso il domicilio dell’investitore da un promotore finanziario o da un dipendente della banca intermediaria, tale da sorprendere l’investitore ed indurlo ad aderire ad una proposta non meditata adeguatamente e così far ritenere che la decisione di investimento sia stata assunta fuori sede.

Infine, Sez. 1, n. 09460/2020, Scotti, Rv. 657682-01, ha precisato che, nel vigore dell’art. 36 regolamento Consob n. 11522 del 1998, in caso di collocamento fuori sede di strumenti e di altri prodotti finanziari, la consegna del prospetto informativo redatto dall’emittente e degli altri documenti informativi è adempimento necessario, ma non sufficiente, per soddisfare l’obbligo informativo gravante sull’intermediario, come evidenziato dalla previsione degli ulteriori oneri d’informazione, previsti al comma 1, lett. b) e c), della detta disposizione, dovendo quest’ultimo operare in modo che i clienti siano sempre adeguatamente informati sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o del servizio, la cui conoscenza sia necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento o disinvestimento, con particolare riguardo ai relativi costi e rischi patrimoniali.

10.2. La gestione di portafogli.

Per quanto riguarda la gestione di portafogli, regolata dall’art. 24 T.U.F., assume fondamentale rilievo Sez. 1, n. 23568/2020, Falabella, Rv. 659598-01, ove la S.C. ha nuovamente esaminato le caratteristiche e la funzione del benchmark, evidenziando che quest’ultimo rappresenta la linea d’investimento prescelta dal cliente, in conformità a quanto previsto dall’art. 42 del Regolamento Consob n. 11522 del 1998, e importa la costituzione di obblighi di condotta da parte del gestore, rappresentando un parametro di riferimento coerente con i rischi della gestione, al quale devono essere commisurati i risultati di questa. Anche se non impone al gestore di acquistare titoli nelle proporzioni indicate, il benchmark prescelto costituisce, dunque, un modo per valutare la razionalità e l’adeguatezza dell’attività dell’intermediario, derivandone che, ove la gestione sia risultata in contrasto con il predetto parametro e, quindi, con i rischi contrattualmente assunti dall’investitore, l’intermediario è chiamato a rispondere delle perdite che il cliente abbia subìto in conseguenza (nello stesso senso, Sez. 1, n. 00024/2017, Rv. 643007-01).

In tale quadro, Sez. 1, n. 09024/2020, Falabella, Rv. 657908-01, ha precisato che la valutazione di adeguatezza non attiene soltanto al momento dell’acquisto di titoli, evidenziando che, nel giudizio sulla responsabilità nell’esecuzione del contratto di gestione individuale di patrimoni mobiliari, il gestore è tenuto ad un comportamento diligente per tutta la durata del rapporto, sicché, ove sia contestato il suo inadempimento, è necessario anche valutare se il mantenimento nel portafoglio di titoli precedentemente acquistati, avuto riguardo al mutato scenario del mercato, sia conforme alla linea di investimento indicata dall’investitore e, in termini generali, agli obblighi su di lui gravanti, il quale è altrimenti chiamato a rispondere del danno da lui provocato.

Nel compimento di tale valutazione, ha aggiunto Sez. 1, n. 09024/2020, Falabella, Rv. 657908-02, si deve tenere presente che l’istruzione vincolante impartita dal cliente, non implica, di per sé, approvazione tacita del precedente operato dall’incaricato nel corso della gestione.

Infine, nell’esaminare una fattispecie in cui l’investitore aveva deciso di operare per il tramite di una società fiduciaria, Sez. 1, n. 29410/2020, Acierno, Rv. 660198-01, ha evidenziato che tale società è legittimata ad esperire le azioni contrattuali derivanti dal contratto da lei stipulato per conto del fiduciante, perché il rapporto intercorrente tra quest’ultimo e il fiduciario è assimilabile al mandato senza rappresentanza, aggiungendo che tale legittimazione sussiste anche quando il rapporto fiduciario sia cessato, sempre che riguardi azioni attinenti ad atti o attività compiute durante la vigenza dello stesso.

10.3. Il contratto di swap.

Nel corso dell’anno 2020, le Sezioni Unite della S.C. hanno esaminato con particolare attenzione le caratteristiche proprie dei contratti di swap, approfondendo la disciplina ad essi applicabile nel caso in cui siano stipulati da enti pubblici.

In particolare, è stato chiarito che l’interest rate swap è un contratto derivato, le cui caratteristiche sono: a) è over the counter, vale a dire ha un contenuto fondamentale non eteroregolamentato, ma deciso dalle parti sulla base delle specifiche esigenze dell’interessato; b) è non standardizzato e, quindi, non destinato alla circolazione, essendo privo del requisito della cd. negoziabilità; c) l’intermediario versa in una situazione di naturale conflitto di interessi poiché, assommando le qualità di offerente e di consulente, è tendenzialmente controparte del proprio cliente (Sez. U, n. 08770/2020, Genovese, Rv. 657963-01).

Sono stati, poi, ritenuti elementi essenziali del contratto la data di stipulazione, quella di inizio della decorrenza degli interessi, quelle di scadenza e di pagamento, il capitale di riferimento (cd. nozionale) e i diversi tassi di interesse ad esso applicabili (ancora Sez. U, n. 08770/2020, Genovese, Rv. 657963-01).

Inoltre, si è precisato che la causa dell’interest rate swap, per la cui individuazione non rileva la funzione di speculazione o di copertura in concreto perseguita dalle parti, non coincide con quella della scommessa, ma consiste nella negoziazione e monetizzazione di un rischio finanziario, che si forma nel relativo mercato e che può appartenere o meno alle parti, atteso che tale contratto, frutto di una tradizione giuridica diversa da quella italiana, concerne dei differenziali calcolati su flussi di denaro destinati a formarsi durante un lasso temporale più o meno lungo ed è espressione di una logica probabilistica, non avendo ad oggetto un’entità specificamente ed esattamente determinata (Sez. U, n. 08770/2020, Genovese, Rv. 657963-02).

Ai fini della validità del contratto, è stato, dunque, ritenuto necessario accertare se vi sia un accordo tra intermediario e investitore sulla misura dell’alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti ed oggettivamente condivisi. Tale accordo non si può limitare al mark to market, ossia al costo, pari al valore effettivo del derivato ad una certa data, al quale una parte può anticipatamente chiudere tale contratto o un terzo (estraneo all’operazione) è disposto a subentrarvi, ma deve investire gli scenari probabilistici e concernere la misura qualitativa e quantitativa della menzionata alea e dei costi, pur se impliciti, assumendo rilievo i parametri di calcolo delle obbligazioni pecuniarie nascenti dall’intesa, che sono determinati in funzione delle variazioni dei tassi di interesse nel tempo (Sez. U, n. 08770/2020, Genovese, Rv. 657963-03).

Nell’affrontare la questione relativa all’acquisto di titoli derivati da parte dei comuni, le Sezioni Unite hanno, prima di tutto, evidenziato che la normativa che ne ha autorizzato la conclusione, fino al divieto introdotto dalla l. n. 147 del 2013, ha carattere eccezionale ed è di stretta interpretazione, poiché ha consentito alla P.A. di stipulare contratti che, in quanto aleatori, non avrebbe potuto, di per sé, sottoscrivere. Il riconoscimento della legittimazione dell’Amministrazione a concludere tali contratti deve, pertanto, essere considerato possibile per i soli derivati di copertura, con esclusione di quelli speculativi. Inoltre, deve ritenersi necessario che i menzionati contratti siano stipulati con intermediari finanziari qualificati e che il relativo oggetto sia determinato con precisione, mediante l’indicazione del mark to market, degli scenari probabilistici e dei costi occulti, al fine di ridurre al minimo e di rendere evidente all’ente ogni aspetto di aleatorietà del rapporto, comportando tale caratteristica una rilevante disarmonia nell’ambito delle regole della contabilità pubblica, dal momento che introduce variabili non compatibili con la certezza degli impegni di spesa riportati in bilancio (Sez. U, n. 08770/2020, Genovese, Rv. 657963-04).

Si è poi precisato che, qualora gli enti pubblici, nello stipulare contratti derivati, ricevano importi a titolo di upfront, tali somme rappresentano un finanziamento, che deve essere qualificato come indebitamento, ai fini della normativa di contabilità pubblica e dell’art. 119 Cost. (anche per il periodo antecedente l’approvazione dell’art. 62, comma 9, d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. in l. n. 133 del 2008, successivamente sostituito dall’art. 3 l. n. 203 del 2008, che ha solo preso atto della natura di indebitamento di quanto conseguito con detto upfront), mentre lo stesso non può dirsi della collegata operazione di swap, la quale deve essere guardata nel suo complesso, al fine di verificare se l’effetto che produce può consistere sostanzialmente in un indebitamento (Sez. U, n. 08770/2020, Genovese, Rv. 657963-05).

In tale quadro, si è, infine, affermato che l’autorizzazione alla conclusione di un contratto di swap da parte dei comuni, in particolare se vi è un finanziamento upfront – ma anche in tutti quei casi nei quali la negoziazione si traduce comunque nell’estinzione dei precedenti rapporti di mutuo sottostanti, ovvero nel loro mantenimento in vita, ma con rilevanti modificazioni – deve essere data, a pena di nullità, dal consiglio comunale, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. i), T.U.E.L., non potendo essere assimilata ad un semplice atto di gestione dell’indebitamento dell’ente locale, avente finalità di riduzione degli oneri finanziari ad esso inerenti (di competenza della giunta comunale, in virtù della sua residuale attribuzione gestoria ex art. 48, comma 2, dello stesso testo unico). Tale autorizzazione è, in particolare, di competenza del consiglio comunale, quando l’“IRS” negoziato incida sull’entità globale dell’indebitamento del comune, tenuto conto che la ristrutturazione del debito deve essere accertata considerando l’operazione nel suo complesso, con la ricomprensione dei costi occulti che gravano sul rapporto (Sez. U, n. 08770/2020, Genovese, Rv. 657963-06).

10.4. Il contratto “4You”.

Nel corso del 2020, la S.C. si è nuovamente pronunciata anche sul contratto “4You”, evidenziando che si tratta di un contratto atipico, con il quale una banca eroga al cliente un mutuo, contestualmente impiegato per acquistare, per conto del cliente, strumenti finanziari predeterminati, emessi dalla banca stessa, a loro volta contestualmente costituiti in pegno a garanzia della restituzione del finanziamento concesso, la cui causa concreta risiede nella realizzazione di un lucro finanziario da ricondurre ai “servizi di investimento”, di cui all’art. 1, comma 5, d.lgs. n. 58 del 1998, assimilabile all’analogo contratto “My Way” (Sez. 1, n. 06201/2020, Caradonna, Rv. 657051-01).

La decisione si è limitata a cassare con rinvio la statuizione del giudice di merito, che aveva ritenuto si trattasse di un contratto tipico (erroneamente ricondotto alle ipotesi previste dall’art. 1, comma 6, lett. c) d.lgs. n. 58 del 1998).

Nelle fattispecie in precedenza esaminate, invece, la S.C. ha operato un sindacato sulla valutazione di meritevolezza ex art. 1322 c.c. di tale contratto, che fino ad ora ha escluso (v. Sez. 1, n. 22950/2015, Nazzicone, Rv. 638094-01, con riferimento al contratto “My Way”, e Sez. 1, n. 26057/2017, Marulli, Rv. 646060-01, con riferimento al contratto “4You”; v. anche Sez. 1, n. 25630/2017, Marulli, Rv. 647222-01, sempre in ordine al contratto “4You”).

  • liquidazione di società
  • diritto di prelazione
  • indebitamento
  • fallimento

CAPITOLO XVI

IL DIRITTO DELLE PROCEDURE CONCORSUALI

(di Salvatore Leuzzi, Angelo Napolitano )

Sommario

1 Il fallimento dell’imprenditore: i presupposti. - 1.1 Le società cancellate e l’estensione del fallimento. - 1.2 Il procedimento prefallimentare. - 1.3 I reclami avverso la sentenza di fallimento e il decreto di rigetto. - 2 Gli organi delle procedure concorsuali. - 2.1 I reclami endofallimentari. - 3 Le azioni di inefficacia in generale. - 3.1 Le azioni ex art. 66 l. fall.. - 4 Le revocatorie fallimentari. - 4 I rapporti pendenti. - 5 La formazione dello stato passivo. - 5.1 Le prove documentali. - 5.2 Le prelazioni e le prededuzioni. - 6 Le impugnazioni dei crediti, le opposizioni allo stato passivo e le revocazioni. - 7 La liquidazione dell’attivo. - 8 La chiusura del fallimento e l’esdebitazione. - 9 Il concordato fallimentare. - 10 Il concordato preventivo in generale. - 10.1 L’ammissione alla procedura e la sua revoca. - 10.2 L’omologa, le impugnazioni e l’esecuzione. - 12 La liquidazione coatta amministrativa. - 13 Il sovraindebitamento.

1. Il fallimento dell’imprenditore: i presupposti.

Interessanti pronunce hanno ulteriormente definito il perimetro dei soggetti fallibili.

Si è affermato che l’ente associativo dedito esclusivamente all’attività di formazione professionale sulla base di progetti predisposti dalla regione, dalla quale riceva contributi per la copertura integrale dei costi di organizzazione, non può essere dichiarato fallito, atteso che la gratuità di una simile attività, concretamente assicurata con l’erogazione dei predetti contributi, esclude che l’ente operi in modo che siano remunerati, anche solo in parte, i fattori di produzione con i propri ricavi (Cass., sez. 1, n. 22955/2020, Campese, Rv. 659421-01).

La Corte ha poi chiarito, in tema di intervento del Fondo di garanzia gestito dall’INPS, che il presupposto della non assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore, sia in astratto che in concreto, costituisce una tipica questione pregiudiziale in senso logico rispetto alla domanda giudiziale concernente la prestazione previdenziale, che può essere accertata dal giudice adìto in via incidentale, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., senza che sia necessaria una preventiva verifica da parte del tribunale fallimentare con il concorso degli altri creditori (Cass., sez. L, n. 1887/2020, Cavallaro Rv. 656693-01).

Si è poi soggiunto che quando la società è in liquidazione, la valutazione del giudice, ai fini dell’accertamento dello stato d’insolvenza, deve essere effettuata con riferimento alla situazione esistente alla data della sentenza dichiarativa di fallimento, e deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, e ciò in quanto, non proponendosi l’impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori previa realizzazione delle attività, ed alla distribuzione dell’eventuale residuo tra i soci, non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte (Cass., sez. 6-1, n. 24660/2020, Pazzi, Rv. 659891 - 01).

Sul versante della prova negativa dell’insussistenza dei requisiti per la dichiarazione di fallimento di cui all’art. 1, comma 2, l.fall., è stato posto in evidenza che, sebbene i bilanci degli ultimi tre esercizi depositati ai sensi dell’art. 15, comma 4, l.fall. costituiscano mezzo di prova privilegiato, essi non assurgono a prova legale, sicché il debitore può assolvere all’onere di dimostrare la sua non fallibilità con strumenti probatori alternativi, esemplificativamente avvalendosi delle scritture contabili provenienti dall’impresa, come di qualunque altro documento, anche formato da terzi, suscettibile di fornire la rappresentazione storica dei fatti e dei dati economici e patrimoniali dell’impresa (Cass., sez. 1, n. 25025/2020, Dolmetta, Rv. 659730 - 01).

Un interessante arresto giurisprudenziale ha adombrato che ai fini della dichiarazione di fallimento dell’imprenditore commerciale, l’affitto dell’azienda comporta, di regola, la cessazione della qualità di imprenditore, salvo l’accertamento in fatto che l’attività d’impresa sia, invece, proseguita in concreto, non essendo sufficiente affermare la compatibilità tra affitto di azienda e prosecuzione dell’impresa, la quale va positivamente accertata dal giudice di merito (Cass., sez. 6-1, n. 7311/2020, Nazzicone, Rv. 657557-01).

1.1. Le società cancellate e l’estensione del fallimento.

La Corte ha affermato che in caso di trasformazione di una società di capitali in comunione di azienda, i creditori muniti di titolo anteriore alla trasformazione beneficiano dell’originario regime di responsabilità della società, la quale nel termine di cui all’art. 10 l.fall. potrà essere dichiarata fallita, dovendo escludersi che l’opposizione dei creditori, ex art. 2500 novies c.c., costituisca un rimedio sostitutivo al fallimento, trattandosi piuttosto di uno strumento aggiuntivo che appronta una tutela di intensità inferiore (Cass., sez. 1, n. 23174/2020, Dolmetta, Rv. 659277-01).

I giudici nomofilattici hanno anche ritenuto che in ipotesi di trasformazione cd. “regressiva” di una società a responsabilità limitata in una società semplice, sottratta al fallimento, con conseguente cancellazione della società trasformata dalla sezione ordinaria del registro delle imprese ed iscrizione in quella speciale di cui all’art. 2 del d.P.R. n. 558 del 1999, il termine annuale di cui all’art. 10 L. FALL. va sempre calcolato dalla data della cancellazione dalla sezione ordinaria del registro (Cass., sez. 1, n. 10302/2020, Di Marzio, Rv. 657714-01).

Si è evidenziato che anche la società scissa è assoggettabile al fallimento, in quanto la previsione della responsabilità solidale delle beneficiarie, ex artt. 2506 bis, comma 3, e 2506 quater c.c., non vale ad escludere che essa risponda per i propri debiti (Cass., sez. 1, n. 4737/2020, Dolmetta, Rv. 658121-01).

Tuttavia, con riferimento alla dichiarazione di fallimento in presenza di una scissione di società totalitaria, verificandosi un fenomeno di tipo successorio tra soggetti distinti e dunque l’estinzione della società scissa, trova applicazione la regola di cui all’art. 10 l. fall., per cui il fallimento di quest’ultima potrà essere pronunciato entro un anno dalla sua cancellazione dal registro delle imprese (Cass., sez. 1, n. 11984/2020, Amatore, Rv. 657960-01).

Di converso, ai fini del rispetto del termine previsto dall’art. 10 l.fall., l’iscrizione nel registro delle imprese del decreto con cui il giudice del registro, ai sensi dell’art. 2191 c.c., ordina la cancellazione della pregressa cancellazione della società già iscritta, fa presumere fino a prova contraria la continuazione dell’attività d’impresa, atteso che il rilievo di regola solo dichiarativo della pubblicità comporta che l’iscrizione del detto decreto rende opponibile ai terzi l’insussistenza delle condizioni che avevano dato luogo alla cancellazione della società alla data in cui questa era stata iscritta e determina altresì, con effetto retroattivo, il venir meno dell’estinzione della società per non essersi questa effettivamente verificata (Cass., sez. 6-1, n. 22290/2020, Terrusi, Rv. 659007-01).

È stato, inoltre, precisato che il termine di un anno, entro il quale l’imprenditore individuale che abbia cessato la sua attività può essere dichiarato fallito ai sensi dell’art. 10 l. fall., decorre esclusivamente dalla cancellazione dal registro delle imprese e senza possibilità per l’imprenditore medesimo di dimostrare il momento anteriore dell’effettiva cessazione dell’attività, sicché la pregressa cancellazione dall’albo dei trasportatori non è idonea a far decorrere il termine annuale per la dichiarazione di fallimento (Cass., sez. 6-1, n. 17377/2020, Acierno, Rv. 658715-01).

Utile la sottolineatura in base alla quale, il combinato disposto degli artt. 2495 c.c. e 10 l. fall. impedisce all’imprenditore individuale volontariamente cancellatosi dal registro delle imprese, di cui, entro l’anno dalla cancellazione, sia domandato il fallimento, di richiedere l’ammissione al concordato preventivo, trattandosi di procedura che, diversamente dal fallimento, caratterizzato da finalità solo liquidatorie, tende piuttosto alla risoluzione della crisi d’impresa, sicché l’intervenuta e consapevole scelta di cessare l’attività imprenditoriale, necessario presupposto della cancellazione, preclude “ipso facto” l’utilizzo della procedura concordataria per insussistenza del bene al cui risanamento essa dovrebbe mirare (Cass., sez. 1, n. 4329/2020, De Marzo, Rv. 657075-01).

Proprio per i motivi enunciati nell’arresto testé citato, è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per contrarietà agli artt. 3 e 24 Cost., del combinato disposto degli artt. 2495 c.c. e 10 l. fall., nella parte in cui impedisce al liquidatore della società cancellata dal registro delle imprese, di cui, entro l’anno dalla cancellazione, sia domandato il fallimento, di chiedere l’accesso al concordato preventivo. Inoltre, l’istanza concordataria non può essere intesa come uno dei mezzi attraverso i quali si esplica il diritto di difesa del fallendo in sede di istruttoria fallimentare (Cass., sez. 6-1, n. 12045/2020, Vella, Rv. 658208-01).

Per quanto riguarda la posizione dei soci illimitatamente responsabili, si è precisato che l’art. 147, comma 5, l. fall. trova applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito e uno o più soci occulti, ma, in virtù di una sua interpretazione estensiva, anche laddove il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone (cd. supersocietà di fatto), non assoggettata ad altrui direzione e coordinamento, la cui sussistenza, però, postula la rigorosa dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che deve essere conforme, e non contrario, all’interesse dei soci, dovendosi ritenere che la circostanza che le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche solo di fatto, costituisca, piuttosto, una prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto (Cass., sez. 1, n. 7903/2020, Terrusi, Rv. 658600-01).

Si è anche osservato che il fallimento personale del socio illimitatamente responsabile, pur presentando una relativa autonomia rispetto a quello della società, potendo il singolo socio contestare la propria appartenenza alla compagine societaria ovvero l’ingerenza nella sua gestione, costituisce un effetto dipendente ed accessorio rispetto all’apertura del fallimento sociale, onde la revoca di quest’ultimo comporta automaticamente la revoca di quello personale, anche in mancanza di un’impugnazione da parte del socio. Ne consegue che, se passa in giudicato la sentenza con la quale la corte di appello revoca la dichiarazione di fallimento della società, deve essere revocata anche la dichiarazione di fallimento in estensione pronunciata nei confronti del socio (Cass., sez. 1, n. 22956/2020, Campese, Rv. 659422-01).

Il carattere “riflesso” della dichiarazione di fallimento in estensione dei soci illimitatamente responsabili rispetto alla dichiarazione di fallimento della società si coglie anche con riferimento all’istituto dell’esdebitazione. L’ambito soggettivo di quest’ultima, per quanto circoscritto dall’art. 142 l. fall. al fallito persona fisica, deve essere esteso anche al socio illimitatamente responsabile di una società, fallito in estensione. Ne consegue che, al fine di valutare il presupposto di cui al comma 2 del citato art. 142 l. fall., ossia l’avvenuto soddisfacimento almeno in parte dei creditori concorsuali, occorre considerare che tali sono, per il socio fallito in estensione, anche e necessariamente quelli della società, in quanto, pur rimanendo distinte le diverse procedure, il credito dichiarato dai creditori sociali nel fallimento della società si intende dichiarato per intero anche nel fallimento dei singoli soci (Cass., sez. 6-1, n. 16263/2020, Terrusi, Rv. 658713-01).

1.2. Il procedimento prefallimentare.

È giunta utile la precisazione per la quale, allorquando l’istanza di fallimento sia stata depositata dinanzi ad un ufficio giudiziario diverso da quello innanzi al quale sia già pendente una domanda di concordato preventivo, l’obiettivo della gestione coordinata dei due procedimenti può essere conseguito sollecitando il tribunale successivamente adìto all’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 39, comma 2, c.p.c., che in ogni caso, in ossequio ai princìpi generali, e vieppiù nell’ottica di garantire preferibilmente la soluzione negoziale della crisi, debbono essere adottati anche di ufficio; è onere del debitore impugnare, nei limiti in cui ciò sia consentito, tutti i provvedimenti adottati, anche in rito, che possano ostacolare il preliminare esame della domanda di concordato preventivo da lui proposta, atteso che l’eventuale accoglimento del reclamo ex art. 18 L. FALL. contro la sentenza di fallimento, di cui si pretenda l’illegittimità a causa del mancato preventivo esame della domanda concordataria, presuppone che quest’ultima sia ancora “sub iudice” (Cass., sez. 1, n. 4343/2020, Campese, Rv. 657079-03).

Parallelamente, si è affermato che ove la domanda di concordato preventivo ed il procedimento prefallimentare siano pendenti dinanzi ad uffici giudiziari diversi, ferma la regola della continenza ex art. 39, comma 2, c.p.c., è onere del debitore che conosce della pendenza dell’istruttoria prefallimentare, anteriormente introdotta, proporre la domanda di concordato preventivo dinanzi al tribunale investito dell’istanza di fallimento, anche quando lo ritenga incompetente, affinché i due procedimenti confluiscano dinanzi al medesimo tribunale, e senza che una siffatta condotta determini acquiescenza ad una eventuale violazione dell’art. 9 L. FALL. (Cass., sez. 1, n. 4343/2020, Campese, Rv. 657079-02).

Ancora, al fine di garantire il più stretto coordinamento possibile tra una procedura tesa, come il concordato preventivo, alla soluzione negoziale della crisi e il procedimento volto alla dichiarazione di fallimento, si è affermata la opportunità che le due procedure, ove siano contemporaneamente pendenti dinanzi ad uno stesso ufficio giudiziario, siano riunite ex art. 273 c.p.c., anche di ufficio, consentendo la riunione di raggiungere l’obiettivo della gestione coordinata delle stesse (Cass., sez. 1, n. 4343/2020, Campese, Rv. 657079-01).

Sempre in tema di rapporti tra la composizione negoziale della crisi d’impresa ed il procedimento per la dichiarazione di fallimento, è stato affermato che la mera presentazione di una richiesta di concessione di un termine ex art. 161, commi 6 e 10, L. FALL. costituisce un fatto neutro inidoneo di per sé a dimostrare la volontà del debitore di sfuggire alla dichiarazione di fallimento, giacché il mero differimento del procedimento prefallimentare che ne discende rimane neutralizzato dal fenomeno di consecuzione delle procedure concorsuali; nondimeno, la circostanza della presentazione della domanda anticipata di concordato all’ultimo momento utile può concorrere a dimostrare, unitamente ad altri elementi atti a rappresentare in termini abusivi il quadro d’insieme in cui l’iniziativa è stata assunta, il perseguimento di finalità dilatorie del tutto diverse dall’intenzione di regolare la crisi d’impresa (Cass., sez. 1, n. 7117/2020, Pazzi, Rv. 657492-02).

D’altra parte, è altrettanto vero che la consecuzione tra il concordato preventivo e il fallimento non rileva a tutti i possibili effetti regolativi dell’insolvenza: l’art. 150 del d.lgs. n. 5 del 2006, nel prevedere che le procedure fallimentari e di concordato pendenti alla data di entrata in vigore del decreto medesimo restano soggette alla legge fallimentare anteriore, valorizzano in via esclusiva, ai fini dell’applicazione delle nuove disposizioni, la data di deposito di ricorso per la dichiarazione di fallimento, senza che assuma alcun rilievo, sul piano della disciplina processuale applicabile, l’eventuale consecuzione tra procedure. Ne consegue che se il fallimento in consecuzione sia stato dichiarato dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, si applica la norma sulla decadenza dalle azioni revocatorie di cui all’art. 69 bis L. FALL., nonostante che la domanda di concordato preventivo fosse stata depositata prima dell’entrata in vigore della novella alla legge fallimentare (Cass., sez. 1, n. 6506/2020, Federico, Rv. 657485-01).

Di valenza chiarificatrice la sottolineatura per cui l’attuale formulazione dell’art. 6 L. FALL., nell’escludere l’iniziativa d’ufficio del tribunale, implica che il giudice possa pronunciarsi nel merito solo in presenza di iniziativa proposta da soggetto legittimato e a condizione che la domanda non sia rinunciata, sicché in caso di accertamento dell’insussistenza del credito in capo al ricorrente, la sua carenza di legittimazione impone una pronuncia in rito di inammissibilità (Cass., sez. 6-1, n. 5312/2020, Falabella, Rv. 657229-01).

Sempre in tema di legittimazione all’istanza di fallimento, si è affermato recentemente che “il fideiussore che, escusso dal creditore garantito, non abbia provveduto al pagamento del debito, non è legittimato, ai sensi dell’art. 6 l. fall., a proporre l’istanza di fallimento contro il debitore principale per il solo fatto di averlo convenuto in giudizio con l’azione di rilievo ex art. 1953 c.c., atteso che tale azione non lo munisce di un titolo astrattamente idoneo ad attribuirgli la qualità di creditore concorsuale in caso di apertura del fallimento; deve escludersi, per altro verso, che il diritto del fideiussore al regresso (o alla surrogazione nella posizione del creditore principale) possa sorgere, ancorché in via condizionale, anteriormente all’adempimento dell’obbligazione di garanzia (Cass., sez. 1, n. 25317/2020, Ferro, Rv…).

Sul piano della regolarità del rito, si è evidenziato che la notifica del ricorso per la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, con il pedissequo decreto di convocazione ex art. 15 l. fall., è ritualmente eseguita nei confronti della persona fisica dell’imprenditore, secondo le regole di cui agli artt. 138 e ss. c.p.c., attesa la totale identificazione esistente tra quest’ultimo e l’impresa (Cass., sez. 6-1, n. 2345/2020, Campese, Rv. 656984-01).

Ancora in ambito di notifica, si è rilevato che il ricorso per la dichiarazione di fallimento può essere notificato alla società cancellata dal registro delle imprese e già in liquidazione, ai sensi dell’art. 15, comma 3, L. FALL. (nel testo successivo alle modifiche apportategli dall’art. 17 del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., dalla legge n. 221 del 2012), all’indirizzo di posta elettronica certificata dalla stessa in precedenza comunicato al registro delle imprese (Cass., sez. 6-1, n. 18544/2020, Campese, Rv. 658998-01).

Nel medesimo contesto si è considerato che in materia di notificazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento, ai sensi dell’art. 15 l. fall., una volta che la notificazione a cura della cancelleria all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore sia risultata impossibile o non abbia avuto esito positivo, l’onere della notificazione ricade definitivamente sul ricorrente, sicché, ove sia stata disposta la rinnovazione della notificazione da questi eseguita, essa è effettuata a cura del ricorrente medesimo, senza che debba essere preceduta da un nuovo tentativo di notificazione a cura della cancelleria all’indirizzo di posta elettronica certificata dal debitore (Cass., sez. 1, n. 10511/2020, Di Marzio, Rv. 657895-01).

Saliente anche la statuizione per cui l’art. 15, comma 3, L. FALL. (nel testo novellato dall’art. 17 del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. dalla legge n. 221 del 2012), nel prevedere che la notificazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento alla società può essere eseguita tramite PEC all’indirizzo della stessa e, in caso di esito negativo, presso la sua sede legale come risultante dal registro delle imprese, oppure, qualora neppure questa modalità sia andata a buon fine, mediante deposito dell’atto nella casa comunale della sede iscritta nel registro, introduce una disciplina speciale semplificata che esclude l’applicabilità della disciplina ordinaria prevista dall’art. 145 c.p.c. per le ipotesi di irreperibilità del destinatario della notifica (Cass., sez. 6-1, n. 5311/2020, Falabella, Rv. 657226-01).

Ai fini della rituale instaurazione del contraddittorio in ordine all’istanza di fallimento proposta nei confronti di una società di capitali della quale sia stato deliberato lo scioglimento senza che si sia provveduto alla designazione del liquidatore, non è necessaria la nomina del liquidatore giudiziario di cui all’art. 2487 c.c. e all’art. 15, comma 8, l. fall., novellato dall’art. 2 del d.lgs. n. 169 del 2007, nomina alla cui richiesta sono legittimati i soci, gli amministratori e i sindaci, non anche i terzi. Ai terzi che intendano presentare l’istanza di fallimento è sufficiente provocare la nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c., il quale è legittimato a resistere all’istanza medesima, non implicando tale resistenza il compimento di attività di gestione, al di fuori di quella, che l’art. 78 c.p.c. commette allo stesso curatore, volta a promuovere il ripristino della rappresentanza legale dell’ente (Cass., sez. 6-1, n. 18544/2020, Campese, Rv. 658998-02).

Nell’ambito del procedimento prefallimentare, la valutazione della ricorrenza delle particolari ragioni d’urgenza, che giustificano l’abbreviazione del termine per la comparizione del debitore, compete solo al presidente del tribunale (ovvero al presidente di sezione tabellarmente designato per l’adozione di tali provvedimenti) il quale può disporla ance d’ufficio, per la particolare natura dell’istruttoria prefallimentare, non riducibile ad un processo tra parti contrapposte, in quanto idonea a dar luogo (nel caso di accoglimento della domanda) ad un accertamento costitutivo valevole “erga omnes”: tuttavia, la facoltà di abbreviare i termini per la comparizione del debitore è delegabile al giudice incaricato dell’esame del ricorso di fallimento dal presidente del tribunale, come previsto dal combinato disposto dei commi terzo e quinto dell’art. 15 L. FALL. (Cass., sez. 1, n. 8611/2020, Solaini, Rv. 657902-01).

Con riferimento all’istruttoria prefallimentare si è acclarato che le disposizioni di cui agli artt. 214 e ss. c.p.c., sul riconoscimento e la verificazione della scrittura privata, non sono applicabili, tenuto conto del carattere sommario e camerale che tale procedimento ha conservato anche dopo la riforma della legge fallimentare e degli ampi poteri istruttori officiosi che spettano al giudice, sicché il tribunale può accertare la genuinità della scrittura privata anche d’ufficio e con ogni mezzo (Cass., sez. 6-1, n. 15645/2020, Dolmetta, Rv. 658709-01).

La sentenza dichiarativa di fallimento produce rilevanti effetti processuali sui giudizi in corso in cui è parte il debitore dichiarato fallito. In particolare, la legge dispone, in via generale, che l’apertura del fallimento determini l’interruzione del processo (art. 43, comma 3, l. fall.), il quale potrà essere riassunto su iniziativa del curatore o della controparte: l’interruzione avviene automaticamente senza che l’evento interruttivo debba essere dichiarato in udienza dal difensore del fallito (art. 300 c.p.c.); non possono inoltre essere iniziate o proseguite le azioni esecutive o cautelari sui beni compresi nel fallimento, ancorché per crediti maturati nel corso dello stesso (art. 51 l. fall.), fatte salve le ipotesi espressamente stabilite dalla legge (art. 41, comma 2, T.U.B.). Il termine per la riassunzione di cui all’art. 305 c.p.c. decorre dalla dichiarazione o notificazione dell’evento interruttivo secondo la previsione dell’art. 300 c.p.c., ovvero, se anteriore, dalla conoscenza legale di detto evento procurata dal curatore del fallimento alle parti interessate (Cass., sez. 1, n. 2658/2019, Di Marzio, Rv. 65254601). La comunicazione da parte del curatore può anche essere fatta a mezzo pec, trattandosi di uno dei mezzi all’uopo consentiti dalla legge, ma questa deve avere specificamente ad oggetto il processo nel quale l’evento esplica i suoi effetti e deve essere diretta al procuratore che assiste la parte costituita non colpita dall’evento nel giudizio in cui la conoscenza legale dell’interruzione viene in rilievo (Cass., sez. 3, n. 12890/2020, Iannello, Rv. 658021-01).

Di notevole riflesso pratico la decisione in base alla quale la desistenza del creditore istante, non accompagnata dall’estinzione dell’obbligazione, in quanto atto di natura meramente processuale rivolto, al pari della domanda iniziale, al giudice, è inidonea a spiegare i propri effetti qualora venga depositata allorché il procedimento prefallimentare sia stato definito con la deliberazione della decisione, anche se questa non sia stata ancora pubblicata (Cass., sez. 6-1, n. 13187/2020, Falabella, Rv. 658075-01).

È stato anche chiarito che non sussiste una violazione del principio dell’immutabilità del collegio, inteso unicamente ad assicurare che i giudici che pronunciano la sentenza siano gli stessi che hanno assistito alla discussione della causa, qualora la composizione del tribunale che pronuncia la sentenza dichiarativa di fallimento sia diversa da quella indicata nel decreto di fissazione dell’udienza collegiale ex art. 15 L. FALL. (Cass., sez. 6-1, n. 9208/2020, Di Marzio, Rv. 657790-01).

Si è poi osservato che la dichiarazione di fallimento presuppone un’autonoma delibazione incidentale, da parte del tribunale fallimentare, compatibilmente con il carattere sommario del rito, circa la sussistenza del credito dedotto a sostegno dell’istanza, quale necessario postulato della verifica della legittimazione del creditore a chiedere il fallimento. In tale ambito il giudice deve valutare non solo le allegazioni e le produzioni della parte istante ma anche i fatti rappresentati dal debitore che valgano a dimostrare l’insussistenza dell’obbligazione addotta o la sua intervenuta estinzione (Cass., sez. 6-1, n. 23494/2020, Pazzi, Rv. 659433-01).

1.3. I reclami avverso la sentenza di fallimento e il decreto di rigetto.

Si è ritenuta l’inammissibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., rivolto nei confronti del provvedimento con il quale la corte di appello abbia dichiarato non reclamabile il rigetto dell’istanza formulata dal ricorrente, ai sensi dell’art. 19 l. fall.., di sospensione della liquidazione dell’attivo, in attesa della definizione del reclamo avverso la sentenza di fallimento, trattandosi di provvedimento in tutto equiparabile all’ordinanza, non impugnabile, ed in quanto priva di decisorietà, non ricorribile per cassazione, emessa ai sensi degli artt. 283 e 351 c.p.c., sull’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza di primo grado (Cass., sez. 1, n. 11887/2020, Vella, Rv. 657958-01).

Si è appurato che in caso di reclamo avverso la sentenza di fallimento, qualora il reclamato non compaia in udienza o si costituisca irritualmente, il giudice, verificata la regolarità del contraddittorio, deve decidere il reclamo nel merito, non potendosi far discendere dalle predette circostanze il disinteresse processuale della parte a coltivare la domanda di fallimento (Cass., sez. 1, n. 7121/2020, Amatore, Rv. 657487-01, in una fattispecie in cui il P.G. presso la corte di appello, quale reclamato, non era comparso in udienza nel giudizio di reclamo).

Si è reputato che avverso la sentenza dichiarativa di fallimento è esclusa l’esperibilità dell’opposizione del terzo, ex art. 404, comma 1 c.p.c., in quanto detto rimedio è assorbito in quello di carattere generale previsto dall’art. 18 l. fall., proponibile, oltre che dal debitore fallito, anche da “qualunque interessato” (Cass., sez. 1, n. 4786/2020, Di Marzio, Rv. 657031-01).

È stato posto in luce che il difetto di legittimazione attiva ad instare per la dichiarazione di fallimento è tardivamente eccepito qualora, ancorché conosciuto (se del caso in conseguenza dell’approvazione dello stato passivo), non sia stato tempestivamente sollevato con il reclamo ex art. 18 l. fall., ma affidato a successive note; né tale difetto è rilevabile d’ufficio qualora sussista una anteriore statuizione implicita del tribunale fallimentare su cui si sia formato il giudicato interno (Cass., sez. 21144/2020, Fidanzia, Rv. 658980-01).

È stato posto in apice che la sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale, prevista dall’art. 1 della legge n. 742 del 1969, non si applica (ai sensi del successivo art. 3 della citata legge, in relazione all’art. 92 dell’ordinamento giudiziario, approvato con r.d. n. 12 del 1941) alle “cause inerenti alla dichiarazione e revoca del fallimento”, senza alcuna limitazione o distinzione fra le varie fasi ed i diversi gradi del giudizio (Cass., sez. 6-1, n. 24019/2020, Vella, Rv. 659594 - 01).

In tema di effetti del giudizio di rinvio su quello per la dichiarazione di fallimento, è stato reputato che ove la sentenza di rigetto del reclamo contro la sentenza dichiarativa, di cui all’art. 18 l.fall., sia stata cassata con rinvio e il processo non sia stato riassunto nel termine prescritto, trova piena applicazione la regola generale di cui all’art. 393 c.p.c., alla stregua della quale alla mancata riassunzione consegue l’estinzione dell’intero processo e, quindi, anche l’inefficacia della sentenza di fallimento (Cass., sez. 1, n. 3022/2020, Terrusi, Rv. 657053-01).

Con riguardo al caso di mancata proposizione di autonoma impugnazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7 Cost., avverso il decreto della corte di appello di revoca dell’omologazione del concordato preventivo, è stato ritenuto che il debitore possa legittimamente proporre le proprie doglianze in merito nel giudizio di impugnazione della sentenza di fallimento successivamente pronunciata dal tribunale, a seguito della rimessione degli atti da parte della corte di appello ai sensi dell’art. 22, comma 4, l. fall., in quanto i rapporti tra i due procedimenti si atteggia come di consequenzialità (eventuale del fallimento) e di assorbimento dei vizi del provvedimento di rigetto in motivi di impugnazione del successivo fallimento (Cass., sez. 1, n. 11354/2020, Amatore, Rv. 657913-01). Con la pronuncia in commento la Suprema Corte è tornata, in definitiva, sulla controversa questione del regime di impugnazione applicabile ai provvedimenti emessi nell’ambito della procedura di concordato preventivo, nonché sulla problematica, ad essa strettamente correlata, dei rapporti tra la procedura concordataria e la dichiarazione di fallimento. Il Supremo consesso ha avuto modo di affermare che il provvedimento reso dalla Corte d’appello all’esito del procedimento di reclamo ex art. 183 l. fall. è impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, cost. solo allorché al suddetto provvedimento non faccia seguito la dichiarazione di fallimento, dal momento che, sopravvenuta quest’ultima, a discenderne è l’improcedibilità del giudizio di omologazione in corso, con la conseguenza che i motivi di impugnazione avverso la declaratoria di inammissibilità della domanda concordataria o avverso il diniego dell’omologazione del concordato devono necessariamente essere dedotti in sede di reclamo ex art. 18 l. fall. nei confronti della sentenza dichiarativa di fallimento, in conformità a quanto previsto dagli artt. 162, ult. comma, e 183, ult, comma, l. fall..

In forza di quest’ultimo principio, ritenuto applicabile anche all’ipotesi – che ricorreva nel caso in esame - di revoca dell’omologazione del concordato con conseguente dichiarazione di fallimento ex art. 173, comma 2 , l. fall., la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, con la quale la corte territoriale, nel respingere il reclamo ex art. 18 l. fall . proposto dalla ricorrente, aveva omesso di pronunciarsi sulle censure da questa formulate in merito all’omologabilità del concordato.

2. Gli organi delle procedure concorsuali.

La Corte ha stabilito che sussiste la competenza funzionale del tribunale fallimentare e non della sezione specializzata in materia di impresa, nel caso di azione promossa dal curatore tesa all’accertamento della simulazione dell’assegnazione di partecipazioni sociali della società fallita ai soci in occasione del loro recesso, in quanto, avuto riguardo al “petitum” e alla “causa petendi”, la stessa non attiene a situazioni rilevanti sulla vita sociale, vale a dire a vicende di governo interno ovvero inerenti alla persona del singolo socio nei suoi rapporti con la società, con gli organi societari e con gli altri soci (Cass., sez. 6-1, n. 9224/2020, Marulli, Rv. 657678-01).

La “vis” attrattiva del tribunale fallimentare, funzionalmente competente ai sensi dell’art. 24 l. fall., emerge anche nel caso in cui il debitore ceduto sia stato dichiarato fallito e la curatela contesti l’opponibilità al fallimento della cessione del credito tra il cedente e il cessionario o, in subordine, deduca la revocabilità della stessa (Cass., sez. 3, n. 11287/2020, Rossetti, Rv. 658155-01).

Di converso, è stato affermato che l’opposizione a precetto ex art. 615 c.p.c., promossa dall’imprenditore “in bonis” che, in corso di giudizio, sia stato dichiarato fallito, non rientra, ai sensi dell’art. 24 l. fall., nella competenza funzionale del tribunale fallimentare, trattandosi di un’azione inerente ad un diritto già esistente nel patrimonio del fallito anteriormente alla declaratoria della sua insolvenza, che si sottrae alle regole della concorsualità (Cass., sez. 6-3, n. 21009/2020, Pellecchia, Rv. 659154-01).

Con riferimento, poi, alla giurisdizione, in materia di incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili, è il giudice ordinario che si deve pronunciare sulla controversia tra il gestore del servizio energetico e il fallimento della società di produzione energetica, qualora la materia del contendere non riguardi le tariffe, il criterio della loro quantificazione o la concessione degli incentivi, ma soltanto l’opponibilità o meno alla procedura fallimentare della cessione di crediti inerenti agli incentivi concessi, in correlazione alla produzione anzidetta, per il periodo successivo alla dichiarazione da parte della curatela del fallimento di voler subentrare nel rapporto; né è idonea ad incidere sull’individuazione dell’autorità giurisdizionalmente competente la proposizione dell’eccezione riconvenzionale del gestore in punto di giurisdizione, in quanto quest’ultima è determinata solo in base al “petitum” sostanziale, che non muta in seguito all’eccezione in parola (Cass., Sez. U., n. 7560/2020, Rubino, Rv. 657472-01).

Tra i compiti del giudice delegato vi è quello di autorizzare le azioni giudiziarie del curatore. L’autorizzazione a promuovere un’azione giudiziaria, conferita dal giudice delegato al curatore del fallimento, si estende, secondo la Corte, senza bisogno di specifica menzione, a tutte le possibili pretese ed istanze strumentalmente pertinenti al conseguimento dell’obiettivo del giudizio cui si riferisce (Cass., sez. 6-1, n. 24651/2020, Dolmetta, Rv…).

La mancanza di autorizzazione del giudice delegato al curatore perché intraprenda un giudizio, concernendo un’attività svolta nell’esclusivo interesse del fallimento procedente, è suscettibile di sanatoria con effetto “ex tunc”, anche mediante successiva autorizzazione nel corso del processo, purché l’inefficacia degli atti non sia stata nel frattempo già accertata e sanzionata dal giudice (Cass., sez. 6-1, n. 12252/2020, Di Marzio, Rv. 658060-01).

Con riferimento al curatore si è evidenziato che il decreto di liquidazione del compenso deve essere specificamente motivato in ordine alle opzioni discrezionali adottate dal giudice di merito così come demandategli dall’art. 39 l.fall. e dalle norme regolamentari ivi richiamate, con conseguente nullità del decreto predetto qualora lo stesso risulti del tutto privo di motivazione, ovvero corredato di parte motiva soltanto apparente, denunciabile con ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost.; la motivazione tuttavia può anche essere implicita, ossia integrata dal contenuto dell’istanza e dai relativi allegati, ma con richiami espliciti ai parametri applicati, non bastando il mero richiamo all’istanza del curatore, se privo dei caratteri in concreto adottati (Cass., sez. 1, n. 3871/2020, Ferro, Rv. 657057-01).

Ai fini della liquidazione del compenso in parola non può ricomprendersi, ad avviso della Corte, nel concetto di “attivo realizzato”, alla cui entità ragguagliare le percentuali previste dal d.m. n. 30 del 2012, il valore dell’immobile liquidato nella procedura esecutiva promossa dal creditore fondiario, a meno che il curatore non sia intervenuto nell’esecuzione svolgendo un’attività diretta a realizzare una concreta utilità per la massa dei creditori, anche mediante la distribuzione a questi ultimi di una parte del ricavato della vendita (Cass., sez. 6-1, n. 1175/2020, Caiazzo, Rv. 656682-01).

L’art. 38 l. fall. prevede l’azione di responsabilità nei confronti del curatore revocato. L’esercizio di tale azione comporta, secondo il giudice nomofilattico, una valutazione della condotta dell’organo gestorio secondo il paradigma della diligenza “qualificata” di cui all’art. 1176, comma 2 c.c., avuto riguardo alla natura professionale dell’incarico svolto, sia pure con la facoltà di avvalersi, a fronte di problemi tecnici di particolare difficoltà, della limitazione di responsabilità di cui all’art. 2236 c.c., palesandosi, di contro, irrilevante, ai fini esimenti, l’eventuale autorizzazione resa al curatore dal giudice delegato (Cass., sez. 1, n. 13597/2020, Vella, Rv. 658238-01).

Il curatore fallimentare è un pubblico ufficiale, per quanto attiene all’esercizio delle sue funzioni (art. 30 l. fall.). Ne consegue che le sue attestazioni hanno valore di prova privilegiata ex art. 2700 c.c. quando abbiano per oggetto fatti da lui compiuti o che egli attesta essere avvenuti in sua presenza, ma non quando riguardino circostanze conosciute attraverso l’esame della documentazione dell’imprenditore dichiarato fallito, con la conseguenza che, ove l’amministrazione finanziaria emetta un avviso di accertamento a seguito del disconoscimento di una nota di variazione intestata alla società fallita per fatture non pagate, anch’esse intestate alla società, le dichiarazioni del curatore fondate sull’esame di tali documenti non fanno piena prova del mancato pagamento (Cass., sez. 6-5, n. 21994/2020, D’Aquino, Rv…)

2.1. I reclami endofallimentari.

Si è precisato che il decreto emesso dal tribunale in sede di reclamo, ai sensi dell’art. 36, comma 2 l. fall., sul provvedimento reso dal giudice delegato in ordine all’impugnativa del programma di liquidazione adottato dal curatore non ha natura definitiva e decisoria, in quanto non incide con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale, rientrando viceversa tra i provvedimenti di controllo sull’esercizio del potere amministrativo del curatore, espresso attraverso un atto avente funzione pianificatrice e di indirizzo; ne consegue che il decreto non è impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. (Cass., sez. 1, n. 4346/2020, Amatore, Rv. 657080-01).

Si posto in risalto che il decreto del tribunale fallimentare reso in sede di reclamo avverso il provvedimento del giudice delegato di autorizzazione alla vendita ha carattere decisorio, restando così suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., quando esso provveda su contestazioni in ordine alla legittimità di provvedimenti del giudice delegato incidenti su diritti soggettivi di natura sostanziale e non meramente processuale, connessi alla regolarità procedurale della liquidazione dell’attivo (Cass., sez. 6-1, n. 21963/2020, Pazzi, Rv. 659006-01).

È stato chiarito che ai sensi dell’art. 26 l. fall., nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2006, la comunicazione a cura della cancelleria del decreto reso dal tribunale è sufficiente a far decorrere il termine di sessanta giorni per la proposizione, ai sensi dell’art. 111 Cost., del ricorso straordinario per cassazione (Cass., sez. 1, n. 23173/2020, Mercolino, Rv. 659520-01).

3. Le azioni di inefficacia in generale.

Si è ritenuto che i pagamenti avvenuti dopo il fallimento e riconducibili, anche indirettamente, al fallito, perché effettuati con suo denaro, su suo incarico ovvero in suo luogo, sono inefficaci, ai sensi dell’art. 44 l. fall., e le conseguenti domande di accertamento della loro inefficacia e di restituzione delle somme indebitamente versate in violazione della “par condicio creditorum” vanno proposte nei confronti dell’ “accipiens”, che è l’unico legittimato passivo, essendo l’effettivo beneficiario dell’atto solutorio, e non contro il soggetto eventualmente incaricato dal medesimo fallito della sua esecuzione (Cass., sez. 3, n. 7477/2020, Olivieri, Rv. 657470-02). In buona sostanza, l’inefficacia dei pagamenti effettuati dal debitore post fallimento è posta a tutela della par condicio creditorum: l’azione di cui all’art. 44 l. fall. neutralizza la possibilità che il beneficiario eluda il procedimento d’accertamento del passivo ed al pari che si avvantaggi di un soddisfacimento integrale del proprio credito. Ai fini della legittimazione passiva, il destinatario dell’azione dichiarativa di inefficacia ai sensi della richiamata norma in relazione ai pagamenti effettuati dal debitore dopo l’apertura del concorso deve essere individuato, esclusivamente, nell’accipiens. Infatti, rimane estraneo alla domanda “restitutoria” della curatela il soggetto incaricato dal debitore di eseguire i pagamenti dedotti, egli agendo nell’interesse del fallito e, dunque, non ricevendo dal medesimo alcun correlato, diretto pagamento.

Rimane, così, da ultimo, estraneo alla proponibile azione restitutoria l’istituto bancario, quale soggetto contrattualmente incaricato dal debitore di eseguire i pagamenti dallo stesso stabiliti, dunque agendo in nome e nell’interesse dell’imprenditore fallito.

Si è statuito che in caso di fallimento del debitore già assoggettato ad espropriazione presso terzi, il pagamento eseguito dal “debitor debitoris” al creditore che abbia ottenuto l’assegnazione del credito pignorato ex art. 553 c.p.c. è inefficace, ai sensi dell’art. 44 l. fall., qualora intervenuto successivamente alla dichiarazione di fallimento, non assumendo rilievo, a tal fine, l’anteriorità dell’assegnazione che, disposta “salvo esazione”, non determina l’immediata estinzione del debito dell’insolvente, essendo l’effetto satisfattivo per il creditore procedente rimesso alla riscossione del credito, ossia ad un momento che, in quanto posteriore alla declaratoria fallimentare, sconta la sanzione dell’inefficacia (Cass., sez. 1, n. 10867/2020, Vella, Rv. 658122-01).

In tema di dichiarazione di inefficacia degli atti a titolo gratuito, ai sensi dell’art. 64 l. fall., si è rilevato che la valutazione di gratuità od onerosità di un negozio va compiuta con esclusivo riguardo alla causa concreta, costituita dalla sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare e non può quindi fondarsi sull’esistenza o meno di un rapporto sinallagmatico tra le prestazioni sul piano tipico e astratto, dipendendo invece dall’apprezzamento dell’interesse sotteso all’intera operazione da parte del soggetto poi dichiarato fallito, quale emerge dall’entità dell’attribuzione, dalla durata del rapporto, dalla qualità dei soggetti e soprattutto dalla prospettiva di subire un depauperamento, collegato o meno ad un sia pur indiretto guadagno ovvero ad un risparmio di spesa. Ne deriva che il negozio posto in essere dal soggetto poi fallito può dirsi gratuito, solo quando dall’operazione egli non tragga nessun concreto vantaggio patrimoniale, avendo inteso recarne uno ad altri, mentre sarà oneroso tutte le volte che il fallito riceva un vantaggio per questa sua prestazione, tanto da elidere quel pregiudizio cui l’ordinamento pone rimedio con l’ “inefficacia” ex lege (Cass., sez. 1, n. 23140/2020, Pazzi, Rv. 659119-01).

Su un altro piano è stato messo in chiaro che l’art. 95, comma 1 l. fall., nel riferirsi all’eccezione revocatoria sollevata per le vie brevi dal curatore e alla relativa prescrizione dell’azione, richiama il doppio termine, di prescrizione e di decadenza, di cui all’art. 69 bis, comma 1 l. fall., nonostante l’espresso richiamo nella rubrica di quest’ultima solo del termine di decadenza (Cass., sez. 1, n. 9136/2020, Amatore, Rv. 657761-01).

3.1. Le azioni ex art. 66 l. fall..

Si è rilevato che oggetto della domanda revocatoria, sia ordinaria che fallimentare, non è il bene trasferito in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori, mediante il suo assoggettamento ad esecuzione forzata, sicché quando l’azione sia stata promossa dopo il fallimento dell’ “accipiens”, non potendo essere esperita con la finalità di recuperare il bene ceduto stante l’intangibilità dell’asse fallimentare, i creditori del cedente (ovvero il curatore nel caso di suo fallimento) potranno insinuarsi al passivo del fallimento del cessionario per il valore del bene oggetto dell’atto di disposizione (Cass., Sez. U., n. 12476/2020, Terrusi, Rv. 658004-01).

Qualora sia stata proposta un’azione revocatoria ordinaria per fare dichiarare in opponibile ad un singolo creditore un atto di disposizione patrimoniale compiuto dal debitore e, in pendenza del relativo giudizio, a seguito del sopravvenuto fallimento di questi, il curatore subentri nell’azione in forza della legittimazione accordatagli dall’art. 66 l. fall., accettando la causa nello stato in cui si trova, la legittimazione e l’interesse ad agire dell’attore originario vengono meno, con conseguente improcedibilità della domanda dallo stesso proposta, salva la dimostrazione dell’inerzia degli organi della procedura in relazione al diritto azionato (Cass., sez. 3, n. 13862/2020, Positano, Rv. 658304-01).

La cessione di crediti costituisce una modalità autonoma di estinzione dell’obbligazione, come tale assoggettabile all’azione revocatoria ordinaria promossa dalla curatela fallimentare, ai sensi dell’art. 66 l. fall., anche quando rappresenti l’unico mezzo per adempiere all’obbligazione scaduta, poiché si tratta di atto discrezionale, quindi non dovuto, e non operando, in questo caso, per il principio della tutela della “par condicio”, l’irrevocabilità dell’adempimento del debito scaduto prevista dall’art. 2901, comma 3 c.c. (Cass., sez. 3, n. 4244/2020, Tatangelo, Rv. 656908-01).

4. Le revocatorie fallimentari.

Si è messo in risalto che ai sensi dell’art. 67, comma 2 l. fall., la conoscenza dello stato di insolvenza dell’imprenditore da parte del terzo contraente, che deve essere effettiva e non meramente potenziale, può essere provata dal curatore, su cui incombe il relativo onere probatorio, tramite presunzioni gravi, precise e concordanti, desumibili anche dall’esistenza di un’ipoteca giudiziale sul bene venduto, menzionata nel contratto ed iscritta in virtù di un provvedimento definitivo di condanna della venditrice al pagamento di un rilevante importo (Cass., sez. 1, n. 13169/2020, Terrusi, Rv. 658382-01).

La revocatoria fallimentare del pagamento di debiti del fallito ex art. 67 l. fall. è stata ritenuta esperibile anche quando il pagamento sia stato effettuato da un terzo, purché questi abbia pagato il debito con denaro dell’imprenditore poi fallito, ovvero con denaro proprio, sempre che, dopo aver pagato, abbia esercitato azione di rivalsa prima dell’apertura del fallimento (Cass., sez. 1, n. 13165/2020, Terrusi, n. 658249-01).

Si è evidenziata l’utilizzabilità del rimedio in parola anche con riferimento al pagamento che il soggetto fallito abbia eseguito prima del fallimento, volontariamente o coattivamente, sulla base di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, emesso in suo danno e da lui opposto. Non è escluso, peraltro, che, se non ricorrano i presupposti per l’esperimento dell’azione revocatoria, il curatore possa agire per la ripetizione dell’indebito nei confronti dell’accipiens, quando sia mancato qualsiasi titolo alla base del pagamento effettuato (Cass., sez. 1, n. 3878/2020, Campese, Rv. 657072-01).

Con riguardo alla revocatoria delle rimesse bancarie, si è chiarito che la natura non solutoria delle stesse, qualora affluite su un conto scoperto, postula la prova dell’esistenza di una pattuizione idonea ad impedire al credito della banca di palesarsi esigibile e alla rimessa di assumere la funzione di pagamento. Detta prova, che è onere della banca fornire, ove non derivi da un atto scritto, può anche essere desunta da “facta concludentia”, purché la specularità tra le operazioni ne evidenzi con certezza lo stretto collegamento negoziale (Cass., sez. 1, n. 13175/2020, Amatore, Rv. 658128-01).

Utile sottolineatura quella per cui, nell’ipotesi di fallimento dell’appaltatore, in caso di revocatoria fallimentare esercitata dal curatore per la declaratoria di inefficacia del pagamento eseguito dall’amministrazione committente, quale terzo pignorato, nei confronti del subappaltatore, nessun rilievo assume la circostanza che la stazione appaltante abbia o meno opposto, quale condizione di esigibilità, la prerogativa della sospensione di cui all’art. 118, comma 3, del d.lgs. n. 163 del 2006, assumendo invece valore assorbente la circostanza che la stessa si sia dichiarata debitrice nei confronti dell’appaltatore e, in quella veste, abbia ottemperato all’ordinanza di assegnazione del giudice dell’esecuzione (Cass., sez. 1, n. 16708/2020, Ferro, Rv. 658803-01).

Si è poi affermato che l’art. 67, comma 3, lett. a), l.fall. va interpretato nel senso che non sono revocabili quei pagamenti per i quali l’accipiens dimostri che, pur se avvenuti oltre i tempi contrattualmente previsti, siano stati, anche mediante comportamenti di fatto, eseguiti ed accettati in termini diversi, nell’ambito di plurimi adempimenti con le nuove caratteristiche, evidenziatesi già in epoca anteriore a quelli in discorso, onde questi ultimi non possono più considerarsi eseguiti “in ritardo”, ma divengono esatti adempimenti (Cass., sez. 1, n. 27939/2020, Nazzicone, Rv…).

È stato puntualizzato che a norma dell’art. 67, comma 3, lett. d), l. fall. (nel testo previgente al d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella legge n. 134 del 2012), la veridicità dei dati aziendali è uno degli oggetti dell’attestazione, quale necessario presupposto della valutazione di ragionevolezza del piano attestato di risanamento (Cass., sez. 1, n. 3018/2020, Federico, Rv. 657046-01).

Quanto al recinto dell’esenzione dalla domanda di revocatoria fallimentare proposta dalla curatela degli atti esecutivi di un piano attestato di risanamento ex art. 67, comma 3, lett. d) l. fall. (nel testo previgente al d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella legge n. 134 del 2012), si è chiarito che il giudice deve effettuare, con giudizio “ex ante”, una valutazione, parametrata sulla condizione professionale del terzo contraente, circa l’idoneità del piano, del quale gli atti impugnati costituiscono strumento attuativo, a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa, seppure in negativo, vale a dire nei soli limiti dell’assoluta, evidente inettitudine del piano presentato dal debitore a tal fine (Cass., sez. 1, n. 3018/2020, Federico, Rv. 657046-02).

Ancora con riferimento alle esenzioni da revocatoria fallimentare, si è affermato che il pagamento effettuato in favore del consulente della società anteriormente alla dichiarazione di fallimento non rientra nell’esenzione dalla revocatoria di cui all’art. 67, comma 3 lett. g) l. fall., qualora il servizio reso dal consulente si sia risolto in un mero esame preliminare di fattibilità per l’impresa della soluzione concordataria, senza estrinsecarsi nell’atto a rilevanza esterna della presentazione della domanda di accesso al concordato; non sussiste, infatti, in tale ipotesi, ad una valutazione “ex ante”, l’astratta configurabilità della strumentalità necessaria e diretta fra prestazione e procedura concorsuale che è requisito costitutivo ai fini dell’esenzione (Cass., sez. 1, n. 4340/2020, Federico, Rv. 657077-01).

In ogni caso le esenzioni dalla revocatoria fallimentare sono state ricostruite alla stregua di fattispecie a carattere eccezionale e ne è esclusa l’applicazione fuori dei casi in esse contemplati (Cass., sez. 1, n. 4340/2020, Federico, Rv. 657077-02).

4. I rapporti pendenti.

In tema si è ritenuto che il credito da equo indennizzo, ex art. 79 l. fall., pur collegato al contratto di affitto di azienda, diviene certo solo a seguito dell’esercizio del diritto di recesso da parte del curatore, successivamente alla dichiarazione di fallimento, sicché non è suscettibile di compensazione ai sensi dell’art. 56 l. fall. con i contrapposti crediti, in quanto la norma citata postula che oggetto di compensazione siano i reciproci crediti aventi radice causale anteriore all’apertura del concorso (Cass., sez. 1, n. 10869/2020, Vella, Rv. 658123-01).

L’indennizzo di cui all’art. 79 l. fall., conseguente al recesso, è determinato dal giudice delegato, con atto reclamabile ex art. 26 l. fall.. Qualora tale atto sia viziato in quanto assunto senza sentire l’interessato, e dunque senza attivare il contraddittorio, l’omesso esperimento del reclamo non può essere “rimediato” con una actio nullitatis svincolata da termini di decadenza, in quanto questa è limitata ai soli casi eccezionali riconducibili al concetto di abnormità o inesistenza giuridica, nei quali faccia difetto un requisito essenziale del provvedimento e non si estende alle ipotesi in cui ricorrano vizi attinenti al suo contenuto, poiché la mera deviazione dal corretto esercizio del potere non determina l’inesistenza dell’atto, ma un vizio dello stesso che legittima l’impugnazione nelle forme consentite dalla legge (Cass., sez. 6-1, n. 22334/2020, Nazzicone, Rv. 659248-01).

In caso di fallimento del conduttore, il contratto di locazione di un immobile prosegue in capo ala curatela fallimentare, che subentra nei diritti e negli obblighi contrattuali fino a quando, esercitato il recesso, rimane tenuta alla restituzione della cosa locata, con la corresponsione dell’eventuale indennizzo, nonché al versamento dei canoni maturati fino alla riconsegna. È configurabile, in astratto, anche la responsabilità dell’organo concorsuale, deducibile con la domanda di ammissione al passivo, per i danni alla cosa locata cagionati dal fallito che non siano, ex art. 1490 c.c., effetto del deterioramento o del consumo derivanti dall’uso di essa in conformità al contratto, rendendosi in tal caso necessario valutare in concreto, da parte del giudice di merito, la legittimità, o meno, del rifiuto della locatrice istante alla riconsegna del bene in suo favore (Cass., sez. 1, n. 20041/2020, Campese, Rv. 658979-01).

Sul fronte dei rapporti di lavoro si è posto in risalto che, se vi è cessazione dell’attività aziendale con sospensione dei medesimi, è anche sospeso temporaneamente il diritto alla retribuzione in capo al singolo lavoratore, salvo il caso di licenziamento dichiarato illegittimo, in quanto esso non sorge in ragione dell’esistenza e del protrarsi del rapporto, ma presuppone, per la natura sinallagmatica del contratto, la corrispettività delle prestazioni. Ne consegue che, non essendovi, per effetto della dichiarazione di fallimento e fino alla data della dichiarazione del curatore, ai sensi dell’art. 72, comma 2 l. fall., un obbligo retributivo per l’assenza di prestazione lavorativa, non è configurabile un credito contributivo previdenziale, principio valido anche per la domanda concernente il credito per le retribuzioni e le voci successive alla dichiarazione di fallimento, ma non per quello relativo al TFR, che matura nell’arco di durata del rapporto di lavoro (Cass., sez. L, n. 15407/2020, Patti, Rv. 658489-01).

Per effetto della dichiarazione di fallimento del cliente, il mandato difensivo si scioglie immediatamente, anche nel caso in cui esso sia relativo ad un procedimento pendente in Cassazione. Invero, il fatto che il processo di cassazione prosegue normalmente nonostante il fallimento di una delle parti non dipende dalla circostanza che l’apertura del concorso non si configura, in pendenza del giudizio di legittimità, quale evento interruttivo automatico, quanto dalla circostanza che tale giudizio, essendo dominato dall’impulso d’ufficio, non risente dell’effetto interruttivo normalmente spiegato dalla dichiarazione di fallimento, che produce comunque lo scioglimento del mandato difensivo conferito al procuratore del fallito (Cass., sez. 1, n. 4795/2020, Fidanzia, Rv. 657023-01).

Con riferimento ai rapporti processuali pendenti alla data di dichiarazione di fallimento, è stato affermato che l’art. 72, comma 5 l. fall. postula che la domanda di risoluzione proposta prima della dichiarazione di fallimento, se diretta in via esclusiva a far valere le consequenziali pretese risarcitorie o restitutorie in sede concorsuale, non può proseguire in sede di cognizione ordinaria, ma deve essere interamente proposta secondo il rito speciale disciplinato dagli artt. 93 e ss. l. fall. Deve parimenti essere esaminata e decisa dal giudice fallimentare la domanda di risoluzione che costituisca antecedente logico-giuridico della domanda di risarcimento o restituzione, non essendo applicabile in via analogica l’istituto dell’ammissione con riserva ai sensi dell’art. 96, n. 1 e n. 3 l. fall., né potendosi disporre la sospensione necessaria ai sensi dell’art. 295 c.p.c., in attesa della decisione della causa pregiudiziale di risoluzione in ipotesi proseguita in sede di cognizione ordinaria. Viceversa, la domanda di risoluzione diretta a conseguire finalità estranee alla partecipazione al concorso (come la liberazione della parte in bonis dagli obblighi contrattuali o l’escussione di una garanzia di terzi) è procedibile in sede di cognizione ordinaria, dopo l’interruzione del processo ex art. 43 l. fall. e la sua riassunzione nei confronti della curatela fallimentare (Cass., sez. 1, n. 2990/2020, Vella, Rv. 656647-01).

Ai sensi dell’art. 43, comma 3 l. fall., l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo. In caso di interruzione automatica del processo determinata dalla dichiarazione di fallimento di una delle parti ai sensi della norma anzidetta, il termine per la riassunzione ex art. 305 c.p.c. decorre dalla conoscenza legale di detto evento, la cui comunicazione può provenire anche dal curatore fallimentare mediante posta elettronica certificata, trattandosi di uno dei mezzi all’uopo consentiti dalla legge, ma questa deve avere specificamente ad oggetto il processo nel quale l’evento esplica i suoi effetti e deve essere diretta al procuratore che assiste la parte costituita, non colpita dall’evento, nel giudizio in cui la conoscenza legale dell’interruzione viene in rilievo (Cass., sez. 3, n. 12890/2020, Iannello, Rv. 658021-01).

Recentemente, con ordinanza interlocutoria, Cass., sez. 1, n. 21961/2020, Falabella, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione dell’individuazione del dies a quo della decorrenza del termine per la prosecuzione o riassunzione del processo interrotto a causa della dichiarazione di fallimento di una delle parti.

5. La formazione dello stato passivo.

Con riferimento alla domanda di ammissione al passivo, la ricognizione di debito avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento del suo autore non determina la presunzione dell’esistenza del rapporto fondamentale, trattandosi di documento liberamente apprezzabile dal giudice al pari di quanto avviene per la confessione stragiudiziale resa ad un terzo, qual è il curatore fallimentare (Cass., sez. 1, n. 10215/2019, Dolmetta, Rv. 653694-01). Su tale questione in seno alla prima sezione della S.C. si è manifestato un contrasto, in quanto Cass., sez. 6-1, n. 2431/2020, Ferro, Rv. 656986-01 ha ritenuto che la ricognizione di debito avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento del suo autore è opponibile alla massa dei creditori, in quanto deve presumersi l’esistenza del rapporto fondamentale, salva la prova, a carico del curatore fallimentare, della sua inesistenza o invalidità.

Su altro versante, si è chiarito che ai fini dell’obbligo del pagamento delle ultime tre mensilità di retribuzione da parte del Fondo di Garanzia gestito dall’INPS di cui alla legge n. 297 del 1982, l’iniziativa del lavoratore, da cui computare a ritroso il segmento temporale annuale entro il quale collocare gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, ex art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 80 del 1992, assume rilievo solo se intrapresa nell’ambito della verifica dei crediti disposta nel corso del’accertamento dello stato passivo fallimentare ovvero attraverso la sua consacrazione in un titolo ugualmente eseguibile nei confronti del datore di lavoro (Cass., sez. L, n. 16249/2020, Mancino, Rv. 658494-01).

Il lavoratore può conseguire il pagamento del T.F.R. dal Fondo di Garanzia costituito presso l’INPS, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 297 del 1982, ove, accertata l’insolvenza del datore di lavoro con sentenza dichiarativa di fallimento, dimostri di essere stato ammesso al passivo ovvero, in mancanza, che l’esame della domanda tardiva di insinuazione è stata impedita dalla previa chiusura del fallimento per insufficienza di attivo, sempre che, in tal caso, prima di agire per la condanna del Fondo, abbia esperito l’azione esecutiva contro il datore di lavoro tornato “in bonis” e il patrimonio di quest’ultimo sia risultato incapiente (Cass., sez. L, n. 1886/2020, Cavallaro, Rv. 656656-01).

Qualora l’azienda sia stata fatta oggetto di cessione anteriormente al fallimento del cedente, il credito da TFR del lavoratore dell’azienda ceduta non è suscettibile di ammissione al concorso, poiché esso matura progressivamente in ragione dell’accantonamento annuale divenendo esigibile solo al momento della cessazione definitiva del rapporto di lavoro (Cass., sez. 1, n. 5376/2020, Ferro, Rv. 658966-01).

Ancora in tema di insinuazione dei crediti derivanti da un rapporto di lavoro, nel valutare il conteggio operato dal lavoratore occorre distinguere tra la componente fattuale e quella normativa dei calcoli, restando irrilevante, ex art. 115 c.p.c., l’eventuale non contestazione del curatore sull’interpretazione della disciplina legale o contrattuale, la cui cognizione rientra nel potere-dovere del giudice di qualificazione giuridica dei fatti da accertare nel processo (Cass., sez. 6-1, n. 15339/2020, Pazzi, Rv. 658706-01).

Sul delicato fronte dei rapporti fra procedura concorsuale e Fisco, si è appurato che, in seguito alla dichiarazione di fallimento del contribuente, ove il credito impositivo sia stato ammesso al passivo, la notifica della cartella di pagamento effettuata successivamente alla chiusura del fallimento non determina la decadenza dell’amministrazione finanziaria in quanto, finché pende il fallimento, il termine non inizia a decorrere, non potendo essere notificata al socio fallito la cartella prodromica all’esecuzione individuale (Cass., sez. 5, n. 23513/2020, Perrino, Rv. 659639-01).

L’eventuale, avvenuta notifica di cartella di pagamento (o altro atto di riscossione coattiva) da parte dell’agente della riscossione nei confronti della società “in bonis” successivamente fallita non produce effetto novativo della natura del credito, il quale resta assoggettato alla sua specifica disciplina anche in ordine al regime prescrizionale, sicché qualora sia prevista una prescrizione più breve di quella ordinaria, non si rende applicabile il termine decennale di cui all’art. 2953 c.c., salvo che in presenza di un accertamento divenuto definitivo per il passaggio in giudicato di una sentenza (Cass., sez. 1, n. 25028/2020, Nazzicone, Rv…).

In tema di formazione dello stato passivo, il credito concernente l’aggio per la riscossione e la eventuale esecuzione esattoriale riveste carattere concorsuale solo se la corrispondente attività venga intrapresa e svolta dal concessionario, sia pure solo con la notifica della cartella di pagamento, prima della dichiarazione di fallimento del contribuente, mentre una siffatta natura va esclusa laddove una tale attività abbia avuto inizio dopo la predetta dichiarazione, atteso che, per il principio di cristallizzazione del passivo, i diritti di credito i cui elementi costitutivi non sia siano integralmente realizzati anteriormente ad essa sono estranei ed in opponibili alla procedura concorsuale (Cass., sez. 1, n. 11883/2020, Amatore, Rv. 657957-01). La Suprema Corte - nel ribadire il principio secondo cui l’Agente della riscossione ha diritto all’ammissione al passivo del proprio compenso (aggio), solo laddove abbia provveduto a notificare le cartelle di pagamento in data anteriore al fallimento – ha, dunque, avuto occasione di puntualizzare che il solo affidamento del ruolo all’agente della riscossione non determina - ex se - il diritto dell’Agente all’ammissione al passivo dell’aggio. L’ammissione al passivo dell’aggio rimane agganciata alla prova della notifica della cartella di pagamento (anteriormente alla declaratoria di fallimento) la cui mancanza – trattandosi di eccezione in senso lato – può essere rilevata anche dal Giudice dell’opposizione allo stato passivo.

Il credito erariale maturato a seguito della revoca dei finanziamenti disposti in base al d.lgs. n. 297 del 1999 è assistito da privilegio per il capitale e per gli interessi, sia in quanto l’art. 4, comma 3, del decreto richiamato ricalca il disposto dell’art. 9, comma 5, del d.lgs. n. 123 del 1998, che fa riferimento alle “restituzioni”, sia in quanto occorre salvaguardare a pieno, in consonanza con le finalità della misura, il recupero delle risorse in funzione del loro proficuo reimpiego (Cass., sez. 6-1, n. 15199/2020, Marulli, Rv. 658704-01).

Il credito vantato dall’importatore nei confronti dello spedizioniere doganale dichiarato fallito che, ricevute dall’importatore le somme necessarie al pagamento dei tributi, poi non ne abbia curato il pagamento, così provocando l’escussione delle garanzie da parte dell’Agenzia delle dogane e la surroga dei garanti nei confronti dell’importatore, non gode del privilegio ex art. 2752 c.c., perché lo spedizioniere, ancorché legittimato al pagamento dei tributi doganali, è solo un mandatario dell’importatore, il quale è l’unico soggetto passivo del rapporto tributario e quindi non ha rivalsa o regresso nei confronti dello spedizioniere, né può agire surrogandosi all’erario (Cass., sez. 6-1, n. 2454/2020, Dolmetta, Rv. 657225-01).

Il creditore che non abbia provveduto nei trenta giorni antecedenti all’udienza di verifica all’invio della domanda di ammissione al passivo può egualmente avanzare l’istanza di ammissione tardiva (art. 101 l. fall.), ma in nessun caso oltre l’anno successivo al deposito del decreto di esecutività dello stato passivo (termine prorogabile fino a diciotto mesi dal tribunale nella sentenza dichiarativa di fallimento, nei casi in cui la procedura presenti particolare complessità) ovvero, se il creditore dimostri che il ritardo è dipeso da causa a lui non imputabile, persino oltre tale termine, ma tuttavia solo fino a quando non siano esaurite le attività di riparto.

La domanda di insinuazione tardiva è ammissibile se diversa, per “petitum” e “causa petendi”, rispetto a quella di insinuazione ordinaria, poiché il carattere giurisdizionale e decisorio del procedimento di verificazione del passivo esclude che, per il giudicato interno formatosi sull’istanza tempestiva, possa proporsi una nuova insinuazione per un credito, o una parte di esso, che sia stato in precedenza escluso dal passivo (Cass., sez. 6-1, n. 4506/2020, Di Virgilio, Rv. 657239-01).

Sul fronte delle prededuzioni, si è posto in risalto avuto riguardo ai crediti prededucibili sorti nel corso della procedura fallimentare che l’insinuazione al passivo non sia soggetta al termine di decadenza di cui all’art. 101, commi 1 e 4, l. fall. Tuttavia, tale insinuazione incontra un limite temporale, da individuarsi nel termine di un anno, espressivo dell’attuale sistema in materia, decorrente dal momento in cui si verificano le condizioni di partecipazione al passivo fallimentare (Cass., sez. 1, n. 3872/2020, Pazzi, Rv. 657058-01).

In sede di formazione dello stato passivo, il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo ex art. 642 c.p.c., che sia stato opposto con giudizio cancellato dal ruolo per inattività delle parti e non riassunto, non è opponibile alla massa fallimentare, laddove il giudizio sia iniziato prima dell’entrata in vigore, il 25 giugno 2008, ex art. 50 del d.l. n. 118 del 2008, convertito nella legge n. 133 del 2008, del nuovo testo dell’art. 181, comma 1, c.p.c., alla luce del quale l’estinzione del giudizio in caso di inattività delle parti può essere pronunciata d’ufficio. Ne consegue che, in difetto di una esplicita pronuncia di estinzione divenuta inoppugnabile, richiesta secondo la formulazione della norma applicabile ratione temporis, il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. non può considerarsi passato in cosa giudicata formale e sostanziale e pertanto non è opponibile al fallimento (Cass., sez. 1, n. 5657/2019, Vella, Rv. 652819-01).

Il principio è stato confermato da Cass., sez. 6-1, n. 24157/2020, Nazzicone, Rv. 659415-01, secondo cui non è opponibile alla procedura fallimentare il decreto ingiuntivo non opposto ma privo di dichiarazione di esecutività ex art. 647 c.p.c. intervenuta prima della dichiarazione di fallimento, con la conseguenza che non sono ammissibili al passivo neanche le spese sostenute per l’ipoteca giudiziale eventualmente iscritta in base al predetto decreto ingiuntivo.

In caso di interruzione per intervenuto fallimento dell’opponente del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, quest’ultimo rimane inopponibile alla massa, mentre è interesse e onere del debitore fallito riassumere il processo nei confronti del creditore opposto, onde evitare che il provvedimento monitorio consegua la definitiva esecutorietà per mancata o intempestiva riassunzione, divenendo opponibile nei suoi confronti una volta tornato in bonis (Cass., sez. 1, n. 22047/2020, Falabella, Rv. 658984-01).

Coerente con il principio espresso con il citato arresto è quanto affermato da Cass., sez. 6-1, n. 23474/2020, Caiazzo, Rv. 659536-01, secondo cui nel caso in cui la dichiarazione di fallimento del debitore sopravvenga nelle more dell’opposizione da lui proposta contro il decreto ingiuntivo, il curatore non è tenuto a riassumere il giudizio, poiché il provvedimento monitorio, quand’anche provvisoriamente esecutivo, non è equiparabile ad una sentenza non ancora passata in giudicato, che viene emessa nel contraddittorio delle parti, ed è, come tale, totalmente privo di efficacia nei confronti del fallimento, al pari dell’ipoteca giudiziaria iscritta a ragione della sua provvisoria esecutività.

L’insinuazione al passivo dei crediti sorti nel corso della procedura di amministrazione straordinaria, invece, non è soggetta al termine di decadenza previsto dall’art. 101, commi 1 e 2, l. fall. (Cass., sez. 1, n. 1391/2019, Di Marzio, Rv. 652403-01).

Nel fallimento, la prescrizione degli interessi maturati sui crediti chirografari è interrotta con effetto permanente per tutto il corso della procedura solo dalla domanda di insinuazione al passivo, mentre nell’amministrazione straordinaria, sottoposta alla disciplina originaria di cui alla legge n. 95 del 1979, l’esecutività dello stato passivo depositato dal commissario, ai sensi dell’art. 209 l. fall., determina l’interruzione della prescrizione con effetto permanente anche per i creditori ammessi direttamente a seguito della comunicazione inviata ai sensi dell’art. 207, comma 1, l. fall. (Cass., sez. 1, n. 11983/2020, Amatore, Rv. 657959-02).

Le risultanze dello stato passivo formato nell’ambito dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, ex d.l. n. 26 del 1979, hanno efficacia solo endoconcorsuale e sono prive di uno speciale valore probatorio nei giudizi instaurati dal creditore nei confronti del debitore tornato “in bonis”, in quanto l’accertamento del passivo è caratterizzato dalla speciale disciplina della opponibilità degli atti alla massa dei creditori e dalla posizione marginale del fallito, privo di mezzi per impugnare le relative decisioni (Cass., sez. 1, n. 22611/2020, Dolmetta, Rv. 658985-01).

In caso di insolvenza del concessionario della riscossione di tributi e della conseguente ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria, l’ente impositore non può esperire l’azione di rivendica e restituzione, ex art. 103 l. fall., delle somme riscosse e versate dal concessionario su conti correnti bancari e postali a sé intestati, poiché tali somme, ex artt. 1852 e 1834 comma 1 c.c., non sono di proprietà dell’intestatario del conto corrente, ma della banca, che assume l’obbligo di restituire al titolare del conto altrettante cose dello stesso genere, mentre l’ente impositore vanta per la corresponsione delle medesime somme un diritto di credito nei confronti del concessionario (Cass., sez. 6-1, n. 23477/2020, Dolmetta, Rv. 659430-01).

Il necessario accertamento dei crediti concorsuali secondo le regole speciali che lo disciplinano riguarda anche la liquidazione coatta amministrativa, in relazione alla quale si è affermato che la domanda formulata da chi si afferma creditore in sede di cognizione ordinaria , se proposta prima dell’inizio della liquidazione coatta amministrativa, diviene improcedibile, e tale improcedibilità sussiste anche se la procedura concorsuale sia stata aperta dopo una pronuncia di condanna nei confronti dell’imprenditore insolvente, nel corso del giudizio per cassazione (Cass., sez. 1, n. 9461/2020, Scotti, Rv. 657683-01).

Con riferimento ai rapporti tra concordato preventivo e fallimento, se quest’ultimo sia stato dichiarato quando era ancora possibile la risoluzione ex art. 186 l. fall. del concordato preventivo omologato, il creditore istante non è tenuto a sopportare gli effetti esdebitatori e definitivi ex art. 184 l. fall., posto che l’attuazione del piano è resa impossibile per l’intervento di un evento come il fallimento che, sovrapponendosi al concordato medesimo, inevitabilmente lo rende irrealizzabile (Cass., sez. 6-1, n. 12085/2020, Vella, Rv. 658058-01).

Il creditore che agisce in sede di verifica del passivo fallimentare in base ad un contratto di mutuo è tenuto a fornire la prova dell’esistenza del titolo, della sua anteriorità al fallimento e della disciplina dell’ammortamento, con le scadenze temporali e con il tasso di interesse convenuti, mentre il debitore mutuatario, e per esso il curatore, ha l’onere di provare il pagamento delle rate di mutuo scadute prima della dichiarazione di fallimento, atteso che le rate successive, agli effetti del concorso, si considerano scadute alla data della sentenza dichiarativa, a norma dell’art. 55, comma 2 l. fall.: non è dunque necessario, per l’accertamento del capitale residuo, provare la risoluzione del contratto, che rileva solo ai fini degli interessi di mora (Cass., sez. 1, n. 3015/2020, Federico, Rv. 657045-01).

In sede di insinuazione al passivo del fallimento, deve ritenersi nullo ex art. 1418 c.c. il titolo negoziale dissimulante un negozio di finanziamento (nella specie erogato in più tranches a fronte di forniture non eseguite) stipulato dall’imprenditore insolvente , in violazione del dovere di richiedere senza indugio il fallimento o comunque di non aggravare il dissesto dell’impresa con operazioni dilatorie, in quanto contrario a norme imperative, in particolare di natura penale, quali il divieto di aggravare il dissesto e di ordine pubblico economico, integrando la relativa stipula una fattispecie di reato (art. 217, comma 1, n. 4 l. fall.), di cui è chiamato a rispondere, a titolo di concorso, anche il finanziatore (Cass., sez. 1, n. 16706/2020, Ferro, Rv. 658613-02).

Con riferimento alla compravendita, il credito del venditore nei confronti del compratore fallito, nel caso di beni mobili da trasportare da un luogo all’altro può essere provato con la consegna della merce al vettore o allo spedizioniere, perché è in quel momento, ai sensi dell’art. 1510 c.c., che si trasferisce all’acquirente, salvo patto contrario, la proprietà dei beni medesimi (Cass., sez. 6-1, n. 19719/2020, Vella, Rv. 659002-01).

La parte offesa da un reato che chiede l’ammissione al passivo del fallimento del responsabile civile per il fatto dell’imputato, al fine di conseguire l’ammissione al passivo in via privilegiata del credito per il risarcimento del danno patito deve provare: a) l’esistenza di un processo penale in corso; b) che il soggetto dichiarato fallito era legato all’imputato in detto processo da un rapporto che lo rende civilmente responsabile per il fatto dell’imputato; c) che il soggetto vittima del reato si è costituito parte civile e che il soggetto, poi dichiarato fallito, è stato convenuto nel processo penale in qualità di responsabile civile; d) che è intervenuto nel processo penale il sequestro dei beni del responsabile civile (Cass., sez. 6-1, n. 3683/2020, Ferro, Rv. 657236-01).

5.1. Le prove documentali.

Saliente la decisione per cui le “date valuta” risultanti dagli estratti conto bancari relativi al contratto di leasing non sono idonee a provare il tempo il cui le relative operazioni sono state realmente effettuate, né a conferire data certa alle stesse, essendo nella prassi bancaria utilizzate dette date in maniera convenzionale per postergare il tempo di effettuazione dei versamenti ed antergare invece quello dei prelievi (Cass., sez. 6-1, n. 4953/2020, Caiazzo, Rv. 657228-01).

L’accertamento della data certa anteriore al fallimento del contratto di apertura di conto corrente bancario, ai sensi dell’art. 2704 c.c., consente di rendere opponibile alla massa dei creditori l’intero svolgimento del rapporto negoziale, anche nel periodo precedente al momento in cui viene a collocarsi detto accertamento (Cass., sez. 6-1, n. 23490/2020, Pazzi, Rv. 659432-02)

Ai fini dell’efficacia della cessione dei crediti futuri in pregiudizio del fallimento del cedente è sufficiente che la notifica o l’accettazione della cessione sia stata effettuata con atto avente data certa anteriore al fallimento; invece, per i crediti soltanto eventuali, la prevalenza della cessione richiede che la notificazione o accettazione non solo siano anteriori al fallimento, ma anche posteriori al momento in cui il credito sia venuto ad esistenza (Cass., sez. 1, n. 5616/2020, Dolmetta, Rv. 657040-01).

La mancanza di data certa nelle scritture prodotte dal creditore è rilevabile anche d’ufficio dal giudice il quale deve segnalare la questione di fatto alle parti onde consentire la discussione; tuttavia l’omissione di tale segnalazione non determina la nullità della sentenza, salvo che abbia vulnerato la facoltà di chiedere prove o di ottenere a tal fine una rimessione in termini (Cass., sez. 1, n. 13920/2020, Solaini, Rv. 658239-01).

Anche l’attestazione del credito da parte della cassa edile (che svolge funzioni di mutualità, di assistenza e previdenziali provvedendo ad erogare ai dipendenti delle imprese edili l’indennità integrativa di malattia, con riscossione dei relativi contributi) costituisce prova idonea sia ai fini dell’emissione del decreto ingiuntivo, ai sensi dell’art. 635, comma 2, c.p.c., sia della “data certa” per la partecipazione al concorso dei creditori nel fallimento ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare (Cass., sez. L, n. 23616/2020, Negri Della Torre, Rv. 659264-01).

Più in generale, si è affermato che la parte che contesti la mancata ammissione del proprio credito al passivo fallimentare deve dimostrare la data certa anteriore del contratto ad esso relativo, ma il giudice non è vincolato dai fatti a tal fine allegati, ben potendo attribuire rilievo a fatti diversi, comunque risultanti dagli atti di causa, in applicazione del principio di acquisizione processuale, in forza del quale ogni emergenza istruttoria, una volta raccolta, è legittimamente utilizzata ai fini della decisione, indipendentemente dalla sua provenienza (Cass., sez. 6-1, n. 23490/2020, Pazzi, Rv. 659432-01).

5.2. Le prelazioni e le prededuzioni.

Sul piano delle prelazioni in ambito concorsuale rileva Cass., Sez. 6 - 1, n. 28892/2020, Terrusi, Rv. 659900 – 01, ha avuto modo ci porre in luce che ai fini dell’ammissione allo stato passivo del fallimento, il privilegio di cui all’art. 9, comma 5, l. n. 123 del 1998 va estensivamente riferito a tutti i crediti derivante da interventi pubblici rientranti nell’alveo della previsione, compresi quelli concessi dalle Regioni.

Nel medesimo perimetro generale, è significativo che Cass., sez. 3, n. 8882/2020, Fiecconi, Rv. 657867 - 01, abbia osservato che La revoca del sostegno pubblico accordato, anche sotto forma di “concessione di garanzia”, per lo sviluppo delle attività produttive, deliberata ai sensi dell’art. 9 del d.lgs. n. 123 del 1998, è opponibile alla massa dei creditori, pur se intervenuta dopo che il beneficiario abbia proposto domanda di concordato preventivo e lo stesso sia stato omologato, perché il provvedimento di revoca si limita ad accertare il venire meno di un presupposto già previsto in modo puntuale dalla legge, senza che possegga alcuna valenza costitutiva, sorgendo il credito come privilegiato “ex lege” dal momento in cui viene concesso ed erogato il beneficio e dovendosi, di conseguenza, intendere la revoca del contributo solo come condizione affinché si possa agire per il recupero del credito.

Cass., sez. 1, n. 22954/2020, Vella, Rv. 659117 – 01, s’è opportunamente incaricata di delineare il recinto del c.d. giudicato endofallimentare ex art. 96, comma 5, l.fall., che nella ricostruzione svolta riguarda solo l’”an” il “quantum” e l’eventuale esistenza di un titolo di prelazione, non già la graduazione dei vari privilegi accertati. Si evidenzia, infatti, che - specie dopo la soppressione, con il d.lgs. n. 169 del 2007, dell’onere per il creditore istante di indicare, oltre all’eventuale titolo di prelazione, anche la “graduazione del credito” - il giudice delegato non è tenuto ad accertare l’eventuale collocazione privilegiata del credito in modo “comparativo”, cioè graduando i crediti secondo l’ordine delle prelazioni stabilite dagli artt. 2777 e ss. c.c., attività che resta invece riservata alla successiva fase del riparto.

In ambito di prededuzioni nel fallimento, la decisione di maggior impatto è certamente rappresentata da Cass., sez. U., n. 5885/2020, Lamorgese, Rv. 657207 – 01, la quale componendo un contrasto in precedenza insorto ha chiarito che, qualora il fallimento colpisca l’appaltatore di opera pubblica, il meccanismo delineato dall’art. 118, comma 3, d.lgs. n. 163 del 2006 – che consente alla stazione appaltante di sospendere i pagamenti in favore dell’appaltatore, in attesa delle fatture dei pagamenti effettuati da quest’ultimo al subappaltatore – deve ritenersi riferito all’ipotesi in cui il rapporto di appalto sia in corso con un’impresa in bonis e, dunque, non è applicabile nel caso in cui, con la dichiarazione di fallimento, il contratto di appalto si scioglie; ne consegue che al curatore è dovuto dalla stazione appaltante il corrispettivo delle prestazioni eseguite fino all’intervenuto scioglimento del contratto e che il subappaltatore deve essere considerato un creditore concorsuale dell’appaltatore come gli altri, da soddisfare nel rispetto della “par condicio creditorum” e dell’ordine delle cause di prelazione, senza che rilevi a suo vantaggio l’istituto della prededuzione ex art. 111, comma 2, l.fall..

Cass., sez. 1, n. 13596/2020, Vella, Rv. 658383 – 01, dal canto suo ha precisato che in sede fallimentare, i crediti vantati dal professionista incaricato dal debitore di predisporre gli atti necessari ai fini della presentazione della domanda di concordato preventivo, rientrano tra quelli sorti “in funzione” della procedura e, come tali, devono essere soddisfatti in prededuzione ai sensi dell’art. 111, comma 2, l.fall., senza che debba essere accertato, con valutazione “ex post”, se la prestazione resa sia stata concretamente utile per la massa in ragione dei risultati raggiunti; la funzionalità “ex ante” delle prestazioni rese dal professionista al debitore che presenti una domanda di concordato preventivo, inoltre, non può restare inficiata da successivi inadempimenti del debitore che conducano - come in caso di mancato deposito delle somme “pro expensis” ex art. 163, comma 2, n. 4, l.fall. - alla revoca dell’ammissione al concordato preventivo, a meno che la condotta del debitore integri atti di frode, e ad essi abbia partecipato (o almeno di essi sia stato pienamente consapevole) il professionista.

6. Le impugnazioni dei crediti, le opposizioni allo stato passivo e le revocazioni.

Recentemente, Cass., sez. 1, n. 10091/2020, Vella, Rv. 657763-01, ha affermato che nell’impugnazione dei crediti ammessi di cui all’art. 98 l. fall., novellato dal d.lgs. n. 5 del 2006, trova piena applicazione il principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., onde non è il creditore di cui si contesta l’ammissione al passivo a dover dimostrare nuovamente il suo credito, già assistito dalla valutazione positiva espressa in sede di verifica dal giudice delegato, ma è l’impugnante a dover provare la fondatezza della sua contestazione.

È stato significativamente evidenziato che in sede di opposizione allo stato passivo il tribunale può anche conoscere dell’eccezione di prescrizione del credito tributario maturata successivamente alla notifica della cartella di pagamento, non vertendosi in un caso di giurisdizione del giudice tributario, in quanto la notifica della cartella segna il consolidamento della pretesa fiscale e l’esaurimento del potere impositivo (Cass., Sez. U., n. 34447/2020, Lamorgese, Rv. 656487-01).

Nell’opposizione allo stato passivo proposta dal concessionario della riscossione, qualora il curatore deduca fatti o circostanze che incidono sul merito della pretesa creditoria, è legittimato a partecipare al giudizio anche l’ente impositore. Il giudice, pertanto, può disporne l’intervento ai sensi dell’art. 106 c.p.c. e, in caso di accoglimento dell’opposizione, può condannare il fallimento alla rifusione delle spese processuali nei suoi confronti (Cass., sez. L, n. 17100/2020, Patti, Rv. 658827-01).

La domanda di ammissione proposta dalla società concessionaria per la riscossione dei tributi fondata su una cartella esattoriale, contestata dalla curatela stante l’avvenuto sgravio parziale del debito tributario, postula l’ammissione del credito residuo al passivo con riserva, perché la questione relativa allo sgravio, ove anteriore alla notifica della cartella, implica che l’obbligazione tributaria non esista più, in forza di un previo atto di autotutela amministrativa, e deve essere portata alla cognizione del giudice tributario con l’impugnazione della cartella (Cass., sez. 6-1, n. 23809/2020, Terrusi, Rv. 659537-01).

Ancora in ambito tributario, si è posto il problema dell’imposta di registro da pagare nel caso in cui il provvedimento emesso all’esito dell’opposizione allo stato passivo riconosca la natura privilegiata di un credito, già ammesso in chirografo in sede di verifica nella misura richiesta dal creditore.

Ebbene, un tale provvedimento è soggetto ad imposta di registro in misura fissa, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lettera d), della parte I della tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986: esso, infatti, incide esclusivamente sul profilo qualitativo del credito, determinando un mutamento della sua posizione nel concorso, in quanto l’ammontare ed il titolo, che rappresentano gli unici aspetti rilevanti ai fini dell’imposta in esame, risultano già determinati per effetto del decreto di ammissione (Cass., sez. 6-5, n. 22253/2020, Delli Priscoli, Rv. 659357-01).

Dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006 e del d.lgs. n. 169 del 2007, se il creditore abbia chiesto in sede di verifica del passivo l’ammissione di un suo credito puramente e semplicemente e sia stato ammesso con riserva, è configurabile una situazione di soccombenza che legittima il creditore a proporre opposizione immediata allo stato passivo nelle forme dell’art. 98 l. fall.

Del pari, laddove il curatore o gli altri creditori intendano contestare l’ammissione, ancorché con riserva, di un altro creditore, sono legittimati e tenuti a proporre l’impugnazione immediata avverso detto provvedimento, senza attendere il decreto di cui all’art. 113 bis l. fall. (Cass., sez. 1, n. 268/2020, Federico, Rv. 656518-01).

Il creditore concorrente può impugnare ex art. 98 l. fall. solo il decreto del giudice delegato di esecutività dello stato passivo e non invece il decreto con il quale il tribunale accoglie l’opposizione promossa da un altro creditore (che è invece ricorribile per cassazione), atteso che la legge fallimentare, che regola interamente la materia, non prevede tale ulteriore mezzo in favore del creditore in concorso, il cui interesse, al pari di quello della massa dei creditori, è comunque tutelato, nel giudizio di opposizione, dal curatore (Cass., sez. 6-1, n. 16268/2020, Caiazzo, Rv. 658714-01).

Invece, non sussiste la legittimazione del fallito ad impugnare i provvedimenti adottati dal giudice delegato in sede di formazione dello stato passivo non solo perché essi hanno efficacia meramente endoconcorsuale, ma anche per quanto disposto dall’art. 43 l. fall., che sancisce la legittimazione esclusiva del creditore per i rapporti patrimoniali del fallito compresi nel fallimento e, soprattutto, per l’espressa previsione di cui all’art. 98 l. fall., a tenore del quale il decreto con cui il giudice rende esecutivo lo stato passivo non è suscettibile di denunzia con rimedi diversi dalle impugnazioni tipiche ivi disciplinate, esperibili soltanto dai soggetti legittimati, tra i quali non figura il fallito (Cass., sez. 1, n. 1197/2020, Amatore, Rv. 656758-01).

Nel giudizio di opposizione allo stato passivo non opera, nonostante la sua natura impugnatoria, la preclusione di cui all’art. 345 c.p.c. in materia di “ius novorum”, con riguardo alle nuove eccezioni proponibili dal curatore, in quanto il riesame, a cognizione piena, del risultato della cognizione sommaria proprio della verifica, demandato al giudice dell’opposizione, se esclude l’immutazione del “thema disputandum” e non ammette l’introduzione di domande riconvenzionali della curatela, non ne comprime tuttavia il diritto di difesa, consentendo, quindi, la formulazione di eccezioni non sottoposte all’esame del giudice delegato (Cass., sez. 1, n. 21490/2020, Campese, Rv. 659272-01).

In caso di opposizione allo stato passivo, non incorre nella sanzione di improcedibilità il creditore opponente che abbia omesso di produrre copia autentica dello stato passivo formato dal giudice delegato, non trovando applicazione l’art. 347, comma 2, c.p.c. previsto solo per l’appello e potendo, comunque, il tribunale accedere direttamente al fascicolo di cui all’art. 90 l. fall. per conoscere il contenuto del provvedimento impugnato (Cass., sez. 1, n. 23138/2020, Pazzi, Rv. 659426-01).

In base allo stesso principio, l’opponente, a pena di decadenza ex art. 99, comma 2, n. 4 l. fall., deve soltanto indicare specificamente i documenti di cui intende avvalersi, già prodotti nel corso della verifica dello stato passivo innanzi al giudice delegato, sicché, in difetto della produzione di uno di essi, il tribunale deve disporne l’acquisizione dal fascicolo d’ufficio della procedura fallimentare ove esso è custodito (Cass., sez. 6-1, n. 25663/2020, Lamorgese, Rv. 659596-01).

Per quanto riguarda il giudizio di opposizione allo stato passivo come disciplinato prima del d.lgs. n. 5 del 2006, la relazione di dipendenza della domanda riconvenzionale “dal titolo dedotto in giudizio dall’attore”, che giustifica la trattazione simultanea delle cause, si configura non già come identità della “causa petendi” (richiedendo appunto l’art. 36 c.p.c. un rapporto di mera dipendenza), ma come comunanza della situazione o del rapporto giuridico dal quale traggono fondamento le contrapposte pretese delle parti, ovvero come comunanza della situazione o del rapporto giuridico sul quale si fonda la riconvenzionale con quello posto a base di un’eccezione, così da delinearsi una connessione oggettiva qualificata della domanda riconvenzionale con l’azione o l’eccezione proposta (Cass., sez. 6-1, n. 23472/2020, Dolmetta, Rv. 659535-01).

L’art. 96, comma 5 c.p.c., fonda la nozione del cd. “giudicato endofallimentare”, che riguarda solo l’ “an”, il “quantum” e l’eventuale esistenza di un titolo di prelazione, non già la graduazione dei vari privilegi accertati, poiché, specie dopo la soppressione, con il d.lgs. n. 169 del 2007, dell’onere per il creditore istante di indicare, oltre all’eventuale titolo di prelazione, anche la “graduazione del credito”, il giudice delegato non è tenuto ad accertare l’eventuale collocazione privilegiata del credito in modo “comparativo”, cioè graduando i crediti secondo l’ordine delle prelazioni stabilite dagli artt. 2777 e ss. c.c., attività che resta invece riservata alla successiva fase del riparto (Cass., sez. 1, n. 22954/2020, Vella, Rv. 659117-01).

Con riferimento al giudizio di legittimità, la dimidiazione del termine per proporre ricorso per cassazione, di cui all’art. 99, ultimo comma l. fall., non si applica al controricorso in quanto il tenore letterale e il carattere eccezionale della disposizione, che deroga alla disciplina generale del detto termine, ne impediscono l’estensione anche analogica (Cass., sez. 1, n. 1193/2020, Terrusi, Rv. 656790-01).

Al curatore fallimentare, che agisca non in via di successione in un rapporto precedentemente facente capo al fallito ma nella sua funzione di gestione del patrimonio di costui, non è opponibile l’efficacia probatoria tra imprenditori, di cui agli artt. 2709 e 2710 c.c., delle scritture contabili regolarmente tenute, senza che tale inopponibilità, in sede di accertamento del passivo, resti preclusa ove non eccepita, trattandosi di eccezione in senso lato (e, dunque, rilevabile d’ufficio in caso di inerzia del curatore), poiché non si riconnette ad una azione necessaria dell’organo, ma al regime dell’accertamento del passivo in sé, nel cui ambito il curatore, quale rappresentante della massa dei creditori, si pone in posizione di terzietà rispetto all’imprenditore fallito (Cass., sez. 6-1, n. 27902/2020, Ferro, Rv…).

Nel giudizio di opposizione allo stato passivo, il terzo interveniente volontario, principale o litisconsortile, sottostà al regime delle preclusioni istruttorie di cui agli artt. 98 e 99 l. fall., applicandosi nei suoi confronti il disposto dell’art. 268, comma 2 c.p.c., che interdice all’interveniente, non sul piano assertivo, ma sul piano probatorio, con riferimento sia alle prove precostituite che costituende, il compimento di atti che, al momento dell’intervento, non sono più consentiti ad alcuna delle parti (Cass., sez. 6-1, n. 19422/2020, Iofrida, Rv. 659143-01).

Si deve, inoltre, rilevare quanto statuito da Cass., sez. 6-1, n. 5320/2020, Pazzi, Rv. 657241-01: la giornata del 29 giugno deve essere considerata, per il solo Comune di Roma, giorno festivo, sicché la scadenza del termine processuale per gli atti che riguardino procedimenti celebrati davanti ad un’autorità giudiziaria avente sede nel detto Comune si proroga di diritto, ex art. 155, comma 4 c.p.c., al primo giorno seguente non festivo, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 della l. n. 260 del 1949, ed 1 del d.P.R. n. 792 del 1985.

7. La liquidazione dell’attivo.

Di rilievo è essenzialmente la pronuncia resa da Cass., sez. U., n. 28387/2020, De Stefano, Rv. 659870 - 01, che ha appianato un contrasto di forte rilievo pratico, soffermandosi sul tema delle modalità e del tempo delle cancellazioni dei vincoli “afflittivi” in ambito di vendite eseguite nel contesto delle esecuzioni immobiliari o in ambito concorsuale, ma con impiego del “modello” processualcodicistico ex art. 107, comma 2, l. fall.. Ad avviso del Collegio “Il decreto di trasferimento immobiliare ex art. 586 c.p.c., tanto nell’espropriazione individuale che in quella concorsuale che si svolga sul modello della prima, implica l’immediato e indifferibile trasferimento del bene purgato e libero dai pesi indicati dalla norma o ricavabili dal regime del processo esecutivo, con conseguente obbligo per il Conservatore dei Registri immobiliari (o, secondo l’attuale definizione, Direttore del Servizio di pubblicità immobiliare dell’Ufficio provinciale del territorio istituito presso l’Agenzia delle entrate) di procedere alla cancellazione di questi immediatamente, incondizionatamente e, in ogni caso, indipendentemente dal decorso dei termini previsti per la proposizione delle opposizioni agli atti esecutivi avverso il provvedimento traslativo in parola”.

8. La chiusura del fallimento e l’esdebitazione.

In correlazione agli istituti della chiusura del fallimento e delle esdebitazione constano alcune importanti puntualizzazioni. La prima è stata resa da da Cass., sez. 5, sez. U, n. 23513/2020, Perrino, Rv. 659639 - 01, che ha evidenziato come in tema di riscossione delle imposte, a seguito della dichiarazione di fallimento del contribuente, ove il credito impositivo sia stato ammesso al passivo, la notifica della cartella di pagamento effettuata successivamente alla chiusura del fallimento non determini la decadenza dell’Amministrazione finanziaria in quanto il termine, finché pende il fallimento, non inizia a decorrere, non potendo essere notificata al socio fallito la cartella prodromica all’esecuzione individuale.

Non meno saliente, il decisum che si ritrova in Cass., sez. 1, n. 16263/2020, Terrusi, Rv. 658713 - 01, a tenore della quale l’ambito soggettivo dell’esdebitazione, per quanto circoscritto dall’art. 142 l.fall., al fallito persona fisica, deve essere riferito anche al socio illimitatamente responsabile di una società, fallito in estensione. Ne consegue che, al fine di valutare il presupposto di cui al comma 2, ossia l’avvenuto soddisfacimento almeno in parte dei creditori concorsuali, occorre considerare che tali sono, per il socio fallito in estensione, anche e necessariamente quelli della società, in quanto, pur rimanendo distinte le diverse procedure, il credito dichiarato dai creditori sociali nel fallimento della società si intende dichiarato per intero anche nel fallimento dei singoli soci.

Importante anche la precisazione di diritto intertemporale contenuta in Cass., sez. 1, n. 05618/2020, Terrusi, Rv. 657034 – 01, a mente della quale nel caso di dichiarazione di fallimento anteriore all’entrata in vigore dell’art. 117, comma 5, l.fall. nella formulazione introdotta dall’art. 107 del d.lgs. n. 5 del 2006, le somme rimaste a disposizione dei creditori irreperibili secondo le forme dei depositi giudiziari non sono suscettibili, trascorso un certo tempo senza che siano state riscosse, di ulteriore riparto fra gli altri creditori concorsuali, in quanto il loro deposito presso l’istituto di credito designato equivale a distribuzione, sicchè, da detto momento, esse fuoriescono dalla massa attiva fallimentare e sono sottratte alla disponibilità degli organi concorsuali.

9. Il concordato fallimentare.

Cass., sez. 1, n. 25316/2020, Ferro, Rv. 659732 - 01 – sulla scia di una precedente pronuncia (Cass., sez. 1, n. 11178/2011, Mercolino, Rv. 617874 - 01) ha ribadito che il provvedimento del tribunale che in sede di reclamo confermi il decreto con cui il giudice delegato ha respinto la domanda di concordato fallimentare, sostituendosi al prescritto parere del comitato dei creditori, ai sensi dell’art. 41 l.fall., manca del carattere di decisorietà e definitività, non precludendo la riproponibilità della proposta, sicchè non è impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.

Di interesse è Cass., sez. 1, n. 25318/2020, Ferro, Rv. 659734 – 01, che ha evocato la figura dell’abuso del diritto con riguardo all’ipotesi in cui il fine della procedura ecceda il sacrificio imposto al patrimonio del fallito per la parte non necessaria al soddisfacimento dei creditori, come nel caso si registri un divario particolarmente consistente tra attivo ceduto e passivo rilevato, secondo un criterio di valutazione dell’attivo concordatario necessariamente ancorato al tempo della proposta e non a quello del sindacato del tribunale in sede di omologa. In applicazione del predetto principio, la S.C. ha cassato la decisione della corte d’appello che, nell’accogliere il reclamo del fallito avverso il decreto di omologa del concordato emesso dal tribunale, aveva valorizzato la stima dell’attivo concordatario al momento della decisione anziché alla data della domanda di concordato.

Pregnante sul fronte processualistico si mostra Cass., sez. 1, n. 16707/2020, Ferro, Rv. 658605 – 01, che ha chiarito i possibili epiloghi in ambito di concordato fallimentare, ponendo in luce che, se è vero che in difetto di opposizioni il tribunale è esonerato dal condurre un’istruttoria sul merito della proposta, tuttavia, il decreto di omologazione non costituisce l’unico ed indefettibile esito della procedura, potendo il giudice rilevare eventuali difetti di regolarità del giudizio, sicché qualora nel termine di dieci giorni dalla comunicazione dell’approvazione della proposta da parte dei creditori non sia depositata la richiesta di omologazione, la domanda di concordato fallimentare va dichiarata, anche d’ufficio, improcedibile.

10. Il concordato preventivo in generale.

Opportuna la statuizione espressa da Cass., sez. U, n. 10080/2020, Rv. 657856 – 01, in virtù della quale la domanda giudiziale proposta da un imprenditore che abbia presentato istanza di ammissione al concordato preventivo non necessita, ai fini della sua ammissibilità, della previa autorizzazione del tribunale ai sensi dell’art. 161, comma 7, L.F., in quanto la mancanza di tale autorizzazione, necessaria ai fini del compimento degli atti urgenti di straordinaria amministrazione, produce conseguenze esclusivamente sul piano dei rapporti sostanziali (a partire dalla non prededucibilità dei crediti di terzi che da tali atti derivino), ma non spiega alcun effetto sul piano processuale.

Cass., sez. 1, n. 734/2020, Pazzi, Rv. 656520 – 01, ha svolto alcune puntualizzazione essenziali in tema di c.d. “concordato misto”, evidenziando che qualora la procedura concorsuale preveda che alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell’impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale, essa rimane regolata nella sua interezza, salvi i casi di abuso dello strumento, dalla disciplina speciale prevista dall’art. 186-bis l.fall., che al comma 1 espressamente contempla anche detta ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito; la norma in parola non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnata una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una siffatta organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori. Come noto l’art. 84 del d.lgs. n. 14 del 2019 introdurrà, peraltro, proprio il criterio della prevalenza che la Corte ha, nella specie, disatteso.

Importanti alcune puntualizzazioni sul tema denso della transazione fiscale. Cass., Sez. 5, n. 22456/2020, Leuzzi, Rv. 659301 - 01, ha messo in luce che l’istituto di cui all’art. 182-ter l. fall., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006 e successivamente modificato, ma non ancora novellato dall’art. 1, comma 81, della l. n. 232 del 2016, che ha segnato l’obbligatorietà del procedimento ivi descritto in funzione della riduzione dei crediti tributari, si configura come istituto facoltativo e accessorio, essendo rimessa al debitore la facoltà di ricorrervi e rimanendo per questi ferma la possibilità di prospettare la falcidia o la dilazione del pagamento di tutte le proprie passività fiscali, o anche solo di parte di esse, direttamente nella proposta di concordato.

Cass., Sez. 5, n. 16755/2020, Condello, Rv. 658653 – 01, ha misurato l’impatto della transazione fiscale conclusa nell’ambito della procedura di concordato preventivo ai sensi dell’art. 182-ter, comma 5, l.fall. sul giudizio tributario, del quale essa comporta la cessazione della materia del contendere, che deve essere dichiarata dal giudice di legittimità anche d’ufficio, con conseguente inefficacia sopravvenuta della sentenza impugnata, non vertendosi in una delle tipologie decisorie di cui agli artt. 382, comma 3, c.p.c., 383 e 384 c.p.c. L’intervenuto accordo negoziale consente, altresì, di escludere che l’Amministrazione finanziaria possa emettere una cartella esattoriale volta al recupero delle somme oggetto della transazione stessa, riespandendosi il potere impositivo solo ove essa venga meno in conseguenza dell’inadempimento del contribuente poiché, anche prima delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 159 del 2015, l’esistenza di una transazione perfezionatasi e puntualmente eseguita esclude un qualsiasi pregiudizio per l’erario.

A regolare i rapporti fra Amministrazione finanziaria e società in concordato si volge Cass., Sez. 5, n. 13467/2020, D’Aquino, Rv. 658109 – 01, la quale ha puntualizzato che in materia di concordato preventivo, ove l’imprenditore concordante o i suoi aventi causa chiedano il rimborso di un credito IVA formatosi durante lo svolgimento della procedura concorsuale, l’amministrazione finanziaria può opporre in compensazione crediti che siano sorti successivamente all’apertura della procedura medesima, mentre - al contrario - non può opporre in compensazione crediti formatisi in epoca precedente l’apertura della procedura, stante il principio richiamato dagli artt. 56 e 169 l. fall., applicabile anche ai crediti erariali.

Cass., Sez. 1, n. 12171/2020, Fidanza, Rv. 658127 – 01, sottolinea l’importanza in capo all’attestatore dei dei requisiti di terzietà ed indipendenza, dalla cui mancanza fa derivare la nullità dell’atto di nomina del medesimo e il conseguente venir meno del diritto al compenso in sede di insinuazione allo stato passivo del successivo fallimento.

Importante il chiarimento reso da Cass. Sez. 6-1, 12045/2020, Vella, Rv. 658208 – 01, che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per contrarietà agli artt. 3 e 24 Cost., del combinato disposto degli artt. 2495 c.c. e 10 l.fall., nella parte in cui impedisce al liquidatore della società cancellata dal registro delle imprese, di cui, entro l’anno dalla cancellazione, sia domandato il fallimento, di richiedere il concordato preventivo. Quest’ultima procedura, infatti, diversamente dalla prima, che ha finalità solo liquidatorie, tende alla risoluzione della crisi di impresa, sicché l’intervenuta e consapevole scelta di cessare l’attività imprenditoriale, necessario presupposto della cancellazione, ne preclude “ipso facto” l’utilizzo, per insussistenza del bene al cui risanamento essa dovrebbe mirare; né l’istanza concordataria può essere intesa come uno dei mezzi attraverso i quali si esplica il diritto di difesa del fallendo in sede di istruttoria prefallimentare.

Non meno rilevante la puntualizzazione svolta da Cass., Sez. 1 , n. 11882/2020, Amatore, Rv. 657956 – 01, a tenore della quale in tema di ammissione al concordato preventivo, la mancata formulazione da parte del giudice, nel corso dell’udienza camerale, di osservazioni critiche in ordine alla proposta concordataria non impedisce al proponente di richiedere, nel suo interesse, un termine per integrarla, in relazione ad eventuali profili di inammissibilità che potrebbero emergere in sede di decisione, mentre l’art. 162, comma 1, l.fall. attribuisce al giudice un potere discrezionale, il cui omesso esercizio non necessita di motivazione, né è censurabile in sede di legittimità. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza con la quale la corte d’appello, aveva accolto il reclamo della proponente, che lamentava il pregiudizio subito per avere il tribunale omesso, in sede di udienza camerale, di prospettarle la questione posta a fondamento della decisione di inammissibilità della proposta concordataria.

Dalla stessa pronuncia (Rv. 657956 - 02) è poi evincibile un importante principio in materia di concordato preventivo con continuità aziendale, essendo chiarita la possibilità della dilazione del pagamento dei crediti privilegiati anche oltre il termine di un anno dall’omologazione, purché si accordi ai titolari di tali crediti il diritto di voto e la corresponsione degli interessi. In tal caso, il diritto di voto dei privilegiati dilazionati andrà calcolato sulla base del differenziale tra il valore del loro credito al momento della presentazione della domanda di concordato e quello calcolato al termine della moratoria, dovendo i criteri per tale determinazione essere contenuti nel piano concordatario a pena di inammissibilità della proposta, come si desume sia dall’art. 86 del d.lgs. n. 14 del 2019 che dall’art. 2426, comma 1, n. 8), c.c.

Interessanti le pronunce definitorie del perimetro applicativo dell’art. 169-bis l.fall..

Cass., Sez. 1, n. 11523/2020, Mercolino, Rv. 658125 – 01, ha evidenziato che in tema di anticipazione di credito in conto corrente, nel regime precedente all’entrata in vigore dell’art. 169 bis l.fall., è ammissibile la compensazione tra il credito vantato dalla banca per il rimborso dell’anticipazione concessa alla società ammessa al concordato preventivo ed il debito nei confronti di quest’ultima per la restituzione degli importi riscossi in esecuzione dell’incarico conferitole, a nulla rilevando che detto credito sia anteriore all’ammissione alla procedura concorsuale ed il correlativo debito invece posteriore, in quanto, non operando il principio della “cristallizzazione dei crediti”, né l’imprenditore in costanza di procedura, né gli organi concorsuali vantano il diritto a che la banca riversi loro le somme riscosse anziché compensarle.

Cass., Sez. 1, n. 11524/2020, Fidanzia, Rv. 658126 – 02, ha ritenuto l’inapplicabilità della norma testè richiamata alla singola operazione di anticipazione bancaria in conto corrente contro cessione di credito o mandato all’incasso con annesso patto di compensazione, ancora in corso al momento dell’apertura del concordato, avendo la banca, con l’erogazione della anticipazione, già compiutamente eseguito la propria prestazione. Viceversa, la medesima pronuncia (Rv. 658126 – 01) ha ritenuto applicabile l’art. 169 bis l.fall. al contratto-quadro di anticipazione bancaria contro cessione di credito o mandato all’incasso ed annesso patto di compensazione, fino a quando la banca, nell’anticipare al cliente l’importo dei crediti non ancora scaduti vantati da quest’ultimo nei confronti dei terzi, non abbia raggiunto il tetto massimo convenuto tra le parti.

La decisione in esame rappresenta il primo pronunciamento della Corte sull’applicazione delle disposizioni dettate dall’art. 169-bis l.fall. ai contratti di finanziamento c.d. “autoliquidanti”, formulando un principio di diritto di segno antitetico rispetto ad un orientamento diffuso nella giurisprudenza di merito.

Pertanto la decisione è destinata ad assurgere a punto di riferimento importante nella disciplina dei finanziamenti autoliquidanti nel concordato preventivo, quantomeno sino all’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza che prevede al riguardo una disciplina specifica sul tema in esame. Lo schema dei principi è perspicuo: la norma è applicabile al contratto-quadro di anticipazione bancaria fino a quando la banca non abbia ancora raggiunto il tetto massimo convenuto fra le parti; la norma non è, viceversa, applicabile alla singola operazione di anticipazione bancaria in conto corrente contro cessione di credito o mandato all’incasso con annesso patto di compensazione, avendo la banca, con l’erogazione della anticipazione, già compiutamente eseguito la propria prestazione; il collegamento negoziale e funzionale sussistente tra il contratto di anticipazione bancaria ed il mandato all’incasso con patto di compensazione, che consente alla banca di incamerare e riversare in conto corrente le somme derivanti dall’incasso dei singoli crediti del proprio cliente nei confronti di terzi, dando luogo ad un unico rapporto negoziale, determina l’applicazione dell’istituto della c.d. “compensazione impropria” tra i reciproci debiti e crediti della banca con il cliente, sterilizzando il principio di “cristallizzazione” dei crediti e rendendo, pertanto, del tutto irrilevante che l’attività di incasso della banca sia svolta in epoca successiva all’apertura della procedura di concordato preventivo.

Secondo Cass., Sez. 1, n. 26568/2020, Vella, Rv. 659745 - 02 il credito relativo all’indennizzo dovuto per lo scioglimento del contratto preliminare a norma dell’art. 169-bis l.fall. ha natura concorsuale, in quanto va soddisfatto come credito anteriore al concordato, anche quando la facoltà di scioglimento sia stata esercitata dal debitore successivamente al deposito del ricorso di cui all’art. 161 l.fall., come chiarito con le modifiche apportate all’art. 169-bis l.fall. dall’art. 8 del d.l. n. 83 del 2015 (conv. con modif. dalla l. n. 132 del 2015), avente sul punto natura sostanzialmente interpretativa; tale previsione, infatti, ha chiarito che la collocazione in prededuzione può essere riservata solo al credito derivante da eventuali prestazioni contrattuali eseguite legalmente ed in conformità agli accordi o agli usi negoziali, dopo la pubblicazione della domanda ai sensi dell’art. 161 l.fall. In base alla medesima pronuncia (Rv. 659745 - 01), l’accertamento con efficacia di giudicato circa l’esistenza, l’entità e il rango del credito relativo all’indennizzo cui ha diritto il terzo contraente che abbia subito lo scioglimento del contratto, a norma dell’art. 169-bis l.fall., va effettuato, come per tutti i restanti creditori concorsuali, nelle forme della cognizione ordinaria, fermo restando in capo al giudice delegato e al tribunale, in sede di omologazione, il potere di ammettere in tutto o in parte i crediti contestati, ai soli fini del voto e del calcolo delle maggioranze, ai sensi dell’art. 176 l.fall.

La medesima pronuncia (Rv. 659745 – 03), si è curata di precisare che l’autorizzazione alla sospensione o allo scioglimento del contratto pendente, ai sensi dell’art. 169-bis l.fall., presuppone che, al momento della domanda di concordato preventivo, esso non abbia avuto completa esecuzione da entrambe le parti, avuto riguardo alle prestazioni principali del sinallagma contrattuale; ne consegue che l’istituto non è applicabile ai contatti a prestazioni corrispettive in cui una delle parti abbia già compiutamente eseguito la propria prestazione. Il principio enunciato ai sensi dell’art. 363, comma 1, c.p.c. in relazione ad una fattispecie relativa ad un contratto preliminare di vendita in cui, prima del deposito del ricorso ex art. 161 l.fall., il promissario acquirente aveva già corrisposto l’intero prezzo, era stato immesso nella detenzione dell’immobile ed aveva promosso un giudizio, ex art. 2932 c.c., per ottenere la prestazione del consenso dell’altra parte alla stipulazione del contratto definitivo. La pronuncia mette in risalto, ancora (Rv. 659745 - 04), che il giudice, ai fini del giudizio di ammissibilità della domanda, è tenuto, in linea con i principi della normativa unionale in tema di ristrutturazione preventiva, a verificare che il debitore, nel formulare un piano che contempli l’autorizzazione allo scioglimento dal contratto pendente, a norma dell’art. 169-bis l.fall., abbia agito conformemente ai principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, in modo da evitare che ne derivi un ingiusto pregiudizio a carico dell’altro contraente, con conseguente abuso dello strumento concordatario. La fattispecie era relativa ad uno scioglimento del contratto preliminare di vendita in cui, prima del deposito del ricorso ex art. 161 l.fall., il promissario acquirente aveva già versato l’intero prezzo, aveva conseguito la detenzione dell’immobile ed aveva promosso un giudizio ex art. 2932 c.c., subendo una quantificazione dell’indennizzo in misura corrispondente alla mera restituzione del prezzo versato, oggetto di falcidia concordataria nella misura dell’85%.

Cass., Sez. 6 - 1, n. 26895/2020, Ferro, Rv. 659895 – 01, sul piano delle incombenze del commissario giudiziale mette in risalto che l’inventario costituisce uno strumento indispensabile della procedura concordataria e, perciò, un autonomo e specifico compito di tale organo, che non può ritenersi adempiuto “per relationem” all’inventario allegato dall’imprenditore alla domanda di ammissione, né surrogato dalla relazione per l’adunanza dei creditori, la quale, quand’anche faccia riferimento ad attività e passività, è prevista per differenti finalità. Pertanto, nella liquidazione del compenso del commissario, il tribunale non può che riferirsi all’inventario, dovendo le consistenze allegate dalla parte istante essere riscontrate dagli accertamenti compiuti e consegnati ai documenti ufficiali della procedura.

Sull’inventario si sofferma anche Cass., sez. 1, n. 11345/2020, Mercolino, Rv. 658132 – 01, che ne valorizza la funzione ricognitiva e descrittiva del patrimonio dell’imprenditore, ma ne esclude l’attitudine costitutiva di un vincolo, verificandosi nella procedura concordataria uno spossessamento cd. attenuato, all’interno del quale il debitore conserva la disponibilità e la custodia dei propri beni, cosicché la sua omissione impedisce l’approvazione del rendiconto ma non si ripercuote automaticamente sugli atti successivi, potendo questi ultimi risultare invalidi solo se e nella misura in cui la mancata redazione dell’inventario abbia concretamente pregiudicato una adeguata valutazione circa la consistenza e le caratteristiche dei beni.

Sulla misura del soddisfacimento dei creditori si concentra Cass. n. 10884/2020, Falabella, Rv. 658124 – 01, ad avviso della quale il soddisfacimento parziale dei creditori muniti di privilegio generale può trovare fondamento giustificativo solo nell’incapienza del patrimonio mobiliare del debitore, sicché il soddisfacimento dei creditori chirografari non può che dipendere dalla presenza di beni immobili - per la parte non deputata a garantire i creditori che vantino titolo di prelazione su di essi - o di liquidità estranei al patrimonio del debitore medesimo. Il caso posto all’attenzione della Corte investe la tematica delle condizioni cui è soggetta una proposta di concordato preventivo previste dall’art. 160, comma 2, l. fall... In primo luogo, la norma ammette che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca possano venire soddisfatti in misura parziale, purché, in ragione della collocazione preferenziale, il piano concordatario ne preveda il pagamento in termini non deteriori rispetto all’ipotesi di liquidazione; in secondo luogo essa statuisce che il trattamento stabilito per ciascuna classe non possa causare l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione. La Corte evidenzia che la prima delle condizioni poste dall’art. 160, comma 2, l.fall. circoscrive i limiti minimi di soddisfacimento dei privilegiati, evincendone che il creditore chirografario non possa vedere adempiuta, neppure parzialmente, la propria obbligazione ove il presumibile valore di realizzo dei beni su cui insiste il diritto di prelazione non permetta di soddisfare i creditori privilegiati. Nella pronuncia viene poi operata una distinzione fra privilegi speciali, incidenti su di un bene specifico (ipoteca, pegno) e privilegio generale sui mobili. Esclusivamente i primi, qualora il valore del bene afferente il privilegio sia inferiore all’ammontare del credito, possono essere soddisfatti parzialmente e concorrere per il residuo secondo la regola della par condicio con i crediti chirografari; invero, in siffatte circostanze le ragioni del creditore prelatizio dipendono dall’ammontare ritraibile dalla liquidazione del bene su cui insiste il diritto di prelazione, pertanto, quando non sufficiente a soddisfare l’intero credito, concorrerà per il residuo, parimenti ai creditori chirografari, su altri beni su cui non vanta alcun privilegio. Al contrario nel secondo caso, lo stesso posto all’attenzione delle Suprema Corte, l’incapienza del patrimonio rispetto alle ragioni di credito dei titolari del diritto di prelazione, postula che crediti privilegiati non possano essere ulteriormente falcidiati a beneficio di quelli chirografari. Volendo giungere ad un risultato dissimile si ammetterebbe che creditori di rango inferiore siano soddisfatti prima che lo siano, per l’intero, i creditori di rango poziore. Tale risultato, non solo urterebbe il principio per cui il piano concordatario debba assicurare la soddisfazione dei creditori privilegiati in misura almeno pari a quella cui gli stessi potrebbero aspirare, in ragione della loro collocazione preferenziale, in caso di liquidazione, ma travolgerebbe anche la regola che vieta l’alterazione dell’ordine delle cause legittime di prelazione. La ricostruzione della norma operata dalla Cassazione non sembra possa venire superata dall’entrata in vigore del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. n. 14 del 2019), posto che la nuova formulazione della norma sul concordato preventivo (art. 84) sembrerebbe lasciare il precetto sostanzialmente invariato.

Cass., Sez. 1, n. 7117/2020, Pazzi, Rv. 657492 – 01, attiene al cd. “preconcordato” ex art. 161, comma 6, l.fall. del quale adombra la natura di mera opzione di sviluppo del concordato, alternativa a quella prevista dai primi tre commi della medesima norma, imperniata sulla facoltà dell’imprenditore, che già ha assunto la qualità di debitore concordatario, di procrastinare il deposito di proposta, piano e relativa documentazione, al fine di anticipare i tempi dell’emersione della crisi, mediante una domanda anticipata corredata dai documenti previsti dal primo periodo del citato comma 6 (fatti salvi gli oneri di allegazione funzionali alla valutazione della natura di ordinaria o straordinaria amministrazione degli atti compiuti dall’imprenditore in pendenza della procedura ovvero delle istanze dallo stesso presentate) in un termine, concesso dal Tribunale, cui l’imprenditore ha diritto a meno che il Tribunale non rilevi “aliunde”, fin da quel frangente, che l’iniziativa è assunta con abuso dello strumento concordatario.

La medesima pronuncia (Rv. 657492 – 02) evidenzia che la concessione di un termine ex art. 161, commi 6 e 10, l.fall. costituisce un fatto neutro inidoneo di per sé a dimostrare la volontà del debitore di sfuggire alla dichiarazione di fallimento, giacché il mero differimento del procedimento prefallimentare che ne discende rimane neutralizzato dal fenomeno di consecuzione delle procedure concorsuali; nondimeno, la circostanza della presentazione della domanda anticipata di concordato all’ultimo momento utile può concorrere a dimostrare, unitamente ad altri elementi atti a rappresentare in termini abusivi il quadro d’insieme in cui l’iniziativa è stata assunta, il perseguimento di finalità dilatorie del tutto diverse dall’intenzione di regolare la crisi d’impresa.

In tema di liquidazione del compenso del commissario giudiziale si è occupata Cass., Sez. 6 - 1, n. 26894, Ferro, Rv. 659991 - 02, a tenore della quale il relativo decreto, ai sensi dell’art. 4, comma 2, del d.m. n. 30 del 2012, prevede quale autonoma voce il rimborso forfettario delle spese generali (nella misura del 5% del dovuto), sicché viola tale disposizione la liquidazione onnicomprensiva sia in quanto non reca la corrispondente indicazione, sia in quanto rende oggettivamente impossibile ricavare l’eventuale inclusione dello stesso all’interno dell’importo così unitariamente determinato.

La medesima ordinanza soggiunge (Rv. 659991 – 01) che in tema di compensi spettanti al commissario giudiziale del concordato preventivo, il decreto con il quale viene operata la relativa liquidazione deve essere motivato in ordine alle specifiche opzioni discrezionali demandate al giudice dall’art. 39 l.fall. e dalle norme regolamentari ivi richiamate, a pena di nullità denunciabile con il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., anche se la motivazione può essere implicita, integrata cioè dal contenuto dell’istanza e dai relativi allegati, sempre che vi sia l’espresso riferimento ai parametri applicati, non bastando il mero rinvio all’istanza del commissario giudiziale, senza l’indicazione dei criteri in concreto adottati.

Cass., Sez. 1, n. 4329/2020, De Marzo, Rv. 657075 – 01, ha messo in luce come il combinato disposto degli artt. 2495 c.c. e 10 l.fall. impedisce all’imprenditore individuale volontariamente cancellatosi dal registro delle imprese, di cui, entro l’anno dalla cancellazione, sia domandato il fallimento, di richiedere l’ammissione al concordato preventivo, trattandosi di procedura che, diversamente dal fallimento, caratterizzato da finalità solo liquidatorie, tende piuttosto alla risoluzione della crisi di impresa, sicché l’intervenuta e consapevole scelta di cessare l’attività imprenditoriale, necessario presupposto della cancellazione, preclude “ipso facto” l’utilizzo della procedura concordataria per insussistenza del bene al cui risanamento essa dovrebbe mirare.

Cass., Sez. 6 - 1, n. 2422/2020, Ferro, Rv. 656715 – 01, individua alla stregua di regola generale quella del pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati, osservando coerentemente che l’adempimento con una tempistica superiore a quella imposta dai tempi tecnici della procedura equivale ad una soddisfazione non integrale degli stessi, in ragione della perdita economica conseguente al ritardo rispetto ai tempi normali con il quale i creditori conseguono le somme dovute. La determinazione in concreto di tale perdita, rilevante ai fini del computo del voto ex art. 177, comma 3, l.fall., costituisce un accertamento in fatto che il giudice di merito deve compiere alla luce della relazione giurata del professionista ex art. 160, secondo comma, l.fall., tenendo conto degli eventuali interessi offerti ai creditori e dei tempi tecnici di liquidazione dei beni gravati dal privilegio in ipotesi di soluzione della crisi alternativa al concordato.

10.1. L’ammissione alla procedura e la sua revoca.

Cass., Sez. 1, n. 11522/2020, Mercolino, Rv. 658133 – 01, è tornata sulla distinzione tra fattibilità giuridica ed economica, evidenziando come il sindacato del tribunale riferito alla prima tenda ad appurare la non incompatibilità del piano con norme inderogabili, mentre quello relativo alla seconda si incentri sulla realizzabilità del piano medesimo nei limiti della verifica della sua eventuale manifesta inettitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati, rimanendo riservata ai creditori la sola valutazione della convenienza della proposta rispetto all’alternativa fallimentare, oltre a quella della specifica realizzabilità della singola percentuale di soddisfazione prevista per ciascuno di essi; né sulla detta distinzione ha inciso – ad avviso della Corte – il comma 4 dell’art. 160 l.fall. (introdotto dal d.l. n. 83 del 2015, conv. con modif. dalla l. n. 132 del 2015), laddove prevede che, fatta eccezione per il concordato con continuità aziendale, la proposta di concordato deve assicurare in ogni caso il pagamento della soglia minima di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari, limitandosi ad introdurre un requisito ulteriore di validità della proposta, al cui riscontro il giudice deve procedere già in sede di ammissione alla procedura. Nella specie, il Collegio nomofilattico, procedendo alla correzione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c. della motivazione della sentenza impugnata, ha escluso che l’art. 160, comma 4, l. fall. abbia comportato il superamento della distinzione tra il controllo di fattibilità giuridica e quello di fattibilità economica, con la conseguenza che, ai fini della dichiarazione di ammissibilità del concordato, il sindacato del giudice dovrebbe estendersi al merito della proposta.

Le prerogative del pubblico ministero sono al centro di Cass, Sez. 1, n. 27936/2020, Dolmetta, Rv. 659739 – 01, ove si chiarisce che in caso di rinuncia alla domanda dopo l’apertura del procedimento di revoca di cui all’art. 173 l.fall., il P.M. ha sempre il potere di formulare, prima che il tribunale dichiari l’improcedibilità, la richiesta di fallimento, in quanto la detta rinunzia, senza determinare la cessazione automatica del procedimento concordatario, non elimina il potere di iniziativa del P.M. fondato sulla ravvisata esistenza di atti di frode. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza con la quale la corte d’appello aveva ritenuto che per effetto della rinuncia alla domanda di concordato e della conseguente cessazione della procedura concordataria, fosse venuta meno la legittimazione del P.M. all’istanza di fallimento.

Nell’alveo dei rapporti fra procedura concordataria e accertamento dei crediti tributari si inscrive Cass., Sez. 5, n. 24880/2020, Nonno, Rv. 659511 – 01, a mente della quale l’apertura della prima non è ostativa allo svolgimento del secondo mediante iscrizione a ruolo ed emissione della cartella, né alla irrogazione delle sanzioni e degli accessori, ove i presupposti impositivi e le violazioni da cui discendono le sanzioni siano stati posti in essere anteriormente alla procedura concorsuale che nemmeno può essere invocata quale ipotesi di forza maggiore estintiva dell’obbligazione.

Sul tema ricorrente dei rapporti fra misure ablatorie penali e procedure concorsuali torna una volta di più la Suprema Corte con la sentenza resa da Cass., Sez. 1, n. 24326/2020, Campese, Rv. 659654 – 01, ad avviso della quale il carattere obbligatorio e sanzionatorio della confisca diretta o per equivalente del profitto dei reati tributari, prevista dall’art. 12 bis comma 1, del d.lgs. n.74 del 2000, comporta che il sequestro preventivo ad essa funzionale, benché sopravvenuto rispetto alla proposizione di una domanda di concordato preventivo, sia opponibile ai creditori, non potendo in contrario invocarsi l’art. 168 l.fall., il quale vieta l’inizio delle azioni cautelari in costanza di procedura, posto che una siffatta inibizione non sussiste per la potestà cautelare che lo Stato esercita, non a tutela del suo credito, bensì nell’interesse alla repressione dei reati.

Sulla tematica sensibile dei rapporti di lavoro si appunta, invece, Cass., Sez. L, n. 23925/2020, Patti, Rv. 659265 – 01, che pone in evidenza come l’ammissione dell’imprenditore al concordato preventivo per cessione di beni, pur potendo integrare giustificato motivo di recesso, non comporti di per sè l’impossibilità giuridica della continuazione del rapporto di lavoro che permane fino al recesso di una delle parti. Nella specie, la Corte ha cassato la decisione di merito che non aveva ammesso al passivo i crediti di lavoro di un dirigente, sul presupposto dell’impossibilità della prestazione lavorativa in pendenza del concordato preventivo per cessione di beni, stante l’esclusivo scopo liquidatorio della procedura).

Sull’importante tema dei rapporti fra risoluzione e revoca si concentra, invece, Cass., Sez. 6 - 1, n. 19005/2020, Campese, Rv. 659000 – 01, per la quale qualora sia accertata la sussistenza dei presupposti per la declaratoria di risoluzione del concordato già omologato e la stessa venga pronunciata, non è possibile procedere pure alla revoca dell’ammissione della società alla procedura concordataria, sicchè è nullo il provvedimento del tribunale che abbia disposto tale revoca. Detta soluzione si mostra incontrovertibile, già sulla scorta del rilievo relativo alla revocabilità dell’ammissione al concordato preventivo esclusivamente nell’intervallo temporale tra l’apertura della procedura e la successiva omologazione.

Cass., Sez. 1, n. 11522/2020, Mercolino, Rv. 658133 – 01, è tornata sulla distinzione tra fattibilità giuridica ed economica, evidenziando come il sindacato del tribunale riferito alla prima tenda ad appurare la non incompatibilità del piano con norme inderogabili, mentre quello relativo alla seconda si incentri sulla realizzabilità del piano medesimo nei limiti della verifica della sua eventuale manifesta inettitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati, rimanendo riservata ai creditori la sola valutazione della convenienza della proposta rispetto all’alternativa fallimentare, oltre a quella della specifica realizzabilità della singola percentuale di soddisfazione prevista per ciascuno di essi; né sulla detta distinzione ha inciso – ad avviso della Corte – il comma 4 dell’art. 160 l.fall. (introdotto dal d.l. n. 83 del 2015, conv. con modif. dalla l. n. 132 del 2015), laddove prevede che, fatta eccezione per il concordato con continuità aziendale, la proposta di concordato deve assicurare in ogni caso il pagamento della soglia minima di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari, limitandosi ad introdurre un requisito ulteriore di validità della proposta, al cui riscontro il giudice deve procedere già in sede di ammissione alla procedura. Nella specie, il Collegio nomofilattico, procedendo alla correzione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c. della motivazione della sentenza impugnata, ha escluso che l’art. 160, comma 4, l. fall. abbia comportato il superamento della distinzione tra il controllo di fattibilità giuridica e quello di fattibilità economica, con la conseguenza che, ai fini della dichiarazione di ammissibilità del concordato, il sindacato del giudice dovrebbe estendersi al merito della proposta.

Le prerogative del pubblico ministero sono al centro di Cass, Sez. 1, n. 27936/2020, Dolmetta, Rv. 659739 – 01, ove si chiarisce che in caso di rinuncia alla domanda dopo l’apertura del procedimento di revoca di cui all’art. 173 l.fall., il P.M. ha sempre il potere di formulare, prima che il tribunale dichiari l’improcedibilità, la richiesta di fallimento, in quanto la detta rinunzia, senza determinare la cessazione automatica del procedimento concordatario, non elimina il potere di iniziativa del P.M. fondato sulla ravvisata esistenza di atti di frode. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza con la quale la corte d’appello aveva ritenuto che per effetto della rinuncia alla domanda di concordato e della conseguente cessazione della procedura concordataria, fosse venuta meno la legittimazione del P.M. all’istanza di fallimento.

Nell’alveo dei rapporti fra procedura concordataria e accertamento dei crediti tributari si inscrive Cass., Sez. 5, n. 24880/2020, Nonno, Rv. 659511 – 01, a mente della quale l’apertura della prima non è ostativa allo svolgimento del secondo mediante iscrizione a ruolo ed emissione della cartella, né alla irrogazione delle sanzioni e degli accessori, ove i presupposti impositivi e le violazioni da cui discendono le sanzioni siano stati posti in essere anteriormente alla procedura concorsuale che nemmeno può essere invocata quale ipotesi di forza maggiore estintiva dell’obbligazione.

Sul tema ricorrente dei rapporti fra misure ablatorie penali e procedure concorsuali torna una volta di più la Suprema Corte con la sentenza resa da Cass., Sez. 1, n. 24326/2020, Campese, Rv. 659654 – 01, ad avviso della quale il carattere obbligatorio e sanzionatorio della confisca diretta o per equivalente del profitto dei reati tributari, prevista dall’art. 12 bis comma 1, del d.lgs. n.74 del 2000, comporta che il sequestro preventivo ad essa funzionale, benché sopravvenuto rispetto alla proposizione di una domanda di concordato preventivo, sia opponibile ai creditori, non potendo in contrario invocarsi l’art. 168 l.fall., il quale vieta l’inizio delle azioni cautelari in costanza di procedura, posto che una siffatta inibizione non sussiste per la potestà cautelare che lo Stato esercita, non a tutela del suo credito, bensì nell’interesse alla repressione dei reati.

Sulla tematica sensibile dei rapporti di lavoro si concentra, invece, Cass., Sez. L, n. 23925/2020, Patti, Rv. 659265 – 01, che pone in evidenza come l’ammissione dell’imprenditore al concordato preventivo per cessione di beni, pur potendo integrare giustificato motivo di recesso, non comporti di per sè l’impossibilità giuridica della continuazione del rapporto di lavoro che permane fino al recesso di una delle parti. Nella specie, la Corte ha cassato la decisione di merito che non aveva ammesso al passivo i crediti di lavoro di un dirigente, sul presupposto dell’impossibilità della prestazione lavorativa in pendenza del concordato preventivo per cessione di beni, stante l’esclusivo scopo liquidatorio della procedura).

Sull’importante tema dei rapporti fra risoluzione e revoca si concentra, invece, Cass., Sez. 6 - 1, n. 19005/2020, Campese, Rv. 659000 – 01, per la quale qualora sia accertata la sussistenza dei presupposti per la declaratoria di risoluzione del concordato già omologato e la stessa venga pronunciata, non è possibile procedere pure alla revoca dell’ammissione della società alla procedura concordataria, sicchè è nullo il provvedimento del tribunale che abbia disposto tale revoca.

10.2. L’omologa, le impugnazioni e l’esecuzione.

Cass. Sez. 1, n. 25445/2020, Campese, Rv. 659735 – 01, ha avuto occasione di puntualizzare che in tema di concordato preventivo “con riserva”, non è ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost., difettando del carattere della decisorietà, il decreto della corte d’appello reiettivo del reclamo proposto avverso il provvedimento del tribunale che abbia concesso un termine per il deposito della proposta, del piano e della documentazione di cui all’art. 161, commi 2 e 3, l.fall.

Cass., Sez 1, n. 26567/2000, Vella, Rv. 659744 – 01, ha chiarito che in ambito di concordato preventivo avente natura liquidatoria, ove nel corso dell’esecuzione della procedura sopravvenga la morte del debitore concordatario, è applicabile, in via analogica, l’art. 12 l. fall., con la conseguenza che la procedura prosegue nei confronti dei suoi eredi, anche se costoro hanno accettato con beneficio d’inventario ovvero, nel caso previsto dall’art. 528 c.c., nei confronti del curatore dell’eredità giacente.

Cass., Sez. 1, n. 11344/2020, Mercolino, Rv. 658087 – 01, si è occupato di tracciare la distinzione tra la risoluzione del concordato preventivo e la risoluzione o l’annullamento del concordato fallimentare, evidenziando come la prima non debba essere disposta con sentenza, ma con decreto, per effetto della clausola di compatibilità che accompagna il rinvio agli artt. 137 e 138, contenuto nell’art. 186, ultimo comma della l. fall., avuto riguardo alla differenza degli effetti dei due tipi di concordato, che, nel caso di concordato preventivo, non determinano, diversamente da quanto accade a seguito del concordato fallimentare, automatica dichiarazione di fallimento sia perché il concordato preventivo non presuppone necessariamente lo stato di insolvenza del debitore, sia perché l’attuale disciplina della dichiarazione di fallimento non conosce più l’iniziativa officiosa. Ne consegue che non è nullo il provvedimento di risoluzione di concordato preventivo sottoscritto soltanto dal presidente del collegio, senza la firma del relatore, restando esclusa la sua necessità, ex art. 135 c.p.c., quando, come nella specie, il provvedimento nonostante la forma collegiale e la natura decisoria, che lo rendono sostanzialmente assimilabile ad una sentenza, debba essere emesso con decreto per espressa disposizione di legge.

Delle votazioni in ambito concordatario si occupa Cass., Sez. 6 - 1, n. 2424/2020, Ferro, Rv. 657224 – 01, ad avviso della quale in tema di concordato preventivo la proposta è approvata solo se riporta il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto e, in caso di suddivisione in classi, anche della maggioranza di queste, sicché, ove il concordato abbia previsto due sole classi di creditori, la proposta deve comunque ritenersi respinta se non sia stata raggiunta la maggioranza che, in questo caso, coincide con l’unanimità delle classi. Il tema della maggioranza di classi assume una fisionomia peculiare ogniqualvolta nella proposta sia prevista l’istituzione di un numero pari di esse, e ciò sulla base dell’ovvia ragione per cui, in tal caso, per assicurarsi la maggioranza pretesa dall’art. 177 l. fall. il debitore ha necessità di acquisire un’unità in più rispetto a quelle normalmente necessarie in caso di numero dispari. Ne consegue che, se il piano concordatario presenta un numero pari di classi, la maggioranza non potrà ritenersi raggiunta laddove aderisca alla proposta concordataria solo la metà delle stesse. Il problema si aggrava qualora si opti a monte per l’istituzione di due sole classi di creditori, dacché in questo caso il concetto di “maggioranza” finisce per sovrapporsi a quello di “unanimità”, con la conseguenza per cui un eventuale risultato paritario del voto per classi comporta il mancato raggiungimento della maggioranza.

12. La liquidazione coatta amministrativa.

Cass., Sez. 6 - 1, n. 23477/2020, Dolmetta, Rv. 659430 – 01, ha chiarito che in caso di insolvenza del concessionario della riscossione di tributi e della conseguente ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria, l’ente impositore non può esperire l’azione di rivendica e restituzione, ex art. 103 legge fall., delle somme riscosse e versate dal concessionario su conti correnti bancari e postali a sé intestati, poiché tali somme, ex artt. 1852 e 1834 comma 1 c.c., non sono di proprietà dell’intestatario del conto corrente, ma della banca, che assume l’obbligo di restituire al titolare del conto altrettante cose dello stesso genere, mentre l’ente impositore vanta per la corresponsione delle medesime somme un diritto di credito nei confronti del concessionario. In attuazione del predetto principio, la Corte ha confermato la pronuncia del tribunale che aveva rigettato la domanda ex art. 103 l.f. proposta dall’ente impositore, accogliendone la domanda subordinata, di ammissione al passivo del credito in via privilegiata ex art. 2752 c.c..

Cass., Sez. 6 - 1, n. 23491/2020, Pazzi, Rv. 659249 – 01, ha puntualizzato che in tema di liquidazione coatta amministrativa, l’art. 111, comma 1, n. 1, 1. fall., nel testo applicabile “ratione temporis”, anteriormente alla modifica apportata dal d.lgs. n. 5 del 2006, ammette in prededuzione, in deroga al principio della “par condicio creditorum”, il pagamento, oltre che delle spese procedurali, anche dei debiti contratti dagli organi concorsuali per l’amministrazione del fallimento e l’eventuale continuazione dell’esercizio dell’impresa.

Cass., Sez. 1, n. 23136/2020, Dolmetta, Rv. 659425 – 01, ha ritenuto che in tema di insinuazione allo stato passivo, qualora l’incaricato alla riscossione abbia domandato l’ammissione al passivo per crediti riportati in numerose cartelle esattoriali, l’estensione all’intero complesso delle voci documentali prodotte di quanto riscontrato dal giudice in riferimento soltanto a talune di esse prese a campione, si rivela una valutazione priva di una qualunque logica inferenziale, sicché la motivazione adottata dal tribunale deve qualificarsi come meramente apparente.

Cass., Sez. 1, n. 22611/2020, Dolmetta, Rv. 658985 – 01, ha reputato che le risultanze dello stato passivo formato nell’ambito dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, ex d.l. n. 26 del 1979, hanno efficacia solo endoconcorsuale e sono prive di uno speciale valore probatorio nei giudizi instaurati dal creditore nei confronti del debitore tornato “in bonis”, in quanto l’accertamento del passivo è caratterizzato dalla speciale disciplina della opponibilità degli atti alla massa dei creditori e dalla posizione marginale del fallito, privo di mezzi per impugnare le relative decisioni.

Cass., Sez. 6 - 1, n. 14959/2020, Ferro, Rv. 658703 – 01, ha ritenuto che, a seguito della chiusura della liquidazione coatta amministrativa bancaria, l’opposizione allo stato passivo avanzata ex art. 87 d.lgs. n. 385 del 1993 non diviene improcedibile, bensì prosegue nei confronti del commissario liquidatore già ai sensi dell’originario testo dell’art. 92, comma 8, del menzionato decreto legislativo, senza che rilevi la disciplina sopravvenuta di cui al d.lgs. n. 181 del 2015. Nella specie, la Corte ha cassato la sentenza d’appello, che aveva sanzionato d’improcedibilità l’opposizione al passivo della procedura concorsuale sul presupposto dell’intervenuta chiusura di quest’ultima.

Cass., Sez. 1, n. 11267/2020, Pazzi, Rv. 657910 – 02, ha considerato che nei giudizi instaurati per la dichiarazione dello stato d’insolvenza degli enti creditizi, gli atti provenienti dalla Banca d’Italia o dai commissari straordinari non hanno il valore di prova privilegiata ex art. 2700 c.c. in quanto non sono formati da pubblici ufficiali nell’esercizio di una funzione specificatamente diretta alla documentazione. Tuttavia tali atti, proprio in ragione della loro origine e delle finalità perseguite dai soggetti che li pongono in essere, costituiscono una legittima fonte di informazione, utile all’accertamento dei fatti di causa in senso stretto, che, ove non sia validamente contraddetta, ben può concorre alla formazione del convincimento del giudice, il quale è tenuto ad ammettere le prove che le altre parti deducano per contrastare le risultanze in questo modo acquisite, ma non ad acquisirne d’ufficio per controllare la loro rispondenza al vero.

Cass., Sez. 1, n. 09461/2020, Scotti, Rv. 657683 – 01, ha ritenuto che nelle procedure concorsuali opera il principio secondo il quale tutti i crediti vantati nei confronti dell’imprenditore insolvente devono essere accertati secondo le norme che ne disciplinano il concorso, sicché la domanda formulata da chi si afferma creditore in sede di cognizione ordinaria, se proposta prima dell’inizio della liquidazione coatta amministrativa, diviene improcedibile e tale improcedibilità sussiste anche se la procedura concorsuale sia stata aperta, dopo una pronuncia di condanna nei confronti dell’impresa insolvente, nel corso del giudizio in Cassazione. Nella specie la Corte ha dichiarato improcedibile la domanda di risarcimento del danno proposta dal cliente di un istituto di credito sottoposto a liquidazione coatta amministrativa soltanto nel corso del giudizio di legittimità, dopo che la banca ancora in bonis era rimasta soccombente all’esito di un giudizio di condanna in appello.

Cass., Sez. 1, n. 04341/2020, Federico, Rv. 657078 – 01, ha reputato che in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese, l’art. 3, comma 1-ter, del d.l. n. 347 del 2003, conv. con modif. in legge n. 39 del 2004, prevede una specifica ipotesi di prededuzione in favore di determinati creditori e per particolari prestazioni eseguite, applicabile qualora la debitrice, ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria, gestisca almeno uno stabilimento industriale di interesse strategico nazionale, da individuarsi con d.p.c.m. ai sensi dell’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, conv. con modif. in legge n. 231 del 2012; trattandosi di previsione eccezionale e di stretta interpretazione, in deroga al principio generale di cui all’art. 2740 c.c., si applica alla sola debitrice che ne abbia le caratteristiche e non anche alla capogruppo o ad altra società del gruppo di imprese, pur ammesse alla procedura di amministrazione straordinaria, di cui faccia eventualmente parte la debitrice. (Fattispecie relativa all’impianto siderurgico di Taranto, gestito dal gruppo Ilva di cui fa parte la debitrice, circostanza sulla quale la creditrice, ammessa in chirografo, aveva fatto “affidamento”).

13. Il sovraindebitamento.

Poco incisa la materia pure attualissima del sovraindebitamento. Assolutamente degna di menzione Cass., Sez. 6 - 1, n. 17391/2020, Terrusi, Rv. 658719 – 01, ad avviso della quale, in tema di composizione della crisi da sovraindebitamento, gli accordi di ristrutturazione dei debiti come pure i piani del consumatore possono prevedere una dilazione del pagamento dei crediti prelatizi, oltre il termine annuale previsto dall’art. 8, comma 4, l. n. 3 del 2012, purché ai titolari di tali crediti sia attribuito il diritto di voto, tenuto conto che detta dilazione, anche se di lunga durata, non pone un problema di fattibilità giuridica, ma influisce soltanto sulla valutazione di convenienza per i creditori. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato il decreto del tribunale che, in sede di reclamo, aveva confermato il diniego di omologa di una proposta di accordo di ristrutturazione, ritenuto non fattibile a causa della dilazione in cinque anni del pagamento di un credito ipotecario).

PARTE QUINTA IL DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA - SEZIONE PRIMA - IL RAPPORTO DI LAVORO PRIVATO

  • congedo parentale
  • contratto
  • appalto pubblico
  • retribuzione del lavoro
  • diritto del lavoro
  • cassa integrazione
  • datore di lavoro
  • impresa familiare

CAPITOLO XVII

COORDINATE ERMENEUTICHE DI LEGITTIMITÀ IN MATERIA DI LAVORO PRIVATO

(di Antonella Filomena Sarracino )

Sommario

1 Questioni in materia di subordinazione. I rapporti di collaborazione ex art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015. - 1.1 Subordinazione e associazione in partecipazione. - 1.2 Il contratto di apprendistato, il lavoro a progetto e la trasformazione in lavoro subordinato. - 1.3 La subordinazione cd. attenuata del lavoro dirigenziale. - 1.4 Subordinazione ed impresa familiare. - 1.5 Contratto di appalto con impresa artigiana e parasubordinazione. - 1.6 Rapporto di lavoro giornalistico e collaboratore fisso. - 2 Lavoro autonomo e prestazioni di opera intellettuale: i professori d’orchestra. - 2.1 Il contratto di agenzia. - 3 L’individuazione del datore di lavoro. - 3.1 La verifica della sussistenza di obblighi di inquadramento datoriali in caso di appalto di pubblico servizio. - 3.2 Accordo sindacale, obbligo di assunzione, contenuto minimo ed esecuzione in forma specifica. - 4 Gli obblighi di protezione del datore di lavoro e la tutela delle condizioni di lavoro: il limite del rischio elettivo e del concorso colposo del dipendente, il riparto degli oneri della prova e le peculiarità del giudizio per danni iure proprio da perdita del rapporto parentale conseguente ad inadempimento datoriale. - 4.1 La responsabilità del committente e del sub-committente. - 5 Il mobbing. - 6 Demansionamento e ius variandi. - 7 Discriminazioni in materia di occupazione e condizioni di lavoro, comportamenti antisindacali e prerogative sindacali. - 8 I poteri di controllo datoriali. - 9 Questioni retributive. - 9.1 Interessi e rivalutazione nel rapporto di lavoro privato e gli interessi compensativi nei debiti di valore. - 10 La stipula di patti a corredo del rapporto di lavoro, rinunzie abdicative, progetto individuale di inserimento e consenso del lavoratore. - 11 I congedi parentali e le previsioni della l. n. 104 del 5 febbraio del 1992 in tema di permessi, computabilità ai fini della tredicesima ed esonero dall’obbligo dal lavoro notturno. - 12 Rapporti di lavoro e procedure concorsuali. - 13 Il distacco del lavoratore ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. n. 276 del 2003. - 14 La cessione del trattamento di fine rapporto ed il limite del quinto, transazione e regole di ermeneutica della contrattazione collettiva e degli atti di quietanza. - 15 Dimissioni. - 16 L’esame di questioni specifiche derivanti dalla contrattazione collettiva. - 17 I danni risarcibili in caso di violazione dei criteri di rotazione per la collocazione in cassa integrazione.

1. Questioni in materia di subordinazione. I rapporti di collaborazione ex art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015.

Le questioni problematiche poste dal d.lgs. n. 81 del 15 giugno 2015, anche alla luce delle recentissime modifiche apportate dal d.l. n. 101 del 3 settembre 2019, conv. con modif. in l. n. 128 del 2 novembre 2019, vengono ad essere dipanate da Sez. L, n. 01663/2020, Raimondi, Rv. 656729-01, sicché la presente rassegna si pone in linea di continuità ideale, al riguardo, con quella dello scorso anno, che lasciava sul campo irrisolte proprio le questioni poste dall’art. 2 del d.lgs. n. 81, imponendo così alla giurisprudenza un’opera ermeneutico ricostruttiva poderosa, volta a rimeditare i rapporti tra le collaborazioni continuative e coordinate e la subordinazione.

Ebbene, nella innanzi citata sentenza vengono affermati tre principi di fondamentale importanza.

In primo luogo, quanto alla individuazione del tratto caratterizzante cui far riferimento ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato, da rinvenirsi nella etero-organizzazione, di cui viene data anche la “mappatura genetica”.

In tema di rapporti di collaborazione ex art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015, scrive il giudice di legittimità, ai fini dell’individuazione della nozione di etero-organizzazione, rilevante per l’applicazione della disciplina della subordinazione, è sufficiente che il coordinamento imposto dall’esterno sia funzionale con l’organizzazione del committente, così che le prestazioni del lavoratore possano, secondo la modulazione predisposta dal primo, inserirsi ed integrarsi con la sua organizzazione di impresa, costituendo la unilaterale determinazione anche delle modalità spazio-temporali della prestazione una possibile, ma non necessaria, estrinsecazione del potere di etero-organizzazione (Sez. L, n. 01663/2000, Raimondi, Rv. 656729-02).

Sul piano della disciplina, poi, afferma la Suprema Corte, ai rapporti di collaborazione di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015, in un’ottica sia di prevenzione, sia “rimediale”, dovrà applicarsi quella del rapporto di lavoro subordinato quando la prestazione del collaboratore sia esclusivamente personale, venga svolta in maniera continuativa nel tempo e le modalità di esecuzione della prestazione, anche in relazione ai tempi ed al luogo di lavoro, siano organizzate dal committente, senza che il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta sia tenuto a compiere ulteriori indagini, né possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento dal giudizio qualificatorio di sintesi (Sez. L, n. 01663/2020, Raimondi, Rv. 656729-01).

Da ultimo, la conclusione del percorso argomentativo: l’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 è norma di disciplina e non di fattispecie, sicché i rapporti di collaborazione di cui si sta discorrendo non costituiscono un tertium genus intermedio tra autonomia e subordinazione, con la conseguenza che al verificarsi delle condizioni ivi previste segue l’applicazione della disciplina della subordinazione, senza che sia necessario selezionare quali parti di questa disciplina siano ad essi applicabili (Sez. L, n. 01663/2020, Raimondi, Rv. 656729-03).

La decisione assume una portata fondamentale perché affronta sul piano sistematico e sulla scia dei nova normativi una nuova e variegata realtà sociale in cui, sempre più, si fanno strada nuovi lavori e professioni: basti pensare, per citare gli esempi di maggiore attualità, ai motofattorini e ciclofattorini (cd. riders), ma anche ai platform workers, rispetto ai quali la pronunzia individua il sentiero ermeneutico per ravvisare la natura subordinata del rapporto, precisando che la disciplina in esame svolge solo funzione di disciplina, senza introdurre nel nostro ordinamento una nuova categoria concettuale a mezza strada tra il lavoro autonomo e quello subordinato.

Dello stesso relatore, sempre quanto alla verifica della natura subordinata del rapporto di lavoro, in armonia con il sentiero interpretativo già tracciato dal giudice di legittimità in Sez. L, n. 25204/2013, Arienzo, Rv. 629542-01, Sez. L, n. 03912/2020, Raimondi, Rv. 656927-01, ricorda che la sporadicità dell’attività prestata e l’affidamento - secondo indicazioni di massima e con possibilità del lavoratore di accettarli o meno - di compiti saltuariamente svolti, sono idonei ad escludere la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato, denotando tali aspetti la mancanza di eterodirezione ed inserimento stabile e costante del prestatore nella compagine organizzativa aziendale.

Nella specie, in applicazione del riportato principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso la sussistenza di un rapporto subordinato tenuto conto che veniva in rilievo un unico, benché lungo, viaggio di andata e ritorno, sia pure con varie tappe intermedie, posto in essere da un camionista.

Sez. L, n. 03075/2020, Raimondi, Rv. 656771-01, affronta nuovamente il tema dei conducenti dei veicoli adibiti al trasporto di cose per conto terzi, affermando che dalla disposizione dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 21 novembre 2005 - la quale prescrive che, in caso di irregolarità, oltre alle sanzioni amministrative, si applicano “le sanzioni previste dalle vigenti disposizioni in materia di rapporto di lavoro dipendente” - non è possibile ricavare la volontà del legislatore di stabilire una presunzione legale di subordinazione, perché la norma si limita, senza ambiguità, a far salvo il regime sanzionatorio del rapporto di lavoro dipendente, ma non contiene alcun elemento che possa condurre ad estendere il perimetro della fattispecie legale di cui all’art. 2094 c.c.

L’essenza della subordinazione va ravvisata dunque altrove, in primis, nella eterodirezione della prestazione.

1.1. Subordinazione e associazione in partecipazione.

Nell’ambito del medesimo percorso di approfondimento vanno segnalate le pronunzie della S.C. nelle quali si è affrontato il tema della riconducibilità dei rapporti di lavoro alla subordinazione o piuttosto alla associazione in partecipazione.

Con specifico riferimento a detto aspetto, Sez. L, n. 25221/2020, Amendola, Rv. 659541-01, afferma che la riconducibilità del rapporto di lavoro, al contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato ovvero al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili, esige un’indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa, il secondo comporta un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell’associante di impartire direttive e istruzioni al cointeressato, con assoggettamento al potere gerarchico e disciplinare di colui che assume le scelte di fondo dell’organizzazione aziendale.

La pronunzia innanzi citata si pone in armonia con quanto già il giudice di legittimità aveva sostanzialmente affermato, nell’anno in corso, in Sez. L, n. 26273/2020, Blasutto, Rv. 659445-01.

La riconducibilità del rapporto di lavoro al contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato ovvero al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili, ha scritto la S.C., va verificata in concreto, cogliendo la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che il primo implica l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa, configurabile pure laddove le parti abbiano escluso la partecipazione alle perdite, poiché in tal caso l’eventuale assenza di utili determina l’assenza di compensi, necessariamente correlati all’andamento economico dell’impresa.

In applicazione dei principi innanzi enunziati, la Cassazione ha confermato la sentenza di merito che aveva qualificato come subordinato un rapporto formalmente contrattualizzato in regime di associazione in partecipazione, sul rilievo che alle lavoratrici era stato assicurato un compenso garantito mensile, sostanzialmente corrispondente alla retribuzione fissata dalla contrattazione collettiva per il profilo professionale corrispondente alle mansioni di fatto svolte - commesse di negozio - senza partecipazione alle perdite.

1.2. Il contratto di apprendistato, il lavoro a progetto e la trasformazione in lavoro subordinato.

Il contratto di apprendistato, anche nel regime normativo di cui alla l. n. 25 del 1955, si configura come rapporto di lavoro a tempo indeterminato a struttura bifasica, nel quale la prima fase è contraddistinta da una causa mista (al normale scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione si aggiunge l’elemento specializzante costituito dallo scambio tra attività lavorativa e formazione professionale), mentre, la seconda, soltanto residuale, perché condizionata al mancato recesso ex art. 2118 c.c., vede la trasformazione del rapporto in tipico rapporto di lavoro subordinato (si veda, in tal senso, Sez. L, n. 02365/2020, Amendola, Rv. 656696-01).

Ebbene, in relazione al tema specifico di indagine concernente la trasformazione in rapporto di lavoro subordinato del contratto di apprendistato, Sez. L, n. 16595/2020, Ciriello, Rv. 658635-01, offre le coordinate ermeneutiche cui attendere.

In tema di contratto di apprendistato, scrive il giudice di legittimità, l’inadempimento degli obblighi di formazione ne determina la trasformazione, fin dall’inizio, in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ove l’inadempimento abbia un’obiettiva rilevanza, concretizzandosi nella totale mancanza di formazione, teorica e pratica, ovvero in una attività formativa carente o inadeguata rispetto agli obiettivi indicati nel progetto di formazione e trasfusi nel contratto, ferma la necessità per il giudice, in tale ultima ipotesi, di valutare, in base ai principi generali, la gravità dell’inadempimento ai fini della declaratoria di trasformazione del rapporto in tutti i casi di inosservanza degli obblighi di formazione di non scarsa importanza.

È comunque consentito al datore di lavoro, sottolinea la S.C., l’uso di una circoscritta discrezionalità nel realizzare il programma di formazione, che si traduce nella possibilità di alternare la fase teorica con la fase pratica tenendo conto delle esigenze dell’impresa; essa non può però mai spingersi fino ad espungere una delle due fasi dalla esecuzione del contratto, atteso che entrambe sono coessenziali.

In relazione al lavoro a progetto, si fa luogo ad automatica conversione, ai sensi dell’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003 (“ratione temporis” applicabile, nella versione antecedente le modifiche di cui all’art. 1, comma 23, lett. f), della l. n. 92 del 2012), che si interpreta nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione, ma piuttosto - lo si ribadisce - ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso (in tal senso, si veda Sez. L, n. 17707/2020, D’Antonio, Rv. 658889-01).

Approfondisce il tema Sez. L, n. 27543/2020, Negri Della Torre, Rv. 659693-01, evidenziando che il regime sanzionatorio previsto dall’art. 69 del d.lgs. n. 276 del 2003, pur imponendo in ogni caso l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, contempla due distinte e strutturalmente differenti ipotesi, atteso che, al comma 1, sanziona il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, realizzando un caso di cd. conversione del rapporto ope legis, restando priva di rilievo l’appurata natura autonoma dei rapporti in esito all’istruttoria, mentre al comma 2 disciplina l’ipotesi in cui, pur in presenza di uno specifico progetto, sia giudizialmente accertata, attraverso la valutazione del comportamento delle parti posteriore alla stipulazione del contratto, la trasformazione in un rapporto di lavoro subordinato in corrispondenza alla tipologia negoziale di fatto realizzata tra le parti.

1.3. La subordinazione cd. attenuata del lavoro dirigenziale.

L’essenza della subordinazione viene declinata anche con riferimento al lavoro dirigenziale, attraverso il riferimento alla categoria della subordinazione cd. attenuata.

Viene riaffermato, quindi, in conformità con quanto già ritenuto in Sez. L, n. 07517/2012, Meliadò, Rv. 622886-01, che nel lavoro dirigenziale l’elemento fondamentale, al fine di qualificare il rapporto di lavoro come subordinato, va individuato nell’esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della prestazione con gli obiettivi dell’organizzazione aziendale.

La delicata questione è ripresa in Sez. L, n. 03640/2020, Boghetich, Rv. 657171-01.

Ai fini della configurazione del lavoro dirigenziale - nel quale il lavoratore gode di ampi margini di autonomia e il potere di direzione del datore di lavoro si manifesta non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente nell’emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerenti con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente - il giudice di merito deve valutare, quale requisito caratterizzante della prestazione, l’esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della prestazione rispetto agli obiettivi dell’organizzazione aziendale, tale da ricondurre il lavoro dirigenziale ai tratti distintivi della subordinazione tecnico-giuridica, anche se nell’ambito di un contesto, lo si è anticipato, caratterizzato dalla cd. subordinazione attenuata.

In applicazione del sopraindicato principio la S.C. ha quindi confermato la sentenza di merito che aveva escluso la qualificazione come subordinato di un rapporto di lavoro dirigenziale, non ritenendo sufficiente il solo elemento indiziario dell’inserimento del lavoratore nell’organizzazione imprenditoriale, in mancanza di allegazione e prova circa l’esistenza di una - pur attenuata - eterodirezione da parte dei vertici della società.

1.4. Subordinazione ed impresa familiare.

In Sez. L, n. 11533/2020, Garri, Rv. 657972-01, sono indagati i rapporti fra subordinazione ed impresa familiare, per affermare la residualità di quest’ultima.

Nel dettaglio, la S.C. afferma il seguente principio: l’impresa familiare ha carattere residuale come emerge anche dalla clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 230 bis c.c., sicché mira a disciplinare situazioni di apporto lavorativo all’impresa del congiunto che, pur connotate dalla continuità, non siano riconducibili all’archetipo della subordinazione e a confinare in un’area limitata il lavoro gratuito.

In applicazione dell’innanzi enunciato principio, la S.C. ha quindi escluso di poter ritenere la partecipazione all’impresa familiare del congiunto che aveva offerto contributi finanziari ed occasionali consulenze professionali, ma non aveva prestato attività lavorativa continuativa per l’impresa.

1.5. Contratto di appalto con impresa artigiana e parasubordinazione.

La stipula di un formale contratto di appalto con un’impresa artigiana, nella vigenza degli artt. 61 e ss. del d.lgs. n. 276 del 2003, impone la riqualificazione dello stesso quale rapporto di lavoro c.d. parasubordinato in presenza dei requisiti di continuazione, coordinazione e svolgimento di attività prevalentemente personale, afferma la S.C. in Sez. L, n. 09783/2020, Ghinoy, Rv. 657834-01.

Specifica a tal proposito il giudice di legittimità che - ai fini della qualificazione - non può assumere rilievo assorbente il nomen iuris utilizzato, a fronte di un accertamento fattuale che escluda anche la sussistenza di un’organizzazione di impresa; pertanto, in carenza del progetto, opererà l’automatica conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 69 del predetto decreto, con conseguente applicazione di tutte le garanzie del lavoro dipendente anche sotto il profilo assicurativo e contributivo. Nella specie, era stato accertato che l’attività era stata prestata da artigiani piastrellisti, senza avvalersi di alcun collaboratore ed utilizzando attrezzature minime, lavorando con continuità esclusivamente in favore della società ricorrente, unica loro committente per l’intero periodo di causa e soltanto a carico della quale essi avevano emesso fatture.

1.6. Rapporto di lavoro giornalistico e collaboratore fisso.

Nel corso del 2019, Sez. L, n. 03177/2019, Marotta, Rv. 652910-01, ha approfondito la questione delle conseguenze della mancata iscrizione all’albo dei giornalisti, in relazione alla posizione del cd. collaboratore fisso che eserciti la professione giornalistica con esclusività professionale.

L’attività svolta dal collaboratore fisso, contraddistinta da continuità, vincolo di dipendenza ed esclusività, responsabilità di un servizio, scrive il giudice di legittimità, rientra nel concetto di “professione giornalistica” e richiede la previa iscrizione nell’elenco dei giornalisti, con conseguente nullità del contratto in caso di iscrizione al solo elenco dei pubblicisti. Qualora ricorra detta ipotesi, chiarisce però la S.C., poiché la nullità non deriva da illiceità dell’oggetto o della causa, ma da violazione di legge, l’attività svolta conserva giuridica rilevanza ed efficacia ai sensi dell’art. 2126 c.c.

Il sipario sull’anno 2019, si chiudeva, ad ogni modo, senza che l’ultima parola sulla questione venisse scritta; infatti, Sez. L, n. 14262/2019, Ponterio, rimetteva alle S.U. proprio il dibattuto tema: se, ai fini della costituzione di un valido rapporto di lavoro subordinato giornalistico in capo al collaboratore fisso che eserciti la sua attività con “esclusività professionale”, sia necessaria l’iscrizione all’albo dei giornalisti o basti, per converso, quella all’albo dei pubblicisti.

La questione è stata dipanata da Sez. U, n. 01867/2020, Doronzo, Rv. 656703-01, che afferma il principio così massimato da questo Ufficio.

In tema di rapporto di lavoro giornalistico, l’attività del collaboratore fisso espletata con continuità, vincolo di dipendenza e responsabilità di un servizio rientra nel concetto di “professione giornalistica”.

Ai fini della legittimità del suo esercizio è condizione necessaria e sufficiente la iscrizione del collaboratore fisso nell’albo dei giornalisti, sia esso elenco dei pubblicisti o dei giornalisti professionisti; conseguentemente, non è affetto da nullità per violazione della norma imperativa contenuta nell’art. 45 della l. n. 69 del 1963 il contratto di lavoro subordinato del collaboratore fisso, iscritto nell’elenco dei pubblicisti, anche nel caso in cui svolga l’attività giornalistica in modo esclusivo.

2. Lavoro autonomo e prestazioni di opera intellettuale: i professori d’orchestra.

Quanto alla delimitazione della subordinazione rispetto alle prestazioni d’opera intellettuale, con riguardo alla peculiare figura professionale dei professori d’orchestra, è importante segnalare l’approdo cui è giunta Sez. L, n. 08444/2020, Lorito, Rv. 657648-01. In tale pronunzia si traccia il discrimine con il lavoro subordinato, affermando che in caso di prestazione d’opera di natura intellettuale, come quella resa da professori d’orchestra in esecuzione di contratti conclusi in relazione a specifici programmi, al fine di individuare gli indici sintomatici della subordinazione non può essere attribuita rilevanza assorbente all’obbligo di rispettare rigidamente gli orari (sia con riguardo alle prove che agli spettacoli), né alla soggezione alle direttive provenienti dal direttore (perché funzionali alla realizzazione dell’opera, garantita dal coordinato apporto di ciascuno dei musicisti) ed al luogo della prestazione, dovendosi piuttosto apprezzare la sussistenza di un potere direttivo del datore di disporre pienamente della prestazione altrui, nell’ambito delle esigenze della propria organizzazione produttiva, da escludersi se i lavoratori sono liberi di accettare le singole proposte contrattuali e sottrarsi alle prove in caso di variazioni assunte in corso d’opera a fronte di pregressi impegni e di assumerne anche nei confronti dei terzi.

2.1. Il contratto di agenzia.

Centrale nell’analisi della giurisprudenza di legittimità dell’anno in corso è anche l’esame di una serie di questioni che attengono ad alcuni punti nodali del rapporto di agenzia, dal diritto di esclusiva, quale elemento da cui desumere il diritto anche alla percezione di provvigioni postume, all’esame di altre questioni che attengono agli aspetti economici del rapporto, come la ricomprensione o meno, nella provvigione pattuita, delle attività connesse all’incarico di riscossione, nonché le modalità di stipula del patto vessatorio aggiunto al contratto di agenzia.

Quanto ai rapporti tra il diritto di esclusiva e quello alla percezione di provvigioni postume, la S.C. ha evidenziato, in Sez. L, n. 09291/2020, De Gregorio, Rv. 657673-01, che l’esclusiva è connaturata al rapporto e dispiega i suoi effetti sia durante la permanenza dello stesso che nel periodo successivo alla sua cessazione, sicché all’agente spettano anche provvigioni postume, sempre che la conclusione dell’affare, avvenuta dopo la cessazione del contratto, sia il frutto della prevalente attività promozionale svolta dall’agente durante il mandato, senza che rilevino, in considerazione del vincolo di esclusiva, gli eventuali interventi della società preponente finalizzati alla conclusione dell’affare.

In tema di riflessi economici del rapporto, va rammentata anche Sez. L, n. 17572/2020, Negri Della Torre, Rv. 658545-01.

Nella pronunzia si evidenzia che il conferimento dell’incarico di riscossione all’atto della stipula del contratto fa presumere - attesa la natura corrispettiva del rapporto - che il compenso per tale attività sia compreso nella provvigione pattuita, che va riferita al complesso dei compiti affidati, mentre essa va separatamente compensata se il relativo incarico sia conferito nel corso del rapporto e costituisca una prestazione accessoria ulteriore rispetto a quella originariamente pattuita, a meno che non risulti accertata la volontà delle parti di procedere ad una novazione che, prevedendo nuovi obblighi a carico dell’agente, lasci invariati quelli del preponente.

Infine, Sez. L, n. 04190/2020, Negri Della Torre, Rv. 656930-01, come si è anticipato, tocca le questioni attinenti alle modalità di stipula del patto vessatorio aggiunto al contratto di agenzia, sottolineando che il patto in questione non necessita di specifica approvazione per iscritto, ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c., perché il regolamento negoziale non è riferito ad una platea indifferenziata di soggetti, ma solo agli agenti (nella specie i promotori finanziari di una banca), né lo stesso risulta predisposto a mezzo di moduli e formulari.

3. L’individuazione del datore di lavoro.

Il rappresentante del datore, il quale stipuli un contratto di lavoro senza dichiarare di agire in nome e nell’interesse di altri, resta personalmente vincolato agli obblighi derivanti dal rapporto, e conseguentemente esposto alle relative conseguenze, in applicazione delle regole della rappresentanza negoziale.

Esprime tale principio Sez. L, n. 11897/2020, Negri Della Torre, Rv. 657962-01, in consonanza con le categorie generali del diritto civile.

Se quindi il rappresentante del datore che stipuli in contratto non abbia effettuato la contemplatio domini resta obbligato personalmente.

In tema di interposizione di manodopera, sulla scorta di quanto già ritenuto, in Sez. L, n. 15557/2019, Blasutto, Rv. 65414601, Sez. 6-L, n. 12551/2020, Riverso, Rv. 658115-01, afferma che affinché possa configurarsi un genuino appalto di opere o servizi ai sensi dell’art. 29, comma 1, del d. lgs. n. 276 del 2003, è necessario verificare, specie nell’ipotesi di appalti ad alta intensità di manodopera (cd. labour intensive), che all’appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato in sé autonomo, da conseguire attraverso una effettiva e autonoma organizzazione del lavoro, con reale assoggettamento al potere direttivo e di controllo sui propri dipendenti, impiego di propri mezzi e assunzione da parte sua del rischio d’impresa, dovendosi invece ravvisare un’interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo e organizzativo sia interamente affidato al formale committente, restando irrilevante che manchi, in capo a quest’ultimo, l’”intuitus personae” nella scelta del personale, atteso che, nelle ipotesi di somministrazione illegale, è frequente che l’elemento fiduciario caratterizzi l’intermediario, il quale seleziona i lavoratori per poi metterli a disposizione del reale datore di lavoro.

Nella fattispecie, relativa a un appalto di servizi affidato da un istituto di credito a un’impresa di facchinaggio, la S.C., in applicazione di detto principio, ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto lecito l’appalto, nonostante le indicazioni ai lavoratori sui compiti da svolgere in concreto fossero fornite dalla committente, parte dei beni utilizzati per il lavoro fossero della banca e l’appaltatore non avesse, presso la sede della committente, alcun referente organizzativo.

Sempre con riferimento alla individuazione della parte datoriale, Sez. L, n. 21880/2020, De Gregorio, Rv. 659258-01, statuisce che l’incorporazione di un’associazione o comitato non riconosciuti in un’associazione o comitato o riconosciuti determina la successione dell’incorporante nei rapporti giuridici dell’incorporato, che si estingue.

Va pure ricordata Sez. L, n. 24197/2020, Lorito, Rv. 659439-01, con riferimento alla possibilità di configurare esercizio dell’impresa avuto riguardo al compendio ereditario, con conseguente assunzione di responsabilità da parte degli eredi anche rispetto ai rapporti di lavoro.

A tal proposito, la Cassazione afferma che lo sfruttamento, da parte di uno o più eredi, dell’azienda facente parte del compendio ereditario, stante il fine lucrativo dell’attività imprenditoriale, non costituisce mera amministrazione dei beni ereditari, ma esercizio dell’impresa in forma individuale o societaria, anche di fatto, con conseguente assunzione da parte degli eredi della responsabilità relativa ai debiti contratti nell’esercizio dell’attività, senza che rilevi la qualità successoria o trovino applicazione le correlate limitazioni di responsabilità.

È evidente che il principio enunziato vale anche rispetto ai rapporti di lavoro.

3.1. La verifica della sussistenza di obblighi di inquadramento datoriali in caso di appalto di pubblico servizio.

Approfondisce la sussistenza di obblighi di inquadramento, per negarne la configurabilità, in caso di appalto pubblico di servizi anche con obbligo di fornire personale in relazione alle peculiarità del servizio, Sez. L, n. 18686/2020, Patti, Rv. 658908-01, evidenziando che la pattuizione concerne la qualità dei servizi, senza che ridondi in obblighi di inquadramento dei lavoratori.

In sintesi si afferma che qualora, in un contratto di appalto pubblico di servizi, un’impresa appaltatrice assuma nei confronti dell’amministrazione committente l’obbligo di fornire e organizzare idoneo personale, debitamente formato in relazione alle peculiarità del servizio stesso, indicandone anche il livello di inquadramento in base alla contrattazione collettiva, la pattuizione è diretta alla definizione dello “standard” qualitativo, che esige la presenza di figure professionali adeguate, ma non attribuisce per ciò solo al terzo, lavoratore dipendente dell’impresa, il diritto ad una qualifica superiore che egli possa autonomamente azionare, dato che il vantaggio a lui attribuito non forma oggetto di un deliberato proposito che le parti del contratto di appalto abbiano consapevolmente assunto e non comporta pertanto l’assunzione da parte dell’impresa, quale promittente, di un obbligo nei confronti dell’amministrazione quale stipulante e in favore del lavoratore come terzo, che renda quest’ultimo titolare di una prestazione patrimoniale diretta, secondo lo schema del contratto a favore di terzo.

3.2. Accordo sindacale, obbligo di assunzione, contenuto minimo ed esecuzione in forma specifica.

Quanto alla possibilità di dare esecuzione in forma specifica agli accordi sindacali con i quali si sia convenuto l’obbligo per una parte datoriale di assumere personale in forza di un’altra azienda, utilizzando lo strumento di cui all’art. 2932 c.c., va rammentata Sez. L, n. 28415/2020, Lorito, Rv. 659959 - 01.

In linea con quanto già ritenuto dal giudice di legittimità, in Sez. L, n. 27841/2009, Picone, Rv. 611412-01, viene enucleato il contenuto minimo di detto accordo per far luogo al meccanismo di cui all’art. 2932 c.c., rispetto al quale sono irrilevanti l’individuazione della sede lavorativa e delle mansioni

Nello specifico, la S.C. afferma che nel caso in cui le parti abbiano concordato, in sede di accordo sindacale, l’obbligo per il datore di lavoro di assumere personale in forza presso un’altra azienda, prevedendo il contratto collettivo applicabile ai nuovi dipendenti, la relativa categoria di inquadramento, nonché il riconoscimento dell’anzianità pregressa e del superminimo individuale, l’oggetto del contratto di lavoro deve ritenersi sufficientemente determinato, sicché il lavoratore, in caso di inadempimento, può richiedere, ai sensi dell’art. 2932 c.c., l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto, senza che rilevi la mancata predeterminazione della concreta assegnazione della sede lavorativa e delle mansioni, che attiene alla fase di esecuzione del contratto.

4. Gli obblighi di protezione del datore di lavoro e la tutela delle condizioni di lavoro: il limite del rischio elettivo e del concorso colposo del dipendente, il riparto degli oneri della prova e le peculiarità del giudizio per danni iure proprio da perdita del rapporto parentale conseguente ad inadempimento datoriale.

È univocamente espresso in maniera costante dalla giurisprudenza di legittimità il principio in virtù del quale grava sempre sull’imprenditore l’onere di valutare i rischi aziendali e, in conformità, provvedere alla predisposizione di un ambiente di lavoro sicuro (cfr. da ultimo, Sez. L, n. 16835/2019, Curcio, Rv. 654360-01), salvo il ricorrere di ipotesi di rischio cd. elettivo.

Sul tema, il giudice di legittimità in Sez. L, n. 15112/2020, Piccone, Rv. 658187-01, ha precisato che la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non configurando un’ipotesi di responsabilità oggettiva, sorge non soltanto in caso di violazione di regole di esperienza o di regole tecniche già conosciute e preesistenti, ma sanziona anche la omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte le misure e cautele idonee a preservare l’integrità psico-fisica del lavoratore in relazione alla specifica situazione di pericolosità, inclusa la mancata adozione di direttive inibitorie nei confronti del lavoratore medesimo, sicché, in applicazione di tale principio, ha cassato la decisione di merito che, in un caso in cui il lavoratore aveva subito danni a seguito dell’impiego di una scala a pioli per movimentare pesi e non per l’innalzamento verso l’alto, aveva escluso la responsabilità datoriale senza indagare se l’uso non conforme a quello ordinario potesse essere evitato con cautele più incisive, incluso il divieto di utilizzo.

Quanto al tema di oneri probatori, il giudice di legittimità ha anche precisato in Sez. L, n. 03282/2020, Lorito, Rv. 6567773-01, che la violazione dell’art. 4, lett. c) del d.P.R. n. 547 del 1955 (che obbliga i datori di lavoro a “disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione”) non può essere desunta dalla mera verificazione dell’evento infortunistico, ma postula la prioritaria dimostrazione della relativa condotta omissiva. L’assolvimento degli obblighi imposti da tale norma, insomma, puntualizza la S.C., non si traduce in una sorveglianza ininterrotta con costante presenza fisica, potendo efficacemente attuarsi anche attraverso una vigilanza generica, ma continua ed efficace, calibrata sulle caratteristiche dell’impresa e del tipo di lavorazioni, oltre che sul numero dei lavoratori e sul grado di rischio, idonea a garantire che i dipendenti seguano le disposizioni di sicurezza e utilizzino gli strumenti di protezione.

Nella specie, in applicazione del suddetto principio, la S.C. ha escluso la responsabilità del datore per l’infortunio occorso al dipendente che, reso edotto e munito dei dispositivi di protezione, ometteva di agganciare la cintura di sicurezza, pur indossata, al cestello per le lavorazioni, così eludendo la sorveglianza del preposto al controllo che lavorava a terra. Trattasi peraltro di pronunzia che si pone in assoluta linea di continuità con gli orientamenti della giurisprudenza della Cassazione, che già esprimeva il medesimo orientamento in Sez. L, n. 10066/1994, Mileo, Rv. 488833-01.

Con riferimento all’accertamento del fatto di reato, ai sensi degli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965, Sez. L, n. 12041/2020, F. Amendola, Rv. 657981-01, si occupa delle regole probatorie che devono presidiare l’accertamento del fatto in sede civile.

Ebbene, scrive la S.C., in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la disciplina prevista dagli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965 deve essere interpretata nel senso che l’accertamento incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato, sia nel caso di azione proposta dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno cd. differenziale, sia nel caso dell’azione di regresso proposta dall’Inail, deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in ordine all’elemento soggettivo della colpa ed al nesso causale fra fatto ed evento dannoso.

In quanto connessa ai temi in esame, rappresentando punto di equilibrio tra gli obblighi di protezione datoriali, da un lato, e la tutela dell’integrità psicofisica dei lavoratori, dall’altro, va pure ricordata Sez. L, n. 07566/2020, Negri Della Torre, Rv. 657511-01.

In essa si afferma, in tema di sorveglianza sanitaria ex art. 41 del d.lgs. n. 81 del 2008, per un verso che la visita medica a seguito di assenza del lavoratore superiore a 60 giorni, quale misura necessaria a tutelare l’incolumità e la salute del prestatore di lavoro, deve precedere l’assegnazione alle medesime mansioni svolte prima dell’inizio dell’assenza e, per altra parte, che la sua omissione giustifica l’astensione ex art. 1460 c.c. dall’esecuzione di quelle mansioni, ma non anche la mancata presentazione sul posto di lavoro, ben potendo il datore di lavoro disporre, nell’attesa della visita medica, l’eventuale e provvisoria diversa collocazione del lavoratore nell’impresa.

In limine, rispetto alle questioni che si stanno esaminando va anche ricordata Sez. L, 00002/2020, Blasutto, Rv. 656405-01, con riferimento alla domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla perdita del rapporto parentale, proposta iure proprio dai congiunti del lavoratore, quali soggetti estranei al rapporto di lavoro, anche se la morte del dipendente sia derivata da inadempimento contrattuale del datore di lavoro verso il dipendente. In detta ipotesi, infatti, è stato precisato, il risarcimento del danno trova la sua fonte esclusiva nella responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c., sicché non è soggetta al regime probatorio proprio della responsabilità ex art. 2087 c.c. Né la circostanza che l’azione aquiliana, oggetto del giudizio, individui il nucleo dell’elemento soggettivo del convenuto in una “porzione” di un’azione contrattuale, soggetta a regole probatorie differenti, aggiunge la S.C., sposta il relativo onere ex art. 2697 c.c.

Quanto al limite del rischio elettivo ed alla sussistenza di un concorso di colpa, va ricordato come, in armonia con i principi declinati dalla giurisprudenza di legittimità, si ponga anche Sez. 6-3, n. 08988/2020, Rv. 657940-01, che, in tema di infortunio sul lavoro, afferma che deve escludersi la sussistenza di un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c., al di fuori dei casi di cd. rischio elettivo, quando risulti che il datore di lavoro abbia mancato di adottare le prescritte misure di sicurezza, oppure abbia egli stesso impartito l’ordine, nell’esecuzione puntuale del quale si è verificato l’infortunio, od ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi. Ricorrendo tali ipotesi, puntualizza la S.C., l’eventuale condotta imprudente della vittima degrada a mera occasione dell’infortunio ed è, pertanto, giuridicamente irrilevante.

Nemmeno va sottaciuto l’approfondimento dedicato a questioni specifiche.

In tema di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nel caso in cui debbano eseguirsi lavori al di sopra di “lucernai, tetti, coperture e simili” di cui all’art. 148 del d.lgs. n. 81 del 2008, Sez. L, n. 18137/2020, Negri Della Torre, Rv. 658592-01, afferma che è obbligatoria la predisposizione di misure di protezione collettiva che, ai sensi dell’art. 15 dello stesso decreto, hanno natura prioritaria rispetto a quelle di protezione individuale, con l’unico esclusivo limite che la loro realizzazione risulti incompatibile con lo stato dei luoghi o impossibile per altre ragioni tecniche, limite la cui prova in giudizio grava sul datore di lavoro e, per quanto di rispettiva competenza, sui soggetti titolari di posizioni di garanzia.

4.1. La responsabilità del committente e del sub-committente.

La responsabilità del committente o del sub-committente per i danni derivati al lavoratore nel corso dell’attività lavorativa concessa in sub-appalto, a causa dell’inosservanza delle misure di tutela delle condizioni di lavoro, è configurabile, ai sensi degli artt. 2087 c.c. e 7 del d.lgs. n. 626 del 1994, a prescindere dalla conoscenza dell’esistenza del sub-appalto, atteso che il citato art. 7 (ora art. 26 del d.lgs. n. 81 del 2008) pone a carico del committente-datore di lavoro, in caso di affidamento dei lavori ad altre imprese, l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori, nonché quello di cooperare nell’attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all’attività appaltata, nell’ambito dell’intero ciclo produttivo, obblighi rispetto al cui adempimento il dovere di sapere del sub-appalto costituisce una essenziale precondizione.

In tal senso si esprime Sez. 6-L, n. 12465/2020, Riverso, Rv. 658114-01.

5. Il mobbing.

La curvatura dell’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c.c. naturalmente si estende e fonda anche il divieto di comportamenti lesivi della personalità morale (oltre che della integrità fisica) dei lavoratori e dunque comprende il divieto di comportamenti mobbizzanti, ovvero quei comportamenti datoriali protratti nel tempo, con intento persecutorio del lavoratore.

In armonia con quanto innanzi e con i tratti definitori dell’istituto, già delineati da Sez. L, n. 12437/2018, Patti, Rv. 648956-01 e da Sez. L, n. 26684/2017, Di Paolantonio, Rv. 646150-01, dalle quali emerge che è configurabile il mobbing ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo, Sez. L, n. 10992/2020, Marotta, Rv. 657926-01, sottolinea come, ai fini della configurabilità di una ipotesi di “mobbing”, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione.

È evidente, quindi, che, ai fini della configurabilità del “mobbing orizzontale”, addebitabile in astratto al datore di lavoro quale condotta omissiva in violazione dell’art. 2087 c.c., con conseguente prova liberatoria a suo carico ex art. 1218 c.c., è necessario che il datore medesimo abbia avuto conoscenza dell’attività persecutoria, quindi necessariamente dolosa, posta in essere dai propri dipendenti nel contesto dell’ordinaria attività di lavoro, come rilevato da Sez. L, n. 01109/2020, De Gregorio, Rv. 656597-01.

6. Demansionamento e ius variandi.

Pur dopo la novella dell’art. 2103 c.c., ad opera del d. lgs. n. 81 del 15 giugno 2015, che, come noto, ha ampliato in potere dello ius variandi datoriale, permane l’obbligo datoriale di promozione della professionalità del dipendente, come si evince dal rilievo che il legislatore ha previsto l’indispensabile assolvimento, pena la nullità della assegnazione alle nuove mansioni, dell’obbligo formativo del prestatore da parte dell’imprenditore. Si tratta di doveri peraltro riconducibili, in realtà, all’amplissima clausola della buona fede che deve presidiare ogni rapporto contrattuale, quindi, anche quello lavorativo.

Ai fini della verifica del legittimo esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro, afferma Sez. L, n. 16594/2020, Lorito, Rv. 658575-01, proprio in consonanza con quanto si è innanzi richiamato, il giudice è tenuto a valutare la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente, senza che assuma rilievo la clausola di fungibilità eventualmente prevista dalla contrattazione collettiva, che, sul piano formale, faccia rientrare entrambe le tipologie di mansioni nella medesima area operativa.

Delle eccezioni al divieto di demansionamento si è occupata Sez. L, n. 06289/2020, Arienzo, Rv. 657174-01, con riferimento alle procedure di mobilità ed alle ipotesi di distacco di personale di cui all’art. 8, comma 3, del d.l. n. 148 del 1993, conv. con modif. in l. n. 236 del 1993.

La S.C. ha infatti ritenuto che nel corso delle procedure di mobilità, ex art. 4, comma 11, della l. n. 223 del 1991, gli accordi sindacali possono prevedere, per garantire il reimpiego di almeno una parte dei lavoratori, che il datore assegni loro, in deroga all’art. 2103 c.c., mansioni diverse da quelle svolte, anche inferiori o peggiorative, trattandosi di rimedio volto ad evitare il licenziamento (fermo restando che i lavoratori non sono vincolati alla deroga poiché possono rifiutare la dequalificazione affrontando il rischio del licenziamento).

Il medesimo principio - derogabilità del divieto di demansionamento in base ad accordi collettivi fondati sull’interesse del lavoratore a non perdere il posto di lavoro - trova applicazione, ha sottolineato il giudice di legittimità, anche nel caso di distacco del personale ove ricorra l’ipotesi specifica disciplinata dall’art. 8, comma 3, del d.l. n. 148 del 1993, conv. con modif. in l. n. 236 del 1993.

Si fa rinvio alla trattazione relativa all’area del pubblico impiego contrattualizzato, quanto alla affermazione che è possibile, in presenza di determinate condizioni, l’adibizione a mansioni accessorie inferiori a quelle di assegnazione se è garantito, in misura prevalente e assorbente, lo svolgimento di quelle proprie (cfr. Sez. L, n. 19419/2020, Spena, Rv. 658845-01).

7. Discriminazioni in materia di occupazione e condizioni di lavoro, comportamenti antisindacali e prerogative sindacali.

Prima ancora che la legislazione lavoristica o il codice civile, attraverso la clausola della buona fede, presidio di tutti i rapporti contrattuali, è la Carta costituzionale ad imporre il divieto di atti discriminatori nei confronti dei dipendenti ed i comportamenti antisindacali.

Del tema della parità di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro si è occupata, sotto plurimi profili, Sez. L, n. 00001/2020, Arienzo, Rv. 656650-02, avuto riguardo alla delimitazione delle ipotesi di discriminazione ideologica.

Ebbene, afferma la Cassazione, l’espressione “convinzioni personali”, richiamata dagli artt. 1 e 4 del d.lgs. 216 del 2003, è caratterizzata dall’eterogeneità delle ipotesi di discriminazione ideologica estesa alla sfera dei rapporti sociali, sicché in essa va ricompresa quella per motivi sindacali, tenuto conto che l’affiliazione sindacale rappresenta la professione pragmatica di una ideologia, di natura diversa da quella religiosa, connotata da specifici motivi di appartenenza ad un organismo socialmente e politicamente qualificato a rappresentare opinioni, idee e credenze, suscettibili di tutela in quanto oggetto di possibili atti discriminatori vietati.

Nella medesima pronunzia, si è inoltre affrontato anche il tema dei criteri di riparto dell’onere probatorio, sottolineando come essi non seguano i canoni ordinari di cui all’art. 2729 c.c., bensì quelli speciali di cui all’art. 4 del d.lgs. 216 del 2003 (applicabile “ratione temporis”), che non stabiliscono un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente, prevedendo una “presunzione” di discriminazione indiretta per l’ipotesi in cui, specie nei casi di coinvolgimento di una pluralità di lavoratori, il prestatore abbia difficoltà a dimostrare l’esistenza degli atti discriminatori.

Ne consegue che il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione (cfr. la già citata Sez. L, n. 00001/2020, Arienzo, Rv. 656650-03).

Nella specie, la S.C. ha cassato, quindi, la sentenza di appello che, applicando i criteri presuntivi ordinari, aveva addossato l’onere probatorio sul sindacato ricorrente senza tener conto che i trasferimenti, che avevano interessato il 6% degli addetti allo stabilimento, avessero tuttavia colpito per l’80% gli iscritti al sindacato medesimo

In tema di repressione della condotta antisindacale, Sez. L, n. 00001/2020, Arienzo, Rv. 656650-01, si occupa anche delle questioni connesse al riconoscimento della legittimazione ad agire che, ex art. 28 dello Statuto, compete alle “associazioni sindacali nazionali”, sicché si è osservato, al fine di riconoscerla, è sufficiente lo svolgimento di un’effettiva azione sindacale non su tutto, ma su gran parte del territorio nazionale, senza che sia indispensabile che l’associazione faccia parte di una confederazione, né che sia maggiormente rappresentativa o che abbia stipulato contratti collettivi a livello nazionale.

Nell’affermare tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto la legittimazione attiva dello S.L.A.I. Cobas, desumendola da una serie di elementi, quali la costituzione di comitati provinciali su circa la metà del territorio nazionale e lo svolgimento di attività di rilievo nazionale, come la presentazione del “referendum”.

Quanto, per converso, alle prerogative sindacali, il combinato disposto degli artt. 4 e 5 dell’Accordo interconfederale del 10 gennaio 2014 (T.U. sulla rappresentanza, applicabile “ratione temporis”) - si legge in Sez. L, n. 02862/2020, Boghetich, Rv. 656920-01 - deve essere interpretato nel senso che il diritto di indire assemblee, di cui all’art. 20 della l. n. 300 del 1970, rientra, quale specifica agibilità sindacale, tra le prerogative attribuite non solo alla r.s.u. considerata collegialmente, ma anche a ciascun componente della r.s.u. stessa, purché questi sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nell’azienda di riferimento, sia, di fatto, dotato di rappresentatività, ai sensi dell’art. 19 della l. n. 300 del 1970, quale risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013.

In limine alle questioni trattate, va pure ricordata Sez. L, n. 07698/2020, Ghinoy, Rv. 657522-01, che, benché tocchi una questione specifica - la base di calcolo della contribuzione figurativa ai fini pensionistici - in tema di aspettativa sindacale ex art. 31 della l. n. 300 del 1970, afferma principi più generali ovvero che la contribuzione figurativa deve essere necessariamente agganciata alla retribuzione prevista dal c.c.n.l. per qualifica ed anzianità di servizio del lavoratore, con esclusione degli emolumenti collegati all’effettiva prestazione dell’attività lavorativa. Da tale punto di partenza si è poi arrivati, conseguentemente, ad affermare l’insussistenza del diritto all’inclusione nella retribuzione figurativa del premio di produzione e di altri incentivi correlati allo svolgimento effettivo della prestazione lavorativa, quand’anche detti emolumenti fossero stati riconosciuti per prassi aziendale alla generalità dei dipendenti, a prescindere dalla loro presenza in servizio, avuto riguardo, da un lato, alle esigenze di uniformità e prevedibilità cui risponde la tutela dell’attività sindacale, posta a carico della collettività, e, dall’altro, alla natura indisponibile della materia previdenziale.

8. I poteri di controllo datoriali.

Vanno poi ricordate le pronunzie di legittimità che attengono ai poteri di controllo datoriali.

Ebbene, quanto a detto aspetto, Sez. L, n. 21888/2020, Cinque, Rv. 659052-01, osserva che la disposizione di cui all’art. 3 della l. n. 300 del 1970 - secondo la quale i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa debbono essere comunicati ai lavoratori interessati - non ha fatto venire meno il potere dell’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare, direttamente o mediante l’organizzazione gerarchica che a lui fa capo e che è conosciuta dai dipendenti, l’adempimento delle prestazioni cui costoro sono tenuti e, così, di accertarne eventuali mancanze specifiche, commesse o in corso di esecuzione.

In particolare, la pronunzia citata ha sottolineato che detto controllo è possibile e legittimo, indipendentemente dalle modalità con cui sia stato compiuto; esso può essere posto in essere dal datore, anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza, né quello di buona fede nell’attuazione del rapporto di lavoro, né il divieto di cui all’art. 4 della stessa l. n. 300 del 1970, riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza e non applicabile analogicamente, siccome penalmente sanzionato.

Con riferimento al tema in esame, va pure ricordata, Sez. L, n. 11697/2020, Piccone, Rv. 657976-01, che sarà richiamata anche nella parte della rassegna relativa al licenziamento, perché esprime anche un principio più generale, quanto al potere di controllo datoriale.

In essa si afferma, infatti, che le disposizioni dell’art. 5 st.lav., che vietano al datore di lavoro di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e lo autorizzano a effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificare l’assenza.

9. Questioni retributive.

Nell’anno in corso la S.C. si è interessata delle questioni retributive in due pronunzie, con riferimento alla natura giuridica, retributiva o ancorata al mero “status” del dipendente, delle carte cd. di libera circolazione

Sez. L, n. 18685/2020, Garri, Rv. 658907-01, al riguardo afferma che le cd. carte di libera circolazione, previste dalla l. n. 1108 del 1955 e poi dalla contrattazione collettiva in favore dei dipendenti dell’Ente Ferrovie dello Stato e delle aziende che gli sono succedute, non hanno natura retributiva, traducendosi in agevolazioni del tutto svincolate dalla natura e dalle modalità di esecuzione della controprestazione lavorativa; ne consegue che il loro controvalore non può rientrare tra le componenti della retribuzione da prendere in considerazione ai fini del calcolo delle differenze retributive spettanti al lavoratore per effetto della costituzione ab origine di un rapporto di lavoro subordinato nel caso di accertata interposizione fittizia di manodopera.

Sulla stessa lunghezza d’onda è Sez. L, n. 18167/2020, Garri, Rv. 658841-01, in cui, si esprime lo stesso principio: le cd. carte di libera circolazione non hanno natura retributiva, poiché costituiscono agevolazioni ancorate al mero status di dipendente (o ex dipendente pensionato), svincolate dalla esecuzione della prestazione lavorativa, sicchè non possono essere tramutate in controvalore economico.

Con riferimento all’emolumento della indennità di trasferta si segnala, Sez. L, n. 14380/2020, Buffa, Rv. 658180-01.

Detta indennità - viene sottolineato nella innanzi indicata decisione - è un emolumento corrisposto al lavoratore in relazione ad una prestazione effettuata, per limitato periodo di tempo e nell’interesse del datore, al di fuori della ordinaria sede lavorativa, volta a compensare i disagi derivanti dall’espletamento del lavoro in luogo diverso da quello previsto, senza che rilevi, ai fini dell’insorgenza del diritto, che la sede legale dell’impresa datoriale e la residenza del lavoratore medesimo siano diverse da quelle in cui si svolge l’attività lavorativa, non essendo tali luoghi rilevanti per la identificazione di una trasferta in senso tecnico.

Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva ravvisato la trasferta in un caso in cui i lavoratori, residenti nella provincia di Napoli, erano stati assunti a Bologna, dove era stata unicamente espletata la prestazione lavorativa, da azienda avente sede nel medesimo territorio della loro residenza, sicché non vi era stata nessuna scissione tra sede lavorativa e luogo di svolgimento del lavoro.

È altresì importante rammentare, perché gli effetti della decisione riguardano proprio il rispetto del principio di adeguatezza della retribuzione al parametro di cui all’art. 36 della Costituzione, Sez. L, n. 13617/2020, Negri Della Torre, Rv. 658069-01.

In materia di trasformazione del rapporto di formazione e lavoro in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, precisa la S.C., è valida la previsione, introdotta in sede di contratto collettivo, dall’art. 7 del c.c.n.l. Autoferrotranvieri dell’11 aprile 1995 di un salario di ingresso ridotto per i primi quindici mesi di rapporto a tempo indeterminato sia perché funzionale alla volontà delle parti collettive di incentivare la stabilizzazione del rapporto, sia perché nel lavoro privato, di regola, non opera il principio di parità del trattamento retributivo e la valutazione di adeguatezza della retribuzione al parametro dell’art. 36 Cost. va compiuta in relazione al cd. minimo costituzionale, senza che debbano essere valutati tutti gli elementi e gli istituti contrattuali che confluiscono nella retribuzione.

Per vicinanza logica al tema trattato, va qui rammentata - benché non si occupi di questioni retributive in senso tecnico, ma piuttosto della configurabilità di una ipotesi di arricchimento senza giusta causa - anche Sez. L, n. 25045/2020, Cinque, Rv. 659446-01.

In essa si afferma, in conformità con quanto ritenuto in Sez. 3, n. 05616/1981, Cherubini, Rv. 416333-01, che qualora il socio di una società di capitali abbia prestato senza corrispettivo la propria attività professionale a favore della società stessa, è configurabile l’arricchimento senza giusta causa di essa, per l’incremento patrimoniale derivante dalla mancata spesa, con corrispondente danno per il socio. Tuttavia, nel determinare la misura del richiesto ristoro, il giudice deve indagare anche se ed in che misura il vantaggio della società si sia risolto in un concreto incremento economico per il socio, a titolo di maggiori utili, influendo riduttivamente sulla diminuzione patrimoniale subita dal socio e, quindi, sull’indennità a lui spettante ex art. 2041 c.c.

Del pari, benché non si tratti di una questione retributiva in senso stretto, va ricordato il dictum di Sez. L, n. 01111/2020, Ciriello, Rv. 656651-02, che si occupa della liquidazione dell’equo premio di cui all’art. 23, comma 2, del r.d. n. 1127 del 1939, in adesione a quanto già ritenuto da Sez. L, n. 02849/2001, Coletti, Rv. 544238-01.

In tema di invenzione di azienda, ai fini della liquidazione dell’equo premio ai sensi dell’art. 23, comma 2, del r.d. n. 1127 del 1939 - statuisce il giudice di legittimità - occorre tener conto dell’importanza, e non del prezzo, dell’invenzione, sicché opera correttamente il giudice del merito che, al detto fine, nel considerare le potenzialità di sfruttamento economico dell’invenzione, ricorre ad una valutazione equitativa in funzione correttiva, ad evitare il risultato di una quantificazione parametrata sul solo valore commerciale dell’invenzione.

9.1. Interessi e rivalutazione nel rapporto di lavoro privato e gli interessi compensativi nei debiti di valore.

Il principio affermato nella Corte costituzionale del 2 novembre 2000, n. 459, per la quale il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi non opera per i crediti retributivi dei dipendenti privati, ancorché maturati dopo il 31 dicembre 1994, non può trovare applicazione per i rapporti di lavoro privatistico alle dipendenze di un’Amministrazione statale nell’ambito della sua attività istituzionale (nella specie, custode addetto a una scuola italiana all’estero, legato da un rapporto di natura privatistica con il Ministero degli affari esteri), per i quali ricorrono le “ragioni di contenimento della spesa pubblica” che sono alla base della disciplina differenziata, secondo la ratio decidendi prospettata dal giudice delle leggi; così ribadisce Sez. L, n. 13624/2020, Blasutto, Rv. 658188-01, conformemente a quanto già ritenuto da Sez. L, n. 20765/2018, Di Paolantonio, Rv. 650306-05.

Dei rapporti tra debiti di valore ed interessi compensativi si occupa, invece, Sez. L, n. 01111/2020, Ciriello, Rv. 656651-01, statuendo che in essi il riconoscimento dei cd. interessi compensativi costituisce una mera modalità liquidatoria del possibile danno da lucro cessante, cui è consentito al giudice di far ricorso, con il limite costituito dall’impossibilità di calcolare gli interessi sulle somme integralmente rivalutate dalla data dell’illecito, senza che sia tenuto a motivarne il mancato riconoscimento, salvo non sia stato espressamente sollecitato mediante l’allegazione della insufficienza della rivalutazione ai fini del ristoro del danno da ritardo. In applicazione del predetto principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito nella quale gli interessi compensativi erano stati riconosciuti al tasso legale, sulla somma dovuta dal datore di lavoro al lavoratore a titolo di equo premio, dalla data della messa in mora sino a quella di deposito della sentenza di primo grado.

10. La stipula di patti a corredo del rapporto di lavoro, rinunzie abdicative, progetto individuale di inserimento e consenso del lavoratore.

Patto di non concorrenza, patto di prova con durata maggiore di quello previsto dalla contrattazione collettiva, clausola penale e accollo cumulativo sono stati i maggiori ambiti di interesse della S.C. nell’anno appena trascorso, quanto alle pattuizioni aggiunte a corredo del rapporto di lavoro.

Quanto al patto di non concorrenza, Sez. L, n. 09790/2020, Boghetich, Rv. 657784-01, afferma che al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza previsto dall’art. 2125 c.c., occorre osservare i seguenti criteri:

a) il patto non deve necessariamente limitarsi alle mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ma può riguardare qualsiasi prestazione lavorativa che possa competere con le attività economiche svolte dal datore di lavoro, da identificarsi in relazione a ciascun mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergano domande e offerte di beni o servizi identici o comunque parimenti idonei a soddisfare le esigenze della clientela del medesimo mercato;

b) non deve essere di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale;

c) quanto al corrispettivo dovuto, il patto non deve prevedere compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato.

Nella specie, la S.C. ha confermato, quindi, la decisione di merito che aveva ritenuto valido il patto con il quale il dipendente di un istituto di credito, assunto come private banker, si era impegnato a non operare per un periodo di tre anni nel solo settore del “private banking”, limitatamente ai prodotti già trattati con la clientela dell’istituto stesso, nell’ambito di una sola regione e dietro un corrispettivo di euro 7.500,00 annui, regolarmente versati per tutta la durata del rapporto di lavoro.

Della clausola di assunzione in prova, con riferimento all’ipotesi in cui il contratto individuale preveda l’espletamento della stessa per un periodo più lungo di quello previsto dalla contrattazione collettiva, si occupa Sez. L, n. 09789/2020, Blasutto, Rv. 657869-01, affermando che la clausola del contratto individuale con cui è fissata una durata del patto di prova maggiore di quella stabilita dalla contrattazione collettiva di settore deve ritenersi più sfavorevole per il lavoratore e, come tale, è sostituita di diritto ex art. 2077, comma 2, c.c. salvo che il prolungamento si risolva in concreto in una posizione di favore per il lavoratore (ad esempio per la particolare complessità delle mansioni), con onere probatorio gravante sul datore di lavoro, poiché è colui che si avvantaggia del tempo più lungo della prova godendo di più ampia facoltà di licenziamento per mancato superamento della stessa.

In tema di pattuizioni aggiunte va anche ricordata Sez. L, n. 27422/2020, Garri, Rv. 659792-01, relativa invece alle modalità di pattuizione ed inserzione della clausola penale nei contratti di lavoro.

Al rapporto di lavoro, si evidenzia, ben può essere inserita quale clausola accessoria quella penale, purché sorretta dall’accordo delle parti, non rientrando la liquidazione anticipata del danno da inadempimento del lavoratore tra i poteri unilaterali di conformazione del rapporto rimessi all’imprenditore.

In applicazione dell’innanzi esposto principio, la S.C. ha quindi escluso di poter qualificare clausola penale l’unilaterale forfettizzazione del danno compiuta dal datore in una circolare.

Quanto, invece, al negozio di rinunzia, Sez. L, n. 17076/2020, Patti, Rv. 658826-01 (richiamata anche, nel contesto della cessione di azienda, nel § 6, cap. XVIII, di questa Sezione), evidenzia che in caso di retrocessione di ramo d’azienda, conseguente alla risoluzione del relativo contratto d’affitto, la preventiva rinunzia del lavoratore al vincolo di solidarietà gravante sull’affittante per le obbligazioni inadempiute dall’affittuario è nulla, in quanto diretta a regolamentare gli effetti del rapporto di lavoro in maniera diversa da quella fissata dalle norme di legge o di contratto collettivo, incidendo su diritti destinati a sorgere solo in futuro.

Dell’accollo cumulativo si occupa Sez. L, n. 08166/2020, Patti, Rv. 657616-01, affermando che in caso di accollo cumulativo, il regime di solidarietà tra accollante ed accollato comporta che la rinunzia del secondo alla prescrizione non sia opponibile al primo, ai sensi dell’art. 1310 c.c.

Quanto, infine, alla enucleazione del significato del termine “consenso” in relazione al progetto di inserimento vanno ricordati gli approdi di Sez. L, n. 06094/2020, Negri Della Torre, Rv. 657172-01.

Nel contratto di inserimento di cui agli artt. 54 e ss. del d.lgs. n. 276 del 2003 - evidenzia il giudice di legittimità -, il consenso del lavoratore al progetto individuale, previsto dall’art. 55 del citato d.lgs., non implica che esso debba essere concesso all’esito di una specifica negoziazione a mezzo trattativa, essendo sufficiente la mera approvazione in esito ad una complessiva valutazione di rispondenza alla eventuale professionalità già acquisita.

11. I congedi parentali e le previsioni della l. n. 104 del 5 febbraio del 1992 in tema di permessi, computabilità ai fini della tredicesima ed esonero dall’obbligo dal lavoro notturno.

In tema di congedo parentale frazionato, l’art. 32, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2001 stabilisce che la fruizione del beneficio - che risponde ad un diritto potestativo del lavoratore o della lavoratrice - si interrompe allorché l’interessato rientri al lavoro, e ricomincia a decorrere dal momento in cui il medesimo riprende il periodo di astensione. In tal senso, Sez. L, n. 15633/2020, De Gregorio, Rv. 658492-01, che deriva altresì da tale affermazione di principio la conseguenza che, ai fini della determinazione del periodo di congedo parentale, si tiene conto dei giorni festivi solo nel caso in cui gli stessi rientrino interamente e senza soluzione di continuità nel periodo di fruizione e non anche nel caso in cui l’interessato rientri al lavoro nel giorno precedente a quello festivo e riprenda a godere del periodo di astensione da quello immediatamente successivo, senza che rilevi che, per effetto della libera decisione del lavoratore o della lavoratrice, possa esservi un trattamento differente (e peggiorativo), con fruizione effettiva di un minor numero di giorni di congedo parentale, per effetto della decisione di rientrare al lavoro in un giorno non seguito da una festività, dovendosi ritenere tale soluzione conforme ai principi di cui agli artt. 30 e 31 Cost., che, nel dettare norme a tutela della famiglia e fissare il diritto-dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare la prole, impongono una applicazione non restrittiva dell’istituto.

Quanto al delicato equilibrio tra doveri dei dipendenti e diritti, nell’ambito della delicata materia della legislazione relativa alla tutela delle condizioni di handicap, Sez. L, 20243/2020, Boghetich, Rv. 658911-01, ritiene che i permessi ex art. 33, comma 6, della l. n. 104 del 1992 sono riconosciuti al lavoratore portatore di handicap in ragione della necessità di una più agevole integrazione familiare e sociale, senza che la fruizione degli stessi debba essere necessariamente funzionale alle esigenze di cura.

L’esclusione della computabilità dei congedi parentali per l’assistenza ai disabili ai fini della tredicesima viene affermata da Sez. L, n. 24206/2020, Bellè, Rv. 65944101.

Nella pronunzia si osserva che l’esclusione di cui innanzi operava anche prima dell’entrata in vigore della previsione espressa di cui al comma 5 quinquies dell’art. 42 del d.lgs. n. 151 del 2001, perché il richiamo al trattamento economico di maternità, di cui al comma 5 dell’art. 42 vigente “ratio temporis”, andava riferito alle sole modalità di pagamento e non anche alla portata giuridica ed economica dello stesso, nè il mancato computo di tali congedi ai fini degli istituti accessori ingenera una discriminazione in relazione al diverso trattamento previsto per le ipotesi di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità, in quanto la diversità dei presupposti fattuali degli istituti giustifica il differente esercizio della discrezionalità legislativa.

In relazione alla posizione dei lavoratori che prestino assistenza ad un soggetto portatore di handicap, Sez. L, n. 10203/2020, Leo, Rv. 657786-01, si occupa, invece, dell’esonero dal lavoro notturno per essi previsto dall’art. 11, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 66 del 2003, affermando che l’esonero in questione riguarda l’adibizione al lavoro nella fascia oraria dalla mezzanotte alle cinque del mattino (intervallo ricompreso necessariamente nel periodo notturno, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. d), dello stesso d.lgs. n. 66 del 2003), non coincidente, quindi, con quella dalla mezzanotte alle sei del mattino, che vige, invece, per le lavoratrici-madri. In tale fascia oraria, per le lavoratrici madri, dall’accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino è, infatti, previsto, con diversa ratio e a tutela delle diverse esigenze della maternità, il divieto assoluto di adibizione al lavoro.

12. Rapporti di lavoro e procedure concorsuali.

Sez. L, n. 15407/2020, Patti, Rv. 658489-01, afferma che in caso di fallimento del datore di lavoro, ove vi sia cessazione dell’attività aziendale, il rapporto di lavoro entra in una fase di sospensione, in quanto il diritto alla retribuzione - salvo il caso di licenziamento dichiarato illegittimo - non sorge in ragione dell’esistenza e del protrarsi del rapporto ma presuppone, per la natura sinallagmatica del contratto, la corrispettività delle prestazioni. Ne consegue che, non essendovi, per effetto della dichiarazione di fallimento e fino alla data della dichiarazione del curatore, ai sensi dell’art. 72, comma 2, l. fall., un obbligo retributivo per l’assenza di prestazione lavorativa, non è configurabile un credito contributivo previdenziale, principio valido anche per la domanda concernente il credito per le retribuzioni e le voci successive alla dichiarazione di fallimento, ma non per quello relativo al TFR, che matura nell’arco di durata del rapporto di lavoro.

Del tema del trasferimento di aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell’art. 2, quinto comma, lett. c), della l. n. 675 del 1977, ovvero per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria si occupa, invece, Sez. L, n. 10414/2020, Blasutto, Rv. 657851-01 (riportata anche, per connessione di materia, nel § 6, capitolo XVIII, di questa Sezione).

Con riguardo a dette ipotesi - afferma la S.C. -, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività, ai sensi del d.lgs. n. 270 del 1999, l’accordo sindacale di cui all’art. 47, comma 4-bis, della l. n. 428 del 1990, inserito dal d.l. n. 135 del 2009, conv. in l. n. 166 del 2009, può prevedere deroghe all’art. 2112 c.c. concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionario, in quanto la locuzione - contenuta del predetto comma 4-bis - “Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione, l’articolo 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo”, va letta in conformità al diritto dell’Unione europea ed alla interpretazione che dello stesso ha fornito la Corte di giustizia, 11 giugno 2009, in causa C-561/07 (all’esito della procedura di infrazione avviata nei confronti della Repubblica italiana per violazione della direttiva 2001/23/CE), nel senso che gli accordi sindacali, nell’ambito di procedure di insolvenza aperte nei confronti del cedente sebbene non “in vista della liquidazione dei beni”, non possono disporre dell’occupazione preesistente al trasferimento di impresa. (Fattispecie relativa a cessione di compendio aziendale da Alitalia CAI ad Alitalia SAI).

I rapporti tra concordato preventivo per cessione di beni e rapporti di lavoro sono indagati da Sez. L, n. 23925/2020, Patti, Rv. 659265-01, che esprime il principio così massimato da questo ufficio: l’ammissione dell’imprenditore al concordato preventivo per cessione di beni, pur potendo integrare giustificato motivo di recesso, non comporta di per sé l’impossibilità giuridica della continuazione del rapporto di lavoro che permane fino al recesso di una delle parti.

In applicazione del principio innanzi ricordato, la S.C. ha quindi cassato la decisione di merito che non aveva ammesso al passivo i crediti di lavoro di un dirigente, sul presupposto dell’impossibilità della prestazione lavorativa in pendenza del concordato preventivo per cessione di beni, stante l’esclusivo scopo liquidatorio della procedura.

13. Il distacco del lavoratore ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. n. 276 del 2003.

Si occupa delle questioni inerenti il distacco del lavoratore ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. n. 276 del 2003, Sez. L, n. 18959/2020, Cinque, Rv. 658598-02 e Rv. 658598-01.

Nella pronunzia vengono enunziati due principi di diritto: in primo luogo, si afferma che in caso di distacco del lavoratore in violazione delle condizioni previste dal comma 3 dell’art. 30 del d.lgs. n. 276 del 2003 (distacco che comporti un mutamento delle mansioni che richiede il consenso del dipendente e distacco con trasferimento ad una unità produttiva sita a più di cinquanta chilometri da quella cui il lavoratore sia adibito che richiede la sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive), non è prevista la sanzione della costituzione del rapporto alle dipendenze dell’utilizzatore, a differenza di quanto stabilito per la fattispecie di cui al comma 1 del medesimo articolo, dovendosi ritenere, in base ad un’interpretazione letterale e logico-sistematica, oltre che rispondente ad un ragionevole bilanciamento di interessi, che solo alla ipotesi ritenuta più grave del distacco senza i requisiti fondamentali dell’interesse e della temporaneità sia riconosciuta la tutela civilistica costitutiva e sanzionatoria di tipo amministrativo (già di tipo penale), mentre quanto al quomodo attraverso cui il distacco venga attuato sia accordata solo la tutela civilistica di tipo risarcitoria.

Sempre nella innanzi indicata pronunzia si afferma che in caso di distacco del lavoratore, ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. n. 276 del 2003, la prova dell’interesse temporaneo del distaccante è a carico del datore di lavoro, costituendo requisito qualificante della fattispecie.

14. La cessione del trattamento di fine rapporto ed il limite del quinto, transazione e regole di ermeneutica della contrattazione collettiva e degli atti di quietanza.

In tema di cessione dei crediti dei lavoratori pubblici e privati, ai sensi dell’art. 52, comma 2, del d.P.R. n. 180 del 1950, come modificato dall’art. 13-bis del d.l. n. 35 del 2005, conv. con modif. dalla l. n. 80 del 2005, alla cessione del trattamento di fine rapporto non si applica il limite del quinto.

Il principio è affermato in Sez. L, n. 03913/2020, Amendola, Rv. 656928-01.

Quanto invece alla transazione, Sez. L, n. 15411/2020, Raimondi, Rv. 658490-01, ne afferma la estraneità al rapporto di lavoro ed agli obblighi contributivi, perché alla base del calcolo degli oneri previdenziali deve sempre essere posta la retribuzione prevista per legge o per contratto, individuale o collettivo.

Ne consegue che le somme pagate a titolo di transazione dipendono da quest’ultimo contratto e non dal diverso contratto di lavoro, sicché l’assoggettabilità a contribuzione delle poste contenute nell’accordo transattivo è conseguenza dell’accertata natura retributiva delle stesse.

In applicazione di tale principio, la S.C. ha quindi escluso che l’incentivo all’esodo previsto in una transazione novativa che definiva una lite concernente esclusivamente la risoluzione del rapporto di lavoro dovesse essere sottoposto al prelievo contributivo (la medesima questione, sotto diverso angolo prospettico, è esaminata anche nel § 2.3, capitolo XXI, della Sez. III).

Non è mancata l’indicazione relativa alle regole di ermeneutica della contrattazione collettiva con Sez. L, n. 04189/2020, Cinque, Rv. 656929-01, nella quale si puntualizza che il principio in claris non fit interpretatio non trova applicazione quando le espressioni letterali utilizzate, benché chiare, non siano univocamente intellegibili, sicché in detta ipotesi dovrà ricercarsi la comune intenzione delle parti facendo ricorso a tutti i criteri interpretativi rivelatori della volontà dei contraenti.

Nella specie, quindi, la S.C., ritenuta non univoca l’espressione “personale della manutenzione dei rotabili”, contenuta nell’accordo aziendale di Trenitalia del 23 giugno 2005, ha escluso che dalla mera interpretazione letterale della stessa potesse desumersi l’inclusione nella categoria anche del personale impiegato in ufficio o in magazzino.

Sez. 6-L, n. 04460/2020, Ponterio, Rv. 657302-01, in tema di contratti collettivi aziendali di lavoro, afferma che il sindacato di legittimità può essere esercitato soltanto con riguardo ai vizi di motivazione del provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (nella specie, nel testo antecedente al d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella l. n. 134 del 2012 “ratione temporis” applicabile), ovvero ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, per violazione delle norme di cui agli artt. 1362 e segg. c.c., a condizione, per detta ipotesi, che i motivi di ricorso non si limitino a contrapporre una diversa interpretazione rispetto a quella del provvedimento gravato, ma prospettino, sotto molteplici profili, l’inadeguatezza della motivazione anche con riferimento alle norme del codice civile di ermeneutica negoziale come canone esterno di commisurazione dell’esattezza e congruità della motivazione stessa.

In tema di ermeneutica, va pure rammentata, Sez. L, n. 27749/2020, Leo, Rv. 659954 - 01, in cui si sottolinea che la sottoscrizione della busta paga con la dicitura “per ricevuta-quietanza” fa gravare sul lavoratore l’onere della prova della non corrispondenza tra le annotazioni ivi riportate e la retribuzione effettivamente corrisposta e che alla suddetta dichiarazione non può applicarsi il canone interpretativo di cui all’art. 1370 c.c., non potendo essa essere assimilata a una clausola inserita nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari ex artt. 1341 e 1342 c.c.

15. Dimissioni.

Quanto alle dimissioni, invece, Sez. L, n. 17110/2020, Blasutto, Rv. 658828-01, nell’anno in corso, ha indagato i rapporti tra il predetto istituto ed i contratti a termine.

Nello specifico, il giudice di legittimità ha ritenuto che le dimissioni del lavoratore da un contratto a tempo determinato, facente parte di una sequenza di contratti similari succedutisi nel corso del tempo, esplicano i propri effetti sul rapporto intercorso tra le parti, ma non elidono il diritto all’accertamento dell’invalidità del termine apposto al primo contratto di lavoro, permanendo l’interesse alle conseguenze di ordine economico che da tale nullità parziale scaturiscono.

In applicazione di tale principio, infatti, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato, nelle dimissioni rassegnate dal lavoratore, la volontà di interrompere il contratto a termine in corso, e non quello a tempo indeterminato scaturente dalla nullità - non ancora accertata - del termine apposto al contratto di lavoro, desumendola dalla circostanza che, a breve distanza di tempo, il lavoratore aveva stipulato con il medesimo datore di lavoro diversi altri contratti a termine.

Si fa rinvio al § 3.4, cap. XVIII della presente Sezione, per l’inquadramento della questione anche nell’alveo dei contratti a termine.

16. L’esame di questioni specifiche derivanti dalla contrattazione collettiva.

Di seguito le pronunzie del giudice di legittimità dell’anno in corso che si sono occupate di questioni connesse alla contrattazione collettiva.

Sez. L, n. 03467/2020, Arienzo, Rv. 656924-01, in tema di personale delle Poste Italiane s.p.a., ha affermato che, ai fini dell’inquadramento nell’Area Quadri di secondo livello di cui all’art. 44 del c.c.n.l. del 26 novembre 1994, così come integrato dall’accordo del 23 maggio 1995 e dalla circolare n. 25 del 1995, per quanto riguarda il filone tecnico-operativo, non è necessaria l’esistenza di poteri di coordinamento, essendo sufficiente lo svolgimento di “funzioni di significativa importanza” (elevato contenuto specialistico, nell’ambito del filone tecnico per gli appartenenti alla categoria Q1 ed “attività tecnica specializzata nella logistica, costruzioni, informatica, meccanizzazione e comunicazione elettronica e di tipo statistico attuariale; collaborazione ai responsabili di strutture organizzative, centrali e territoriali, di superiore livello” per gli appartenenti alla categoria Q2).

La rimodulazione del piano di incentivazione secondo la previsione dell’art. 70 del c.c.n.l. di Poste Italiane s.p.a. del 14 aprile 2011 è stata esaminata in Sez. L, n. 06757/2020, Negri Della Torre, Rv. 657436-01

Nello specifico, il giudice di legittimità ha ritenuto che la rimodulazione sia condizionata al manifestarsi di una esigenza di mutamento organizzativo o da mutamenti degli scenari di mercato e che la relativa informazione alle organizzazioni sindacali deve essere fornita prima dell’intervento di rimodulazione.

In applicazione di tale principio, la S.C. ha conseguentemente escluso che un disservizio al sistema informatico fornito da un’azienda esterna sia riconducibile ad un “mutamento organizzativo”, ovvero ad un “mutamento dello scenario di mercato”.

Sez. L, n. 08619/2020, Garri, Rv. 657666-01, si occupa di tracciare il contenuto della qualifica di impiegato della terza area professionale del settore creditizio, specificando che si caratterizza per le mansioni connotate da “decisioni nell’ambito di una delimitata autonomia funzionale”, e si distingue, dunque, da quella di quadro di primo livello di cui all’art. 76 del c.c.n.l. di settore dell’8 dicembre 2007, la quale si caratterizza, invece, per la stabile assegnazione a mansioni di elevata responsabilità funzionale e preparazione professionale, implicanti una particolare specializzazione o la direzione o coordinamento di altri dipendenti.

Nella specie, la S. C. ha escluso che potesse essere inquadrato nella qualifica da ultimo richiamata il dipendente di un istituto di credito al quale, accanto ai compiti di cassiere, erano state affidate le mansioni di stima e custodia dei beni dati in pegno, entro il limite di valore di euro 2.000,00.

Sez. L, n. 17167/2020, Lorito, Rv. 658535-01, infine, tocca il delicato aspetto della configurabilità del diritto all’assunzione in relazione alle previsioni di cui all’art. 19 del c.c.n.l. per il personale dipendente di Poste Italiane s.p.a. dell’11 luglio 2007 e degli accordi collettivi del 13 gennaio 2006 e del 10 luglio 2008.

Afferma la S.C. che le norme innanzi richiamate si interpretano nel senso che l’azienda non ha alcun obbligo di assunzione, bensì solo quello di attingere da un’apposita graduatoria, con conseguente legittimità della previsione di una verifica di idoneità professionale.

17. I danni risarcibili in caso di violazione dei criteri di rotazione per la collocazione in cassa integrazione.

Sez. L, n. 20466/2020, Lorito, Rv. 658913-01, afferma un principio importante in tema di danni risarcibili in caso di violazione dei criteri di rotazione per la cassa integrazione, in caso di totale privazione di mansioni, sottolineando che essi saranno sia patrimoniali che non patrimoniali, offrendo altresì indicazioni in tema di prova e di liquidazione dello stesso.

Nell’ipotesi di accertata violazione dei criteri di rotazione per la collocazione in cassa integrazione, cui sia correlata anche la totale privazione di mansioni, scrive il giudice di legittimità, il risarcimento del danno patrimoniale da illegittima sospensione - ristorato con il pagamento delle differenze fra il trattamento in CIG e le retribuzioni maturate nei relativi periodi - non assorbe il danno non patrimoniale sofferto per la forzata inattività - da liquidare in base a valutazione equitativa, anche mediante il ricorso alla prova presuntiva - quale lesione del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine, della dignità e della professionalità del dipendente.

  • contratto di lavoro
  • lavoro temporaneo

CAPITOLO XVIII

IL LAVORO FLESSIBILE

(di Ileana Fedele )

Sommario

1 Le deroghe introdotte dalla legislazione emergenziale sanitaria. - 2 Lavoro flessibile. - 3 Il contratto di lavoro a tempo determinato. - 3.1 La forma della proroga. - 3.2 La decadenza dall’impugnazione del termine. - 3.3 Ambito di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 in ipotesi di conversione del contratto a tempo determinato. - 3.4 Le dimissioni del lavoratore nella serie dei contratti a termine. - 3.5 Il lavoro a tempo determinato nel rapporto di lavoro pubblico privatizzato. - 4 La somministrazione di lavoro. - 5 L’indennità ex art. 32 della l. n. 183 del 2010. - 6 Cessione di azienda.

1. Le deroghe introdotte dalla legislazione emergenziale sanitaria.

L’emergenza sanitaria e la conseguente crisi economica che hanno tristemente caratterizzato l’anno 2020 hanno indotto il legislatore ad adottare una serie di deroghe alla normativa che disciplina il ricorso alla flessibilità nel mondo del lavoro, con lo scopo di temperare alcune restrizioni, con particolare riferimento a quelle introdotte per effetto del cd. decreto dignità (d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv. con modif. in l. 9 agosto 2018, n. 96).

In effetti, per ricostruire il peculiare regime derogatorio previsto in connessione con la situazione pandemica occorre ripercorrere - seppure in estrema sintesi - le disposizioni che si sono succedute nelle varie fasi dell’emergenza, chiarendone i rispettivi periodi di vigenza.

Con riferimento ai limiti di utilizzo del contratto a tempo determinato, per far fronte al riavvio delle attività in conseguenza all’emergenza epidemiologica da COVID-19, l’art. 93 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, nel testo precedente le modifiche apportate dalla l. di conversione 17 luglio 2020, n. 77, in vigore dal 19 maggio 2020 al 18 luglio 2020, ha previsto la possibilità di «rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere alla data del 23 febbraio 2020, anche in assenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81», vale a dire, anche in assenza di esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori, ovvero, ancora, esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria, in deroga all’art. 21 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81.

In sede di conversione del predetto d.l., con la l. n. 77 del 2020, è stato aggiunto il seguente comma 1-bis, in vigore dal 19 luglio 2020 al 14 agosto 2020: «Il termine dei contratti di lavoro degli apprendisti di cui agli articoli 43 e 45 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, e dei contratti di lavoro a tempo determinato, anche in regime di somministrazione, è prorogato di una durata pari al periodo di sospensione dell’attività lavorativa, prestata in forza dei medesimi contratti, in conseguenza dell’emergenza epidemiologica da COVID-19.».

Infine, il comma 1-bis è stato soppresso dall’art. 8, comma 1, lett. b), del d.l. 14 agosto 2020, n. 104, conv., con modif., dalla l. 13 ottobre 2020, n. 126, a decorrere dal 15 agosto 2020, mentre, con la medesima decorrenza, il comma 1 è stato modificato dall’art. 8, comma 1, lett. a), del citato d.l. n. 104 del 2020, nel modo seguente: «In conseguenza dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, in deroga all’articolo 21 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 e fino al 31 dicembre 2020, ferma restando la durata massima complessiva di ventiquattro mesi, è possibile rinnovare o prorogare per un periodo massimo di dodici mesi e per una sola volta i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, anche in assenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81.», con l’avvertenza che, il termine del “31 dicembre 2020” è stato aggiornato al “31 marzo 2021”, con l’art. 1, comma 279, della l. 30 dicembre 2020, n. 179 («All’articolo 93 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, al comma 1, le parole: “31 dicembre 2020” sono sostituite dalle seguenti: “31 marzo 2021”».).

Pertanto, secondo il regime attualmente in vigore, sino al 31 marzo 2021 è possibile rinnovare o prorogare per un periodo massimo di dodici mesi i contratti a termine anche in assenza di causali, purché per una sola volta e nel rispetto del limite massimo di ventiquattro mesi.

Rispetto a tale disciplina, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con nota in data 19 settembre 2020, n. 713, ha chiarito che «Poiché il testo parla di deroga all’art.21 del D.Lgs. n. 81/2015, deve intendersi che è consentita la deroga, oltre che alla disciplina sulle causali, anche alla disciplina sul numero massimo di proroghe e sul rispetto dei c.d. “periodi cuscinetto” contenuta nello stesso articolo. Di conseguenza, laddove il rapporto sia stato già oggetto di quattro proroghe, sarà possibile prorogarne ulteriormente la durata per un periodo massimo di 12 mesi e sarà possibile rinnovarlo anche prima della scadenza del c.d. periodo cuscinetto, sempreché sia rispettata la durata massima di 24 mesi.».

Rimane, comunque, la necessità di valutare l’incidenza del regime intertemporale, con particolare riferimento alle proroghe ed ai rinnovi eventualmente effettuati in base alla possibilità offerta dal comma 1 dell’art. 93 del d.l. n. 34 del 2020 nel testo vigente dal 19 maggio al 14 agosto 2020 nonché alla proroga automatica corrispondente al periodo di sospensione dell’attività lavorativa già prevista per i contratti a termine, anche in regime di somministrazione, e per i contratti di apprendistato ex artt. 43 e 45 del d.l. n. 81 del 2015, dal comma 1-bis successivamente abrogato.

Con riferimento ai divieti previsti dalla disciplina sul contratto a tempo determinato e sulla somministrazione, l’art. 19-bis, introdotto dalla l. 24 aprile 2020, n. 27, in sede di conversione del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, in vigore dal 30 aprile 2020, sempre in ragione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, prevede la possibilità per i «datori di lavoro che accedono agli ammortizzatori sociali di cui agli articoli da 19 a 22 del presente decreto, nei termini ivi indicati», di procedere, nel medesimo periodo, al rinnovo o alla proroga dei contratti a tempo determinato, anche a scopo di somministrazione «in deroga alle previsioni di cui agli articoli 20, comma 1, lettera c), 21, comma 2, e 32, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81», in tal modo esimendo le parti anche dalla necessità di rispettare il periodo “cuscinetto” imposto dalla disciplina ordinaria per la riassunzione del medesimo lavoratore.

Sempre con riferimento alla disciplina prevista per il contratto a tempo determinato, ma in relazione al lavoro pubblico, l’art. 57, comma 2-bis, del d.l. n. 104 del 2020, inserito dalla legge di conversione n. 126 del 2020, in vigore dal 14 ottobre 2020, ha previsto che «per i contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con il personale in servizio presso gli Uffici speciali per la ricostruzione e presso gli altri enti ricompresi nel cratere del sisma del 2016, nonché per i contratti di lavoro a tempo determinato di cui alle convenzioni con le società indicate all’articolo 50, comma 3, lettere b) e c), del decreto-legge 17 ottobre 2016, n. 189, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 dicembre 2016, n. 229, la proroga fino al 31 dicembre 2021 si intende in deroga, limitatamente alla predetta annualità, ai limiti di durata previsti dal decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e dalla contrattazione collettiva nazionale di lavoro dei comparti del pubblico impiego e in deroga ai limiti di cui agli articoli 19 e 21 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81.».

Infine, per quel che attiene, in particolare, alla disciplina della somministrazione, l’art. 8, comma 1-bis, del d.l. n. 104 del 2020, cit., ha modificato l’art. 31 del d.lgs. n. 81 del 2015, nel senso che, fino al 31 dicembre 2021, ove l’agenzia di somministrazione abbia comunicato all’utilizzatore l’assunzione a tempo indeterminato, l’utilizzatore può impiegare in missione, per periodi superiori a ventiquattro mesi anche non continuativi, il medesimo lavoratore somministrato, senza che ciò determini in capo all’utilizzatore stesso la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il lavoratore somministrato (per l’interpretazione autentica dell’art. 38, comma 3, secondo periodo, di cui all’art. 80-bis, comma 1, del d.l. n. 34 del 2020, cit., si rinvia al par. 2, licenziamento individuale).

2. Lavoro flessibile.

Il tema del lavoro flessibile, inteso in senso ampio, continua ad essere di primario interesse nell’ambito del contenzioso giuslavoristico, registrandosi, ad ogni buon conto, una sensibile diminuzione delle pronunce relative al rapporto di lavoro privato a fronte di un apprezzabile incremento di quelle emesse in riferimento al rapporto di lavoro pubblico.

Come di consueto, si procederà di seguito alla disamina delle pronunce emesse nell’anno 2020 sul lavoro a termine - per contiguità verranno qui trattate anche quelle riferite al rapporto di lavoro pubblico privatizzato - ed interinale. Si darà pure conto delle decisioni in tema di trasferimento di azienda, intese alla verifica delle vicende circolatorie del rapporto ed alla corretta individuazione del datore di lavoro.

Si fa rinvio al capitolo XVII di questa Sezione per la trattazione dei temi concernenti il contratto di formazione e lavoro, il contratto di apprendistato, il contratto di inserimento, il contratto a progetto ed il fenomeno interpositorio.

3. Il contratto di lavoro a tempo determinato.

Fra le pronunce emesse nel corso del 2020 merita di essere segnalata particolarmente quella che ha precisato l’ambito di applicazione del cd. contratto a tutele crescenti, le volte in cui il rapporto di lavoro a tempo indeterminato consegua quale effetto di conversione di un contratto a termine. Numerose, come già anticipato, le decisioni chiamate a dirimere le controversie emerse dal fenomeno del cd. precariato pubblico, in linea con la tendenza degli ultimi anni.

3.1. La forma della proroga.

In continuità con Sez. L, n. 1058/2016, Balestrieri, Rv. 638515-01, Sez. L, n. 08443/2020, Spena, Rv. 657647-02, ha ribadito che, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, applicabile ratione temporis, non è prescritta la forma scritta per la proroga del contratto a tempo determinato, fermo, in ogni caso, l’onere per il datore di lavoro di provare le ragioni obiettive che giustifichino la proroga. In linea con il citato precedente, è stato anche ribadito che la normativa interna è conforme alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE, che, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (sentenza del 26 gennaio 2012 in causa C-586/10), mira a limitare il ricorso a una successione di contratti o rapporti a tempo determinato attraverso l’imposizione agli Stati membri dell’adozione anche soltanto di una delle misure in essa enunciate.

3.2. La decadenza dall’impugnazione del termine.

In proposito, è stato affermato da Sez. L, n. 08443/2020, Spena, Rv. 657647-01, che la decadenza prevista dall’art. 32 della l. 4 novembre 2010, n. 183, è rilevabile solo su eccezione di parte trattandosi di diritto disponibile, con la conseguenza che l’onere del lavoratore ricorrente di documentare il rispetto dei termini per l’impugnazione stragiudiziale sorge soltanto dal momento della costituzione del datore e per effetto della proposizione della relativa eccezione; in applicazione di tale principio la S.C. ha ritenuto tempestiva la produzione della raccomandata di impugnazione stragiudiziale del termine nonostante la stessa non fosse stata depositata unitamente al ricorso introduttivo.

3.3. Ambito di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 in ipotesi di conversione del contratto a tempo determinato.

Con decisione di valenza nomofilattica, Sez. L, n. 00823/2020, Patti, Rv. 656596-01, ha chiarito che l’art. 1, comma 2, del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, si interpreta nel senso che il regime del cd. “contratto a tutele crescenti” si applica ai contratti a tempo determinato stipulati anteriormente al 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del suddetto decreto) nelle ipotesi in cui gli effetti della conversione del rapporto – a seguito di novazione ovvero in ragione del tipo di vizio accertato – si producano con decorrenza successiva alla predetta data, mentre risulta irrilevante l’epoca della pronuncia giudiziale di accertamento della nullità dell’apposizione del termine, posto che quest’ultima, avendo efficacia meramente dichiarativa, opera con effetto ex tunc dalla illegittima stipulazione del contratto.

In motivazione, richiamando il principio già espresso da Sez. L, n. 08385/2019, Blasutto, Rv. 653208-01, quanto all’efficacia meramente dichiarativa dell’accertamento giudiziale, la Corte ha prospettato la necessità di addivenire ad una corretta lettura tecnico-giuridica dell’espressione “conversione” – utilizzata in dottrina ed in giurisprudenza per descrivere il meccanismo secondo cui la nullità della clausola di apposizione del termine non comporta la nullità dell’intero contratto, in virtù del principio di conservazione del negozio giuridico, ma la sua caducazione ex art. 1419, comma 2, c.c., con conseguente trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato – per circoscrivere l’ambito di applicazione dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. 23 del 2015 «alle ipotesi tassativamente stabilite, al fine di assicurare il rispetto dei limiti della delega: diversamente prospettandosi un vizio di illegittimità costituzionale per eccesso, in violazione degli artt. 76 e 77 Cost.».

Sulla base di tali premesse, considerata anche la necessità di adottare un’interpretazione costituzionalmente orientata, che valga ad escludere il rischio della paventata, irragionevole, disparità di trattamento tra lavoratori egualmente assunti a tempo determinato prima della introduzione del cd. Jobs Act ma con la conversione del rapporto, per nullità del termine, in uno a tempo indeterminato in base a sentenze emesse, per mero accidente indipendente dalle rispettive volontà, talune prima, altre dopo tale data, la Corte arriva a tracciare le ipotesi di contratti a termine stipulati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015 e convertiti in contratti a tempo indeterminato dopo tale data suscettibili di equiparazione a nuove assunzioni. In particolare, viene dapprima menzionata l’ipotesi della conversione volontaria, per effetto di una manifestazione di volontà delle parti successiva all’entrata in vigore del decreto, con effetto novativo. Vengono poi declinate le fattispecie in cui la conversione produce i suoi effetti dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, perché successivo è il vizio che colpisce il contratto a termine, quali: a) continuazione del rapporto di lavoro oltre il periodo di tolleranza, ai sensi dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 368 del 2001, qualora la scadenza sia successiva al 7 marzo 2015; b) riassunzione prima della scadenza del periodo “cuscinetto”, ai sensi dell’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 368 del 2001, qualora il secondo contratto sia stato stipulato dopo il 7 marzo 2015; c) superamento del limite massimo consentito «per effetto di una successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti», ai sensi dell’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, qualora detto superamento sia successivo al 7 marzo 2015.

Viceversa, le volte in cui la conversione operi per effetto dell’accertamento dell’originaria nullità dell’apposizione del termine ad un contratto stipulato prima del 7 marzo 2015, il rapporto a tempo indeterminato così instaurato sarà comunque sottratto all’ambito di applicazione del cd. Jobs act, e ciò a prescindere dalla data in cui intervenga la pronuncia giudiziale, trattandosi di un rapporto di lavoro già instaurato e convertito prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015.

3.4. Le dimissioni del lavoratore nella serie dei contratti a termine.

In continuità con Sez. L, n. 1534/2016, Lorito, Rv. 638345-01, Sez. L, n. 17110/2020, Blasutto, Rv. 658828-01, ha ribadito che le dimissioni del lavoratore da un contratto a tempo determinato, facente parte di una sequenza di contratti similari succedutisi nel corso del tempo, esplicano i propri effetti sul rapporto intercorso tra le parti ma non elidono il diritto all’accertamento dell’invalidità del termine apposto al primo contratto di lavoro, permanendo l’interesse alle conseguenze di ordine economico che da tale nullità parziale scaturiscono. Nel caso esaminato dalla S.C., la sentenza di merito aveva correttamente ravvisato, nelle dimissioni rassegnate dal lavoratore, la volontà di interrompere il contratto a termine in corso, e non quello a tempo indeterminato scaturente dalla nullità – non ancora accertata – del termine apposto al contratto di lavoro, desumendola dalla circostanza che, a breve distanza di tempo, il lavoratore aveva stipulato con il medesimo datore di lavoro diversi altri contratti a termine.

3.5. Il lavoro a tempo determinato nel rapporto di lavoro pubblico privatizzato.

Come segnalato in apertura, nel 2020 sono state numerose le pronunce relative al cd. precariato nel lavoro pubblico.

Con riferimento all’ambito di applicazione del d.lgs. n. 368 del 2001, Sez. L, n. 12499/2020, Marotta, Rv. 658002-01, ha opportunamente precisato che il divieto di stipulare contratti di lavoro subordinato a termine per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori – di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 368 del 2001 – si applica anche alle pubbliche amministrazioni, poiché la predetta disposizione costituisce norma imperativa, la cui ratio, diretta alla più intensa protezione dei lavoratori rispetto ai quali la flessibilità d’impiego riduce la familiarità con l’ambiente e gli strumenti di lavoro, sussiste anche ove il contratto a termine sia stato stipulato con una P.A.

Sul piano della procedura da seguire per l’assunzione a termine, Sez. L, n. 25986/2020, Spena, Rv. 659544-01 ha chiarito che, qualora la graduatoria formata all’esito di un pubblico concorso per il reclutamento di personale a tempo indeterminato debba essere utilizzata per l’assunzione con contratto a termine degli idonei, l’assunzione in questione deve avvenire nel rispetto dell’ordine della graduatoria, in conformità ai principi di buon andamento ed imparzialità cui all’art. 97 Cost., i quali risulterebbero violati ove la scelta dei destinatari della assunzione a tempo determinato fosse operata senza l’osservanza di un criterio predeterminato ed oggettivo e, dunque, verificabile.

Il preminente interesse pubblico sotteso alla speciale disciplina in materia è significativamente sottolineato da Sez. L, n. 20250/2020, Di Paolantonio, Rv. 658912-01, secondo cui, nell’ipotesi di instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato con la P.A. disposta in ottemperanza ad un provvedimento giudiziale, l’amministrazione conserva l’interesse a proporre impugnazione avverso il predetto provvedimento anche ove il rapporto in questione si sia concluso per scadenza del termine in pendenza della lite, avuto riguardo al profilo pubblicistico di interesse all’accertamento della legittimità dei propri atti adottati in tema di reclutamento del personale e di utilizzo delle forme flessibili di assunzione, che discende, in via generale, dai principi di imparzialità, trasparenza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa, nonché, più specificamente, dalla disposizione dell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, che sancisce la responsabilità dei dirigenti per gli atti contrari alle norme inderogabili di legge.

Quanto alla corretta individuazione del termine nelle supplenze scolastiche, Sez. L, n. 05048/2020, Di Paolantonio, Rv. 656938-01, ha affermato che il termine finale delle supplenze annuali su posto vacante e disponibile alla data del 31 dicembre, pur in difetto di una previsione espressa, è fissato inderogabilmente nel 31 agosto di ciascun anno, in virtù del rinvio operato dall’art. 4, comma 5, della l. 3 maggio 1999, n. 124 all’art. 1 del d.m. 25 maggio 2000, n. 201, ed al successivo art. 1 del d.m. 13 giugno 2007, n. 131, quali disposizioni di natura imperativa, in quanto poste a garanzia della trasparenza ed efficacia dell’azione amministrativa, non potendo essere rimessa al dirigente scolastico la scelta della durata dell’assunzione; di conseguenza, è nulla la pattuizione di un termine diverso che andrà sostituito, ex art. 1419, comma 2, c.c., con quello previsto in via generale ed astratta dal legislatore.

Il divieto di trasformazione, di cui all’art. 36 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, è stato applicato da Sez. L, n. 09786/2020, Marotta, Rv. 657849-01, anche ai rapporti di lavoro degli addetti alla sistemazione idraulico forestale ed idraulico agraria alle dipendenze della Regione Valle D’Aosta, benché disciplinati da un c.c.n.l. privatistico, dovendo gli stessi essere inquadrati nello schema del lavoro pubblico, in considerazione della natura del datore e dell’inerenza delle prestazioni ai fini istituzionali dell’ente. Analogamente, Sez. L, n. 28060/2020, Marotta, Rv. 659801-01, ha ritenuto applicabile il divieto di costituzione di rapporti a tempo indeterminato al soppresso Istituto di Programmazione Industriale (IPI) in ragione della natura pubblica dell’ente e, conseguentemente, del rapporto di lavoro del proprio personale. Inoltre, secondo Sez. L, n. 11537/2020, I. Tricomi, Rv. 657973-01, la conversione rimane vietata anche per i rapporti di lavoro a termine posti in essere dalle pubbliche amministrazioni mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento per le qualifiche ed i profili per i quali è richiesto il requisito della scuola dell’obbligo, ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 165 del 2001, per la necessità di salvaguardare anche in tale ambito i principi di buon andamento, imparzialità ed efficienza dell’amministrazione che sottendono la regola del pubblico concorso.

Si occupa, invece, dell’ambito di applicazione dello specifico profilo sanzionatorio configurato per il rapporto di lavoro pubblico Sez. L, n. 02534/2020, I. Tricomi, Rv. 656917-01, osservando che la mancata indicazione delle ragioni giustificative dell’apposizione del termine al contratto, poi prorogato, costituisce un’ipotesi di abusiva reiterazione del contratto a tempo determinato, che ricade nell’ambito di applicazione della direttiva 1999/70/CE, e dà luogo al diritto al risarcimento del danno comunitario secondo i principi enunciati dalle Sezioni Unite della S.C. nella sentenza n. 5072 del 2016.

In ordine al bene giuridico tutelato con l’elaborazione del cd. danno da precarizzazione, Sez. L, n. 10999/2020, Bellé, Rv. 657927-01, si è espressa nel senso che l’abusiva reiterazione di contratti a termine con il medesimo lavoratore produce una situazione di incertezza sulla stabilità occupazionale, tale da ledere la dignità della persona, quale diritto inviolabile, di cui è proiezione anche il diritto al lavoro in quanto tale, riconosciuto nel diritto interno dagli artt. 2 e 4 Cost, e nel diritto eurounitario dagli artt. 1 e 15 della cd. Carta di Nizza.

Sul piano della tutela in forma specifica, Sez. L, n. 15353/2020, Spena, Rv. 658192-01, ha precisato che la successiva immissione in ruolo del lavoratore costituisce misura sanzionatoria idonea a reintegrare le conseguenze pregiudizievoli dell’abusiva reiterazione del termine solo se ricollegabile alla successione dei contratti a termine con rapporto di causa-effetto, ciò che si verifica quando l’assunzione a tempo indeterminato avvenga o in forza di specifiche previsioni legislative di stabilizzazione del personale precario vittima dell’abuso o attraverso percorsi espressamente riservati a detto personale e non già, come nel caso di specie, allorché l’assunzione in ruolo sia stata solo agevolata dall’esperienza acquisita nelle precedenti assunzioni a termine. Con particolare riferimento al settore scolastico, Sez. L, n. 03472/2020, Torrice, Rv. 656776-01, ha affermato, con valenza nomofilattica, che nelle ipotesi di reiterazione illegittima di contratti a termine stipulati su cd. organico di diritto, avveratasi a far data dal 10 luglio 2001 e prima dell’entrata in vigore della l. 13 luglio 2015, n. 107, per i docenti ed il personale ATA deve essere ritenuta misura proporzionata, effettiva, sufficientemente energica ed idonea a sanzionare debitamente l’abuso ed a “cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione”, secondo l’interpretazione resa dalla Corte di giustizia UE nella sentenza dell’8 maggio 2019 (in causa C494/17, Rossato), la stabilizzazione acquisita attraverso il previgente sistema di reclutamento; nondimeno, la Corte ha specificato che l’immissione in ruolo non esclude la proponibilità della domanda di risarcimento per danni ulteriori, con oneri di allegazione e prova a carico del lavoratore che, in tal caso, non beneficia di alcuna agevolazione da danno presunto, come nel caso del cd. “danno comunitario”.

È stata, quindi, espressamente affrontata la questione relativa al termine di prescrizione del danno risarcibile ex art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, termine individuato in quello ordinario decennale da Sez. 6-L, n. 05740/2020, Ponterio, Rv. 657303-01, trattandosi di danno derivante dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A ed avente, pertanto, origine contrattuale, secondo quanto affermato da Sez. U, n. 5072/2016, Amoroso, Rv. 639065-01.

Con riferimento, invece, alla diversa questione della prescrizione inerente alla richiesta di riconoscimento del medesimo trattamento retributivo previsto per l’assunto a tempo indeterminato in virtù del principio di non discriminazione, Sez. L, n. 10219/2020, Torrice, Rv. 657720-01, ha affermato che tale domanda soggiace al termine quinquennale di prescrizione previsto dall’art. 2948 nn. 4 e 5 c.c., il quale decorre, anche in caso di illegittimità del termine apposto ai contratti, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza, e per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto a partire da tale momento.

Sul tema del principio di non discriminazione, Sez. L, n. 12369/2020, Tria, Rv. 658101-01, con riferimento al personale scolastico, ha affermato che l’assegno aggiuntivo di sede e gli altri benefici, previsti dal d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, e dalla contrattazione collettiva per i docenti a tempo indeterminato che prestino servizio nelle istituzioni scolastiche all’estero, devono essere riconosciuti nella stessa misura anche ai supplenti non residenti assunti con contratto a termine, trattandosi di integrazioni salariali attribuite per il solo svolgimento del servizio richiesto e corrisposte per il disagio del trasferimento all’estero, in assenza, pertanto, di condizioni oggettive idonee a giustificare un trattamento economico preferenziale in favore dei docenti a tempo indeterminato, in forza della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE, secondo l’interpretazione resa dalla Corte di giustizia nella sentenza del 20 giugno 2019, in causa C-72/18.

Sempre in applicazione del principio di non discriminazione, Sez. L, n. 12361/2020, Bellé, Rv. 658333-02, ha sostenuto che, ai fini del riconoscimento della progressione stipendiale per anzianità ai pubblici dipendenti a tempo determinato, qualora manchino altri più specifici termini di paragone, il raffronto può essere operato anche con dipendenti a tempo determinato di altro Ministero o comparto, purché abbia esito favorevole il riscontro di elementi positivi di comparazione, sulla base delle connotazioni del lavoro svolto e delle condizioni che lo caratterizzano, e purché non emergano ragioni obiettive atte in concreto a giustificare il diverso trattamento applicato. In relazione al settore scolastico, Sez. L, n. 02924/2020, Marotta, Rv. 656921-02, ha affermato che l’art. 2 del c.c.n.l. del 4 agosto 2011, nella parte in cui limita il mantenimento del maggior valore stipendiale in godimento ad personam, fino al conseguimento della nuova successiva fascia retributiva, ai soli assunti a tempo indeterminato, viola la predetta clausola 4 dell’accordo quadro, con conseguente disapplicazione della norma contrattuale da parte del giudice e riconoscimento della medesima misura transitoria di salvaguardia anche al lavoratore a termine, poi immesso nei ruoli dell’amministrazione. Ancora, Sez. L, n. 00715/2020, Torrice, Rv. 656482-01, ha ritenuto che il compenso incentivante di cui all’art. 32 del c.c.n.l. enti pubblici non economici 1999-2001, legato al raggiungimento di determinati e specifici obbiettivi, non è incompatibile con la natura determinata del rapporto di lavoro, sicché la mancata corresponsione anche ai dipendenti a tempo determinato (nella specie, della Croce Rossa Italiana) si pone in contrasto con la disciplina contrattuale di settore e, data l’assenza di ragioni oggettive che giustifichino il trattamento differenziato, con il divieto di discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato sancito dall’art. 6 del d.lgs. n. 368 del 2001, in attuazione della clausola 4, punto 1, del citato accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.

Diverse pronunce hanno, poi, fatto applicazione del principio di non discriminazione in relazione al trattamento economico da riconoscere al personale “stabilizzato”. In continuità con Sez. L, n. 27950/2017, Miglio, Rv. 646355-01, Sez. L, n. 24201/2020, Marotta, Rv. 659440-01, ha affermato che al lavoratore stabilizzato va riconosciuta la progressione economica raggiunta all’esito del superamento di una procedura selettiva espletata durante il servizio pre-ruolo, sia in quanto la deroga che la stabilizzazione determina rispetto alla regola del pubblico concorso è giustificata proprio dalla sua funzione di valorizzazione delle esperienze professionali pregresse, sia perché la clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla direttiva n. 99/70/CEE impone di non operare discriminazioni tra i dipendenti stabilizzati e quelli assunti ab origine a tempo indeterminato. Nella stessa linea, con specifico riferimento al settore scolastico, Sez. L, n. 17314/2020, Bellé, Rv. 658542-01, ha ritenuto che, in caso di stabilizzazione successiva alla illegittima reiterazione di contratti a termine, l’anzianità di servizio e le connesse differenze retributive vanno riconosciute, con attribuzione della medesima progressione stipendiale prevista per i dipendenti assunti fin dall’origine a tempo indeterminato, in applicazione della clausola 4 dell’accordo quadro sul rapporto a tempo determinato, di diretta applicazione. D’altra parte, Sez. L, n. 15231/2020, Di Paolantonio, Rv. 658186-01, nel richiamare il tenore della più volte citata clausola 4 dell’accordo quadro sul rapporto a tempo determinato, ritiene applicabile il principio ivi espresso anche nell’ipotesi in cui il rapporto a termine sia anteriore all’entrata in vigore della direttiva, sul rilievo che, in assenza di espressa deroga, il diritto dell’Unione si applica agli effetti futuri delle situazioni sorte nella vigenza della precedente disciplina. Ancora, Sez. L, n. 04195/2020, Di Paolantonio, Rv. 656817-01, ha precisato che al lavoratore collocato in ruolo a seguito della procedura di stabilizzazione prevista dalla l. n. 296 del 2006, deve essere riconosciuta l’anzianità di servizio maturata, in virtù di contratti a termine, precedentemente all’assunzione a tempo indeterminato, se le funzioni svolte siano identiche a quelle precedentemente esercitate, non potendo ritenersi che lo stesso si trovasse in una situazione differente a causa del mancato superamento del concorso pubblico per l’accesso ai ruoli della P.A.; pertanto, per accertare la sussistenza dell’eventuale discriminazione, è necessario operare la verifica non in astratto bensì in relazione alla fattispecie concreta dedotta in giudizio, potendo eventuali diversità di trattamento essere ritenute discriminatorie in un caso e non nell’altro, in dipendenza di condizioni specifiche del singolo rapporto.

In ordine alla corresponsione del trattamento di fine rapporto, Sez. L, n. 05895/2020, Spena, Rv. 657178-01, ha chiarito che in caso di estinzione del rapporto di lavoro a termine alle dipendenze di una pubblica amministrazione seguita dall’assunzione in ruolo e dalla costituzione, presso la stessa, di un nuovo rapporto di lavoro, il dipendente ha diritto a percepire un autonomo trattamento di fine rapporto sin dal momento della cessazione del primo rapporto di lavoro.

Infine, diverse decisioni hanno riguardato questioni insorte in occasione della stabilizzazione del personale precario (in disparte quelle già sopra segnalate, in applicazione del principio di non discriminazione).

Sez. L, n. 07246/2020, Di Paolantonio, Rv. 657439-01, ha affermato che la stabilizzazione ex art. 1, comma 519, della l. n. 296 del 2006, prevista, tra l’altro, per il personale in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, o che abbia conseguito tale requisito in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data - ex art. 3, comma 90, della l. n. 244 del 2007 - del 28 settembre 2007, non è consentita in favore di chi abbia maturato il triennio di anzianità a tempo determinato in forza di proroghe intervenute dopo la predetta data, poiché l’interpretazione costituzionalmente orientata delle menzionate disposizioni induce a ritenere che la platea dei destinatari dovesse essere cristallizzata alla data in questione, con esclusione di qualsiasi rilevanza di proroghe disposte successivamente, sia pure in relazione a contratti stipulati anteriormente. A conforto dell’assunto, si osserva che la opposta esegesi, oltre a non essere rispettosa della ratio della norma, volta a sanare situazioni di precariato già sorte o in via di consolidamento, finirebbe per attribuire alle amministrazioni il potere di individuare esse stesse, a priori e non a posteriori, i destinatari della procedura di accesso speciale, in spregio ai principi di imparzialità e trasparenza che devono presiedere al reclutamento del personale nell’ambito del rapporto di pubblico impiego ed in assenza di quelle ragioni di interesse pubblico che sole possono giustificare, in casi eccezionali individuati dal legislatore, la deroga al concorso pubblico. Nello stesso senso, Sez. L, n. 20912/2020, Di Paolantonio, Rv. 658920-01, ha affermato che la procedura di stabilizzazione prevista ai sensi dell’art. 1, comma 519, della l. n. 296 del 2006, in quanto diversa da quella disciplinata al successivo comma 526, non richiede che il presupposto operativo del triennio di servizio anche non continuativo sia compiuto entro l’anno 2007, ma nel ricomprendere nella platea dei destinatari tutto il personale che consegua tale requisito in virtù di contratti stipulati anteriormente al 29 settembre 2006, senza fissare una data limite entro la quale il requisito stesso deve essere posseduto, correla necessariamente questa data al dies a quo, ossia al 29 settembre 2009 (tre anni dal 29 settembre 2006). Analogo principio, inteso a sottolineare la tassatività delle norme sulla stabilizzazione del personale in servizio a tempo determinato, in quanto costituiscono una deroga al principio dell’accesso mediante concorso, di cui all’art. 97 Cost., è stato espresso da Sez. L, n. 21200/2020, Bellé, Rv. 658924-01.

4. La somministrazione di lavoro.

In tema di somministrazione di lavoro, Sez. L, n. 22066/2020, Lorito, Rv. 659112-01, ha affrontato la questione relativa all’individuazione della disciplina applicabile al rapporto di lavoro giudizialmente instaurato alle dipendenze dell’utilizzatore, chiarendo che trova applicazione il trattamento economico e normativo sancito dalla disciplina legale e collettiva in vigore presso quest’ultimo, mentre non è invocabile il trattamento più favorevole applicato dal somministratore, atteso che, nel momento in cui la struttura trilatera del rapporto viene meno per effetto della irregolarità del contratto di somministrazione, la prestazione di lavoro si inserisce nell’assetto organizzativo aziendale dell’utilizzatore nell’ambito di un ordinario rapporto, in analogia con la fattispecie di cui all’art. 2112, comma 3, c.c.

5. L’indennità ex art. 32 della l. n. 183 del 2010.

Sull’ambito di applicazione dell’indennità prevista dall’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, Sez. L, n. 29006/2020, Balestrieri, Rv. 659805-01, ha escluso che il predetto regime indennitario possa estendersi anche alla fattispecie di un rapporto di lavoro autonomo accertato (ab origine, per fictio iuris) di lavoro subordinato e a tempo indeterminato, celato sotto lo schermo ripetuto di una molteplicità di successivi contratti di collaborazione autonoma, pervenendo ad una soluzione che appare divergente da quella già affermata da Sez. L, n. 20500/2018, Leone, Rv. 650093-01, secondo cui l’indennità in questione consegue a qualsiasi ipotesi di riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in sostituzione di un’altra fattispecie contrattuale a tempo determinato.

6. Cessione di azienda.

Sez. L, n. 10414/2020, Blasutto, Rv. 657851-01 (riportata anche, per connessione di materia, nel § 12, capitolo XVII, di questa Sezione), nell’esaminare la vicenda relativa alla cessione del compendio aziendale da Alitalia CAI ad Alitalia SAI, ha affermato che, in caso di trasferimento che riguardi aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell’art. 2, comma 5, lett. c), della l. 18 agosto 1977, n. 675, ovvero per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, in ipotesi di continuazione o di mancata cessazione dell’attività, ai sensi del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, l’accordo sindacale di cui all’art. 47, comma 4-bis, della l. 29 dicembre 1990, n. 428, inserito dal d.l. 25 settembre 2009, n. 135, conv. in l. 20 novembre 2009, n. 166, può prevedere deroghe all’art. 2112 c.c. concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionario, in quanto la locuzione - contenuta del predetto comma 4-bis - «Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione, l’articolo 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo», va letta in conformità al diritto dell’Unione europea ed alla interpretazione che dello stesso ha fornito la Corte di giustizia, 11 giugno 2009, in causa C-561/07, nel senso che gli accordi sindacali, nell’ambito di procedure di insolvenza aperte nei confronti del cedente sebbene non “in vista della liquidazione dei beni”, non possono disporre dell’occupazione preesistente al trasferimento di impresa.

Un caso particolare, relativo alla vendita di farmacia, ai sensi dell’art. 12, comma 2, della l. 2 aprile 1968, n. 475, è stato affrontato da Sez. L, n. 09090/2020, Blasutto, Rv. 657670-01, secondo cui il riconoscimento del medico provinciale, tenuto ad esercitare il controllo dei requisiti richiesti dalla stessa legge per la gestione del servizio farmaceutico, costituisce una condizione legale sospensiva, sicché, come per ogni atto traslativo, tra vivi o mortis causa, l’effetto reale del trasferimento della proprietà dell’azienda si realizza, con efficacia retroattiva, solo dopo l’adozione del predetto atto amministrativo; di conseguenza, ove non intervenga il riconoscimento in questione, le vicende del rapporto di lavoro instaurato in via di mero fatto con il cessionario non incidono sul rapporto ancora in essere con il cedente e va esclusa l’operatività della responsabilità solidale ex art. 2112, comma 2, c.c., del cessionario per i debiti contratti dal cedente medesimo durante il rapporto di lavoro svoltosi anteriormente al contratto di cessione, rimasto giuridicamente inefficace per il mancato avveramento della condizione cui era sottoposto.

Peraltro, in caso di nullità della cessione di ramo d’azienda, con conseguente inapplicabilità dell’art. 2112 c.c., Sez. L, n. 04870/2020, Negri della Torre, Rv. 656933-01, non esclude che sia configurabile la cessione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 1406 c.c., laddove – con accertamento di fatto che, ove immune da vizi logici e adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità – risulti che il lavoratore abbia manifestato tacitamente il proprio consenso mediante comportamenti concludenti, come nel caso di specie, caratterizzato dalla prosecuzione del rapporto con la società cessionaria per oltre nove anni, senza alcuna contestazione.

D’altro canto, Sez. L, n. 17076/2020, Patti, Rv. 658826-01, ha precisato che, in caso di retrocessione di ramo d’azienda, conseguente alla risoluzione del relativo contratto d’affitto, la preventiva rinuncia del lavoratore al vincolo di solidarietà gravante sull’affittante per le obbligazioni inadempiute dall’affittuario è nulla, in quanto diretta a regolamentare gli effetti del rapporto di lavoro in maniera diversa da quella fissata dalle norme di legge o di contratto collettivo, incidendo su diritti destinati a sorgere solo in futuro.

Infine, quanto al regime decadenziale previsto dall’art. 32, comma 4, della l. n. 183 del 2010, secondo Sez. L, n. 06649/2020, Cinque, Rv. 657190-01, esso non si applica alle cessioni intervenute prima dell’entrata in vigore della predetta legge, come emerge dall’interpretazione letterale della norma – di carattere eccezionale – che individua espressamente il dies a quo del termine di decadenza nella “data del trasferimento”, nonché, sul piano logico-sistematico, dall’assenza, nel comma 4 del predetto art. 32, di disposizione analoga a quella prevista per i contratti a termine, ove invece è stata disciplinata chiaramente l’ipotesi anche per quelli già scaduti.

  • licenziamento
  • licenziamento collettivo

CAPITOLO XIX

IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE E COLLETTIVO

(di Luigi Di Paola )

Sommario

1 Potere disciplinare. - 2 Licenziamento individuale. - 2.1 La motivazione del licenziamento. - 2.2 Giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento. - 2.3 Giustificato motivo oggettivo di licenziamento. - 2.4 Il licenziamento nullo per frode alla legge. - 2.5 Il licenziamento del dirigente. - 2.6 Il licenziamento del lavoratore in età pensionabile. - 2.7 L’impugnazione del licenziamento e le decadenze. - 2.8 Applicazioni della legge “Fornero”. - 2.9 Applicazioni del d.lgs. n. 23 del 2015. - 2.10 Le conseguenze del licenziamento illegittimo. - 3 Licenziamenti collettivi.

1. Potere disciplinare.

Le pronunce di rilievo emesse nel corso del corrente anno attengono in prevalenza alla questione dell’intangibilità del diritto di difesa dell’incolpato nell’ambito del procedimento disciplinare, cui è strettamente correlata quella del contenimento, entro limiti ben precisi, del potere di intervento del giudice sulla sanzione, quale naturale prerogativa del datore.

Così, quanto al principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, Sez. L, n. 03079/2020, Cinque, Rv. 656772-01, ha ribadito, in conformità ad un orientamento consolidato, che la necessaria correlazione dell’addebito con la sanzione deve essere garantita e presidiata, in chiave di tutela dell’esigenza difensiva del lavoratore, anche in sede giudiziale, ove le condotte in contestazione sulle quali è incentrato l’esame del giudice di merito non devono nella sostanza fattuale differire da quelle poste a fondamento della sanzione espulsiva, pena lo sconfinamento dei poteri del giudice in ambito riservato alla scelta del datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza con cui il giudice di merito - a fronte di una condotta del lavoratore sanzionata dal datore con il licenziamento con preavviso, previsto, ai sensi dell’art. 54, comma 5, lett. c), del c.c.n.l. per il personale non dirigente di Poste Italiane, per l’ipotesi di “inosservanza di leggi o di regolamenti o degli obblighi di servizio con gravi danni alla società o a terzi” - aveva applicato di ufficio, una volta esclusa la prova del danno concreto e ritenuto che il dipendente avesse comunque pregiudicato l’immagine e la reputazione del datore, la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso ex art. 54, comma 6, lett. c), del predetto c.c.n.l., prevista per l’ipotesi di “violazioni dolose di leggi o regolamenti o dei doveri di ufficio che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio alla Società o a terzi”).

Sempre in tema, Sez. L, n. 11540/2020, Boghetich, Rv. 657974-01, ha affermato che il principio di immutabilità della contestazione attiene al complesso degli elementi materiali connessi all’azione del dipendente e può dirsi violato solo ove venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze di fatto nuove o diverse rispetto a quelle contestate, così da determinare una concreta menomazione del diritto di difesa dell’incolpato, e non quando il datore di lavoro proceda a un diverso apprezzamento o a una diversa qualificazione del medesimo fatto, come accade nell’ipotesi di modifica dell’elemento soggettivo dell’illecito.

Quanto al diritto del lavoratore di essere sentito personalmente, Sez. L, n. 19846/2020, Pagetta, Rv. 658846-01, ha precisato che nel caso in cui il lavoratore medesimo, dopo avere presentato giustificazioni scritte senza formulare alcuna richiesta di audizione orale, avanzi tale richiesta successivamente, entro il termine di cui al comma 5 dell’art. 7 della l. n. 300 del 1970, il datore di lavoro è tenuto a provvedere all’audizione - con conseguente illegittimità della sanzione adottata in mancanza di tale adempimento - senza poter sindacare la necessità o opportunità della integrazione difensiva, non sussistendo ragioni per limitare il diritto di difesa, preordinato alla tutela di interessi fondamentali del lavoratore, in assenza di un apprezzabile interesse contrario della parte datoriale, che riceve comunque adeguata tutela dalla stringente cadenza temporale che regola il procedimento disciplinare.

D’altro canto, la mera allegazione, da parte del lavoratore, ancorché certificata, della condizione di malattia non può essere ragione di per sé sola sufficiente a giustificarne l’impossibilità di presenziare all’audizione personale richiesta, occorrendo che egli ne deduca la natura ostativa all’allontanamento fisico da casa (o dal luogo di cura), così che il suo differimento a una nuova data di audizione personale costituisca effettiva esigenza difensiva non altrimenti tutelabile (così Sez. L, n. 00980/2020, Patti, Rv. 656533-01).

In merito all’applicabilità delle garanzie procedimentali previste dall’art. 7 della l. n. 300 del 1970, Sez. L, n. 02365/2020, F. Amendola, Rv. 656696-02, ha evidenziato che la stessa si impone per tutti i casi in cui il datore di lavoro voglia recedere dal rapporto per ragioni “ontologicamente” disciplinari, a garanzia del diritto di difesa e di tutela dell’onore, decoro, immagine, anche professionali del lavoratore.

Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto superflua l’applicazione delle garanzie procedimentali all’apprendistato, benché il recesso datoriale fosse motivato da “numerose lamentele” dei clienti e, dunque, da comportamento negligente e, comunque, in senso lato, colpevole dell’apprendista.

Infine, in tema di responsabilità disciplinare del dipendente, Sez. L, n. 27747/2020, Leo, Rv. 659799-01, ha puntualizzato che il rifiuto di alcuni portalettere di effettuare la consegna di una parte della corrispondenza, di competenza di un collega assegnatario di altra zona della medesima area territoriale, in violazione dell’obbligo previsto dall’accordo sindacale del 27 luglio 2010, non costituisce astensione dal lavoro straordinario, né astensione per un orario delimitato e predefinito, ma rifiuto di effettuare una delle prestazioni dovute, sicché può dare luogo a responsabilità contrattuale e disciplinare del dipendente senza che il comportamento datoriale di irrogazione delle sanzioni sia qualificabile come antisindacale.

2. Licenziamento individuale.

Nel corrente anno vi è stata una marcata riduzione, rispetto al passato, delle pronunzie di rilievo concernenti la materia, pervenuta - a distanza di diversi anni dagli interventi riformatori della legge “Fornero” e del “Jobs Act” - ad un significativo assestamento determinato dal naturale consolidamento di orientamenti delineatisi, progressivamente, nel corso del tempo, benché residuino, ancora, temi - in particolar modo quello della esatta individuazione dei cd. vizi formali o procedimentali, nonché quello della portata, nell’ambito del sistema, del licenziamento disciplinare illegittimo per scarsa rilevanza del fatto contestato - meritevoli, attesa la delicatezza delle questioni che vi si ricollegano, di un adeguato approfondimento.

La materia in questione è stata peraltro interessata dai noti provvedimenti normativi volti, da un lato, a fronteggiare il rischio di perdita dell’occupazione derivante dall’emergenza sanitaria, e, dall’altro, a chiarire un aspetto della disciplina del licenziamento irrogato nell’ambito della somministrazione di lavoro (quale espressione di fattispecie interpositoria), rispetto al quale la S.C. aveva, con varie pronunzie, offerto una soluzione ritenuta, evidentemente, non in linea con l’intendimento del legislatore.

Quanto al primo aspetto, vanno in primo luogo richiamati i vari interventi con i quali é stato disposto il divieto di intimazione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (nonché di avvio di procedure di licenziamento collettivo, per come si accennerà al successivo § 3), dapprima previsto nell’art. 46 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con modif. in l. 24 aprile 2020, n. 27, per un periodo di sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, poi portato a cinque mesi per effetto della modifica introdotta dall’art. 80, comma 1, lett. a), del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, conv. con modif. in l. 17 luglio 2020, n. 77; il divieto in questione è stato poi ribadito dall’art. 14 del d.l. 14 agosto 2020, n. 104, conv. con modif. in l. 13 ottobre 2020, n. 126, seppur a determinate condizioni (i.e.: per i datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19 ovvero dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali di cui all’articolo 3 del decreto), con esclusione delle ipotesi di licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, di accordo collettivo aziendale - stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale - di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, nonché di licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione (con lo stesso articolo è stata prevista, al comma 4, la possibilità per il datore di revocare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato nell’anno 2020, in deroga alle previsioni di cui all’art. 18, comma 10, st.lav., purché contestualmente abbia fatto richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale).

In tali termini, il predetto divieto è stato mantenuto, fino al 31 gennaio 2021, dall’art. 12 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. con modif. in l. 18 dicembre 2020, n. 176.

Da ultimo, la legge 30 dicembre 2020, n. 178 (legge di bilancio 2021) ha previsto, ai commi 310 e 311 dell’art. 1, la proroga del divieto fino al 31 marzo 2021, salvo le ipotesi di esclusione sopra indicate.

Quanto al secondo aspetto, va fatta menzione dell’art. 80-bis (recante “Interpretazione autentica del comma 3 dell’articolo 38 del d.lgs. n. 81/2015”) del d.l. 19 maggio 2020, n. 34 (cd. “decreto Rilancio”), aggiunto con la legge di conversione n. 77 del 2020, nel quale è stabilito che “il secondo periodo del comma 3 dell’art. 38 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento”.

Vanno infine segnalate, sulla materia, due rilevanti pronunzie della Corte costituzionale.

Con la prima - sent. 16 luglio 2020, n. 150 - il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», in tal modo eliminando, anche con riguardo all’ipotesi di licenziamento dichiarato illegittimo per vizi formali e procedurali (in coerenza con quanto già statuito nella sentenza n. 194 del 2018, in relazione al caso del licenziamento dichiarato illegittimo per vizi sostanziali), il meccanismo automatico di liquidazione dell’indennità derivante dalla commisurazione della stessa all’anzianità di servizio del lavoratore

Con la seconda - sent. 14 ottobre 2020, n. 212 - ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, secondo comma, della l. 15 luglio 1966, n. 604, come sostituito dall’art. 32, comma 1, della l. 4 novembre 2010, n. 183, nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del licenziamento è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, oltre che dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, anche dal deposito del ricorso cautelare anteriore alla causa ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c..

La Corte, in particolare, ha ritenuto la disposizione censurata contraria sia al principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), se posta in comparazione con l’idoneità ad impedire l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale riconosciuta, invece, dalla stessa disposizione censurata, alla richiesta di attivazione della procedura conciliativa o arbitrale, sia al principio di ragionevolezza (riconducibile anch’esso all’art. 3 Cost.), in riferimento alla finalità sottesa alla previsione del termine di decadenza, essendo la domanda di tutela cautelare idonea a far emergere il contenzioso insito nell’impugnazione dell’atto datoriale.

2.1. La motivazione del licenziamento.

Con riguardo alla precisazione del nucleo dei fatti da esternare nella motivazione, Sez. L, n. 16795/2020, Boghetich, Rv. 658576-01, in conformità ad un precedente dell’anno scorso (Sez. L, n. 06678/2019, Rv. 653196-01), ha riaffermato che la novellazione dell’art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1966 per opera dell’art. 1, comma 37, della l. n. 92 del 2012, si è limitata a rimuovere l’anomalia della possibilità di intimare un licenziamento scritto immotivato, introducendo la contestualità dei motivi, ma non ha mutato la funzione della motivazione, che resta quella di consentire al lavoratore di comprendere, nei termini essenziali, le ragioni del recesso; ne consegue che nella comunicazione del licenziamento il datore di lavoro ha l’onere di specificarne i motivi, ma non è tenuto, neppure dopo la suddetta modifica legislativa, ad esporre in modo analitico tutti gli elementi di fatto e di diritto alla base del provvedimento.

Nella specie, relativa a un licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato nel 2016, la S.C. ha escluso la necessità che il datore di lavoro, avendo richiamato l’art. 2 del d.m. 21 aprile 2011, emanato in attuazione dell’art. 28, comma 6, del d.lgs. n. 164 del 2000, recante norme comuni per il mercato interno del gas, ed indicato come motivo di recesso la cessione degli impianti di distribuzione del gas ad altra impresa ed il passaggio diretto alle dipendenze della predetta subentrante, con salvaguardia delle condizioni economiche godute, fosse anche tenuto ad esporre le ragioni della inutilizzabilità “aliunde” del lavoratore, trattandosi di elemento implicito da provare direttamente in giudizio.

2.2. Giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

Una particolare attenzione va riservata, anche quest’anno, alla casistica sottoposta al vaglio della Corte come ipotesi di giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento, in ragione del ragguardevole numero di pronunce intervenute in materia.

Sul profilo dell’idoneità della condotta del lavoratore a ledere l’elemento fiduciario, Sez. L, n. 05897/2020, Lorito, Rv. 657180-01, ha affermato che l’uso e la detenzione, anche a fini di spaccio, di sostanze stupefacenti non sono consoni, in base agli “standard” conformi ai valori dell’ordinamento ed esistenti nella realtà sociale, allo svolgimento di una prestazione lavorativa implicante contatto con gli utenti da parte del dipendente. (Fattispecie in cui la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento di un operatore della mobilità addetto alla verifica del pagamento del parcheggio per le vetture in sosta il quale aveva definito il procedimento penale con una sentenza di patteggiamento).

Quanto alla rilevante nozione di insubordinazione, Sez. L, n. 13411/2020, Blasutto, Rv. 658443-01, ha precisato che la stessa non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma ricomprende qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione e il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale. (Nella specie, è stata ravvisata un’ipotesi di insubordinazione nella condotta minacciosa indirizzata alla responsabile amministrativa della società datoriale, sebbene realizzatasi al di fuori dell’orario di lavoro, in quanto era stata tenuta nei locali aziendali ed in riferimento ad aspetti che afferivano comunque all’osservanza di disposizioni interne circa l’uso di beni aziendali).

Con riguardo alla fattispecie di abbandono del posto di lavoro, Sez. L, n. 13410/2020, Blasutto, Rv. 658442-01, ha evidenziato che la fattispecie in questione, ai sensi dell’art. 140 del c.c.n.l. Istituti di vigilanza privata, presenta una duplice connotazione: sotto il profilo oggettivo, rileva l’intensità dell’inadempimento agli obblighi di sorveglianza, dovendosi l’abbandono identificare nel totale distacco dal bene da proteggere, mentre la durata nel tempo della condotta contestata va apprezzata non già in senso assoluto, ma in relazione alla sua possibilità di incidere sulle esigenze del servizio, dovendosi comunque escludere che l’abbandono richieda una durata protratta per l’intero orario residuo del turno di servizio svolto; sotto il profilo soggettivo, è richiesta la semplice coscienza e volontà della condotta di abbandono, indipendentemente dalle finalità perseguite e salva la configurabilità di cause scriminanti, restando irrilevante il motivo dell’allontanamento. (Nella specie, è stato ritenuto sussistente l’abbandono del posto di lavoro da parte di una guardia giurata la quale, assegnata a un turno di lavoro notturno consistente nel piantonamento itinerante di un’area di cantiere con un’auto di servizio, se ne era allontanata senza autorizzazione).

Sul rilevante aspetto della valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto all’infrazione contestata, Sez. L, n. 13411/2020, Blasutto, Rv. 658443-02, ha affermato che, ai fini di detta valutazione, è insufficiente un’indagine che si limiti a verificare se il fatto addebitato è riconducibile alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l’irrogazione del licenziamento, essendo sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza. (Nella specie, è stata ritenuta proporzionata la misura espulsiva rispetto alla condotta di un lavoratore - già recidivo per aver commesso sei infrazioni nel biennio precedente - il quale, nel corso di una discussione sorta per la restituzione di una chiavetta per l’uso di un distributore automatico di bevande, aveva minacciato la responsabile amministrativa dell’azienda, preannunziandole, con atteggiamento intimidatorio, la volontà di chiederle conto della sua condotta in altra sede, e aveva anche registrato la conversazione, rivelando in tal modo la consapevolezza e l’intenzionalità dello scontro verbale e la volontà di provocarlo per procurarsi una qualche prova di condotta non corretta della collega).

Sulla connessa problematica del valore parametrico delle previsioni collettive ai fini del giudizio di gravità e proporzionalità della condotta, Sez. L, n. 16784/2020, Arienzo, Rv. 658577-01, ha puntualizzato che, in tema di licenziamento per giusta causa, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione del giudice di merito che aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento intimato in relazione a specifica ipotesi prevista dalla contrattazione collettiva in tema di recesso senza preavviso - “assenze ingiustificate per cinque volte nel periodo di un anno” - in quanto il disvalore espresso dalla condotta tipizzata è stato ritenuto parificabile a quello del comportamento tenuto dal lavoratore quale risultato provato in causa - quattro assenze in periodo bimestrale, al netto di condotte non contestate o punite con precedente sanzione conservativa).

Sulla base dello stesso principio, Sez. L, n. 17321/2020, Boghetich, Rv. 658797-01, ha confermato la decisione di merito che aveva ravvisato un giustificato motivo soggettivo di licenziamento nel comportamento del vice-direttore di un ufficio postale il quale, in violazione della normativa antiriciclaggio, aveva proceduto all’apertura fraudolenta di conti correnti postali intestati a persone inesistenti, utilizzando documenti falsi e inducendo una sottoposta gerarchica - assunta da pochi mesi - ad eseguire le relative operazioni.

Sempre in tema, Sez. L, n. 03283/2020, Garri, Rv. 656774-01, ha affermato che la tipizzazione delle cause di recesso contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante, potendo il catalogo delle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo essere esteso, in relazione a condotte comunque rispondenti al modello di giusta causa o giustificato motivo, ovvero ridotto, se tra le previsioni contrattuali ve ne sono alcune non rispondenti al modello legale e, dunque, nulle per violazione di norma imperativa; ne consegue che il giudice non può limitarsi a verificare se il fatto addebitato sia riconducibile ad una previsione contrattuale, essendo comunque tenuto a valutare in concreto la condotta addebitata e la proporzionalità della sanzione.

Analogamente, Sez. L, n. 13412/2020, Boghetich, Rv. 658441-01, ha precisato che la previsione, nel contratto collettivo, di fattispecie integranti giusta causa di licenziamento rappresenta uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all’art. 2119 c.c., ma non è vincolate per il giudice, il quale può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o un grave comportamento del lavoratore contrario alle regole dell’etica o del comune vivere civile, ovvero, al contrario, può escludere che il contegno del lavoratore integri una giusta causa, pur essendo qualificato come tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva annullato il licenziamento intimato da Poste italiane s.p.a., in applicazione dell’art. 54, comma 6, lett. a e c, del c.c.n.l. di settore, nei confronti di un’impiegata, la quale aveva omesso la compilazione dei moduli e la rendicontazione sul sistema informativo aziendale di alcune operazioni di vendita di servizi, versando in ritardo i corrispettivi riscossi dai clienti, sul presupposto che dalle condotte della lavoratrice non era conseguito, né in concreto né potenzialmente, un pregiudizio di intensità corrispondente a quello richiesto dalla clausola collettiva quale presupposto della sanzione espulsiva.

Resta fermo - e v., al riguardo, Sez. L, n. 14811/2020, Tria, Rv. 658485-03 - che nell’ipotesi in cui un comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia configurato dal contratto collettivo come infrazione disciplinare cui consegua una sanzione conservativa, il giudice non può discostarsi da tale previsione (trattandosi di condizione di maggior favore fatta espressamente salva dall’art. 12 della l. n. 604 del 1966), a meno che non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva. (Nella specie, la S.C. ha confermato il licenziamento irrogato ad un dirigente per molestie sessuali, perché non sussumibili, stante la gravità del comportamento posto in essere con abuso di qualità, nelle previsioni contrattuali che disponevano la misura conservativa per i meri atti di molestia, anche sessuale).

In virtù del predetto principio, Sez. L, n. 08621/2020, Boghetich, Rv. 657667-01, ha confermato la sentenza di merito che, nell’escludere che l’omessa comunicazione, da parte del responsabile di un reparto, della sistematica manomissione dei dispositivi di rallentamento della velocità dei carrelli potesse rientrare nel campo di applicazione dell’art. 69 del c.c.n.l. Industria Alimentare - alla cui stregua è punita con sanzione conservativa la mancata tempestiva comunicazione al superiore dell’esistenza di guasti o irregolarità di funzionamento dei macchinari -, vi aveva ravvisato il medesimo grave disvalore dell’ipotesi, esemplificata nel citato c.c.n.l., di “danneggiamento volontario o messa fuori opera di dispositivi antinfortunistici”, sanzionato con il licenziamento senza preavviso.

Sul delicato tema delle modalità di acquisizione della prova circa l’inadempimento del lavoratore, Sez. L, n. 11697/2020, Piccone, Rv. 657976-01, ha evidenzato che, in tema di licenziamento per giusta causa, le disposizioni dell’art. 5 st.lav., che vietano al datore di lavoro di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e lo autorizzano a effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificare l’assenza.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che, all’esito di un’indagine demandata dal datore di lavoro a un’agenzia investigativa, risultava aver svolto con assiduità, durante il periodo di riposo per malattia, attività sportiva e ludica attestante l’intervenuta guarigione non comunicata al datore.

Quanto ai rapporti tra procedimento penale e processo di impugnativa del licenziamento, Sez. L, n. 17221/2020, Spena, Rv. 658537-01, ha affermato che la sentenza penale di assoluzione per gli stessi fatti posti a base del licenziamento non ha efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare, quando la formula assolutoria adottata è “perché il fatto non costituisce reato”, in quanto, ai sensi dell’art. 653 c.p.p., tale efficacia opera solo quando l’accertamento sia relativo alla insussistenza del fatto, alla mancata commissione dello stesso da parte dell’imputato o alla mancata rilevanza penale dell’illecito.

2.3. Giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Nel corrente anno sono state riaffermate le scelte interpretative compiute in passato sulle centrali questioni concernenti, da un lato, i requisiti integranti la fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, dall’altro, l’onere della prova del repechage.

Quanto al primo profilo, cui inerisce anche l’accertamento della riorganizzazione e del nesso causale, Sez. L, n. 15400/2020, Patti, Rv. 658488-01, ha ribadito, in conformità ad un indirizzo che può dirsi oramai acquisito, che l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che la scelta imprenditoriale abbia comportato la soppressione del posto di lavoro e che le ragioni addotte dal datore di lavoro a sostegno della modifica organizzativa da lui attuata abbiano inciso, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato; il licenziamento risulterà ingiustificato, per la mancanza di veridicità o la pretestuosità della causale addotta, in presenza dell’accertamento in concreto dell’inesistenza di dette ragioni, cui il giudice sia pervenuto senza però attribuire rilievo all’assenza di effettive motivazioni economiche, perché ciò integrerebbe una insindacabile valutazione di scelte imprenditoriali, che si pone in violazione dell’art. 41 Cost.

In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che - in relazione a vicenda in cui era stata accertata l’effettiva soppressione della posizione della lavoratrice licenziata e la sua diretta dipendenza causale dalla ragione riorganizzativa aziendale - aveva ritenuto non giustificato il licenziamento, dando peso al non dimostrato squilibrio tra costi di gestione e margini di competitività dell’impresa e alla mancanza di allegazione della variabile di incidenza dei costi e degli effetti sulla redditività nel mercato, oltre che alla “insostenibilità economica di un organico composto da due ulteriori unità”.

In senso analogo, Sez. L, n. 15401/2020, Patti, Rv. 658574-01, con riguardo ad una fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da soppressione della posizione lavorativa per esternalizzazione dell’attività, ha evidenziato che è sufficiente, per la legittimità del recesso, l’effettività della scelta imprenditoriale - che la predetta soppressione abbia comportato -, la quale non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per effetto della soppressione del posto derivante da una riorganizzazione fondata sulla esternalizzazione dell’attività di gestione e manutenzione del parco automezzi della società datrice).

Sulla rilevanza delle finalità perseguite dal datore mediante il riassetto organizzativo, è stato precisato, con una significativa pronunzia - v. Sez. L, n. 03819/2020, Cinque, Rv. 656925-01 - che il riscontro di effettività deve concernere la sola scelta aziendale di sopprimere il posto di lavoro occupato dal lavoratore medesimo e la verifica del nesso causale tra soppressione del posto e le ragioni dell’organizzazione aziendale addotte a sostegno del recesso, essendo irrilevante l’obiettivo perseguito dall’imprenditore (consista esso in una migliore efficienza, in un incremento della produttività, ovvero nella necessità di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli o a spese straordinarie), a meno che l’obiettivo in questione, posto esclusivamente a base della causale addotta come causa diretta del recesso, si riveli pretestuoso e carente di veridicità.

Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza che, con riferimento al licenziamento intimato ad un lavoratore per effetto di una redistribuzione delle mansioni, aveva ritenuto che andasse provata non la effettività della riorganizzazione, bensì l’andamento economico negativo - dedotto dal datore a fondamento della predetta riorganizzazione soltanto in sede di comparizione per l’espletamento del tentativo di conciliazione - che aveva imposto la riduzione dei costi e la rimodulazione dell’organizzazione del lavoro.

Quanto all’altro profilo sopra richiamato - concernente l’onere probatorio in tema di repechage - Sez. L, n. 15401/2020, Patti, Rv. 658574-02, ha puntualizzato che, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano al momento del recesso i posti esistenti in azienda ai fini del repêchage, ove il lavoratore medesimo, in un contesto di accertata e grave crisi economica ed organizzativa dell’impresa, indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili e queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata dal giudice al fine di escludere la possibilità del predetto repêchage. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la possibilità di un reimpiego del lavoratore in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, per avere ciò verificato anche mediante la ravvisata insussistenza delle posizioni lavorative indicate dal lavoratore medesimo come disponibili).

Sulla questione della scelta dei dipendenti da licenziare, Sez. L, n. 16856/2020, Boghetich, Rv. 658582-01, ha affermato che se il motivo di licenziamento consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare per il datore di lavoro non è totalmente libera ma comunque limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza ex artt. 1175 e 1375 c.c., potendo farsi riferimento, a tal fine, ai criteri di cui all’art. 5 della l. n. 223 del 1991, quali standard particolarmente idonei a consentire al datore di lavoro di esercitare il suo potere selettivo coerentemente con gli interessi del lavoratore e con quello aziendale. (Nella specie, relativa a recesso intimato ex art. 2 del d.m. 21 aprile 2011, previsto nell’ipotesi di cessione degli impianti di distribuzione del gas ad altra impresa e passaggio diretto alle dipendenze della subentrante, il licenziamento è stato ritenuto illegittimo per violazione dei criteri di scelta tra più lavoratori appartenenti alla “quota parte del personale adibiti a funzioni centrali di supporto” e occupati in posizione di piena fungibilità).

2.4. Il licenziamento nullo per frode alla legge.

Con una rilevante pronunzia, Sez. L, n. 29007/2020, Lorito, Rv. 659806-01, ha affermato che ove l’azienda avvii la procedura di riduzione del personale presso una unità produttiva pochi giorni dopo il trasferimento presso di essa di un lavoratore reintegrato in via giudiziale, in precedenza adibito a una diversa sede, è configurabile la nullità del licenziamento di tale lavoratore per frode alla legge, restando irrilevante che questi non abbia impugnato il trasferimento nel termine di decadenza introdotto dall’art. 32 della l. n. 183 del 2010, atteso che l’assegnazione alla nuova sede è solo una parte della fattispecie complessa fraudolenta, che si completa con l’atto finale di licenziamento, la cui tempestiva impugnazione esonera quindi il lavoratore dalla necessità di contestare anche la legittimità del provvedimento emanato dal datore nell’esercizio dello “ius variandi”.

2.5. Il licenziamento del dirigente.

Con riferimento a vicenda peculiare, Sez. L, n. 17159/2020, Pagetta, Rv. 658829-01, ha affermato che il dirigente licenziato a seguito di ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, ai fini del conseguimento dell’indennità supplementare prevista dall’art. 27 dell’Accordo interconfederale del 27 aprile 1995, è tenuto a provare che il recesso datoriale ha avuto causa concreta nella situazione di crisi aziendale, e non anche la circostanza della propria mancata riassunzione, o quanto meno del proprio stato di disoccupazione, costituendo la mancata ricollocazione materia di eccezione della procedura.

2.6. Il licenziamento del lavoratore in età pensionabile.

Sez. L, n. 18662/2020, Lorito, Rv. 658843-01, ha riaffermato (in conformità a Sez. L, n. 13181/2018, F. Amendola, Rv. 648984-01) che la possibilità del recesso “ad nutum”, con sottrazione del datore all’applicabilità del regime dell’art. 18 st.lav., è condizionata non alla mera maturazione dei requisiti anagrafici e contributivi idonei per la pensione di vecchiaia, ma al momento in cui la prestazione previdenziale è giuridicamente conseguibile dall’interessato, ai sensi dell’art. 12, comma 1, del d.l. n. 78 del 2010, conv. con modif. nella l. n. 122 del 2010.

Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che, con riguardo a un lavoratore che aveva maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia il 1° aprile 2011, aveva considerato legittimo il recesso del datore di lavoro con decorrenza da tale data, anziché dopo dodici mesi dalla stessa, secondo quanto disposto dall’art. 12 del d.l. n. 78 del 2010.

2.7. L’impugnazione del licenziamento e le decadenze.

In materia, occorre preliminarmente far rinvio alla importante pronunzia del Giudice delle leggi, concernente il “secondo termine di decadenza”, richiamata nel § 2.

Va poi in questa sede segnalata Sez. L, n. 00148/2020, Blasutto, Rv. 656528-01, ove è stato precisato che, in tema di licenziamento dei dirigenti, i termini di decadenza ed inefficacia dell’impugnazione stabiliti dall’art. 6 della l. n. 604 del 1966, come modificato dall’art. 32 della l. n. 183 del 2010, non si applicano alle ipotesi di ingiustificatezza convenzionale del recesso, cui consegue la tutela meramente risarcitoria dell’indennità supplementare, secondo un’interpretazione doverosamente restrittiva - trattandosi di norme in materia di decadenza - del concetto di “invalidità” di cui all’art. 32, comma 2, della l. n. 183 del 2010, da intendere quale vizio suscettibile di determinare la demolizione del negozio e dei suoi effetti solutori, come previsto per le ipotesi sanzionate dall’art. 18, comma 1, st.lav. novellato dalla l. n. 92 del 2012.

2.8. Applicazioni della legge “Fornero”.

Le questioni innescate dalla riforma del 2012 hanno, nel corrente anno, trovato pressoché definitiva soluzione.

Con riguardo al licenziamento disciplinare, Sez. L, n. 17492/2020, Buffa, Rv. 658585-01, ha evidenziato che nella nuova disciplina prevista dall’art. 18 st.lav. riformulato, il giudice deve preliminarmente accertare se ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, quali presupposti condizionanti la legittimità del recesso secondo previsioni legali non modificate dalla riforma e, solo ove ravvisi la mancanza della causa giustificativa, deve provvedere a selezionare la tutela applicabile ed in particolare se si tratti di quella generale ex comma 5 ovvero quella ex comma 4, operante nei soli casi ivi previsti. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva riconosciuto la tutela reintegratoria attenuata senza valutare se l’illecito contestato - concernente ammanchi di cassa commessi dal dipendente di un istituto di credito - giustificasse il licenziamento, anche in base al grado di negazione dei doveri di fedeltà e diligenza e al livello di scostamento dalle regole aziendali interne, arrestando la propria indagine a generiche valutazioni del regolamento disciplinare).

Sulla nozione di “insussistenza del fatto contestato”, Sez. L, n. 03076/2020, Cinque, Rv. 656923-01, ha affermato che la tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, st.lav. novellato, applicabile ove sia ravvisata l’“insussistenza del fatto contestato”, comprende l’ipotesi di assenza ontologica del fatto e quella di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ma non già il difetto degli elementi essenziali della giusta causa o del giustificato motivo (cd. fatto “giuridico”), in quanto, nel sistema della l. n. 92 del 2012, il giudice deve in primo luogo accertare se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, e, nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, deve poi svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno delle condizioni normativamente previste per l’accesso alla tutela reintegratoria.

Nella specie, con la sentenza impugnata, ritenuto illegittimo il licenziamento intimato ad un dipendente che aveva riportato sentenza di applicazione della pena ex art 444 c.p.p. per fatti non compiuti in connessione con il rapporto di lavoro, era stata applicata la tutela reintegratoria attenuata; la S.C., nel cassare la predetta sentenza, ha affermato che la Corte territoriale, una volta esclusa la giusta causa del licenziamento, avrebbe dovuto valutare se il fatto addebitato, sussistente nella sua materialità, presentasse o meno il carattere di illiceità richiesto dal citato art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, ovvero se la fattispecie ricadesse nell’ambito operativo delle “altre ipotesi” di cui all’art. 18, comma 5, della predetta legge.

La tutela reintegratoria cd. “attenuata” va riconosciuta anche ove difetti la contestazione disciplinare; sul punto, Sez. L, n. 04879/2020, Arienzo, Rv. 656935-01, ha ribadito, in conformità ad un indirizzo che va consolidandosi, che il radicale difetto di contestazione dell’infrazione determina l’inesistenza dell’intero procedimento, e non solo l’inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui al comma 4 dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, richiamata dal comma 6 del predetto articolo per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo, tale dovendosi ritenere un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebito.

Invece, la violazione del termine a difesa di cinque giorni tra la contestazione dell’addebito e la sanzione, integra una violazione di natura procedurale ex art. 7 st. lav. e rende operativa la tutela prevista dal successivo art. 18, comma 6, quale modificato dalla l. n. 92 del 2012, non sussistendo alcuna lesione delle esigenze difensive del lavoratore in vista del processo (così Sez. L, n. 18136/2020, Ciriello, Rv. 658591-01).

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Sez. L, n. 02366/2020, F. Amendola, Rv. 656697-01, ha riaffermato, sulla scorta di precedenti conformi, che ove il giudice accerti il requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento”, previsto dall’art. 18, comma 7, st.lav., come novellato dalla l. n. 92 del 2012, può scegliere di applicare la tutela reintegratoria di cui al comma 4 del medesimo art. 18, salvo che, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, tale regime sanzionatorio non risulti incompatibile con la struttura organizzativa dell’impresa e dunque eccessivamente oneroso per il datore di lavoro. L’esercizio di detto “potere discrezionale del giudice”, commisurato al principio della “eccessiva onerosità”, si sottrae al sindacato di legittimità, ove sorretto da motivazione plausibile. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto sufficientemente motivata la sentenza di merito in cui si era fatto ricorso alla tutela reintegratoria, stante le grandi dimensioni dell’azienda multinazionale, “in assenza di ulteriori elementi che evidenzino una situazione di difficoltà logistica, organizzativa o economica”).

Quanto, infine, alla procedura di conciliazione ex art. 7 della l. n. 604 del 1966 - come modificato dalla l. n. 92 del 2012 -, Sez. L, n. 22212/2020, Lorito, Rv. 659056-01, ha evidenziato che il termine di sette giorni di cui al comma 3 del citato art. 7, entro il quale la DTL deve trasmettere al datore di lavoro e al lavoratore la convocazione per l’incontro innanzi alla commissione provinciale di conciliazione, si intende rispettato, secondo un’interpretazione letterale della disposizione, con l’invio di detta convocazione; ne consegue l’illegittimità per violazione procedurale del licenziamento intimato quando la convocazione in questione sia stata inviata entro il predetto termine, ancorché essa sia stata ricevuta dal datore di lavoro oltre il richiamato limite temporale.

2.9. Applicazioni del d.lgs. n. 23 del 2015.

Con una significativa pronunzia, Sez. L, n. 00823/2020, Patti, Rv. 656596-01, ha precisato che l’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, si interpreta nel senso che il regime del cd. “contratto a tutele crescenti” si applica ai contratti a tempo determinato stipulati anteriormente al 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del suddetto decreto) nelle ipotesi in cui gli effetti della conversione del rapporto - a seguito di novazione ovvero in ragione del tipo di vizio accertato - si producano con decorrenza successiva alla predetta data, mentre risulta irrilevante l’epoca della pronuncia giudiziale di accertamento della nullità dell’apposizione del termine, posto che quest’ultima, avendo efficacia meramente dichiarativa, opera con effetto “ex tunc” dalla illegittima stipulazione del contratto.

Per una opportuna e sintetica disamina della pronuncia in questione v. il par. 3.3., capitolo XVIII, di questa Sezione.

2.10. Le conseguenze del licenziamento illegittimo.

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nel caso di un sopravvenuto mutamento della situazione organizzativa e patrimoniale dell’azienda, tale da non consentire la prosecuzione dell’attività, il giudice che accerti l’illegittimità del recesso non può - per Sez. L, n. 01888/2020, Blasutto, Rv. 656694-02 - disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ma deve limitarsi ad accogliere la domanda di risarcimento del danno, con riguardo al periodo compreso tra la data del licenziamento e quella della sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto, costituendo la sopraggiunta impossibilità totale della prestazione una vera e propria causa impeditiva dell’ordine di reintegrazione e della tutela ripristinatoria apprestata dall’art. 18 della l. n. 300 del 1970, che preclude al lavoratore illegittimamente licenziato la possibilità di ottenere - sia pure per equivalente, con la corresponsione delle retribuzioni - il soddisfacimento del suo diritto alla continuazione del rapporto.

Quanto al profilo dell’aliunde perceptum, Sez. L, n. 16786/2020, Arienzo, Rv. 658534-01, ha chiarito che in caso di licenziamento illegittimo cui consegua la tutela risarcitoria di cui all’art. 18, comma 5, st.lav. riformulato non trova applicazione la detrazione dell’aliunde perceptum, in quanto tale ipotesi, a differenza di quella contemplata dal precedente comma 4, comporta comunque la cessazione del rapporto con effetto dalla data del recesso, sicché la corresponsione di un’indennità omnicomprensiva, che già tenga conto anche delle condizioni delle parti (e quindi presumibilmente pure della eventuale situazione lavorativa del dipendente dal punto di vista della collaborazione eventualmente prestata per la riduzione del danno), non può assumere caratteristiche analoghe a quelle che caratterizzano la fattispecie ex comma 4, rispecchiando, dunque, la diversità delle situazioni, in una prospettiva sistematica di unitaria e coerente disciplina delle conseguenze sanzionatorie, la mancata espressa previsione, nel comma 5, del principio della detrazione dell’“aliunde” di cui al comma 4.

Con riguardo alla retribuzione globale di fatto ex art. 18 st.lav., Sez. L, n. 27750/2020, Leo, Rv. 659800-01, ha puntualizzato che la stessa deve essere commisurata a quella che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato, ad eccezione dei compensi eventuali e di cui non sia certa la percezione, nonché di quelli legati a particolari modalità di svolgimento della prestazione ed aventi normalmente carattere occasionale o eccezionale.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza d’appello che aveva escluso dalla base di calcolo della retribuzione variabile il premio per gli incentivi alla vendita con riferimento al periodo in cui il lavoratore era stato impossibilitato a raggiungere gli obiettivi, pur conseguiti negli anni precedenti, in ragione del licenziamento poi dichiarato illegittimo.

Ai fini della quantificazione della posta risarcitoria derivante dall’accertata illegittimità del licenziamento rileva il profilo della sussistenza, o meno, del dolo o della colpa connessi all’iniziativa datoriale; al riguardo, Sez. L, n. 00822/2020, Raimondi, Rv. 656601-01, ha affermato che ai fini dell’accertamento dell’idoneità al servizio del personale addetto ai pubblici servizi di trasporto, il parere della commissione medica di cui all’art. 6, all. A, del d.m. n. 88 del 1999, non è vincolante per il giudice di merito, che ha il potere di sindacare l’attendibilità degli esami sanitari effettuati dalla commissione in sede di impugnazione del licenziamento disposto in esito al predetto accertamento. Ne consegue che il datore di lavoro che abbia optato per il licenziamento si accolla il rischio della diversa valutazione giudiziale, ma, in tal caso, per il carattere cogente della normativa speciale prevista in materia (quanto all’organo deputato agli accertamenti ed alla relativa procedura), il risarcimento sarà contenuto nella misura minima di cinque mensilità della retribuzione globale di fatto ex art. 18 st.lav., non essendo il licenziamento imputabile al datore a titolo di dolo o colpa.

3. Licenziamenti collettivi.

Come anticipato, il blocco sui licenziamenti ha interessato, mediante i provvedimenti già menzionati al precedente § 2, anche le procedure di mobilità.

Con l’ultimo intervento - v. l’art. 1, commi 309 e 311, della l. 30 dicembre 2020, n. 178 - è previsto che fino al 31 marzo 2021 resta precluso, salva la ricorrenza delle ipotesi di esclusione menzionate al § 2, l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24 della l. 23 luglio 1991, n. 223, e restano altresì sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto di appalto.

Sono tre le pronunzie meritevoli di segnalazione emesse dalla S.C. nel corso dell’anno in materia.

Sulla delicata tematica dei criteri di scelta, Sez. L, n. 00118/2020, Cinque, Rv. 656481-01, ha puntualizzato che tra imprenditore e sindacati può intercorrere un accordo per la determinazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare in adempimento della funzione regolamentare delegata dall’art. 5 della l. n. 223 del 1991, stabilendo criteri anche difformi da quelli legali, purché rispondenti a requisiti di obiettività, razionalità e non discriminazione. (Fattispecie in cui l’accordo raggiunto non è stato ritenuto conforme ai predetti requisiti perché individuava nell’unico addetto al reparto soppresso dall’imprenditore il lavoratore da licenziare, senza tenere conto delle molteplici professionalità documentate del dipendente, risultando così omessa ogni comparazione con gli addetti agli altri reparti rimasti in funzione).

Sempre in tema, Sez. L, n. 00808/2020, Spena, Rv. 656531-01, ha chiarito che la gestione procedimentalizzata ha lo scopo di realizzare l’effettivo coinvolgimento del sindacato nelle scelte organizzative dell’impresa vincolando l’imprenditore al loro rispetto anche dopo la chiusura della procedura; ne deriva che non è consentito al datore di lavoro di tornare sulle scelte compiute quanto al numero, alla collocazione aziendale ed ai profili professionali dei lavoratori in esubero, ovvero ai criteri di scelta dei singoli lavoratori da estromettere, attraverso ulteriori e successivi licenziamenti individuali la cui legittimità è subordinata alla individuazione di situazioni di fatto diverse da quelle poste a base del licenziamento collettivo. (Fattispecie in cui è stata confermata la decisione di merito che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento individuale intimato sulla base delle medesime ragioni poste a fondamento del licenziamento collettivo).

Infine, Sez. L, n. 05240/2020, Cinque, Rv. 656942-01, ha precisato che in tema di licenziamento collettivo per cessazione dell’attività d’impresa, l’art. 24, comma 1, della l. n. 223 del 1991, a cui rinvia il comma 2 della stessa norma, nel richiedere, ai fini dell’applicabilità della relativa disciplina, che le imprese “occupino più di quindici dipendenti”, deve essere interpretato nel senso che il requisito dimensionale ivi previsto va verificato non già in riferimento al momento della cessazione dell’attività e dei licenziamenti, ma con riguardo all’occupazione media dell’ultimo semestre, in analogia con quanto previsto dall’art. 1, comma 1, della medesima legge ai fini dell’intervento della cassa guadagni straordinaria.

PARTE QUINTA IL DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA - SEZIONE SECONDA - IL RAPPORTO DI LAVORO PUBBLICO CONTRATTUALIZZATO

  • mobilità della manodopera
  • assunzione
  • retribuzione del lavoro

CAPITOLO XX

IL RAPPORTO DI LAVORO PUBBLICO CONTRATTUALIZZATO

(di Luigi Di Paola, Giovanni Maria Armone )

Sommario

1 Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni: introduzione. Giurisdizione, lavoro flessibile e lavoro a tempo determinato: rinvio. - 2 La costituzione del rapporto di lavoro: assunzioni, reclutamenti, stabilizzazioni. - 3 Retribuzione e altri trattamenti economici. - 4 Classificazione del personale: categorie, qualifiche e mansioni. - 5 Vicende del rapporto. - 6 Mobilità. - 7 Illeciti disciplinari: questioni procedimentali e sostanziali. - 8 La cessazione del rapporto di lavoro. - 9 La dirigenza.

1. Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni: introduzione. Giurisdizione, lavoro flessibile e lavoro a tempo determinato: rinvio.

Come già accaduto con la precedente edizione della Rassegna, anche per il 2020 le decisioni in materia di pubblico impiego privatizzato saranno analizzate seguendo gli sviluppi del rapporto lavorativo, dal momento costitutivo alla sua cessazione, passando per i diritti retributivi, le diverse vicende modificative, la materia disciplinare.

Un paragrafo ad hoc sarà dedicato alla dirigenza, mentre, per le decisioni in tema di giurisdizione nel pubblico impiego, nonché per quelle sul lavoro flessibile e a termine si fa rinvio rispettivamente ai capitoli II, IV e XVII del Volume III (giurisdizione) e al capitolo XVIII del Volume I (lavoro flessibile), dove formano oggetto di una trattazione apposita.

2. La costituzione del rapporto di lavoro: assunzioni, reclutamenti, stabilizzazioni.

L’analisi delle decisioni sulla fase di costituzione del rapporto di impiego pubblico non può che prendere le mosse da quelle che ruotano intorno al principio che l’art. 97, comma 4, Cost., pone per l’accesso all’impiego nelle pubbliche amministrazioni, ossia la regola dell’accesso mediante concorso.

Sez. L, n. 26838/2020, Spena, Rv. 659631-01, ha ribadito la ricostruzione della posizione delle parti nel momento successivo all’approvazione della graduatoria, per come si è andata consolidando nella giurisprudenza di legittimità. Il bando di concorso ha la duplice natura di provvedimento amministrativo e di offerta al pubblico negoziale ai sensi dell’art. 1336 c.c., vincolante nei confronti dei partecipanti al concorso. Ne consegue che la posizione del vincitore, o del secondo classificato in caso di annullamento della nomina del primo da parte del giudice amministrativo, è di diritto soggettivo alla costituzione del rapporto, indipendentemente dalla nomina formale.

La Corte ha aggiunto che non può pertanto parlarsi di vero e proprio scorrimento discrezionale della graduatoria e che tale diritto è destinato a venir meno solo in caso di ius superveniens che incida sull’assetto organizzativo dell’ente pubblico; deve trattarsi però non di una modifica organizzativa limitata alle modalità di nomina in una posizione lavorativa comunque esistente in organico e disponibile, modifica che non può essere pertanto opposta a chi ha già acquisito il diritto all’assunzione, sulla base della graduatoria concorsuale approvata nel rispetto delle precedenti e legittime modalità di immissione in ruolo.

Alle stesse conclusioni deve giungersi quando il reclutamento riguardi il personale delle società cd. in house e, ai sensi dell’art. 18, comma 1, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 133 del 2008, ci si sia avvalsi di una procedura di selezione dei candidati secondo le modalità di svolgimento delle prove di idoneità contenute in un pubblico avviso. Anche in questo caso (Sez. L, n. 00983/2020, Marotta, Rv. 656534-01), le prescrizioni del bando configurano un’offerta al pubblico a termini dell’art. 1336 c.c., sono intangibili e non possono essere modificate o integrate una volta intervenuta l’accettazione e comunque in epoca successiva all’inizio del percorso di selezione (nella specie, la Corte ha ritenuto illegittima l’integrazione del bando originariamente pubblicato con la previsione di un’ulteriore prova - un colloquio psicoattitudinale - idonea a modificare le risultanze della graduatoria ai fini dell’assunzione).

Di scorrimento delle graduatorie in senso proprio si è occupata Sez. L, n. 02316/2020, Di Paolantonio, Rv. 656769-01, in una pronuncia assai articolata.

La sentenza ha anzitutto stabilito che lo scorrimento costituisce modalità prioritaria di reclutamento del personale della P.A., ma è precluso in caso di nuova istituzione o di trasformazione di posti non previsti dalla dotazione organica adottata al momento della indizione della procedura concorsuale; in caso di deliberato aumento del fabbisogno di personale il divieto, di cui all’art. 91, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000, resta limitato alle posizioni aggiuntive, e non si estende a quelle già previste nella precedente dotazione organica, divenute vacanti.

La proroga dei termini di validità delle graduatorie concorsuali, prevista dall’art. 1, comma 100, della l. n. 311 del 2004 e, successivamente, dall’art. 1, comma 536, della l. n. 296 del 2006, e dall’art. 5, comma 1, del d.l. n. 207 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 14 del 2009, si riferisce a tutte le graduatorie approvate successivamente al 1° gennaio 1999, comprese quelle relative a procedure concorsuali ancora pendenti alla data di pubblicazione del richiamato art. 1, comma 100, della l. n. 311 del 2004, e si applica anche alle amministrazioni che abbiano rispettato il patto di stabilità, dal momento che, in tal caso, pur non essendo configurabile un divieto di nuove assunzioni, sussistono comunque limitazioni all’instaurazione di nuovi rapporti.

Infine, la Corte ha precisato che, qualora il contratto di lavoro sia nullo per violazione di norma imperativa, il dipendente non può far valere l’affidamento riposto sulla legittimità dell’assunzione per fondare una domanda di reintegrazione nel posto di lavoro, ma può esercitare l’azione risarcitoria ex art. 1338 c.c., con onere della prova a suo carico del pregiudizio subito, al fine di ottenere il risarcimento del danno rappresentato dalle spese sostenute e dal mancato guadagno derivante dalla perdita di altra occupazione o di altre occasioni di lavoro; in tal caso, la responsabilità della pubblica amministrazione è esclusa laddove la nullità del contratto di impiego dipenda dalla violazione di norme imperative concernenti i requisiti di validità delle assunzioni, che si presumono conosciute dalla generalità dei cittadini, purché le circostanze di fatto dalle quali dipende l’invalidità dell’assunzione fossero conosciute o conoscibili mediante l’uso della normale diligenza.

La riaffermazione dell’assenza di discrezionalità in questa fase è stata operata anche da Sez. L, n. 12368/2020, Tria, Rv. 658334-01, in un caso in cui il vincitore di un concorso bandito da un piccolo comune non soggetto al patto di stabilità interno, pur posizionatosi al primo posto della relativa graduatoria finale, non era stato assunto in servizio. Il giudice di merito, pur stimando illegittimo il contegno tenuto dall’ente, in considerazione dell’assenza di impedimenti dovuti ad impossibilità sopravvenuta o a circostanze indipendenti dalla volontà della P.A., si era limitato a condannare il Comune al risarcimento del danno. La Corte ha accolto il ricorso incidentale dell’aspirante, osservando come non ci si trovi di fronte a provvedimenti discrezionali della P.A., ma ad atti negoziali, relativi alla fase della gestione del rapporto di lavoro, cui si correlano diritti soggettivi, rientranti pertanto nel campo di applicazione dell’art. 63, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, in virtù del quale al giudice ordinario è consentito adottare una sentenza di condanna della P.A. all’assunzione dell’interessato.

Altre sentenze si sono poi soffermate sui requisiti soggettivi per l’accesso all’impiego pubblico.

Sez. L, n. 19617/2020, Torrice, Rv. 658910-01, ha chiarito che il riferimento al requisito della laurea o del diploma di laurea, contenuto nelle disposizioni di legge che disciplinano i meccanismi di reclutamento, selezione, progressione e riqualificazione professionale dei dipendenti pubblici, deve intendersi effettuato alla cd. “laurea triennale”, conformemente alla ratio ispiratrice della disciplina di riforma dell’ordinamento didattico universitario, tesa a consentire ai cittadini italiani di completare il percorso formativo universitario con un anno di anticipo rispetto al precedente ordinamento didattico.

Sez. L, n. 22673/2020, Di Paolantonio, Rv. 659259-01, si è invece espressa sul significato dell’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 nella parte in cui prevede la decadenza del dichiarante “dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”. La S.C. ha puntualizzato che tale fattispecie si verifica ogniqualvolta, in assenza della falsa dichiarazione, l’impiego non sarebbe stato ottenuto, ossia nei casi in cui l’inclusione nella graduatoria concorsuale o selettiva sia diretta conseguenza del mendacio; ne consegue che la decadenza in questione - risolvendosi in un vizio genetico del contratto, ossia nella nullità dello stesso - va apprezzata in termini di rifiuto dell’amministrazione di continuare a dare esecuzione al rapporto di lavoro, del quale, pertanto, non si potrà tener conto ai fini di successive assunzioni o avanzamenti di carriera (si trattava di una fattispecie in cui il giudice di merito aveva ritenuto che l’accertamento della falsità ideologica dell’autocertificazione, attestante la esistenza del titolo necessario alla inclusione della lavoratrice nelle graduatorie per il personale A.T.A. relative al triennio 2005/2008, non si riverberasse anche sulla procedura inerente le graduatorie per il successivo triennio 2008/2011; la S.C., nel cassare la predetta sentenza, ha affermato che i rapporti di lavoro svoltisi nella vigenza della graduatoria nella quale la lavoratrice era stata inclusa solo grazie alla dichiarazione mendace non potessero essere in alcun modo valutati ai fini dell’attribuzione dei punteggi).

Una questione specifica è poi quella vagliata da Sez. L, n. 25397/2020, Marotta, Rv. 659593-01. L’art. 24 del c.c.n.i. del personale non dirigenziale del Ministero della giustizia relativo al quadriennio 2006/2009 prevede il divieto di partecipazione alle procedure concorsuali per i dipendenti che “abbiano riportato” una determinata sanzione disciplinare. La Corte ha chiarito che essa va interpretata nel senso di richiedere che la sanzione sia stata non solo irrogata, ma anche definitivamente applicata, essendo sempre possibile per l’Amministrazione, in caso di sanzione disciplinare sub iudice, l’ammissione con riserva alla procedura.

Quanto all’assunzione della qualifica dirigenziale presso le autorità portuali, Sez. L, n. 21484/2020, Spena, Rv. 659051-01, ha chiarito che, trattandosi di enti pubblici economici, essa è sottratta alla disciplina di acquisizione automatica della qualifica superiore fissata dall’art. 2103 c.c.; l’immissione nei ruoli dirigenziali, anche nel caso consegua ad una progressione verticale, è equiparabile al reclutamento esterno ed attiene alla fase della costituzione del rapporto di lavoro, retta dai principi fissati dall’art. 97 Cost.

A proposito dei lavoratori disabili, Sez. L, n. 14790/2020, Marotta, Rv. 658183-01, ha stabilito che, in sede di bando di concorso riservato ex art. 8 della l. n. 68 del 1999, non costituisce comportamento discriminatorio la previsione del requisito della sussistenza dello stato di disoccupazione anche al momento dell’assunzione, trattandosi di disposizione avente la finalità di tutelare, in conformità con il dettato legislativo e con i principi affermati dalla Corte di giustizia UE, il disabile disoccupato rispetto ad altro soggetto, egualmente disabile ma nelle more fuoriuscito dalla categoria dei disoccupati. Inoltre, secondo quanto affermato da Sez. L, n. 14809/2020, Tria, Rv. 658484-01, la situazione di invalido civile del dipendente pubblico condiziona non solo la regolarità dell’assunzione, ma anche la permanenza dell’efficacia del rapporto, fondato sul regime speciale riconosciuto ai dipendenti oggettivamente svantaggiati, anche a tutela di soggetti effettivamente invalidi e non avviati al lavoro; ne consegue che l’amministrazione può verificare la permanenza dei requisiti soggettivi che hanno imposto l’assunzione obbligatoria ogniqualvolta sospetti la mancanza (anche sopravvenuta) dei presupposti di applicabilità della disciplina. Ancora in tema di categorie protette e assunzioni, Sez. L, n. 08261/2020, Marotta, Rv. 657618-01, ha puntualizzato che l’orfano di caduto sul lavoro è equiparato alle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata; pertanto, in una logica di interpretazione sistematica delle norme in materia, è consentita l’assunzione diretta di tale categoria di lavoratori solo per i profili professionali del personale contrattualizzato del comparto Ministeri fino all’ottavo livello retributivo ed entro il limite del dieci per cento del numero di vacanze nell’organico, mentre per le pubbliche amministrazioni diverse dai Ministeri, per il reclutamento delle qualifiche per cui non è sufficiente il solo requisito della scuola dell’obbligo, trovano applicazione le regole ordinarie di reclutamento ex art. 35, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 165 del 2001, con conseguente ricorso alla procedura concorsuale, nell’ambito della quale i soggetti protetti godono del diritto di precedenza rispetto ad ogni altra categoria e di preferenza a parità di titoli rispetto alla riserva prevista dal bando di concorso ai fini della copertura delle quote d’obbligo. Da ultimo, Sez. L., n. 28625/2020, Marotta, Rv. 659960 - 02, ha affrontato il tema dell’assunzione dei disabili nella scuola, affermando che il diritto alla riserva è esercitabile - in conformità al principio della preminenza della normativa posta a tutela dell’avviamento al lavoro dei disabili - in modo assoluto e con riferimento a tutte le assunzioni per una stessa classe di concorso effettuate per un medesimo anno scolastico, a prescindere dalla retrodatazione giuridica di cui una di tali assunzioni abbia in concreto beneficiato, in quanto la retrodatazione in questione rileva ai soli fini giuridici e della anzianità.

In tema di riassorbimento di personale da un ente pubblico all’altro, si veda Sez. L, n. 08442/2020, Spena, Rv. 657646-01, che, a proposito di una norma regionale, intesa alla promozione di accordi con la Provincia per il trasferimento del personale dei consorzi di bonifica in esubero, ha qualificato tale norma meramente programmatica, subordinata al raggiungimento degli accordi, previa valutazione da parte degli enti interessati del fabbisogno di personale e senza alcuna previsione di deroga ai limiti derivanti dalla programmazione, dalle dotazioni organiche e dai vincoli alle assunzioni, non potendosi, pertanto, configurare in capo alla Regione alcun obbligo di riassorbimento dei lavoratori.

Per le pronunce che si sono occupate dell’accesso quale effetto della stabilizzazione di rapporti precari e delle conseguenze economico-giuridiche di tale stabilizzazione si fa rinvio al capitolo sul lavoro flessibile.

3. Retribuzione e altri trattamenti economici.

Ai sensi dell’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, l’attribuzione dei trattamenti economici è riservata alla contrattazione collettiva, sicché non è sufficiente a tale scopo un atto deliberativo della P.A. ma occorre, a pena di nullità, la conformità di tale atto alla contrattazione collettiva (così Sez. L, n. 17226/2020, Di Paolantonio, Rv. 658540-01).

Sono quindi vietati trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dalla contrattazione collettiva che - per Sez. L, n. 02718/2020, Di Paolantonio, Rv. 656918-01 - mantiene, tuttavia, la possibilità di prevedere differenziazioni giustificate dai diversi percorsi formativi, dalle specifiche esperienze maturate e dalle diverse carriere professionali, in applicazione del principio di parità di trattamento di cui all’art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001, che va tenuto distinto dal riallineamento stipendiale soppresso dall’art. 2, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992, conv., con modif., dalla l. n. 359 del 1992, con la conseguenza che eventuali trattamenti migliorativi individualizzati non possono estendersi all’intera categoria alla quale appartiene il dipendente che ne beneficia.

Sempre in tema, Sez. L, n. 11361/2020, Spena, Rv. 657969-01, ha chiarito che l’attribuzione dei compensi incentivanti in favore del personale addetto agli uffici tributari dei comuni deve avvenire esclusivamente secondo i criteri stabiliti dalla contrattazione collettiva integrativa di ente per la ripartizione e la destinazione delle risorse finanziarie, finalizzate all’incentivazione delle prestazioni del personale, atteso che, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001 e della sottoscrizione dei c.c.n.l. enti locali del 1° aprile 1999 e del 5 ottobre 2001, la materia è stata contrattualizzata ed è venuta meno la potestà regolamentare attribuita ai comuni dall’art. 59, comma 1, lett. p), del d.lgs. n. 446 del 1997. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che, nel rigettare la domanda di compenso incentivante avanzata da un dipendente comunale addetto alle attività di definizione agevolata dei tributi locali per il periodo 2003-2007, aveva ritenuto irrilevanti le previsioni dei regolamenti adottati in epoca anteriore e successiva alla contrattualizzazione).

Quanto ai rapporti, nella materia in esame, tra contrattazione collettiva nazionale e contrattazione decentrata, Sez. L, n. 28412/2020, Spena, Rv. 659958-01, ha affermato, in una ipotesi particolare, che l’art. 44, comma 9, del c.c.n.l. comparto sanità del 1 settembre 1995 delega la contrattazione decentrata, in una delimitata cornice di spesa, ad estendere l’erogazione dell’indennità giornaliera di cui al precedente comma 6 agli operatori del ruolo sanitario diversi dal personale infermieristico, purché impiegati nei servizi indicati nello stesso comma 6. Pertanto, le clausole di detta contrattazione che, in difformità dalla delega, introducano nuove indennità legate a particolari condizioni di lavoro ovvero estendano l’indennità di cui al citato comma 6 al personale del ruolo sanitario operante in servizi diversi da quelli indicati nel medesimo comma, sono nulle e non possono essere applicate ai sensi dell’art. 45, comma 4, del d.lgs. n. 29 del 1993, come sostituito dall’art. 1 del d.lgs. n. 396 del 1997, “ratione temporis” vigente.

Le restanti pronunzie in materia hanno avuto ad oggetto il riconoscimento, o meno, in favore dei dipendenti, di singole voci retributive.

Quanto all’indennità di servizio penitenziario di cui all’art. 1 della l. n. 65 del 1983, Sez. L, n. 06751/2020, Spena, Rv. 657429-01, ha puntualizzato che essa compete esclusivamente ai dipendenti civili del Ministero della giustizia, di ruolo e non, che operano presso gli istituti di prevenzione e pena, come univocamente chiarisce la lettera della norma e come si giustifica in virtù del peculiare stato giuridico di detti lavoratori, sicché il mancato riconoscimento di tale emolumento ai dipendenti di altre amministrazioni - per i quali peraltro è prevista una diversa indennità, ai sensi dell’art. 2 della legge citata - non concreta alcuna disparità di trattamento. (Nella specie, la S.C. ha escluso che l’indennità di cui all’art. 1 della l. n. 65 del 1983 spetti ai docenti in servizio presso i penitenziari).

Sez. L, n. 07699/2020, Marotta, Rv. 657512-01, ha affermato che il trattamento per missione isolata fuori della sede di servizio non compete se gli spostamenti rientrano nel quadro organizzativo e funzionale dei servizi e, pertanto, diventano contenuto normale della prestazione, come si evince dall’art. 3, lett. c) della l. n. 836 del 1973, che - espressamente - esclude il riconoscimento dell’indennità quando la missione sia svolta nella zona che non esula dall’ambito del comprensorio territoriale in cui si svolge il normale servizio per il quale il dipendente è stato assunto.

In applicazione di detto principio, in una fattispecie anteriore all’entrata in vigore dell’art. 1, comma 213, della l. n. 266 de 2005, che ha soppresso l’indennità di trasferta per missioni all’interno e le indennità supplementari sui titoli di viaggio, la S.C. ha escluso potesse considerarsi svolto in missione isolata l’insegnamento presso diverse articolazioni territoriali di un centro di educazione permanente.

Con riferimento all’indennità di confine ex art. 6 della l. n. 852 del 1978, Sez. L, n. 24783/2020, Torrice, Rv. 659443-01, ha stabilito che costituiscono presupposti per l’erogazione dell’indennità in questione, non solo l’assegnazione ad uffici doganali ubicati sul confine, ma anche la dislocazione degli stessi in località disagiata e l’individuazione ad opera dell’amministrazione finanziaria, sentite le organizzazioni sindacali.

L’indennità integrativa speciale erogata in favore dei dipendenti delle Camere di commercio è inclusa nella base di calcolo dei fondi previdenziali di tali enti fin dalla loro istituzione, ma, a differenza dello stipendio tabellare, è soggetta a rivalutazione solo a decorrere dal 1° gennaio 2003, data iniziale di efficacia del c.c.n.l. 22 gennaio 2004 delle regioni e delle autonomie locali, applicabile anche al personale delle Camere di commercio, atteso che, fino a quella data, l’art. 1 della l. n. 72 del 1951, come interpretato autenticamente dall’art. 12, comma 15, del d.l. n. 8 del 1993, conv., con modif., dalla l. n. 68 del 1993, espressamente escludeva dalla rivalutazione ogni retribuzione accessoria diversa da quella di base e che solo con il citato c.c.n.l. l’indennità integrativa speciale è scomparsa come voce a sé stante, perdendo la sua iniziale funzione di adeguamento al costo della vita e assumendo piena natura retributiva (così Sez. L, n. 12721/2020, Marotta, Rv. 658104-01).

Sez. L, n. 29015/2020, Di Paolantonio, Rv. 659807-01, ha precisato che i dipendenti della Direzione Generale dell’Aviazione civile, transitati nei ruoli dell’E.N.A.C. in forza dell’art. 10, comma 1, del d.lgs. n. 250 del 1997, hanno diritto non all’indennità di anzianità prevista dall’art. 13 della l. n. 70 del 1975, bensì al trattamento di fine rapporto determinato secondo le modalità di cui alla l. n. 297 del 1982, alla luce della disposizione del comma 3 del citato art. 10, ove è stata espressamente prevista, in coerenza con l’intento del legislatore di unificare la disciplina giuridica ed economica di tutto il personale del nuovo ente, l’immediata applicazione della l. n. 297 del 1982 agli unici dipendenti - quelli provenienti dalla suddetta Direzione - per i quali, sino al momento del passaggio, era prevista l’indennità di buonuscita di cui agli artt. 3 e 38 del d.P.R. n. 1032 del 1973, restando peraltro irrilevante che alla trasformazione dell’E.N.A.C. in ente pubblico economico, ex art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 250 del 1997, non si sia fatto luogo, posto che il legislatore non ha in alcun modo condizionato l’applicazione delle norme sul trattamento di fine rapporto a tale trasformazione.

Quanto al delicato tema dell’infrazionabilità dell’anzianità di servizio, Sez. L, n. 13615/2020, Tria, Rv. 658068-01, ha evidenziato, con riguardo al personale dell’amministrazione degli affari esteri, che per gli impiegati assunti dagli uffici all’estero con contratto a tempo determinato regolato dalla legge locale, che successivamente optino, ai sensi dell’art. 2, comma 5, del d.lgs. n. 103 del 2000, per l’assunzione con contratto a tempo indeterminato regolato dalla legge italiana, trova applicazione il principio della infrazionabilità dell’anzianità di servizio ai fini dell’indennità di fine rapporto di cui all’art. 2120 c.c., posto che il solo mutamento del regime giuridico non esclude la continuità tra rapporti di lavoro sorti da contratti sottoposti a discipline diverse.

Sempre in tema di anzianità di servizio, Sez. L, n. 05677/2020, Marotta, Rv. 657176-01, ha precisato che il passaggio di un dipendente pubblico da un comparto all’altro, a seguito di concorso pubblico, non è equiparabile, ai fini della conservazione dell’anzianità di servizio, al trasferimento interno all’amministrazione, dal momento che, mentre quest’ultimo è disposto per soddisfare esigenze dell’amministrazione, nel primo caso il passaggio consegue alla libera decisione del dipendente di sottoporsi al concorso in posizione di parità con gli altri concorrenti. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva negato il riconoscimento della pregressa anzianità di servizio a una docente di scuola media, transitata nei ruoli del Conservatorio in forza di pubblico concorso).

La retribuzione contributiva, alla quale si commisura l’indennità premio di servizio per i dipendenti degli enti locali, è costituita, a norma dell’art. 4 della l. n. 152 del 1968, dai soli emolumenti testualmente menzionati dall’art. 11, comma 5, legge cit., la cui elencazione ha carattere tassativo e il cui riferimento allo “stipendio o salario” richiede - per Sez. L, n. 27547/2020, D’Antonio, Rv. 659795-01 - un’interpretazione restrittiva, attesa la specifica ed esclusiva indicazione, quali componenti di tale voce, degli aumenti periodici della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura, con la conseguenza che non rientra nel computo rilevante a tal fine la retribuzione percepita da un funzionario comunale al quale sia stato conferito, ex art. 110 del d.lgs. n. 267 del 2000, un incarico dirigenziale a tempo determinato.

Il diritto a percepire l’incentivo per la progettazione, di natura retributiva, previsto dall’art. 18 della l. n. 109 del 1994 sorge, alle condizioni previste dalla normativa vigente “ratione temporis”, in conseguenza della prestazione dell’attività incentivata e nei limiti fissati dalla contrattazione decentrata e dal regolamento adottato dall’amministrazione. L’omesso avvio della procedura di liquidazione o il mancato completamento della stessa non impedisce l’azione di adempimento, che può essere proposta dal dipendente una volta spirati i termini previsti dalla fonte regolamentare, divenendo in quel momento il credito esigibile, ai sensi degli artt. 1183 e ss. c.c., in quanto gli atti della predetta procedura non sono costitutivi del diritto, ma hanno la finalità di accertare, in funzione meramente ricognitiva, che la prestazione sia stata resa nei termini indicati dalla fonte attributiva del diritto stesso (così Sez. L, n. 10222/2020, Di Paolantonio, Rv. 657788-01).

In caso di equiparazione stipendiale - riconosciuta per effetto di sentenza passata in giudicato - del personale della ex IX qualifica funzionale (ora C 3) al personale direttivo del soppresso ruolo ad esaurimento, l’equiparazione in questione non può - secondo Sez. L, n. 02930/2020, Di Paolantonio, Rv. 656922-01 - comprendere le componenti del trattamento retributivo che presuppongono il possesso di una pregressa anzianità nella qualifica del ruolo ad esaurimento.

Con una significativa pronunzia, Sez. L, n. 16665/2020, Bellé, Rv. 658637-01, ha chiarito che, in caso di tardiva assunzione dovuta a provvedimento illegittimo della P.A., non sussiste il diritto del lavoratore al pagamento delle retribuzioni relative al periodo di mancato impiego che non siano state riconosciute nei successivi atti di assunzione, in quanto tali voci presuppongono l’avvenuto perfezionamento ex tunc del rapporto di lavoro; il lavoratore può invece agire, in ragione della violazione degli obblighi sussistenti in capo alla P.A. ed in presenza di mora della medesima, per il risarcimento del danno ex art. 1218 c.c., ivi compreso, per il periodo anteriore a quello per il quale vi sia stata retrodatazione economica, il mancato guadagno da perdita delle retribuzioni fin dal momento in cui si accerti che l’assunzione fosse dovuta, detratto l’aliunde perceptum, qualora risulti, anche in via presuntiva, che nel periodo di ritardo nell’assunzione l’interessato sia rimasto privo di occupazione o sia stato occupato, ma a condizioni deteriori.

Sez. L, n. 03476/2020, I. Tricomi, Rv. 657168-01, ha affermato che in tema di personale dipendente degli enti locali, la disposizione con cui il datore di lavoro imponga al lavoratore la fruizione continuativa di ferie risalenti, delle quali non abbia assicurato il tempestivo godimento nell’anno di riferimento (o entro il primo semestre dell’anno successivo), è illegittima per violazione dell’art. 18, commi 9 e 12, del c.c.n.l. del 6 luglio 1995, e fa sorgere, pertanto, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, il quale non può essere sovrapposto alla (parimenti dovuta) retribuzione, anche laddove venga liquidato assumendo quest’ultima come parametro di riferimento. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva accolto la domanda di risarcimento del danno avanzata da due dipendenti comunali i quali, subito prima del collocamento a riposo, erano stati autoritativamente posti in ferie, per un periodo continuativo, rispettivamente, di circa sette e otto mesi).

È stato chiarito - da Sez. L, n. 11543/2020, Bellé, Rv. 657975-01 - che l’ufficio stampa delle pubbliche amministrazioni, disciplinato dalla l. n. 150 del 2000, è un’articolazione organizzativa finalizzata allo svolgimento di una attività informativa istituzionale, che si inserisce nella linea gerarchica degli enti attraverso la mediazione di un coordinatore-capo ufficio stampa e il cui personale, se non già incardinato nell’ufficio prima dell’entrata in vigore della suddetta legge, è da ricondurre, anche mediante l’individuazione di profili professionali specifici in sede di contrattazione collettiva, alla posizione di “addetto all’ufficio stampa pubblico”, il quale, pur trovando nella previa necessaria iscrizione all’albo dei giornalisti un requisito fondante di professionalità, non può essere assimilato alla figura del giornalista di cui alla l. n. 69 del 1963, in quanto sottoposto a direttive e privo di quei tratti di spiccata autonomia nell’acquisizione delle notizie e nell’esercizio del diritto di critica che caratterizzano l’attività giornalistica. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva negato il trattamento economico e previdenziale di redattore capo, previsto dal c.c.n.l. giornalistico, a un dipendente della Regione Sicilia, distaccato all’ufficio stampa dell’ente dopo l’entrata in vigore della l. n. 150 del 2000, che non aveva seguito i percorsi stabilizzanti pur previsti dalla legislazione regionale).

Con riguardo al divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi, previsto dall’art. 22, comma 36, della l. n. 724 del 1994, per gli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale spettanti ai dipendenti pubblici in attività di servizio o in quiescenza, è stato precisato - da Sez. L, n. 13624/2020, Blasutto, Rv. 658188-02 - che il divieto in questione si applica anche ai crediti risarcitori (nella specie, derivanti da omissione contributiva), trattandosi di una regola limitativa della previsione generale dell’art. 429, comma 3, c.p.c., che, nell’utilizzare la più ampia locuzione “crediti di lavoro”, ha inteso riferirsi a tutti i crediti connessi al rapporto di lavoro e non soltanto a quelli strettamente retributivi.

Sez. L, n. 03913/2020, Amendola F., Rv. 656928-01 (riportata anche nel § 14, capitolo XVII, di questa Sezione), ha puntualizzato che in tema di cessione dei crediti dei lavoratori pubblici e privati, ai sensi dell’art. 52, comma 2, del d.P.R. n. 180 del 1950, come modificato dall’art. 13-bis del d.l. n. 35 del 2005, conv., con modif., dalla l. n. 80 del 2005, alla cessione del trattamento di fine rapporto non si applica il limite del quinto.

In materia di equo indennizzo, Sez. L, n. 28408/2020, Marotta, Rv. 659957 - 01, ha affermato che la domanda di revisione per aggravamento va valutata sulla base della normativa “ratione temporis” vigente al momento della domanda originaria con applicazione degli stessi criteri utilizzati per la primigenia quantificazione del beneficio, in quanto la revisione costituisce - avuto riguardo alla connessione, dal punto di vista medico, tra l’insorgenza della patologia e l’aggravamento della stessa, ed al legame esistente tra domanda di equo indennizzo ed istanza di revisione - una fase ulteriore ed eventuale dell’unico ed originario procedimento diretto a ristorare il lavoratore delle menomazioni dell’integrità fisica dovute a causa di servizio.

È stata giudicata - da Sez. L, n. 10774/2020, Bellé, Rv. 657872-01 - manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale delle norme che disciplinano la posizione del giudice di pace, in relazione agli artt. 3, 36 e 97 Cost., non essendo quest’ultimo equiparabile ad un pubblico dipendente, né ad un lavoratore parasubordinato, in quanto la categoria dei funzionari onorari, della quale fa parte, presuppone un rapporto di servizio volontario, con attribuzione di funzioni pubbliche, ma senza la presenza degli elementi caratterizzanti l’impiego pubblico, come l’accesso alla carica mediante concorso, l’inserimento nell’apparato amministrativo della P.A., lo svolgimento del rapporto secondo lo statuto apposito per tale impiego, il carattere retributivo del compenso e la durata potenzialmente indeterminata del rapporto. Ne consegue l’impossibilità di parificare le indennità percepite dai giudici onorari (nella specie, per reggenza su due sedi), alla retribuzione e la legittimità della fissazione di un limite massimo annuo all’emolumento, di misura tale da non potersi considerare inadeguato o irrisorio, ai sensi dell’art. 11, comma 4 ter, della l. n. 374 del 1991.

4. Classificazione del personale: categorie, qualifiche e mansioni.

Le pronunzie più significative emesse nel corrente anno riguardano per lo più il profilo dell’identificazione della condotta datoriale comportante il demansionamento nonché quello dell’apprezzamento circa lo svolgimento di mansioni superiori ad opera del dipendente pubblico.

Quanto al primo aspetto, Sez. L, n. 19419/2020, Spena, Rv. 658845-01, ha affermato che il lavoratore può essere adibito a mansioni accessorie inferiori rispetto a quelle di assegnazione, a condizione che sia garantito al lavoratore medesimo lo svolgimento, in misura prevalente e assorbente, delle mansioni proprie della categoria di appartenenza, che le mansioni accessorie non siano completamente estranee alla sua professionalità e che ricorra una obiettiva esigenza, organizzativa o di sicurezza, del datore di lavoro pubblico, restando ininfluente che la P.A., nell’esercizio della discrezionalità amministrativa, non abbia provveduto alla integrale copertura degli organici per il profilo inferiore, venendo in rilievo il dovere del lavoratore di leale collaborazione nella tutela dell’interesse pubblico sotteso all’esercizio della sua attività.

In applicazione del suddetto principio, è stato escluso il demansionamento ai danni del dipendente di un’azienda sanitaria, inquadrato come operatore tecnico specializzato con mansioni di autista di ambulanza, che aveva prestato collaborazione nelle attività di soccorso del servizio 118 una volta alla settimana ed aveva coadiuvato l’unico operatore sanitario nella preparazione della barella e nel trasporto dell’ammalato.

Con riferimento al lavoro pubblico negli enti locali, Sez. L, n. 22405/2020, Spena, Rv. 659057-01, ha puntualizzato che il conferimento dell’incarico di posizione organizzativa in favore di dipendente inquadrato nella posizione D3 del c.c.n.l. del 31 marzo 2009 comparto Regioni ed Autonomie locali - alla quale non può attribuirsi alcun rilievo di apicalità in termini di mansioni, differenziandosi dalle altre posizioni della categoria D, non caratterizzata dallo svolgimento di compiti di responsabilità di un servizio, solo sotto il profilo economico - non determina un mutamento di profilo professionale, bensì soltanto di funzioni, comportanti unicamente l’attribuzione di una posizione di responsabilità con correlato beneficio economico, le quali cessano alla naturale scadenza dell’incarico; ne consegue che, costituendo il rinnovo dell’incarico stesso una facoltà del datore di lavoro pubblico, il mancato esercizio della facoltà in questione - che non richiede alcuna determinazione, né motivazione - non può dar luogo a demansionamento.

Quanto al secondo aspetto, è stato precisato - da Sez. L, n. 21485/2020, Spena, Rv. 658926-01 - che il c.c.n.l. del 1.10.2007 per il personale non dirigenziale del comparto enti pubblici non economici, di immediata efficacia, ha previsto un nuovo sistema di inquadramento nel quale tutte le mansioni all’interno della medesima area sono considerate professionalmente equivalenti e costituisce esercizio di mansioni superiori solo lo svolgimento di mansioni proprie dell’area immediatamente superiore; ai sensi del c.c.n.l. del 16.02.1999 la posizione C5 individua una posizione di mero sviluppo economico all’interno dell’area C che, pertanto, non rileva ai fini dello svolgimento di mansioni superiori.

Sez. L, n. 00813/2020, Di Paolantonio, Rv. 656532-01, ha chiarito che il diritto alle differenze retributive per lo svolgimento di mansioni superiori è escluso nei periodi di sospensione dell’attività lavorativa per ferie o malattia, essendo correlato all’effettività della prestazione e dovendo essere la retribuzione commisurata alla qualità e quantità del lavoro prestato.

Con riferimento a questione peculiare, Sez. L, n. 00814/2020, Di Paolantonio, Rv. 656595-01, ha evidenziato che l’art. 34, comma 3, del c.c.n.l. comparto ministeri del 16 febbraio 1999 - il quale, nel determinare i criteri generali per la definizione delle procedure di selezione interna, impone di tener conto del formale conferimento di mansioni superiori - non si applica alle progressioni economiche che si svolgono all’interno delle aree di inquadramento, disciplinate queste ultime dagli artt. 17, comma 2, e 15, lett. b, del medesimo c.c.n.l., che non menzionano, tra gli elementi da valorizzare ai fini dell’attribuzione della posizione economica, l’esercizio di mansioni superiori; la distinzione fra le procedure risulta confermata anche dall’art. 20 del c.c.n.l. che, nel disciplinare le relazioni sindacali con riferimento al sistema classificatorio, rimette alla contrattazione integrativa la “determinazione dei criteri generali per la definizione delle procedure per le selezioni di cui all’art. 15, lett. B)” (art. 20 lett. a), mentre prevede solo un obbligo di informazione preventiva e di concertazione quanto alla “determinazione dei criteri generali per la definizione delle procedure di selezione interna di cui al medesimo art. 15, lett. A)” ( art. 20 lett. b).

In relazione alla questione dell’inquadramento nell’ISPESL del personale proveniente dall’ENPI, ai sensi del regolamento adottato con d.m. 10 febbraio 1988, in esecuzione dell’art. 23 del d.P.R. n. 619 del 1980, Sez. L, n. 15931/2020, Bellé, Rv. 658493-01, ha affermato che l’anzianità di qualifica rileva nella sua integralità ai soli fini dell’inquadramento nelle diverse carriere direttive, mentre ai fini delle successive promozioni opera l’abbattimento di un terzo dell’anzianità, previsto dall’art. 36, punto IV, del citato regolamento, mediante il richiamo all’art. 22 del d.P.R. n. 568 del 1987.

5. Vicende del rapporto.

Sez. L, n. 06637/2020, Bellé, Rv. 657432-01, ha affermato che, in tema di pubblico impiego contrattualizzato, l’autorizzazione allo svolgimento di attività extralavorativa retribuita è necessaria anche ove il dipendente si trovi in regime di aspettativa, in quanto, da un lato, la previsione contenuta nell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 non contiene una distinzione a seconda dello stato del rapporto di lavoro, e, dall’altro, la predetta aspettativa non fa cessare il rapporto stesso, sicché la persistente appartenenza del dipendente medesimo ad una pubblica amministrazione non fa venir meno i rischi di conflitto di interessi o di possibile utilizzazione di entrature che la citata previsione è preposta a prevenire.

In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva ritenuto legittima la sanzione amministrativa irrogata ad una società privata che aveva conferito incarichi di consulenza ad un dipendente pubblico, durante il periodo in cui quest’ultimo si trovava in aspettativa, senza chiedere l’autorizzazione all’amministrazione di appartenenza.

In tema di procedura di riqualificazione del personale di segreteria della giustizia amministrativa, Sez. L, n. 13621/2020, Di Paolantonio, Rv. 658179-01, ha evidenziato che l’art. 15, comma 1, lett. b), del c.c.n.l. per il comparto Ministeri del 16 febbraio 1999, così come l’art. 8 del c.c.n.l per il comparto Ministeri del 12 giugno 2003 (che conferma il processo di valorizzazione professionale stabilito dal precedente contratto collettivo), va integrato con le disposizioni della contrattazione integrativa (nella specie, art. 9 del c.c.i. del 2002-2005), che specificano il contenuto del criterio preferenziale previsto dalla citata contrattazione collettiva in favore dei candidati provenienti dalla posizione economica immediatamente inferiore a quella oggetto di selezione (nel caso di specie, C2 rispetto alla posizione C3 messa a concorso), stabilendo che, al termine dei percorsi di riqualificazione, “sarà definita una graduatoria per la cui formulazione sarà considerato, in ogni caso, elemento determinante la posizione economica di provenienza”, in termini di requisiti per la partecipazione al concorso e di criterio residuale di scelta in caso di parità di punteggio, senza che il personale di categoria immediatamente inferiore a quella messa a concorso (nella specie C2) sia sempre e comunque preferito a quello di categoria inferiore (nella specie C1).

In tema di progressione di carriera, Sez. L, n. 00984/2020, Di Paolantonio, Rv. 656535-01, ha chiarito che la natura programmatica dell’art. 15 del c.c.n.l. del 16 febbraio 1999 del comparto ministeri esclude la configurabilità di un diritto soggettivo dei dipendenti alla progressione in questione ovvero di un obbligo a carico dell’amministrazione di offrire al personale una “chance” di sviluppo della carriera, richiedendosi l’integrazione della disciplina con atti successivi, nel rispetto delle procedure previste dall’art. 20 del predetto c.c.n.l.; neppure la pubblicazione dell’avviso di selezione è suscettibile di modificare la posizione giuridica dei dipendenti ove la procedura concorsuale sia inficiata da vizi genetici (nella specie, quella avviata dal Ministero della giustizia) tali da escludere il diritto degli interessati a poterne invocare la sua conclusione.

L’assegnazione all’ufficio dell’addetto militare presso le sedi diplomatiche dell’Italia all’estero è caratterizzata dalla temporaneità dell’incarico, coessenziale all’istituto, alla “ratio” della l. n 838 del 1973 ed alla sua regolamentazione, tanto che le delibere del Comitato dei Capi di Stato Maggiore del 1999 e del 2002 - che hanno definito, in via generale ed astratta, la durata dell’assegnazione, il criterio della turnazione e dell’avvicendamento - si sono limitate ad esplicitare una regola insita nel sistema delineato dalla predetta disciplina speciale, in ragione dell’esigenza, preordinata alla tutela della sicurezza nazionale, di prevenire il rischio di radicamenti stabili a livello locale, con conseguente inapplicabilità dell’art. 2103 c.c. in tema di trasferimento del dipendente (così Sez. L, n. 02861/2020, Blasutto, Rv. 656919-01).

6. Mobilità.

Sul piano generale, Sez. L, n. 04193/2020, Marotta, Rv. 656816-01, ha ribadito che in tema di passaggio di personale da un’amministrazione all’altra, ai dipendenti statali transitati agli enti locali in applicazione del d.lgs. n. 469 del 1997, sono garantiti la continuità giuridica del rapporto di lavoro e il mantenimento del trattamento economico per il quale, ove risulti superiore a quello spettante presso l’ente di destinazione, opera la regola del riassorbimento in occasione dei miglioramenti di inquadramento e di trattamento economico riconosciuti per effetto del trasferimento, secondo il principio generale di cui all’art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001, dovendosi contemperare, in assenza di una specifica previsione normativa, il principio di irriducibilità della retribuzione, con quello di parità di trattamento dei dipendenti pubblici stabilito dall’art. 45 del medesimo d.lgs.

È stato peraltro precisato - da Sez. L, n. 20918/2020, Di Paolantonio, Rv. 658922-01 - che al personale trasferito ex art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001, che a sua volta rinvia all’art. 2112 c.c., si applica il contratto collettivo in vigore per i dipendenti del cessionario, dal momento che la temporanea ultrattività della contrattazione collettiva applicata dal cedente, di cui al comma 3 dell’art. 2112 c.c., è limitata alla sola ipotesi in cui il cessionario non abbia recepito alcun contratto, evenienza che nell’impiego pubblico contrattualizzato è esclusa dall’operatività della disciplina di cui al citato d.lgs. n. 165.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso che per i dipendenti del Registro Italiano Dighe continuasse a trovare applicazione la contrattazione per il personale della Presidenza del Consiglio, anche dopo il loro trasferimento al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, a seguito alla soppressione dell’ente in forza dell’art. 2 del d.l. n. 262 del 2006, conv., con modif., dalla l. n. 286 del 2006.

Sempre in tema, Sez. L, n. 10210/2020, Spena, Rv. 657787-01, ha puntualizzato che, in tema di procedure volontarie di mobilità nel pubblico impiego privatizzato, in difetto di disposizioni speciali - di legge, di regolamento o di atti amministrativi - che espressamente e specificamente definiscano un determinato trattamento retributivo come non riassorbibile o, comunque, ne prevedano la continuità indipendentemente dalle dinamiche retributive del nuovo comparto, si applica il principio generale della riassorbibilità degli assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito, argomentando dall’art. 34 del d.lgs. n.29 del 1993, come sostituito dall’art. 19 del d.lgs. n. 80 del 1998 (ora art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001), secondo le regole dettate dall’art. 2112 c.c., rese applicabili a fattispecie diversa dal trasferimento di azienda, restando irrilevante che i contratti collettivi, sia dell’ente di provenienza, sia di quello di destinazione prevedano entrambi l’inserimento nella struttura stipendiale della retribuzione individuale di anzianità (cd. RIA), dato che la continuità giuridica del rapporto implica la conservazione dell’anzianità di servizio sin dall’assunzione presso l’amministrazione di provenienza, ma con il rilievo che essa assume nella nuova organizzazione.

Con riferimento al trasferimento del lavoratore dipendente dell’Ente Poste Italiane ad una amministrazione pubblica (nella specie, Ministero dell’economia e delle finanze), presso la quale si trovava già in posizione di comando, Sez. L, n. 09089/2020, I. Tricomi, Rv. 657669-01, ha evidenziato che compete all’ente di destinazione l’esatto inquadramento e la concreta disciplina dei rapporto di lavoro dei dipendenti trasferiti, dovendosi ritenere non estensibile la tabella di equiparazione allegata al d.m. del 10 luglio 1997, relativa ai dipendenti trasferiti presso il Ministero delle Poste, la cui applicazione comporterebbe l’espropriazione, in danno dell’ente, dello specifico potere di gestione del rapporto nella fase dell’inquadramento professionale, in deroga al principio generale che tale potere attribuisce al datore di lavoro pubblico nell’ambito delle specifiche previsioni di legge e dei contratti collettivi.

In vicenda particolare, Sez. L, n. 06756/2020, Bellé, Rv. 657435-01, ha affermato che in tema di trasferimento di personale ministeriale ad enti locali ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001, ai fini dell’inquadramento del personale, trova applicazione ex art. 2112 c.c. la contrattazione collettiva dell’ente di destinazione ed il giudicato di accertamento dello svolgimento di mansioni superiori presso la precedente amministrazione ha efficacia vincolante per i periodi successivi esclusivamente se il lavoratore alleghi e provi il reiterarsi delle mansioni superiori anche in tale arco temporale, a condizione che rimanga immutata la disciplina collettiva di riferimento.

In caso di reinternalizzazione di funzioni o servizi esternalizzati da parte di un ente pubblico, Sez. L, n. 06290/2020, Tria, Rv. 657183-01, ha precisato che il riassorbimento delle unità di personale già dipendenti a tempo indeterminato da amministrazioni pubbliche e transitate alle dipendenze della azienda o società interessata dal processo di reinternalizzazione può avvenire mediante applicazione della disciplina generale di cui all’art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001, e con essa dell’art. 2112 c.c., purché ricorrano le seguenti condizioni: superamento di un pubblico concorso, provenienza dei dipendenti dallo stesso ente locale dal quale vengono “riassorbiti”, vacanza nella pianta organica, disponibilità delle risorse e, infine, assenza di ulteriori vincoli normativi all’assunzione.

7. Illeciti disciplinari: questioni procedimentali e sostanziali.

Nella materia disciplinare, le pronunce meritevoli di attenzione sono state poco numerose.

Tra queste, trova sicuramente spazio Sez. L, n. 00006/2020, Spena, Rv. 656362-01, che, nel confermare la regola dell’autonomia del processo penale e del procedimento disciplinare in caso di licenziamento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, ai sensi dell’articolo 55 ter del d.lgs. n. 165 del 2001, introdotto dal d.lgs. n. 150 del 2009, ha aggiunto che tale regola, in forza dell’art. 55, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 165, costituisce norma imperativa ai sensi e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419 c.c. e non è pertanto derogabile ad opera della contrattazione collettiva.

Sullo stesso tema, Sez. L, n. 07085/2020, Spena, Rv. 657518-01, ha ribadito che la sospensione del procedimento disciplinare in pendenza di quello penale, di cui all’art. 55 ter, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, costituisce facoltà discrezionale attribuita alla PA, il cui esercizio, peraltro, non obbliga quest’ultima ad attendere la conclusione del processo penale con sentenza irrevocabile, potendo riprendere il procedimento disciplinare allorquando ritenga che gli elementi successivamente acquisiti consentano la decisione, alla stregua di una regola che, già ricavabile dal sistema, è stata successivamente formalizzata dalla integrazione della suddetta disposizione ad opera del d. lgs. n. 75 del 2017 (non applicabile ratione temporis alla fattispecie).

Sul piano procedurale, Sez. L, n. 14811/2020, Tria, Rv. 658485-02, è tornata sul tema dell’ufficio dei procedimenti disciplinari (UPD). La questione era quella della possibilità, per gli enti locali, di concludere accordi per la gestione unificata delle relative funzioni, ivi compresa quella disciplinare e di individuare un UPD comune. La S.C. ha chiarito che simili convenzioni erano stipulabili anche nel periodo antecedente l’entrata in vigore della specifica previsione di cui al comma 3, dell’art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001, inserito dal d.lgs. n. 75 del 2017. Trovava già applicazione l’art. 30 del Tuel che prevedeva forme di cooperazione tra gli enti per ottimizzare l’esercizio delle funzioni, dei servizi e delle risorse umane, ivi compresa quella di “controllo”, in cui non può non includersi quella disciplinare con la costituzione del relativo ufficio. Del resto, il citato art. 55 bis, laddove stabilisce che ciascuna amministrazione individua l’UPD, costituisce norma imperativa solo nella parte in cui impone all’ente il rispetto della garanzia di terzietà dell’ufficio, ma non anche quanto alle regole procedimentali interne, derivanti dalle scelte organizzative delle diverse amministrazioni, che regolano la costituzione ed il funzionamento dell’UPD.

A proposito dello svolgimento di incarichi extraistituzionali retribuiti da parte di dipendenti della P.A., si segnalano anzitutto Sez. 2, n. 11811/2020, Bellini, Rv. 658270-01 e Sez. 2, n. 18206/2020, Bellini, Rv. 659166-01, chiamate a verificare la legittimità della sanzione amministrativa irrogata nei confronti di pubblici dipendenti (professori universitari) per aver svolto un incarico senza la preventiva autorizzazione dell’ente di appartenenza. La Corte ha ribadito in entrambe le occasioni che la previsione dell’art. 53, comma 9, del d.lgs. n. 165 del 2001, secondo cui tale svolgimento è condizionato alla previa autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza, esclude che la violazione di siffatta prescrizione possa essere sanata da un’autorizzazione successiva, stante la specificità del rapporto di pubblico impiego, la necessità di verificare ex ante la compatibilità tra l’incarico esterno e le funzioni istituzionali, e tenuto conto altresì della circostanza che il potere sanzionatorio è attribuito all’Agenzia delle Entrate e non all’amministrazione di provenienza del dipendente.

Ad analoghe conclusioni, ma per farne discendere la responsabilità dell’ente conferente, è giunta la Sezione Lavoro, che ha affermato che l’espletamento di incarichi extraistituzionali retribuiti da parte di dipendenti della P.A. è condizionato al previo rilascio di autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza, con un onere di verifica dell’assenza delle condizioni che ne impongono la richiesta posto a carico dell’ente pubblico economico o del datore di lavoro privato conferenti dall’art. 53, comma 9, del d.lgs. n. 165 del 2001, senza che detta verifica possa essere surrogata dalle dichiarazioni dei lavoratori che attestino la superfluità dell’autorizzazione, in quanto inidonee ad elidere la colposità della condotta del conferente (Sez. L, n. 09289/2020, Cinque, Rv. 657672- 01).

Sulle incompatibilità dei pubblici impiegati, si veda infine Sez. L, n. 27420/2020, Marotta, Rv. 659661-01, secondo cui anche la partecipazione alle imprese agricole, se caratterizzata da abitualità e professionalità, presumibili in caso sia prescelta la forma societaria, rientra nel divieto di cui all’art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957 ed è incompatibile con un rapporto di lavoro a tempo pieno, perché, interferendo con l’attività ordinaria del dipendente, è lesiva dei principi costituzionali di esclusività e di imparzialità della prestazione lavorativa a favore del datore di lavoro pubblico.

8. La cessazione del rapporto di lavoro.

Con una rilevante pronunzia, Sez. L, n. 14809/2020, Tria, Rv. 658484-02, ha affermato che l’atto con cui la P.A. dispone la risoluzione del contratto di lavoro a tempo indeterminato, concluso in violazione della disciplina delle quote di riserva, determina la nullità del contratto medesimo, indipendentemente dalla circostanza che il lavoratore abbia dato causa al vizio o ne abbia avuto consapevolezza.

In tema di collocamento in disponibilità nel settore pubblico, il procedimento di gestione dell’eccedenza del personale degli enti locali, conseguente allo stato di dissesto, è soggetto al regime speciale disciplinato dal T.U. n. 267 del 2000, proprio del riassetto organizzativo attuato a fini di un risparmio di spesa, pertanto ad esso non è applicabile l’incombente della preventiva consultazione sindacale, di cui all’art. 33 del d.lgs. n. 165 del 2001 (così Sez. L, n. 05046/2020, Bellé, Rv. 656937-01).

In tema di riduzione delle dotazioni organiche, con conseguente eccedenza o soprannumero di personale ex artt. 33 del d.lgs. n. 165 del 2001 e 2, comma 11, del d.l. n. 95 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 135 del 2012, la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro ex art. 72, comma 11, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 133 del 2008, sussistendo i previsti requisiti anagrafici e contributivi, non richiede - per Sez. L, n. 14813/2020, I. Tricomi, Rv. 658182-01 - motivazione e, dunque, una valutazione della specifica posizione professionale del dipendente, né - in presenza di un atto presupposto che ha dato luogo alle eccedenze o al soprannumero adottato nel rispetto delle condizioni tipizzate in sede normativa, che vanno ostese con motivazione, e dell’iter procedurale ivi previsto - può ravvisarsi la contrarietà del recesso ai principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. e ai criteri generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., in quanto, secondo la fattispecie legale, tale misura è prioritaria, e non facoltativa, e si applica proprio in ragione dell’atto presupposto.

9. La dirigenza.

La frammentazione della disciplina normativa della dirigenza pubblica si riflette sulle decisioni della giurisprudenza, che sono molto variegate ed eterogenee.

Un principio di carattere generale è quello affermato da Sez. L, n. 05238/2020, Spena, Rv. 656940-01, secondo cui nell’impiego pubblico privatizzato, un ufficio può essere ritenuto di livello dirigenziale generale solo in presenza di una norma che lo qualifichi tale, mentre non sono decisive la natura e la sostanza delle attribuzioni, desumibili da dati di fatto quali l’equivalenza del trattamento economico percepito o la particolare rilevanza dell’incarico.

In materia di retribuzione dei dirigenti, si segnalano poi le seguenti decisioni:

a) Sez. L, n. 20480/2020, Di Paolantonio, Rv. 658915-02, secondo cui il provvedimento di graduazione delle funzioni integra un elemento costitutivo della parte variabile della retribuzione di posizione, con la conseguenza che in sua mancanza la componente variabile non può essere determinata né con riferimento soltanto all’importanza e complessità dell’incarico ricoperto, né, in maniera indifferenziata, in proporzione alla disponibilità dell’apposito fondo aziendale;

b) Sez. L, n. 15110/2020, Bellè, Rv. 658193-01, per la quale, ai fini della determinazione delle spettanze, va esclusa la comparazione tra le diverse aree della predetta dirigenza, poiché, da un lato, l’art. 24 del d.lgs. n. 165 del 2001 ha rimesso alla contrattazione collettiva detta determinazione, senza alcuna previsione imperativa di parità di trattamento quantitativo, e, dall’altro, come previsto dagli artt. 43 e 45 del d.lgs. n. 165 del 2001, l’esercizio della discrezionalità collettiva impedisce ogni sindacato finalizzato a comparazioni tra le distinte aree e comparti sulla cui base si svolgono e si concludono i negoziati, influenzati da scelte relative agli stanziamenti che, secondo la discrezionalità politica del legislatore, ben possono essere diversamente allocati; stante la eterogeneità delle attività in concreto svolte, va del resto esclusa una comparazione, a fini di adeguatezza e proporzionalità ex art. 36 Cost., tra dirigenti appartenenti a comparti (e dunque ad aree) distinti, nonché una qualsiasi violazione dell’art. 45 citato (in applicazione di tale principio, S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la nullità della clausola del c.c.n.l. di riferimento con cui la retribuzione di posizione dei dirigenti scolastici era stata stabilita, nella parte fissa, in misura pari a circa un quinto di quanto spettante allo stesso titolo ai dirigenti di seconda fascia delle altre aree statali);

c) Sez. L, n. 13613/2020, Tria, Rv. 658482-01, che ha sancito l’irrinunciabilità delle ferie annuali retribuite dei dirigenti pubblici, in quanto finalizzato all’effettivo godimento di un periodo di riposo e di svago dall’attività lavorativa (nel quadro dei principi di cui agli artt. 36 Cost. e 7, par. 2, della direttiva 2003/88/CE), con conseguente diritto, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, di un’indennità sostitutiva, a meno che il datore di lavoro dimostri di averlo messo nelle condizioni di esercitare il diritto in questione prima di tale cessazione, mediante un’adeguata informazione nonché, se del caso, invitandolo formalmente a farlo.

A proposito dei rimedi utilizzabili dal dirigente in caso di illegittimi provvedimenti concernenti il suo incarico, Sez. L, n. 05546/2020, Marotta, Rv. 656947-01, ha ribadito una fondamentale distinzione: rispetto ad una illegittima cessazione anticipata dell’incarico, il dirigente è titolare di un diritto soggettivo che, se ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (ove possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno; a fronte del mancato conferimento di un nuovo incarico, invece, il dirigente può far valere un interesse legittimo di diritto privato, correlato all’obbligo per l’amministrazione di agire secondo i canoni della correttezza e buona fede, nonché dei principi di imparzialità, efficienza e buona andamento di cui all’art. 97 Cost., la cui eventuale lesione non legittima la domanda di attribuzione dell’incarico ma solo quella di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti.

La stessa pronuncia ha chiarito che una lesione risarcibile può derivare al dirigente anche quando la cessazione dell’incarico operativo è accompagnata dalla contestuale attribuzione di un incarico di studio ex art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001: pur legittima, tale attribuzione può essere realizzata con modalità tali da compromettere la professionalità del lavoratore sotto il profilo della perdita di chance o della lesione della sua dignità professionale, eventi da cui può sorgere il diritto al risarcimento del danno che deve essere allegato e dimostrato dal danneggiato, secondo gli ordinari criteri di distribuzione dell’onere della prova, non operando alcun automatismo che possa farlo ritenere in re ipsa (Sez. L, n. 05546/2020, Marotta, Rv. 656947-02).

In materia di rapporti di lavoro dirigenziali alle dipendenze degli enti pubblici locali, Sez. L, n. 27547/2020, D’Antonio, Rv. 659795-02, si è confrontata con la disciplina dell’art. 110, comma 5, del d.lgs. n. 267 del 2000, ratione temporis vigente, nella parte in cui prevedeva la risoluzione di diritto del rapporto di impiego del dipendente di una pubblica amministrazione al quale fosse stato conferito un incarico dirigenziale a tempo determinato ai sensi del comma 2 dello stesso articolo, con decorrenza dalla data di stipulazione del relativo contratto. La sentenza ha affermato che la regola si applica anche nell’ipotesi in cui il dipendente provenga dallo stesso ente che conferisce l’incarico, ma ha anche precisato che, prevedendo lo stesso comma 5 la possibilità che, all’esito dell’incarico, il rapporto apparentemente “risolto” venga ricostituito senza obbligo di superamento di un concorso, tale norma, anche nella versione anteriore alle modifiche apportate dall’art. 11, comma 1, lett. b), del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla l. n. 114 del 2014, va interpretata, in conformità all’art. 97, comma 4, Cost., nel senso che non determina una vera e propria cessazione del rapporto, bensì la messa in aspettativa senza assegni del soggetto cui è stato conferito un incarico dirigenziale a tempo determinato.

Ricco, come di consueto, il contenzioso relativo alla dirigenza sanitaria.

Anzitutto, Sez. U, n. 25369/2020, Tria, Rv. 659458-01, ha precisato che ai direttori generali (e anche ai direttori sanitari e ai direttori amministrativi) degli enti del Servizio Sanitario Nazionale si applica la normativa in materia di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi (oltre che quella sulla inconferibilità degli incarichi stessi) - con le relative sanzioni - dettata dall’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 (nonché, ratione temporis, dalla disciplina specifica per i titolari di incarichi dirigenziali di cui al d.lgs. n. 39 del 2013). Tale normativa ha infatti carattere imperativo e inderogabile, essendo irrilevante il fatto che il rapporto del direttore generale di un ente del SSN - peraltro, dalla legge qualificato “esclusivo” - sia di natura autonoma e sia regolato da un contratto di diritto privato, perché agli indicati fini, quel che conta è lo svolgimento di funzioni in qualità di “agente dell’Amministrazione pubblica”, da cui deriva il rispetto del primario dovere di esclusività del rapporto con la P.A.

Rispetto ai diritti economici, si vedano: Sez. L, n. 16854/2020, Bellè, Rv. 658581-01, che ha ricordato come l’art. 7 del d.P.R. n. 128 del 1969 stabilisca i criteri per la sostituzione del primario in ipotesi di assenza, impedimento o nei casi di urgenza (prevedendosi a tal fine la sostituzione del medesimo da parte dell’aiuto e che, tra più aiuti della stessa divisione o dello stesso servizio la sostituzione del primario spetti all’aiuto con maggiori titoli), ma, trattandosi di misura di rilievo primariamente organizzativo, al fine del determinarsi delle conseguenze economiche in favore dei sostituti, è sempre necessaria la prova dell’effettivo svolgimento dei compiti sostitutivi, in forza di incarico formale o in via di fatto, principio valido anche in virtù dei diversi criteri sostitutivi di cui all’art. 18, comma 7, del c.c.n.l. dell’8 giugno 2000, ove il diritto alle differenze retributive è riconosciuto a favore del dirigente medico “incaricato della sostituzione”; Sez. L, n. 16711/2020, Bellè, Rv. 658639-01, che ha ribadito che lo svolgimento di lavoro straordinario – inteso quale prestazione eccedente gli orari stabiliti dalla contrattazione collettiva – non fa sorgere in capo al dirigente diritti retributivi ulteriori rispetto a quanto previsto a titolo di retribuzione di risultato o a titolo di remunerazione di specifiche attività aggiuntive (ad es. pronta disponibilità, guardie mediche, prestazioni autorizzate non programmabili, ecc.), precisando però che la sistematica richiesta o accettazione di prestazioni eccedenti i limiti massimi stabiliti dalla legge o dalla contrattazione collettiva rispetto alla misura (giornaliera, settimanale, periodale o annua) del lavoro o la violazione delle regole sui riposi, o comunque lo svolgimento della prestazione secondo modalità temporali irragionevoli, può dar luogo a responsabilità datoriale, ai sensi dell’art. 2087 c.c.; Sez. L, n. 12198/2020, Spena, Rv. 658067-01, che, in tema di trattamento economico dei dirigenti della Regione Calabria, ha riconosciuto che nella retribuzione mensile lorda utile ai fini del calcolo dell’indennità incentivante all’esodo ex art. 7, comma 6, della l.r. Calabria n. 8 del 2005, va inclusa anche la tredicesima mensilità, indipendentemente dalla relativa previsione nel contratto intercorso tra le parti, in ragione della sua natura retributiva ed in quanto dotata dei requisiti di fissità, continuità, costanza e generalità; Sez. L, n. 09096/2020, Marotta, Rv. 657671-01, si è espressa sugli psicologi penitenziari trasferiti presso il S.S.N., chiarendo che spetta loro la qualifica di dirigente sanitario non medico, senza che ciò determini l’illegittima attribuzione di mansioni superiori o la violazione del principio dell’accesso alla qualifica dirigenziale previo pubblico concorso, trattandosi di personale già appartenente al ruolo dell’amministrazione penitenziaria, né una lesione dei principi di economicità e buon andamento, in quanto il passaggio delle funzioni di medicina penitenziaria al S.S.N. è stato accompagnato dal trasferimento anche delle relative risorse finanziarie; Sez. L, n. 07303/2020, Marotta, Rv. 657440-01, con cui si è affermato che il trattamento economico del direttore amministrativo di una azienda ospedaliera universitaria va rapportato a quello del dirigente apicale amministrativo e non a quello del dirigente apicale sanitario, avuto riguardo alla disposizione di cui all’art. 2, comma 5, novellato, del d.P.C.M. n. 502 del 1995 che attribuisce al direttore sanitario e al direttore amministrativo un trattamento economico definito in misura non inferiore a quello previsto dalla contrattazione collettiva nazionale “rispettivamente” per le posizioni apicali della dirigenza medica ed amministrativa, secondo una distinzione coerente con la diversità dei ruoli, in quanto il direttore amministrativo è un laureato in discipline giuridiche o economiche e svolge funzioni di carattere prettamente amministrativo, mentre il direttore sanitario è un medico e dirige e coordina l’attività dei dirigenti medici; secondo Sez. L, n. 06946/2020, Ghinoy, Rv. 657516-01, ai dirigenti sanitari non sono applicabili i benefici combattentistici di cui all’art. 2, comma 2, della l. n. 336 del 1970, come interpretato dall’art. 3 della l. n. 824 del 1971, essendo la categoria inserita in un ruolo unico che non contempla progressioni di carriera e si distingue unicamente per profili professionali.

Riferita alle questioni economiche, ma con riflessi ulteriori, è Sez. L, n. 27755/2020, Di Paolantonio, Rv. 659956 - 01.

La sentenza ha preso le mosse dal consolidato principio (v. tra le tante Sez. L, n. 05706/2018, Blasutto, Rv. 647522-01), secondo cui la cd. “indennità De Maria” (spettante a fini perequativi al personale universitario dei ruoli professionale, tecnico e amministrativo, in forza dell’art. 31 del d.P.R. n. 761 del 1979) si determina sulla base dell’equiparazione del trattamento economico complessivo a quello del personale delle unità sanitarie locali di pari funzioni, mansioni e anzianità, per trarne un duplice corollario.

Da un lato, l’equiparazione sottesa alla “indennità De Maria” incide solo sul piano retributivo e, pertanto, non può essere invocata al fine di ottenere la parificazione anche giuridica ai dirigenti del ruolo sanitario, tecnico ed amministrativo del servizio sanitario nazionale, ossia per acquisire a tutti gli effetti la qualifica dirigenziale, superando il diverso inquadramento riconosciuto dal datore di lavoro.

Dall’altro lato, nel computo dell’indennità non può essere ricompresa la retribuzione di risultato propria dei dirigenti, poiché essa può essere riconosciuta solo a seguito dell’effettivo espletamento di funzioni dirigenziali, presupponendo la valutazione positiva del dirigente in relazione ai diversi parametri, indicati dalle parti collettive.

Sul problema della cessazione dal servizio per recesso anticipato della P.A., è intervenuta Sez. L, n. 23153/2020, Marotta, Rv. 659261-01, secondo cui l’art. 15-novies del d.lgs. n. 502 del 1992, ratione temporis vigente a seguito delle modifiche apportate dall’art. 22 della l. n. 183 del 2010 - il quale prevede, tra l’altro, che il limite massimo di età per il collocamento a riposo dei dirigenti medici è stabilito al compimento del sessantacinquesimo anno di età, ovvero, su istanza dell’interessato, al maturare del quarantesimo anno di servizio effettivo -, non esclude la ammissibilità del recesso anticipato, ai sensi dell’art. 72, comma 11, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 133 del 2008, nei confronti del dirigente responsabile di struttura non complessa che abbia maturato la massima anzianità contributiva.

Riferite ad ambiti più settoriali sono le seguenti pronunce.

Per i dirigenti penitenziari, Sez. L, n. 20480/2020, Di Paolantonio, Rv. 658915-01, ha chiarito che la disciplina normativa ed economica prevista dai contratti collettivi della dirigenza dell’area Ministeri si applica al personale dirigente e direttivo dell’Amministrazione penitenziaria solo a decorrere dal 18 novembre 2004, in virtù della sequenza contrattuale e delle disposizioni di raccordo contenute nel c.c.n.l. del 18 novembre 2004, in applicazione dell’art. 41, comma 5, della l. n. 449 del 1997 e presuppone la preposizione ad una struttura penitenziaria classificata di livello dirigenziale; ne consegue che il trattamento retributivo per le funzioni superiori svolte decorre dal d.m. di classificazione e, sino al 17 novembre 2004, va parametrato a quello previsto per i dirigenti della Polizia di Stato, ai sensi dell’art. 40 della l. n. 395 del 1990. Sez. L, n. 12200/2020, Bellè, Rv. 658100-01, ha precisato che, ai fini dell’accesso alla dirigenza penitenziaria, non è equiparabile al requisito formale dell’accesso per concorso pubblico all’area C, profilo professionale C3, previsto per la nomina a dirigente dalla norma transitoria di cui all’art. 4, comma 1, della l. n. 154 del 2005, l’avere conseguito tale inquadramento mediante procedura selettiva interna di riqualificazione, costituendo il modello concorsuale, basato sul metodo comparativo, un vincolo per le amministrazioni pubbliche ai sensi dell’art. 97 Cost., salva espressa deroga legislativa, da interpretare restrittivamente, trattandosi di norma eccezionale.

Per i dirigenti delle autorità portuali, si rimanda a Sez. L, n. 21484/2020, Spena, Rv. 659051-01, citata nel par. 2.

Sez. L, n. 04876/2020, Di Paolantonio, Rv. 656934-01, si è espressa sull’incarico di direttore amministrativo delle Università statali, escludendo, ai fini dell’inquadramento in prima fascia ex art. 23 del d.lgs. n. 165 del 2001, che esso possa essere equiparato a quello di dirigente di ufficio dirigenziale generale di cui all’art. 19 del medesimo decreto, in quanto disciplinato da disposizioni speciali, che da quest’ultimo lo differenziano sia per le diverse modalità di costituzione, sia per gli aspetti economici, sottratti all’intervento della contrattazione collettiva.

Per i dirigenti dell’ICE (Istituto per il Commercio con l’Estero), Sez. L, n. 26598/2020, Bellè, Rv. 659626-01, ha stabilito che, in ragione dell’attrazione dei rapporti di lavoro con tale ente nel pubblico impiego privatizzato, ad opera dell’art. 10 della l. n. 68 del 1997, e della mancata previsione nella contrattazione collettiva di una disciplina specifica del TFR per i dirigenti, non può trovare applicazione l’art. 2120 c.c. bensì la disciplina legale di cui all’art. 13 della l. n. 70 del 1975, con conseguente riconoscimento dell’indennità di buonuscita e non del TFR.

Sulle agenzie fiscali si registrano due pronunce significative.

La prima è Sez. L, n. 02533/2020, Di Paolantonio, Rv. 656770-01, che, in tema di scadenza e conferimento di nuovo incarico dirigenziale, ha escluso, con riferimento alla retribuzione di posizione, la retroattività della clausola di salvaguardia di cui all’art. 63 del c.c.n.l. del personale dirigente dell’area VI delle agenzie fiscali e degli enti pubblici non economici del 1° agosto 2006. La Corte ha osservato trattarsi di disposizione destinata ad operare solo per i rinnovi non ancora attuati alla data di sottoscrizione del contratto collettivo, in assenza di una espressa previsione di retroattività, limitata ai soli incrementi economici fissi, non potendosi peraltro ritenere illegittimo un incarico in virtù di una disciplina sopravvenuta, che obbliga l’Amministrazione ad accertamenti e valutazioni che devono necessariamente precedere il conferimento dell’incarico stesso.

La seconda è Sez. L, n. 14814/2020, Spena, Rv. 658190-01, che ha affermato che il conferimento di un incarico dirigenziale a termine ai funzionari dell’Agenzia delle entrate, ai sensi dell’art. 24 del regolamento di organizzazione dell’ente e poi dell’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 44 del 2012, si innesta su un rapporto di lavoro subordinato già esistente; pertanto, esso è equiparabile all’ipotesi della reggenza, o dell’esercizio di mansioni superiori, e non determina la costituzione di un rapporto dirigenziale a termine assimilabile a quello con i soggetti non appartenenti ai ruoli dirigenziali della P.A. ex art.19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001. Il caso riguardava la domanda di costituzione di un rapporto dirigenziale a tempo indeterminato, e di risarcimento del danno, per abusiva reiterazione di contratti a termine, proposta da un funzionario a seguito della cessazione dell’incarico dirigenziale a termine, già prorogato, disposta dall’Agenzia all’esito dell’annullamento del regolamento di organizzazione da parte del giudice amministrativo e della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 8 citato con sentenza n. 37 del 2015: la Corte ha confermato la decisione di merito di rigetto.

PARTE QUINTA IL DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA - SEZIONE TERZA - IL DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE

  • assunzione
  • diritto del lavoro

CAPITOLO XXI

LA PREVIDENZA SOCIALE

(di Annachiara Massafra )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’obbligazione contributiva ed i soggetti obbligati. - 3 La retribuzione imponibile ed il minimale contributivo. - 4 La restituzione dei contributi. - 5 Gli sgravi contributivi. - 6 L’incremento occupazionale e gli incentivi all’assunzione. - 7 Accertamento e riscossione. - 8 Le sanzioni civili. - 9 La prescrizione dei crediti contributivi.

1. Premessa.

Sempre numerose le sentenze che in tema di previdenza sociale hanno affrontato i diversi aspetti della materia.

2. L’obbligazione contributiva ed i soggetti obbligati.

Sez. L, n. 15411/2020, Raimondi, Rv. 658490-01, ha avuto il pregio di chiarire che la transazione è estranea al rapporto di lavoro ed agli obblighi contributivi, perché alla base del calcolo degli oneri previdenziali deve sempre essere posta la retribuzione prevista per legge o per contratto, individuale o collettivo; ne consegue che le somme pagate a titolo di transazione dipendono da quest’ultimo contratto e non dal diverso contratto di lavoro, sicché l’assoggettabilità a contribuzione delle poste contenute nell’accordo transattivo è conseguenza dell’accertata natura retributiva delle stesse. La sentenza, in particolare, ha richiamato sia Sez. L, n. 17495/2009, Picone, 609509-01, sia la precedente Sez. L, n. 20146/2010, Foglia, Rv. 615782-01, che in tema di conciliazione relativa alla definizione delle pendenze riconducibili alla cessazione ed estinzione del rapporto di lavoro subordinato sottostante, e dunque in fattispecie analoga, hanno affermato che il “negozio transattivo stipulato tra le parti ha natura novativa in quanto costituisce l’unica ed originaria fonte dei diritti e degli obblighi successivi alla risoluzione”. È stato quindi evidenziato come l’estraneità al rapporto contributivo della transazione, intervenuta tra datore e lavoratore, discende dal principio che “alla base del calcolo dei contributi previdenziali, deve essere posta la retribuzione dovuta per legge o per contratto individuale o collettivo e non quella di fatto corrisposta……”. Nella specie, è stata quindi esclusa l’assoggettabilità a contribuzione dell’incentivo all’esodo previsto in una transazione novativa che definiva una lite concernente esclusivamente la risoluzione del rapporto di lavoro.

Con specifico riferimento agli effetti della parificazione degli imponibili contributivi relativi alle società cooperative con quelli in vigore per gli altri datori di lavoro privati, disposta dall’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 423 del 2001, Sez. L. n. 01113/2020, Cavallaro, Rv. 656652-01, ha chiarito che essa ha comportato il venir meno, per le predette cooperative, del beneficio dell’applicazione graduale dell’incremento delle aliquote di finanziamento dovute sulle retribuzioni versate al Fondo pensioni lavoratori dipendenti, di cui all’art. 27, comma 2-bis, del d.l. n. 669 del 1996, (conv. con modif. dalla l. n. 30 del 1997) in quanto la parificazione in questione ha annullato ogni differenza tra la retribuzione imponibile da prendere a base per il versamento di tutte le contribuzioni per i soci lavoratori, ovvero tra la retribuzione effettiva e quella convenzionale.

In tema di soggetti obbligati, Sez. L, n. 01559/2020, Cavallaro, Rv. 656654-01, confermando la sentenza di merito che aveva ritenuto sussistente l’obbligo della doppia contribuzione per i figli del socio amministratore, consiglieri di amministrazione ed altresì coadiutori, ha affermato che i familiari coadiutori che, oltre ad esercitare lavoro autonomo, per il quale vale l’obbligo della iscrizione presso la gestione separata, partecipino personalmente, con abitualità e prevalenza, al lavoro dell’azienda commerciale, nella specie società a responsabilità limitata, devono essere iscritti anche alla gestione commercianti, a cura del socio amministratore, onde evitare che la loro prestazione lavorativa venga sottratta alla contribuzione previdenziale, grazie allo schermo societario.

Con specifico riferimento al versamento della contribuzione per maternità e per malattia, peraltro, Sez. L, n. 06450/2020, Mancino, Rv. 657186-01, ha affermato che le stazioni sperimentali per l’industria sono tenute a versare la contribuzione per maternità e quella per malattia poiché avendo natura giuridica di enti pubblici economici rientrano nell’ambito delle “imprese dello Stato” ex art. 20, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 133 del 2008.

Merita inoltre di essere segnalata Sez. L, n. 02236/2020, Calafiore, Rv. 656768-01 che, con specifico riferimento all’ obbligo di versamento dei biologi del contributo integrativo, di cui all’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 103 del 1996, ha chiarito che esso compete a coloro che si avvalgono dell’attività professionale degli iscritti, anche se quest’ultima venga esercitata in forma societaria o associata, incidendo il vincolo societario o associativo solo sulle concrete modalità di calcolo dell’importo contributivo dovuto ma non anche sul rapporto previdenziale intercorrente tra l’iscritto e l’Ente.

Sez. L, n. 07485/2020, Cavallaro, Rv. 657517-01, ha inoltre affermato che i pensionati che svolgano abitualmente attività lavorativa libero-professionale e non siano tenuti a versare il contributo soggettivo all’ente previdenziale di categoria soggiacciono all’obbligo di iscrizione alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995. Ciò si evince “a contrario” dall’interpretazione autentica dalla disposizione di cui innanzi, contenuta nell’art. 18, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011 (conv. con modif. dalla l. n. 111 del 2011), la quale, nell’escludere dall’obbligo di iscrizione alla gestione separata “i soggetti di cui al comma 11”, fa riferimento ai pensionati che versino il contributo soggettivo agli enti privati gestori delle forme di previdenza obbligatorie.

Alla domanda se per gli istruttori di tennis sia configurabile l’obbligo di iscrizione all’Ente nazionale di previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo ha fornito risposta positiva Sez. L, n. 11375/2020, Ghinoy, Rv. 657853 -01 poiché, a partire dalla l. n. 2388 del 1952 - con la quale è stata prevista l’obbligatoria iscrizione, tra gli altri, degli “addetti agli impianti sportivi” -, si è registrata un’estensione della tutela al di fuori dello stretto limite della categoria dei lavoratori dello spettacolo, e, a seguito della modifica della legge fondamentale in materia (id est: il d.l. C.P.S. n. 708 del 1947) ad opera della l. n. 289 del 2002, vi è stata, con il successivo d.m. 15 marzo 2005, l’esplicitazione della ricomprensione, nell’ambito della categoria di lavoratori assoggettati alla predetta tutela, di figure emergenti nella pratica - quali, tra gli altri, istruttori ed addetti agli impianti e circoli sportivi di qualsiasi genere - che già in precedenza potevano esservi fatte rientrare.

Per quanto concerne l’obbligo di contribuzione presso l’Enpals, Sez. L, n. 24613/2020, Amendola, Rv. 659442-01, ha affermato che gli addetti alle sale gioco, indipendentemente dalla natura autonoma o subordinata dell’attività svolta, in forza del d.m. del 15 marzo 2005 sono soggetti a tale obbligo, che ha carattere di specialità, in ragione della peculiarità delle prestazioni lavorative e dell’assenza di continuità, rispetto alla generalità dei lavoratori iscritti all’INPS; ad essi non è pertanto applicabile, neanche quanto alla misura della contribuzione, la disciplina della cd. Gestione separata di cui alla l. n. 335 del 1995, che va esclusa tutte le volte in cui vi è un obbligo di iscrizione ad altra cassa previdenziale suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale.

Sez. L, n. 14891/2020, Mancino, Rv. 658184-01, ha specificato in tema di classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali, che l’attività dell’”avvisatore marittimo”, in quanto svolta in regime di autorizzazione, con provvedimento della Capitaneria di Porto al di fuori di una procedura ad evidenza pubblica, e retribuita dagli utenti dei servizi prestati in regime di monopolio, data l’onnicomprensività del settore terziario va ricompresa tra quelle di intermediazione e prestazione di servizi nell’ambito della tutela previdenziale obbligatoria apprestata dall’art. 1, comma 202, della l. n. 662 del 1996, con obbligo di iscrizione alla gestione commercianti, in coerenza con la sua esclusione dal novero e dal perimetro definito dalla legislazione in materia portuale.

3. La retribuzione imponibile ed il minimale contributivo.

Sez. L, n. 11373/2020, Ghinoy, Rv. 657970-01, in tema di condono previdenziale ha ribadito come l’art. 5 del d.l. n. 535 del 1996, conv. dalla l. n. 647 del 1996, che ha escluso i decimi di senseria dalla retribuzione imponibile ai fini contributivi, facendo tuttavia salvi i versamenti precedentemente eseguiti su tali emolumenti e dunque escludendone la ripetibilità, si applica sia nei confronti di chi aveva pagato i contributi regolarmente, sia di chi lo aveva fatto in misura ridotta in virtù di condono e con riserva di ripetizione, restando irrilevante che l’art. 81, comma 9, della l. n. 448 del 1998 abbia sancito la validità delle clausole di riserva di ripetizione apposte alla domanda di condono e abbia riconosciuto la possibilità di accertamento negativo in sede contenziosa del debito relativo, atteso che tale disposizione non preclude al legislatore di prevedere, in ipotesi particolari come quella in esame, espresse clausole di salvaguardia dei versamenti già eseguiti.

Sez. L, n. 17607/2020, Cavallaro, Rv. 658586-01, ha avuto il pregio di chiarire che ai fini della determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale è possibile procedere alla liquidazione equitativa, quando sia certo il diritto ma non sia possibile determinare la somma dovuta, in virtù del richiamo operato dall’art. 442 c.p.c., che estende le disposizioni dettate per le controversie di lavoro alle controversie in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie, all’art. 432 c.p.c. La decisione di cui innanzi ha inoltre statuito che alla liquidazione equitativa può farsi luogo anche quando l’impossibilità di determinare la somma dovuta sia ascrivibile a fatto della parte che la invoca, la quale è gravata dal solo onere di allegare e di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno.

Anche l’’importo corrispondente all’indennità sostitutiva per ferie non godute non erogata va assoggettato a contribuzione allorché sia decorso il termine, previsto dall’art. 10 del d.lgs. n. 66 del 2003, di diciotto mesi dalla maturazione delle ferie ed il rapporto di lavoro non sia cessato. Ciò è stato affermato da Sez. L, n. 26160/2020, Calafiore, Rv. 659624-01, atteso il carattere “parafiscale” ed inderogabile dell’obbligazione contributiva, la maggiore capacità contributiva generata dalla effettuazione della prestazione lavorativa in un periodo destinato al riposo non può non incidere sugli oneri di finanziamento del sistema previdenziale posti a carico dell’impresa che ha tratto vantaggio dalla maggior produzione, restando irrilevante - ai fini previdenziali - che l’indennità possa essere monetizzata tra le parti solo alla cessazione del rapporto di lavoro.

Con specifico riferimento al settore edile Sez. L, n. 08794/2020, Calafiore, Rv. 657668-01, ha affermato che l’istituto del minimale contributivo, previsto dall’art. 29 del d.l. n. 244 del 1995, conv. dalla l. n. 341 del 1995, trova applicazione anche nell’ipotesi in cui siano stati conclusi contratti part-time in eccedenza rispetto al limite previsto da una disposizione del contratto collettivo applicabile, poiché la funzione della predetta disposizione è quella di individuare il complessivo valore economico delle retribuzioni imponibili di una data impresa, che, in caso di violazione del divieto di assunzioni a tempo parziale in misura superiore ad una determinata percentuale del totale dei lavoratori occupati a tempo indeterminato, va commisurato alla retribuzione dovuta per l’orario normale di lavoro anche per i lavoratori assunti part-time in violazione del predetto divieto, a prescindere dalla circostanza che tali compensi siano stati effettivamente corrisposti.

Sempre in argomento Sez. L, n. 08446/2020, Calafiore, Rv. 657649-01, ha ribadito che il principio del cd. minimo retributivo imponibile, secondo cui la retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore a quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, è applicabile anche alle società cooperative, i cui soci sono equiparati ai lavoratori subordinati ai fini previdenziali, sia nel caso in cui il datore di lavoro paghi di meno la prestazione lavorativa a pieno orario, sia nel caso di prestazione a orario ridotto, rispondendo tale parificazione alla finalità costituzionale di assicurare comunque un minimo di contribuzione dei datori di lavoro al sistema della previdenza sociale.

In tema di minimale contributivo nel settore edile, Sez. L, n. 16859/2020, Cavallaro, Rv. 658583-02, ha ribadito, in aderenza a quanto statuito da Sez. L, n. 05233/2007, De Matteis, Rv. 595591-01, che dall’art. 29 del d.l. n. 244 del 1995, conv. con modif. dalla l. n. 341 del 1995, è necessario scindere le due ipotesi ivi previste, quella della sospensione dell’attività, per la quale deve sussistere il presupposto dell’obbligo della retribuzione-corrispettivo, obbligo che non sussiste nelle ipotesi di sospensione debitamente comunicate all’INPS in via preventiva ed oggettivamente accertabili, e quella della riduzione dell’attività, nella quale, sussistendo una retribuzione, seppure parziale, esprime tutto il suo vigore la regola del minimale e della tassatività delle ipotesi di esclusione.

4. La restituzione dei contributi.

Sez. L, n. 21895/2020, Buffa, Rv. 659087-01, con specifico riferimento ai contributi volontari, ha avuto il pregio di chiarire che il diritto alla restituzione sancito dall’art. 10 del d.P.R. n. 1432 del 1971 concerne esclusivamente i contributi indebiti, come individuati dalla norma, con la conseguenza che non può estendersi a quelli semplicemente inutilizzati in concreto.

In tema di trattamento previdenziale del personale dell’Agensud transitato ad altra amministrazione, Sez. L, n. 17700/2020 Cavallaro, Rv. 658588-01, con riferimento al diritto alla restituzione dei contributi non più utili a fini pensionistici di cui all’art. 14 bis, comma 4, del d.lgs. n. 96 del 1993, aggiunto dall’art. 9 del d.l. n. 32 del 1995, convertito nella l. n. 104 del 1995 ha chiarito che tale possibilità non riguarda l’intero montante dei contributi eccedenti la riserva matematica costituita presso la gestione ad quem in assenza di disposizioni di legge che dispongano univocamente in tal senso. Pertanto l’espressione “restituzione” riferita ai “contributi versati” deve essere circoscritta al suo significato letterale di riconsegna alla persona interessata di quanto essa aveva dato in precedenza, che equivale a designare i contributi che, se pur materialmente posti a carico del datore di lavoro, gravano comunque sul lavoratore.

Merita inoltre di essere segnalata Sez. L, n. 07091/2020, Piccone, Rv. 657188-01, la quale ha chiarito che la natura giuridica della restituzione dei contributi assicurativi versati dal datore di lavoro in misura maggiore di quella dovuta, anche in dipendenza del suo diritto al beneficio dello sgravio o della fiscalizzazione, costituisce l’oggetto di una obbligazione pecuniaria di fonte legale (art. 2033 c.c.), assoggettata alla disciplina dettata per quelle obbligazioni e, in particolare, alla disposizione di cui all’art. 1224 c.c., in tema di interessi moratori e risarcimento del maggior danno per il ritardo nell’adempimento; al contempo è stata esclusa l’applicabilità all’indicata obbligazione restitutoria della speciale disciplina del cumulo di interessi legali e rivalutazione esclusivamente dettata per i crediti di previdenza sociale e di assistenza sociale obbligatoria.

5. Gli sgravi contributivi.

Sez. L, n. 09801/2020, Cavallaro, Rv. 657785-01, ha affermato che al fine di escludere che gli sgravi contributivi per la stipula e la trasformazione di contratti di formazione e lavoro, riconosciuti in favore di un’azienda che eserciti in via esclusiva il servizio di trasporto pubblico locale, costituiscano aiuti di Stato idonei a falsare la concorrenza secondo il diritto unionale, occorre verificare – secondo quanto affermato da CGUE 29 luglio 2019, C-659/17 – se nel periodo considerato l’ente locale fosse obbligato, da una disposizione legislativa o regolamentare, all’affidamento del servizio a una determinata azienda in regime di sostanziale monopolio legale e se tale azienda esercitasse o meno la propria attività, nello stesso periodo, anche su altri mercati di beni o servizi o su mercati geografici aperti ad effettiva concorrenza. Per i contratti di gestione già in essere alla data di entrata in vigore dell’art. 18 del d.lgs. n. 422 del 1997, la prima condizione deve dirsi soddisfatta, atteso che, prima di tale data, l’art. 22 della l. n. 142 del 1990 vincolava gli enti locali ad affidare il servizio di trasporto pubblico locale ad aziende speciali, quali prestatori esclusivi, con divieto di accesso a qualsiasi altro operatore economico, trattandosi di un servizio di rilevanza economica e imprenditoriale, la cui tariffa è potenzialmente in grado di coprire i costi di gestione e di generare un’utile d’impresa, ai sensi del r.d. n. 2578 del 1925.

In tema di sgravi contributivi illegittimi Sez. L. n. 15972/2020, Berrino, Rv. 658533-01, ha ribadito che, in quanto costituenti aiuti di Stato vietati dalla Commissione europea, l’azione dell’ente previdenziale volta al recupero degli sgravi non costituisce azione di restituzione di indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., ma azione volta al pagamento della contribuzione differenziale, pari alla misura dell’aiuto di Stato recuperabile. Ne consegue che tale azione - alla cui proposizione è legittimato direttamente l’ente istituzionalmente deputato alla riscossione dei contributi - è soggetta al termine prescrizionale ordinario decennale di cui all’art. 2946 c.c., e non a quello previsto per l’indebito, né a quello ex art. 3, commi 9 e 10, della l. n. 335 del 1995, attesa l’autonomia giuridica dell’azione di recupero degli aiuti in questione (che è disciplinata da regole specifiche, è finalizzata al mero ripristino dello status quo ante e che prevede - a differenza dell’azione volta al pagamento dei contributi omessi - l’applicazione di interessi nella misura stabilita dalla Commissione e non anche delle sanzioni specifiche previste per l’omissione contributiva).

6. L’incremento occupazionale e gli incentivi all’assunzione.

Con specifico riferimento alla decontribuzione concernente la retribuzione di risultato ex art. 2 del d.l. n. 67 del 1997, conv. dalla l. n. 135 del 1997 (applicabile ratione temporis) Sez. L, n. 08265/2020, Calafiore, Rv. 657645-01, ha affermato che l’individuazione dei parametri di misurazione del risultato stesso è dalla citata disposizione demandata al contratto collettivo aziendale, il quale non è una sommatoria di più contratti individuali, bensì atto di autonomia sindacale riguardante una pluralità di lavoratori collettivamente considerati e destinato ad introdurre una disciplina collettiva uniforme dei rapporti di lavoro; la predetta disposizione va peraltro interpretata restrittivamente, poiché l’attribuzione alla fonte sindacale del potere di incidere sulla regola generale della base contributiva evita il rischio di fenomeni collusivi delle parti e riposa, pertanto, su considerazioni specifiche della disciplina previdenziale.

Il predetto principio è stato quindi applicato in fattispecie nella quale la sentenza di merito aveva ritenuto dovuta la contribuzione su premi di risultato erogati in esecuzione di un accordo aziendale, che, non potendo qualificarsi come “sindacale”, per essere stato sottoscritto dalla società e da un rappresentante dei lavoratori non sindacalista, era stato reputato non idoneo ad integrare i presupposti per la fruizione della decontribuzione. Sicché è stato escluso che i predetti presupposti potessero essere costituiti da un uso negoziale, non potendo quest’ultimo essere sussunto nella astratta previsione normativa.

7. Accertamento e riscossione.

Sez. L, n. 06753/2020, Ghinoy, Rv. 657430-01, in tema di omissioni contributive ha affermato che la notifica della cartella esattoriale per contributi previdenziali determina la sopravvenuta carenza di interesse ad agire nel giudizio di impugnazione dell’accertamento ispettivo che sia stato promosso dopo l’iscrizione a ruolo, perché l’art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999 prevede uno specifico mezzo dell’impugnazione a ruolo, da azionarsi entro il termine di quaranta giorni dalla notifica della cartella di pagamento, con il quale vengono devolute in giudizio tutte le questioni aventi ad oggetto la fondatezza della pretesa, sia quelle relative alla regolarità del titolo che quelle attinenti al merito, sicché nessun risultato utile il ricorrente potrebbe più conseguire in virtù dell’autonoma azione di accertamento negativo proposta in relazione all’accertamento ispettivo.

Sempre in argomento Sez. L, n. 01558/2020, Mancino, Rv. 656653-01, ha affermato che l’azione proposta contro l’iscrizione a ruolo dei contributi previdenziali prima di una intimazione di pagamento è una opposizione all’esecuzione, quindi un’ordinaria azione di accertamento negativo del credito a cognizione piena, sicché la ritenuta decadenza dall’iscrizione, e la conseguente illegittimità della stessa, non esimono il giudice dalla verifica della fondatezza della pretesa contributiva, nell’an e nel quantum, seppure l’ente previdenziale si sia limitato a chiedere il mero rigetto dell’opposizione, senza formulare alcuna specifica domanda al fine di sollecitare la cognizione in ordine alla sussistenza dell’obbligazione, e senza che costituisca domanda nuova la successiva richiesta di condanna dell’opponente al pagamento del credito di cui alla cartella.

Deve segnalarsi infine Sez. L, n. 19983/2020, Buffa, Rv. 658847-01, che con specifico riferimento al giudizio relativo al debito contributivo dell’impresa coltivatrice diretta, determinato in relazione al lavoro dei familiari del titolare, ha escluso la sussistenza di un litisconsorzio necessario tra quest’ultimo ed i predetti familiari, atteso che l’obbligo contributivo nei confronti dell’istituto previdenziale grava sul titolare dell’impresa e non sui lavoranti nella stessa.

8. Le sanzioni civili.

Sez. L, n. 17606/2020, Cavallaro, Rv. 658888-01, in tema di sanzioni per omesso o ritardato versamento di contributi previdenziali, ha ritenuto che le somme percepite da una Fondazione di diritto privato, per le prestazioni sanitarie somministrate in convenzione nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale, non rientrano nella nozione di contributi e finanziamenti pubblici previsti per legge o convenzione, di cui all’art. 1, comma 221, della l. n. 662 del 1996, la cui ritardata erogazione giustifica la riduzione, al tasso di interesse legale, delle sanzioni civili dovute.

9. La prescrizione dei crediti contributivi.

Sez. L, n. 18661/2020, Berrino, Rv. 658445-01, ha affermato che l’azione risarcitoria del prestatore di lavoro nei confronti del datore che abbia omesso il versamento dei contributi si prescrive nell’ordinario termine decennale, chiarendo al riguardo che il termine decorre dalla data di prescrizione del credito contributivo dell’INPS, senza che rilevi la conoscenza o meno da parte del lavoratore della omissione contributiva.

In tema di iscrizione a ruolo dei crediti degli enti previdenziali Sez. L, 18140/2020, Ghinoy, Rv. 658644-01, ha peraltro specificato che, in forza dell’art. 1 del d.lgs. n. 462 del 1997, poiché, all’esito della unificazione delle procedure di accertamento e riscossione dei contributi e delle imposte sui redditi, l’Agenzia delle entrate svolge un’attività di controllo e richiede anche il pagamento dei contributi e premi omessi o evasi, la notifica dell’avviso di accertamento dei contributi previdenziali compiuto dalla Guardia di Finanza - che, ai sensi dell’art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973, coopera con gli uffici delle imposte per l’acquisizione e il reperimento degli elementi utili ai fini dell’accertamento dei redditi e per la repressione delle violazioni delle leggi sulle imposte dirette - costituisce idoneo atto di interruzione della prescrizione anche in favore dell’INPS.

  • amianto
  • malattia
  • mobilità della manodopera
  • vaccinazione
  • maternità
  • assegno
  • disoccupazione

CAPITOLO XXII

LE PRESTAZIONI PREVIDENZIALI E ASSISTENZIALI

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 La presentazione della domanda amministrativa. - 2 La decadenza dall’azione giudiziaria. - 2.1 L’improcedibilità dell’azione giudiziaria. - 3 L’anzianità contributiva e la contribuzione figurativa. - 4 Le prestazioni pensionistiche. - 5 C.I.G. e indennità di mobilità. - 6 L’indennità di disoccupazione. - 7 L’indennità di malattia. - 8 L’indennità di maternità. - 9 Le prestazioni assistenziali. - 9.1 La decadenza di cui all’art. 42 d.l. n. 269 del 2003 - 9.2 L’assegno sociale. - 9.3 Altre questioni in materia di prestazioni assistenziali. - 10 Le prestazioni ai soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie. - 11 Le prestazioni a beneficio delle vittime del dovere. - 12 Il diritto alla costituzione della posizione assicurativa. - 13 Il trattamento di reversibilità ex art. 9 legge 1 dicembre 1970, n. 898 - 14 I benefici per i lavoratori esposti all’amianto

1. La presentazione della domanda amministrativa.

Anche nel corso del 2020 si è data continuità al principio generale della necessità della domanda amministrativa per tutte le controversie di cui all’art. 442 c.p.c. nella materia previdenziale e nell’assistenza sociale.

Sez. L, n. 06642/2020, Ghinoy, Rv. 657189-01, in conformità a Sez. L, n. 29236/2011, Filabozzi, Rv. 620107-01, ha riaffermato che quando sia in contestazione la prestazione previdenziale, la domanda giudiziaria deve essere preceduta, a pena di improponibilità, dalla domanda amministrativa, alla cui carenza non può supplire, il provvedimento ispettivo di interdizione ex art. 17 del d.lgs. n. 151 del 2001, che, avendo mera funzione di legittimazione dell’assenza dal lavoro, non può tenere luogo dell’istanza per la corresponsione dei benefici economici da parte dell’ente previdenziale.

I giudici di merito avevano ritenuto che, nel caso di astensione anticipata dal lavoro per maternità, la relativa prestazione fosse condizionata, esclusivamente, alla presentazione della richiesta alla competente Direzione provinciale del lavoro ed al conseguente provvedimento di ammissione che, invece, nella decisione della Corte è stato qualificato come mero “fatto di legittimazione e condicio iuris della riconducibilità dell’assenza dal lavoro allo stato di gravidanza e della sua riconducibilità come assenza determinata da uno degli eventi protetti”.

La Corte è poi tornata, in tema di invalidità civile, sulla questione della necessità della domanda amministrativa ai fini del ripristino della prestazione già in godimento, ma revocata a seguito di visita di verifica effettuata dalla commissione medica.

Sez. L, n. 27355/2020, Calafiore, Rv. 659660-01 ha ribadito quanto già affermato da Sez. 6-L, n. 6590/2014, Blasutto, Rv. 629902-01 nel senso che, in materia di invalidità civile, la revoca della prestazione assistenziale, seppure intervenuta a seguito di una verifica amministrativa disposta dalla legge al fine di accertare la permanenza dei relativi requisiti, determina l’estinzione del diritto, con la conseguenza che l’interessato, per ottenere il ripristino della prestazione, è tenuto a proporre nuovamente l’istanza amministrativa di concessione (conforme Sez. L, n. 28445/2019, Calafiore, Rv. 655848-01).

In punto di modalità di presentazione della domanda amministrativa a mezzo di procuratore, Sez. 6-L, n. 04280/2020, Riverso, Rv. 657301-01 ha affermato il principio secondo cui la domanda amministrativa, avente ad oggetto una prestazione previdenziale, è un atto giuridico in senso stretto di cui la legge predetermina gli effetti, senza che rilevi la volontà di produrli, ed alla quale non si applica la regola prevista dall’art. 1392 c.c., secondo cui la procura deve rivestire la stessa forma del contratto che il rappresentante deve concludere, estensibile ex art. 1394 c.c. solo agli atti unilaterali negoziali; ne consegue che la procura per la presentazione di una domanda amministrativa, in quanto non soggetta ad oneri formali, può risultare anche da comportamenti concludenti, essendo sufficiente che il mandatario sia investito del potere rappresentativo, la cui sussistenza può essere dimostrata con ogni mezzo di prova, comprese le presunzioni.

In particolare, la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto invalida la domanda amministrativa per il riconoscimento del beneficio della rivalutazione contributiva per esposizione ultradecennale ad amianto ex art. 13 della l. n. 257 del 1992 presentata da un avvocato, perché priva della procura rilasciata dal cliente, pur menzionata nel testo, senza verificare se l’esistenza di un mandato verbale potesse desumersi dalla nomina dello stesso difensore a mezzo di procura apposta in calce al ricorso di primo grado.

La Corte ha richiamato il principio generale della libertà delle forme per cui la procura può risultare anche solo da un comportamento univoco e concludente, idoneo a rappresentare che l’atto sia compiuto per un altro soggetto nella cui sfera giuridica sia destinato a produrre effetti.

La sentenza ha ricordato le fattispecie della richiesta di pagamento (Sez. L, n. 07097/2012, Arienzo, Rv. 622705-01), della richiesta di risarcimento danno anche se rivolta all’assicuratore (Sez. 3, n. 01444/2000, Preden, Rv. 533674-01) e della ricezione della prestazione per cui, anche in tal caso, l’art. 1392 c.c. sulla forma della procura non trova applicazione, potendo la rappresentanza a ricevere l’adempimento ex art. 1188, comma 1, c.c. risultare da una condotta concludente e, dimostrabile con ogni mezzo ed anche con presunzioni (Sez. 2, n. 20345/2015, Manna F., Rv. 636599-01; Sez. 3, n. 11737/2018, Giaime Guizzi, Rv. 648607-01).

Per contro, invece, si è affermata la natura negoziale dell’impugnativa di licenziamento per cui la relativa procura deve risultare per iscritto (Sez. U, n. 02179/1987, Menichino, Rv. 451409-01).

Passando all’esame del profilo probatorio, la Corte ha ricordato la possibilità di ricorrere a presunzioni ex art. 2729 c.c. (sul punto Sez. L, n. 02965/2017, De Gregorio, Rv.643072-01), evidenziando di avere già riconosciuto, proprio in materia previdenziale, che il conferimento della procura alle liti ad un legale, per il recupero del credito in via giudiziaria relativo ad interessi e rivalutazione su ratei pensionistici, costituisce argomento di prova per dedurne che lo stesso difensore avesse ricevuto il mandato per ottenere in via stragiudiziale il pagamento del medesimo credito (Sez. L, n. 09046/2007, Battimiello, Rv.596176-01).

In relazione alla fattispecie, la Corte ha messo in rilievo la circostanza che la domanda amministrativa all’INPS per ottenere una prestazione non costituisce un negozio giuridico, ma un “atto in senso stretto” funzionale alla promozione di un procedimento disciplinato dalla legge (anche con riguardo ai compiti dell’INPS conseguenti alla domanda) e di cui l’istanza è mero presupposto.

2. La decadenza dall’azione giudiziaria.

In tema di decadenza ex art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, è stato precisato che è irrilevante l’eventuale riproposizione della domanda amministrativa o la richiesta di chiarimenti dell’assicurato.

Sul punto Sez. L, n. 17792/2020, D’Antonio, Rv. 658590-01 ha chiaramente affermato che in tema di decadenza dall’azione giudiziaria per il conseguimento di determinate prestazioni previdenziali, l’art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 (nel testo modificato dall’art. 4 del d.l. n. 384 del 1992, conv., con modif., dalla l. n. 438 del 1992) prevede una decadenza sostanziale “di ordine pubblico” in quanto la sua funzione è quella di tutelare la certezza delle determinazioni concernenti erogazioni di spesa gravanti sui bilanci pubblici; il “dies a quo” è, dunque, ancorato alla data di presentazione dell’originaria domanda in sede amministrativa, risultando irrilevante, a tal fine, una eventuale riproposizione della domanda o una richiesta dell’assicurato di chiarimenti.

Sul punto la Corte ha operato un sostanziale richiamo a quanto già deciso dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 12718/2009, Vidiri, Rv. 608222-01) e specificato che la predetta funzione di tutela della certezza delle determinazioni concernenti le erogazioni gravanti sui bilanci pubblici (da qui la rilevabilità in ogni stato e grado del giudizio con il solo limite del giudicato e l’esclusione della “disponibilità” della stessa da parte dell’INPS) verrebbe frustrata se si ritenesse che la semplice riproposizione della domanda o una richiesta di chiarimenti permettesse il venir meno degli effetti decadenziali già verificatisi o un arbitrario prolungamento degli stessi o, ancora, una diversa individuazione del dies a quo.

La Corte è intervenuta anche in merito alle modifiche introdotte all’art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 dall’art. 38 d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. dalla legge n. 15 luglio 2011, n. 111, secondo cui le decadenze previste dalla prima disposizione si applicano anche alle azioni giudiziarie aventi ad oggetto l’adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito e che, in tal caso, il termine di decadenza decorre dal riconoscimento parziale della prestazione ovvero dal pagamento della sorte capitale.

Il quarto comma dell’art. 38 citato aveva previsto l’applicazione delle nuove norme ai giudizi pendenti in primo grado; tale disposizione è stata dichiarata incostituzionale dalla sentenza della Corte costituzionale n. 69 del 2014.

A tale proposito Sez. L, n. 22070/2020, Buffa, Rv. 659054-01 ha affermato che in tema di decadenza delle azioni giudiziarie, volte ad ottenere la riliquidazione di una prestazione pensionistica parzialmente riconosciuta, l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 - come modificato dall’art. 38, comma 1, lett. d), del d.l. n. 98 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 111 del 2011 - anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore del predetto d.l., ai sensi della previsione contenuta nel comma 4 del citato art. 38 (poi dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza della Corte costituzionale n. 69 del 2014), presuppone che il giudizio di primo grado non sia stato ancora definito con sentenza, restando irrilevante che quest’ultima possa essere ancora impugnata, giacché la “ratio” della previsione in questione è quella di consentire al giudice di primo grado di tener conto delle nuove disposizioni ai fini della pronunzia.

La Corte ha dunque ritenuto infondato il ricorso dell’INPS - anche a prescindere dall’intervento, sopravvenuto al ricorso, del giudice delle leggi -, incentrato sulla sussistenza della pendenza della lite in primo grado, per non essere stata ancora notificata la sentenza alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni e per essere ancora pendente il termine “lungo” per impugnarla.

L’infondatezza è stata ritenuta a prescindere dall’intervento della Corte costituzionale (sopravvenuto al ricorso in cassazione) e la relativa delibazione è stata compiuta ai fini della regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

È stato così ritenuto maggiormente confacente alla fattispecie considerata una nozione di pendenza della lite ancorata al fatto che con la pronuncia della sentenza di primo grado il giudice si spoglia dei poteri decisori e quella decisione costituisce il limite per l’applicazione retroattiva delle disposizioni sopravvenute.

Ciò facendo la Corte ha richiamato quanto già deciso dalle Sezioni Unite penali con la sentenza n. 47008/2009, Rv. 244810-01 con la quale è stato affermato che la pronuncia della sentenza di primo grado determina la pendenza del procedimento in grado di appello.

Dunque, stando alla ratio della novità normativa, è stato ritenuto che essa, “nel prevedere l’applicazione delle nuove norme ai giudizi pendenti in primo grado, intende consentire al giudice di primo grado di tener conto delle nuove disposizioni, ciò che presuppone che il giudice di primo grado non si sia ancora pronunciato sulla controversia; una volta che il giudice si sia pronunciato, infatti, è ragionevole interpretare la norma nel senso che essa abbia disposto l’inapplicabilità della nuova disciplina, essendo incongruo – come deriverebbe dall’opposta interpretazione – che il giudice d’appello possa accertare la decadenza dell’assistito dall’azione giudiziaria sebbene analoga facoltà non competa al giudice di primo grado”.

Interessante il principio pronunciato in tema di decadenza e domanda amministrativa relativa al riscatto del corso di laurea da Sez. L, n. 13630/2020, Cavallaro, Rv. 658189-01 secondo cui il termine di decadenza di cui all’art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 non si applica alla domanda amministrativa di riscatto del corso di laurea, atteso che l’art. 47 concerne le controversie in materia di trattamenti pensionistici propriamente detti, nonché quelle che, pur riguardando il rapporto contributivo, mirano a ottenere lo specifico beneficio del riconoscimento di una contribuzione figurativa in vista dell’incremento del trattamento pensionistico futuro, mentre l’istituto del riscatto, essendo finalizzato, mediante il pagamento della riserva matematica ex art. 13 della l. n. 1338 del 1962, alla copertura assicurativa di un periodo in cui l’interessato, per essersi dedicato allo studio, non ha potuto ottenere il versamento dei contributi che avrebbe invece conseguito se avesse lavorato, attiene a un rapporto preliminare e diverso rispetto a quello previdenziale.

Con tale decisione la Corte si è posta in consapevole contrasto con altre precedenti decisioni con le quali, invece, è stato affermato il contrario principio in base al quale la domanda di riscatto del corso di laurea rientra tra le prestazioni previdenziali previste a favore di determinati lavoratori subordinati, sicché ad essa sarebbe applicabile il termine di decadenza di cui all’art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, fermo restando che la maturazione del termine non escluderebbe che il riscatto possa essere chiesto successivamente, ancorché con riferimento ai parametri retributivi in atto alla data della nuova domanda (in tal senso Sez. L, n. 20924/2018, Berrino, Rv. 650136-01 e Sez. L, n. 15521/2008, Celentano, Rv. 603633-01).

Il mutamento di giurisprudenza è stato giustificato sia con il dato letterale del citato art. 47, che con riguardo alla “ratio” della norma.

Sotto il profilo letterale è stato evidenziato che l’art. 47 assoggetta l’azione giudiziaria al termine di decadenza nell’ipotesi di controversie “in materia di trattamenti pensionistici” e di “controversie in materia di prestazioni della gestione di cui all’articolo 24 della legge 9 marzo 1989, n. 88” e che la controversia che attiene alla sussistenza del diritto al riscatto del periodo di laurea non rientra tra quelle che riguardano i “trattamenti pensionistici” e neppure tra quelle relative ai benefici contributivi speciali idonei ad incrementare a totale carico del sistema previdenziale pubblico le provvidenze spettanti all’assicurato (per le quali la giurisprudenza ammette l’applicabilità del regime decadenziale escludendo, tuttavia, che in quel caso la decadenza comporti la conseguenza dell’estinzione definitiva del diritto e l’impossibilità di conseguirlo con altra domanda).

2.1. L’improcedibilità dell’azione giudiziaria.

Sotto il diverso profilo della improcedibilità dell’azione giudiziaria per il mancato rispetto del termine di cui all’art. 22 d.l. 3 febbraio 1970, n. 7, conv. con modif., dalla legge 11 marzo 1970, n. 83, Sez. 6-L, n. 17653/2020, Riverso, Rv. 658938-01 ha ribadito che in tema di iscrizione negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli, l’inosservanza del termine di centoventi giorni previsto dall’art. 22 del d.l. n. 7 del 1970, conv. con modif., dalla l. n. 83 del 1980, per la proposizione dell’azione giudiziaria a seguito della notifica, o presa di conoscenza, del provvedimento definitivo di iscrizione o mancata iscrizione nei predetti elenchi, ovvero di cancellazione dagli stessi, determina, in quanto relativa al compimento di un atto di esercizio di un diritto soggettivo, la decadenza sostanziale del privato, che non solo è sottratta alla sanatoria prevista dall’art. 8 della l. n. 533 del 1973, ma, riguardando una materia sottratta alla disponibilità delle parti, è anche rilevabile di ufficio dal giudice in ogni stato e grado del giudizio, a norma dell’art. 2969 c.c., salvo il limite del giudicato interno.

In tal senso anche la conforme Sez. L, n. 09622/2015, Doronzo, Rv. 635395-01.

Si tratta di un’ipotesi decadenziale che riguarda non già l’estinzione del diritto, quanto, piuttosto, l’improcedibilità dell’azione giudiziaria, come segnalato nell’ordinanza del 2020 sopra citata e come specificato da Sez. L., n. 06229/2019, Spena, Rv. 653142-01 con la quale è stato precisato che in tema di indennità di disoccupazione agricola, l’iscrizione negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli costituisce presupposto per l’attribuzione della prestazione previdenziale, che, pertanto, non può essere riconosciuta in difetto di impugnazione del provvedimento amministrativo di esclusione da tali elenchi nel termine decadenziale di cui all’art. 22 del d.l. n. 7 del 1970, conv. con modif. dalla l. n. 83 del 1970.

3. L’anzianità contributiva e la contribuzione figurativa.

La Corte ha avuto modo di intervenire in diverse occasioni sul tema del riconoscimento della contribuzione in relazione ai periodoi in cui non è stata svolta alcuna attività lavorativa.

Relativamente alla questione della contribuzione figurativa a favore dei lavoratori vittime delle persecuzioni politiche e razziali, Sez. L, n. 06096/2020, D’Antonio, Rv. 657173-01 ha ribadito quanto già deciso da Sez. L, n. 11708/2019, Ghinoy, Rv. 653831-01, affermando che in tema di benefici previdenziali a favore dei perseguitati per motivi razziali, il riferimento alla “retribuzione attuale della categoria e qualifica professionale posseduta dagli interessati nei periodi di persecuzione”, contenuto nell’art. 1 della l. n. 1424 del 1965, di interpretazione autentica dell’art. 5 della l. n. 96 del 1955, come modificato dall’art. 3 della l. n. 284 del 1961, ha la finalità di imporre all’ente previdenziale un comportamento analogo a quello che avrebbe dovuto osservare qualora, nel periodo di persecuzione, i contributi fossero stati effettivamente versati e costituisce dunque la base di computo della contribuzione relativa al periodo di copertura figurativa, ma non anche il parametro di calcolo dell’importo del trattamento pensionistico, che deve essere sempre effettuato in applicazione delle regole di volta in volta dettate per la sua determinazione al momento del collocamento in quiescenza.

Sez. L, n. 07484/2020, Mancino, Rv. 657441-01 ha affermato che il periodo trascorso presso l’Accademia navale, valorizzabile ai fini dell’accredito della contribuzione figurativa, non può essere superiore al periodo della durata della ferma di leva (nella specie pari a ventiquattro mesi, ai sensi dell’art. 81 del d.P.R. n. 237 del 1964), perché la “ratio” dell’art. 49 della l. n. 153 del 1969 è tesa ad evitare che i soggetti protetti subiscano pregiudizio nella fruizione futura delle prestazioni previdenziali in relazione ad eventi che ne impediscano l’attività lavorativa, esigenza evidentemente non configurabile in caso cd rafferma volontaria.

La Corte ha messo in rilievo la differenza tra il servizio militare di leva obbligatorio, nella durata prevista dalle norme applicabili “ratione temporis”, e quello espletato su domanda del militare. che è frutto della sua libera scelta di proseguire gli anni di corso successivi.

Tanto anche in virtù del fatto che l’obbligo di mantenimento degli allievi delle Accademie è posto a carico esclusivo dello Stato per i primi due anni dei corsi e, pertanto “sarebbe distonico porre gli oneri di contribuzione figurativa a carico della sicurezza sociale, anche per gli anni successivi al secondo in cui lo Stato neanche risulta più dover sostenere l’onere economico per il mantenimento degli allievi”.

Il principio di diritto affermato si pone in dichiarata continuità con quanto precedentemente deciso da Sez. L, n. 00262/2008, Lamorgese A., Rv. 600974-01 e Sez. L, n. 08606/1999, Lamorgese A., Rv. 529303-01.

Sez. L, n. 07698/2020, Ghinoy, Rv. 657522-01 è intervenuta in punto di rapporto tra contribuzione figurativa ed aspettativa sindacale e, con principio inedito, ha precisato che, in tema di aspettativa sindacale ex art. 31 della l. n. 300 del 1970, la base di calcolo della contribuzione figurativa da prendere in esame a fini pensionistici è costituita dalla retribuzione prevista dal c.c.n.l. per qualifica ed anzianità di servizio del lavoratore, con esclusione degli emolumenti collegati all’effettiva prestazione dell’attività lavorativa, come si evince dall’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 564 del 1996, che, attraverso il chiaro riferimento alla contrattazione collettiva, esclude che possano avere valore di fonte regolativa della retribuzione figurativa gli usi aziendali, nonché eventuali pattuizioni individuali, avuto riguardo, da un lato, alle esigenze di uniformità e prevedibilità cui risponde la tutela dell’attività sindacale posta a carico della collettività, e, dall’altro, alla natura indisponibile della materia previdenziale.

Ha così escluso il diritto all’inclusione nella retribuzione figurativa del premio di produzione e di altri incentivi correlati allo svolgimento effettivo della prestazione lavorativa, nonostante gli emolumenti in questione fossero stati riconosciuti per prassi aziendale alla generalità dei dipendenti, a prescindere dalla loro presenza in servizio.

Il percorso argomentativo seguito dalla Corte ha preso in esame, principalmente l’art. 8, comma 8, della legge n. 23 aprile 1981, n. 155 che individua le retribuzioni da riconoscere ai fini del calcolo della pensione ai lavoratori in aspettativa sindacale stabilendo che esse “sono commisurate alla retribuzione della categoria e qualifica professionale posseduta dall’interessato al momento del collocamento in aspettativa e di volta in volta adeguate in relazione alla dinamica salariale e di carriera della stessa categoria e qualifica. Per i lavoratori collocati in aspettativa da partiti politici o da organizzazioni sindacali, che non abbiano regolato mediante specifiche normative interne o contrattuali il trattamento economico del personale, si prendono in considerazione ai fini predetti le retribuzioni fissate dai contratti nazionali collettivi di lavoro per gli impiegati dalle imprese metalmeccaniche”.

Inoltre l’art. 3, comma 4, del d.lgs. 16 settembre 1996, n. 564 ha stabilito che “le retribuzioni figurative accreditabili ai sensi dell’art. 8, comma 8, della l. n. 155 del 1981, sono quelle previste dai contratti collettivi di lavoro della categoria e non comprendono emolumenti collegati alla effettiva prestazione dell’attività lavorativa o condizionati ad una determinata produttività o risultato di lavoro né incrementi o avanzamenti che non siano legati alla sola maturazione dell’anzianità di servizio”.

A seguito del riferimento al contratto collettivo, è stato escluso, pertanto, che possano avere valore di fonte regolativa gli usi aziendali o le pattuizioni individuali poiché la normativa “individua (…) una perimetrazione dell’attività sindacale prevista a carico della collettività dettata da esigenze di uniformità e prevedibilità, il che del resto è coerente con la natura dell’intervento pubblico e con la natura indisponibile della materia previdenziale”.

Sez. L, n. 23611/2020, Cavallaro, Rv. 659263-01 ha affermato che, in relazione alle domande amministrative presentate nella vigenza del d.lgs. n. 151 del 2001, per il riconoscimento del diritto all’accredito di contributi figurativi relativamente a periodi corrispondenti all’astensione obbligatoria per maternità, verificatisi al di fuori di un rapporto di lavoro, il diritto in questione può essere riconosciuto solo nella sussistenza delle condizioni previste dall’art. 25, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 151, richiedendo la suddetta disposizione normativa che, al tempo dell’entrata in vigore del d.lgs. suddetto, l’istante non sia titolare di un trattamento pensionistico, sia iscritto a un’assicurazione di lavoro dipendente (sia essa quella ordinaria, ovvero sostitutiva od esclusiva) e possa far valere almeno cinque anni di contribuzione versati in costanza di rapporto di lavoro.

In tal modo la Corte ha ribadito quanto precedentemente affermato con decisioni conformi da Sez. 6-L, n. 01358/2015, Blasutto, Rv. 634190-01 e Sez. L, n. 15784/2011, Coletti De Cesare, Rv. 618674-01.

Sul piano processuale rileva quanto deciso da Sez. L, n. 21299/2020, Cinque, Rv. 658989-01, ovvero che nella controversia instaurata dal lavoratore per ottenere, per effetto dell’applicazione dei benefici combattentistici, il riconoscimento di un aumento fittizio di anzianità contributiva (normalmente di sette anni, ovvero di dieci anni nei casi di mutilati o invalidi di guerra o di vittime civili di guerra) sia al fine del compimento dell’ anzianità necessaria per conseguire il diritto a pensione, sia ai fini della quantificazione della pensione stessa, il contraddittore principale è l’ente previdenziale, ma il datore di lavoro è parte necessaria del giudizio stesso in quanto è interessato a contrastare la suddetta pretesa, essendo tenuto a versare all’ente previdenziale il “corrispettivo in valore capitale dei benefici” in argomento.

Sul punto l’ordinanza ha richiamato il precedente conforme Sez. L, n. 09046/2001, Amoroso, Rv. 547891-01 sostenendo, peraltro, l’irrilevanza della circostanza che il datore di lavoro sia pubblico o privato.

Sez. L, n. 00399/2020, Calafiore, Rv. 656529-01 è invece intervenuta sulla natura giuridica del credito dell’INPS, rispetto al datore di lavoro, relativo al rimborso delle somme erogate al lavoratore a titolo di indennità e di contribuzione figurativa afferenti al regime della cd. mobilità lunga, affermandone l’ascrivibilità all’ampia categoria dei contributi previdenziali e la collocazione privilegiata ai sensi dell’art. 2754 c.c.

La decisione ha preso posizione in ordine al regime prescrizionale applicabile alla contribuzione figurativa accreditata affermandone l’assimilabilità integrale all’ampia categoria dei contributi previdenziali con la conseguente assoggettabilità alla disciplina della prescrizione di cui all’art. 3, comma 9, della legge 8 agosto 1995, n. 335 estesa agli oneri economici relativi alla mobilità eccedente quella ordinaria, all’erogazione al lavoratore della prestazione economica ed alla contribuzione figurativa.

Con riguardo alla natura privilegiata del credito dell’INPS per la contribuzione in esame, la Corte ha escluso l’applicabilità dell’art. 2751 bis c.c., che riguarda i crediti retributivi e risarcitori di cui è titolare il lavoratore, ed ha sostenuto l’applicabilità dell’art. 2754 c.c. richiamando il proprio precedente arresto con il quale è stato affermato che “tra le assicurazioni comprese nella dizione <<forme di tutela previdenziale ed assistenziale>> rientra ad esempio quella per la malattia dato che, in coerenza con le enunciazioni di Corte costituzionale n. 526 del 1990, l’interpretazione va condotta a partire dalla ricognizione della causa del credito, in considerazione della quale la legge accorda il privilegio, causa che non consiste nella tutela del lavoratore subordinato, ma nell’interesse pubblico al reperimento ed alla conservazione delle fonti di finanziamento dell’assistenza e della previdenza sociale, nell’ambito dell’art. 38 Cost.” (Sez. 1, n. 08743/1992, Sgroi, Rv. 478259-01).

Quanto alla particolare ipotesi del personale civile alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, la Corte ha fatto applicazione del principio generale, secondo il quale le norme che stabiliscono determinati benefici contributivi hanno natura eccezionale e non si estendono oltre i casi in esse previsti, affermando che il beneficio dell’aumento di un quinto ai fini della liquidazione e riliquidazione delle pensioni previsto dall’art. 3, comma 5, della l. n. 284 del 1977 per il corpo di polizia penitenziaria non si estende al personale civile della suddetta amministrazione, sia perché la maggiorazione è conseguenza della percezione della “indennità per servizi d’istituto” spettante solo alle forze di polizia (mentre per il personale civile è prevista la diversa “indennità di servizio penitenziario”), sia perché nel pubblico impiego vige il principio generale secondo cui le norme che attribuiscono benefici in deroga alle regole ordinarie non si estendono ai soggetti che non ne sono destinatari (Sez. L, n. 12200/2020, Bellè, Rv. 658100-01).

4. Le prestazioni pensionistiche.

In merito all’interpretazione dell’art. 5 della legge 12 agosto 1962, n. 1338 secondo cui “l’assicurato cui sia stata liquidata o per il quale, sussistendo il relativo diritto, sia in corso di liquidazione la pensione a carico di un trattamento di previdenza sostitutiva dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti o che ne comporti l’esclusione o l’esonero, ha facoltà di chiedere la liquidazione di una pensione supplementare in base ai contributi versati o accreditati nell’assicurazione stessa qualora detti contributi non siano sufficienti per il diritto a pensione autonoma”, Sez. L, n. 24137/2020, Calafiore, Rv. 659282-01 ha statuito che hanno facoltà di chiedere la liquidazione di una pensione supplementare, a carico dell’assicurazione generale per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, soltanto i titolari di trattamento pensionistico conseguito per effetto di una prestazione di lavoro dipendente, e non anche i lavoratori autonomi; tale esclusione vale anche per i lavoratori autonomi che siano titolari di pensione (diretta o di reversibilità) presso la gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995, senza possibilità di estendere loro quanto stabilito dall’art. 1 del d.m. n. 282 del 1996, che disciplina il diverso caso dei titolari di un trattamento pensionistico come lavoratori dipendenti o autonomi, che siano anche iscritti alla gestione separata, e che avendo versato a quest’ultima contributi insufficienti a ottenere una pensione autonoma, hanno diritto alla pensione supplementare in base al citato art. 5, a carico tuttavia della gestione separata.

Si tratta di decisione che conferma l’orientamento espresso con Sez. L, n. 03569/2004, Picone, Rv. 570409-01.

In due sentenze la Corte ha esaminato il rapporto tra deroga all’innalzamento dell’età pensionabile e contribuzione volontaria di cui all’art. 1, comma 8, della legge 23 agosto 2004, n. 243.

Tale norma prevede che “le disposizioni in materia di pensionamenti di anzianità vigenti prima della data di entrata in vigore della presente legge continuano ad applicarsi ai lavoratori che, antecedentemente alla data del 20 luglio 2007, siano stati autorizzati alla prosecuzione volontaria della contribuzione”.

Sez. L, n. 02926/2020, Ghinoy, Rv. 656700-01 ha confermato quanto già deciso da Sez. L, n. 12369/2019, Fernandes, Rv. 653757-01, ossia che in tema di pensione di anzianità, la deroga all’innalzamento dell’età pensionabile prevista dall’art. 1, comma 8, della l. n. 243 del 2004, come modificato dalla l. n. 247 del 2007, si applica anche in caso di integrazione volontaria della contribuzione in costanza di rapporto di lavoro, di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 564 del 1996, in considerazione della assenza di diversità ontologica tra tale ipotesi e quella della prosecuzione volontaria della contribuzione, disciplinata dall’art. 1 della l. n. 47 del 1983.

Sez. L, n. 07090/2020, Ghinoy, Rv. 657438-01 ha invece affermato che in tema di pensione di anzianità, la deroga all’innalzamento dell’età pensionabile prevista dall’art. 1, comma 8, della l. n. 243 del 2004, come modificato dalla l. n. 247 del 2007, si applica quando sia stato autorizzato il versamento della contribuzione volontaria prima del 20 luglio 2007, senza che abbia rilievo la data dei relativi versamenti, trattandosi di deroga volta a tutelare i soggetti che abbiano acquisito i requisiti pensionistici facendosi carico personalmente di eseguire il pagamento dei contributi e che, a causa delle modifiche normative introdotte, si verrebbero a trovare nella impossibilità di accedere al pensionamento.

La Corte è tornata, poi, sul regime delle “finestre” ribadendo quanto già deciso da Sez. L, n. 29191/2018, Calafiore, Rv. 651692-01; Sez. L, n. 02382/2020, Riverso, Rv. 656988-01 ha confermato che in tema di pensione di vecchiaia anticipata, di cui all’art. 1, comma 8, del d.lgs. n. 503 del 1992, il regime delle cd. “finestre” previsto dall’art. 12 del d.l. n. 78 del 2010 (conv., con modif., dalla l. n. 122 del 2010) si applica anche agli invalidi in misura non inferiore all’ottanta per cento, come si desume dal chiaro tenore testuale della norma, che individua in modo ampio l’ambito soggettivo di riferimento per lo slittamento di un anno dell’accesso alla pensione di vecchiaia, esteso non solo ai soggetti che, a decorrere dall’anno 2011, maturano il diritto a sessantacinque anni per gli uomini e a sessanta anni per le donne, ma anche a tutti i soggetti che “negli altri casi” maturano il diritto all’accesso al pensionamento di vecchiaia “alle età previste dagli specifici ordinamenti”.

In ordine alla peculiare fattispecie della c.d. clausola oro prevista dall’art. 30 del regolamento di previdenza e quiescenza del personale dello SCAU, la Corte si è pronunciata sulla sua compatibilità con la disposizione di cui all’art. 59, comma 4, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 che comporta la soppressione, dal 1.1.1998, dei meccanismi di adeguamento diversi da quello previsto dall’art. 11 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, anche se collegati all’evoluzione delle retribuzioni del personale in servizio.

Sez. L, n. 20680/2020, Mancino, Rv. 658918-01 ha dunque statuito che la disciplina di cui all’art. 59, comma 4, della l. n. 449 del 1997 si applica anche al personale ex SCAU sicché, a far tempo dal 1 gennaio 1998, è impedita la riliquidazione automatica della pensione in godimento al personale dell’ente disciolto, senza che rilevi il trattamento più favorevole previsto dal regolamento SCAU, stante la preminenza della fonte legislativa sulla regolamentare, di cui non può quindi invocarsi la specialità ai fini della ultrattività.

La Corte ha negato rilevanza al carattere speciale del regolamento SCAU rispetto alle regole dell’art. 59 trattandosi di norme di rango diverso; disposizioni alle quali non può essere assegnata efficacia ultrattiva o perdurante vigenza.

5. C.I.G. e indennità di mobilità.

In tema di rapporto tra indennità di mobilità e svolgimento di attività di lavoro autonomo si registra una importante pronuncia.

La questione alla quale la Corte è stata chiamata a dare soluzione è quella della permanenza dello stato di bisogno connesso alla disoccupazione involontaria nonostante lo svolgimento di attività lavorativa autonoma con il conseguente venir meno del diritto all’indennità di disoccupazione e di mobilità.

L’ipotesi esaminata è stata quella del lavoratore che già svolga, nella costanza del lavoro subordinato, un’attività di lavoro autonomo compatibile con l’altro ed abbia continuato a svolgerlo anche dopo il collocamento in mobilità.

Tale fattispecie è stata tenuta distinta dalla prestazione di attività di lavoro autonomo in costanza della mobilità (nel senso di attività “intrapresa” durante il periodo di mobilità) per la quale, la costante giurisprudenza di legittimità, esclude la compatibilità determinando la cessazione dello stato di bisogno connesso alla disoccupazione involontaria.

In tal senso Sez. L, n. 02497/2018, Calafiore, Rv. 647308-01 e Sez. L, n. 20826/2014, De Renzis, Rv. 632572.

Sez. L, n. 06943/2020, Ghinoy, Rv. 657515-01 ha invece statuito che lo svolgimento di attività di lavoro autonomo è incompatibile con la percezione dell’indennità di mobilità di cui all’art. 7 della l. n. 223 del 1991, tranne nel caso in cui il lavoratore già svolga, nella costanza del lavoro subordinato, anche un lavoro autonomo con esso compatibile, e lo continui a svolgere anche dopo il collocamento in mobilità.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto sussistente il diritto a percepire l’indennità di mobilità, da parte di un lavoratore che, dopo l’iscrizione nelle relative liste, aveva continuato a svolgere l’attività di amministratore di s.p.a., già svolta in precedenza.

La differenza, rispetto al caso dell’attività di lavoro autonomo successiva all’inizio della mobilità, è stata rinvenuta nel fatto che “la perdita del lavoro subordinato provoca comunque, anche nel caso in cui il lavoratore già prestasse attività autonoma con esso compatibile, la perdita della retribuzione e la decurtazione del reddito percepito prima del licenziamento e destinato alle esigenze di vita, che costituisce la giustificazione dell’intervento dell’ammortizzatore sociale in questione. Inoltre, l’iscrizione nelle liste di mobilità, con gli incentivi per le imprese che da esse assumono, costituisce un’agevolazione per il reingresso nel mondo del lavoro che deve comunque essere applicata al lavoratore in tal modo licenziato”.

La Corte ha concluso che, nel caso in esame, possono coesistere anche le diverse contribuzioni (effettiva e figurativa) per il medesimo periodo in quanto legate a presupposti differenti (iscrizione nelle liste di mobilità e prestazione di lavoro autonomo).

Sez. L, n. 10778/2020, Mancino, Rv. 657873-01 ha enunciato il principio secondo cui l’indennità di mobilità, prevista dagli artt. 7 e 16 della l. n. 223 del 1991 in favore dei lavoratori disoccupati in conseguenza di licenziamento per riduzione di personale, non spetta ai soci lavoratori di società ed enti cooperativi esercenti le attività indicate nell’elenco allegato al d.P.R. n. 602 del 1970, atteso che l’art. 16 della citata l. n. 223, nel testo vigente “ratione temporis”, prevedeva che la suddetta indennità fosse finanziata mediante il versamento di un contributo percentuale da calcolarsi sulle retribuzioni assoggettate al contributo integrativo per l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria, mentre ai soci lavoratori degli organismi cooperativi citati, prima del 2013, erano riconosciute dal d.lgs. n. 423 del 2001 solo alcune specifiche forme di previdenza e assistenza sociale, tra cui non rientrava l’assicurazione contro la disoccupazione involontaria.

Si tratta di fattispecie (lavoratori addetti a cooperative di facchinaggio, trasporto di persone e merci, attività ad esse preliminari, complementari ed accessorie, altre attività varie, quali servizi di guardia di terra, mare o campestre, polizia ed investigazioni private e simili) riguardante la normativa antecedente alle modifiche introdotte con legge 28 giugno 2012, n. 92 che ha esteso (art. 2, comma 38) l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria ai soci lavoratori delle cooperative di cui al d.P.R. n. 602 cit. e quello straordinario di integrazione salariale (art. 3, comma 1) ad alcune delle cooperative di cui al d.P.R. cit.

Dunque, la Corte ha concluso, tenuto conto dell’ampia ricostruzione della normativa disciplinante la materia, che solo a partire dal 2013 è stata avviata la protezione dalla disoccupazione involontaria per i soci lavoratori delle società e delle cooperative esercenti le attività indicate nell’allegato al citato d.P.R. n. 602.

Completando l’argomentare la Corte ha altresì escluso, relativamente alla disoccupazione involontaria, l’esistenza del corrispondente obbligo contributivo a norma dell’art. 16, comma 2, lett. a), della l. n. 223 del 1991, negando che la disciplina così descritta ponga profili di legittimità costituzionale “considerato che rientra nella discrezionalità del legislatore limitare la tutela nei confronti della disoccupazione involontaria in base alla natura e alle peculiari caratteristiche dell’attività lavorativa espletata”.

Sempre in tema di indennità di mobilità, Sez. L, n. 28350/2020, Calafiore, Rv. 659803-01 ha ritenuto che chi invoca l’indennità di mobilità di cui all’art. 7 della l. n. 223 del 1991 (“ratione temporis” vigente) è tenuto a provare di essere iscritto alle liste di mobilità, in ragione dello stato di disoccupazione involontaria in cui versa per aver perso il proprio posto di lavoro, nonché di avere la residenza nel territorio nazionale, non essendo sufficiente la deduzione di avere mantenuto un legame fisico ed umano col suddetto territorio.

Si tratta di una fattispecie in cui la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda, volta al conseguimento dell’indennità di mobilità, avanzata da un lavoratore che aveva trasferito da circa due anni la propria residenza all’estero, ritenendo non bastevole, a tal fine, la mera allegazione di suoi frequenti rientri presso l’abitazione italiana che avrebbero consentito l’osservanza degli obblighi derivanti dal regime di “condizionalità” previsto per le prestazioni di disoccupazione involontaria.

6. L’indennità di disoccupazione.

In tema di rivalutazione dell’indennità di disoccupazione agricola di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 497 del 1988, relativamente all’art. 13, d.l. 2 marzo 1974, n. 30 (conv. dalla legge 16 aprile 1974, n. 114), Sez. L, n. 17609/2020, Cavallaro, Rv. 658587-01 ha ribadito che la sentenza n. 497 del 1988, con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 del d.l. n. 30 del 1974, conv. dalla l. n. 114 del 1974, nella parte in cui non prevede un meccanismo di adeguamento del valore monetario dell’indennità di disoccupazione ivi indicato, esplica i propri effetti sui rapporti tra assicurato ed ente previdenziale non ancora esauriti nel giorno della sua pubblicazione, tali dovendosi ritenere quelli in cui l’assicurato abbia percepito l’indennità in un periodo di disoccupazione anteriore al detto giorno, e nella misura allora dovuta, senza essere incorso in alcuna decadenza o senza che il diritto si sia estinto per prescrizione o che sulla misura dell’indennità si sia formata la cosa giudicata; il giudice adito, pertanto, per la rivalutazione di detta indennità si deve attenere, per analogia, al criterio di calcolo di cui all’art. 150 disp. att. c.p.c. Resta strutturalmente estranea alla descritta fattispecie la disciplina dell’art. 7, comma 4, del d.l. n. 86 del 1988, conv. dalla l. n. 160 del 1988, nella parte in cui, prima della declaratoria d’illegittimità costituzionale ad opera della Corte costituzionale, con sentenza n. 288 del 1994, escludeva per i lavoratori agricoli aventi diritto al trattamento speciale di disoccupazione un qualsiasi adeguamento dell’indennità ordinaria spettante per le giornate eccedenti quelle di trattamento speciale, non potendosi derivare dal sistema normativo, quale risultante dalle pronunce del giudice delle leggi, il necessario collegamento tra la percezione del trattamento speciale di disoccupazione agricola ed il diritto alla rivalutazione dell’indennità ordinaria di disoccupazione.

Trattasi di orientamento consolidato per come affermato nella stessa motivazione dell’ordinanza (pag. 5 ove si richiama, fra le molte, Sez. L, n. 07507/1992, Roselli, Rv. 477815-01).

Con riferimento ai criteri di computo del biennio minimo assicurativo ai fini dell’indennità di disoccupazione di cui all’art. 19 r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636, Sez. L, n. 10865/2020, Ghinoy, Rv. 657923-01 ha deciso che l’indennità giornaliera di disoccupazione, di cui all’art. 19 del r.d.l. n. 636 del 1939, ha come presupposti il possesso di almeno due anni di assicurazione obbligatoria alla data di inizio della disoccupazione (requisito del minimo assicurativo), e di almeno un anno di contribuzione nel biennio precedente l’inizio del periodo di disoccupazione (requisito del minimo contributivo); in assenza di espressa previsione, per il computo del biennio minimo assicurativo va applicato il criterio generale previsto dall’art. 2963, comma 2, c.c., integrato con quello secondo cui i termini si computano secondo il calendario comune, ex nominatione dierum, sicchè la scadenza si individua mediante il conteggio a ritroso fino all’ultimo istante del giorno, mese ed anno corrispondente a quello da cui il termine decorre.

Infine, con riguardo alla contribuzione per la tutela dalla disoccupazione, si ricorda quanto deciso da Sez. L, n. 06635/2020, Berrino, Rv. 657187-01 nel senso che in tema di contribuzione per la mobilità, in forza dell’art 5, comma 4, della l. n. 223 del 1991 - nel testo vigente “ratione temporis” -, per il quale l’impresa datrice di lavoro è tenuta a versare alla gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali, in trenta rate mensili, una somma pari a sei volte il trattamento mensile iniziale di mobilità spettante al lavoratore, e del combinato disposto degli artt. 7, comma 1 e 2, e 16, comma 1, della stessa legge (ai sensi dei quali alcune categorie di lavoratori non hanno diritto all’indennità), le imprese sono tenute a versare il contributo a loro carico solo con riferimento alle posizioni dei dipendenti posti in mobilità che abbiano diritto all’indennità, ma non con riferimento alle posizioni dei dipendenti posti in mobilità non aventi diritto ad usufruire dell’indennità stessa.

La Corte ha inteso ribadire, in linea con una precedente decisione conforme (Sez. L, n. 14305/2007, Monaci, Rv. 598075-01), che la contribuzione riguarda i singoli lavoratori posti in mobilità e si rapporta al trattamento mensile spettante al singolo lavoratore, tanto che sussiste un “rapporto diretto tra l’onere a carico dell’azienda ed il trattamento erogato dall’Istituto assicuratore ai singoli lavoratori, mentre, quando il lavoratore non ha diritto all’indennità di mobilità non sussiste neppure l’onere a carico dell’azienda”.

Il contributo di mobilità, pertanto, non assolve alla funzione di un contributo di carattere generale con lo scopo di finanziare l’intera gestione della mobilità, e neppure quella specifica operazione di mobilità posta in essere da quella azienda, “ma piuttosto un contributo specifico funzionale al singolo trattamento di mobilità erogato al singolo lavoratore (…) e di porre a carico dell’azienda, sia pure diluita nel tempo, una parte sensibile dell’onere economico, sia perché si deve tenere conto del fatto che l’azienda datrice di lavoro trae dall’operazione un oggettivo vantaggio nella possibilità di liberarsi (senza oneri maggiori, diretti ed indiretti) della manodopera eccedente, sia per prevenire possibili abusi non giustificati nel ricorso alla procedura di mobilità”.

Nell’ambito dei trattamenti previsti per i soggetti privi di occupazione, si segnala anche Sez. L, n. 05896/2020, Spena, Rv. 657179-01 che, in conformità a Sez. 6- L, n. 28481/2018, De Marinis, Rv. 651736-01, ha riaffermato che in tema di quantificazione del trattamento economico spettante ai lavoratori socialmente utili, cui è estranea “ex lege” la disciplina dell’impiego subordinato, la quantificazione dell’importo integrativo va operata unicamente secondo il disposto dell’art. 8, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 468 del 1997, sulla base di una retribuzione oraria determinata secondo lo specifico criterio ivi indicato, per il quale il divisore previsto ai fini dell’individuazione del valore della retribuzione oraria per i lavoratori impiegati presso il soggetto utilizzatore nelle medesime attività, va applicato alla retribuzione base (minimo contrattuale ed indennità integrativa speciale).

7. L’indennità di malattia.

In controversia relativa all’impugnazione del licenziamento intimato al lavoratore per il compimento di attività lavorativa incompatibile con lo stato patologico denunciato e con la fruizione dell’astensione dal lavoro per malattia, Sez. 6-L, n. 13980/2020, Leone, Rv. 658520-01 ha colto l’occasione per ribadire che in tema di assenza dal lavoro per malattia e di conseguente decadenza del lavoratore dal diritto al relativo trattamento economico per l’intero periodo dei primi dieci giorni di assenza per ingiustificata sottrazione alla visita di controllo domiciliare, ai sensi dell’art. 5, comma 14, del d.l. n. 463 del 1983, conv. dalla l. n. 638 del 1983 (norma dichiarata parzialmente illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 78 del 1988), l’effettuazione da parte del lavoratore di una successiva visita ambulatoriale confermativa dello stato di malattia, ancorché avvenuta prima della scadenza di tale periodo, non vale ad escludere la perdita del diritto al trattamento economico ma ha la sola funzione di impedire la protrazione degli effetti della sanzione della decadenza per il periodo successivo ai suddetti primi dieci giorni, atteso che l’osservanza dell’onere posto a carico del lavoratore di rendersi reperibile presso la propria abitazione non ammette forme equivalenti di controllo.

Si tratta di orientamento conforme a Sez. L, n. 01809/2008, Lamorgese, Rv. 601287-01 e Sez. L., n. 02531/1996, Prestipino, Rv. 496527-01 risalente a Sez. L, n. 12502/1992, Panzarani, Rv. 479666-01.

8. L’indennità di maternità.

In tema di indennità di maternità si registra una sentenza relativa alle lavoratrici iscritte alla gestione separata, in materia di compatibilità tra la prestazione e la percezione di redditi che prescindono dalla effettiva prestazione dell’attività lavorativa.

La Corte ha preso in esame la disciplina prevista dall’art. 64 del d.lgs. n. 151 del 2001, nella versione applicabile “ratione temporis” individuando dapprima solo nelle “forme e nelle modalità” i profili per i quali la disciplina prevista per le iscritte alla gestione separata è assimilata a quella per le lavoratrici dipendenti.

Dall’esame della normativa di settore la Corte è pervenuta alla conclusione che la tutela della maternità per le lavoratrici iscritte alla gestione separata è caratterizzata da un duplice obiettivo: “tutelare la salute della donna e del nascituro, soprattutto attraverso lo strumento dell’astensione dal lavoro, ed introdurre una provvidenza economica di sostegno alla maternità per il periodo di astensione dal lavoro”.

Prescindendo la percezione dell’indennità da un effettivo stato di bisogno, non è di ostacolo alla stessa la sussistenza di redditi che non siano collegati all’effettiva prestazione dell’attività lavorativa, come accaduto nel caso di specie.

Alla luce di tali premesse, Sez. L, n. 07089/2020, Ghinoy, Rv. 657520-01 ha enunciato il principio di diritto secondo cui l’indennità di maternità, prevista dall’art. 64 del d. lgs. n. 151 del 2001 (“ratione temporis” vigente) per le lavoratrici iscritte alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995, prescinde dallo stato di effettivo bisogno in cui versi la donna nel periodo di riferimento, ed è pertanto compatibile con la percezione di redditi non correlati all’effettiva prestazione di attività lavorativa.

Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva riconosciuto il diritto all’indennità in discorso, in favore di una donna che, nel medesimo periodo, aveva percepito il compenso per la carica di amministratore di s.r.l., pur non avendo prestato attività lavorativa, come da attestazione ex art 5 d.m. 12 luglio 2007.

Altra decisione ha interessato il tema della retribuzione da assumere come base di riferimento per la determinazione dell’indennità di maternità nel caso di assistenti di volo.

Sez. L, n. 27552/2020, Mancino, Rv. 659796-01 ha deciso che in tema di indennità di maternità spettante alle assistenti di volo, la retribuzione da assumere come parametro di riferimento va determinata esclusivamente alla stregua dell’art. 23 del d.lgs. n. 151 del 2001, il quale, pur facendo riferimento alle voci che concorrono a determinare la base di calcolo delle indennità economiche di malattia, nulla dice in ordine alla misura della loro computabilità; ne consegue che nella suddetta retribuzione l’indennità di volo dev’essere ricompresa per intero, restando irrilevante la misura in cui essa venga considerata ai fini del calcolo dell’indennità di malattia.

9. Le prestazioni assistenziali.

9.1. La decadenza di cui all’art. 42 d.l. n. 269 del 2003

Sul tema della decadenza disciplinata dall’art. 42 del d.l. n. 269 del 2003, conv. dalla l. n. 326 del 2003, si registra un interessante arresto dal quale sono state tratte due enunciazioni di principio, una delle quali si presenta come innovativa, così come formulata, nel panorama giurisprudenziale di legittimità.

Si tratta di Sez. L, n. 26845/2020, Cavallaro, Rv. 659633-02 con la quale è stato affermato, in primo luogo, che il termine di decadenza semestrale previsto dall’art. 42, comma 3, del d.l. n. 269 del 2003, non opera nell’ipotesi di impugnazione del provvedimento con cui, a seguito della revoca di un beneficio assistenziale, sia comunicata all’interessato la sussistenza di un indebito, dal momento che l’eventuale indebito trova una disciplina autonoma nel sistema normativo della ripetizione in materia assistenziale e che, in ogni caso, le norme sulla decadenza sono di stretta interpretazione e insuscettibili di applicazione analogica.

In conformità con quanto affermato da Sez. L, n. 25268/2016, Doronzo, Rv. 642230-01, la stessa sentenza ha altresì affermato che il termine di decadenza previsto dall’art. 42, comma 3, cit., per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi di rigetto delle domande volte all’ottenimento di prestazioni in materia di invalidità civile, opera sia con riguardo all’ipotesi in cui il diniego in sede amministrativa dipenda da ragioni sanitarie sia nell’ipotesi in cui dipenda da ragioni diverse, sempre che il provvedimento di rigetto sia esplicito e venga comunicato all’interessato. (Sez. L, n. 26845/2020, Cavallaro, Rv. 659633-01).

Si segnala, inoltre che Sez. L, n. 28818/2020, D’Antonio, Rv. 659804-01, in conformità a Sez. L, n. 02119/2018, Berrino, Rv. 647266-01, ha ribadito che in materia di invalidità civile, il termine di decadenza semestrale di cui all’art. 42, comma 3, del d.l. n. 269 del 2003, conv., con modif., dalla l. n. 326 del 2003, per la proposizione della domanda giudiziale di invalidità, decorrente dalla data di comunicazione all’interessato del provvedimento emesso in sede amministrativa, non si applica in caso di impugnazione del provvedimento di sospensione della erogazione della prestazione assistenziale, in quanto tale atto non costituisce un provvedimento emesso all’esito di una procedura di riconoscimento del beneficio, ma un provvedimento di natura cautelare dell’ente erogatore rispetto ad un beneficio in precedenza concesso.

9.2. L’assegno sociale.

Sulla relazione tra assegno di invalidità civile ex legge 30 marzo 1971, n. 118 ed assegno sociale Sez. 6-L, n. 02029/2020, Marchese, Rv. 656720-01 ha affermato che l’ammissione degli invalidi civili, al compimento del sessantacinquesimo anno di età, all’assegno sociale erogato dall’INPS in sostituzione del trattamento di invalidità, in applicazione dell’art. 19 della l. n. 118 del 1971, ha carattere automatico e prescinde pertanto dall’accertamento, da parte di detto Istituto, della rivalutazione della posizione patrimoniale dell’assistito, costituendo la titolarità dell’assegno di invalidità (o della pensione di inabilità) presupposto sufficiente per il conseguimento dell’assegno sociale alle condizioni di maggior favore già accertate; ne consegue che non può dirsi nuova, in quanto tale inammissibile ex art. 437, comma 2, c.p.c., la domanda di attribuzione dell’assegno sociale in luogo di quello di invalidità.

La Corte ha dichiaratamente fatto applicazione del principio, affermato più volte, in conformità a Sez. U, n. 10972/2001, Ravagnani, Rv. 548907-01.

La ratio sottesa al principio è quella secondo cui l’art. 19 della l. n. 118 del 1971 deve essere interpretato “nel senso che gli invalidi civili, i quali già fruiscano della relativa pensione (o assegno mensile), ne ottengono automaticamente la trasformazione in pensione sociale al compimento del sessantacinquesimo anno di età, alle stesse condizioni reddituali stabilite per il trattamento in corso di erogazione, senza che sia possibile alcuna autonoma valutazione, da parte dell’INPS, dei requisiti di ammissione e, in particolare, delle condizioni economiche dell’invalidità”.

La conseguenza processuale è che non può dirsi nuova - e, in quanto tale, inammissibile ex art. 437, comma 2, c.p.c., - la domanda di attribuzione dell’assegno sociale in luogo di quello di invalidità poiché “il divieto di domande nuove è funzionale al rispetto del contraddittorio e all’esercizio dei diritti di difesa del convenuto nonché alla celerità del rito, vale a dire a valori che nel caso di specie non appaiono in alcun modo vulnerati dalla richiesta, avanzata solo in appello dall’odierno ricorrente, di disporre la sostituzione della prestazione richiesta (id est: pensione di inabilità) con l’assegno sociale”.

Sez. 6-L, n. 14513/2020, Riverso, Rv.658800-01 ha enunciato il principio per cui il diritto alla corresponsione dell’assegno sociale ex art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995, prevede come unico requisito lo stato di bisogno effettivo del titolare, desunto dall’assenza di redditi o dall’insufficienza di quelli percepiti in misura inferiore al limite massimo stabilito dalla legge, restando irrilevanti eventuali altri indici di autosufficienza economica o redditi potenziali, quali quelli derivanti dall’assegno di mantenimento che il titolare abbia omesso di richiedere al coniuge separato, e senza che tale mancata richiesta possa essere equiparata all’assenza di uno stato di bisogno.

Sempre in tema di assegno sociale Sez. L, n. 16867/2020, Calafiore, Rv. 658640-01, ha ribadito quanto già affermato da Sez. L, n. 16989/2019, Fernandes, Rv. 654380-01 e cioè che lo straniero extracomunitario ha diritto al riconoscimento dell’assegno sociale di cui all’art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995, alla condizione del possesso della carta di soggiorno a tempo indeterminato - ora permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo - nonché, a decorrere dal 1° gennaio 2009, per effetto dell’art. 20, comma 10, del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 133 del 2008, del soggiorno legale, in via continuativa, per almeno dieci anni, nel territorio nazionale, senza che tale requisito possa essere considerato quale limite alla libertà di circolazione di cui agli artt. 16, comma 2, Cost., 21 e 45 del T.F.U.E., perché non implica alcun divieto in violazione della libera scelta del singolo e si sostanzia in un radicamento territoriale che non si identifica con la assoluta, costante ed ininterrotta permanenza sul territorio nazionale.

9.3. Altre questioni in materia di prestazioni assistenziali.

Sez. 6-L, n. 13223/2020, Riverso, Rv. 658116-01 ha enunciato che in materia di indebito assistenziale, in luogo della generale ed incondizionata regola civilistica della ripetibilità, trova applicazione, in armonia con l’art. 38 Cost., quella propria di tale sottosistema, che esclude la ripetizione, quando vi sia una situazione idonea a generare affidamento del percettore e la erogazione indebita non gli sia addebitabile. Ne consegue che l’indebito assistenziale, per carenza dei requisiti reddituali, abilita alla restituzione solo a far tempo dal provvedimento di accertamento del venir meno dei presupposti, salvo che il percipiente non versi in dolo, situazione non configurabile in base alla mera omissione di comunicazione di dati reddituali che l’istituto previdenziale già conosce o ha l’onere di conoscere.

Nella specie, la Corte ha escluso la ripetibilità dei ratei di assegno sociale, perché l’assistito aveva inserito nelle dichiarazioni reddituali i ratei della pensione estera che determinavano il superamento dei limiti di reddito.

Ha richiamato il principio generale reiteratamente affermato per cui, nella materia, non trova applicazione la norma di carattere generale di cui all’art. 2033 c.c., ma un sottosistema che ha come comune denominatore la non addebitabilità al percipiente della erogazione non dovuta ad una situazione idonea a generare affidamento.

Ha inoltre ricordato i più recenti arresti sul tema dell’indebito assistenziale (Sez. L, n. 26036/2019, Ghinoy, Rv. 655396-01, Sez. L, n. 28771/2018, Bellè, Rv. 651691-01, Sez. L, n. 31372/2019, Mancino, Rv. 655991-01) pervenendo alla conclusione che nessun obbligo di restituzione dell’indebito sussiste nel caso in cui l’accipiens abbia dichiarato i redditi all’Amministrazione e, quindi, gli stessi fossero conoscibili all’INPS.

Ha illustrato in termini diffusi la normativa applicabile al settore ed i limiti entro cui può ritenersi sussistente l’obbligo di comunicazione della propria posizione reddituale da parte dell’assicurato all’INPS, tenuto conto della presenza nell’ordinamento di diverse disposizioni che impongono all’Amministrazione di comunicare all’Istituto dati reddituali e patrimoniali dei beneficiari di prestazioni assistenziali (art. 15, d.l. 1 luglio 2009, n. 78, conv. dalla legge 3 agosto 2009, n. 102; art. 13 d.l. 31 maggio 2010, n. 78, conv. dalla legge 30 luglio 2010, n. 122).

Sez. L, n. 02517/2020, Mancino, Rv. 656698-01 ha ribadito quanto già affermato da Sez. L., n. 14415/2019, Fernandes, Rv. 653977-01 secondo cui in tema di assegno di invalidità civile, ai fini della verifica della sussistenza del requisito reddituale previsto per il riconoscimento del beneficio, anche nel periodo successivo alla entrata in vigore della l. n. 247 del 2007, occorre fare riferimento al reddito personale dell’assistito, con esclusione del reddito percepito dagli altri componenti del nucleo familiare.

Inoltre si segnala Sez. 6-L, n. 18272/2020, Marchese, Rv. 658599-01 che ha affermato (in continuità con Sez. L, n. 22641/2020, Di Nubila, Rv. 610780-01) il seguente principio: il cumulo fra prestazioni a carattere diretto concesse a seguito di invalidità contratte per causa di lavoro o servizio e prestazioni pensionistiche a carico del Ministero dell’interno, vietato in linea generale dall’art. 3, comma 1, della l. n. 407 del 1990, che ha fissato il principio dell’incompatibilità tra prestazione previdenziale e prestazione assistenziale, è consentito in base alla deroga apportata dal comma 1 bis del medesimo articolo, introdotto dall’art. 12 della l. n. 412 del 1991, limitatamente ai casi di prestazione già effettivamente erogata alla data del 1 gennaio 1992, dovendosi escludere, attesa la natura eccezionale della norma derogatoria, suscettibile solo di stretta interpretazione, che possa attribuirsi rilievo al successivo riconoscimento, in sede giudiziale, del diritto all’erogazione con decorrenza anteriore a tale data.

10. Le prestazioni ai soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie.

L’unica sentenza sull’argomento ha cassato con rinvio una decisione di merito che aveva ritenuto sufficiente, per il riconoscimento dell’assegno “una tantum” di cui all’art. 2, comma 3, della legge 25 febbraio 1992, n. 210 la comune residenza tra eredi e “de cuius” e non anche quello della vivenza a carico dei ricorrenti rispetto a quest’ultimo.

La Corte ha ribadito quanto già affermato con precedenti decisioni (fra tutte Sez. L, n. 11407/2018, De Felice, Rv. 648818-.01) ed ha operato la distinzione tra decesso del danneggiato da vaccinazioni obbligatorie causalmente connesso o non causalmente connesso con le vaccinazioni o le patologie di cui alla legge 210 cit.

Nel primo caso spetta a favore dei familiari indicati dall’art. 2 della l. n. 210 del 1992 il diritto all’assegno mensile reversibile o, in alternativa, quello all’assegno una tantum; diritti riconosciuti jure proprio in quanto mai entrati a far parte del patrimonio del dante causa.

Nel secondo caso spetta agli eredi ciò che fa parte dell’asse ereditario, ossia, i ratei dell’assegno istituito a favore del danneggiato scaduti prima del decesso e mai riscossi.

Richiamato il precedente sopra indicato, Sez. L, n. 26842/2020, Mancino, Rv. 659632-01 ha ribadito che in materia di indennizzi ai soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, il riconoscimento dell’assegno “una tantum” in favore dei superstiti, anche a seguito della modifica apportata all’art. 2, comma 3, della l. n. 210 del 1992 ad opera dell’art. 1, comma 3, della l. n. 238 del 1997, presuppone la sussistenza del requisito - pur non riportato nella disposizione modificatrice - della “vivenza a carico” della vittima, giacché il diritto al ristoro poggia su una concezione di famiglia intesa quale comunità di reciproco sostentamento, i cui appartenenti, nell’ordine stabilito dalla legge, risultano quali aventi diritto non tanto per il vincolo successorio con la vittima, quanto piuttosto per una condivisione determinata proprio dallo speciale vincolo di convivenza, che rappresenta il cardine della legislazione e senza il quale la giustificazione stessa della misura assistenziale verrebbe a mancare.

Ribadito il requisito della vivenza a carico. stante la natura assistenziale della provvidenza che trova fondamento nell’art. 32 Cost., “in collegamento con l’art. 2, perché volta ad operare il bilanciamento tra il sacrificio alla salute di ciascuno e la tutela della salute degli altri, alla base dei trattamenti vaccinali, tenuto conto del dovere di solidarietà sociale di cui agli artt. 2 e 38 Cost.”

11. Le prestazioni a beneficio delle vittime del dovere.

Più sentenze sono state pronunciate in materia di benefici spettanti alle vittime del dovere ai sensi della legge 23 dicembre 2005, n. 266.

In particolare, Sez. L, n. 16571/2020, Mancino, Rv. 658496-01 ha enunciato il principio per cui i benefici in favore della categoria delle vittime del dovere - nella quale rientrano, tra l’altro, i dipendenti pubblici che, ai sensi dell’art. 1, comma 563, della l. n. 266 del 2005, abbiano subito un’invalidità permanente in attività di servizio per effetto diretto di lesioni riportate in conseguenza di eventi verificatisi nello svolgimento di servizi di ordine pubblico - non spettano all’agente di polizia penitenziaria per le lesioni permanenti derivategli da una aggressione subita ad opera di un detenuto in occasione dell’attività di vigilanza svolta all’interno della struttura carceraria, poiché l’attività in questione - avuto riguardo alle fonti normative che, fin dalla creazione del Corpo di polizia penitenziaria, hanno assegnato agli appartenenti a tale Corpo compiti di ordine e vigilanza all’interno del carcere - non può essere ricondotta ad un servizio di ordine pubblico, il quale è configurabile nella diversa e specifica ipotesi in cui gli stessi siano chiamati a concorrere, ai sensi dell’art. 16, comma 2, della l. n. 121 del 1981, nell’espletamento di servizi di ordine e sicurezza pubblica nell’ambito delle forze di polizia.

La Corte, operata un’ampia e dettagliata ricognizione della normativa che descrive i soggetti destinatari dei benefici a favore delle vittime del dovere, si è soffermata, in particolare, su quello indicato dall’art. 1, comma 563, lett. d) della l. n. 266 cit., ossia dei dipendenti pubblici che abbiano subito un’invalidità permanente in attività di servizio o nell’espletamento delle funzioni di istituto per effetto diretto di lesioni riportate in conseguenza di eventi verificatisi per effetto di lesioni riportate “nello svolgimento di servizio di ordine pubblico”.

A tale proposito è stata richiamata la consolidata giurisprudenza secondo cui il comma 563, a differenza di quello successivo, “non prevede la presenza di un rischio specifico diverso da quello insito nelle ordinarie funzioni istituzionali, bastando anche soltanto che l’evento dannoso si sia verificato nel contrasto di ogni tipo di criminalità o nello svolgimento di servizi di ordine pubblico” (Sez. U. n. 10791/2017, Manna A., Rv. 643940-01).

Sempre con riguardo ai presupposti per l’accesso ai benefici previsti a favore delle vittime del dovere, rileva quanto deciso da Sez. 6-L, n. 13367/2020, Ponterio, Rv. 658519-01 che ha enunciato il principio di diritto per cui in tema di benefici in favore delle vittime del dovere, la nozione di particolari condizioni ambientali od operative, alla cui ricorrenza l’art. 1, comma 564, della l. n. 266 del 2005, condiziona l’estensione dei benefici in favore di coloro che abbiano contratto infermità permanentemente invalidanti o alle quali consegua il decesso, in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, effettuate dentro e fuori dai confini nazionali, comprende ogni forma di esposizione a rischio eccedente quello che caratterizza le ordinarie modalità di svolgimento dei compiti di istituto e include pertanto le missioni in territori di guerra svolte dai militari normalmente addestrati per lo svolgimento di esercitazioni per la difesa dello Stato, atteso che la partecipazione concreta ed effettiva a siffatte missioni costituisce evento straordinario che espone il militare a rischi, stress e fatiche non comparabili con quelli propri delle esercitazioni.

Il caso esaminato merita di essere brevemente sintetizzato per la sua peculiarità trattandosi della rivendicazione dei benefici di cui all’art. 1, comma 564, cit. da parte di un ufficiale dell’Aeronautica Militare che aveva preso parte, nell’arco di circa un decennio, alla prima Guerra del Golfo ed, in seguito, a diverse missioni internazionali in Bosnia Erzegovina, Bosnia e Kossovo.

L’origine dell’infermità invalidante è stata dedotta in giudizio quale conseguenza di attività esorbitanti quelle ordinarie di servizio essendo state espletate in teatri di guerra; ha pertanto invocato la previsione cit. che equipara alle vittime del dovere “coloro che abbiano contratto infermità permanentemente invalidanti o alle quali consegua il decesso, in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, effettuate dentro e fuori dai confini nazionali e che siano riconosciute dipendenti da causa di servizio per le particolari condizioni ambientali od operative”.

La norma è stata letta dalla Corte in combinato disposto con il d.P.R. 7 luglio 2006, n. 243 che ha precisato il contenuto della nozione di “missioni” e di “particolari condizioni ambientali ed operative” sottolineando come, queste ultime, ricorrano allorché sussistano circostanze straordinarie che “generano un rischio superiore a quello proprio dei compiti di istituto”.

A tale proposito l’addestramento ordinario alla partecipazione alle missioni militari non è comparabile con l’effettiva partecipazione a missioni di guerra che costituisce evento straordinario tale da esporre il militare a “rischi, stress e fatiche non comparabili con quelle proprie delle esercitazioni”.

Infine, in punto di prescrizione dei benefici a favore delle vittime del dovere, va ricordato quanto deciso da Sez. 6-L, n. 18309/2020, Doronzo, Rv. 659091-01, secondo cui il diritto sulle somme pretese a titolo di rivalutazione automatica dell’assegno vitalizio mensile, ai sensi dell’art. 2 della l. n. 407 del 1998, è soggetto, nel caso in cui le somme stesse non siano state poste in riscossione ovvero messe a disposizione dell’avente diritto, alla prescrizione decennale e non a quella quinquennale, atteso che quest’ultima presuppone la liquidità del credito, da intendere non secondo la nozione desumibile dall’art. 1282 c.c., ma quale effetto del completamento del procedimento di liquidazione della spesa.

12. Il diritto alla costituzione della posizione assicurativa.

In tema di diritto alla costituzione di una posizione assicurativa e contributiva, la Corte è intervenuta con diversi arresti con i quali ha delimitato l’ambito di operatività del diritto, sia con riguardo alla completezza e integrità della posizione, che all’ambito soggettivo di estensione del principio della regolarità della posizione contributiva con riferimento alle conseguenti prestazioni.

In particolare, Sez. L, n. 17611/2020, D’Antonio, Rv. 658642-01 ha deciso che il dipendente civile o militare dello Stato che cessi dal servizio senza aver acquistato il diritto alla pensione per mancanza della necessaria anzianità e che abbia successivamente instaurato un rapporto di lavoro privato, può valorizzare la contribuzione già versata utilizzando l’istituto della costituzione di posizione assicurativa presso il fondo di previdenza dei lavoratori subordinati, di cui all’art. 124 del d.P.R. n. 1092 del 1973, che prevede il passaggio dei contributi senza applicazione degli interessi, e non quello della ricongiunzione, operante solo quando la contribuzione accreditata è da sola sufficiente per il riconoscimento della pensione.

Sez. L., n. 21302/2020, Buffa, Rv. 658925-01 ha stabilito che l’esclusione della applicabilità del principio di automaticità delle prestazioni in favore dei lavoratori autonomi, ai sensi dell’art. 59, comma 19, della l. n. 449 del 1997, non rileva con riferimento a lavoratori titolari di regolare posizione previdenziale; ne consegue che, una volta che il lavoratore sia regolarmente iscritto, il mancato pagamento dei contributi non esclude l’operatività della tutela assicurativa, ma comporta unicamente la sospensione del pagamento delle prestazioni fino al momento in cui la situazione non sia stata regolarizzata e nei limiti della prescrizione.

La fattispecie riguardava la copertura assicurativa presso l’INAIL, che non è stata esclusa a causa del mancato pagamento della contribuzione, pur in presenza di una posizione assicurativa aperta, atteso che quel pagamento “condiziona la esecutività del diritto alla regolarità contributiva con sospensione del pagamento delle prestazioni” nei termini precisati in massima.

Dunque, “presupposti del sorgere di un diritto esigibile alle prestazioni erogate dall’INAIL sono allora, oltre che la presenza delle lavorazioni e attività protette, l’esistenza di una posizione assicurativa presso l’INAIL ed il pagamento, pur tardivo, dei contributi”.

Sez. L, n. 27427/2020, Bellè, Rv. 659692-01 ha affermato che il principio dell’automatismo delle prestazioni previdenziali, di cui all’art. 2116 c.c., così come interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 374 del 1997, trova applicazione, con riguardo ai vari sistemi di previdenza e assistenza obbligatorie, come regola generale, e può essere derogato solo in base a specifiche disposizioni di legge, le quali devono espressamente prevedere anche la eventuale limitazione dell’automatismo al solo caso in cui sia prescritto il diritto dell’ente previdenziale alla percezione dei contributi.

Conseguentemente, la Corte ha cassato la sentenza di merito che, sulla base di un’applicazione analogica della disciplina sull’assicurazione obbligatoria, aveva escluso la computabilità dei periodi svolti fuori ruolo dalla base di calcolo dell’indennità di premio servizio, prevista dalla l. n. 152 del 1968 in favore del personale degli enti locali e di natura previdenziale, sul presupposto che si fosse prescritto il diritto dell’ente alla percezione dei contributi.

Si tratta di orientamento che ha dato continuità a quanto già deciso da Sez. L, n. 01460/2001, Amoroso, Rv. 543583-01.

Si segnala, altresì, Sez. L, n. 22072/2020, Buffa, Rv. 659055-01 con la quale è stato deciso che il titolare di pensione liquidata dall’Argentina in modo autonomo, in presenza di contributi infrannuali pagati in Italia, non può cumulare gli ulteriori contributi italiani successivamente versati, ai fini del conseguimento della pensione di vecchiaia “pro-rata” in regime di totalizzazione internazionale, essendo i due trattamenti pensionistici incompatibili, alla stregua della Convenzione italo-argentina sulla sicurezza sociale del 3 novembre 1981, ratificata con l. n. 32 del 1983, di modo che i contributi versati in uno Stato, dei quali l’altro abbia doverosamente tenuto conto nel riconoscere la pensione in via autonoma, non possono essere considerati una seconda volta per la corresponsione da parte del predetto Stato di un ulteriore trattamento pensionistico.

Per completezza, afferendo le decisioni a profili di natura processuale ma intersecando, comunque, il tema del diritto alla posizione contributiva del lavoratore, si segnala Sez. L, n. 08956/2020, Cavallaro, Rv. 657651-02 con la quale è stato deciso che in tema di omissioni contributive, nel giudizio promosso dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi, sussiste un litisconsorzio necessario con l’Istituto previdenziale, sicché, alla mancata evocazione in giudizio dell’ente non consegue l’inammissibilità della domanda, bensì la nullità del giudizio, rilevabile in ogni stato e grado del processo, salvo il limite del giudicato, con necessità di rimessione al giudice di primo grado ai fini dell’integrazione del contraddittorio.

Più nel dettaglio è stato affermato che nelle controversie promosse dai dipendenti delle aziende di credito, volte ad ottenere la condanna del datore di lavoro al versamento al Fondo di solidarietà per il sostegno al reddito, istituito presso l’INPS ex d.m. n. 158 del 2000, dei contributi correlati alla retribuzione mensile, utili per la determinazione dell’assegno ordinario di accompagnamento, la natura obbligatoria della contribuzione e la struttura del rapporto dedotto in giudizio, avente ad oggetto una autonoma obbligazione di diritto pubblico, impongono la partecipazione al processo dell’ente previdenziale in qualità di litisconsorte necessario (Sez. L, n. 08956/2020, Cavallaro, Rv. 657651-01, conforme Sez. L, n. 24924/2020, Amendola F., Rv. 659267-01).

In senso conforme si è espressa Sez. L, n. 17320/2020, Calafiore, Rv. 658831-01 secondo cui in caso di domanda del lavoratore avente per oggetto la condanna del datore di lavoro al pagamento in favore dell’ente previdenziale dei contributi obbligatori omessi, sussiste litisconsorzio necessario nei confronti del datore di lavoro e dell’ente, giustificato dal fatto che l’obbligo di versamento dei contributi si configura, nell’ambito del rapporto di lavoro, come un obbligo di facere del datore di lavoro in favore dell’ente previdenziale che, dando luogo a una situazione sostanziale unitaria, deve trovare riflesso processuale nella partecipazione al giudizio di tutti i soggetti nei cui confronti la decisione del giudizio stesso è idonea a produrre effetti.

Si tratta di orientamento difforme da Sez. L, n. 12213/2004, Roselli, Rv. 574085-01 che segna una significativa adesione alla tesi contraria, pure, in precedenza affermata da altre decisioni fra le quali, merita menzione, Sez. U, n. 03678/2009, Balletti, Rv. 607443-01.

Interessante si rivela l’arresto con il quale Sez. L, n. 06643/2020, Cavallaro, Rv. 657433-01 ha affermato che in tema di prestazioni previdenziali, l’erronea certificazione resa dall’ente previdenziale all’assicurato, che sia lavoratore autonomo, circa la sua posizione contributiva, non comporta la responsabilità risarcitoria, di natura contrattuale, dell’ente, poiché il valore certificativo delle comunicazioni ex art. 54 della l. n. 88 del 1989 può logicamente predicarsi soltanto per quelle concernenti i dati di fatto della posizione previdenziale rilasciate ad assicurati che, rispetto al rapporto contributivo sulla cui base è modulato il loro rapporto previdenziale, siano terzi, e, quindi, non possano avere conoscenza alcuna dei predetti dati, ma non anche per le comunicazioni rilasciate ad assicurati che siano anche parte del rapporto contributivo stesso, i quali non possono fondare alcun affidamento meritevole di tutela su eventuali errori compiuti dall’ente nella comunicazione di notizie che rientrano nella loro diretta sfera di conoscibilità.

La Corte ha dapprima precisato che la certificazione di cui all’art. 54 cit. fa piena prova fino a querela di falso dei dati in possesso dell’ente e degli accertamenti compiuti in occasione del rilascio del certificato, senza che essa si estenda alla verità della situazione sostanziale, in quanto il diritto alle prestazioni previdenziali sorge in presenza dei requisiti previsti dalla legge e da provare nei modi ordinari.

La sentenza ha riconosciuto che il contenuto della certificazione può fondare il diritto al risarcimento dei danni in favore dell’assicurato al quale sia stata rigettata la domanda della prestazione previdenziale per la discordanza tra il contenuto della certificazione e la realtà del rapporto contributivo, fermo restando che la responsabilità dell’ente può configurarsi solo se le informazioni siano rese od omesse su domanda dell’interessato e si riferiscano ai dati di fatto relativi alla sua posizione assicurativa e che l’ammontare del risarcimento può essere limitato nel caso in cui l’assicurato, con il proprio comportamento non diligente, abbia concorso al verificarsi del danno.

13. Il trattamento di reversibilità ex art. 9 legge 1 dicembre 1970, n. 898

In due importanti sentenze la Corte ha colto l’occasione per segnalare la natura e la funzione del trattamento di reversibilità spettante all’ex coniuge nel caso di divorzio.

Sez. L, n. 08263/2020, Calafiore, Rv. 657611-01 ha affermato che la ripartizione del trattamento di reversibilità, in caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite, deve essere effettuata ponderando, con prudente apprezzamento, in armonia con la finalità solidaristica dell’istituto, il criterio principale della durata dei rispettivi matrimoni, con quelli correttivi, eventualmente presenti, della durata della convivenza prematrimoniale, delle condizioni economiche, dell’entità dell’assegno divorzile.

Ha dunque stabilito che occorre avere riguardo, ai fini della ripartizione del trattamento, anche al periodo di convivenza prematrimoniale coevo a quello di separazione che precede il divorzio, ancorché in detto lasso temporale permanga il vincolo matrimoniale.

L’argomentazione ha preso spunto da quanto affermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 149 del 1999 con la quale è stato precisato che l’assenza di qualsiasi correttivo nell’applicazione del criterio matematico di ripartizione renderebbe possibile, che il coniuge superstite consegua una quota di pensione inadeguata alle più elementari esigenze di vita, “mentre l’ex coniuge potrebbe conseguire una quota di pensione del tutto sproporzionata all’assegno in precedenza goduto, senza che il tribunale possa tenere conto di altri criteri per ricondurre ad equità la situazione”.

Il criterio della durata dei rapporti matrimoniali nella ripartizione della pensione di reversibilità non costituisce l’unico del quale tenere conto e non si può risolvere in un mero calcolo aritmetico.

Il riferimento ad “ulteriori elementi” è presente nella costante giurisprudenza di legittimità espressamente richiamata dall’ordinanza massimata in relazione alla “finalità solidaristica che presiede il trattamento di reversibilità”; elementi da individuarsi facendo riferimento all’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge ed alle condizioni economiche dei due, nonché alla durata delle rispettive convivenze prematrimoniali.

In tal senso, tra le più recenti, Sez. 1, n. 16093/2012, Bisogni, Rv. 624328-01.

Partendo da tali considerazioni la Corte è pervenuta alla conclusione che occorra assegnare rilievo, fra gli elementi ulteriori ai fini della ripartizione del trattamento in esame, anche alla convivenza prematrimoniale, sebbene coincidente con il periodo di separazione legale, ritenendo non corretto l’operato dei giudici di merito che avevano considerato, invece il rigido criterio della durata formale del vincolo matrimoniale con ciò omettendo di valutare la finalità dell’istituto secondo i criteri di cui all’art. 38 Cost..

Sul trattamento di reversibilità di cui all’art. 9 della l. n. 898 del 1970, e sul particolare profilo che interessa il rapporto con la fruizione di un assegno di divorzio meramente simbolico (fattispecie davvero particolare) si è soffermata Sez. L, n. 20477/2020, Cavallaro, Rv. 658914-01 stabilendo che il diritto del coniuge divorziato alla pensione di reversibilità ex art. 9 cit. presuppone (anche ai sensi della norma interpretativa di cui all’art. 5 della l. n. 263 del 2005) non solo che il richiedente al momento della morte dell’ex coniuge sia titolare di assegno di divorzio giudizialmente riconosciuto, ma anche che detto assegno non sia fissato in misura simbolica, ponendosi la diversa interpretazione in contrasto con la “ratio” dell’attribuzione del trattamento di reversibilità al coniuge divorziato, da rinvenirsi nella continuazione del sostegno economico prestato in vita all’ex coniuge e non già nell’irragionevole esito di assicurare al coniuge divorziato una condizione migliore rispetto a quella già in godimento.

Nella fattispecie l’INPS aveva proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di merito che aveva riconosciuto il trattamento di reversibilità al coniuge a favore del quale un tribunale degli Stati Uniti, in sede di divorzio, aveva assegnato un sostegno nella misura di un dollaro all’anno.

Tale “sostegno” era stato equiparato, dai giudici di merito, all’assegno di divorzio di cui all’art. 5 della l. n. 898 del 1970.

Partendo dall’interpretazione letterale dell’art. 9 cit., che richiama la fruizione dell’assegno di cui al suddetto art. 5, quale presupposto per l’assegnazione del trattamento di reversibilità, la Corte ha ricordato come la seconda norma sia stata oggetto di interpretazione autentica con l’art. 5 della l. n. 263 del 2005 che ha stabilito come “per titolarità dell’assegno ai sensi dell’articolo 5 deve intendersi l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale ai sensi del predetto articolo 5 della citata legge n. 898 del 1970”.

Dopo avere ripercorso i precedenti arresti della Corte di legittimità con i quali, talvolta, si è anche sostenuto che la titolarità del trattamento di reversibilità spetti a chi sia titolare di un assegno di entità minima o simbolica, la sentenza è pervenuta alla diversa conclusione di cui alla massima riportata con una motivazione fondata essenzialmente sulla “ratio” del trattamento di reversibilità (del quale ha affermato la perdurante natura previdenziale) “da rinvenirsi nella continuazione del sostegno economico prestato in vita all’ex coniuge”.

Tale essendo quella “ratio”, non può assumere rilievo la previsione di un trattamento determinato in misura minima o meramente simbolica, essendo “necessario piuttosto che il trattamento attribuito al coniuge divorziato possieda i requisiti tipici previsti dall’art. 5 della l. n. 898 del 1970, ovvero, e più precisamente, che esso sia idoneo ad assolvere alle finalità di tipo assistenziale e perequativo-compensativa che gli sono proprie, di talché, pur non mettendo necessariamente capo ad un contributo volto al conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, consenta tuttavia all’ex coniuge il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, riconoscendogli in specie il ruolo prestato nella formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi”.

14. I benefici per i lavoratori esposti all’amianto

Di natura più propriamente processuale la decisione assunta da Sez. L, n. 18683/2020, Garri, Rv. 658844-01 con la quale è stato sostenuto che il datore di lavoro non è legittimato ad esperire l’opposizione ordinaria di terzo avverso la sentenza relativa alla spettanza ai lavoratori del beneficio contributivo da esposizione all’amianto, di cui all’art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992, atteso che dall’accertamento relativo al rischio morbigeno, ed al suo protrarsi per un consistente periodo di tempo, non discende alcuna immediata conseguenza nei suoi confronti, né risulta pregiudicato il diritto alla tutela della sua immagine, potendone allegare in concreto il pregiudizio in altra sede, ove non è escluso che si possa procedere ad un nuovo accertamento dello stato dei luoghi.

L’ordinanza ha affermato la correttezza dell’argomentazione dei giudici di merito secondo cui il riconoscimento del beneficio pensionistico afferisce ad un rapporto di natura previdenziale tra i lavoratori e l’INPS rispetto al quale il datore di lavoro rimane estraneo e privo della titolarità di un qualsiasi diritto anche oggettivamente connesso con la pretesa dei lavoratori.

Sez. L, 27553/2020, Calafiore, Rv. 659797-01 ha ribadito che in tema di benefici previdenziali in favore dei lavoratori esposti all’amianto, la decadenza speciale dall’azione giudiziaria, prevista dall’art. 47, comma 5, del d.l. n. 269 del 2003, conv. con modif. dalla l. n. 326 del 2003, non è applicabile a coloro che rientrano nel regime previgente, di cui all’art 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992, e in particolare ai lavoratori esclusi in virtù del comma 6 bis dell’art. 47 della l. n. 326 cit. Ne consegue che il d.m. attuativo del 27 ottobre 2004, laddove all’art. 1 ha riferito il termine di decadenza anche ai suddetti lavoratori, è in contrasto con la fonte primaria, e pertanto va disapplicato.

Si tratta di orientamento che era stato già affermato da Sez. 6-L, n. 14895/2015, Pagetta, Rv. 636230-01.

Con riferimento al soggetto destinatario della domanda amministrativa, rileva l’arresto in base al quale in materia di rivalutazione contributiva da esposizione all’amianto, l’istanza amministrativa intesa al conseguimento del beneficio previdenziale va proposta nei confronti dell’INPS, e non può essere sostituita dalla diversa domanda indirizzata all’INAIL al fine di ottenere la prova dell’avvenuta esposizione; peraltro, rivestendo la suddetta istanza la funzione di atto di avvio del procedimento amministrativo, preliminare all’esercizio dell’azione giudiziaria, la statuizione della giurisprudenza di legittimità circa l’improponibilità della domanda giudiziale che dalla stessa non sia stata preceduta non può dar luogo ad una fattispecie di c.d. prospective overruling, configurabile soltanto con riguardo alla modifica imprevedibile di istituti di natura processuale (Sez. L, n. 27555/2020, Calafiore, Rv. 659798-01).

Il nucleo motivazionale della pronuncia si rinviene nell’affermazione che “mentre la domanda all’INPS è necessaria per l’erogazione del beneficio previdenziale, quella rivolta all’INAIL mira unicamente a fornire al lavoratore la prova dell’esposizione all’amianto e a consentire, perciò, una più rapida acquisizione del relativo diritto e non già a facilitare l’accesso alle (diverse) prestazioni oggetto del regime assicurativo che fa carico all’INPS”.

Sul punto la Corte ha richiamato altri precedenti in termini fra cui merita di essere ricordato Sez. L., n. 08937/2002, Coletti, Rv. 555184-01.

Circa l’esclusione della possibilità di invocare il c.d. prospective overruling ha richiamato il precedente con cui è stato affermato che “la domanda amministrativa della prestazione all’ente erogatore, ex art. 7 della l. n. 533 del 1973, è condizione di ammissibilità di quella giudiziaria, diversamente dal ricorso introduttivo del procedimento contenzioso amministrativo ex art. 443 c.p.c., avendo disposto il legislatore che il privato non affermi un diritto davanti all’autorità giudiziaria prima che esso sia sorto, ossia prima del perfezionamento della relativa fattispecie a formazione progressiva, nella quale la presentazione della domanda segna la nascita dell’obbligo dell’ente previdenziale e, in quanto tale, non può essere assimilata ad una condizione dell’azione, rilevante anche se sopravvenuta nel corso del giudizio. Ne consegue che l’azione iniziata senza la presentazione in sede amministrativa della corrispondente istanza comporta l’improponibilità della domanda giudiziale, rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, con conseguente nullità di tutti gli atti del processo” (Sez. L, n. 11438/2017, Marotta, Rv. 644255-01).

In tema di esposizione all’amianto, Sez. L, n. 27761/2020, Mancino, Rv. 660064 – 01, ha deciso il caso in cui il giudice di appello aveva ritenuto che la decorrenza del termine decennale di prescrizione del diritto al riconoscimento dei benefici previdenziali previsti dall’art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992 fosse iniziata a decorrere dall’atto ministeriale di indirizzo e coordinamento con il quale si era riconosciuta l’esposizione qualificata di tutti gli addetti operanti in alcuni reparti di uno stabilimento industriale, fra i quali quello al quale era addetto il ricorrente, oltre che in ragione della notorietà della dell’esposizione qualificata dei lavoratori nello stabilimento e nel reparto.

Sul punto la Corte ha ritenuto non essere rispondente ai criteri dai quali desumere la fondatezza della ricorrenza di una presunzione ai sensi dell’art. 2729 c.c. la valorizzazione di atti amministrativi di indirizzo (peraltro successivi al pensionamento del lavoratore), oltre che dall’avere svolto l’attività di lavoro in ambiente notoriamente contaminato da emissioni di amianto.

  • malattia professionale
  • tutela
  • danno
  • infortunio sul lavoro

CAPITOLO XXIII

LA TUTELA INAIL

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 Le malattie professionali. - 2 Gli infortuni sul lavoro. - 3 Il danno differenziale. - 4 I contributi assicurativi INAIL - 5 L’azione di regresso

1. Le malattie professionali.

Nel corso dell’anno si sono registrati diversi interventi della Corte in tema di malattie professionali, con particolare attenzione alla questione della prescrizione.

Con riguardo alla individuazione della decorrenza del termine prescrizionale Sez. L, n. 01661/2020, Boghetich, Rv. 656655-01 ha affermato che la manifestazione della malattia professionale, rilevante ai fini della individuazione del “dies a quo” per la decorrenza del termine triennale di prescrizione di cui al d.P.R. n. 1124 del 1965, può ritenersi verificata quando sussiste l’oggettiva possibilità che l’esistenza della malattia, ed i suoi caratteri di professionalità e indennizzabilità, siano conoscibili dal soggetto interessato; tale conoscibilità, che è cosa diversa dalla conoscenza, altro non è che la possibilità che un determinato elemento sia riconoscibile sulla base delle conoscenze scientifiche del momento.

Nel caso di specie, con orientamento conforme a quanto già deciso da Sez. L, n. 00598/2016, Amendola F., Rv. 638235-01, si è ritenuto che il termine di prescrizione fosse iniziato a decorrere, già prima della domanda, dalla diagnosi della malattia prevista dalla tabella allegata al d.m. 14 gennaio 2018 come patologia con elevata probabilità di origine lavorativa nel caso di esposizione ad agenti, quali le ammine aromatiche, cui era stato esposto il ricorrente.

Anche Sez. L, n. 16605/2020, Buffa, Rv. 658595-01 ha affrontato il tema della prescrizione decidendo che, al fine di stabilire l’inizio della decorrenza della prescrizione del diritto alla rendita per malattia professionale, che coincide con la conoscibilità da parte dell’assicurato della manifestazione di una malattia indennizzabile, assume rilievo la circostanza che lo stesso assicurato si sia sottoposto ad esami diagnostici da lui richiesti per l’accertamento della patologia, dovendosi presumere che egli abbia avuto conoscenza del relativo esito al momento dell’espletamento dei predetti esami, ovvero nei giorni immediatamente successivi, e competendo allo stesso assicurato, che eccepisca di non averne avuto tempestiva conoscenza, fornire la relativa prova.

La fattispecie riguardava una sentenza di merito che, correttamente, aveva ancorato il “dies a quo” per la decorrenza del termine di prescrizione alla data di una CTU - espletata in altro giudizio instaurato dal lavoratore verso il datore - considerata rilevante in senso puramente obiettivo, quale fatto da cui risultava la conoscenza della patologia da parte dell’assicurato.

Anche in questo caso la Corte ha dato continuità al proprio precedente orientamento in base al quale è stato affermato che a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 206 del 1988 (dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 135, secondo comma, del d.P.R. n. 1124 del 1965, nella parte in cui poneva una presunzione assoluta di verificazione della malattia professionale nel giorno in cui veniva presentata all’istituto assicuratore la denuncia con il certificato medico), nel regime normativo attuale la manifestazione della malattia professionale, rilevante quale “dies a quo” per la decorrenza del termine triennale di prescrizione di cui all’art. 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965, può ritenersi verificata quando la consapevolezza circa l’esistenza della malattia, la sua origine professionale e il suo grado invalidante siano desumibili da eventi oggettivi ed esterni alla persona dell’assicurato, che costituiscano fatto noto, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., come la domanda amministrativa, nonché la diagnosi medica contemporanea, dai quali la malattia sia riconoscibile per l’assicurato (Sez. L, n. 02285/2013, Tricomi, Rv. 625197-01 e prima Sez. L, n. 27223/2003, De Matteis, Rv. 585516-01).

In punto di estensione della tutela assicurativa INAIL per le malattie professionali, ha avuto modo di pronunciarsi Sez. L, n. 08948/2020, Ciriello Rv. 657630-01 che, in conformità a Sez. L, n. 05066/2018, Riverso, Rv. 647460-01, ha deciso che in tema di malattia professionale, la tutela assicurativa INAIL va estesa ad ogni forma di tecnopatia, fisica o psichica, che possa ritenersi conseguenza dell’attività lavorativa, sia che riguardi la lavorazione che l’organizzazione del lavoro e le sue modalità di esplicazione, anche se non compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi specificamente indicati in tabella, dovendo il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di causalità tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata.

La “ratio” di tale statuizione è stata delineata nel fondamento della tutela assicurativa ai sensi dell’art. 38 Cost. che deve essere ricercata non tanto nella nozione di rischio assicurato o di traslazione del rischio, ma nella protezione del bisogno a favore del lavoratore, considerato in quanto persona, dato che la tutela dell’art. 38 non ha per oggetto l’eventualità che l’infortunio si verifichi, ma l’infortunio in sé; ed è questo e non la prima l’evento generatore del bisogno tutelato, sia in termini individuali che sociali.

A tale proposito la Corte ha richiamato quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 100 del 1991, ovvero che “l’oggetto della tutela dell’art. 38 non è il rischio di infortuni o di malattia professionale, bensì questi eventi in quanto incidenti sulla capacità di lavoro e collegati da un nesso causale con attività tipicamente valutata dalla legge come meritevole di tutela”.

Applicando tali principi la Corte ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva negato alla condotta vessatoria posta in essere dal datore di lavoro nei confronti del lavoratore l’idoneità a generare una malattia indennizzabile in quanto non rientrante nell’ambito del rischio assicurato.

2. Gli infortuni sul lavoro.

Un primo importante arresto ha inteso confermare e dare continuità all’orientamento secondo cui in caso di infortunio sul lavoro, se si accerta la sussistenza di fattori patologici preesistenti non aventi origine professionale, il giudice deve, anche di ufficio, fare applicazione dell’art. 79 del d.P.R. n. 1124 del 1965, secondo cui il grado di riduzione permanente dell’attitudine al lavoro causata da infortunio, quando risulti aggravata da inabilità preesistenti derivanti da fatti estranei al lavoro, deve essere rapportata non alla normale attitudine al lavoro ma a quella ridotta per effetto delle preesistenti inabilità, e deve essere calcolata secondo la cosiddetta formula Gabrielli - espressa da una frazione avente come denominatore la ridotta attitudine preesistente e come numeratore la differenza tra quest’ultima (minuendo) ed il grado di attitudine al lavoro residuato dopo l’infortunio (sottraendo) - senza che abbia rilievo la circostanza che l’inabilità preesistente e quella da infortunio incidano sullo stesso apparato anatomo-funzionale (Sez. L , n. 01662/2020, Boghetich, Rv. 656598-01).

Si tratta di principio conforme a quanto già affermato da Sez. L, n. 00684/2014, Tria, Rv. 629255-01, Sez. L, n. 11703/2003, Cuoco, Rv. 565527-01 e molte altre.

Quanto alla disciplina applicabile “ratione temporis”, assume rilievo Sez. L, n. 21743/2020, Calafiore, Rv. 659257-01 che ha affermato il principio per cui gli infortuni sul lavoro verificatisi o denunciati prima del 9 agosto 2000 (data di entrata in vigore del regime introdotto dall’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000), soggiacciono alla disciplina di cui al d.P.R. n. 1124 del 1965, anche nel caso in cui i postumi subiscano un aggravamento in epoca successiva alla suddetta data.

L’ordinanza ha riepilogato le differenze che intercorrono tra le diverse discipline di cui al d.P.R. citato ed il d.lgs. n. 38 del 2000 in punto di danni conseguenti ad infortunio sul lavoro ed i diversi parametri previsti dalle due norme con riguardo ai criteri di liquidazione di quei danni, avendo introdotto, per la prima volta, il d.lgs. n. 38 del 2000 la possibilità di procedere alla liquidazione del danno biologico in capitale nel caso di menomazioni pari al 6% ed inferiori al 16% e con una rendita per quelle di grado superiore con una ulteriore quota di rendita per le conseguenze patrimoniali.

In base alla normativa precedente, invece, era prevista solo la liquidazione di un indennizzo per i postumi permanenti conseguenti alla riduzione della capacità lavorativa superiore al 10%.

Il discrimine temporale di applicazione delle due diverse normative e dei distinti criteri di liquidazione del danno è costituito dalla data di entrata in vigore del d.m. 12 luglio 2000 (9 agosto 2000) contenente le tabelle di valutazione del danno biologico.

Posto che nel caso di malattia o infortuni denunciati prima di tale data, l’incidenza deve essere rapportata alla capacità di lavoro del richiedente e non al danno biologico subito, anche per le domande di aggravamento dei postumi vale il medesimo discrimine temporale.

In tema di rendita a seguito di infortunio sul lavoro ai familiari superstiti va ricordata Sez. L, n. 18658/2020, Cavallaro, Rv. 658597-01 che ha ribadito il principio per cui il diritto a tale rendita, ex art. 85 del d.P.R. n. 1124 del 1965, presuppone, ai sensi del successivo art. 106, la cosiddetta “vivenza a carico”, la quale sussiste ove i predetti si trovino senza sufficienti mezzi di sussistenza autonoma ed al loro mantenimento abbia concorso in modo efficiente il lavoratore defunto, dovendosi a tal fine considerare anche il reddito del coniuge dell’ascendente che domanda la prestazione previdenziale, giacché, anche ove non sia operante il regime di comunione legale, comunque sussiste l’obbligo di assistenza materiale tra coniugi posto dall’art. 143 c.c. e quello di assistenza per i figli di cui al successivo art. 147 c.c., senza che possa procedersi ad una valutazione distinta della posizione di ciascuno dei superstiti, indipendentemente dalla sussistenza di contributi o aiuti familiari.

Si tratta di massima conforme a Sez. L, n. 03069/2002, Toffoli, Rv. 552749-01.

La Corte ha dunque ribadito l’abbandono del risalente orientamento secondo cui il diritto alla rendita per infortunio sul lavoro in favore degli ascendenti superstiti - che, in virtù del combinato disposto degli artt. 85 e 106 del d.P.R. n. 1124 del 1965, presuppone la cosiddetta vivenza a carico, la quale è provata allorché risulti che gli ascendenti medesimi si trovino senza sufficienti mezzi di sussistenza autonomi e che al loro mantenimento concorreva in modo efficiente il lavoratore defunto - è previsto con distinto riferimento a ciascuno dei superstiti dell’infortunato, sicché non implica una valutazione cumulativa delle posizioni reddituali di entrambi gli ascendenti, neppure se versino in regime di comunione legale tra coniugi; pertanto, occorrendo valutare distintamente la posizione di ciascuno di essi indipendentemente da contributi od aiuti familiari, sia a titolo di mantenimento che di alimenti, il possesso di autonomi mezzi di sussistenza da parte di un coniuge non preclude che il diritto alla rendita sia riconosciuto all’altro coniuge (ascendente del defunto), ove privo di sufficienti ed autonomi mezzi di sussistenza (Sez. L, n. 08465/1993, Micali, Rv. 483716-01).

Interessante il principio elaborato da Sez. L, n. 18659/2020, Cavallaro, Rv. 658842-01 nel senso che in tema di infortunio “in itinere”, la tutela assicurativa copre i sinistri verificatisi nel normale percorso abitazione-luogo di lavoro anche in caso di fruizione da parte del lavoratore di un permesso per motivi personali che, quale fattispecie di sospensione dell’attività lavorativa ontologicamente non differente dalle pause o dai riposi, da cui si differenzia soltanto per il carattere occasionale ed eventuale, a fronte del connotato di periodicità e prevedibilità tipico degli altri, non recide il rapporto finalistico con l’attività lavorativa, né concretizza una ipotesi di rischio cd. elettivo.

La fattispecie esaminata dalla Corte riguardava il caso di un lavoratore deceduto a causa di un sinistro stradale mentre tornava da casa sul luogo di lavoro dopo avere fruito di un permesso per motivi personali.

In motivazione si è operata una interpretazione dell’art. 12 del d.lgs. n. 38 del 2000 nel senso che la norma ha previsto un ampliamento della tutela assicurativa (nel caso di infortunio “in itinere”) “escludendo rilevanza all’entità del rischio o alla tipologia della specifica attività lavorativa cui l’infortunato sia addetto e tutelando piuttosto il rischio generico (connesso al compimento del c.d. percorso normale tra abitazione e luogo di lavoro) cui soggiace qualsiasi persona che lavori, restando per conseguenza confinato il cd. rischio elettivo a tutto ciò che sia dovuto piuttosto ad una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella legata al cd. percorso normale, ponendo così in essere una condotta interruttiva di ogni nesso tra lavoro-rischio ed evento”.

Quindi, è sufficiente a garantire la tutela antinfortunistica, la sussistenza di un rapporto finalistico tra percorso normale ed attività lavorativa.

La fruizione del permesso per motivi personali, secondo la Corte, non integra alcuna interruzione del predetto rapporto, integrando una sospensione dell’attività lavorativa alla stregua delle pause e dei riposi.

In relazione al rimborso delle spese mediche sostenute a seguito di un infortunio sul lavoro Sez. L, n. 02012/2020, Amendola F., Rv. 656730-01 ha affermato che in tema di cure necessarie al recupero della capacità lavorativa ex art. 86 del d.P.R. n. 1124 del 1965, non è dovuto il rimborso delle spese mediche e protesiche sostenute in relazione ad un infortunio sul lavoro, ai sensi del successivo art. 88 del medesimo d.P.R., quando si tratta di spese meramente preventivate e non ancora sostenute.

In motivazione si precisa che non è possibile agire in giudizio per ottenere una condanna in futuro relativamente a prestazioni che ancora devono essere eseguite in quanto tale tipo di azione e, dunque di condanna, non è consentita nell’ordinamento vigente, ad eccezione dei casi espressamente previsti.

Infine, con riguardo all’ipotesi di decorrenza del riconoscimento giudiziale di maggiore percentuale di danno esistente fin dall’origine con conseguente indennizzo in capitale, Sez. L, n. 16606/2020, Buffa, Rv. 658636-01 ha enunciato il principio per cui in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, qualora sia riconosciuto dal giudice un indennizzo in capitale relativo al danno biologico in misura percentuale superiore a quella accertata in sede amministrativa ed in relazione al medesimo momento indicato nella domanda amministrativa originaria, la prestazione decorre, in conformità al generale principio previsto dall’art. 74 del d.P.R. n. 1124 del 1965, dalla data di cessazione del periodo di inabilità assoluta, non trovando applicazione la disposizione di cui all’art. 84 dello stesso d.P.R. (che stabilisce la regola della decorrenza dalla prima rata con scadenza successiva a quella relativa al periodo di tempo in cui è stata richiesta la revisione), la quale si riferisce all’ipotesi di rendita già costituita e di successiva richiesta di variazione di essa.

3. Il danno differenziale.

La nozione di danno differenziale (art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965) riguarda l’importo che eccede la parte di indennizzo a carico dell’assicurazione obbligatoria e rimane a carico del datore di lavoro laddove sia causato da un reato procedibile d’ufficio.

Presupposti che abilitano l’INAIL anche all’azione di regresso ai sensi dell’art. 11 dello stesso d.P.R.

Sul tema si registra l’importante intervento di Sez. L, n. 12041/2020, Amendola F., Rv. 657981-01 con il quale la Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la disciplina prevista dagli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965 deve essere interpretata nel senso che l’accertamento incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato, sia nel caso di azione proposta dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno cd. differenziale, sia nel caso dell’azione di regresso proposta dall’Inail, deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in ordine all’elemento soggettivo della colpa ed al nesso causale fra fatto ed evento dannoso.

La questione affrontata e risolta riguarda, principalmente, quella dei criteri di accertamento della responsabilità del datore di lavoro in caso di azione del lavoratore proposta per il risarcimento del danno differenziale derivante da infortunio o malattia professionale e, per connessione, nell’ipotesi di azione di regresso esercitata dall’INAIL.

Secondo una tesi, il giudice civile dovrebbe operare alla stregua del giudice penale e, dunque, adottare i medesimi criteri di giudizio, mentre secondo altri le regole di accertamento del giudizio civile restano autonome e sono costituite da quelle di cui agli artt. 1218 e 2087 c.c.

La Corte è pervenuta all’opzione ermeneutica fatta propria dalla massima sopra riportata (accertamento secondo le regole proprie del giudizio di tipo civilistico) valorizzando, attraverso una complessa ed articolata motivazione (ove si trovano ampi richiami a giurisprudenza costituzionale e di legittimità) la posizione del lavoratore che, in caso si optasse per la soluzione diversa, vedrebbe eccessivamente appesantiti i propri oneri probatori con riguardo al danno differenziale rispetto a qualsiasi altro danneggiato.

In motivazione si rinviene la sintesi del ragionamento con le seguenti argomentazioni: “Incongruo allora pretendere dal lavoratore danneggiato ciò che verrebbe richiesto ad un pubblico ministero, senza peraltro che si possa avvalere degli strumenti di indagine di questi, perché non si tratta di stabilire una responsabilità per infliggere una sanzione penale, quanto, piuttosto, per risarcire la persona colpita da un danno “contra ius”. Come incongruo appare che, nella stessa sede processuale civile e rispetto al medesimo fatto, il giudice debba operare con criteri di giudizio diversificati a seconda che sia chiamato a determinare danni complementari oppure differenziali, magari arrivando a negare i secondi dopo aver riconosciuto i primi, solamente a causa del diverso onere probatorio di cui il lavoratore risulti gravato”.

Tale disparità sarebbe tanto più irragionevole trattandosi di tutela del diritto alla salute e sarebbe in contrasto con tale obiettivo (sub specie di integrale riparazione del pregiudizio non patrimoniale) la presenza di un onere probatorio aggravato rispetto a qualsiasi altro soggetto di diritto comune.

Completa il ragionamento probatorio la considerazione che analoghi rilievi investono anche l’azione di regresso dell’INAIL ai sensi dell’art. 11 del d.P.R. cit.

Rilevante anche quanto deciso da Sez. 6-L, n. 17655/2020, Riverso, Rv. 658658-01 che ha affermato il principio per cui in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, l’allegazione nel ricorso introduttivo proposto dai congiunti dell’assicurato di un fatto integrante, in astratto, un reato perseguibile d’ufficio è sufficiente ad incardinare validamente la causa di danno nei confronti del datore di lavoro, così radicando, nel giudice, il potere-dovere di dar corso all’istruttoria attraverso l’accertamento del fatto-reato e poi, superato positivamente tale accertamento, del danno “differenziale” e “complementare”; a tal fine è irrilevante la percezione di una rendita da parte dei superstiti. La mancata richiesta all’INAIL dell’indennizzo per danno biologico o per danno da invalidità temporanea o l’omessa indicazione del “quantum”, viceversa, possono comportare, al più, la riduzione del risarcimento civilistico, mediante la deduzione dell’importo corrispondente alla prestazione previdenziale.

Per completezza sul tema si segnala un interessante arresto con quale la Sezione Terza ha inteso delineare e precisare la distinzione della copertura INAIL rispetto al risarcimento del danno alla salute.

Si fa riferimento a Sez. 3, n. 24474/2020, Gorgoni, Rv. 659761-01 secondo cui in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, l’indennizzo Inail, in considerazione della sua natura assistenziale e pur in presenza della stessa menomazione dell’integrità psico-fisica cui fa riferimento l’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, a differenza del risarcimento, non copre l’intero danno alla salute, essendo svincolato dalla sussistenza di un illecito contrattuale o aquiliano e consentendo all’avente diritto di esperire l’azione risarcitoria per il ristoro del danno biologico cd. danno differenziale, non coperto dall’assicurazione obbligatoria; d’altro canto, riguardando un bene giuridico diverso da quello della salute, va escluso a carico dell’Inail l’indennizzo per il danno da “perdita del diritto alla vita” richiesto iure hereditatis dagli eredi del de cuius (in quanto la perdita della vita non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute), non rientrante nella nozione di danno biologico recepita dallo stesso art. 13.

4. I contributi assicurativi INAIL

Sez. L, n. 02013/2020, Calafiore, Rv. 656731-01 ha enunciato il principio per cui i rapporti di collaborazione degli studenti universitari con le Università statali, di cui all’art. 13 della l. n. 390 del 1991, sono soggetti all’assicurazione presso l’INAIL ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 38 del 2000 che ha stabilito l’obbligatorietà dell’assicurazione per tutti i rapporti di parasubordinazione, dovendosi ritenere detta disposizione prevalente, in base al principio generale di cui all’art. 15 preleggi, sulla preesistente previsione di cui all’art. 13 citato che fissava l’obbligo di stipulare polizze private.

Nel pervenire a tale conclusione la Corte ha posto a confronto l’art. 13, comma 2, della legge 2 dicembre 1991, n. 390 e l’art. 5 del d.lgs. n. 38 del 2000.

La prima stabilisce l’obbligo per le Università di stipulare polizze assicurative private per gli studenti collaboratori, mentre la seconda individua un preciso obbligo di assicurazione generalizzato dei lavoratori parasubordinati.

Le due disposizioni sono state ritenute tra loro incompatibili e, comunque, alternative ed, in applicazione del criterio generale di cui all’art. 15 delle Preleggi, si è ritenuto che la disposizione successiva abbia tacitamente abrogato quella precedente incompatibile e, nell’ottica dell’allargamento della platea delle categorie di lavoratori assoggettati all’assicurazione INAIL, ne abbia determinato la cessazione della vigenza.

Sez. L, n. 16865/2020, Calafiore, Rv. 658584-01 ha affermato che in tema di contributi assicurativi e previdenziali obbligatori, non è utilmente invocabile il principio di tutela dell’affidamento del contribuente, di cui all’art. 10 della l. n. 112 del 2000, (se non, ove ne ricorrano i presupposti, ai limitati fini di escludere sanzioni e interessi moratori), trattandosi di prestazione patrimoniale di natura pubblicistica, fondata sull’art. 38 Cost. e coperta da riserva di legge ex art. 23 Cost., con conseguente indisponibilità del relativo credito da parte dell’ente.

La questione risolta dalla Corte è quella relativa alla esistenza, nel sistema che regola l’obbligazione contributiva, di un principio di tutela dell’affidamento del contribuente tale da comportare “effetti abdicativi del potere di imposizione in ipotesi di acquiescenza posta in essere dalla pubblica amministrazione”.

La tutela dovrebbe ricavarsi dall’art. 10 l. 27 luglio 2000, n. 212 secondo cui i rapporti tra contribuente ed amministrazione finanziaria devono essere improntati dalla collaborazione e dalla buona fede.

La fattispecie esaminata dalla Corte ha riguardato un caso in cui una società cooperativa riteneva di avere regolarmente assolto la propria obbligazione contributiva anche in ragione delle indicazioni provenienti dall’INAIL e dalla prassi applicativa costantemente seguita nell’adempimento.

Nel risolvere la questione la Corte ha richiamato la natura pubblicistica dell’obbligazione contributiva che deriva dall’art. 38 Cost., la copertura da riserva di legge della stessa ex art. 23 Cost., la sua indisponibilità, per come si ricava dalla disciplina della prescrizione, costantemente affermata dalla giurisprudenza, la potestà di autotutela dell’ente che può procedere all’annullamento, con efficacia “ex tunc” degli atti adottati in contrasto con la normativa vigente.

Conseguentemente si estende, anche alla materia contributiva, il principio affermato in quella tributaria per cui l’eventuale tutela del contribuente sotto il profilo dell’affidamento a fronte di un mutamento di indirizzo interpretativo dell’amministrazione può rilevare, al più, solo per quanto riguarda l’applicazione delle sanzioni e non anche per negare l’esistenza dell’obbligazione che, si ribadisce, non è nella disponibilità dell’ente ma è soggetta a riserva di legge.

5. L’azione di regresso

In tema si registrano una decisione della Sezione Lavoro ed altre della Terza Sezione che ha fatto applicazione di principi elaborati dalla prima proprio in punto di azione di regresso.

Sez. L, n. 16847/2020, D’Antonio, Rv. 658578.01 ha avuto modo di ribadire che in tema di azione di regresso dell’Inail ai sensi dell’art. 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965 nei confronti delle persone civilmente responsabili per le prestazioni erogate a seguito di infortunio sul lavoro, e avuto riguardo alla distinzione tra le ipotesi in cui manchi un accertamento del fatto - reato da parte del giudice penale (ove l’azione di regresso è soggetta a termine triennale di decadenza) e le ipotesi di sussistenza di tale accertamento con sentenza penale di condanna (in cui l’azione di regresso è soggetta a termine triennale di prescrizione), la sentenza di applicazione della pena su richiesta dell’imputato, pronunciata dal giudice penale ai sensi dell’art. 444 c.p.p., deve ritenersi di condanna, con la conseguenza che il termine di cui all’art. 112 cit. si configura come termine di prescrizione ed è pertanto suscettibile di interruzione.

È stata così assicurata continuità alla decisione Sez. 1, n. 02242/2007, Plenteda, Rv. 595075-01, a sua volta conforme a Sez. L, n. 14734/1999, D’Agostino, Rv. 532641-01.

La ragione dell’orientamento ormai consolidato, risiede nel fatto che il cd. patteggiamento “costituisce un’ipotesi di definizione anticipata del procedimento penale mediante una sentenza con cui il giudice, verificata la correttezza della qualificazione giuridica del fatto contestato e valutata la ricorrenza di circostanze con la comparazione tra le stesse, applica la pena concordata tra imputato e P.M., se ritenuta congrua sempre che non ritenga di dover prosciogliere l’imputato” con la conseguenza che la sentenza non può essere annoverata tra quelle di proscioglimento dovendo essere equiparata a quelle di condanna.

Sez. 3, n. 12898/2020, Valle, Rv. 658145-01 ha richiamato il costante orientamento della Sezione Lavoro in base al quale nel giudizio di regresso intentato nei confronti del datore di lavoro, l’ente previdenziale può fornire prova della congruità dell’indennità corrisposta al lavoratore attraverso attestazione resa dal direttore della sede erogatrice: infatti, poiché l’Istituto svolge la sua azione attraverso atti emanati a conclusione di procedimenti amministrativi, tali atti sono assistiti dalla presunzione di legittimità propria di tutti gli atti amministrativi, che può venir meno solo di fronte a contestazioni precise e puntuali che individuino il vizio da cui l’atto in considerazione sarebbe affetto e offrano contestualmente di provarne il fondamento (Sez. L, n. 11617/2010, Stile, Rv. 613552-01, Sez. L, n. 21540/2007, Cuoco, Rv. 600141-01).

Infine si segnala, per completezza, Sez. 3, n. 08814/2020, D’Arrigo, Rv. 657836-02 con la quale è stato deciso che in caso di accertato concorso di colpa della vittima di un infortunio sul lavoro, il giudice non può, per questo solo fatto, ridurre proporzionalmente le somme richieste dall’INAIL in via di rivalsa nei confronti del responsabile dell’infortunio stesso, ma deve previamente determinare, come in qualsiasi altra ipotesi di rivalsa, l’entità del danno risarcibile in relazione alla misura del menzionato concorso di colpa e, quindi, verificare se, sull’importo così calcolato, vi sia capienza per la rivalsa dell’INAIL, procedendo, esclusivamente nell’eventualità di esito negativo di tale accertamento, a ridurre l’ammontare spettante all’Istituto per le prestazioni erogate all’assicurato (o ai suoi eredi) in modo che non superi quanto dovuto dal danneggiante.

Anche in questa decisione è stato ribadito quanto già deciso da Sez. L, n. 04879/2015, Doronzo, Rv. 634791-01, a sua volta conforme a Sez. 3, n. 2350/2010, Travaglino, Rv. 611330-01.

  • integrazione economica

CAPITOLO XXIV

LA PREVIDENZA DI CATEGORIA

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 Cassa Nazionale Forense - 2 Fondo Volo. - 3 Cassa di previdenza Geometri liberi professionisti. - 4 Fondo elettrici e Fondo telefonici. - 5 INPDAI. - 6 ENASARCO. - 7 Previdenza integrativa.

1. Cassa Nazionale Forense

Relativamente alla base di calcolo della pensione di vecchiaia contributiva erogata dalla Cassa ed, in particolare, sulla possibilità che vi rientrino i contributi versati ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. b) della l. n. 576 del 1980 a mente del quale “il contributo soggettivo obbligatorio a carico di ogni iscritto alla cassa e di ogni iscritto agli albi professionali tenuto all’iscrizione è pari alle seguenti percentuali del reddito professionale netto prodotto nell’anno, quale risulta dalla relativa dichiarazione ai fini dell’IRPEF e dalle successive definizioni: (…) b) reddito eccedente lire 40 milioni: tre per cento” Sez. L, n. 10866/2020, Calafiore, Rv. 657924-01 ha deciso che in tema di previdenza forense, nella base di calcolo della pensione contributiva erogata dalla Cassa, ai sensi dell’art. 4 del Regolamento del 23 luglio del 2004, non vanno inclusi i contributi versati ex art. 10, comma 1, lett. b), della l. n. 576 del 1980, che hanno natura solidaristica, dovendo prevalere l’esigenza di tutela dei livelli di finanziamento del sistema previdenziale della categoria di appartenenza e non operando in detta materia il principio di corrispettività tra contributi e pensione.

La Corte, da un lato, ha descritto in termini di estrema chiarezza la peculiarità della pensione di natura contributiva per cui i contributi utili per il calcolo della prestazione “sono solo quelli versati entro il “tetto” reddituale sottoposto all’aliquota del 10% (sono cioè esclusi, come nel regime ordinario, i contributi versati, a titolo di solidarietà, con l’aliquota del 3%) nonché le somme versate a titolo di riscatto o ricongiunzione.

Nel sistema di calcolo contributivo incide l’età del soggetto alla data in cui viene richiesta la pensione (irrilevante invece nel calcolo retributivo); ciò in quanto il sistema contributivo, attribuendo rilievo alla residua aspettativa di vita del pensionando, prevede un aumento dei coefficienti di calcolo proporzionali all’età del soggetto richiedente.

Quanto alla legittimità del potere regolamentare attribuito alla Cassa in ordine alla disciplina della materia, ha richiamato il proprio costante orientamento secondo cui si è realizzata una sostanziale delegificazione attraverso la quale è concesso alla Cassa di regolamentare le prestazioni a proprio carico, anche in deroga a disposizioni legislative precedenti, nonché la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 254 del 2016).

Da ciò la legittimità della previsione regolamentare applicabile “ratione temporis” ed escludente la computabilità del contributo di solidarietà.

Sulla natura dei regolamenti della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza, si è pronunciata anche Sez. L, n. 27541/2020, Cavallaro, Rv. 659794-01 con la quale è stato deciso che i regolamenti con cui la Cassa forense, in attuazione delle disposizioni della l. n. 141 del 1992, disciplina il rapporto contributivo degli iscritti e le prestazioni previdenziali e assistenziali da corrispondere ai beneficiari (nella specie, il regolamento per il trattamento assistenziale degli avvocati in stato di bisogno) non hanno valore regolamentare in senso proprio, ex art. 1, n. 2, disp. prel. c.c., bensì squisitamente negoziale, indipendentemente dalla successiva approvazione con decreto ministeriale, con la conseguenza che il loro sindacato di legittimità è limitato all’ipotesi in cui venga dedotta una violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 ss. c.c.

In relazione alle sanzioni amministrative pecuniarie previste per i professionisti in materia previdenziale (nella specie per omessa comunicazione dei redditi professionali) Sez. L, n. 17702/2020, Cavallaro, Rv. 658643-01 ha affermato che, con riferimento alle violazioni in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie, l’irrogazione di sanzioni da parte della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense deve essere preceduta dalla contestazione dell’addebito, ai sensi degli artt. 13 e 14 della l. n. 689 del 1981, in quanto, essendo la materia soggetta alla riserva relativa di legge di cui all’art. 23 Cost., la potestà regolamentare riconosciuta agli enti gestori di forme di previdenza obbligatorie dall’art. 4, comma 6 bis, del d.l. n. 79 del 1997, conv. dalla l. n. 140 del 1997, non può derogare alle garanzie dettate dalla citata l. n. 689, al fine di escludere che la discrezionalità attribuita a detti enti si trasformi in arbitrio.

La Corte ha confermato l’intervenuta delegificazione, per effetto del d.lgs. 30 giugno 1994, n. 309, sia della disciplina relativa al rapporto contributivo che del rapporto previdenziale riguardante le prestazioni che gli enti gestori sono tenuti a corrispondere ai beneficiari.

Ha tuttavia precisato l’ambito entro il quale possono essere adottate le disposizioni derogatorie rispetto alle norme di legge ricordando i propri precedenti arresti con i quali ha affermato la tipicità degli atti suscettibili di essere adottati identificandoli, essenzialmente, in quelli di variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento, di determinazione del trattamento pensionistico, negando, invece, che la deroga possa investire l’imposizione di trattenute per le quali sussiste una riserva di legge ex art. 23 Cost..

Nella decisione è stata operata l’interpretazione dell’art. 4, comma 6-bis, d.l. 28 marzo 1997, n. 79 secondo cui “nell’ambito del potere di adozione di provvedimenti, conferito dall’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, possono essere adottate dagli enti privatizzati di cui al medesimo decreto legislativo deliberazioni in materia di regime sanzionatorio e di condono per inadempienze contributive, da assoggettare ad approvazione ministeriale ai sensi dell’articolo 3, comma 2, del citato decreto legislativo”.

A tale proposito la Corte ha evidenziato come il potere di adottare “deliberazioni in materia di regime sanzionatorio” attribuito nell’ambito del potere di adozione di provvedimenti conferito dall’art, 2, comma 2, del d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509, si colleghi anche allo scopo di “assicurare l’equilibrio di bilancio mediante l’adozione di provvedimenti coerenti alle indicazioni risultanti dal bilancio tecnico da redigersi con periodicità almeno triennale”, derivandone che “la potestà in esame debba necessariamente circoscriversi alla commisurazione delle sanzioni irrogabili in relazione alle varie tipologie di illecito, restando invece ad essa estranea, per ciò che qui rileva, la possibilità di derogare alle disposizioni imperative del procedimento individuato al Capo I, sez. II, della legge n. 689/1981”.

Tra le norme imperative, sono state ritenute rientranti quelle relative alle garanzie dettate dagli artt. 13 e 14 della l. n. 689 del 1981 in punto di preventiva contestazione dell’addebito prima dell’adozione di sanzioni da parte degli enti gestori di forme di previdenza obbligatorie.

2. Fondo Volo.

Per quanto riguarda la pensione di anzianità a carico del Fondo Volo e l’applicabilità della regola del cumulo con il reddito da lavoro dipendente prevista dal d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con modif. dalla l- 6 agosto 2008, n. 133 Sez. L, n. 20677/2020, Blasutto, Rv. 658916-01 ha enunciato il principio che le pensioni di anzianità erogate dal Fondo Volo nella vigenza dell’art. 19, comma 1, del d.l. n. 112 citato sono totalmente cumulabili con i redditi da lavoro autonomo e dipendente, trovando applicazione la regola generale prevista per l’assicurazione generale obbligatoria anche alle forme sostitutive della medesima, fra le quali rientra il Fondo Volo.

Nel caso di specie, si trattava di pensione erogata nella vigenza del predetto art. 19 secondo cui “a decorrere dal 1 gennaio 2009 le pensioni dirette di anzianità a carico dell’assicurazione generale obbligatorie delle forme sostitutive ed esclusive della medesima sono totalmente cumulabili con i redditi da lavoro autonomo e dipendente”.

Poiché l’art. 3, comma 22, del d.lgs. 24 aprile 1997, n. 164 ha previsto che, qualora successivamente alla liquidazione della pensione a carico del Fondo il pensionato si rioccupi, si applicano le medesime norme in materia di cumulo tra pensione e retribuzione in vigore nell’assicurazione generale obbligatoria, la conclusione è stata quella di cui alla massima.

Ciò in coerenza con quanto deciso per altro fondo sostitutivo da Sez. L, n. 19573/2019, De Marinis, Rv. 654499-01 in base alla quale in tema di cumulo tra pensione e redditi da lavoro, agli iscritti all’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani (INPGI) si applica la stessa disciplina prevista per gli iscritti all’Assicurazione Generale Obbligatoria facente capo all’INPS, in quanto l’INPGI gestisce, per espresso disposto dell’art. 76 della l. n. 388 del 2000, una forma di assicurazione sostitutiva di quella garantita dall’INPS, mentre gli artt. 72, comma 1, della legge appena citata, e 44, comma 1, della l. n. 289 del 2002, poi seguiti dall’art. 19 del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. con l. n. 133 del 2008, parificano il trattamento pensionistico a carico dell’AGO e quelli a carico delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative della medesima.

3. Cassa di previdenza Geometri liberi professionisti.

La Corte ha preso in esame la situazione dei professionisti iscritti all’Albo professionale e non anche alla Cassa nel periodo antecedente al 1.1.2003 (data a decorrere dalla quale è divenuta obbligatoria l’iscrizione alla Cassa per gli esercenti la professione in qualunque forma, anche occasionale) e che svolgevano attività non con carattere di continuità ovvero erano iscritti ad altre forme di previdenza.

Costoro erano tenuti al versamento alla Cassa del solo contributo di solidarietà che, secondo la previsione del regolamento sulla contribuzione alla Cassa, è stato possibile riscattare con il versamento, sulla differenza di ogni anno, della corrispondente riserva matematica secondo il d.P.R. 2 gennaio 1962, n. 1138.

La Corte è stata chiamata a “stabilire se per gli iscritti di solidarietà (…) i redditi relativi al periodo temporale riscattato rilevano ai soli fini dell’accesso alla pensione (…) o anche agli effetti della misura del trattamento pensionistico”.

Sul punto Sez. L, n. 00025/2020, Mancino, Rv. 656363-01 ha deciso che in tema di Cassa di previdenza geometri, il riscatto del cd. periodo di solidarietà è idoneo unicamente ad incidere sull’anzianità contributiva dell’assicurato, rendendo utilizzabili, ai fini dell’accesso al diritto a pensione, periodi di esercizio dell’attività professionale occasionali non coperti da contribuzione, ma non introduce alcuna deroga al criterio di calcolo della misura del trattamento pensionistico.

La struttura della motivazione si incentra prevalentemente sul fatto che, per il periodo di interesse (ovvero quello in cui l’iscrizione alla Cassa non era obbligatorio) il Regolamento di contribuzione ha fatto salva l’applicazione della normativa vigente nell’anno di riferimento, ai fini della continuità professionale e del trattamento previdenziale del periodo oggetto di riscatto.

Nella fattispecie il riscatto del periodo relativo alla contribuzione di solidarietà copriva un periodo in cui il professionista non aveva prodotto reddito per la mera occasionalità dell’esercizio professionale.

Quindi, secondo quanto sostenuto dalla Corte, non è possibile attraverso una sorta di fictio juris procedere al computo del periodo riscattato ai fini della determinazione del trattamento pensionistico mutuando le regole delle omissioni contributive.

4. Fondo elettrici e Fondo telefonici.

Relativamente alle prestazioni previdenziali a carico del Fondo speciale di previdenza per i dipendenti dell’ENEL, nel caso di raggiungimento dell’età pensionabile e dell’anzianità contributiva massima e di esercizio dell’opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro ex art. 6 legge 29 dicembre 1990, n. 407, è stata esaminata l’efficacia dell’entrata in vigore del d.lgs. 16 settembre 1996, n. 562 e dell’innalzamento a 40 anni dell’anzianità contributiva massima escludendo l’operatività della rivalutazione ex art. 1, comma 3, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503.

In particolare, Sez. L, n. 20678/2020, D’Antonio, Rv. 658917- 1 ha affermato che i lavoratori aderenti al Fondo elettrici che, avendo raggiunto età pensionabile e massima anzianità contributiva, “ratione temporis” fissata a 35 anni, abbiano optato per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 6 della l. n. 407 del 1990, hanno diritto, a far tempo dalla entrata in vigore del d.lgs. n. 562 del 1996, che a favore dei suddetti dipendenti ha innalzato a 40 anni l’anzianità contributiva massima, alla sola maggiorazione prevista dal citato art. 6, e non anche alla rivalutazione di cui all’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 503 del 1992, espressamente richiamato dall’art. 3 del d.lgs. n. 562 del 1996, perché tale rivalutazione è destinata solo a coloro che non hanno maturato la massima anzianità contributiva.

La Corte ha evidenziato che l’esercizio dell’opzione della prosecuzione dell’attività lavorativa comporta, a norma dell’art. 6, comma 6 cit. il “diritto, a domanda, ad una maggiorazione del trattamento pensionistico di importo pari alla misura del supplemento di pensione di cui all’art. 7 l. n. 155/1981, in relazione al periodo di continuazione della prestazione della loro opera”, maggiorazione che “si somma alla pensione e diviene parte integrante di essa a tutti gli effetti dalla data di decorrenza della maggiorazione stessa”.

Il d.lgs. n. 562 del 1996 cit. ha poi previsto che dall’esercizio dell’opzione derivano gli effetti previsti dall’art. 1, comma 3, d.lgs. n. 503 del 1992 cit. che riconosce gli incrementi percentuali fino al raggiungimento dell’anzianità contributiva massima con applicazione limitata, quindi, a favore di coloro che tale anzianità contributiva non abbiano ancora raggiunto.

Si tratta di orientamento che la Corte ha espressamente ritenuto in continuità con quanto affermato in precedenti occasioni (Sez. L, n. 15052/2009, Coletti De Cesare, Rv. 608777-01, Sez. L, n. 24596/2011, La Terza, Rv. 619827-01, Sez. L, n. 18474/2014, Ghinoy, Rv. 632380-01), sia pure con gli adattamenti derivanti dalla specificità del caso concreto.

In tema di rivalutazione delle retribuzione pensionabile per lavoratori iscritti al Fondo telefonici, cessati dal servizio per possesso dei requisiti contributivi utili per il diritto alla pensione di vecchiaia ma in assenza dell’età pensionabile e che abbiano presentato domanda di pensione di vecchiaia, Sez. L, n. 17789/2020, Mancino, Rv. 658589-01 ha deciso che il lavoratore iscritto al Fondo telefonici che cessa dal rapporto di lavoro per possesso dei requisiti contributivi, ma prima del compimento dell’età pensionabile, qualora presenti domanda di pensione di vecchiaia, non ha diritto alla rivalutazione dovendosi liquidare la prestazione pensionistica mensile incrementata, negli anni successivi, solo per effetto della perequazione automatica; rivalutazione che, in virtù della disciplina transitoria di cui al d.lgs. n. 503 del 1992, è riconosciuta solo per i contributi versati successivamente al 1° gennaio 1993.

È stata quindi esclusa l’applicazione del predetto d.lgs. n. 502 del 1993 alle pensioni liquidate successivamente alla sua entrata in vigore ma relative a cessazioni dal servizio intervenute anteriormente.

Anche in questo caso si tratta di orientamento conforme a quanto già deciso da Sez. 6-L, n. 06262/2011, La Terza, Rv. 616432-01.

In materia di trattenute operate sul trattamento di previdenza integrativa aziendale costituita a favore di un ex dirigente ENEL, Sez. 5, n. 05152/2020, Perinu, Rv. 657331-01, ha affermato che il meccanismo impositivo di cui all’art. 6 della l. n. 482 del 1985 si applica sulle somme percepite dai soggetti iscritti, maturate fino al 31 dicembre 2000, provenienti dalla liquidazione del “rendimento netto”, imputabile alla gestione sul mercato finanziario del capitale accantonato da parte del Fondo, il quale non corrisponde alla redditività ottenuta sul mercato dall’intero patrimonio Enel - ovvero il rapporto tra il margine operativo lordo e il capitale investito -, per essere quest’ultima dipendente da predeterminati calcoli di matematica attuariale e non già frutto di investimento di accantonamenti sul libero mercato.

5. INPDAI.

La questione sulla quale la Corte è stata chiamata a decidere ha riguardato la legittimità del recupero di un indebito da parte dell’INPS relativamente a somme corrisposte a titolo di pensione di invalidità a carico dell’INPDAI (Istituto Nazionale di Previdenza per i Dirigenti delle Aziende Industriali) per asserita incompatibilità tra le stesse e le somme percepite a titolo di reddito da lavoro dipendente non comunicato all’Istituto.

Sez. L, n. 16849/2020, Ghinoy, Rv. 658579-01 ha stabilito che in materia di cumulo tra pensione e reddito da lavoro, la norma transitoria di cui all’art. 10, comma 8, del d.lgs. n. 503 del 1992 (come modificato dall’art. 11 della l. n. 537 del 1993), che consente il mantenimento, anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 503 cit., del precedente regime più favorevole, si applica ai trattamenti pensionistici a carico dell’INPDAI liquidati o maturati anteriormente al 1° gennaio 1995 (nella specie, pensione di invalidità cumulabile con retribuzione da lavoro dipendente non dirigenziale), con conseguente esclusione, in tali ipotesi, anche dell’operatività dell’obbligo, previsto dall’art. 8 bis del d.lgs. n. 503 del 1992 di produrre all’ente previdenziale la dichiarazione dei redditi da lavoro.

Il ragionamento della Corte ha preso le mosse dall’art. 20 d.P.R. 30 aprile 1969, n. 153 secondo cui sussiste l’incumulabilità, entro determinati limiti, con la retribuzione lorda percepita in costanza di rapporto di lavoro, delle “pensioni di vecchiaia e di invalidità liquidate a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, di quelle liquidate a carico delle gestioni speciali dei coltivatori diretti, mezzadri e coloni, degli artigiani e degli esercenti attività commerciali nonché di quelle liquidate a norma dell’art. 13 della L. 21 luglio 1965, n. 903”, e delle “pensioni delle assicurazioni generali obbligatorie per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti sulle quali è esercitato il diritto di sostituzione in qualsiasi forma da parte di fondi obbligatori di previdenza gestiti dall’Istituto nazionale della previdenza sociale”.

Tale norma, sulla base dell’evoluzione legislativa successivamente sviluppatasi (art. 10 d.lgs. n. 503 del 1992, art. 1 l. n. 335 del 1995) è stata giudicata applicabile ai trattamenti liquidati o maturati prima del 1.1.2015.

6. ENASARCO.

Riguardo all’obbligo di iscrizione all’ENASARCO dei sub-agenti di assicurazione ed alla loro equiparazione, ai predetti fini, ai sub-agenti di commercio, si registrano due decisioni “gemelle” della Corte che ha affermato e ribadito che in tema di contributi a favore degli enti previdenziali privatizzati, cui va attribuita la natura di prestazioni patrimoniali obbligatorie, opera la riserva di legge di cui all’art. 23 Cost., sicché, in assenza di una disposizione legislativa che lo preveda, va escluso che i sub-agenti assicurativi siano soggetti all’obbligo di iscrizione all’ENASARCO; né tale obbligo può conseguire ad una equiparazione ai sub-agenti di commercio, da cui si distinguono per il settore produttivo di appartenenza che li rende, piuttosto, assimilabili agli agenti assicurativi, la cui disciplina, ai sensi dell’art. 1753 c.c., è contenuta negli usi e negli accordi collettivi di settore e, solo in mancanza, nelle norme del codice civile in materia di agenti di commercio (Sez. L, n. 12033/2020, D’Antonio, Rv. 657980-01 e Sez. L, n. 12196/2020, D’Antonio, Rv. 658065-01 che è sostanzialmente conforme).

Nell’occasione è stato ribadito il precedente arresto con cui era stato già affermato analogo principio (Sez. L, n. 04296/2016, Tria, Rv. 639002-01).

Del precedente si è condiviso che “da sempre per le due indicate categorie di agenti - di commercio e assicurativi - sono dettate discipline profondamente diverse (e questo trova conferma anche negli artt. 1753 e 1905 cod. civ.); da sempre dalla giurisprudenza di questa Corte si desume che la natura di contratto derivato o subcontratto di subagenzia comporta che, in linea generale, i subagenti siano assoggettati alla stessa disciplina degli agenti, in quanto compatibile. E ciò è confermato anche dall’art. 109 del Codice delle Assicurazioni, secondo cui anche i subagenti assicurativi non possono svolgere la loro attività se non sono iscritti nel RUI, sia pure nella sezione E del registro e non in quella propria degli agenti. Ne deriva che, se per gli agenti è il rispettivo settore produttivo di appartenenza - nella specie: commercio o assicurazione - l’elemento determinante per l’individuazione della disciplina da applicare, lo stesso vale anche per i subagenti, visto che pure l’attività da questi concretamente esercitata è caratterizzata da tale appartenenza. Invero, è del tutto evidente che l’attività di un subagente assicurativo, nella sostanza, è - a parte la figura del preponente - uguale a quella dell’agente assicurativo e molto diversa, invece, da quella del subagente o dell’agente di commercio”.

Con l’ulteriore precisazione che “i subagenti assicurativi da molto tempo sono inclusi obbligatoriamente nel sistema INPS per la pensione IVS (gestione commercianti) - al pari tutti gli altri agenti e subagenti, sulla sola base dello svolgimento di una attività di agenzia (in senso ampio) svolta in modo abituale e prevalente e senza alcun rilievo alla distinzione dei ruoli (rispettivamente di agente o subagente) - e sono, quindi, dotati di una tutela previdenziale ai sensi dell’art. 38 Cost. Pertanto, il fatto che la categoria professionale di appartenenza non consenta loro di iscriversi al Fondo di categoria certamente non contrasta con il suddetto parametro costituzionale e comunque non ha alcun rilievo nella presente controversia, perché certamente non autorizza l’ENASARCO a chiederne la contribuzione, in mancanza di un fondamento legislativo adeguato ai sensi dell’art. 23 Cost.”, sicché tale meccanismo va ritenuto esente da profili di incostituzionalità.

7. Previdenza integrativa.

La Corte ha reso una importante pronuncia in materia di versamento della contribuzione volontaria presso il Fondo dell’assicurazione generale obbligatoria per invalidità, la vecchiaia ed i superstiti a favore del personale dipendente delle aziende private del gas ex art. 38, comma 5, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 ed, in particolare, sulla rilevanza del ritardo nel pagamento del bollettino sulla decadenza dall’iscrizione al Fondo Integrativo Gas ai sensi dell’art. 6 legge 6 dicembre 1971, n. 1084 (secondo cui, nel caso di esercizio della facoltà di proseguire il versamento volontario dei contributi al Fondo, il diritto alla prestazione integrativa si perfeziona al sessantesimo anno di età, purché si possano far valere almeno quindi anni di contribuzione presso lo stesso Fondo).

A tale proposito Sez. L, n. 19054/2020, Calafiore, Rv. 658991 01 ha affermato che in materia di iscrizione al Fondo integrativo a favore del personale dipendente dalle aziende private del gas (cd. “Fondo gas”), il tardivo pagamento della contribuzione volontaria mediante bollettino di conto corrente postale con periodicità trimestrale determina la mancata copertura assicurativa del trimestre precedente, cui il pagamento intempestivo si correla, ma non anche la perdita del trattamento pensionistico - in funzione dell’ottenimento del quale la predetta contribuzione si giustifica ed è prevista dalla legge -, perché ciò equivarrebbe ad introdurre implicitamente una decadenza in relazione all’esercizio non di un diritto ad una prestazione, bensì di una facoltà avente ad oggetto l’effettuazione di un pagamento, come tale non soggetto a decadenza né a prescrizione.

Nel caso esaminato, i giudici di merito hanno ritenuto idoneo il pagamento in ritardo all’esercizio della facoltà per la quale esso è avvenuto, senza che su ciò possa incidere la natura indebita del pagamento tardivo e la conseguente restituzione d’ufficio; ritardo che, in assenza di una normativa specifica sul punto, non può essere inteso come rinuncia alla contribuzione volontaria.

Ricostruendo la normativa che disciplina la materia e con riferimenti anche a precedenti decisioni sul punto (Sez. L, n. 13193/1991, Mollica, Rv. 474947-01), la Corte ha ritenuto che ricorrendo i presupposti di legge che consentono, quale mera facoltà, l’accesso alla contribuzione volontaria, ciascun trimestre deve ritenersi effettivamente coperto da contribuzione a condizione che il relativo pagamento sia avvenuto entro il trimestre successivo e che, in difetto di tale tempestivo adempimento ed in mancanza di causa di forza maggiore che lo abbia impedito o di espressa richiesta dell’interessato di imputazione a periodo precedente, il trimestre non può considerarsi efficacemente coperto da contribuzione e l’eventuale pagamento tardivo è indebito e va restituito dall’INPS a chi lo ha versato.

Da alcuna norma può ritenersi che dal tardivo pagamento di un solo bollettino trimestrale possano derivare effetti ulteriori rispetto alla mancata copertura assicurativa del trimestre precedente, cui il pagamento intempestivo si correla; invero, ipotizzare la conseguenza della perdita del trattamento pensionistico in funzione dell’ottenimento del quale la contribuzione volontaria si giustifica ed è prevista dalla legge, equivarrebbe ad introdurre implicitamente una decadenza in relazione non all’esercizio di un diritto ad una prestazione, come è previsto dall’art. 47 d.P.R. 639 dei 1970, ma in relazione all’esercizio di una facoltà che ha per oggetto l’effettuazione di un pagamento, come tale non soggetto a decadenza né a prescrizione, posto che l’assicurato non è creditore di alcun prestazione ma debitore.

Si segnala, inoltre, in tema di prestazioni erogate dalla Cassa Edile, l’arresto con cui Sez. L, n. 23616/2020, Negri Della Torre, Rv. 659264-01 ha deciso che la Cassa edile svolge sia funzioni di mutualità ed assistenza che previdenziali, provvedendo ad erogare ai dipendenti delle imprese edili l’indennità integrativa di malattia, con riscossione dei relativi contributi. Ne consegue che l’attestazione del credito da parte dell’ente costituisce prova idonea sia ai fini dell’emissione del decreto ingiuntivo, ai sensi dell’art. 635, comma 2, c.p.c., sia della “data certa” per la partecipazione al concorso dei creditori nel fallimento ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare.

Nella fattispecie la Corte ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva qualificato quale scrittura privata l’attestazione apposta dalla Cassa agli estratti conto comprovanti.

PARTE SESTA I RAPPORTI CON I PUBBLICI POTERI

  • giurisdizione
  • espropriazione

CAPITOLO XXV

ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ

(di Aldo Ceniccola )

Sommario

1 Premessa. - 2 La giurisdizione. - 3 La determinazione dell’indennità di espropriazione. - 4 Qualificazione delle aree e natura dei vincoli. - 5 L’occupazione. - 6 L’asservimento. - 7 L’opposizione alla stima. - 8 L’espropriazione parziale. - 9 La determinazione consensuale dell’indennità. - 10 L’espropriazione illegittima. - 11 La retrocessione.

1. Premessa.

La ricognizione delle decisioni della Suprema Corte in materia di espropriazione per pubblica utilità denota la costante tensione al consolidamento e alla sistemazione dei principi desumibili sia dalle tavole costituzionali e convenzionali, sia dal d.P.R. n. 327 del 2001 (T.U. espropriazioni), con particolare riguardo alla garanzia del serio ristoro all’espropriato, all’incidenza dei vincoli urbanistici ed alle questioni più squisitamente processuali riguardanti il procedimento di opposizione alla stima.

2. La giurisdizione.

In tema di giurisdizione, merita particolare rilievo il principio affermato da Sez. U, n. 25209/2020, Nazzicone, Rv. 659711-01, secondo cui la cognizione delle domande volte ad ottenere l’annullamento per errore della cessione volontaria dell’area destinata all’espropriazione e la conseguente restituzione o il pagamento del valore della stessa, proposte durante la vigenza dell’art. 53 d.P.R. n. 327 del 2001, spetta alla giurisdizione del giudice amministrativo, venendo in rilievo una norma di carattere processuale, applicabile in virtù del principio tempus regit actum anche quando la situazione sostanziale non è disciplinata dallo stesso d.P.R., in forza della quale sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche le controversie riguardanti gli accordi delle amministrazioni pubbliche che siano correlati all’esercizio dei poteri ablatori della P.A.

Sempre in tema di regolamento di giurisdizione, Sez. U, n. 29174/2020, Valitutti, Rv. 660098 - 01, ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo, in applicazione del principio del petitum sostanziale, in relazione alla domanda avanzata dal proprietario di terreni utilizzati per la realizzazione di strade pubbliche, il quale, reputando realizzato l’acquisto del suolo a titolo originario da parte del Comune di Bolzano, chiedeva di dare corso alla procedura di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 32 bis della l.p. n. 10 del 1991, ottenendo in risposta il silenzio dell’amministrazione comunale: la giurisdizione del giudice amministrativo è stata affermata avendo la controversia ad oggetto la verifica della illegittimità e la richiesta di annullamento di provvedimenti amministrativi che si assumeva produttivi di danni.

3. La determinazione dell’indennità di espropriazione.

Numerose le pronunce riguardanti la determinazione dell’indennità di espropriazione.

Così, quanto al metodo da adoperare per stabilire il valore venale del bene oggetto della procedura di esproprio, Sez. 1, n. 00215/2020, Iofrida, Rv. 656516-01, ha cassato la sentenza del giudice di merito che aveva determinato il valore dell’area espropriata adiacente ad un fabbricato non oggetto di espropriazione, facendo applicazione dei criteri fissati dall’allegato C del d.P.R. n. 138 del 1998, che è disciplina tesa a determinare il valore degli immobili solo in funzione del prelievo fiscale; la Corte ha infatti affermato che per la determinazione da parte del giudice di merito del valore di mercato del bene ablato, ai sensi degli artt. 36 e seguenti del d.P.R. n. 327 del 2001, è necessario l’impiego del metodo di stima di volta in volta più appropriato rispetto alle concrete caratteristiche e potenzialità del medesimo bene.

Del criterio da applicarsi con riferimento ai rapporti non ancora esauriti, per essere pendente la controversia sulla misura della giusta indennità, si occupa Sez. 1, n. 04778/2020, Scalia, Rv. 657066-01, affermando che, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale della disciplina prevista dalla legge per la determinazione dell’indennità dovuta, deve, in tali casi, applicarsi il criterio del valore venale del bene, anche se il ricorso per cassazione avverso la sentenza di merito non abbia contestato la legge applicabile per determinare l’indennità, ma soltanto la sua quantificazione in concreto, poiché sull’individuazione del criterio legale di stima non è concepibile la formazione di un giudicato autonomo, né l’acquiescenza allo stesso. (Nella specie la S.C. ha ritenuto corretta la valutazione della corte d’appello che, pronunciando in sede di rinvio, ha disatteso i criteri di stima indicati dalla S.C. e ritenuto applicabili i nuovi criteri conseguenti alla dichiarazione di illegittimità dell’art. 5 bis, commi 1 e 2, del d.l. n. 333 del 1992, decisa da Corte costituzionale n. 348 del 2007).

Riguardo, poi, ai criteri suscettibili di incidere sulla determinazione giudiziale dell’indennità, Sez. 1, n. 10747/2020, Lamorgese, Rv. 657897-01, ha precisato che il giudice del merito non è vincolato all’eccezione o istanza della parte espropriante, per fare applicazione dell’art. 32, comma 2, del d.p.r. del 2001, che impone di non tenere conto, ai fini indennitari, delle costruzioni e migliorie “opportunistiche” - quali sono quelle che sono state intraprese sui fondi soggetti ad esproprio dopo la comunicazione dell’avvio del procedimento e del deposito degli atti ex art. 16, comma 4 del medesimo d.P.R. - trattandosi di una circostanza che egli è tenuto a rilevare, anche d’ufficio, sulla base degli elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti, in quanto incidente sulla de terminazione giudiziale dell’indennità.

Importante è il chiarimento, riguardante il concetto di intervento di riforma economico-sociale, che giustifica la riduzione del 25 per cento del valore venale del bene ai fini della determinazione dell’indennità, operato da Sez. 1, n. 11081/2020, Scotti, Rv. 658070-01, che, in relazione alla fattispecie concreta posta alla sua attenzione ha escluso che la procedura espropriativa finalizzata a favorire l’industrializzazione e gli investimenti in area depressa del centro-sud ad opera di un Consorzio potesse essere produttiva ai sensi dell’art. 51 del d.P.R. n. 218 del 1978 degli stessi effetti giuridici del piano territoriale di coordinamento di cui alla l. n. 1150 del 1942, in difetto di esplicito riconoscimento normativo; secondo la S.C., infatti, il presupposto dell’intervento di riforma economico-sociale, deve riguardare l’intera collettività o parti di essa geograficamente o socialmente predeterminate ed essere, quindi, attuato in forza di una previsione normativa che in tal senso lo definisca.

Sempre a proposito del meccanismo di riduzione del 25 per cento dell’indennità di esproprio, Sez. 1, n. 11070/2020, Scalia, Rv. 658086-01, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione all’art. 42, comma 3, Cost., dell’art. 14, comma 2, della l.p. di Trento n. 6 del 1993, nella parte in cui rimette al proprio regolamento di attuazione (decreto del Presidente della Provincia n. 24-26 del 2009) l’individuazione delle opere la cui esecuzione comporta la decurtazione del 25 per cento dell’indennità espropriativa, attribuendo alla fonte secondaria il compito di fornire le direttive di attuazione, dal momento che l’art. 42, comma 3, Cost. impone la riserva di legge in materia di espropriazione per pubblica utilità ma a carattere relativo.

Allorché, poi, i suoli oggetto della procedura espropriativa dispongano di un soprassuolo arboreo, Sez. 1, n. 10743/2020, Dolmetta, Rv. 657896-01, ha precisato che si configurano come ragioni di giusta indennità gli oneri sopportati per lo spostamento delle piante dall’area espropriata ad altra area, trattandosi di costi direttamente conseguenti al pregiudizio causato dall’espropriazione all’azienda insistente sul relativo terreno, e non invece il costo dell’espiantato. Facendo pertanto applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza con la quale la Corte di appello aveva stabilito che nulla fosse dovuto per lo scomodo derivante dallo spostamento forzoso delle piante presenti nella porzione di vivaio ricadente nell’area espropriata.

Con particolare riguardo ai terreni agricoli e con riferimento agli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2011, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale del criterio del valore agricolo medio (VAM), Sez. U, n. 07454/2020, Conti, Rv. 657417-05, ha precisato, con riferimento alla determinazione dell’indennità di occupazione legittima, che la stima deve essere effettuata in base al criterio del valore venale pieno, con la possibilità di dimostrare che il fondo, pur senza raggiungere il livello dell’edificatorietà, sia suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso rispetto a quello agricolo, tale da attribuire allo stesso una valutazione di mercato che rispecchi possibilità di utilizzazione intermedie tra quella agricola e quella edificatoria (in una fattispecie relativa all’occupazione di un’area destinata ad attrezzature sportive, campi da gioco ed attrezzature varie).

Sempre riguardo ad aree diverse da quelle edificabili, Sez. 1, n. 18578/2020, Nazzicone, Rv. 658807-01, ha affermato che, a seguito della sentenza della Corte cost. n. 181 del 2011, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 5 bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992 (conv., con modif., dalla l. n. 359 del 1992), e comportato, in via conseguenziale, l’incostituzionalità dell’art. 40, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 327 del 2001, il sistema premiale della triplicazione dell’indennità di esproprio, riconosciuto in favore del coltivatore diretto dall’art. 17, comma 1, della l. n. 865 del 1971, al pari di quello previsto dall’art. 45, comma 2, lett. c) e d), del d.P.R. n. 327 del 2001, deve ritenersi abrogato per incompatibilità con il nuovo assetto normativo.

Poiché il diritto di credito all’indennità di espropriazione costituisce un valore del quale deve tenersi conto anche nel giudizio di scioglimento della comunione ereditaria, Sez. 6-2, n. 05993/2020, Criscuolo, Rv. 657271-01, partendo dal presupposto che la stima per la formazione delle quote di beni in comunione va effettuata al tempo della divisione, avendo riguardo ad ogni elemento incidente sul valore di mercato, ha precisato che, qualora “lite pendente” sia disposta un’espropriazione per pubblica utilità su immobili della massa comune, occorre tener conto, tra le componenti da dividere, del diritto di credito all’indennità di espropriazione in luogo del bene non più in proprietà dei condividenti.

Relativamente, poi, al ristoro spettante al proprietario a seguito dell’acquisizione sanante di cui all’art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, va segnalato che Sez. 1, n. 29625/2020, Scalia, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite, sollecitando un ripensamento in ordine al principio enunciato nella sentenza Sez. U, n. 15283/2016, De Chiara, Rv. 640701-01, ove è stata riconosciuta la natura indennitaria, e non risarcitoria, anche agli importi dovuti al proprietario del bene per il periodo di occupazione senza titolo, evidenziando come il tenore letterale della norma e il complessivo sistema del risarcimento del danno in materia di espropriazione depongano in senso contrario.

4. Qualificazione delle aree e natura dei vincoli.

Sez. 1, n. 00207/2020, Sambito, Rv. 656617-01, ha confermato l’orientamento consolidato, da ultimo seguito da Sez. 1, n. 16084/2018, Sambito, Rv. 649574-01, e da Sez. 1, n. 23572/2017, Campanile, Rv. 645529-01, secondo il quale, al fine di individuare la qualità edificatoria dell’area, da effettuarsi in base agli strumenti urbanistici vigenti al momento dell’espropriazione, occorre distinguere tra vincoli conformativi ed espropriativi, sicché, ove con l’atto di pianificazione si provveda alla zonizzazione dell’intero territorio comunale, o di una sua parte, sì da incidere su di una generalità di beni, in funzione della destinazione dell’intera zona in cui essi ricadono e in ragione delle sue caratteristiche intrinseche, il vincolo assume carattere conformativo ed influisce sulla determinazione del valore dell’area espropriata, mentre, ove si imponga un vincolo particolare, incidente su beni determinati, in funzione della localizzazione di un’opera pubblica, il vincolo è da ritenersi preordinato all’espropriazione e da esso deve prescindersi nella stima dell’area. Così, ad esempio, nella specie, l’inserimento nel piano regolatore generale di una linea metropolitana possiede di regola carattere conformativo, a prescindere dalla successiva vicenda ablativa dei singoli lotti sui quali l’opera ricadrà.

Alcun vincolo conformativo, è stato precisato, deriva dal piano di recupero urbano: così, secondo Sez. 1, n. 14780/2020, Marulli, Rv. 658245-02, il vincolo nasce in realtà dall’accordo di programma, sicché la determinazione delle indennità riflette necessariamente le varianti apportate al p.r.g., quale strumento urbanistico generale, proprio a seguito della stipulazione dell’accordo anzidetto.

Sempre in tema di vincoli conformativi, Sez. 1, n. 06486/2020, Caradonna, Rv. 657067-01, ha affermato che, ai fini della determinazione dell’indennità di esproprio, deve essere esclusa la qualità edificatoria dell’area che risulti destinata a pubblici impianti in base a progetti approvati dall’autorità amministrativa, in virtù delle norme di attuazione del p.r.g. che regolino il territorio comunale con previsione generale e astratta, comportando così un vincolo di tipo non ablativo ma conformativo, cosicché dell’incidenza della suddetta destinazione sul valore del bene dovrà tenersi conto per la determinazione dell’indennità.

Particolare rilievo, in tema di natura delle aree sottoposte ad espropriazione, assume Sez. 1, n. 18571/2020, Marulli, Rv. 658616-01, che opera un’importante precisazione riguardo al concetto di ambito zonale nel quale siano ricompresi i terreni espropriati. In particolare, il piano di recupero urbano (cd. P.R.U.), avente ad oggetto una zona urbanistica connotata da caratteri di intrinseca omogeneità, postula la determinazione dell’indice di fabbricabilità territoriale, non rapportata alle sole aree espropriate, bensì parametrata all’intera zona omogenea, al lordo dei terreni da destinare a spazi liberi, o comunque non suscettibili di edificazione per il privato, di talché tutti i terreni espropriati in uno stesso ambito zonale vengono a percepire la stessa indennità, calcolata su una valutazione del fondo rapportata alla potenzialità edificatoria “media” del comprensorio, attraverso l’applicazione di un indice di fabbricabilità “territoriale” frutto del rapporto fra spazi destinati agli insediamenti residenziali e spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato.

Con particolare riguardo alle aree archeologiche, poi, Sez. 1, n. 00205/2020, Scalia, Rv. 656616-01, ha precisato che il vincolo di inedificabilità non può ritenersi sempre assoluto in astratto, potendosi ipotizzare un’attività edificatoria che non pregiudichi la conservazione dei reperti archeologici esistenti sull’area, fermo restando che il giudice di merito, con apprezzamento in fatto incensurabile in Cassazione, può ritenere il vincolo assoluto in concreto, quando l’interesse archeologico non rimanga circoscritto ad alcuni dei ritrovamenti, ma si correli al luogo nel suo complesso integrando un parco archeologico, inteso quale sede di una pluralità di reperti testimonianti uno specifico assetto storico di insediamento.

Sez. 1, n. 28651/2020, Iofrida, Rv. 660066 - 01, è tornata a fare applicazione di un principio, già in passato enunciato dalla S.C., in tema di esproprio di cave, applicabile per analogia anche alle miniere, secondo cui l’indennizzo per l’esproprio di beni siffatti, da considerare entità fruibili direttamente in termini di appropriazione materiale e non reversibile né rinnovabile, ovvero in un contesto di utilizzazione e consumo che sfugge alla logica che, nell’ottica dell’art. 5-bis della l. n. 359 del 1992, presiede alla valutazione delle aree, si sottrae alla rigida dicotomia normativa tra suoli agricoli e suoli edificatori. Tali beni, infatti, non sono utilizzabili per quel che si può su di essi costruire (aree edificabili) o dal loro soprassuolo trarre (aree agricole), sicché occorre apprestare un serio ristoro sulla base del razionale riferimento ai proventi che l’espropriato, in quanto pure titolare della cava (o della miniera), sarebbe stato in grado, in una libera contrattazione, di ricavare per effetto dell’esercizio dell’attività estrattiva se il bene non gli fosse stato espropriato, ovvero deve essere ragguagliato alle capacità estrattive dell’area e, quindi, al reddito prodotto e producibile per tutto il tempo della prevista utilizzazione del materiale, sino all’estinzione, cioè, del rapporto o all’esaurimento (effettivo od economico) del giacimento, avuto riguardo alla produttività della cava (o della miniera), alle sue specifiche possibilità di sfruttamento ed al valore di mercato del materiale anzidetto all’epoca dell’esproprio.

Sez. 6-1, n. 29184/2020, Lamorgese, Rv. 660159 – 01, ha infine precisato che nell’ipotesi in cui la vicenda ablatoria sia riferibile direttamente al provvedimento acquisitivo adottato ai sensi dell’art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 (nella specie adottato dal commissario ad acta in sede di ottemperanza), è a tale data, in cui si è realizzata la fattispecie traslativa, che deve essere condotta l’indagine sulla situazione urbanistica dell’area, non assumendo alcuna rilevanza quale detta situazione fosse all’epoca dell’accordo di programma o dell’irreversibile trasformazione.

5. L’occupazione.

Sui rapporti intercorrenti tra le requisizioni in uso di aree a seguito del sisma del 1980 e le occupazioni preordinate all’espropriazione, Sez. 1, n. 07466/2020, Terrusi, Rv. 657490-03, ha precisato che qualora il Comune, dopo aver disposto la requisizione in uso di un’area, abbia poi emesso un ulteriore decreto, mediante il quale abbia dichiarato la pubblica utilità della medesima area a fini espropriativi, ed autorizzato quindi l’occupazione dei fondi, il periodo di validità dell’occupazione d’urgenza deve essere calcolato dalla data di esecuzione di quel decreto, sempre che non fosse all’epoca già intervenuta la trasformazione irreversibile del bene. Va tenuto presente che tale principio è stato affermato in relazione ad un’ipotesi in cui la dichiarazione di pubblica utilità del bene, e l’autorizzazione all’occupazione del fondo, erano intervenute in epoca precedente all’entrata in vigore della legge n. 80 del 1984 che, all’art. 6, ha previsto la generale trasformazione delle requisizioni in uso, disposte in conseguenza del sisma, in occupazioni preordinate all’espropriazione.

Con riferimento alla natura del risarcimento del danno derivante dall’occupazione illegittima, Sez. 1, n. 07466/2020, Terrusi, Rv. 657490-01, ha precisato che, posto che il relativo credito è di valore, come tale soggetto a rivalutazione da considerarsi rilevante fino alla data della liquidazione (taxatio), il danno da ritardo, ove esistente, comprende la liquidazione degli interessi sul credito espresso in moneta all’epoca del fatto e poi rivalutato anno per anno ovvero, per identità di risultato, sulla semisomma (e cioè la media) tra il credito rivalutato alla data della liquidazione e lo stesso credito espresso in moneta all’epoca dell’illecito.

6. L’asservimento.

Riguardo all’indennità prevista dall’art. 44 del d.P.R. n. 327 del 2001 (che ha sostituito l’art. 46 della legge n. 2359 del 1865), che mira a ristorare la permanente diminuzione di valore subita dal proprietario del fondo per effetto dell’esecuzione dell’opera pubblica, Sez. 1, n. 07112/2020, Tricomi, Rv. 657480-01, ha precisato che il concetto di danno permanente, richiamato dalla norma, non implica l’indennizzabilità del solo danno perpetuo o irreparabile, essendo permanente anche quello che si produce periodicamente e ad intervalli o che dura fino a quando permane la causa lesiva, individuabile non solo nell’opera pubblica - che può mostrare il suo carattere pregiudizievole pure dopo l’ultimazione dei lavori -, ma anche in lavori di modificazione o di completamento della stessa; la valutazione della “permanenza” del danno deve essere effettuata con riguardo al momento dell’apprezzamento della causa lesiva in base ad un giudizio prognostico, ispirato ad un criterio di normalità causale, in forza del quale è da ritenersi indennizzabile il danno quando non vi siano elementi per ritenere che la deminutio del diritto sia temporanea.

Sotto il profilo della liquidazione dell’indennizzo, Sez. 1, n. 07112/2020, Tricomi, Rv. 657480-02, ha affermato che il principio secondo il quale i danni permanenti derivanti dalla perdita o diminuzione del diritto sono quelli effettivamente ed oggettivamente prodotti all’immobile per il tempo in cui si è protratto l’evento lesivo, escluso ogni altro pregiudizio per lucro cessante, non osta a che il mancato reddito possa considerarsi nella valutazione dell’indennità, ma tale rilevanza può ammettersi non come lucro cessante bensì soltanto se sia derivata una reale perdita o diminuzione dell’immobile, anche se per perdita o diminuzione del valore locativo.

Della determinazione dell’indennità di asservimento derivante dall’imposizione della servitù di elettrodotto si occupa Sez. 1, n. 18577/2020, Nazzicone, Rv. 658617-01, precisando come essa debba essere parametrata al valore venale del bene ed attribuita se sia dimostrata l’attualità del deprezzamento nonché l’oggettiva incidenza causale del vincolo; siffatta determinazione, si prosegue, richiede l’applicazione del metodo sintetico-comparativo con obbligo per il giudice, onde non incorrere in violazione di legge, di indicare i dati obiettivi sui quali ha fondato la propria valutazione, vale a dire gli elementi di comparazione utilizzati documentandone la rappresentatività in riferimento ad immobili analoghi e quindi in riferimento ad atti specifici ed identificabili.

L’indennità di asservimento che spetta al proprietario del fondo gravato dall’imposizione di una servitù e che presuppone un atto legittimo della Pubblica Amministrazione con conseguente responsabilità indennitaria ex art. 44 del d.P.R. n. 327 del 2001, va calcolata in una misura percentuale dell’indennità di espropriazione essendo destinata a ristorare il pregiudizio attuale ed effettivo derivante al proprietario non espropriato dalla realizzazione dell’opera pubblica. L’accostamento in via analogica tra le due indennità comporta pertanto, secondo Sez. 1, n. 18581/2020, Scalia, Rv. 658809-01, che la posta di cui all’art. 33 d.P.R. n. 327 del 2001, che in tema di esproprio parziale impone la commisurazione dell’indennità anche alla perdita di valore della porzione residua del fondo, trova applicazione anche rispetto ad un fondo appartenente ad un unico proprietario che si trovi svilito nel suo valore anche quanto alla parte del fondo non attinta dal provvedimento di servitù in ragione della originaria unitarietà del bene.

7. L’opposizione alla stima.

Per ciò che concerne la competenza funzionale in unico grado della Corte d’appello, prevista dall’art. 19 l. n. 865 del 1971, Sez. 6-3, n. 10440/2020, D’Arrigo, Rv. 657994-01, ha precisato che essa è limitata alle controversie relative al quantum dell’indennità di espropriazione, ossia alle richieste volte ad ottenere la liquidazione di un importo maggiore di quello stabilito in sede amministrativa o, in mancanza, la determinazione giudiziale del giusto indennizzo. Esulano invece da tale ambito le domande finalizzate a conseguire il pagamento dell’indennità definitivamente accertata e non contestata. In base a tale premessa, la S.C. ha dunque affermato la competenza della corte d’appello a conoscere della causa promossa dall’espropriato che - allegando di aver concordato, ai fini della liquidazione della menzionata indennità, la corresponsione di un determinato importo per ciascun albero presente sul fondo - aveva dedotto di avere ottenuto una somma inferiore rispetto al dovuto perché, nel verbale di consistenza e immissione nel possesso, era stato indicato un numero errato di piante.

Quanto al profilo del rilievo dell’incompetenza, Sez. 6-1, n. 09552/2020, Mercolino, Rv. 657738-01, ha statuito che essa non è rilevabile d’ufficio per la prima volta in sentenza, trovando applicazione l’art. 38, comma 3, c.p.c., che preclude il rilievo d’ufficio dell’incompetenza oltre la prima udienza di cui all’art. 183 c.p.c.

Il problema dei poteri officiosi si ripropone quanto all’individuazione dei criteri indennitari applicabili alla procedura ablatoria: Sez. 1, n. 12619/2020, Parise, Rv. 658053-01, ha precisato in proposito che il giudice adito non è vincolato dalle indicazioni delle parti, ma ha egli stesso il potere-dovere di individuare i criteri indennitari applicabili alla procedura ablatoria in forza delle norme che li contemplano, sicché non risulta neppure necessario che nell’atto di citazione sia quantificata la somma pretesa a titolo di indennità. Con ciò andando di contrario avviso rispetto alla decisione della Corte d’appello che aveva respinto le domande volte ad ottenere una diversa quantificazione dell’indennità di espropriazione, ritenendo che le stesse fossero del tutto generiche non avendo le parti indicato nel dettaglio le somme pretese.

Quanto all’individuazione delle parti processuali, Sez. 1, n. 01090/2020, Parise, Rv. 656620-01, ha osservato che l’art. 54, comma 3, d.P.R. n. 327 del 2001 - nel testo vigente prima della modifica introdotta dal d.lgs. n. 150 del 2011-, nel disporre che la notifica dell’opposizione alla stima sia fatta “se del caso” anche al beneficiario, prevede un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra espropriante, promotore e beneficiario dell’espropriazione. Di quest’ultimo si impone l’evocazione in giudizio ogni qualvolta si tratti di soggetto differente dai primi due, non potendosi rimettere ad un’inammissibile valutazione dell’espropriato l’interesse a citarlo, posto che ciò sarebbe in contrasto con la finalità semplificativa e deflattiva del contenzioso propria della normativa vigente.

La legittimazione passiva del Comune nei giudizi di determinazione dell’indennità è stata affermata da Sez. 1, n. 14780/2020, Marulli, Rv. 658245-01, in un caso di espropriazione disposta per la realizzazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica. Infatti il Comune, quale beneficiario delle aree espropriate, è il soggetto obbligato al pagamento dell’indennità, anche quando, ai sensi dell’art. 60 della l. n. 865 del 1971, venga delegato altro soggetto per l’acquisizione delle aree, esaurendosi in tal caso la delega in un mero incarico a compiere in nome e per conto del comune gli atti necessari per l’adozione del provvedimento ablatorio o per la stipulazione dell’atto di cessione.

Il termine perentorio di trenta giorni, previsto dall’art. 54, commi 1 e 5, del d.P.R. n. 327 del 2001 per l’impugnazione della determinazione dell’indennità di esproprio, non è applicabile, per Sez. 6-1, n. 11687/2020, Lamorgese, Rv. 657989-01, all’opposizione avverso la determinazione dell’indennizzo contenuta nel provvedimento acquisitivo adottato a norma dell’art. 42 bis del medesimo decreto, sia perché tale termine si riconnette ad un iter procedimentale estraneo all’istituto dell’acquisizione sanante, sia perché l’art. 42 bis non contiene alcun richiamo all’art. 54, sicché, vertendosi in tema di termini fissati per la tutela giurisdizionale di diritti, non è consentito ravvisarne la natura perentoria in mancanza di espressa previsione normativa.

8. L’espropriazione parziale.

Sez. 1, n. 15040/2020, Scalia, Rv. 658673-01, definisce l’espropriazione parziale come il fenomeno nel quale la vicenda ablativa investe parte di un complesso immobiliare appartenente allo stesso soggetto e caratterizzato da un’unitaria destinazione economica, implicando per il proprietario un pregiudizio diverso da quello ristorabile mediante l’indennizzo calcolato con riferimento soltanto alla porzione espropriata, per effetto della compromissione o comunque dell’alterazione delle possibilità di utilizzazione della restante porzione e del connesso deprezzamento di essa. In tal caso l’indennità andrà determinata sulla base della differenza fra il valore dell’unico bene prima dell’espropriazione ed il valore della porzione residua secondo l’art. 40 della l. n. 2359 del 1865 (oggi art. 33 del d.P.R. n. 227 del 2001).

Dell’applicazione estensiva della disciplina dell’espropriazione parziale si occupa Sez. 1, n. 10747/2020, Lamorgese, Rv. 657897-02, in relazione al caso in cui, per effetto della realizzazione o dell’ampliamento di una strada pubblica (nella specie, di una autostrada), il privato debba subire nella sua proprietà la creazione o l’avanzamento della relativa fascia di rispetto: quest’ultima, infatti, pur traducendosi in un vincolo assoluto di inedificabilità che di per sé non è indennizzabile, in applicazione estensiva della disciplina in tema di espropriazione parziale, non esclude però il diritto del proprietario di essere indennizzato per il deprezzamento dell’area residua mediante il computo delle singole perdite ad essa inerenti, quando risultino alterate le possibilità di utilizzazione della stessa ed anche per la perdita della capacità edificatoria realizzabile sulle più ridotte superfici rimaste.

Lo stesso principio risulta affermato da Sez. 1, n. 13598/2020, Parise, Rv. 658134-01, secondo cui lo spostamento della fascia di rispetto autostradale all’interno dell’area residua rimasta in proprietà degli espropriati, pur traducendosi in un vincolo assoluto di inedificabilità, di per sé non indennizzabile, può rilevare nella determinazione dell’indennizzo dovuto al privato, in applicazione estensiva dell’art. 33 del d.P.R. n. 327 del 2001, mediante il computo delle singole perdite conseguenti al deprezzamento dell’area residua, qualora risultino alterate le possibilità di utilizzo della stessa, ed anche per la perdita di capacità edificatoria realizzabile sulle più ridotte superfici rimaste in proprietà.

9. La determinazione consensuale dell’indennità.

Sez. 1, n. 06487/2020, Caradonna, Rv. 657027-01, riprendendo l’orientamento già affermato da Sez. 1, n. 13415/2008, Tavassi, Rv. 603790-01, ha affermato che l’accordo bonario sull’indennità spettante all’espropriando non comporta ipso facto la cessione volontaria del bene, sicché con l’accettazione dell’indennizzo l’entità stabilita diventa definitiva e non più contestabile in base all’art. 12, comma 2, della l. n. 865 del 1971, solo in caso di successiva adozione del decreto di esproprio, in mancanza del quale la procedura espropriativa non si perfeziona e si ha la caducazione degli accordi e degli atti compiuti nella sua pendenza.

10. L’espropriazione illegittima.

Già Sez. 1, n. 06301/2014, Lamorgese, Rv. 630521-01, aveva chiarito come, in presenza di un comportamento costituente fatto illecito, l’Amministrazione non possa imputare al privato danneggiato il mancato esperimento del rimedio restitutorio in forma specifica che l’ordinamento interno ed internazionale gli accorda per la tutela della proprietà, al fine di essere esonerata dall’obbligazione di risarcimento del danno per equivalente, configurandosi la relativa eccezione come de iure tertii e, pertanto, inammissibile, in quanto la scelta dei rimedi a tutela della proprietà pur sempre riservata al privato danneggiato. Sulla stessa linea di colloca Sez. 1, n. 00144/2020, Lamorgese, Rv. 656514-01, che ha affermato che, nei casi di occupazione acquisitiva o accessione invertita, alla P.A. non è consentito negare al privato il risarcimento del danno preteso, invocando il mancato formale trasferimento nel proprio patrimonio del bene illegittimamente occupato, sul presupposto che il menzionato istituto sia stato ritenuto contrario ai principi costituzionali e della CEDU e, tuttavia, mantenendo il predetto bene nella propria disponibilità destinandolo in modo definitivo e irreversibile ad un fine pubblico, in quanto la scelta dei rimedi a tutela della proprietà è pur sempre riservata al soggetto danneggiato.

Sez. 1, n. 07466/2020, Terrusi, Rv. 657490-02, conferma, a sua volta, il principio, già precedentemente affermato da Sez. 1, n. 17992/2014, Mercolino, Rv. 632048-01, secondo il quale nel giudizio di risarcimento del danno per occupazione illegittima, la perdita del diritto di proprietà, determinata dalla realizzazione dell’opera pubblica non seguita dalla tempestiva emissione del decreto di espropriazione, costituisce una condizione dell’azione, e può pertanto sopravvenire in corso di causa.

Della determinazione del risarcimento del danno in caso di occupazione usurpativa e della rilevanza, in tal caso, dell’unico criterio discretivo dell’edificabilità legale (su cui già Sez. 1, n. 23639/2016, Sambito, Rv. 642800-02, si occupa Sez. 1, n. 18584/2020, Scalia, Rv. 658810-01, secondo cui tale forma di occupazione, che integra un illecito a carattere permanente e non annulla la connotazione urbanistica dei suoli ablati, obbliga l’amministrazione al risarcimento del danno, che deve essere determinato in considerazione del criterio dell’edificabilità legale dei suoli, e quantificato in base all’integrale valore di mercato del terreno, senza che sia consentito alcun ricorso, integrativo o sostitutivo, all’edificabilità di fatto. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione della corte di merito, la quale aveva commisurato il danno alla conformazione e destinazione di fatto dei terreni illecitamente occupati in quanto l’amministrazione aveva provveduto ad asfaltare una strada già precedentemente realizzata dai privati proprietari).

Importante è poi la precisazione operata da Sez. 1, n. 28650/2020, Iofrida, Rv. 660017 - 01, che, riprendendo il principio già affermato da Sez. 1, n. 21994/2008, Giuliani, Rv. 604610-01, ha affermato che il giudice di appello non può, d’ufficio, convertire la domanda di risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, originariamente proposta, in domanda di opposizione alla stima, in considerazione della diversità di petitum e di causa petendi tra le domande anzidette, ovvero della loro “infungibilità”, configurandosi quella di determinazione dell’indennità di espropriazione, rispetto alla domanda di risarcimento del danno da occupazione appropriativa, come ontologicamente diversa, atteso che la prima ha ad oggetto il giusto indennizzo a norma dell’art. 42 Cost. e trova causa nella tempestiva emissione di un provvedimento ablatorio, mentre la seconda è volta ad ottenere il risarcimento del danno conseguente alla perdita della proprietà del bene irreversibilmente destinato alle esigenze dell’opera pubblica ed è fondata su un comportamento illecito della Pubblica Amministrazione.

Sempre in tema di perdita di proprietà conseguente ad un’occupazione appropriativa od usurpativa, Sez. 1, n. 12616/2020, Parise, Rv. 657961-01, nel dare continuità all’orientamento già espresso da Sez. 1, n. 22923/2013, Mercolino, Rv. 628187-01, ha chiarito che il deposito di una somma a titolo di indennità di espropriazione ed occupazione, ai sensi degli artt. 48 e 49 della l. n. 2359 del 1865, ha efficacia liberatoria per il debitore espropriante, soltanto nell’ambito di una procedura perfezionatasi con l’emissione di un valido ed efficace decreto di esproprio o di occupazione temporanea e non anche ai fini del risarcimento in caso di occupazione appropriativa od usurpativa; in tali ipotesi, infatti, la somma liquidata a titolo di risarcimento del danno deve essere corrisposta direttamente al danneggiato, con detrazione dall’importo dovuto delle sole somme eventualmente già incassate da quest’ultimo, potendo l’espropriante legittimamente chiedere la restituzione di quelle ancora giacenti presso la Cassa Depositi e Prestiti.

11. La retrocessione.

Riguardo alla distinzione tra retrocessione totale o parziale, Sez. 1, n. 18580/2020, Scalia, Rv. 658808-02, ha affermato che la valutazione dell’effettiva esecuzione dell’opera pubblica o di interesse pubblico deve essere compiuta con riferimento all’intero complesso di beni interessati dalla dichiarazione di pubblica utilità e non riguardo ai fondi di proprietà del privato, con la conseguenza che, quando l’opera programmata non abbia poi in concreto riguardato qualcuno di tali fondi o porzioni, ma sia stata comunque eseguita anche se in termini ridotti, la loro mancata utilizzazione non fa sorgere il diritto alla retrocessione, direttamente tutelabile innanzi al giudice ordinario, ma il mero interesse legittimo all’inservibilità dei beni, cui soltanto consegue il diritto alla restituzione.

Allorché poi il giudice ordinario venga investito del merito a seguito della riassunzione del giudizio conseguente alla declinatoria della giurisdizione del giudice amministrativo, per Sez. 1, n. 18580/2020, Scalia, Rv. 658808-01, ferma la giurisdizione affermata dal giudice remittente, ben può essere riconosciuta la retrocessione parziale del bene e con essa la sussistenza di un mero interesse legittimo del privato, con il conseguente rigetto della domanda sul presupposto della mancanza della dichiarazione di inservibilità, atteso che la formazione di un giudicato interno sulla giurisdizione del giudice ordinario, in difetto di eccezione di parte o rilievo d’ufficio, non si estende al merito della lite e dunque non impedisce al medesimo di qualificare diversamente il rapporto e di sottoporlo alla relativa disciplina.

  • appalto pubblico
  • subappalto

CAPITOLO XXVI

APPALTI PUBBLICI

(di Stefano Pepe )

Sommario

1 Premessa, il quadro normativo. - 2 La giurisdizione: cenni. - 3 L’esecuzione del contratto: le riserve, il ritardo nella consegna delle opere, il controllo del progetto. - 4 Le formalità nella ripartizione dei lavori nel caso di riunione di imprese orizzontale. - 5 Differenze tra opere extracontrattuali e varianti. Rilevanza ai fini della posizione dell’appaltatore. - 6 Appalto e sub-appalto. Rapporti e interferenze. - 7 L’arbitrato negli appalti pubblici.

1. Premessa, il quadro normativo.

Prima di passare all’esame dei principi affermati dalla Corte di cassazione nel corso dell’anno 2019 in materia di appalti pubblici, in ragione della particolarità e complessità della materia non può non tenersi conto, da un lato, che il quadro normativo di riferimento è stato nel tempo oggetto di successive e articolate modificazioni e, dall’altro, dei limiti entro i quali opera la giurisdizione del giudice ordinario rispetto a quella del giudice amministrativo.

Quanto al primo aspetto va osservato che alla prima legge sulle opere pubbliche, l. n. 2248 del 1865, all. F, ha fatto seguito la legge quadro sui lavori pubblici, l. n. 109 del 1994, che aveva lo scopo di creare una disciplina omogenea in materia di lavori pubblici. A seguito di tale legge, il d.m. n. 145 del 2000 ha introdotto il nuovo capitolato generale d’appalto e il d.P.R. n. 34 del 2000 ha definito il sistema di qualificazione delle imprese e altre normative di carattere tecnico.

Nel 2004 l’Unione Europea ha, poi, adottato la direttiva 2004/18/CE (abrogata dalla nuova direttiva 2014/24/UE) che riunisce le procedure per l’aggiudicazione degli appalti nei tre settori dei lavori, dei servizi e delle forniture quale obiettivo di semplificazione e snellimento delle procedure; direttive che il d.lgs. 163 del 2006 (codice dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture) ha recepito nel nostro ordinamento. Con l’entrata in vigore del d.P.R. n. 207 del 2010, di esecuzione e attuazione del d.lgs. n. 163 del 2006, si è abrogato il d.P.R. n. 554 del 1999 e il d.P.R. 34 del 2000 di attuazione della l. n. 109 del 1994, e gran parte del d.m. 145 del 2000. In ultimo, il legislatore ha adottato il d.lgs. n. 50 del 2016 che costituisce la fonte normativa di riferimento per quanto riguarda la disciplina di qualsiasi tipo di contratto pubblico di lavori, servizi e forniture.

In particolare, il nuovo codice dei contratti si compone di 220 articoli e XXV allegati ed è diviso in sei parti- la prima dedicata all’ambito di applicazione, principi, disposizioni comuni ed esclusioni (artt. 1-34); la seconda dedicata ai contratti di appalto per lavori, servizi e forniture, comprensiva sia della disciplina degli appalti nei settori ordinari che di quella degli appalti nei settori speciali, oltre che della disciplina di appalti in specifici settori, quali gli appalti relativi a beni culturali, gli appalti della protezione civile, gli appalti nei servizi sociali, i concorsi di progettazione, gli appalti relativi a difesa e sicurezza (artt. 35-163); la terza dedicata alle concessioni (artt. 164-178); la quarta dedicata al partenariato pubblico e privato e al contraente generale (artt. 179-199); la quinta dedicata a infrastrutture e insediamenti prioritari (artt. 200-203); la sesta recante disposizioni finali e transitorie, dove sono collocate anche le disposizioni sul contenzioso (rito appalti, transazione, accordo bonario, arbitrato, altri rimedi paragiurisdizionali) (artt. 204-220).

Il d.lgs. n. 50 del 2016 è stato, poi, oggetto di modifica ad opera del d.lgs. n. 56 del 2017.

Discende come logica conseguenza da quanto sopra che le sentenze di seguito riportate, seppur riferite a fattispecie in cui risultano applicabili norme formalmente non più attuali, in quanto abrogate dal d.lgs. n. 50 del 2016, assumono, comunque, valore di piena attualità, nei casi in cui il loro contenuto è stato sostanzialmente riprodotto in tale ultimo testo normativo.

2. La giurisdizione: cenni.

Quanto al secondo aspetto, relativo al riparto di giurisdizione, esso assume rilievo ai fini di comprendere entro quale ambito è riconosciuto al giudice ordinario il potere di decidere le controversie in materia di appalti pubblici.

Sul punto, si riportano tre pronunce che hanno affrontato il riparto di giurisdizione con riferimento a tre specifiche fattispecie di estrema attualità.

Con una prima sentenza (Sez. U, n. 07005/2020, Cosentino, Rv. 657221-01) si è ribaltata la decisione del Consiglio di Stato e dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario, dando atto della natura privatistica delle controversie che riguardano l’affidamento dei servizi oggetto della concessione da parte del concessionario a soggetti diversi dai soci che compongo la sua compagine sociale. Con tale sentenza si sono chiariti alcuni aspetti afferenti al settore delle concessioni e per il suo futuro sviluppo anche nella prospettiva degli investitori internazionali, confermando che la concessionaria nell’affidare i servizi sul mercato non è vincolata alle procedure di gara previste dal Codice dei contratti pubblici, ma è libera nella scelta dei relativi gestori, e che ciò non comporta alcuna sostituzione del concessionario che rimane sempre lo stesso soggetto, nel pieno rispetto del Codice dei contratti pubblici e della convenzione. Nella specie una società di progetto era titolare di una concessione rilasciata da una Azienda ULSS per la costruzione di alcune infrastrutture ospedaliere e per la gestione di alcuni servizi ad esse relativi di cui, parte, affidati dalla suddetta società ad altra compagine sociale, terza estranea alla società progetto, senza applicare le regole dell’evidenza pubblica. Tale affidamento era oggetto di impugnazione da parte di altre società dinnanzi al g.a. Per quel che rileva in tale sede il Consiglio di Stato aveva affermato che la contestata legittimità della decisione della società concessionaria di attribuire direttamente, e previa gara informale, taluni servizi oggetto di concessione a soggetti diversi dai soci, senza l’osservanza delle regole nazionali ed europee in materia di evidenza pubblica, rientrava nella propria giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133 c.p.a., comma 1, lett. a bis) e b), c) e e) n.1. Le Sezioni unite hanno confutato tale decisione affermando il principio secondo cui l’affidamento a terzi (nella specie, a soggetto estraneo alla società di progetto) di servizi, oggetto di concessione, ad opera di concessionario di lavori pubblici, che non sia amministrazione aggiudicatrice, non soggiace alle regole dell’evidenza pubblica, sicché le relative controversie, in quanto afferenti alla fase esecutiva del rapporto successiva all’aggiudicazione, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario. In sostanza, ciò che rileva, a parere della Corte, ai fini di escludere la suddetta giurisdizione esclusiva del g.a., è il rilievo che il riaffidamento a terzi della di taluni servizi dati in concessione ad una concessionaria e da questa precedentemente affidati ad altra società si colloca a valle del rapporto tra la concessionaria e la concedente Azienda ULSS n e ha ad oggetto il rapporto tra la concessionaria e terzi, nel quale la concessionaria non esercita potestà pubbliche. Conclude la sentenza in esame che occorre dare continuità «al principio, più volte enunciato da queste Sezioni Unite sia in tema di concessione di costruzione e gestione di opera pubblica (sent. n. 21200/17), sia in tema di concessioni di servizi (sent. n. 32728/18), che le controversie relative alla fase esecutiva del rapporto, successiva all’aggiudicazione, sia se implicanti la costruzione (e gestione) dell’opera pubblica, sia se non collegate all’esecuzione di un’opera, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario».

Con la sentenza Sez. U, n. 10080/2020, Cosentino, Rv. 657856-02, la Corte si è occupata della domanda di risoluzione del contratto normativo stipulato tra il Comune di Milano e una società, con il quale il primo dava in concessione alla seconda i lavori di efficientamento e l’erogazione dei servizi e la conduzione degli impianti elettrici, termici e di condizionamento di trentotto edifici di proprietà comunale; risoluzione causata dalla mancata stipula da parte dell’ente territoriale del consequenziale contratto operativo.

La sentenza in esame fonda la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario nella suddetta fattispecie su due argomenti. Il primo è quello per cui con il contratto normativo, il Comune di Milano già si era obbligato a concedere all’aggiudicataria la gestione del servizio di miglioramento dell’efficienza energetica di propri immobili per un periodo di 15 anni e in tale contratto già risultavano individuate, sulla scorta degli allegati alla lettera di invito, tutte le obbligazioni principali dell’appalto, ivi compresa la definizione del prezzo e le prestazioni gravanti sull’aggiudicataria, cosicché allo stipulando contratto attuativo residuava soltanto una funzione integrativa e/o accessoria. La giurisdizione in capo al g.o. nel caso di specie era, dunque, conseguenza del fatto che, in presenza di un appalto pubblico, le vertenze afferenti al contratto e alla sua esecuzione, inerendo a diritti e obblighi scaturenti dal contratto stesso, sono devolute al giudice civile. Il secondo argomento posto a fondamento della sentenza in esame per attribuire la giurisdizione al g.o. nel caso di specie è quello secondo cui si era in presenza di un appalto e non di una mera concessione. Sul punto la Corte afferma il principio che in tema di affidamento di servizi da parte della P.A. ad imprese private, la linea di demarcazione tra appalti pubblici di servizi e concessioni di servizi risiede in ciò, che i primi, a differenza delle seconde, riguardano di regola servizi resi alla pubblica amministrazione e non al pubblico degli utenti, non comportano il trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione e non determinano, infine, in ragione delle modalità di remunerazione, l’assunzione del rischio di gestione da parte dell’affidatario; pertanto, nell’ipotesi in cui l’amministrazione debba versare un canone al gestore dei servizi e questi non percepisca alcun provento dal pubblico indifferenziato degli utenti, il rapporto va qualificato in termini di appalto. In sostanza la differenza tra concessione di servizi e appalto pubblico di servizi risiede nel fatto che la prima ricorre quando l’operatore si assume in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull’utenza per mezzo della riscossione di un qualsiasi tipo di canone o tariffa, mentre si ha appalto quando l’onere del servizio stesso viene a gravare sostanzialmente sull’Amministrazione.

Con altra sentenza la Corte si è occupata dei limiti del sindacato del giudice amministrativo relativamente agli atti afferenti ad un appalto pubblico.

In proposito, nel corso di un giudizio volto ad ottenere l’annullamento del provvedimento con il quale la Provincia di Taranto aveva escluso, ex art. 38, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 163 del 2006, dalla procedura aperta per l’affidamento di un appalto di servizi di igiene urbana un Raggruppamento Temporaneo d’Imprese, il Consiglio di Stato, confermando la sentenza di primo grado, aveva rilevato che tale provvedimento era pienamente legittimo in assenza di una completa dissociazione di una delle imprese del RTI dal direttore tecnico, nei confronti del quale era stata pronunciata sentenza di condanna ai sensi dell’art. 444 c.p.p., assumendo all’uopo rilievo una pluralità d’indizi che evidenziavano il tentativo di continuare ad avvalersi del predetto soggetto. La Corte (Sez. U, n. 05904/2020, Mercolino, Rv. 657208-01) ha escluso che, nel caso di specie, si fosse in presenza di un eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nella sfera del merito, assumendo rilievo la circostanza che in materia di appalto di servizi, la verifica dei presupposti oggettivi di esclusione dell’impresa dalla gara, ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 163 del 2006 - avendo ad oggetto la mancata dissociazione dell’impresa dalla condotta illecita del titolare, del socio, dell’amministratore o del direttore tecnico attinto da una condanna penale, così come la qualità rivestita da quest’ultimo - non presenta alcun profilo di discrezionalità.

In tali casi, infatti, vengono in rilievo circostanze oggettivamente riscontrabili, di talché il sindacato di esse, da parte del giudice amministrativo, non può tradursi in una invasione del merito amministrativo e non può dar luogo ad eccesso di potere giurisdizionale. Questo è, diversamente, configurabile solo quando l’indagine svolta dal giudice eccede i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, rivelandosi strumentale ad una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e convenienza dell’atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, esprima la volontà dell’organo giudicante di sostituirsi a quella dell’amministrazione, attraverso un sindacato di merito che si estrinsechi in una pronunzia avente il contenuto sostanziale e l’esecutorietà propria del provvedimento sostituito, senza salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa.

3. L’esecuzione del contratto: le riserve, il ritardo nella consegna delle opere, il controllo del progetto.

Il contratto di appalto trova nella sua esecuzione la causa di molteplici controversie afferenti a sopravvenienze che in corso d’opera incidono sull’assetto di interessi regolato con il suddetto contratto e che, in alcuni casi, determinano il venir meno del vincolo contrattuale. Di seguito sono esaminate le pronunce di maggior rilievo che nel corso del 2020 si sono occupate di diverse tematiche relative alla fase esecutiva del contratto di appalto.

Sez. 1, n. 07554/2020, Iofrida, Rv. 657423-01, ha esaminato la natura delle riserve alla luce dell’evoluzione normativa in materia di appalti pubblici. Ed invero, la Corte ha richiamato i principi sanciti dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui in relazione agli appalti pubblici in corso di esecuzione al momento dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 554 del 1999, recante il regolamento attuativo della l. n. 109 del 1994, l’art. 232 del primo, nel dettare la relativa disciplina transitoria, ha, al comma 2, assoggettato al regime del tempus regit actum le sue disposizioni riguardanti il contenuto delle obbligazioni (e dei correlativi diritti) derivanti dal contratto per ciascuna delle parti e le loro modalità di esecuzione, da individuarsi in base alla classificazione prescelta dal regolamento stesso. Diversamente, per le riserve, le quali esulano da tale ambito perché riconducibili ad un procedimento amministrativo di contabilità dei lavori, occorre tener conto di quanto sancito dal comma 4 del menzionato articolo, che considera decisivi l’esaurimento, o meno, dell’atto nonché della situazione procedimentale. In ragione di tali principi, l’individuazione della disciplina applicabile alle riserve deve tenere conto del momento in cui esse risultano iscritte essendo all’uopo irrilevante il momento in cui il contratto di appalto a cui accedono risulta sottoscritto. In proposito la Corte ha affermato il principio secondo cui «In tema di appalti pubblici, l’art. 232 del d.P.R. n. 554 del 1999 ha previsto per i contratti in corso al momento della sua entrata in vigore una disciplina transitoria che, al comma 2, assoggetta al regime del “tempus regit actum” le norme relative al contenuto delle obbligazioni derivanti dal contratto ed anche alle loro modalità di esecuzione, da individuarsi in base alla classificazione prescelta dal regolamento stesso. Tale disposizione non riguarda tuttavia le riserve riconducibili ad un procedimento amministrativo di contabilità dei lavori, le quali sono regolate dal successivo comma 4, in base al quale le nuove norme si applicano alle situazioni non ancora esaurite sotto la disciplina previgente, determinando così l’assoggettamento alle disposizioni del menzionato d.P.R. di tutte le riserve iscritte in epoca successiva alla sua entrata in vigore. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che il giudice di merito avesse correttamente applicato le disposizioni del d.P.R. n. 554 del 1999, sebbene il contratto di appalto fosse stato stipulato prima della sua entrata in vigore, tenuto conto che le riserve relative ai lavori eseguiti erano state invece iscritte dopo tale data)».

Altra sentenza rilevante emessa nel corso del 2020 è quella con cui Sez. 1, n. 16700/2020, Mercolino, Rv. 658610-02, ha affrontato il tema dei limiti della prova testimoniale in materia di riserve; limiti che devono tenere conto dell’oggetto delle stesse.

La controversia traeva origine dalla domanda di risarcimento danni avanzata da un appaltatore, domanda rigettata per difetto di proposizione di formali riserve, fondandosi la sentenza di merito, ai fini che rilevano in tale sede, sulla non surrogabilità di esse con l’espletamento di prova testimoniale. Con essa, infatti, l’appaltatore intendeva provare di non aver potuto formalizzare le riserve in ragione delle pressioni esercitate dagli organi della stazione appaltante. La Corte non ha condiviso la soluzione adottata dalla corte d’appello che, sul punto, aveva confermato il lodo arbitrale. Osserva il Collegio che, secondo il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’eccezione al divieto della prova per testimoni, prevista dall’art. 2724, n. 2, c.c. per l’ipotesi d’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta, non opera, ai sensi del successivo art. 2725, in riferimento agli atti per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem, e non può dunque trovare applicazione, in tema di appalto di opere pubbliche, con riguardo alle riserve formulate dall’appaltatore, per le quali il requisito formale, oltre ad essere espressamente prescritto dagli artt. 53 e 54 del r.d. n. 350 del 1895, si ricollega alla stessa previsione normativa di una documentazione specificamente tipizzata dei fatti attinenti allo svolgimento dell’appalto (cfr. Sez. 1, n. 17702/2005, Celentano, Rv. 587081-01). Tale principio, secondo la Corte, non è tuttavia applicabile al caso in esame, non avendo la controversia ad oggetto la pretesa dell’appaltatore al pagamento del corrispettivo dovuto per i maggiori lavori eseguiti, ma il risarcimento del danno cagionato dal comportamento illecito dell’ente committente, e per esso dei suoi organi, che avrebbe impedito la tempestiva formalizzazione della predetta pretesa, e non essendo pertanto l’appaltatore soggetto all’onere della preventiva formulazione della riserva. In sostanza, la Corte rileva che, nel caso di specie, la doglianza posta a fondamento della domanda risarcitoria dell’appaltatore era una presunta condotta contrastante con la corretta gestione dell’appalto, la cui deduzione in giudizio, quale fonte di responsabilità, doveva ritenersi sottratta all’onere della riserva. In conclusione, in tema di appalto di opere pubbliche, l’onere della riserva posto a carico dell’appaltatore si estende a tutte le pretese incidenti sul compenso complessivamente dovuto, ad eccezione dei comportamenti dolosi o gravemente colposi dell’Amministrazione nell’esecuzione di adempimenti amministrativi, quando non incidano direttamente sull’esecuzione dell’opera e risultino quindi indifferenti rispetto alle finalità delle riserve. In tale ultimo caso, dunque, trova applicazione la specifica eccezione al divieto di prova per testimoni, prevista dall’art. 2724, n. 2, c.c., nel caso di impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta, eccezione che invece, in tema di riserve, cede, in forza del successivo art. 2725 c.c., rispetto ad ogni prescrizione di forma che la legge imponga per il documento di cui abbia a trattarsi.

Sez. 1, n. 18897/2020, Parise, Rv. 658971-01, con riferimento alla consegna in ritardo dei lavori per fatto imputabile all’Amministrazione appaltante, ha affermato che non trova applicazione la disciplina civilistica in materia di risoluzione del contratto o di risarcimento del danno, bensì la norma speciale di cui all’art. 10, comma 8, del d.P.R. n. 1063 del 1962 (Capitolato generale di appalto delle opere pubbliche). Per effetto di tale disposizione viene riconosciuto all’appaltatore la sola facoltà di presentare istanza di recesso dal contratto, al mancato accoglimento della quale consegue il sorgere del diritto dell’appaltatore al compenso per i maggiori oneri derivanti dal ritardo che dipende dal protrarsi contro la sua volontà del rapporto contrattuale. La Corte, con la sentenza in esame, ha, poi, individuato la ratio del citato comma 8 dell’art. 10 nell’assicurare all’Amministrazione la possibilità di valutare l’opportunità di mantenere in vita il rapporto, ovvero di adottare una diversa determinazione in vista dell’eventuale superamento degli originari limiti di spesa, in considerazione del fatto che all’appaltatore sarà dovuto il rimborso di “maggiori oneri”, a titolo indennitario, per avere egli esercitato la facoltà di recesso.

Con riferimento agli obblighi dell’appaltatore Sez. 1, n. 05144/2020, Scalia, Rv. 657082-01, ha affermato che in essi rientra, nell’appalto pubblico e privato e senza necessità di una specifica pattuizione, il controllo della validità tecnica del progetto fornito dal committente, anche in relazione alle caratteristiche del suolo su cui l’opera deve sorgere, posto che dalla corretta progettazione, oltre che dall’esecuzione dell’opera, dipende il risultato promesso. Alla luce di tale principio, la Corte ha affermato che la scoperta in corso d’opera di peculiarità geologiche del terreno tali da impedire l’esecuzione dei lavori, non può essere invocata dall’appaltatore per esimersi dall’obbligo di accertare le caratteristiche idrogeologiche del terreno sul quale l’opera deve essere realizzata e per pretendere una dilazione o un indennizzo, essendo egli tenuto a sopportare i maggiori oneri derivanti dalla ulteriore durata dei lavori, restando la sua responsabilità esclusa solo se le condizioni geologiche non siano accertabili con l’ausilio di strumenti, conoscenze e procedure normali.

È opportuno, infine, richiamare anche la sentenza Sez. 3, n. 08517/2020, Valle, Rv. 657781-01, con la quale la Corte ha ripreso un risalente orientamento della Corte (Sez. 1, n. 388/2006, Salvato, Rv. 586521-01) secondo cui, in tema di appalto di opere pubbliche, ogni qualvolta si faccia questione della risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltante (o, in generale, dell’invalidità del contratto o della sua estinzione), la relativa domanda, arbitrale o giudiziaria, non è soggetta alla decadenza prevista per l’inosservanza dell’onere - sussistente soltanto con riferimento alle pretese dell’appaltatore che si riflettono sul corrispettivo dovutogli - della riserva; il che non esclude, tuttavia - ove l’inadempimento dell’appaltante posto a fondamento della richiesta risoluzione consista nella illegittima disposizione o protrazione della sospensione dei lavori - la rilevanza della mancata contestazione, da parte dell’appaltatore, dei presupposti giustificativi del provvedimento nel verbale di sospensione ovvero di ripresa (a seconda del carattere originario o sopravvenuto delle ragioni di illegittimità e del tempo in cui l’appaltatore ha potuto averne consapevolezza) ai fini (non già della decadenza, bensì) di valutare l’esistenza di un grave inadempimento del committente, tale da giustificare la risoluzione del contratto.

4. Le formalità nella ripartizione dei lavori nel caso di riunione di imprese orizzontale.

Sez. 1, n. 11639/2020, Parise, Rv. 657950-01, ha scrutinato la questione afferente la domanda di pagamento avanzata da una società, facente parte di un’ATI affidataria del lavori oggetto di appalto pubblico. In particolare, in forza delle pattuizioni contenute in una convenzione tra la suindicata società ed altra compagine sociale facenti parti della suddetta ATI non allegata al contratto di appalto, la ricorrente aveva richiesto il pagamento degli interessi moratori dovuti dalla stazione appaltante quantificati in base alla quota del 97% del credito totale spettante per tale titolo, come da ripartizione dei corrispettivi correlata all’attività di esecuzione così come concordata con la convenzione intervenuta tra le due società. Tanto premesso, il Collegio ha affermato che, in caso di aggiudicazione di un appalto di opera pubblica, ai sensi degli artt. 20 ss. della l. n. 584 del 1977, ad una riunione di imprese cosiddette orizzontale, ossia senza parti dell’opera assegnate a determinate imprese riunite, poiché tutte le imprese riunite, in difetto di specifiche indicazioni nell’offerta e nel contratto, hanno il diritto e l’obbligo di eseguire l’appalto per quote uguali, non sono validi accordi tra le imprese riunite di ripartizione interna diversa da quella riscontrabile nell’offerta e nel contratto.

Il Collegio ha, sul punto, osservato che la l. n. 584 del 1977 ha attribuito alla stazione appaltante penetranti poteri di verifica sulla capacità tecnica delle imprese, in funzione della migliore realizzazione dell’opera pubblica da parte di quei soggetti che vengano ritenuti, anche in concreto, idonei allo scopo. Il perseguimento degli interessi pubblici attraverso il ricorso alle prestazioni dei privati appaltatori non può ritenersi assicurato soltanto mediante la predisposizione di un regime legale di responsabilità solidale delle singole imprese partecipanti. Il fenomeno che la legge intende contrastare è proprio il monopolio di fatto delle grandi imprese, le quali, senza fornire un diretto contributo di capacità e di esperienza alla realizzazione delle opere, potrebbero conseguire un lucro limitandosi a fornire il proprio nome, al solo scopo di consentire ad imprese minori di accedere ad appalti di grandi opere. In tale ottica, dunque, la previsione di incisivi poteri della P.A. sul riscontro dell’effettiva capacità delle singole imprese (cfr., a titolo esemplificativo, l’art. 24 l. n. 584 del 1977) comporta, giuridicamente ma, ancor prima, logicamente, che detti poteri siano attribuiti alla P.A. non soltanto ai fini dell’ammissione al procedimento di aggiudicazione, ma anche con riferimento alle modalità con cui le singole imprese partecipano all’appalto. Diversamente opinando, si consentirebbe, in palese violazione delle menzionate finalità della disciplina nazionale, mediante l’indicazione solo formale e sostanzialmente fittizia di una o più imprese “compiacenti”, anche a piccole imprese di partecipare ad appalti di rilevante entità e di assumersene l’esecuzione anche totale, al di fuori di qualsiasi verifica, da parte dell’amministrazione appaltante, sul concreto apporto di ciascuna delle imprese riunite. In conclusione, rileva il Collegio che l’impegno come sopra assunto da ciascuna impresa nei confronti della P.A., poiché finalizzato al perseguimento di un pubblico interesse, non è derogabile attraverso una pattuizione interna alle imprese, giungente fino alla totale, o quasi totale come nel caso di specie, estromissione di una di esse dall’esecuzione dell’appalto, poiché solo l’originario accordo portato a conoscenza della P.A. con la presentazione dell’offerta costituisce il titolo del diritto fatto valere.

5. Differenze tra opere extracontrattuali e varianti. Rilevanza ai fini della posizione dell’appaltatore.

La Corte (Sez. 1, n. 00727/2020, Scotti, Rv. 656765-01) si è anche occupata della fattispecie in cui l’appaltatore, dopo aver contestato la pretesa, a posteriori accertata come illegittima, dell’Amministrazione, di esecuzione di ulteriori lavori eccedenti il «quinto d’obbligo», non si è avvalso della possibilità di chiedere la risoluzione del contratto, ma ha eseguito i lavori richiesti, dopo aver avvertito del proprio dissenso la committente e formalizzato apposita riserva e senza che fosse intervenuto un nuovo specifico e ulteriore accordo ad hoc sul punto (per vero difficilmente concepibile, poiché le parti dissentivano proprio sulla misura del quinto). In tale sentenza si è affermato che è possibile escludere il compenso a prezzo di mercato dei lavori ordinati «extra quinto» ed eseguiti, solo nell’ipotesi in cui l’appaltatore li abbia effettuati senza contestare l’esorbitanza dal quinto d’obbligo, in tal modo venendosi a tutelare la libertà contrattuale dell’Amministrazione alla quale non può venir imposto a posteriori il pagamento di un corrispettivo maggiore di quello contrattualmente dovuto. Diversamente, la committente ben sa di essere esposta al pagamento a valori di mercato nel caso, come quello di specie, in cui l’appaltatore abbia recisamente, formalmente e fondatamente contestato l’ordine rivoltogli nell’esercizio dello jus variandi dell’Amministrazione, perché comportante il superamento del quinto d’obbligo, e la committente abbia insistito per l’esecuzione dei lavori, pur essendo perfettamente consapevole dell’esistenza di contestazione sulla legittimità della sua richiesta. In conclusione, afferma la Corte, che per effetto delle diverse norme succedutesi nel tempo in materia, resta fermo il principio che la manifestazione di opposizione dell’appaltatore alla richiesta di variazioni oltre la soglia del quinto è sufficiente ad escludere la volontà di accettare la variante agli stessi prezzi, patti e condizioni del contratto originario e non gli preclude la possibilità di richiedere compensi aggiunti e la remunerazione a prezzo di mercato del lavoro eseguito.

Con la medesima pronuncia la Corte ha, poi, precisato che, in tema di appalto, le nuove opere richieste dal committente costituiscono varianti in corso d’opera ove, pur non comprese nel progetto originario, siano necessarie per l’esecuzione migliore ovvero a regola d’arte dell’appalto o, comunque, rientrino nel piano dell’opera stessa e, invece, sono lavori extracontrattuali se siano in possesso di una individualità distinta da quella dell’opera originaria pur ad essa connessi ovvero ne integrino una variazione quantitativa o qualitativa oltre i limiti di legge; nel primo caso, l’appaltatore è, in linea di principio, obbligato ad eseguirle, previo ordine scritto, mentre, nel secondo, le opere debbono costituire oggetto di un nuovo appalto. In sostanza, si ha variazione quando le opere nuove, nelle quali le variazioni stesse consistono, sono necessarie per la completa e migliore esecuzione dell’opera ovvero per la realizzazione della stessa a regola d’arte ovvero quando, pur importando modifica all’opera rientrano sempre nel piano dell’opera stessa. Si è in presenza di lavori extracontrattuali tout court, quando trattasi invece di opere nuove che, pur avendo una qualche relazione o connessione con l’opera non sono necessarie alla completa o migliore esecuzione di questa, né rientrano nel piano della medesima, ma costituiscono opere aventi una propria individualità, distinta da quella dell’opera originaria o che integrano un’opera a sé stante.

6. Appalto e sub-appalto. Rapporti e interferenze.

La Corte nel corso del 2020 (Sez. 2, n. 09386/2020, Dongiacomo, Rv. 657706-01) si è occupata dei rapporti tra appalto e sub-appalto e, in particolare, della possibilità per l’amministrazione aggiudicatrice di pagare direttamente il subappaltatore. In proposito, si è affermato che, l’art. 18, comma 3, della l. n. 55 del 1990, - il quale prevede la possibilità per l’amministrazione aggiudicatrice di opere di appalto con facoltà di subappalto, di indicare nel bando di gara se provvederà al pagamento diretto al subappaltatore dell’importo dovuto, ovvero tramite l’appaltatore - è norma precettiva. In ragione di ciò, l’omessa indicazione di tali modalità di pagamento nel bando di gara e la loro previsione nel solo contratto applicativo, determina, pertanto, la nullità parziale del bando medesimo e la conseguente sostituzione di diritto, ex art. 1419 c.c., delle clausole ad essa contrarie con la previsione normativa del pagamento diretto, in quanto ipotesi più favorevole all’appaltatore.

7. L’arbitrato negli appalti pubblici.

L’arbitrato in materia di contratti pubblici di lavori è stato oggetto di continui interventi da parte del legislatore che, con gli artt. 241, 242, 243 del d.lgs. n. 163 del 2006, ha provveduto a unificarne la disciplina prima di allora contenuta in diverse disposizioni (art. 32, l. n. 109 del 1994, e successive modificazioni; artt. 149, 150 e 151 del regolamento generale di attuazione della suddetta legge, approvato con d.P.R. n. 554 del 1999; artt. 1-12, d.m. Grazia e Giustizia n. 398 del 2000; artt. 32, 33 e 34, d.m. Lavori Pubblici n. 145 del 2000).

Per effetto dell’art. 217, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 50 del 2016, a decorrere dal 19 aprile 2016, il d.lgs. n. 163 è stato abrogato, ai sensi di quanto disposto dall’art. 220, risultando, ora, l’arbitrato disciplinato dall’art. 209 del cit. d.lgs.

Per quanto rileva in tale sede, l’originario art. 241 cit., stabiliva «Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario previsto dall’articolo 240, possono essere deferite ad arbitri».

A fronte di questa iniziale previsione che consentiva il ricorso all’arbitrato, l’art 3, comma 19, della l. n. 244 del 2007 ha introdotto il divieto per le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, di inserire clausole compromissorie «in tutti i loro contratti aventi ad oggetto lavori, forniture e servizi ovvero, relativamente ai medesimi contratti, di sottoscrivere compromessi. Le clausole compromissorie ovvero i compromessi comunque sottoscritti sono nulli e la loro sottoscrizione costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale per i responsabili dei relativi procedimenti».

Successivamente, il d.lgs. n. 53 del 2010, nel dare attuazione alla direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudicazione degli appalti pubblici, ha, con l’art. 15, abrogato il cennato art. 3 della l. n. 244 del 2007 e, all’art. 5, comma 1, lett. b), inserito il comma 1 bis all’art. 241 cit. Con tale ultima disposizione il legislatore prevedeva che «La stazione appaltante indica nel bando o nell’avviso con cui indice la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, se il contratto conterrà, o meno, la clausola compromissoria. L’aggiudicatario può ricusare la clausola compromissoria, che in tale caso non è inserita nel contratto, comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione. È vietato in ogni caso il compromesso».

Per effetto delle modifiche introdotte dall’art. 1, commi 19-24, l. n. 190 del 2012 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), l’art 241, nel testo in vigore dal 28 novembre 2012 al 18 aprile 2016, sanciva che «Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario previsto dall’articolo 240, possono essere deferite ad arbitri, previa autorizzazione motivata da parte dell’organo di governo dell’amministrazione. L’inclusione della clausola compromissoria, senza preventiva autorizzazione, nel bando o nell’avviso con cui è indetta la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, o il ricorso all’arbitrato, senza preventiva autorizzazione, sono nulli».

Il medesimo art. 1 cit. al comma 25 prevedeva che «le disposizioni di cui ai commi da 19 a 24 non si applicano agli arbitrati conferiti o autorizzati prima della data di entrata in vigore della presente legge».

Infine, oggi, per effetto dell’art. 209 del d.lgs. n. 50 del 2016, è previsto che «Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario di cui agli articoli 205 e 206 possono essere deferite ad arbitri. L’arbitrato, ai sensi dell’articolo 1, comma 20, della legge 6 novembre 2012, n. 190, si applica anche alle controversie relative a concessioni e appalti pubblici di opere, servizi e forniture in cui sia parte una società a partecipazione pubblica ovvero una società controllata o collegata a una società a partecipazione pubblica, ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile, o che comunque abbiano ad oggetto opere o forniture finanziate con risorse a carico dei bilanci pubblici. 2. La stazione appaltante indica nel bando o nell’avviso con cui indice la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, se il contratto conterrà o meno la clausola compromissoria. L’aggiudicatario può ricusare la clausola compromissoria, che in tale caso non è inserita nel contratto, comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione. È vietato in ogni caso il compromesso. 3. È nulla la clausola compromissoria inserita senza autorizzazione nel bando o nell’avviso con cui è indetta la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito. La clausola è inserita previa autorizzazione motivata dell’organo di governo della amministrazione aggiudicatrice (…)».

Il quadro normativo sopra riportato pone in luce il difficile bilanciamento perseguito dal legislatore tra le diverse esigenze che pone il ricorso all’arbitrato nei contratti della pubblica amministrazione. Da un lato, infatti, l’istituto in esame risponde all’esigenza avvertita non solo in ambito nazionale, ma, più in generale, in quello europeo, di rendere più efficaci le procedure di risoluzione delle controversie relative agli appalti pubblici, con conseguente anche contenimento dei relativi costi rispetto ai contenziosi ordinari. Dall’altro lato, il legislatore, proprio in ragione della portata dell’arbitrato quale strumento di risoluzione delle controversie diverso da quello rimesso alla giurisdizione ordinaria, ne ha previsto l’operatività previo rispetto di specifici presupposti tra i quali l’autorizzazione da parte dell’organo di governo della singola pubblica amministrazione.

È con riferimento alla portata applicativa delle disposizioni che hanno introdotto, quale requisito di validità della clausola compromissoria, la preventiva autorizzazione che la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata nel corso del 2019. In particolare, la questione è quella di individuare la disciplina a cui devono essere sottoposti quei contratti di appalto stipulati in epoca antecedente alla previsione della necessaria autorizzazione sopra indicata.

La Corte di cassazione (Sez. 1, n. 13410/2019, Falabella, Rv. 654256-01) ha esaminato la controversia che traeva origine da un contratto di appalto stipulato il 23 dicembre 2008 dall’Università della Calabria avente ad oggetto la realizzazione dei lavori di costruzione di un complesso residenziale per studenti. In tale contratto era contenuta una clausola che devolveva le controversie tra le parti alla competenza di un collegio arbitrale. Nel corso del rapporto, la società appaltante notificava alla committente «atto introduttivo di arbitrato e nomina di arbitro», instando per la costituzione del collegio arbitrale previsto dalla clausola compromissoria. L’Università, dopo aver provveduto, a sua volta, a nominare il proprio arbitro e a svolgere le proprie deduzioni difensive, successivamente eccepiva che la clausola compromissoria contenuta nel contratto di appalto dovesse ritenersi inefficace in forza di quanto disposto dall’art. 1, comma 19, della l. n. 190 del 2012, con cui era stato modificato l’art. 241 d.lgs. n. 163 del 2006.

Il collegio arbitrale dichiarava la propria competenza, disattendendo, quindi, l’eccezione pregiudiziale dell’Università, e accoglieva parzialmente le domande dell’appaltatrice.

La corte d’appello rigettava il gravame proposto dall’Università.

Avverso tale decisione l’Università, proponeva ricorso dinnanzi alla Corte di cassazione denunciando, tra l’altro, la violazione e falsa applicazione dell’art. 241 d.lgs. n. 163 del 2006, come modificato dall’art. 1, commi 19 ss. l. n. 190 del 2012. In particolare, la ricorrente si doleva del fatto che il lodo era stato pronunciato da collegio arbitrale incompetente, in quanto la clausola compromissoria contenuta nel contratto di appalto era nulla o comunque inefficace, alla luce della disciplina transitoria del regime introdotto dal cit. art. 1 l. n. 190 del 2012 (contenuta nel comma 25 dell’articolo). In ragione di tale disciplina, la ricorrente contestava che l’arbitrato potesse dirsi «autorizzato» dall’organo di governo dell’Università.

La Corte ha affermato la fondatezza della censura sul presupposto della natura non arbitrabile della controversia affermando che la preventiva autorizzazione amministrativa dell’arbitrato, prevista dall’art. 1, comma 25, l. n. 190 del 2012 per gli appalti pubblici conclusi prima dell’entrata in vigore della legge (28 novembre 2012), costituisce una clausola di efficacia che non può identificarsi con la delibera mediante la quale sia stato approvato il contratto contenente la clausola compromissoria, dovendo essa rinvenirsi in atti con i quali la P.A. abbia manifestato, con riferimento ad una controversia specificamente individuata, la volontà di avvalersi della clausola arbitrale, perché il legislatore ha inteso richiedere, all’ente chiamato a decidere sull’autorizzazione, una ponderata valutazione degli interessi coinvolti e delle circostanze del caso concreto (Corte cost. n. 108 del 9 giugno 2015).

Rileva la Corte che, se il legislatore avesse inteso identificare tale atto nell’autorizzazione di cui al cit. comma 25, avrebbe semplicemente escluso che le disposizioni introdotte con la l. n. 190 del 2012 si estendessero ai contratti conclusi prima dell’entrata in vigore di essa o, meglio, avrebbe anche potuto evitare di introdurre la disciplina transitoria prevista dalla disposizione in esame.

A sostegno di tale interpretazione si pone, poi, il tenore letterale della norma che fa menzione di «arbitrati conferiti o autorizzati»; espressione che non è riferibile alla clausola compromissoria inserita nel contratto, la quale è deputata a stabilire, in via preventiva e in termini necessariamente generali, che le controversie nascenti dal contratto saranno decise da arbitri. Diversamente l’espressione utilizzata dal legislatore deve intendersi riferita a liti specificamente individuate, già introdotte con la nomina degli arbitri (arbitrati «conferiti») o per le quali, pur non essendo intervenuta tale nomina, l’ente abbia espresso la propria volontà di avvalersi della clausola arbitrale (arbitrati «autorizzati»).

Rileva, poi, la Corte che sarebbe incongruo ritenere che le stringenti esigenze di contenimento dei costi collegati alle controversie che vedono la partecipazione degli enti pubblici, di tutela degli interessi di cui questi sono portatori e di contrasto all’illegalità all’interno della P.A. - interessi che il legislatore ha inteso salvaguardare subordinando il deferimento delle controversie ad arbitri a una preventiva autorizzazione amministrativa che assicurasse la ponderata valutazione degli interessi coinvolti e delle circostanze del caso concreto (cfr. Corte cost. n. 108 del 9 giugno 2015) - siano affidate a un intervento legislativo che, non applicandosi, di fatto, a tutti i contratti (contenenti clausole compromissorie) perfezionati prima dell’entrata in vigore della legge, si rivelerebbe in gran parte inoperante.

Diversamente, il comma 25 dell’art. 1 cit. ha sottratto alla necessità di un’autorizzazione motivata (e quindi espressa) dell’organo competente quelle sole procedure arbitrali per cui, alla data dell’entrata in vigore della legge, si fosse già fatto luogo alla nomina degli arbitri, o che risultassero comunque prossime ad essere introdotte, avendo la pubblica amministrazione già manifestato, nei fatti, la propria volontà di attivare il giudizio arbitrale. In queste due ipotesi, l’esclusione dell’applicazione della disciplina trova fondamento in ragioni di economia processuale, giacché evita che il procedimento iniziato prima dell’entrata in vigore della legge, o che la P.A. abbia prima di allora specificamente autorizzato (e introdotto dopo), sia vanificato dalla mancanza dell’autorizzazione prevista dal comma 19.

In sostanza, per effetto dei passaggi argomentativi sopra riportati, per gli appalti stipulati in epoca antecedente alla novella della l. n. 190 del 2012, il termine “autorizzati”, da essa prevista, richiede che l’Amministrazione abbia emesso apposito e specifico atto relativo all’arbitrato, diversamente essi sono soggetti alla disciplina introdotta con la legge del 2012.

Sez. 6-1, n. 28871/2020, Scotti, Rv. 659899 – 01, ha, poi, precisato che, in tema di arbitrato cd. amministrato di lavori pubblici, la norma transitoria di cui all’art. 253, comma 34, del d.lgs. n. 163 del 2006 dispone, quanto alla disciplina dell’arbitrato ex artt. 241, 242 e 243 del medesimo codice dei contratti pubblici, la salvezza delle clausole compromissorie e delle procedure arbitrali antecedenti alla sua entrata in vigore, nei soli casi ivi specificamente previsti ed alla condizione che i collegi arbitrali risultino già costituiti entro tale data; ne consegue l’immediata applicabilità delle nuove disposizioni, aventi carattere inderogabile, riguardo ai collegi arbitrali relativi ad appalti non ricadenti nel d.P.R. n. 1063 del 1962. (Nella specie, la S.C. ha cassato senza rinvio la decisione dei giudici d’appello, che aveva trascurato la tardività dell’impugnazione, ancorché l’abrogazione dell’art. 15, comma 6, del d.lgs. n. 53 del 2010, ad opera del d.l. n. 40 del 2010 comportasse l’applicabilità all’impugnazione dei lodi pronunciati successivamente all’eliminazione della disciplina transitoria dei termini previsti dall’art. 241, comma 15 bis, d.lgs. n. 163 del 2006).

  • società

CAPITOLO XXVII

LE SOCIETÀ IN HOUSE PROVIDING

(di Eleonora Reggiani )

Sommario

1 Le società in house providing e la giurisprudenza di legittimità. - 2 Gli oneri economici dei permessi spettanti ai dipendenti con incarichi elettivi presso l’ente pubblico partecipante.

1. Le società in house providing e la giurisprudenza di legittimità.

Negli anni precedenti a quello in rassegna la S.C. ha adottato importanti pronunce in tema di società in house e, in generale, di società a partecipazione pubblica, svolgendo un ruolo centrale nell’individuazione delle caratteristiche di tali figure e della disciplina ad esse applicabile, in presenza di un quadro normativo per molti anni estremamente frammentato e da raccordare a fonti di diritto unionale in continua evoluzione.

Con il d.lgs. n. 175 del 2016, modificato dal d.lgs. n. 100 del 2017, è stato finalmente adottato il Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica (di seguito anche T.U.S.P.) in attuazione della delega conferita al governo dagli artt. 16 e 18 della l. n. 124 del 2015.

Lo scopo dell’intervento è stato quello di semplificare e razionalizzare le regole vigenti in materia, attraverso il riordino delle disposizioni nazionali e di creare una disciplina generale organica, senza mutare totalmente il quadro di riferimento, ma favorendo fenomeni già in atto che, in certi casi, avevano trovato ostacoli proprio nella mancanza di norme adeguate o non adeguatamente coordinate.

Molte disposizioni del T.U.S.P. hanno fatto proprie le soluzioni interpretative adottate dalla giurisprudenza e altre hanno solo spostato i termini delle questioni che sono comunque rimaste affidate all’interpretazione dei giudici.

In tale quadro, è opportuno richiamare le statuizioni adottate dalla Corte di cassazione, e riportate nelle Rassegne degli anni precedenti, riguardanti, in particolare, l’individuazione dei caratteri distintivi delle società in house, la verifica della giurisdizione in ordine a delicate controversie (come l’azione di responsabilità nei confronti degli organi di gestione e di controllo di tali società o l’impugnazione della nomina e della revoca dei componenti di tali organi), il riconoscimento della fallibilità di tali società e le infinite ulteriori problematiche connesse, solo in parte risolte dal menzionato Testo Unico.

Nel corso dell’anno 2020 non si registrano statuizioni riguardanti tali argomenti.

La S.C. si è pronunciata sul rapporto di lavoro del personale di tali società e sugli oneri economici per la fruizione dei permessi spettanti ai dipendenti delle stesse che abbiano incarichi elettivi presso l’ente pubblico partecipante.

Quest’ultima decisione viene di seguito illustrata mentre, per le decisioni riguardanti i rapporti di lavoro, si rinvia al corrispondente capitolo di questa Rassegna.

2. Gli oneri economici dei permessi spettanti ai dipendenti con incarichi elettivi presso l’ente pubblico partecipante.

In argomento, Sez. 1, n. 11265/2020, Scalia, Rv. 658051-01, ha affermato, in base al principio civilistico del divieto di indebito arricchimento e tenuto conto della distinzione tra società partecipata e socio pubblico, gli oneri derivanti dalla fruizione da parte dei dipendenti di società in house dei permessi retribuiti previsti per l’esercizio di funzioni elettive presso lo stesso ente locale che partecipa alla società sono a carico di quest’ultimo e devono essere rimborsati alla società datrice di lavoro nei termini e secondo le modalità di cui all’art. 80 d.lgs. n. 267 del 2000.

La controversia è sorta perché una società in house, interamente partecipata da un comune, ha citato in giudizio quest’ultimo per ottenere in restituzione gli importi pagati ad alcuni dipendenti, che avevano goduto di permessi retribuiti per l’esercizio di cariche elettive presso lo stesso comune.

Nella decisione, la S.C., che ha respinto il ricorso del Comune, ha fornito un quadro completo della giurisprudenza maturata in materia di società in house e, in generale, di società partecipate da enti pubblici, fondando la sua pronuncia sugli orientamenti oramai sedimentati del giudice di legittimità sopra ricordati e illustrati nelle Rassegne degli anni precedenti.

  • rifiuti
  • sanzione amministrativa

CAPITOLO XXVIII

LE SANZIONI AMMINISTRATIVE

(di Dario Cavallari, Aldo Natalini, Maria Elena Mele )

Sommario

1 Principi generali, struttura impugnatoria del giudizio e regole processuali. - 2 Modalità di notifica. - 3 Giurisdizione e principio di specialità. - 4 Competenza ed incompetenza. - 5 Altri vizi procedurali. - 6 Elemento psicologico e cause di giustificazione. - 7 Cumulo materiale e concorso di persone. - 8 Intrasmissibilità dell’obbligazione e responsabilità solidale. - 9 Prescrizione. - 10 Sanzioni in ambito bancario e finanziario: profili procedimentali. - 11 Sanzioni in ambito bancario e finanziario: soggetti responsabili e contenuto della condotta loro imposta. - 12 Sanzioni in ambito bancario e finanziario: il giudizio di opposizione. - 13 Abuso di informazioni privilegiate. - 14 Le sanzioni in ambito bancario e finanziario e le questioni di legittimità costituzionale prospettate. - 15 Ulteriori pronunce riguardanti le sanzioni in ambito bancario e finanziario. - 16 Le sanzioni amministrative previste dal codice della strada. Profili processuali: l’opposizione, la competenza, il rito. - 17 Il verbale di constatazione delle violazioni al codice della strada: natura e requisiti. - 18 Le violazioni sanzionate dal codice della strada. - 19 Le sanzioni in materia di inquinamento idrico: titolarità della potestà sanzionatoria. - 19.1 Le singole infrazioni in materia di inquinamento idrico. - 20 Le sanzioni amministrative in materia di rifiuti. - 21 Incarichi retribuiti non autorizzati a pubblici dipendenti. - 22 Le sanzioni per le violazioni al cd. Codice della privacy. - 23 Le altre sanzioni.

1. Principi generali, struttura impugnatoria del giudizio e regole processuali.

La struttura del giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, regolato dagli artt. 22 ss. della l. n. 689 del 1981, ha natura impugnatoria di un ricorso e annullatoria di un atto amministrativo, mutuata dal processo amministrativo, rappresentando una delle rare eccezioni ai principi-cardine posti dagli artt. 4 e 5 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo (Sez. 6-2, n. 18158/2020, Tedesco, Rv. 659212-01). Detto giudizio riguarda, come ricorda Sez. 6-2, n. 21146/2019, Carrato, Rv. 655278-01, in continuità con l’indirizzo nomofilattico di Sez. U, n. 01786/2010, Goldoni, Rv. 611243-01, il rapporto giuridico sotteso, avente fonte legale in un’obbligazione di tipo sanzionatorio (così già Sez. 2, n. 12503/2018, Carrato, Rv. 648753-01; Sez. 2, n. 09286/2018, Criscuolo, Rv. 648150-01).

Al descritto paradigma impugnatorio è annesso un rigido sistema preclusivo (Sez. 2, n. 27909/2018, Picaroni, Rv. 651033-01), valevole per ogni soggetto coinvolto nel giudizio di opposizione, sicché tutte le ragioni poste alla base dell’istanza demolitoria di nullità (o di annullamento) dell’atto (causae petendi) devono essere prospettate nel ricorso introduttivo entro i termini di legge. Nel giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione di pagamento di una somma a titolo di sanzione amministrativa, al ricorrente non è pertanto consentito di integrare in corso di causa i motivi originariamente addotti, non potendo egli ampliare il thema decidendum mediante memorie suppletive o altro atto comunque denominato volto ad introdurre motivi nuovi dei quali il ricorso originario era del tutto privo (Sez. 6-2, n. 18158/2020, Tedesco, cit.).

Del pari, l’Amministrazione resistente non può dedurre, a sostegno della pretesa sanzionatoria, motivi o circostanze differenti da quelle enunciate con l’ordinanza-ingiunzione, stante il carattere vincolato del provvedimento di irrogazione della sanzione amministrativa,* in conformità al principio di tassatività dettato dall’art. 1 della l. n. 689 del 1981 (ribadito da Sez. 1, n. 06965/2018, Mercolino, Rv. 648110-01), con conseguente immodificabilità del relativo contenuto (in termini anche Sez. 1, n. 13433/2016, Barnabai, Rv. 640355-01).

Infine, il giudice non può rilevare d’ufficio, fuori dei limiti dell’oggetto dello stesso giudizio così delimitato, eccezioni relative a vizi o ragioni di nullità del provvedimento opposto o del procedimento che ne ha preceduto l’emanazione distinti da quelli dedotti dal ricorrente, salvo che essi incidano sull’esistenza dell’atto impugnato. Rientra in quest’ultima eccezione l’illegittimità del provvedimento opposto per violazione del principio di legalità di cui all’art. 1 della l. n. 689 del 1981, che è rilevabile d’ufficio, trattandosi di principio-cardine dell’intero sistema normativo di settore ed ha valore ed efficacia assoluti, essendo direttamente riferibile alla tutela di valori costituzionalmente garantiti (artt. 23 e 25 Cost.), sicché la sua attuazione non può rimanere, sul piano giudiziario, affidata alla mera iniziativa dell’interessato, ma deve essere garantita dall’esercizio della funzione giurisdizionale (Sez. 2, n. 04962/2020, Varrone, Rv. 657117-01).

Sulla scorta di quest’impostazione, Sez. 6-2, n. 01921/2019, Carrato, Rv. 652384-01, ha precisato che l’onere della prova del completo espletamento delle attività strumentali all’accertamento grava, nel giudizio di opposizione, sulla P.A. poiché concerne il fatto costitutivo della pretesa sanzionatoria. Per l’esattezza, mentre l’onere di allegazione è a carico dell’opponente, quello probatorio soggiace alla regola ordinaria dell’art. 2697 c.c. e, quindi, è la P.A., quale attore sostanziale, che deve dare la prova dei fatti costitutivi posti a fondamento della sua pretesa, dovendo, invece, l’opponente dimostrare, qualora abbia dedotto fatti specifici incidenti o sulla regolarità formale del procedimento o sulla esclusione della sua responsabilità nella commissione dell’illecito, le sole circostanze negative contrapposte a quelle indicate dall’Amministrazione.

Legittimato passivo del giudizio di opposizione ad ordinanza emanata ai sensi della l. n. 689 del 1981 è esclusivamente il destinatario dell’ingiunzione, al quale è addebitata la violazione: ciò anche in caso di eventuale responsabilità sanzionatoria col vincolo di solidarietà (come ha precisato Sez. 2, n. 09286/2018, Criscuolo, Rv. 648150-01), sicché non è consentita la partecipazione di soggetti diversi dall’ingiunto e dall’Amministrazione ingiungente. Quanto a quest’ultima, l’art. 23 della l. n. 689 cit. identifica nell’autorità che ha emesso l’ordinanza la parte legittimata nel giudizio di opposizione: come puntualizzato da Sez. 2, n. 18198/2019, Tedesco, Rv. 654469-01, tale legittimazione rimane ferma, in difetto di una diversa previsione normativa, nel corso dell’intero giudizio e, dunque, pure se vi è impugnazione. Ne deriva che, quando oggetto dell’opposizione sia un’ordinanza prefettizia, la legittimazione processuale (attiva e passiva) spetta al Prefetto il quale, benché organo periferico del Ministero dell’interno, agisce nell’ambito di una specifica autonomia funzionale, con l’ulteriore conseguenza che, in deroga alle comuni regole di rappresentanza dello Stato, soltanto lo stesso Prefetto, e non il Ministro dell’interno, è legittimato a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza che ha deciso sull’opposizione. Secondo Sez. 2, n. 20418/2020, Oliva, Rv. 659191-02, si applicano esclusivamente al giudizio di primo grado tutte le disposizioni contenute nell’art. 6, comma 9, d.lgs. n. 150 del 2011, ossia quelle per cui l’opponente e l’autorità ingiungente possono stare in giudizio personalmente, quella per cui l’autorità che ha emesso l’ordinanza può avvalersi anche di funzionari appositamente delegati e quella per cui il Prefetto, nel giudizio di opposizione all’ordinanza-ingiunzione di cui all’art. 205 del d.lgs. n. 285 del 1992, può farsi rappresentare in giudizio dall’amministrazione cui appartiene l’organo accertatore, laddove quest’ultima sia anche destinataria dei proventi della sanzione, ai sensi del successivo art. 208 del medesimo d.lgs. n. 285 del 1992.

Regola processuale comune ai procedimenti di opposizione nella vigenza del d.lgs. n. 150 del 2011 (che ha previsto - come noto - misure di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione), è l’applicazione degli artt. 429, comma 1, e 437, comma 1, c.p.c., giustificata - per quanto precisato da Sez. 2, n. 00072/2018, Bellini, Rv. 646662-01 - dal rinvio generale contenuto nell’art. 2, comma 1, del cit. d.lgs. n. 150. Ne deriva che anche in secondo grado il giudice d’appello, nel pronunciare la sentenza, deve, a pena di nullità insanabile, dare lettura del dispositivo all’esito dell’udienza di discussione (contra Sez. 2, n. 12954/2015, Picaroni, Rv. 635706-01, che invece ha escluso, in mancanza di un’espressa disciplina, l’automatica estensibilità delle regole speciali dettate per il giudizio di primo grado).

Quanto al deposito di documenti strettamente connessi all’opposizione a sanzione amministrativa, la produzione da parte dell’Autorità opposta - secondo Sez. 2, n. 09385/2020, Varrone, Rv. 657753-01 - può intervenire anche nel corso del giudizio, non avendo il relativo termine natura perentoria, e indipendentemente dalla costituzione della predetta autorità o dalla comparizione della medesima, senza che venga perciò in considerazione il disposto dell’art. 87 disp. att. c.p.c. che contempla, regolandone le modalità, la diversa ipotesi di documenti offerti in comunicazione alle parti dopo la costituzione (sulla perentorietà del termine di cui all’art. 7, comma 7, del d.lgs. n. 150 del 2011, a differenza di quello previsto dall’art. 416 c.p.c., applicabile invece, agli altri documenti depositati dall’Amministrazione v. anche Sez. 3, n. 15887/2019, Porreca, Rv. 654292-01),

In ordine all’attività istruttoria, Sez. 2, n. 34034/2019, Scarpa, Rv. 656329-01, ha rilevato che, nel giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione (nella specie disciplinato ratione temporis dagli artt. 22 ss. della l. n. 689 del 1981), il Tribunale, sulla base dei poteri concessi dal successivo art. 23, comma 6, nell’esercizio di una facoltà rimessa al suo prudente apprezzamento e sganciata dalla decadenza in cui siano eventualmente incorse le parti nella formulazione delle richieste istruttorie, può procedere all’audizione anche d’ufficio degli agenti accertatori ogni qual volta ciò si renda necessario - come confermato anche da Sez. 6-2, n. 25690/2020, Oliva, Rv. 659706-01, in tema di opposizioni ex art. 204 bis del d.lgs. n. 285 del 1992, regolate dal rito del lavoro - rappresentando la verifica della fondatezza della pretesa sanzionatoria, del rapporto e degli atti relativi all’accertamento ed alla contestazione della violazione la base di partenza dell’indagine giudiziale, la quale può essere eventualmente integrata con quei chiarimenti che il giudicante, attraverso l’esame dei verbalizzanti, ritenga necessari ai fini della verifica della consistenza dell’addebito o, per converso, dei motivi di opposizione.

Nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa - come ha precisato da ultimo Sez. 6-2, n. 16317/2020, Falaschi, Rv. 658744-01 - per espressa disposizione dell’art. 23, comma 11, della l. n. 689 del 1981, come modif. dall’art. 99 del d.lgs. n. 507 del 1999, non trova applicazione l’art. 113, comma 2, c.p.c. e non si fa, quindi, luogo a pronunzia secondo equità. Alla medesima conclusione si giungerebbe, comunque, anche in assenza di una disposizione quale quella di cui all’art. 23 cit., in quanto le opposizioni ex art. 22 ss. della l. n. 689 del 1981 non rientrano nella competenza del giudice di pace stabilita ratione valoris dall’art. 7 c.p.c., alla quale fa riferimento l’art. 113 c.p.c., ma in quella speciale attribuita dalla legge ratione materiae.

2. Modalità di notifica.

Come chiarito da Sez. 2, n. 27405/2019, Varrone, Rv. 655686-01, qualora non sia avvenuta la contestazione immediata dell’illecito amministrativo, il momento dell’accertamento - in relazione al quale va collocato il dies a quo del termine previsto dall’art. 14, comma 2, della l. n. 689 del 1981 per la notifica degli estremi della violazione - non coincide con quello di acquisizione del fatto nella sua materialità da parte dell’autorità che ha ricevuto il rapporto, ma va individuato nella data in cui detta autorità ha completato l’attività intesa a verificare la sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi dell’infrazione; compete al giudice di merito valutare la congruità del tempo utilizzato per tale attività, in rapporto alla maggiore o minore difficoltà del caso, con apprezzamento incensurabile in sede di legittimità, se correttamente motivato.

Questo principio deve essere coordinato con l’altro, espresso da Sez. 2, n. 10841/2019, Casadonte, Rv. 653502-01, in base al quale, qualora la notificazione del verbale di accertamento dell’infrazione sia stata effettuata a mezzo posta da un funzionario dell’Amministrazione, l’omessa stesura, sull’originale e sulla copia dell’atto, della relazione di notifica, integra una mera irregolarità ed è priva di conseguenze invalidanti, specialmente quando detta notifica abbia raggiunto il suo scopo.

Sempre in tema di notificazione, Sez. L, n. 25991/2020, Di Paolantonio, Rv. 659546-01, ha precisato che l’ordinanza ingiunzione ex l. n. 689 del 1981 ha la funzione di consentire la riscossione coattiva del credito mediante la formazione di un titolo esecutivo stragiudiziale e che la sua mancata opposizione è sanzionata con la decadenza dalla tutela giurisdizionale in relazione alla pretesa creditoria dell’amministrazione. Pertanto, la peculiare natura dell’ordinanza stessa vale a differenziarla dagli atti amministrativi e giustifica il rinvio contenuto nell’art. 18, comma 6, della l. n. 689 del 1981, come modificata dalla l. n. 265 del 1999, alla l. n. 890 del 1982 sulle notificazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari. In particolare, la S.C. ha escluso che la disciplina concernente il procedimento notificatorio dell’ordinanza ingiunzione per il caso di temporanea assenza del destinatario dia luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina prevista, in materia di notificazione degli atti amministrativi, dall’art. 40 del regolamento approvato con d.P.R. n. 655 del 1982 - che considera compiuta la giacenza dopo trenta giorni dal deposito -, in quanto il non coincidente trattamento normativo trova giustificazione, in termini di ragionevolezza, in considerazione della diversità delle fattispecie poste a confronto.

Inoltre, in tema di notifica del verbale di contestazione degli addebiti di cui al procedimento sanzionatorio amministrativo, Sez. 2, n. 20515/2020, Picaroni, Rv. 659195-01, ribadisce l’applicazione del principio di scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario, con la conseguenza che, qualora la notifica non sia andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, senza superare il limite di tempo pari alla metà del termine originariamente previsto, salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa (così già Sez. 2, n. 28388/2017, Varrone, Rv. 646342-01).

Da ultimo, in materia di PEC, va segnalata Sez. 6-2, n. 28829/2020, Criscuolo, Rv. 660000 -01, secondo la quale la notificazione delle ordinanze-ingiunzione, ai sensi dell’art. 18 della l. n. 689 del 1981, può avvenire direttamente da parte della P.A. a mezzo di posta elettronica certificata, rappresentando una modalità idonea a garantire al destinatario la conoscibilità dell’atto e la finalità della notificazione, senza che possa farsi riferimento alla necessità del rispetto anche delle formalità di cui alla l. n. 53 del 1994, che attiene alla diversa ipotesi di notifiche eseguite direttamente dagli avvocati.

Infine, secondo Sez. 2, n. 20418/2020, Oliva, Rv. 659191-01, la notificazione dell’appello all’Amministrazione delegata a stare in giudizio e non a quella che ebbe ad emettere l’ordinanza ingiunzione non è inesistente, ma nulla, venendo in rilievo l’inesistenza della notificazione, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui sia stata posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità.

3. Giurisdizione e principio di specialità.

In tema di riparto di giurisdizione, ove sulla sanzione amministrativa, emessa a titolo di concorso nell’indebita percezione di aiuti comunitari, intervenga il giudicato di rigetto della relativa opposizione, ma, poi, venga pronunciata, in sede penale, sentenza irrevocabile di assoluzione per insussistenza del fatto, Sez. U, n. 26493/2020, Mancino, Rv. 659550-01, affida al giudice ordinario la cognizione della vertenza promossa nei confronti del diniego di revoca o annullamento della sanzione, ai sensi dell’art. 22 della l. n. 689 del 1981, poiché la causa petendi non attiene alla correttezza dell’azione amministrativa di riesame, ma alla permanente legittimità della sanzione a seguito della menzionata sentenza di proscioglimento.

Ad avviso di Sez. U, n. 19664/2020, Acierno Rv. 658850-01, la sanzione amministrativa della chiusura temporanea dell’esercizio commerciale o del locale destinato al videogioco e alle video lotterie, prevista - in aggiunta a quella pecuniaria, ancorché senza alcun collegamento causale o consequenziale con quest’ultima - dall’art. 24, comma 21, del d.l. n. 98 del 2011, conv., con modif., dalla l. n. 111 del 2011, per il caso di indebito ingresso, nell’esercizio medesimo, di un soggetto minore d’età, ha natura esclusivamente afflittiva e si riconduce non già ad un potere discrezionale di vigilanza e controllo, esercitato dall’autorità amministrativa irrogante, sul settore dei giochi vietati ai minori, bensì ad un potere interamente vincolato dalla norma, la quale definisce dettagliatamente il fatto che integra la violazione, stabilisce l’obbligo di applicare la sanzione in seguito all’accertamento dell’illecito da parte dell’autorità di polizia, e ne determina il contenuto anche in relazione alla durata, con la prescrizione inderogabile del minimo e del massimo irrogabili; pertanto, la giurisdizione sull’opposizione avverso la predetta sanzione amministrativa spetta al giudice ordinario, dovendosi ritenere devoluto a quella del giudice amministrativo soltanto il sindacato sulle sanzioni di carattere ripristinatorio, la cui applicazione consegua all’esercizio di un potere discrezionale di vigilanza e controllo, funzionale alla tutela dell’interesse pubblico violato.

Quanto alle opposizioni ad ordinanza-ingiunzione di pagamento per violazioni della normativa urbanistica ed edilizia, Sez. U, n. 22426/2018, Scrima, Rv. 650456-01, ha ribadito il radicamento innanzi al giudice ordinario sulla base di un duplice rilievo argomentativo (tratto da Sez. U, n. 11388/2016, Giusti, Rv. 639955-01), che pare opportuno richiamare perché espressivo di un indirizzo consolidato.

Anzitutto, il massimo Consesso ha valorizzato l’art. 22 bis, comma 2, lett. c), della l. n. 689 del 1981 - abrogato dall’art. 34, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 150 del 2011 - che attribuisce al Tribunale ordinario le opposizioni alle sanzioni in materia urbanistica.

In secondo luogo, in piena aderenza all’orientamento nomofilattico in materia (fra le ultime: Sez. U, n. 08076/2015, D’Ascola, Rv. 634939-01; Sez. U, n. 01528/2014, Spirito, Rv. 628859-01), la S.C. ha sottolineato che, pur essendo la materia urbanistica compresa in quella per cui l’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998 prevede la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, l’opposizione a sanzione amministrativa non genera una controversia nascente da atti della P.A. relativi alla gestione del territorio, costituendo i provvedimenti sanzionatori la reazione a condotte del privato illegittime. Infatti, in presenza di tali provvedimenti, non sorge la necessità, alla base della previsione di giurisdizione esclusiva, di distinguere gli aspetti concernenti diritti soggettivi da quelli riguardanti interessi legittimi, poiché la situazione giuridica di chi deduce di essere stato sottoposto ingiustamente a sanzione ha consistenza di diritto soggettivo.

Relativamente, infine, al principio di specialità, sancito dall’art. 9 della l. n. 689 del 1981, secondo Sez. 2, n. 10744/2019, Falaschi, Rv. 653561-01, esso in tanto opera, in quanto le norme sanzionanti un medesimo fatto si trovino fra loro in rapporto di specialità, che deve essere escluso ove sia diversa l’obiettività giuridica degli interessi rispettivamente protetti. Non sussiste, pertanto, un rapporto di specialità tra le previsioni penali a protezione del falso ideologico, di cui agli artt. 7 del d.P.R. n. 358 del 2000 e 479 c.p., e le norme a protezione delle autocertificazioni delle situazioni di fatto e di diritto rilevanti ai fini delle annotazioni al PRA; infatti, la P.A. non è svincolata dal controllo sulla veridicità della stessa autocertificazione, essendo tenuta a verificare - anche di propria iniziativa ex art. 71 del d.P.R. n. 445 del 2000 - la correttezza delle dichiarazioni, pure mediante riscontro diretto dei dati, né è ravvisabile, tra le anzidette norme, una pregiudizialità tale da configurare l’accertamento dell’illecito amministrativo come antecedente logico necessario per l’esistenza del reato, così da determinare quella connessione obiettiva che, ai sensi dell’art. 24 della l. n. 689 del 1981, comporta lo spostamento delle competenze all’applicazione della sanzione dall’organo amministrativo al giudice penale.

4. Competenza ed incompetenza.

Si segnalano varie pronunce di legittimità in tema di competenza ed al correlato vizio di incompetenza.

Con riguardo alla competenza per territorio, Sez. 6-1, n. 00580/2019, Valitutti, Rv. 652670-01, ha ritenuto che l’illecito amministrativo già previsto dall’art. 58 del d.lgs. n. 29 del 1993 - il quale, ai commi 6 e 7, impone ai soggetti pubblici e privati che, comunque, si avvalgano di prestazioni di lavoro autonomo o subordinato rese da dipendenti pubblici di richiedere l’autorizzazione dell’ente di appartenenza e/o di comunicare ai medesimi enti i compensi erogati (ora art. 53, comma 9, del d.lgs. n. 168 del 2001) - debba ritenersi commesso nel luogo in cui il soggetto che ha conferito l’incarico ha avuto conoscenza dell’accettazione da parte del destinatario, in virtù del carattere recettizio della manifestazione della volontà di ricevere un incarico professionale. In precedenza, Sez. 6-2, n. 04840/2018, Abete, Rv. 647985-01, ai fini dell’individuazione del giudice di pace territorialmente competente a pronunciarsi sull’opposizione ad ordinanza-ingiunzione per emissione di assegno bancario (o postale) senza autorizzazione (o senza provvista) di cui agli artt. 1 e 2 della l. n. 386 del 1990, aveva identificato il «luogo in cui è stata commessa la violazione» non in quello di emissione, bensì in quello ove è pagabile l’assegno bancario o postale; ciò in continuità con un precedente di legittimità (Sez. 1, n. 16205/2006, Petitti, Rv. 592309-01) secondo cui era il Prefetto di detto luogo (che, per l’assegno postale, coincide con la sede dell’ufficio postale di radicamento del conto corrente postale) l’autorità territorialmente competente ad emettere l’ordinanza-ingiunzione ai sensi dell’art. 4 della l. n. 386 del 1990.

In tema di competenza per materia, in fattispecie relativa a sanzioni elevate per violazione degli artt. 3 e 16 del d.lgs. n. 109 del 1992 relative all’etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari, Sez. 6-2, n. 05242/2018, Orilia, Rv. 648217-01, ha riconosciuto la competenza del giudice di pace, avuto riguardo alla disciplina commerciale finalizzata ad assicurare la correttezza e la completezza delle indicazioni riportate dai produttori e, con esse, a tutelare l’affidamento dei consumatori, escludendo, quindi, la riconducibilità della materia all’igiene degli alimenti e bevande, riservata ex art. 6, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 alla competenza del tribunale.

Relativamente, poi, alla competenza per valore, un principio di portata generale resta quello espresso da Sez. 6-3, n. 20191/2018, Cirillo F.M., Rv. 650293-01, secondo cui - come già affermato in passato - ai fini dell’attribuzione al giudice di pace delle opposizioni alle sanzioni amministrative pecuniarie di valore fino ad euro 15.493,00 ai sensi dell’art. 6, comma 5, lett. a), del d.lgs. n. 150 del 2011, occorre avere riguardo al massimo edittale della sanzione prevista per ciascuna violazione, non rilevando che il provvedimento sanzionatorio abbia ad oggetto una pluralità di contestazioni e che, per effetto della sommatoria dei relativi importi, venga superato il suddetto limite di valore.

Sul fronte patologico del vizio di incompetenza, la sedimentata giurisprudenza di legittimità - compendiata in Sez. 2, n. 28108/2018, Picaroni, Rv. 651188-01 - ravvisa l’incompetenza relativa nel rapporto tra organi od enti nelle attribuzioni dei quali rientra, sia pure a fini ed in casi diversi, una determinata materia mentre si ha incompetenza assoluta dell’Amministrazione, con conseguente inesistenza del provvedimento sanzionatorio, laddove l’atto emesso concerna una materia del tutto estranea alla sfera degli interessi pubblici attribuiti alla cura dell’Amministrazione cui l’organo emittente appartiene.

Sul correlato fronte giurisdizionale, Sez. 2, n. 15043/2020, Oliva, Rv. 658119-01, specifica che nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa il giudice è tenuto a rilevare ex officio solo l’incompetenza assoluta dell’autorità amministrativa che abbia emesso, senza averne alcun potere, l’ordinanza-ingiuntiva opposta, poiché solo in tal caso difetta in radice il potere sanzionatorio in concreto esercitato dall’autorità predetta e l’incompetenza si risolve nel difetto di uno degli elementi costitutivi della fattispecie sanzionatoria. In ogni altro caso di incompetenza, spetta, invece, alla parte sollevare la relativa eccezione nel ricorso introduttivo, unitamente alle ragioni poste alla base dello stesso, e fornirne la dimostrazione puntuale, in ottemperanza ai normali criteri di ripartizione dell’onere della prova, poiché il vizio non attiene alla titolarità in astratto del potere sanzionatorio, ma soltanto al suo corretto esercizio in concreto.

5. Altri vizi procedurali.

Quanto agli altri possibili vizi dell’ordinanza-ingiunzione, va premesso che il procedimento preordinato all’irrogazione delle sanzioni amministrative sfugge all’ambito applicativo della l. n. 241 del 1990 perché, per la sua natura sanzionatoria, è compiutamente retto dai principi autonomamente sanciti dalla l. n. 689 del 1981 e dal d.P.R. n. 495 del 1992, che non prescrivono, quanto al contenuto del verbale di accertamento, la necessità di indicare il nominativo del responsabile del procedimento ovvero l’autorità territorialmente competente a conoscere dell’impugnativa (Sez. 6-2, n. 17088/2019, Falaschi, Rv. 654616-01). Pertanto - come rammenta da ultimo Sez. 2, n. 01740/2020, Criscuolo, Rv. 656852-01 - l’omessa o erronea indicazione, nell’ordinanza-ingiunzione (o, in sua mancanza, nella cartella di pagamento), del termine per proporre l’opposizione e dell’autorità competente a decidere sulla stessa, ai sensi dell’art. 3, comma 4, della l. n. 241 del 1990, non determinano, ex se, invalidità dell’atto, ma possono, al più, dar luogo ad errore scusabile, impedendo la decadenza dal diritto di proporre opposizione, qualora tali indicazioni mancanti o sbagliate non consentano l’adeguata identificazione dell’Autorità a cui ricorrere e la conoscenza dei termini relativi.

Sez. 6-2, n. 16316/2020, Falaschi, Rv. 658790-01, esclude che l’atto debba avere una motivazione analitica e dettagliata come quella di un provvedimento giudiziario, essendo sufficiente che sia dotata di una motivazione succinta, purché dia conto delle ragioni di fatto della decisione (che possono essere anche desunte per relationem dall’atto di contestazione) ed evidenzi l’avvenuto esame degli eventuali scritti difensivi formulati dal ricorrente.

Secondo Sez. 2, n. 18199/2019, Tedesco, Rv. 654470-01, ove l’accertamento della violazione sia realizzato attraverso analisi di campioni, la comunicazione dell’esito di tali analisi all’interessato, ai sensi dell’art. 15 della l. n. 689 del 1981, equivale alla contestazione immediata di cui all’art. 14, comma 1, della stessa legge e, pertanto, non è soggetta ad un termine predeterminato, ma deve essere eseguita entro un lasso di tempo compatibile con l’equiparazione all’accertamento immediato stabilita dall’art. 15, comma 5, della medesima legge; ne consegue che, solo ove tale comunicazione non sia possibile, occorre procedere alla notificazione degli estremi della violazione entro il termine, decorrente dal momento del completamento dell’analisi, stabilito dall’art. 14, comma 2, legge cit., in difetto della quale si verifica l’estinzione dell’obbligazione di pagamento della sanzione pecuniaria.

Sez. 6-2, n. 21146/2019, Carrato, Rv. 655278-01, in conformità a quanto già statuito da Sez. U, n. 01786/2010, Goldoni, Rv. 611244-01, ha escluso che la mancata audizione dell’interessato che ne abbia fatto richiesta, ai sensi dell’art. 18, comma 2, della l. n. 689 del 1981, comporti la nullità dell’ordinanza-ingiunzione, in quanto, riguardando il giudizio di opposizione il rapporto e non l’atto - v. retro § 1 - gli argomenti a proprio favore che l’istante avrebbe potuto sostenere in sede di audizione dinanzi all’autorità amministrativa ben possono essere prospettati in sede giurisdizionale. Peraltro, ad avviso di Sez. 2, n. 11300/2018, Scalisi, Rv. 648098-01, il mutamento di giurisprudenza in subiecta materia, introdotto proprio da Sez. U, n. 01786/2010, Goldoni, cit., non integra un’ipotesi di cd. prospective overulling, poiché tale istituto non ha carattere processuale, inserendosi nell’ambito di un procedimento di formazione di un atto amministrativo, e, comunque, dalla sua violazione non consegue l’effetto preclusivo del diritto di azione e di difesa dell’interessato, il quale ha la possibilità di fare valere nel processo a cognizione piena le ragioni che avrebbe potuto rappresentare in fase di audizione.

6. Elemento psicologico e cause di giustificazione.

Con riguardo all’elemento psicologico della violazione amministrativa, è necessaria ed al tempo stesso sufficiente la semplice colpa, identificata dalla giurisprudenza come mera suitas della condotta inosservante. Come rammenta da ultimo Sez. 6-2, n. 11777/2020, Casadonte, Rv. 658212-01, il principio posto dall’art. 3 della l. n. 689 del 1981 - secondo il quale, per violazioni amministrativamente sanzionate, è richiesta la coscienza e volontà della condotta attiva od omissiva, sia essa dolosa o colposa - postula una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che l’abbia commesso, non essendo necessaria la concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all’agente, sul quale grava l’onere di provare di avere agito senza colpa (conf. Sez. 2, n. 13610/2007, Ebner, Rv. 597317-01), poiché - come puntualizzato anche da Sez. 2, n. 24081/2019, Varrone, Rv. 6655391-01, e Sez. 2, n. 33441/2019, Lombardo, non massimata - il legislatore ha tipizzato le fattispecie ricollegando il giudizio di colpevolezza non a parametri psicologici, ma normativi, ovvero alla realizzazione di determinate condotte attive od omissive, in violazione di legge o di precetti di comune prudenza.

Ne deriva che l’esimente della buona fede, applicabile anche all’illecito amministrativo disciplinato dalla l. n. 689 del 1981, rileva come causa di esclusione della responsabilità amministrativa - al pari di quanto avviene per la responsabilità penale, in materia di contravvenzioni ex art. 5 c.p. - solo quando sussistano elementi positivi idonei a ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua condotta e risulti che il trasgressore abbia fatto tutto quanto possibile per conformarsi al precetto di legge, onde nessun rimprovero possa essergli mosso, neppure sotto il profilo della negligenza omissiva (da ultimo, Sez. 2, n. 11977/2020, Grasso, Rv. 658272-01). Come ricorda Sez. 2, n. 06018/2019, Picaroni, Rv. 652932-01, non basta uno stato di ignoranza circa la sussistenza dei relativi presupposti, ma occorre che tale ignoranza sia incolpevole, cioè non superabile dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza (negli stessi termini, Sez. 2, n. 00720/2018, Bellini, Rv. 647152-01). È radicato l’indirizzo di legittimità, ripreso anche da Sez. 2, n. 33441/2019, Lombardo, non massimata, e Sez. 2, n. 20219/2018, Bellini, Rv. 649910-01, che dà rilievo all’esimente della buona fede solo quando risulti “inevitabile”, apprezzamento che il giudice di merito deve compiere alla luce della conoscenza e dell’obbligo di conoscenza delle leggi gravante sul trasgressore in relazione anche alle proprie qualità professionali e al dovere di informazione sulle norme e sulla relativa interpretazione (Sez. 2, n. 33441/2019, Lombardo, non massimata).

L’errore scusabile determinato dall’interpretazione di norme giuridiche, secondo Sez. 2, n. 12110/2018, Cosentino, Rv. 648504-01, in tanto può assumere rilievo, in quanto non riguardi la sola interpretazione giuridica del precetto, ma verta sui presupposti della violazione e sia stato determinato da un elemento positivo, estraneo all’autore, idoneo ad ingenerare in quest’ultimo l’incolpevole opinione di liceità del proprio agire (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, in riferimento ad una sanzione amministrativa irrogata ai sindaci di una s.p.a. per l’omessa segnalazione delle irregolarità riscontrate nell’attività di vigilanza, aveva escluso la scusabilità dell’errore addotto dai ricorrenti, in considerazione del livello di qualificazione professionale che la carica ricoperta doveva fare presumere). Significativo, al riguardo, è il principio sancito da Sez. 5, n. 03431/2019, Mondini, Rv. 652523-01, che, in tema di sanzioni amministrative per violazione di obblighi tributari, ha escluso la sussistenza di obiettive condizioni di incertezza nell’interpretazione delle norme violate qualora la giurisprudenza di legittimità, alla quale soltanto spetta di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, ai sensi dell’art. 65 del r.d. n. 12 del 1941, sia consolidata, senza che assumano rilevanza eventuali contrasti nella giurisprudenza di merito.

Un caso di esclusione dell’elemento psicologico per difetto (anche) di colpa è rinvenibile in Sez. 2, n. 04866/2018, Carrato, Rv. 647643-01, in tema di esercizio abusivo dell’attività di autotrasporto, in fattispecie nella quale il proprietario della merce non aveva partecipato all’affidamento del trasporto al vettore abusivo e non erano emerse negligenze rispetto all’accertamento della regolarità del trasportatore, non essendo esigibile, a carico dello stesso, un obbligo di vigilanza avente ad oggetto anche la verifica del possesso, da parte dell’autotrasportatore medesimo, delle prescritte autorizzazioni.

Per ciò che concerne le cause di giustificazione - adempimento di un dovere, esercizio di una facoltà legittima, stato di necessità e legittima difesa - in mancanza di ulteriori precisazioni contenute nell’art. 4 della l. n. 689 del 1981, che si limita ad enumerarle, è regola costante nella giurisprudenza il riferimento ai corrispondenti istituti penalistici, esigendosi un rigoroso accertamento di fatto, rimesso al giudice di merito.

Coerentemente a tale impostazione, ai fini del riconoscimento dello stato di necessità, Sez. 6-2, n. 16155/2019, Carrato, Rv. 654604-01, richiede, in conformità ai requisiti strutturali degli artt. 54 e 59 c.p., la sussistenza di un’effettiva situazione di pericolo imminente di un grave danno alla persona, non altrimenti evitabile, ovvero l’erronea convinzione (che, comunque, ridonda in favore del trasgressore, purché provocata da circostanze oggettive) di trovarsi in una situazione del genere (fattispecie in cui la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva negato la sussistenza dello stato di necessità invocato sulla base del mero convincimento soggettivo, da parte del trasgressore, che la madre versasse in condizioni di pericolo: v. anche Sez. 6-2, n. 04834/2018, Manna F., Rv. 649209-01, che ha escluso l’invocabilità dell’esimente quando la situazione di pericolo riguardi un animale).

La scriminante dell’esercizio di una facoltà legittima è stata esclusa da Sez. 2, n. 03740/2018, Carrato, Rv. 647801-01, se il contravventore, pur abilitato con autorizzazione amministrativa all’esercizio di un’attività, abbia violato i limiti tabellari previsti dalla normativa primaria di riferimento.

7. Cumulo materiale e concorso di persone.

In fattispecie concernente delle sanzioni amministrative per plurime violazioni in materia di orario di lavoro, commesse con più azioni od omissioni, Sez. L, n. 12659/2019, Arienzo, Rv. 654065-01, ha ritenuto operativo, in una simile situazione, il criterio del cd. cumulo materiale, atteso che la disciplina dell’art. 8 della l. n. 689 del 1981 contempla il criterio del cd. cumulo giuridico soltanto in materia di previdenza e assistenza e che la differenza morfologica e soggettiva tra illecito penale e illecito amministrativo non consente di applicare analogicamente l’art. 81 c.p.

In tema di illeciti amministrativi di cui al d.lgs. n. 196 del 2003 (Codice della privacy), Sez. 2, n. 18288/2020, Besso Marcheis, Rv. 659098-02, inquadra la fattispecie prevista dall’art. 164 bis, comma 2, non come un’ipotesi aggravata rispetto alle violazioni semplici ivi richiamate, ma come figura di illecito del tutto autonoma, atteso che essa prevede la possibilità che vengano infrante dal contravventore, anche con più azioni ed in tempi diversi, una pluralità di ipotesi-base, unitariamente considerate dalla norma con riferimento a «banche di dati di particolare rilevanza o dimensioni», sicché, in caso di concorso di violazioni di altre disposizioni unitamente a quella in esame, ravvisa un’ipotesi di cumulo materiale di sanzioni amministrative.

Per Sez. 2, n. 34031/2019, Bellini, Rv. 656220-01, l’art. 5 della l. n. 689 del 1981, in tema di concorso di persone nella commissione dell’illecito, rende applicabile la pena pecuniaria non soltanto all’autore o ai coautori dell’infrazione, ma anche a coloro che, comunque, abbiano dato un contributo causale, sicché, relativamente al trasporto di rifiuti non pericolosi, integra gli estremi della condotta tipica dell’illecito amministrativo commesso in violazione dell’art. 193 del d.lgs. n. 152 del 2006 - e sanzionato dall’art. 258 del medesimo decreto - l’omissione, da parte del produttore e del trasportatore, dell’obbligo posto a loro carico di compilare e sottoscrivere il formulario di trasporto, assumendosene onere e responsabilità diretti.

In caso di pluralità di illeciti, Sez. 2, n. 11481/2020, Varrone, Rv. 658267-01, ha affermato che, nel giudizio di opposizione avverso le sanzioni amministrative pecuniarie, il giudice, nel caso di contestazione della misure delle stesse, è autonomamente chiamato a controllarne la rispondenza alle previsioni di legge, senza essere soggetto a parametri fissi di proporzionalità correlati al numero ed alla consistenza degli addebiti, e può reputare congrua l’entità della sanzione inflitta in riferimento ad una molteplicità di incolpazioni anche qualora escluda l’esistenza di alcune di esse; egli, inoltre, non è chiamato a controllare la motivazione dell’ordinanza-ingiunzione, ma a determinare la sanzione entro i limiti edittali previsti, allo scopo di commisurarla all’effettiva gravità del fatto concreto, desumendola globalmente dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, senza che sia tenuto a specificare i criteri seguiti, dovendosi escludere che la sua statuizione sia censurabile in sede di legittimità ove quei limiti siano stati rispettati e dalla motivazione emerga come, nella determinazione, si sia tenuto conto dei parametri previsti dall’art. 11 della l. n. 689 del 1981.

8. Intrasmissibilità dell’obbligazione e responsabilità solidale.

È consolidato l’orientamento - da ultimo ribadito da Sez. 2, n. 21265/2020, De Marzo, Rv. 659362-01 - a mente del quale il disposto dell’art. 7 della l. n. 689 del 1981 (per il quale «L’obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione non si trasmette agli eredi») e quello dell’ultimo comma dell’art. 6 della stessa legge (secondo cui l’obbligato solidale che ha pagato «ha diritto di regresso per l’intero nei confronti dell’autore della violazione») sono espressione del principio della personalità della sanzione amministrativa, per il quale la morte dell’autore della violazione determina non solo l’intrasmissibilità ai suoi eredi dell’obbligo di pagare la somma dovuta per la sanzione, ma anche l’estinzione dell’obbligazione a carico dell’obbligato solidale per la sanzione amministrativa. Detto principio di intrasmissibilità dell’obbligazione sanzionatoria si rende applicabile a tutte le violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro, anche quando questa sanzione non è prevista in sostituzione di una sanzione penale, e trova la sua ragione giustificativa nel carattere afflittivo di tali sanzioni che le riconduce all’ambito del diritto punitivo, accentuandone - quindi - la stretta inerenza alla persona del trasgressore (Sez. U, n. 22082/2017, Manna F., Rv. 645324-01).

Nondimeno, all’interno del sistema dell’illecito amministrativo, la solidarietà svolge una pluralità di funzioni: per un verso, quella pubblicistica di deterrenza generale nei confronti di quanti, persone fisiche o enti, abbiano interagito con il trasgressore, rendendo possibile la violazione; per altro verso, quella di rafforzare il credito in funzione recuperatoria della somma dovuta dall’autore del fatto.

Nell’ipotesi di responsabilità del proprietario di un bene per il pagamento della somma dovuta a titolo di sanzione amministrativa, regolata dall’art. 6, comma 1, della l. n. 689 del 1981, il suddetto principio di intrasmissibilità dell’obbligazione conosce un’eccezione, essendo prevista una sua presunzione di responsabilità qualora non fornisca la prova precisa che il medesimo bene sia stato utilizzato per il compimento dell’illecito contro la sua volontà (v. già Sez. 2, n. 16798/2006, Bognanni, Rv. 591529-01). Pertanto - ha precisato da ultimo Sez. 2, n. 20522/2020, De Marzo, Rv. 659197-01 - la responsabilità solidale del proprietario non viene meno in conseguenza del decesso dell’autore dell’illecito: la funzione di garanzia e di rafforzamento del credito in funzione recuperatoria qui svolta fa venir meno quella stringente correlazione col principio personalistico, tipico del diritto punitivo, che giustifica la previsione dell’estinzione dell’obbligazione nei confronti degli eredi, a seguito del decesso dell’autore della violazione, disposta dall’art. 7 della l. n. 689 del 1981.

In caso di solidarietà ai sensi dell’art. 6 della l. n. 689 del 1981, ad avviso di Sez. 2, n. 00303/2019, Tedesco, Rv. 652052-01, il limite apportato dal comma 2 dell’art. 1306 c.c. al principio enunciato nel comma 1 è applicabile pure alle obbligazioni basate su rapporti giuridici pubblicistici, con l’effetto che la sentenza pronunciata tra il creditore e uno dei debitori solidali è opponibile al medesimo creditore da parte degli altri, ove ad essi favorevole e non fondata su ragioni personali al condebitore nei cui confronti è stata emessa, purché essi abbiano partecipato al relativo giudizio. In precedenza, se l’oggetto dell’unico provvedimento sanzionatorio era costituito da più condotte poste in essere da più soggetti, Sez. 2, n. 21347/2018, Gorjan, Rv. 650036-01, aveva escluso che il giudicato relativo all’accoglimento dell’opposizione proposta da taluni di essi potesse spiegare i suoi effetti verso dei concorrenti rimasti estranei al giudizio, stante la diversità delle parti e delle condotte addebitate.

9. Prescrizione.

La prescrizione del diritto a riscuotere le somme dovute a titolo di sanzione amministrativa decorre, in ossequio all’art. 2935 c.c., dal momento in cui il diritto può essere fatto valere.

Al riguardo, Sez. 5, n. 05577/2019, D’Orazio, Rv. 652721-02, in vicenda relativa a cartella di pagamento per sanzioni fondata su sentenza passata in giudicato, ha chiarito che il diritto alla riscossione delle sanzioni amministrative pecuniarie è assoggettato al termine di prescrizione decennale previsto dal succitato art. 2935 c.c. per l’actio iudicati solo ove si fondi su un accertamento divenuto definitivo contenuto in una sentenza coperta da giudicato; se, invece, la definitività della sanzione non deriva da un provvedimento giurisdizionale irrevocabile, opera il termine di prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 727 del 1997.

Con specifico riferimento alla pena pecuniaria stabilita in caso di inottemperanza all’obbligo di comunicazione alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense dell’ammontare del reddito professionale ex art. 17, comma 4, della l. n. 576 del 1980, Sez. L, n. 17258/2018, Riverso, Rv. 649594-01, nel considerare detta sanzione tuttora amministrativa (anche all’indomani della privatizzazione della Cassa per effetto del d.lgs. n. 509 del 1994), l’ha ritenuta assoggettata a prescrizione quinquennale, con inizio dal giorno di commissione della violazione, e non a quella decennale fissata dall’art. 19, comma 1, della l. n. 576 del 1980, riferibile esclusivamente ai contributi e ai relativi accessori.

Da ultimo, Sez. 6-2, n. 15694/2020, Tedesco, Rv. 658783-01, ha chiarito che la revoca della patente di guida, quale sanzione accessoria che consegue alla violazione di determinate norme del codice della strada, costituisce adempimento per il quale la legge non prevede alcun termine, sicché la sanzione può essere irrogata nel termine generale di prescrizione quinquennale.

Nella particolare ipotesi di fatti già sanzionati penalmente e successivamente depenalizzati, Sez. 6-2, n. 19897/2018, Falaschi, Rv. 650067-01, ha escluso che il dies a quo rilevante a fini prescrizionali possa identificarsi nella data dell’infrazione, dovendosi avere riguardo a quando pervengono alla competente Autorità amministrativa gli atti inviati dall’Autorità giudiziaria, poiché esclusivamente da tale momento l’Amministrazione è in grado di esercitare il diritto di riscuotere la somma stabilita dalla legge a titolo di sanzione amministrativa.

Sez. 2, n. 06310/2020, Fortunato, Rv. 657130-01, annette carattere permanente alla violazione del divieto di impianto di nuovi vigneti o di reimpianto di cui all’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 260 del 2000 (applicabile ratione temporis) sicché il relativo termine di prescrizione, sia riguardo alla violazione che alla sanzione, decorre dal momento della cessazione della permanenza, che coincide con la rimozione materiale dell’impianto o con il momento della contestazione dell’illecito che, valendo anche come atto interruttivo, conferisce all’eventuale protrazione della violazione il carattere di autonomo illecito amministrativo, ulteriormente sanzionabile (nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto che l’annullamento per intervenuta prescrizione di una precedente sanzione amministrativa per violazione del divieto di impianto di nuovi vigneti non impedisse, in mancanza della rimozione materiale del medesimo impianto viticolo, di irrogare una seconda sanzione).

In precedenza, Sez. 2, n. 15025/2019, Picaroni, Rv. 654189-01, si è occupata di un’ipotesi di illecito omissivo proprio permanente, affermando che, in ordine alla decorrenza della prescrizione di cui all’art. 28 della l. n. 689 del 1981, occorre verificare la configurabilità della permanenza in relazione alle singole condotte.

Riguardo agli atti interruttivi della prescrizione, Sez. 3, n. 01550/2018, D’Arrigo, Rv. 647596-01, ha chiarito che l’atto notificato ad uno dei coobbligati, in caso di solidarietà tra questi ai sensi dell’art. 6 della l. n. 689 del 1981, determina effetti interruttivi verso gli altri, in base all’art. 1310 c.c., stante il richiamo generale contenuto nell’art. 29 della medesima legge alla disciplina del codice civile anche quanto all’interruzione della prescrizione. La Corte ha ritenuto irrilevante che il soggetto nei confronti del quale è stata interrotta la prescrizione sia il materiale esecutore della violazione (o colui al quale la legge estende la corresponsabilità nel pagamento della relativa sanzione), non potendosi distinguere, ai fini dell’art. 1310 c.c., fra coobbligati solidali. L’estensione degli effetti interruttivi non si verifica, invece, nella diversa ipotesi, regolata dall’art. 5 della l. n. 689 del 1981, del concorso di più persone nella commissione della violazione, difettando il vincolo della solidarietà fra i coobbligati, ciascuno dei quali è tenuto al pagamento della sanzione amministrativa per intero.

Infine, per Sez. L, n. 27509/2019, Mancino, Rv. 655600-01, il termine quinquennale di prescrizione della sanzione amministrativa pecuniaria, stabilito dall’art. 17, comma 4, primo periodo, della l. n. 576 del 1980, per l’inottemperanza all’obbligo di comunicazione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense dell’ammontare del reddito professionale percepito, decorre dal giorno in cui è stata commessa la violazione, ovvero dalla scadenza del termine di trenta giorni dalla data prescritta per la presentazione della dichiarazione annuale dei redditi.

10. Sanzioni in ambito bancario e finanziario: profili procedimentali.

Con riferimento ai profili attinenti alla competenza ad irrogare sanzioni, Sez. 2, n. 19558/2020, Varrone, Rv. 659174-01, ha affermato che, in materia di sanzioni amministrative nei confronti degli intermediari mobiliari, ove la condotta sanzionata consista nella violazione, da parte di soggetti che svolgono funzioni di direzione, amministrazione o controllo di istituti bancari, dei doveri concernenti il momento organizzativo, preordinati alla tutela non solo del cliente, ma anche della trasparenza e correttezza dell’operato della banca e dell’integrità del mercato, l’autorità competente ad irrogare le sanzioni è la CONSOB, ai sensi degli artt. 5, 21 e 190 del T.U.F., restando irrilevante che dalle violazioni siano poi derivate pratiche commerciali scorrette e senza che ciò determini un contrasto della disciplina del T.U.F. con l’art. 27, comma 1 bis, del d.lgs. n. 206 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 6, lett. a), del d.lgs. n. 21 del 2014, che attribuisce in via esclusiva all’AGCM la tutela amministrativa del consumatore contro simili pratiche.

Con riguardo agli aspetti procedimentali, secondo Sez. 2, n. 19512/2020, De Marzo, Rv. 659131-01, in tema di intermediazione finanziaria, la contestazione degli illeciti amministrativi, anche nell’ambito del procedimento delineato dall’art. 195 d.lgs. n. 58 del 1998, deve avvenire, pena l’estinzione dell’obbligazione, nei termini previsti in via generale dall’art. 14, ultimo comma, della l. n. 689 del 1981, sicché costituisce prova del ricevimento della contestazione l’attestazione operata sulla notifica dall’agente postale, che fa fede fino a querela di falso, pur quando si deduca l’omessa apposizione della firma sull’avviso di ricevimento.

Con riferimento alla tutela del contraddittorio, Sez. 2, n. 09371/2020, Sabato, Rv. 657750-01, ha precisato che, in tema di sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia, la mancata comunicazione all’incolpato degli esiti istruttori non comporta violazione del diritto di difesa e dei principi sanciti dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, atteso che il procedimento amministrativo deve ritenersi sin dall’inizio conforme alle prescrizioni di tale ultima disposizione, essendo il provvedimento sanzionatorio impugnabile davanti ad un giudice indipendente ed imparziale, dotato di giurisdizione piena e presso il quale è garantito il pieno dispiegamento del contraddittorio tra le parti.

Infatti, come ricordato da Sez. 2, n. 16517/2020, Fortunato, Rv. 659018-05, il procedimento sanzionatorio davanti alla Banca d’Italia non viola il diritto di difesa dell’incolpato, atteso che, sebbene l’art. 24, comma 1, della l. n. 262 del 2005 disponga che “i procedimenti sanzionatori sono svolti nel rispetto dei principi della piena conoscenza degli atti istruttori, del contraddittorio, della verbalizzazione, nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie”, è tuttavia esclusa la diretta applicabilità, in tale ambito, dei precetti costituzionali degli artt. 24 e 111 Cost., invocabili solo con riferimento al processo che si svolge davanti al giudice, innanzi al quale l’incolpato può impugnare il provvedimento sanzionatorio con piena garanzia del diritto di difesa e del contraddittorio.

Sempre in relazione alla Banca d’Italia, per Sez. 2, n. 09385/2020, Varrone, Rv. 657753-02, nella procedura sanzionatoria ex art. 145 del d.lgs. n. 385 del 1993, il termine di duecentoquaranta giorni, previsto del regolamento della Banca d’Italia del 25 giugno 2008 per la conclusione del procedimento, inizia a decorrere dalla scadenza del termine per la presentazione delle controdeduzioni da parte del soggetto che ha ricevuto per ultimo la notifica della contestazione. Ne consegue che, ove tale termine sia stato prorogato, il termine finale di conclusione del procedimento decorre dallo scadere del nuovo termine come prorogato.

Inoltre, ad avviso di Sez. 2, n. 03845/2020, De Marzo, Rv. 657103-02, il cumulo di funzioni istruttorie e decisorie in capo ad un medesimo organo previsto dall’organizzazione interna della Banca d’Italia, ovvero l’affidamento della decisione sulla sanzione all’organo gerarchicamente sopraordinato rispetto a quello preposto allo svolgimento dell’istruttoria, non comporta, di per sé, la violazione dell’art. 6 CEDU, anche quando esso si risolva in una anticipazione del giudizio, dovendosi comunque avere riguardo, per potere configurare un ragionevole timore di mancanza di imparzialità in capo all’organo investito della funzione decisoria, alla portata ed alla natura delle eventuali attività e decisioni preliminari, da valutarsi caso per caso.

Sez. 2, n. 03845/2020, De Marzo, Rv. 657103-03, ha chiarito, invece, che la contemporanea attivazione di due distinti procedimenti sanzionatori, l’uno condotto dalla Banca d’Italia e l’altro dalla CONSOB, in relazione ai medesimi fatti, non pone problemi di compatibilità con l’art. 6 CEDU qualora i predetti procedimenti siano tesi a sanzionare diversi profili della condotta antisociale realizzata dal soggetto ed a condizione che tra le due procedure sussista una connessione sostanziale e cronologica, che il trattamento sanzionatorio sia nel complesso proporzionato e comunque prevedibile nella sua articolazione ed entità, che sia assicurata l’unicità della raccolta e, ove possibile, della valutazione della prova e, infine, che la sanzione imposta nel procedimento che si concluda per primo sia tenuta in considerazione nell’altro procedimento, così da assicurare la proporzionalità complessiva della pena in concreto irrogata.

11. Sanzioni in ambito bancario e finanziario: soggetti responsabili e contenuto della condotta loro imposta.

Con riferimento ai doveri degli amministratori di società per azioni, Sez. 2, n. 19556/2020, Cosentino, Rv. 659134-01, ha affermato che, in tema di sanzioni amministrative previste dall’art. 144 del d.lgs. n. 385 del 1993, l’obbligo imposto dall’art. 2381, ultimo comma, c.c. ai detti amministratori di “agire in modo informato”, pur quando non siano titolari di deleghe, si declina, da un lato, nel dovere di attivarsi, esercitando tutti i poteri connessi alla carica, per prevenire o eliminare ovvero attenuare le situazioni di criticità aziendale di cui siano, o debbano essere, a conoscenza, dall’altro, in quello di informarsi, affinché tanto la scelta di agire quanto quella di non agire risultino fondate sulla conoscenza della situazione aziendale che gli stessi possano procurarsi esercitando tutti i poteri di iniziativa cognitoria connessi alla carica con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Tali obblighi si connotano in termini particolarmente incisivi per gli amministratori di società che esercitano l’attività bancaria, prospettandosi, in tali ipotesi, non solo una responsabilità di natura contrattuale nei confronti dei soci della società, ma anche quella, di natura pubblicistica, nei confronti dell’Autorità di vigilanza.

Nella stessa ottica, Sez. 2, n. 06625/2020, Varrone, Rv. 657466-02, ha precisato che, in relazione agli illeciti di cui all’art. 144 del d.lgs. n. 385 del 1993, nei confronti di soggetti che svolgono funzioni di direzione, amministrazione o controllo di istituti bancari il legislatore individua una serie di fattispecie, destinate a salvaguardare procedure e funzioni incentrate sulla mera condotta, secondo un criterio di agire o di omettere doveroso, ricollegando il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico e limitando l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della condotta inosservante, sicché, integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dall’art. 3 della l. n. 689 del 1981, l’onere di provare di avere agito in assenza di colpevolezza.

Infine, per Sez. 2, n. 14708/2020, Grasso, Rv. 658472-01, in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, sebbene non rientri tra i doveri dei sindaci interloquire sulla opportunità delle operazioni con parti correlate e sulle prospettive vantaggiose o meno delle stesse, cionondimeno i medesimi non possono limitarsi ad una verifica estrinseca del rispetto delle procedure legali, avendo l’obbligo di relazionare all’assemblea circa le criticità emerse per difetto di “correttezza sostanziale” delle dette operazioni e per mancanza di indipendenza dell’advisor, risultante dalle emergenze, e la non conformità della procedura allo scopo di legge, che è quello di impedire silenti “svuotamenti societari”.

12. Sanzioni in ambito bancario e finanziario: il giudizio di opposizione.

Secondo Sez. 2, n. 13150/2020, Abete, Rv. 658283-01, in tema di sanzioni amministrative irrogate dalla CONSOB, l’opposizione all’ordinanza-ingiunzione proposta dinanzi alla corte d’appello non configura un’impugnazione dell’atto ed introduce, piuttosto, un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, devolvendo al giudice adito la piena cognizione circa la legittimità e la fondatezza della stessa, sicché non può trovare applicazione l’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, che si riferisce all’ipotesi in cui sia stata respinta o dichiarata inammissibile o improcedibile l’impugnazione, anche incidentale.

Di conseguenza, come evidenziato da Sez. 2, n. 05526/2020, De Marzo, Rv. 657120-01, nel procedimento di opposizione avverso le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate per violazione della legge bancaria, il giudice ha il potere discrezionale di quantificarne l’entità, entro i limiti sanciti da quest’ultima, allo scopo di commisurarla all’effettiva gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, senza dovere specificare i criteri seguiti. Tale statuizione è incensurabile in sede di legittimità, ove quei limiti siano stati rispettati e dalla motivazione emerga come, nella determinazione, si sia tenuto conto dei parametri previsti dall’art. 11 della l. n. 689 del 1981, quali la gravità della violazione, la personalità dell’agente e le sue condizioni economiche.

13. Abuso di informazioni privilegiate.

In materia di abuso di informazioni privilegiate ex art. 187 bis del d.lgs. n. 58 del 1998, Sez. 2, n. 08782/2020, Scarpa, Rv. 657699-03, ha specificato che, non esiste alcuna incompatibilità tra tale condotta ed il suo accertamento mediante presunzioni semplici, essendo, piuttosto, la prova presuntiva spesso l’unica che consenta di accertare il possesso delle dette informazioni, dal momento che il trasferimento di queste si attua, di regola, con modalità che escludono attività di documentazione, mentre la rappresentazione dell’insider trading attraverso prove orali è eventualità per lo più esclusa dalla naturale riservatezza delle comunicazioni e dalla mancata conoscenza, da parte della CONSOB, di quanti, vicini all’incolpato, potrebbero fornire precise informazioni al riguardo.

La stessa decisione (Sez. 2, n. 08782/2020, Scarpa, Rv. 657699-04) ha chiarito che, in tema di abuso di informazioni privilegiate ex art. 187 bis del d.lgs. n. 58 del 1998, per effetto della pronuncia della Corte costituzionale del 21 marzo 2019, n. 63, dichiarativa dell’illegittimità dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui tale norma, relativamente agli illeciti disciplinati dagli artt. 187 bis e ter del T.U.F, escludeva l’applicazione retroattiva in mitius del più favorevole trattamento sanzionatorio introdotto dal comma 3 del citato art. 6, va cassata la sentenza che abbia ritenuto legittima la sanzione pecuniaria prevista dalla disciplina dichiarata incostituzionale, imponendosi una diversa valutazione in ordine alla sanzione da applicare.

Sez. 2, n. 08782/2020, Scarpa, Rv. 657699-02, ha ribadito, altresì, l’orientamento di Sez. 2, n. 24310/2017, Cosentino, Rv. 645794-01, per il quale, in tema di abuso di informazioni privilegiate ex art. 187 bis del d.lgs. n. 58 del 1998, l’espressione “informazione” va intesa quale “conoscenza”, indipendentemente dal fatto che la stessa sia stata o meno trasmessa da altri all’agente, presupponendo la fattispecie sanzionatrice che sia accertato non un collegamento causale orientato tra l’informazione posseduta e l’attività trasmissiva di un informatore qualificato, quanto il nesso eziologico tra il possesso dell’informazione e l’utilizzo che se ne faccia compiendo operazioni su strumenti finanziari.

14. Le sanzioni in ambito bancario e finanziario e le questioni di legittimità costituzionale prospettate.

La legittimità costituzionale del sistema sanzionatorio interno è stata oggetto di specifico esame in una pluralità di decisioni.

Secondo Sez. 2, n. 10462/2020, Grasso, Rv. 657795-02, in tema di procedimento di reclamo dinanzi alla Corte d’appello di Roma contro il decreto ministeriale che abbia irrogato le sanzioni amministrative di cui all’art. 144 del d.lgs. n. 385 del 1993, la concentrazione della competenza per territorio in un unico ufficio giudiziario - così come dispone il successivo art. 145 - non può dirsi misura lesiva del principio della piena difesa dei diritti nei confronti degli atti della pubblica amministrazione (artt. 24 e 113 Cost.), né del principio di ragionevolezza e parità di trattamento nella disciplina di analoghe situazione (art. 3 Cost.), atteso che la concentrazione della tutela giurisdizionale è diretta espressione del sistema di centralità dei controlli imposto da obbiettive ragioni di funzionalità tecnica, da un lato, assicurando agli stessi soggetti destinatari della sanzione più adeguate garanzie - in materie che presentano profili di elevata complessità tecnica - nella specializzazione dell’unico ufficio giudiziario cui siano affidate controversie della medesima natura e, dall’altro, rafforzando l’esigenza di uniformità della giurisprudenza anche di merito, generalmente avvertita in una materia attinente a una sfera di interessi (quali il credito e la tutela del risparmio) a diretta copertura costituzionale.

Nella stessa ottica, per Sez. 2, n. 10462/2020, Grasso, Rv. 657795-01, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 25 Cost., dell’art. 145, comma 7, del d.lgs. n. 385 del 1993, nella parte ove prevede, in ordine al procedimento di reclamo dinanzi alla Corte d’appello di Roma contro il decreto ministeriale irrogativo delle sanzioni amministrative di cui al precedente art. 144, la forma del rito camerale e la definizione del giudizio con decreto motivato, anziché con sentenza, così impedendo la proponibilità del ricorso ordinario per cassazione - con possibilità di denuncia anche dei vizi di motivazione - in luogo di quello ex art. 111 Cost., atteso che, da un lato, il rito camerale è idoneo ad assicurare tutela ai diritti soggettivi - specie quando, come nel caso dell’attività bancaria, la controversia sia caratterizzata da contenuti tecnici e da fonti di conoscenza prevalentemente documentali - e, dall’altro, la scelta del decreto motivato, in deroga alla normativa comune sui procedimenti di applicazione delle sanzioni amministrative, deve ritenersi non irragionevole, in considerazione del carattere di specialità della disciplina bancaria e creditizia e della continuità con la precedente regolamentazione della materia.

Inoltre, Sez. 2, n. 17209/2020, Picaroni, Rv. 658959-01, ha affermato che, relativamente alle sanzioni amministrative ex artt. 144 e 144 ter T.U.B., irrogate prima delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 72 del 2015, non avendo esse natura sostanzialmente penale, non opera il principio di retroattività della lex mitior, con conseguente manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, d.lgs. n. 72 del 2015, per contrasto con gli artt. 3 e 117 Cost., nella parte in cui tale norma non prevede l’applicazione a tali sanzioni del principio del favor rei, non sussistendo una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi.

Ad avviso di Sez. 2, n. 03845/2020, De Marzo, Rv. 657103-01, in tema di opposizione alle sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 8, d.lgs. n. 72 del 2015, in relazione all’art. 76 Cost., per eccesso di delega contenuta nella l. n. 154 del 2014, nella parte ove ha esteso l’obbligo della pubblicità dell’udienza di discussione anche ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. citato, trattandosi di scelta del legislatore delegato coerente con gli indirizzi generali della delega, compatibile con la ratio di questa e tale da comportare un ampliamento delle garanzie processuali offerte al destinatario della sanzione.

Soprattutto, Sez. 2, n. 16517/2020, Fortunato, Rv. 659018-01, ha chiarito che, in tema di sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia ai sensi degli artt. 144 ss. del d.lgs. n. 385 del 1993, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 145 del cit. d.lgs. n. 385, come modificato dal d.lgs. n. 72 del 2015, in relazione all’art. 76 Cost., per eccesso di delega contenuta nella l. n. 154 del 2014, nella parte ove ha introdotto, per il giudizio di opposizione, la trattazione in pubblica udienza in luogo di quella camerale, atteso che il potere di intervenire sul rito dell’opposizione era espressamente conferito al Governo dall’art. 3, comma 1, lett. i), della l. n. 154, nel punto in cui consentiva l’adozione di modifiche alla procedura sanzionatoria, ivi incluse le norme processuali.

Infatti, come meglio precisato da Sez. 2, n. 16517/2020, Fortunato, Rv. 659018-05, il procedimento sanzionatorio davanti alla Banca d’Italia non viola il diritto di difesa dell’incolpato, atteso che, sebbene l’art. 24, comma 1, della l. n. 262 del 2005 disponga che “i procedimenti sanzionatori sono svolti nel rispetto dei principi della piena conoscenza degli atti istruttori, del contraddittorio, della verbalizzazione, nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie”, è tuttavia esclusa la diretta applicabilità, in tale ambito, dei precetti costituzionali degli artt. 24 e 111 Cost., invocabili solo con riferimento al processo che si svolge davanti al giudice, innanzi al quale l’incolpato può impugnare il provvedimento sanzionatorio con piena garanzia del diritto di difesa e del contraddittorio.

Infine, per Sez. 2, n. 03457/2020, De Marzo, Rv. 657101-01, la previsione della pubblicità dell’udienza di discussione delle opposizioni avverso le sanzioni amministrative previste dal d.lgs. n. 58 del 1998 (cd. T.U.F.), contenuta nell’art. 5 del d.lgs. n. 72 del 2015, e l’espressa estensione di tale garanzia anche ai processi in corso, contenuta nel successivo art. 6, comma 8, norme dettate in attuazione della disposizione di cui all’art. 3, comma 1, della legge delega n. 154 del 2014, non si pone in contrasto con il parametro costituzionale dell’art. 76 Cost., trattandosi di scelte del legislatore delegato coerenti con gli indirizzi generali della delega, compatibili con la ratio di questa e tali da comportare un ampliamento delle garanzie processuali offerte al destinatario della sanzione.

15. Ulteriori pronunce riguardanti le sanzioni in ambito bancario e finanziario.

In primo luogo, Sez. 2, n. 06625/2020, Oliva, Rv. 657466-01, ha affermato che l’art. 22, comma 2, lett. a), n. 1, della l. n. 217 del 2011, che ha sostituito la lett. d) dell’art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 385 del 1993, laddove attribuisce alla Banca d’Italia il potere regolamentare anche in materia di governo societario, organizzazione amministrativa e contabile, nonché di controlli interni e di sistemi di remunerazione e di incentivazione, introduce una norma interpretativa, volta a dare attuazione alla direttiva comunitaria 2010/76/CE, al fine di evidenziare l’importanza dei meccanismi di remunerazione dell’alta dirigenza delle banche per impedire l’assunzione di rischi ingiustificati, eccessivi e imprudenti da parte degli amministratori; tale potere regolamentare preesisteva, infatti, alla novella del 2011, trovando fondamento nelle previsioni di cui alle lett. b) e d) del previgente art. 53 T.U.B., concernenti, rispettivamente, le voci del contenimento dei rischi e dell’organizzazione amministrativa e contabile e dei controlli interni.

Inoltre, secondo Sez. 2, n. 16517/2020, Fortunato, Rv. 659018-02, le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Banca d’Italia ai sensi degli artt. 144 ss. del d.lgs. n. 385 del 1993 (nella formulazione anteriore alle modifiche di cui al d.lgs. n. 72 del 2015) nei confronti di soggetti che svolgono funzioni di direzione, amministrazione o controllo di istituti bancari, non sono equiparabili, quanto a gravosità economica ed incidenza sui diritti e libertà fondamentali, avuto riguardo alle concrete estrinsecazioni professionali, imprenditoriali e manageriali della persona, a quelle previste dall’art. 187 ter T.U.F., per manipolazione del mercato, sicché esse non hanno natura sostanzialmente penale e non pongono, quindi, un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU.

Sez. 2, n. 19797/2020, Besso Marcheis, Rv. 659176-01, ha rilevato, poi, che chi emette un assegno bancario privo della data di emissione accetta il rischio che, alla data del riempimento del documento e della sua utilizzazione come assegno, il titolo risulti privo di autorizzazione, sicché risponde dell’illecito previsto dall’art. 1 della l. n. 386 del 1990 se, al momento dell’impiego del detto titolo, non vi sia autorizzazione ad emetterlo.

Sez. 2, n. 21132/2020, De Marzo, Rv. 659361-01, ha affermato, altresì, che il sistema dell’azione di regresso obbligatoria che, ai sensi dell’art. 195, comma 9, d.lgs. n. 58 del 1998 (T.U.F.), imponeva alle società ed enti che avessero pagato la sanzione amministrativa di agire in rivalsa verso l’autore della violazione, aveva la finalità di fare ricadere obbligatoriamente sul responsabile dell’illecito il peso della sanzione, nonché di individuare un soggetto maggiormente solvibile quale condebitore solidale, a tutela dell’interesse pubblico alla effettiva riscossione; esaurendosi in ciò le esigenze pubblicistiche della disciplina, deve escludersi che il credito di regresso, vantato dall’ente che abbia onorato la sanzione nei confronti dell’autore dell’illecito, possa essere considerato personale ed incedibile.

Infine, Sez. 2, n. 21131/2020, Tedesco, Rv. 659184-01, ha chiarito che, ai sensi dell’art. 196 del d.lgs. n. 58 del 1998, al consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede, che si sia reso responsabile di una delle violazioni contemplate dall’art. 110, comma 2, lett. a), del Regolamento CONSOB n. 16190/2007, è applicabile la sanzione della radiazione dall’albo, senza che abbia alcuna rilevanza la distinzione, quando egli sia dipendente dell’intermediario al quale è collegato (ex art. 31 del d.lgs. n. 58 del 1998), “a seconda che sia venuto in contatto con il cliente o il potenziale cliente nell’esercizio della specifica attività connessa alla qualifica o per la concorrente qualità di dipendente dell’intermediario”.

16. Le sanzioni amministrative previste dal codice della strada. Profili processuali: l’opposizione, la competenza, il rito.

Avverso le sanzioni amministrative previste per la violazione di disposizioni del codice della strada, è riconosciuta all’interessato la possibilità di proporre il ricorso amministrativo al prefetto, all’esito del quale è adottata l’ordinanza ingiunzione, ai sensi art. 204 del codice della strada la quale è ricorribile davanti al giudice di pace ex art. 6, d.lgs. n. 150 del 2011 oppure di adire direttamente il giudice, impugnando il verbale di contestazione in base al disposto del successivo art. 7 e del testo attuale dell’art. 204 bis del codice della strada, sostituito dall’art. 34 del d.lgs. n. 150 del 2011, che ha diversamente disciplinato l’analogo rimedio già contemplato dal testo previgente dell’art. 204 bis citato.

Con riguardo all’opposizione avverso il verbale di contestazione di una infrazione al codice della strada presentata dinanzi al prefetto, ex art. 203 d.lgs. 285 del 1992, Sez. 3, n. 24702/2020, Rossetti, Rv. 659766-01, ha affermato che, poiché tale opposizione introduce un procedimento amministrativo, questo non può che concludersi con un provvedimento amministrativo espresso, ai sensi dell’art. 2, comma 1, l. n. 241 del 1990. Tale disposizione impone la necessità di un provvedimento espresso anche quando la pubblica amministrazione ravvisi la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità dell’istanza. Per tale ragione, il prefetto, ove confermi l’accertamento, ha il dovere di emanare l’ordinanza-ingiunzione, sia che ritenga il ricorso infondato nel merito sia che lo consideri inammissibile, irricevibile o improcedibile, non essendo consentita, in tale ipotesi, l’emissione della cartella esattoriale in base al verbale di contestazione dell’infrazione. Diversamente opinando, infatti, l’interessato non avrebbe tutela nell’eventualità in cui il prefetto, errando, dichiarasse tardivo un ricorso tempestivo. In questo caso, infatti, l’interessato potrebbe venire a conoscenza della tardività del suo ricorso al prefetto dopo lo spirare del termine dell’art. 205 del codice della strada per l’impugnazione del verbale dinanzi al giudice di pace e perderebbe l’una e l’altra forma di tutela.

Sez. 6-2, n. 04501/2020, Fortunato, Rv. 657255-01, ha affrontato la questione concernente l’individuazione del giudice competente per territorio a conoscere dell’opposizione avverso ordinanza-ingiunzione ex art. 3 r.d. n. 639 del 1910, concernente la riscossione di sanzioni amministrative per infrazioni al codice della strada. Ai fini del recupero delle somme dovute a tale titolo, infatti, i Comuni possono avvalersi della procedura di riscossione coattiva tramite l’ingiunzione di cui al citato decreto, anche affidando il relativo servizio ai concessionari iscritti all’albo indicato dall’art. 53, d.lgs. n. 44 del 1997. La S.C. ha ritenuto che, rientrando tale controversia nell’ambito applicativo dell’art. 32, d.lgs. n. 150 del 2011, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 158 del 2019, l’opposizione vada proposta dinanzi al giudice del luogo ove ha sede l’ufficio che ha emesso l’ingiunzione e, per i provvedimenti del concessionario della riscossione, al giudice nel cui circondario ha sede l’ente locale concedente. Ha affermato, altresì, che siffatta competenza ha natura inderogabile e che il suo mancato rispetto è rilevabile d’ufficio, essendo oggetto di una previsione speciale che prevale sui criteri ordinari.

Con riferimento al giudizio di opposizione alle sanzioni amministrative elevate per violazione alle norme sulla circolazione, l’art. 204 bis del codice della strada stabilisce che esso è regolato dall’art. 7 del d. lgs. n. 150 del 2011. Quest’ultimo prevede, al comma 1, che le controversie in materia di opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada di cui all’articolo 204 bis citato sono regolate dal rito del lavoro, se non diversamente stabilito dalle disposizioni del medesimo articolo.

Nell’ipotesi in cui tale giudizio sia stato erroneamente introdotto con il rito ordinario, Sez. 3, n. 09847/2020, D’Arrigo, Rv. 657717-01, ha affermato che il mutamento del rito può essere disposto, ai sensi dell’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 150 del 2011, non oltre la prima udienza di comparizione delle parti, all’esito della quale il rito adottato dall’opponente in primo grado si consolida pure con riguardo alla forma dell’impugnazione. Conseguentemente, si è ritenuto che in questa fattispecie la tempestività dell’appello debba essere verificata prendendo come riferimento la data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notificazione, anziché quella del suo deposito in cancelleria.

Ancora con riguardo alla disciplina di questo giudizio, Sez. 6-2, n. 25690/2020, Oliva, Rv. 659706-01, ha rilevato che, poiché, ove non diversamente stabilito, esso è regolato dal rito del lavoro ex art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, in base all’art. 421 c.p.c., non sussiste alcuna preclusione istruttoria a procedere d’ufficio all’ascolto dei verbalizzanti ogni qual volta ciò si renda necessario ai fini di un approfondimento funzionale alla decisione sull’opposizione.

Sez. 2, n. 09764/2020, Fortunato, Rv. 658007-01, ha ribadito l’orientamento espresso dalle Sezioni unite, secondo il quale il verbale di accertamento della violazione è impugnabile in sede giudiziale soltanto se concerne l’inosservanza di norme sulla circolazione stradale, essendo in questo caso idoneo ad acquisire il valore e l’efficacia di titolo esecutivo per la riscossione della pena pecuniaria, nell’importo direttamente stabilito dalla legge. Al di fuori di tale ambito, il verbale non incide di per sé sulla situazione giuridica soggettiva del presunto contravventore, essendo esclusivamente destinato a contestargli il fatto e a segnalargli la facoltà del pagamento in misura ridotta, in mancanza del quale l’autorità competente dovrà procedere ad emettere l’eventuale ordinanza di ingiunzione, suscettibile, a sua volta, di opposizione (Sez. U, n. 00016/2007, Bucciante, Rv. 594112-01).

17. Il verbale di constatazione delle violazioni al codice della strada: natura e requisiti.

Sez. 6-2, n. 11792/2020, Fortunato, Rv. 658448-01, ha ribadito il consolidato orientamento per il quale il verbale di accertamento dell’infrazione fa piena prova, fino a querela di falso, dei fatti attestati dal pubblico ufficiale rogante come avvenuti in sua presenza e delle attività svolte dagli organi accertatori, nonché in merito alla provenienza del documento ed alle dichiarazioni delle parti. Tale fede privilegiata non si estende, invece, agli apprezzamenti ed alle valutazioni, né ai fatti dei quali i pubblici ufficiali abbiano avuto notizia da terzi o dedotti in base a presunzioni o considerazioni di carattere logico (in questo senso, si era già espressa Sez. L, n. 23800/2014, Venuti, Rv. 633239-01). A ciò consegue che l’indicazione della sussistenza di segnalazione preventiva contenuta in detto verbale costituisce l’attestazione di un dato direttamente rilevato dagli accertatori, senza margini di apprezzamento, la cui contestazione può avvenire solo mediante querela di falso.

Quanto ai requisiti dell’ordinanza-ingiunzione con la quale sia contestata la violazione del codice della strada e irrogata la relativa sanzione, Sez. 2, n. 18493/2020, Fortunato, Rv. 659185-01, ha affermato che, ove essa sia priva della sottoscrizione autografa del dirigente, deve ritenersi legittima se il verbale risulta redatto con sistema meccanizzato o di elaborazione dati, giusta il disposto degli artt. 383, comma 4, e 385, commi 3 e 4, del regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada, e dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 39 del 1993, secondo il quale, nella redazione di atti amministrativi, la firma autografa è sostituita, a tutti gli effetti, dall’indicazione a stampa, sul documento prodotto dal sistema automatizzato, del nominativo del soggetto responsabile dell’atto. In tal modo è, infatti, garantita la sicura attribuibilità dell’atto al soggetto che, secondo le norme positive, deve esserne l’autore, a prescindere dalla sottoscrizione autografa (in senso conforme si era già espressa, con riguardo al verbale di accertamento, Sez. 1, n. 19780/2006, Plenteda, Rv. 592124-01).

18. Le violazioni sanzionate dal codice della strada.

Nel giudizio di opposizione al verbale di accertamento di infrazione del codice della strada per sosta senza esposizione del titolo di pagamento in violazione dell’art. 157, comma 6, codice della strada, Sez. 2, n. 15678/2020, Abete, Rv. 658779-01, ha chiarito che grava sull’autorità amministrativa opposta, a fronte di una specifica contestazione da parte dell’opponente, dare la prova dell’adozione dei necessari provvedimenti amministrativi individuanti, nella zona interessata, un’adeguata area destinata a parcheggio senza custodia o senza dispositivi di controllo di durata, ovvero, in mancanza, dimostrare l’esistenza della delibera che rende inoperante l’obbligo stabilito dall’art. 7, comma 8, codice della strada.

Secondo Sez. 6-2, n. 28466/2020, Dongiacomo, Rv. 659997-01, ai sensi degli artt. 3 e 196 del d.lgs. n. 285 del 1992, per le violazioni al codice della strada punibili con la sanzione pecuniaria, la responsabilità del proprietario del veicolo è presunta e lo stesso ha l’onere di offrire la prova liberatoria, dimostrando che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la sua volontà; tale prova è, tuttavia, esclusa, ai sensi dell’art. 196, comma 3, citato, quando la violazione è commessa dal rappresentante o dal dipendente di una persona giuridica o di un ente o di un’associazione priva di responsabilità o, comunque, da un imprenditore nell’esercizio delle proprie funzioni o incombenze, atteso che, in considerazione della relazione di immedesimazione o di preposizione che lega l’ente o l’imprenditore all’agente, l’attività posta in essere da quest’ultimo nell’esercizio e nell’ambito delle attribuzioni conferitegli è direttamente riferibile ai primi.

Sez. 2, n. 23331/2020, Varrone, Rv. 659382-01, ha affrontato la questione concernente l’ambito applicativo del divieto, posto dall’art. 173, comma 2, codice della strada, di fare uso di apparecchi radiotelefonici durante la marcia, stabilendo che esso permane anche nel caso di arresto del veicolo dovuto ad esigenze della circolazione, situazione che ricorre qualora sia impegnato un incrocio, in attesa del passaggio delle vetture con precedenza e con obbligo di sgomberare l’area nel più breve tempo possibile.

Tale conclusione discende dalla ratio della prescrizione, da rinvenirsi nella necessità di impedire comportamenti in grado di provocare una situazione di pericolosità nella circolazione stradale, inducendo il guidatore a distrarsi ed a non consentire di avere, con certezza, il completo controllo del veicolo in movimento.

19. Le sanzioni in materia di inquinamento idrico: titolarità della potestà sanzionatoria.

In tema di provvedimenti sanzionatori in materia di inquinamento idrico, la S.C. ha esaminato la questione concernente la validità di siffatti provvedimenti adottati dalle amministrazioni appositamente delegate dalla Regione mediante propria legge emanata anteriormente alla entrata in vigore del d.lgs. n. 152 del 2006.

Sez. 2, n. 01739/2020, Criscuolo, Rv. 656851-01, ha ritenuto che l’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., nell’affidare in via esclusiva alla competenza statale la disciplina dell’ambiente nella sua interezza, dettando standards uniformi di tutela, non escluda, nel rispetto dei medesimi, il concorrente potere di regioni e province autonome su specifici interessi giuridicamente tutelati, così che la disciplina unitaria del bene ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato, si pone come limite alla disciplina regionale e delle province autonome nelle materie di loro competenza, per cui queste ultime non possono in alcun modo derogare o peggiorare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato.

Il limite dell’intervento legislativo regionale è costituito dal rispetto dei principi regolatori indicati dal legislatore statale in tema di soglie minime di tutela dell’ambiente. Inoltre, la S.C. ha rilevato come l’art. 135 del d.lgs. n. 152 del 2006, nel fare salve le attribuzioni affidate dalla legge ad altre pubbliche autorità, conserva la distribuzione delle attribuzioni amministrative sanzionatorie a diversi livelli, così impedendo di ritenere che il legislatore abbia introdotto un principio inderogabile di competenza regionale; il successivo art. 170 fa salvi, fino alla adozione dei corrispondenti atti sulla base della nuova normativa, gli atti ed i provvedimenti adottati in applicazione della previgente disciplina abrogata e l’intero impianto del d.lgs. n. 152 del 2006, che attribuisce alle regioni e ad altri enti locali ampi poteri in materia. Tali disposizioni, ad avviso della Corte di cassazione, impediscono di ritenere che la legislazione statale abbia previsto un principio inderogabile di competenza regionale nell’applicazione delle sanzioni amministrative in materia di inquinamento idrico idoneo a spiegare efficacia direttamente abrogativa nei confronti delle leggi regionali, preesistenti al cit. d.lgs. n. 152, che abbiano delegato alle Province ordinarie il potere sanzionatorio. Pertanto, non possono essere considerati nulli, siccome adottati in carenza del relativo potere, i provvedimenti sanzionatori delle amministrazioni all’uopo delegate dalla Regione.

In continuità con detto orientamento, Sez. 2, n. 08364/2020, Giusti, Rv. 657643-02, ha riconosciuto sussistente la potestà sanzionatoria delle Province per effetto di delega da parte delle Regioni, avendo l’art. 135, d.lgs. n. 152 del 2006 provveduto solo al riordino e coordinamento delle pregresse disposizioni disciplinanti la materia, nel cui quadro si delinea una competenza trasversale, in piena coerenza con i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, posto che ciascuna Regione è abilitata a determinare, in conformità al proprio ordinamento, le funzioni amministrative che richiedono l’unitario esercizio a livello regionale, provvedendo contestualmente a conferire le altre agli enti locali nel rispetto degli artt. 117, comma 2, lett. s), e 118, commi 1 e 2, Cost.

La medesima pronuncia ha, altresì, statuito che, qualora l’accertamento e l’irrogazione delle sanzioni per illeciti ambientali siano stati effettuati dalla Provincia in luogo della Regione, viene in evidenza un vizio di incompetenza assoluta solo se l’atto emesso concerne una materia del tutto estranea alla sfera degli interessi pubblici attribuiti alla cura dell’amministrazione alla quale l’organo emittente appartiene. Nel caso di specie, la S.C. ha ravvisato un’incompetenza solo relativa, spettando, all’epoca dei fatti, alla Provincia, ai sensi del d.lgs. n. 152 del 2006, il potere di rilascio delle autorizzazioni di scarichi idrici (Sez. 2, n. 08364/2020, Giusti, Rv. 657643-01).

Anche Sez. 2, n. 03269/2020, Casadonte, Rv. 657099-01, ha riconosciuto che alle Regioni compete la possibilità di delegare alle Province l’attività di irrogazione delle sanzioni amministrative in materia ambientale, specificamente con riguardo alla violazione concernente lo scarico di acque reflue in assenza della prescritta autorizzazione.

19.1. Le singole infrazioni in materia di inquinamento idrico.

L’art. 133, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006 punisce «chiunque apre o comunque effettua scarichi di acque reflue domestiche o di reti fognarie...senza l’autorizzazione». Sez. 2, n. 01740/2020, Criscuolo, Rv. 656852-02, ha affermato che tale disposizione non configura un illecito “proprio”, atteso che essa non presuppone una particolare qualità del soggetto attivo, che può identificarsi non solo nel titolare dell’autorizzazione all’esercizio dell’impianto, che apra nuove vie di scarico, ma anche in qualsiasi soggetto che gestisca o comunque detenga di fatto la condotta di scarico non autorizzata.

Da tale affermazione Sez. 2, n. 08364/2020, Giusti, Rv 657643-03, ha tratto la conseguenza che, nel caso di messa in funzione di nuovi scarichi, della violazione non risponde il soggetto che, pur essendo rimasto formale intestatario dell’autorizzazione, abbia, di fatto, trasferito l’impianto, ma unicamente l’autore materiale della condotta illecita (in senso conforme si era già espressa Sez. 2, n. 03176/2006, Piccialli, Rv. 586291-01).

In ordine alla illiceità dello scarico di acque, Sez. 2, n. 09962/2020, Fortunato, Rv. 657756-01, ha precisato che, quale che sia la tipologia dell’impianto, essa discende dalla previsione dell’art. 101, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, il quale prevede che tutti gli scarichi sono disciplinati in funzione del rispetto degli obiettivi di qualità dei corpi idrici e devono, comunque, rispettare i valori limite previsti nell’Allegato V, parte III, del medesimo decreto, dovendo, per l’effetto, escludersi che detti valori debbano essere osservati solo in caso di impianti di trattamento secondario, come definiti dall’art. 74, comma 1, lettera mm). Siffatti valori limite devono, infatti, essere seguiti da tutti gli scarichi, senza alcuna distinzione tra impianti o scarichi autorizzati ed impianti o scarichi non autorizzati, venendo l’autorizzazione in rilievo solo al fine di individuare eventuali deroghe, che, peraltro, devono essere circoscritte, per le fasi di avvio, ai casi di arresto o di guasto dell’impianto (Sez. 2, n. 09962/2020, Fortunato, Rv. 657756-02).

20. Le sanzioni amministrative in materia di rifiuti.

L’art. 258 d.lgs. n. 152 del 2006 sanziona il trasporto di rifiuti con formulari contenenti dati inesatti in violazione dell’obbligo stabilito dall’art. 193, comma 1, dello stesso decreto. Secondo Sez, 2, n. 26701/2020, Carrato, Rv. 659687-01, il contenuto minimo di tali formulari deve ritenersi integrato dalle prescrizioni contenute nel d.m. ambiente n. 145 del 1998, richiamato dal comma 6 dell’art. 193 cit., il quale individua, all’allegato c), le modalità di compilazione di detti formulari, includendovi specificamente il necessario riferimento all’indirizzo dell’impianto o dell’unità locale di partenza del rifiuto. Il principio di tipicità e riserva di legge, fissato dall’art. 1 della l. n. 689 del 1981, infatti, non esclude che i precetti normativi, nella specie l’apparato sanzionatorio di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, siano legittimamente eterointegrati da norme regolamentari, in virtù della particolare tecnicità della dimensione nella quale le fonti secondarie sono destinate ad operare.

In ordine alla natura della sanzione ex art. 258 del citato decreto, Sez. 2, n. 18469/2020, Criscuolo, Rv. 659169-01, ha escluso che essa abbia natura penale, deponendo in questo senso la formale qualificazione della condotta come illecito amministrativo, la natura pecuniaria della sanzione e l’entità contenuta della stessa.

Per quanto concerne l’individuazione del soggetto territorialmente competente ad adottare i provvedimenti irrogativi di sanzioni amministrative (nella specie, ordinanze-ingiunzione) in relazione alla condotta illecita consistente nell’avere effettuato trasporti di rifiuti con formulari contenenti dati inesatti, Sez. 2, n. 15043/2020, Oliva, Rv. 658119-02, ha affermato che tale competenza non si radica necessariamente nel luogo della sede della società produttrice del rifiuto, bensì in quello di produzione in concreto del rifiuto medesimo e, quindi, di partenza effettiva del relativo trasporto. È, infatti, nel momento della partenza del trasporto illecito che il materiale esce fisicamente dal processo produttivo del produttore diventando rifiuto.

Per ciò che interessa l’analoga violazione amministrativa prevista dall’art. 15 del d.lgs. n. 22 del 1997, Sez. 2, n. 25010/2020, Abete, Rv. 659670-01, ha ritenuto legittima la sanzione amministrativa comminata a fronte del trasporto di “terre e rocce provenienti dall’attività di scavo” avvenuta senza il formulario identificativo prescritto, per i rifiuti, dalla citata disposizione, in quanto le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, costituiscono “rifiuti” ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. f bis, del d.lgs. n. 22 del 1997, come autenticamente interpretato dall’art. 1, comma 17, della l. n. 443 del 2001 (nella formulazione derivata dall’art. 23, comma 1, lett. a, nn. 1 e 2, della l. n. 306 del 2003) e, pertanto, ove non si riscontrino le prefigurazioni eccettuative delineate in tale sede di interpretazione autentica, ricadono nell’ambito di applicazione del menzionato d.lgs. n. 22.

Sempre in tema di terre e rocce di scavo, Sez. 2, n. 18469/2020, Criscuolo, Rv. 659169-03, ha ritenuto, anche sulla scorta della giurisprudenza delle sezioni penali della S.C., che l’applicazione della relativa disciplina, contenuta nell’originaria formulazione dell’art. 186 del d.lgs. n. 152 del 2006, è subordinata alla prova, gravante sull’autore dell’illecito, della sussistenza dei relativi presupposti (consistenti nella riutilizzazione dei materiali secondo un progetto ambientale compatibile), la cui mancanza impedisce di qualificare il materiale in questione alla stregua di “sottoprodotto”, anziché di “rifiuto”.

Peraltro, l’omessa istituzione dello sportello unico per l’edilizia ex art. 5 del d.P.R. n. 380 del 2001 non spiega alcuna incidenza sul regime autorizzatorio dell’attività edilizia e non esonera l’interessato dal conseguimento dei necessari titoli abilitativi, non consentendogli di invocare l’esimente della buona fede per l’accertamento della mancanza dell’elemento soggettivo ex art. 3 della l. n. 689 del 1981 (Sez. 2, n. 18469/2020, Criscuolo, Rv. 659169-02).

21. Incarichi retribuiti non autorizzati a pubblici dipendenti.

Lo svolgimento di incarichi extraistituzionali da parte di dipendenti della Pubblica amministrazione è subordinato alla preventiva autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, secondo quanto stabilito dall’art. 53, comma 9, d.lgs. n. 165 del 2001, la cui violazione è punita con la sanzione amministrativa prevista dall’art. 6, d.l. n. 79 del 1997, conv. dalla l. n. 140 del 1997.

Nell’anno di riferimento, la S.C. ha affrontato la questione relativa alla possibilità che un’autorizzazione rilasciata in un momento successivo al conferimento dell’incarico sia idonea ad escludere tale illecito amministrativo. Sez. 2, n. 18206/2020, Bellini, Rv. 659166-01, ha affermato che la violazione della prescrizione recata dall’art. 53 cit. non può essere sanata da un’autorizzazione successiva (ora per allora), stante la specificità del rapporto di pubblico impiego, la necessità di verificare ex ante la compatibilità tra l’incarico esterno e le funzioni istituzionali e tenuto conto, altresì, della circostanza che il potere sanzionatorio è attribuito all’Agenzia delle Entrate e non all’amministrazione di provenienza del dipendente. Nell’enunciare siffatto principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di appello che aveva ritenuto l’autorizzazione successiva - conferita, nella specie, ad un avvocato professore universitario - non mera autorizzazione “postuma”, con valore ex nunc, bensì autorizzazione “ora per allora” con effetti ex tunc e, quindi, equivalenti a quelli dell’autorizzazione preventiva.

In tema di pubblico impiego contrattualizzato, Sez. L, n. 06637/2020, Bellè, Rv. 657432-01, ha precisato che l’autorizzazione allo svolgimento di attività extralavorativa retribuita è necessaria pure ove il dipendente si trovi in regime di aspettativa in quanto, da un lato, la previsione contenuta nell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 non contiene una distinzione a seconda dello stato del rapporto di lavoro, e, dall’altro, la predetta aspettativa non fa cessare il rapporto stesso, sicché la persistente appartenenza del dipendente medesimo ad una pubblica amministrazione non fa venire meno i rischi di conflitto di interessi o di possibile utilizzazione di entrature che la citata previsione è preposta a prevenire. In applicazione del suddetto principio, la Corte ha confermato la sentenza che aveva ritenuto legittima la sanzione amministrativa irrogata ad una società privata che aveva conferito incarichi di consulenza ad un dipendente pubblico, durante il periodo in cui quest’ultimo si trovava in aspettativa, senza chiedere l’autorizzazione all’amministrazione di appartenenza.

Si è altresì specificato che l’onere della verifica in ordine alla necessità della preventiva autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza grava sull’ente pubblico economico o sul datore di lavoro privato conferenti, ai sensi dell’art. 53, comma 9, del d.lgs. n. 165 del 2001, senza che detta verifica possa essere surrogata dalle dichiarazioni dei lavoratori che attestino la superfluità dell’autorizzazione, in quanto inidonee ad elidere la colposità della condotta del conferente (Sez. L, n. 09289/2020, Cinque, Rv. 657672-01; in senso conforme, Sez. L, n. 25752/2016, Tricomi, Rv. 642498-01).

Sez. 2, n. 16045/2020, San Giorgio, Rv. 658288-01, si è pronunciata sui limiti del potere disciplinare dell’Ordine di appartenenza degli esercenti una professione sanitaria che siano impiegati in una pubblica amministrazione e ai quali, secondo gli ordinamenti loro applicabili, non sia vietato l’esercizio della libera professione. In questo caso, i sanitari possono essere iscritti all’albo e, come tali, sono soggetti al potere disciplinare dell’Ordine, limitatamente alle ipotesi in cui si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della professione. Si è precisato, peraltro, che si devono considerare illeciti disciplinari i comportamenti tenuti dagli iscritti anche se nello svolgimento di attività diverse dall’esercizio della libera professione (fatti “extrafunzionali”), quante volte il comportamento sia suscettibile di essere considerato di pregiudizio per il decoro della stessa. Tuttavia, resta fermo che l’organo disciplinare non può sindacare gli atti che siano riconducibili, invece, all’attività amministrativa dell’ente pubblico. Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della Commissione Centrale Esercenti Professione Sanitaria, nella parte ove questa non aveva rilevato che l’Ordine dei medici aveva agito in carenza di potere, per avere sottoposto a procedimento disciplinare e sanzionato un proprio iscritto in relazione ad atti - consistenti nella predisposizione di protocolli sull’impiego del personale infermieristico di una A.S.L. - compiuti da quest’ultimo nell’esercizio non già della professione di medico, ma di una funzione pubblica.

22. Le sanzioni per le violazioni al cd. Codice della privacy.

L’art. 164 bis, d.lgs. n. 196 del 2003 (cd. codice della privacy) sanziona l’ipotesi di più violazioni di un’unica o di più disposizioni commesse anche in tempi diversi in relazione a banche di dati di particolare rilevanza o dimensioni. Secondo Sez. 2, n. 18288/2020, Besso Marcheis, Rv. 659098-02, tale fattispecie costituisce non già un’ipotesi aggravata rispetto alle violazioni semplici richiamate dalla disposizione, ma una figura di illecito del tutto autonoma, atteso che essa prevede la possibilità che vengano “infrante dal contravventore”, pure con più azioni ed in tempi diversi, “una pluralità di ipotesi semplici”, unitariamente considerate dalla norma con riferimento a «banche di dati di particolare rilevanza o dimensioni», sicché, in caso di concorso di violazioni di altre disposizioni unitamente a quella in esame, ne deriva il cumulo materiale delle sanzioni amministrative (in senso conforme, Sez. 2, n. 17143/2016, Genovese, Rv. 640917-01).

La medesima pronuncia ha statuito che le violazioni consistenti nella omessa informativa di cui all’art. 13 e sanzionata dall’art. 161, d.lgs. n. 196 del 2003, nonché nell’omessa acquisizione del consenso per i dati acquisiti dalle liste elettorali dei cittadini, prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 207 del 2008, conv. dalla l. n. 14 del 2009, sono illeciti a carattere continuativo, in quanto la condotta di gestione, trattamento e conservazione dei dati si è protratta fino alla data indicata nel provvedimento di accertamento del Garante, potendo il titolare del trattamento fare cessare dette condotte in qualsiasi momento.

23. Le altre sanzioni.

La violazione di cui all’art. 15, lett. a), della legge n. 963 del 1965 (ratione temporis applicabile), consistente nell’avere pescato quantità di pesce superiore rispetto a quelle autorizzate, per ciascuna specie, da regolamenti, decreti ed ordini legittimamente emanati dall’autorità amministrativa, è sanzionata dall’art. 26 della medesima legge. Ai fini della conoscibilità di tali provvedimenti, Sez. 2, n. 20536/2020, Carrato, Rv. 659180-01, ha affermato che, sebbene l’art. 59 del regolamento esecutivo del codice della navigazione preveda la pubblicazione nell’albo dell’ufficio per le ordinanze del capo del circondario per i porti e le altre zone demaniali marittime e di mare territoriale della circoscrizione, tale forma di pubblicità, oltre a non essere contemplata esplicitamente a pena di inefficacia o di nullità delle ordinanze medesime, è legittimamente surrogabile con altra forma che ne garantisca ugualmente e idoneamente la stessa conoscibilità. Conseguentemente, la S.C. ha ritenuto idonea a garantire la conoscibilità dell’ordinanza in esame la sua pubblicazione sullo specifico sito internet dell’Ufficio dell’autorità emanante e la relativa comunicazione a tutti gli enti e a gli organi interessati.

Per Sez. 2, n. 25939/2020, Abete, Rv. 659679-01, in tema di sanzioni amministrative, l’obbligo di tenuta del documento di trasporto relativo ai prodotti della pesca non è limitato alla sola fase riguardante la cd. prima vendita, avente luogo dal peschereccio al primo operatore, atteso che l’ambito oggettivo del controllo sulla filiera ittica prefigurato dalla normativa europea e, segnatamente, dal regolamento (CE) n. 1224 del 2009, si estende a tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione.

In tema di navigazione e con riguardo al trasporto pubblico non di linea, Sez. 2, n. 11478/2020, Giannaccari, Rv. 658266-01, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 43 e 44 della l.r. Veneto n. 63 del 1993, per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui, nel caso di trasporto pubblico non di linea svolto nelle acque di navigazione interna di Venezia, sono equiparate, ai fini dell’applicazione della confisca, l’assenza assoluta del titolo autorizzativo e la sospensione della licenza. Tale ultima fattispecie, infatti, non è nella sostanza dissimile rispetto a quella dell’assenza dell’autorizzazione e merita, pertanto, un uguale trattamento sanzionatorio, imposto dai fini di regolamentazione della navigazione interna e della tutela dell’incolumità pubblica e dell’ambiente che permeano la disciplina in questione.

In sede di regolamento di giurisdizione, Sez. U, n. 19664/2020, Acierno, Rv. 658850-01, si è pronunciata riguardo alla sanzione amministrativa della chiusura temporanea dell’esercizio commerciale o del locale destinato al videogioco e alle video lotterie, prevista - in aggiunta a quella pecuniaria, ancorché senza alcun collegamento causale o consequenziale con quest’ultima - dall’art. 24, comma 21, del d.l. n. 98 del 2011, conv., con modif., dalla l. n. 111 del 2011, per il caso di indebito ingresso, nell’esercizio medesimo, di un soggetto minore di età. La S.C. ha affermato che siffatta sanzione ha natura esclusivamente afflittiva e si riconduce non già ad un potere discrezionale di vigilanza e controllo, esercitato dall’autorità amministrativa irrogante, sul settore dei giochi vietati ai minori, bensì ad un potere interamente vincolato dalla norma, la quale definisce dettagliatamente il fatto che integra la violazione, stabilisce l’obbligo di applicare la sanzione in seguito all’accertamento dell’illecito da parte dell’autorità di polizia, e ne determina il contenuto anche in relazione alla durata, con la prescrizione inderogabile del minimo e del massimo irrogabili. Alla luce di queste caratteristiche, si è ritenuto che la giurisdizione sull’opposizione avverso la predetta sanzione amministrativa spetti al giudice ordinario, dovendosi reputare devoluto al giudice amministrativo soltanto il sindacato sulle sanzioni di carattere ripristinatorio, la cui applicazione consegua all’esercizio di un potere discrezionale di vigilanza e controllo, funzionale alla tutela dell’interesse pubblico violato.

In tema di apparecchi e congegni per il gioco lecito, l’art. 110, comma 9, lett. f), del r.d. n. 773 del 1931 (cd. T.U.L.P.S.) sanziona la mancata apposizione su ciascun apparecchio del titolo autorizzatorio.

In proposito, Sez. 2, n. 04605/2020, Carrato, Rv. 657115-01, ha ritenuto che tale violazione è integrata allorché i titoli autorizzatori non siano apposti “in forma originale”, bensì mediante una mera fotocopia, non rispondendo siffatta modalità ai requisiti di sicurezza sottesi all’intera normativa di settore.

Inoltre, per Sez. 2, n. 29646/2020, Scarpa, Rv. 660117-01, agli effetti della sanzione amministrativa stabilita dall’art. 110, comma 9 f ter, r.d. n. 773 del 1931 (T.U.L.P.S.), costituisce apparecchio videoterminale l’apparecchio da intrattenimento di cui all’art. 110, comma 6, lettera b, T.U.L.P.S., da collegare alla rete telematica del sistema di gioco, ove comprensivo delle periferiche e dei dispositivi necessari per lo svolgimento del gioco, della connessione per la trasmissione dei dati, nonché dei dispositivi di inserimento, lettura ed erogazione di denaro, carte o ticket.

Va menzionata, altresì, Sez. 2, n. 23954/2020, Varrone, Rv. 659383-01, ad avviso della quale, in materia di adempimenti connessi al funzionamento di apparecchi e congegni di intrattenimento da gioco, la mancata attivazione della procedura di blocco e collocazione in magazzino delle apparecchiature non collegate alla rete telematica giustifica la legittimità dell’ordinanza ingiunzione emessa dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (A.A.M.S.) per violazione dell’art. 110, comma 9, lett. c), del r.d. n. 773 del 1931 (T.U.L.P.S.), anche in caso di mancato ritrovamento di denaro all’interno degli apparecchi medesimi e senza che assuma rilevanza l’allaccio di questi ultimi alla rete elettrica al momento del controllo, atteso che solo la neutralizzazione del loro uso potenziale può comportare l’esclusione della responsabilità per i gestori, gli esercenti nonché il concessionario del servizio telematico per la raccolta e la gestione del gioco lecito.

Con riguardo alla violazione del divieto di impianto di nuovi vigneti o di reimpianto di cui all’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 260 del 2000 (applicabile ratione temporis) Sez. 2, n. 06310/2020, Fortunato, Rv. 657130-01, ha affermato trattarsi di violazione avente carattere permanente e che il relativo termine di prescrizione, sia riguardo alla violazione che alla sanzione, decorre dal momento della cessazione della permanenza che coincide con la rimozione materiale dell’impianto o con il momento della contestazione dell’illecito che, valendo anche come atto interruttivo, conferisce all’eventuale protrazione della violazione il carattere di autonomo illecito amministrativo, ulteriormente sanzionabile. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto che l’annullamento per intervenuta prescrizione di una precedente sanzione amministrativa per violazione del divieto di impianto di nuovi vigneti non impedisse, in mancanza della rimozione materiale del medesimo impianto viticolo, di irrogare una seconda sanzione.

Per quanto concerne le sanzioni applicate nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari (le cosiddette quote-latte), si è ritenuto che l’acquirente che non abbia rispettato gli obblighi di regolare tenuta della contabilità di cui all’art. 8, comma 3, d.l. n. 49 del 2003, conv. dalla l. n. 119 del 2003, può estinguere l’illecito amministrativo, a norma dell’art. 16, comma 1, l. n. 689 del 1981, col pagamento di una somma in misura ridotta pari al doppio del minimo edittale, posto che la sanzione prevista non è proporzionale, risultando espressamente fissati un limite minimo pari ad euro 1.000,00 e uno massimo di euro 100.000,00 (Sez. 2, n. 07943/2020, Carbone, Rv. 657567-01).

In tema di misure per prevenire, contrastare e reprimere il finanziamento del terrorismo e l’attività dei Paesi che minacciano la pace e la sicurezza internazionale, Sez. 2, n. 21267/2020, Criscuolo, Rv. 659365-02, ha chiarito l’ambito applicativo della sanzione stabilita per la violazione, prevista dall’art. 5 del d.lgs. n. 109 del 2007, stabilendo che il divieto di vendere, fornire, trasferire o esportare, direttamente o indirettamente, beni a qualsiasi persona, entità o organismo iraniana/o, o per un uso in Iran, contemplato dall’art. 2 del Regolamento (UE) n. 267 del 2012, riguarda esclusivamente i beni elencati negli allegati I o II del medesimo Regolamento, atteso che la finalità della previsione non è quella di porre un generale ed assoluto divieto di trasferimento di qualsivoglia bene verso l’Iran, ma di limitare il trasferimento solo dei beni a cd. duplice uso.

Sez. L, n. 21740/2020, Ghinoy, Rv. 659256-01, ha precisato che le sanzioni amministrative per lavoro irregolare, di cui all’art. 3 del d.l. n. 12 del 2002, conv., con modif., dalla l. n. 73 del 2002, che conseguono alla mancata regolarizzazione a fini fiscali e previdenziali dei dipendenti, nonostante le agevolazioni volte ad incentivare l’emersione del lavoro sommerso, non si applicano ad ipotesi, quali l’interposizione illecita, la somministrazione irregolare o fraudolenta e l’appalto fittizio o illecito, in cui il rapporto di lavoro sia imputato a soggetto diverso dall’effettivo datore di lavoro.

La recente Sez. 2, n. 29928/2020, Carrato, Rv. 660120-01, ha affermato che, con riguardo alla violazione amministrativa della coltivazione di una cava senza autorizzazione, sanzionata dall’art. 33, comma 1, della l.r. del Veneto n. 44 del 1982, l’attività di sbancamento dell’area coltivabile costituisce già coltivazione, attesa la sua evidente strumentalità rispetto all’attività estrattiva, sicché non può essere effettuata in difetto della correlata necessaria autorizzazione.

Sempre con riferimento alla Regione Veneto, secondo Sez. 2, n. 23310/2020, Cosentino, Rv. 659379-01, la disciplina dettata dall’art. 33 delle Prescrizioni di massima di polizia forestale della Regione Veneto configura come illecito amministrativo non soltanto il taglio di alberi effettuato senza previa dichiarazione o senza previa autorizzazione, ma anche il taglio di un numero di alberi superiore a quello autorizzato. La sanzione della violazione di tale divieto, tuttavia, non si rinviene nell’art. 33 delle PMPF, che è espressamente dettato per la sola ipotesi di mancata presentazione della domanda di taglio, bensì nell’art. 26 del r.d. n. 3267 del 1923, richiamato quoad poenam dall’art. 39 delle PMPF, che sanziona tutte le violazioni al relativo titolo secondo.

Per ciò che concerne le sanzioni irrogate dai Comuni per la mancata comunicazione, nel termine fissato dal relativo regolamento, dell’avvenuta iscrizione nella propria anagrafe, ai fini dell’applicazione della tariffa di igiene ambientale, ad avviso di Sez. 2, n. 20523/2020, De Marzo, Rv. 659178-01, l’emissione della relativa ordinanza ingiunzione rientra tra i compiti dei dirigenti di tale ente, ex art. 107 del d.lgs. n. 267 del 2000, competenti per l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell’ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, ex artt. 97 e 108 del medesimo d.lgs. n. 267.

Infine, in un caso particolare, Sez. 2, n. 08197/2020, Carbone, Rv. 657642-01, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 14 l. n. 580 del 1967 e 1 d.P.R. n. 502 del 1998, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost., nella parte in cui prescrivono l’obbligo di preconfezionamento per il solo pane precotto, e non anche per il pane fresco, in quanto il preconfezionamento costituisce misura non discriminatoria, idonea ad informare il consumatore su una qualità rilevante del prodotto. Né sussistono i presupposti per un rinvio pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in relazione al principio di libera circolazione delle merci, atteso che la CGUE ha dichiarato legittimo, sul piano unionale, l’obbligo di preconfezionamento del pane a cottura frazionata, purché esso sia applicato indistintamente ai prodotti nazionali come agli importati e non rappresenti, quindi, un ostacolo all’importazione intracomunitaria.

  • contenzioso elettorale
  • elettorato

CAPITOLO XXIX

ELEZIONI E GIUDIZI ELETTORALI

(di Aldo Ceniccola )

Sommario

1 Premessa. - 2 Elettorato passivo. - 3 Contenzioso elettorale.

1. Premessa.

Le non numerose pronunce intervenute nel 2020 in materia elettorale riguardano essenzialmente i temi dell’elettorato passivo e del contenzioso elettorale. Particolarmente interessanti sono gli spunti esegetici che si ricavano da queste pronunce riguardo ad alcune disposizioni del d.lgs. n. 235 del 2012 (cd. Legge Severino).

2. Elettorato passivo.

Sez. 1, n. 21582/2020, Acierno, Rv. 659273-04, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 235 del 2012, norma che prevede come causa di incandidabilità la condanna con sentenza definitiva alla pena della reclusione complessivamente superiore a sei mesi per uno o più delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio diversi da quelli indicati nella lettera c). La questione era stata sollevata sul presupposto che la norma non esclude dalla sua portata applicativa le condanne precedenti alla sua entrata in vigore, con conseguente violazione degli artt. 25 e 51 Cost.

La Corte, con tale pronuncia, premessa la natura non sanzionatoria delle cause di incandidabilità, ripetutamente ribadita dalla Corte Costituzionale, ha affermato che il principio di irretroattività non riceve copertura costituzionale in tutti quei casi in cui viene riservata alla legge la disciplina di diritti inviolabili, fermo restando il rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità.

Sempre in tema di incandidabilità degli amministratori degli enti locali, altro principio affermato da Sez. 1, n. 21582/2020, Acierno, Rv. 659273-01, in relazione all’art. 10, lett. d), del d. lgs. n. 235 del 2012, è che la disposizione consente l’estensione delle cause di incandidabilità anche al delitto tentato, in quanto il confine applicativo della norma, da ritenersi norma di chiusura della disciplina prevista, è dettato dal tetto della pena inflitta e dalla individuazione di condotte ritenute, in via generale e predeterminata, aventi un grado di offensività non compatibile con la candidatura a cariche elettive negli enti locali.

Secondo la Corte, non osta al riguardo nemmeno la mancata espressa inclusione del delitto tentato nella formulazione della norma, dal momento che la stessa nemmeno ne prevede l’esclusione. La distinzione tra reato consumato e tentato, insomma, è estranea ai criteri discretivi posti nella lettera d) per enucleare ulteriori cause ostative alla candidabilità fondate su sentenze penali definitive, in quanto relative ad ipotesi di reato non individuate singolarmente ma enucleabili in base ai due requisiti concorrenti, miranti a creare una categoria di cause di incandidabilità da selezionare in modo diverso rispetto a quelle, previste dalle lettere precedenti, fondate esclusivamente sulla predeterminazione delle fattispecie incriminatrici.

Nella specie, pertanto, la S.C. ha confermato la sentenza con la quale la Corte d’Appello aveva ritenuto riconducibile all’ipotesi normativa di cui alla lett. d) il delitto di abuso d’ufficio in forma tentata, aggiungendo che detta fattispecie era astrattamente rientrante anche nella lettera c) della norma in esame.

Sez. 1, n. 21582/2020, Acierno, Rv. 659273-02, si occupa anche degli effetti della sentenza di riabilitazione. Quest’ultima è espressamente qualificata come causa di estinzione anticipata, ai sensi dell’art. 15, comma 3, del d.lgs. n. 235 del 2012 e produce effetti ex nunc esclusivamente in relazione alla presentazione delle candidature successive al provvedimento che la dispone; viceversa, ove la riabilitazione sia intervenuta in un momento successivo alla presentazione della candidatura stessa, la causa d’incandidabilità produce, in mancanza di condizioni ostative, il suo effetto impeditivo all’esercizio dell’elettorato passivo.

La riabilitazione, infatti, ha ad oggetto una valutazione successiva alla commissione del reato e del tutto autonoma rispetto all’accertamento della responsabilità penale, sicché la produzione degli effetti non può che seguire all’accertamento delle condizioni soggettive che l’art. 178 c.p. pone a fondamento di essa; fino a che, dunque, la riabilitazione non viene disposta in via definitiva, la causa ostativa alla candidabilità è pienamente operativa e la candidatura deve reputarsi invalida.

3. Contenzioso elettorale.

Per Sez. 1, n. 21582/2020, Acierno, Rv. 659273-03, non sussiste il litisconsorzio necessario tra il candidato alla carica di sindaco e gli altri candidati della lista, in quanto l’azione popolare elettorale ha ad oggetto la condizione personale del candidato eletto, incidendo sul suo diritto soggettivo all’elettorato passivo e sul diritto all’elettorato attivo dell’attore, non rilevando, invece, che altri consiglieri eletti possano eventualmente subire effetti, riflessi e indiretti, dalla adottanda decisione.

Questa affermazione, chiarisce la Corte, già sostenuta da Sez. 1, n. 14199/2004, Genovese, Rv. 576465-01, e da Sez. 1, n. 17769/2007, Rv. 598444-01, non si pone in contrasto con la Costituzione, atteso che resta fermo il diritto di intervento degli interessati, già ritenuto ammissibile da Sez. 1, n. 27327/2011, Di Palma, Rv. 620748-01.

Della cd. surrogazione elettorale si occupa Sez. 1, n. 16223/2020, Nazzicone, Rv. 658262-01, che ha affermato che il sindaco dichiarato ineleggibile non può essere surrogato nella carica da altro candidato, primo dei non eletti in ordine di voti espressi, dal momento che la disciplina vigente in materia di composizione ed elezione degli organi delle amministrazioni comunali prevede, per il caso del venir meno delle condizioni di eleggibilità, il necessario ricorso a nuove consultazioni elettorali in ragione della spiccata rilevanza dell’elemento personale sottesa a tale scelta.

Se, infatti, il sindaco viene eletto in stretto collegamento alla propria lista elettorale, acquisendo mediante la lista collegata al vincitore un numero più che proporzionale dei seggi dell’intero consiglio, ciò significa che l’intento manifestato dal legislatore è quello della stabilità del governo dell’ente locale, proprio in forza allo stretto legame del sindaco con la lista stessa; sarebbe allora illogico e contrario alla ratio richiamata che, in caso di vizio dell’elezione a sindaco del soggetto prescelto dal voto elettorale, all’ineleggibile subentrasse il primo dei non eletti.

La dichiarazione giudiziale di una ragione di ineleggibilità a carico del sindaco non potrà che determinare, dunque, la caduta dell’intero consiglio e l’indizione di nuove elezioni.

  • magistrato
  • procedura disciplinare
  • responsabilità
  • segreto professionale

CAPITOLO XXX

I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI

(di Gianluca Grasso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La responsabilità disciplinare dei magistrati. - 2.1 Gli illeciti disciplinari. - 2.1.1 I comportamenti che, violando i doveri del magistrato, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti. - 2.1.2 La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile. - 2.1.3 La consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge. - 2.1.4 I comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori. - 2.1.5 La divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui. - 2.1.6 Il sollecitare la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio ovvero il costituire e l’utilizzare canali informativi personali riservati o privilegiati. - 2.1.7 L’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sè o per altri. - 2.1.8 L’ottenimento di prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato sa essere coinvolti in procedimenti penali o civili pendenti presso l’ufficio giudiziario di appartenenza o presso altro ufficio che si trovi nel distretto di Corte d’appello, ovvero dai difensori di costoro. - 2.1.9 Il divieto di iscrizione ai partiti politici. - 2.1.10 Gli illeciti disciplinari conseguenti al reato. - 2.1.11 Sanzioni disciplinari e rimozione del magistrato. - 2.2 La condotta disciplinare irrilevante. - 2.2 Il procedimento disciplinare. - 2.2.1 Rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio penale. - 2.2.2 Intercettazioni disposte in un processo penale. - 2.2.3 Incompatibilità, astensione e ricusazione nel procedimento disciplinare. elettorale. - 2.2.4 Il giudizio di impugnazione e sindacato di legittimità. - 2.2.5 La Revocazione. - 2.2.6 La revisione. - 2.3 Le misure cautelari. - 2.3.1 Il trasferimento d’ufficio. - 2.3.2 La misura cautelare della sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio. - 3 La responsabilità disciplinare degli avvocati. - 3.1 Gli illeciti disciplinari. - 3.2 Il regime giuridico della prescrizione. - 3.3 Il procedimento disciplinare. - 3.3.1 Il giudizio disciplinare dinanzi al Consiglio Nazionale Forense. - 3.3.2 Il giudizio di impugnazione. - 4 La responsabilità disciplinare dei notai. - 4.1 Gli illeciti disciplinari. - 4.2 Il procedimento disciplinare. - 4.3 La determinazione della sanzione.

1. Premessa.

La rassegna sulla responsabilità disciplinare racchiude le pronunce rese in tale ambito dalla S.C. nei riguardi dei magistrati, degli avvocati e dei notai.

2. La responsabilità disciplinare dei magistrati.

Sul tema della responsabilità disciplinare degli appartenenti all’ordine giudiziario va fatta menzione delle pronunce rese sugli illeciti commessi nell’esercizio delle funzioni e al di fuori di queste mentre, riguardo al procedimento, numerose decisioni hanno affrontato i temi legati all’astensione e alla ricusazione, alle misure cautelari, nonché alle peculiarità di tale rito.

2.1. Gli illeciti disciplinari.

Riguardo alle diverse fattispecie, vanno distinte le pronunce delle Sezioni Unite in merito alle ipotesi di illecito che discendono dall’esercizio delle funzioni da quelle realizzate al di fuori di esse.

Nel primo ambito ricadono le fattispecie dei comportamenti che, violando i doveri del magistrato, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti, della grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile e della ritardata scarcerazione, della consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge, dei comportamenti abitualmente e gravemente scorretti nei confronti di altri magistrati, dell’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di altro magistrato, della violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, della sollecitazione della pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio.

Sugli illeciti commessi al di fuori delle funzioni, si segnalano l’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sè o per altri, l’ottenere prestiti o agevolazioni da soggetti da parte di un terzo legato al magistrato, il divieto di iscrizione ai partiti politici.

2.1.1. I comportamenti che, violando i doveri del magistrato, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti.

Riguardo alla consumazione dell’illecito previsto dall’art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006, le Sezioni Unite hanno specificato la necessità che, mediante la violazione, nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, dei doveri di diligenza, laboriosità e correttezza, si cagioni a una delle parti un danno ingiusto, consistente in un pregiudizio patrimoniale oggettivamente apprezzabile, non rilevando la percezione che dello stesso possa avere il danneggiato (Sez. U, n. 1606/2020, Lamorgese, Rv. 656795-01, in fattispecie relativa alle funzioni esercitate da un giudice tutelare in una procedura di amministrazione di sostegno, ha cassato la sentenza di assoluzione pronunciata dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura per avere omesso la valutazione sull’effettivo svolgimento, a opera del magistrato, di un controllo estrinseco sulla gestione dell’amministratore di sostegno, dai cui rendiconti emergevano uscite superiori alle disponibilità finanziarie della beneficiaria, con conseguente depauperamento del patrimonio mobiliare della stessa).

Ne consegue che, ove difetti tale elemento costitutivo della fattispecie tipizzata, non può farsi applicazione dell’esimente di cui all’art. 3 bis dello stesso decreto legislativo, ma deve escludersi la sussistenza dell’addebito, giacché la causa di giustificazione si fonda sull’accertamento positivo di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito disciplinare cui segue la valutazione, svolta ex post, della scarsa rilevanza complessiva del fatto (Sez. U, n. 7832/2020, Acierno, Rv. 657533-01).

2.1.2. La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile.

Sul rilievo disciplinare della grave violazione di legge, Sez. U, n. 7832/2020, Acierno, Rv. 657533-02 conferma che essa non rileva in sé, bensì in relazione all’effetto perturbante sulla considerazione del magistrato e sul prestigio dell’ordine giudiziario conseguente a una condotta, deontologicamente deviante, posta in essere nell’esercizio della funzione, la quale deve emergere all’esito di una valutazione complessiva dell’attività giurisdizionale al cui interno si è consumata (in senso conforme Sez. U, n. 20819/2019, Scaldaferri, Rv. 655034-01).

La fattispecie, in particolare, riguardava una fattispecie di condanna del magistrato in sede disciplinare per la violazione del T.U. sulle spese di giustizia e dell’art. 93 c.p.c., avendo l’incolpato, in numerosi procedimenti di protezione internazionale, disposto la revoca dell’ammissione del cittadino straniero vittorioso al patrocinio a spese dello Stato al di fuori delle ipotesi previste dalla legge, nonché distratto le spese processuali in favore del difensore in difetto della necessaria istanza. La Corte, nel cassare la sentenza disciplinare, ha rilevato che non era stato compiuto l’esame della complessiva attività giurisdizionale svolta dall’incolpato, avuto riguardo, per un verso, al problema oggettivo di compatibiltà tra il quadro normativo speciale sul patrocinio a spese dello Stato di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 e quello generale codicistico relativo alla regolazione delle spese processuali e, per altro verso, all’esito dei giudizi interessati dalla violazione, conclusi con l’accertamento negativo, coperto da giudicato, della sussistenza di danni patrimoniali.

La fattispecie disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 109 del 2006 sulla grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile può concorrere con quella di cui alla lett. a) del medesimo comma 1, la quale punisce il comportamento che, violando i doveri di cui all’art. 1 – imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio e rispetto della dignità della persona –, arreca ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti (Sez. U, n. 2323/2020, Doronzo, Rv. 656869-01). Le due fattispecie sono accomunate dalla violazione del dovere di diligenza che grava sul magistrato, distinguendosi la lett. a) per la necessaria ricorrenza di un danno ingiusto o di un indebito vantaggio ad una delle parti e la lett. g) per il fatto che la violazione del dovere di diligenza deve integrare una grave violazione di legge con ignoranza o negligenza inescusabile.

Sulla sussistenza dell’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 109 del 2006 non incide peraltro l’avvenuta sostituzione della custodia in carcere con gli arresti domiciliari, la quale non comporta la decorrenza di un nuovo termine di durata della misura cautelare, trattandosi di misure coercitive omogenee; né può rilevare, come scriminante della condotta dell’incolpato, una prassi del suo ufficio difforme dalla giurisprudenza consolidata di legittimità, atteso che le prassi seguite negli uffici e i comportamenti tenuti da soggetti investiti della titolarità dell’ufficio restano inidonei a rendere scusabile un errore tecnico che un magistrato non può e non deve commettere (Sez. U, n. 2323/2020, Doronzo, Rv. 656869-02).

Nel caso in cui la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile si sia risolta nell’inosservanza della disciplina codicistica in tema di limiti temporali della custodia cautelare in carcere, o di altre misure limitative della libertà personale, Sez. U, n. 11868/2020, Acierno, Rv. 658036-01 ha rilevato che per la configurazione dell’illecito, ai fini della riconduzione di tale condotta nell’ambito dell’attività interpretativa non sindacabile in sede disciplinare (con conseguente esclusione dell’illecito), è necessario accertare se le ragioni di essa siano verificabili attraverso uno o più provvedimenti motivati, giustificativi del diverso computo dei termini o del superamento del limite massimo stabilito nell’art. 304, comma 6, c.p.p., anche mediante l’adesione ad una scelta ermeneutica riconducibile a un orientamento minoritario, purché reso evidente da un percorso argomentativo valutabile e impugnabile così come previsto dalla legge.

2.1.3. La consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge.

In tema di responsabilità disciplinare per mancata osservanza dell’obbligo di astensione, Sez. U, n. 18302/2020, Nazzicone, Rv. 658631-03 ha specificato che l’illecito di cui all’art.2, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 109 del 2006 si caratterizza, sotto il profilo oggettivo, per essere un illecito di pura condotta, che viene integrato dalla sola condotta commissiva di partecipazione, da parte del magistrato, a una attività d’ufficio rispetto alla quale sussisteva l’obbligo di astensione, senza la necessità che da tale condotta derivi altresì uno sviamento di potere o un vantaggio per sé o per il terzo del cui interesse il magistrato si sia reso indebitamente portatore.

Sotto il profilo subiettivo, inoltre, si evidenzia che non è richiesto un dolo specifico, essendo sufficiente la consapevolezza, nell’agente, della sussistenza di quelle situazioni di fatto in presenza delle quali l’ordinamento esige che egli si astenga dal compimento di un determinato atto. Si esclude, pertanto, la necessità di uno specifico intento finalizzato a favorire o danneggiare una delle parti. Ciò che rileva, ai fini della configurazione del predetto illecito a opera del pubblico ministero, è esclusivamente l’omessa astensione in presenza di un conflitto, anche solo potenziale, tra l’interesse pubblicistico al perseguimento dei fini istituzionali di giustizia ad esso affidati dall’ordinamento e l’interesse alieno a tali finalità (privato o personale) di cui egli sia portatore in proprio o per conto di terzi, non essendo necessaria l’effettiva realizzazione di tale ultimo interesse.

Sez. U, n. 2709/2020, Scrima, Rv. 657191-03 ha inoltre precisato che costituisce parere sull’oggetto del procedimento, a norma dell’art. 36, comma 1, lett. c), c.p.p., la formulazione di una precisa opinione sulle questioni di diritto e di fatto di cui è intessuta la regiudicanda e sulle decisioni da assumere, ma non anche la manifestazione di opinioni inerenti a tematiche di ordine generale o di espressioni del tutto generiche, che non denotino un convincimento del giudice sull’esito del processo, con riguardo sia alle contestazioni che agli imputati.

La S.C., nella specie, ha confermato la sentenza della Sezione disciplinare del CSM nella parte in cui aveva escluso la violazione dell’obbligo di astensione di un Presidente di Corte di assise, il quale si era limitato ad esprimere, sia pure inopportunamente, apprezzamenti generici sulle capacità professionali della difesa degli imputati, del rappresentante della parte civile e dei pubblici ministeri, senza peraltro formulare alcun giudizio anticipatorio sul procedimento.

2.1.4. I comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori.

Riguardo alla fattispecie dei comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori, la Corte ha confermato il carattere “elastico” della nozione di “grave scorrettezza” cui fa riferimento la previsione normativa di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, nel rendere sanzionabili disciplinarmente la condotta (Sez. U, n. 29823/2020, Cosentino, Rv.; conforme, Sez. U, n. 31058/2019, Vincenti, Rv. 656167-01).

In tal senso, in funzione del giudizio di sussunzione dei fatti accertati nella norma che tipizza il predetto illecito, il giudice disciplinare deve far riferimento sia ai principi che la disposizione (anche implicitamente) richiama, sia a fattori esterni presenti nella coscienza comune, così da fornire concretezza alla parte mobile della disposizione che, come tale, è suscettibile di adeguamento rispetto al contesto storico sociale in cui deve trovare operatività. Ne consegue che il dovere di correttezza gravante sul magistrato risulta violato dall’inosservanza di quelle regole di civile comportamento che devono connotare i rapporti sociali, come ad esempio le regole di educazione, di lealtà, di onestà intellettuale e pratica, di convenienza sociale, e la cui osservanza è volta, nello specifico, a preservare, anzitutto, le relazioni interpersonali nel rispetto della diversità dei ruoli e, con esse, il buon andamento dell’ufficio giudiziario e la sua stessa unitarietà funzionale, essendo dato di comune esperienza quello per cui, sul profilo oggettivo del servizio, si riverbera, in modo virtuoso, il corretto svolgimento delle prime.

Nella specie, il principio è stato applicato dalle Sezioni Unite in relazione ai comportamenti di un magistrato rivestente un ruolo dirigenziale che erano sconfinati nella mancanza di rispetto, nell’aggressività verbale e nel dileggio gratuito nei confronti di colleghi del proprio ufficio.

Gravemente scorretto nei confronti di “altri magistrati” è stato parimenti ritenuto il comportamento posto in essere al di fuori del concreto esercizio della giurisdizione, potendo questo investire anche i rapporti che si instaurano con altri magistrati in ragione della funzione che l’incolpato svolge proprio in quanto tale (Sez. U, n. 741/2020, Sambito, Rv. 656792-05).

Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto che costituiscono violazione dei doveri di correttezza ed equilibrio propri del magistrato, sì da rientrare della fattispecie disciplinare di cui al citato art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, le condotte volte a screditare, o valorizzare, colleghi, anche al fine di interferire con l’attività del CSM.

Con riferimento al rapporto tra agli illeciti disciplinari di cui all’art.2, comma 1, lett. d) ed e) del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 2709/2020, Scrima, Rv. 657191-02 ha ritenuto applicabile il principio di specialità di cui all’art. 15 c.p. In particolare, è stato precisato che l’art. 2, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 109 del 2006, punendo una specifica ipotesi di scorrettezza nei confronti di altri magistrati, sanzionata in via generale dalla lett. d) del medesimo comma 1, si pone in rapporto di specie a genere rispetto a quest’ultima disposizione, atteso che il principio di cui all’art. 15 c.p. trova operatività anche nelle ipotesi di illecito disciplinare del magistrato, ove sussista un concorso apparente di norme coesistenti astrattamente applicabili al medesimo fatto disciplinarmente rilevante; pertanto, ove risulti accertata la responsabilità disciplinare per la fattispecie speciale di cui alla citata lett. e), non può pronunciarsi, per lo stesso fatto, una condanna anche per la violazione generale di cui alla precedente lett. d).

In precedenza, Sez. U, n. 4881/2019, Lombardo, Rv. 652854-01 aveva peraltro escluso la configurabilità di un concorso apparente di norme in una ipotesi in cui l’incolpato aveva contattato il magistrato relatore di un processo penale e, successivamente, aveva comunicato all’imputato l’esito favorevole del colloquio, attesa la radicale e ontologica diversità delle due condotte contestate, ricondotte, rispettivamente, all’art. 2, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 109 del 2006 – relativo all’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di altro magistrato – e alla lettera d) della medesima disposizione, che sanziona i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratore.

2.1.5. La divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui.

In relazione all’art. 2, comma 1, lett. u), del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 22373/2020, Valitutti, Rv. 659284-01 ha specificato che la disposizione si articola in due diverse previsioni che, nelle varie fattispecie concrete, possono ricorrere singolarmente o cumulativamente ma che sono accomunate dal comune denominatore costituito dall’essere entrambe violazioni del “dovere di riservatezza”.

In particolare, la seconda delle violazioni succitate si connota per la violazione della riservatezza in relazione – non ad “atti del procedimento coperti da segreto”, come la prima – bensì ad “affari” in corso di trattazione o già definiti, non più coperti dal segreto, sempre che la loro divulgazione sia “idonea a ledere indebitamente diritti altrui”. La disposizione, come prefigurata dalla norma di riferimento, comporta, quindi, che l’illecito disciplinare in parola richiede due elementi costitutivi: 1) la violazione del dovere di riservatezza sugli “affari” in corso di trattazione o già definiti; 2) l’idoneità di tale violazione a ledere indebitamente diritti altrui.

Nella specie – relativa alla partecipazione, da parte del magistrato, a un film-documentario nel quale è stata ripercorsa l’intera vicenda di un delitto, alla quale aveva partecipato come pubblico ministero nel processo di primo grado, ancora in corso al momento delle riprese, filmato nel corso del quale è stato chiamato ad esporre e supportare le conclusioni accusatorie, in relazione ad un procedimento ancora non concluso in via definitiva – la S.C. ha ritenuto sussistente l’elemento della violazione del dovere di riservatezza sugli “affari” in corso di trattazione o già definiti, essendo la condotta del magistrato consistita nella divulgazione di notizie circa gli affari espletati nel processo e in corso di espletamento al momento delle riprese, e al contempo nella ricerca di pubblicità inerente alla propria attività di ufficio ed anche privata, in contrasto con la previsione dell’art. 6 del Codice etico. Tuttavia, ha ritenuto di escludere l’ulteriore presupposto dell’illecito disciplinare in esame, costituito dall’idoneità dell’accertata violazione del dovere di riservatezza a “ledere indebitamente diritti altrui”, avendo la Sezione disciplinare motivatamente escluso che la partecipazione del magistrato al film-documentario si sia rivelata “concretamente, o anche solo astrattamente, idonea a compromettere l’interesse alla credibilità della funzione giudiziaria” – che peraltro è un interesse generale dello Stato, non un diritto soggettivo di singoli – essendosi l’incolpato limitato a riprodurre in forma scenica le “modalità di ricostruzione dell’ipotesi accusatoria penale, quale poi effettivamente sottoposta al vaglio dell’autorità giudicante”.

2.1.6. Il sollecitare la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio ovvero il costituire e l’utilizzare canali informativi personali riservati o privilegiati.

La condotta del magistrato, consistita nella partecipazione a un documentario divulgativo della vicenda di un procedimento penale, su invito del produttore, non integra di per sé l’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. aa), del d.lgs. n. 109 del 2006, il quale richiede la preventiva costituzione e la successiva utilizzazione, da parte del magistrato medesimo, di canali informativi personali, riservati o privilegiati (Sez. U, n. 22373/2020, Valitutti, Rv. 659284-02).

Il sistema della responsabilità disciplinare del magistrato, prefigurato dal d.lgs. n. 109 del 2006, infatti, si basa sulla tipizzazione delle condotte disciplinarmente rilevanti assunte dal magistrato in contrasto con i doveri di cui al d.lgs. n. 109 del 2006, artt. 1 e 2, per cui l’accertamento della loro specifica violazione – essendo la valutazione del disvalore delle singole condotte compiuta ex ante dal legislatore – postula esclusivamente il confronto tra la fattispecie astratta e la condotta posta in essere dal magistrato, che deve essere pienamente conforme alla fattispecie tipizzata dell’illecito disciplinare contestato.

2.1.7. L’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sè o per altri.

Con riferimento alla condotta tipica dell’illecito di cui all’art. 3, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006 Sez. U, n. 28382/2020, Acierno, Rv. 659868-01 ha evidenziato che la fattispecie richiede, quale elemento costitutivo, una condotta attiva caratterizzata dall’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti, per sé o per altri, consistente nell’adoperarsi, esplicitamente o implicitamente, nel raggiungimento dell’obiettivo coincidente con i detti vantaggi.

Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza della Sezione disciplinare che aveva ritenuto integrato l’illecito in forza della condotta di non riprovazione e di “compiacimento” per l’assunzione della propria figlia, intervenuta in considerazione della qualità professionale del magistrato e con l’obiettivo di influenzarlo nell’esercizio delle sue funzioni.

Per configurare l’abuso della qualità di magistrato non è peraltro necessaria la spendita esplicita della qualità di magistrato, quando questa è nota all’interlocutore, richiedendosi piuttosto l’uso strumentale della essa, al di fuori dall’esercizio delle funzioni, allo scopo di conseguire vantaggi ingiusti per sé o per altri (Sez. U, n. 10086/2020, Lombardo, Rv. 657685-04 che ha sottolineato come il CSM avesse spiegato come la qualità di magistrato dell’incolpato fosse ben nota alla parte, con la quale esisteva un “pregresso rapporto di confidenza”, seppure i rapporti tra i due erano stati “interrotti volutamente durante la pendenza del procedimento fallimentare”, per poi riprendere subito dopo. Non occorreva, pertanto, e sarebbe stata del tutto superflua, la esplicita spendita della qualità di magistrato).

2.1.8. L’ottenimento di prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato sa essere coinvolti in procedimenti penali o civili pendenti presso l’ufficio giudiziario di appartenenza o presso altro ufficio che si trovi nel distretto di Corte d’appello, ovvero dai difensori di costoro.

Riguardo alla configurazione dell’elemento materiale dell’illecito di cui all’art. 3, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 24630/2020, Mercolino, Rv. 659451-02 ha evidenziato come non sia sufficiente il conseguimento del vantaggio da parte di un terzo in qualche modo legato al magistrato, occorrendo invece che il percettore sia proprio quest’ultimo, sia pure mediatamente.

Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza della Sezione disciplinare del CSM, nella parte in cui aveva ritenuto integrato il detto elemento oggettivo in seguito alla stipulazione, tra il coniuge del magistrato e un soggetto indagato in un procedimento penale presso l’ufficio di sua appartenenza, di un vantaggioso contratto di consulenza, comportante l’erogazione di un vistoso compenso, senza verificare se da esso l’incolpato avesse tratto un personale beneficio.

2.1.9. Il divieto di iscrizione ai partiti politici.

L’art. 3, comma 1, lett. h), del d.lgs. n. 109 del 2006 configura come illecito disciplinare due distinte fattispecie, alternative tra loro, costituite dalla “iscrizione a partiti politici” e dalla “partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici”, entrambe lesive dell’immagine pubblica di imparzialità del magistrato e della indipendenza e del prestigio dell’ordine giudiziario (Sez. U, n. 8906/2020, Lombardo, Rv. 657627-03). Ai fini della configurabilità dell’illecito disciplinare, mentre la condotta della iscrizione, per la sua valenza di atto formale, che rivela di per sé una stabile e continuativa adesione del magistrato a un determinato partito politico, lo integra indipendentemente dal ricorso di particolari circostanze, la condotta della partecipazione a partiti politici, invece, costituisce illecito solo quando sia qualificabile secondo i parametri di cui alle clausole generali della “sistematicità” e della “continuatività”; con riguardo a tale fattispecie, è pertanto escluso ogni automatismo sanzionatorio, dovendo il CSM di volta in volta valutare se la partecipazione del magistrato ad un partito politico assuma i caratteri richiesti dalla legge.

Il divieto per i magistrati di iscrizione ai partiti politici, che si ricava dall’art. 3, comma 1, lett. h), del d.lgs. n. 109 del 2006, vale indistintamente per tutti, sia che svolgano funzioni giudiziarie sia che siano collocati in aspettativa e fuori dal ruolo organico della Magistratura per qualunque ragione, ivi compreso lo svolgimento di un mandato elettorale e/o amministrativo (Sez. U, n. 8906/2020, Lombardo, Rv. 657627-04).

Peraltro, il divieto di iscrizione ai partiti politici non è contraddetto dalla possibilità, per il magistrato eletto al Parlamento, di iscriversi ai “gruppi parlamentari”, diversa essendo la natura giuridica di questi ultimi rispetto a quella dei partiti, atteso che, mentre i partiti politici sono associazioni private non riconosciute, i gruppi parlamentari hanno natura istituzionale, costituendo organi dell’istituzione elettiva necessari al suo funzionamento, tanto che l’iscrizione ad uno di essi (eventualmente al c.d. “gruppo misto”) è obbligatoria in base ai regolamenti interni della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica e prescinde dall’iscrizione del parlamentare a un determinato partito politico (Sez. U, n. 8906/2020, Lombardo, Rv. 657627-05).

Sez. U, n. 8906/2020, Lombardo, Rv. 657627-02 ha inoltre escluso che l’illecito previsto dall’art. 3, comma 1, lett. h), del d.lgs. n. 109 del 2006 possa essere integrato – immettendovi nozioni che la legge non prevede – dalla normativa interna statutaria dei partiti, la quale non costituisce fonte del diritto, ma, avendo gli stessi natura giuridica di associazioni private non riconosciute, costituisce mera espressione dell’autonomia privata.

Alla luce dell’attuale assetto normativo, è stata così ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lett. h), del d.lgs. n. 109 del 2006 in riferimento agli artt. 2, 3, 19, 48, comma 2, 49, 51, comma 1, e 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 9, 11 e 14 della CEDU, sollevata sull’assunto che il divieto di iscrizione e di partecipazione sistematica e continuativa ai partiti politici renderebbe più difficoltosa per il magistrato la possibilità di essere eletto, comprimerebbe il suo diritto di autodeterminazione nel campo della fede politica e violerebbe il principio di eguaglianza nell’accesso ai pubblici uffici e alle cariche elettive (Sez. U, n. 8906/2020, Lombardo, Rv. 657627-07).

Secondo apprezzamento compiuto, il diritto del magistrato di partecipare alla vita politica non è senza limitazioni nella Costituzione e deve essere bilanciato con la tutela di altri beni giuridici costituzionalmente protetti, quali il corretto esercizio della giurisdizione, il prestigio dell’ordine giudiziario e i principi di indipendenza e di imparzialità della Magistratura (artt. 101, 104, 108 Cost.), a tutela dei quali l’art. 98, comma 3, Cost., conferisce espressamente al legislatore ordinario la facoltà di introdurre, per i magistrati, “limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici”.

2.1.10. Gli illeciti disciplinari conseguenti al reato.

Sugli illeciti disciplinari di cui all’art. 4, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 1719/2020, Lombardo, Rv. 656796-01 ha rilevato come le fattispecie conseguenti a reato determinino la lesione di beni giuridici diversi rispetto a quelli relativi all’osservanza dei doveri professionali, la cui tutela è posta a fondamento degli illeciti funzionali o extrafunzionali di cui agli artt. 2 e 3 del medesimo decreto. Rispetto a questi ultimi, gli illeciti disciplinari conseguenti a reato (d.lgs. n. 109 del 2006, art. 4) hanno una oggettività giuridica diversa e di gran lunga maggiore è la loro gravità, tanto che il medesimo d.lgs., art. 12, comma 5, prevede la sanzione massima della rimozione – da applicarsi obbligatoriamente e senza alcuna discrezionalità dell’organo disciplinare – nei confronti del magistrato che incorre nella interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici in seguito a condanna penale o che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli artt. 163 e 164 c.p. o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’art. 168 c.p.

L’estinzione per prescrizione dell’illecito funzionale o extrafunzionale non può pertanto riverberarsi sull’illecito disciplinare conseguente a reato (nella specie, art. 4, lett. d), per il quale vige il diverso regime di prescrizione dettato dal d.lgs. n. 109 del 2006, art. 15, comma 8, lett. a).

2.1.11. Sanzioni disciplinari e rimozione del magistrato.

Sul piano delle sanzioni, Sez. U, n. 18302/2020, Nazzicone, Rv. 658631-04 ha precisato che la sanzione della rimozione disciplinare del magistrato, oltre che al verificarsi di una delle tre fattispecie tipiche previste dall’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, nel qual caso va disposta obbligatoriamente (nel caso in cui il magistrato: a) sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, comma 1, lett. “e”; b) incorra nella interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici in seguito a condanna penale; c) incorra in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia sospesa), può essere irrogata in ogni altra ipotesi in cui l’illecito abbia compromesso irrimediabilmente i valori connessi alla funzione giudiziaria e al prestigio personale del magistrato, anche in relazione allo strepitus fori, secondo l’apprezzamento di merito della Sezione disciplinare del CSM, insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua e immune da vizi logico-giuridici.

2.2. La condotta disciplinare irrilevante.

Sull’esimente della scarsa rilevanza del fatto di cui all’art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006, è stato confermato che l’accertamento della condotta disciplinarmente irrilevante, da identificarsi in quella che, riguardata ex post e in concreto, non comprometta l’immagine del magistrato, deve compiersi senza sovvertire il principio di tipizzazione degli illeciti disciplinari; pertanto, nell’ipotesi in cui il bene giuridico individuato specificamente dal legislatore in rapporto al singolo illecito disciplinare non coincida con quello protetto dal citato art. 3 bis, il giudizio di “scarsa rilevanza del fatto” dovrà anzitutto tenere conto della consistenza della lesione arrecata al bene giuridico “specifico” e, solo se l’offesa non sia apprezzabile in termini di gravità, occorrerà ulteriormente verificare se quello stesso fatto, che integra l’illecito tipizzato, abbia però determinato un’effettiva lesione dell’immagine pubblica del magistrato, risultando applicabile la detta esimente in caso di esito negativo di entrambe le verifiche (Sez. U, n. 29823/2020, Cosentino, Rv. 660013 - 02; in senso conforme già Sez. U, n. 31058/2019, Vincenti, Rv. 656167-02).

In applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha escluso la necessità di una verifica della sussistenza di un’effettiva lesione dell’immagine pubblica del magistrato, ai fini dell’accertamento della scarsa rilevanza del fatto al medesimo addebitato, in una fattispecie in cui tale scarsa rilevanza andava già esclusa per la gravità dell’offesa recata al bene giuridico specifico direttamente tutelato dall’art. 2, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 109 del 2006, vale a dire, il buon andamento dell’ufficio giudiziario e della sua unitarietà funzionale.

2.2. Il procedimento disciplinare.

Diverse pronunce delle Sezioni Unite si sono concentrate sui profili procedurali. In particolare, sulla decorrenza del termine annuale per l’esercizio dell’azione disciplinare è stato ribadito che detto termine (art. 15 del d.lgs. n. 109 del 2006) inizia a decorrere soltanto dall’acquisizione di una notizia “circostanziata” di un illecito disciplinare, ossia dalla conoscenza certa di tutti gli elementi costitutivi dello stesso, potendo solo da quel momento procedersi ad un’esauriente formulazione del capo di incolpazione (Sez. U, n. 8906/2020, Lombardo, Rv. 657627-01. Nella specie, la Procura generale presso la Corte di cassazione aveva avuto notizia circostanziata dei fatti contestati solo a seguito dell’acquisizione di un articolo di stampa pubblicato su un quotidiano e del ricevimento di un esposto e proprio grazie a quest’ultimo – molto particolareggiato – i fatti erano stati descritti in modo tale da consentire la formulazione del capo di incolpazione).

L’art. 15 del d.lgs. n. 109 del 2006 non attribuisce peraltro rilevanza alcuna al momento in cui di tale fatto siano venuti a conoscenza gli organi tenuti a darne comunicazione, ai sensi dell’art. 14, comma 4, dello stesso decreto, sia perché essa non determina quella conoscenza, neanche materiale (oltre che giuridica), degli stessi fatti anche per il titolare dell’azione disciplinare, sia perché il rilievo disciplinare di un fatto può essere stabilito unicamente dal titolare dell’afferente potere, essendo il relativo apprezzamento il risultato di un giudizio proprio ed esclusivo dello stesso (e non di altri), diverso, peraltro, e ben più pregnante, rispetto a quello concernente soltanto la rilevanza di quello stesso fatto ai fini dell’insorgenza del predetto obbligo di comunicazione. (Sez. U, n. 2709/2020, Scrima, Rv. 657191-01 che ha ritenuto “notizia circostanziata”, idonea ai fini della decorrenza del termine annuale, la ricezione, da parte del P.G. presso la Suprema Corte di cassazione, della notizia di reato inviatagli da un Procuratore della Repubblica unitamente alla copia di un esposto – con allegata visura camerale – volto a denunciare la titolarità, a nome dell’incolpato, di una impresa individuale con relativa partita IVA, stante la valenza probatoria del menzionato allegato).

Nel caso in cui si sia dinanzi a un illecito disciplinare del magistrato conseguente a reato, ai fini della decorrenza del termine annuale per l’esercizio dell’azione disciplinare non assume rilevanza l’iscrizione dell’incolpato nel registro degli indagati, atteso che il predetto termine decorre dal momento in cui il Ministro della giustizia o il Procuratore generale presso la Corte di cassazione abbiano avuto notizia “circostanziata” dell’illecito ovvero conoscenza certa di tutti gli elementi costitutivi dello stesso, e non dal momento in cui di esso siano venuti a conoscenza gli organi tenuti a darne comunicazione ai titolari dell’azione disciplinare, spettando in via esclusiva a questi ultimi l’apprezzamento del rilievo disciplinare di un fatto, peraltro nell’ambito di un giudizio diverso e ben più pregnante di quello concernente soltanto la rilevanza di quello stesso fatto ai fini dell’insorgenza del predetto obbligo di comunicazione (Sez. U, n. 5588/2020, Tria, Rv. 657203-01).

Sull’estensibilità della disciplina del processo penale al procedimento disciplinare Sez. U, n. 18303/2020, Tria, Rv. 658632-01 ha specificato che i richiami al codice di procedura penale contenuti nell’art. 16, comma 2 (per l’attività di indagine), e art. 18, comma 4 (per il dibattimento), del d.lgs. n. 109 del 2006 devono interpretarsi restrittivamente e solo nei limiti della compatibilità, dovendo applicarsi, per il resto, le regole del codice di procedura civile, sicché resta esclusa l’applicabilità dell’art. 311, comma 5 bis, c.p.p. (introdotto dall’art. 13, comma 1, della l. n. 47 del 2015), che stabilisce l’inefficacia della misura cautelare a causa dell’avvenuta deliberazione, in sede di giudizio di rinvio, oltre il termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti, trattandosi di disposizione riferibile esclusivamente alle misure cautelari personali adottate in sede penale, comportanti limitazioni più o meno incisive della libertà personale.

Nei procedimenti dinanzi alla Sezione disciplinare del CSM, peraltro, non trovano applicazione le regole di attribuzione della competenza per territorio dettate nell’art. 11 c.p.p., avuto riguardo all’unicità dell’organo giurisdizionale, che opera a livello nazionale (Sez. U, n. 24631/2020, Virgilio, Rv. 659452-03).

In merito alla presenza di procedimenti disciplinari diversi e sulla operatività del principio del ne bis in idem, la S.C. ha sottolineato come la preclusione che discende da tale principio esclude che possa farsi luogo a un secondo giudizio quando nel primo si sia giudicato sul medesimo fatto storico-naturalistico, identificato sulla base della coincidenza di tutti gli elementi costitutivi (condotta, nesso causale ed evento), che costituisce oggetto della nuova contestazione (Sez. U, n. 18302/2020, Nazzicone, Rv. 658631-01).

Nella specie, le Sezioni Unite hanno ritenuto che la sentenza assolutoria, pronunciata in favore di un pubblico ministero in ordine a fatti di mancata astensione nell’ambito di procedimenti penali trattati anteriormente ad una certa data, non precludesse un nuovo giudizio in relazione ad un episodio specifico della stessa natura, verificatosi nel medesimo periodo temporale ma non ricompreso nella precedente pronuncia, trattandosi di fatto che era stato oggetto di imputazione anche in sede penale, e per il quale l’originaria azione disciplinare era stata pertanto sospesa.

2.2.1. Rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio penale.

In tema di sospensione dei termini del procedimento disciplinare per esercizio di azione penale, la S.C. ha ritenuto che la disposizione di cui all’art. 15, comma 8, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006 – secondo cui il corso dei termini del procedimento disciplinare resta sospeso nel caso in cui per il medesimo fatto sia stata esercitata l’azione penale – non possa essere interpretata restrittivamente, come riferita unicamente all’identità tra i fatti oggetto dei due procedimenti, ma deve essere letta in senso più ampio, comprensivo della comune riferibilità degli stessi a una medesima vicenda storica, avuto riguardo all’esigenza, conforme alla ratio della norma in esame, di assicurare l’unitarietà del procedimento disciplinare e di evitare per quanto possibile che l’esercizio dell’azione penale per alcuni soltanto dei fatti complessivamente addebitati all’incolpato possa determinarne il frazionamento (Sez. U, n. 24630/2020, Mercolino, Rv. 659451-01).

Sulla presenza della comune riferibilità dei fatti oggetto dei due procedimenti a una “medesima vicenda storica” si è altresì espressa Sez. U, n. 18302/2020, Nazzicone, Rv. 658631-02 che ha confermato la pronuncia della Sezione disciplinare del CSM che, ai fini dell’operatività della sospensione ex lege dei termini del procedimento disciplinare, aveva affermato la coincidenza della condotta di omessa astensione rilevante sotto tale profilo con l’identica condotta posta, unitamente ad altre, a fondamento dell’imputazione penale, con cui era stato contestato al magistrato il reato di cui all’art. 323 c.p.

Ove il decorso dei termini del procedimento disciplinare sia restato sospeso a causa dell’esercizio dell’azione penale per lo stesso fatto, ai sensi dell’art. 15, comma 8, del d.lgs. n. 109 del 2006, il giudice del merito, quando le parti abbiano sollecitato la verifica dell’eventuale estinzione del procedimento medesimo per illegittimità della disposta sospensione, è tenuto a verificare in concreto la sussistenza del presupposto della “medesimezza” del fatto, indagando sull’identità della vicenda storica dalla quale abbiano tratto origine il procedimento penale e quello disciplinare, che giustifica la necessaria sospensione del secondo in attesa della definizione del primo, tenendo conto che nelle due ipotesi i criteri di accertamento della responsabilità sono diversi in ragione della diversità del bene tutelato, e senza trascurare di considerare che un’eccessiva limitazione nell’applicazione dell’istituto della sospensione potrebbe determinare una frammentazione dei processi con effetti negativi sotto il profilo dell’economia processuale e dell’interesse dell’incolpato ad un processo unitario rispetto a fatti complessivamente addebitati e maturati in un unico contesto (Sez. U, n. 9277/2020, Garri, Rv. 657659-01).

2.2.2. Intercettazioni disposte in un processo penale.

Riguardo all’utilizzo all’interno del procedimento disciplinare delle intercettazioni disposte in un processo penale, è stato ribadito che le intercettazioni telefoniche o ambientali sono pienamente utilizzabili, purché siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti di cui all’art. 270 c.p.p., riferibile ai soli procedimenti deputati all’accertamento delle responsabilità penali, nei quali si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all’acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale (Sez. U, n. 741/2020, Sambito, Rv. 656792-04. In senso conforme, Sez. U, n. 14552/2017, Giusti, Rv. 644570-02). Ne consegue che, nel procedimento disciplinare, risulta irrilevante l’omessa trascrizione integrale delle intercettazioni suddette, essendo sufficiente anche quella riassuntiva, pur in assenza del consenso dell’incolpato, salva la specifica contestazione di quest’ultimo circa la sussistenza di qualche difformità rispetto ai supporti audio, quali bobine o cassette.

Nello stesso procedimento la S.C. si è pronunciata anche sulla questione riguardante l’utilizzabilità delle intercettazioni mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo mobile (Sez. U, n. 741/2020, Sambito, Rv. 656792-03). In particolare, sono state ritenute utilizzabili intercettazioni effettuate in un procedimento penale, anteriormente al 1° gennaio 2020, con captatore informatico (cd. trojan horse) su dispositivo mobile nella vigenza e in conformità della disciplina introdotta dall’art. 6 del d.lgs. n. 216 del 2017 (che ha parzialmente esteso ai procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, la disciplina delle intercettazioni prevista per i delitti di criminalità organizzata dall’art. 13 del d.l. n. 152 del 1991, conv., con modif., dalla l. n. 203 del 1991 ed integrato con d.l. n. 306 del 1992, conv., con modif., dalla l. n. 356 del 1992) e dall’art. 1, comma 3, della l. n. 3 del 2019 (la quale, abrogando il comma 2 dell’art. 6 del citato d.lgs. n. 216 del 2017, ha eliminato la restrizione dell’uso del captatore informatico nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., così consentendo l’intercettazione in tali luoghi anche se non vi è motivo di ritenere che vi si stia svolgendo attività criminosa), atteso che la prima di tali norme, non rientrando tra quelle per le quali l’art. 9 del medesimo d.lgs. n. 216 del 2017 ha disposto il differimento dell’entrata in vigore, è efficace dal 26 gennaio 2018, mentre la seconda (a differenza di altre disposizioni della medesima legge per le quali il legislatore ha differito l’entrata in vigore al 1° gennaio 2020) è efficace dal decimoquinto giorno dalla pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 16 gennaio 2019.

2.2.3. Incompatibilità, astensione e ricusazione nel procedimento disciplinare. elettorale.

Particolarmente significative sono le pronunce nelle quali le Sezioni Unite, in termini inediti, si sono trovate a misurarsi con le questioni legate ai temi dell’imparzialità e della composizione della Sezione disciplinare del CSM.

In particolare, è stato ritenuto che nell’ipotesi in cui, per effetto di astensione, ricusazione o dimissioni di consiglieri appartenenti alla categoria dei magistrati requirenti, il collegio non possa essere integrato da un supplente avente pari funzioni e sia necessario procedere a nuove elezioni, con i relativi tempi tecnici ed il conseguente blocco dell’attività disciplinare cui il Consiglio è tenuto ex art. 105 Cost., deve darsi un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 6 della l. n. 195 del 1958, intendendo estensivamente il concetto di “supplente corrispondente”, in modo da salvaguardare l’indefettibilità e la continuità della funzione disciplinare attribuita dalla Costituzione direttamente al Consiglio superiore (Sez. U, n. 741/2020, Sambito, Rv. 656792-02).

Ne consegue che, in tale situazione, legittimamente il CSM può procedere alla sostituzione di un componente requirente, che sia stato ricusato, con un componente giudicante, atteso che l’unico limite va ravvisato nel fatto che la sostituzione non possa avvenire con un componente laico se il ricusato è un togato, o viceversa, perché la Costituzione impone una determinata proporzione tra laici e togati e tale equilibrio non può essere alterato.

Qualora la ricusazione di più componenti della Sezione disciplinare del CSM renda impossibile al suo interno formare un collegio che rispetti l’indefettibile proporzione tra membri laici e membri togati, la competenza a decidere sulla relativa istanza spetta alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, atteso che in difetto di una disposizione di legge che disciplini espressamente tale ipotesi o della concreta possibilità di estensione analogica di altra norma, la lacuna va colmata secondo i principi generali che regolano la materia della ricusazione del giudice, tra i quali vi è anche quello per cui la competenza a conoscerne è sempre attribuita o ad un collegio dello stesso ufficio o al giudice superiore (Sez. U, n. 19893/2020, Manna, Rv. 658992-01). Pertanto, ove la soluzione interna all’ufficio, disciplinata per il CSM dall’art. 6 della l. n. 195 del 1958, non sia realizzabile per mancanza di un numero sufficiente di giudici rispettoso della proporzione fra laici e togati, non resta che ricorrere all’altra, investendo della decisione il giudice superiore.

È tuttavia inammissibile la ricusazione rivolta contro tutti i componenti della Sezione disciplinare del CSM, poiché una tale istanza, coinvolgendo tutti i giudici in quanto e sol perché appartenenti al medesimo organo giurisdizionale, non lamenta un ipotetico difetto di imparzialità (che per sua natura riguarda la persona del singolo giudice), ma un eventuale difetto di terzietà dell’organo decidente, vale a dire un difetto non rimediabile con lo strumento processuale della ricusazione, che presuppone l’esatta identificazione fisica del giudice ricusato (Sez. U, n. 19893/2020, Manna, Rv. 658992-04).

Sulla possibilità che un giudice supplente, già destinatario di precedente istanza di ricusazione, giudichi sulla ricusazione del giudice titolare, è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 della l. n. 195 del 1958 nella parte in cui consente tale possibilità, non potendosi promuovere un incidente di legittimità costituzionale quando un ipotetico accoglimento della relativa questione sia tale da produrre un esito in sé manifestamente contrario alla Costituzione, cioè la paralisi dell’esercizio del potere disciplinare in capo al CSM (Sez. U, n. 19893/2020, Manna, Rv. 658992-03). Ove, infatti, si considerasse ostativa la mera circostanza di essere stato destinatario d’una precedente analoga istanza di ricusazione, né i componenti supplenti né i loro omologhi titolari potrebbero mai concorrere a decidere gli uni della ricusazione degli altri sicché, esauriti i membri titolari e quelli supplenti, non sarebbe più possibile costituire un collegio giudicante sulla ricusazione rispettoso della proporzione prevista dalla Costituzione.

È stato altresì ritenuto che non sia percorribile la strada dell’incidente di legittimità costituzionale per colmare, con sentenza additiva della Corte costituzionale, l’assenza d’una norma che espressamente individui il giudice della ricusazione di membri della Sezione disciplinare quando all’interno del Consiglio non sia possibile formare un collegio che rispetti la proporzione tra membri laici e membri togati, difettando il presupposto di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, attesa l’esistenza di differenti soluzioni che il legislatore, nell’ampia sua discrezionalità, ben potrebbe individuare per realizzare la terzietà del giudice in sede di decisione sull’istanza di ricusazione (Sez. U, n. 19893/2020, Manna, Rv. 658992-02)

Sul piano delle fattispecie, la S.C. ha evidenziato come la mera indicazione come testimone di un componente della Sezione disciplinare non determina quell’incompatibilità tra l’ufficio di testimone e quello di giudice prevista dall’art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c., poiché altrimenti si verificherebbe un insolubile corto circuito per cui ogni parte di qualsiasi processo potrebbe potestativamente determinare ad libitum tale incompatibilità e paralizzare all’infinito il processo dal quale (e non nel quale) voglia difendersi, con conseguente violazione degli artt. 24, comma 1, e 111, comma 2, Cost. (Sez. U, n. 19893/2020, Manna, Rv. 658992-05).

È stato inoltre ribadito che le ordinanze della Sezione disciplinare del CSM che decidono sulle istanze di ricusazione non sono impugnabili con il ricorso per cassazione, atteso che il richiamo alla disciplina delle impugnazioni prevista dalle norme processuali penali, contenuto nell’art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006, postula l’applicabilità al procedimento disciplinare delle norme processualpenalistiche “in quanto compatibili” (Sez. U, n. 741/2020, Sambito, Rv. 656792-01 che conferma l’orientamento espresso da Sez. U, n. 15969/2009, Nappi, Rv. 608896-01). In tale contesto non può ritenersi compatibile con il sistema disciplinare la disposizione che stabilisce l’immediata ricorribilità per cassazione dell’ordinanza di inammissibilità della ricusazione nell’ambito del codice di procedura penale (art. 41 c.p.p.) poiché il sistema delle impugnazioni in sede disciplinare, delineato dall’art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006, è limitato tassativamente alle sentenze e alle ordinanze cautelari, salva la possibilità di far valere la nullità degli atti e delle decisioni assunte con la partecipazione del magistrato ritenuto incompatibile in sede di impugnazione della decisione definitiva.

2.2.4. Il giudizio di impugnazione e sindacato di legittimità.

Sull’operatività delle norme del rito penale nella fase introduttiva del giudizio di legittimità, secondo il disposto dell’art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006, al giudizio di impugnazione, si applica la disciplina del processo penale con riguardo alla fase introduttiva di proposizione del ricorso, che comprende l’individuazione dei soggetti ammessi a proporlo, le modalità di presentazione dello stesso e gli adempimenti successivi a cura della cancelleria del giudice a quo, restando, di conseguenza, esclusa la disciplina del processo civile, che pone invece a carico del ricorrente l’onere della notificazione dell’impugnazione alle controparti e del suo deposito e, specularmente, a carico di queste ultime quello della notificazione e del deposito del controricorso (Sez. U, n. 24631/2020, Virgilio, Rv. 659452-01). Non trova, pertanto, applicazione l’art. 370 c.p.c., che onera la controparte a proporre il controricorso, essendo il suo diritto di difesa garantito dall’obbligo di comunicazione dell’udienza di discussione e dalla facoltà della stessa di presentare memorie e di partecipare all’udienza.

Sul sindacato della Corte di cassazione sulla pronuncia del giudice di rinvio, in caso di ricorso per violazione della precedente statuizione di annullamento, il sindacato della S.C. si risolve nel controllo dei poteri propri del suddetto giudice, poteri che, nell’ipotesi di rinvio per vizio di motivazione, si estendono non solo alla libera valutazione dei fatti già accertati, ma anche alla indagine su altri fatti, con il solo limite del divieto di fondare la decisione sugli stessi elementi già censurati del provvedimento impugnato e con la preclusione rispetto ai fatti che il principio di diritto eventualmente enunciato presuppone come pacifici o accertati definitivamente (Sez. U, n. 18303/2020, Tria, Rv. 658632-02).

La S.C., nella specie, ha respinto il ricorso avverso l’ordinanza con cui la Sezione disciplinare del CSM, in sede di rinvio, aveva confermato l’applicazione della misura cautelare della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio facendo riferimento anche a fatti ulteriori, considerati analoghi e in continuazione con quelli oggetto del procedimento disciplinare, con ampia e approfondita valutazione in coerenza con la sentenza rescindente.

Sul rapporto di continenza tra fatto contestato e fatto ritenuto nel provvedimento decisorio, allorquando esista un “rapporto di continenza”, nel senso che gli elementi costituenti il fatto ritenuto sono tutti inclusi tra gli elementi costituenti il fatto contestato, Sez. U, n. 10086/2020, Lombardo, Rv. 657685-01 ha escluso che sia configurabile la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza e legittimamente il CSM può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto.

2.2.5. La Revocazione.

Le Sezioni Unite hanno escluso l’ammissibilità dell’impugnazione dei provvedimenti della Sezione disciplinare del CSM per revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., atteso che gli artt. 24 e 25 del d.lgs. n. 109 del 2006 delineano un sistema completo e autosufficiente di impugnazione delle sentenze disciplinari, che mutua le forme del processo penale, il quale non prevede lo strumento della revocazione, ma quello che si attiva con l’istanza di revisione (Sez. U, n. 1610/2020, Perrino, Rv. 656661-01).

Riguardo all’impugnazione con ricorso straordinario o per revocazione dei provvedimenti emessi dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, Sez. U, n. 6074/2020, Mercolino, Rv. 657219-01 ha chiarito che l’art. 24 del d. lgs. n. 109 del 2006, nel dichiarare applicabili, ai fini del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti della Sezione disciplinare del CSM, i termini e le forme previsti dal codice di procedura penale, si riferisce alla sola impugnazione delle decisioni adottate dalla predetta Sezione, sicché tale disciplina non può essere estesa ai ricorsi proposti avverso le sentenze e le ordinanze emesse, in sede di impugnazione, dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione.

Ne consegue che queste ultime non possono essere impugnate personalmente dall’incolpato e mediante deposito del ricorso in cancelleria, risultando invece necessarie sia la rappresentanza di un difensore iscritto nell’albo degli avvocati abilitati al patrocinio dinanzi alle magistrature superiori, munito di procura speciale, sia la notificazione del ricorso al Ministero della giustizia e alla Procura generale della Repubblica presso la Corte di cassazione. Tali modalità devono essere osservate per la proposizione non solo del ricorso straordinario ma anche di quello per revocazione, che, al pari degli altri mezzi di impugnazione, resta assoggettato alle forme previste dal codice di procedura civile.

Sulla mancata estensione alla revocazione delle forme prescritte per il ricorso in cassazione, Sez. U, n. 6074/2020, Mercolino, Rv. 657219-02 ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – per asserita violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. – dell’art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006 e dell’art. 391 bis c.p.c. Secondo apprezzamento compiuto, nell’ambito del sistema cd. “bifasico”, introdotto dal citato art. 24 per l’instaurazione e la decisione del giudizio di legittimità in materia disciplinare, l’assoggettamento del ricorso alle forme e ai termini previsti dal codice di procedura penale trova giustificazione nella duplice esigenza di accelerare la fase introduttiva e di assicurare la compatibilità dei motivi di gravame con la disciplina di un procedimento che, nel grado di merito, è regolato dalle norme del medesimo codice, in quanto compatibili, mentre l’applicabilità del rito civile, nella fase decisoria, coerentemente con l’attribuzione della competenza alle Sezioni Unite civili, consegue alla cessazione delle predette esigenze in sede di impugnazione delle relative pronunce, il cui oggetto, costituito da sanzioni ritenute tradizionalmente estranee alla materia penale, consente di ritenere ragionevole l’esclusione dell’ulteriore operatività delle forme prescritte dalla norma censurata.

2.2.6. La revisione.

La revisione della sentenza disciplinare del CSM per effetto dei nuovi elementi di prova descritti dall’art. 25, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 109 del 2006, postula che il giudice adito si confronti necessariamente con il contenuto della statuizione impugnata per verificare se la sopravvenienza del fatto nuovo risulti rilevante alla stregua del quadro istruttorio e dell’impianto decisorio della stessa, altrimenti finendosi per consentire a quel giudice di rinnovare completamente le valutazioni ivi espresse e di rimettere in discussione, ben oltre i limiti sanciti dalla norma, una decisione ormai irrevocabile (Sez. U, n. 27412/2020, Conti, Rv. 659611-01).

Nella specie, in relazione a un’ipotesi in cui l’incolpato, condannato per la violazione di cui all’art.4, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, aveva dedotto, a sostegno dell’istanza di revisione, l’assenza di ripercussione in ambito locale o nazionale della vicenda oggetto del procedimento disciplinare, la S.C. ha confermato l’ordinanza di inammissibilità dell’istanza medesima, emessa dalla Sezione disciplinare, sul rilievo che gli elementi nuovi addotti dall’incolpato risultavano irrilevanti rispetto alla configurazione dell’illecito contestato, calibrato sulla mera idoneità della condotta a ledere l’immagine del magistrato.

2.3. Le misure cautelari.

In presenza della richiesta di applicazione di misure cautelari ex art. 22 del d.lgs. n. 109 del 2006, il giudice non è tenuto al completo accertamento della sussistenza degli addebiti (che è riservato al giudizio di merito sull’illecito) ma deve valutare, oltre alla rilevanza disciplinare dei fatti contestati astrattamente considerati e della possibile sussistenza degli stessi, anche la loro oggettiva gravità e la loro compatibilità con l’esercizio delle funzioni giurisdizionali in assoluto o nel distretto ove erano state esercitate in precedenza, dipendendo da tali valutazioni – in applicazione del criterio di gradualità quale precipitato del principio generale di proporzionalità posto dal codice di procedura penale (art. 275, commi 1 e 2, c.p.p.) – l’irrogazione della misura della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio o quella del trasferimento provvisorio in altro distretto (Sez. U, n. 741/2020, Sambito, Rv. 656792-06).

Tra il rinvio a giudizio dell’incolpato disposto in sede penale per un delitto non colposo punibile, anche in via alternativa, con pena detentiva, e il provvedimento di sospensione cautelare facoltativa, ex art. 22 del d.lgs. n. 109 del 2006, non sussiste rapporto di automatismo – nel senso che al giudice disciplinare sia consentito, ai fini dell’adozione della misura cautelare, un mero richiamo alla gravità dell’ipotesi accusatoria astrattamente considerata – bensì una correlazione dinamica, per effetto della quale il giudice disciplinare, al fine di rispettare i principi di adeguatezza e proporzionalità delle misure, deve prendere autonoma cognizione, sia pure allo stato degli atti, delle contrapposte tesi delle parti (e degli elementi che in concreto le supportino) in ordine alla possibile colpevolezza dell’indagato, fondando il proprio convincimento su tale base e dandone riscontro nella motivazione del provvedimento (Sez. U, n. 5588/2020, Tria, Rv. 657203-02).

A fronte dell’istanza con la quale l’incolpato ha chiesto la revoca della misura della sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio, applicata ai sensi dell’art. 22, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006, legittimamente il CSM, anche in assenza di espressa richiesta dei titolari dell’azione disciplinare, anziché accogliere l’istanza, può sostituire la detta misura con quella meno gravosa del trasferimento provvisorio ad altro ufficio di un distretto limitrofo, prevista dal medesimo art. 22, in quanto tale sostituzione in melius non costituisce una nuova iniziativa cautelare nei confronti dell’incolpato ma si risolve nell’accoglimento parziale dell’istanza di revoca dallo stesso avanzata (Sez. U, n. 10086/2020, Lombardo, Rv. 657685-03), in relazione alla quale non è necessaria la richiesta del P.M. ma è sufficiente sentirne il parere, obbligatorio e non vincolante (Sez. U, n. 10086/2020, Lombardo, Rv. 657685-02).

In sede di impugnazione, la mancata decisione, da parte delle Sezioni unite della Corte di cassazione nel termine di sei mesi dalla data di proposizione del ricorso, previsto dall’art. 24, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006, non determina la sopravvenuta inefficacia della misura cautelare del trasferimento ad altra sede o della destinazione ad altre funzioni eventualmente disposta, a carico dell’incolpato, ai sensi dell’art. 13, comma 2, del medesimo decreto legislativo (Sez. U, n. 21432/2020, Stalla, Rv. 659036-01).

Per un verso, la fase di legittimità del giudizio disciplinare è esclusa dal regime estintivo-decadenziale contemplato dall’art. 15 del predetto decreto legislativo e che, per l’altro, il carattere speciale della disciplina del relativo procedimento si traduce, sul piano sostanziale, nell’applicazione di sanzioni che non hanno natura penale ma amministrativa e, sul piano processuale, nell’operatività - salvo che per la fase strettamente introduttiva e di instaurazione del contraddittorio nel giudizio di legittimità - della disciplina dettata dal codice di procedura civile. Ne consegue, secondo le Sezioni Unite, che non è evocabile un effetto estintivo della misura cautelare in analogia a quanto espressamente previsto dall’art. 309, comma 10, c.p.p., per la tardiva decisione del tribunale investito del riesame di misure coercitive nel procedimento cautelare penale.

La Corte giunge altresì ad escludere che la mancata previsione di tale effetto possa suscitare fondati dubbi di legittimità costituzionale del comma 2 dell’art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006, per contrasto con gli art. 3, 24 e 111 Cost., dovendosi ritenere rispondente al non arbitrario esercizio di una tipica discrezionalità legislativa la valutazione che la stringente scansione temporale decadenziale di cui al precedente art. 15 fosse bastevole a stabilire un congruo punto di equilibrio tra l’interesse dello Stato al completo e ponderato accertamento della responsabilità e l’interesse dell’incolpato a non vedersi sottoposto sine die a giudizio disciplinare.

2.3.1. Il trasferimento d’ufficio.

È stato confermato che nel disporre il trasferimento quale misura cautelare, la Sezione disciplinare del CSM possa individuare la sede e le funzioni dell’ufficio di destinazione del magistrato (Sez. U, n. 9277/2020, Garri, Rv. 657659-02. In senso conforme, Sez. U, n. 2804/2018, D’Antonio, Rv. 647162-01), poiché la natura e lo scopo della misura cautelare impongono una celere definizione, risultando intrinsecamente contraddittorio un sistema che vedesse “diviso”, con diverse attribuzioni di competenze, il potere cautelare di trasferimento e quello di indicazione della sede e delle funzioni. Tuttavia, la scelta di destinare il magistrato a un ufficio limitrofo, restringendo l’ambito delle funzioni da assegnare solo a quelle radicalmente diverse dalle precedenti, deve essere oggetto di specifica motivazione, tanto più nell’ipotesi in cui (come nella specie) risulti dagli atti che lo stesso procuratore generale, pur avendo richiesto l’allontanamento del magistrato dalla sede in cui prestava servizio all’epoca dei fatti contestatigli in sede disciplinare, non aveva invece invocato la sua destinazione a funzioni diverse da quelle originariamente rivestite.

Riguardo al rapporto tra il trasferimento per incompatibilità ambientale ex art. 2 del r.d. n. 511 del 1946 e il trasferimento d’ufficio ex art. 13, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 24631/2020, Virgilio, Rv. 659452-02 ha confermato la possibilità di disporre il cumulo dei due procedimenti per i medesimi fatti, nell’ipotesi in cui al magistrato già sottoposto al procedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale, siano applicate, per i medesimi fatti, la sanzione accessoria o la misura cautelare del trasferimento d’ufficio, in relazione a procedimenti relativi ad illeciti disciplinari (in precedenza, in senso conforme, Sez. U, n. 29833/2019, Lamorgese, Rv. 656065-04). Secondo l’apprezzamento compiuto, deve escludersi la configurabilità di un bis in idem – sia di diritto convenzionale, sia di diritto unionale sia di diritto interno – in ragione dell’ontologica diversità dei presupposti e delle finalità dei due istituti, atteso che il primo, a differenza del secondo, si fonda sull’accertamento di situazioni oggettivamente lesive dell’indipendenza e dell’imparzialità dell’esercizio delle funzioni giudiziarie, a prescindere da ogni indagine o valutazione relative a profili soggettivi di responsabilità e non ha, pertanto, funzione sanzionatoria, esulando da esso ogni sindacato di colpevolezza o “riprovevolezza” del comportamento dell’interessato.

2.3.2. La misura cautelare della sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio.

L’adozione della misura cautelare della sospensione di un magistrato dalle funzioni e dallo stipendio, ai sensi degli artt. 21 e 22 del d.lgs. n. 109 del 2006, non concretando l’irrogazione di una sanzione disciplinare, non richiede un completo accertamento in ordine alla sussistenza degli addebiti – riservato al giudizio di merito sull’illecito disciplinare –, ma presuppone comunque una valutazione circa la rilevanza dei fatti contestati, astrattamente considerati, e la delibazione della possibile sussistenza degli stessi (Sez. U, n. 1719/2020, Lombardo, Rv. 656796-02).

Nella specie – relativa a procedimento disciplinare per fatti integranti reato – la S.C. ha cassato con rinvio l’ordinanza con la quale il giudice disciplinare aveva comminato la misura cautelare, limitandosi a richiamare la sentenza penale di primo grado di condanna dell’incolpato, senza compiere un’autonoma delibazione dei fatti contestati ai fini della verifica della sussistenza del fumus boni iuris.

Nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati, alla misura cautelare della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio non si applica il limite massimo quinquennale di durata, previsto in via generale dall’art. 9, comma 2, della l. n. 19 del 1990 per la sospensione cautelare dei pubblici dipendenti, atteso che la specificità dello status del magistrato e delle relative funzioni richiede, anche nella fase cautelare, una disciplina più rigorosa rispetto a quella dettata per gli altri pubblici impiegati, essendo necessario tutelare, soprattutto, il dovere e l’immagine di imparzialità e la connessa esigenza di credibilità nell’esercizio dell’attività giurisdizionale, e considerato altresì che l’art. 23, comma 2, del d.lgs n. 109 del 2006 – con norma di chiusura avente finalità analoga a quella di cui al citato art. 9, comma 2, della l. n. 19 del 1990 – collega la cessazione di diritto degli effetti della sospensione cautelare alla “definitività” della pronuncia della Sezione disciplinare conclusiva del procedimento (Sez. U, n. 15196/2020, Giusti, Rv. 658335-01).

La sospensione cautelare obbligatoria dalle funzioni e dallo stipendio per adozione di misura cautelare personale penale, prevista dall’art. 21 del d.lgs. n.109 del 2006, è soggetta a revoca facoltativa, non già obbligatoria, quando tale misura sia cessata per motivi diversi dalla mancanza dei gravi indizi di colpevolezza, nel qual caso l’esercizio del potere di revoca è identico a quello concernente la sospensione facoltativa, prevista dal successivo art. 22, ovvero ha natura discrezionale (Sez. U, n. 15196/2020, Giusti, Rv. 658335-02).

In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato l’ordinanza della Sezione disciplinare del CSM che aveva rigettato l’istanza di revoca della sospensione cautelare, sul duplice rilievo che il processo penale si era concluso in primo grado con la condanna dell’incolpato per i gravi reati di cui agli artt.81, 317, 319, 378 e 629 c.p., e che tale condanna, mentre per un verso rafforzava le esigenze cautelari, per altro verso comportava, di per sé, grave menomazione del prestigio dell’ordine giudiziario, così legittimando la persistenza della misura.

3. La responsabilità disciplinare degli avvocati.

Riguardo alla responsabilità disciplinare degli avvocati, vanno richiamate le pronunce delle Sezioni Unite sulle fattispecie di illecito, sul regime giuridico della prescrizione, nonché su taluni profili procedurali.

3.1. Gli illeciti disciplinari.

Sulle fattispecie di illecito, Sez. U, n. 7761/2020, Bisogni, Rv. 657526-02 ha ritenuto che costituisce violazione dell’art. 55 del codice deontologico forense l’assunzione e l’esercizio dell’incarico di componente di un collegio arbitrale in situazione di incompatibilità (nella specie, in quanto professionista associato del difensore di una delle parti), a nulla rilevando la mancata contestazione della circostanza nel corso del procedimento arbitrale, per essere il divieto di assunzione sancito da tale norma volto a tutelare il profilo deontologico dell’avvocatura garantendo l’indipendenza e l’imparzialità del collegio arbitrale in quanto tale, a prescindere dalla correttezza dello svolgimento del mandato.

3.2. Il regime giuridico della prescrizione.

In tema di prescrizione dell’azione disciplinare, di cui all’art. 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933, recante l’ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore, occorre distinguere il caso, previsto dall’art. 38, in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede, in quanto violino esclusivamente i doveri di probità, correttezza e dirittura professionale, dal caso, previsto dall’art. 44, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l’azione penale (Sez. U, n. 1609/2020, Perrino, Rv. 656708-01; in conformità, Sez. U, n. 10071 del 2011, Botta, Rv. 617009-01).

Nel primo caso, in cui l’azione disciplinare è collegata a ipotesi generiche ed a fatti anche atipici, il termine prescrizionale comincia a decorrere dalla commissione del fatto; nel secondo, invece, l’azione disciplinare essendo collegata al fatto storico di una pronuncia penale che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso, ha come oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata una imputazione, ha natura obbligatoria e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto, con la conseguenza che la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta.

L’interruzione del termine quinquennale di prescrizione dell’azione disciplinare nei confronti degli avvocati, decorrente dalla data di realizzazione dell’illecito (o dalla cessazione della sua permanenza), è diversamente disciplinata nei due distinti procedimenti in cui si articola il giudizio disciplinare: nel procedimento amministrativo dinanzi al Consiglio dell’Ordine la prescrizione è soggetta a interruzione con effetti istantanei in conseguenza dell’atto di apertura del procedimento ed anche di tutti gli atti procedimentali di natura propulsiva o probatoria o decisoria; nella fase giurisdizionale davanti al Consiglio nazionale forense opera, invece, il principio dell’effetto interruttivo permanente, di cui al combinato disposto degli artt. 2943 e 2945, comma 2, c.c., effetto che si protrae durante tutto il corso del giudizio e nelle eventuali fasi successive dell’impugnazione innanzi alle Sezioni Unite e del giudizio di rinvio fino al passaggio in giudicato della sentenza (Sez. U, n. 7761/2020, Bisogni, Rv. 657526-01. In senso conforme, Sez. U, n. 5072/2003, Di Nanni, Rv. 561724-01).

Riguardo alla mancata restituzione di una somma contante versata dal cliente al legale in deposito fiduciario, è stata riconosciuta la natura di illecito permanente, in relazione al quale il momento in cui cessa la permanenza coincide con quello dell’indebita appropriazione e cioè con il momento in cui il professionista, sollecitato alla restituzione, nega il diritto del cliente sulla somma affermando il proprio diritto di trattenerla, a cui è equiparabile la negazione di averla ricevuta, sicché è da tale momento che inizia a decorrere il termine di prescrizione dell’illecito, in applicazione analogica dell’art. 158 c.p. (Sez. U, n. 14233/2020, Valitutti, Rv. 658194-01).

Le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense hanno natura amministrativa sicché, con riferimento al regime giuridico della prescrizione, non è applicabile lo jus superveniens, ove più favorevole all’incolpato (Sez. U, n. 23746/2020, Garri, Rv. 659288-01). Ne consegue che il punto di riferimento per l’individuazione del regime della prescrizione dell’azione disciplinare è e resta la commissione del fatto o la cessazione della sua permanenza ed è a quel momento, quindi, che si deve avere riguardo per stabilire la legge applicabile.

3.3. Il procedimento disciplinare.

Nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati trovano applicazione, quanto alla procedura, le norme particolari che, per ogni singolo istituto, sono dettate dalla legge professionale e, in mancanza, quelle del codice di procedura civile, con la conseguenza che, secondo il principio costantemente ribadito per quel rito, è insindacabile in sede di legittimità la decisione sulla riunione dei procedimenti, essendo tale scelta rimessa alla valutazione discrezionale del giudice (Sez. U, n. 24896/2020, Crucitti, Rv. 659709-01).

Le norme del codice di procedura penale si applicano soltanto nelle ipotesi in cui la legge professionale vi faccia espresso rinvio, ovvero allorché sorga la necessità di applicare istituti che hanno il loro regolamento esclusivamente nel codice di procedura penale (Sez. U, n. 412/2020, Frasca, Rv. 656658-01). In applicazione di tale principio, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 28, comma 1, lett. a), c.p.p., per denuncia di conflitto tra il Collegio Distrettuale di Disciplina, quale giudice speciale comminante una sanzione disciplinare ad un avvocato, e il giudice ordinario della controversia in relazione alla quale era stato commesso l’illecito disciplinare.

Il procedimento disciplinare di primo grado, svoltosi innanzi ai Consiglio dell’ordine, ha sì natura amministrativa, ma speciale, in quanto disciplinato specificamente dalle norme dell’Ordinamento forense, che non contengono termini perentori per l’inizio, lo svolgimento e la definizione del procedimento stesso all’infuori di quelli posti a tutela del diritto di difesa, nonché di quello di prescrizione dell’azione disciplinare; ne consegue che in tale procedimento non trovano applicazione gli artt. 24 Cost. e 6 CEDU in tema di ragionevole durata del processo, né l’art. 2 della l. n. 241 del 1990 sulla durata del procedimento amministrativo, giacché la mancata previsione di un termine finale del procedimento disciplinare è coessenziale al fatto che esso debba avere una durata sufficiente per consentire all’incolpato di sviluppare compiutamente la propria difesa (Sez. U, n. 23593/2020, Carrato, Rv. 659286-01).

Con riferimento al diritto di difesa, la partecipazione del difensore designato all’udienza innanzi al Consiglio dell’ordine costituisce una libera scelta di quest’ultimo, per cui, per comportare una lesione del diritto di difesa, la mancata partecipazione deve essere determinata da un impedimento reale, che presenti, cioè, caratteristiche tali da non risolversi in una mera difficoltà (Sez. U, n. 5596/2020, Scoditti, Rv. 657205-01).

Riguardo ai requisiti di forma delle decisioni dei Consigli degli ordini, le stesse debbono essere sottoscritte dal Presidente e dal segretario che hanno partecipato alla seduta, la cui data risulta nel corpo della decisione ed è per questo irrilevante il cambiamento della composizione del consiglio stesso al momento della pubblicazione della decisione (Sez. U, n. 28386/2020, D’Antonio, Rv. In senso conforme, Sez. U, n. 22516/2016, Petitti, Rv. 641531-01).

Sez. U, n. 23593/2020, Carrato, Rv. 659286-02 si è invece pronunciata sul valore da attribuire all’intervenuta transazione, nel corso del procedimento, tra l’incolpato e il suo assistito, qualora il procedimento disciplinare nei confronti dell’avvocato abbia avuto origine da un esposto del cliente. Secondo l’apprezzamento compiuto, la transazione della giunta non può influire sul corso del procedimento stesso, comportandone la possibile interruzione o estinzione, poiché l’esercizio del potere disciplinare è previsto a tutela di un interesse pubblicistico, come tale non rientrante nella disponibilità delle parti, rimanendo perciò intatto, per l’organo disciplinare, il potere di accertamento della responsabilità del professionista per gli illeciti a lui legittimamente contestati.

3.3.1. Il giudizio disciplinare dinanzi al Consiglio Nazionale Forense.

Nel giudizio disciplinare dinanzi al CNF, l’incolpato ha diritto a ottenere il rinvio dell’udienza in presenza di una situazione di legittimo impedimento a comparire ai sensi dell’art. 420-ter c.p.p., tale dovendosi, però, considerare solo un impedimento assoluto a comparire e non una qualsiasi situazione di difficoltà (Sez. U, n. 24377/2020, Garri, Rv. 659457-01, che conferma l’indirizzo precedente già espresso da Sez. U, n. 1715/2013, Rordorf, Rv. 624766-01).

In applicazione di tale principio, la S.C., respingendo l’impugnazione, ha confermato la decisione del CNF che aveva motivatamente respinto la richiesta di differimento, avendo verificato, sulla base di specifici protocolli scientifici, che la certificazione medica era priva dell’attestazione anche solo di uno dei sintomi del carattere acuto della patologia rappresentata dall’incolpato.

3.3.2. Il giudizio di impugnazione.

Riguardo ai profili dell’impugnazione, il termine di trenta giorni per ricorrere avverso la sentenza del CNF, ai sensi dell’art. 36, commi 4 e 6, della l. n. 247 del 2012, in deroga al combinato disposto degli artt. 285 e 170 c.p.c., decorre dalla notifica della stessa a richiesta d’ufficio eseguita nei confronti dell’interessato personalmente, considerato che non ricorre qui la ratio della regola generale della necessità della notifica al difensore, in quanto il soggetto sottoposto a procedimento disciplinare è un professionista il quale è in condizione di valutare autonomamente gli effetti della notifica della decisione, dovendosi, peraltro, eseguire la notificazione alla parte presso l’avvocato domiciliatario, secondo le regole ordinarie, e non direttamente alla parte, le volte in cui il professionista incolpato decida di non difendersi personalmente ma di farsi assistere da un altro avvocato, eleggendo domicilio presso il medesimo o presso un terzo avvocato (Sez. U, n. 27773/2020, Giusti, Rv. 659663-01).

In materia di procedimenti disciplinari a carico degli avvocati, il CNF, nel confermare la sentenza di primo grado, quanto al giudizio di colpevolezza dell’incolpato, può integrare la motivazione di prime cure, anche d’ufficio, senza violare il principio del contraddittorio purché essa sia radicata nelle risultanze acquisite al processo e contenuta entro i limiti del devolutum, quali risultanti dall’atto di impugnazione (Sez. U, n. 28176/2020, Scrima, Rv. 659866-01).

Nella specie, la S.C. ha ritenuto esente da critiche la sentenza che aveva esplicitato la “scarna” motivazione per relationem di prime cure, facente proprie argomentazioni del Tribunale penale a sostegno della condanna, in ragione del compendio istruttorio penale ritualmente acquisito al processo disciplinare – sostenuto da una duplice delibazione di merito conforme – e non confutato da richieste istruttorie dell’incolpato.

Ai sensi del regolamento n. 2 del 2014 del CNF, applicabile ratione temporis, i fatti di rilevanza disciplinare ascritti all’incolpato devono essere sufficientemente riportati, con l’indicazione delle norme violate, ma ciò non è ostativo alla configurabilità della contestazione implicita della recidiva, allorquando emerga dal contenuto della descrizione degli addebiti (Sez. U, n. 2506/2020, Carrato, Rv. 656950-01).

Nella specie, la S.C. ha ritenuto esente da critiche la decisione del CNF che aveva considerato la rilevanza di altri pregiudizi disciplinari attinenti a simili infrazioni, sulla scorta della complessiva rappresentazione delle vicende disciplinari coinvolgenti l’avvocato.

La determinazione della sanzione adeguata costituisce tipico apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità (Sez. U, n. 1609/2020, Perrino, Rv. 656708-02).

4. La responsabilità disciplinare dei notai.

In materia di responsabilità disciplinare dei notai, si segnalano alcune pronunce rese sulle fattispecie di illecito, in tema di procedimento disciplinare e di determinazione della sanzione.

4.1. Gli illeciti disciplinari.

Sul piano sostanziale, Sez. 2, n. 16519/2020, Tedesco, Rv. 658682-01, in tema di trasferimento di diritti reali non di garanzia su immobili, ha ritenuto che il notaio che riceve un tale atto privo delle menzioni di cui all’art. 29, comma 1-bis, della l. n. 52 del 1985, incorre nel divieto di ricevere atti “espressamente proibiti dalla legge”, ex art. 28, comma 1, n. 1, della l. n. 89 del 1913 e sanzionato con la sospensione a norma dell’art. 138, comma 2, della medesima legge. La norma, invero, è violata nel momento stesso della redazione dell’atto nullo, senza che possano spiegare efficacia sanante o estintiva della punibilità eventuali rimedi predisposti dal legislatore per conservare l’atto ai fini privatistici, quale l’eventuale successiva sua conferma, ai sensi del comma 1-ter del medesimo art. 29 (in senso conforme, Sez. 2, n. 21828/2019, Criscuolo, Rv. 654910-02).

Riguardo alla fattispecie del procacciamento d’affari, Sez. 2, n. 16433/2020, Fortunato, Rv. 658290-01 conferma che l’art. 147 della legge notarile non vieta la concorrenza tra i notai, ma le forme illecite (Sez. 6-3, n. 4721/2012, Segreto, Rv. 621610-01), compreso il ricorso a procacciatori di affari, da intendersi in senso meramente economico e non strettamente tecnico, essendo sufficiente ad integrare la condotta sanzionata il solo fatto che un terzo indirizzi un certo numero di clienti verso il notaio e che quest’ultimo ne tragga beneficio nello svolgimento dell’attività, senza che rilevi la gratuità dell’attività di procacciamento, vietata dall’art. 31 del codice deontologico anche se svolta a titolo non oneroso.

È contraria, ai sensi dell’art. 31, lett. f, dei principi di deontologia professionale dei notai, la presenza frequente del notaio presso recapiti stabili di organizzazioni per rogare, trattandosi di un comportamento idoneo a turbare le condizioni che ne assicurano l’imparzialità, e visto come un concorso consapevole del notaio a una scelta etero-diretta del professionista (Sez. 2, n. 3458/2020, De Marzo, Rv. 657102-01). Il dovere d’imparzialità del notaio, infatti, va inteso in termini di astensione da comportamenti che, in via preventiva e di garanzia dell’immagine della categoria, influiscono sulla designazione del professionista.

4.2. Il procedimento disciplinare.

Sul piano procedurale è stato ritenuto che anche il Presidente del collegio notarile del luogo in cui è stata posta in essere la condotta illecita è abilitato a promuovere l’azione disciplinare, atteso che l’art. 153 della l. n. 89 del 1913, come novellato dalla l. n. 27 del 2012, amplia la previsione dell’art. 93 ter della legge notarile, prevedendo una legittimazione concorrente di tale organo al fine di rendere omogenea l’iniziativa disciplinare riconosciuta al Procuratore della Repubblica, estesa anche al pubblico ministero del luogo di commissione dell’illecito (Sez. 2, n. 6302/2020, Gorjan, Rv. 657128-01).

4.3. La determinazione della sanzione.

Sulla determinazione della sanzione, è stato confermato che l’art. 135, comma 4, della legge notarile, secondo il quale se il notaio, in occasione della formazione di uno stesso atto, contravviene più volte alla medesima disposizione, si applica una sola sanzione, determinata fino all’ammontare massimo previsto per tale infrazione tenendo conto del numero delle violazioni commesse, non opera in caso di plurime infrazioni identiche compiute in atti diversi, non potendo il giudice interferire nella discrezionalità del legislatore con l’estendere all’ambito degli illeciti disciplinari quanto previsto, in tema di continuazione, da altri settori dell’ordinamento (Sez. 2, n. 16519/2020, Tedesco, Rv. 658682-02; in senso conforme, Sez. 2, n. 9177/2013, D’Ascola, Rv. 626103-01).

Nel caso in cui siano commessi gli illeciti di cui all’art. 147, comma 1, l. n. 89 del 1913, ma ricorrano circostanze attenuanti, la sanzione della sospensione può in via generale essere sostituita dalla pena pecuniaria, come stabilito dall’art. 144 l. cit.; una disciplina speciale è, invece, prevista, nel comma 2 del menzionato art. 147, secondo cui viene sempre applicata la destituzione per il caso del notaio, già condannato due volte alla sospensione, che incorra nuovamente nella recidiva reiterata infradecennale (Sez. 2, n. 3458/2020, De Marzo, Rv. 657102-02).