PARTE INTRODUTTIVA 

  • diritti e libertà
  • giurisdizione di grado superiore
  • procedura amministrativa
  • procedura civile
  • assicurazione
  • eredità
  • diritto successorio
  • diritto di famiglia
  • azione dinanzi a giurisdizione civile
  • diritto tributario
  • diritti umani
  • espropriazione
  • fallimento

I

L’APPLICAZIONE DELLA CONVENZIONE PER LA SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI DA PARTE DELLA CORTE COSTITUZIONALE E DELLA CASSAZIONE CIVILE

(di Gianluca Grasso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La giurisprudenza costituzionale sul diritto dell’Unione e sulle norme della CEDU. - 2.1 Il fondamento della diretta applicazione del diritto dell’Unione. - 2.2 L’inquadramento delle norme della CEDU tra le fonti del diritto italiano e i poteri del giudice nazionale comune. Il sindacato della Corte costituzionale. - 2.2.1 Il “diritto consolidato” e la “sentenza pilota”: i vincoli derivanti dall’interpretazione della Corte di Strasburgo. - 2.2.2 L’inquadramento delle norme della CEDU a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona: persistenza del rilievo delle norme della CEDU quali “norme interposte” ai fini della verifica del rispetto dell’art. 117, comma 1, Cost. - 3 La giurisprudenza della Cassazione civile. Casistica relativa all’applicazione delle norme della CEDU. - 3.1 Diritto a un equo processo e accesso alla tutela giurisdizionale. - 3.2 Durata ragionevole del processo e diritto all’equa riparazione. - 3.2.1 “Definitività” della decisione concludente il procedimento. - 3.2.2 Sospensione del processo. - 3.2.3 Termine per la proposizione del ricorso e procedimento di correzione dell’errore materiale. - 3.2.4 Impugnazioni. - 3.2.5 Accoglimento parziale: conseguenze. - 3.2.6 Successione ed eredità. - 3.2.7 Irragionevole durata delle procedure esecutive. - 3.2.8 Irragionevole durata delle procedure concorsuali. - 3.2.9 Irragionevole durata del processo amministrativo. - 3.2.10 Successioni di leggi nel tempo. - 3.3 Il diritto di famiglia. - 3.4 Il cittadino straniero. - 3.5 Il divieto di trattamenti inumani nei confronti di soggetti detenuti o internati. - 3.6 Fallimento ed altre procedure concorsuali. - 3.7 Il diritto tributario. - 3.8 L’espropriazione per pubblica utilità. - 3.9 Contributi assicurativi. - 3.10 Procedimento disciplinare a carico di magistrati, notai e avvocati.

1. Premessa.

Questo contributo affronta il tema dell’inquadramento delle norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) nell’ambito delle fonti interne, alla luce della giurisprudenza costituzionale, presentando una casistica delle decisioni assunte in materia dalla Corte di cassazione civile.

2. La giurisprudenza costituzionale sul diritto dell’Unione e sulle norme della CEDU.

La collocazione nel sistema delle fonti del diritto dell’Unione europea e delle norme della CEDU e dei suoi protocolli è stata definita con chiarezza dalla Corte costituzionale.

2.1. Il fondamento della diretta applicazione del diritto dell’Unione.

La diretta applicazione del diritto dell’Unione nel nostro ordinamento trova il suo fondamento nell’art. 11 Cost., la cui seconda parte stabilisce che l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Con l’adesione ai Trattati comunitari, l’Italia, cedendo parte della sua sovranità, è entrata a far parte di un “ordinamento” più ampio, di natura sovranazionale. Tale cessione ha riguardato anche il potere legislativo nelle materie oggetto dei Trattati, con il solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.

In ragione della peculiarità del diritto dell’Unione, il contrasto tra norme statali e disciplina UE non dà luogo all’invalidità o all’illegittimità delle norme interne, ma comporta, qualora non sia possibile un’interpretazione conforme al diritto dell’Unione delle norme nazionali incompatibili, la loro disapplicazione o non applicazione al caso concreto. È questo l’orientamento costante della Corte costituzionale a partire dalla sentenza 8 giugno 1984, n. 170, per cui le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l’applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi in ordine all’esistenza del conflitto. La non applicazione deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente dalla stessa Corte costituzionale, del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale o dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità della legge di esecuzione del Trattato (Corte cost. 13 luglio 2007, n. 28).

La Consulta ha così superato l’indirizzo originario in base al quale le norme comunitarie abrogavano le norme statali incompatibili preesistenti, mentre dovevano essere oggetto di rimessione alla Corte quelle sopravvenute per violazione dell’art. 11 Cost. (Corte cost. 30 ottobre 1975, n. 232). Secondo l’orientamento successivo (a partire da Corte cost. n. 170 del 1984), l’effetto connesso alla vigenza della norma comunitaria è quello “non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale”.

Tali principî sono stati riferiti dalla Corte costituzionale, nella pronuncia n. 170 del 1984, ai regolamenti comunitari, quali fonti immediatamente applicabili, e la giurisprudenza successiva ha riconosciuto la “diretta applicabilità” anche alle sentenze interpretative della Corte di giustizia (Corte cost. 19 aprile 1985, n. 113 ai sensi dell’art. 177 del Trattato, ora art. 267 TFUE), alle norme comunitarie interpretate in pronunce rese dalla Corte di giustizia in sede contenziosa ai sensi dell’art. 169 del Trattato (ora art. 258 TFUE) (Corte cost. 11 luglio 1989, n. 389), alle direttive munite d’efficacia diretta, nei limiti indicati dalla Corte di giustizia (Corte cost. 18 aprile 1991 n. 168 con riferimento alle disposizioni incondizionate e sufficientemente precise, attributive di un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato inadempiente, secondo quanto precisato dalla Corte di giustizia a partire dalla sentenza 19 gennaio 1982, causa 8/81, Becker).

2.2. L’inquadramento delle norme della CEDU tra le fonti del diritto italiano e i poteri del giudice nazionale comune. Il sindacato della Corte costituzionale.

Il sistema convenzionale, derivante dalla CEDU, è caratterizzato dalla presenza di un trattato internazionale multilaterale che, sia pur peculiare, non ha dato luogo a un ordinamento giuridico sovranazionale, dai cui organi deliberativi possano derivare norme vincolanti per le autorità interne degli Stati membri.

Nella lettura fatta propria dalla Consulta a partire dalle sentenze 24 ottobre 2007 n. 348 e n. 349, le norme della CEDU non ricevono copertura costituzionale dall’art. 11 Cost. - che riguarda il diritto sovranazionale dell’Unione europea, le cui norme primarie dotate di efficacia diretta devono avere efficacia obbligatoria in tutti gli Stati membri senza la necessità di leggi di ricezione e di adattamento - ma dall’art. 117 Cost., come modificato dall’art. 2 l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3, che enuncia gli obblighi dello Stato e delle Regioni derivanti dal diritto internazionale pattizio. In base all’art. 117, comma 1, Cost. non può attribuirsi rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento (legge 4 agosto 1955 n. 848 che ha disposto la ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), derivando da tale previsione l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare le norme poste dai trattati e dalle convenzioni internazionali, e tra queste figurano quelle contenute nella CEDU.

Secondo la Corte costituzionale, diversamente da quanto avviene con il diritto dell’Unione, il giudice nazionale non può disapplicare direttamente la norma interna contrastante con le disposizioni della CEDU (Corte cost. n. 348 e n. 349/2007. Nello stesso senso, tra le altre, Corte cost. 11 novembre 2011, n. 303; 22 luglio 2011, n. 236; 7 aprile 2011, n. 113; 11 marzo 2011, n. 80; 5 gennaio 2011, n. 1; 28 maggio 2010, n. 187; 15 aprile 2010, n. 138; 12 marzo 2010, n. 93; 4 dicembre 2009 n. 317; 26 novembre 2009, n. 311; 27 febbraio 2008, n. 39).

La CEDU - secondo la Consulta - in considerazione del suo contenuto, presenta una portata sub-costituzionale, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della Convenzione e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all’art. 117, comma 1, Cost. viola quest’ultimo parametro. In questo modo si determina un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, che dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali evocati dall’art. 117 e, con essi, al parametro stesso. Essendo l’uniformità dell’applicazione della CEDU garantita dall’interpretazione attribuita alla Corte EDU - alla quale questa competenza è stata espressamente riconosciuta dagli Stati contraenti - il giudizio di costituzionalità sulla norma interna dovrà riguardare la disposizione della Convenzione così come interpretata dalla Corte di Strasburgo.

Pertanto, il giudice nazionale comune, a fronte di un possibile contrasto tra la norma interna e quella della CEDU, deve cercare di risolvere l’antinomia mediante un’interpretazione conforme della norma interna alla Convenzione, secondo la lettura offertane dalla Corte di Strasburgo. Nel far questo, il giudice nazionale deve spingersi fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni messe a confronto, avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. L’apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza (Corte cost. n. 311/2009).

Qualora tale risultato non sia conseguibile in via interpretativa nei limiti indicati, ovvero il giudice dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale “interposta”, nell’ipotesi in cui vi sia un contrasto tra le due disposizioni, egli deve verificare se la norma contenuta nella CEDU sia conforme alla Costituzione.

Se la norma della CEDU rispetta la Costituzione, il giudice nazionale non può far altro che sollevare la questione di legittimità della norma interna con riferimento all’art. 117 Cost. e della norma o delle norme CEDU interposte, ovvero anche dell’art. 10, comma 1, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta (Corte cost. n. 311/2009).

In tal caso, la Corte costituzionale dovrà accertare la sussistenza del denunciato contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscano una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana, appurando la compatibilità della norma CEDU con le pertinenti norme della Costituzione (Corte cost. n. 311/2009). Il verificarsi di un conflitto con altre norme della nostra Costituzione - da ritenersi eccezionale - esclude l’operatività del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua idoneità a integrare il parametro dell’art. 117, comma 1, Cost., determinando l’illegittimità, per quanto di ragione, della legge di adattamento (sentenze n. 348 e n. 349/2007).

In caso di accertato contrasto della norma interna con quella della CEDU, dovrà essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione interna per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione alla norma convenzionale invocata.

È questo il meccanismo individuato dalla Corte costituzionale per realizzare un corretto bilanciamento tra l’esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali e quella di evitare che ciò possa comportare una lesione della Costituzione stessa.

2.2.1. Il “diritto consolidato” e la “sentenza pilota”: i vincoli derivanti dall’interpretazione della Corte di Strasburgo.

La Corte costituzionale (sentenza 26 marzo 2015, n. 49) ha precisato a quali condizioni la giurisprudenza della Corte EDU - la cui interpretazione è fondamentale per definire l’esatto contenuto delle norme della Convenzione - vincoli il giudice nazionale, allo scopo di evitare un uso arbitrario e selettivo dei precedenti. La ricerca di questi ultimi è senz’altro più complessa di quella che si può effettuare per le decisioni della Corte di giustizia, di regola ufficialmente tradotte in tutte le lingue dell’Unione europea e presenti in un data base di agevole accessibilità, dove per la giurisprudenza di Strasburgo si prevedono due sole lingue ufficiali, il francese e l’inglese, mentre le traduzioni in lingua italiana delle principali decisioni vengono curate dal nostro Ministero della giustizia.

Alla Corte di Strasburgo compete di pronunciare la “parola ultima” (sentenza n. 349 del 2007) in ordine a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, secondo quanto le parti contraenti hanno stabilito in forza dell’art. 32 della CEDU.

Tuttavia, secondo la Corte costituzionale, questo meccanismo non ha spogliato il giudice nazionale della funzione interpretativa che gli compete, ai sensi dell’art. 101, comma 2, Cost., in quanto soggetto soltanto alla legge (in senso conforme Corte cost. 11 maggio 2017, n. 109; 7 aprile 2017, n. 68; 16 dicembre 2016, n. 276; 9 febbraio 2016 n. 36). Tale regola vale anche per le norme emergenti dalla giurisprudenza della CEDU, che entrano nell’ordinamento giuridico nazionale grazie a una legge ordinaria di adattamento e sono recate da sentenze meramente dichiarative e non esecutive (cfr. art. 46 Convenzione EDU).

Al di là dei casi in cui il giudice comune torni a occuparsi della richiesta di cessazione degli effetti lesivi della violazione accertata dalla Corte di Strasburgo (Corte cost. 18 luglio 2013, n. 210; Corte cost. n. 113/2011), l’interpretazione offerta dalla Corte EDU vincola il giudice nazionale soltanto in quanto espressiva di un “diritto consolidato”, mentre nessun obbligo esiste a fronte di pronunce che non siano il frutto di un orientamento divenuto definitivo (Corte cost. n. 49 del 2015 che ribadisce e precisa quanto affermato dalle sentenze n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009 secondo cui il giudice comune è tenuto a uniformarsi alla “giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente”, “in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza”, fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro, Corte cost. 6 gennaio 2012, n. 15 e n. 317 del 2009).

Sul punto, la Consulta (Corte cost. n. 49 del 2015) evidenzia che il riferimento al “diritto consolidato” risponde alle modalità organizzative della Corte di Strasburgo, che consente opinioni dissenzienti e prevede un meccanismo idoneo a risolvere il contrasto tra singole sezioni, quale la rimessione alla Grande Camera (la nozione stessa di “giurisprudenza consolidata” trova riconoscimento nell’art. 28 della CEDU con riferimento al potere del comitato investito di un ricorso individuale ai sensi dell’art. 34 di potere, con voto unanime, di dichiararlo ricevibile e pronunciare congiuntamente sentenza sul merito, solo quando tale “giurisprudenza consolidata” sussista e vada applicata).

La formazione del diritto giurisprudenziale della CEDU riveste quindi un carattere progressivo (e la Grande Camera, nel caso previsto dall’art. 30 CEDU, può essere chiamata a prevenire contrasti, sulla non opposizione delle parti, requisito questo dell’accordo tacito che secondo il protocollo n. 15 - non in vigore e non ratificato dall’Italia - potrebbe essere sostituito da un potere d’ufficio).

La Corte costituzionale, al riguardo, sottolinea che non è sempre di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni CEDU abbia maturato a Strasburgo un adeguato consolidamento, specie a fronte di pronunce destinate a risolvere casi del tutto peculiari, e comunque formatesi con riguardo all’impatto prodotto dalla CEDU su ordinamenti giuridici differenti da quello italiano.

Si richiamano, a tal fine, alcuni indici idonei a orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano.

In presenza di tutti o alcuni di questi indizi, secondo la Corte costituzionale, in base a un giudizio che non può peraltro prescindere dalle peculiarità di ogni singola vicenda, non vi è alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU per decidere una certa controversia, sempre che non si tratti di una “sentenza pilota” in senso stretto, secondo la procedura oggi definita nell’art. 61 del regolamento della Corte, non potendosi attribuire tale valenza in via interpretativa da parte del giudice nazionale.

Il procedimento della “sentenza pilota”, di origine giurisprudenziale, è codificato nell’art. 61 del regolamento e può essere adottato nei confronti di una parte contraente in presenza di una grave disfunzione, quale un problema strutturale o sistemico che potrebbe dar luogo alla rappresentazione di ricorsi analoghi, ma la cui efficacia ultra partes verso Stati terzi non è espressamente disciplinata e risulta negata da Cass. pen., Sez. IV, 6 novembre 2014, n. 46067). La “sentenza pilota” è infatti adottata avendo riguardo alle specificità di un determinato ordinamento, che è quindi il solo chiamato a prendere le misure riparatorie in applicazione del suo dispositivo.

Ad aiutare il giudice nel suo compito potrà soccorrere il parere consultivo di cui al Protocollo addizionale n. 16-entrato in vigore con decorrenza dal 1° agosto 2018 con la ratifica ad opera della Francia, non ratificato dall’Italia - che la Corte EDU può rilasciare, se richiesta, alle giurisdizioni nazionali superiori, pur se espressamente definito non vincolante (art. 5). Il procedimento è stato attivato per la prima volta dalla Corte di cassazione francese, che ha richiesto un doppio parere in materia di maternità surrogata (gestation pour autrui), riguardo alla trascrizione di atti dello stato civile formati all’estero ed al procedimento di adozione. Il parere della Corte EDU è stato pubblicato il 10 aprile 2019.

Il vincolo interpretativo per il giudice italiano discende, pertanto, dalla presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota” adottata nei confronti dell’Italia che, riempiendo di contenuti specifici la norma interposta della CEDU, impongono al giudice di superare eventuali contrasti rispetto alla norma interna attraverso gli strumenti interpretativi a sua disposizione, ovvero azionando l’incidente di costituzionalità ove ciò fosse possibile (Corte cost. n. 49/2015; Corte cost. n. 80/2011).

Al di là dei vincoli che possano derivare dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, resta fermo che il giudice comune, nell’esercitare l’attività interpretativa riconosciutagli dalla Costituzione, ha il dovere di evitare violazioni della Convenzione europea e di applicarne le disposizioni, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte di Strasburgo, specie quando il caso sia riconducibile a precedenti di quest’ultima (Corte cost. n. 109 e n. 68 del 2017; n. 276 e n. 36 del 2016) col solo limite del divieto di disapplicazione.

2.2.2. L’inquadramento delle norme della CEDU a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona: persistenza del rilievo delle norme della CEDU quali “norme interposte” ai fini della verifica del rispetto dell’art. 117, comma 1, Cost.

Il sistema non ha subìto mutamenti in seguito all’entrata in vigore (1° dicembre 2009) del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, con cui sono stati modificati il Trattato sull’Unione europea e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (già Trattato istitutivo della Comunità Europea).

È noto che non sia ancora giunta a esser definita la questione dell’adesione dell’UE alla CEDU, prevista dalle modifiche introdotte con il Trattato di Lisbona, avendo la Corte di giustizia, con parere articolato, ritenuto che il progetto di accordo sottopostole dalla Commissione non fosse compatibile con l’art. 6, par. 2, TUE, né con il connesso protocollo n. 8 (Corte giust., parere, 18 dicembre 2014).

La Corte costituzionale, allo stato, esclude che la riconduzione della CEDU al diritto dell’Unione europea - realizzata mediante il riconoscimento (art. 6, par. 1, TUE) dei diritti, delle libertà e dei principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza), nonché attraverso l’attribuzione, ai diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, della dignità di principi generali del diritto dell’Unione (art. 6 parr. 2 e 3) - consenta di ritenere operante per le norme della Convenzione la copertura dell’art. 11 Cost. e di accedere, conseguentemente, alla possibilità di una loro diretta applicazione da parte del giudice nazionale (cfr., tra le tante, Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236; 28 novembre 2012, n. 264; 18 luglio 2013, n. 202; 4 luglio 2014, n. 191; 18 luglio 2014, n. 223).

Corte cost. 11 marzo 2011, n. 80 puntualizza che il richiamo alla CEDU contenuto nel paragrafo 3 dell’art. 6 TUE - secondo cui i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione “e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali” - riprende lo schema del previgente paragrafo 2 dell’art. 6 del TUE, evocando una forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona e quindi nelle forme già indicate dalla sentenza della Consulta n. 349/2007.

La Corte costituzionale esclude altresì una “trattatizzazione” indiretta della CEDU, alla luce della “clausola di equivalenza” che figura nell’art. 52, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali, discendente dall’equiparazione di quest’ultima ai Trattati. La Corte sottolinea che in sede di modifica del Trattato si è inteso evitare che l’attribuzione alla Carta di Nizza dello “stesso valore giuridico dei trattati” abbia effetti sul riparto delle competenze fra Stati membri e istituzioni dell’Unione (art. 6, par. 1, primo alinea TUE secondo cui “le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati”), evidenziando che le disposizioni della Carta si applicano solo nell’ambito delle competenze dell’Unione europea (art. 51, par. 1, TUE; Corte giustizia sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB; ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri).

3. La giurisprudenza della Cassazione civile. Casistica relativa all’applicazione delle norme della CEDU.

Le principali questioni che hanno portato la Corte di cassazione civile nel 2021 a confrontarsi con le norme della CEDU possono essere suddivise, a grandi linee, negli ambiti del diritto a un equo processo e dell’accesso alla tutela giurisdizionale, dell’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo (l. n. 89 del 2001), del diritto in famiglia, della tutela del cittadino straniero, del divieto di trattamenti inumani nei confronti di soggetti detenuti o internati, del danno non patrimoniale, del diritto tributario, nonché dell’espropriazione per pubblica utilità e del procedimento disciplinare nei riguardi di magistrati, avvocati e notai.

3.1. Diritto a un equo processo e accesso alla tutela giurisdizionale.

In questa sezione si riportano le decisioni della S.C. che affrontano, sotto diversi profili, i temi del diritto a un equo processo e dell’accesso alla tutela giurisdizionale, così come declinati dalla giurisprudenza della Corte EDU in relazione all’art. 6 CEDU.

Il diritto di ogni cittadino di difendersi da sé o con il ministero di un difensore in ogni stato e grado di giudizio, previsto dall’art. 6 della CEDU, non comprende la facoltà della parte di esercitare attività difensiva (nella specie, proponendo ricorso per cassazione)indipendentemente e, quindi, eventualmente anche in potenziale contrasto con le scelte tecniche del proprio difensore, potendo tale condotta costituire fonte di inefficienza e confusione per l’intero processo e, quindi, di potenziale menomazione per la difesa della stessa parte (Sez. 6-1, n. 39551/2021, Di Marzio, Rv. 663538-01). Né, a tale conclusione si oppone il comma 3 lett. c) del citato articolo che si riferisce al processo penale e non a quello civile.

In relazione ai poteri del giudice, la S.C. ha stabilito che i principi di economia processuale e ragionevole durata del processo non ostano all’accoglimento della richiesta di supplemento della consulenza tecnica in quanto l’esigenza di una tempestiva definizione del giudizio, dotata di rilievo costituzionale se, appunto, ragionevole, non è concepita quale valore assoluto, ma in rapporto alle altre tutele costituzionali e, in particolare, al diritto delle parti di agire e difendersi in giudizio sancito dall’art. 24 Cost. (Sez. 3, n. 02832/2021, Guizzi, Rv. 660398-01).

Nel riconoscere che “il principio della ragionevole durata del processo è divenuto punto costante di riferimento nell’ermeneutica delle norme, in particolare di quelle processuali, e nella individuazione del rispettivo ambito applicativo, conducendo a privilegiare, pur nel doveroso rispetto del dato letterale, opzioni contrarie ad ogni inutile appesantimento del giudizio”, si è, tuttavia, ribadito che il principio del “giusto processo”, nella sua dimensione sia costituzionale che sovranazionale (su cui è richiamato l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma merita considerazione anche l’art. 14 del cd. “Patto di New York” sui diritti civili e politici del 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 831), non si esplicita nella sola durata ragionevole dello stesso (così. Sez. U., n. 5700/2014, San Giorgio, Rv. 629676-01). Invero, “occorre prestare” - secondo le indicazioni delle Sezioni Unite - “la massima attenzione ad evitare di sanzionare comportamenti processuali ritenuti non improntati al valore costituzionale della ragionevole durata del processo, a scapito degli altri valori in cui pure si sostanzia il processo equo, quali il diritto di difesa, il diritto al contraddittorio, e, in definitiva, il diritto ad un giudizio”.

Sul riconoscimento delle sentenze straniere, Sez. 1, n. 25067/2021, Di Marzio, Rv. 662542-01 ha esaminato l’istituto della consignation de cantidad, propria del diritto processuale spagnolo, che consente al datore di lavoro di impugnare la decisione del tribunale favorevole al lavoratore a condizione che sia depositata la somma portata dalla condanna di primo grado o che sia offerta una fideiussione a prima richiesta per il medesimo importo. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che tale fattispecie non contrasti con l’ordine pubblico processuale, poiché, in materia civile, le restrizioni al potere di impugnazione non sono contrarie alla Costituzione e sono consentite anche dalla CEDU, purché abbiano uno scopo legittimo, che è quello di assicurare l’efficienza del processo, non ledano l’essenza stessa del diritto, che comunque può essere esercitato, e siano proporzionate.

Con riferimento al sistema delle impugnazioni, Sez. 6-2, n. 26161/2021, Varrone, Rv. 662332-01 ha chiarito che il ricorso per revocazione è soggetto al disposto dell’art. 366 c.p.c., secondo cui la formulazione del motivo deve risolversi nell’indicazione specifica, chiara e immediatamente intellegibile del fatto che si assume avere costituito oggetto dell’errore e nell’esposizione delle ragioni per cui l’errore presenta i requisiti previsti dall’art. 395 c.p.c.; ne consegue che il mancato rispetto di tali requisiti espone il ricorrente al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione, non consentendo la valorizzazione dello scopo del processo, volto, da un lato, ad assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa ex art. 24 Cost., nell’ambito dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, comma 2, Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU e, dall’altro, ad evitare di gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui.

In caso di tardiva proposizione dell’impugnazione, la parte non può invocare la rimessione in termini ex art. 153 c.p.c., quando il ritardo sia dovuto a fatto imputabile al difensore, costituendo la negligenza di quest’ultimo un evento esterno al processo, che attiene alla patologia del rapporto con il professionista, rilevante solo ai fini dell’azione di responsabilità nei confronti del medesimo, senza che ciò comporti alcuna violazione dell’art. 6 CEDU, poiché l’inammissibilità dell’impugnazione, che consegue all’inosservanza del termine, non integra una sanzione sproporzionata rispetto alla finalità di salvaguardare elementari esigenze di certezza giuridica (Sez. 1, n. 03340/2021, Marulli, Rv. 660721-01 che richiama Corte EDU, 15 settembre 2016, Trevisanato c. Italia).

In tema di responsabilità aggravata, si è ritenuto che la proposizione di un ricorso per cassazione fondato su motivi palesemente inammissibili, rende l’impugnazione incompatibile con un quadro ordinamentale che, da una parte, deve universalmente garantire l’accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti (art. 6 CEDU) e dall’altra, deve tenere conto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo e della conseguente necessità di strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie e defatigatorie (Sez. 3, n. 22208/2021, Di Florio, Rv. 662202-01).

In tal senso, secondo l’apprezzamento compiuto dalla S.C., la stessa costituisce condotta oggettivamente valutabile come “abuso del processo”, poiché determina un ingiustificato sviamento del sistema processuale dai suoi fini istituzionali e si presta, dunque, ad essere sanzionata con la condanna del soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., la quale configura una sanzione di carattere pubblicistico che non richiede l’accertamento dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa dell’agente ma unicamente quello della sua condotta processualmente abusiva, consistente nell’avere agito o resistito pretestuosamente.

3.2. Durata ragionevole del processo e diritto all’equa riparazione.

Numerose sono le pronunce rese sul tema della violazione del diritto fondamentale a una ragionevole durata e dell’equa riparazione.

Mentre la domanda di equa riparazione è diretta a tutelare l’interesse della parte alla durata ragionevole del processo ed è dunque riferita al suo ordinario e fisiologico svolgimento, la disciplina relativa al risarcimento del danno causato nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, prevista dagli artt. 2, comma 3, e 4, comma 2, l. n. 117 del 1998, ha la funzione di consentire alla parte, che si ritenga danneggiata dall’erroneità del provvedimento emesso, di esperire ogni rimedio possibile per eliminare l’errore e, quindi, il pregiudizio ricevuto, salvaguardando sia l’interesse particolare, sia quello pubblico al suo emendamento, sì da riferirsi alla necessaria esperibilità dei rimedi interni volti alla rimozione del provvedimento stesso (Sez. 2, n. 33459/2021, Bertuzzi, Rv. 662754-01). Ne consegue che, mentre il momento iniziale del termine di decadenza di sei mesi per proporre la domanda di equo indennizzo, ai sensi dell’art. 4 della l. n. 89 del 2001, coincide con il deposito della sentenza della Cassazione che, rigettando o dichiarando inammissibile il ricorso, determina il passaggio in giudicato della pronuncia di merito, viceversa, il termine di decadenza previsto dall’art. 4, comma 2, della l. n. 117 del 1998, nel caso in cui sia stata proposta domanda di revocazione avverso la sentenza della Corte di cassazione, decorre dalla pubblicazione del provvedimento che ha deciso sulla revocazione, anche quando essa sia dichiarata inammissibile.

L’unico elemento rilevante ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo è il superamento del termine previsto dalla legge, essendo conseguentemente irrilevanti, ove detto termine sia stato rispettato, sia il grado di complessità del giudizio, sia l’avvenuto superamento dei termini previsti dall’ordinamento per il deposito dei provvedimenti giurisdizionali, il quale, pertanto, può sussistere indipendentemente dalla durata irragionevole del procedimento presupposto, così come, al contrario, il diritto all’equo indennizzo può configurarsi nonostante il tempestivo deposito del provvedimento giurisdizionale conclusivo del procedimento stesso (Sez. 6-2, n. 38471/2021, Oliva, Rv. 663221-01).

Sui poteri del giudice, si è ribadito che la ragionevole durata del processo gli impone, ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c., di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo a una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da concrete garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a esplicare i suoi effetti (Sez. U, n. 08774/2021, Doronzo, Rv. 660857-01). Ne deriva che l’istanza per la trattazione congiunta di una pluralità di giudizi relativi alla medesima vicenda, non espressamente contemplata dagli artt. 115 e 82 disp. att. c.p.c., deve essere sorretta da ragioni idonee ad evidenziare i benefici suscettibili di bilanciare gli inevitabili ritardi conseguenti all’accoglimento della richiesta, bilanciamento che dev’essere effettuato con particolare rigore nel giudizio di cassazione in considerazione dell’impulso d’ufficio che lo caratterizza.

In senso conforme, Sez. 3, n. 14365/2019, Guizzi, Rv. 654203-01 aveva ritenuto non meritevole di accoglimento la richiesta riunione tra un ricorso per cassazione avverso la sentenza che aveva dichiarato inammissibile per tardività l’appello e quello avverso la decisione che aveva deciso l’impugnazione per revocazione avverso la medesima sentenza di appello. Nel ribadire il principio, le Sezioni unite hanno ritenuto non meritevole di accoglimento la richiesta di riunione motivata dalla diversità di conclusioni rassegnate dal Pubblico Ministero negli altri procedimenti.

L’accertamento della sussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo costituisce apprezzamento di fatto spettante al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità soltanto per omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, che sia stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformato dal d.l. n. 83 del 2012 ovvero, altrimenti, nei casi di “mancanza assoluta di motivi”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Sez. 6-2, n. 17684/2021, Scarpa, Rv. 661664-01).

Sulle possibili questioni di legittimità costituzionale della disciplina attuale, è stata esclusa la non manifesta infondatezza relativamente all’art. 2-bis della l. n. 289 del 2001, nella parte in cui limita la misura dell’indennizzo in una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, atteso che la derogabilità dei criteri ordinari di liquidazione fissati dalla Corte EDU per l’indennizzo su base annua recepisce le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte medesima nonché della Corte di cassazione (Sez. 6-2, n. 25964/2021, Falaschi, Rv. 662296-01. Negli stessi termini vedi già Sez. 2, n. 22772/2014, Petitti, Rv. 633027 - 01).

3.2.1. “Definitività” della decisione concludente il procedimento.

A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2018 - con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 l. n. 89 del 2001, come sostituito dall’art. 55, comma 1, lett. d), del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella l. n. 134 del 2012, nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione, una volta maturato il ritardo, possa essere presentata in pendenza del procedimento presupposto - la definitività del provvedimento che ha definito il procedimento presupposto non costituisce condizione di proponibilità della domanda, potendo quest’ultima essere presentata, qualora sia già maturato il ritardo, in pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione della ragionevole durata si assume essersi verificata (Sez. 2, n. 21752/2021, Cosentino, Rv. 661944-01; Sez. 6-2, n. 25956/2021, Falaschi, Rv. 662294-01. Sez. 2, n. 26162/2018, Federico, Rv. 650838-01).

Per “definitività” della decisione concludente il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, la quale segna il dies a quo del termine di decadenza di sei mesi per la proponibilità della domanda, s’intende, in relazione al giudizio di cognizione, il passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce (Sez. 6-2, n. 36125/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 663077-01; in senso conforme, Sez. 6-2, n. 3826/2006, Felicetti, Rv. 592786-01). Spetta all’amministrazione convenuta comprovare la tardività della domanda in relazione all’acquisito carattere di definitività del provvedimento conclusivo del giudizio nel quale si è verificata la violazione del termine ragionevole di durata, a seguito dello spirare, in conseguenza della notificazione, del termine di cui all’art. 325 c.p.c.

3.2.2. Sospensione del processo.

In tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, la previsione di cui all’art. 2, comma 2-quater, della l. n. 89 del 2001, secondo cui, ai fini del computo della durata del giudizio presupposto, non si tiene conto dei tempi in cui il processo è sospeso, deve ritenersi operante non solo quando sia stato pronunciato un formale provvedimento di sospensione, ma anche quando, cd. “sospensione impropria” in senso lato, lo stesso abbia subito un periodo di stasi dovendo il giudice applicare una norma per la quale altro giudice abbia sollevato una questione di legittimità costituzionale ovvero - come nella specie - disposto rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia U.E., trattandosi di circostanza essenziale da valutare sotto il profilo del criterio della “complessità”, di cui all’art. 2 cit., tale da consentire una deroga ai parametri medi di ragionevole durata (Sez. 6-2, n. 17686/2021, Scarpa, Rv. 661666-01).

In precedenza, in senso difforme, Sez. 6-2, n. 00839/2017, Petitti, Rv. 642558-01 secondo cui la previsione di cui all’art. 2, comma 2-quater, della l. n. 89 del 2001, in base alla quale dalla durata del giudizio presupposto deve essere sottratto il lasso di tempo durante il quale questo è rimasto sospeso per essere stata sollevata una questione di legittimità costituzionale, non è estensibile, puramente e semplicemente, ai casi in cui una siffatta questione, sollevata in altro giudizio, sia ritenuta rilevante nel giudizio presupposto, occorrendo, all’uopo, che venga disposta la sospensione di quest’ultimo.

3.2.3. Termine per la proposizione del ricorso e procedimento di correzione dell’errore materiale.

Il procedimento di correzione dell’errore materiale, proponibile senza limiti di tempo, rileva ai fini della valutazione del superamento del termine previsto dalla legge, ma non ai fini dell’individuazione del dies a quo del termine perentorio di sei mesi per la proposizione del ricorso ex art. 3 della l. n. 89 del 2001, il quale, pure in pendenza di un procedimento di correzione dell’errore materiale, decorre dal momento della definizione del giudizio presupposto (Sez. 6-2, n. 38473/2021, Oliva, Rv. 663255-01).

3.2.4. Impugnazioni.

Nel procedimento di equa riparazione, il termine per proporre impugnazione non va considerato ai fini del computo del termine di ragionevole durata, trattandosi di un lasso di tempo di stasi processuale nel quale nessun giudice è incaricato della trattazione del processo, come tale non addebitabile all’amministrazione della giustizia, come si ricava anche dall’art. 2, comma 2 quater, della l. n. 89 del 2001, introdotto dal d.l. n. 83/2012, conv., con modif., dalla l. n. 134/2012, il quale esprime un chiaro elemento interpretativo della ratio della legge sull’equa riparazione (Sez. 2, n. 23282/2021, Besso Marcheis, Rv. 662143-01).

La rinuncia al ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 390 c.p.c. è assimilabile alla rinuncia agli atti del giudizio ex art. 306 c.p.c., della quale adatta la regola al giudizio di legittimità, con conseguente estensione a siffatta ipotesi della presunzione relativa di non spettanza dell’indennizzo per rinuncia o inattività delle parti, ex art. 2, comma 2-sexies, lett. c), della l. n. 89 del 2001, come introdotto dalla l. n. 208 del 2015, il cui superamento richiede la dimostrazione specifica del “patema d’animo” sofferto a causa e per effetto dell’irragionevole protrazione del giudizio presupposto, sino al deposito del provvedimento di estinzione ex art. 391 c.p.c. (Sez. 2, n. 07041/2021, Abete, Rv. 660828-01).

In caso di irragionevole durata del giudizio di appello della Corte dei conti, la domanda di equa riparazione, ai sensi dell’art. 4 della l. n. 89 del 2001, nel testo originario, applicabile ratione temporis), può essere proposta anche all’esito del giudizio di revocazione ordinaria, sempre che questo sia stato introdotto entro sei mesi dal deposito della sentenza che ha concluso il giudizio presupposto, essendo irrilevante, perché assolutamente straordinario, il termine di tre anni previsto per la revocazione dall’art. 68 del r.d. n. 1214 del 1934 (Sez. 6-2, n. 26854/2021, Abete, Rv. 662372-01; Conformi: Sez. 6-2, n. 25179/2015, Petitti, Rv. 637850-01).

3.2.5. Accoglimento parziale: conseguenze.

È stato confermato che se il ricorso di equa riparazione per durata irragionevole del processo è accolto solo in parte e il ricorrente propone opposizione al collegio, questo, ove rigetti l’opposizione, non può condannare l’opponente al pagamento della sanzione di cui all’art. 5-quater della legge 24 marzo 2001, n. 89, atteso che tale sanzione può essere applicata solo quando la domanda di equa riparazione è dichiarata inammissibile o manifestamente infondata (Sez. 6-2, n. 01832/2021, Abete, Rv. 660256-01. In precedenza, Sez. 6-2, n. 19346/2015, Manna, Rv. 636548-01; Sez. 6-2, n. 05122/2015, Petitti, Rv. 634779-01).

Ove la domanda d’indennizzo sia accolta per un importo inferiore al richiesto, in rapporto a una minore durata eccedente il termine ragionevole rispetto a quella pretesa dall’attore, il giudice di merito, come in ogni altro caso di accoglimento parziale di una domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro, ossia di accoglimento per un importo inferiore, può ravvisare una soccombenza reciproca, agli effetti dell’art. 92, comma 2, c.p.c. e, perciò, compensare le spese di lite sulla base di una valutazione discrezionale, fondata sul principio di causalità, che resta sottratta al sindacato di legittimità (Sez. 6-2, n. 18183/2021, Scarpa, Rv. 661665-01).

3.2.6. Successione ed eredità.

Qualora la parte del giudizio presupposto sia deceduta, l’erede ha diritto a conseguire, pro quota e iure successionis, l’indennizzo maturato dal de cuius per l’eccessiva protrazione del giudizio, nonché, iure proprio, l’indennizzo dovuto per l’ulteriore durata della medesima procedura, con decorrenza dal momento in cui abbia assunto formalmente la qualità di parte giacché, deceduta quella originaria, fin quando gli eredi non abbiano ritenuto di costituirsi ovvero non siano stati chiamati in causa, pur esistendo un processo difetta la parte che dalla sua irragionevole durata possa ricevere nocumento (Sez. 6-2, n. 17685/2021, Scarpa, Rv. 661727-01).

L’indennizzo compete in proprio anche alla parte erede costituitasi in giudizio e per il tempo in cui si è costituita (Sez. 2, n. 01607/2021, Oricchio, Rv. 660156-01).

3.2.7. Irragionevole durata delle procedure esecutive.

Riguardo alle procedure esecutive, la S.C. ha ribadito che la presunzione di danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo esecutivo non opera per l’esecutato, poiché egli dall’esito del processo riceve un danno giusto. Pertanto, ai fini dell’equa riparazione da durata irragionevole, l’esecutato ha l’onere di provare uno specifico interesse alla celerità dell’espropriazione, dimostrando che l’attivo pignorato o pignorabile fosse ab origine tale da consentire il pagamento delle spese esecutive e da soddisfare tutti i creditori e che spese ed accessori sono lievitati a causa dei tempi processuali in maniera da azzerare o ridurre l’ipotizzabile residuo attivo o la restante garanzia generica, altrimenti capiente (Sez. 2, n. 00523/2021, Varrone, Rv. 660121-01. In senso conforme, Sez. 6-2, n. 14382/2015, Manna, Rv. 635761-01).

Il debitore esecutato rimasto inattivo non riporta, di regola, effetti negativi per l’irragionevole durata del processo esecutivo presupposto, preordinato al soddisfacimento dell’esclusivo interesse del creditore e, pertanto, non potendo operare nei suoi confronti la presunzione di danno non patrimoniale derivante dalla pendenza del processo, grava sullo stesso l’onere di allegare uno specifico interesse ad una celere espropriazione e di dimostrarne l’esistenza, nel rispetto degli ordinari criteri di riparto dell’onere della prova (Sez. 6-2, n. 35239/2021, Grasso Giuseppe., Rv. 662832-01).

L’impossibilità di far valere gli effetti di una condanna, emessa a seguito di un processo durato troppo a lungo, per essere stato il patrimonio del debitore sottoposto, nel frattempo, a sequestro, non comporta, di per sé, la risarcibilità del danno patrimoniale subito dal creditore, dovendo quest’ultimo dimostrare che, anteriormente all’adozione di tale misura, il patrimonio del debitore era in grado di poter far fronte alle pretese scaturenti dalla sentenza di condanna (Sez. 6-2, n. 25960/2021, Falaschi, Rv. 662295-01).

Il diritto alla trattazione delle cause entro un termine ragionevole è riconosciuto dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, specificamente richiamato dall’art. 2 della l. n. 89 del 2001, solo con riferimento alle cause “proprie” e, quindi, esclusivamente in favore delle “parti” del processo - sia esso di cognizione o di esecuzione - nel cui ambito si assume avvenuta la violazione e non anche di soggetti che siano ad esso rimasti estranei, essendo irrilevante, ai fini della legittimazione, che questi ultimi possano aver patito indirettamente dei danni dal protrarsi del processo (Sez. 6-2, n. 02310/2021, Oliva, Rv. 660323-01. In senso conforme, Sez. 1, n. 07141/2006, Salvago, Rv. 589512-01).

La S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dell’indennizzo per la durata irragionevole di un procedimento di esecuzione immobiliare, proposta dal fideiussore del debitore principale esecutato, che non aveva preso parte al giudizio presupposto.

3.2.8. Irragionevole durata delle procedure concorsuali.

La lettura comparata del comma 1-bis dell’art. 2-bis e del comma 2-bis dell’art. 2 della l. n. 89 del 2001, impone di attribuire alle parole “processo” e “procedura concorsuale” un differente significato, tale da escludere che la prima disposizione - secondo cui “la somma può essere diminuita fino al 20 per cento quando le parti del processo presupposto sono più di dieci e fino al 40 per cento quando le parti del processo sono più di cinquanta” - in quanto espressamente riferita al “processo”, possa essere estesa alla “procedura concorsuale”, come anche confermato dall’interpretazione sistematica di tali norme, giacché la presenza di più di dieci o addirittura cinquanta parti, mentre nel processo di cognizione costituisce evenienza infrequente, se non rara, nelle procedure concorsuali, invece, la compresenza di una pluralità di creditori, costituisce l’ipotesi fisiologica e ordinaria, con la conseguenza che l’applicazione ad esse di tale disposizione produrrebbe un effetto distorsivo di implicita e casuale, e perciò irragionevole) penalizzazione del cittadino ammesso al passivo di una procedura concorsuale rispetto a quello che partecipi ad un ordinario processo di cognizione (Sez. 2, n. 25181/2021, Cosentino, Rv. 662165-02).

L’ammissione del creditore al passivo fallimentare consente al giudice, una volta accertata l’irragionevole durata del processo e la sua entità secondo le norme della l. n. 89 del 2001, di ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che esso sia stato subito dal ricorrente, stante la valutazione positiva della fondatezza delle ragioni di credito insita nel provvedimento emesso dagli organi della procedura fallimentare, senza che rilevi, in senso contrario, l’art. 2, comma 2-quinquies, lett. a), della l. n. 89 del 2001, introdotto dalla l. n. 208 del 2015, secondo cui non è riconosciuto alcun indennizzo alla parte consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, atteso che la posizione del creditore, insinuato al passivo e rimasto insoddisfatto per l’incapienza dell’attivo, non è assimilabile a quella della parte avente pretese, “ab origine” o per fatti sopravvenuti, infondate (Sez. 6-2, n. 19555/2021, Criscuolo, Rv. 661731-01).

La determinazione dell’ammontare massimo di indennizzo concedibile non può superare il valore del giudizio presupposto, sicché, quando questo sia una procedura fallimentare, deve tenersi conto del quantum di credito non soddisfatto all’esito del decorso del periodo di ragionevole durata e, ulteriormente, dei pagamenti effettuati in attuazione dei piani di riparto intervenuti nel corso della procedura, dovendosi evitare che l’indennizzo sia superiore al danno (Sez. 6-2, n. 26858/2021, Abete, Rv. 662374-01).

Nel caso del giudizio di verificazione dello stato passivo, occorre aver riguardo al credito azionato dal ricorrente ovvero, se inferiore, alla somma per la quale il creditore, all’esito del giudizio stesso, risulti essere stato ammesso, a nulla rilevando, almeno a tal fine, la somma per la quale il creditore ammesso risulti, poi, iscritto al riparto (Sez. 2, n. 25181/2021, Cosentino, Rv. 662165-01).

3.2.9. Irragionevole durata del processo amministrativo.

Sulla irragionevole durata del processo amministrativo, Sez. 2, n. 07040/2021, Abete, Rv. 660787-01 ha ritenuto che la definizione del giudizio presupposto con una declaratoria di improcedibilità del ricorso per “sopravvenuta carenza di interesse alla decisione della causa” configura un’ipotesi assimilabile alla rinuncia disciplinata dall’art. 84 del c.p.a., con conseguente operatività della presunzione relativa di non spettanza dell’indennizzo per rinuncia o inattività delle parti, ex art. 2, comma 2-sexies, lett. c), della l. n. 89 del 2001, come introdotto dalla l. 208 del 2015, il cui superamento richiede l’allegazione e la prova, specificamente, della sussistenza di un pregiudizio, sub specie di “patema d’animo”, decorso il periodo di ragionevole durata del giudizio presupposto.

Nel caso di processo amministrativo conclusosi con decreto di perenzione, il dies a quo di decorrenza del termine per proporre la domanda di indennizzo coincide con la data di passaggio in giudicato formale di detto decreto e non con la data della sua pubblicazione, atteso che nelle more del termine di impugnazione esso non può dirsi definitivo, permanendo in esistenza il rapporto giuridico processuale instaurato (Sez. 2, n. 21749/2021, Cosentino, Rv. 662020-01).

In relazione all’irragionevole durata dei processi amministrativi già pendenti alla data del 16 settembre 2010 e non soggetti all’art. 2, comma 1, della l. n. 89 del 2001, nella formulazione derivante dalle modifiche introdotte dalla l. n. 208 del 2015, a seguito della sentenza n. 34 del 2019 della Corte Costituzionale, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, come novellato dal d.lgs. n. 104 del 2010, la presentazione dell’istanza di prelievo nel giudizio presupposto non rappresenta più una condizione di proponibilità della domanda di equa riparazione, ma può costituire elemento indiziante di una sopravvenuta carenza o di non serietà dell’interesse della parte alla decisione del ricorso, potendo assumere rilievo ai fini della quantificazione dell’indennizzo (Sez. 6-2, n. 31329/2021, Falaschi, Rv. 662806-01; conforme a Sez. 2, n. 21709/2019, Casadonte, Rv. 655234-01).

La disposizione di cui all’art. 2, comma 2 sexies, lett. e), della l. n. 89 del 2001, introdotta dalla l. n. 108/2015, che collega alla mancata presentazione della domanda di riunione nel giudizio amministrativo presupposto una presunzione di insussistenza del danno da durata non ragionevole del giudizio, è volta a dissuadere le parti dall’adozione di tattiche processuali dilatorie o defatigatorie; è, pertanto, onere del giudice di merito verificare se la mancata richiesta di un formale provvedimento di riunione abbia effettivamente rallentato lo svolgimento dei giudizi stessi (Sez. 2, n. 24913/2021, Cosentino, Rv. 662189-01). Nella specie la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che, nel rigettare una domanda di equo indennizzo per irragionevole durata di due giudizi amministrativi tra loro connessi, aveva omesso di valutare che questi, benché mai formalmente riuniti, erano stati sostanzialmente trattati in maniera congiunta.

3.2.10. Successioni di leggi nel tempo.

La nuova disciplina sancita dall’art. 2, comma 2-sexies, l. n. 89 del 2001, introdotta dalla l. n. 208 del 2015, ha inciso, in particolare, sul riparto dell’onere della prova in merito al presupposto della sussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, introducendo, in favore dell’Amministrazione, una presunzione iuris tantum di disinteresse della parte a coltivare il processo (Sez. 6-2, n. 32027/2021, Criscuolo, Rv. 662811-01). Pertanto, tale disposizione non può trovare applicazione nei processi di equa riparazione già iniziati al momento - 1 gennaio 2016 - della sua entrata in vigore, in quanto la parte verrebbe altrimenti gravata da un onere probatorio al quale, al momento dell’introduzione della lite, non era tenuta.

La sospensione dei termini perentori processuali, prevista dall’art. 49, commi 4 e 9-ter, del d.l. n. 189 del 2016, conv. con modif. dalla l. n. 229 del 2016, in favore degli avvocati che abbiano il proprio studio in uno dei comuni colpiti dal sisma/26 e 30 ottobre 2016 ed indicati nell’allegato 2 del citato d.l., opera fino al 31 marzo 2017, a condizione che l’atto del cui compimento il difensore sia stato officiato potesse essere ancora compiuto al momento del conferimento dell’incarico; diversamente opinando, infatti, si attribuirebbe alla parte, che abbia lasciato scadere un termine processuale, la possibilità di eludere la conseguente decadenza nominando un difensore avente lo studio in uno dei comuni sopra indicati, in contrasto con i principi generali delle decadenze processuali, oltre che con la ratio della disposizione citata, volta ad evitare che i problemi organizzativi derivanti dagli eventi sismici pregiudichino la possibilità per i predetti professionisti di adempiere ai propri doveri professionali nei confronti dei loro assistiti (Sez. 2, n. 22462/2021, Cosentino, Rv. 662063-01). Nella specie la S.C. ha confermato la pronuncia di merito, che aveva respinto la domanda di equa riparazione, per non avere i ricorrenti dimostrato di avere conferito l’incarico al difensore in epoca anteriore al 1° marzo 2017, data di scadenza del termine di cui all’art. 4 della l. n. 89 del 2001.

3.3. Il diritto di famiglia.

Sulle tematiche attinenti al diritto di famiglia si segnalano due pronunce in tema di accertamento dello stato di abbandono e di adozione del minore.

Le Sezioni Unite, in particolare, hanno statuito che in forza dell’art. 8 della CEDU, dell’art. 7 della Carta di Nizza e dell’art. 18 della Convenzione di Istanbul, la pronuncia sullo stato di abbandono del minore, ai sensi dell’art. 8 della l. n. 184 del 1983, non può essere fondata esclusivamente sullo stato di sudditanza e di assoggettamento fisico e psicologico in cui versi uno dei genitori, per effetto delle reiterate e gravi violenze subite dall’altro (Sez. U, n. 35110/2021, Valitutti, Rv. 662942-04).

Sez. 1, n. 01476/2021, Valitutti, Rv. 660432-01 ha confermato da parte sua che il giudice chiamato a decidere sulla dichiarazione di adottabilità del minore in stato di abbandono, in applicazione degli artt. 8 CEDU, 30 Cost., 1 l. n. 184 del 1983, e 315 bis, comma 2, c.c., deve accertare l’interesse del medesimo a conservare il legame con i suoi genitori biologici, pur se deficitari nelle loro capacità genitoriali, costituendo l’adozione legittimante una extrema ratio, cui può pervenirsi nel solo caso in cui non si ravvisi tale interesse; in questo contesto il modello di adozione in casi particolari di cui all’art. 44, lett. d), della l. n. 184 del 1983 può, ricorrendone i presupposti, costituire una forma di cd. adozione mite, idonea a non recidere del tutto nell’interesse del minore il rapporto tra quest’ultimo e la famiglia di origine (in precedenza, in senso conforme, Sez. 1, n. 03643/2020, Acierno, Rv. 657069-01).

3.4. Il cittadino straniero.

Diverse sono le pronunce che hanno interessato la condizione dello straniero, soprattutto in relazione ai temi della protezione internazionale.

Sull’omessa certificazione della data di rilascio della procura alle liti in relazione al ricorso per cassazione, con particolare riferimento al contenzioso in tema di protezione internazionale e asilo, le Sezioni Unite hanno confermato che l’art. 35 bis, comma 13 del d.lgs. n. 25 del 2008, nella parte in cui prevede che “la procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione deve essere conferita, a pena di inammissibilità del ricorso, in data successiva alla comunicazione del decreto impugnato” e che “a tal fine il difensore certifica la data del rilascio in suo favore della procura medesima” richiede, quale elemento di specialità rispetto alle ordinarie ipotesi di rilascio della procura speciale, regolate dagli artt. 83 e 365 c.p.c., il requisito della posteriorità della data rispetto alla comunicazione del provvedimento impugnato, prevedendo una speciale ipotesi di “inammissibilità del ricorso” nel caso di mancata certificazione della data di rilascio della procura in suo favore da parte del difensore. Ne consegue che tale procura speciale deve contenere in modo esplicito l’indicazione della data successiva alla comunicazione del provvedimento impugnato e richiede che il difensore certifichi, anche solo con un’unica sottoscrizione, sia la data della procura successiva alla comunicazione, che l’autenticità della firma del conferente (Sez. U, n. 15177/2021, Conti, Rv. 661387-01. In senso conforme, in precedenza, Sez. 1, n. 15211/2020, Oliva, Rv. 658251-01. Difforme: Sez. 1, n. 23777/2011, Forte, Rv. 620654-01)

È stato escluso che la norma così interpretata possa considerarsi in contrasto sia della disciplina di diritto dell’Unione, in relazione al principio di equivalenza e di effettività, considerato che non vi è alcuna materia regolata dal diritto interno, omogenea a quella della protezione internazionale e dell’asilo, che goda di una tutela maggiormente protettiva con riguardo alla proposizione del ricorso per cassazione, e che il principio di effettività deve ritenersi limitato al giudizio di primo grado; sia dell’art. 6 CEDU, nella parte in cui riconosce il diritto all’accesso alla giustizia, valutato anche in combinato disposto con l’art. 14 che stabilisce il divieto di non discriminazione, poiché la norma persegue l’interesse ad un corretto e leale esercizio dell’amministrazione della giustizia, anche in relazione alle ripercussioni sul complessivo funzionamento della giurisdizione ordinaria di ultima istanza, interessi che il legislatore può legittimamente valorizzare, senza violare il principio di non discriminazione, poiché la norma riguarda solo coloro che, trovandosi in una posizione di incerto collegamento con il territorio nazionale, costituiscono un gruppo nettamente distinto rispetto a quello che ha invece con il nostro paese una stabile relazione territoriale. Al tempo stesso, è stata esclusa ogni lesione degli artt. 3 e 24 Cost., quanto al principio di eguaglianza ed al diritto di difesa, considerato che la specifica regola processuale non ha come giustificazione la condizione di richiedente protezione internazionale, quanto, piuttosto, la specificità del ricorso per cassazione rispetto alle materie disciplinate dal d.lgs. n. 25 del 2008 in relazione alle quali il legislatore ordinario ha un’ampia discrezionalità, maggiormente accentuata nella disciplina degli istituti processuali dove vi è l’esigenza della celere definizione delle decisioni.

Sulla competenza all’esame della domanda di protezione internazionale, l’individuazione dello Stato competente spetta, in base all’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, all’Unità Dublino, operante presso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno, ma la decisione sul trasferimento presso altro Stato membro U.E. in caso di precedente domanda ivi presentata è comunque soggetta al vaglio del giudice ordinario, che ha il compito di accertare l’inesistenza di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti nello Stato membro designato, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 4 della Carta di Nizza, nonché dell’art. 3 della CEDU (Sez. L, n. 18621/2021, Pagetta, Rv. 661651-01 che ha confermato il provvedimento con il quale il Tribunale aveva annullato il provvedimento di trasferimento in Bulgaria del richiedente la protezione internazionale per ragionevoli dubbi sul regime di accoglienza dei richiedenti asilo).

Si è altresì confermato che l’interpretazione costituzionalmente orientata del comma 3, coordinato con il comma 1, dell’art. 4 del d.l. n. 13 del 2007, conv. nella l. n. 46 del 2017, deve tener conto della posizione strutturalmente svantaggiata del cittadino straniero in relazione all’esercizio del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost., nonché dell’obbligo, imposto dall’art. 13 CEDU e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., di garantire un ricorso effettivo “ad ogni persona”, sicché la competenza territoriale a decidere sull’impugnazione dei provvedimenti assunti dalla c.d. Unità di Dublino, si radica attraverso il collegamento con la struttura di accoglienza del ricorrente, secondo un criterio “di prossimità”, nella sezione specializzata in materia di immigrazione del tribunale nella cui circoscrizione ha sede la struttura o il centro che ospita il ricorrente, anche nell’ipotesi in cui questi sia trattenuto in una struttura di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998, senza che assuma rilevanza alcuna la qualificazione “ordinaria” ovvero “straordinaria” della medesima (Sez. 6-1, n. 05097/2021, Acierno, Rv. 660742-01. In senso conforme, Sez. 6-1, n. 31127/2019, Acierno, Rv. 656292-01).

Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, Sez. U, n. 24413/2021, Cosentino, Rv. 662246-01 ha chiarito che in base alla normativa del testo unico sull’immigrazione anteriore alle modifiche introdotte dal d.l. n. 113 del 2018, occorre operare una valutazione comparativa tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine e la situazione d’integrazione raggiunta in Italia, attribuendo alla condizione del richiedente nel paese di provenienza un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nella società italiana, fermo restando che situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel paese originario possono fondare il diritto alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione in Italia. Secondo l’apprezzamento compiuto, qualora si accerti che tale livello è stato raggiunto e che il ritorno nel paese d’origine renda probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare tali da recare un “vulnus” al diritto riconosciuto dall’art. 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, per riconoscere il permesso di soggiorno.

Sez. 1, n. 34095/2021, Fidanzia, Rv. 663109-01 ha cassato con rinvio la decisione che non aveva attribuito alcuna rilevanza al percorso di integrazione compiuto dal cittadino straniero, evincibile dalla frequentazione di corsi in lingua italiano e dal reperimento di un’occupazione lavorativa con contratto a tempo determinato, né aveva valutato la causa di vulnerabilità da quest’ultimo dedotta, riconducibile alla mancanza di tutela dei lavoratori in patria. La valutazione comparativa tra la condizione del richiedente nel paese di accoglienza e in quello di origine deve essere centrata sul rispetto dei diritti fondamentali della persona, come definiti dalle Carte sovranazionali (in primo luogo dall’art. 8 CEDU) e dalla Costituzione (in particolare, dagli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 Cost.), sussistendo, i requisiti per il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno previsto dall’art. 5, comma 6, d.lgs. n. 286 del 1998 qualora, accertato il raggiungimento di un apprezzabile livello di integrazione da parte del cittadino straniero, il ritorno nel paese d’origine renda probabile un significativo scadimento delle sue condizioni di vita privata e/o familiare sì da recare un “vulnus” al diritto riconosciuto dall’art. 8 CEDU (in senso conforme, Sez. U, n. 24413/2021, Cosentino, Rv. 662246-02).

La condizione del richiedente che conviva in Italia con moglie e figlio minore rientra tra i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, non valendo ad escluderlo il disposto dell’art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, quando uno dei fattori valorizzati dal richiedente sia proprio il legame familiare con la prole, tenuto conto della elasticità dei parametri entro i quali si muove la protezione umanitaria e che, ai sensi dell’art. 8 CEDU, la vita familiare va intesa come diritto di vivere insieme affinché i relativi rapporti possano svilupparsi normalmente (Sez. 1, n. 01347/2021, Caradonna, Rv. 660369-01 che ha cassato la pronuncia del tribunale che aveva escluso la configurabilità della protezione umanitaria, senza avere valutato la circostanza, riferita dal richiedente in sede di audizione, di essere convivente con moglie e figlio in un centro di accoglienza).

La circostanza per cui il richiedente asilo viva in Italia in compagnia del coniuge e di un figlio in tenera età giustifica il riconoscimento della protezione stessa al fine di garantire l’unità familiare, e ciò anche a prescindere dalla credibilità della vicenda narrata dal medesimo richiedente, occorrendo procedere da un’ottica costituzionalmente orientata di assistenza dei figli minori - cui va riconosciuto il diritto ad essere educati ed accuditi all’interno del proprio nucleo familiare onde consentir loro il corretto sviluppo della propria personalità - nonché alla luce del principio sovranazionale di cui all’art. 8 CEDU, dovendo riconoscersi alla famiglia la più ampia protezione e assistenza, specie nel momento della sua formazione ed evoluzione a seguito della nascita di figli, senza che tali principi soffrano eccezioni rappresentate dalla condizione di cittadini o di stranieri, trattandosi di diritti umani fondamentali cui può derogarsi soltanto in presenza di specifiche, motivate e gravi ragioni (Sez. 3, n. 32237/2021, Travaglino, Rv. 662954-01). In applicazione di tale principio è stata cassata la decisione con cui il tribunale, ritenendo non credibile la vicenda narrata dal richiedente, aveva negato anche il permesso di soggiorno per motivi umanitari, senza tener conto che lo stesso richiedente, cittadino nigeriano, viveva in Italia in compagnia del coniuge e di un figlio minore in tenera età, ed era in attesa della nascita di un secondo figlio).

Sull’accertamento delle condizioni di vulnerabilità, è stato ribadito che nella comparazione da effettuare tra la situazione di integrazione raggiunta in Italia dal richiedente asilo e la condizione in cui si troverebbe nel paese di origine, avuto riguardo, in particolare, al profilo dell’eventuale violazione dell’art. 8 CEDU, non può omettersi di considerare la circostanza relativa alla stabile relazione affettiva instaurata con una donna italiana ancorché non convivente (Sez. 1, n. 34096/2021, Fidanzia, Rv. 663271-01).

Sul ricongiungimento familiare dello straniero, al quale sia stato riconosciuto lo status di rifugiato politico, le due ipotesi alternativamente previste dall’art. 29, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 286 del 1998, lette alla luce dell’art. 8 CEDU e secondo i principi contenuti nella direttiva 2003/86/CE, devono essere interpretate nel senso che, dove la norma prevede che lo straniero possa richiedere il ricongiungimento “di genitori a carico, qualora non abbiano altri figli nel paese di origine o di provenienza”, debba intendersi che tali figli con loro conviventi siano in grado di provvedere al loro sostentamento economico, e che ove la norma prevede la possibilità di richiedere il ricongiungimento per i “genitori ultrasessantacinquenni qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro sostentamento per documentati gravi motivi di salute”, debba intendersi anche “quando non siano a carico del rifugiato”, dovendosi ritenere che il principio generale del diritto al ricongiungimento familiare sia prevalente sempre che non sussistano le ragioni impeditive di cui all’art. 6 della direttiva 2003/86/CE, legate a ragioni di ordine pubblico, sicurezza pubblica o sanità pubblica (Sez. 3, n. 20127/2021, Di Florio, Rv. 661981-02). In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la pronuncia della Corte d’appello che, in riforma di quella del tribunale, aveva confermato la decisione dell’ambasciata italiana in Pakistan che aveva negato il visto di ingresso in Italia alla madre sessantunenne, residente in Pakistan, di un rifugiato politico sulla base della convivenza della donna con altro figlio, studente ed economicamente non autosufficiente.

Sempre in tema di status di rifugiato, e avuto riguardo alla libertà religiosa dello straniero, l’art. 2, comma 2, lett. e), del d.lgs. n. 251 del 2007, nella parte in cui definisce “rifugiato” il cittadino straniero il quale, per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di religione, si trovi fuori del territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non possa o, a causa di tale timore, non voglia avvalersi della protezione di tale Paese, deve interpretarsi nel senso che il timore va valutato sia alla luce del contenuto della legislazione, sia della sua applicazione concreta da parte del Paese di origine, circa il rispetto dei limiti “interni” alla libertà religiosa, che emergono dall’art. 19 Cost. e dell’art. 9, par. 2 CEDU, dovendo il giudice valutare se l’ingerenza da parte dello Stato di origine nella libertà del ricorrente di manifestare il proprio culto sia prevista dalla legge, sia diretta a perseguire uno o più fini legittimi e costituisca una misura necessaria e proporzionata al perseguimento di tali fini (Sez. 1, n. 35102/2021, Gori, Rv. 663277-01). Nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che aveva escluso l’esistenza di una persecuzione per motivi religiosi di una cittadina cinese aderente alla chiesa domestica “Yin Xin Cheng Yi” di fede cristiana, per il solo fatto che si trattava di un culto nei confronti del quale vi era una certa tolleranza da parte dello Stato.

Riguardo agli atti oggettivamente lesivi dei diritti fondamentali di libertà religiosa dello straniero sanciti dall’art. 19 Cost., dall’art. 9 CEDU e dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, riconducibili all’ambito dei trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 14, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, qualora gli stessi siamo stati accertati, non può essere negata al richiedente asilo la protezione sussidiaria con la pretesa che, una volta tornato nel Paese di origine, egli rinunci al compimento di atti religiosi che lo espongano al rischio effettivo di persecuzione, secondo il culto cui aderisce, previa adesione a un culto riconosciuto dallo Stato (Sez. 1, n. 35102/2021, Gori, Rv. 663277-02).

Ai fini del rilascio dell’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia dei familiari del minore, ex art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, il giudizio di bilanciamento tra l’interesse di quest’ultimo e quello di rilievo pubblicistico alla sicurezza nazionale, può essere effettuato solo una volta che sia stata valutata la situazione attuale del minore, verificando se sussista il pericolo di un suo grave disagio psico-fisico derivante dal rimpatrio suo o del familiare, potendosi denegare l’autorizzazione solo nel caso in cui l’interesse del minore, pur prioritario nella considerazione della norma sia nel caso concreto recessivo, non avendo esso carattere assoluto come chiarito dalla CEDU nell’interpretazione dell’art. 8 della Convenzione (Sez. 1, n. 10849/2021, Acierno, Rv. 661153-01 ha cassato la sentenza di merito che aveva rigettato l’autorizzazione, motivandola con considerazioni generali relative alla sicurezza pubblica e alle politiche migratorie, estrinseche alla valutazione del pregiudizio che il minore avrebbe potuto subire a seguito del rimpatrio proprio o dei genitori, limitandosi a negare l’esistenza di siffatto pregiudizio perché il nucleo familiare sarebbe comunque rimasto unito).

3.5. Il divieto di trattamenti inumani nei confronti di soggetti detenuti o internati.

Sul risarcimento del danno da inumana detenzione ex art. 35-ter, comma 3, della l. n. 354 del 1975, è stato confermato che il Ministero della giustizia, convenuto dal detenuto per il risarcimento dei danni patiti a causa delle condizioni di detenzione, non può opporre in compensazione il credito maturato verso il medesimo detenuto per le spese di mantenimento fintanto che non si sia consumata la facoltà dell’interessato di chiedere la remissione del debito, posto che prima della definizione del procedimento previsto dall’art. 6 del d.P.R. n. 115 del 2002, il controcredito della P.A. non è certo ed esigibile (Sez. 1, n. 05341/2021, Tricomi L., Rv. 660574-01. In precedenza, in senso conforme, Sez. 1, n. 17277/2018, Di Marzio, Rv. 649515-01).

Il termine semestrale di decadenza per proporre l’azione ex art. 35-ter della l. n. 354 del 1975 decorre dalla cessazione dell’espiazione della pena detentiva, non assumendo rilevanza le modalità di esecuzione della stessa (Sez. 3, n. 10203/2021, Olivieri, Rv. 661242-01). Nella specie, la S.C. ha ritenuto esente da critiche la sentenza che aveva reputato tempestiva l’azione proposta entro il termine di sei mesi dalla cessazione della misura alternativa della detenzione domiciliare, in corso alla data del 28 giugno 2014, giorno di entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2014.

3.6. Fallimento ed altre procedure concorsuali.

In ambito fallimentare, la disciplina in base alla quale le somme rivenienti dalla liquidazione dell’attivo ed assegnate, in sede di riparto, ai creditori irreperibili, sono versate, se da questi non reclamate, al Fondo Unico Giustizia, non vìola alcuna disposizione costituzionale né si pone in contrasto con l’art. 1 del Primo Protocollo aggiuntivo alla CEDU, in quanto tali somme, dopo l’assegnazione, fuoriescono dalla disponibilità del fallimento e non possono formare oggetto di alcun diritto né dei creditori rimasti insoddisfatti né, a maggior ragione, del debitore fallito o dell’assuntore del concordato fallimentare (Sez. 6-1, n. 36050/2021, Ferro, Rv. 663315-01).

3.7. Il diritto tributario.

Ulteriore settore in cui hanno assunto rilievo i principi della CEDU è quello tributario.

Sulle sanzioni tributarie, Sez. 5, n. 37366/2021, D’Aquino, Rv. 663144-01 ribadisce che il d.lgs. n. 472 del 1997 e il d.lgs. n. 471 del 1997 affermano la loro natura amministrativa, considerato che esse hanno ad oggetto una obbligazione, di carattere civile, che spiega efficacia sul patrimonio del trasgressore obbligandolo al pagamento di una somma di denaro.

In tal senso, non può fondarsi l’eventuale natura penale di tali sanzioni in ragione dell’entità delle stesse in concreto irrogata, assumendo rilievo, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il massimo edittale applicabile a priori e la funzione afflittiva e deterrente della sanzione rispetto a quella compensativa del danno erariale. Al tempo stesso, la S.C. esclude che sia possibile dedurre dall’art. 4 del Protocollo 7 CEDU un divieto assoluto per gli Stati di imporre una sanzione amministrativa, ancorché qualificabile come “sostanzialmente penale”, per quei fatti di evasione fiscale in cui è possibile, altresì, perseguire e condannare penalmente il soggetto, in relazione a un elemento ulteriore rispetto al mero mancato pagamento del tributo, come una condotta fraudolenta, alla quale non potrebbe dare risposta sanzionatoria adeguata la mera procedura amministrativa.

La Corte ha ritenuto così infondata la censura circa la natura penale delle sanzioni irrogate ad una società per l’utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti dedotta in ragione dell’entità della sanzione conseguente al cumulo giuridico derivante da una pluralità di violazioni, peraltro non analiticamente indicate nel ricorso (in precedenza, Sez. 5, n. 21694 /2020, Fuochi Tinarelli, Rv. 659071-07 aveva ritenuto irrilevante e manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’impossibilità di instaurare o di proseguire un procedimento amministrativo volto all’irrogazione di una sanzione penale formalmente amministrativa ma avente natura sostanzialmente penale, per violazione dell’art. 117 Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU, in quanto il rapporto tra il suindicato procedimento amministrativo ed il processo penale trova una specifica disciplina negli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 74 del 2000).

Va segnalato che in tema di imposta di registro e agevolazione cd. “prima casa” (art. 1, comma 1, della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986), in contrasto con precedente orientamento, Sez. 5, n. 35086/2021, Dell’Orfano, Rv. 663011-01 ha ritenuto che il trasferimento parziale, prima del decorso del termine di cinque anni, dell’immobile acquistato con le predette agevolazioni comporta la revoca parziale (per la parte di prezzo corrispondente alla porzione di immobile trasferito) e non totale del beneficio, rispondendo tale soluzione interpretativa al canone di proporzionalità fra interessi del proprietario e ragion fiscale sotteso alle limitazioni al diritto di proprietà garantito dall’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU.

In senso difforme, in precedenza, Sez. 5, n. 29153/2018, Stalla, Rv. 651418-01 aveva affermato che il diritto all’agevolazione cd. prima casa presuppone che il trasferimento nel triennio abbia ad oggetto l’intero compendio immobiliare acquistato in regime agevolato, e non una parte soltanto di esso, salva l’allegazione e la dimostrazione di impedimento al trasferimento integrale per causa di forza maggiore, sicché, in mancanza di tale prova, la cessione parziale del bene determina la decadenza totale dall’agevolazione e non la mera riduzione quantitativa di quest’ultima in ragione della parte trasferita.

Sull’impugnazione della cartella di pagamento è stato confermato che in ragione della natura di impugnazione-merito del processo tributario e del rispetto dei principi della ragionevole durata del giusto processo (artt. 111 Cost., 47 CDFU e 6 CEDU), il giudice, adito in una causa di opposizione a cartella di pagamento, ove sia accertata l’esistenza di un titolo giudiziale definitivo che abbia ridotto la pretesa impositiva originariamente contenuta nell’avviso di accertamento presupposto, con conseguente insussistenza parziale, rispetto alle originarie pretese, del suo presupposto legittimante, non può invalidare “in toto” la cartella, ma è tenuto a ricondurre la stessa nella misura corretta, annullandola solo nella parte non avente più titolo nell’accertamento originario (Sez. 5, n. 39660/2021, Gori, Rv. 663206-01 in fattispecie avente ad oggetto anche riprese per tributi armonizzati; in senso conforme, in precedenza, Sez. 5, n. 29364/2020, Nicastro, Rv. 659987-01)

In caso di notifica di un ricorso in appello a mezzo operatore privato privo di titolo abilitante, nulla perché non sanata dalla costituzione della parte appellata, è superfluo concedere un termine per la rinnovazione, atteso che alla mancanza di certezza legale della data di consegna dell’atto al destinatario, dovuta all’assenza di poteri certificativi dell’operatore, consegue la palese inammissibilità dell’impugnazione per tardività, sicché la concessione di tale termine si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio, in violazione dei principi del giusto processo e della durata ragionevole dei giudizi ex art. 111 Cost. e 6 CEDU, senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (Sez. 5, n. 19019/2021, d’Oriano, Rv. 661808-01).

In tema di litisconsorzio, la S.C. ha ritenuto che nel giudizio di cassazione, in presenza di un accertamento di maggiore imponibile a carico di una società di persone ai fini delle imposte dirette, Irap e Iva, fondato sugli stessi fatti o su elementi comuni, la nullità dei giudizi di merito - per essere stati celebrati, in violazione del principio del contraddittorio, senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari (società e soci) - non va dichiarata qualora il ricorso per cassazione dell’Amministrazione finanziaria risulti inammissibile o “prima facie” infondato (Sez. 5, n. 18890/2021, Putaturo Donati Viscido Di Nocera, Rv. 661760-01). In tal caso, infatti, non derivando ai litisconsorti pretermessi alcun danno dalla detta pronuncia, disporre la rimessione al giudice di primo grado contrasterebbe con i principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, che hanno fondamento nell’art. 111, comma 2, Cost. e nell’art. 6, par. 1, CEDU (sul rispetto del principio della ragionevole durata del processo in presenza di un’evidente ragione d’inammissibilità del ricorso o qualora questo sia prima facie infondato, nei medesimi termini vedi già Sez. 2, n. 11287/2018, Falaschi, Rv. 648501-01).

Sul piano dell’incidente di costituzionalità, Sez. 5, n. 18436/2021, D’Angiolella, Rv. 661803-01 ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 281, della l. n. 147 del 2013, che ha esteso l’applicazione del “transfer pricing” a periodi di imposta anteriori rispetto alla sua entrata in vigore, venendo in rilievo una norma di interpretazione autentica che ha consentito l’applicazione della disciplina di cui all’art. 110, comma 7, Tuir per i periodi di imposta dal 2008 in poi. Tale previsione - secondo l’apprezzamento compiuto - non viola gli artt. 3 e 41 Cost., non essendo manifestamente irragionevole né contrario alla libertà di iniziativa economica prevedere, per la violazione di una norma, un effetto più grave rispetto alla disciplina previgente; né viola gli artt. 111 e 117 Cost. (in relazione all’art. 6 Cedu), non potendo il contribuente riporre un ragionevole affidamento in relazione ad una questione (rilevanza del “transfer pricing” ai fini Irap) controversa per le varie abrogazioni succedutesi in materia e, quindi, meritevoli di interpretazione autentica.

3.8. L’espropriazione per pubblica utilità.

In tema di indennità di espropriazione, è stata esclusa l’applicabilità diretta dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale della CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, relativo al diritto alla percezione di una giusta indennità da parte del soggetto privato della proprietà per causa di pubblico interesse, non essendo la materia disciplinata dal diritto europeo ma solo da quello nazionale che, peraltro, recando la possibilità della liquidazione del maggior danno da ritardo per le obbligazioni di valuta, ai sensi dell’art. 1224, comma 2, c.c., consente di soddisfare ugualmente l’esigenza di pieno ristoro del soggetto espropriato, qualora decorra un certo lasso di tempo tra l’espropriazione e la liquidazione dell’indennizzo (Sez. 1, n. 32911/2021, Scalia, Rv. 663102-01).

3.9. Contributi assicurativi.

In tema di sgravi contributivi in favore delle imprese operanti nei territori di Venezia e Chioggia, qualificati quali aiuti di Stato vietati dalla Commissione europea, Sez. L, n. 02677/2021, Buffa, Rv. 660255-01 ha chiarito che qualora, in ragione del riavvio dell’azione di recupero ex art. 1, commi 351 ss., della l. n. 228 del 2012 delle somme oggetto dei predetti sgravi, sia stata dichiarata l’estinzione del processo pendente, difetta l’interesse attuale della ricorrente all’impugnazione della sentenza che contenga la declaratoria in parola, in quanto tale esito della lite è stato previsto da una disposizione normativa di natura procedimentale, che ha espressamente sancito la nullità dei titoli amministrativi afferenti il recupero degli aiuti di cui al segnalato comma 351, emessi dall’ente previdenziale e oggetto di contestazione giudiziale alla data di entrata in vigore dell’anzidetta legge.

Tale norma, secondo l’apprezzamento compiuto, non solleva dubbi di legittimità costituzionale o di contrasto con le norme UE. o CEDU, posto che essa non costringe alcuna delle parti a nuove iniziative processuali per la realizzazione dei propri diritti e pertanto non arreca loro alcun danno.

3.10. Procedimento disciplinare a carico di magistrati, notai e avvocati.

In questa sezione si richiamano alcune decisioni che hanno affrontato, sotto diversi profili, la questione della compatibilità con la Convenzione europea dei procedimenti disciplinari previsti dalla disciplina interna per i professionisti della giustizia.

In tal senso, in tema di procedimento disciplinare dei magistrati, Sez. U, n. 18923/2021, Criscuolo, Rv. 661655-02 ha ritenuto che l’attribuzione a un organo interno della magistratura della competenza a decidere in merito agli illeciti disciplinari dei magistrati non viola l’art. 6 della Convenzione EDU, in quanto la “sezione disciplinare” costituisce organo indipendente e imparziale come stabilito anche dalla CEDU (ric. n. 51160/2006, Di Giovanni).

È stata inoltre esclusa la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale - in riferimento all’art. 117 Cost. e per contrasto con l’art. 8 CEDU - della disciplina dell’utilizzabilità dei risultati di intercettazioni disposte in sede penale, trovando questa la sua base legale nel disposto degli art. 16 e 18 del d.lgs. n. 109 del 2006 (Sez. U, n. 09390/2021, Cosentino, Rv. 660918-04).

Parimenti, sulla responsabilità disciplinare dei notai, Sez. 2, n. 07051/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 660788-03 ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 148, 150-bis e 151 della l. n. 89 del 1913, relativamente alla composizione della commissione regionale di disciplina (Co.re.di.), per contrasto con l’art. 111, comma 2, e l’art. 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, § 1, della CEDU, considerando, da un lato, che la legge, nel rispetto dell’esigenza ineludibile, connaturata ad ogni valutazione giustiziale deontologica, di attingere alla categoria professionale di appartenenza, per comporre il collegio giudicante, assicura adeguate condizioni di indipendenza ed imparzialità alla commissione medesima - la quale rappresenta pur sempre un organo amministrativo, cui sono devolute funzioni giustiziali - e, dall’altro, che la garanzia giurisdizionale è assicurata, in primo luogo, dal giudizio successivo che si svolge innanzi alla corte di appello e, quindi, dall’accesso al giudizio di legittimità.

Riguardo al diverso profilo del reclamo dinanzi alla Corte d’appello avverso la decisione della Commissione amministrativa regionale sui provvedimenti disciplinari e cautelari a carico dei notai (soggetto, agli artt. 702-bis e ss. c.p.c. con espressa esclusione dei commi 2 e 3 dell’art. 702-ter), è stato confermato che, in assenza di una previsione specifica sulla pubblicità delle udienze, opera il regime generale della pubblicità della sola udienza di discussione, pienamente compatibile con l’art. 6 CEDU, in virtù del quale non tutta l’attività processuale deve svolgersi pubblicamente, a condizione che sia assicurato un momento di trattazione della causa in un’udienza pubblica (Sez. 2, n. 07051/2021, Grasso Giuseppe., Rv. 660788-02; in senso conforme: Sez. 2, n. 9041/2016, Scarpa, Rv. 639768-01).

Sui giudizi disciplinari innanzi al Consiglio nazionale forense, privi di termini perentori per l’inizio, lo svolgimento e la definizione del procedimento, le S.U. hanno chiarito che la natura giurisdizionale delle funzioni attribuite all’organo giudicante giustifica l’inapplicabilità dell’art. 2 della l. n. 241 del 1990, il cui ambito operativo è espressamente limitato all’attività amministrativa, con la conseguenza che rispetto a tale procedimento trova applicazione soltanto il principio di ragionevole durata del processo, previsto dall’art. 6 della CEDU e consacrato nell’ordinamento interno dall’art. 111, comma 2, Cost., la cui inosservanza non comporta l’invalidità del procedimento né della decisione (Sez. U, n. 13167/2021, Mercolino, Rv. 661208-01).

  • diritti e libertà
  • rapporti di lavoro e diritto del lavoro
  • Corte di giustizia dell'Unione europea
  • filiazione
  • sicurezza internazionale
  • diritti economici
  • protezione dei dati
  • diritto tributario
  • Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea

II

IL DIALOGO CON LA CORTE DI GIUSTIZIA UE

(di Dario Cavallari, Angelo Napolitano(*) )

Sommario

1 Il dialogo fra corti: l’incidenza delle decisioni della Corte di giustizia dell’Unione europea sull’interpretazione del diritto interno sostanziale e processuale. - 2 Il dialogo fra corti: l’incidenza dell’obbligo di rinvio della S.C. sulle decisioni da essa assunte. - 3 Il dialogo fra corti: l’incidenza della giurisprudenza UE sul ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione. - 4 Il diritto tributario. - 5 Le libertà civili e i diritti fondamentali: la protezione internazionale. - 5.1 Le libertà civili e i diritti fondamentali: la filiazione. - 5.2 Le libertà civili e i diritti fondamentali: la privacy e la protezione dei dati personali. - 6 Le libertà economiche. - 7 I rapporti di lavoro.

1. Il dialogo fra corti: l’incidenza delle decisioni della Corte di giustizia dell’Unione europea sull’interpretazione del diritto interno sostanziale e processuale.

La giurisprudenza della Corte di cassazione, anche nell’anno 2021, è venuta in contatto con il diritto dell’Unione europea in ambiti diversi.

Un primo filone concerne il dialogo con le corti sovranazionali e, quindi, l’interpretazione della normativa interna, sostanziale e processuale, anche di livello costituzionale, conseguente a tale dialogo.

A tale filone si collegano quelli della diretta conformazione del nostro ordinamento a quello unionale e dell’incidenza delle decisioni della CGUE sul ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione.

Un ulteriore settore è quello del diritto tributario, e dei princìpi connessi all’accertamento e alla riscossione dei tributi.

Un distinto profilo è quello delle libertà civili e dei diritti fondamentali, soprattutto della protezione internazionale, della filiazione e della privacy.

Assumono pure rilievo le pronunce sulle libertà economiche.

Infine, non possono essere dimenticate alcune questioni in tema di diritto del lavoro.

***

Il profilo in esame è di grande interesse in quanto conferma quanto l’ordinamento italiano sia ormai strettamente collegato a quello dell’Unione europea.

Infatti, è ormai prassi che istituti, concetti o disposizioni di diritto interno siano interpretati dalla Corte di cassazione applicando la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e che quest’ultimo giudice sia considerato quasi come parte del nostro ordinamento giudiziario.

Ad esempio, la S.C. ha affermato che, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, la previsione dell’art. 2, comma 2 quater, della l. n. 89 del 2001, secondo la quale, ai fini del computo della durata del giudizio presupposto, non si tiene conto dei tempi in cui il processo è sospeso, deve ritenersi operante non solo quando sia stato pronunciato un formale provvedimento di sospensione, ma anche ove (cd. sospensione impropria in senso lato) lo stesso abbia subito un periodo di stasi, dovendo il giudice applicare una norma per la quale altro giudice abbia sollevato una questione di legittimità costituzionale ovvero disposto rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, atteso che si tratta di circostanza essenziale da valutare sotto il profilo del criterio della complessità ex art. 2 cit., tale da consentire una deroga ai parametri medi di ragionevole durata. (Sez. 6-2, n. 17686/2021, Scarpa, Rv. 661666-01).

In questo caso, la remissione alla Corte di Lussemburgo è stata considerata alla stregua di una causa di sospensione anche dei giudizi nazionali correlati a quello nel quale la relativa questione è stata sollevata.

Inoltre, Sez. 1, n. 00102/2021, Oliva, Rv. 660525-02, ha chiarito che, in tema di protezione internazionale, il rischio del coinvolgimento dell’obiettore di coscienza in atti idonei ad integrare crimini di guerra o contro l’umanità va apprezzato, ad avviso della giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza Shepered c. Germania, causa C-472/13), secondo il criterio della ragionevole plausibilità, in base al quale anche il personale ausiliario di supporto e logistico può avvalersi dell’obiezione di coscienza, risultando comunque l’attività dallo stesso assicurata funzionale a consentire, o ad agevolare, lo svolgimento delle azioni militari. Sempre nella medesima materia, ad avviso di Sez. L, n. 20568/2021, Patti, Rv. 661846-01, l’art. 35 bis del d.lgs. n. 25 del 2008 deve essere letto in conformità al disposto dell’art. 46, par. 3, della direttiva 2013/32/UE, nell’interpretazione offerta dalla Corte di giustizia UE; il giudice, pertanto, è tenuto ad esaminare, ed accertare, in adempimento del dovere di cooperazione istruttoria, anche fatti nuovi non allegati, ma esistenti al momento della decisione, che siano rilevanti ai fini della concessione della protezione, purché sopravvenuti e non prevedibili al momento della presentazione del ricorso contro il provvedimento di diniego. In particolare, merita di essere tenuta in considerazione la condizione di gravidanza, documentata in corso di giudizio, della compagna del richiedente.

Quanto alla tutela dei rifugiati, Sez. 1, n. 22275/2021, Vannucci, Rv. 661995-02, ha affermato che, in tema di persecuzione per motivi religiosi, alla luce dell’interpretazione data dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 5 settembre 2012, nelle cause riunite C-71/11 e C-99/11, Bundesrepublik Deutschland, contro altri) all’art. 2, lett. c), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, a sua volta vincolante l’interpretazione giudiziale delle norme interne derivate da quella dell’Unione, nell’esame di una domanda di riconoscimento dello status di rifugiato il giudice non può ragionevolmente aspettarsi che il richiedente, una volta tornato nel paese di origine, rinunci al compimento di atti religiosi che lo espongano al rischio effettivo di persecuzione secondo il culto cui aderisce, previa sua adesione ad un culto riconosciuto dallo Stato.

Nella stessa ottica, Sez. 3, n. 02153/2021, Olivieri, Rv. 660392-01, ha precisato che, conformemente a quanto statuito dalla Corte di giustizia UE con sentenza del 30 gennaio 2020 in causa C-394/18, l’azione revocatoria ordinaria dell’atto di scissione societaria, pure se esercitata dal curatore fallimentare ex art. 66 l.fall., è sempre ammissibile, anche in concorso con l’opposizione preventiva dei creditori sociali prevista dall’art. 2503 c.c., in quanto la prima mira ad ottenere l’inefficacia relativa dell’atto per renderlo inopponibile al creditore pregiudicato, mentre la seconda è finalizzata a farne valere l’invalidità. Ad analoghe conclusioni è giunta la successiva Sez. 3, n. 12047/2021, Travaglino, Rv. 661548-01.

La giurisprudenza UE incide, altresì, sulla materia dei dati personali. Infatti, il relativo concetto, per Sez. 1, n. 15161/2021, Lamorgese, Rv. 661498-01, è idoneo a ricomprendere, stante l’ampiezza della nozione cui è approdata la Corte di giustizia UE, qualsiasi tipo di affermazione su una persona e può includere, quindi, informazioni sia oggettive sia soggettive, come valutazioni, concernenti la persona interessata, riguardando anche le dichiarazioni e le opinioni formulate tramite l’indirizzo di posta elettronica privata nel corso di uno scambio di corrispondenza elettronica.

Il diritto dell’Unione ha influito, inoltre, sui procedimenti concernenti la responsabilità per attività medico-chirurgica.

Sez. 3, n. 21530/2021, Vincenti, Rv. 662197-01, ha chiarito che, in tale settore, l’accertamento del nesso causale in caso di diagnosi tardiva - da compiersi secondo la regola del più probabile che non ovvero dell’evidenza del probabile, come pure delineata dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea nella sentenza del 21 giugno 2017 in causa C-621/15 in tema di responsabilità da prodotto difettoso, in coerenza con il principio eurounitario della effettività della tutela giurisdizionale - si sostanzia nella verifica dell’eziologia dell’omissione, per cui occorre stabilire se il comportamento doveroso che l’agente avrebbe dovuto tenere sarebbe stato in grado di impedire o meno l’evento lesivo, tenuto conto di tutte le risultanze del caso concreto nella loro irripetibile singolarità, giudizio da ancorarsi non esclusivamente alla determinazione quantitativo-statistica delle frequenze di classe di eventi (cd. probabilità quantitativa), ma anche all’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica).

Con riferimento alle assicurazioni private, Sez. U, n. 21983/2021, Scarano, Rv. 661872-01, ha affermato che, ai fini dell’operatività della garanzia per R.C.A., l’art. 122 del codice delle assicurazioni private va interpretato conformemente al diritto dell’Unione europea e alla giurisprudenza eurounitaria (Corte giustizia del 4 settembre 2014, in causa C-162/2013; Corte giustizia, Grande Sezione, del 28 novembre 2017, in causa C-514/2016; Corte giustizia del 20 dicembre 2017, in causa C-334/2016; Corte giustizia, Grande Sezione, del 4 settembre 2018, in causa C-80/2017; Corte giustizia del 20 giugno 2019, in causa C-100/2018) nel senso che per circolazione su aree equiparate alle strade va intesa quella effettuata su ogni spazio ove il veicolo possa essere utilizzato in modo conforme alla sua funzione abituale.

Al riguardo, Sez. 3, n. 34788/2021, Scarano, Rv. 663119-01, ha rilevato che, in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, in conformità a quanto stabilito dalle direttive 84/5/CEE e 90/232/CEE, così come interpretate dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, in applicazione del principio solidaristico vulneratus ante omnia reficiendus, la vittima trasportata ha sempre e comunque il diritto al risarcimento integrale del danno, quale che ne sia la veste e la qualità, non potendo l’assicuratore negare il risarcimento sulla base di disposizioni legali o di clausole contrattuali, ivi comprese quelle che escludono la copertura assicurativa nelle ipotesi di utilizzo del veicolo da parte di persone non autorizzate o prive di abilitazione alla guida, con l’unica eccezione del trasportato consapevole della circolazione illegale del veicolo, come è nel caso di rapinatori, terroristi o ladri.

L’influenza della giurisprudenza UE sul diritto interno riguarda anche le sanzioni nel settore della circolazione stradale poiché, secondo Sez. 2, n. 31250/2021, Criscuolo, Rv. 661943-01, in tema di mancato rispetto delle disposizioni sui cronotachigrafi, la violazione della condotta imposta dall’art. 15, par. 7, lett. a), del Regolamento CE n. 3821 del 1985, sanzionata dall’art. 19 della l. n. 727 del 1978, costituisce, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia (cause riunite nn. C-870/19 e C-871/19), un’infrazione unica ed istantanea, consistente nell’omessa presentazione, da parte del conducente sottoposto a controllo, di tutti o parte dei fogli di registrazione relativi alla giornata in corso ed ai ventotto giorni precedenti, con la conseguenza che la violazione del predetto obbligo non può che dare luogo ad una sola sanzione.

Per quanto interessa l’orario lavorativo, per Sez. L, n. 30301/2021, Garri, Rv. 662656-01, l’applicazione del criterio fatto proprio dalla direttiva 2003/88/CE, così come interpretato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 10 settembre 2015, causa C-266/14), secondo cui non costituisce orario di lavoro il tempo nel quale il lavoratore può liberamente dedicarsi alla cura dei propri interessi personali e sociali, implica che debba essere qualificato come prestazione strumentale ed accessoria, ontologicamente diversa dalla prestazione di lavoro, il servizio di reperibilità speciale fornito da un dipendente dell’Enel, addetto alla sorveglianza di una diga, che preveda la sola permanenza nella casa di guardia, situata a ridosso della diga stessa, per la durata del turno e che si sostanzi in un servizio di attesa con attivazione solo a seguito di allarme. Ne discende che l’adibizione a tale servizio, oggetto di specifica remunerazione, limita, ma non esclude, il godimento del riposo, con conseguente impossibilità di riconoscimento del riposo compensativo e addossamento a carico del lavoratore dell’onere di dimostrare l’esistenza di un danno alla salute conseguente alla situazione di attesa richiesta.

In tema d’individuazione della giurisdizione del giudice italiano, Sez. U, n. 03125/2021, Acierno, Rv. 660357-02, ha chiarito che, quando la domanda abbia per oggetto un illecito extracontrattuale, trova applicazione il criterio di individuazione della giurisdizione fissato dall’art. 7, n. 2, del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, a mente del quale una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro, in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo ove l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire; alla luce di tale criterio e della chiara e costante interpretazione che ne ha dato la Corte di giustizia dell’Unione europea, la giurisdizione si radica, quindi, o nel luogo in cui si è concretizzato il danno o, in alternativa, a scelta dell’attore danneggiato, in quello nel quale si è verificato l’evento generatore di tale danno.

In ordine ai profili processuali, Sez. 2, n. 19042/2021, Casadonte, Rv. 661693-01, ha precisato che la deroga all’uso della lingua italiana nel processo civile, prevista dagli artt. da 20 a 27 del d.P.R. n. 574 del 1988, che introducono il principio del bilinguismo nel processo davanti al giudice della Regione Trentino-Alto Adige, può essere estesa anche a soggetti diversi dai cittadini italiani residenti nella provincia di Bolzano, nel rispetto del principio di non discriminazione che permea il trattamento dei cittadini della UE, come affermato dalla Corte di giustizia con la sentenza del 27 marzo 2014 (causa C-32272013). (Nella specie, la S.C. ha escluso la nullità del giudizio, introdotto da un cittadino austriaco con atto di citazione scritto in tedesco e proseguito in italiano come processo monolingue, sul rilievo che questi non aveva mai sollevato alcuna eccezione sul punto, avendo, al contrario, rinunciato alla traduzione degli atti).

Quanto alla determinazione della competenza giurisdizionale, Sez. U, n. 36371/2021, Acierno, Rv. 662967-01, ha affermato che alle azioni rivolte ad ottenere i diritti forfettari e standardizzati previsti dal Regolamento CE n. 261 del 2004, in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato, si applica l’art. 7 del Regolamento UE n. 1215 del 2012 (sostitutivo del Regolamento CE n. 44 del 2001), per effetto del rinvio, contenuto nell’art. 3, comma 2, della l. n. 218 del 1995, alla Convenzione di Bruxelles, cui sono succeduti il Regolamento CE n. 44 del 2001 e il Regolamento UE n. 1215 del 2012, in conformità alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza del 3 settembre 2020, in C-186/19); di conseguenza, l’attore può radicare la causa nel luogo di esecuzione dell’obbligazione e, più esattamente con riferimento al contratto di trasporto, nel luogo dove il servizio è stato o avrebbe dovuto essere prestato. (Nella specie, è stata declinata la giurisdizione italiana nella controversia promossa dal cessionario del diritto forfettario nei confronti di una compagnia aerea non domiciliata in uno Stato membro sul rilievo che la prestazione del servizio aereo aveva avuto inizio nell’aeroporto di Barcellona e, successivamente, di Madrid, e che nessuno degli scali aveva avuto luogo in Italia, così come l’arrivo).

Il rapporto con la Corte di giustizia ha inciso pure sulla remissione delle questioni di legittimità costituzionale alla Consulta.

Infatti, ad avviso di Sez. 5, n. 35196/2021, Condello, Rv. 663097-01, in tema di determinazione del reddito d’impresa, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 98 del d.P.R. n. 917 del 1986, vigente ratione temporis, per violazione degli artt. 3 e 76 Cost., atteso che la mancata integrale attuazione del criterio di delega previsto dall’art. 4, lett. g) della l. n. 80 del 2003, nella parte in cui non subordina l’applicazione del regime della sottocapitalizzazione (cd. thin capitalization) di una società rispetto all’attività di impresa esercitata alla condizione che gli interessi non concorrano a formare il reddito imponibile del soggetto percettore, consegue all’accoglimento della giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza in C-324/00 del 12 dicembre 2002), volta ad evitare discriminazioni tra soggetti residenti e non residenti, nonché violazioni della libertà di stabilimento, in coerenza con le finalità della legge delega di uniformare il sistema fiscale statale ai modelli europei più efficienti, e non essendo configurabile una disparità di trattamento rispetto a situazioni ontologicamente diverse.

Infine, per Sez. L, n. 22249/2021, Patti, Rv. 662089-01, ai fini del trasferimento di ramo d’azienda previsto dall’art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dall’art. 32 del d.lgs. n. 276 del 2003, costituisce elemento costitutivo della cessione l’autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e, quindi, di svolgere - autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario - il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente al momento della cessione. L’elemento costitutivo dell’autonomia funzionale va letto in reciproca integrazione con il requisito della preesistenza, e ciò anche in armonia con la giurisprudenza della Corte di giustizia secondo la quale l’impiego del termine “conservi” nell’art. 6, par. 1, commi 1 e 4, della direttiva 2001/23/CE, “implica che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento” (Corte di giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12; Corte di giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017).

2. Il dialogo fra corti: l’incidenza dell’obbligo di rinvio della S.C. sulle decisioni da essa assunte.

La Corte di cassazione ha affrontato anche la questione dell’obbligo di rinvio alla Corte di giustizia su di essa gravante quale giudice nazionale di ultima istanza.

Così Sez. U, n. 10107/2021, Criscuolo, Rv. 661209-02, ha affermato che, in presenza di una declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione, non è accoglibile la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in quanto viene in rilievo un difetto di rilevanza della questione, potendo, infatti, il giudice unionale rifiutarsi di statuire su domande in via pregiudiziale se è manifesto che l’interpretazione richiesta non ha rapporto con l’effettività o l’oggetto del giudizio principale.

Inoltre, per Sez. 5, n. 19880/2021, Fracanzani, Rv. 661726-02, in tema di obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia incombente sui giudici di ultima istanza, in base al criterio del cd. acte clair, non esiste alcun diritto della parte che formula la relativa istanza all’automatico rinvio ogniqualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive, essendo sufficiente che le ragioni del diniego siano espresse ovvero implicite se la questione pregiudiziale è manifestamente inammissibile od infondata.

Infine, Sez. U, n. 31311/2021, Vincenti, Rv. 662651-02, ha chiarito che è inammissibile la richiesta di rinvio pregiudiziale su questione di interpretazione del diritto UE, che implichi, in realtà, la devoluzione al giudice dell’Unione europea del compito di decidere la controversia oggetto di lite, in quanto il giudice nazionale con il rinvio non si spoglia in alcun modo del proprio potere giurisdizionale, ma lo esercita pleno iure, formulando, ove ritenuto necessario ai fini della decisione, la richiesta incidentale alla Corte UE, in esito alla quale avrà il compito di applicare l’interpretazione del diritto fornita appunto da quel giudice.

3. Il dialogo fra corti: l’incidenza della giurisprudenza UE sul ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione.

Ulteriori pronunce della S.C. sono espressione di un dialogo fra corti e si occupano di delimitare l’ambito del giudizio di legittimità sulle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.

Al riguardo, va menzionata Sez. U, n. 21641/2021, Conti, Rv. 662226-01, la quale ha affermato che costituisce motivo di ricorso attinente alla giurisdizione quello con cui si denunci che il Consiglio di Stato abbia esercitato competenze allo stesso non riservate e spettanti, in via esclusiva, alla Corte di giustizia perché concernenti il sindacato sulla validità degli atti dell’UE. (Nella specie, era stata disposta la distruzione di alcune coltivazioni OGM illecitamente impiantate in applicazione della decisione di esecuzione della Commissione UE 2016/321 e la parte ricorrente aveva contestato la pronuncia a sé sfavorevole del Consiglio di Stato davanti alla S.C. per motivi attinenti alla giurisdizione, negando la conformità al diritto eurounitario della detta decisione e della correlata direttiva UE 2015/412).

Peraltro, per Sez. U, n. 21641/2021, Conti, Rv. 662226-02, non è sindacabile sotto il profilo della violazione del limite esterno della giurisdizione la decisione con la quale il Consiglio di Stato abbia motivatamente escluso la necessità di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, atteso che tale decisione non incide sulla competenza della medesima Corte di giustizia in tema di accertamento della validità degli atti dell’UE.

4. Il diritto tributario.

In tema di redditi d’impresa, l’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, ora sostituito dall’art. 10 bis della l. n. 212 del 2000, non contiene una elencazione tassativa delle fattispecie abusive, ma costituisce una norma aperta, la quale trova applicazione, alla stregua del generale principio antielusivo rinvenibile nella Costituzione e nelle indicazioni della raccomandazione n. 2012/772/UE, in presenza di una o più costruzioni di puro artificio che, realizzate al fine di eludere l’imposizione, siano prive di sostanza commerciale ed economica, ma produttive di vantaggi fiscali (Sez. 5, n. 02224/2021, D’Orazio, Rv. 660447-02).

Con riferimento all’accertamento dei redditi fondato su accesso a documenti bancari, la cooperazione informativa tra autorità fiscali degli Stati membri UE non incontra alcun limite nel segreto bancario, il quale non costituisce principio inderogabile neanche nel regime anteriore all’art. 18 della l. n. 413 del 1991 (Sez. 5, n. 11162/2021, Condello, Rv. 661227-01).

Sempre in tema di imposte sui redditi, le vincite da giochi d’azzardo realizzate in case da gioco situate in altri Stati dell’UE non possono essere assoggettate a tassazione come redditi diversi ai sensi degli artt. 67, comma 1, lett. d) e 69, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986 (nella formulazione ratione temporis vigente), dovendosi escludere qualsiasi restrizione discriminatoria, rispetto a redditi simili provenienti da case da gioco situate nel territorio nazionale, della libera prestazione di servizi, quale garantita dall’art. 56 TFUE, nei confronti non soltanto dei prestatori, ma anche dei destinatari di tali servizi, giustificandosi un diverso trattamento solo in presenza di comprovati motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica di cui all’art. 52 TFUE (Sez. 5, n. 13038/2021, Giudicepietro, Rv. 661261-01).

Quanto alle imposte sui dividendi percepiti da società straniere, il diniego di rimborso di crediti di imposta su dividendi di fonte italiana, percepiti da società con sede nel Regno Unito e priva di stabile organizzazione nel territorio nazionale, può essere fondato sul criterio della giacenza media mensile di tutte le azioni possedute, riferita ad un congruo arco temporale (l’anno) e depurata della mensilità di stacco del dividendo, siccome idonea a disvelare la finalità di elusione fiscale ostativa, ai sensi dell’art. 10, paragrafo 5, della Convenzione tra Repubblica Italiana e Regno Unito di Gran Bretagna e d’Irlanda, per evitare le doppie imposizioni, ratificata con la l. n. 329 del 1990, al riconoscimento del vantato credito sulle cedolari riscosse, in quanto fondata su un’analisi complessiva e attenta alla sostanza economica della condotta dell’investitore, protrattasi nel tempo, in conformità con i princìpi enunciati dalla Commissione europea nella raccomandazione del 6 dicembre 2012, n. 2012/772/UE (Sez. 5, n. 14763/2021, Rossi, Rv. 661525-02).

Con riferimento alle accise, ai fini dell’inesigibilità dell’imposta non è sufficiente provare la sola sottrazione dei contrassegni fiscali prima della loro apposizione sui prodotti soggetti a tassazione, dovendosi provare altresì, alla luce della decisione della Corte di giustizia UE, 15 giugno 2006, in causa C-494/2004, l’avvenuta distruzione degli stessi ovvero la loro definitiva inutilizzabilità e quindi l’impossibilità del loro utilizzo (Sez. 5, n. 15975/2021, Manzon, Rv. 661428-01).

In materia di IVA, la cessione di beni acquistati da fornitori nazionali da parte di società con sede secondaria in Italia e da quest’ultima ceduti alla propria sede principale in territorio doganale extra UE, che l’abbia nominata proprio rappresentante fiscale sul territorio italiano ai fini IVA, costituisce non già una esportazione triangolare nella quale intervengono tre distinti operatori, bensì, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. a) del d.P.R. n. 633 del 1972, nel testo vigente ratione temporis, un’esportazione diretta, trattandosi di cessione di beni effettivamente trasferiti a favore del soggetto non residente, atteso che la nomina, ai sensi dell’art. 17 del d.P.R. n. 633 del 1972, di un proprio rappresentante fiscale non determina la perdita della sua condizione di residente estero, che viene mantenuta, in particolare, ai fini della territorialità dell’imposta (Sez. 5, n. 18082/2021, Fuochi Tinarelli, Rv. 661759-01).

Sempre in tema di IVA, è da considerarsi soggetto passivo la stabile organizzazione in Italia di soggetto domiciliato e residente all’estero, tale essendo qualsiasi organizzazione, diversa dalla sede dell’attività economica della casa madre di cui all’art. 10 del Regolamento UE n. 282 del 2011, caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza e da una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici atti a consentire di ricevere e utilizzare i servizi che le sono forniti per le proprie esigenze, rilevando ai fini dell’autonoma soggettività fiscale di diritto interno in relazione al soggetto non residente che la succursale possa essere considerata autonoma, nel senso che sopporta il rischio economico inerente alla propria attività, a prescindere dal fatto che sia o meno dotata di personalità giuridica in Italia (Sez. 5, n. 22312/2021, Perrino, Rv. 661988-01).

Con riferimento alle operazioni intracomunitarie, a seguito della nuova articolazione dell’archivio VIES (“VAT Information Exchange System”), come disegnato dal Regolamento n. 904/10/UE, i cui contenuti sono stati anticipati dall’art. 27 del d.l. n. 78 del 2010, conv. dalla l. n. 122 del 2010, che ha modificato l’art. 35 del d.P.R. n. 633 del 1972, non vi è un indiscriminato passaggio automatico dal precedente al nuovo archivio, essendo necessaria per l’accesso a quest’ultimo una manifestazione di volontà, che è stata valutata come tacitamente sussistente in presenza del regolare e ininterrotto svolgimento di operazioni intra UE, mentre, in mancanza, richiede una espressa istanza (Sez. 5, n. 30696/2021, Fuochi Tinarelli, Rv. 662717-01).

A tutela del diritto di difesa in giudizio del cittadino di Stato non appartenente alla UE, e con particolare riferimento all’ammissione al gratuito patrocinio, si è stabilito che l’impossibilità di produrre l’attestazione relativa ai redditi prodotti all’estero può essere sopperita con la produzione dell’autocertificazione, corredata delle istanze per ottenere la documentazione di cui all’art. 79 del d.P.R. n. 115 del 202; a tal fine, non è necessaria l’assoluta impossibilità, poiché la sua dimostrazione comporterebbe una prova di per sé incompatibile con un procedimento teso ad assicurare la difesa del non abbiente, finendo per coincidere o con l’esplicito e immotivato rifiuto o con l’assenza di possibili contatti con il paese di origine e, quindi, per impedire la difesa a coloro che siano privi di mezzi di sollecitazione dell’autorità competente (Sez. 6-2, n. 32766/2021, Criscuolo, Rv. 662837-01).

5. Le libertà civili e i diritti fondamentali: la protezione internazionale.

Durante il 2021 la Suprema Corte si è spesso trovata a dover dare alla disciplina sulla protezione internazionale una interpretazione conforme al diritto unionale.

In tema di domanda reiterata di protezione internazionale, l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 29 bis del d.lgs. n. 25 del 2008, nella formulazione antecedente a quella introdotta dal d.l. n. 130 del 2020, conv. dalla l. n. 173 del 2020, impone di ritenere, anche compatibilmente con il dato letterale della norma, che la domanda presentata in pendenza di una procedura espulsiva non possa per ciò solo essere dichiarata automaticamente inammissibile, senza valutare preliminarmente, nel pieno rispetto dei diritti della persona, se effettivamente la prima domanda reiterata sia stata presentata con il solo scopo di eludere o ostacolare l’esecuzione dell’espulsione, oppure se dalla domanda reiterata siano emersi elementi o risultanze nuove rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale, considerato che, diversamente opinando, la norma violerebbe l’art. 117 Cost. per contrarietà all’art. 40 della direttiva 2013/32/UE, che prevede espressamente la necessità, in caso di domanda reiterata in fase di esecuzione di un’espulsione, di un “esame preliminare per accertare se siano emersi o siano stati addotti dal richiedente elementi o risultanze nuovi rispetto alla precedente domanda”, nonché con l’art. 10 Cost., poiché l’automatismo, nel caso in cui sia già in corso l’espulsione, escluderebbe il vaglio di un’autorità terza in ordine all’accertamento di tali elementi (Sez. 1, n. 02453/2021, Ariolli, Rv. 660500-01).

L’art. 12, comma 1, del Regolamento UE n. 604 del 2013, nel prevedere che, qualora il richiedente sia munito di un titolo di soggiorno in corso di validità, la competenza a provvedere sulla domanda di protezione internazionale si radica nello Stato membro che ha rilasciato detto titolo, ancorché non specifichi la tipologia di quest’ultimo, non è applicabile al permesso provvisorio, rilasciato a seguito dell’avvenuto deposito, da parte del migrante, della domanda di protezione e per il periodo strettamente necessario alla decisione sulla stessa degli organi competenti in quanto la norma si riferisce ai titoli di soggiorno autonomi, vale a dire non riconducibili alla domanda anzidetta e idonei ad attribuire allo straniero una certa stabilità circa la permanenza nel territorio di uno Stato membro (Sez. 1, n. 03735/2021, Fidanzia, Rv. 660557-01).

In senso diverso, tuttavia, si è stabilito che l’art. 12, comma 1, del Regolamento UE n. 604 del 2013, nel prevedere che, qualora il richiedente sia munito di un titolo di soggiorno in corso di validità, la competenza a provvedere sulla domanda di protezione internazionale si radica nello Stato membro che ha rilasciato detto titolo, è applicabile anche al permesso provvisorio, rilasciato a seguito dell’avvenuto deposito, da parte del migrante, della domanda di protezione e per il periodo strettamente necessario alla decisione sulla stessa degli organi competenti; la disposizione eurounitaria non introduce, infatti, alcuna specificazione circa il tipo di permesso di soggiorno idoneo ai fini della configurabilità, in concreto, del criterio di collegamento e, inoltre, la provvisorietà del titolo non è di ostacolo all’applicazione del principio, in quanto tutti i titoli di permanenza in Italia sono revocabili e sottoposti a scadenza (Sez. 2, n. 24040/2021, Oliva, Rv. 662167-01).

Ancora in tema di protezione internazionale, le garanzie informative e partecipative previste dagli artt. 4 e 5 del Regolamento UE n. 604 del 2013 sono direttamente applicabili nel diritto interno e hanno carattere tassativo; ne consegue che la loro inosservanza determina la nullità del provvedimento di trasferimento, essendo, peraltro, irrilevante la mancata allegazione o dimostrazione, da parte dell’interessato, di uno specifico pregiudizio al suo diritto di azione e difesa in giudizio. Ne consegue che l’espletamento del colloquio personale, ai sensi dell’art. 5 del citato Regolamento, non è sufficiente a garantire il rispetto dei diritti previsti in favore del soggetto richiedente asilo, occorrendo anche l’avvenuta consegna a lui dell’opuscolo informativo che ogni Stato membro ha l’onere di predisporre, secondo l’art. 4 del Regolamento medesimo (Sez. 2, n. 08282/2021, Oliva, Rv. 661044-01).

Infatti, il mancato assolvimento dell’obbligo informativo di cui all’art. 4 del Regolamento UE n. 604 del 2013 non è superabile per effetto dello svolgimento del colloquio previsto dall’art. 5 del citato Regolamento, prescrivendo quest’ultimo la sussistenza congiunta di entrambe le garanzie; né il mancato rispetto delle stesse può essere sostituito dalla presunzione di conoscenza o ovviato con una conoscenza acquisita “aliunde” da parte dell’interessato, pena la violazione del principio di effettivo e uniforme trattamento dello straniero nel territorio europeo posto alla base della normativa eurounitaria (Sez. 2, n. 16888/2021, Oliva, Rv. 661454-01).

Con riferimento all’art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, nella parte in cui prevede che “la procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione deve essere conferita, a pena di inammissibilità del ricorso, in data successiva alla comunicazione del decreto impugnato” e che “a tal fine il difensore certifica la data del rilascio in suo favore della procura medesima” si è affermato che tale norma richiede, quale elemento di specialità rispetto alle ordinarie ipotesi di rilascio della procura speciale, regolate dagli artt. 83 e 365 c.p.c., il requisito della posteriorità della data rispetto alla comunicazione del provvedimento impugnato, prevedendo una speciale ipotesi di “inammissibilità del ricorso” nel caso di mancata certificazione della data di rilascio della procura in suo favore da parte del difensore. Ne consegue che tale procura speciale deve contenere in modo esplicito l’indicazione della data successiva alla comunicazione del provvedimento impugnato e richiede che il difensore certifichi, anche solo con un’unica sottoscrizione, sia la data della procura successiva alla comunicazione, che l’autenticità della firma del conferente. La norma così interpretata non può considerarsi in contrasto con la disciplina unionale, in relazione al principio di equivalenza e di effettività, considerato che non vi è alcuna materia regolata dal diritto interno, omogenea a quella della protezione internazionale e dell’asilo, che goda di una tutela maggiormente protettiva con riguardo alla proposizione del ricorso per cassazione, e che il principio di effettività deve ritenersi limitato al giudizio di primo grado. Non è leso nemmeno l’art. 6 CEDU, nella parte in cui riconosce il diritto all’accesso alla giustizia, valutato anche in combinato disposto con l’art. 14 che stabilisce il divieto di non discriminazione, poiché la norma persegue l’interesse ad un corretto e leale esercizio dell’amministrazione della giustizia, anche in relazione alle ripercussioni sul complessivo funzionamento della giurisdizione ordinaria di ultima istanza, interessi che il legislatore può legittimamente valorizzare, senza violare il principio di non discriminazione, poiché la norma riguarda solo coloro che, trovandosi in una posizione di incerto collegamento con il territorio nazionale, costituiscono un gruppo nettamente distinto rispetto a quello che ha invece con il nostro paese una stabile relazione territoriale. Infine, non sono messi in discussione gli artt. 3 e 24 Cost., quanto al principio di uguaglianza ed al diritto di difesa, considerato che la specifica regola processuale non ha come giustificazione la condizione di richiedente protezione internazionale, quanto, piuttosto, la specificità del ricorso per cassazione rispetto alle materie disciplinate dal d.lgs. n. 25 del 2008 in relazione alle quali il legislatore ordinario ha un’ampia discrezionalità, maggiormente accentuata nella disciplina degli istituti processuali dove vi è l’esigenza della celere definizione delle decisioni (Sez. U, n. 15177/2021, Conti, Rv. 661387-01).

Ai fini dell’individuazione dello Stato competente ad esaminare la domanda di asilo, ove venga impugnato il provvedimento dell’Unità Dublino di trasferimento di un richiedente protezione internazionale a seguito di ripresa in carico di un altro Stato, il sindacato del giudice ordinario nazionale non è limitato al vaglio della sussistenza di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti nello Stato membro designato che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante, ma comprende anche il rispetto delle garanzie informative previste dagli artt. 4 e 5 del Regolamento UE n. 604 del 2013; la verifica dell’effettivo rispetto delle prescrizioni del citato Regolamento deve essere, infatti, rimessa alla buona prassi delle autorità degli Stati membri e non può essere condizionata dalle modalità con cui, in concreto, i singoli interessati reagiscono rispetto alle eventuali violazioni della richiamata normativa eurounitaria (Sez. 2, n. 16888/2021, Oliva, Rv. 661454-02; Sez. 2, n. 24493/2021, Oliva, Rv. 662323-02).

Lungo lo stesso solco interpretativo, si è affermato che le garanzie informative e partecipative di cui agli artt. 4 e 5 del Regolamento UE n. 604 del 2013 (cd. nuovo Regolamento di Dublino o Dublino III), che vanno assicurate allo straniero sottoposto a procedimento di trasferimento presso altro Stato dell’Unione Europea, che sia competente ad esaminare la sua domanda di protezione internazionale, sono finalizzate a garantire l’effettività ed uniformità dell’informazione, nonché del trattamento del procedimento di trasferimento, in tutto il territorio dell’Unione. Ne consegue che la loro inosservanza determina la nullità del provvedimento di trasferimento, senza che rilevi, in senso contrario, l’eventuale loro conoscenza acquisita “aliunde” da parte dello straniero, né la mancata allegazione o dimostrazione, da parte dell’interessato, di uno specifico “vulnus” al suo diritto di azione e difesa, giacché il rispetto della citata normativa eurounitaria, finalizzata ad assicurare il trattamento uniforme della procedura di trasferimento in tutto il territorio dell’Unione, non può essere condizionata dalle modalità con cui, in concreto, i singoli interessati reagiscono alla sua concreta violazione. Tuttavia, poiché detti obblighi informativi sono volti ad assicurare che allo straniero coinvolto nel procedimento di trasferimento in altro Stato dell’Unione sia assicurata l’effettiva indicazione dei diritti, facoltà e doveri derivanti dal suo assoggettamento alla predetta procedura, il loro adempimento va interpretato in termini sostanziali e non formali; di conseguenza, i predetti obblighi informativi possono considerarsi comunque assolti qualora il giudice di merito appuri con certezza che lo straniero medesimo sia analfabeta, o comunque non in grado di comprendere il contenuto dell’opuscolo di cui all’art. 4 cit., e che allo stesso siano state effettivamente fornite, in seno al colloquio di cui all’art. 5 cit., tutte le informazioni contenute nel documento che il medesimo soggetto non abbia potuto o saputo consultare, per causa a lui non imputabile (Sez. 2, n. 24493/2021, Oliva, Rv. 662323-01).

Il ricorso effettivo previsto dall’art. 27, paragrafo 1, del Regolamento UE n. 604 del 2013, avverso una decisione di trasferimento adottata nei confronti del richiedente asilo all’esito di una richiesta di “ripresa in carico”, può investire anche il rispetto dei termini indicati dall’art. 23, paragrafo 2, del medesimo Regolamento, concernendo un siffatto accertamento la verifica della sua corretta applicazione. In tale ipotesi, spetta al tribunale adito ex art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 25 del 2008, verificare se, per come concretamente motivato, il provvedimento impugnato rechi, o non, gli elementi e/o i riferimenti essenziali al fine di riscontrare la tempestività della menzionata richiesta in rapporto ai termini predetti (Sez. 1, n. 19518/2021, Campese, Rv. 661921-01).

In tema di protezione sussidiaria, quando siano accertati atti oggettivamente lesivi dei diritti fondamentali di libertà religiosa dello straniero sanciti dall’art. 19 Cost., dall’art. 9 CEDU e dall’art. 10 CFDUE, riconducibili all'ambito dei trattamenti inumani o degradanti considerati nell'art. 14, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, non si può ragionevolmente pretendere che il richiedente, una volta tornato nel Paese di origine, rinunci al pacifico compimento di atti religiosi che lo espongano al rischio effettivo di persecuzione secondo il culto cui aderisce, previa sua adesione ad un culto riconosciuto dallo Stato (Sez. 1, n. 35102/2021, Gori, Rv. 663277-02).

5.1. Le libertà civili e i diritti fondamentali: la filiazione.

In tema di disconoscimento di paternità, il quadro normativo (artt. 30 Cost., 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali della UE, e 244 c.c.) e giurisprudenziale attuale non comporta la prevalenza del “favor veritatis” sul “favor minoris”, ma impone un bilanciamento fra il diritto all’identità personale ed all’affermazione della verità biologica, anche in considerazione delle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dell’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini, e l’interesse alla certezza degli “status” ed alla stabilità dei rapporti familiari, nell’ambito di una sempre maggiore considerazione del diritto all’identità personale, non necessariamente correlato alla verità biologica ma ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno di una famiglia, specie quando trattasi di un minore infraquattordicenne. Tale bilanciamento non può costituire il risultato di una valutazione astratta, occorrendo, invece, un accertamento in concreto dell’interesse superiore del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all’esigenza di un suo sviluppo armonico dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale (Sez. 1, n. 27140/2021, Caiazzo, Rv. 662719-01).

5.2. Le libertà civili e i diritti fondamentali: la privacy e la protezione dei dati personali.

Nel corso del 2021 la S.C. si è occupata della nozione di “dato personale”, collegandola al diritto all’oblio, che a sua volta è espressione del diritto alla riservatezza e all’identità personale. Tale diritto deve essere bilanciato con il diritto della collettività all’informazione, sicché, anche prima dell’entrata in vigore dell’art. 17 del Regolamento (UE) 2016/679, qualora sia pubblicato sul web un articolo di interesse generale ma lesivo dei diritti di un soggetto che non rivesta la qualità di personaggio pubblico, noto a livello nazionale, può essere disposta la “deindicizzazione” dell’articolo dal motore di ricerca, al fine di evitare che un accesso agevolato, e protratto nel tempo, ai dati personali di tale soggetto, tramite il semplice utilizzo di parole chiave, possa ledere il diritto di quest’ultimo a non vedersi reiteratamente attribuita una biografia telematica, diversa da quella reale e costituente oggetto di notizie ormai superate (Sez. 1, n. 15160/2021, Valitutti, Rv. 661497-01).

6. Le libertà economiche.

In tema di gestione di rifiuti, in applicazione della sentenza della Corte di giustizia UE in causa C-15/19 e conformemente agli artt. 10, 13 e 14 della direttiva 1999/31, la S.C. ha stabilito che il gestore di una discarica in funzione al momento del recepimento di tale direttiva deve essere tenuto a garantire, per almeno trent’anni, la gestione successiva alla chiusura della discarica, senza che assuma rilevanza il fatto che i rifiuti siano stati conferiti ed abbancati prima o dopo la scadenza del termine di recepimento di tale direttiva (Sez. 1, n. 00373/2021, Marulli, Rv. 660359-01).

In tema di abusi nell’attività di intermediazione finanziaria, nella nozione di “informazione privilegiata” fornita dalla giurisprudenza eurounitaria rientrano anche le informazioni acquisite nelle fasi intermedie delle operazioni idonee ad influenzare il prezzo degli strumenti finanziari, allorché esse posseggano il carattere della “precisione” ai sensi dell’art. 7 del Regolamento UE n. 596 del 2014, e cioè siano sufficientemente specifiche da permettere di trarre conclusioni sul possibile effetto dell’evento pronosticato sui prezzi, senza che possa essere invocato, in contrario, il concetto di “puntuazione” delineatosi nell’ordinamento nazionale, il quale comprende anche l’ipotesi in cui sussista un accordo iniziale non ancora configurabile come preliminare ma già vincolante su taluni profili, restando da concordare, secondo buona fede, ulteriori punti (Sez. 2, n. 04524/2021, Criscuolo, Rv. 660698-01).

In tema di professioni, la S.C. ha chiarito che l’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 261 del 2007, nel richiedere, quale requisito indefettibile ai fini dell’attribuzione dell’incarico di responsabile del servizio trasfusionale, il possesso della laurea in medicina e chirurgia, non si pone in contrasto con la direttiva 2002/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, in quanto detto requisito professionale, ai sensi della l. n. 219 del 2005, assicurando adeguate prestazioni di diagnosi e cura finalizzate alla trasfusione, contribuisce ad integrare i livelli essenziali di assistenza del Servizio Sanitario Nazionale, in coerenza con l’art. 168, paragrafo 7 TFUE, in base al quale l’azione dell’UE rispetta l’ambito di responsabilità degli Stati membri nell’organizzazione e nella fornitura dei servizi sanitari e di assistenza medica (Sez. 1, n. 27980/2021, Scalia, Rv. 662852-01).

Con riferimento agli aiuti di Stato, la l. n. 296 del 2006, all’art. 1 comma 1223, al fine di recepire il cd. "impegno Deggendorf", chiesto dalla Commissione europea agli Stati membri quale condizione per la concessione di aiuti di Stato, prevedeva che: “I destinatari degli aiuti di cui all’articolo 87 [CE] possono avvalersi di tali misure agevolative solo se dichiarano, ai sensi dell’articolo 47 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445 [(supplemento ordinario alla GURI n. 42, del 20 febbraio 2001)], e secondo le modalità stabilite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale, di non rientrare fra coloro che hanno ricevuto e, successivamente, non rimborsato o depositato in un conto bloccato, gli aiuti che sono individuati quali illegali o incompatibili dalla Commissione europea, e specificati nel decreto di cui al presente comma”.

Le disposizioni dell’articolo unico, comma 1223, cit. sono state abrogate e poi riprodotte, in termini identici, all’art. 16 bis, comma 11, della l. n. 11 del 2005.

A mezzo rinvio pregiudiziale è stato dunque sottoposto alla Corte europea il quesito se l’articolo 108, paragrafo 3, TFUE, la decisione del 25 gennaio 2008 e il principio di proporzionalità dovessero essere interpretati nel senso che essi ostano alla normativa di uno Stato membro, in forza della quale la concessione di un aiuto di Stato in base a un regime di aiuti istituito da tale Stato membro e autorizzato da tale decisione è subordinata a una dichiarazione del richiedente, secondo cui quest'ultimo non ha beneficiato di aiuti considerati illegali e incompatibili dalla Commissione, che egli non abbia rimborsato o depositato su un conto bloccato, pur non essendo stato oggetto di una domanda di recupero e sebbene detta decisione non preveda esplicitamente un siffatto requisito.

Con ordinanza 6 maggio 2020, cause riunite da C-415/19 a C-417/19, la Corte di giustizia UE ha escluso tale incompatibilità e ritenuto che “l’articolo 108, paragrafo 3, TFUE, la decisione del 25 gennaio 2008 e il principio di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi non ostano alla normativa di uno Stato membro, in forza della quale la concessione di un aiuto in base al regime di aiuti istituito da tale Stato membro e autorizzato da tale decisione è subordinata a una dichiarazione del richiedente, secondo cui quest’ultimo non ha beneficiato di aiuti dichiarati illegali e incompatibili dalla Commissione, che egli non abbia rimborsato o depositato su un conto bloccato, pur non essendo stato oggetto di una domanda di recupero e sebbene detta decisione non preveda un siffatto requisito”.

Alla luce di tali principi, ed in attuazione dell’interpretazione della disciplina unionale offerta dalla CGUE, va ritenuto che il comma 1223 dell’articolo unico della l. n. 296 del 2006 sia norma che non ponga alcun problema di compatibilità con la corretta interpretazione dell’art. 108 TFUE, né con la Decisione della Commissione Europea 10 C(2008) 380 o con il principio comunitario di proporzionalità, rientrando nella discrezionalità dello Stato membro la previsione di un requisito ulteriore e più restrittivo per la concessione di un aiuto di Stato (Sez. 5, n. 39796/2021, d’Oriano, Rv. 663209-01).

7. I rapporti di lavoro.

Nel lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abuso del contratto a tempo determinato da parte di una P.A., il dipendente che abbia subito l’illegittima precarizzazione del rapporto d’impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione in rapporto a tempo indeterminato di cui all’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione, con esonero dall’onere probatorio, nella misura e nei limiti dell’indennità ex art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010; poiché il danno presunto, qualificabile come “danno comunitario”, non ha ad oggetto la nullità del termine dei singoli contratti, bensì la loro abusiva reiterazione, in conformità con il canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di giustizia UE, sentenza 7 maggio 2018, in causa C-494/16, tale indennità va liquidata una sola volta e non in riferimento ad ogni contratto del quale venga accertata l’illegittimità (Sez. L, n. 02175/2021, Arienzo, Rv. 660332-01).

In tema di anzianità contributiva dei lavoratori a tempo parziale, l’art. 7, comma 1, del d.l. n. 463 del 1983, conv., con modif., dalla l. n. 638 del 1983, va interpretato, in ossequio al principio di parità di trattamento con i lavoratori a tempo pieno, ricavabile dall’art. 4 della direttiva n. 97/81/CE, come applicato dalla Corte di giustizia UE nella sentenza del 10 giugno 2010, in cause C-395/08 e C-396/08, nel senso che, ai fini dell’acquisizione del diritto alla pensione, i lavoratori con orario part-time verticale ciclico hanno diritto all’inclusione anche dei periodi non lavorati (Sez. L, n. 18826/2021, Calafiore, Rv. 661842-01).

PARTE PRIMA I DIRITTI FONDAMENTALI DELLA PERSONA

  • disabile
  • libertà di religione
  • protezione dei dati
  • diritto all'immagine

CAPITOLO I

LA TUTELA DELLA PERSONA: DIRITTI DELLA PERSONALITÀ E DIRITTI DI NUOVA EMERSIONE

(di Giovanni Maria Armone, Marina Cirese(*) )

Sommario

1 Il diritto alla protezione dei dati personali. - 2 Diritto alla riservatezza, diritto di cronaca e diritto all’immagine. - 3 Il diritto all’oblio. - 4 Trattamento dei dati personali: profili processuali. - 5 Identità, nome, origini. - 6 La libertà religiosa e i suoi attuali confini. - 7 I diritti dei disabili.

1. Il diritto alla protezione dei dati personali.

La mutata realtà tecnologica e, di conseguenza, la raccolta massiva di informazioni, trattate anche a fini lucrativi, hanno trasformato in radice il concetto stesso di privacy. Tale termine, comunemente utilizzato per richiamare la complessa disciplina sui dati personali, originariamente alludeva esclusivamente alla riservatezza, al “right to be let alone”. Ad una simile accezione, passiva, se ne sostituisce oggi una attiva, incentrata sulla pretesa dell'individuo di controllare il flusso delle informazioni che lo riguardano. È questo il nucleo essenziale del diritto alla protezione dei dati personali che trova esplicita tutela nelle norme apicali dell'ordinamento europeo: l'art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE e l'art. 16 del Trattato sul funzionamento dell'UE (TFUE).

Il diritto alla protezione dei dati personali rappresenta, dunque, il nuovo "archetipo" del diritto alla privacy, che è oggi tutelato, in particolare, dal Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati), oltre che da vari altri atti normativi italiani e internazionali e dal Codice in materia di protezione dei dati personali (decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196), adeguato alle disposizioni del Regolamento (UE) 2016/679 tramite il d.lgs. n. 101 del 2018.

Fornendo la definizione di “dato personale”, l’art. 4 del Regolamento UE 2016/679 spiega che si tratta di “qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile”. A tal proposito lo stesso articolo specifica che l’interessato si considera identificabile quando è possibile risalire alla sua identità “direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all'ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale”.

Con Sez. 1, n. 15161/2021, Lamorgese, Rv. 661498-01, la Corte chiarisce che l’uso dell’espressione “qualsiasi informazione” nell’ambito della definizione di “dati personali” riflette l’obiettivo del legislatore dell’Unione europea di attribuire un’accezione estesa a tale nozione che non è limitata alle informazioni sensibili o di ordine privato ma comprende potenzialmente ogni tipo di informazioni, tanto oggettive quanto soggettive, sotto forma di pareri o di valutazioni a condizione che essi siano concernenti la persona interessata, riguardando anche le dichiarazioni e le opinioni formulate tramite l'indirizzo di posta elettronica privata nel corso di uno scambio di corrispondenza elettronica. Nella fattispecie sottoposta al suo esame, la S.C. ha disatteso il ragionamento svolto dal giudice di merito, secondo il quale i messaggi di posta elettronica non rientrerebbero nella nozione di dato personale, non trattandosi di un'informazione ovvero di un elemento identificativo della persona, di un suo tratto o di un suo comportamento.

Secondo Sez. 1, n. 19270/2021, Tricomi L., Rv. 661826-01, rientrano nella definizione di dato personale sia il numero di targa di un veicolo, benché esso sia visibile a tutti quando il mezzo circola per strada, sia i dati costituenti la chiave di accesso al sistema elettronico di apertura e chiusura dell'autoveicolo: ciò che rileva non è il numero in sé, ma il suo collegamento ad una persona.

Ogni trattamento di dati personali deve avvenire nel rispetto dei principi fissati all’articolo 5 del Regolamento (UE) 2016/679: liceità, correttezza e trasparenza del trattamento, nei confronti dell’interessato; limitazione della finalità del trattamento, compreso l’obbligo di assicurare che eventuali trattamenti successivi non siano incompatibili con le finalità della raccolta dei dati; minimizzazione dei dati: ossia, i dati devono essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità del trattamento; esattezza e aggiornamento dei dati, compresa la tempestiva cancellazione dei dati che risultino inesatti rispetto alle finalità del trattamento; limitazione della conservazione: ossia, è necessario provvedere alla conservazione dei dati per un tempo non superiore a quello necessario rispetto agli scopi per i quali è stato effettuato il trattamento; integrità e riservatezza: occorre garantire la sicurezza adeguata dei dati personali oggetto del trattamento.

Il consenso quale base di liceità del trattamento dei dati personali per finalità di marketing risulta essere centrale.

Sez. 1, n. 11019/2021, Lamorgese, Rv. 661184-01, si è, in particolare, pronunciata sulla possibilità di qualificare alla stregua di una ‘‘comunicazione commerciale’’ il contatto telefonico volto a ottenere il consenso al trattamento dei dati personali per finalità di marketing da parte di colui che in precedenza l’aveva negato. Difatti, la finalità alla quale è imprescindibilmente collegato il consenso richiesto per il trattamento dei dati concorre a qualificarlo, ragione per cui il trattamento dei dati dell’interessato allo scopo di chiedere il consenso rappresenta esso stesso un trattamento per finalità di marketing. La Corte, nel caso affrontato, confermando la tesi del Garante, ha precisato che, diversamente opinando, risulterebbe del tutto vanificato il sistema dell’opt-out mediante l’iscrizione al registro pubblico delle opposizioni, previsto dall’art. 130 del d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196. Più di un dubbio, infatti, potrebbe essere avanzato sull’utilità della consultazione del registro prima di effettuare telefonate a scopo di richiesta del consenso per l’offerta di beni e servizi. La Corte ha, così, preferito un’interpretazione più restrittiva, secondo la quale i trattamenti di dati personali effettuati da Telecom nell’ambito della campagna ‘‘recupero consenso’’ devono essere considerati illeciti ai sensi dell’art. 11, comma 2, della precedente versione del c.d. Codice della privacy, la quale prevedeva che “i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati”

Ai fini della liceità del trattamento dei dati personali basato sul consenso, ai sensi dell’art. 23 del d.lgs. n. 196 del 2003, la S.C. con Sez. 1, n. 14381/2021, Terrusi, Rv. 661373-01, ponendosi nel solco della giurisprudenza precedente (Sez. 1, n. 17278/18, Di Marzio, Rv. 649516-01) ha ritenuto che il consenso possa dirsi validamente prestato solo se espresso liberamente e specificamente in riferimento ad un trattamento chiaramente individuato. Pertanto nel caso di una piattaforma web (con annesso archivio informatico) preordinata all'elaborazione di profili reputazionali di singole persone fisiche o giuridiche, incentrata su un sistema di calcolo con alla base un algoritmo finalizzato a stabilire punteggi di affidabilità, il requisito della consapevolezza non può considerarsi soddisfatto ove lo schema esecutivo dell'algoritmo e gli elementi di cui si compone restino ignoti o non conoscibili da parte degli interessati.

Sez. 1, n. 15161/2021, Lamorgese, Rv. 661498-02 chiarisce che il trattamento di dati sensibili non richiede, invece, il consenso dell'interessato quando sia necessario per adempiere ad un obbligo imposto dalla legge, come nel caso di svolgimento di attività istituzionali da parte di soggetti pubblici, nelle quali rientrano i compiti connessi all'esercizio del potere disciplinare da parte della Pubblica Amministrazione nei confronti dei propri dipendenti.

In questa cornice sembra inserirsi Sez. 1, n. 39531/2021, Nazzicone, Rv. 663426-01, secondo cui è legittima l'ostensione dei dati del beneficiario della posizione previdenziale di un fondo pensione, allorché il richiedente alleghi l'interesse concreto e non pretestuoso, ad intraprendere un giudizio nei confronti del soggetto designato dall'aderente al fondo, come quando la richiesta provenga dal legittimario del de cuius.

Sez. 1, n. 04475/2021, Campese, Rv. 660511-01 ha arricchito il quadro della violazione dei dati personali, giudicando un caso mai affrontato in precedenza. È stata riconosciuta l'illegittimità del comportamento posto in essere dalla compagnia assicuratrice che, nel comunicare al proprio assicurato l'avvenuto risarcimento del danno, ha diffuso anche i codici IBAN delle persone risarcite, determinando così una lesione al proprio diritto di riservatezza. La S.C. ha così sancito che le coordinate bancarie sono da qualificarsi come un dato personale ex art. 4, lett. b) del d.lgs. n. 196 del 2003 (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche apportategli dal d.l. n. 201 del 2011, conv., con modif., dalla l. n. 214 del 2011) e richiamando un precedente indirizzo della giurisprudenza di legittimità ha altresì indicato le modalità con le quali i dati personali devono essere trattati. La Corte ha precisato che, nel caso di specie, l’obbligo della compagnia assicuratrice di fornire una prova al proprio assicurato dell’avvenuto risarcimento del danno in favore dei ricorrenti “..non può in alcun modo ricomprendere anche la diffusione delle coordinate bancarie delle persone risarcite, atteso che tale trasmissione dei dati  oltre a non essere funzionale all’attività per cui gli stessi erano stati raccolti, neppure era necessaria per adempiere al predetto obbligo”; infatti, la diffusione di quei dati ad opera di soggetto diverso dal preposto al trattamento non elide la responsabilità di quest'ultimo, non potendosi comunque escludere l'esistenza del nesso causale tra tale comportamento ed il danno lamentato, qualora risulti che le condotte dei terzi non sarebbero state possibili se non fossero stati resi noti i dati personali dei danneggiati.

In tal senso si esprime anche Sez. 1, n. 11020/2021, Fidanzia, Rv. 661185-01, secondo cui risponde dei danni determinati dall'illecita divulgazione di dati personali, ai sensi dell'art. 15, comma 1 del d.lgs. n. 196 del 2003 (applicabile ratione temporis) chiunque con la propria condotta li abbia provocati, indipendentemente dalla qualifica rivestita, di titolare o di responsabile del trattamento dati.

Enuclea le differenti figure del titolare e del responsabile del trattamento dei dati personali Sez. 1, n. 21234/2021, Tricomi L., Rv. 662183-01, secondo cui in caso di preposizione di un soggetto al trattamento dei dati, è necessario che detto trattamento si svolga nell'osservanza delle istruzioni impartite dal "titolare", con la conseguenza che, ove non vi sia tale osservanza, il "responsabile" potrà essere riconosciuto come effettivo "titolare", in ragione dell'autonomia decisionale e gestionale manifestata nell'aver disatteso le disposizioni a lui impartite. In applicazione dei tale principio, la S.C. ha ritenuto che non potesse essere qualificato come mero "responsabile" del trattamento il preposto che aveva indebitamente attivato contratti, schede e servizi telefonici non richiesti dagli interessati.

Con riguardo al diverso profilo delle modalità di trattamento dei dati personali, Sez. 1, n. 11020/2021, Fidanzia, Rv. 661185-02, pronunciandosi sulla divulgazione, nell'ambito di un esposto concernente l'attività di un avvocato, di informazioni relative all'asserita condotta deontologicamente scorretta dal medesimo tenuta allorché era impiegato pubblico, facendo menzione di procedimenti disciplinari a suo carico senza neanche dar conto della loro successiva archiviazione e dell'annullamento delle sanzioni irrogate, ha precisato che il trattamento dei dati personali deve essere sempre effettuato nel rispetto del "criterio di minimizzazione" dell'uso degli stessi, dovendo cioè essere utilizzati solo se indispensabili, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per cui sono raccolti e trattati, essendo irrilevante, al fine di derogare a tale principio, la circostanza che la divulgazione avvenga nell'ambito di una procedura di rilevanza pubblica.

In merito al trattamento dei dati personali con riguardo all’attività di recupero crediti, Sez. 1, n. 18873/2021, Tricomi L., Rv. 661920-01, ha affermato che integra violazione dell'art.11 del d.lgs. n. 196 del 2003, sulle modalità del predetto trattamento, la condotta del creditore, il quale, nell'ambito di tale attività, svolta direttamente o per mezzo di incaricati, comunichi a terzi informazioni, dati e notizie relative all'inadempimento del debitore oppure utilizzi modalità che palesino ad osservatori esterni il contenuto di una comunicazione diretta al debitore senza circoscriverla ai dati strettamente necessari all'attività recuperatoria.

L’esigenza di tutela della riservatezza che si estrinseca nella protezione dei dati personale deve porsi in bilanciamento con altri diritti parimenti meritevoli di tutela.

Sez. 1, n. 11800/2021, Lamorgese, Rv. 661272-01, ha così ritenuto legittima la comunicazione da parte di un'azienda sanitaria, su richiesta dell'autorità di pubblica sicurezza, in relazione ad un procedimento per la revoca del porto d'armi, di dati sensibili contenuti in una cartella clinica relativa al ricovero di un paziente nel reparto psichiatrico di un ospedale, trattandosi di dati indispensabili per lo svolgimento di attività istituzionali a cura di soggetti pubblici, previste dalla legge e non esercitabili "mediante il trattamento di dati anonimi o di dati personali di natura diversa", purché il trattamento avvenga in modo corretto e riservato, secondo le modalità fissate dalla legge e senza una indiscriminata diffusione dei medesimi verso "soggetti indeterminati", atteso che, in materia di porto d'armi l'assenza di alterazioni neurologiche" e di "disturbi mentali di personalità o comportamentali" rientra tra i "requisiti psicofisici minimi" richiesti per il rilascio e il rinnovo.

Il trattamento per finalità di interesse pubblico può riguardare altresì dati giudiziari.

A riguardo Sez. 1, n. 17208/2021, Tricomi L., Rv. 661592-01 ha chiarito che il trattamento da parte di enti pubblici a base elettiva di dati giudiziari riguardanti il corpo elettorale ed i diritti di elettorato attivo e passivo, risponde ad una finalità di rilevante interesse pubblico ed è consentito, nei limiti indicati dall'art. 65 del d.lgs. n. 196 del 2003, solo ove siano stati preventivamente individuati la tipologia dei dati trattati e le operazioni eseguibili, così da predeterminare e circoscrivere l'attività discrezionalmente consentita.

L’accesso ai dati personali può rispondere anche a finalità di giustizia.

Sez. 1, n. 05068/2021, Scalia, Rv. 660726-01 ha affermato che nel processo civile la richiesta ex art. 210 c.p.c. di esibizione di un documento contenente dati personali dell'altra parte, non può essere respinta per solo il fatto che il richiedente non abbia fatto istanza di accesso ex d.lgs. n. 196 del 2003, in quanto le ragioni di protezione dei dati personali sono per legge recessive rispetto alle esigenze di giustizia e, in un'ottica di concentrazione delle tutele, si deve favorire la composizione dei diversi interessi in un'unica sede, secondo le regole proprie di quest'ultima. In applicazione dei detto principio la S.C. ha confermato la decisione impugnata che, per statuire sul diritto del coniuge divorziato alla quota di TFR incassato dall'altro, aveva accolto la richiesta di ordinare al suo datore di lavoro l'esibizione del documento contenente la relativa liquidazione.

Sez. L, n. 33809/2021, Patti, Rv. 662774-01, ha chiarito in primo luogo che la produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è sempre consentita ove necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza; tuttavia, poiché la facoltà di difendersi in giudizio utilizzando gli altrui dati personali va esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza previsti dagli artt. 4 e 11 del d.lgs. n. 196 del 2003, la legittimità della produzione va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato utilizzato, cui va correlato il grado di riservatezza, e le esigenze di difesa.

Sez. L, n. 33809/2021, Patti, Rv. 662774-03, ha affermato inoltre che in materia di trattamento dei dati personali, il diritto di difesa in giudizio, che prevale su quello di inviolabilità della corrispondenza, consentendo, ai sensi dell'art. 24, lett. f), del d.lgs. n. 196 del 2003, di prescindere dal consenso della parte interessata, a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al suo perseguimento, non è limitato alla pura e semplice sede processuale, ma si estende a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto legittima l'attività di recupero dei dati, cancellati dal dipendente prima della riconsegna del computer avuto in dotazione e integranti patrimonio aziendale, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, in funzione del giudizio risarcitorio intentato dall'azienda nei confronti del dipendente medesimo.

Pronunciandosi in tema di risarcimento del danno derivante dall’illecito trattamento di dati personali, Sez. 1, n. 14618/2021, Tricomi L., Rv. 661496-01, ha chiarito che l'art. 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 (vigente ratione temporis), nel richiamare il disposto dell'art. 2050 c.c., pone a carico del danneggiato la prova del danno e del nesso di causalità, lasciando al danneggiante la dimostrazione di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare quel danno. Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva rigettato la domanda risarcitoria, fondata sulla dedotta pubblicazione sull'albo pretorio on line di una delibera comunale contenente informazioni sullo stato di salute di un cittadino, in mancanza della prova della pubblicazione della menzionata delibera nella sua versione integrale.

2. Diritto alla riservatezza, diritto di cronaca e diritto all’immagine.

Il diritto all’immagine non è espressamente contemplato dalla Costituzione, anche se l’art. 2 Cost., dopo aver affermato la centralità della tutela della persona nell’ordinamento giuridico nazionale, amplia il novero dei diritti della personalità a quelle situazioni giuridiche soggettive che consentono un pieno ed integrale sviluppo della persona. L’immagine di una persona, invece, è esplicitamente tutelata dall’art. 10 c.c. e dagli artt. 96 e 97 della legge 22 aprile 1941, n. 633.

La Corte con Sez. 1, n. 04477/2021, Campese, Rv. 660512-01, ha delineato il perimetro della lecita utilizzazione dell’immagine di una persona contestualmente alla pubblicazione della notizia ad essa corrispondente. La pronuncia, in particolare, conferma l’evoluzione del diritto vivente nel senso di una progressiva estensione dell’ambito del divieto di pubblicazione dell’immagine della persona in virtù della prevalenza dell’interesse in esso tutelato rispetto ad altri interessi e valori di rango costituzionale e specialmente quando viene in rilievo l’esigenza di tutela della riservatezza. Nel caso di specie, che coinvolgeva una minore, per di più in una condizione patologica gravissima (stato vegetativo semi-comatoso), la Corte, richiamata la disposizione di cui all’art. 16 della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989 (e ratificata dallo Stato italiano con la legge 27 maggio 1991, n. 176), ha stabilito che il diritto alla riservatezza del minore deve essere, nel bilanciamento degli opposti valori costituzionali (diritto di cronaca e diritto alla privacy) considerato assolutamente preminente, laddove si riscontri che non ricorra uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata ai fini della completezza e correttezza della divulgazione della notizia, oppure il consenso delle persone ritratte, o l’esistenza delle altre condizioni eccezionali giustificative previste dall’ordinamento.

Pronunciandosi in tema di competenza, nel solco della consolidata giurisprudenza di legittimità, Sez. 1, n. 36754/2021, Vella, Rv. 663287-01, ha stabilito che se il diritto di cui si lamenta la lesione non sia costituito né dall'immagine in sé, né dalla possibilità di trarre un utile economico dal suo sfruttamento, ma dalla riservatezza del soggetto interessato, la domanda avente ad oggetto il risarcimento del danno derivato dalla diffusione non autorizzata non appartiene alla competenza della sezione specializzata in materia di impresa, bensì alla sezione ordinaria.

Del resto la stessa informazione giornalistica deve essere resa nei limiti dell’essenzialità. In tal senso Sez. 1, n. 22741/2021, Lamorgese, Rv. 662351-01, ha statuito che, con riguardo a fatti di interesse pubblico comportanti la possibilità di diffusione dei dati personali, occorre evitare i riferimenti alla vita privata dei congiunti del soggetto interessato dai detti fatti, se non aventi attinenza con la notizia principale e se del tutto privi di interesse pubblico. Nel caso sottoposto al suo esame, la S.C. ha escluso l'esimente del diritto di cronaca per un articolo che, nel dare notizia di un decesso in un incidente stradale, aveva fatto riferimento al suicidio del fratello della vittima, occorso anni prima, e lo aveva causalmente ricollegato alla separazione dalla coniuge.

3. Il diritto all’oblio.

Va premesso che il diritto all'oblio garantisce un effetto incisivo, eliminando la notizia direttamente dalla fonte e andando a conformare tutte le identità personali del soggetto che sono prodotte online. La deindicizzazione è limitata, invece, all'identità personale formata dal motore di ricerca, che, sebbene sia una sola tra le diverse identità digitali del soggetto, è quella fruibile dal maggior numero di utenti, o, perlomeno, da quelli che hanno un interesse "minore" ad acquisire la notizia, con il risultato che utenti "più interessati" potrebbero comunque reperire la notizia.

Il diritto di ogni persona all'oblio, strettamente collegato ai diritti alla riservatezza e all'identità personale, deve essere in primo luogo bilanciato con il diritto della collettività all'informazione, sicché, anche prima dell'entrata in vigore dell'art. 17 Regolamento (UE) 2016/679, qualora sia pubblicato sul web un articolo di interesse generale, ma lesivo dei diritti di un soggetto che non rivesta la qualità di personaggio pubblico, noto a livello nazionale, può essere disposta la "deindicizzazione" dell'articolo dal motore ricerca, al fine di evitare che un accesso agevolato, e protratto nel tempo, ai dati personali di tale soggetto possa ledere il diritto di quest'ultimo a non vedersi reiteratamente attribuita una biografia telematica, diversa da quella reale e costituente oggetto di notizie ormai superate (Sez. 1, n. 15160/2021, Valitutti, Rv. 661497-01). Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, che, in ragione del carattere non troppo risalente dell'informazione, aveva negato a un imprenditore, noto a livello locale, il diritto alla menzionata "deindicizzazione", in relazione ad un articolo pubblicato sul web, ove era stato riportato il contenuto di intercettazioni telefoniche di terzi, che riferivano di una presunta vicinanza di tale imprenditore a clan mafiosi, non confermata dall'apertura di alcuna indagine nei confronti di quest'ultimo.

Nel caso di domanda giudiziale di deindicizzazione di alcune pagine web occorre la precisa individuazione dei risultati della ricerca da rimuovere, sia per ragioni processuali, poiché l'atto introduttivo del giudizio esige, a pena di nullità, l'indicazione del petitum mediato, sia per ragioni sostanziali, poiché l'obbligo di intervento del provider presuppone la conoscenza da parte di quest'ultimo dell'esistenza di contenuti suscettibili di rimozione. Inoltre, è l'individuazione di detti risultati che consente al giudice di effettuare, nella singola fattispecie, il fondamentale bilanciamento tra diritto alla protezione dei dati personali e interesse pubblico all'informazione, in base ad elementi di fatto acquisiti al processo e sottoposti al contraddittorio delle parti (Sez. 1, n. 20861/2021, Falabella, Rv. 662180-01).

In particolare la domanda deve recare la precisa individuazione dei risultati che l'attore intende rimuovere e, quindi, normalmente, l'indicazione degli indirizzi telematici (o URL) dei contenuti rilevanti, anche se una puntuale rappresentazione delle singole informazioni associate alle parole chiave può rivelarsi, secondo le circostanze, idonea a dare comunque contezza della cosa oggetto della domanda, in modo da consentire al convenuto, gestore del motore di ricerca, di apprestare adeguate e puntuali difese sul punto ( Sez. 1, n. 20861/2021, Falabella, Rv. 662180-02).

Con Sez. 1, n. 13254/2021, Di Marzio M., Rv. 661371-01, la Corte ha affrontato la peculiare questione del bilanciamento tra la cancellazione dell’iscrizione ipotecaria ed il diritto all’oblio. Secondo la Corte, a fronte del rilievo, fondamentale per la sicurezza dei traffici giuridici, della pubblicità immobiliare, il sacrificio del diritto all'oblio del soggetto nei cui confronti è disposta la cancellazione dell'iscrizione di ipoteca giudiziale non sarebbe tale da richiedere un più radicale intervento di cancellazione. Nel caso dell'ipoteca giudiziaria, seguita dalla annotazione della cancellazione dell'iscrizione, i registri immobiliari danno conto della pregressa formazione di un titolo giudiziale riconducibile alla previsione dell'art. 2818 c.c., tale da giustificare l'iscrizione, ma danno altresì conto che quel titolo è poi rimasto travolto, così da legittimare la cancellazione. La cancellazione, dunque, testimonia che il debitore ha infine pagato il suo debito, o che comunque i presupposti per l'iscrizione ipotecaria non sussistevano.

Il sistema della pubblicità ipotecaria, inoltre, ha natura costitutiva, ex art. 2808 c.c., sicché una cancellazione, per così dire materiale, che non lasciasse traccia del passato, sarebbe inconcepibile, giacché l'effetto non sarebbe il semplice venir meno dell'iscrizione, a partire da quel momento, con l'estinzione dell'ipoteca (art. 2878 c.c., n. 1), ma l'eliminazione dell'ipoteca ora per allora dal mondo del diritto, tale in definitiva da falsare i fatti, facendo tabula rasa di ciò che pure è stato.

Tale soluzione, secondo i giudici di legittimità, si rafforza nel quadro di applicazione del Regolamento UE 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, il cui art. 17 disciplina il diritto all’oblio come diritto dell'interessato di “ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo”. Tuttavia, il comma 3 della summenzionata disposizione stabilisce che il diritto alla cancellazione non può essere riconosciuto all'interessato quando il trattamento dei dati personali sia necessario, tra l'altro, per l'adempimento di un obbligo di legge o per l'esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse oppure nell'esercizio di pubblici poteri.

La norma, quindi, afferma che, all'esito del necessario bilanciamento tra interessi contrapposti, il diritto alla cancellazione dei dati personali soccombe quando vi siano ragioni superiori, quali quelle indicate dalla norma, tra cui la previsione normativa dettata in funzione di un pubblico interesse oppure nell'esercizio di pubblici poteri.

4. Trattamento dei dati personali: profili processuali.

Sez. 1, n. 11818/2021, Fidanzia, Rv. 661391-01, ha stabilito che l'errore riguardante l'indicazione dei dati personali di un soggetto, contenuto in un provvedimento giurisdizionale, in base all'art. 160, comma 6, del d.lgs. n. 196 del 2003 vigente ratione temporis, è suscettibile d'eliminazione non già ricorrendo all'Autorità Garante bensì al giudice ordinario, attraverso gli strumenti processuali tipici ed esclusivi del codice di procedura civile. La Corte ha così escluso che l'errore determinato da un profilo di omonimia nel contesto di un procedimento ex art. 445 c.p.c. potesse essere emendato ricorrendo all'Autorità Garante per la protezione dei dati personali.

In tema di qualificazione dell’azione Sez. 1, n. 15162/2021, Lamorgese, Rv. 661580-01, ha stabilito che qualora l'attore abbia proposto ricorso ai sensi dell'art. 152 del d.lgs. n. 196 del 2003, chiedendo anche il risarcimento del danno, ma il tribunale abbia qualificato la domanda come azione di responsabilità civile da diffamazione non riconducibile alla mera responsabilità civile ex art. 15 del d.lgs. n. 196 del 2003, vigente ratione temporis, l'impugnazione della relativa decisione segue le regole ordinarie, e pertanto deve essere proposta mediante appello, risultando invece inammissibile il ricorso diretto per Cassazione.

Con riguardo alla irrogazione delle sanzioni amministrative, Sez. 1, n. 19947/2021, Falabella, Rv. 661829-01, ha stabilito, con riguardo alle fattispecie regolate dalle norme previgenti al d.lgs. n. 101 del 2018 (che ha adeguato la normativa nazionale al reg. UE n. 679 del 2016), che l'irrogazione delle sanzioni amministrative è disciplinata dalle disposizioni della l. n. 689 del 1981, in quanto applicabili, stante il richiamo operato dall'art. 166 del d.lgs. n. 196 del 2003, nel testo in vigore ratione temporis; ne consegue che il presunto trasgressore non può impugnare il verbale di accertamento, trattandosi di un atto a carattere procedimentale, inidoneo a produrre effetto nella sua sfera giuridica, incisa solo a seguito dell'emanazione dell'ordinanza ingiunzione, unico atto contro cui è possibile proporre opposizione.

La stessa pronuncia ha altresì precisato che l'atto di accertamento e di contestazione dell'illecito amministrativo non è irrogativo della sanzione e, come tale, non è idoneo a produrre effetti nella sfera giuridica del presunto trasgressore che, infatti, è privo di interesse ad agire in riferimento alla domanda di accertamento negativo dell'illecito solo contestato, potendo unicamente proporre opposizione avverso il provvedimento sanzionatorio successivamente emanato dal Garante a norma dell'art. 18 della l. n. 689 del 1981 (Sez. 1, n. 19947/2021, Falabella, Rv. 661829-02).

5. Identità, nome, origini.

Il diritto all’identità personale tende poi a irradiarsi anche in altre direzioni, venendo tuttavia a perdere i caratteri dell’assolutezza, dovendo essere costantemente contemperato con altri interessi di pari rango.

Rientra così nell’ambito dell’identità personale a compasso allargato anche il diritto del figlio nato da parto anonimo di conoscere le proprie origini (anche in base all’art. 8 CEDU), ma i poteri che egli può esercitare a tal fine sono limitati dal correlato diritto della madre a mantenere l’anonimato (Sez. 1, n. 22497/2021, Iofrida, Rv. 662305-01). Se dunque deve consentirsi al figlio di interpellare la madre biologica al fine di sapere se intenda revocare la propria scelta, occorre parimenti tutelare l'equilibrio psico-fisico della genitrice; pertanto, il diritto all'interpello non può essere attivato qualora la madre versi in stato di incapacità, anche non dichiarata, e non sia pertanto in grado di revocare validamente la propria scelta di anonimato.

Non rileva, ai fini dell'applicazione di queste regole, l'abrogazione dell'art. 177, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, che aveva sostituito all'art. 28 della l. n. 183 del 1984, il comma 7, che inibiva il diritto alla conoscenza delle origini del nato da parto anonimo, sia perché il limite alla conoscenza di cui all'art. 28, comma 7, era già stato introdotto con la l. n. 149 del 2001, sia perché deve tenersi conto dell'intervento additivo di principio, cui ha provveduto la Corte costituzionale con sentenza n. 278 del 2013.

In tema di diritto al nome, invece, Sez. 1, n. 34090/2021, Parise, Rv. 663270-01, ha puntualizzato che la persona fisica ha sempre titolo a rivendicare per sé il cognome con il quale è stata individuata e iscritta dai propri genitori negli atti dello stato civile, senza che quello del coniuge, acquisito in sostituzione del proprio a seguito di matrimonio contratto all'estero, anche se utilizzato in molteplici contesti, possa costituire un fatto causativo del suo indebolimento o della sua perdita, restando l'assolutezza di tale diritto un tratto ineliminabile dello stesso.

La particolarità della vicenda concreta era data dal fatto che il coniuge divorziato pretendeva di negare la legittimazione processuale alla ex moglie per il solo fatto che, a seguito del matrimonio e in virtù delle leggi del Regno Unito allora applicabili, la stessa lo aveva sostituito con quello del marito.

6. La libertà religiosa e i suoi attuali confini.

Nel corso del 2021, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno reso quella che si annuncia come una sentenza-cardine in materia di libertà religiosa, per lo spessore dei suoi contenuti e la capacità di bilanciare le diverse sensibilità che in questo ambito inevitabilmente rischiano di entrare in conflitto.

Il riferimento è a Sez. U, n. 24414/2021, Giusti, Rv. 662230-01, 662230-02, 662230-03.

Il caso concreto riguardava un insegnante di un istituto d’istruzione superiore che, in nome della libertà d’insegnamento e del principio di neutralità della scuola pubblica in materia religiosa, aveva più volto rimosso il crocifisso dalle pareti delle aule dove svolgeva le proprie lezioni, accompagnando il gesto con dichiarazioni polemiche. Sottoposto per questa ragione a un procedimento disciplinare, l’insegnante ne aveva impugnato davanti al giudice del lavoro il provvedimento conclusivo.

La S.C. ne ha tratto l’occasione sia per tracciare gli attuali confini della libertà religiosa nel nostro ordinamento, sia per esprimere una concezione assai elevata della nomofilachia, descritta come “un farsi, un divenire che si avvale dell'apporto dei giudici del merito e delle riflessioni del Collegio della Sezione rimettente, dell'opera di studio e di ricerca del Massimario, degli approfondimenti scientifici e culturali offerti dagli incontri di studio organizzati dalla Formazione decentrata presso la Corte, delle sollecitazioni e degli stimoli, espressione di ius litigatoris, derivanti dalle difese delle parti e del contributo, ispirato alla salvaguardia del pubblico interesse attraverso il prisma dello ius constitutionis, del pubblico ministero” (§ 8). In questo contesto, cui non è estranea la dottrina, per la sua capacità di offrire “la ricostruzione del quadro di sistema e l'elaborazione di linee di prospettiva coerenti con le attese della comunità interpretante”, alla Corte di legittimità è consentito “di svolgere il suo ruolo con quella prudenza «mite» che rappresenta un connotato del mestiere del giudice” (§ 8).

Ne è scaturita una pronuncia che si presta a molteplici livelli di lettura, per la sua capacità di coniugare affermazioni di principio e soluzione ragionevole del caso concreto.

Anzitutto, è stato definitivamente affermato che, nelle aule delle scuole pubbliche, in base alla Costituzione repubblicana, ispirata al principio di laicità dello Stato e alla salvaguardia della libertà religiosa positiva e negativa, non è prevista l'affissione obbligatoria, per determinazione dei pubblici poteri, del simbolo religioso del crocifisso: “l'esposizione autoritativa del crocifisso nelle aule scolastiche non è compatibile con il principio supremo di laicità dello Stato. L'obbligo di esporre il crocifisso è espressione di una scelta confessionale. La religione cattolica costituiva un fattore di unità della nazione per il fascismo; ma nella democrazia costituzionale l'identificazione dello Stato con una religione non è più consentita” (§ 11.6.).

Il venir meno dell'obbligo di esposizione, tuttavia, non si traduce automaticamente nel suo contrario, e cioè in un divieto di presenza del crocifisso nelle aule scolastiche. Il principio di laicità dello Stato non impone di espungere i simboli religiosi dallo spazio pubblico (la sentenza richiama al riguardo la sentenza della Corte EDU 18 marzo 2011 nel caso Lautsi c. Italia, in cui il crocifisso era stato considerato un simbolo passivo, non equiparabile a un discorso didattico di eventuale propaganda religiosa), ma “lascia ora spazio per una interpretazione estensiva in direzione della pluralità dei simboli, ispirata ad un universalismo concreto, fondato empiricamente e democraticamente responsivo rispetto alla mutata composizione etnica e quindi anche religiosa della popolazione. L'originario carattere assoluto e incondizionato della esposizione del simbolo cristiano cede il posto alla possibilità di risposte articolate e non uniformanti, in base ad una linea di composizione dei possibili conflitti all'interno della istituzione scolastica, secondo il principio base della sussidiarietà orizzontale che trova spazio e riconoscimento nell'art. 118 Cost.” (§ 12.1).

La Corte affida dunque alla comunità scolastica, in tutte le sue componenti, il compito di ricercare un "ragionevole accomodamento" tra eventuali posizioni difformi.

Nel caso concreto, però, la soluzione non è parsa ragionevole alla Corte, atteso che l’affissione del crocifisso era stata disposta dal dirigente scolastico con una circolare che richiamava tutti i docenti della classe al dovere di rispettare e tutelare la volontà degli studenti, espressa solo a maggioranza in assemblea.

La circolare non è stata considerata una forma di discriminazione a causa della religione nei confronti del docente, perché con essa il dirigente scolastico non ha connotato in senso religioso l'esercizio della funzione pubblica di insegnamento, né ha condizionato la libertà di espressione culturale del docente dissenziente.

Tuttavia, il provvedimento irrogativo di una sanzione disciplinare nei confronti del docente – proprio perché fondato su una ricerca non adeguata della volontà della comunità scolastica – è stato giudicato illegittimo e annullato.

Sempre in tema di libertà religiosa, sempre più frequenti le decisioni riguardanti la protezione internazionale dello straniero in cui le esigenze umanitarie da proteggere hanno origine dalle restrizioni di tale diritto nel Paese di origine.

Tra queste, meritano una particolare segnalazione Sez. 1, n. 22275/2021, Vannucci, Rv. 661995-01, e Sez. 1, n. 35102/2021, Gori, Rv. 663277-02, rese in sede di applicazione dell'art. 2, comma 2, lett. e), del d.lgs. n. 251 del 2007, nella parte in cui definisce "rifugiato" il cittadino straniero il quale, per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di religione, si trovi fuori del territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non possa o, a causa di tale timore, non voglia avvalersi della protezione di tale Paese.

La S.C. ha affermato che tale disposizione deve interpretarsi nel senso che il timore va valutato sia alla luce del contenuto della legislazione, sia della sua applicazione concreta da parte del Paese di origine, circa il rispetto dei limiti "interni" alla libertà religiosa, che emergono dall'art. 19 Cost. e dell'art. 9, par. 2 CEDU, dovendo il giudice valutare se l'ingerenza da parte dello Stato di origine nella libertà del ricorrente di manifestare il proprio culto sia prevista dalla legge, sia diretta a perseguire uno o più fini legittimi e costituisca una misura necessaria e proporzionata al perseguimento di tali fini (è stata così cassata la pronuncia di merito che aveva escluso l'esistenza di una persecuzione per motivi religiosi di una cittadina cinese aderente alla chiesa domestica Yin Xin Cheng Yi di fede cristiana, per il solo fatto che si trattava di un culto nei confronti del quale vi era una certa tolleranza da parte dello Stato).

Sez. 1, n. 35102/2021, Gori, Rv. 663277-02, ha poi puntualizzato che, qualora siano accertati atti oggettivamente lesivi dei diritti fondamentali di libertà religiosa dello straniero, al richiedente asilo non può essere negata la protezione sussidiaria con la pretesa che, una volta tornato nel Paese di origine, egli rinunci al compimento di atti religiosi che lo espongano al rischio effettivo di persecuzione, secondo il culto cui aderisce, previa adesione a un culto riconosciuto dallo Stato.

7. I diritti dei disabili.

In materia, si segnala Sez. 1, n. 36324/2021, Acierno, Rv. 662950-01, con cui la S.C. ha affermato che la vigente legislazione esclude che la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi di soggetti disabili esposti ad interventi limitativi della capacità di autodeterminarsi degli stessi possa essere assunta – sia pure sotto forma di intervento in causa ad adiuvandum – da enti esponenziali che abbiano come finalità statutaria la tutela collettiva di specifiche categorie di disabilità, anche se rivolta ad escludere ogni forma di discriminazione per ragioni di handicap.

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  • matrimonio
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  • divorzio
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  • diritto di affidamento
  • diritto di famiglia
  • diritto matrimoniale
  • impresa familiare

CAPITOLO II

LA FAMIGLIA E LA PROTEZIONE DEI SOGGETTI NON AUTONOMI

(di Paolo Di Marzio, Chiara Giammarco(*) )

Sommario

1 Donazione in vista del matrimonio, poi non celebrato. - 2 La nullità del matrimonio e le sue conseguenze. - 3 Diritto di famiglia e litispendenza internazionale. - 4 Diritto alla conservazione del proprio cognome, anche a seguito del matrimonio (contratto all’estero). - 5 La separazione personale dei coniugi. - 5.1 La separazione personale dei coniugi, profili processuali. - 6 La separazione personale dei coniugi: assegno di mantenimento. - 6.1 La separazione personale dei coniugi: assegno di mantenimento, profili processuali. - 7 La separazione personale dei coniugi: l’addebito. - 7.1 La separazione personale dei coniugi: l’addebito, profili processuali. - 8 L’affidamento, il collocamento ed il diritto di visita dei figli minori. - 8.1 L’affidamento, il collocamento ed il diritto di visita dei figli minori, profili processuali. - 9 Il regime patrimoniale della famiglia: comunione legale, impresa familiare, fondo patrimoniale, comunione tacita familiare. - 9.1 Il regime patrimoniale della famiglia: comunione legale, fondo patrimoniale, profili processuali. - 10 La casa familiare. - 11 Il divorzio. - 11.1 Il divorzio, profili processuali. - 12 L’assegno divorzile e la sua revisione. - 12.1 L’assegno divorzile, profili processuali. - 13 L’assegno divorzile, accessori: la pensione di reversibilità ed il trattamento di fine rapporto dell’obbligato. - 13.1 L’assegno divorzile, accessori: la pensione di reversibilità ed il trattamento di fine rapporto dell’obbligato, profili processuali. - 14 Il mantenimento dei figli. - 14.1 Il mantenimento dei figli, profili processuali. - 15 Il riconoscimento, ed il disconoscimento, dello status di figlio. - 15.1 Il riconoscimento, ed il disconoscimento, dello status di figlio, profili processuali. - 16 La responsabilità genitoriale. - 16.1 La responsabilità genitoriale, profili processuali. - 17 Questioni in materia di matrimonio concordatario, profili processuali. - 18 Unioni civili, famiglia di fatto, convivenza more uxorio. - 19 Ius sepulchri. - 20 Rapporti familiari e immigrazione. - 20.1 Rapporti familiari e immigrazione, profili processuali. - 21 Famiglia e tributi. - 21.1 Famiglia e tributi, profili processuali. - 22 La genitorialità solidale: gli sviluppi degli istituti adottivi. - 22.1 L’adozione “mite”. Lo stato di abbandono. - 22.2 Il procedimento per la dichiarazione di adottabilità. - 22.3 La nomina del difensore d’ufficio ai genitori del minore. - 22.4 L’instaurazione del contraddittorio. - 22.5 Il giudizio di appello. - 22.6 Il giudizio di cassazione. - 22.7 Il riconoscimento in Italia di sentenza straniera di adozione di un minore da parte di una coppia omoaffettiva. - 23 La protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia.

1. Donazione in vista del matrimonio, poi non celebrato.

L'acquisto di un appartamento da parte di uno dei nubendi, finanziato con denaro dell'altro, in previsione del matrimonio, è configurabile come donazione indiretta, che, in quanto finalizzata alle nozze, rientra nella previsione di cui all'art. 80 c.c. Ne consegue che, ove il matrimonio non venga celebrato, essendo venuta meno la causa donandi si determina la caducazione dell'attribuzione patrimoniale al donatario senza che ciò incida sul rapporto fra venditore e donante, il quale, per effetto della retrocessione viene ad assumere la qualità di effettivo acquirente. (Sez. 1, n. 29980/2021, Terrusi, Rv. 662861-01).

2. La nullità del matrimonio e le sue conseguenze.

Il matrimonio può essere impugnato, ai sensi dell'art. 120 c.c., per la mera incapacità di intendere e di volere del coniuge al momento della celebrazione, intesa come menomazione della sfera intellettiva e volitiva di tale grado da impedire di far comprendere il significato e le conseguenze dell'impegno assunto, senza che abbia rilievo il pregiudizio dell'incapace o il vantaggio dell'altro contraente, né il dolo o la malafede di quest'ultimo, poiché la nullità del matrimonio è prevista a tutela dell'integrità del consenso dei coniugi, che l'ordinamento vuole formato in piena libertà e consapevolezza. (Sez. 1, n. 20862/2021, Lamorgese, Rv. 662181-01).

In materia di matrimonio nullo e di valutazione dell’applicabilità della disciplina del matrimonio putativo, la Corte di legittimità ha statuito che la buona fede dei nubendi al momento della celebrazione del matrimonio si presume, in applicazione dei principi generali sanciti dall'art. 1147 c.c. L'onere della prova grava pertanto su colui che allega la mala fede e ha interesse a dimostrarne l'esistenza, restando comunque ogni valutazione al riguardo - anche in ordine alla ricorrenza di una condizione di ignoranza dipendente da colpa grave - riservata al giudice di merito. (Sez. 1, n. 33409/2021, Lamorgese, Rv. 663294-01). Nella stessa pronuncia, la Cassazione ha chiarito che in tema di nullità del matrimonio, il terzo portatore di un interesse legittimo e attuale, avente diritto a proporre l'azione di nullità ex art. 117, comma 1, c.c., che sia anche erede di colui che abbia impugnato il matrimonio e sia deceduto in pendenza di giudizio, può proseguire iure hereditatis l'azione esperita dal de cuius, in applicazione dell'art. 127 c.c., a prescindere dal fatto che abbia o meno esercitato l'azione diretta a lui spettante. (Sez. 1, n. 33409/2021, Lamorgese, Rv. 663294-02).

3. Diritto di famiglia e litispendenza internazionale.

In tema di litispendenza internazionale extra-comunitaria, deve applicarsi l'art. 7, comma 1, della l. n. 218 del 1995, e non già l'art. 19 del Regolamento CE n. 2201 del 2003, disciplinante la litispendenza intra-comunitaria, sicché ai fini della sospensione obbligatoria del processo successivamente instaurato, occorre che le domande presentino identità dell'oggetto e del titolo, non accogliendosi il concetto più ampio di identità di cause adottato in ambito comunitario, che fa leva non tanto sulla specificità del provvedimento richiesto al giudice, quanto su una situazione complessiva di "crisi del matrimonio". Ne consegue che non è ravvisabile l’identità di cause tra il giudizio di separazione dei coniugi e quello di divorzio. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato in relazione alla introduzione di un giudizio di divorzio dinanzi all'autorità giudiziaria del Principato di Monaco, in pendenza del procedimento per separazione personale dinanzi a quella italiana, la insussistenza della identità delle cause, dato che il Principato di Monaco, pur essendosi allineato a talune politiche economiche e fiscali dell'Unione Europea, non ne fa parte). (Sez. 6-1, n. 02654/2021, Tricomi L., Rv. 660738-01).

In tema di litispendenza internazionale, l'ordinanza con cui il giudice successivamente adito sospende il processo finché quello adito per primo non abbia affermato la propria giurisdizione, non involge alcuna questione di giurisdizione, risolvendosi piuttosto nella verifica dei presupposti di natura processuale inerenti all'identità delle cause ed alla pendenza del giudizio instaurato preventivamente. Ne consegue che avverso detto provvedimento deve essere esperito non già il regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 c.p.c., bensì il regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, avverso il provvedimento con cui il giudice italiano aveva sospeso il giudizio di separazione personale tra coniugi, con riguardo alla domanda di mantenimento dei figli minori, sul presupposto che quest'ultima fosse sub judice in altro processo, pendente in Scozia tra le stesse parti e avente ad oggetto la legittimità del trasferimento all'estero dei figli medesimi). (Sez. U, n. 21767/2021, Valitutti, Rv. 661869-01).

4. Diritto alla conservazione del proprio cognome, anche a seguito del matrimonio (contratto all’estero).

In tema di diritto al nome, la persona fisica ha sempre titolo a rivendicare per sé il cognome con il quale è stata individuata e iscritta dai propri genitori negli atti dello stato civile, senza che quello del coniuge, acquisito in sostituzione del proprio a seguito di matrimonio contratto all'estero, anche se utilizzato in molteplici contesti, possa costituire un fatto causativo del suo indebolimento o della sua perdita, restando l'assolutezza di tale diritto un tratto ineliminabile dello stesso. (Sez. 1, n. 34090/2021, Parise, Rv. 663270-01).

5. La separazione personale dei coniugi.

In materia di accordi di trasferimento di diritti reali immobiliari conclusi tra i coniugi in sede di separazione personale, la disposizione di cui all'art. 29, comma 1-bis, della l. n. 52 del 1985, come introdotta dall'art. 19 del d.l. n. 78 del 2010, conv. con modif. dalla l. n. 122 del 2010, secondo cui gli atti e le scritture autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento della comunione di diritti reali sui fabbricati già esistenti, ad esclusione dei diritti reali di garanzia, devono contenere a pena di nullità, oltre all'identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, non si applica agli accordi conclusi anteriormente al 1° luglio 2010, in considerazione della norma transitoria contenuta nel comma 16 dell'art. 19 del ridetto d.l. n. 78 del 2010. (Sez. 1, n. 05061/2021, Tricomi L., Rv. 660757-01).

Il contrasto insorto tra genitori legalmente separati, entrambi esercenti la responsabilità genitoriale, sulla scuola "religiosa" o "laica" presso cui iscrivere i figli, deve essere risolto in considerazione dell'esigenza di tutelare il preminente interesse dei minori ad una crescita sana ed equilibrata, ed importa una valutazione di fatto, non sindacabile nel giudizio di legittimità, che può ben essere fondata sull'esigenza, in una fase esistenziale già caratterizzata dalle difficoltà conseguenti alla separazione dei genitori, di non introdurre fratture e discontinuità ulteriori, come facilmente conseguenti alla frequentazione di una nuova scuola, assicurando ai figli minori la continuità ambientale nel campo in cui si svolge propriamente la loro sfera sociale ed educativa. (Sez. 1, n. 21553/2021, Dolmetta, Rv. 661923-03). Nella stessa decisione la Corte di legittimità ha statuito che in tema di soluzione dei contrasti in ordine a questioni di particolare importanza per il figlio insorte tra i genitori, l'art. 316, commi 1 e 2, c.c., il quale prevede che ciascuno di essi può ricorrere al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei, trova applicazione solo nel contesto di un nucleo genitoriale che sia tuttora unito; diversamente, nel caso di contrasto insorto tra coniugi legalmente separati ed entrambi esercenti la responsabilità genitoriale sul figlio, trova applicazione l'art. 337 ter, comma 3, c.c., e la decisione è rimessa al giudice. (Sez. 1, n. 21553/2021, Dolmetta, Rv. 661923-02).

Le clausole dell'accordo di separazione consensuale o di divorzio a domanda congiunta, che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni - mobili o immobili - o la titolarità di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi o dei figli al fine di assicurarne il mantenimento, sono valide in quanto il predetto accordo, inserito nel verbale di udienza redatto da un ausiliario del giudice, e destinato a far fede di ciò che in esso è stato attestato, assume forma di atto pubblico ex art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo il decreto di omologazione della separazione o la sentenza di divorzio, valido titolo per la trascrizione ex art. 2657 c.c., purché risulti l'attestazione del cancelliere che le parti abbiano prodotto gli atti e rese le dichiarazioni di cui all'art. 29, comma 1-bis, della l. n. 52 del 1985, come introdotto dall'art. 19, comma 14, del d.l. n. 78 del 2010, conv. con modif. dalla l. n. 122 del 2010, restando invece irrilevante l'ulteriore verifica circa gli intestatari catastali dei beni e la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari. (Sez. U, n. 21761/2021, Valitutti, Rv. 661859-01).

5.1. La separazione personale dei coniugi, profili processuali.

Pronunziando nell’ambito del giudizio di separazione personale dei coniugi, la Cassazione ha osservato che qualora la Corte di appello disponga la trattazione scritta, ai sensi dell'art. 83 del d.l. n. 18 del 2020 (conv. con modif. dalla l. n. 27 del 2020), l'individuazione della disciplina che regola la fase decisoria, a seguito dello scambio delle memorie, va effettuata applicando le regole ordinarie, sicché, ove il giudizio sia sottoposto al rito camerale, caratterizzato da particolare celerità e semplicità di forme, la sentenza può essere legittimamente emessa senza la previa concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. (Sez. 6-1, n. 33175/2021, Di Marzio M., Rv. 663307-01).

6. La separazione personale dei coniugi: assegno di mantenimento.

In materia di quantificazione dell'assegno di mantenimento a seguito della separazione dei coniugi, deve attribuirsi rilievo anche all'assegnazione della casa familiare che, pur essendo finalizzata alla tutela della prole e del suo interesse a permanere nell'ambiente domestico, indubbiamente costituisce un'utilità suscettibile di apprezzamento economico, come del resto espressamente precisato dall'art. 337 sexies c.c., e tale principio trova applicazione anche qualora il coniuge separato assegnatario dell'immobile ne sia comproprietario, perché il suo godimento del bene non trova fondamento nella comproprietà del bene, ma nel provvedimento di assegnazione, opponibile anche ai terzi, che limita la facoltà dell'altro coniuge di disporre della propria quota dell'immobile e si traduce in un pregiudizio economico, anch'esso valutabile ai fini della quantificazione dell'assegno dovuto. (Sez. 1, n. 20858/2021, Mercolino, Rv. 661830-01).

In tema di separazione personale dei coniugi, l'attitudine al lavoro proficuo dei medesimi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione della misura dell'assegno di mantenimento da parte del giudice, dovendosi verificare la effettiva possibilità di svolgimento di un'attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, senza limitare l'accertamento al solo mancato svolgimento di un 'attività lavorativa e con esclusione di mere valutazioni astratte e ipotetiche. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza del giudice di merito, il quale si era limitato a rilevare che la moglie, richiedente l'assegno, non svolgeva attività lavorativa, senza però valutare se l'istante avesse la concreta possibilità di intraprendere un'attività lavorativa retribuita, tenendo anche conto che risultava gravata da oneri di assistenza di una figlia portatrice di handicap). (Sez. 1, n. 24049/2021, Falabella, Rv. 662389-01).

6.1. La separazione personale dei coniugi: assegno di mantenimento, profili processuali.

Nel giudizio di separazione personale dei coniugi, ai fini della determinazione del quantum dell'assegno di mantenimento, la valutazione delle condizioni economiche delle parti non richiede necessariamente l'accertamento dei redditi nel loro esatto ammontare, essendo sufficiente un'attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali dei coniugi. (Sez. 1, n. 00975/2021, Caradonna, Rv. 660202-01).

In materia di separazione dei coniugi, grava sul richiedente l'assegno di mantenimento, ove risulti accertata in fatto la sua capacità di lavorare, l'onere della dimostrazione di essersi inutilmente attivato e proposto sul mercato per reperire un'occupazione retribuita confacente alle proprie attitudini professionali, poiché il riconoscimento dell'assegno a causa della mancanza di adeguati redditi propri, previsto dall'art. 156 c.c., pur essendo espressione del dovere solidaristico di assistenza materiale, non può estendersi fino a comprendere ciò che, secondo il canone dell'ordinaria diligenza, l'istante sia in grado di procurarsi da solo. (Sez. 1, n. 20866/2021, Pazzi, Rv. 661970-01).

7. La separazione personale dei coniugi: l’addebito.

In tema di separazione personale dei coniugi, l'allontanamento dalla casa familiare, costituendo violazione del dovere di coabitazione, è di per sé sufficiente a giustificare l'addebito della separazione, a meno che il destinatario della relativa domanda non dimostri l'esistenza di una giusta causa, che non sussiste per il solo fatto che abbia confessato al consorte di nutrire un sentimento affettivo nei confronti di un'altra persona, essendo necessaria la prova che l'allontanamento sia stato determinato dal comportamento dell'altro coniuge (anche in reazione alla confessione ricevuta) o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile. (Sez. 1, n. 11792/2021, Valitutti, Rv. 661316-01).

7.1. La separazione personale dei coniugi: l’addebito, profili processuali.

In tema di separazione personale dei coniugi, la richiesta di addebito costituisce una domanda autonoma, che amplia il tema d'indagine e determina una statuizione aggiuntiva dotata di propri effetti anche di natura patrimoniale, sicché, in pendenza del giudizio d'impugnazione riguardante la sola pronuncia sull'addebito, può essere proposta domanda di divorzio, in virtù del passaggio in giudicato della distinta decisione sulla separazione. (Nella specie, la S.C. ha respinto l'impugnazione contro la sentenza che, sebbene fosse stata impugnata la pronuncia sull'addebito della separazione, aveva statuito, in sede di divorzio, sulla richiesta di assegno ex art. 5 della l. n. 898 del 1970, senza sospendere il giudizio nell'attesa della definizione di quello sull'addebito). (Sez. 1, n. 11794/2021, Valitutti, Rv. 661450-01).

In tema di addebito della separazione, l'anteriorità della crisi della coppia rispetto all'infedeltà di uno dei due coniugi esclude il nesso causale tra quest'ultima condotta, violativa degli obblighi derivanti dal matrimonio, e l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza, sicché, integrando un'eccezione in senso lato, è rilevabile d'ufficio, purché sia allegata dalla parte a ciò interessata e risulti dal materiale probatorio acquisito al processo. (Sez. 1, n. 20866/2021, Pazzi, Rv. 661970-02).

La dichiarazione di addebito della separazione implica la prova che la irreversibile crisi coniugale sia ricollegabile esclusivamente al comportamento volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri nascenti dal matrimonio di uno o di entrambi i coniugi, ovverosia che sussista un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell'intollerabilità della ulteriore convivenza; pertanto, in caso di mancato raggiungimento della prova che il comportamento contrario ai predetti doveri tenuto da uno dei coniugi, o da entrambi, sia stato la causa efficiente del fallimento della convivenza, legittimamente viene pronunciata la separazione senza addebito. (Sez. 1, n. 40795/2021, Nazzicone, Rv. 663468-01).

Nel giudizio civile di separazione personale dei coniugi, vertente sulla domanda di addebito della stessa, la sentenza di patteggiamento a carico di uno di essi può costituire, quale fatto storico espressione della sua condotta, idoneo elemento di valutazione in ordine alla dedotta sussistenza di presupposti della separazione medesima, nel contesto degli accertamenti condotti dal giudice civile, secondo il suo prudente apprezzamento. (Sez. 1, n. 40796/2021, Nazzicone, Rv. 663550-01).

8. L’affidamento, il collocamento ed il diritto di visita dei figli minori.

In tema di affidamento del figlio di età minore, qualora un genitore denunci i comportamenti dell'altro tesi all'allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), nella specie nella forma della sindrome della cd. "madre malevola" (MMS), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova comprese le consulenze tecniche e le presunzioni, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l'altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena. (Nella specie la S.C. ha cassato la decisione della corte di merito, che aveva disposto l'affido c.d. "super-esclusivo" al padre, in considerazione della gravità dei comportamenti della madre, trascurando però di valorizzare il suo positivo rapporto con la minore e senza operare una più ampia valutazione circa la possibilità di intraprendere un percorso di effettivo recupero delle capacità genitoriali). (Sez. 1, n. 13217/2021, Caiazzo, Rv. 661393-01).

8.1. L’affidamento, il collocamento ed il diritto di visita dei figli minori, profili processuali.

In tema di provvedimenti in ordine alla convivenza dei figli con uno dei genitori, l'audizione del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo, in relazione al quale incombe sul giudice che ritenga di ometterlo un obbligo di specifica motivazione, non solo se ritenga il minore infradodicenne incapace di discernimento ovvero l'esame manifestamente superfluo o in contrasto con l'interesse del minore, ma anche qualora opti, in luogo dell'ascolto diretto, per quello effettuato nel corso di indagini peritali o demandato ad un esperto al di fuori di detto incarico, atteso che solo l'ascolto diretto del giudice dà spazio alla partecipazione attiva del minore al procedimento che lo riguarda. (Sez. 1, n. 01474/2021, Valitutti, Rv. 660431-01).

Quando l'adozione del provvedimento di affidamento familiare del minore si renda necessaria nel corso del giudizio di separazione dei coniugi, ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c., la competenza appartiene al tribunale ordinario, che deve innanzitutto, a pena di nullità della pronuncia, procedere all'ascolto del minore che abbia compiuto gli anni dodici ed anche di età inferiore se capace di discernimento, salvo che ritenga di omettere tale incombente con adeguata motivazione, dovendo il giudice indicare altresì il periodo di presumibile estensione temporale dell'affidamento, i modi di esercizio dei poteri riconosciuti all'affidatario e le modalità attraverso cui i genitori e gli altri componenti del nucleo familiare possono mantenere i rapporti con il minore. (Sez. 1, n. 16569/2021, Tricomi L., Rv. 661813-01).

In tema di affidamento dei figli minori nell'ambito del procedimento di divorzio, l'ascolto del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, atteso che è espressamente destinato a raccogliere le sue opinioni e a valutare i suoi bisogni. Tale adempimento non può essere sostituito dalle risultanze di una consulenza tecnica di ufficio, la quale adempie alla diversa esigenza di fornire al giudice altri strumenti di valutazione per individuare la soluzione più confacente al suo interesse. (Sez. 1, n. 23804/2021, Caradonna, Rv. 662383-01).

In procedimento avente ad oggetto l’affidamento, condiviso o esclusivo, del figlio minore nato da genitori non coniugati, la Corte di legittimità ha statuito che è consentita la proposizione della domanda risarcitoria da illecito endofamiliare per gli atti pregiudizievoli commessi dall'altro genitore ai danni del minore, anche nel corso del procedimento camerale finalizzato all'adozione delle misure di cui all'art. 709-ter c.p.c., non essendovi motivo per imporre al genitore, il quale intenda svolgere siffatta domanda nell'interesse del figlio minore, la necessità di proporre un'autonoma azione da illecito aquiliano; l'art. 709-ter c.p.c. è, infatti, norma processuale che, in via eccezionale, consente al giudice di trattare una domanda ordinaria con rito speciale, per preminenti ragioni di celerità del mezzo di tutela, ed il provvedimento terminativo del giudizio riveste il carattere della decisorietà, con conseguente idoneità al giudicato. (Sez. 1, n. 27147/2021, Fidanzia, Rv. 662720-01).

In tema di ricorso per cassazione, avverso il decreto che ha deciso il reclamo sull'affidamento di un figlio di età minore, qualora il ricorrente non notifichi l'impugnativa all'altro genitore, che risulti essere l'unico contraddittore necessario, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, neppure consentendo l'integrazione del contraddittorio, ai sensi dell'art. 331 c.p.c., la notificazione effettuata dal ricorrente al P.M. presso il giudice "a quo", se non venga dimostrato uno specifico interesse del suo ufficio ad essere parte del giudizio. (Sez. 1, n. 31498/2021, Valitutti, Rv. 663265-01).

I provvedimenti che regolano il diritto di visita del minore (nella specie nell'ambito di un procedimento ex art. 709 ter c.p.c.), anche se adottati in sede di reclamo, in quanto revocabili e modificabili non solo ex nunc per nuovi elementi sopravvenuti ma anche ex tunc, sulla base di un riesame di merito o di legittimità delle originarie risultanze processuali, non hanno natura stabile e carattere decisorio, sicché nei loro confronti non è ammesso il ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. (Sez. 1, n. 33612/2021, Nazzicone, Rv. 663106-01).

9. Il regime patrimoniale della famiglia: comunione legale, impresa familiare, fondo patrimoniale, comunione tacita familiare.

Nei rapporti tra coniugi già in regime di comunione legale dei beni, dal combinato disposto degli artt. 2659, comma 1, e 191 commi 1 e 2 c.c., si ricava che non diviene di proprietà comune l'immobile acquistato da uno solo di essi dopo la loro separazione personale, dal momento che quest'ultima costituisce causa di scioglimento della comunione medesima con la decorrenza prevista dall'art. 191, comma 2, c.c.; invece, per l'opponibilità ai terzi degli effetti dello scioglimento della comunione legale derivante dalla separazione personale dei coniugi, relativamente all'acquisto di beni immobili o mobili registrati, avvenuto con dichiarazione dello status di separato, da parte del coniuge acquirente, deve considerarsi necessaria e sufficiente la sola trascrizione nei registri immobiliari recante la corrispondente indicazione (cioè l'esistenza di un regime patrimoniale di separazione dei beni), indipendentemente dall'annotazione del provvedimento di separazione a margine dell'atto di matrimonio. (Nella specie la S.C., nell'applicare il principio, ha ritenuto non opponibile, al fallimento del marito, l'acquisto di un immobile da parte della moglie separata, non risultando lo scioglimento della comunione dalla nota di trascrizione della compravendita immobiliare). (Sez. 1, n. 00376/2021, Campese, Rv. 660360-01).

In tema di impresa familiare, la quota di partecipazione agli utili ed agli incrementi del familiare va determinata, sulla base della quantità e qualità del lavoro svolto dal predetto, e non della sua effettiva incidenza causale sul loro conseguimento, in relazione al valore complessivo dell'impresa che si connota come entità dinamica soggetta a variazioni in funzione dell'andamento del mercato; ne deriva che, nella liquidazione della quota del familiare al momento della cessazione, va inclusa anche la rivalutazione di un fattore della produzione riferibile a cause estranee all'attività svolta dal partecipante, che si sia tradotto in un aumento di redditività dell'impresa medesima, ed analogamente i fattori di decremento dei beni che abbiano riflessi sulla produttività. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva espunto dal calcolo della quota l'aumento di valore di mercato degli immobili imputabile all'introduzione della moneta unica). (Sez. L, n. 01401/2021, Pagetta, Rv. 660175-01).

La preclusione per il coniuge beneficiario di assegno divorzile in unica soluzione, di cui all'art. 5, comma 8, della l. n. 898 del 1970, di future pretese di carattere economico, non riguarda anche l'azione di accertamento della comunione de residuo proposta dall'ex coniuge ai sensi degli artt. 177, lett. b) e c), e 178 c.c., trattandosi di pretesa fondata su presupposti e finalità del tutto diversi, atteso che la detta comunione si costituisce solo su taluni beni dei coniugi e soltanto se ancora esistenti al momento del suo scioglimento. (Sez. 1, n. 04492/2021, Iofrida, 660514-01).

In materia di comunione legale tra i coniugi, la separazione personale costituisce causa di scioglimento della comunione, che è rimossa dalla riconciliazione dei coniugi medesimi, cui segue il ripristino automatico del regime di comunione originariamente adottato, con la sola esclusione degli acquisti effettuati durante il periodo di separazione e fatta salva l'invocabilità, ratione temporis, dell'effetto pubblicitario derivante dalla novella di cui all'art. 69 del d.P.R. n. 396 del 2000, che ha previsto l'annotazione a margine dell'atto di matrimonio delle dichiarazioni rivelatrici della volontà riconciliativa. (Principio affermato in fattispecie anteriore all'entrata in vigore del d.P.R. n. 396 cit.). (Sez. n. 6-2, 06820/2021, Criscuolo, Rv. 660941-01).

Nella disciplina anteriore alla riforma del diritto di famiglia di cui alla l. n. 151 del 1975, il coniuge che affermi il diritto di comproprietà su un bene immobile intestato all'altro coniuge, in forza di un regime di comunione tacita familiare, idoneo ad estendersi ipso iure agli acquisti fatti da ciascun partecipante senza bisogno di mandato degli altri né di successivo negozio di trasferimento, ha l'onere di fornire la relativa prova, tenendo conto che la suddetta comunione non può essere desunta da una mera situazione di collaborazione familiare, ma postula atti o comportamenti che evidenzino inequivocabilmente la volontà di mettere a disposizione del consorzio familiare determinati beni, nonché di porre in comune lucri, perdite ed incrementi patrimoniali (Sez. 2, n. 07872/2021, Tedesco, Rv. 660827-01).

In tema di azione revocatoria ordinaria degli atti a titolo gratuito (nella specie negozio costitutivo di fondo patrimoniale), il requisito della scientia damni richiesto dall'art. 2901, comma 1, n. 1), c.c. si risolve, non già nella consapevolezza dell'insolvenza del debitore, ma nella semplice conoscenza del danno che ragionevolmente può derivare alle ragioni creditorie dal compimento dell'atto. (Sez. 1, n. 09192/2021, Dolmetta, Rv. 661147-01).

L'opponibilità ai terzi della comunione degli utili e degli acquisti, costituita prima della riforma del diritto di famiglia attuata con la l. n. 151 del 1975, è condizionata soltanto alla annotazione a margine dell'atto di matrimonio prevista, per le convenzioni matrimoniali, dall'art. 162 c.c., senza che sia richiesta anche la trascrizione della relativa convenzione a norma dell'art. 2647 c.c., atteso che l'art. 227 della l. n. 151 del 1975 non ha previsto l'ultrattività delle precedenti norme per tale comunione, come invece ha disposto per le doti e i patrimoni familiari. (Nella specie la S.C. ha ritenuto l'inopponibilità ai terzi della convenzione matrimoniale prevedente la comunione dei beni dei coniugi, stipulata anteriormente alla riforma del diritto di famiglia, sebbene regolarmente trascritta nei registri immobiliari, perché non annotata a margine dell'atto di matrimonio). (Sez. 1, n. 17207/2021, Tricomi L., Rv. 661917-01).

In tema di comunione legale dei coniugi, la donazione indiretta rientra nell'esclusione di cui all'art. 179, comma 1, lett. b), c.c., senza che sia necessaria l'espressa dichiarazione da parte del coniuge acquirente prevista dall'art. 179, comma 1, lett. f), c.c., né la partecipazione del coniuge non acquirente all'atto di acquisto e la sua adesione alla dichiarazione dell'altro coniuge acquirente ai sensi dell'art. 179, comma 2, c. c., trattandosi di disposizione non richiamate. (Sez. 2, n. 20336/2021, Oliva, Rv. 662018-01).

Nella disciplina del diritto di famiglia, introdotta dalla l. n. 151 del 1975, l'obbligazione assunta da un coniuge, per soddisfare bisogni familiari, non pone l'altro coniuge nella veste di debitore solidale, difettando una deroga rispetto alla regola generale secondo cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi. Tale principio opera indipendentemente dal fatto che i coniugi si trovino in regime di comunione dei beni, essendo la circostanza rilevante solo sotto il diverso profilo della possibilità, da parte del creditore, di invocare la garanzia dei beni della comunione o del coniuge non stipulante, nei casi e nei limiti di cui agli artt. 189 e 190 c.c. (Sez. 3, n. 37612/2021, Criscuolo, Rv. 662979-01).

In tema di fondo patrimoniale, per contestare il diritto del creditore ad agire esecutivamente, ed anche il diritto di iscrivere ipoteca giudiziale, il debitore opponente deve sempre dimostrare la regolare costituzione del fondo e la sua opponibilità al creditore procedente, e pure che il suo debito verso quest'ultimo venne contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia; la rispondenza o meno dell'atto ai bisogni della famiglia richiede una verifica estesa al riscontro di compatibilità con le più ampie esigenze dirette al pieno mantenimento e all'armonico sviluppo familiare, cosicché l'estraneità non può considerarsi desumibile soltanto dalla tipologia di atto (la fideiussione prestata in favore di una società) in sé e per sé considerata. (Nella specie la S.C. ha respinto la tesi della ricorrente secondo cui, in presenza di una fideiussione a favore di una società, ricorrono in re ipsa entrambi i presupposti: sia quello dell'estraneità ai bisogni della famiglia sia, automaticamente, quello della conoscenza di questa in capo al creditore, senza bisogno di provare altro che l'esistenza della fideiussione medesima, cosicché la prova dell'estraneità del debito ai bisogni della famiglia andrebbe considerata assolta per definizione). (Sez. 1, n. 29983/2021, Terrusi, 662905-01).

9.1. Il regime patrimoniale della famiglia: comunione legale, fondo patrimoniale, profili processuali.

Il debitore che contesti il diritto del creditore di agire esecutivamente sui beni costituiti in fondo patrimoniale deve dimostrare, anche a mezzo di presunzioni semplici, che il medesimo creditore era consapevole, al momento del perfezionamento dell'atto dal quale deriva l'obbligazione, che questa era contratta per scopi estranei ai bisogni della famiglia ancorché intesi in senso lato ovvero volti non soltanto al soddisfacimento delle necessità cd. essenziali o indispensabili della famiglia ma anche ad esigenze volte al pieno mantenimento ed all'armonico sviluppo della medesima, nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa ed al miglioramento del suo benessere economico, restando escluse ragioni voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente speculativi. In relazione ai debiti assunti nell'esercizio dell'attività d'impresa o a quella professionale, essi non assolvono di norma a tali bisogni, ma può essere fornita la prova che siano eccezionalmente destinati a soddisfarli in via diretta ed immediata, avuto riguardo alle specificità del caso concreto. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di appello la quale aveva presunto, in assenza di prova di una diversa fonte di sostentamento della famiglia, che i mezzi per il soddisfacimento dei bisogni di questa derivassero dall'attività d'impresa dell'opponente). (Sez. 3, n. 02904/2021, Scarano, Rv. 660523-01).

La Corte di legittimità ha chiarito che, in materia di comunione legale tra coniugi, la disposizione transitoria di cui all'art. 3 della l. n. 55 del 2015, con la quale è stato anche modificato il momento in cui cessa la comunione dei beni tra i coniugi, con l’introduzione del nuovo comma 2 dell'art. 191 c.c., laddove dispone l'applicazione della novella "ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge", non opera per i giudizi di divisione della comunione de residuo già pendenti al momento dell'entrata in vigore della detta riforma, in coerenza con il principio di irretroattività dettato dall'art. 11 preleggi. (Sez. 1, n. 04492/2021, Iofrida, 660514-02).

Pronunciando in materia di fondo patrimoniale, ma esprimendo un principio avente rilevanza generale, la Corte di legittimità ha statuito che nel caso in cui l'azione revocatoria, diretta a far valere l'inefficacia dell'intero atto di costituzione di un fondo patrimoniale, trovi accoglimento limitatamente ai beni immobili di proprietà del debitore, senza che il creditore abbia specificato le ragioni in base alle quali le altre parti contraenti del fondo siano state convenute in giudizio, soltanto costui può essere ritenuto soccombente e condannato alla rifusione delle spese di lite. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che, violando il principio della soccombenza, aveva condannato al pagamento delle spese di lite non soltanto il debitore ma anche le altre parti convenute, senza considerare che la condotta serbata dall'istituto di credito aveva costituito la ragione della loro costituzione in giudizio, non potendosi ritenere che fossero evocate come mere litisconsorti necessarie, circostanza che avrebbe consentito loro di restare estranee al giudizio). (Sez. 6-3, n. 18194/2021, Positano, Rv. 661675-01).

Nel giudizio intrapreso, ex art. 2901 c.c., verso uno dei coniugi in regime di comunione legale e riguardante un atto dispositivo compiuto da entrambi, non sussiste il litisconsorzio necessario dell'altro, atteso che l'eventuale accoglimento di tale azione non determinerebbe alcun effetto restitutorio, né traslativo, destinato a modificare la sfera giuridica di quest'ultimo, ma comporterebbe esclusivamente l'inefficacia relativa dell'atto in riferimento alla sola posizione del coniuge debitore e nei confronti, unicamente, del creditore che ha promosso il processo, senza caducare, ad ogni altro effetto, l'atto di disposizione. (Sez. 6-3, n. 18707/2021, Positano, Rv. 661910-01).

Per le unità immobiliari in regime di comunione legale tra coniugi, la legittimazione ad impugnare le delibere assembleari spetta a ciascun coniuge separatamente, trovando applicazione l'art. 180, comma 1, c.c., secondo cui la rappresentanza in giudizio per gli atti relativi all'amministrazione dei beni della comunione spetta ad entrambi i coniugi; rientrano, infatti, in tale disposizione, non solo, le azioni di carattere reale o con effetti reali, dirette alla tutela della proprietà o del godimento dell'immobile, ma anche le impugnazioni delle deliberazioni condominiali che si assumono pregiudizievoli alla sicurezza o al decoro del fabbricato o all'uso delle parti comuni. (Sez. 2, n. 19435/2021, Scarpa, Rv. 663389-01).

Nell'espropriazione del bene in comunione legale per crediti personali di uno solo dei coniugi, il beneficio di escussione dei beni personali del coniuge debitore e la sussidiarietà del cespite in comunione legale ex art. 189 c.c. devono essere fatti valere esclusivamente con lo strumento dell'opposizione all'esecuzione e non con una semplice eccezione formulata in sede di divisione endoesecutiva. (Sez. 3, n. 22210/2021, Rubino, Rv. 662203-02).

Nella disciplina anteriore alla riforma del diritto di famiglia di cui alla l. n. 151 del 1975, il coniuge che affermi il diritto di comproprietà su un bene immobile intestato all'altro coniuge, in forza di un regime di comunione tacita familiare - idoneo ad estendersi "ipso iure" agli acquisti fatti da ciascun partecipante, senza bisogno di mandato degli altri, né di successivo negozio di trasferimento - ha l'onere di fornire la relativa prova, tenendo conto che la suddetta comunione non può essere desunta da una mera situazione di collaborazione familiare, postulando atti o comportamenti che evidenzino inequivocabilmente la volontà di mettere a disposizione del consorzio familiare determinati beni e di porre in comune lucri, perdite ed incrementi patrimoniali, e che non può avvalersi della prova testimoniale, stante la necessità dell'atto scritto ai sensi dell'art. 1350 c.c. (Sez. 6-2, n. 33844/2021, Tedesco, Rv. 662258-01).

10. La casa familiare.

In tema di fallimento, una volta ritenuto improduttivo di effetti nei confronti della procedura ex art. 44 l. fall. l'atto traslativo dell'immobile già oggetto di assegnazione come casa familiare in favore del coniuge o del convivente affidatario di figli minori (o convivente con figli maggiorenni non economicamente autosufficienti), la declaratoria di inefficacia non travolge il diritto personale di godimento sui generis sorto in capo all'assegnatario, che, in quanto contenuto in un provvedimento di data certa, è suscettibile d'essere opposto, ancorché non trascritto, anche al terzo acquirente in data successiva, per nove anni dalla data dell'assegnazione medesima, ovvero, qualora il titolo sia stato in precedenza trascritto, anche oltre i nove anni. (Sez. 1, n. 00377/2021, Campese, Rv. 660361-01).

L'abuso del diritto non presuppone una violazione in senso formale, ma si realizza quando nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo esercizio, ne risulti alterata la funzione obiettiva rispetto al potere che lo prevede ovvero lo schema formale del diritto sia finalizzato ad obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore. Elementi sintomatici ne sono pertanto: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte. (In attuazione dell'enunciato principio, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito nella parte in cui, eccepito dall'assegnataria della casa familiare l'abuso del diritto per l'ordine di rilascio da parte del terzo proprietario, la Corte d'Appello non aveva considerato che l'immobile, già di proprietà del marito e destinato ad abitazione della famiglia, in coincidenza con il manifestarsi della crisi coniugale ed all'insaputa della moglie, era stato dallo stesso venduto al padre, che, a sua volta, gliene aveva ceduto la disponibilità con contratto di comodato gratuito). (Sez. 3, n. 26541/2021, Iannello, 662538-01).

Il diritto di abitazione nella casa adibita a residenza familiare, sancito dall'art. 540 c.c. in favore del coniuge sopravvissuto, sussiste qualora detto cespite sia di proprietà del de cuius ovvero in comunione tra questi ed il coniuge superstite, mentre esso, al contrario, non sorge ove il bene sia in comunione tra il coniuge deceduto ed un terzo, non essendo in questo caso realizzabile l'intento del legislatore di assicurare, in concreto, al coniuge sopravvissuto il godimento pieno del bene oggetto del diritto; in tale ultima evenienza, peraltro, non spetta a quest'ultimo neppure l'equivalente monetario del citato diritto, nei limiti della quota di proprietà del defunto, poiché, diversamente, si attribuirebbe un contenuto economico di rincalzo al diritto di abitazione che, invece, ha un senso solo ove apporti un accrescimento qualitativo alla successione del coniuge sopravvissuto, garantendo in concreto il godimento dell'abitazione familiare. (Sez. 2, n. 29162/2021, Besso Marcheis, Rv. 662702-01).

L'assegnazione al genitore collocatario del figlio minorenne della casa familiare è dettata nell'esclusivo interesse della prole e risponde all'esigenza di conservare l'habitat domestico, inteso come centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime la vita familiare; detta assegnazione, pertanto, non viene meno di diritto nel caso in cui l'ex coniuge collocatario del minore intraprenda nella casa una convivenza more uxorio, o contragga matrimonio con un terzo, perché la pronuncia di decadenza dall'assegnazione rimane subordinata ad un giudizio di conformità con l'interesse del minore. (Sez. 1, n. 33610/2021, Lamorgese, Rv. 663268-01).

11. Il divorzio.

Le clausole dell'accordo di separazione consensuale o di divorzio a domanda congiunta che riconoscano, ad uno oppure ad entrambi i coniugi, la proprietà esclusiva di beni - mobili o immobili - o la titolarità di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi o dei figli al fine di assicurarne il mantenimento, sono valide in quanto il predetto accordo, inserito nel verbale di udienza redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è stato attestato, assume forma di atto pubblico ex art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo il decreto di omologazione della separazione o la sentenza di divorzio, valido titolo per la trascrizione ex art. 2657 c.c., purché risulti l'attestazione del cancelliere che le parti abbiano prodotto gli atti e rese le dichiarazioni di cui all'art. 29, comma 1-bis, della l. n. 52 del 1985, come introdotto dall'art. 19, comma 14, del d.l. n. 78 del 2010, conv. con modif. dalla l. n. 122 del 2010, restando invece irrilevante l'ulteriore verifica circa gli intestatari catastali dei beni e la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari. (Sez. U, n. 21761/2021, Valitutti, Rv. 661859-01).

11.1. Il divorzio, profili processuali.

Avverso la sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, intervenuta successivamente alla morte di una delle parti, è ammissibile l'appello della parte superstite, al fine di ottenere una pronuncia di cessazione della materia del contendere, essendo gli effetti civili del matrimonio già venuti meno per la morte di uno dei coniugi, ai sensi dell'art. 149 c.c., sicché nel giudizio d'impugnazione sono legittimati processuali ex art. 110 c.p.c. gli eredi della parte deceduta in qualità di successori universali, ancorché ad essi non sia trasmissibile il diritto controverso. (Sez. 6-1, n. 01079/2021, Mercolino, Rv. 660272-01).

Poiché la fase presidenziale del giudizio divorzile, come di quello separativo, è finalizzata all'emissione di provvedimenti anticipatori, anche in rito, di natura provvisoria, come tali non idonei a definire il giudizio, il provvedimento di estinzione del giudizio emesso a seguito della mancata comparizione delle parti e che esaurisce la fase processuale ai sensi dell'art. 4, comma 7, della l. n. 898 del 1970, è suscettibile di reclamo al collegio di cui all'art. 308 c.p.c., e non di impugnazione innanzi alla corte d'appello. (Sez. 1, n. 09189/2021, Acierno, Rv. 661146-01).

Tra la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio e quella, proposta in via riconvenzionale, volta ad ottenere l'annullamento dell'accordo di separazione consensuale per vizio del consenso, assoggettate a riti diversi, è configurabile una situazione di connessione "per subordinazione" o "forte", atteso il nesso di pregiudizialità che lega le azioni, la quale rende applicabile l'art. 40, comma 3, c.p.c., salva ogni determinazione del giudice di merito in ordine alla sospensione ex art. 295 c.p.c. della domanda (pregiudicata) di divorzio in attesa della definizione di quella (pregiudicante) sul richiesto annullamento della separazione. (Sez. 6-1, n. 22700/2021, Campese, Rv. 662349-01).

Nel giudizio avente a oggetto la declaratoria di cessazione degli effetti civili del matrimonio, l'art. 3 della l. n. 898 del 1970, nella parte in cui contempla la separazione dei coniugi come causa di divorzio, dà vita a una fattispecie complessa, che contempla sia l'autorizzazione dei coniugi a vivere separati che la determinazione del periodo temporale minimo della predetta separazione ai fini della proponibilità della domanda di divorzio, di talché quest'ultima non può trovare accoglimento tanto nell'ipotesi in cui non sia passata in giudicato la pronuncia sulla separazione personale quanto nell'ipotesi in cui il predetto termine dilatorio non sia integralmente decorso. (Sez. 6-1, n. 36176/2021, Iofrida, Rv. 662957-01). Nella stessa decisione la S.C. ha pure statuito che nel giudizio avente a oggetto la declaratoria di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il termine dilatorio di dodici mesi della protrazione dello stato di separazione tra i coniugi dalla loro comparizione innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale, previsto dall'art. 3, comma 1, n. 2, lett. b) della l. n. 898 del 1970, non è soggetto alla sospensione feriale dei termini di cui alla l. n. 742 del 1969, non avendo natura né di termine processuale, né di termine di decadenza sostanziale, ma connotandosi alla stregua di presupposto per la proponibilità della domanda. (Sez. 6-1, n. 36176/2021, Iofrida, Rv. 662957-02).

12. L’assegno divorzile e la sua revisione.

L'assegno divorzile, che va attribuito e quantificato facendo applicazione in posizione pari ordinata dei parametri di cui all'art. 5, comma 6, prima parte, della l. n. 898 del 1970, senza riferimenti al tenore di vita goduto durante il matrimonio, deve assicurare all'ex coniuge richiedente, in ragione della sua finalità composita - assistenziale, perequativa e compensativa -, un livello reddituale adeguato al contributo dallo stesso fornito in ogni ambito di rilevanza declinato tramite i suddetti parametri, mediante complessiva ponderazione dell'intera storia coniugale e della prognosi futura, tenendo conto anche delle eventuali attribuzioni o degli introiti che abbiano compensato il sacrificio delle aspettative professionali del richiedente e realizzato l'esigenza perequativa. (Sez. 1, n. 04215/2021, Parise, Rv. 660724-01).

L'assegno divorzile, ove richiesto per la prima volta nel giudizio di revisione, ai sensi dell'art. 9 della l. n. 898 del 1970, deve essere attribuito e quantificato applicando i parametri di cui all'art. 5, comma 6, prima parte, della stessa legge, da valutare secondo il composito criterio, assistenziale, compensativo e perequativo, con eventuale prevalenza di una delle tre componenti rispetto alle altre. In particolare, la funzione assistenziale può assumere rilevanza preponderante a condizione che il sopravvenuto ed incolpevole peggioramento della situazione economica di uno degli ex coniugi non sia altrimenti suscettibile di compensazione per l'assenza di altri obbligati o di altre forme di sostegno pubblico e che l'ex coniuge con maggiori disponibilità economiche abbia in passato goduto di apporti significativi da parte di quello successivamente impoveritosi. (Nella specie, la Corte di legittimità ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva riconosciuto all'ex coniuge un assegno divorzile, richiesto per la prima volta quindici anni dopo la pronuncia del divorzio, allegando il grave peggioramento delle sue condizioni economiche). (Sez. 1, n. 05055/2021, Parise, Rv. 660756-01).

L'assegnazione in proprietà esclusiva di un immobile, conseguita dall'ex coniuge beneficiario dell'assegno divorzile in sede di scioglimento della comunione legale dei beni, o la sua rinuncia gratuita a diritti ereditari, sono accadimenti potenzialmente idonei, con riferimento alla fattispecie concreta, a modificare i termini della situazione di fatto e quindi ad alterare l'equilibrio economico esistente tra gli ex coniugi come accertato al momento della pronuncia di divorzio, e pertanto a giustificare l'introduzione del giudizio di revisione dell'assegno. (Sez. 1, n. 11787/2021, Lamorgese, Rv. 661488-01).

In tema di assegno di divorzio e di concreta determinazione del relativo ammontare, la titolarità della pensione sociale, risolvendosi in una fonte idonea a sopperire in qualche misura alle esigenze di vita di chi la percepisce, rappresenta un elemento valutabile ai fini dell'accertamento della condizione economica del coniuge richiedente l'assegno di divorzio. (Sez. 1, n. 11797/2021, Parise, Rv. 661318-01).

In tema di assegno divorzile, qualora a supporto della richiesta di sua diminuzione siano allegati sopravvenuti oneri familiari dell'obbligato, il giudice deve verificare se gli stessi abbiano determinato un effettivo depauperamento delle sostanze di quest'ultimo, tale da postulare una rinnovata valutazione comparativa della situazione economico-patrimoniale delle parti o se, viceversa, la complessiva, mutata condizione dell'obbligato non sia comunque di consistenza tale da rendere irrilevanti i nuovi oneri. (In applicazione di detto principio la Cassazione ha confermato la sentenza di merito la quale aveva affermato che il nuovo legame dell'obbligato e la nascita di un figlio non costituissero cause giustificative della soppressione o modifica dell'assegno divorzile, essendo rimaste indimostrati il depauperamento delle sostanze dell'obbligato stesso, la dedotta impossidenza e disoccupazione della nuova compagna, la circostanza che il mantenimento della nuova famiglia venisse a gravare esclusivamente su di lui). (Sez. 1, n. 21818/2021, Valitutti, Rv. 662299-01).

Sciolto il vincolo coniugale, in linea di principio ciascun ex coniuge deve provvedere al proprio mantenimento, tuttavia tale principio è derogato, in base alla disciplina sull'assegno divorzile, oltre che nell'ipotesi di non autosufficienza di uno degli ex coniugi, anche nel caso in cui il matrimonio sia stato causa di uno spostamento patrimoniale dall'uno all'altro coniuge, ex post divenuto ingiustificato, spostamento patrimoniale che in tal caso deve essere corretto attraverso l'attribuzione di un assegno, in funzione compensativo-perequativa. Pertanto, ove ne ricorrano i presupposti e vi sia una specifica prospettazione in tal senso, l'assegno deve essere adeguato a compensare il coniuge economicamente più debole, in funzione perequativo-compensativa, del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali - che il coniuge richiedente l'assegno ha l'onere di dimostrare nel giudizio - al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, rimanendo, in tal caso, assorbito l'eventuale profilo assistenziale. (Sez. 1, n. 24250/2021, Lamorgese, Rv. 662391-01).

Interferisce con la materia dell’assegno divorzile la pronuncia con la quale la sezione lavoro della Cassazione ha statuito che il diritto alla corresponsione dell'assegno sociale ex art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995, prevede come unico requisito lo stato di bisogno effettivo del titolare, desunto dalla condizione oggettiva dell'assenza di redditi o dell'insufficienza di quelli percepiti in misura inferiore al limite massimo stabilito dalla legge, senza che assuma rilevanza la mancata richiesta, da parte dell'assistito, dell'importo dovuto dall'ex coniuge a titolo di assegno divorzile, non essendo previsto che lo stato di bisogno, per essere normativamente rilevante, debba essere anche incolpevole. (Sez. L, n. 24954/2021, Cavallaro, Rv. 662269-01).

Quando sia stato disposto un assegno divorzile dal giudice di primo grado, ma questa decisione sia stata revocata dal giudice d'appello in conseguenza dell'accertamento dell'insussistenza originaria dei presupposti per la sua attribuzione, l'ex coniuge che ne abbia beneficiato è tenuto alla restituzione di quanto indebitamente ricevuto, a far data da quando ha iniziato a percepire gli emolumenti, oltre agli interessi legali dai rispettivi pagamenti e fino all'effettivo soddisfo, perché in caso di somme indebitamente versate in forza di una sentenza provvisoriamente esecutiva successivamente riformata, non si applica la disciplina della ripetizione dell'indebito oggettivo di cui all'art. 2033 c.c., spettando all'interessato il diritto ad essere reintegrato dall'accipiens dell'intera diminuzione patrimoniale subita, a prescindere dal suo stato soggettivo di buona o mala fede. (Sez. 1, n. 28646/2021, Campese, Rv. 662906-01).

L'instaurazione da parte dell'ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione, nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica ed integrale del diritto all'assegno, in relazione alla sua componente compensativa. (Sez. U, n. 32198/2021, Rubino, Rv. 663241-01). Nella stessa decisione, la Cassazione ha statuito che in tema di assegno divorzile in favore dell'ex coniuge, qualora sia instaurata una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l'ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche nell'attualità di mezzi adeguati e impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell'assegno di divorzio, in funzione esclusivamente compensativa; a tal fine il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare, della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio, dell'apporto fornito alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell'ex coniuge. L'assegno, su accordo delle parti, può anche essere temporaneo. (Sez. U, n. 32198/2021, Rubino, Rv. 663241-02).

In tema di determinazione dell'assegno divorzile, non possono essere considerati quali fattori integrativi dell'autosufficienza economica dell'ex coniuge istante la pensione di invalidità e l'indennità di accompagnamento percepite dalla madre convivente atteso che quanto integra il reddito di assistenza al genitore non può implementare il reddito dell'ex coniuge stante la diversa funzione assolta dagli istituti. (Sez. 1, n. 35709/2021, Marulli, Rv. 663112-01).

In materia di assegno divorzile, il giudizio sull'adeguatezza dei redditi degli ex coniugi – che nella sua negativa declinazione è integrativo del prerequisito della consistenza sperequata dei redditi al cui accertamento consegue l'operatività del meccanismo compensativo-retributivo per la quantificazione dell'indicata posta – deve essere improntato ai criteri dell'effettività e concretezza, che devono trovare riscontro all'attualità e non in forza di un giudizio ipotetico, le cui premesse, quanto alla loro verificabilità, restino incerte, e neppure può risolversi in un ragionamento ipotetico i cui esiti vengano ricalcati su pregressi contesti individuali ed economici, non più rispondenti a quello di riferimento. (Sez. 1, n. 35710/2021, Scalia, Rv. 663278-02).

12.1. L’assegno divorzile, profili processuali.

In tema di regolamentazione dei rapporti economici tra i coniugi separati nella pendenza del giudizio divorzile, poiché l'assegno di divorzio traendo la sua fonte nel nuovo status delle parti ha efficacia costitutiva decorrente dal passaggio in giudicato della pronuncia di risoluzione del vincolo coniugale, i provvedimenti emessi nel giudizio di separazione continuano a regolare i rapporti economici tra i coniugi fino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, salvo che, pronunciata sullo scioglimento del vincolo sentenza non definitiva, il giudice ritenga con adeguata motivazione ed in relazione alle circostanze del caso concreto di anticipare la decorrenza dell'assegno alla data della domanda, ai sensi dell'art. 4, comma 13, della l. n. 898 del 1970, oppure che nella fase presidenziale o istruttoria del giudizio siano emessi provvedimenti provvisori temporanei ed urgenti, che si sostituiscano a quelli adottati nel giudizio di separazione. (Sez. 1, n. 03852/2021, Parise, Rv. 660723-01).

Qualora in sede di separazione personale i coniugi, nel definire i rapporti patrimoniali già tra loro pendenti e le conseguenti eventuali ragioni di debito-credito vantate da ciascuno, abbiano pattuito anche la corresponsione di un assegno da versarsi dall'uno in favore dell'altro "vita natural durante", il giudice del divorzio, chiamato a decidere sull'an del richiesto assegno divorzile, dovrà preliminarmente provvedere alla qualificazione della natura dell'accordo intervenuto tra le parti, precisando se la rendita costituita (e la sua causa aleatoria sottostante) "in occasione" della crisi familiare sia estranea alla disciplina inderogabile dei rapporti patrimoniali tra coniugi in materia familiare, perché giustificata da altra causa, e quindi verificare se debba essere riconosciuto il diverso diritto all'assegno divorzile, che può trovare fondamento soltanto in ragione della crisi familiare. (Sez. 1, n. 11012/2021, Fidanzia, Rv. 661270-01).

In tema di separazione e divorzio, le statuizioni che regolano gli aspetti economico-patrimoniali tra coniugi incidono nell'area dei diritti a cd. disponibilità attenuata e soggiacciono alle regole processuali ordinarie, con il corollario del limite invalicabile della domanda, in quanto presuppongono l'iniziativa della parte interessata e l'indicazione, a pena di inammissibilità, del petitum richiesto al giudice, potendo configurarsi come diritto indisponibile solo quello relativo alla parte del contributo economico connotata da finalità assistenziale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che, oltre a determinare l'assegno divorzile nella misura richiesta, ne aveva anche stabilito l'aumento, a partire dal rilascio della casa familiare da parte dell'avente diritto, senza che fosse stata formulata alcuna domanda in relazione a tale evenienza). (Sez. 1, n. 11795/2021, Parise, Rv. 661490-01).

In tema di riconoscimento dell'assegno divorzile, nell'ipotesi in cui la decisione impugnata si incentri essenzialmente sulla notevole sperequazione della situazione economico-reddituale dei coniugi, che ne costituisce solo il pre-requisito fattuale, trascurando, invece, la verifica, imposta dal più recente orientamento interpretativo della S.C., del contributo effettivo fornito dal richiedente alla costituzione del patrimonio familiare e di quello dell'ex coniuge, la cassazione della pronuncia con rinvio impone, per l'effettivo dispiegamento del diritto di difesa, che le parti siano rimesse nei poteri di allegazione e prova sui temi non trattati conseguenti al nuovo principio di diritto da applicare in sede di rinvio. (Sez. 1, n. 11796/2021, Parise, Rv. 661317-01).

Al fine di accertare se sussistano i presupposti per il riconoscimento dell'assegno divorzile in funzione compensativo-perequativa del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali o reddituali, ferma l'irrilevanza del pregresso tenore di vita familiare, il giudice deve verificare: a) se tra gli ex coniugi, a seguito del divorzio, si sia determinato o aggravato uno squilibrio economico-patrimoniale prima inesistente (ovvero di minori proporzioni); b) se, in costanza di matrimonio, gli ex coniugi abbiano convenuto che uno di essi sacrificasse le proprie prospettive professionali per dedicarsi al soddisfacimento delle incombenze familiari; c) se, con onere probatorio a carico del richiedente, tali scelte abbiano inciso sulla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi determinando uno spostamento patrimoniale da riequilibrare; d) quale sia lo spostamento patrimoniale, e la conseguente esigenza di riequilibrio, causalmente rapportabile alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofamiliari. (Sez. 6-1, n. 22738/2021, Lamorgese, 662350-01).

Nel valutare la spettanza dell'assegno divorzile si deve tenere conto della funzione non solo assistenziale ma anche perequativa e compensativa di tale contributo, sicché, ove il coniuge richiedente, dopo essersi dedicato nei primi anni del matrimonio esclusivamente alla famiglia, abbia intrapreso un'attività lavorativa a tempo parziale, occorre accertare il momento in cui è maturata tale decisione e le ragioni della stessa, nonché verificare se essa sia stata effettuata in autonomia o concordata con l'altro coniuge e se l'attività sia stata fin dall'origine a tempo parziale, considerando infine se, anche in relazione all'età del richiedente, detta scelta debba considerarsi ormai irreversibile, oppure se quest'ultimo possa ancora incrementare il proprio reddito, optando per la prestazione di lavoro a tempo pieno. (Sez. 1, n. 23318/2021, Mercolino, Rv. 662312-01).

Nel giudizio di divorzio, la domanda di assegno deve essere proposta nell'atto introduttivo del giudizio ovvero nella comparsa di risposta, tuttavia resta esclusa la relativa preclusione nel caso in cui i presupposti del diritto all'assegno siano maturati nel corso del giudizio anche in grado di appello, in quanto la natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conseguenza del divorzio, così come quelli attinenti al regime della separazione, postulano la possibilità di modularne la misura al sopravvenire di nuovi elementi di fatto. (Nel caso di specie la S.C. ha cassato la decisione della corte di merito, che aveva ritenuto inammissibile la domanda di attribuzione dell'assegno divorzile perché proposta per la prima volta in appello, nonostante solo nel corso della causa si fossero modificate le condizioni economiche dei coniugi rispetto al suo inizio). (Sez. 6-1, n. 29290/2021, Fidanzia, Rv. 662933-01).

Anche quando sia intervenuto il passaggio in giudicato della sentenza non definitiva di divorzio, la morte del coniuge, anche nel corso del giudizio di legittimità, fa cessare la materia del contendere in relazione alle domande accessorie, compreso il giudizio sulla richiesta di assegno divorzile, posto che solo ragioni di complessità istruttoria giustificano la pronuncia differita sulle domande accessorie, ma tali ragioni non possono costituire una fonte di deroga al principio per cui l'obbligo di contribuire al mantenimento dell'ex coniuge è personalissimo e non trasmissibile agli eredi, e può essere accertato solo in relazione all'esistenza della persona cui lo status personale si riferisce. (Sez. 6-1, n. 33346/2021, Campese, Rv. 663308-01).

Il giudice del merito, investito della domanda di corresponsione di assegno divorzile, deve accertare l'impossibilità dell'ex coniuge richiedente di vivere autonomamente e dignitosamente e la necessità di compensarlo per il particolare contributo, che dimostri di avere dato, alla formazione del patrimonio comune o dell'altro coniuge durante la vita matrimoniale, nella registrata sussistenza di uno squilibrio patrimoniale tra gli ex coniugi che trovi ragione nella intrapresa vita matrimoniale, per scelte fatte e ruoli condivisi; l'assegno divorzile, infatti, deve essere adeguato anche a compensare il coniuge economicamente più debole del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali - che il coniuge richiedente l'assegno ha l'onere di dimostrare nel giudizio - al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, rimanendo, in tal caso, assorbito l'eventuale profilo assistenziale. (Sez. 1, n. 38362/2021, Scalia, Rv. 663465-01).

13. L’assegno divorzile, accessori: la pensione di reversibilità ed il trattamento di fine rapporto dell’obbligato.

In caso di decesso dell'ex coniuge, la ripartizione dell'indennità di fine rapporto tra il coniuge divorziato e il coniuge superstite, che abbiano entrambi i requisiti per la pensione di reversibilità, deve essere effettuata ai sensi dell'art. 9, comma 3, della l. n. 898 del 1970, oltre che sulla base del criterio legale della durata dei matrimoni, anche ponderando ulteriori elementi, correlati alla finalità solidaristica dell'istituto e individuati dalla giurisprudenza, quali l'entità dell'assegno riconosciuto al coniuge divorziato e le condizioni economiche di entrambi, tenendo inoltre conto della durata della convivenza, ove il coniuge interessato alleghi, e provi, la stabilità e l'effettività della comunione di vita precedente al proprio matrimonio con il de cuius. (Sez. 1, n. 21247/2021, Caradonna, Rv. 661978-01).

In tema di divorzio, il diritto alla quota della pensione di reversibilità previsto dall'art. 9 della l. n. 898 del 1970 spetta all'ex coniuge titolare dell'assegno divorzile e non può essere escluso per il solo fatto che tale assegno non sia stato corrisposto per un periodo più o meno lungo senza alcuna reazione, giudiziale o stragiudiziale, dell'avente diritto, poiché tale inerzia non comporta ipso facto la rinuncia al menzionato assegno, in assenza della necessaria verifica giudiziale in ordine all'effettività della stessa e alle correlate modificazioni dei presupposti per la sua percezione. (Sez. 1, n. 27875/2021, Caradonna, Rv. 662637-01).

13.1. L’assegno divorzile, accessori: la pensione di reversibilità ed il trattamento di fine rapporto dell’obbligato, profili processuali.

La decisione giudiziale riguardante la ripartizione della pensione di reversibilità tra l'ex coniuge divorziato e il coniuge superstite al momento del decesso deve essere resa, ai sensi dell'art. 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nel testo vigente, con sentenza. Ne consegue che il provvedimento assunto dal giudice di secondo grado con decreto conserva la natura e il valore di sentenza, e può essere impugnato con ricorso per cassazione per vizi motivazionali, ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., anche prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40. (Sez. L, n. 00692/2021, D’Antonio, Rv. 660173-01).

Condizione per il riconoscimento della quota del trattamento di fine rapporto spettante all'ex coniuge, è che quest'ultimo sia già titolare di assegno divorzile o abbia presentato la relativa domanda al momento in cui l'altro ex coniuge abbia maturato il diritto alla corresponsione del trattamento, essendo irrilevante che la domanda di attribuzione della quota sia stata presentata dopo che l'assegno divorzile sia stato revocato, poiché la revoca opera ex nunc e non può incidere, elidendoli, tanto sul pregresso positivo accertamento del diritto all'assegno - su cui è caduto il giudicato rebus sic stantibus -, quanto sul correlato diritto alla quota del trattamento di fine rapporto. (Sez. 1, n. 04499/2021, Scalia, Rv. 660515-01).

Pronunziando in materia di quota del trattamento di fine rapporto di lavoro spettante all’ex coniuge del divorziato, ma esprimendo un principio di rilievo generale, la Corte di legittimità ha statuito che in tema di prova civile, la richiesta formulata da una delle parti, volta ad ottenere dal terzo l'esibizione ex art. 210 c.p.c. di un documento contenente dati personali dell'altra parte, non può essere respinta per solo il fatto che il richiedente non abbia fatto istanza di accesso ex d.lgs. n. 196 del 2003, poiché le ragioni di protezione dei dati personali sono per legge recessive rispetto alle esigenze di giustizia e, in un'ottica di concentrazione delle tutele, si deve favorire la composizione dei diversi interessi in un'unica sede, secondo le regole proprie di quest'ultima. (Nella specie, il Giudice di legittimità ha confermato la decisione impugnata che, per statuire sul diritto del coniuge divorziato alla quota di TFR incassato dall'altro, aveva accolto la richiesta di ordinare al suo datore di lavoro l'esibizione del documento contenente la relativa liquidazione). (Sez. 1, n. 05068/2021, Scalia, Rv. 660726-01).

In materia di quota della pensione di reversibilità di spettanza dell’ex coniuge divorziata del de cuius, esprimendo un principio avente rilevanza generale, la Corte di legittimità ha statuito che l'autorità del giudicato sostanziale opera soltanto entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell'azione e presuppone, quindi, che la causa precedente e quella in atto abbiano in comune, oltre ai soggetti, anche il petitum e la causa petendi, restando irrilevante, a tal fine, l'eventuale identità delle questioni giuridiche o di fatto da esaminare per pervenire alla decisione. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza d'appello che aveva ritenuto coperta dal giudicato la domanda proposta, ex art. 9 della l. n. 898 del 1970, dall'ex coniuge divorziata del de cuius nei confronti di un ente previdenziale di categoria per ottenere una quota della pensione integrativa, essendo passata in giudicato la sentenza che le aveva riconosciuto una quota della pensione di reversibilità erogata dall'INPS). (Sez. 1, n. 15817/2021, Caradonna, Rv. 661584-01).

14. Il mantenimento dei figli.

In materia di rimborso delle spese c.d. straordinarie sostenute dai genitori per il mantenimento del figlio, occorre in via sostanziale distinguere tra: a) gli esborsi che sono destinati ai bisogni ordinari del figlio e che, certi nel loro costante e prevedibile ripetersi, anche lungo intervalli temporali, più o meno ampi, sortiscono l'effetto di integrare l'assegno di mantenimento e possono essere azionati in forza del titolo originario di condanna adottato in materia di esercizio della responsabilità in sede di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all'esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio, previa una allegazione che consenta, con mera operazione aritmetica, di preservare del titolo stesso i caratteri della certezza, liquidità ed esigibilità; b) le spese che, imprevedibili e rilevanti nel loro ammontare, in grado di recidere ogni legame con i caratteri di ordinarietà dell'assegno di contributo al mantenimento, richiedono, per la loro azionabilità l'esercizio di un'autonoma azione di accertamento in cui convergono il rispetto del principio dell'adeguatezza della posta alle esigenze del figlio e quello della proporzione del contributo alle condizioni economico patrimoniali del genitore onerato in comparazione con quanto statuito dal giudice che si sia pronunciato sul tema della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, divorzio, annullamento e nullità del vincolo matrimoniale e comunque in ordine ai figli nati fuori dal matrimonio. (Sez. 1, n. 00379/2021, Scalia, Rv. 660362-01).

In tema di assegno di mantenimento in favore del figlio maggiorenne non autosufficiente, a seguito del divorzio dei genitori, l'interesse morale è un canone che, nella sua immediata portata, resta estraneo alla previsione di cui all'art. 337 ter, comma 4, c.c., rilevando esclusivamente quale fine destinato ad ispirare l'esercizio della responsabilità genitoriale e i relativi provvedimenti giudiziali, tenuto conto che l'assegno di mantenimento serve ad assicurare, insieme con la cura, l'educazione e l'istruzione, anche le frequentazioni e le opportunità di crescita sociale e professionale del figlio. (Nella specie la S.C. ha respinto il motivo di ricorso del padre, che aveva domandato la riduzione dell'assegno divorzile di cui era stato gravato in favore dei figli, sostenendo che un assegno troppo elevato potesse nuocere al loro interesse morale). (Sez. 1, n. 02020/2021, Scalia, Rv. 660433-01).

Pronunciando a seguito del divorzio dei coniugi, la Corte di legittimità ha statuito che, in tema di contributo al mantenimento dei figli, le spese scolastiche e mediche straordinarie che in sede giudiziale siano state poste pro quota a carico di entrambi i coniugi, pur non essendo ricomprese nell'assegno periodico forfettariamente determinato, ne condividono la natura, qualora si presentino sostanzialmente certe nel loro ordinario e prevedibile ripetersi, così integrando, quali componenti variabili, l'assegno complessivamente dovuto, sicché il genitore che abbia anticipato tali spese può agire in via esecutiva, per ottenere il rimborso della quota gravante sull'altro, in virtù del titolo sopra menzionato senza doversi munire di uno ulteriore, richiesto solo con riguardo a quelle spese straordinarie che per rilevanza, imprevedibilità ed imponderabilità esulano dall'ordinario regime di vita della prole. (Sez. 1, n. 03835/2021, Scalia, Rv. 660607-01).

In tema di separazione personale, non sussiste a carico del coniuge affidatario della prole un onere di informazione e concertazione preventiva con l'altro in ordine alla determinazione delle spese c.d. "straordinarie", fermo restando che nel caso di mancata concertazione preventiva e di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, spetta al giudice di merito verificare la rispondenza delle spese all'interesse del minore, commisurando l'entità della spesa rispetto all'utilità e alla sua sostenibilità in rapporto alle condizioni economiche dei genitori. (Sez. 1, n. 05059/2021, Lamorgese, Rv. 660517-01).

In tema di accordi conclusi in vista del divorzio, è valido il patto stipulato tra i coniugi per la disciplina della modalità di corresponsione dell'assegno di mantenimento, che preveda il versamento da parte del genitore obbligato direttamente al figlio di una quota del contributo complessivo di cui risulta beneficiario l'altro genitore. (Sez. 1, n. 05065/2021, Caradonna, Rv. 660758-01).

Ai fini del riconoscimento di un assegno di mantenimento ai figli maggiorenni portatori di handicap grave, la cui condizione giuridica è equiparata, sotto tale profilo, a quella dei figli minori ex art. 337 septies c.c., il giudice di merito è tenuto ad accertare se il figlio che richieda la contribuzione sia portatore di un handicap grave, ai sensi dell'art. 3, comma 3, della l. n. 104 del 1992, richiamato dall'art. 37 bis disp. att. c.c., ossia se la minorazione, singola o plurima, della quale il medesimo sia portatore, abbia ridotto la sua autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, essendo, in caso contrario, la condizione giuridica del figlio assimilabile non a quella dei minori bensì allo status giuridico dei figli maggiorenni. (Sez. 1, n. 21819/2021, Valitutti, Rv. 662302-02).

In tema di riparto delle spese straordinarie per i figli, il concorso dei genitori, separati o divorziati, o della cui responsabilità si discuta in procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio, non deve essere necessariamente fissato in misura pari alla metà per ciascuno, secondo il principio generale vigente in materia di debito solidale, ma in misura proporzionale al reddito di ognuno di essi, tenendo conto delle risorse di entrambi e della valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti. (Sez. 1, n. 35710/2021, Scalia, Rv. 663278-01).

Il figlio di genitori divorziati, che abbia ampiamente superato la maggiore età, e non abbia reperito, pur spendendo il conseguito titolo professionale sul mercato del lavoro, una occupazione lavorativa stabile o che, comunque, lo remuneri in misura tale da renderlo economicamente autosufficiente, non può soddisfare l'esigenza ad una vita dignitosa, alla cui realizzazione ogni giovane adulto deve aspirare, mediante l'attuazione dell'obbligo di mantenimento del genitore, bensì attraverso i diversi strumenti di ausilio, ormai di dimensione sociale, che sono finalizzati ad assicurare sostegno al reddito, ferma restando l'obbligazione alimentare da azionarsi nell'ambito familiare per supplire ad ogni più essenziale esigenza di vita dell'individuo bisognoso. (Sez. 1, n. 38366/2021, Scalia, Rv. 663466-01).

In tema di diritto del figlio maggiorenne a percepire un assegno di mantenimento dal genitore non convivente, lo svolgimento di un'attività retribuita, ancorché prestata in esecuzione di contratto di lavoro a tempo determinato, può costituire un elemento rappresentativo della capacità del figlio di procurarsi un'adeguata fonte di reddito e quindi della raggiunta autosufficienza economica, escludendo la reviviscenza dell'obbligo di mantenimento da parte del genitore a seguito della cessazione del rapporto di lavoro, perché il diritto alla percezione dell'assegno trova fondamento nel dovere dei genitori di assicurare al figlio un'istruzione ed una formazione professionale, rapportate alle sue capacità oltre che alle condizioni economiche e sociali dei genitori, tali da consentirgli una propria autonomia economica, e può quindi cessare con l'inizio della sua attività lavorativa; tuttavia non ogni attività lavorativa a tempo determinato si rivela idonea a dimostrare il raggiungimento di una autosufficienza economica da parte del figlio, che può essere escluso in considerazione della esiguità della durata del rapporto o della ridotta misura della retribuzione. (Sez. 1, n. 40282/2021, Falabella, Rv. 663531-01).

14.1. Il mantenimento dei figli, profili processuali.

La decisione del giudice relativa al contributo dovuto dal genitore non affidatario o collocatario per il mantenimento del figlio non ha effetti costitutivi, bensì meramente dichiarativi di un obbligo che è direttamente connesso allo status genitoriale e il diritto alla corresponsione del contributo sussiste finché non intervenga la modifica di tale provvedimento, sicché rimane ininfluente il momento in cui sono maturati i presupposti per la modificazione o la soppressione dell'obbligo, decorrendo gli effetti della decisione di revisione sempre dalla data della domanda di modificazione. (Sez. 1, n. 04224/2021, Campese, Rv. 660755-01).

Il provvedimento di revisione dell'assegno di mantenimento dei figli sia minorenni che maggiorenni non autosufficienti, nati fuori dal matrimonio, presuppone, come per le analoghe statuizioni patrimoniali pronunziate nei giudizi di divorzio e separazione, non soltanto l'accertamento di una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche dei genitori, ma anche la loro idoneità a mutare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il precedente provvedimento attributivo del predetto assegno. Ne consegue che il giudice non può procedere ad una nuova autonoma valutazione dei presupposti dell'entità dell'assegno ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento dell'attribuzione originaria dell'emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in quale misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l'equilibrio così raggiunto ed adeguare l'importo o lo stesso obbligo della contribuzione all'eventuale nuova situazione patrimoniale. (Sez. 1, n. 18608/2021, Fidanzia, Rv. 661616-01).

Nel giudizio di separazione o di divorzio, in cui il genitore convivente con il figlio maggiorenne agisca per ottenere il rimborso di quanto versato per il mantenimento di questi ovvero la determinazione del contributo per il futuro, è ammissibile l'intervento anche del predetto figlio, per far valere un diritto relativo all'oggetto della controversia o eventualmente in via adesiva, trattandosi di posizioni giuridiche meritevoli di tutela ed intimamente connesse, che comportano la legittimazione ad agire, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall'azione, prescindendo dalla effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa; inoltre, detto intervento assolve, altresì, ad un'opportuna funzione di ampliamento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all'entità del versamento, anche in forma ripartita, del contributo al mantenimento. (Sez. 1, n. 21819/2021, Valitutti, Rv. 662302-01).

Nel giudizio avente ad oggetto la definizione dei rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi successivamente al divorzio o alla separazione, nel caso in cui sia disposto il collocamento del minore in affidamento etero familiare presso terzi, il giudice, senza una domanda del soggetto che ne avrebbe interesse, non può pronunciare, d'ufficio, la condanna dei genitori a corrispondere somme a titolo di mantenimento (a copertura delle spese anticipate per l'accoglienza, l'accudimento e l'educazione in ambiente comunitario) a favore di detti terzi (nella specie i servizi sociali di un Comune), atteso che l'obbligo di mantenimento del figlio minore gravante su ciascun genitore si configura in termini di rimborso della quota dovuta da uno dei genitori a favore dell'altro genitore che ha provveduto per intero al mantenimento del figlio. (Sez. 1, n. 22536/2021, Lamorgese, Rv. 662307-01).

In tema di mantenimento da parte del genitore separato o divorziato del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente - convivente con l'altro genitore - va escluso che possa disporsi il versamento diretto in favore del figlio in mancanza della domanda del medesimo, il quale è sì titolare di un diritto concorrente con quello del genitore convivente alla percezione dell'assegno di mantenimento, ma, non per questo, si sottrae al principio della domanda di cui all'art. 99 c.p.c. (Sez. 1, n. 34100/2021, Marulli, Rv. 663110-01).

In materia di mantenimento del figlio maggiorenne e non autosufficiente, i presupposti su cui si fonda l'esclusione del relativo diritto, oggetto di accertamento da parte del giudice del merito e della cui prova è gravato il genitore che si oppone alla domanda, sono integrati: dall'età del figlio, destinata a rilevare in un rapporto di proporzionalità inversa per il quale, all'età progressivamente più elevata dell'avente diritto si accompagna, tendenzialmente e nel concorso degli altri presupposti, il venir meno del diritto al conseguimento del mantenimento; dall'effettivo raggiungimento di un livello di competenza professionale e tecnica del figlio e dal suo impegno rivolto al reperimento di una occupazione nel mercato del lavoro. (Sez. 1, n. 38366/2021, Scalia, Rv. 663466-02).

15. Il riconoscimento, ed il disconoscimento, dello status di figlio.

In tema di dichiarazione giudiziale di paternità, l'art. 276 c.c., nell'indicare i legittimati passivi diversi dal presunto padre, si riferisce ai soli eredi in senso stretto, escludendo coloro i quali abbiano validamente rinunciato all'eredità, i quali, di conseguenza, non possono subire gli effetti patrimoniali dell'estensione dell'asse ereditario conseguente all'eventuale accoglimento della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, essendosi volontariamente determinati ad essere esclusi da qualsiasi vicenda accrescitiva o riduttiva dei diritti ereditari astrattamente conseguiti ex lege. (Sez. 1, n. 14615/2021, Acierno, Rv. 661579-01).

Nel giudizio volto al riconoscimento del figlio minore di anni quattordici da parte del secondo genitore, nell'ipotesi di opposizione del primo che lo abbia già effettuato, occorre procedere al bilanciamento tra l'esigenza di affermare la verità biologica e l'interesse alla stabilità dei rapporti familiari, e tale bilanciamento non può costituire il risultato di una valutazione astratta, ma deve procedersi ad un accertamento in concreto dell'interesse del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all'esigenza di un suo sviluppo armonico, dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale. (Nella specie la S.C. ha evidenziato che la corte d'appello aveva del tutto omesso di esaminare l'allegazione relativa alla abituale condotta violenta e prevaricatrice del padre biologico nei confronti della madre e dei suoi familiari, frutto di un modello culturale di rapporti di genere, che doveva invece essere posta in evidenza nell'operazione di bilanciamento). (Sez. 1, n. 18600/2021, Iofrida, Rv. 661919-01).

In tema di danno per mancato riconoscimento di paternità, l'illecito endofamiliare, attribuito al padre che abbia generato ma non riconosciuto il figlio, presuppone la consapevolezza della procreazione che, pur non identificandosi con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, richiede comunque la maturata conoscenza dell'avvenuta procreazione, non evincibile tuttavia in via automatica dal fatto storico della sola consumazione di rapporti sessuali non protetti con la madre, ma anche da altri elementi rilevanti, specificatamente allegati e provati da chi agisce in giudizio. (Sez. 1, n. 22496/2021, Iofrida, Rv. 662304-01).

In tema di disconoscimento di paternità, il quadro normativo (artt. 30 Cost., 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali della UE, e 244 c.c.) e giurisprudenziale attuale non comporta la prevalenza del favor veritatis sul favor minoris, ma impone un bilanciamento fra il diritto all'identità personale legato all'affermazione della verità biologica – anche in considerazione delle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dell'elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini – e l'interesse alla certezza degli status ed alla stabilità dei rapporti familiari, nell'ambito di una sempre maggiore considerazione del diritto all'identità personale, non necessariamente correlato alla verità biologica ma ai legami affettivi e personali sviluppatisi all'interno di una famiglia, specie quando trattasi di un minore infraquattordicenne. Tale bilanciamento non può costituire il risultato di una valutazione astratta, occorrendo, invece, un accertamento in concreto dell'interesse superiore del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all'esigenza di un suo sviluppo armonico dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione della corte di merito, che, nell'accogliere l'azione di disconoscimento di paternità proposta dal padre di un minore infraquattordicenne, ha ritenuto di valorizzare esclusivamente il favor veritatis, trascurando di procedere ad un accurato bilanciamento, in concreto, di questo criterio con quello del preminente interesse del minore). (Sez. 1, n. 27140/2021, Caiazzo, Rv. 662719-01).

In tema di azione di riconoscimento giudiziale della paternità, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 269 c.c., per contrasto con gli artt. 3 e 30 Cost., per non essere consentito al padre, ed essere invece permesso alla madre, decidere se riconoscere il figlio, attesa la ragionevolezza della scelta legislativa di trattare in modo differenziato situazioni diverse, sottendendo una finalità meritevole di tutela solo la facoltà riconosciuta alla madre, in ragione del bilanciamento tra il preminente interesse a preservare la vita del nascituro e la possibilità per la madre di mantenere l'anonimato, mentre non appare meritevole di analoga protezione il padre il quale intenda sottrarsi, negando la propria volontà diretta alla procreazione, alla responsabilità di genitore, in contrasto con la tutela che l'art. 30 Cost. riconosce alla filiazione naturale. (Sez. 1, n. 37023/2021, Parise, Rv. 663288-01).

15.1. Il riconoscimento, ed il disconoscimento, dello status di figlio, profili processuali.

In tema di esecutività della sentenza estera, integra una violazione dell'ordine pubblico processuale la decisione del giudice straniero che, in tema di accertamento della paternità naturale, dopo avere dapprima disposto d'ufficio la cd. prova del DNA, abbia poi immotivatamente deciso la revoca del mezzo istruttorio, pur in presenza della dichiarata disponibilità all'esame da parte del preteso padre e dopo aver disposto con rogatoria che l'incidente istruttorio venisse eseguito in Italia. (Sez. 1, n. 05237/2021, Dolmetta, Rv. 660573-01).

Si determina violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato nell'ipotesi in cui il giudice del merito sostituisca la causa petendi dedotta dall'attore con una differente, fondata su un fatto diverso da quello posto a fondamento della domanda. (Nella specie, relativa a risarcimento del danno da denegata paternità, la sentenza di merito, cassata dalla S.C. per la violazione del principio sopra indicato, aveva rigettato la domanda del presunto figlio sulla base della ritenuta insussistenza del collegamento eziologico tra la denegata paternità e la patologia schizoaffettiva di cui egli era portatore, ma la domanda era fondata sulla diversa circostanza che la denegata paternità avrebbe determinato il danno-evento di non poter accedere alle opportunità sociali ed economiche consentite dalla collocazione professionale del presunto padre, da cui sarebbe poi dipeso il danno-conseguenza, identificabile nel dedotto pregiudizio patrimoniale). (Sez. 3, n. 09255/2021, Scoditti, Rv. 661072-01).

È inammissibile l'opposizione di terzo proposta da colui che sia indicato come vero padre, avverso la sentenza, passata in giudicato, di disconoscimento della paternità, quando l'opponente deduca che l'esito (positivo) dell'azione di disconoscimento di paternità si riverberi sull'azione di riconoscimento della paternità intentata nei suoi confronti, in quanto il pregiudizio fatto valere è di mero fatto, laddove il rimedio contemplato dall'art. 404 c.p.c. presuppone che l'opponente azioni un diritto autonomo, la cui tutela sia però incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza impugnata. (Sez. 1, n. 18601/2021, Iofrida, Rv. 661614-01).

Nel giudizio di accertamento della paternità di un minore nato in costanza di matrimonio, promosso a seguito del passaggio in giudicato della sentenza che ha accolto la domanda di disconoscimento della paternità del marito della madre, è inammissibile l'eccezione di tardività di quest'ultima azione, formulata dal presunto padre, perché la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento della paternità, pronunciata nei confronti del P.M. e di tutti gli altri contraddittori necessari, assume autorità di cosa giudicata erga omnes, essendo inerente allo status della persona, ed è opponibile al presunto padre, anche se non ha partecipato al relativo giudizio. (Sez. 6-1, n. 19956/2021, Scalia, Rv. 661989-01).

In tema di dichiarazione giudiziale di paternità, la consulenza tecnica ematologica è lo strumento istruttorio officioso indefettibilmente finalizzato a compiere la sola indagine decisiva in punto di accertamento della verità del rapporto di filiazione; la sua richiesta non può, pertanto, essere ritenuta esplorativa, dovendosi intendere come tale soltanto l'istanza rivolta a supplire le deficienze allegative ed istruttorie di parte, così da aggirare il regime dell'onere della prova sul piano sostanziale o i tempi di formulazione delle richieste istruttorie sul piano processuale. (Sez. 1, n. 22498/2021, Iofrida, Rv. 662306-01).

In tema di riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio, il ricorso all'autorità giudiziaria, nel caso in cui l'altro genitore (che abbia già effettuato il riconoscimento) rifiuti il consenso, richiede al giudice un bilanciamento tra il diritto soggettivo di colui che vuole riconoscere il figlio e l'interesse del minore a non subire una forte compromissione del proprio sviluppo psico-fisico, da compiersi operando un giudizio prognostico, che valuti non già il concreto esercizio della responsabilità genitoriale, per modulare il quale vi sono diversi strumenti di tutela, ma la sussistenza, nel caso specifico, di un grave pregiudizio per il minore che derivi dal puro e semplice acquisto dello status genitoriale e che si riveli superiore al disagio psichico conseguente alla mancanza o non conoscenza di uno dei genitori. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che, nel rigettare la domanda proposta ex art. 250 c.c., aveva del tutto omesso di effettuare il predetto bilanciamento, limitandosi a considerare i vari precedenti penali del padre e l'intervenuta revoca del permesso di soggiorno). (Sez. 1, n. 24718/2021, Acierno, Rv. 662477-01).

La pronuncia che accolga la domanda di disconoscimento di paternità, pur accertando ab origine l'inesistenza del rapporto di filiazione, non elide con effetto retroattivo le statuizioni precedentemente assunte in sede di separazione o di divorzio, munite di efficacia di giudicato rebus sic stantibus, concernenti il mantenimento di colui che all'epoca risultava figlio, poiché gli effetti riflessi della decisione sullo status operano automaticamente solo dal passaggio in giudicato della sentenza di disconoscimento, momento a partire dal quale gli obblighi di mantenimento diventano confliggenti con la realtà giuridica definitivamente acclarata e, quindi, privi di giustificazione. (Sez. 1, n. 27558/2021, Parise, Rv. 662849-01).

In tema di azioni di stato, colui che affermi di essere il padre biologico di un figlio nato in costanza di matrimonio non può agire per l'accertamento della propria paternità se prima non viene rimosso lo status di figlio matrimoniale con una statuizione che abbia efficacia, non essendo consentito un accertamento in via incidentale su una questione di stato della persona, e - pur non essendo legittimato a proporre l'azione di disconoscimento di paternità, né potendo intervenire in tale giudizio o promuovere l'opposizione di terzo contro la decisione ivi assunta - in qualità di "altro genitore", può comunque chiedere, ai sensi dell'art. 244, comma 6, c.c., la nomina di un curatore speciale, che eserciti la relativa azione, nell'interesse del presunto figlio infraquattordicenne. (Sez. 1, n. 27560/2021, Parise, Rv. 662636-01).

In tema di azione di disconoscimento della paternità, in caso di morte del titolare, la relativa azione può essere proposta dai suoi ascendenti o discendenti, nel termine di decadenza previsto dall'art. 244 c.c., che decorre dalla data del decesso del dante causa, se essi erano già a conoscenza della nascita o, in caso contrario, dalla data dell'effettiva conoscenza dell'evento in qualunque modo acquisita. (Sez. 1, n. 27903/2021, Valitutti, Rv. 662638-01).

16. La responsabilità genitoriale.

Ai fini della sospensione della responsabilità genitoriale ex art. 333 c.c. non occorre che la condotta del genitore abbia causato danno al figlio, poiché la norma mira ad evitare ogni possibile pregiudizio derivante dalla condotta (anche involontaria) del genitore, rilevando l'obiettiva attitudine di quest'ultima ad arrecare nocumento anche solo eventuale al minore, in presenza di una situazione di mero pericolo di danno. (Sez. 1, n. 27553/2021, Fidanzia, Rv. 662848-02).

16.1. La responsabilità genitoriale, profili processuali.

Nei giudizi che abbiano ad oggetto provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, in virtù del combinato disposto dei commi 1 e 4 dell'art. 336 c.c., va nominato al minore un curatore speciale ai sensi dell'art. 78, comma 2, c.p.c., determinandosi in mancanza una nullità del procedimento che, se accertata in sede di impugnazione, comporta la rimessione della causa al primo giudice per l'integrazione del contraddittorio; negli altri giudizi riguardanti minori, invece, non è necessaria la nomina di un curatore speciale, costituendo tuttavia il mancato ascolto del minore - ove non giustificato da un'espressa motivazione -, violazione del principio del contraddittorio e dei suoi diritti. (Sez. 1, n. 01471/2021, Valitutti, Rv. 660382-01).

L'art. 38, comma 1, disp. att. c.c. (come modificato dall'art. 3, comma 1, della l. n. 219 del 2012, applicabile ai giudizi instaurati a decorrere dall'1 gennaio 2013), si interpreta nel senso che, per i procedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.p.c., la competenza è attribuita in via generale al tribunale dei minorenni ma, quando sia pendente un giudizio di separazione, di divorzio o ex art. 316 c.c., e fino alla sua definitiva conclusione, in deroga a questa attribuzione, le azioni dirette ad ottenere provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, proposte successivamente e richieste con unico atto introduttivo dalle parti (così determinandosi un'ipotesi di connessione oggettiva e soggettiva), spettano al giudice del conflitto familiare, individuabile nel tribunale ordinario, se sia ancora in corso il giudizio di primo grado, ovvero nella corte d'appello in composizione ordinaria, se penda il termine per l'impugnazione o sia stato interposto appello. (Sez. 6-1, n. 03490/2021, Iofrida, Rv. 660582-01).

Nei giudizi relativi alla responsabilità dei genitori nei quali si discuta dell'affidamento della prole ai servizi sociali, la previsione di cui all'art. 336, comma 4, c.c., così come modificato dall'art. 37, comma 3, della l. n. 149 del 2001, postula la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., sussistendo un conflitto d'interessi del minore con entrambi i genitori, sicché, ove non si sia provveduto a tale nomina, il procedimento deve ritenersi nullo ex art. 354, comma 1, c.p.c., con conseguente rimessione della causa al primo giudice perché provveda all'integrazione del contraddittorio. (Sez. 1, n. 08627/2021, Caiazzo, Rv. 660899-01).

Nei giudizi riguardanti l'adozione di provvedimenti limitativi, ablativi o restitutivi, della responsabilità genitoriale, riguardanti entrambi i genitori, l'art. 336, comma 4, c.c., così come modificato dall'art. 37, comma 3, della l. n. 149 del 2001, in ragione del conflitto di interessi verso entrambi i genitori, richiede la nomina di un curatore speciale del minore, ex art. 78 c.p.c., ove non sia stato nominato un tutore provvisorio, il quale assume la veste di litisconsorte necessario. (In applicazione di tale principio la S.C. ha dichiarato la nullità del procedimento di reclamo e del decreto adottato nel secondo grado del giudizio, per non essere stato evocato in tale grado il tutore, nominato nel corso del procedimento davanti al Tribunale). (Sez. 1, n. 11786/2021, Tricomi L., Rv. 661365-01).

In materia di esercizio della responsabilità genitoriale sui figli nati fuori dal matrimonio, il giudice territorialmente competente ad adottare i provvedimenti di cui all'art. 337 bis e ss., c.c., è quello del luogo in cui il minore ha la "residenza abituale" al momento della domanda, al cui accertamento concorrono una pluralità di indicatori da valutarsi anche in chiave prognostica, al fine di individuare, insieme al luogo idoneo a costituire uno stabile centro di vita ed interessi del minore, il giudice che, alle condizioni in essere al momento della domanda, possa dare migliore risposta alle correlate esigenze, ferme quelle di certezza e garanzia di effettività della tutela giurisdizionale che nella regola sulla competenza trovano espressione. (Sez. 6-1, n. 15835/2021, Scalia, Rv. 661902-01).

Il principio secondo il quale, nella pendenza dei procedimenti di separazione o divorzio o di quelli per le modifiche dei provvedimenti relativi alla prole, introdotti ai sensi dell'art. 710 c.p.c., o dell'art. 337 quinquies c.c., i provvedimenti di cui agli artt. 330 e segg. c.c. sono di competenza del tribunale ordinario, non trova deroga nella circostanza che ad assumere l'iniziativa di questi ultimi sia stato il P.M. presso il tribunale per i minorenni, atteso che la competenza attribuita al tribunale ordinario, ex art. 38 disp. att. c.c., trova giustificazione nella necessità di concentrazione delle tutele volta ad evitare che, in riferimento ad un'identica situazione conflittuale, possano essere aditi organi giudiziali diversi ed assunte decisioni contrastanti ed incompatibili, mentre, il fatto che l'esigenza dell'adozione dei provvedimenti de potestate possa emergere da informazioni acquisite dal procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni non esclude la possibilità di attivare meccanismi di raccordo e trasmissione degli atti tra i diversi uffici del pubblico ministero. (Sez. 6-1, n. 16339/2021, Mercolino, Rv. 661506-01).

La proposizione, ex art. 316 c.c., avanti al tribunale ordinario da parte di uno dei genitori di una domanda per l'affidamento esclusivo di un minore, ai sensi degli artt. 337 quater e 316 bis c.c., nella pendenza avanti al tribunale per i minorenni di un procedimento per la decadenza dalla responsabilità genitoriale dell'altro genitore, pur escludendo l'attrazione al tribunale ordinario del procedimento de potestate, in quanto anteriormente instaurato, non determina l'attrazione della competenza sul procedimento per l'affidamento del figlio al tribunale minorile, senza che rilevi la circostanza che, nella specie, l'oggetto della domanda, proposta ai sensi dell'art. 316 c.c., sia costituito unicamente dall'adozione dei provvedimenti nell'interesse della prole, poiché il carattere tassativo delle competenze attribuite al tribunale per i minorenni e la mancata previsione di una vis attractiva in favore dello stesso, impongono di ritenere che il giudizio successivamente promosso dinanzi al tribunale ordinario resti attribuito alla sua competenza, ferma restando la necessità di tener conto nell'adozione dei provvedimenti nell'interesse della prole delle determinazioni assunte dal giudice specializzato. (Sez. 6-1, n. 16340/2021, Mercolino, Rv. 661507-01).

I provvedimenti da adottare nell'interesse dei minori, di cui agli artt. 330, 332, 333, 334 e 335 c.c., ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c., nel testo sostituito dall'art. 3 della l. n. 219 del 2012, sono riservati alla competenza del tribunale per i minorenni, salvo che sia in corso tra i genitori un giudizio di separazione o di divorzio o un giudizio ai sensi dell'art. 316 c.c., perché in tali ipotesi la competenza spetta al tribunale ordinario, restando tuttavia escluso che la vis attractiva possa estendersi alla pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale riservata in ogni caso al giudice minorile. (Sez. 6-1, n. 16569/2021, Tricomi L., Rv. 661813-02). Nella stessa decisione la Corte di legittimità ha statuito che quando l'adozione del provvedimento di affidamento familiare del minore si renda necessaria nel corso del giudizio di separazione dei coniugi, ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c., la competenza appartiene al tribunale ordinario, che deve innanzitutto, a pena di nullità della pronuncia, procedere all'ascolto del minore che abbia compiuto gli anni dodici ed anche di età inferiore se capace di discernimento, salvo che ritenga di omettere tale incombente con adeguata motivazione, dovendo il giudice indicare altresì il periodo di presumibile estensione temporale dell'affidamento, i modi di esercizio dei poteri riconosciuti all'affidatario e le modalità attraverso cui i genitori e gli altri componenti del nucleo familiare possono mantenere i rapporti con il minore. (Sez. 6-1, n. 16569/2021, Tricomi L., Rv. 661813-01).

L'adozione, nel corso dei procedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale, di provvedimenti che incidano, in concreto, su situazioni giuridiche degli ascendenti - ai quali l'art. 317 bis c.c. riconosce il diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni - legittima il loro intervento nel processo, cui consegue il potere di impugnare le statuizioni ad essi pregiudizievoli. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto ammissibile il reclamo degli ascendenti contro il provvedimento che, ai sensi dell'art. 336 c.c., aveva sospeso la responsabilità genitoriale e vietato l'avvicinamento al minore anche ai nonni). (Sez. 1, n. 18607/2021, Fidanzia, Rv. 661615-01).

Ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c., la pendenza del giudizio di riconoscimento della paternità non determina l'attrazione al tribunale ordinario dei procedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale, che opera solo con riferimento ai giudizi di separazione, di divorzio ed ex art. 316 c.c. in forza di una scelta legislativa del tutto ragionevole, che lascia illesi i diritti di difesa ed al giusto processo, poiché, in sede minorile, le parti fruiscono di una tutela comunque garantistica ed anche più rapida, per effetto della trattazione secondo il rito camerale, e considerato che, fino a quando non è accertata la paternità, il sedicente padre non assume la titolarità del rapporto genitoriale, né può esercitare la relativa responsabilità, non essendo neppure legittimato a contraddire sui temi che attengono ad essa e, soprattutto, all'interesse del minore. (Sez. 1, n. 20248/2021, Tricomi L., Rv. 661922-01).

I provvedimenti de potestate adottati ai sensi dell'art. 709 ter c.p.c. dalla corte d'appello in sede di reclamo, al fine di risolvere l'intervenuto contrasto genitoriale, hanno natura stabile e carattere decisorio, pertanto nei loro confronti è ammesso ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., anche se siano destinati ad avere un'efficacia circoscritta nel tempo, come avviene in riferimento alla scelta della scuola presso cui iscrivere il figlio per un anno scolastico. (Sez. 1, n. 21553/2021, Dolmetta, Rv. 661923-01).

I provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale adottati in via provvisoria nel corso dei giudizi ex art. 337 bis c.c. non possono essere impugnati con il ricorso straordinario per cassazione, trattandosi di provvedimenti privi dei caratteri della decisorietà, poiché sprovvisti di attitudine al giudicato rebus sic stantibus, ed anche della definitività, in quanto non emessi a conclusione del procedimento, e perciò suscettibili di essere revocati, modificati o riformati dallo stesso giudice che li ha emessi anche in assenza di sopravvenienze. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso riguardante la statuizione assunta nel corso di un giudizio ex art. 337 bis c.c., con la quale, in attesa della relazione di aggiornamento dei servizi sociali, il tribunale aveva disposto, in via provvisoria, l'affidamento esclusivo della minore alla madre, sospendendo le frequentazioni del padre, autorizzato ad effettuare solo visite protette, e prescrivendo percorsi a sostegno della genitorialità). (Sez. 1, n. 24638/2021, Caradonna, Rv. 662541-01).

Ai sensi dell'art. 10, comma 3, della l n. 183 del 1984, la sospensione della responsabilità genitoriale rappresenta uno dei possibili provvedimenti che possono essere adottati, anche in via provvisoria, nel corso del procedimento per la dichiarazione di adottabilità del minore, sicché la convocazione e l'audizione del genitore nell'ambito di tale procedimento è idonea a far ritenere osservata la garanzia difensiva dell'audizione del genitore, prevista dall'art. 336, comma 2, c.c. per il caso di adozione di detto provvedimento. (Sez. 1, n. 27553/2021, Fidanzia, Rv. 662848-01).

Nei giudizi riguardanti l'adozione dei provvedimenti limitativi, ablativi, o restitutivi della responsabilità genitoriale, al minore che non sia già rappresentato da un tutore, deve necessariamente essere nominato un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., in mancanza del quale il giudizio è nullo e la nullità è rilevabile d'ufficio, per mancata costituzione del rapporto processuale e violazione del contraddittorio. In tali procedimenti, infatti, come in tutti gli altri per i quali sia prescritta la difesa tecnica del minore, quest'ultimo è parte in senso formale ed il conflitto di interessi deve ritenersi presunto, a differenza dei giudizi in cui il minore sia soltanto parte in senso sostanziale, ove la sussistenza del conflitto di interessi ai fini della nomina del curatore speciale deve essere valutata caso per caso. (Sez. 1, n. 38719/2021, Iofrida, Rv. 661115-01).

Nei procedimenti limitativi o eliminativi della responsabilità genitoriale ex artt. 330 e segg. c.c., il giudice di merito, in forza del combinato disposto dell'art. 336, commi 1 e 4, c.c., è tenuto a nominare al minore un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. (che a sua volta provvederà a designare un difensore ai sensi dell'art. 336, comma 4, c.c.), determinandosi, in mancanza, la nullità del processo che, se rilevata in sede d'impugnazione, comporta la remissione della causa al primo giudice, perché provveda all'integrazione del contraddittorio, in applicazione degli artt. 354, comma 1, e 383, comma 3, c.p.c. (Sez. 1, n. 40490/2021, Campese, Rv. 663533-01).

17. Questioni in materia di matrimonio concordatario, profili processuali.

In tema di divorzio, il riconoscimento dell'efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili, ma prima che sia divenuta definitiva la successiva decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere in quest'ultimo giudizio, il quale può dunque proseguire ai fini dell'accertamento della spettanza e della liquidazione dell'assegno divorzile. (Sez. U, n. 09004/2021, Mercolino, Rv. 661019-01).

La convivenza triennale "come coniugi", quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, è oggetto di un'eccezione in senso stretto, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all'esercizio di diritti, all'adempimento di doveri ed all'assunzione di responsabilità di natura personalissima, che in quanto tali non possono che essere dedotti esclusivamente dalla parte interessata; detta eccezione deve essere proposta dal convenuto, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, da depositarsi nel termine di venti giorni prima dell'udienza fissata nell'atto di citazione e, qualora tale udienza sia rinviata d'ufficio ai sensi dell'art. 168 bis, comma 4, c.p.c., detto differimento non determina la riapertura dei termini per il tempestivo deposito della comparsa di risposta e la proposizione dell'eccezione. (Sez. 1, n. 11791/2021, Valitutti, Rv. 661489-01).

In tema di matrimonio concordatario, la proposizione della domanda di nullità del matrimonio davanti al tribunale ecclesiastico da parte di un coniuge non esclude la possibilità per quest'ultimo di eccepire, nel giudizio di delibazione introdotto dall'altro, l'intervenuta convivenza triennale, preclusiva del riconoscimento della sentenza canonica di nullità, poiché i due processi si collocano su piani diversi e non è possibile desumere dal solo fatto che la parte abbia introdotto il giudizio di nullità del matrimonio concordatario la volontà di ottenere anche la produzione di effetti giuridici nell'ordinamento italiano della relativa sentenza. (Sez. 1, n. 20864/2021, Lamorgese, Rv. 661969-01).

18. Unioni civili, famiglia di fatto, convivenza more uxorio.

Nel caso di minore concepito mediante l'impiego di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo e nato all'estero, non è accoglibile la domanda di rettificazione dell'atto di nascita volta ad ottenere l'indicazione in qualità di madre del bambino, accanto a quella che l'ha partorito, anche della donna a costei legata in unione civile, poiché in contrasto con l'art. 4, comma 3, della l. n. 40 del 2004, che esclude il ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentite, al di fuori dei casi previsti dalla legge, forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico mediante i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto. (Sez. 1, n. 08029/2021, Mercolino, Rv. 657628-01).

Il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all'estero tra un cittadino italiano ed uno straniero, ai sensi dell'art. 32 bis della l. n. 218 del 1995, può essere trascritto nel nostro ordimento come unione civile, essendo trascrivibile come matrimonio solo quello contratto all'estero da due cittadini stranieri. Né tale previsione è discriminatoria per ragioni di orientamento sessuale ed in contrasto con gli artt. 2, 3, 29 e 117 Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 Cedu, poiché la scelta del modello di unione riconosciuta tra persone dello stesso sesso negli ordinamenti facenti parte del Consiglio d'Europa è rimessa al libero apprezzamento degli Stati membri, purché garantisca a tali unioni uno standard di tutele coerente con il diritto alla vita familiare ex art. 8 come interpretato dalla Corte Edu. (Sez. 1, n. 11696/2021, Acierno, Rv. 648562-02). Nella stessa decisione la Corte di legittimità ha statuito che in tema di trascrizione di matrimonio, unione civile o altri istituti analoghi costituiti all'estero tra persone dello stesso sesso, le disposizione della l. n. 76 del 2016 e dei decreti di attuazione n. 5 e n. 7 del 2017 si applicano anche ai vincoli costituiti prima dell'entrata in vigore della predetta disciplina poiché, ai sensi dell'art. 1, comma 28, della citata l. n. 76, tali norme sono state espressamente formulate per garantire un trattamento giuridico uniforme a situazioni identiche sorte in tempi diversi. (Sez. 1, n. 11696/2021, Acierno, Rv. 648562-01).

La convivenza more uxorio con una cittadina italiana, anche se la coppia attende un bambino, non rileva quale causa di non espellibilità dello straniero, neppure nel giudizio di legittimità della proroga del trattenimento volto all'esecuzione dell'espulsione, perché la convivenza more uxorio dello straniero non rientra tra le ipotesi tassative di divieto di espulsione di cui all'art. 19 del d.lgs. n. 286 del 1998, le quali non sono suscettibili di interpretazione analogica o estensiva. (Sez. 1, n. 16657/2021, Amatore, Rv. 661918-01).

In caso di acquisto pro indiviso di un immobile effettuato da due conviventi more uxorio per quote uguali in difetto di diversa indicazione nel titolo, stante la presunzione di cui all'art. 1101 c.c., il maggior apporto fornito dal co-acquirente nella corresponsione del prezzo non può presumersi effettuato in favore dell'altro a titolo di liberalità, avente giustificazione nella mera convivenza, senza che sia fornita dimostrazione, anche mediante presunzioni, purché serie, dell'animus donandi. Pertanto, in difetto di tale prova, il convivente che abbia sborsato una somma maggiore ha il diritto di ottenere dall'altro il rimborso della parte eccedente la sua quota. (Sez. 2, n. 20062/2021, Tedesco, Rv. 662014-01).

In tema di previdenza per ingegneri ed architetti, la pensione di reversibilità non può essere riconosciuta, nella vigenza della disciplina antecedente alla data di entrata in vigore della l. n. 76 del 2016 - che ha introdotto nel nostro ordinamento l'istituto dell'unione civile anche tra persone dello stesso sesso, disciplinando altresì le convivenze di fatto -, a favore di superstite già legato da stabile convivenza con persona dello stesso sesso poi deceduta, avuto riguardo al principio di irretroattività dettato dall'art. 11 preleggi. (Sez. L, n. 24694/2021, D’Antonio, Rv. 662266-01).

19. Ius sepulchri.

In assenza di disposizioni specifiche da parte del fondatore, lo ius sepulchri d'indole gentilizia spetta, oltre che al fondatore stesso, ai componenti del nucleo familiare strettamente inteso, nel quale debbono farsi rientrare tutte le persone legate al fondatore da vincolo di sangue o legate tra loro da vincoli di matrimonio. Tale diritto, pur non essendo precisato in una disposizione di legge, trova il suo fondamento in un'antica consuetudine, conforme al sentimento comune, e nelle esigenze di culto e pietà dei defunti che, quando esercitate dai prossimi congiunti, realizzano, allo stesso tempo, la tutela indiretta di un interesse concernente la persona del defunto e l'esigenza sociale di far scegliere ai soggetti più interessati la località ed il punto ove manifestare i sentimenti di devozione verso il parente deceduto. (Nella specie, la S.C. ha escluso il diritto della nuora della sorella del fondatore del sepolcro gentilizio ad essere sepolta nella tomba di famiglia, non rilevandosi alcun rapporto di consanguineità della stessa con il fondatore. (Sez. 6-3, n. 08020/2021, Dell’Utri, Rv. 660987-01).

20. Rapporti familiari e immigrazione.

Rientra tra i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria la condizione del richiedente che conviva in Italia con moglie e figlio minore, non valendo ad escluderlo il disposto dell'art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, quando uno dei fattori valorizzati dal richiedente sia proprio il legame familiare con la prole, tenuto conto della elasticità dei parametri entro i quali si muove la protezione umanitaria e che, ai sensi dell'art. 8 Cedu, la vita familiare va intesa come diritto di vivere insieme affinché i relativi rapporti possano svilupparsi normalmente. (Nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia del tribunale che aveva escluso la configurabilità della protezione umanitaria, senza avere valutato la circostanza, riferita dal richiedente in sede di audizione, di essere convivente con moglie e figlio in un centro di accoglienza). (Sez. 1, n. 01347/2021, Caradonna, Rv. 660369-01).

Ai fini del riconoscimento della protezione internazionale si deve tener conto, ove ritenuto credibile, del riferimento alle minacce di persecuzione e di danni gravi per ragioni politiche incombenti su un familiare del richiedente, per determinare se il medesimo, previa verifica dell'attualità della minaccia, a causa del legame familiare con la persona minacciata sia a sua volta esposto allo stesso pericolo, non potendosi affermare che il mancato svolgimento di attività politica escluda a priori la sussistenza nei suoi confronti della minaccia. (Sez. 1, 04377/2021, Casadonte, Rv. 660503-01).

Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, ai sensi dell'art. 19 del d.lgs. n. 286 del 1998, la presenza di figli minori del richiedente rappresenta uno degli elementi che devono essere considerati nell'apprezzamento circa la sussistenza della vulnerabilità del genitore, atteso che la presenza della prole minore in Italia si risolve in una condizione familiare idonea a dimostrare da un lato una peculiare fragilità, tanto dei singoli componenti della famiglia che di quest'ultima nel suo complesso, e dall'altro lato uno specifico profilo di radicamento del nucleo sul territorio nazionale, in dipendenza dell'inserimento dei figli nei percorsi sociali e scolastici esistenti in Italia e, quindi, della loro naturale tendenza ad assimilare i valori ed i concetti fondativi della società italiana. (Nella specie, la S. C. ha cassato la pronuncia di merito, che aveva rigettato la domanda per il riconoscimento dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie formulata da una richiedente, madre di due gemelli di circa due anni, senza tener conto di tale circostanza). (Sez. 2, n. 05056/2021, Oliva, Rv. 660543-01).

In materia di protezione internazionale, se il giudice del merito accerti che l'istante si è trovata di fronte a pressioni per indurla al matrimonio che, seppur reiterate e di taglio “insinuativo”, non hanno raggiunto il livello della vera e propria imposizione, sì da esporla a trattamenti in sé stessi lesivi della dignità personale, non ricorrono le condizioni per il riconoscimento della protezione sussidiaria; tuttavia, qualora le pressioni ed induzioni in fatto subite abbiano comportato forti disagi e sofferenze nella persona della ricorrente, ed abbiano così inciso sulla sua facoltà di autodeterminazione e di positiva esplicazione della libertà personale, ponendola in una situazione di peculiare vulnerabilità, ricorrono i "seri motivi di carattere umanitario" di cui all'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998. (Sez. 1, n. 06228/2021, Dolmetta, Rv. 660887-01).

In materia di immigrazione, il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari al cittadino extracomunitario coniuge di cittadino italiano, disciplinato dal d.lgs. n. 30 del 2007, non presuppone la convivenza effettiva dei coniugi e neppure il pregresso regolare soggiorno del richiedente ma, ai sensi dell'art. 30, comma 1 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, deve essere negato ove il matrimonio risulti fittizio o di convenienza, assumendo a tal fine rilievo le "linee guida" elaborate dalla Commissione europea, contenenti una serie di criteri valutativi che inducono ad escludere l'abuso dei diritti comunitari, e il "manuale" redatto dalla stessa Commissione, recante, invece, l'indicazione degli elementi che fanno presumere tale abuso. (Nella specie, la S.C. ha respinto il ricorso contro la decisione, che aveva ritenuto legittimo il diniego del permesso di soggiorno risultando il matrimonio contratto subito dopo il provvedimento di espulsione di uno dei coniugi, conosciutisi appena tre giorni prima, in assenza della prova della consumazione o della successiva convivenza, ma con la dimostrazione del pagamento di un compenso in favore del consorte italiano). (Sez. 1, n. 06747/2021, Acierno, Rv. 660889-01).

Ai fini del rilascio dell'autorizzazione all'ingresso o alla permanenza in Italia dei familiari del minore, ex art. 31, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998, il giudizio di bilanciamento tra l'interesse di quest'ultimo e quello di rilievo pubblicistico alla sicurezza nazionale, può essere effettuato solo una volta che sia stata valutata la situazione attuale del minore, verificando se sussista il pericolo di un suo grave disagio psico-fisico derivante dal rimpatrio suo o del familiare, potendosi denegare l'autorizzazione solo nel caso in cui l'interesse del minore, pur prioritario nella considerazione della norma sia nel caso concreto recessivo, non avendo esso carattere assoluto come chiarito dalla CEDU nell'interpretazione dell'art. 8 della Convenzione. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva rigettato l'autorizzazione, motivandola con considerazioni generali relative alla sicurezza pubblica e alle politiche migratorie, estrinseche alla valutazione del pregiudizio che il minore avrebbe potuto subire a seguito del rimpatrio proprio o dei genitori, limitandosi a negare l'esistenza di siffatto pregiudizio perché il nucleo familiare sarebbe comunque rimasto unito). (Sez. 1, n. 10849/2021, Acierno, Rv. 661153-01).

In tema di protezione internazionale, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato politico costituiscono atti di persecuzione basati sul genere, ex artt. 7 e 8, comma 2, lett. f), del d.lgs. n. 251 del 2007, le violenze subite da una donna per essersi rifiutata di prestare il consenso ad un matrimonio impostole nel paese di provenienza, ove emerga - attraverso l'acquisizione di informazioni specifiche ed aggiornate sulla condizione delle donne in quel paese - la certezza, la probabilità o anche solo il rischio per la richiedente di subire nuovamente atti di violenza nel caso di rientro, atteso che la coartazione al matrimonio, lungi dal poter essere considerata fatto di natura privata, è ascrivibile nell'ambito della violenza di genere così come riconosciuto, tra l'altro, dagli artt. 3, 37 e 60 della Convenzione di Istanbul del 2011, dalla Dichiarazione sull'eliminazione della violenza contro le donne (CEDAW) del 1979 nonché dalle Linee guida dell'UNHCR sulla persecuzione basata sul genere e tenuto conto, peraltro, che l'appartenenza di genere deve essere considerata, in determinate condizioni, anche come riferibile "ad un particolare gruppo sociale" che può essere oggetto di persecuzione già ai sensi dell'art. 1 della Convenzione di Ginevra. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza che aveva considerato come "vicenda assolutamente privata e occasionale della famiglia" quella di una richiedente costretta fuggire dalla Nigeria per sottrarsi ad un matrimonio con un uomo anziano impostole dallo zio, il quale, in conseguenza del suo rifiuto, l'aveva ferita ad una gamba, nonché soggetta a gravi violenze di genere, consistite nelle persecuzioni sessuali da parte del marito di una zia presso la cui abitazione si era rifugiata per sottrarsi al matrimonio imposto). (Sez. 3, n. 16172/2021, Di Florio, Rv. 661636-01).

La convivenza more uxorio con una cittadina italiana, anche se la coppia attende un bambino, non rileva quale causa di non espellibilità dello straniero, neppure nel giudizio di legittimità della proroga del trattenimento volto all'esecuzione dell'espulsione, perché la convivenza more uxorio dello straniero non rientra tra le ipotesi tassative di divieto di espulsione di cui all'art. 19 del d.lgs. n. 286 del 1998, le quali non sono suscettibili di interpretazione analogica o estensiva. (Sez. 1, n. 17657/2021, Amatore, Rv. 661918-01).

In tema di rilascio dell'autorizzazione temporanea alla permanenza in Italia del genitore del minore, ex art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998, la vulnerabilità di minori nati in Italia ed integrati nel tessuto socio-territoriale e nei percorsi scolastici deve essere presunta, in applicazione dei criteri di rilevanza decrescente dell'età, per i minori in età prescolare, e di rilevanza crescente del grado di integrazione, per i minori in età scolare. Ne consegue che la condizione di vulnerabilità di tali minori deve essere ritenuta prevalente, sino a prova contraria, rispetto alle norme regolanti il diritto di ingresso e soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale, dovendosi dare primario rilievo al danno che deriverebbe loro per effetto del rimpatrio in un contesto socio-territoriale con il quale il minore stesso non abbia alcun concreto rapporto. (La S.C. ha enunciato il principio in una fattispecie in cui la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto che l'esame prioritario dell'interesse del minore, così come previsto dall'art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, non determinasse alcun automatismo e che il danno grave per lui dovesse essere puntualmente provato). (Sez. 2, n. 19797/2021, Manna F., Rv. 661699-01).

Le disposizioni di cui all'art. 22 del d.lgs. n. 251 del 2007 relative al diritto al "mantenimento del nucleo familiare" del beneficiario di protezione internazionale devono intendersi riferite esclusivamente ai parenti che siano presenti sul territorio nazionale, mentre, in caso di parenti residenti nel paese di origine o di provenienza del richiedente è applicabile la disciplina degli artt. 29 e 29 bis del d.lgs. n. 286 del 1998. (Sez. 3, n. 20127/2021, Di Florio, Rv. 661981-01). Nella stessa decisione la Cassazione ha statuito che in materia di ricongiungimento familiare dello straniero, al quale sia stato riconosciuto lo status di rifugiato politico, le due ipotesi alternativamente previste dall'art. 29, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 286 del 1998, lette alla luce dell'art. 8 CEDU e secondo i principi contenuti nella direttiva 2003/86/CE, devono essere interpretate nel senso che, dove la norma prevede che lo straniero possa richiedere il ricongiungimento "di genitori a carico, qualora non abbiano altri figli nel paese di origine o di provenienza", debba intendersi che tali figli con loro conviventi siano in grado di provvedere al loro sostentamento economico, e che ove la norma prevede la possibilità di richiedere il ricongiungimento per i "genitori ultrasessantacinquenni qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro sostentamento per documentati gravi motivi di salute", debba intendersi anche "quando non siano a carico del rifugiato", dovendosi ritenere che il principio generale del diritto al ricongiungimento familiare sia prevalente sempre che non sussistano le ragioni impeditive di cui all'art. 6 della Direttiva 2003/86/CE, legate a ragioni di ordine pubblico, sicurezza pubblica o sanità pubblica. (Nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia della Corte d'appello che, in riforma di quella del tribunale, aveva confermato la decisione dell'ambasciata italiana in Pakistan, la quale aveva negato il visto di ingresso in Italia alla madre sessantunenne, residente in Pakistan, di un rifugiato politico sulla base della convivenza della donna con altro figlio, studente ed economicamente non autosufficiente). (Sez. 3, n. 20127/2021, Di Florio, Rv. 661981-02). Nella stessa pronuncia, il giudice di legittimità ha deciso che ai fini dell'individuazione dei presupposti per il riconoscimento del diritto al ricongiungimento familiare in favore degli ascendenti non residenti in Italia da parte di persona alla quale sia stato riconosciuto lo status di rifugiato politico, il giudice di merito deve accertare, sulla base delle allegazioni e delle prove fornite dal richiedente, l'assenza di pericolosità dell'ascendente e la sua condizione di essere "a carico" in termini di necessario sostentamento continuativo, rendendo una motivazione congrua e logica anche in relazione al diverso potere d'acquisto che le somme inviate dall'Italia dal figlio hanno nel paese di residenza del genitore. (Sez. 3, n. 20127/2021, Di Florio, Rv. 661981-03).

La speciale autorizzazione del tribunale per i minorenni all'ingresso o alla permanenza del familiare del minore ai sensi dell'art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, è subordinata alla puntuale allegazione e dimostrazione della sussistenza dei gravi motivi per lo sviluppo psico-fisico del minore richiesti dalla norma soltanto quando la famiglia non sia ancora presente nel territorio nazionale, mentre quando è già presente opera la presunzione di radicamento del minore nel suo ambiente nativo, salvo prova contraria; in quest'ultimo caso, i gravi motivi idonei a giustificare l'autorizzazione temporanea possono perciò essere collegati all'alterazione di tale ambiente conseguente alla perdita della vicinanza con la figura genitoriale ovvero al repentino trasferimento in un altro contesto territoriale e sociale. (Nella specie, la S.C. ha cassato il decreto impugnato, che aveva negato l'autorizzazione alla permanenza dei genitori in Italia senza valutare le conseguenze negative che potevano derivare alla prole in caso di rimpatrio insieme ai genitori, non avendo tenuto conto che la vulnerabilità del minore è oggetto di presunzione tanto con riferimento al minore in età prescolare, in base la principio della rilevanza decrescente dell'età, quanto con riguardo al minore radicato in Italia, in base al criterio della rilevanza crescente del radicamento socio-territoriale). (Sez. 2, n. 24039/2021, Oliva, Rv. 662170-01).

In virtù della disciplina di cui agli artt. 29, comma 1, lett. d), e 29-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, il ricongiungimento del genitore, richiesto dallo straniero al quale sia stato riconosciuto lo status di rifugiato politico, postula il requisito della "vivenza a carico", che si riscontra quando il primo non sia in grado di provvedere alle proprie necessità essenziali nel Paese d'origine, e risulti accertato che il necessario sostegno materiale gli sia effettivamente fornito dal figlio soggiornante sul territorio italiano, quale persona che, sulla base delle complessive circostanze del caso concreto, si riveli essere il familiare più idoneo allo scopo. (Sez. L, n. 24039/2021, Pagetta, Rv. 662263-01).

In virtù della disciplina di cui agli artt. 29, comma 1, lett. d), e 29 bis del d.lgs. n. 286 del 1998, il ricongiungimento del genitore, richiesto dallo straniero al quale sia stato riconosciuto lo status di rifugiato politico, postula il requisito della "vivenza a carico", che si riscontra quando il primo non sia in grado di provvedere alle proprie necessità essenziali nel Paese d'origine, e risulti accertato che il necessario sostegno materiale gli sia effettivamente fornito dal figlio soggiornante sul territorio italiano, quale persona che, sulla base delle complessive circostanze del caso concreto, si riveli essere il familiare più idoneo allo scopo. (Sez. L, n. 24488/2021, Pagetta, Rv. 662263-01).

Ai fini del rilascio del permesso di soggiorno allo straniero che chieda il ricongiungimento familiare, ai sensi dell'art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, devono essere computati i redditi dei soli familiari conviventi che siano tenuti per legge alla corresponsione degli alimenti, rimanendo esclusi dal calcolo i redditi percepiti dagli affini che, pur se compresi nel nucleo familiare, non sono a ciò obbligati. (Sez. 2, n. 28184/2021, Caiazzo, Rv. 662853-01).

In tema di ricongiungimento del cittadino straniero che abbia ottenuto la protezione internazionale con i propri familiari, le agevolazioni probatorie previste dall'art. 29 bis, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998 non vanno interpretate in senso restrittivo, come destinate alla sola dimostrazione del vincolo familiare ma devono essere estese anche agli altri elementi che qualificano tale vincolo ai fini del rilascio del visto d'ingresso (come la vivenza a carico e l'assenza di altri figli in patria, in caso di ricongiungimento con un genitore). (Sez. 1, n. 28200/2021, Solaini, Rv. 662854-01).

I cittadini stranieri che si trovano nelle documentate circostanze di cui all'art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286 del 1998, consistenti nell'effettiva convivenza con parenti entro il secondo grado di nazionalità italiana, non beneficiano solo della tutela avverso i provvedimenti espulsivi, scaturente dalla loro condizione di inespellibilità, ma possono attivarsi per richiedere e ottenere dal Questore un permesso di soggiorno per motivi familiari, ai sensi dell'art. 28, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 394 del 1999. (Sez. 1, n. 28201/2021, Solaini, Rv. 662855-01).

In caso di richiesta di permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare, alla luce delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2007 agli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5 (al quale è stato anche aggiunto il comma 5-bis), del d.lgs. n. 286 del 1998, la sussistenza di ragioni ostative al rilascio del nulla osta al ricongiungimento, per effetto della pericolosità sociale del richiedente, implica la formulazione di un giudizio in concreto, tale da indurre a concludere che lo straniero rappresenti una minaccia concreta ed attuale per l'ordine pubblico e la sicurezza, sì da rendere recessiva la valutazione degli ulteriori elementi contenuti nell'art. 5, comma 5, cit., quali la natura e la durata dei vincoli familiari, l'esistenza di legami familiari e sociali con il paese di origine e, per lo straniero già presente nel territorio nazionale, la durata del permesso di soggiorno pregresso. Ne consegue che, al fine di non incorrere nel vizio di motivazione, è onere dell'autorità amministrativa, prima, e di quella giurisdizionale, poi, esplicitare, in base ai richiamati parametri normativi ed agli elementi di fatto aggiornati all'epoca della decisione ovvero a presunzioni fondate su circostanze concrete ed attuali, le ragioni di tale pericolosità, rispetto alle quali il richiamo a precedenti penali del richiedente, se risalenti nel tempo, può avvenire solo come elemento di sostegno indiretto, quale indicatore della personalità dello stesso. (Sez. 2, n. 30342/2021, Manna F., Rv. 662707-01).

In tema di protezione umanitaria, la circostanza per cui il richiedente asilo viva in Italia in compagnia del coniuge e di un figlio in tenera età giustifica il riconoscimento della protezione stessa al fine di garantire l'unità familiare, e ciò anche a prescindere dalla credibilità della vicenda narrata dal medesimo richiedente, occorrendo procedere da un'ottica costituzionalmente orientata di assistenza dei figli minori - cui va riconosciuto il diritto ad essere educati ed accuditi all'interno del proprio nucleo familiare onde consentir loro il corretto sviluppo della propria personalità - nonché alla luce del principio sovranazionale di cui all'art. 8 CEDU, dovendo riconoscersi alla famiglia la più ampia protezione e assistenza, specie nel momento della sua formazione ed evoluzione a seguito della nascita di figli, senza che tali principi soffrano eccezioni rappresentate dalla condizione di cittadini o di stranieri, trattandosi di diritti umani fondamentali cui può derogarsi soltanto in presenza di specifiche, motivate e gravi ragioni. (In applicazione del suesteso principio, la S.C. ha cassato la decisione con cui il tribunale, ritenendo non credibile la vicenda narrata dal richiedente, aveva negato anche il permesso di soggiorno per motivi umanitari, senza tener conto che lo stesso richiedente, cittadino nigeriano, viveva in Italia in compagnia del coniuge e di un figlio minore in tenera età, ed era in attesa della nascita di un secondo figlio). (Sez. 3, n. 32237/2021, Travaglino, Rv. 662954-01). Nella medesima decisione la Corte di legittimità ha statuito che costituisce indizio di vulnerabilità soggettiva, a prescindere dalla valutazione di credibilità del richiedente asilo, la circostanza di essere allontanato dal proprio nucleo familiare e respinto nel Paese di provenienza, costituendo tale allontanamento forzato un atto destinato ad incidere significativamente sulla psiche e sulle emozioni del soggetto che si vede privato del suo diritto di partecipare al sano ed equilibrato sviluppo della propria vita familiare, segnatamente nell'ottica dell'assistenza, dell'educazione e dell'accudimento di figli minori. (Sez. 3, n. 32237/2021, Travaglino, Rv. 662954-02).

In tema di protezione umanitaria, ai fini dell'accertamento delle condizioni di vulnerabilità, nella comparazione da effettuare tra la situazione di integrazione raggiunta in Italia dal richiedente e la condizione in cui si troverebbe nel paese di origine, avuto riguardo, in particolare, al profilo dell'eventuale violazione dell'art. 8 CEDU, non può omettersi di considerare la circostanza relativa alla stabile relazione affettiva instaurata con una donna italiana ancorché non convivente. (Sez. 1, n. 34096/2021, Fidanzia, Rv. 663271-01).

20.1. Rapporti familiari e immigrazione, profili processuali.

Ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari, deve essere valutata sia la pericolosità sociale del soggetto, sia l'effettiva esistenza dei legami familiari presupposti alla richiesta: la prima va esaminata in base agli elementi di fatto aggiornati all'epoca della decisione, ovvero in base a presunzioni fondate su circostanze concrete ed attuali, potendosi, a tal fine, richiamare i precedenti penali del soggetto, se risalenti nel tempo, solo come elemento di sostegno indiretto della valutazione, in quanto indicatori della sua personalità; la seconda deve tener conto degli elementi di fatto emersi dall'istruttoria, avendo cura di attribuire valenza neutra a quelli che, oggettivamente, non sono idonei ad indicare un sostanziale abbandono, da parte del richiedente, del contesto familiare, o comunque una sua rilevante disaffezione nei confronti dei suoi prossimi congiunti. (Sez. 2, n. 07842/2021, Oliva, Rv. 660803-01).

In sede di convalida del decreto del questore di trattenimento dello straniero presso il C.P.R. (Centro di permanenza per i rimpatri) ai fini dell'esecuzione del provvedimento di espulsione, la mera presentazione da parte dello straniero della richiesta di coesione familiare, ai sensi dell'art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998, non può impedire la convalida della misura del trattenimento in questione, né è idonea a sospenderne l'efficacia trattandosi di effetto che resta riconnesso al rilascio della menzionata autorizzazione. (Sez. 1, n. 09445/2021, Tricomi L., Rv. 661176-01).

I procedimenti in tema di autorizzazione all'ingresso o alla permanenza in territorio italiano, previsti dall'art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 in favore del familiare del minore straniero che si trovi in Italia, non sono soggetti al rinvio d'ufficio di tutte le udienze disposto dall'art. 1, comma 1, del d.l. n. 11 del 2020 e dall'art. 83, comma 1, del d.l. n. 18 del 2020, conv. con modif. dalla l. n. 27 del 2020, a causa dell’epidemia di Covid 19, trattandosi di giudizi sottratti al differimento ai sensi dell'art. 2, comma 2, lett. g), n. 1), del d.l. n. 11 del 2020 e dell'art. 83, comma 3, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020, in quanto rientranti tra le cause di competenza del tribunale per i minorenni relative a "situazioni di grave pregiudizio" per il minore. (Sez. 1, n. 20301/2021, Scotti, Rv. 661905-01)

21. Famiglia e tributi.

In tema di IVA, l'accertamento fiscale svolto attraverso acquisizioni bancarie ai sensi dell'art. 51, comma 3, n. 7, del d.P.R. n. 633 del 1972 (nel testo applicabile ratione temporis) non è limitato ai soli conti bancari o postali o ai libretti di deposito intestati al titolare dell'azienda individuale o alla società, ma, in presenza di elementi sintomatici (quali il rapporto di stretta contiguità familiare, l'ingiustificata capacità reddituale dei prossimi congiunti nel periodo di imposta, l'infedeltà della dichiarazione, l'attività di impresa compatibile con la produzione di utili o, come nella specie, l'essere quella oggetto di verifica un'impresa familiare) può essere esteso anche a quelli intestati a terzi. (Sez. 5, n. 01174/2021, Castorina, Rv 660240-01).

In tema di imposta di registro sugli atti giudiziari, in esito ai procedimenti di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio beneficia del regime di esenzione previsto dall'art. 19 della l. n. 74 del 1987 anche la sentenza di divisione giudiziale della comunione legale dei coniugi, conseguente al mancato raggiungimento di accordi, posto che la ratio dell'agevolazione tributaria risiede nella volontà di favorire le famiglie già indebolite dalla crisi coniugale che addivengono alla complessiva sistemazione dei rapporti patrimoniali dipendenti dalla lite divorzile, né lo scioglimento della comunione insieme ai trasferimenti (mobiliari o immobiliari) costituiscono indice di capacità contributiva. (Sez. 5, n. 03074/2021, Balsamo, Rv 660469-01).

In tema di imposte dirette, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U.I.R., sono oneri deducibili l'assegno di mantenimento periodico corrisposto da un coniuge all'altro, in conseguenza di separazione legale (ed effettiva), nella misura risultante dal provvedimento dell'autorità giudiziaria o dall'accordo di separazione, nonché i ratei del mutuo sull'abitazione (intestata all'altro coniuge o cointestata) pagati da un coniuge in ottemperanza al patto di accollo interno contenuto in un accordo di separazione omologato dal Tribunale, ove tale esborso sia finalizzato al mantenimento del coniuge economicamente "debole". (In motivazione la S.C. ha escluso la deducibilità delle rate di mutuo nell'ipotesi in cui detto onere si configuri come obbligazione liberamente concordata dalle parti, che affianca - e non sostituisce - l'assegno di mantenimento a carico del coniuge "forte", siccome finalizzata a conferire un assetto stabile, sul piano civilistico, ai reciproci rapporti patrimoniali). (Sez. 5, n. 05984/2021, Guida, Rv. 660715-01).

In tema di imposta sulle donazioni, il patto di famiglia con il quale venga disposta la cessione del capitale sociale in favore dei legittimari beneficia dell'esenzione prevista dall'art. 3, comma 4 ter, del d.lgs. n. 346 del 1990, la cui fruizione è vincolata alla sussistenza in capo al beneficiario di una situazione di controllo di diritto, ove il pacchetto azionario venga donato in comproprietà tra i discendenti, atteso che in tal caso, ex art. 2347 c.c., i diritti dei comproprietari sono esercitati da un rappresentante comune. Laddove, invece, la cessione contestuale del capitale avvenga in parti uguali ed i legittimari prevedano misure per assicurare il controllo societario ai sensi dell'art. 2359, comma 1, n. 1 c.c. in un patto parasociale non registrato accessorio e successivo, l'esenzione non trova applicazione atteso che i presupposti del trattamento agevolativo devono sussistere, per espressa previsione normativa, al momento della stipula del patto di famiglia. (Sez. 5, n. 06591/2021, Fasano, Rv. 660816-01).

In tema di imposta sulle donazioni, l'esenzione prevista dall'art. 3, comma 4 ter, del d.lgs. n. 346 del 1990 per i patti di famiglia aventi ad oggetto il trasferimento di partecipazioni sociali a favore dei discendenti, va riconosciuta ai soli casi in cui esso consente agli aventi causa l'acquisizione o l'integrazione del controllo della società e a condizione che quest'ultimi si impegnino, per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento, a proseguire l'esercizio dell'attività; di talché, nel caso di trasferimento a più discendenti in comproprietà, il beneficio deve essere riconosciuto a condizione che i diritti dei comproprietari vengano esercitati da un rappresentante comune che disponga della maggioranza dei voti esercitabile nell'assemblea ordinaria, essendo così realizzato l'effettivo passaggio generazionale dell'impresa mediante il totale trasferimento del controllo di diritto dai disponenti ai discendenti. (Sez. 5, n. 07429/2021, Fasano, Rv. 660823-01).

In tema di imposte dirette, il patto di famiglia - che esclude la realizzazione di plusvalenze tassabili per espressa previsione dell'art. 58 T.U.I.R. - ove soggetto a scioglimento o a modifica contrattuale ai sensi dell'art. 768 septies c.c. determina utilità imponibili a carico del contribuente, per intervenuta rivalutazione del valore delle partecipazioni societarie, per una eventuale cessione delle partecipazioni anche a terzi. (Sez. 5, n. 2021, D’Orazio, Rv. 660936-01).

In tema di imposte sui redditi, i proventi derivanti da fatti illeciti, rientranti nelle categorie reddituali di cui all'art. 6, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, devono essere assoggettati a tassazione anche se il contribuente è stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate ed al risarcimento dei danni cagionati o se in capo all'autore del reato sussisteva l'intenzione di non trattenere le ricchezze percepite nel proprio patrimonio ma di riversarle a terzi. (Fattispecie relativa ad appropriazione indebita di denaro versato dal coniuge su conto corrente cointestato all'altro coniuge). (Sez. 6-5, n. 25684/2021, Lo Sardo, Rv. 662298-01).

Ai fini del riconoscimento delle agevolazioni tributarie per l'acquisto della prima casa, ai sensi della nota II bis dell'art. 1 della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, la situazione del cittadino residente all'estero ma iscritto all'Aire non può essere equiparata a quella del cittadino italiano emigrato all'estero, espressamente prevista dalla norma, sia in quanto le norme fiscali che stabiliscono agevolazioni o esenzioni sono di stretta interpretazione, ai sensi dell'art. 14 delle preleggi, sia alla luce della ratio della norma che è quella di incentivare il mantenimento di un collegamento tra la comunità nazionale ed il cittadino che ne abbia fatto parte e sia stato costretto ad espatriare. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva riconosciuto il beneficio ad una cittadina iscritta all'AIRE, residente negli Stati Uniti, che aveva acquistato la cittadinanza italiana per avere contratto matrimonio con un italiano e che non era mai stata residente in Italia). (Sez. 6-5, n. 28055/2021, Crolla, Rv. 662474-01).

In tema di imposte sui redditi, ai fini dell'applicabilità del regime fiscale dell'impresa familiare, ai sensi dell'art. 5, commi 4 e 5, del d.P.R. n. 917 del 1986, è richiesto, tra l'altro, che il lavoro prestato dal collaboratore all'interno dell'impresa familiare sia prevalente rispetto alle altre attività eventualmente svolte. (Sez. 5, n. 40934/2021, Giudicepietro, Rv. 663514-01).

In materia di impresa familiare, poiché non esiste alcun contratto sociale né un vincolo societario tra il titolare dell'impresa e i suoi collaboratori, la liquidazione del diritto di partecipazione all'impresa, afferendo alla sfera personale dei soggetti di tale rapporto, non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste dal d.P.R. n. 917 del 1986, sicché l'importo attribuito non è soggetto ad Irpef in capo al soggetto percipiente, non rileva come componente negativo e non è deducibile dal reddito di impresa, per mancanza del requisito di inerenza previsto dall'art. 109, comma 5, del t.u.i.r. (Sez. 5, n. 40937/2021, Condello, Rv. 663526-01).

21.1. Famiglia e tributi, profili processuali.

Nel contenzioso tributario e in tema di dichiarazione congiunta dei coniugi, regolata dall'art. 17 della l. n. 144 del 1977, all'interruzione del processo per morte dell'unico ricorrente, alla cui eredità hanno rinunciato coloro cui spetta, non può seguire la riassunzione da parte del coniuge, che ha rinunciato all'eredità e che, quand'anche titolare di una posizione fiscale autonoma, che ne avrebbe autorizzato l'intervento volontario, ma non della posizione di litisconsorte necessario, non sia intervenuto in giudizio sino al momento della declaratoria di interruzione, trovando comunque tutela la posizione fiscale del coniuge nel diritto all'impugnazione autonoma del medesimo atto impositivo o degli atti esecutivi ad esso conseguenti. (Sez. 5, n. 20996/2021, Federici, Rv. 662080-02).

In materia di accertamento sintetico del reddito, il contribuente può dimostrare che le spese accertate nei suoi confronti sono state, in realtà, finanziate mediante elargizioni del coniuge, ma a tal fine, non è sufficiente che alleghi l'esistenza del rapporto familiare, rimanendo applicabili gli ordinari principi in materia di ripartizione dell'onere della prova, con la conseguenza che compete al medesimo contribuente, che affermi di avere ricevuto aiuti economici dal coniuge per sostenere gli esborsi affrontati nell'anno di riferimento, dimostrare la ricorrenza di elementi sintomatici che siffatti esborsi siano stati verosimilmente sostenuti proprio con la provvista assicurata con i menzionati aiuti. (Sez. 5, n. 38060/2021, Di Marzio P., Rv. 663199-01).

22. La genitorialità solidale: gli sviluppi degli istituti adottivi.

Il profilo del preminente interesse del minore, sempre più enfatizzato dalla giurisprudenza CEDU in numerose pronunce, ha permeato di sé la giurisprudenza dell’anno in rassegna, sia di tipo processuale, che di tipo sostanziale. Così le pronunce in tema di contraddittorio da un lato, e quelle relative allo stato di abbandono hanno segnato fortemente, ancora una volta, la necessità di considerare recessivo qualsiasi interesse, anche dei genitori biologici (fermo, naturalmente, il diritto di difesa ed al contraddittorio) che interferisca con il raggiungimento dell’obiettivo primario della tutela del minore. A tal fine anche le rigidità che prima contrassegnavano i diversi istituti, come l’adozione speciale e l’adozione in casi particolari, sfumano le rispettive differenze di presupposti in favore di una visione più pragmatica del benessere del minore in favore della quale l’uso dell’adozione in casi particolari diviene strumento di realizzazione e di adeguamento della rigidità degli istituti giuridici rispetto alle molteplici varianti della realtà, sempre in divenire.

22.1. L’adozione “mite”. Lo stato di abbandono.

Dando continuità all’indirizzo segnato nel 2020 da Sez. 1, n. 03643/2020, Acierno, Rv. 657069-01, che, per la prima volta, aveva offerto una sponda giurisprudenziale di legittimità alla c.d. “adozione mite” (che, nelle prassi dei tribunali per i minorenni, viene praticata in quei casi, definiti di “semi-abbandono”, in cui pur presentando il rapporto del minore con le figure parentali aspetti problematici, non è tuttavia opportuno reciderlo del tutto), Sez. 1, n. 01476/2021, Valitutti, Rv. 660432-01 (in senso conforme Sez. 1, n. 40308/2021, Acierno, Rv. 663429-01), richiamando gli artt. 8 CEDU, 30 Cost., 1 della l. n. 184 del 1983, e 315 bis, comma 2, c.c., ha riaffermato che l’adozione legittimante costituisce solo un’extrema ratio, alla quale può pervenirsi solo dopo avere accertato l’insussistenza dell’interesse del minore “a conservare il legame con i suoi genitori biologici, pur se deficitari nelle loro capacità genitoriali”, affermando che, ove tale interesse sia esistente, il modello di adozione in casi particolari di cui all'art. 44, lett. d), della l. n. 184 del 1983 può, ricorrendone i presupposti, costituire una forma di cd. adozione mite, idonea a non recidere del tutto, nell'interesse del minore, il rapporto tra quest'ultimo e la famiglia di origine (così anche Sez. 1, n. 35840/2021, Dolmetta, Rv. 662949-01, secondo cui il ricorso al secondo modello può essere idoneo nei casi di abbandono semipermanente o ciclico in cui alla sussistenza di una pur grave fragilità genitoriale si associa, tuttavia, la permanenza di un rapporto affettivo significativo, tale da consentire la non interruzione dei rapporti giuridici e di fatto con la famiglia di origine).

Più in generale, sui presupposti per la dichiarazione dello stato di abbandono, Sez. 1, n. 24727/2021, Tricomi L., Rv. 662397-01, esclude che, a tal fine, possa avere rilievo la circostanza che il minore, a seguito di affidamento etero-familiare, abbia trascorso molto tempo presso una famiglia diversa da quella propria, atteso che tale affidamento è per sua natura temporaneo, essendo destinato a dare soluzione ad una situazione transitoria di difficoltà o di disagio familiare, allo scopo di consentire il rientro nella famiglia di origine.

Sez. 1, n. 21554/2021, Dolmetta, Rv. 662300-02 pone in evidenza come la dichiarazione dello stato di abbandono non si connoti di profili sanzionatori nei confronti dei genitori naturali del minore, ma sia rapportata unicamente al suo interesse, di talché essa può intervenire anche nel caso in cui, nonostante l'impegno profuso dal genitore per superare le proprie difficoltà personali e genitoriali, permanga tuttavia la sua incapacità di elaborare un progetto di vita credibile per i figli, e non risulti possibile prevedere con certezza l'adeguato recupero delle capacità genitoriali in tempi compatibili con l'esigenza dei minori di poter conseguire una equilibrata crescita psico-fisica (così già Sez. 1 n. 16357 del 2018, Di Marzio P., Rv. 649782-01). Sez. 1, n. 35838/2021, Dolmetta, Rv. 663113-01, puntualizza - in un caso in cui il minore in passato aveva subito diversi abbandoni, ascrivibili ad entrambe le figure genitoriali, che avevano inciso negativamente sui suoi sentimenti, come era stato dallo stesso dichiarato in sede di ascolto - che la capacità genitoriale non va valutata solo con riferimento alla persona del genitore in quanto tale, bensì anche nella prospettiva concreta dell'interrelazione con il minore, dovendosi considerare non solo le problematiche presenti ma anche quelle passate relative a tale rapporto.

Sez. U, n. 35110/2021, Valitutti, Rv. 662942-03, nel ribadire che la dichiarazione di adottabilità di un minore, costituisce una extrema ratio che si fonda sull'accertamento dell'irreversibile non recuperabilità della capacità genitoriale, in presenza di fatti gravi, indicativi in modo certo dello stato di abbandono, morale e materiale, a norma dell'art. 8 della l. n. 184 del 1983, che devono essere dimostrati in concreto, senza dare ingresso a giudizi sommari di incapacità genitoriale non basati su precisi elementi di fatto, afferma che (Rv. 662942-04) la pronuncia sullo stato di abbandono del minore, ai sensi dell'art. 8 della l. n. 184 del 1983, non può essere fondata esclusivamente sullo stato di sudditanza e di assoggettamento fisico e psicologico in cui versi uno dei genitori, per effetto delle reiterate e gravi violenze subite dall'altro, violandosi, in caso contrario, l'art. 8 della CEDU, l'art. 7 della Carta di Nizza e l'art. 18 della Convenzione di Istanbul.

Ribadendo un principio già affermato in passato da Sez. 1 n. 23979/2015, Valitutti, Rv. 637812-01, Sez. 1, n. 23796/2021, Caradonna, Rv. 662382-01, afferma che l'esigenza di non separare i fratelli minori non può escludere la dichiarazione di adottabilità, trattandosi di condizione non considerata dall’art. 8 della l. n. 184 del 1983.

22.2. Il procedimento per la dichiarazione di adottabilità.

Numerose nell’anno in rassegna, le pronunce relative agli aspetti processuali del procedimento di adozione, molte delle quali relative al tema del contraddittorio.

Le due pronunce di seguito esposte, riguardano tuttavia due profili particolari. In tema di adozione in casi particolari, Sez. 1, n. 09666/2021, Acierno, Rv. 661266-01, afferma che l'assenso del genitore dell'adottando - previsto dall'art. 46 della l. n. 184 del 1983 - non può desumersi implicitamente da dichiarazioni dal contenuto ipotetico e non univoco, proiettate nel futuro e condizionate a circostanze che dovranno verificarsi in un momento successivo a quello della prestazione dell'assenso stesso, dovendo questo avere le caratteristiche dell'attualità e della pienezza, a prova della completa adesione del genitore naturale all'adozione non legittimante del minore.

Sez. 1, n. 21823/2021, Parise, Rv. 662354-01, chiarisce, invece, l’interpretazione dell’art. 6 della l. n. 431 del 1967, in tema di adozione speciale; tale disposizione prevedeva quale disciplina transitoria – in via eccezionale, per cinque anni decorrenti dalla data di entrata in vigore della legge – una deroga ai limiti di età dell'adottando (fissati in linea generale in otto anni), sancendone l'irrilevanza, tuttavia, qualora quest'ultimo, alla data del 7 luglio 1967, fosse già in affidamento o affiliato ai sensi degli artt. 404 ss. c.c. o già adottato a mente degli artt. 291 ss. c.c..

22.3. La nomina del difensore d’ufficio ai genitori del minore.

Due sono le pronunce che riguardano il tema della nomina del difensore d’ufficio.

Sez. 1, n. 23793/2021, Parise, Rv. 662381-01 chiarisce che la nomina al genitore del minore di un difensore d’ufficio prevista dall’art. 10 della l. n. 184 del 1983 deve ritenersi limitata al primo grado. La disposizione, infatti, prevede la nomina del difensore d’ufficio quando ha inizio la procedura e, trattandosi di una norma speciale, derogatoria del diritto comune, è di stretta interpretazione. Pertanto, essa non è suscettibile di estensione al grado di appello, nel quale la partecipazione del genitore è assicurata tramite la notifica dell'impugnazione, o disponendo l'integrazione del contraddittorio in suo favore, adempimenti sufficienti ad assicurare l'effettività della tutela giurisdizionale.

Sez. 1, n. 06247/2021, Dolmetta, 660888-01, pone in evidenza il fatto che nel procedimento di adozione, tra i due genitori del minore sussiste un conflitto di interessi virtuale (valutabile cioè in astratto e ex ante), poiché la posizione processuale di ciascuno di essi è, in sé stessa, potenzialmente diversa da quella dell'altro, in ragione del diverso ruolo parentale rivestito e delle dinamiche relazionali tra loro esistenti, sicché il giudice, chiamato a designare il difensore d'ufficio in mancanza della nomina di quello di fiducia, non può scegliere un unico avvocato per entrambi, ma ne deve indicare uno per ciascuno, determinandosi, altrimenti, una situazione di conflitto che è causa della nullità di tutte le attività processuali svolte in contraddittorio.

22.4. L’instaurazione del contraddittorio.

Tema che ha impegnato particolarmente la giurisprudenza nel 2021 riguarda le indagini officiose che il presidente del tribunale per i minorenni o un suo delegato deve espletare sul nucleo familiare del minore non appena ricevuto il ricorso ex art. 9 della l. n. 184 del 1983; per Sez. 1 n. 32661/2021, Acierno, Rv. 663266-02, nell’ambito di tali indagini, si deve tenere in considerazione anche colui che, pur non avendo dimostrato in modo certo e indiscusso la propria genitorialità biologica, abbia tuttavia fornito indizi fattuali non trascurabili in tal senso, trattandosi di un adempimento di cruciale rilevanza per la garanzia del suo diritto di difesa, da assicurare sin dall'inizio del procedimento mediante l'integrazione del contraddittorio e la comparizione delle parti ai sensi dell'art. 12 l. cit. Ne consegue che, nel caso in cui, per il mancato compimento di tali indagini, il contraddittorio in primo grado risulti non correttamente instaurato nei confronti di colui che affermi di essere genitore del minore, l'ammissione in appello del suo intervento non potrà avere efficacia sanante in ordine al vizio determinatosi nel precedente grado. La stessa pronuncia (Rv. 663266-01) afferma che in primo grado, la comparizione ed audizione dei genitori avanti al tribunale per i minorenni deve considerarsi scansione ineludibile, al pari dell'integrazione necessaria del contraddittorio, con la conseguenza che la sua omissione, determinando una lesione effettiva ed insanabile del diritto di difesa dei genitori, conduce all'invalidità dell'intero giudizio. Né tale vizio è sanabile con l'audizione dei genitori effettuata in secondo grado, tenuto conto che in tali procedimenti il fattore tempo deve essere valutato non solo, in relazione alla fase dello sviluppo psico-fisico del minore ed alle sue esigenze di stabilità affettiva e relazionale, ma anche in relazione, e con pari rilievo, all'irreparabilità del pregiudizio che egli subirebbe per la perdita anche transeunte della relazione con il genitore.

Sez. 1, n. 21554/2021, Dolmetta, Rv. 662300-01, in un caso in cui era stata richiamata genericamente la cultura africana per ritenere la legittimazione di "un parente prossimo" senza neanche proporre un parametro di ordine sostitutivo da porre in correlazione con la norma, afferma che l'art. 12 della l. n. 184 del 1983 - che prevede che debba essere fissata la comparizione dei parenti entro il quarto grado che abbiano mantenuto rapporti significativi con il minore - non può essere interpretata in senso estensivo. Ne consegue che non può essere invocato un modello familiare diverso allargato a parenti prossimi e non codificato per superare la precisa delimitazione del grado di parentela stabilita dalla norma.

In ordine all’interpretazione dell'art. 5, comma 1, della l. n.184 del 1983, come modificato dall'art. 2 della l. n. 173 del 2015, nella parte in cui prevede che “l'affidatario o l'eventuale famiglia collocataria devono essere convocati a pena di nullità, nei procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato”, Sez. 1 n. 09456/2021, Acierno, Rv. 661064-01, precisa che tale norma deve intendersi esclusivamente riferita all'affidamento extrafamiliare, disposto ex art. 4 della medesima legge, e non all'affidamento preadottivo, poiché la ratio di tale previsione, a differenza di quella relativa all'affidamento preadottivo, è costituita dall'esigenza di tutelare quei minori che, a causa del lungo protrarsi dell'affidamento extrafamiliare, per il permanere della situazione di inidoneità dei genitori biologici, hanno ormai instaurato una relazione di tipo genitoriale con il minore stesso, consentendo agli stessi la possibilità di partecipare al giudizio per rappresentare gli specifici interessi del minore. Ancora su tale tema Sez. 1, n. 24723/2021, Parise, Rv. 662396-01, specifica che l’obbligo previsto dall’art. 5 cit. non si estende agli enti, quali le comunità di tipo familiare o gli istituti di assistenza, dovendo escludersi rispetto ad essi l'instaurazione di un concreto legame affettivo ed essendo la loro partecipazione comunque assicurata durante il corso di tutta la procedura. Sez. 1, n. 35835/2021, Dolmetta, Rv. 663279-01, sottolineando la natura processuale dell’art. 5 cit., ne afferma l’immediata applicabilità ai processi in corso anche se instaurati a seguito di sentenza di cassazione con rinvio.

Un caso particolare è quello affrontato da Sez. 1, n. 34714/2021, Acierno, Rv. 663279-01, che esclude che, in virtù dell’art. 12 della l. n. 184 del 1983 il tribunale per i minorenni sia tenuto ad indagare sull'esistenza di parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore, negandosi alla compagna del nonno la legittimazione processuale all'impugnazione del provvedimento che dispone l'adottabilità. La pronuncia tuttavia sottolinea che la capacità educativa ed affettiva di soggetti pur non rientranti formalmente nel nucleo parentale previsto dalla legge, ma che ne fanno parte sul piano dell'effettività essendo strettamente collegati ai parenti giuridicamente qualificati, e che partecipano direttamente alla cura del minore, essendosi mostrati del tutto adeguati a tale funzione, riveste un ruolo primario nella valutazione in ordine alla corrispondenza al preminente interesse del minore del disporre la definitiva recisione dei suoi rapporti con tutte le figure relazionali, significative o adeguate, riconducibili al suo nucleo familiare di provenienza.

22.5. Il giudizio di appello.

Sez. 1, n. 06247/2021, Dolmetta, Rv. 660888-02, affronta il tema della nullità della costituzione di uno dei genitori nel primo grado, ribadendo che, poiché ciascun genitore è parte necessaria del relativo procedimento, la nullità della relativa costituzione comporta la nullità del giudizio nel quale il vizio si è verificato; tuttavia, se tale vizio riguarda il giudizio di primo grado, il giudice del gravame, una volta accertata la nullità, non può rimettere la causa al primo giudice ma deve invece provvedere alla rinnovazione degli atti nulli, essendo le ipotesi previste dall'art. 354 c.p.c. tassative e quindi non estensibili per via analogica.

Sez. 1, n. 01472/2021, Valitutti, Rv. 660430-01 chiarisce che nel giudizio di appello, i genitori del minore, il suo curatore o tutore sono parti necessarie del giudizio, di talché anche ove essi non si siano costituiti in primo grado, e non abbiano proposto gravame è necessario, a pena di nullità, integrare il contraddittorio nei loro confronti, ai sensi dell'art. 331 c.p.c.

Sez. 6-1, n. 23862/2021, Parise, Rv. 662428-01 ribadisce per il giudizio di appello quanto già affermato nel giudizio di primo grado in ordine alla necessità che, ex art. 5 comma 1, della l. n. 184 del 1983, come modificato dall'art. 2 della l. n. 173 del 2015, l'affidatario o l'eventuale famiglia collocataria siano convocati a pena di nullità, nei procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato, sottolineando come la norma, di natura processuale, trovi applicazione anche nel giudizio di appello al fine di consentire una compiuta valutazione dell'interesse del minore, a norma dell'art. 383, comma 3, c.p.c.

Riguarda il giudizio di appello in sede di rinvio dopo la cassazione Sez. 1, n. 23316/2021, Mercolino, Rv. 662335-01, secondo cui l'intervenuto affidamento preadottivo del minore - che preclude il diritto al suo riconoscimento da parte della madre biologica che abbia scelto il parto anonimo - può essere dedotto e rilevato d'ufficio nel giudizio di rinvio conseguente alla cassazione, per violazione di legge (della statuizione che non ha accolto la richiesta della madre di sospensione del procedimento di adozione e di concessione del termine per il riconoscimento ex art. 11, comma 2, della l. n. 184 del 1983), tenuto conto che la menzionata pronuncia di legittimità non travolge anche quella sullo stato di adottabilità e che, nel giudizio di rinvio, possono essere accertati i fatti modificativi, estintivi e impeditivi sopravvenuti alla decisione cassata, quali sono, appunto, la dichiarazione di adottabilità e il successivo affidamento preadottivo, avendo il legislatore, con il disposto dell'art. 11, comma 7, l. cit., voluto privilegiare l'interesse del minore all'inserimento in una famiglia in grado di assicurargli adeguate garanzie di stabilità.

22.6. Il giudizio di cassazione.

Sez. 1, n. 20243/2021, Caradonna, Rv. 661967-01 afferma che la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti dei genitori del minore, in quanto litisconsorti necessari nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, non rilevata né in primo grado né in appello, è rilevabile d’ufficio in cassazione, producendo l’invalidità del provvedimento impugnato e dell’intero procedimento che ad esso ha dato luogo, di talché il giudice di cassazione deve procedere al suo annullamento, rinviando la causa al primo giudice.

22.7. Il riconoscimento in Italia di sentenza straniera di adozione di un minore da parte di una coppia omoaffettiva.

Sul tema nel 2021 è intervenuta Sez. U, n. 09006/2021, Acierno, che si è pronunciata in un caso in cui un cittadino italiano naturalizzato statunitense aveva chiesto all’Ufficiale dello stato civile in Italia, la trascrizione dell’atto di nascita del figlio minore, nato negli Stati Uniti, e riconosciuto in quello stato come figlio adottivo del ricorrente e del compagno. La sentenza di adozione statunitense attribuiva al ricorrente ed al suo partner lo status di genitori adottivi, dando atto che l’adozione era stata pronunciata con il consenso preventivo dei genitori biologici e dopo un’indagine effettuata sugli adottanti da parte di un’agenzia pubblica equiparabile ai Servizi sociali. L’ufficiale dello stato civile aveva negato la trascrizione, ritenendo applicabile il regime giuridico relativo all’istituto dell’adozione internazionale e quindi ritenendo la competenza del tribunale per i minorenni ex art. 36, comma 4, della l. n. 184 del 1983. La corte d’appello, invece, aveva ritenuto la propria competenza ex art. 42, comma 1, della l. n. 218 del 1995 e, ritenendo che tale adozione non fosse contraria all’ordine pubblico, aveva disposto la trascrizione dell’atto di nascita del minore quale figlio adottivo della coppia. La pronuncia era stata impugnata con ricorso per cassazione sia per ragioni di rito che di merito, dal Ministero dell’interno e dal Sindaco.

In via pregiudiziale, le S.U. cit. nel confermare la sentenza d’appello, dando seguito al principio già affermato in un caso analogo (ma solo per le condizioni soggettive del richiedente e per la domanda di trascrizione che egli aveva proposto all’ufficiale di stato civile), da Sez. U n. 12193/2019, Mercolino, Rv. 653931-01, riaffermano, in rito, il principio secondo il quale una controversia che origina dal rifiuto dell'ufficiale dello stato civile di trascrivere il provvedimento giurisdizionale straniero con cui è disposta l'adozione di un minore da parte di una coppia omoaffettiva maschile deve essere trattata dalla Corte d'appello in unico grado, in applicazione dell'art. 67 della l. n. 218 del 1995, qualora, come nel caso di specie, entrambi gli adottanti risiedano all'estero e uno solo di essi sia cittadino italiano, poiché le leggi speciali sull'adozione, richiamate dall'art. 41 della legge cit., non si applicano in mancanza dei requisiti soggettivi di cui agli artt. 35 e 36 della l. n. 184 del 1983, né la vertenza può essere ricondotta alla disciplina di cui agli artt. 95 e 96 del d.P.R. n. 396 del 2000, tenuto conto che la trascrizione riguarda un atto formato all'estero, e non in Italia, in relazione al quale rilevano le condizioni per il riconoscimento dell'efficacia nel nostro ordinamento, e non la dimensione formale dello stesso o l'ambito delle attribuzioni e delle competenze dell'ufficiale di stato civile (Rv. 660971-02).

Le S.U. affermano, inoltre, che in tale giudizio entrambi i genitori del minore (e non solo colui che ha chiesto la trascrizione dell’atto di nascita in Italia) sono litisconsorti necessari, poiché l'atto reca l'inscindibile riconoscimento dello status genitoriale di entrambi. Tuttavia, ove, come nel caso di specie era accaduto, l'azione sia esperita da uno solo di essi, ma l'altro intervenga volontariamente nel giudizio di cassazione e aderisca in pieno alle difese del primo, consentendo di verificare l'assenza di alcun pregiudizio alle facoltà processuali delle parti, il giudice di legittimità non può rilevare il difetto del contraddittorio, né procedere alla rimessione della causa davanti al giudice di merito, ma è chiamato ad esaminare il ricorso e a deciderlo, dovendo dare preminenza al principio di effettività nel valutare l'esercizio e la lesione del diritto di difesa (Rv. 660971-01).

Quanto alla contrarietà all’ordine pubblico del provvedimento di trascrizione dedotta dalle parti ricorrenti, Sez. U cit. (Rv. 660971-03), dando continuità alla precedente costante giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 17170/2020, Marulli, Rv. 658878-01, Sez. U n. 16601/2017, D’Ascola, Rv.644914-01, Sez. 1, n. 15143/2016, Lamorgese, Rv. 641023-01, Sez. 1 09483/2013, Acierno, Rv. 626615-01) riaffermano che il perimetro entro il quale deve esercitarsi il controllo giurisdizionale di un provvedimento straniero deve essere limitato agli effetti che l’atto è destinato a produrre nel nostro ordinamento e non alla conformità della legge estera posta a base del provvedimento, alla nostra legge interna regolativa degli stessi istituti, non essendo consentito un controllo contenutistico sul provvedimento di cui si chiede il riconoscimento.

Così definito l’oggetto del sindacato giurisdizionale, la S.C., infine, dopo avere verificato che nella specie la decisione era stata adottata nello stato estero nel pieno rispetto del diritto di difesa delle parti, e che il provvedimento era stato il frutto non solo dell’acquisito consenso dei genitori biologici del minore, ma era basato anche sul risultato di un’indagine svolta secondo le prescrizioni normative della legge interna in relazione alle capacità genitoriali degli adottanti, afferma, nel merito, che non contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale il riconoscimento degli effetti del provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di minore da parte di coppia omoaffettiva maschile che attribuisca lo status genitoriale secondo il modello dell'adozione piena, non costituendo elemento ostativo il fatto che il nucleo familiare sia omogenitoriale, ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione (Rv. 660971-04).

23. La protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia.

Il tema della natura dei provvedimenti del giudice tutelare in relazione al procedimento di amministrazione di sostegno, ha impegnato la giurisprudenza della S.C. sin dagli esordi della l. n. 6 del 2004, istitutiva del nuovo istituto. L’innovatività rispetto all’interdizione ed all’inabilitazione, ed il carattere ibrido del procedimento hanno, infatti, portato il giudice di legittimità a porre subito in rilievo come l’interprete debba diversamente atteggiarsi nel dare soluzione a specifici dubbi processuali a seconda della natura sostanziale dei provvedimenti attuati. Così già Sez.1 n. 25366/2006, San Giorgio, Rv. 595213-01 aveva affermato, con giurisprudenza mai smentita da pronunce successive, che la difesa tecnica nel procedimento è necessaria solo nel caso in cui il giudice tutelare con il suo decreto incida su diritti personalissimi del beneficiario.

Le stesse categorie sono ora invocate da Sez. 6-1, n. 12801/2021, Iofrida, Rv.661435-01, che, facendo seguito a Sez. 1, n. 00784/2017, Genovese, Rv. 643494-01 (che per prima aveva affermato che la sospensione feriale dei termini, quale eccezione alla regola generale, nei procedimenti di amministrazione di sostegno è applicabile solo in relazione a determinate controversie la cui ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti, come avviene per i provvedimenti che dispongono l'apertura o la chiusura dell’amministrazione, ma non anche per i provvedimenti a carattere gestorio), riafferma il medesimo principio, ritenendo abbia per oggetto diritti soggettivi personalissimi la domanda con la quale si chiede al giudice tutelare di autorizzare l’amministratore di sostegno a presentare domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario in nome e per conto del beneficiario.

La suddivisione tra provvedimenti di carattere meramente gestorio e provvedimenti di carattere decisorio è stata utilizzata dalla giurisprudenza di legittimità anche nell’interpretazione del nuovo art. 720, comma 2 c.p.c., introdotto dalla l. n. 6 del 2004 sull’amministrazione di sostegno. Tale articolo che dispone che, “contro il decreto del giudice tutelare è ammesso reclamo alla corte d’appello a norma dell’art. 739 c.p.c.”, e che al comma 3 prevede espressamente la ricorribilità per cassazione del provvedimento reso in sede di reclamo, convive con la generale disciplina di cui all’art. 739, comma 1, c.p.c., che prevede che “contro i decreti del giudice tutelare si può proporre reclamo con ricorso al tribunale che pronuncia in camera di consiglio”, disciplina rimasta inalterata dopo l’introduzione dell’amministrazione di sostegno. La mancata abrogazione dell’art. 739 c.p.c., con le ricadute a livello sistematico della possibilità di reclamare in appello e di ammettere al ricorso per cassazione contro i provvedimenti palesemente non dotati del carattere della definitività poiché ex lege sempre revocabili e modificabili, aveva indotto la giurisprudenza di legittimità, per circa un decennio, a consolidare un orientamento secondo il quale l’espressa previsione di tale norma doveva ritenersi limitata solo ai decreti che, nell’ambito del procedimento relativo all’a.d.s. siano ritenuti di carattere decisorio, in quanto assimilabili per le loro caratteristiche alle sentenze di interdizione e di inabilitazione, tendenzialmente orientate alla formazione del giudicato sia pure rebus sic stantibus o comunque perché incidenti, per il loro contenuto, su diritti soggettivi personalissimi (così Sez. 6-1, n. 18634/2012, Mercolino, Rv. 624534-01; Sez. 1, n. 14158/2017, Acierno, Rv. 644450-01; Sez. 6-1, n. 32071/2018, Mercolino, Rv. 651970-01).

Tale corso giurisprudenziale era stato interrotto, tuttavia, nel 2019 da Sez. 1, n. 32409/2019, Lamorgese, Rv. 656558-01. La pronuncia per la prima volta aveva contestato che il paradigma elaborato dalla giurisprudenza sopra richiamata per delineare l’ambito della ricorribilità per cassazione dei provvedimenti diversi dalle sentenze, potesse essere utilizzato ai fini dell’individuazione del giudice competente sul reclamo del decreto del giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno, affermando che l’art. 720-bis, comma 2, c.p.c., nella sua chiarezza letterale, era insuscettibile di diversa interpretazione, costituendo una norma speciale prevalente rispetto alla disciplina generale di cui agli artt. 739 c.p.c. e 45 disp. att. c.c., di talché dovevano ritenere reclamabili in appello tutti i provvedimenti del giudice tutelare resi nel corso del procedimento di amministrazione di sostegno, senza necessità di indagare sulla natura (decisoria o ordinatoria) dei relativi provvedimenti.

Su tale contrasto si è espressa nell’anno in rassegna Sez. U, n. 21985/2021, Criscuolo, Rv. 662034-01, che, confermando sul punto l’interpretazione fornita da Sez. 1, n. 32409/2019, cit., afferma che i decreti del giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno sono reclamabili ai sensi dell'art. 720-bis, comma 2, c.p.c. unicamente dinanzi alla Corte d'appello, quale che sia il loro contenuto (decisorio ovvero gestorio), mentre, ai fini della ricorribilità per cassazione, la lettera della legge impone in ogni caso la verifica del carattere della decisorietà, quale connotato intrinseco dei provvedimenti suscettibili di essere sottoposti al vaglio del giudice di legittimità.

  • sicurezza internazionale
  • patrocinio gratuito
  • diritto degli stranieri
  • espulsione
  • diritto internazionale umanitario

CAPITOLO III

I DIRITTI DEI CITTADINI STRANIERI

(di Marina Cirese, Chiara Giammarco, Aldo Natalini, Martina Flamini )

Sommario

1 Il procedimento per la determinazione dello Stato competente all’esame della domanda di protezione internazionale ed i ricorsi avverso i provvedimenti dell’Unità Dublino. I contrasti. - 2 Questioni processuali nelle controversie per il riconoscimento della protezione internazionale nel vecchio rito. - 2.1 La competenza ed il rito applicabili alla protezione umanitaria ai sensi del d.l. n. 13 del 2017, prima delle modifiche introdotte dal d.l. n. 113 del 2018. - 2.2 Il giudizio di appello nel vigore dell’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011. - 2.3 I rilievi di costituzionalità sul d.l. n. 13 del 2017. - 3 Questioni processuali attinenti al nuovo rito avanti alle sezioni specializzate. - 3.1 La composizione del giudice (il ruolo dei g.o.t. nel procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale). - 3.2 I termini per la decisione nel giudizio di protezione internazionale stabiliti dall’art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008. - 3.3 La fase introduttiva del giudizio avanti al tribunale. - 3.4 L’udienza e l’audizione del ricorrente. - 3.5 L’onere probatorio attenuato ed il dovere di allegazione del richiedente. L’ambito del dovere di cooperazione istruttoria del giudice. - 3.6 Le fonti informative. - 3.7 La valutazione di credibilità. - 3.8 La valutazione di credibilità sull’orientamento sessuale del richiedente e sulle sue scelte religiose. - 3.9 I rapporti tra la valutazione di credibilità ed il dovere del giudice di cooperazione istruttoria. I contrasti. - 3.10 La motivazione del provvedimento del giudice di merito. - 3.11 Le procedure accelerate. - 4 Il ricorso per cassazione nei procedimenti di protezione internazionale. - 4.1 I motivi di ricorso per cassazione relativi alla mancata audizione del richiedente. - 4.2 I motivi relativi alla violazione del dovere di collaborazione istruttoria. I contrasti. - 4.3 La procura alle liti per il ricorso per cassazione. - 4.4 Ammissione al patrocinio a spese dello Stato. - 5 Cenni sulla protezione internazionale in generale. - 5.1 I presupposti del rifugio. - 5.2 I presupposti del riconoscimento della protezione sussidiaria. - 6 I presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria. - 6.1 Le condizioni di vulnerabilità. - 6.2 Il giudizio di comparazione. La comparazione attenuata. - 6.3 Questioni processuali rilevanti ai fini dell’esame della domanda volta ad ottenere il riconoscimento della protezione umanitaria. Rinvio. - 7 L’espulsione amministrativa. - 7.1 I casi d’inespellibilità. - 7.2 Il trattenimento dello straniero e le misure alternative. - 8 La tutela dell’unità familiare e dei minori: premessa. - 8.1 Il ricongiungimento familiare. - 8.2 Espulsione e legami familiari. - 8.3 L’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare del minore.

1. Il procedimento per la determinazione dello Stato competente all’esame della domanda di protezione internazionale ed i ricorsi avverso i provvedimenti dell’Unità Dublino. I contrasti.

Il procedimento per la determinazione dello Stato competente a decidere sulla domanda per il riconoscimento della protezione internazionale rappresenta una fase solo eventuale e preliminare rispetto a quella dell’esame della domanda. La sua attivazione dipende dall’autorità alla quale è presentata la domanda di asilo (Polizia di frontiera o Questura), che, prima di verbalizzare la volontà dello straniero di richiedere protezione internazionale, procede alle operazioni di fotosegnalamento i cui esiti sono poi trasmessi alla banca centrale EURODAC. Se, in esito a tali accertamenti, risulta che lo straniero aveva presentato per la prima volta domanda in altro Stato membro, viene attivato il procedimento avanti all’Unità Dublino, operante presso il Dipartimento per le libertà civili e per l’immigrazione del Ministero dell’Interno e delle sue articolazioni territoriali istituite presso le prefetture, ai sensi dell’art. 3, comma 3, del d.lgs. 28 gennaio 2008 n. 25. I criteri per l’individuazione dello Stato competente sono dettati dal reg. UE n. 604 del 2013 del Parlamento e del Consiglio del 26 giugno 2013, cd. Dublino III, direttamente vincolante ed applicabile in tutti gli Stati membri. Esso enuncia i principi generali e le garanzie di applicazione delle sue norme (artt. 3-6), disciplina la gerarchia ed i criteri applicabili per la determinazione dello Stato competente all’esame della domanda di protezione internazionale (artt. 7-17), la procedura prevista per la sua applicazione, compreso il diritto ad un ricorso effettivo avverso la decisione di trasferimento e le eventuali modalità e garanzie di trasferimento (artt. 18-32 e 34-37). Si esporranno qui solo le questioni poste in rilievo dalla giurisprudenza del 2021, con l’avvertenza che altre questioni sull’interpretazione del Regolamento Dublino sono state sottoposte all’attenzione della Corte di Giustizia alla quale sia la S.C. che alcuni tribunali hanno formulato questioni pregiudiziali. Per tali aspetti e per un quadro dettagliato della disciplina dettata dal Regolamento Dublino III e della giurisprudenza eurounitaria si rinvia alla Rassegna semestrale delle pronunce della Corte di cassazione, semestre luglio-dicembre 2020, parte II, par. 11, aggiornata, per tale paragrafo al 30 aprile 2021.

Quanto alla giurisprudenza del 2021, può considerarsi ormai consolidato il principio espresso da Sez. 6-1, n. 05097/2021, Acierno, Rv. 660742 - 01, ma già in precedenza da Sez. 6-2, n. 11873/2020, Casadonte, Rv. 658453- 01 e da Sez. 6-1 n. 31127/2019, Acierno, Rv. 656292-01, in ordine alla competenza per territorio della sezione specializzata nell’ipotesi in cui lo straniero si trovi presso un centro di trattenimento ex art. 14, d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286. La S.C., infatti, ribadisce che, in virtù di un’interpretazione costituzionalmente orientata, la competenza territoriale a decidere sull'impugnazione dei provvedimenti assunti dalla c.d. Unità di Dublino, si radica attraverso il collegamento con la struttura di accoglienza del ricorrente, secondo un criterio "di prossimità", nella sezione specializzata in materia di immigrazione del tribunale nella cui circoscrizione ha sede la struttura o il centro che lo ospita, anche nell'ipotesi in cui questi sia trattenuto in una struttura di cui all'art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998, senza che assuma rilevanza alcuna la qualificazione "ordinaria" ovvero "straordinaria" della medesima. Tale conclusione è imposta da un’interpretazione costituzionalmente orientata del comma 3, coordinato con il comma 1, dell'art. 4 del d.l. 17 febbraio 2017 n. 13, conv. con modif. dalla l. 13 aprile 2017 n. 46, che deve tener conto della posizione strutturalmente svantaggiata del cittadino straniero in relazione all'esercizio del diritto di difesa sancito dall'art. 24 Cost., nonché dell'obbligo, imposto dall'art. 13 CEDU e dall'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'U.E., di garantire un ricorso effettivo ad ogni persona.

Una questione controversa è, invece, quella relativa alla portata della violazione degli obblighi informativi previsti dagli art. 4 e 5 del regolamento che ha dato luogo a pronunce di legittimità tra loro contrastanti nonché alla formulazione di una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia.

In particolare, secondo un primo orientamento (Sez. 2, n. 17963/2020, Oliva, Rv. 660838-01; Sez. 2, n. 08282/2021, Oliva, Rv. 661044-01; Sez. 2, n. 24493/2021, Oliva, Rv. 662323-01), la violazione dell’obbligo relativo alla consegna dell’opuscolo informativo previsto dall’art. 4 del regolamento e l’effettuazione del colloquio personale previsto dall’art. 5 costituiscono obblighi necessari e non alternativi tra loro. Inoltre, in considerazione del fatto che si tratta di norme direttamente applicabili, finalizzate a garantire l’effettività e l’uniformità del trattamento dei richiedenti in tutto il territorio UE, la loro inosservanza determina la nullità del provvedimento di trasferimento, senza che rilevi, in senso contrario, l’eventuale conoscenza acquisita aliunde da parte dello straniero delle informazioni, né la mancata allegazione e dimostrazione di uno specifico vulnus al suo diritto di azione, poiché il rispetto delle prescrizioni del reg. UE 604 del 2013, alla luce delle superiori esigenze di assicurazione del trattamento uniforme della procedura di trasferimento in tutto il territorio dell’Unione europea che le ispirano, è rimesso alla buone prassi dell’Autorità degli Stati membri e non può essere condizionato dalle modalità con cui, in concreto, i singoli interessati reagiscono rispetto alle eventuali violazioni della predetta normativa eurounitaria.

Un diverso orientamento è quello espresso da Sez. 1, 23584/2020, Pazzi, Rv. 659239-01, che ha affermato che nel giudizio di impugnazione di un provvedimento dell'Unità Dublino di trasferimento di un richiedente protezione internazionale in altro Stato - che abbia accettato la domanda proposta dall'Italia di ripresa in carico ex art. 18 reg. Ce n. 604/2013 - il giudice ordinario nazionale non può annullare il provvedimento dell'Amministrazione sulla base della violazione di norme procedurali verificatasi nel corso della procedimento ( nella specie, il tribunale aveva riscontrato la dedotta violazione degli artt. 4 e 5 del reg. Dublino III, rispettivamente, relativi alla omessa comunicazione di informazioni sulla procedura ed all'omesso colloquio con il richiedente), atteso che la competenza ad individuare lo Stato competente ad esaminare la domanda di protezione internazionale, spetta, in base all'art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, all'Unità Dublino e che il sindacato del giudice ordinario deve ritenersi limitato al vaglio della sussistenza di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti nello Stato membro designato, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell'art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, sempre che tale situazione sia tale da superare l'art. 78 del TFUE.

In relazione ad un caso di specie analogo a quello trattato da Sez. 1, 23584/2020, cit., Sez. 2, ord. interl. n. 08668/2021, rel. Casadonte, ha sollevato una questione pregiudiziale avanti alla Corte di Giustizia chiedendo di sapere: “1) se l’art. 4 del regolamento debba essere interpretato nel senso che con il ricorso proposto ai sensi dell’art. 2 nei confronti di una decisione di trasferimento adottata da uno stato membro, ex art. 18, par. 1, lett. b), possa farsi valere la sola mancata consegna dell’opuscolo informativo disciplinata dall’art. 4, par. 2 del regolamento, da parte dello Stato che ha adottato il provvedimento di trasferimento; 2) se l’art. 27 del regolamento, letto in combinazione con il considerando 18 e 19 e con l’art. 4 del medesimo regolamento, debba essere interpretato nel senso che il rimedio effettivo, in caso di accertata violazione degli obblighi previsti dall’art. 4, impone al Giudice l’adozione di una decisione di annullamento del provvedimento di trasferimento; 3) in caso di risposta negativa sub. 2, se l’art. 27 del regolamento, letto in combinazione con il considerando 18 e 19 e con l’art. 4 del medesimo regolamento, debba essere interpretato nel senso che il rimedio effettivo, in caso di accertata violazione degli obblighi previsti dall’art. 4, impone al giudice di verificare la rilevanza di tale violazione alla luce delle circostanze allegate dal ricorrente e consente di confermare la decisione di trasferimento tutte le volte che non emergano ragioni per l’adozione di una decisione di trasferimento di contenuto diverso”.

Altro profilo controverso è quello affrontato da Sez. 2, n. 16888/2021, Oliva, Rv. 661454-02 e Sez. 2, n. 24493/2021, Oliva, Rv. 662323-02, in relazione all’ambito del sindacato del giudice nazionale avanti al quale sia impugnato il provvedimento di trasferimento dell’Unità Dublino. In particolare, se tale ambito debba o possa estendersi, anche alla valutazione del rispetto delle garanzie informative previste dagli artt. 4 e 5 Regolamento UE n. 604 del 2013. Tali pronunce si esprimono affermativamente, affermando che il sindacato del giudice nazionale non è limitato al vaglio della sussistenza di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti nello Stato membro designato che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante, ma comprende anche il rispetto delle garanzie informative previste dagli artt. 4 e 5 Regolamento UE n. 604 del 2013; la verifica dell'effettivo rispetto delle prescrizioni del citato Regolamento deve essere, infatti, rimessa alla buona prassi delle autorità degli Stati membri e non può essere condizionata dalle modalità con cui, in concreto, i singoli interessati reagiscono rispetto alle eventuali violazioni della richiamata normativa eurounitaria.

Sulla stessa linea Sez. 2, n. 08282/2021, Oliva, Rv. 661044-01 specifica che le garanzie informative e partecipative previste dagli artt. 4 e 5 del Regolamento UE n. 604 del 2013 sono direttamente applicabili nel diritto interno e hanno carattere tassativo, con la conseguenza che la loro inosservanza determina la nullità del provvedimento di trasferimento, senza che assuma rilevanza la mancata allegazione o dimostrazione, da parte dell'interessato, di uno specifico pregiudizio al suo diritto di azione e difesa in giudizio. (In applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha confermato la pronuncia di merito che aveva verificato l'espletamento del colloquio personale, secondo le modalità previste dall'art. 5 del Regolamento citato, ma non anche l'avvenuta consegna al richiedente asilo dell'opuscolo informativo che ogni Stato membro ha l'onere di predisporre, secondo l'art. 4 del medesimo Regolamento).

Tale giurisprudenza si pone in consapevole contrasto con Sez. 1, n. 23584/2020, Pazzi, Rv. 659239-01, che, in un caso in cui era stato impugnato davanti all’Unità Dublino il decreto di trasferimento di un richiedente protezione internazionale in altro Stato - che aveva accettato la domanda proposta dall'Italia di ripresa in carico ex art. 18 reg. Ce n. 604/2013 - aveva affermato che “il giudice ordinario nazionale non può annullare il provvedimento dell'Amministrazione sulla base della violazione di norme procedurali verificatasi nel corso della procedimento (nella specie, il tribunale aveva riscontrato la dedotta violazione degli artt. 4 e 5 del reg. Dublino III, rispettivamente, relativi alla omessa comunicazione di informazioni sulla procedura ed all'omesso colloquio con il richiedente), atteso che la competenza ad individuare lo Stato competente ad esaminare la domanda di protezione internazionale, spetta, in base all'art. 3, comma 3 del d.lgs. n. 25 del 2008, all'Unità Dublino e che il sindacato del giudice ordinario deve ritenersi limitato al vaglio della sussistenza di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti nello Stato membro designato, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell'art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, sempre che tale situazione sia tale da superare l'art. 78 del TFUE.

Affronta un tema diverso Sez. L, n. 18621/2021, Pagetta, Rv. 661651-01, che si pronuncia in un caso in cui il Ministero dell’Interno aveva impugnato la decisione del tribunale, che, in accoglimento del ricorso dello straniero, aveva annullato la decisione dell’Unità Dublino che aveva disposto ai sensi dell’art. 18 regolamento UE n. 604/2013 il suo trasferimento in Bulgaria, quale Stato in cui per la prima volta era stata presentata la domanda di protezione internazionale, per l’accertata esistenza, in base alle fonti informative consultate, di un quadro poco rassicurante in ordine al trattamento in Bulgaria dei richiedenti asilo. Nel rigettare il ricorso, la S.C. ha precisato che il trasferimento del richiedente in uno stato membro può essere effettuato solo nel caso in cui sia escluso che detto trasferimento comporti un rischio reale e acclarato che l’interessato subisca trattamenti inumani e degradanti, cioè tutte le volte in cui non solo vi sia la prova certa, ma anche il ragionevole dubbio che nello stato designato come competente sussistano le carenze sistemiche di cui all’art. 3, par. 2 del Reg. (CE) 26.6.2013.

Infine, altra questione in ordine alla quale si è formato un contrasto tra le sezioni di questa Corte, per il cui dettaglio si rimanda alla relazione n. 95 del 2021 di questo Ufficio, è relativa all’interpretazione dell’art. 12 comma 1, del Regolamento UE n. 604 del 2013 sui criteri di collegamento per individuare lo Stato competente all’esame di una domanda di protezione internazionale nelle ipotesi in cui il richiedente sia già munito di un titolo di soggiorno. In particolare, Sez. 2, n. 24040/2021, Oliva, Rv. 662167-01, ha affermato il principio secondo il quale il disposto di detto articolo (che prevede che qualora il richiedente sia munito di un titolo di soggiorno in corso di validità, la competenza si radica nello Stato membro che ha rilasciato detto titolo), è applicabile anche nel caso in cui il richiedente sia munito di un permesso di soggiorno provvisorio, rilasciato a seguito dell'avvenuto deposito, da parte del migrante, della domanda di protezione e per il periodo strettamente necessario alla decisione sulla stessa degli organi competenti. Secondo tale pronuncia, infatti, la disposizione eurounitaria non introduce, alcuna specificazione circa il tipo di permesso di soggiorno idoneo ai fini della configurabilità, in concreto, del criterio di collegamento e, inoltre, la provvisorietà del titolo non è di ostacolo all'applicazione del principio, in quanto tutti i titoli di permanenza in Italia sono revocabili e sottoposti a scadenza.

Tale ordinanza si pone in consapevole contrasto con la pronuncia resa da Sez. 1, n. 03735/2021, Fidanzia, Rv. 660557-01, che ha affermato che l’interpretazione di tale norma ne esclude l’applicabilità al permesso provvisorio, rilasciato a seguito dell'avvenuto deposito, da parte del migrante, della domanda di protezione e per il periodo strettamente necessario alla decisione sulla stessa degli organi competenti in quanto la norma si riferisce ai titoli di soggiorno autonomi, vale a dire non riconducibili alla domanda anzidetta e idonei ad attribuire allo straniero una certa stabilità circa la permanenza nel territorio di uno stato membro.

2. Questioni processuali nelle controversie per il riconoscimento della protezione internazionale nel vecchio rito.

Nel 2021 ancora si registrano numerose pronunce relative al rito antecedente alla riforma di cui al d.l. n. 13 del 2017, conv., con modif., dalla l. n. 46 del 2017, in particolare relative alla compatibilità della disciplina generale del procedimento avanti alla corte d’appello con le peculiarità del procedimento in tema di protezione internazionale per il quale era prescritto il rito sommario di cognizione.

2.1. La competenza ed il rito applicabili alla protezione umanitaria ai sensi del d.l. n. 13 del 2017, prima delle modifiche introdotte dal d.l. n. 113 del 2018.

La questione della competenza e del rito applicabili alla protezione umanitaria si era posta poiché il d.l. n. 13 del 2017, nell’istituire presso i Tribunali ordinari del luogo nel quale hanno sede le Corti d’appello le sezioni specializzate in materia di immigrazione, aveva attribuito ad esse la competenza nelle controversie in materia di riconoscimento della protezione umanitaria nei casi di cui all’art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, vale a dire nei casi in cui la C.T., non accogliendo la domanda di protezione internazionale (status di rifugiato o di protezione sussidiaria), trasmette[va] gli atti al Questore per il rilascio del permesso ex art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 (T.U.I.), perché ravvisa[va] la sussistenza di gravi motivi di carattere umanitario. L’articolo, tuttavia, non chiariva quale fosse il rito da osservare per tali controversie. Inoltre, l’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, nel disciplinare lo speciale rito davanti alle sezioni specializzate, lo riserva in modo esplicito solo ai ricorsi di cui all’art. 31, comma 1, ossia ai ricorsi “avverso la decisione della C.T. e la decisione della Commissione nazionale sulla revoca o sulla cessazione dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria”, senza menzionare i casi di protezione umanitaria.

Sul punto si era espressa per la prima volta Sez. 1, n. 16458/2019, Parise, Rv. 654637-01, affermando che nei procedimenti instaurati prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, qualora sia stata proposta esclusivamente la domanda di protezione umanitaria, la competenza per materia appartiene alla sezione specializzata del Tribunale in composizione monocratica, che giudica secondo il rito ordinario ex art. 281-bis e ss. c.p.c. o, ricorrendone i presupposti, secondo il procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis e ss. c.p.c. e pronuncia sentenza o ordinanza impugnabile in appello, atteso che il rito previsto dall'art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, con le peculiarità che lo connotano (composizione collegiale della sezione specializzata, procedura camerale e non reclamabilità del decreto), ha un ambito di applicazione espressamente limitato alle controversie di cui all'art. 35 del d.lgs. n. 25 del 2008 e a quelle relative all'impugnazione dei provvedimenti adottati dall'Unità Dublino.

Tale giurisprudenza, confermata nel 2020 da Sez. 6-1 n. 03668/2020, Sambito, Rv. 06572-01 e Sez. 2 n. 20888/2020, Oliva, Rv. 659210-01 è stata puntualizzata da Sez. 1 n. 14681/2020, Meloni, Rv. 658389-01, escludendo che essa possa trovare applicazione anche nel caso in cui la domanda per la protezione umanitaria sia proposta contestualmente a quella di protezione internazionale e di protezione sussidiaria, prevalendo in tal caso il rito camerale collegiale di cui all’art. 35 bis del d.lgs. n. 25 del 2008, in ragione della profonda connessione tra le domande. A tale ultima giurisprudenza ha dato continuità Sez. 6-1, n. 24771/2021, Lamorgese, Rv. 662432-01 in un caso in cui il ricorrente aveva impugnato il provvedimento della Commissione territoriale di diniego della protezione internazionale ed umanitaria.

2.2. Il giudizio di appello nel vigore dell’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011.

Ancora si registrano pronunce su temi processuali relative al giudizio di appello, riguardanti, in prevalenza, la compatibilità di tale giudizio con il rito della protezione internazionale.

Sez. 1, n. 14669/2021, Caradonna, Rv. 661400-01 affronta la questione relativa alla decorrenza del termine per interporre appello avverso la pronuncia del tribunale letta in udienza, specificando che in tal caso il termine decorre dall’udienza nel corso della quale è stata data lettura dell’ordinanza ed inserita a verbale, equivalendo la pronuncia in tale sede a "comunicazione" ai sensi degli artt. 134 e 176 c.p.c., norme applicabili anche al processo sommario di cognizione.

Sez. L, n. 29926/2021, Esposito, Rv. 662655-01, in un caso in cui la sentenza di merito aveva dichiarato inammissibile l'appello, proposto con citazione anziché con ricorso (secondo quanto stabilito per la prima volta da S.U., n. 28575/2018, Frasca, Rv. 651358-01), avverso un'ordinanza comunicata alle parti circa cinque mesi dopo il mutamento giurisprudenziale determinato da tale pronuncia, negando che, dato il tempo trascorso dallo stesso potesse essere invocato un “overruling” processuale, ribadisce il principio già affermato da tale pronuncia e successivamente anche da Sez. 3, n. 29506/2018, Pellecchia, Rv. 651503-01, secondo il quale nelle controversie in materia di protezione internazionale l'appello ex art. 702-quater c.p.c. avverso la decisione di primo grado, alla stregua dell'art. 19 del d.lgs. 1 settembre 2011 n. 150, come modificato dall'art. 27, comma 1, lett. f), del d.lgs. 18 agosto 2015 n. 142, deve essere proposto con ricorso e non con citazione, in aderenza alla volontà del legislatore desumibile dal nuovo tenore letterale della norma. Tale innovativa esegesi, in quanto imprevedibile e repentina rispetto al consolidato orientamento pregresso, costituisce un "overruling" processuale, in virtù del quale devono ritenersi comunque ammissibili gli appelli introdotti con citazione e depositati oltre il trentesimo giorno successivo alla comunicazione dell'ordinanza impugnata, in epoca antecedente all'affermarsi del nuovo orientamento.

Sez. 6-1, n. 12339/2021, Campese, Rv. 661431-01, afferma la possibilità di sanare l’introduzione dell’appello ex art. 702 quater c.p.c. con citazione anziché con ricorso, a condizione che, entro il termine decadenziale previsto dalla legge, l'atto venga depositato nella cancelleria del giudice, sicché nel caso in cui, a fronte della tempestività del deposito in cancelleria della citazione, la notifica al Ministero degli Interni sia stata erroneamente effettuata presso l'Amministrazione anziché presso l'Avvocatura dello Stato - in violazione dell'art. 11 del r.d. n. 1611 del 1933 - essa è suscettibile di rinnovazione ex art. 291 c.p.c. se non sanata dalla costituzione della parte intimata.

Sez. 3, n. 04201/2021, Di Florio, Rv. 660599-01, afferma la necessità nel processo di appello in tema di protezione internazionale, ove la causa sia rimessa sul ruolo, della concessione dei termini per lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, al fine di suscitare il contraddittorio sulle questioni sopravvenute in considerazione del fatto che, una volta riportata la causa nella fase decisoria, è necessario osservare le prescrizioni poste dall'art. 352 c.p.c., anche in ordine ai termini previsti dall'art. 190 stesso codice. Con la conseguenza che, ove detti termini non siano concessi, la sentenza deve essere dichiarata nulla, senza che sia necessario verificare la sussistenza, in concreto, del pregiudizio subìto dalla parte in seguito a tale omissione, trattandosi di termini perentori fissati dalla legge, la cui violazione è già stata valutata in astratto dal legislatore come autonomamente lesiva, in sé, del diritto di difesa.

Riguarda il tema dell’applicabilità degli artt. 181 e 309 c.p.c., ai procedimenti di protezione internazionale, sia in primo grado che in appello per i quali prima della riforma era applicabile il rito sommario di cognizione, Sez. 3, n. 01709/2021, Di Florio, Rv. 660390-01, che, nell’affermare l’applicabilità di tali istituti, ha escluso che la conseguente dichiarazione di estinzione possa configurare un pregiudizio per i diritti fondamentali del richiedente asilo, la cui condotta processuale è affidata alla responsabilità del difensore, o possa pregiudicare l'interesse della controparte pubblica che, qualora intenda evitare detta estinzione, ben può comparire dinanzi al giudice e chiedere che decida la controversia. La pronuncia ha sottolineato, inoltre, come tale principio non sia in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte formatasi in relazione ai procedimenti di protezione internazionale disciplinati dagli artt. 35 e 35 bis del d.lgs. n. 25 del 2008, che prescrivono il rito camerale, per i quali è stata esclusa l’applicabilità delle due disposizioni (Sez. 1, n. 06061 del 28/02/2019, Acierno, Rv. 653100-01), poiché il legislatore in tali casi con la scelta di quel rito ha inteso privilegiare la speditezza e la celerità del procedimento.

Per quanto attiene ai ricorsi per cassazione avverso sentenze d’appello in materia di protezione internazionale, Sez. 1, n. 02010/2021, Amatore, Rv. 660372-01, affronta il tema dell’applicabilità a tali procedimenti, c.d. “vecchio rito”, del disposto dell’art. 348 bis, comma 5, ultimo comma c.p.c., che esclude il ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c. contro la decisione di appello che confermi quella di primo grado. La pronuncia esclude l’applicabilità di tale norma poiché si tratta di procedimenti attinenti al riconoscimento di uno "status" personale, che richiedono l'intervento necessario del pubblico ministero, al quale l'abrogato art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 150 del 2011 (applicabile "ratione temporis") prevedeva che fosse data comunicazione del ricorso e del decreto di fissazione di udienza.

Sez. 2, n. 07715/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 660789-01 in un processo soggetto al cd. vecchio rito, in cui la corte d’appello, a fronte del giudizio di credibilità sulle dichiarazioni del richiedente, formulato sia dalla Commissione territoriale che dal tribunale, le aveva ritenute non veritiere, per non avere lo straniero comprovato la sua identità attraverso la produzione del suo certificato di nascita, ritenendo tale attività alla sua portata, giacché avrebbe potuto farselo spedire dai suoi familiari residenti ancora nel suo paese, ha espresso il principio di diritto secondo il quale ove le dichiarazioni del richiedente risultino essere state espressamente ritenute coerenti, plausibili e in linea con le informazioni generali sul paese d'origine dalla Commissione territoriale o in primo grado, le stesse non possono essere valutate non veritiere, addebitandosi al richiedente di essere venuto meno all'onere di compiere ogni necessario sforzo di prova.

Affronta il profilo della motivazione della sentenza d’appello Sez. 1, n. 02466/2021, Oliva, Rv. 660553-01 specificando che, a differenza di quel che accade nel giudizio di primo grado, ove il giudice di merito è tenuto ad acquisire informazioni sulla situazione esistente nel Paese di origine, indicando in motivazione, l'autorità (o l'ente) dai quali provengono le fonti consultate ed anche la data (o l'anno) della loro pubblicazione, in modo tale da consentire alle parti di verificare il rispetto dei requisiti di precisione e aggiornamento richiesti dall'art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, il giudice d’appello può, invece, adempiere a tale obbligo sia attraverso una disamina autonoma delle COI sia mediante il richiamo "per relationem" alla decisione del giudice di prime cure.

Riguarda un tema di diritto intertemporale Sez. 1, n. 20629/2021, Fidanzia, Rv. 661968-01 che afferma che ove, durante la vigenza del d.l. n. 13 del 2017, conv. con modif. dalla l. n. 46 del 2017, venga reiterata la domanda di protezione internazionale, già presentata e rigettata quando era in vigore la disciplina precedente, la statuizione del tribunale sul ricorso contro la decisione di inammissibilità della Commissione territoriale non è appellabile ma ricorribile per cassazione, ai sensi dell'art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, dovendosi dare applicazione al principio "tempus regit actum", poiché la nuova domanda, come pure l'impugnazione della relativa decisione in sede amministrativa, sono del tutto autonome rispetto a quelle in origine formulate.

Infine, si riporta qui, per l’attinenza al procedimento d’appello, Sez. 1, n. 15045/2021, Caprioli, Rv. 661401-01 che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 62-72 della l. 9 agosto 2013 n. 98, in relazione all'art. 106, commi 1 e 2 Cost., nella parte in cui consentono la partecipazione di un giudice ausiliario al collegio di corte d'appello, atteso che la Corte costituzionale con la sentenza n. 41 del 2021, ha ritenuto la "temporanea tollerabilità costituzionale" per l'incidenza di concorrenti valori di rango costituzionale, della formazione dei collegi delle corti d'appello con la partecipazione di non più di un giudice ausiliario a collegio e nel rispetto di tutte le altre disposizioni che garantiscono l'indipendenza e la terzietà anche di questi magistrati onorari, fino al completamento del riordino del ruolo e delle funzioni della magistratura onoraria, nei tempi contemplati dall'art. 32 del d.lgs. 13 luglio 2017 n. 116.

2.3. I rilievi di costituzionalità sul d.l. n. 13 del 2017.

Nel corso del 2021 la S.C. ha valutato, ai fini dell’eventuale remissione alla Corte costituzionale, ritenendoli manifestamente infondati, i profili di illegittimità degli artt. 62-72 della l. n. 98 del 2013, per la dedotta violazione degli artt. 106, commi 1 e 2 Cost. (Sez. 1, n. 15045/2021, Caprioli, Rv. 661401-01 per la cui illustrazione si rimanda al paragrafo che precede) e degli artt. 21, comma 1, del d.l. n. 13 del 2017 (conv., con modif., dalla l. n. 46 del 2017) per la dedotta violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. (Sez. 3, n. 01548/2021, Rubino, Rv. 660389-01).

Tale ultima pronuncia ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, della norma suddetta, nella parte in cui prevede che l'art. 6, comma 1, lett. g), con il quale è stata introdotta la nuova disciplina processuale in tema di protezione internazionale dell'art. 35 bis del d.lgs. n. 25 del 2008, si applica a tutti i procedimenti giudiziari sorti dopo il 180° giorno dalla entrata in vigore del suddetto d.l. mentre, ai sensi del successivo comma 2 del medesimo art. 21, è disposto che le nuove modalità di svolgimento dell'audizione in sede amministrativa regolano le domande di protezione internazionale introdotte dal 180° giorno dalla entrata in vigore del d.l. citato, con conseguente applicazione del nuovo rito processuale (che rende meramente eventuale l'udienza per l'audizione del ricorrente e non ammette la possibilità di proporre appello nel merito) pure qualora il procedimento amministrativo si sia svolto con la vecchia procedura. La S.C. ha disatteso l’eccezione di costituzionalità proposta, ritenendo che appartiene alla scelta discrezionale del legislatore la valutazione, sulla base delle esigenze che intenda privilegiare, di coordinare o meno l'entrata in vigore del nuovo rito processuale con la precedente e distinta fase amministrativa che, quantunque abbia anch'essa ad oggetto l'esame della posizione del migrante, è del tutto autonoma, non verificandosi, nel caso in esame, un'apprezzabile lesione del diritto di difesa, atteso che, con l'apertura della fase giurisdizionale, al richiedente asilo è comunque assicurata una pronuncia resa da un giudice terzo ed imparziale all'esito di un processo a cognizione piena.

3. Questioni processuali attinenti al nuovo rito avanti alle sezioni specializzate.

Nel corso del 2021 la S.C. affronta diverse questioni processuali attinenti al procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale avanti al giudice di merito, pronunciandosi a S.U. sul tema centrale dell’utilizzazione dei g.o.t. in tali giudizi. Altre pronunce riguardano il tema dell’audizione del richiedente nel giudizio di merito o questioni processuali scaturenti dall’estrema laconicità della disciplina del rito camerale, in relazione all’applicabilità al giudizio di protezione internazionale di istituti sorti per il giudizio ordinario di cognizione. Particolarmente articolata la giurisprudenza relativa all’onere probatorio attenuato del richiedente, in relazione all’onere di cooperazione istruttoria del giudice, peraltro diversamente declinati in relazione alle diverse forme di protezione.

3.1. La composizione del giudice (il ruolo dei g.o.t. nel procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale).

Sul tema della utilizzabilità dei giudici onorari nell’ambito del procedimento di protezione internazionale questa Corte si è sin dall'inizio orientata nel senso di confermare la legittimità della prassi, seguita dalle sezioni specializzate di numerosi tribunali, di delegare l'udienza destinata all'audizione del richiedente asilo a un giudice onorario appartenente all'ufficio per il processo e non facente parte del collegio giudicante (Sez. 1, n. 04887/2020, Campese, Rv. 657037-01; Sez. 1, n. 07880/2020, Falabella, Rv. 657680-01).

A questo orientamento si era contrapposta Sez. 1, n. 24363/2020, Mercolino, Rv. 661070-01, che aveva riscontrato la sussistenza di un vizio del procedimento nel caso in cui il giudice relatore, al quale il collegio aveva delegato il compito di procedere all’audizione, avesse delegato a sua volta tale compito ad un giudice onorario, per violazione del principio “delegata potestas delegari non potest.”

Il contrasto è stato composto da Sez. U, n. 05425/2021, De Chiara, Rv. 660688-01 (conf. Sez. 6-1, n. 20215/2021, Iofrida, Rv. 661940- 01) che ha escluso sia affetto da nullità il procedimento nel cui ambito un giudice onorario di tribunale, su delega del giudice professionale designato per la trattazione del ricorso, abbia proceduto all'audizione del richiedente la protezione ed abbia rimesso la causa per la decisione al collegio della Sezione specializzata in materia di immigrazione, atteso che tale attività è consentita dall'art. 10, commi 10 e 11, del d.lgs. n. 116 del 2017, recante la riforma organica della magistratura onoraria. In particolare, sottolineando come il comma 11 di tale articolo preveda che “il giudice professionale, con riferimento a ciascun procedimento civile e al fine di assicurarne la ragionevole durata può delegare al giudice onorario di pace, inserito nell'ufficio per il processo, compiti e attività, anche relativi a procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione collegiale, purché non di particolare complessità, ivi compresa l'assunzione dei testimoni……attività quest’ultima analoga all’audizione dello straniero”.

Sotto altro profilo, la sentenza delle S.U. ha poi osservato che la validità del processo non è inficiata dalla circostanza che il giudice onorario, delegato all'attività istruttoria, non faccia parte del collegio giudicante, ponendo in rilievo come “da tempo, è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l'avviso che nei procedimenti camerali - qual è quello di cui qui si discute, ai sensi dell'art. 3, comma 4-bis, del d.lgs. n. 13 del 2017 e dell'art. 35-bis, comma 9, del d.lgs. n. 25 del 2008, cit. – il principio dell'immutabilità del giudice, sancito dall'art. 276 c.p.c., opera con esclusivo riferimento al momento in cui la causa è introitata in decisione, e pertanto non viene violato per il fatto che il collegio in tale momento abbia una composizione diversa da quella di precedenti fasi processuali (Sez. 1, n. 00545/ 1981, Cochetti, Rv. 411019-01; Sez. 1, n. 02350/1990, Caturani, Rv. 466107-01; Sez.1, n. 19216/2005, Piccininni, Rv. 585620-01).

Un profilo particolare è quello affrontato da Sez. 1, n. 22415/2021, Fidanzia, Rv. 662184 -01, che, nel decidere sul motivo di ricorso con il quale il ricorrente aveva lamentato la nullità del decreto impugnato essendo l’udienza di trattazione stata tenuta dal giudice onorario di tribunale, senza la previa istituzione presso il tribunale dell’Ufficio per il processo in materia di immigrazione, ha chiarito che l'ufficio del processo in materia di protezione internazionale (UPI) rappresenta un modulo organizzativo avente finalità di snellimento e più rapida trattazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale di cui il Consiglio Superiore della Magistratura ha auspicato, ma non imposto, l'istituzione con propria circolare cosicché la sua eventuale mancata realizzazione non può incidere sulla regolare costituzione dell'organo giudicante, ex art. 158 c.p.c. né determinare la nullità dell'attività giurisdizionale, di natura istruttoria, delegata, nelle controversie in questione, ai giudici onorari di pace (G.O.P.), che incontestabilmente appartengono all'ufficio giudiziario presso cui prestano la loro opera.

3.2. I termini per la decisione nel giudizio di protezione internazionale stabiliti dall’art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008.

La giurisprudenza del 2021 ne afferma la natura ordinatoria, dapprima in relazione al termine di quattro mesi decorrente dalla presentazione del ricorso, per il deposito della motivazione del provvedimento conclusivo del giudizio avanti al tribunale, con Sez. 1,  n. 02761/2021, Amatore, Rv. 660374-01, che valorizza la mancanza nell’ art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, di un’espressa previsione che qualifichi il termine come perentorio secondo l'art. 152 comma 2 c.p.c., e, successivamente, con Sez. 3, n. 23572/2021, Di Florio, Rv. 662205-01 che, in base alle medesime considerazioni, ribadisce la natura meramente ordinatoria del complessivo termine annuale, composto da quello di quattro mesi per la decisione nel giudizio di merito dinanzi al tribunale e da quello dei sei mesi per il giudizio di legittimità, trattandosi di un termine ispirato all'esigenza di definire tali procedure con urgenza, ma avente una funzione meramente acceleratoria. Alla luce di ciò la pronuncia specifica che, sebbene della predetta esigenza debba tenersi conto nella individuazione dei criteri di priorità nei progetti organizzativi degli uffici giudicanti, il superamento parziale o totale dei termini prescritti non determina conseguenze sulla validità dei provvedimenti emessi.

3.3. La fase introduttiva del giudizio avanti al tribunale.

Sez. 1, n. 06743/2021, Russo, Rv. 660897-01, affronta un caso particolare sul tema del ricorso avverso il provvedimento di diniego della Commissione territoriale proposto in via telematica, affermando che il deposito telematico del ricorso, si perfeziona al momento della ricevuta di avvenuta consegna, ancorché avvenuto presso un ufficio di cancelleria non competente per l'iscrizione (nel caso di specie, mediante invio al registro di volontaria giurisdizione anziché registro contenzioso civile), non rilevando, invece, che a seguito del rifiuto la parte abbia indirizzato un secondo deposito al registro corretto; ciò in quanto il deposito telematico degli atti si perfeziona nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata, ai sensi dell'art. 16 bis, comma 7, del d.l. n. 179 del 2012 (conv. con modif. dalla l. n. 221 del 2012), e non a seguito del messaggio di esito dei controlli manuali di accettazione della busta telematica da parte della cancelleria.

Sez. 1, n. 02763/2021, Amatore, Rv. 660375-01, esamina invece, il caso della mancata allegazione, al ricorso introduttivo, del provvedimento di diniego della richiesta di protezione internazionale emesso dalla commissione territoriale, precisando che il tribunale deve richiederlo al ricorrente, ai sensi dell'art. 738, comma 3, c.p.c., ovvero alla stessa commissione territoriale, sempre che il ricorrente abbia specificatamente indicato gli estremi del provvedimento al fine della sua corretta individuazione ed i dati fattuali necessari ai fini dello scrutinio circa la tempestività del ricorso.

Sez. 1, n. 37301/2021, Caiazzo, Rv. 663291-01, ribadendo un principio già espresso per il rito camerale in tema di procedimento divorzile in appello (Sez. 1, n.  27234/2020, Iofrida, Rv. 659747-01 e Sez. 1, n. 05876/2012. Rv. 622135-01), chiarisce che nelle controversie in tema di protezione internazionale, il cui rito è regolato dagli artt. 737 e ss. c.p.c., l'acquisizione dei mezzi di prova, e segnatamente dei documenti, in mancanza di una norma che fissi un diverso termine per le preclusioni istruttorie, è ammissibile sino all'udienza di discussione in camera di consiglio, sempre che sulla produzione si possa considerare instaurato un pieno e completo contraddittorio.

Sez. L, n. 00084/2021, Pagetta, Rv. 660137-01 afferma, infine, che è inammissibile il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. avverso il decreto del tribunale che rigetti l'impugnazione contro il provvedimento di diniego della richiesta di protezione internazionale, in quanto avverso il predetto decreto è espressamente prevista la possibilità di ricorso - ordinario - per cassazione ai sensi dell'art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, il che esclude la carenza di tutela che legittima il ricorso al mezzo di impugnazione straordinario, dovendo ulteriormente rilevarsi che il rigetto della domanda di protezione internazionale, nelle sue diverse declinazioni, non è configurabile come provvedimento limitativo della libertà personale e di altri diritti fondamentali dello straniero.

3.4. L’udienza e l’audizione del ricorrente.

Sul tema dell’interpretazione della “nuova” disciplina dell’udienza introdotta dal d.l. n. 13 del 2017 con l’art. 35 bis, commi 10 e 11 del d.lgs. n. 25 del 2008, la cui formulazione non univoca aveva portato i giudici di merito e la dottrina a fornirne interpretazioni contrastanti, può dirsi consolidato il principio da ultimo affermato da Sez. 3, n. 08574/2020, Di Florio, Rv. 657779-01 (conforme a Sez. 1, n. 03029/2019, Pazzi, Rv. 652410-01; Sez. 6-1, n. 02817/2019, Mercolino, Rv. 652463-01; Sez. 6-1, n. 14148/2019, Pazzi, Rv. 654198-01; Sez. 6-1, n. 17076/2019, Tricomi, Rv. 65445-01; Sez. 1, n. 10786/2019, Valitutti, Rv. 653473) secondo cui il comma 10 dell’art. 35 bis prevede ipotesi in cui il giudice può fissare discrezionalmente l’udienza, mentre il comma 11 prevede i casi in cui egli deve (almeno tendenzialmente) fissarla, di talché, ove manchi la videoregistrazione per motivi tecnici, e ne sia stata fatta richiesta, il giudice deve obbligatoriamente fissare l’udienza, configurandosi altrimenti la nullità del decreto pronunciato all’esito del ricorso, per inidoneità del procedimento così adottato, a realizzare lo scopo del pieno dispiegamento del principio del contraddittorio. La Corte aveva tuttavia precisato nel corso del 2020, richiamando la pronuncia della Corte di Giustizia UE, 26 luglio 2017, nella causa C-348/16, che dalla necessaria fissazione dell’udienza non derivava la necessaria audizione del richiedente.

Su quest’ultimo tema il percorso giurisprudenziale della S.C. è andato via via affinandosi; nel corso del 2020 era stato affermato: che il tribunale può esimersi dall'audizione del richiedente solo se debba respingere la domanda, per essere la stessa manifestamente infondata (Sez. 2, n. 15318/2020, Giannaccari, Rv. 658285-01 e Sez. 3, n. 24444/2020, Dell’Utri, Rv. 659755-01); che l’audizione deve considerarsi obbligatoria nel caso in cui il ricorrente l’abbia richiesta ed egli con il ricorso giurisdizionale abbia aggiunto motivi o circostanze di fatto non menzionate davanti alla C.T. e che non sono state oggetto dell’audizione tenutasi avanti ad essa (Sez. 1, n. 27073/2019, Federico, Rv. 656871-01); che l’audizione è obbligatoria in tre soli cas:: a) quando nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda (sufficientemente distinti da quelli allegati nella fase amministrativa, circostanziati e rilevanti); b) quando il giudice ritenga necessaria l'acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) quando il richiedente faccia istanza di audizione nel ricorso, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire chiarimenti e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile (Sez. 1, n. 21584/2020, Fidanzia, Rv. 658982-01; conforme Sez. 1, n. 25439/2020, Scotti, Rv. 659659-01).

Tuttavia, Sez. L., n. 29304/2020, Arienzo, Rv. 660069-01, con pronuncia rimasta isolata, aveva affermato che il giudice è tenuto a fissare l'udienza di comparizione del ricorrente e procedere alla sua audizione anche quando l’udienza avanti alla Commissione territoriale sia stata inidoneamente condotta, assumendo tale momento un'importanza centrale ai fini della valutazione di credibilità della narrazione posta a base della domanda.

Unanime la giurisprudenza del 2020 sull’obbligatorietà dell’audizione nel caso in cui il richiedente sia un minore “che abbia compiuto almeno dodici anni, ovvero di età inferiore, ove capace di discernimento”, in forza del principio generale espresso dall’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ritenuto applicabile anche ai procedimenti di protezione internazionale, potendo l’audizione essere omessa solo nel caso in cui, tenuto conto del grado di maturità del richiedente, sussistano particolari ragioni, da indicarsi specificamente, che lo sconsiglino (Sez. 1, n. 01785/2020, Tricomi, Rv. 656580-01).

Sempre nel 2020 era stata affermata da Sez. 1, Oliva, Rv.  658247-01, la nullità del decreto di fissazione dell’udienza che esclude, in via preventiva, la necessità di procedere all’audizione del cittadino straniero per violazione dell’art. 35 bis, commi 10 e 11, del d.lgs. n. 25 del 2008, ritenendosi al contempo la sanabilità di tale vizio, ex art. 157, comma 2, c.p.c. essendo onere del richiedente asilo di procedere all’immediata contestazione della nullità, dichiarandosi disponibile a rendere il colloquio davanti al giudice. E’ conforme a tale pronuncia Sez. 2, n. 25943/2020, Grasso, Rv.659680-01, che definisce tale tipo di nullità “nullità variabile”, ribadendo che, ove non tempestivamente eccepita, non può essere fatta valere con il ricorso per cassazione.

Nel corso del 2021 si registrano soltanto due pronunce massimate in ordine a tale tema. Sez. 1, n. 18311/2021, Falabella, Rv. 661814-02, puntualizza che il giudice è tenuto a valutare l'opportunità di dar corso all'audizione, anche in assenza di una iniziativa della parte, pur specificando che in taluni casi l'assenza di un'istanza della parte può di per sé giustificare il mancato espletamento dell'incombente, che in ogni caso è suscettibile di essere censurato in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione, Sostanzialmente conforme alla prima, Sez. 2, n. 25216/2021, Casadonte, Rv. 662166-01, precisa che, in caso di istanza di audizione proposta dal ricorrente contro il diniego di riconoscimento della protezione internazionale il giudice di merito deve procedere alla verifica delle ragioni giustificative addotte e pronunciarsi su di esse, non potendo limitarsi a rigettare l'istanza sulla base della mera constatazione della presenza in atti del verbale dell’audizione svolta dalla Commissione territoriale.

3.5. L’onere probatorio attenuato ed il dovere di allegazione del richiedente. L’ambito del dovere di cooperazione istruttoria del giudice.

Nel corso del 2019 e del 2020 il tema del rapporto tra l’onere di allegazione da parte del richiedente ed il dovere di cooperazione istruttoria del giudice si era andato chiarendo nel senso che l'attenuazione del principio dispositivo derivante dalla "cooperazione istruttoria", cui il giudice del merito è tenuto, non riguarda il versante dell'allegazione, che anzi deve essere adeguatamente circostanziata, ma la prova, con la conseguenza che l'osservanza degli oneri di allegazione si ripercuote sulla verifica della fondatezza della domanda (Sez.1, n. 3016/2019, Di Marzio M., Rv. 652422-01, Sez. 1, n. 02355/2020, Rv. 656724-01, Nazzicone).

In tal senso si è espressa anche Sez. 2, n. 22951/2021, Sangiorgio, Rv. 662066-01, affermando che quando il cittadino straniero che richieda il riconoscimento della protezione internazionale, abbia adempiuto all'onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto, sorge il potere-dovere del giudice di accertare anche d'ufficio se, ed in quali limiti, nel Paese straniero di origine dell'istante si registrino fenomeni di violenza indiscriminata, in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, che espongano i civili a minaccia grave e individuale alla vita o alla persona, ai sensi dell'art. 14, lett. c), d.lgs. n. 251 del 2007.

Sez. 1, n. 03291/2021, Acierno, Rv. 660565-01, in tema di protezione sussidiaria, afferma che, ove il richiedente deduca, alleghi e documenti l'esistenza nel suo paese di provenienza di una causa specifica di violenza indiscriminata, il giudice del merito è tenuto, in adempimento del proprio dovere di cooperazione istruttoria previsto dall'art. 8 del d.lgs. n. 25 del 2008, a valutare specificamente le fonti indicate a riprova della situazione denunciata, senza che la considerazione relativa alla diffusione mondiale del fenomeno di violenza indicato possa giustificare l'omissione dell'accertamento nel paese di origine e nell'area di provenienza del ricorrente dell'effettiva incidenza e dell'intensità del pericolo lamentato. (Nella specie, la S.C. ha cassato il provvedimento del giudice di merito, che, senza prendere in esame le più recenti fonti informative allegate dal richiedente a sostegno della presenza nella sua regione di provenienza di episodi di stragismo jiahadista, si era limitato ad affermare, non indicando le fonti informative in base alle quali aveva tratto tale conclusione, che gli attacchi terroristici non avrebbero avuto i connotati della violenza indiscriminata, trattandosi di un problema riscontrabile a livello mondiale, relativo a tutta l'Africa centrale e numerose altre parti del globo).

Specifica un importante principio in ordine alla possibilità per il giudice del merito di valutare fatti nuovi, non allegati con l’atto introduttivo, ma esistenti al momento della decisione, sopravvenuti e non prevedibili al momento della presentazione del ricorso contro il provvedimento di diniego Sez. L, n. 20568/2021, Patti, Rv. 661846-01, che ha cassato il decreto di rigetto del giudice di merito che non aveva tenuto conto della condizione di gravidanza della compagna del richiedente documentata in corso di giudizio. La pronuncia, ha infatti affermato che l'art. 35 bis del d.lgs. n. 25 del 2008 deve essere letto in conformità al disposto dell'art. 46, par. 3, della direttiva 2013/32/UE nell'interpretazione offerta dalla Corte di giustizia

Riguarda il caso specifico dell’onere di allegazione del richiedente nel caso di protezione sussidiaria Sez. 3, n. 02387/2021, Di Florio, Rv. 660520-01 che, conformemente a quanto già affermato da Sez. 1 n. 19224/2020, Acierno, Rv. 658819-01, ribadisce che l'onere di allegazione del richiedente la protezione sussidiaria, nell'ipotesi descritta nell'art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, diversamente dalle ipotesi di protezione sussidiaria c.d. individualizzanti, previste dall'art. 14, lett. a) e b), e in conformità con le indicazioni della CGUE (sentenza 17 febbraio 2009, causa C-465/07), è limitato alla deduzione di una situazione oggettiva di generale violenza indiscriminata - dettata da un conflitto esterno o da instabilità interna - percepita come idonea a porre in pericolo la vita o l’incolumità psico-fisica per il solo fatto di rientrare nel paese di origine, disancorata dalla rappresentazione di una vicenda individuale di esposizione al rischio persecutorio. Ne consegue che, ove correttamente allegata tale situazione, il giudice, in attuazione del proprio dovere di cooperazione istruttoria, è tenuto ad accertarne l'attualità con riferimento alla situazione oggettiva del paese di origine e, in particolare, dell'area di provenienza del richiedente. Tale giurisprudenza sembra ormai essersi consolidata, dopo che, nel 2019, si erano registrate alcune pronunce che negavano la specificità in tema di onere di allegazione del richiedente dell’ipotesi di cui all’art. 14 lett. c), omologando tale ipotesi alle altre due forme di protezione sussidiaria, di cui alle lettere a) e b) (v. Sez. 6-1, n. 04892, Lamorgese, Rv. 652755-01; Sez. 1 n. 15794/2019, M. Di Marzio, Rv. 654624-02 e Sez. 1 n. 17174/2019, Tria, Rv. 654-01).

Sempre sul tema della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c). d.lgs. n. 251 del 2007, Sez. 1, n. 06736/2021, Russo, Rv. 660735-01 esclude che tra gli oneri di allegazione incombenti sul richiedente, rientri la ricerca e la citazione delle fonti informative sul suo paese di origine, essendo sufficiente l'indicazione del luogo di provenienza nonché delle vicende e delle criticità che attingono alla sua sfera personale, onere che richiede un grado minore di specificità solo ove si paventi il rischio di cui all'art. 14, lett. c) del d.lgs. n. 251 del 2007

Sez. L, n. 17599/2021, Blasutto, Rv. 661643-01 in tema di rifugio, afferma che le lacune probatorie del racconto del richiedente asilo non comportano necessariamente inottemperanza al regime dell'onere della prova, potendo essere superate dalla valutazione che il giudice di merito è tenuto a compiere delle circostanze indicate dall'art. 3, comma 5, lett. da a) ad e), del d.lgs. n. 251 del 2007. In senso conforme Sez. 6-1, n. 22196/2021, Tricomi L., Rv. 662038-01, aggiunge che tale attenuazione dell'onere probatorio non esclude, tuttavia, che il richiedente debba produrre ogni ragionevole sforzo per circostanziare il proprio racconto, atteso che, in caso contrario, la genericità della narrazione esclude la necessità e la possibilità, per il giudice di merito, di operare ulteriori accertamenti.

Più in particolare, sull’ambito della cooperazione istruttoria, Sez. 1, n. 05523/2021, Dolmetta, Rv. 660729-01, chiarisce che, in tema di protezione, il concetto di paese di origine del richiedente deve intendersi riferito al paese della sua cittadinanza al momento della presentazione della domanda di protezione, e che, nel caso in cui non vi sia certezza su tale dato, il giudice del merito, deve compiere l'indagine ad esso relativa, quale passaggio logico necessario, prima di procedere all'istruttoria relativa alla verifica della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento di tale forma di protezione. Nel caso di specie, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che, nel rigettare il ricorso senza prendere posizione in ordine a quello che riteneva essere il paese di origine della richiedente, aveva indicato in motivazione quale paese di provenienza, alternativamente, la Sierra Leone, la Nigeria ed il Marocco. In tal senso anche Sez. 3, n. 23465/2021, Di Florio, Rv. 662026-02, a sua volta conforme a Sez. 3, n. 22527/2020, Di Florio, Rv. 659409-02, afferma che le informazioni acquisite dal giudice devono essere riferite specificatamente alle condizioni di quel Paese e non genericamente all'area geografica nel quale esso è collocato. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la pronuncia di merito che aveva basato la decisione su informazioni riferite in generale all'area geografica dell'Africa dell'Ovest e del Sahel e non, in particolare, alla Costa d'Avorio).

Ancora in tema di protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, Sez. 1, n. 11298/2021, Casadonte, Rv. 661190-01 afferma che, ove sia allegata dal richiedente una situazione di violenza indiscriminata specificamente riferita ad una regione del suo paese di provenienza, nella quale egli si era trasferito da altra area, l'esame della domanda ai fini dell'adempimento del dovere di cooperazione istruttoria e di acquisizione delle fonti informative ex art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 251 del 2007 deve espletarsi in relazione alla situazione attuale di detta specifica area territoriale, non potendo limitarsi alla sola area di nascita del richiedente.

Sempre in tema di protezione sussidiaria Sez. 6-1, n. 22510/2021, Falabella, Rv. 662343-01 esclude, invece, che rientri nel dovere di cooperazione istruttoria del giudice l'assunzione di informazioni sulla diffusione del virus Covid-19 nel paese di origine del richiedente, non essendo detta circostanza riconducibile alle ipotesi di danno grave previste dall'art. 14 del d.lgs. n. 251 del 2007.

3.6. Le fonti informative.

Il tema delle fonti informative di cui all’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, che è la trasposizione dell’art. 10, par. 3, lett. b), della direttiva 2013/32/UE (“ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise ed aggiornate circa la situazione generale esistente nel paese di origine del richiedente e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR e dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri, anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa. La Commissione nazionale assicura che tali informazioni, costantemente aggiornate, siano messe a disposizione delle Commissioni territoriali, secondo le modalità indicate dal regolamento da emanare ai sensi dell’art. 38 e siano altresì fornite agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative”), nel 2020 è stato oggetto di copiosa giurisprudenza che aveva innanzi tutto chiarito che le indicazioni di tale norma non hanno carattere esclusivo, ben potendo le informazioni essere tratte da concorrenti canali informativi (Sez. 1, n. 13253/2020, Fidanzia, Rv. 658089-01, conforme a Sez. 1. n. 15794/2019, Di Marzio, Rv. 654624-03), anche via web, i quali, per la capillarità della loro diffusione e la facile accessibilità da parte dei consociati, vanno considerati alla stregua del fatto notorio (Sez. 1, n. 13253/2020, cit. e Sez. l, n. 28349/2020, Cinque, Rv. 659802-01). Tra questi erano state considerate fonti idonee i siti delle principali organizzazioni non governative attive nel settore dell’aiuto e della cooperazione internazionale (così nel 2021 anche Sez. L, n. 14682/2021, Cinque, Rv. 661406-01), come Amnesty International e Medici senza frontiere, mentre non era stata considerata esauriente la consultazione del sito ministeriale Viaggiare sicuri (Sez. 1, 08819/2020, Travaglino, Rv. 657916-06). Conforme a tale ultima pronuncia Sez. 1, n. 03357/2021, Dell’Orfano, Rv. 660492-01, esclude che possano annoverarsi tra le “fonti privilegiate” di cui all’art. 8 citato, le “raccomandazioni della Farnesina” trattandosi di fonti che forniscono dati incompleti e cronologicamente generici, destinate a categorie di soggetti, come i turisti o i cittadini stranieri, non comparabili con i richiedenti protezione internazionale.

3.7. La valutazione di credibilità.

Sulla credibilità del richiedente asilo, va ricordato che la Corte di legittimità afferma, con giurisprudenza costante (da ultimo Sez. L, n. 00010/2021, Patti, Rv. 660135-01 e Sez. L, n. 26960/2021, Patti, Rv. 662365-01, ma già in precedenza con Sez. 3, n. 11925/2020, Vincenti, Rv. 658017-01 e Sez. L n. 15794/2019, Di Marzio M., Rv. 654624-02) che la sua valutazione non è affidata alla mera opinione del giudice, ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi di quanto narrato, ma secondo la griglia predeterminata di criteri offerta dall’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 251 del 2007. La già citata Sez. L, n. 00010/2021, aggiunge, in coerenza con i principi già affermati da Sez. 1, n. 07546/2020, Solaini, Rv.657584-01, Sez. 1, n. 10908/2020, Oliva, Rv. 658050-01 e Sez. 1 n. 14674/2020, Tria Rv. 658388-01, che nell’operare tale valutazione il giudice del merito non può dare rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati quando ritiene sussistente l'accadimento, sicché è compito dell'autorità amministrativa e del giudice dell'impugnazione di decisioni negative della Commissione territoriale, svolgere un ruolo attivo nell'istruzione della domanda, disancorandosi dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, mediante l'esercizio di poteri-doveri d'indagine officiosi e l'acquisizione di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente, al fine di accertarne la situazione reale, mentre più specificamente, per quel che riguarda il tema della valutazione di credibilità la già citata Sez. L, n. 26960/2021, specifica che, le dichiarazioni del richiedente ove non suffragate da prove, devono essere sottoposte non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata, alla luce di tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese di origine al momento della domanda.

In tema di protezione umanitaria, affronta un profilo particolare Sez. 3, n. 32237/2021, Travaglino, Rv. 662954-01, che ritiene irrilevante la non credibilità della vicenda individuale narrata dal richiedente ai fini dell’esclusione del riconoscimento di una sua condizione di vulnerabilità, nel caso in cui egli viva in Italia in compagnia del coniuge e di un figlio in tenera età. Afferma infatti la pronuncia che in tale caso deve prevalere, alla luce del principio sovranazionale di cui all'art. 8 CEDU, in un'ottica costituzionalmente orientata di assistenza dei figli minori - cui va riconosciuto il diritto ad essere educati ed accuditi all'interno del proprio nucleo familiare, la tutela di questi ultimi, senza che tale tutela possa soffrire eccezioni, in considerazione della loro condizione di cittadini o di stranieri, trattandosi di diritti umani fondamentali cui può derogarsi soltanto in presenza di specifiche, motivate e gravi ragioni. (In applicazione del suesteso principio, la S.C. ha cassato la decisione con cui il tribunale, ritenendo non credibile la vicenda narrata dal richiedente, aveva negato anche il permesso di soggiorno per motivi umanitari, senza tener conto che lo stesso richiedente, cittadino nigeriano, viveva in Italia in compagnia del coniuge e di un figlio minore in tenera età, ed era in attesa della nascita di un secondo figlio). E’ espressione della stessa “ratio” anche Sez. 3, n. 32237/2021, Travaglino, Rv. 662954-02, secondo cui la sola circostanza che il richiedente possa essere allontanato dal proprio nucleo familiare e respinto nel Paese di provenienza, è indice di vulnerabilità, costituendo tale allontanamento forzato un atto destinato ad incidere significativamente sulla psiche e sulle emozioni del soggetto che si vede privato del suo diritto di partecipare al sano ed equilibrato sviluppo della propria vita familiare, segnatamente nell'ottica dell'assistenza, dell'educazione e dell'accudimento di figli minori.

Analogamente, Sez. 6-1, n. 22511/2021, Marulli, Rv. 662344-01 ritiene irrilevante la scarsa credibilità del racconto della richiedente in relazione al dovere officioso del giudice di accertare le condizioni del paese di provenienza, sia rispetto all'esistenza ed al grado di deprivazione dei diritti umani nell'area di provenienza del richiedente, sia rispetto alla valutazione comparativa tra il grado d'integrazione raggiunto nel nostro paese ed i rischi collegati al rimpatrio, che potrebbero esporre l'asilante, proveniente da quella determinata area geografica, ad un'oggettiva vulnerabilità personale, caratterizzata da fenomeni di deprivazione dei diritti della popolazione femminile e dal rischio concreto di sfruttamento sessuale nell'ambito del circuito della tratta di esseri umani.

3.8. La valutazione di credibilità sull’orientamento sessuale del richiedente e sulle sue scelte religiose.

Il tema della credibilità del racconto del richiedente in ordine alle sue inclinazioni sessuali, come già nel 2020, continua ad impegnare la giurisprudenza della S.C. unitamente al tema della religione professata, trattandosi di situazioni che costituiscono sovente le ragioni poste a fondamento delle richieste di protezione internazionale, ma che sono connotate da una innegabile difficoltà probatoria, essendo inerenti alla sfera privata del soggetto. Nel 2020 sul tema della valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente in ordine alla propria omosessualità, era stato affermato che, “pur considerando l’innegabile margine di discrezionalità che connota tale valutazione”, il giudice non può motivarla mediante il richiamo a giudizi riflettenti le sue opinioni o frutto di sue impressioni o suggestioni (Sez. 1 n. 23891/2020, Dolmetta, Rv. 659279-01), né può fondarsi su nozioni stereotipate associate all'omosessualità, di talché non poteva ritenersi rilevante al fine del giudizio di non credibilità la mancata risposta del richiedente a domande relative a tali nozioni, quali quelle concernenti la conoscenza di associazioni per la difesa dei diritti degli omosessuali (Sez. 1, n.  09815/2020, Russo, Rv. 657835-01). Per altro verso era stato chiarito che l’attinenza alla sfera personale del richiedente delle sue inclinazioni sessuali, non poteva portare alla insindacabilità delle dichiarazioni ad essa relative, ove non suffragate da prove, dovendo il giudice, comunque, sottoporle ad un controllo di coerenza interna ed esterna e ad una verifica di credibilità razionale, determinandosi altrimenti, la violazione dell’art. 3, comma 5 del d.lgs. n. 251 del 2007 (Sez. 2, n. 20385/2020, Varrone, Rv. 659190-01). In continuità con tale giurisprudenza, nel 2021, affronta il tema dell’omosessualità quale presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato politico Sez. 2, n. 07778/2021, Oliva, Rv. 660790-01 secondo cui, qualora vi sia incertezza sull'effettivo orientamento omosessuale dichiarato dal richiedente la protezione, ovvero sull'autenticità dei documenti dallo stesso prodotti a sostegno della domanda, il giudice di merito deve disporre, anche in via ufficiosa, gli approfondimenti istruttori ritenuti opportuni al fine di verificare l'attendibilità del racconto e della documentazione a corredo, non potendosi ritenere inattendibile il racconto sulla base dell'assunto aprioristico secondo cui la deduzione dell'omosessualità da parte del richiedente sarebbe frutto di una scelta difensiva finalizzata soltanto ad ottenere la protezione invocata, così come non è possibile far derivare la falsità dei documenti prodotti dal solo fatto che, in un determinato contesto territoriale, il ricorso all'uso di atti falsi sia in aumento.

Sempre in tema di rifugio Sez. 2, n. 24397/2021, Oliva, Rv. 662150-01 afferma che la valutazione sulla credibilità del racconto del richiedente che dichiari di essere omosessuale, non può essere fondata sulle modalità con cui egli abbia riferito di aver scoperto il proprio orientamento sessuale e di averlo vissuto, in modo esplicito o riservato, nel paese d'origine, atteso che la libera scelta sessuale costituisce uno dei principali profili in cui si realizza l'esplicazione della personalità umana; pertanto, non può richiedersi alla persona di inclinazione omosessuale, la quale viva nell'ambito di un contesto sociale che discrimini l'omosessualità o di un ordinamento che addirittura la preveda come reato, di assumere o non assumere una determinata condotta in ordine ad una scelta che deve rimanere libera, dovendosi piuttosto attribuire rilevanza, ai fini della credibilità del racconto, ai riscontri oggettivi dei fatti concreti narrati, prescindendo dal profilo dell'omosessualità.

Sullo stesso tema, ma in relazione alla protezione sussidiaria ex art. 14, lett. b) del d.lgs. n. 251 del 2007, Sez. 1, n. 10532/2021, Acierno, Rv. 661141-01 precisa che, a fronte della dichiarazione del cittadino straniero di avere subito nel Paese di origine atti persecutori o trattamenti inumani e degradanti, a cagione del proprio orientamento sessuale, il giudice è tenuto ad indagare in primo luogo sulla credibilità della vicenda persecutoria narrata o dell'esposizione ad un trattamento inumano e degradante, senza che la valutazione di non credibilità intrinseca delle dichiarazioni relative all'omosessualità, possa sostituire tale diversa indagine, tenuto conto che, ai sensi dell'art. 3, c. 4 del d.lgs. n. 251 del 2007 il fatto che il richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi costituisce un serio indizio della fondatezza del suo timore di subirne nuovamente. (Nel caso di specie, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito, che, a fronte della narrazione del richiedente di essere stato aggredito da alcuni ragazzi ed arrestato dalla polizia poiché scoperto in un hotel durante un rapporto sessuale con un uomo, aveva travisato la prova documentale fornita, limitando l'esame della credibilità sulla "mancata maturazione di una vera identità sessuale").

Sul tema della credibilità delle dichiarazioni relative alla fede religiosa del richiedente, nel 2020 si era escluso che potesse rientrare nell’ambito della valutazione di credibilità il sindacato sul percorso individuale che il richiedente aveva seguito per abbracciare un determinato credo, né il livello di conoscenza dei relativi riti, fondato sul grado delle conoscenze teologiche, poiché la “mutevolezza delle modalità dell'atteggiarsi della fede personale rende il concetto stesso di conoscenza delle pratiche religiose di un determinato culto estremamente vago e, come tale, non idoneo a fondare alcun giudizio oggettivamente apprezzabile” (così Sez. 1 n. 05225/2020, Oliva, Rv. 657002-01, e Sez.1, n. 15219/2020, Oliva, Rv. 658252-01).

Nel 2021 Sez. 1, n. 23197/2021, Dolmetta, Rv. 662334-01 afferma in tema di protezione internazionale, che, a fronte dell'allegazione da parte del cittadino straniero di avere subito atti persecutori in ragione della propria fede religiosa, la verifica della sussistenza della c.d. condizione intrinseca (o soggettiva) di credibilità dev'essere effettuata con riferimento alla (e nel contesto della) cd. condizione estrinseca (o oggettiva) della stessa, costituita dalla effettiva esistenza di una persecuzione nei confronti della convinzione di fede manifestata dal richiedente, mediante l'accertamento, anche facendo ricorso al dovere di cooperazione istruttoria, del trattamento in concreto operato della religione professata da parte delle autorità centrali e provinciali del Paese di origine. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva negato la richiesta protezione, senza indagare sul trattamento in concreto riservato in Cina, ed in particolare, nella provincia di Guangdong, a coloro che professavano la fede del richiedente e senza menzionare le fonti poste a fondamento della decisione).

3.9. I rapporti tra la valutazione di credibilità ed il dovere del giudice di cooperazione istruttoria. I contrasti.

Una delle questioni interpretative più controverse è quella delle ricadute della valutazione negativa di credibilità sul dovere officioso di cooperazione istruttoria del giudice. Una prima linea interpretativa della giurisprudenza di legittimità, che sino al 2020 non ha visto pronunce contrastanti (Sez. 6-1-, n. 16925/2018, Acierno, Rv. 649607-01; Sez 6-1, n. 28862/2018, Terrusi Rv. 651501-01; Sez. 1, n. 15794/2019, Di Marzio M., Rv. 654624-01; Sez. 1, n. 33858/2019, Sambito, Rv. 656566-01; Sez. 2, n. 08367/2020, Manna, Rv. 657595-02; Sez. 3, n. 11924/2020, Vincenti, Rv. 658163-01; Sez. 2 n. 16925/2020, Bellini, Rv. 658940-01; Sez. 1 n. 24575/2020, Scotti, Rv. 659573-01), afferma che il dovere di cooperazione istruttoria non sorge in presenza di dichiarazioni intrinsecamente inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva, di talché il giudice di merito deve anzitutto accertare la credibilità soggettiva della versione del richiedente asilo circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona e, qualora giudichi le dichiarazioni inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al cit. art. 3, non deve procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria del Paese d’origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori. Come afferma, infatti, Sez. 1 n. 24575/2020, Scotti, Rv. 659573-01, “il controllo sulla credibilità estrinseca, come desumibile dalla concordanza tra le dichiarazioni ed il quadro culturale, sociale, religioso e politico del paese di provenienza, desumibile dalla consultazione di fonti internazionali meritevoli di credito, assolverebbe alla funzione meramente teorica di accreditare la mera possibilità astratta di eventi non provati riferiti in modo assolutamente non convincente dal richiedente”.

Tuttavia, il presupposto di tali pronunce, rappresentato dalla necessità che la valutazione di credibilità preceda, comunque, eventuali approfondimenti istruttori, era stato messo in dubbio per la prima volta da Sez. 3, n. 08819/2020, Rv. 657916-04, che aveva affermato “che il giudice, prima di decidere la domanda nel merito, deve assolvere all’obbligo di cooperazione istruttoria, che non può essere di per sé escluso sulla base di qualsiasi valutazione preliminare di non credibilità della narrazione del richiedente asilo, dal momento che, anteriormente all’adempimento di tale obbligo, egli non può conoscere e apprezzare correttamente la reale e attuale situazione dello Stato di provenienza e, pertanto, in questa fase, la menzionata valutazione non può che limitarsi alle affermazioni circa il Paese di origine”. La pronuncia ammetteva quindi che l’obbligo di cooperazione istruttoria da parte del giudice potesse venir meno solo ove le affermazioni relative al paese di origine risultassero immediatamente false oppure quando la ricorrenza dei presupposti della tutela invocata poteva essere negata in virtù del notorio. La medesima pronuncia aveva precisato poi (Rv. 657916-02) che, ancorché l’obbligo del giudice di cooperazione istruttoria non sorga per il solo fatto che sia stata proposta domanda di protezione internazionale, tuttavia, tale adempimento non può essere escluso solo perché, in base agli indicatori di credibilità soggettiva forniti dall’art. 3 del d.lgs. n. 251 del 2007, le dichiarazioni della parte risultino intrinsecamente inattendibili, poiché, in questo modo, la valutazione di credibilità non atterrebbe più alla prova, ma diverrebbe una condizione di ammissibilità o un presupposto del riconoscimento del diritto o, comunque, si risolverebbe in un giudizio sulla lealtà processuale. Sulla stessa linea Sez. 3, n. 24010/2020, Di Florio, Rv. 659524-01.

Nel 2021 ha dato seguito a tale orientamento Sez. 3, n. 00262/2021, Di Florio, Rv. 660386-01, che afferma che, una volta che il richiedente abbia allegato i fatti costitutivi del diritto, il giudice è tenuto, a prescindere dalla valutazione di credibilità delle sue dichiarazioni, a cooperare all'accertamento della situazione reale del paese di provenienza mediante l'esercizio di poteri officiosi di indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate, le cui fonti dovranno essere specificatamente indicate nel provvedimento, al fine di comprovare il pieno adempimento dell'onere di cooperazione istruttoria. Sez. 3, n. 38095/2021, Pellecchia, Rv. 663301-01, ribadisce che il giudizio negativo in merito alla valutazione di credibilità del richiedente asilo non può in alcun modo essere posto a base, "ipso facto", del diniego di cooperazione istruttoria cui il giudice è obbligato "ex lege", in quanto quel giudice non sarà mai in grado, "ex ante", di conoscere e valutare correttamente la reale ed attuale situazione del paese di provenienza del ricorrente.

Indica una via interpretativa intermedia Sez. 1, n. 06738/2021, Russo, Rv. 660736-01, che afferma che il giudizio sulla valutazione di credibilità del racconto del richiedente che sia ben circostanziato ma inverosimile, può essere espresso solo all'esito dell'acquisizione di pertinenti informazioni sul suo paese di origine e delle sue condizioni personali, a differenza di quanto accade nell'ipotesi di racconto intrinsecamente inattendibile alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva, in cui essendo il racconto affetto da estrema genericità o da importanti contraddizioni interne, la ricerca delle Coi è inutile, perché manca alla base una storia individuale rispetto alla quale valutare la coerenza esterna, la plausibilità ed il livello di rischio.(Nella specie, la S. C. ha cassato la pronuncia di merito che aveva ritenuto inattendibile il pur dettagliato racconto del richiedente, ritenendolo non già intrinsecamente incoerente, ma non verosimile, senza avere prima acquisito informazioni sul paese di provenienza e sullo specifico profilo di rischio da lui lamentato).

3.10. La motivazione del provvedimento del giudice di merito.

Così come nel 2020, anche nel 2021 diverse pronunce si sono occupate dell’onere di motivazione del giudice di merito, la maggioranza delle quali riguardano l’onere di motivazione relativamente alle COI utilizzate per la decisione. Al riguardo può ritenersi consolidato il principio secondo il quale il giudice del merito ha un onere specifico di indicare le fonti di informazioni utilizzate per la formazione del suo convincimento, onere che le pronunce del 2021 hanno dettagliato in maniera sempre più precisa.

Sez. 3, n. 15060/2021, Di Florio, Rv. 661555-01 afferma che il giudice del merito incorre nel vizio di motivazione apparente nel caso in cui, nel valutare le condizioni socio-politiche del Paese d'origine, motivi il suo provvedimento con valutazioni solo generiche ovvero ometta di individuare le specifiche fonti informative da cui vengono tratte le conclusioni assunte.

Prendendo le mosse da tale affermazione, Sez. 2, n. 01777/2021, Oliva, Rv. 660313-01, puntualizza che il giudice di merito è tenuto ad indicare l'autorità o l'ente da cui la fonte consultata proviene e la data o l'anno di pubblicazione, in modo da assicurare la verifica del rispetto dei requisiti di precisione e aggiornamento previsti dall’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008 così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità di detta informazione con riguardo alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione. A tale pronuncia fanno seguito in senso conforme Sez. 2, n. 04557/2021, Oliva, Rv. 660455-01 e Sez. 1, n. 06736/2021, Russo, Rv. 660735-02.

Più in generale, Sez. 3, n. 23465/2021, Di Florio, Rv. 662026-01, conformemente a quanto già affermato da Sez. 1, n. 13944/2020, Tria, Rv. 658241-01, afferma che la valutazione effettuata dal giudice del merito in ordine al giudizio di credibilità delle dichiarazioni del richiedente, non solo deve rispondere ai criteri di cui all'art. 3 del d.lgs. n. 251 del 2007, ma deve essere anche argomentata in modo idoneo a rivelare la relativa "ratio decidendi", senza essere basata, invece, su elementi irrilevanti o su notazioni, che, essendo prive di riscontri processuali, abbiano la loro fonte nella mera opinione del giudice cosicché il relativo giudizio risulti privo della conclusione razionale.

3.11. Le procedure accelerate.

Nel 2020 Sez. 1 n. 07520/2020, Meloni, Rv. 657422-01, aveva già affermato che il termine ridotto di quindici giorni per proporre l'impugnazione avverso il provvedimento di diniego reso dalla commissione territoriale, previsto dall'art. 35 bis, comma 2, del d.lgs. n. 25 del 2008, si applica soltanto nelle ipotesi in cui il procedimento amministrativo abbia seguito l'iter acceleratorio previsto dall'art. 28 bis, comma 2, del d.lgs. cit., vale a dire nel caso di domanda ritenuta manifestamente infondata dal questore, e non già quando si tratti di decisione della commissione territoriale assunta all'esito di una procedura ordinaria. Nello stesso senso si erano espresse Sez. 1, n. 23021/2020, Balsamo, Rv. 659424-01 e Sez. 1 n. 7880/2020, Falabella, Rv. 657680-01, che avevano però precisato che il termine per impugnare il provvedimento della commissione territoriale è ridotto della metà senza che rilevi l'omessa informativa al richiedente circa la procedura accelerata, atteso che oggetto della controversia non è il provvedimento negativo della commissione, ma il diritto soggettivo alla protezione e che la riduzione del termine discende direttamente dalla legge ed è pertanto rilevabile da chi impugna dal tenore del provvedimento.

Sez. 1, n. 06745/2021 Acierno, Rv. 660737-01, ha puntualizzato, tuttavia, che la decisione di manifesta infondatezza della domanda può ritenersi adottata sulla base di una "procedura accelerata" ex art. 28 bis del d.l.gs. n. 25 del 2008 (nella formulazione vigente prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2020, conv. con modif. dalla l. n. 173 del 2020), solamente quando il presidente della C.T., a seguito della trasmissione degli atti da parte della questura, abbia deciso in tal senso e l'iter processuale abbia rispettato i termini di cui all'art. 28 bis, comma 1, previsti per l'audizione del richiedente e per l'adozione della decisione finale, non potendo la qualificazione peculiare della procedura come "accelerata" discendere dalla mera formula di manifesta infondatezza contenuta nel provvedimento di rigetto della C.T. Conseguentemente, solo nel primo caso sarà applicabile il termine dimezzato di quindici giorni per l'impugnazione del provvedimento della Commissione territoriale previsto dall'art. 28 bis, comma 3 del d.lgs. citato, dovendosi applicare in tutti gli altri casi il termine ordinario, pena la violazione del diritto di difesa del richiedente, che ha il diritto di conoscere preventivamente il modello procedimentale con il quale verrà esaminata la sua domanda.

Conformemente a quanto già affermato da Sez. 1, n. 18440/2019 Rv. 654657 - 01 precisa la portata dei presupposti indicati dall’art. 29, lett. b), del d.lgs. n. 25 del 2008, per poter presentare una domanda nuova Sez. L, n. 30791/2021, Patti, Rv. 662669-01 che afferma che i "nuovi elementi", alla cui allegazione l'art. 29, lett. b), del d.lgs. n. 25 del 2008 subordina l'ammissibilità della reiterazione della domanda di tutela, possono consistere, oltre che in nuovi fatti di persecuzione (o comunque in nuovi fatti costitutivi del diritto) successivi al rigetto della domanda da parte della competente commissione, anche in nuove prove dei medesimi fatti costitutivi, purché il richiedente non abbia potuto, senza sua colpa, produrle in precedenza in sede amministrativa o in quella giurisdizionale, mediante l'introduzione del procedimento di cui all'art. 35 del d.lgs. citato. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio il decreto del tribunale che, rigettando la domanda, non aveva tenuto conto di una relazione psicologica prodotta dopo un primo diniego di tutela, da cui si evinceva la condizione di particolare stress post-traumatico del richiedente, dipendente dalle vicende vissute prima del suo arrivo in Italia e comportante una grave compromissione del suo quadro psichico).

Infine, Sez. 1, n. 02453/2021, Ariolli, Rv. 660500-01 in tema di domanda reiterata di protezione internazionale, precisa che l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 29 bis del d.lgs. n. 25 del 2008, nella formulazione antecedente a quella introdotta dal d.l. n. 130 del 2020, conv. dalla l. n. 173 del 2020 impone di ritenere, anche compatibilmente con il dato letterale della norma, che la domanda presentata in pendenza di una procedura espulsiva, non possa per ciò solo essere dichiarata automaticamente inammissibile, senza valutare preliminarmente, nel pieno rispetto dei diritti della persona, se effettivamente la prima domanda reiterata sia stata presentata con il solo scopo di eludere o ostacolare l'esecuzione dell'espulsione, oppure se dalla domanda reiterata siano emersi elementi o risultanze nuove rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale, considerato che, diversamente opinando, la norma violerebbe l'art. 117 Cost. per contrarietà all'art. 40 della Direttiva 2013/32/UE - che prevede espressamente la necessità, in caso di domanda reiterata in fase di esecuzione di un'espulsione, di un "esame preliminare per accertare se siano emersi o siano stati addotti dal richiedente elementi o risultanze nuovi rispetto alla precedente domanda" - nonché con l'art. 10 Cost., poiché l'automatismo, nel caso in cui sia già in corso l'espulsione, escluderebbe il vaglio di un'autorità terza in ordine all'accertamento di tali elementi.

4. Il ricorso per cassazione nei procedimenti di protezione internazionale.

Nel corso dell’anno in rassegna molteplici sono stati gli interventi della S.C. sul tema del ricorso per cassazione. In particolare, come anticipato al par. 2, il tema della deduzione dei vizi attinenti alla violazione dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, è emerso come tema centrale nello sforzo interpretativo della Corte di confrontarsi con le peculiarità del giudizio di protezione internazionale, in rapporto alla tipicità del giudizio di cassazione. L’oscillazione giurisprudenziale che ne è derivata su alcuni temi fondamentali ha dato luogo a diverse ordinanze di remissione in pubblica udienza, avendo la Corte valutato di rilevanza nomofilattica le questioni da affrontare. Non ultima, va segnalata la vicenda giurisprudenziale legata all’interpretazione dell’art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, che prevede per il rilascio della procura speciale alle liti per il ricorso per cassazione, la certificazione da parte del difensore della data di rilascio della procura. Tale norma aveva dato luogo a contrasti tra le sezioni semplici della Corte, risolti da una pronuncia delle S.U. Tuttavia, l’interpretazione dell’art. 35 bis fornita dalle S.U., è stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale che, con la sentenza n. 13 pubblicata in G.U. il 26.1.2022, ha comunicato di avere dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale proposta.

4.1. I motivi di ricorso per cassazione relativi alla mancata audizione del richiedente.

Nel 2020 su tale tema, già Sez. 1, n. 25312/2020, Terrusi, Rv. 659577-01 aveva precisato che il motivo con il quale si deduce il mancato accoglimento dell’istanza di audizione, poteva ritenersi ammissibile, in ossequio all’onere di specificità dei motivi di ricorso in cassazione, solo se contenente l’indicazione puntuale dei fatti che erano stati dedotti avanti al giudice di merito a sostegno della richiesta. Nel 2021 Sez. 1, n. 18311/2021, Falabella, Rv. 661814-01 chiarisce che il provvedimento del giudice, adottato sulla base del rigetto dell'istanza di audizione può essere impugnato: per "error in procedendo" ove il giudice del merito abbia negato in termini assoluti l'ammissibilità dell'incombente in una delle ipotesi in cui è, invece, astrattamente esperibile; per "violazione o falsa applicazione di legge", nel caso in cui il giudice abbia escluso l'audizione sulla base dell'erronea applicazione di norme di diritto ai fatti su cui il richiedente intenda rendere le proprie dichiarazioni; per l'anomalia motivazionale, che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, per l'assoluta mancanza di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico, per motivazione apparente, per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e per motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, con riguardo alla carente indicazione delle ragioni per le quali la decisione può essere adottata allo stato degli atti. La medesima pronuncia, poi, nell’affrontare il tema del vizio di motivazione in un caso in cui la parte non aveva richiesto l’audizione, sia pure ribadendo che il giudice è tenuto a valutare l’opportunità di darvi corso, pur in assenza di una iniziativa della parte e che il mancato espletamento dell'incombente è suscettibile di essere censurato in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione, ha precisato che l'assenza di un'istanza della parte stessa può di per sé giustificare, a seconda dei casi, il mancato espletamento dell'incombente.

4.2. I motivi relativi alla violazione del dovere di collaborazione istruttoria. I contrasti.

Il tema della deduzione dei vizi attinenti al mancato rispetto delle regole indicate dall’art. 8 del d.lgs. n. 25 del 2008 nel ricorso in cassazione è stato affrontato da questa Corte in varie pronunce, che mettono in luce diverse linee giurisprudenziali.

Nel 2020 Sez. 1, n. 22769/2020, Amatore, Rv. 659276-01 aveva affermato che il ricorrente in cassazione che deduce la violazione del dovere di cooperazione istruttoria per l'omessa indicazione delle fonti informative dalle quali il giudice ha tratto il suo convincimento, ha l'onere di indicare le COI che, secondo la sua prospettazione, avrebbero potuto condurre ad un diverso esito del giudizio, con la conseguenza che, in mancanza di tale allegazione, non potendo la Corte di cassazione valutare la teorica rilevanza e decisività della censura, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Su tale linea si pone Sez. 1, n. 19919/2021, Oliva Rv. 661828-01 che afferma che il motivo di ricorso per cassazione che mira a contrastare l'apprezzamento del giudice di merito in ordine alle c.d. fonti privilegiate deve evidenziare, mediante riscontri precisi ed univoci, che le informazioni sulla cui base è stata assunta la decisione, in violazione del dovere di collaborazione istruttoria, sono state oggettivamente travisate o superate da altre più aggiornate, ovvero ricavate da COI non idonee, in quanto non comprese tra quelle previste dall'art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008. Su tale scia si pone Sez. 1, n. 00899/2021, Dell’Orfano, Rv. 660278-01, che dichiara inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale era stata censurata l'omessa sottoposizione al contraddittorio delle COI acquisite d'ufficio, ritenendo necessario che il motivo per essere ammissibile indichi in quale modo l'omessa conoscenza delle COI da parte del richiedente abbia inficiato il giudizio conclusivo del giudice, e che si alleghino nel ricorso altre e diverse fonti di conoscenza che si pongano in contrasto con le informazioni acquisite dal tribunale, così da rendere la censura specifica.

Tuttavia, Sez. 1, n. 07105/2021, Acierno, Rv. 660795-01, limita il dovere del ricorrente di indicare fonti alternative ritenute idonee a prospettare un diverso esito del giudizio alla sola ipotesi in cui il giudice di merito abbia reso note le fonti consultate mediante l'indicazione del loro contenuto, della data di risalenza e dell'ente promanante. Diversamente, nel caso in cui il richiamo alle fonti sia assente, generico o deficitario nelle sue parti essenziali, è sufficiente che la censura deduca la carenza degli elementi identificativi.

Sul tema delle modalità di deduzione del vizio attinente all’omesso od incompleto adempimento del dovere di cooperazione istruttoria da parte del giudice, sono state depositate diverse ordinanze interlocutorie che hanno rimesso la causa in pubblica udienza, per la valenza nomofilattica delle questioni (tra le molte, Sez. 1, n. 12324/2021, Russo; Sez. 6-1, n. 4018/2021, Campese). Inoltre, l’ordinanza interlocutoria Sez. 6-1, n. 23523/2021, Campese, ha rimesso la causa alla pubblica udienza, in ordine alla possibilità di configurare come “error in procedendo” il comportamento del giudice di merito che abbia violato il proprio dovere di cooperazione istruttoria, in relazione all’onere della prova attenuato gravante sul richiedente protezione ex art. 14, lett. c) del d.lgs. n. 251 del 2007, a prescindere dall’allegazione o dalla dimostrazione delle conseguenze pregiudizievoli scaturite dall’inadempimento di tale dovere. Sotto diverso profilo l’ordinanza interlocutoria si interroga se il ricorrente che denuncia in cassazione la violazione dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008 per avere il giudice del merito rigettato la domanda di protezione internazionale senza avere indicato le fonti informative sulla base delle quali ha tratto il suo convincimento, abbia o meno l’onere di allegare COI aggiornate e attendibili in grado di determinare un esito della lite diverso, valutando solo in quest’ultimo caso esistente l’interesse all’impugnazione ex art. 100 c.p.c.

Va infine segnalata Sez. L, n. 14682/2021, Cinque, Rv. 661406-01, che afferma la censurabilità in sede di legittimità dell’omessa considerazione da parte del giudice delle informazioni acquisite nel caso in cui la situazione dedotta dal richiedente coincida con un evento che sia di pubblico dominio, tanto da potersi considerare fatto notorio.

4.3. La procura alle liti per il ricorso per cassazione.

Nell’anno in rassegna i contrasti sorti all’interno delle sezioni sull’interpretazione dell’art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, sono stati composti da Sez. U, n. 15177/2021, Conti, Rv. 661387-01, che ha affermato che tale norma, nella parte in cui prevede che "la procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione deve essere conferita, a pena di inammissibilità del ricorso, in data successiva alla comunicazione del decreto impugnato" e che "a tal fine il difensore certifica la data del rilascio in suo favore della procura medesima" richiede, quale elemento di specialità rispetto alle ordinarie ipotesi di rilascio della procura speciale, regolate dagli artt. 83 e 365 c.p.c., il requisito della posteriorità della data rispetto alla comunicazione del provvedimento impugnato, prevedendo una speciale ipotesi di "inammissibilità del ricorso" nel caso di mancata certificazione della data di rilascio della procura in suo favore da parte del difensore. Ne consegue che tale procura speciale deve contenere in modo esplicito l'indicazione della data successiva alla comunicazione del provvedimento impugnato e richiede che il difensore certifichi, anche solo con un'unica sottoscrizione, sia la data della procura successiva alla comunicazione, che l'autenticità della firma del conferente. La norma così interpretata non può considerarsi violativa: 1) della disciplina unionale, in relazione al principio di equivalenza e di effettività, considerato che non vi è alcuna materia regolata dal diritto interno, omogenea a quella della protezione internazionale e dell'asilo, che goda di una tutela maggiormente protettiva con riguardo alla proposizione del ricorso per cassazione, e che il principio di effettività deve ritenersi limitato al giudizio di primo grado; 2) dell'art. 6 CEDU, nella parte in cui riconosce il diritto all'accesso alla giustizia, valutato anche in combinato disposto con l'art. 14 che stabilisce il divieto di non discriminazione, poiché la norma persegue l'interesse ad un corretto e leale esercizio dell'amministrazione della giustizia, anche in relazione alle ripercussioni sul complessivo funzionamento della giurisdizione ordinaria di ultima istanza, interessi che il legislatore può legittimamente valorizzare, senza violare il principio di non discriminazione, poiché la norma riguarda solo coloro che, trovandosi in una posizione di incerto collegamento con il territorio nazionale, costituiscono un gruppo nettamente distinto rispetto a quello che ha invece con il nostro paese una stabile relazione territoriale; 3) degli artt. 3 e 24 Cost., quanto al principio di eguaglianza ed al diritto di difesa, considerato che la specifica regola processuale non ha come giustificazione la condizione di richiedente protezione internazionale, quanto, piuttosto, la specificità del ricorso per cassazione rispetto alle materie disciplinate dal d.lgs. n. 25 del 2008 in relazione alle quali il legislatore ordinario ha un'ampia discrezionalità, maggiormente accentuata nella disciplina degli istituti processuali dove vi è l'esigenza della celere definizione delle decisioni.

La medesima pronuncia afferma (Rv. 661387-02) che, nel caso di declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione conseguente alla mancata presenza, all'interno della procura speciale, della data o della certificazione del difensore della sua posteriorità rispetto alla comunicazione del provvedimento impugnato, il pagamento del contributo unificato va posto a carico della parte ricorrente e non del difensore, risultando la procura affetta da nullità e non da inesistenza.

Deve essere segnalato che, successivamente al deposito di tale pronuncia, Sez. 3, n. 17970/2021, Travaglino, ha sottoposto al vaglio della Corte costituzionale la legittimità della predetta disposizione, per come interpretata dalla S.U., per violazione degli artt. 3, 10, 24, 111 Cost. e dell’art. 117 Cost. in relazione alla direttiva 2013/32/UE con riferimento agli artt. 28 e 46 § 11 e per contrasto con gli artt. 47 della Carta dei diritti UE, 18 e 19, §2 della medesima Carta, 6, 7, 13 e 14 della CEDU.

La Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 2022 ha dichiarato non fondata la questione proposta, evidenziando, tra l’altro, che la norma non introduce, come sostenuto dal giudice rimettente, una ingiustificata e discriminatoria differenziazione di disciplina rispetto alla regola generale che prescrive che il difensore certifichi solo l’autografia della sottoscrizione della procura speciale, giacché, da un lato, “è costante l’affermazione della giurisprudenza della Corte secondo cui, in materia processuale, la discrezionalità del legislatore è particolarmente ampia”, evidenziando, dall’altro, che la regola introdotta dalla norma “si innesta nella disciplina del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale di natura speciale, così come speciali erano le norme che disciplinavano tale procedimento prima della riforma del 2017”. Peraltro, rileva il giudice di legittimità, l’introduzione dell’onere aggiuntivo della certificazione da parte del difensore della data di rilascio della procura, non entra in contrasto con il diritto alla difesa giurisdizionale, compromesso solo “quando vengano imposti oneri tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale, e tale non è l’onere di certificazione di cui è gravato il difensore dello straniero richiedente la protezione internazionale”. Né, rileva la Corte, la norma è in contrasto con la normativa europea in particolare, con gli artt. 6 e 13 Cedu, sotto il profilo del diritto ad un equo processo e ad un “ricorso effettivo”, essendo stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia che la “garanzia del diritto ad un ricorso effettivo riguarda il diritto del richiedente asilo di portare innanzi ad un giudice, con le garanzie della giurisdizione, l’esame della sua richiesta, mentre è rimessa alle regolamentazioni processuali degli Stati membri la disciplina dell’impugna, in secondo grado o ulteriore, della decisione di quel giudice”.

Riguarda un profilo particolare Sez. 2, n. 33929/2021, Fortunato, Rv. 662755-01 che afferma che la mancanza nella procura speciale apposta a margine o in calce al ricorso dell'indicazione della data di rilascio conduce a ritenere di per sé insussistente anche la certificazione del difensore prescritta dall'art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, con conseguente inammissibilità del ricorso. Sez. L, n. 31191/2021, Cinque, Rv. 662994-01, afferma invece che deve essere dichiarata la giuridica inesistenza della procura speciale rilasciata al difensore al fine della proposizione del ricorso per cassazione, apposta su foglio separato e materialmente congiunto all'atto, quando risulti priva di uno specifico riferimento al provvedimento impugnato e riporti solo la generica indicazione "nel presente giudizio pendente davanti alla Corte di cassazione", senza altro elemento identificativo; ne consegue l'inammissibilità del ricorso, che deve essere dichiarata d'ufficio, in quanto l'art. 83 c.p.c. configura come un obbligo del giudice quello della verifica dell'effettiva estensione della procura conferita, principalmente a garanzia della stessa parte che l'ha rilasciata, affinché la medesima non risulti esposta al rischio del coinvolgimento in una controversia diversa da quella voluta, per effetto dell'autonoma iniziativa del proprio difensore. (In applicazione del principio, la S.C. ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso, proposto in materia di protezione internazionale dello straniero).

4.4. Ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

In continuità con Sez. 6-2, n. 07785/2020, Cosentino, Rv. 657578-01, Sez. 3, n. 15072/2021, Di Florio, Rv. 661557-01 afferma che il rigetto della domanda di protezione internazionale non implica automaticamente la revoca dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, la quale postula l'accertamento del presupposto della colpa grave nella proposizione dell'azione, valutazione diversa ed autonoma rispetto a quella afferente alla fondatezza del merito della domanda.

5. Cenni sulla protezione internazionale in generale.

5.1. I presupposti del rifugio.

La casistica relativa ai presupposti del rifugio nell’anno in rassegna riguarda diversi ambiti, ma si concentra, in particolare, su alcuni temi, come quello inerente alla persecuzione religiosa e quello relativo alla persecuzione per le inclinazioni sessuali della persona. In ordine allo specifico profilo della valutazione di credibilità del richiedente si rimanda a quanto illustrato nel paragrafo 3.8.

Sulla persecuzione per motivi religiosi nel 2020 Sez. 3, n. 08573/2020, Di Florio, Rv. 657778-01, conformemente a Sez. 1, n. 28974/2019, Oliva, Rv. 655565-01, aveva affermato che, quando il richiedente asilo alleghi il timore di essere soggetto nel suo Paese di origine a tale tipo di persecuzione, o comunque ad un trattamento inumano o degradante fondato su motivazioni a sfondo religioso, il giudice deve effettuare una valutazione sulla situazione interna del Paese di origine, indagando espressamente l’esistenza di fenomeni di tensione a contenuto religioso, senza che, in direzione contraria, assuma decisiva rilevanza il fatto che il richiedente non si sia rivolto alle autorità locali o statuali per invocare tutela, potendo tale scelta derivare, in concreto, proprio dal timore di essere assoggettato ad ulteriori trattamenti persecutori o umanamente degradanti.

Nell’anno in rassegna su tale tema Sez. 1, n. 35102/2021, Gori, Rv. 663277-01 afferma che l'art. 2, comma 2, lett. e), del d.lgs. n. 251 del 2007, nella parte in cui definisce "rifugiato" il cittadino straniero il quale, per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di religione, si trovi fuori del territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non possa o, a causa di tale timore, non voglia avvalersi della protezione di tale Paese, deve interpretarsi nel senso che il timore va valutato sia alla luce del contenuto della legislazione, sia della sua applicazione concreta da parte del Paese di origine, circa il rispetto dei limiti "interni" alla libertà che emergono dall'art. 19 Cost. e dell'art. 9, par. 2 CEDU, dovendo il giudice valutare se l'ingerenza da parte dello Stato di origine nella libertà del ricorrente di manifestare il proprio culto sia prevista dalla legge, sia diretta a perseguire uno o più fini legittimi ivi previsti, e costituisca una misura necessaria e proporzionata al perseguimento di tali fini. (Nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che aveva escluso l'esistenza di una persecuzione per motivi religiosi di una cittadina cinese aderente alla chiesa domestica "Yin Xin Cheng Yi" di fede cristiana, che aveva dovuto lasciare il suo Paese per sottrarsi alle ricerche delle autorità di polizia che volevano arrestarla, sostenendo che, pur trattandosi di un culto non riconosciuto, si trattava, tuttavia, di un culto nei confronti del quale vi era una certa tolleranza da parte dello Stato, non annoverandosi tra quelli appartenenti ai c.d. "culti maligni", ritenendo che nella specie fosse repressa non la libertà di religione in sé, ma la segretezza dell'associazione). Sempre in relazione a situazioni di persecuzione per motivi religiosi dedotte da cittadini cinesi Sez. 1, n. 22275/2021, Vannucci, Rv. 661995-01 precisa che il timore deve essere valutato alla luce del contenuto della legislazione dello Stato di origine del richiedente la protezione, evidenziante la possibilità concreta di conseguenze penali per chi professi un culto non espressamente riconosciuto dallo Stato, in assenza di atti diversi da quelli di esercizio del culto, nonché alla luce di fatti, oggettivamente persecutori (quale la privazione della libertà personale da parte di autorità di polizia protrattasi per un'apprezzabile periodo di tempo e destinata a cessare con la dazione di una somma di danaro) dell'appartenenza della persona ad uno di tali culti, univocamente indicanti l'immanente possibilità di loro reiterazione. (Nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello "status" di rifugiato presentata da un cittadino cinese, il quale aveva dedotto di essere stato costretto a lasciare il suo paese a causa delle persecuzioni subite dalla polizia per avere professato il suo culto, rilevando come, al contrario, i motivi di fuga dal paese di origine del ricorrente fossero da considerare di persecuzione per motivi religiosi, appartenendo il richiedente ad una delle cd. chiese evangeliche protestanti - "shouters" - che la Repubblica Popolare cinese persegue anche penalmente, perché contrarie all'ordine pubblico ed alla sicurezza nazionale, così comprimendo la libertà religiosa dei suoi cittadini).

Altro tema che continua ad impegnare la giurisprudenza è quello relativo alla persecuzione a causa dell’orientamento sessuale del richiedente. Nel 2020 si era affermato che tale condizione costituisce fattore di individuazione del “particolare gruppo sociale” la cui appartenenza, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 251 del 2007, integra ex se una situazione di oggettiva persecuzione idonea a fondare il riconoscimento dello status di rifugiato, sussistendo tale situazione quando le persone di orientamento omosessuale sono costrette a violare la legge penale del loro Paese e ad esporsi a gravi sanzioni per poter vivere liberamente la propria sessualità (Sez. 1, n. 11172/2020, Caradonna, Rv. 657909-01; Sez. 1, n. 07438/2020, Scotti, Rv. 657482-01). Tuttavia, Sez. 1, n. 09815/2020, Russo, Rv. 657835-01, aveva in parte ridimensionato la portata di tale principio, chiarendo che il mero fatto di qualificare come reato gli atti omosessuali non costituisce, di per sé, un atto di persecuzione, ove a ciò non faccia seguito la previsione di una pena detentiva che sanzioni taluni atti omosessuali e che effettivamente trovi applicazione nel Paese d’origine, pur ammettendo che la persecuzione è ravvisabile anche nel caso in cui pur non vigendo nel paese di origine una legislazione esplicitamente omofoba, il soggetto sia tuttavia esposto a gravissime minacce provenienti da agenti privati senza che lo Stato sia in grado di proteggerlo.

In linea con tale giurisprudenza Sez. L, n. 05829/2021, Boghetich, Rv. 660627-01 ribadisce come una situazione di persecuzione sia riscontrabile non solo quando le persone di orientamento omosessuale, per poter vivere liberamente la propria sessualità, sono costrette a violare la legge penale del loro Paese e ad esporsi a gravi sanzioni, ciò che costituisce una grave ingerenza nella vita privata che ne compromette la libertà personale e li pone in una situazione di oggettivo pericolo che deve essere verificata, anche d'ufficio, dal giudice di merito, ma anche se nello Stato di provenienza (nella specie, Costa d'Avorio) l'omosessualità non sia considerata reato, e tuttavia manchi l'accettazione sociale di tale condizione e tale Stato non garantisce all'interessato adeguata protezione a fronte di gravissime minacce provenienti da soggetti privati.

Sempre sullo stesso tema, ma con riferimento ad un caso particolare, Sez. 1, n. 09595/2021, Casadonte, Rv. 661149-01, riconosce la possibilità di ascrivere all’ipotesi di persecuzione per l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale, anche il caso in cui il timore sia legato al pericolo di essere associato alle tendenze sessuali del datore di lavoro omosessuale e coinvolto nello stupro di cui era accusato il medesimo datore di lavoro. In tale caso afferma la S.C., non può escludersi "a priori" la sussistenza della persecuzione per la ritenuta appartenenza ad un particolare gruppo sociale ai sensi dell'art. 8, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 251 del 2007, poiché ciò che rileva non è l'effettiva appartenenza al gruppo, ma il fatto di essere perseguitato perché ritenuto ad esso appartenente.

Sul tema dell’obiezione di coscienza nel 2020 Sez. 2, n. 02097/2020, Gorjan, Rv. 659312-01, conformemente a Sez. 1, n. 30031/2019, Succio, Rv. 656354-01, avevano affermato che l’interpretazione dell’art. 7, comma 2, lett. e), del d.lgs. n. 251 del 2007, correla la persecuzione alla previsione di sanzioni per il cittadino che si sottrae alla leva obbligatoria solo quando è in atto un conflitto, nel cui ambito si profili la concreta possibilità che il militare sia chiamato a concorrere nella commissione di crimini e violazioni dei diritti umani.

Nell’anno in rassegna Sez. 6-1, n. 13461/2021, Campese, Rv. 661447-01 precisa che lo "status" di rifugiato politico può essere riconosciuto all'obiettore di coscienza che rifiuti di prestare il servizio militare nello Stato di origine (Ucraina), anche nel caso in cui l'arruolamento comporti il rischio di un coinvolgimento, anche indiretto, in un conflitto caratterizzato anche solo dall'alto rischio di commissione di crimini di guerra e contro l'umanità, costituendo la sanzione penale prevista dall'ordinamento straniero per detto rifiuto atto di persecuzione ai sensi dell'art. 7, comma 2, lett. e), del d.lgs. n. 251 del 2007 e dell'art. 9, par. 2, lett. e), della direttiva n. 2004/83/CE come interpretato da C.G.U.E., 26 febbraio 2015, (causa C-472/13, Shepherd contro Germania), che estende la tutela anche al personale militare logistico e di sostegno.

Sez. 1, n. 04377/2021, Casadonte, Rv. 660503-01 afferma che rilevano ai fini del riconoscimento dei presupposti del rifugio anche il riferimento alle minacce di persecuzione e di danni gravi per ragioni politiche incombenti su un familiare del richiedente, per determinare se il medesimo, previa verifica dell'attualità della minaccia, a causa del legame familiare con la persona minacciata sia a sua volta esposto allo stesso pericolo, non potendosi affermare che il mancato svolgimento di attività politica escluda a priori la sussistenza nei suoi confronti della minaccia.

Sez. 3, n. 25751/2021, Travaglino, Rv. 662494-01, infine, precisa che il fondato timore di subire nel paese d'origine atti persecutori a causa delle proprie opinioni politiche, deve essere apprezzato anche in relazione alle condizioni personali del richiedente (lo stato mentale, la personalità, le esperienze di vita) ed a circostanze oggettive ed esterne al soggetto. (Nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito la quale, pur ritenendo attendibile la narrazione del richiedente, gli aveva negato lo status, senza considerare che lo stesso, militante di un gruppo politico di opposizione al governo, temendo per la propria incolumità, aveva lasciato il paese di origine e rientratovi dopo quattro anni di esilio, era stato vittima di una violentissima e brutale aggressione ad opera di esponenti del partito opposto).

5.2. I presupposti del riconoscimento della protezione sussidiaria.

Riguarda il delicato tema dell’infibulazione Sez. 1, n. 29971/2021, Oliva, Rv. 662723-01 che afferma che il rischio di assoggettamento a pratiche di mutilazioni genitali femminili costituisce elemento rilevante per la concessione sia della tutela umanitaria che per il riconoscimento della protezione internazionale sussidiaria, ai sensi dell'art. 14, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, poiché dette pratiche rappresentano, per la persona che le subisce o rischia di subirle, un trattamento oggettivamente inumano e degradante. Inoltre, ove sia accertato che il fenomeno venga praticato, nel contesto sociale e culturale del Paese di provenienza, al fine di realizzare un trattamento ingiustamente discriminatorio, diretto o indiretto, della donna, in relazione alla previsione di cui all'art. 7, lett. a) ed f), del d. l.gs. n. 251 del 2007 possono sussistere i presupposti anche per la concessione dello status di rifugiato. A fronte di tale allegazione, il giudice, in attuazione del dovere di cooperazione istruttoria previsto dalla legge, deve verificare tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese di origine del richiedente al momento dell'adozione della decisione, compresa l'esistenza di disposizioni normative o di pratiche tollerate, o comunque non adeguatamente osteggiate, nell'ambito del contesto sociale e culturale esistente nel predetto Paese di provenienza, al fine di accertare se, effettivamente, le donne siano di fatto discriminate nel libero godimento e nell'esercizio dei loro diritti fondamentali.

Sez. 1, n. 20291/2021, Terrusi, Rv. 661990-01, in un caso in cui il ricorrente ha dedotto il fondato timore di essere oggetto di ritorsioni da parte del gruppo sociale di appartenenza, per essersi opposto alla decisione della propria famiglia di mutilare gli organi genitali femminili di una parente, afferma che non vale ad escludere la ricorrenza di una situazione di vulnerabilità la circostanza che, nel Paese di provenienza (nella specie, il Gambia), sia vigente una legge che sanziona penalmente l'infibulazione, qualora risulti trattarsi di una pratica tradizionale socialmente accettata e condivisa nelle zone tribali, poiché ciò che rileva non è il trattamento normativo ufficiale, ma l'emarginazione sociale dei soggetti che vi si oppongano la quale può costituire elemento identificativo di uno stato di vulnerabilità soggettiva.

In tema di protezione sussidiaria di cui all’art. art. 14, lett. c) del d.lgs. n. 251 del 2007, Sez. 1, n. 05675/2021, Di Marzio M., Rv. 660734-01 puntualizza, conformemente alla giurisprudenza precedente (Sez. 6-1, n. 18306/2019, Sambito, Rv. 654719-01), che il conflitto armato interno, tale da comportare minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile, ricorre in situazioni in cui le forze armate governative di uno Stato si scontrino con uno o più gruppi armati antagonisti, o nelle quali due o più gruppi armati si contendano tra loro il controllo militare di un dato territorio, purché il conflitto ascenda ad un grado di violenza indiscriminata talmente intenso ed imperversante da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nella regione di provenienza corra il rischio descritto nella norma per la sua sola presenza sul territorio, tenuto conto dell'impiego di metodi e tattiche di combattimento che incrementano il rischio per i civili, o direttamente mirano ai civili; della diffusione, tra le parti in conflitto, di tali metodi o tattiche; della generalizzazione o, invece, localizzazione del combattimento; del numero di civili uccisi, feriti, sfollati a causa del combattimento.

Sez. L, n.  11176/2021, Blasutto, Rv. 661105-01 fa rientrare nel concetto di violenza indiscriminata di cui all’art. 14, lett. c) anche una situazione di "delinquenza radicata" nel paese d'origine che abbia raggiunto un livello così elevato da far temere che il richiedente, se rinviato nell'area di provenienza, correrebbe il rischio di esservi esposto per la sua sola presenza nel territorio. (Nella specie, la S.C. ha cassato il provvedimento del giudice di merito, che, nel valutare la richiesta di tutela sussidiaria di un cittadino salvadoregno, aveva omesso di considerare le fonti informative allegate da cui risultava che in El Salvador la criminalità organizzata in bande armate, le cd. maras, controllava a tal punto il territorio, per interessi connessi alla gestione di estorsioni e narcotraffico, da determinare una situazione di instabilità che sfuggiva al controllo dello Stato).

In tema di revoca della protezione sussidiaria ex art. 18, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 251 del 2007, Sez. L, n. 25596/2021, Garri, Rv. 662271-01 afferma che l'accertamento demandato al giudice di merito in ordine alla sussistenza di una causa di esclusione dello "status" di protezione sussidiaria ai sensi dell'art. 16 del citato d.lgs., va effettuato attraverso la verifica in concreto, anche previo utilizzo dei poteri ufficiosi di cui all'art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, dell'esistenza della predetta causa, dovendo l'accertamento in questione essere caratterizzato da una sua attualità rispetto al momento della revoca. (Nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia del giudice di merito che - in relazione alla causa di esclusione fondata sulla pericolosità dello straniero per la sicurezza dello Stato o per l'ordine e la sicurezza pubblica - aveva, da un lato, formulato il proprio giudizio sulla base di alcune note della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione redatte sulla base di informazioni risalenti a qualche anno precedente, il cui valore indiziario non era stato confortato da ulteriori e più recenti elementi di riscontro circa l'asserita contiguità del richiedente con persone appartenenti a gruppi fondamentalisti, e, dall'altro, trascurato di considerare l'esistenza di concreti profili di pericolosità per i diritti umani del richiedente in caso di rientro in patria).

In continuità con la giurisprudenza precedente (Sez. 6-1, n. 14028/2017, Lamorgese, Rv. 644611-01) in tema di cause ostative al riconoscimento della protezione sussidiaria, per la ricorrenza delle condizioni di cui agli artt. 12 e 16 del d.lgs. n. 251 del 2007, Sez. 2, n. 33940/2021, Falaschi, Rv. 662745-01 ribadisce che, allorquando ricorre una di tali ipotesi, il giudice di merito è esentato dall'onere di esaminare la credibilità o l'idoneità della storia riferita dal richiedente, costituendo la causa ostativa una condizione dell'azione, che va accertata dal giudice alla data della decisione e può essere da questi rilevata d'ufficio, anche in appello, quando risulti dagli atti del giudizio o dalle dichiarazioni della parte, avendo l'autorità giudiziaria il potere-dovere di valutare in concreto e senza automatismi i fatti criminosi e la loro pericolosità.

6. I presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria.

La S.C., nell’esame dei ricorsi aventi ad oggetto i provvedimenti di rigetto delle domande volte ad ottenere la protezione complementare, anche nell’anno in rassegna, si è soffermata sul catalogo aperto rappresentato dai motivi che possono giustificare il riconoscimento di tale forma di protezione.

In particolare la Corte ha esaminato alcune delle fattispecie che hanno trovato poi una espressa codificazione nel d.l. 21 ottobre 2020 n. 130, recante, per quel che rileva rispetto al settore civile, “Disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare,” conv. con modif. dalla l. 18 dicembre 2020, n. 173.

Già nel 2020, Sez. 2, n. 22832/2020, De Marzo, Rv. 659373-01, aveva ritenuto la sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione umanitaria nel caso di un padre convivente di un minore presente sul territorio italiano, senza che, a tal fine, si ponesse come preclusiva l'autorizzazione ex art. 31 del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, finalizzata alla tutela di un interesse non già del richiedente, bensì essenzialmente del minore, mediante il collegamento tra la vulnerabilità che giustifica la protezione umanitaria e la tutela dei legami familiari di cui all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, come interpretato dalla giurisprudenza della CEDU (la necessità di tener conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale è oggi esplicitata nel nuovo art. 19 del d.lgs. cit., come modificato dalla l. n. 173 del 2020).

Con riferimento alla vita familiare, Sez. 1, n. 01347/2021, Caradonna, Rv. 660369-01, ribadisce come rientri tra i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria la condizione del richiedente che conviva in Italia con moglie e figlio minore, non valendo ad escluderlo il disposto dell'art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, quando uno dei fattori valorizzati dal richiedente sia proprio il legame familiare con la prole, tenuto conto della elasticità dei parametri entro i quali si muove la protezione umanitaria e che, ai sensi dell'art. 8 Cedu, la vita familiare va intesa come diritto di vivere insieme affinché i relativi rapporti possano svilupparsi normalmente.

Sez. 2, n. 05506/2021, Oliva, Rv. 660543 -01, precisa che la presenza di figli minori del richiedente rappresenta uno degli elementi che devono essere considerati nell'apprezzamento circa la sussistenza della vulnerabilità del genitore, atteso che la presenza della prole minore in Italia si risolve in una condizione familiare idonea a dimostrare da un lato una peculiare fragilità, tanto dei singoli componenti della famiglia che di quest'ultima nel suo complesso, e dall'altro lato uno specifico profilo di radicamento del nucleo sul territorio nazionale, in dipendenza dell'inserimento dei figli nei percorsi sociali e scolastici esistenti in Italia e, quindi, della loro naturale tendenza ad assimilare i valori ed i concetti fondativi della società italiana.

Con specifico riferimento al profilo della possibile violazione dell’art. 8 CEDU, Sez. 1, n. 34096/2021, Fidanzia, Rv. 663271-01 chiarisce come non possa omettersi la circostanza relativa alla stabile relazione affettiva instaurata da un anno dal richiedente con una donna italiana, ancorché non convivente con la stessa.

6.1. Le condizioni di vulnerabilità.

Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, nella normativa ormai abrogata, il concetto di vulnerabilità rivestiva un ruolo centrale, per la sua capacità di ricomprendere e assorbire ipotesi che andavano da quelle di vulnerabilità soggettiva normativamente tipizzate (*) – quali i minori non accompagnati, i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, le persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali, le vittime della tratta di esseri umani, le persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, le vittime di mutilazioni genitali, anche i genitori singoli con figli minori – ad ipotesi non espressamente previste dalla legge come, ad esempio, i ricorrenti vittima di sfruttamento lavorativo o i migranti ambientali.

Anche nel 2021, la S.C. si è soffermata sulle numerose ipotesi di vulnerabilità, legate alle violenze subite nel paese di transito, alla minore età, alle condizioni di salute, alle mutilazioni genitali femminili, alla condizione di povertà inemendabile e di disastro ambientale nel paese d’origine.

Sull’impossibilità della tipizzazione delle condizioni meritevoli di tutela, si sofferma Sez. 3, n. 21522/2021, Di Florio, Rv. 661985-01 affermando che la "vulnerabilità" del richiedente deve essere verificata caso per caso, all'esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata alla situazione personale vissuta prima della partenza, a quella alla quale si troverebbe esposto in ipotesi di rimpatrio, ed a quella vissuta nel paese di transito, non potendosi tipizzare le categorie soggettive meritevoli di tale tutela che è, invece, atipica e residuale, nel senso che copre tutte quelle situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento dello "status" di rifugiato o della protezione sussidiaria, tuttavia non possa disporsi l'espulsione.

Con riferimento all’ambito territoriale cui avere riguardo nel valutare la vulnerabilità, già Sez. 1, n. 13565/2020, San Giorgio, Rv. 658235-01, aveva ribadito che proprio la atipicità della protezione umanitaria impone di considerare anche le violenze subite nel paese di transito e di temporanea permanenza, potenzialmente idonee, quali eventi in grado di ingenerare un forte grado di traumaticità, ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona (si trattava di un migrante che aveva documentato le violenze subite in Libia, ove si era recato per reperire un’occupazione lavorativa, indicate come causa della compromissione delle sue condizioni psico-fisiche, così evidenziando la connessione tra il transito in quel Paese e il contenuto della domanda).

A medesime conclusioni giungono anche Sez. 3, n. 03583/2021, Di Florio, Rv. 660399-01 e Sez. 3, n. 25734/2021, Travaglino, Rv. 662407-01, che ribadiscono come, ai fini della valutazione dei presupposti per la protezione umanitaria, occorra considerare anche le violenze subite nel Paese di transito e di temporanea permanenza, potenzialmente idonee, quali eventi in grado di ingenerare un forte grado di traumaticità, ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva negato la protezione umanitaria senza valutare le circostanziate deduzioni del richiedente relative alle vessazioni e violenze subite in Libia, paese di transito ove era rimasto per circa quattro anni - di cui due e mezzo in un campo di prigionia - indicate come causa della compromissione delle sue condizioni psico-fisiche).

Ancora, Sez. 6-1, n. 08990/2021, Terrusi, Rv. 660924-01 precisa che, ove il richiedente deduca, a sostegno della sua condizione di vulnerabilità, di essere affetto da disturbo post-traumatico da stress a causa delle sevizie subite nel paese di transito, il giudice, ove la peculiare condizione allegata sia accertata, deve specificamente valutarne l'incidenza, ben potendo, la valutazione comparativa tra la condizione soggettiva ed oggettiva in cui lo straniero si troverebbe nel paese di provenienza ed il livello di integrazione raggiunto in Italia, porsi giuridicamente in termini attenuati, quando non recessivi, di fronte ad un evento in grado di incidere, di per sé solo, per il forte grado di traumaticità, sulla condizione di vulnerabilità della persona.

La rilevanza delle violenze subite nel paese di transito è stata ribadita anche da Sez. 6-1, n. 12649/2021, Campese, Rv. 661502-01, con particolare riferimento alla domanda proposta da un ricorrente che aveva subito tali violenze quando ancora minorenne. Nella pronuncia in esame la S.C. ribadisce come la circostanza relativa alle dette violenze debba essere considerata unitamente al parametro dell'inserimento sociale e lavorativo nel nostro paese, in quanto trattasi di fatto potenzialmente idoneo ad incidere sulla sua condizione di vulnerabilità, tanto da essere ostativa al rientro del richiedente nel suo paese di provenienza, tenuto conto altresì del fatto che l'art. 19, comma 2 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 (introdotto dal d.l. 23 giugno 2011, n. 89 conv. con modif. dalla l. 2 agosto 2011, n. 129), nell'individuare ai fini del divieto di espulsione e di respingimento le "categorie vulnerabili", dà rilievo "alle gravi violenze psicologiche, fisiche o sessuali".

Con riferimento alle condizioni di salute come indice di vulnerabilità, nel 2020 la S.C. aveva chiarito come, a fronte di rischi per la salute, all’organo giudicante competa un’attenta e dettagliata disamina dei rischi eventualmente configurabili a carico del ricorrente in caso di rimpatrio, con particolare riguardo all’effettiva capacita` del sistema sanitario del Paese di origine di erogare cure idonee a fronteggiare la patologia del richiedente (Sez. 1, n. 13765/2020, Gori, Rv. 658440-01).

Nell’anno in rassegna, per Sez. 1, n. 14648/2021, Dolmetta, Rv. 661374-01 anche una condizione di menomazione uditiva sofferta dal richiedente (nella specie, sordità bilaterale con utilizzo di apparecchio acustico) si configura come fattore fondante di potenziale vulnerabilità, da valutarsi caso per caso con diretto e specifico riferimento alla persona dell'istante, considerato che detta menomazione incide in modo diretto su uno degli strumenti primari di comunicazione della persona con il mondo esterno, a prescindere dalla causa che l'abbia determinata.

Con riferimento all’epidemia da virus Covid-19, Sez. 1, n. 38601/2021, Parise, Rv 663419-01 afferma che la diffusione dell'epidemia nel continente al quale appartiene il paese di origine del richiedente, che non abbia allegato ricadute di tale epidemia sulla sua situazione personale, non può essere considerata causa di vulnerabilità, riguardando l'intera popolazione del paese di origine.

In merito ad altre condizioni di vulnerabilità, Sez. 3, n. 09247/2021, Rubino, Rv. 661079-01 precisa che nell’accertamento del livello di integrazione raggiunto in Italia dal richiedente, non può prescindersi dalla valutazione della minore età, in considerazione della particolare tutela di cui gode nel nostro ordinamento il migrante minorenne, in specie ove sia non accompagnato, trattandosi di condizione di "vulnerabilità estrema", prevalente rispetto alla qualità di straniero illegalmente soggiornante nel territorio dello Stato, avuto riguardo all'assenza di familiari maggiorenni in grado di prendersene cura ed al conseguente obbligo dello Stato di adottare tutte le misure necessarie per non incorrere nella violazione dell'art. 3 Cedu.

Sez. L, n. 17204/2021, Amendola F., Rv. 661642-01, esamina la condizione di vulnerabilità derivante da una situazione di sfruttamento lavorativo, da apprezzare in relazione alle condizioni in cui si sviluppa, normalmente caratterizzata da forte precarietà, da isolamento ambientale e sociale, da scarsa regolazione del lavoro e conseguente sovraccarico anche emotivo, da estrema dipendenza dal datore di lavoro, fino a forme di coazione servile.

Con riferimento alla rilevanza delle condizioni di povertà nel contesto economico-sociale del Paese d’origine, nel 2020 si erano registrate oscillazioni tra un orientamento più restrittivo (secondo cui la semplice condizione di solitudine e di indigenza economica, in caso di rientro nel paese di origine, non può essere posta a fondamento del rilascio del menzionato permesso, in quanto non integrante una grave violazione dei diritti umani, in tal senso Sez. 2, n. 17118/2020, Giannaccari, Rv. 658952-01) ed uno più incline alla considerazione del rilievo della povertà inemendabile come possibile pregiudizio per la dignità del ricorrente in caso di rimpatrio (in questo senso Sez. 1, n. 16119/2020, Acierno, Rv. 658603-01, aveva inserito la assoluta ed inemendabile povertà per alcuni strati della popolazione, o per tipologie soggettive analoghe a quelle del ricorrente, tra i fattori da considerare nella valutazione della possibilità per il migrante di provvedere almeno al proprio sostentamento).

Nel 2021 la S.C. sembra orientarsi verso una maggiore considerazione della rilevanza della povertà inemendabile nel paese d’origine, ove tale condizione possa in concreto esporre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà ed all’autodeterminazione della persona al rischio di azzeramento o di riduzione al di sotto della soglia minima della dignità.

Sez. L, n. 15961/2021, Cinque, Rv. 661515-01 afferma che, al fine di valutare il rischio di compromissione del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, può assumere rilievo anche la condizione di povertà estrema - nella quale non si dispone, o si dispone con grande difficoltà o intermittenza, delle primarie risorse per il sostentamento umano come l'acqua, il cibo, il vestiario e l'abitazione - del paese di provenienza, ove considerata unitamente a quella di insuperabile indigenza alla quale, per ragioni individuali, il ricorrente sarebbe esposto in caso di rimpatrio, nel caso in cui la combinazione di tali elementi crei il pericolo di esporlo a condizioni incompatibili con il rispetto dei diritti umani fondamentali.

Sez. 2, n. 05022/2021, Oliva, Rv. 660461-01 si sofferma ancora sul concetto di "nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale", come limite minimo essenziale al di sotto del quale non è rispettato il diritto individuale alla vita e all'esistenza dignitosa, per affermare come detto limite vada apprezzato dal giudice di merito non solo con specifico riferimento all'esistenza di una situazione di conflitto armato, ma anche con riguardo a qualsiasi contesto che sia, in concreto, idoneo ad esporre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all'autodeterminazione dell'individuo al rischio di azzeramento o riduzione al di sotto della predetta soglia minima, ivi espressamente inclusi - qualora se ne ravvisi in concreto l'esistenza in una determinata area geografica - i casi del disastro ambientale, definito dall'art. 452-quater c.p., del cambiamento climatico e dell'insostenibile sfruttamento delle risorse naturali.

Con particolare riferimento ad un ricorrente bengalese, di etnia bedè, Sez. 1, n. 14650/2021, Dolmetta, Rv. 661399-01, precisa che l’appartenenza del ricorrente alla predetta minoranza etnica nomade, connotata da una condizione di emarginazione a causa della estrema povertà e dell'analfabetismo, può costituire un fattore di per sé potenzialmente idoneo a produrre aspetti di vulnerabilità, laddove si accerti che ne derivi un concreto disvalore sociale per chi vi appartenga, dovendo tale elemento essere oggetto di comparazione con la situazione attuale di integrazione in Italia del richiedente tenendo conto delle caratteristiche della fattispecie in analisi.

Sulla condizione di vulnerabilità rappresentata dalla costrizione alla prostituzione per necessità economiche si sofferma Sez. 1, n. 30402/2021, Acierno, Rv. 662725-01, per precisare come la circostanza che la richiedente, sotto la spinta di necessità economiche, sia dedita allo prostituzione, integra una condizione soggettiva di vulnerabilità, anche ove non si possa attribuire alla richiedente la qualifica di vittima di tratta a scopo sessuale, dovendosi ravvisare, in casi del genere, una grave compromissione della dignità personale e del diritto di autodeterminazione in relazione a scelte che incidono, in modo primario, sullo sviluppo della personalità individuale.

Una condizione di vulnerabilità che può portare al riconoscimento della protezione umanitaria può conseguire anche ad una situazione di forte emarginazione sociale. In particolare, Sez. 6-1, n. 20291/2021, Terrusi, Rv. 661990-01, afferma che ove sia dedotto dal ricorrente il fondato timore di essere oggetto di ritorsioni da parte del gruppo sociale di appartenenza, per essersi opposto alla decisione della propria famiglia di mutilare gli organi genitali femminili di una parente, non vale ad escludere la ricorrenza di una situazione di vulnerabilità la circostanza che, nel Paese di provenienza (nella specie, il Gambia), sia vigente una legge che sanziona penalmente l'infibulazione, qualora risulti trattarsi di una pratica tradizionale socialmente accettata e condivisa nelle zone tribali, poiché ciò che rileva non è il trattamento normativo ufficiale, ma l'emarginazione sociale dei soggetti che vi si oppongano la quale può costituire elemento identificativo di uno stato di vulnerabilità soggettiva.

Infine, Sez. 3, n. 32237/2021, Travaglino, Rv. 662954-02 ravvisa l’esistenza di un indizio di vulnerabilità soggettiva, a prescindere dalla valutazione di credibilità del richiedente asilo, nella circostanza di essere allontanato dal proprio nucleo familiare e respinto nel Paese di provenienza, costituendo tale allontanamento forzato un atto destinato ad incidere significativamente sulla psiche e sulle emozioni del soggetto che si vede privato del suo diritto di partecipare al sano ed equilibrato sviluppo della propria vita familiare, segnatamente nell'ottica dell'assistenza, dell'educazione e dell'accudimento di figli minori.

6.2. Il giudizio di comparazione. La comparazione attenuata.

Il concetto di vulnerabilità ricomprende ed assorbe ipotesi tra loro molto eterogenee, che, sin dal 2018, la S.C. ha precisato devono essere poste in comparazione con il grado di integrazione sociale raggiunto in Italia.

Sul tema, centrali sono state le motivazioni di Sez. 1, n. 04455/2018, Acierno, Rv. 647298-01, che non solo aveva aperto ad una concezione allargata della vulnerabilità del migrante, ma aveva altresì introdotto la necessità di “una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. I seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all'esito di tale giudizio comparativo, risulti un'effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.).

La tenuta della soluzione adottata nel 2018, confermata da Sez. U, n. 29459, Perrino, Rv. 656062-02, e Sez. U. n. 29460 e n. 29461 del 2019 non massimate (per un approfondimento dei temi affrontati dalle Sez. U. si rinvia alle relazioni n. 84 e 85 del 2019 redatte da questo Ufficio), cit., è stata confermata sia nel 2020 che nell’anno in rassegna.

Secondo Sez. 1, n. 01104/2020, Amatore, Rv. 656791-01, ove sia ritenuta credibile la situazione di particolare o eccezionale vulnerabilità esposta dal richiedente, il confronto tra il grado di integrazione effettiva raggiunto nel nostro Paese e la situazione oggettiva nel Paese d’origine deve essere effettuato secondo il principio di comparazione attenuata, nel senso che quanto più intensa è la vulnerabilità accertata in giudizio, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il secundum comparationis, non potendo in particolare escludersi il rilievo preminente della gravità della condizione accertata solo perché determinatasi durante la permanenza nel Paese di transito.

Ancora nel 2020, Sez. 6-1, con ordinanza interlocutoria n. 28316/2020, aveva rimesso una nuova questione alle Sez. U, proponendo una diversa lettura dei rapporti tra integrazione sociale e vulnerabilità. L’ordinanza interlocutoria ha preso le mosse da due fondamentali rilievi. In primo luogo, aveva sottolineato come le modifiche apportate dal d.l. n. 130 del 2020 al sistema della protezione umanitaria, benché non immediatamente applicabili nei giudizi di cassazione pendenti, avessero ampliato l’ambito della protezione umanitaria derivante da vulnerabilità. In secondo luogo, l’ordinanza aveva richiamato la centralità ormai assunta dall’art. 8 CEDU, sia nella giurisprudenza della Corte costituzionale, che attribuisce rilevanza ai legami familiari e sociali come limite alla discrezionalità legislativa nel regolare la materia dell’immigrazione, sia nella giurisprudenza della Corte EDU, per affermare come lo stabile insediamento dello straniero costituisca condizione astrattamente idonea a integrare il concetto di vita privata, anche al di là dell’esistenza di legami familiari. Da tali premesse dovrebbe conseguire che, in presenza di altri requisiti, l’integrazione sociale può rendere l’espulsione dello straniero una ingerenza ingiustificata dello Stato, perfino nel caso in cui il rimpatrio dipenda dal fatto che lo straniero ha commesso reati sul territorio dello Stato di accoglienza. Secondo l’ordinanza, la valutazione comparativa con la situazione del Paese di origine (e di rimpatrio) doveva essere sempre operata, ma con attenuazione rispetto ai fattori non eziologicamente ricollegabili alla condizione di vulnerabilità.

Sez. U, n. 24413/2021, Cosentino, Rv. 662246-01 (per un approfondimento dei temi affrontati dalle Sez. U. si rinvia alla relazione n. 25 del 2021 di questo Ufficio), ribadisce la necessità di operare un giudizio di comparazione tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine e la situazione d'integrazione raggiunta in Italia, attribuendo alla condizione del richiedente nel paese di provenienza un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nella società italiana. Ha trovato formale consacrazione il criterio della c.d. comparazione attenuata laddove le Sezioni Unite hanno precisato che situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel paese originario possono fondare il diritto alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione in Italia. Con riferimento al livello di integrazione raggiunto in Italia, la Corte ha ribadito che qualora si accerti che tale livello è stato raggiunto e che il ritorno nel paese d'origine renda probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare tali da recare un "vulnus" al diritto riconosciuto dall'art. 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, per riconoscere il permesso di soggiorno.

Nel solco della decisione delle Sezioni Unite, Sez. 1, n. 41778/2021, Scotti, Rv 663477-01, afferma che nel caso in cui il richiedente abbia raggiunto un apprezzabile grado di integrazione socio-lavorativa sul territorio italiano, potenzialmente rilevante ai fini della tutela del diritto alla vita privata e familiare di cui all'art. 8 Cedu, la necessaria comparazione in forma attenuata, con il criterio di proporzionalità inversa, tra tale situazione di radicamento e la situazione in cui egli verrebbe proiettato in caso di ritorno nel paese di provenienza, comporta che - ad eccezione delle ipotesi di radicale incertezza sulla identità o nazionalità stessa del richiedente - la ritenuta non credibilità del racconto della sua vicenda personale, non sia di ostacolo al riconoscimento del beneficio richiesto, dovendosi apprezzare le conseguenze del rimpatrio sulla base delle condizioni generali del Paese di origine correlate alla sua posizione individuale.

Prima della decisione delle Sezioni Unite, numerose sono state le pronunce della S.C. che hanno ribadito la necessità del giudizio di comparazione e si sono soffermate sugli elementi da prendere in considerazione al fine di operare tale giudizio.

Sez. 2, n. 03968/2021, Bellini, Rv. 660421-01, ha affermato che il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria al cittadino straniero che abbia realizzato un adeguato grado di integrazione sociale nel nostro paese, secondo i parametri stabiliti dagli artt. 5, comma 6, 19, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998 e 32 del d.lgs. 19 novembre 2007 n. 251, impone l'esame specifico e attuale della situazione oggettiva e soggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, dovendosi fondare su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza.

Con riferimento agli elementi da prendere in considerazione ai fini del giudizio di comparazione, Sez. 2, n. 07396/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 660750-01, afferma la necessità di tenere in considerazione il lavoro e le attività formative e d'istruzione svolte dall'interessato, non rilevando la circostanza che tali attività risultino favorite dall'art. 22 del d.lgs. n. 142 del 2015 o da altre norme nazionali, regionali o locali.

Ancora in merito alla necessità di valutare le attività lavorative svolte dal ricorrente, Sez. 6-1, n. 32372/2021, Parise, Rv. 663304-01 precisa come il giudice di merito non possa omettere di esaminare, dandone conto nella motivazione, la documentazione ritualmente prodotta dal richiedente relativa all'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, atteso che tali documenti costituiscono un fatto storico relativo all'integrazione del richiedente in Italia, che in quanto tale è astrattamente idoneo a configurarsi come decisivo nella comparazione con la situazione nel Paese di origine.

Per quanto riguarda, invece, le condizioni rilevanti nel paese d’origine, da porre in comparazione con la situazione raggiunta dal ricorrente in Italia, Sez. 1, n. 22274/2021, Amatore, Rv. 661979-01, afferma che nella comparazione fra la condizione di vulnerabilità che si determinerebbe all'esito del rientro del richiedente nel paese di origine ed il livello di integrazione dello stesso nel paese di accoglienza, può rilevare anche una situazione di violazione dei diritti umani o di conflitto di livello inferiore a quella richiesta per le protezioni maggiori, purché il richiedente non si limiti ad allegare una situazione di generica pericolosità del paese di origine, che non consente una proiezione individualizzata idonea a consentire al giudice di merito la necessaria e concreta comparazione tra i due contesti di vita da parte dello straniero rispetto alla deprivazione nel godimento dei diritti fondamentali a cui sarebbe esposto in caso di rimpatrio.

Sez. 3, n. 21394/2021, Travaglino, Rv. 661984-01, nel ribadire l’'orizzontalità dei diritti umani fondamentali, ha riaffermato la necessità di operare la valutazione comparativa della situazione oggettiva del richiedente, oltre che eventualmente soggettiva, in ordine alla libera esplicazione dei diritti fondamentali della persona con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d'integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l'esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato.

Sez. 1, n. 34095/2021, Fidanzia, Rv. 663109-01 si sofferma sul giudizio di comparazione per affermare che il focus della valutazione comparativa tra la condizione del richiedente asilo nel paese di accoglienza e in quello di origine va centrato sul rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo, come definiti dalle Carte sovranazionali (in primo luogo dall'art. 8 CEDU) e dalla Costituzione (in particolare, dagli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 Cost.), sussistendo, dunque, seri motivi per riconoscere il permesso di soggiorno previsto dall'art. 5, comma 6, d.lgs. n. 286 del 1998 qualora, accertato il raggiungimento di un apprezzabile livello di integrazione da parte del cittadino straniero, il ritorno nel paese d'origine renda probabile un significativo scadimento delle sue condizioni di vita privata e/o familiare sì da recare un "vulnus" al diritto riconosciuto dall'art. 8 CEDU.

6.3. Questioni processuali rilevanti ai fini dell’esame della domanda volta ad ottenere il riconoscimento della protezione umanitaria. Rinvio.

Le questioni relative alla valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente protezione, nelle forme della protezione internazionale e della protezione umanitaria, sono state già affrontate nel § 3.7, al quale si rinvia.

Con specifico riferimento al regime intertemporale, Sez. 1, n. 13248/2021, Parise, Rv. 661369-01 afferma che la nuova disciplina della protezione umanitaria, introdotta con il d.l. n. 130 del 2020, conv. con modif. dalla l. n. 173 del 2020, entrata in vigore il 22 ottobre 2020, non trova applicazione nei giudizi di cassazione pendenti alla suddetta data, stante il tenore letterale della norma transitoria prevista dall'art. 15 del decreto-legge citato, che prevede l'immediata sua applicazione ai procedimenti pendenti avanti alle commissioni territoriali, al questore ed alle sezioni specializzate, rendendo evidente che scopo della norma è quello di prevenire "la duplicazione di procedimenti amministrativi e di eventuali contenziosi", finalità che si attaglia ai procedimenti ed ai giudizi di merito.

Nel 2020 Sez. 3, n. 08819/2020, Travaglino, Rv. 657916-05, aveva chiarito che nei procedimenti in materia di protezione internazionale, i presupposti necessari al riconoscimento della protezione umanitaria devono essere individuati autonomamente rispetto a quelli previsti per le due protezioni maggiori, non essendo tra loro sovrapponibili, ma i fatti storici posti a fondamento della positiva valutazione della condizione di vulnerabilità ben possono essere gli stessi già allegati per ottenere il riconoscimento dello "status" di rifugiato o la concessione della protezione sussidiaria, spettando poi al giudice qualificare detti fatti ai fini della riconduzione all'una o all'altra forma di protezione. A tale pronuncia fa seguito, in senso conforme, Sez. 3, n. 19548/2021, Pellecchia, Rv. 661749-01 .

Nell’anno in rassegna la S.C. ha ribadito la necessità di una valutazione autonoma dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria rispetto alla valutazione relativa alle protezioni maggiori.

Sez. 1, n. 05524/2021, Oliva, Rv. 660558-01 precisa che la valutazione relativa alle condizioni oggettive del paese di origine non coincide con l'esame finalizzato all'accertamento della sussistenza di una delle forme di protezione sussidiaria previste dalla legge (quella prevista nell'art. 14, lett. c, d.lgs. n. 251 del 2007) essendo le due tipologie di tutela dei diritti fondamentali caratterizzate da requisiti oggettivi e soggettivi diversi ed essendo solo la protezione umanitaria, in funzione della sua natura aperta, fondata su un accertamento comparativo focalizzato sul livello di protezione, o privazione, di diritti umani inalienabili eziologicamente correlabili con la condizione di effettiva integrazione raggiunta dal richiedente nel paese di accoglienza. (Nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia del giudice di merito, che si era limitato a scrutinare la situazione del paese di origine del richiedente, sotto il profilo della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, senza valutare e confrontare il contesto di vita nel paese di origine).

Dello stesso avviso, Sez. 6-1, n. 34500/2021, Falabella, Rv. 663310-01, che ribadisce come il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, che è misura atipica e residuale, deve essere frutto di valutazione autonoma caso per caso, non potendo conseguire automaticamente dal rigetto delle altre domande di protezione internazionale, essendo necessario considerare la specificità della condizione personale di particolare vulnerabilità del richiedente, da valutarsi anche in relazione alla sua situazione psico-fisica attuale ed al contesto culturale e sociale di riferimento.

Sul tema specifico delle fonti informative rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria (rinviando, per la trattazione del tema generale del dovere di cooperazione del giudice e delle fonti informative ai precedenti §3.5 e §3.6), nel 2020 Sez. 1, n. 13257/2020, Tria, Rv. 658131-02, in un caso in cui occorreva indagare sulla sussistenza dei presupposti del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, legati al pericolo di compromissione del diritto alla salute del richiedente ove fosse rientrato nel suo Paese di provenienza, aveva predicato la necessità che il giudice indaghi specificamente in ordine alle condizioni del sistema sanitario di tale Paese.

Nell’anno in rassegna, la S.C. ribadisce la necessità di una valutazione attenta delle condizioni del paese d’origine, con riferimento all’eventuale violazione dei diritti fondamentali della persona, a prescindere dagli accertamenti istruttori compiuti con riferimento alla protezione sussidiaria.

Sez. 3, n. 00262/2021, Di Florio, Rv. 660386-02, precisa che, ai fini della valutazione della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, il giudice deve valutare la sussistenza di ragioni di vulnerabilità e l'eventuale violazione dei diritti fondamentali al di sopra della soglia ineliminabile della dignità umana, acquisendo informazioni aggiornate, attendibili e pertinenti in relazione al rispetto dei diritti fondamentali nel paese di eventuale rimpatrio, in mancanza delle quali è configurabile la violazione dell'art. 5, comma 6, d.lgs. n. 286 del 1998.

Sez. 3, n. 20218/2021, Dell’Utri, Rv. 661841-01 afferma che il giudice del merito è tenuto ad approfondire e circostanziare, in forza di un'iniziativa istruttoria ufficiosa, gli aspetti dell'indispensabile valutazione comparativa tra la situazione personale ed esistenziale attuale del richiedente sul territorio italiano e la condizione in cui lo stesso verrebbe lasciato in caso di rimpatrio, al fine di accertare (attraverso l'individuazione delle specifiche fonti informative suscettibili di asseverare le conclusioni assunte in relazione alle condizioni generali del paese di origine, indipendentemente da quanto attestato con riguardo alla domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria) che il ritorno del richiedente nel proprio paese non valga piuttosto a esporlo al rischio di un abbandono a condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo dei diritti della persona, per come rappresentate, nel loro aspetto critico, dallo stesso ricorrente; e tanto, indipendentemente dalla circostanza che tale rischio possa farsi risalire (o meno) a fattori di natura economica, politica, sociale o culturale.

Sez. 6-1, n. 22511/2021, Marulli, Rv. 662344-01, ribadisce che nei procedimenti in materia di protezione internazionale, la valutazione di inattendibilità del racconto del richiedente non può condizionare la verifica dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria che il giudice è chiamato ad effettuare "ex officio" sia rispetto all'esistenza ed al grado di deprivazione dei diritti umani nell'area di provenienza del richiedente, sia rispetto alla valutazione comparativa tra il grado d'integrazione raggiunto nel nostro paese e i rischi collegati al rimpatrio che potrebbero esporre l'asilante, proveniente da quella determinata area geografica, ad un'oggettiva vulnerabilità personale, caratterizzata da fenomeni di deprivazione dei diritti della popolazione femminile e dal rischio concreto di sfruttamento sessuale nell'ambito del circuito della tratta di esseri umani.

Sez. L, n. 00198/2021, Pagetta, Rv. 660167-01, torna sulla rilevanza della violazione dei diritti umani fondamentali (in tal modo anticipando l’espresso riferimento normativo contenuto nella l. n. 173 del 2020), per affermare che integra una condizione di vulnerabilità soggettiva del richiedente la violazione, nel paese di origine, di diritti umani fondamentali quali il diritto di difesa ed il diritto alla libertà personale, senza necessità di approfondire la situazione delle carceri e del trattamento riservato ai detenuti, ove il riconoscimento della protezione umanitaria non sia collegato alle caratteristiche della esecuzione della pena detentiva nel paese di origine, ma alla intrinseca ingiustizia della condanna ivi subita. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva accertato, attraverso gli atti del parallelo procedimento di estradizione, che la condanna era stata inflitta al richiedente all'esito di un procedimento penale non assistito da adeguate garanzie ed in virtù di sentenza sostanzialmente priva di motivazione).

7. L’espulsione amministrativa.

La disciplina dell’espulsione amministrativa dello straniero irregolare è inserita in un complesso quadro normativo.

Chi è entrato nel territorio dello Stato, sottraendosi ai controlli di frontiera o non ha titolo per rimanervi, può essere destinatario di un provvedimento di espulsione amministrativa (con avvio allo Stato di appartenenza, ovvero, quando ciò non sia possibile, allo Stato di provenienza) disposta dal prefetto ed eseguita dal questore, previo nulla osta dell’autorità giudiziaria che procede per reati a carico dello straniero espulso “salvo che sussistano inderogabili esigenze processuali” (art. 13, comma 3, del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286).

Si tratta di un provvedimento impugnabile davanti al giudice di pace ex art. 18 del d.lgs. n. 150 del 2011, che può eseguirsi mediante accompagnamento alla frontiera (art. 13, commi 4 e 5-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998), misura restrittiva della libertà personale che necessita di convalida da parte del giudice e che, una volta concessa, rende definitivo il provvedimento di espulsione (prima sospeso nella sua efficacia).

Secondo Sez. 1, n. 25754/2021, Fidanzia, Rv. 662484-01, l’adozione di un nuovo provvedimento di espulsione dovuto alla violazione dell’ordine di allontanamento di cui all’art. 14, comma 5-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 non impone alcuna valutazione in ordine alla pericolosità del cittadino straniero ed ai suoi legami familiari, perché l’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. cit., che ne disciplina l’emissione, rinvia alle sole disposizioni dei commi 4 e 5 del precedente art. 13 e non anche a quelle dei commi 2, lett. c), e 2-bis) dello stesso articolo.

Con riguardo al profilo delle garanzie dell’espellendo, nella fase amministrativa, la consolidata giurisprudenza di legittimità (riaffermata da Sez. 1, n. 27682/2018, Acierno, Rv. 651119-01), ha escluso l’obbligo di dare preventiva comunicazione all’interessato dell’inizio del procedimento amministrativo di espulsione, ai sensi degli artt. 7 e 8 della l. 7 agosto 1990 n. 241: l’argomentazione (leggibile, tra le altre, in Sez. 1, n. 28858/2005, Spagna Musso, Rv. 586798-01), valorizza la specialità della procedura espulsiva, ove rilevano sia motivi di ordine di pubblico che di sicurezza dello Stato, e tiene conto, altresì, dei caratteri di celerità e speditezza che ne connotano l’iter.

Attesa l’automaticità del provvedimento espulsivo, il giudice innanzi al quale l’atto viene impugnato è tenuto unicamente a controllare la sussistenza, al momento dell’espulsione, dei requisiti di legge che ne imponevano l’emanazione (così Sez. 1, n. 18788/2020, Oliva, cit.; Sez. 1, n. 28860/2018, Terrusi, Rv. 651500-01) i quali consistono nella mancata richiesta, in assenza di cause di giustificazione, del permesso di soggiorno, ovvero nella sua revoca od annullamento o nella mancata tempestiva richiesta di rinnovo che ne abbia comportato il diniego; al giudice investito dell’impugnazione del provvedimento espulsivo non è invece consentita alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del questore che abbia rifiutato, revocato o annullato il permesso di soggiorno ovvero ne abbia negato il rinnovo, poiché tale sindacato spetta unicamente al giudice amministrativo, la cui decisione non costituisce in alcun modo un antecedente logico della decisione sul decreto di espulsione. Al giudice dell’opposizione al provvedimento di espulsione non è consentita alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del questore che abbia rifiutato, revocato o annullato il permesso di soggiorno, ovvero ne abbia negato il rinnovo. Tale sindacato spetta, secondo la giurisprudenza di legittimità, unicamente al giudice amministrativo, davanti al quale viene impugnato il provvedimento del questore, la cui decisione non costituisce in alcun modo un antecedente logico della decisione sul decreto di espulsione. Ne consegue che la pendenza del giudizio promosso dinanzi al giudice amministrativo per l’impugnazione del provvedimento del questore, non giustifica la sospensione del processo instaurato dinanzi al giudice ordinario con l’impugnazione del decreto di espulsione del prefetto, attesa la carenza di pregiudizialità giuridica necessaria tra il processo amministrativo e quello civile (Sez. 2, n. 19788/2020, Oliva, cit.; conf. Sez. 6-1, n. 15676/2018, Acierno, Rv. 649334-01; Sez. 6-1, n. 12976/2016, De Chiara, Rv. 640104-01).

Poteri giudiziali di accertamento pieno (e non già limitati da un’insussistente discrezionalità amministrativa) sono invece riconosciuti dalla giurisprudenza della S.C. in tema di valutazione dei presupposti espulsivi per motivi di ordine e sicurezza pubblica di cui all’art. 13, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286 del 1998 come già esposto nella rassegna precedente.

Come ha chiarito Sez. 6-1, n. 22694/2021, Scotti, Rv. 662348-01 (in continuità con le conformi Sez. 1, n. 12665/2019, Dolmetta, Rv. 653771-01 e Sez. 1, n. 28852/2005, Del Core, Rv. 585688-01 ma in difformità rispetto a Sez. 2, n. 24582/2020, Picaroni, Rv. 659666-01) il ricorso per cassazione, avverso il provvedimento emesso all’esito del giudizio di opposizione al decreto prefettizio di espulsione dello straniero, va proposto nei confronti dell’autorità che ha emanato il decreto impugnato e notificato presso la stessa, sicché deve essere dichiarato inammissibile il ricorso proposto contro il Ministero dell’interno e ad esso notificato presso l’Avvocatura generale dello Stato.

In tema di rapporti tra il decreto di espulsione e la presentazione della domanda di protezione internazionale, secondo Sez. 3, n. 24009/2020, Di Florio, Rv. 659539-01, la pendenza del relativo giudizio, ove la Commissione territoriale abbia dichiarato l’inammissibilità della domanda proposta, perché reiterata, non produce la sospensione automatica degli effetti della decisione amministrativa, ostandovi l’art. 35-bis, comma 3, lett. b), del decreto legislativo 28 gennaio 2008 n. 25, che la esclude testualmente. Ne consegue che in sede di opposizione al provvedimento di espulsione, emesso e comunicato contestualmente al provvedimento della Commissione territoriale, non può farsi valere alcuna efficacia sospensiva derivante dalla concomitanza del procedimento di protezione internazionale.

7.1. I casi d’inespellibilità.

L’istituto dell’espulsione amministrativa si intreccia con la garanzia dell’inespellibilità dello straniero, che ne preclude l’esecuzione coattiva.

Principale causa di inespellibilità è, tranne talune eccezioni, la presentazione della domanda di protezione internazionale ma – come chiarito da Sez. 1, n. 02458/2021, Oliva, Rv. 660383-01 – lo straniero che abbia presentato domanda di asilo al solo scopo di eludere o ritardare l’esecuzione del provvedimento di espulsione è soggetto a trattenimento, ai sensi del combinato disposto degli artt. 6, comma 6, del d.lgs. 18 agosto 2015 n. 214 e 28-bis del d.lgs. n. 25 del 2008 (nel testo introdotto dall’art. 25, comma 1, lett. v, del d.lgs. 18 agosto 2015 n. 142, applicabile ratione temporis), per un periodo massimo corrispondente al termine entro il quale la domanda di protezione internazionale deve essere esaminata.

Sotto il profilo sostanziale, la disciplina europea e nazionale sancisce in via generale il diritto dei richiedenti la protezione internazionale a rimanere nello Stato membro, sia durante il periodo dell’esame amministrativo della loro domanda di protezione (art. 9 della direttiva 2013/32/CE e art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 25 del 2008), sia durante il periodo di attesa della definizione della fase giurisdizionale (v. artt. 9 e 46 direttiva 2013/32/UE e 35-bis, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, quest’ultimo articolo aggiunto dal d.l. 17 febbraio 2017 n. 13 – conv. con modif. dalla l. 13 aprile 2017 n. 46 e poi modificato dal d.l. 4 ottobre 2018 n. 113, convertito con modificazioni dalla l. 1 dicembre 2018 n. 132).

L’art. 35 bis, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008 stabilisce che la proposizione del ricorso avverso la decisione della Commissione Territoriale determina la sospensione automatica degli effetti del provvedimento impugnato, tranne che in alcuni casi tassativamente indicati alle lett. a), b), c), d) del medesimo comma (quando il ricorrente sia trattenuto in un centro di permanenza per i rimpatri, quando vi sia un provvedimento di inammissibilità della domanda, o quando la domanda sia manifestamente infondata, quando la domanda sia stata presentata dopo che il ricorrente sia stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i controlli alla frontiera, ovvero fermato in condizioni di soggiorno illegale, al solo scopo di impedire l’adozione o l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento). Da ultimo Sez. 6-1, n. 33039/2021, Falabella, Rv. 663306-01, dal disposto del comma 3 cit. ha tratto il divieto per l’autorità prefettizia di disporre l’espulsione dello straniero prima ancora che il termine per impugnare il provvedimento di revoca della Commissione nazionale sia decorso. Ciò in considerazione dell’identità di questa situazione con quella di colui che abbia proposto una domanda di protezione internazionale che la Commissione territoriale abbia respinto, ipotesi in cui – come già affermato da Sez. 1, n. 32958/2019, Oliva, Rv. 656480-01) – il richiedente non ha l’obbligo di lasciare il territorio nazionale anche in assenza di un provvedimento di sospensione dell’efficacia della pronuncia.

L’art. 3, comma 2, lett. c), del d.l. n. 113 del 2018, ha poi specificato che la lett. a) riguarda l’ipotesi in cui il ricorso sia proposto da parte di un soggetto “nei cui confronti è stato adottato un provvedimento di trattenimento nelle strutture di cui all’art. 10 ter del d.lgs. n. 286 del 1998”. In tali casi la sospensiva può tuttavia essere accordata a richiesta del ricorrente in presenza di gravi e circostanziate ragioni, con decreto motivato da assumersi inaudita altera parte entro cinque giorni dal deposito della richiesta.

Ai sensi dell’art. 35-bis, comma 5, del d.lgs. n. 25 del 2008 (nel testo introdotto dal d.l. n. 13 del 2017), non è mai sospesa l’efficacia esecutiva del provvedimento della Commissione Territoriale nei casi in cui questa dichiari, per la seconda volta, inammissibile la domanda reiterata senza addurre elementi nuovi. L’art. 9 del d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. n. 132 del 2018, ha poi modificato tale comma, precludendo la sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento della Commissione Territoriale anche nell’ipotesi in cui l’inammissibilità sia dichiarata per la prima volta, modificando l’articolo nel modo che segue: “la proposizione del ricorso o dell’istanza cautelare, ai sensi del comma 4 non sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento che dichiara inammissibile la domanda di riconoscimento della protezione internazionale ai sensi dell’art. 29, comma 1, lett. b), nonché del provvedimento adottato ai sensi dell’art. 32, comma 1-bis. Quando, nel corso del procedimento giurisdizionale regolato dal presente articolo, sopravvengono i casi e le condizioni di cui all’art. 32, comma 1-bis, cessano gli effetti di sospensione del provvedimento impugnato già prodotti a norma del comma 3”.

Infine, in applicazione dell’art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, come riformulato con il d.l. n. 13 del 2017, nel caso in cui sia stata disposta o sia intervenuta in via automatica la sospensione del provvedimento impugnato, questa viene meno se “con decreto anche non definitivo, il ricorso è rigettato”. Sez. 6-1, n. 20213/2021, Scalia, Rv. 661903-01, ha ritenuto legittimo il decreto di espulsione emesso nella pendenza del ricorso proposto dallo straniero avverso il decreto di rigetto della domanda di protezione internazionale in data successiva all’entrata in vigore dell’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, dovendo in tal caso trovare applicazione non già l’art. 19, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 ma proprio il suddetto comma 13 dell’art. 35-bis cit., il quale prevede che la sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento di diniego, sancita dal precedente comma 3 per il caso d’impugnazione, viene meno allorquando quest’ultima sia rigettata con decreto anche non definitivo, a meno che, sussistendo fondati motivi, il giudice che ha pronunciato il decreto impugnato non disponga la sospensione dei relativi effetti, con il conseguente ripristino della sospensione dell'efficacia esecutiva della decisione della Commissione.

Si deve peraltro tenere presente che Sez. 1, n. 32319/2018, Lamorgese, Rv. 651902-01, ha risposto alle censure di costituzionalità di tale disposizione per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., dichiarandole manifestamente infondate.

Tanto premesso, la proposizione della domanda di protezione internazionale legittima lo straniero richiedente a permanere nel territorio dello Stato sino alla decisione della Commissione Territoriale sulla stessa, quale unico soggetto deputato a verificarne le condizioni di ammissibilità e fondatezza, con la sola salvezza delle ipotesi di cui all’art. 7, comma 2, del d.lgs. n. 25 del 2008; ne consegue che l’autorità di pubblica sicurezza avanti alla quale lo straniero si presenti per proporre la domanda non è autorizzata a valutarla nel merito ed in ipotesi di delibazione di infondatezza ad attivare il procedimento di espulsione del cittadino straniero (così Sez- 6-1, n. 11309/2019, Terrusi, Rv. 654197-01).

Con riguardo ai rapporti tra espulsione e protezione internazionale ed alle cause di inespellibilità, Sez. 1, n. 17657/2021, Amatore, Rv. 661918-01, esclude che la convivenza more uxorio con una cittadina italiana, anche se la coppia attende un bambino, possa rilevare quale causa di inespellibilità dello straniero, neppure nel giudizio di legittimità della proroga del trattenimento volto all’esecuzione dell’espulsione, perché la convivenza more uxorio dello straniero non rientra tra le ipotesi tassative di divieto di espulsione di cui all’art. 19 d.lgs. n. 286 del 1998, le quali non sono suscettibili di interpretazione analogica o estensiva.

7.2. Il trattenimento dello straniero e le misure alternative.

Sia nel caso dell’espulsione che nel caso respingimento “differito”, il questore può disporre il trattenimento dello straniero in un centro di identificazione ed espulsione (CIE, ora CPR) ai sensi dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998.

In base all’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, lo straniero attinto da decreto prefettizio di espulsione - non eseguito - che sia in possesso di passaporto o di altro documento equipollente in corso di validità, anziché essere trattenuto, può essere destinatario di una o più delle seguenti misure adottate dal questore con provvedimento motivato comunicato entro quarantotto ore dalla notifica al giudice di pace competente per territorio il quale, se ne ricorrono i presupposti, le convalida nelle successive quarantotto ore:

a) consegna del passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, da restituire al momento della partenza;

b) obbligo di dimora in un luogo preventivamente individuato, dove possa essere agevolmente rintracciato;

c) obbligo di presentazione, in giorni ed orari stabiliti, presso un ufficio della forza pubblica territorialmente competente.

Dette misure postulano una condizione del migrante in procinto di essere rimpatriato, tale da consentire il reiterato controllo previsto (anche in termini di possibile protezione), e sostituiscono quella, ben più afflittiva, del trattenimento, con carattere alternativo rispetto al possibile rimpatrio volontario, per il quale il termine previsto (da 7 a 30 giorni) può essere prorogato soltanto per esigenze dello stesso migrante.

Competente a pronunciarsi sulla convalida del provvedimento del questore di applicazione delle misure alternative presso il CPR è il giudice di pace (per effetto del d.l. n. 241 del 2004, conv., con modif., dalla l. n. 271 del 2004), anche con riferimento all’eventuale richiesta di proroga del trattenimento medesimo.

Il procedimento di convalida del trattenimento o delle misure ad essa alternative è analogo a quello della convalida dell’accompagnamento alla frontiera ed è disciplinato dall’art. 14, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 286 del 1998, che fa applicazione dell’art. 13 Cost., con previsione del termine di quarantotto ore dalla richiesta del questore per l’emissione del decreto di convalida del trattenimento, previsto a pena di inefficacia. Tale procedura, come statuito da Corte cost. n. 280 del 2019, non contrasta con gli artt. 13 e 24 Cost., trovando applicazione l’art. 3, commi 3 e 4, del d.P.R. 31 agosto 1999 n. 394, in ordine alla traduzione del provvedimento del questore in lingua nota all’interessato, o in una delle lingue veicolari, ed all’avviso della possibilità di beneficiare dell’assistenza del difensore d’ufficio e del patrocinio a spese dello Stato, accompagnato dalla comunicazione, da parte delle questure, con modalità effettivamente compatibili per l’interessato, dei recapiti dei difensori d’ufficio ai quali in concreto rivolgersi ove si intenda esercitare il diritto a presentare memorie o deduzioni al giudice di pace. Il procedimento cartolare in esame è compatibile, altresì, con i principi di cui agli artt. 41 e 48 CEDU atteso che è applicabile, con le suddette garanzie, ad una fase meramente esecutiva del provvedimento di espulsione e, pertanto, è adottato, in termini meno afflittivi del trattenimento, senza alcuna preclusione del principio del contraddittorio.

Nel giudizio di convalida delle misure alternative al trattenimento, l’omessa comunicazione della data dell’udienza al difensore di fiducia - nominato successivamente alla fissazione dell’udienza e dopo che sia già stato nominato ed avvisato di tale data un difensore d’ufficio - non lede il diritto di difesa dello straniero, poiché l’art. 14, comma 4 del d.lgs. n. 286 del 1998 là dove prevede che “l’udienza di convalida si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria di un difensore tempestivamente avvertito”, è da intendersi riferito alla necessità che dell’incombente si dia notizia ad un difensore comunque nominato, mentre l’onere di avviso a quello di fiducia sorge solo quando la nomina di quest’ultimo, con atto portato a conoscenza dell’autorità giudiziaria, preceda la fissazione dell’udienza di convalida (così Sez. 1, n. 02924/2021, Scalia, Rv. 660562-01).

In sede di convalida del decreto del questore di trattenimento dello straniero presso il CPR ai fini dell’esecuzione del provvedimento di espulsione, secondo Sez. 1, n. 09445/2021, Tricomi L., Rv. 661176-01, la mera presentazione da parte dello straniero della richiesta di coesione familiare, ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998, non può impedire la convalida della misura del trattenimento in questione, né è idonea a sospenderne l’efficacia trattandosi di effetto che resta riconnesso al rilascio della menzionata autorizzazione.

Significativamente Sez. 1, n. 24721/2021, Fidanzia, Rv. 662478-01, reputa sempre consentita la domanda di riesame del provvedimento di convalida (o di proroga: v. postea) del trattenimento dello straniero presso un CPR, in conformità all’art. 15, par. 4, direttiva 2008/115/CE (direttamente applicabile nel nostro ordinamento, quale disposizione self-executing), senza che abbia rilievo il precedente rigetto di analoga istanza o la mancata impugnazione del provvedimento di convalida o di proroga, non sussistendo in materia il limite del ne bis in idem, poiché le misure in questione hanno natura cautelare e il sindacato giurisdizionale su di esse non è idoneo alla formazione del giudicato, tant’è che le relative statuizioni sono ricorribili per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., non per la natura decisoria delle stesse ma perché si tratta di atti che incidono sulla libertà personale. Sull’istanza di riesame del trattenimento o della sua proroga – che lo straniero, in mancanza di apposita disciplina nazionale, ha diritto di introdurre nelle forme del rito camerale ex art. 737 c.p.c. in ogni tempo, ai sensi dell’art. 15 della cit. direttiva n. 2008/115/CE, norma self-executing, con le garanzie del diritto di difesa e del contraddittorio previste dalla Costituzione e dalla normativa sovranazionale – il giudice di pace può decidere senza fissare l’udienza di comparizione delle parti, solo ove, con provvedimento adeguatamente motivato, dia atto della superfluità dell’incombente, alla luce dell’istruttoria già compiuta, e conceda alle parti un termine per il deposito di memorie scritte, onde consentire alle stesse la piena esplicazione del contraddittorio (così Sez. 1, n. 02459/2021, Oliva, Rv. 660384-01).

Sempre facendo leva sull’art. 15 della direttiva n. 2008/115/CE, Sez. 1, n. 02457/2021, Oliva, Rv. 660373-01, ha affermato che la tempestività della richiesta di proroga del trattenimento dello straniero, a suo tempo convalidato in attesa dell’esame della sua domanda di protezione internazionale deve essere valutata, a prescindere dalla scadenza del periodo di trattenimento inizialmente convalidato o prorogato, tenendo conto della durata massima per essi consentita dalla legge, reputando tale verifica non preclusa dalla mancata impugnazione della convalida o della proroga, o dal rigetto dell’eventuale impugnazione, poiché, in virtù della suddetta direttiva self-executing, deve sempre essere assicurato il diritto al riesame del provvedimento di trattenimento o della sua proroga.

In tema di proroga del trattenimento del cittadino straniero presso un CPR, la modifica dell’art. 14, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, operata dalla l. 30 ottobre 2014 n. 161, ha introdotto una disciplina più rigorosa per la concessione della seconda proroga e di quelle successive, in modo tale da garantire una più stretta osservanza dell’art. 13 Cost., essendo necessario accertare – come ha precisato da ultimo Sez. 1, n. 25875/2021, Fidanzia, Rv. 662481-01 – l’esistenza di elementi concreti che consentano di ritenere probabile l'identificazione dello straniero o la necessità di mantenere il trattenimento per organizzare le operazioni di rimpatrio (nella specie, la S.C. ha cassato il decreto del giudice di pace che aveva concesso la seconda proroga in base alla sola dimostrazione che l’Amministrazione non era rimasta inerte nel tentativo di acquisire la documentazione occorrente per l’espulsione).

Secondo Sez. 1, n. 13741/2020, Rubino, Rv. 658255-01, non può essere disposta la proroga del trattenimento di un cittadino straniero presso un CIE quando il provvedimento espulsivo che ne costituisce il presupposto sia stato, ancorché indebitamente, sospeso, dal momento che il sindacato giurisdizionale, pur non potendo avere ad oggetto la validità dell’espulsione amministrativa, deve ricollegarsi alla verifica dell’esistenza ed efficacia della predetta misura coercitiva.

Da ultimo, in costanza di pandemia da Covid-19, Sez. 1, n. 18319/2021, Scalia, Rv. 661815-01, ha precisato che il giudice investito ai sensi dell’art. 14, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 della richiesta del questore di proroga del trattenimento finalizzato all’identificazione dello straniero da espellere o all’organizzazione del viaggio di rimpatrio è chiamato a valutare l’esistenza del rischio pandemico non in quanto direttamente lesivo del diritto alla salute dello straniero trattenuto ma in quanto evento che nella sua obiettività si frapponga alle operazioni di identificazione dello straniero o di organizzazione del viaggio di rimpatrio, giustificando, o meno la concessione della proroga al trattenimento (nella specie, la S.C. ha confermato il provvedimento del giudice di pace, che aveva concesso la proroga di sei giorni, sui trenta richiesti dalla questura, per scrutinare l’eventuale incidenza del rischio pandemico sull’organizzazione del viaggio di rimpatrio, in relazione alla necessità di verificare la sospensione dei voli da e per il Marocco).

Sulla legittimità dell’ordinanza pronunciata fuori udienza che, decidendo sulla proroga del trattenimento dello straniero, venga comunicata al suo difensore oltre il termine di tre giorni previsto dall’art. 176, comma 2, c.p.c., va menzionata Sez. 1, n. 14061/2021, Caprioli, Rv. 661396-01, secondo la quale il suddetto termine non è perentorio, mancando un’espressa previsione di legge in tal senso.

8. La tutela dell’unità familiare e dei minori: premessa.

Nel corso del 2021 la giurisprudenza della S.C., muovendosi lungo le linee direttrici tracciate nell’anno precedente, ha approfondito nei suoi vari aspetti la tematica della tutela dei legami familiari e dei minori sempre più nell’ottica della ricerca della ratio delle singole norme e della coerenza del sistema alla luce del principio di cui all’art. 8 CEDU secondo cui la vita familiare va intesa come diritto di vivere insieme affinché i relativi rapporti possano svilupparsi normalmente ed i membri della famiglia possano godere della reciproca compagnia.

8.1. Il ricongiungimento familiare.

Oltre a ricondursi nell’alveo delle norme costituzionali a tutela dell’unità familiare (artt. 29, 30, 31 Cost.), tale istituto è altresì positivamente consacrato in taluni accordi internazionali e può essere, inoltre, desunto dall’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali a tutela del rispetto della vita privata e familiare di ogni persona di cui rappresenta una delle principali estrinsecazioni. Benché tali fonti sembrino collocare l’istituto del ricongiungimento familiare entro l’area dei diritti fondamentali dell’uomo, come tali inviolabili e meritevoli di una tutela assoluta, nondimeno nella giurisprudenza della Corte costituzionale, così come in quella della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti dell’uomo, non è dato rinvenire un diritto all’unità familiare pieno e incondizionato, bensì una pretesa del singolo da bilanciare di volta in volta con il corrispondente interesse dello Stato ospitante a controllare i flussi migratori in entrata. Ciò in quanto l’ingresso dello straniero nel territorio nazionale coinvolge svariati interessi pubblici (sicurezza, ordine pubblico, sanità) la cui ponderazione spetta in primo luogo al legislatore interno, limitato soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli.

La giurisprudenza di legittimità oltre ad assicurare tutela ai legami familiari ha del pari verificato che gli istituti a tal fine previsti non siano strumentalmente utilizzati dando così luogo ad abusi.

In tale ottica si colloca Sez. 1, n. 06747/2021, Acierno, Rv. 660889-01, che pronunciandosi nel caso di rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari al cittadino extracomunitario coniuge di cittadino italiano, disciplinato dal d.lgs. 6 febbraio 2007 n. 30, ha statuito che, se pure tale autorizzazione non presuppone la convivenza effettiva dei coniugi e neppure il pregresso regolare soggiorno del richiedente, tuttavia, ai sensi dell'art. 30, comma 1 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, deve essere negato ove il matrimonio risulti fittizio o di convenienza. A tal riguardo la pronuncia menziona le "linee guida" elaborate dalla Commissione europea, contenenti una serie di criteri valutativi che inducono ad escludere l'abuso dei diritti comunitari, ed il "manuale" redatto dalla stessa Commissione, recante, invece, l'indicazione degli elementi che fanno presumere tale abuso. Sulla base dei principi enucleati, la S.C. ha respinto il ricorso contro la decisione, che aveva ritenuto legittimo il diniego del permesso di soggiorno risultando il matrimonio contratto subito dopo il provvedimento di espulsione di uno dei coniugi, conosciutisi appena tre giorni prima, in assenza della prova della consumazione o della successiva convivenza, ma con la dimostrazione del pagamento di un compenso in favore del consorte italiano.

Sul tema specifico del ricongiungimento familiare, con Sez. 1, n. 20127/2021, Di Florio, Rv. 661981-01 la Corte, in conformità alla consolidata giurisprudenza di legittimità, ha chiarito che in tema di disciplina dell'immigrazione, il procedimento di riconoscimento del diritto al ricongiungimento del familiare dello straniero, regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, ha natura complessa a formazione progressiva sicché successivamente al nulla osta dello Sportello Unico della Prefettura, l'accertamento dell'Autorità consolare sulla ricorrenza dei presupposti per la concessione del visto d'ingresso al familiare che vive nel paese di origine deve essere compiuto alla stregua dei parametri normativi vigenti all'esito dell'iter procedimentale i quali devono essere rinvenuti negli artt. 29 bis del d.lgs. n. 286 del 1998 in combinato disposto con l'art. 29 comma 1 lett. d) del d.lgs. cit. (nella formulazione ratione temporis vigente).

Con Sez. 1, n. 20127/2021, Di Florio, Rv. 661981-02, la Corte, alla luce dell’art. 8 CEDU e dei principi contenuti nella Direttiva 2003/86/CE, postula che l'art. 29 lett. d) del d.lgs. n. 286 del 1998 in combinato disposto con l'art. 29 bis, comma 1 , del d.lgs. cit. venga interpretato nel senso che, dove la norma prevede che egli possa richiedere il ricongiungimento di "genitori a carico, qualora non abbiano altri figli nel paese di origine o di provenienza", debba intendersi nel senso che tali figli con loro conviventi siano in grado di provvedere al loro sostentamento economico, prevalendo, in mancanza di essi, ed in presenza della condizione di essere a carico del figlio rifugiato, il principio generale del diritto al ricongiungimento familiare.

Tale interpretazione, peraltro, si pone alla base dell’esegesi dell’art. 29, lett. d) del d.lgs. n. 286 del 1998, introdotta dal d.lgs. 3 ottobre 2008 n. 160 a modificazione di quella contenuta nel precedente d.lgs. 8 gennaio 2007 n. 5, e non può essere formulata in termini restrittivi ma soltanto specificativi, dovendo comunque garantire la possibilità di ottenere, per gli ascendenti dello straniero al quale è stato riconosciuto "lo status di rifugiato", un visto di ingresso per il ricongiungimento al figlio in tutti i casi in cui i genitori non abbiano la possibilità di sostentamento nel paese di origine per mancanza di mezzi propri o forniti da altri eventuali familiari ivi presenti, a prescindere dall'età del genitore.

La pronuncia sottolinea altresì (Rv. 661981-03) che in tali procedimenti è compito del giudice di merito accertare sulla base delle allegazioni e delle prove fornite dal richiedente la ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento del diritto con particolare riferimento all’assenza di pericolosità dell’ascendente ed alla condizione di “essere a carico” del rifugiato in termini di necessario sostentamento continuativo e rendere una motivazione congrua e logica anche in relazione al diverso potere d’acquisto delle provvidenze a tale scopo erogate.

In ordine alla valutazione della pericolosità sociale del richiedente, Sez. 2, n. 30342/2021, Manna F., Rv. 662707-01, in un caso in cui il diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare del coniuge, si fondava sulle condanne penali in cui quest'ultimo era incorso, ha precisato che alla luce delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2007 agli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5 (al quale è stato anche aggiunto il comma 5-bis), del d.lgs. n. 286 del 1998, la sussistenza di ragioni ostative al rilascio del nulla osta al ricongiungimento, per effetto della pericolosità sociale del richiedente, implica la formulazione di un giudizio in concreto, tale da indurre a concludere che lo straniero rappresenti una minaccia concreta ed attuale per l'ordine pubblico e la sicurezza, sì da rendere recessiva la valutazione degli ulteriori elementi contenuti nell'art. 5, comma 5, cit., quali la natura e la durata dei vincoli familiari, l'esistenza di legami familiari e sociali con il paese di origine e, per lo straniero già presente nel territorio nazionale, la durata del permesso di soggiorno pregresso. Ha altresì aggiunto che, al fine di non incorrere nel vizio di motivazione, è onere dell'autorità amministrativa, prima, e di quella giurisdizionale, poi, esplicitare, in base ai richiamati parametri normativi ed agli elementi di fatto aggiornati all'epoca della decisione ovvero a presunzioni fondate su circostanze concrete ed attuali, le ragioni di tale pericolosità, rispetto alle quali il richiamo a precedenti penali del richiedente, se risalenti nel tempo, può avvenire solo come elemento di sostegno indiretto, quale indicatore della personalità dello stesso.

Con riguardo ai requisiti richiesti per il rilascio del visto, Sez. 1, n. 28200/2021, Solaini, Rv. 662854-01, ha ritenuto altresì che nel caso di soggetto beneficiario di protezione internazionale (nella specie, sussidiaria) la rappresentanza diplomatica, in ragione della presunta inaffidabilità dei documenti rilasciati dall'autorità locale, ai sensi e per gli effetti dell'art. 29 bis, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, deve effettuare le verifiche ritenute necessarie, anche se a spese degli interessati, ovvero consentire il ricorso ad altri mezzi atti a provare le circostanze ritenute necessarie che non attengono solo all'esistenza del vincolo familiare ma sono riferibili anche ad altri elementi che qualificano il vincolo, come la vivenza a carico ovvero l'assenza di altri figli in patria.

In merito ai requisiti reddituali, Sez. 1, n. 28184/2021, Caiazzo, Rv. 662853-01, ha chiarito che il sistema normativo in tema di ricongiungimento familiare degli stranieri deve collegarsi sistematicamente alla normativa vigente in tema di obblighi alimentari tra coniugi e tra genitori e figli, in particolare se conviventi. Ne consegue che ai sensi dell'art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, devono essere computati i redditi dei soli familiari conviventi che siano tenuti per legge alla corresponsione degli alimenti, rimanendo esclusi dal calcolo i redditi percepiti dagli affini che, pur se compresi nel nucleo familiare, non sono a ciò obbligati.Con riguardo ai requisiti reddituali, Sez. 1, n. 

Sez. L, n. 24488/2021, Pagetta, Rv. 662263-01 ha precisato che in virtù della disciplina di cui agli artt. 29, comma 1, lett. d), e 29-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, il ricongiungimento del genitore, richiesto dallo straniero al quale sia stato riconosciuto lo "status" di rifugiato politico, postula il requisito della "vivenza a carico", che si riscontra quando il primo non sia in grado di provvedere alle proprie necessità essenziali nel Paese d'origine, e risulti accertato che il necessario sostegno materiale gli sia effettivamente fornito dal figlio soggiornante sul territorio italiano, quale persona che, sulla base delle complessive circostanze del caso concreto, si riveli essere il familiare più idoneo allo scopo.

8.2. Espulsione e legami familiari.

La giurisprudenza della S.C. ha affrontato nel corso dell’anno anche il tema del rapporto tra provvedimento espulsivo e tutela dei legami familiari.

Sez. 1, n. 25754/2021, Fidanzia, Rv. 662484-01, pronunciandosi con riguardo all’opposizione ad un decreto di espulsione emesso dal Prefetto a norma dell'art. 14 comma 5 ter del d.lgs. n. 286 del 1998, successivamente alla violazione da parte del cittadino straniero di un precedente ordine di allontanamento del questore a norma dell'art. 13 comma 5 bis, in virtù del richiamo da parte dell'art. 13 comma 5 ter alle sole previsioni dei commi 4 e 5 dell'art. 13 d.lgs. cit., ha statuito che l'adozione del provvedimento espulsivo non impone alcuna valutazione né della pericolosità dello straniero, né dei legami familiari (criteri previsti rispettivamente dall'art. 13 comma 2 lett c) e comma 2 bis).

Sez. 1, n. 09445/2021, Tricomi L., Rv. 661176-01 pronunciandosi in un caso di mancata convalida del decreto di trattenimento presso il C.P.R. di un cittadino straniero per la presenza della figlia minore in Italia per consentirgli di “coltivare la genitorialità”, ponendosi nel solco della precedente giurisprudenza (Sez. 6-1, n. 05080/2013, Acierno, Rv. 625366-01; Sez. 6-1, n. 19334/2015, De Chiara, Rv. 637213-01), ha precisato che la pendenza, sopravvenuta al provvedimento espulsivo, del giudizio sulla richiesta della misura temporanea di coesione familiare, ai sensi dell'art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998, è inidonea a giustificare la caducazione del provvedimento espulsivo stesso e che, conseguentemente, non può impedire la convalida del decreto del questore di accompagnamento alla frontiera e dunque anche dell'analogo decreto di trattenimento.

8.3. L’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare del minore.

L’art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 prevede una duplice possibilità di autorizzazione temporanea, all’ingresso ed alla permanenza del familiare sul territorio nazionale in deroga alle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione, e nel concorso di gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, tenuto conto della sua età e delle sue condizioni di salute.

Detta disposizione svolge la funzione di norma di chiusura del sistema di tutela dei minori stranieri, fondato in via ordinaria sull’istituto del ricongiungimento familiare, ed apportando una eccezione alla disciplina sull’ingresso e sul soggiorno dello straniero quando ricorrano le condizioni per salvaguardarne il “preminente interesse” del minore in situazioni nelle quali l’allontanamento suo o di un suo familiare potrebbe pregiudicarne gravemente l’integrità fisio-psichica. La norma de qua completa ed esaurisce il bilanciamento necessario ed equilibrato tra il rispetto alla vita familiare del minore, che i pubblici poteri sono tenuti a proteggere e promuovere, e l’interesse pubblico generale alla sicurezza del territorio e del controllo delle frontiere.

Ai fini del rilascio di tale autorizzazione la giurisprudenza ormai consolidata della Corte richiede una valutazione prognostica circa la ricorrenza per il minore di un danno effettivo, concreto, percepibile ed obiettivamente grave con la precisazione che deve trattarsi di situazioni di non lunga ed indeterminabile durata e non caratterizzate da tendenziale stabilità che si concretino in eventi traumatici e non prevedibili non rientranti nel normale disagio dovuto al rimpatrio di un familiare.

Nel corso di quest’anno Sez. 1, n. 10849/2021, Acierno, Rv. 661153-01, ha puntualizzato che il giudizio di bilanciamento tra l'interesse del minore e quello di rilievo pubblicistico alla sicurezza nazionale può essere effettuato solo una volta che sia stata valutata la situazione attuale del minore, verificando se sussista il pericolo di un suo grave disagio psico-fisico derivante dal rimpatrio suo o del familiare, potendosi denegare l'autorizzazione solo nel caso in cui l'interesse del minore, pur prioritario nella considerazione della norma, sia nel caso concreto recessivo, non avendo esso carattere assoluto come chiarito dalla CEDU nell'interpretazione dell'art. 8 della Convenzione.

Nel caso esaminato, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva rigettato l'autorizzazione, motivandola con considerazioni generali relative alla sicurezza pubblica e alle politiche migratorie, estrinseche rispetto alla valutazione del pregiudizio che il minore avrebbe potuto subire a seguito del rimpatrio proprio o dei genitori, limitandosi a negare l'esistenza di siffatto pregiudizio perché il nucleo familiare sarebbe comunque rimasto unito.

La medesima pronuncia (Rv. 661153-02) ha chiarito inoltre che il rilascio di detta speciale autorizzazione non esclude la possibilità di una nuova autorizzazione, poiché l'elemento temporale non è condizione per il riconoscimento del diritto, ma indica esclusivamente una caratteristica legata alla durata del permesso in relazione alle singole richieste, ove sulla valutazione del prioritario interesse del minore sia compiuto in termini favorevoli un giudizio prognostico all'attualità.

Con riguardo alla ricorrenza dei presupposti per il rilascio, Sez. 1, n. 18604/2021, Caradonna, Rv. 661818-01, ha sottolineato che la valutazione prognostica della sussistenza dei "gravi motivi" connessi con lo sviluppo psicofisico del minore non può essere basata esclusivamente sulla valutazione di circostanze riguardanti il richiedente, dovendo, invece, tali elementi essere necessariamente bilanciati con la prognosi sugli effetti derivanti dall'allontanamento del genitore. Nel caso sottoposto al suo esame in particolare, la S.C. ha accolto il ricorso proposto dal padre di quattro minori avverso il provvedimento di rigetto della domanda di rilascio del permesso di soggiorno ex art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998, poiché era stata valutata soltanto la sua situazione, avuto riguardo alle condanne subite per alcuni reati ed alla possibilità di una sua futura detenzione, senza avere bilanciato il ritenuto pericolo per l'ordine pubblico con la valutazione circa gli effetti che il suo allontanamento avrebbe avuto sui figli, nati in Italia e qui sempre vissuti con entrambi i genitori.

Nel solco interpretativo di Sez. 2, n. 18188/2020, Oliva, Rv. 659093-01 si inscrive Sez. 2, n. 19797/2021, Manna F., Rv. 661699-01 secondo cui la vulnerabilità di minori nati in Italia ed integrati nel tessuto socio-territoriale e nei percorsi scolastici, deve essere presunta, in applicazione dei criteri di rilevanza decrescente dell’età, per i minori in età prescolare, e di rilevanza crescente del grado di integrazione, per i minori in età scolare. Ne consegue che la condizione di vulnerabilità di tali minori deve essere ritenuta prevalente, sino a prova contraria, rispetto alle norme regolanti il diritto di ingresso e soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale, dovendosi dare primario rilievo al danno che deriverebbe loro per effetto del rimpatrio in un contesto socio-territoriale con il quale il minore stesso non abbia alcun concreto rapporto.

In punto di prova del pregiudizio, Sez. 2, n. 24039/2021, Oliva, Rv. 662170-01 ha precisato che l’autorizzazione ai sensi dell'art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, è subordinata alla puntuale allegazione e dimostrazione della sussistenza dei gravi motivi per lo sviluppo psico-fisico del minore richiesti dalla norma soltanto quando la famiglia non sia ancora presente nel territorio nazionale, mentre nella diversa ipotesi in cui il nucleo familiare sia già presente opera la presunzione di radicamento del minore nel suo ambiente nativo, salvo prova contraria. In quest'ultimo caso, i gravi motivi idonei a giustificare l'autorizzazione temporanea possono perciò essere collegati all'alterazione di tale ambiente conseguente alla perdita della vicinanza con la figura genitoriale ovvero al repentino trasferimento in un altro contesto territoriale e sociale. Nella specie, la S.C. ha cassato il decreto impugnato, che aveva negato l'autorizzazione alla permanenza dei genitori in Italia senza valutare le conseguenze negative che potevano derivare alla prole in caso di rimpatrio insieme ai genitori, non avendo tenuto conto che la vulnerabilità del minore è oggetto di presunzione tanto con riferimento al minore in età prescolare, quanto con riguardo al minore radicato in Italia.

Sez. L, n. 38661/2021, Patti, Rv. 663192-01 ha posto l’accento quali presupposti essenziali per l'applicazione dell'art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998 sul fatto che il minore si trovi in Italia e che sia integrato nel tessuto socio-territoriale e nei percorsi scolastici. Alla luce di tali parametri nel caso sottoposto al suo esame, la S.C. ha negato ricorressero detti presupposti nell'ipotesi di richiesta formulata dai genitori, appena giunti in Italia dall'Albania insieme con il minore per la prima volta dopo la sua nascita, per una ragione estranea al suo specifico interesse, ovvero il miglioramento delle proprie condizioni di vita.

Con riguardo a profili processuali, Sez. 6-1, n. 20301/2021, Scotti, Rv. 661905-01 ha stabilito che il relativo procedimento non è soggetto al rinvio d'ufficio di tutte le udienze disposto dall'art. 1, comma 1, del d.l. n. 11 del 2020 e dall'art. 83, comma 1, del d.l. n. 18 del 2020, conv. con modif. dalla l. n. 27 del 2020, trattandosi di giudizio sottratto al differimento ai sensi dell'art. 2, comma 2, lett. g), n. 1), del d.l. n. 11 del 2020 e dell'art. 83, comma 3, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020, in quanto rientrante tra le cause di competenza del tribunale per i minorenni relative a "situazioni di grave pregiudizio" per il minore.

PARTE SECONDA I DIRITTI A CONTENUTO ECONOMICO

  • proprietà pubblica
  • proprietà immobiliare
  • servitù
  • urbanizzazione

CAPITOLO IV

I DIRITTI REALI E IL POSSESSO

(di Gian Andrea Chiesi )

Sommario

1 Proprietà pubblica. - 1.2 Azioni a tutela della proprietà pubblica e della relativa destinazione. - 2 Le servitù pubbliche (o di uso pubblico) e gli usi civici. - 2.1 (Segue) Profili processuali relativi alla tutela degli usi civici. - 3 Conformità urbanistiche degli immobili e diritti privati. - 3.1 (Segue) Le distanze legali. - 4 Le azioni a tutela della proprietà: a) la rivendicazione. - 4.1 (Segue) b) la "negatoria servitutis". - 4.1.1 (Segue) Le immissioni. - 4.2 (Segue) c) le azioni di regolamento di confini e di apposizione di termini. - 5 Comunione di diritti reali. - 5.1 Comunione e tutela in sede giudiziaria. - 6 Servitù prediali. - 6.1 Profili processuali relativi alla costituzione delle servitù. - 7 Tutela ed effetti del possesso. - 7.1 Profili processuali relativi all'esercizio delle azioni possessorie e quasi-possessorie.

1. Proprietà pubblica.

L'art. 41, comma 1, Cost. chiarisce che la proprietà è privata o pubblica ed alla regolamentazione di quest'ultima sono altresì dedicate numerose previsioni del codice civile: in particolare, nel corso del 2021, la S.C. ha indugiato principalmente sui criteri che consentono di connotare del predicato di pubblicità alcune tipologie di beni, mediante la loro riconduzione al demanio lacustre e comunale.

Sotto il primo profilo - e, dunque, in tema d'individuazione dei terreni ricompresi nel demanio per la loro contiguità a laghi pubblici - Sez. U, n. 00253/2021, Lamorgese, Rv. 660142-01 (in conformità con il costante orientamento di legittimità, espresso per la prima volta da Sez. U, n. 11211/1998, Sabatini, Rv. 520459-01) rileva che, ove il proprietario di un suolo sito sull'alveo di un lago realizzi una darsena mediante escavazione del proprio suolo, facendo sì che l'acqua lacustre allaghi lo scavo, non è possibile scindere tra proprietà privata del suolo e proprietà demaniale dell'acqua e, così, ritenere che la darsena appartenga al privato, salvo il diritto della P.A. alla derivazione giacché, al contrario, posti i principi di inseparabilità tra acqua ed alveo e di inalienabilità dei beni del demanio pubblico, deve ritenersi che, per accessione alla cosa principale, il terreno, originariamente privato ma trasformato in darsena, sia divenuto anch'esso demaniale, senza che rilevi, in contrario, la mancanza di un'espressa volontà di acquisizione da parte della P.A., venendo in considerazione un rapporto pertinenziale che sorge in via di fatto in conseguenza dell'espansione dell'alveo.

Quanto, poi, alle strade comunali, Sez. 2, n. 28869/2021, Carrato, Rv. 662865-02, chiarisce che l'art. 22, comma 3, della l. 20 marzo 1865, n. 2248 All. F (disposizione non abrogata, neppure tacitamente, dall'art. 7, lett. b), della l. 12 febbraio 1958, n. 126), il quale include tra le strade comunali le piazze, gli spazi ed i vicoli ad esse adiacenti aperti sul suolo pubblico (ossia le aree che, per l'immediata accessibilità a dette strade, debbono considerarsi parte integrante, come pertinenze, del complesso viario del Comune), pone una presunzione "iuris tantum" di demanialità, la cui prova contraria è circoscritta all'esistenza di consuetudini (che escludano la demanialità per il tipo di aree di cui faccia parte quella considerata), o di convenzioni che attribuiscano la proprietà a soggetto diverso dal Comune, ovvero alla preesistente natura privata della proprietà dell'area in contestazione.

La connotazione in senso pubblicistico di un determinato bene pone, poi, il problema della sua occupazione da parte dei privati: affrontando la questione sotto il peculiare profilo del pagamento del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (COSAP) – che, osserva Sez. 2, n. 28869/2021, Carrato, Rv. 662865-03, unitamente al canone di occupazione di suolo pubblico (OSP), va corrisposto anche per le occupazioni eseguite su aree private soggette a servitù di pubblico passaggio - Sez. 1, n. 16395/2021, Tricomi L., Rv. 661585-01 osserva che detto canone costituisce il corrispettivo dell'utilizzazione particolare (o eccezionale) di beni pubblici e non richiede un formale atto di concessione, essendo sufficiente l'occupazione di fatto dei menzionati beni, sicché la società, concessionaria statale, che abbia realizzato e gestito un'opera pubblica, occupando di fatto spazi rientranti nel demanio comunale o provinciale, è tenuta al pagamento del canone, non assumendo rilievo il fatto che l'opera sia di proprietà statale, poiché la condotta occupativa è posta in essere dalla società nello svolgimento, in piena autonomia, della propria attività d'impresa (nella specie, la S.C. ha respinto il ricorso contro la decisione di merito, ritenendo obbligata al pagamento del COSAP la concessionaria autostradale che aveva realizzato e utilizzato dei "pontoni" sovrastanti tratti di strada provinciale).

1.2. Azioni a tutela della proprietà pubblica e della relativa destinazione.

Sul versante processuale, Sez. U, n. 31964/2021, Scarpa, Rv. 662653-01 chiarisce che spetta alla giurisdizione del giudice amministrativo la cognizione sulla controversia relativa all'accertamento della proprietà dei beni mobili strumentali all'erogazione del servizio pubblico reso da una concessionaria dei trasporti funiviari e funicolari, atteso che la questione attiene alla valutazione dei rapporti giuridici nascenti dalla concessione amministrativa e non all'adempimento di indennità, canoni e altri corrispettivi connessi ai rapporti privatistici tra concedente e concessionario.

2. Le servitù pubbliche (o di uso pubblico) e gli usi civici.

L'istituto della servitù trova pacificamente applicazione anche nel campo del diritto "pubblico", sebbene l'esatta identificazione del significato e la delimitazione del contenuto della locuzione "servitù pubbliche" appaiono ancora oggi tutt'altro che univoche, con precipuo riferimento (a) ai relativi elementi costitutivi, (b) all'eventuale autonomia concettuale rispetto all'omologo istituto disciplinato dal codice civile e (c) alle linee di demarcazione dalle fattispecie di cd. "limitazione amministrativa della proprietà". L'elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale è comunque giunta alla conclusione per cui le "servitù pubbliche" (o "servitù d'uso pubblico") possono essere qualificate in termini di vincoli “lato sensu” pubblicistici alla (condizione giuridica della) proprietà privata o pubblica, caratterizzati da un'intensa funzionalizzazione alla tutela di interessi pubblici o collettivi (cfr. anche l'art. 825 c.c.), immanente alle differenti matrici e giustificazioni teoriche della demanialità (o della immutabilità di destinazione propria del concetto di patrimonio indisponibile), nonché a situazioni di vantaggio su beni privati aventi caratteristiche oggettive assimilabili a quella dei beni pubblici riconosciute in favore di comunità di cittadini o utenti.

Si sofferma sulla nozione di servitù di uso pubblico Sez. 2, n. 28869/2021, Carrato, Rv. 662865-01, per la quale essa, quale diritto dal contenuto non predeterminato, ma funzionale al soddisfacimento di un'esigenza di carattere generale, diretta a realizzare un fine di pubblico interesse, consiste in un peso posto a carico di un bene immobile in favore, non già di altro bene immobile, bensì di soggetti, i quali si identificano in una collettività indistinta di persone, che ne beneficiano "uti cives".

Per ciò che concerne i relativi modi di costituzione, essi vengono comunemente ravvisati - non dissimilmente rispetto a quanto avviene relativamente alle servitù coattive di diritto privato - nella legge, negli atti amministrativi ablatori, nell'esistenza di una convenzione tra le parti, nell'usucapione e nella sentenza.

Così, rileva Sez. 2, n. 18011/2021, Cosentino, Rv. 661710-01, in mancanza di consenso del proprietario dell'immobile gravato, il potere di costituire, su fondi privati, una servitù di passaggio di fili e cavi funzionali agli impianti di reti di comunicazione elettronica è attribuito, dall'art. 92, comma 1, del d.lgs. 1° agosto 2003, n. 259, alla Pubblica Amministrazione, la quale procede mediante l'adozione di un provvedimento amministrativo di carattere ablatorio, ai sensi del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 e della l. 1 agosto 2002, n. 166, non trovando invece applicazione, quale conseguenza dell'assegnazione "ex lege" di siffatto potere all'autorità amministrativa, la disciplina dettata dagli artt. 1032 e ss. c.c. né, dunque, la possibilità che tale imposizione coattiva sia l'effetto di una pronuncia giudiziale.

Quanto, invece, all'imposizione della servitù di elettrodotto con sentenza del giudice, Sez. 2, n. 04839/2021, Carrato, Rv. 660459-01, evidenzia che il presupposto della preventiva autorizzazione all'impianto della linea da parte della competente autorità di cui all'art. 108 del r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, che costituisce una condizione dell'azione (sicché deve ritenersene sufficiente la sopravvenienza, purché prima della decisione), sussiste indipendentemente dal fatto che i termini fissati con l'autorizzazione stessa, in connessione con la dichiarazione di pubblica utilità dell'elettrodotto, siano scaduti, trattandosi di circostanza rilevante solo al diverso fine dell'improseguibilità del procedimento amministrativo d'imposizione della servitù medesima in via espropriativa.

L’imposizione di una servitù di uso pubblico per atto della pubblica amministrazione implica la corresponsione, in favore del titolare del fondo servente, della cd. indennità di asservimento, secondo la previsione generale oggi contenuta nell’art. 44 del d.P.R. n. 327 del 2001, quale approdo di una lunga evoluzione legislativa che trova il proprio “incipit” nella legge Pisanelli (cfr. gli artt. 45 e 36 della l. 25 giugno 1865, n. 2359).

Non dissimili rispetto alle servitù coattive di diritto privato sono, infine, le cause di estinzione: sicché ove la servitù pubblica sia stata costituita su base convenzionale, è anzitutto nel regolamento contrattuale che vanno ricercate le fonti di eventuali cause di cessazione della medesima (ad es.: fissazione di un termine); ove, al contrario, all'origine del vincolo reale vi sia un provvedimento amministrativo, l'eventuale sopravvenienza di ragioni d'interesse pubblico incompatibili con la permanenza del vincolo potrebbe costituire il presupposto per l'esercizio di poteri di autotutela amministrativa (come nel caso di revoca del provvedimento impositivo del vincolo).

Certamente diversi dalle servitù pubbliche sono gli usi civici, pur essendo innegabile, tuttavia, l’analogo effetto di assoggettamento che ne consegue, con efficacia “erga omnes”, a carico della proprietà (pubblica o) privata, in favore del soddisfacimento di un interesse della collettività indifferenziata degli abitanti di un territorio (chiara in tal senso Sez. 5, n. 02632/2020, Mondini, Rv. 656961-01).

In tale prospettiva Sez. 3, n. 29344/2021, Iannello, Rv. 662730-01 (ribadendo il principio recentemente affermato da Sez. 3, n. 11276/2020, Guizzi, Rv. 658154-01), rileva che la concessione in godimento a privati, mediante contratto di locazione, di terreni gravati da uso civico è valida, a condizione che la destinazione concreta impressa al bene sia conforme all'esercizio del predetto uso e la stessa sia temporanea e tale da non determinare l'alterazione della qualità originaria del bene; sicché, in mancanza di tali requisiti - l'onere di provare i quali grava sulla parte che intende far valere in giudizio diritti derivanti dal contratto - quest'ultimo è nullo per contrasto con norma imperativa.

Per quanto attiene alla relativa amministrazione, poi, Sez. 1, n. 10837/2021, Scalia, Rv. 661152-01, chiarisce che la connotazione pubblicistica dei patrimoni collettivi e dei diritti di uso civico non interferisce con la natura giuridica privata dei relativi enti esponenziali, tra i quali rientra l'A.S.B.U.C. (Amministrazioni Separate dei Beni di Uso Civico), la cui autorganizzazione resta improntata sul modello delle associazioni private: ne consegue che il rinvio operato dal reg. n. 52/R del 21 aprile 2015, attuativo della l.r. Toscana del 23 maggio 2014, n. 27 alle disposizioni contenute nel Testo Unico Enti Locali in materia di cause di ineleggibilità e incompatibilità per i consiglieri comunali, vale solo ad individuare la disciplina applicabile, non assumendo rilievo la natura regolamentare della fonte, né potendosi configurare una violazione della riserva di legge statale in materia di ineleggibilità e incompatibilità a cariche elettive.

2.1. (Segue) Profili processuali relativi alla tutela degli usi civici.

Come chiarito poc’anzi, i diritti di uso civico su beni privati (cd. in senso stretto) - la cui disciplina risulta essenzialmente condensata nella l. 16 giugno 1927, n. 1766 - comportano, per il proprietario, un vincolo ed un limite al pieno godimento del proprio bene, stante l'obbligo di consentire ai membri di una data comunità di fare proprie specifiche utilità.

Con riguardo alla dimostrazione dell'esistenza di usi civici su di un dato terreno, già Sez. 2, n. 26605/2016, Grasso, Rv. 642169-01 aveva osservato che la ricerca della prova della natura feudale di un territorio, onde applicare il principio "ubi feuda, ibi demania", non va intesa nello stesso senso della dimostrazione della proprietà, sottesa all'azione di revindica di diritto comune, dovendo essere svolta esclusivamente nel campo della prova documentale propria del diritto feudale; sicché, ove non possa farsi capo all'atto d'investitura e di concessione in feudo, la dimostrazione della natura feudale di un territorio, sul quale la popolazione abitante accampa diritti di uso civico, può ben desumersi da fonti equipollenti, inerenti al possesso del territorio in feudo, quali: i quinternioni o registri di iscrizione del feudo; i rilevi, che nella successione feudale tenevano luogo della relativa investitura; i cedolari del pagamento dell'adoa, che sostituiva l'obbligo di prestazione del servizio militare.

Specificando ulteriormente tale principio, Sez. 2, n. 24390/2021, Tedesco, Rv. 662161-01 rileva che, in forza del disposto dell'art. 2 della l. n. 1766 cit. e del principio "ubi feuda ibi demania", la prova dell'esistenza, natura ed estensione di usi esercitati anche posteriormente al 1800 può essere offerta con ogni mezzo istruttorio mentre, per quelli il cui esercizio sia cessato anteriormente al 1800, tale prova deve essere data esclusivamente mediante documenti propri del diritto feudale, che dimostrino non l'atto formale di investitura e di concessione del feudo, ma la natura ex feudale delle terre e l'esistenza di un feudo abitato, da ciò direttamente derivando la sussistenza degli usi originari, ossia di quelli necessari secondo i bisogni della popolazione e la natura delle terre, i quali costituiscono il giuridico attributo della feudalità di un determinato territorio abitato.

Peraltro, osserva Sez. U, n. 08564/2021, Falaschi, Rv. 660856-01, ogniqualvolta la valutazione o l'accertamento della natura ed estensione del diritto di uso civico - cioè, la "qualitas soli" - si pongono come antecedente logico-giuridico della decisione sussiste la giurisdizione del commissario per la liquidazione degli usi civici, con la conseguenza che, in caso di impugnazione di atto amministrativo, la giurisdizione spetta al g.a. soltanto se le questioni dedotte sono dirette a censurare l'“iter” procedimentale, antecedentemente rispetto ad ogni indagine sulla qualità demaniale collettiva dei terreni.

Sicché, la domanda finalizzata a contestare non solo l'importo del livello - e, quindi, del capitale di affrancazione di un terreno - determinato dal Comune, ma anche, in via evidentemente preliminare e propedeutica, la stessa legittimità della unilaterale riapertura, in sede di autotutela, della procedura di determinazione del capitale di affrancazione già chiusa in precedenza, rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, atteso che la determinazione della misura del canone, al pari di quella delle altre condizioni richieste per l'approvazione della concessione di legittimazione e la conseguente trasformazione in allodio del bene gravato dall'uso civico, rientra nella valutazione autonoma dell'autorità pubblica, vantando il privato, in ordine all'esercizio del potere di autotutela decisoria da parte della pubblica amministrazione, una posizione di mero interesse legittimo (così Sez. U, n. 00617/2021, Cosentino, Rv. 660143-01).

3. Conformità urbanistiche degli immobili e diritti privati.

La tematica delle conformità urbanistiche ha rappresentato fertile terreno di indagine da parte della giurisprudenza di legittimità.

Va anzitutto chiarito che, in tale ambito, la distinzione fra "vincoli conformativi" e "vincoli espropriativi" (comprensivi di quelli "preordinati all'esproprio" e di quelli "sostanzialmente espropriativi", secondo la formula dell'art. 39, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001) origina dalla sentenza n. 55 del 1968 della Corte costituzionale ed ha ricevuto una più precisa definizione nella successiva sentenza n. 179 del 1999 del giudice delle leggi: in via di prima approssimazione il “discrimen” sembrerebbe riposare sul binomio determinatezza/generalità, nel senso che i vincoli espropriativi sono a titolo particolare su beni determinati, mentre quelli conformativi attengono alla generalità o a categorie, determinate anche "per zone territoriali" oppure, ma sempre in via generale, in rapporto a beni o a interessi della pubblica amministrazione (in altri termini, come indicato nella sentenza n. 6 del 1966 della Corte costituzionale, essi hanno un carattere "generale e obiettivo").

La differenza tra le due tipologie di vincolo è riproposta espressamente da Sez. 1, n. 00207/2020, Sambito, Rv. 656617-01 che, in tema di espropriazione per pubblica utilità ed al fine di individuare la qualità edificatoria dell'area (da effettuarsi in base agli strumenti urbanistici vigenti al momento dell'espropriazione), chiarisce che, ove con l'atto di pianificazione si provveda alla zonizzazione dell'intero territorio comunale, o di una sua parte, sì da incidere su di una generalità di beni, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui essi ricadono e in ragione delle sue caratteristiche intrinseche, il vincolo assume carattere conformativo ed influisce sulla determinazione del valore dell'area espropriata mentre, ove si imponga un vincolo particolare, incidente su beni determinati, in funzione della localizzazione di un'opera pubblica, il vincolo è da ritenersi preordinato all'espropriazione e da esso deve prescindersi nella stima dell'area.

In particolare, secondo Sez. 1, n. 21561/2021, Valitutti, Rv. 662353-01, i vincoli di inedificabilità di tipo paesistico o idrogeologico, avendo natura conformativa e costituendo delle limitazioni legali della proprietà stabilite in via generale, sono idonei a far classificare l'immobile oggetto del procedimento come "non edificabile", incidendo negativamente sul suo valore di mercato e, di conseguenza, sulla determinazione dell'indennità di espropriazione o di occupazione; ne consegue che l'inserimento di un immobile in una zona urbanistica astrattamente edificabile secondo le Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G. non è sufficiente ad attribuirgli natura edificabile ove sul medesimo immobile insistano vincoli paesistici ed idrogeologici tali da escluderne totalmente, in concreto, l'edificabilità (nella specie, la S.C. ritenuto che i terreni oggetto di controversia non potessero in alcun modo considerarsi edificatori - ad onta del loro inserimento, nelle N.T.A. del P.R.G., tra le zone di natura edificatoria - essendo emerso dai certificati di destinazione urbanistica che si trattava di aree sottoposte a diversi vincoli di "inedificabilità assoluta", a norma dell'art. 37, comma 4, del d.P.R. n. 327 del 2001).

Chiarisce, infine Sez. 1, n. 15174/2021, Caradonna, Rv. 661581-01, che le aree comprese dal piano regolatore generale nell'ambito di un piano per gli insediamenti produttivi (PIP) assumono carattere edificatorio e subiscono la conformazione propria del piano stesso, onde, nella determinazione del loro valore (nella fattispecie eseguita mediante applicazione del metodo analitico - ricostruttivo), come non si può tenere conto, ai fini della liquidazione dell'indennità di espropriazione, dell'incidenza negativa esercitata sul valore dell'area dal vincolo specifico di destinazione preordinato all'esproprio, così sono invece suscettibili di considerazione i vincoli di conformazione al riguardo stabiliti, indipendentemente dall'espropriazione, in virtù della preesistente destinazione urbanistica legale e deve, perciò, in particolare, essere fatto riferimento agli "standards" del piano anzidetto, come, ad esempio, agli indici di fabbricabilità previsti da quest'ultimo.

3.1. (Segue) Le distanze legali.

Nell'ambito delle limitazioni legali al diritto di proprietà dettate dai rapporti di vicinato rilievo preminente assume la disciplina delle distanze tra costruzioni (artt. 873 ss. c.c.), le cui prescrizioni hanno carattere preventivo e trovano applicazione indipendentemente dall'esistenza di un danno: si tratta di reciproci presupposti di convenienza e sviluppo, non inquadrabili nel concetto di servitù, benché tutelabili per il tramite dell'”actio negatoria”, imprescrittibili sebbene – come ribadito da Sez. 2, n. 15142/2021, Giannaccari, Rv. 661404-01 - suscettibili di cedere di fronte a chi abbia acquisito, anche per il mezzo dell'usucapione, una servitù e non onerosi.

Come già avvenuto negli anni passati, la disamina dei molteplici arresti con cui la Corte, nel corso del 2021, si è soffermata sulla disciplina delle distanze tra costruzioni, consente di suddividere la materia per macroaree di interesse: da un lato, le decisioni che si sono occupate, perimetrandolo, dell'ambito di applicabilità della normativa in questione, dall'altro le pronunzie che si sono interessate dell'applicazione, in concreto, della normativa sulle distanze tra costruzioni.

Quanto al primo blocco di pronunzie, Sez. 2, n. 21615/2021, Bellini, Rv. 662059-01 osserva come i presupposti, la "ratio" e la disciplina sulle distanze per l'apertura di vedute, da un lato e di luci, dall'altro, siano differenti: mentre nel primo caso si intende essenzialmente tutelare il proprietario dall'indiscrezione del vicino, impedendo a quest'ultimo di creare aperture a distanza inferiore a quella di un metro e mezzo, la cui inosservanza può essere eliminata solo con l'arretramento o la chiusura della veduta, nel secondo si regolamenta il diritto a praticare sul proprio fabbricato delle aperture verso il fondo del vicino, finalizzate solo ad attingere luce ed aria, stabilendo i requisiti di altezza e di sicurezza cui è condizionata la limitazione del diritto del vicino medesimo, il cui rispetto può ottenersi in qualunque tempo dal proprietario del fondo confinante, attraverso la semplice regolarizzazione delle aperture create in loro violazione. Ne consegue che, ove venga proposta una domanda di riduzione alla distanza legale di una servitù di veduta, diretta ed indiretta, sul proprio fondo, costituisce domanda nuova, come tale inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la regolarizzazione di una luce irregolare, atteso che il suo accoglimento imporrebbe l'esecuzione di opere non ricomprese nel "petitum" originario.

Non soggiacciono alla disciplina di cui all'art. 873 c.c. e alle relative sanzioni, invece, le opere private realizzate, senza alcuna espropriazione, per la produzione di energia elettrica alimentata da fonti rinnovabili in violazione delle distanze legali in virtù dell'espressa loro equiparazione "alle opere dichiarate indifferibili e urgenti ai fini dell'applicazione delle leggi sulle opere pubbliche", disposta prima dall'art. 1, comma 4, della l. 9 gennaio 1991, n. 10 e successivamente dall'art. 12 del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387, con la conseguenza - evidenziata da Sez. 2, n. 13626/2021, Falaschi, Rv. 661290-01 - che è possibile ottenere la sola tutela indennitaria per il pregiudizio sofferto, trattandosi di interventi rispetto ai quali deve cedere anche la posizione di diritto soggettivo del proprietario confinante.

Quanto, invece, all'esenzione dall'obbligo del rispetto delle distanze in favore degli edifici demaniali, implicitamente contenuta nella previsione dell'art. 879 c.c., Sez. 1, n. 00391/2021, Pazzi, Rv. 660364-01 precisa come non sia richiesto, a tal fine, che la P.A. realizzi la costruzione su un fondo demaniale, potendo quest'ultima essere collocata anche su un fondo privato a condizione, però, che l'opera sia intrinsecamente assimilabile, per la finalità pubblica perseguita, ad un bene appartenente al pubblico demanio (nella specie, la S.C. ha cassato la decisione che aveva sottratto alla disciplina delle distanze la realizzazione di un campo di calcetto con annesso spogliatoio, operata dal comune, a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, su un fondo privato, di cui aveva la disponibilità in virtù di un contratto di comodato, affermando che tale costruzione non ha una intrinseca finalità pubblica che ne consente l'equiparazione a un bene demaniale).

Né - chiarisce Sez. 2, n. 03684/2021, Scarpa, Rv. 660327-01 - per mantenere una costruzione a distanza minore di quella prescritta dalla legge, è sufficiente un'"autorizzazione" scritta unilaterale del proprietario del fondo vicino, che acconsenta alla corrispondente servitù, essendo necessario un contratto che, pur senza ricorrere a formule sacramentali, dia luogo alla costituzione di una servitù prediale, ex art. 1058 c.c., esplicitando, in una dichiarazione scritta, i termini precisi del rapporto reale tra vicini, nel senso che l'accordo, risolvendosi in una menomazione di carattere reale per l'immobile che alla distanza legale avrebbe diritto, a vantaggio del fondo contiguo che ne trae il corrispondente beneficio, faccia venir meno il limite legale per il proprietario del fondo dominante, che così acquista la facoltà di invadere la sfera esclusiva del fondo servente.

Passando all'esame degli arresti con cui la S.C. si è interessata dell’applicazione, in concreto, della normativa sulle distanze, merita di essere segnalata anzitutto Sez. 2, n. 38033/2021, Dongiacomo, Rv. 6630201-01, per la quale, il principio per cui, in tema di distanze nelle costruzioni, il proprietario di una di esse non può dolersi della realizzazione da parte del proprietario dell'altro di un muro sul confine, al di sopra del fabbricato, trova applicazione solo quando i due fabbricati sono in aderenza, laddove, al contrario, con riguardo a costruzioni su fondi finitimi non aderenti, trova applicazione l'art. 873 c.c.

Alla luce di quanto statuito da Sez. 2, n. 07027/2021, Criscuolo, Rv. 660749-01, l'art. 5, comma 1, lett. b-bis), del d.l. 18 aprile 2019, n. 32, conv. con modif. dalla l. 14 giugno 2019, n. 55, nella parte in cui stabilisce che le disposizioni di cui all'art. 9, comma 2, del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 si interpretano nel senso che i limiti di distanza tra i fabbricati ivi previsti si considerano riferiti esclusivamente alle zone di cui al comma 1, n. 3), del detto articolo, integra, alla stregua del senso letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore e di una lettura logico-sistematica della disciplina, gli estremi di una norma di interpretazione autentica, sicché la stessa è applicabile ai rapporti in corso, non già quale disciplina normativa favorevole sopravvenuta, ma perché corrispondente alla regolamentazione applicabile "ab origine" al rapporto, fermo restando il solo limite delle situazioni consolidate per essersi lo stesso definitivamente esaurito.

Sempre con riferimento alle prescrizioni contenute nell'art. 9, comma 2, del d.m. n. 1444 del 1968, Sez. 2, n. 00624/2021, Abete, Rv. 660122-01 precisa che, essendo stata tale norma emanata sulla base dell'art. 41-quinquies della l. 17 agosto 1942, n. 1150 (cd. legge urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della l. 6 agosto 1967, n. 765, la stessa ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.

Più in generale sul tema: 1) Sez. 2, n. 27102/2021, Giusti, Rv. 662355-01 rileva che, qualora la concreta determinazione della distanza tra costruzioni sia riferita all'altezza dei fabbricati, il relativo computo concerne l'intera estensione, in elevazione, della costruzione, sì da ricomprendere ogni parte che concorra a realizzare un maggior volume concretamente abitabile ed una conseguente compressione di quei beni (luminosità, salubrità, igiene) che le norme dei regolamenti edilizi intendono tutelare, restando sottratte all'osservanza di tale distanza le sole parti aventi natura ornamentale ovvero meramente funzionale rispetto alla struttura dell'immobile. In tale accertamento l'abitabilità dei sottotetti deve essere verificata in concreto, restando irrilevante l'eventuale rilascio o meno della concessione o del permesso di costruire; 2) Sez. 2, n. 25191/2021, Oliva, Rv. 662253-02 ribadisce che, in tema di distanze legali fra edifici, non sono computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente artistica o ornamentale, mentre costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati; 3) le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni o come spazio tra le medesime o come distacco dal confine o in rapporto con l'altezza delle stesse, ancorché inserite in un contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a regolare l'assetto del territorio, in ogni caso conservano - secondo quanto statuito da Sez. 2, n. 13624/2021, Falaschi, Rv. 661289-01 - il carattere integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo equo l'utilizzazione edilizia dei suoli privati e, pertanto, la loro violazione consente al privato di ottenere la riduzione in pristino; 4) per Sez. 6-2, n. 07091/2021, Oliva, Rv. 660955-02, ancora, la misurazione della distanza di una veduta dal fondo del vicino si effettua dalla faccia esteriore del muro in cui si aprono le finestre ovvero dalla linea estrema del balcone o, in genere, del manufatto dal quale si esercita la veduta stessa; 5) Sez. 2, n. 25191/2021, Oliva, Rv. 662253-01 rileva che, in tema di distanze legali, il principio della prevenzione di cui all'art. 875 c.c. non è derogato nel caso in cui il regolamento edilizio si limiti a fissare la distanza minima tra le costruzioni, mentre lo è qualora la norma regolamentare stabilisca anche (o soltanto) la distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che in quest'ultimo caso l'obbligo di arretrare la costruzione è assoluto, come il corrispondente divieto di costruire sul confine, a meno che una specifica disposizione del regolamento edilizio non consenta espressamente di costruire in aderenza; 6) il diritto al rispetto delle distanze delle vedute – chiarisce ancora Sez. 6-2, n. 36122/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 663076-01 - ha natura assoluta, senza che risulti discriminante distinguere tra costruzioni in appoggio e costruzioni in aderenza; 7) Sez. 2, n. 25864/2021, Oliva, Rv. 662559-01 rimarca che la natura di veduta o luce (regolare o irregolare) deve essere accertata dal giudice di merito alla stregua delle caratteristiche oggettive dell'apertura stessa, rimanendo a tal fine irrilevante l'intenzione del suo autore o la finalità dal medesimo perseguita; sicché, un'apertura munita di inferriata, tale da non consentire la "prospectio" nel fondo vicino, può configurarsi solo come luce, anche se consenta di guardare con una manovra di per sé poco agevole per una persona di normale conformazione, con la conseguenza che, rispetto ad essa, il vicino non ha diritto a chiederne la chiusura, bensì solo la regolarizzazione. Peraltro, non ammettendo la legge l'esistenza di un "tertium genus" oltre alle luci ed alle vedute, per Sez. 2, n. 34824/2021, Tedesco, Rv. 662867-01 va valutata quale luce e, pertanto, sottoposta alle relative prescrizioni legali, anche in difetto dei requisiti a tale scopo prescritti dalla legge, l'apertura che sia priva del carattere di veduta o prospetto: ne consegue che, in tal caso, il proprietario del fondo vicino può sempre pretenderne la regolarizzazione, tenuto conto che il possesso di luci irregolari, sprovvisto di titolo e fondato sulla mera tolleranza del vicino, non può condurre all'acquisto, per usucapione della corrispondente servitù.

Da un punto di vista squisitamente processuale, infine, va segnalata Sez. 2, n. 25495/2021, Scarpa, Rv. 662317-01, per cui, ove sia realizzata una costruzione in violazione delle distanze ex art. 873 c.c., il giudice deve ordinarne la riduzione in pristino, mediante la demolizione delle parti che superano tali limiti, non potendo limitarsi a disporre l'esecuzione di accorgimenti idonei ad impedire l'esercizio della veduta sul fondo altrui, consistenti in opere che rendano impossibili il "prospicere" e l'"inspicere in alienum"; l'azione in tema di distanze tra costruzioni, infatti, diversamente da quella concernente l'apertura di vedute - che tutela gli interessi esclusivamente privati del proprietario del bene dall'indiscrezione del vicino, impedendo di affacciarsi e di guardare nella proprietà del primo - è volta ad evitare il formarsi di intercapedini tra fabbricati, potenzialmente dannose per gli interessi generali all'igiene, al decoro e alla sicurezza degli abitanti.

4. Le azioni a tutela della proprietà: a) la rivendicazione.

Le azioni riconosciute al proprietario a tutela del proprio diritto sono notoriamente quattro (rivendicazione, negatoria servitutis, regolamento di confini ed apposizione di termini) e ad esse si aggiungono le due azioni di nunciazione (denuncia di nuova opera e di danno temuto).

La fondamentale azione di rivendicazione ha lo scopo di far conseguire al proprietario il possesso definitivo della cosa, con ogni suo incremento ed è, pertanto, esercitata da chi sia proprietario, ma non nel possesso della "res".

Caratteristica peculiare della “rei vindicatio” è la prova particolarmente rigorosa (cd. “probatio diabolica”) richiesta all'attore - ovvero al convenuto che, ad una domanda di rilascio o consegna di natura personale opponga, in via di eccezione ovvero riconvenzionale, difese di carattere petitorio (Sez. 2, n. 00795/2020, Bellini, Rv. 656838-01) - dovendo questi risalire ad un titolo originario di acquisto della proprietà, normalmente coincidente con l'usucapione.

Il peculiare oggetto della prova ed il regime del relativo onere distingue, peraltro, l’azione ex art. 948 c.c. dalla “petitio hereditatis” che, malgrado l’affinità del “petitum” con la prima, si fonda sull'allegazione dello stato di erede, ed ha per oggetto beni riguardanti elementi costitutivi dell'universum ius o di una quota parte di esso. Ne consegue che, mentre l'attore in “rei vindicatio” deve dimostrare la proprietà dei beni attraverso una serie di regolari passaggi durante tutto il periodo di tempo necessario all'usucapione, nella “hereditatis petitio” può invece limitarsi a provare la propria qualità di erede ed il fatto che i beni, al tempo dell'apertura della successione, fossero compresi nell'asse ereditario; con l’ulteriore conseguenza - messa in rilievo da Sez. 2, n. 07871/2021, Giusti, Rv. 661042-01 - per cui deve ritenersi inammissibile il mutamento in corso di causa dell'azione di petizione ereditaria in azione di rivendicazione, anche quando non sia contestata dal convenuto la qualità di erede dell'attore, in quanto tale mancata contestazione non fa venire meno la funzione prevalentemente recuperatoria dell'azione ereditaria, ma produce effetti solo sul piano probatorio, senza incidere sulla radicale diversità - per natura, presupposti, oggetto e onere della prova - tra le due azioni.

La distribuzione dell'onere probatorio e la valutazione del materiale istruttorio vanno, in ogni caso, adeguate alle specifiche esigenze della controversia, come nel caso di azione proposta nei confronti del fallimento ovvero di convenuto in rivendica che eccepisca o chieda accertarsi, in via riconvenzionale, l’usucapione del diritto di proprietà sul medesimo bene oggetto della domanda principale: nel primo caso – così Sez. 1, n. 12736/2021, Dolmetta, Rv. 661503-01 - non può essere fatta valere l'usucapione dell'immobile intestato al fallito, riconosciuta da quest'ultimo in un accordo in sede di mediazione ma non trascritto, non essendo tale accordo opponibile al curatore che, rispetto ad esso, è terzo, né può essere richiesto alcun accertamento in via incidentale sull'intervenuta usucapione, poiché la verifica dello stato passivo coinvolge la massa dei creditori e non il fallito - che è invece parte necessaria nelle cause promosse ex art. 1158 c.c. - essendo strutturalmente inidonea alla trattazione di un giudizio sull'usucapione. Quanto, poi, alle cose mobili fungibili (compreso il denaro) esse sono rivendicabili solo se sia intervenuto un fatto che abbia determinato la loro individuazione ed evitato la confusione con il patrimonio del fallito, essendo ammissibile, nel caso di avvenuta confusione, soltanto una domanda di insinuazione allo stato passivo per un credito pari al valore dei beni appresi al fallimento (Sez. 1, n. 13511/2021, Caradonna, Rv. 661453-01); rispetto alla seconda evenienza, invece - osserva Sez. 2, n. 28865/2021, Tedesco, Rv. 662516-01 - essendo invocato un titolo d'acquisto a carattere originario, se non può ritenersi che siffatto comportamento processuale del convenuto implichi, di per sé, alcun riconoscimento idoneo ad attenuare il rigore dell'onere probatorio a carico del rivendicante, il quale, anche in caso di mancato raggiungimento della prova dell'usucapione, non è esonerato dal dover provare il proprio diritto, risalendo, se del caso, attraverso i propri danti causa fino ad un acquisto a titolo originario o dimostrando che egli stesso o alcuno dei suoi danti causa abbia posseduto il bene per il tempo necessario ad usucapirlo, cionondimeno il rigore probatorio rimane, al contrario, attenuato quando il convenuto, nell'opporre l'usucapione, abbia riconosciuto, seppure implicitamente, o comunque non abbia specificamente contestato, l'appartenenza del bene al rivendicante o ad uno dei suoi danti causa all'epoca in cui assume di avere iniziato a possedere. Per contro, la mera deduzione, da parte del convenuto, di un acquisto per usucapione il cui "dies a quo" sia successivo al titolo del rivendicante o di uno dei suoi danti causa, disgiunta dal riconoscimento o dalla mancata contestazione della precedente appartenenza, non comporta alcuna attenuazione del rigore probatorio a carico dell'attore, che a maggior ragione rimane invariato qualora il convenuto si dichiari proprietario per usucapione in forza di un possesso remoto rispetto ai titoli vantati dall'attore.

Va infine qualificata quale rivendica e non in termini di azione di restituzione - con i conseguenti oneri probatori a carico dell’attore - la domanda volta a riottenere un bene già oggetto di furto, svolta nei confronti del soggetto che si trova nel possesso di esso; sicché - rileva Sez. 2, n. 02612/2021, Picaroni, Rv. 660328-01 - ove la domanda abbia ad oggetto un bene mobile (nella specie, un dipinto attribuito a Renoir), l'attore non può limitarsi a dimostrarne il possesso - che può derivare anche da rapporti non traslativi della proprietà - all'epoca del furto, occorrendo, al contrario, che ne alleghi e provi, a tale momento, l'avvenuto acquisto della titolarità, ex art. 1153 c.c. e, dunque, oltre al possesso di buona fede, l'esistenza di un titolo astrattamente idoneo al relativo trasferimento.

4.1. (Segue) b) la "negatoria servitutis".

L'azione negatoria ha, invece, lo scopo di tutelare la pienezza del diritto di proprietà sulla cosa, con libertà da pesi o servitù pretesi da altri sulla stessa: l'azione trova ingresso allorché alle molestie provenienti dal terzo corrisponda la pretesa esistenza di un diritto, senza che sia controversa la titolarità del fondo asseritamente servente.

Sicché in tal guisa va qualificata – secondo Sez. 2, n. 19249/2021, Picaroni, Rv. 662044-01 - la domanda (avente come contraddittore il proprietario del preteso fondo dominante) di rimozione di una conduttura idrica, che l'attore assuma essere stata abusivamente installata sul proprio fondo da parte del proprietario di un fondo vicino, anche se accompagnata da richieste risarcitorie, siccome diretta a tutelare la libertà del fondo.

Dei profili processuali inerenti tale azione si è occupata Sez. 2, n. 20325/2021, Fortunato, Rv. 661700-01, chiarendo che nel relativo giudizio il convenuto ha diritto di dimostrare l'interclusione del fondo e di chiedere la costituzione di una servitù di passaggio, ma è tenuto, in tal caso, a formulare un'espressa domanda riconvenzionale, perché non è la semplice allegazione dell'interclusione del fondo a costituire il corrispondente limite a carico dell'immobile gravato, ma solo l'accoglimento della domanda del proprietario del fondo intercluso.

4.1.1. (Segue) Le immissioni.

A proposito della regolamentazione dei rapporti di vicinato, discorso a parte merita la disciplina delle immissioni, regolate dall'art. 844 c.c., il cui limite è rappresentato non già dalla normalità dell'esercizio di una determinata attività, quanto dalla normale tollerabilità per chi deve subirla, tenendo conto (a) delle esigenze della produzione e (b) delle condizioni di ambiente (cd. "preuso").

L'azione inibitoria esperibile ai sensi della richiamata disposizione codicistica - secondo l'impostazione granitica della giurisprudenza di legittimità, ribadita nel recente passato da Sez. 2, n. 26882/2019, Oliva, Rv. 655665-01 - ha natura reale, rientra nello schema della “negatoria servitutis” e deve essere proposta contro tutti i proprietari di tale fondo, qualora l'attore miri ad ottenere un divieto definitivo delle immissioni, operante, cioè, nei confronti dei proprietari attuali o futuri del fondo medesimo e dei loro aventi causa, in modo da ottenere l'accertamento della infondatezza della pretesa, anche solo eventuale e teorica relativa al diritto di produrre siffatte immissioni. La medesima azione ha, invece, carattere personale e rientra nello schema dell'azione di risarcimento in forma specifica di cui all'art 2058 c.c., nel caso in cui l'attore miri soltanto ad ottenere il divieto del comportamento illecito dell'autore materiale delle suddette immissioni, sia esso detentore ovvero comproprietario del fondo, il quale si trovi nella giuridica possibilità di eliminare queste ultime senza bisogno dell'intervento del proprietario o degli altri comproprietari del fondo medesimo.

Sotto il profilo prettamente risarcitorio, pur quando non rimanga integrato un danno biologico, non risultando provato alcuno stato di malattia, la lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria casa di abitazione, tutelato anche dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani, nonché del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, integra una lesione che non costituisce un danno "in re ipsa", bensì un danno conseguenza e comporta un pregiudizio ristorabile in termini di danno non patrimoniale (nella specie, Sez. 6-2, n. 21649/2021, Giannaccari, Rv. 661953-01 ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto dovuta la riparazione del pregiudizio del diritto al riposo, sofferto dalle parti lese in conseguenza delle immissioni sonore - in particolare notturne - dipendenti dall'installazione di un nuovo bagno in un appartamento contiguo, siccome ridondante sulla qualità della vita e, conseguentemente, sul diritto alla salute costituzionalmente garantito).

Né - rileva Sez. 6-3, n. 14432/2021, Rossetti, Rv. 661567-01 - viola il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sotto il profilo del limite costituito dal divieto di immutazione degli effetti giuridici che la parte intende conseguire, il giudice di merito che, nell'individuare la norma applicabile, qualifica quale domanda di indennizzo, ai sensi non del solo art. 844 c.c. ma anche dell'art. 46 della l. 15 giugno 1865, n. 2359, quella proposta dalla parte attrice - in alternativa alla richiesta risarcitoria ex art. 2043 c.c. - per l'intollerabilità delle immissioni derivanti dalle esalazioni prodotte da un impianto di depurazione comunale.

La disciplina in esame trova, infine, applicazione anche qualora sia in discussione la legittimità, da parte della Chiesa e degli enti ecclesiastici, dell'uso "iure privatorum" di beni soggetti, ex art. 831 c.c., alle norme del codice civile - in quanto non diversamente disposto dalle leggi speciali che li riguardano: la Chiesa e le sue istituzioni, secondo quanto chiarito da Sez. 2, n. 04836/2021, Oricchio, Rv. 660458-01, sono infatti tenute, al pari degli altri soggetti giuridici, all'osservanza delle norme di relazione e quindi alle limitazioni del diritto di proprietà, fra le quali rientrano quelle previste dall'art. 844 c.c., essendo esse inidonee a dare luogo a quelle compressioni della libertà religiosa e delle connesse alte finalità che la norma concordataria di cui all'art. 2 della l. 25 marzo 1985, n. 121, in ottemperanza al dettato costituzionale, ha inteso tutelare, non avendo lo Stato rinunciato alla tutela di beni giuridici primari garantiti dalla Costituzione (artt. 42 e 32), quali il diritto di proprietà e quello alla salute (nella specie, è stata ritenuta applicabile la disciplina dettata dall'art. 844 c.c. alle immissioni sonore provocate dalle campane di una chiesa).

4.2. (Segue) c) le azioni di regolamento di confini e di apposizione di termini.

Le azioni cd. "di confine" sono due e perseguono, rispettivamente, finalità diverse: mentre l'“actio finium regundorumi” si esercita allorché vi sia un'incertezza sul confine ad opera di uno (azione qualificata) ovvero di entrambi (“actio simplexi”) i confinanti, l'azione di apposizione di termini viene invece introdotta quando tale incertezza non vi sia e si voglia unicamente apporre un segno visibile ad indicazione del confine tra i fondi. Si tratta, in entrambi i casi, di un “iudicium duplexi”, nel senso che entrambe le parti confinanti possono introdurre le due azioni, vantando reciprocamente una posizione di pretesa e di difesa.

Con particolare riferimento all’azione di regolamento di confini, la Corte (Sez. 2, n. 20912/2021, Tedesco, Rv. 662051-01) ne ravvisa il “discrimen” con la rivendica nella circostanza che in quest’ultimo caso - che presuppone un conflitto di titoli - l'attore non ha incertezza alcuna circa il confine (che è anzi indicato in modo certo e chiaro) e chiede la restituzione della porzione di fondo usurpata, indicandone con esattezza estensione e misura, mentre nel primo - in cui la contestazione involge non già i titoli di proprietà, ma la delimitazione dei rispettivi fondi - l'attore non solo non è sicuro "ab initio" dei confini del proprio fondo, ma neppure è certo che questo sia stato parzialmente occupato dal convenuto. Ne consegue che, ove venga attribuito un erroneo "nomen iuris" all'azione, occorre avere riguardo all'effettiva natura della controversia, così che, ove l'attore, pur dichiarando di esercitare un'azione di regolamento di confini chieda, con espressione precisa ed univoca, l'affermazione del suo diritto di proprietà su zone possedute dal convenuto ed il rilascio di esse, indicando come vero un determinato confine a lui più favorevole, la domanda deve essere qualificata come azione di rivendica.

Si presenta quale proiezione specifica dell’"actio finium regundorum" di cui all'art. 950 c.c. - concludendosi con un atto di delimitazione, tra i confini del demanio marittimo e le proprietà private finitime, che ha funzione di mero accertamento - il procedimento, previsto nell'art. 32 c.nav., di delimitazione del demanio marittimo: ne consegue che, essendo escluso il potere discrezionale della P.A., la contestazione delle risultanze del verbale di delimitazione deve avvenire dinanzi al giudice ordinario, il quale potrà disapplicare l'atto amministrativo se ed in quanto illegittimo (così Sez. 1, n. 14048/2021, Parise, Rv. 661493-01).

Benché per determinare il confine sia utilizzabile ogni mezzo istruttorio, ivi comprese la prova testimoniale e per presunzioni, Sez. 2, n. 34825/2021, Tedesco, Rv. 662864-01 osserva che, il ritrovamento dei termini lapidei (nella specie, un muro la cui preesistenza era stata rilevata dal consulente tecnico e riferita dai testi escussi) già apposti dalle parti o dai loro danti causa, e dapprima non apparenti fuori del suolo, può costituire una prova decisiva, se vi era una zona di possesso promiscuo e può fondare, in tal caso, una presunzione di regolamento stragiudiziale del confine mentre, se risulta provato che vi furono modificazioni nella determinazione del confine e nella conseguente apposizione di termini, esso costituisce un indizio che il giudice di merito può apprezzare nel quadro di tutte le altre risultanze processuali.

5. Comunione di diritti reali.

Rinviando sin d’ora al successivo Capitolo V di questa sezione per l’approfondimento delle tematiche concernenti la comunione dei diritti reali, va dato conto di come, nel corso del 2021, la Corte abbia indugiato sui diversi ambiti di operatività della comunione ordinaria e del condominio, per tratteggiare una linea di demarcazione tra le due discipline, siccome sovente sovrapponentisi (e non sempre facilmente distinguibili) tra loro.

Così, Sez. 6-2, n. 35957/2021, Scarpa, Rv. 663217-01 rileva che, allorché l'alloggio del portiere non sia più destinato ad uso condominiale, si applica ad esso la disciplina della comunione in generale, con la conseguenza che i partecipanti a siffatta comunione devono contribuire alle spese necessarie per la conservazione ed il godimento del bene, ivi comprese quelle occorrenti - come nella specie - per la riparazione del lastrico solare che funge da copertura, ex art. 1126 c.c., in proporzione al solo valore millesimale dell'unità sita nella colonna sottostante al lastrico.

È invece consolidato il principio affermato da Sez. 2, n. 27106/2021, Scarpa, Rv. 662359-01, in virtù del quale nella materia condominiale, il diritto al rimborso delle spese sostenute dal singolo condomino per la gestione delle cose comuni ai sensi dell'art. 1134 c.c., a differenza di quanto previsto dall'art. 1100 c.c. nella comunione ordinaria, non insorge in caso di trascuranza degli altri comunisti, ma presuppone il requisito dell'urgenza, intendendo la legge trattare con rigore la possibilità che il singolo possa intervenire nell'amministrazione dei beni in proprietà.

Rispetto ad un impianto fognario posto in rapporto di accessorietà con una pluralità di edifici costituiti in distinti condomini, giacché oggettivamente e stabilmente destinato all'uso od al godimento di tutti i fabbricati, Sez. 2, n. 02623/2021, Scarpa, Rv. 660315-01 chiarisce che trova applicazione la disciplina specifica del condominio, anziché quella generale della comunione, e perciò opera la presunzione legale di condominialità, ma solo sino al punto in cui è possibile stabilire a quale degli edifici la conduttura si riferisca, per poi considerare cessata la comunione dal punto in cui le diramazioni siano inequivocabilmente destinate a ciascun edificio; da ciò consegue che, ove i danni subìti da un terzo siano connessi ad un tratto del detto impianto posto ad esclusivo servizio di uno dei condomìni, la relativa responsabilità (nella specie, di natura extracontrattuale, ex art. 2051 c.c.) è addebitabile esclusivamente a quest'ultimo e non all'intero supercondominio, non potendosi estendere agli altri condomìni del complesso gli obblighi di custodia e di manutenzione gravanti sull'amministratore e sull'assemblea del singolo edificio.

Continua ad essere oggetto di pronunzie contrastanti tra loro, la questione relativa alla disciplina applicabile ai consorzi di urbanizzazione: nell’oscillante riproporsi del ricorso alternativamente, alle norme in materia di comunione, di condominio o di associazioni non riconosciute Sez. 1, n. 18792/2021, Scotti, Rv. 661825-01, muovendo dalla considerazione per cui, quali aggregazioni preordinate alla sistemazione o al miglior godimento di uno specifico comprensorio mediante la realizzazione o la fornitura di opere e servizi, si tratta di figure atipiche disciplinate principalmente dallo statuto e, solo sussidiariamente, dalla normativa in tema di associazioni non riconosciute e di comunione (non trovando invece applicazione le norme del codice civile in materia di consorzi), ne trae la conclusione per cui la cancellazione del consorzio dal Registro delle imprese non produce alcuna efficacia estintiva.

Con riferimento, infine, alle strade vicinali - rispetto alle quali, in mancanza di titoli che dispongano un diverso regolamento, la "communio incidens" tra i proprietari frontisti sorge per il solo fatto che essa sia stata costituita con il conferimento di sedime dei fondi latistanti (così Sez. 2, n. 25364/2014, Giusti, Rv. 633498-01) – Sez. 2, n. 11466/2021, Varrone, Rv. 661126-01 chiarisce che sono tali non sono soltanto quelle formate con il conferimento di parti di proprietà fronteggiantesi, ma anche quelle la cui sede è realizzata mediante conferimento di tratti successivamente svolgentisi per intero su ciascun fondo dei proprietari confinanti; né può escludersi il carattere vicinale solo perché la strada risulti formata in alcuni tratti da conferimenti di frontisti e in altri mediante conferimento di parti di fondi che si succedono. Eccezionale è soltanto che la strada risulti formata "ex collatione privatorum agrorum" e destinata all'uso comune, per la necessità stessa delle comunicazioni e delle culture dei fondi lambiti o attraversati.

5.1. Comunione e tutela in sede giudiziaria.

Sul versante più spiccatamente processuale, noto essendo che l’amministrazione ordinaria della comunione può essere affidata dai comproprietari ad un amministratore, interno ovvero esterno al gruppo (cfr. l’art. 1106 c.c.), una volta che questo sia nominato Sez. 2, n. 14120/2021, Picaroni, Rv. 661292-01, ha chiarito che il provvedimento di relativa revoca adottato dall’A.G. giudiziaria ha natura di atto di volontaria giurisdizione, ex art. 1105, comma 4, c.c. - in ogni tempo suscettibile, pertanto, di revoca o modificazione, ma non ricorribile per cassazione, ex art. 111, comma 7, Cost., salvo che, travalicando i limiti per la propria emanazione, abbia risolto una controversia su diritti soggettivi - non essendo configurabile un diritto dell'amministratore medesimo alla prosecuzione dell'incarico e potendo eventuali pretese dello stesso, analogamente a quanto avviene in ambito condominiale, in ipotesi di dedotta insussistenza della giusta causa di revoca, trovare tutela in forma risarcitoria o per equivalente nella sede propria del giudizio di cognizione.

Quanto, poi, alle modalità di scioglimento della comunione, tanto ereditaria quanto ordinaria, Sez. 2, n. 27086/2021, Tedesco, Rv. 662376-02 osserva che il giudice non può procedere al regolamento, sulla massa, dei debiti dipendenti dal rapporto di comunione senza che, in aggiunta alla domanda principale, sia stata anche proposta istanza di rendiconto, mentre, assolto tale presupposto, può autonomamente provvedere, anche in assenza di apposita domanda, alla liquidazione di tale regolamento col sistema dei prelevamenti ovvero con l'incremento della quota, costituendo questa autonoma attività giudiziale, ferma restando la possibilità di deroga pattizia delle norme sull'imputazione e sui prelevamenti, nonché di quelle che stabiliscono l'ordine delle operazioni divisionali.

6. Servitù prediali.

L'art. 1027 c.c. definisce la servitù come un peso al godimento di un fondo, per l'utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario: vantaggio e correlativa restrizione formano, dunque, due aspetti correlati nel concetto stesso di servitù, tanto da consentire l'identificazione di un fondo servente e di uno dominante.

Chiara, ad esempio, Sez. 2, n. 24940/2021, Dongiacomo, Rv. 662191-01, la quale osserva che le convenzioni tra privati, con le quali si stabiliscono reciproche limitazioni o vantaggi a favore e a carico delle rispettive proprietà individuali, specie in ordine alle modalità di edificabilità, restringono o ampliano definitivamente i poteri connessi alla proprietà, attribuendo a ciascun fondo un corrispondente vantaggio e onere che ad esso inerisce come "qualitas fundi" e, cioè, con caratteristiche di realità inquadrabili nello schema delle servitù, sicché, nell'ipotesi di inosservanza della convenzione limitativa dell'edificabilità, il proprietario del fondo dominante può agire nei confronti del proprietario del fondo servente con azione di natura reale per chiedere ed ottenere la demolizione dell'opera abusiva, non diversamente dal proprietario danneggiato dalla violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni ex artt. 872 e 873 c.c.

Esulano, invece, dal campo di applicazione degli artt. 1027 ss. c.c. – quale conseguenza della tipicità dei diritti reali che costituiscono, nel loro complesso, un "numerus clausus" e che sono idonei a determinare anche un vincolo fondiario perpetuo - le cd. servitù irregolari che comportano l'insorgenza di un rapporto obbligatorio atipico tra le parti, avente la funzione di determinare una situazione di vantaggio a favore del soggetto indicato nel relativo atto costitutivo e non a realizzare uno scopo di utilità per un fondo (dominante) con l'imposizione di un peso su un altro fondo (servente): ne consegue che il suddetto rapporto va ritenuto incompatibile con la previsione di un obbligo personale di natura permanente a carico della parte che deve adempierlo, dovendo esso caratterizzarsi per la necessaria temporaneità del vincolo che ne deriva (in applicazione dell'enunciato principio, Sez. 2, n. 25195/2021, Carrato, Rv. 662244-01 ha cassato la sentenza impugnata nella parte in cui, dopo aver ricondotto la concreta fattispecie - accordo orale di concessione della posa in opera di un pozzetto di scolo delle acque meteoriche - nell'ambito delle "servitù irregolari", ha escluso il carattere provvisorio e temporaneo dell'accordo, in tal modo erroneamente inscrivendo la suddetta servitù nell'ambito di un quadro connotato da profili di realità.)

La soggezione può consistere in un “pati” o in un “non facere”, salvo, relativamente a quest'ultima prestazione, la possibilità di prevedere, a carico del proprietario del fondo servente, alcuni obblighi di “facere” (cfr., ad es., l'art. 1091 c.c.); requisiti comuni a tutte le servitù sono la vicinanza dei fondi (cd. “vicinitas”), la “perpetua causa”, l'indivisibilità e l'inscindibilità.

Quanto alla fonte costitutiva, le servitù possono essere volontarie o coattive (o legali) a seconda che siano riconducibili ad un atto volitivo delle parti ovvero ad una previsione legislativa, nel senso che, in tale ultimo caso, possono essere costituite anche senza il consenso del titolare del fondo servente, essendo il relativo diritto riconosciuto ex lege al titolare del fondo dominante. Ove non apparenti, le servitù volontarie possono costituirsi soltanto per titolo (contratto o testamento) mentre, se apparenti, possono costituirsi anche per usucapione e destinazione del padre di famiglia; quando coattive, in mancanza di accordo tra le parti, possono essere costituite per provvedimento dell'autorità giudiziaria, con cui vengono altresì stabiliti le modalità di esercizio della servitù e l'indennizzo da riconoscere al titolare del fondo servente.

Relativamente alle servitù coattive, rientra anzitutto tra queste, per effetto di quanto previsto dall'art. 3 della l. 28 luglio 2016, n. 154, la servitù di gasdotto: in particolare, Sez. 2, n. 18011/2021, Cosentino, Rv. 661710-02 riconduce siffatta servitù tra quelle passibili di costituzione coattiva "ope judicis" su domanda dell'esercente il servizio di distribuzione del gas e non del proprietario del fondo interessato alla relativa erogazione, dovendosi il fondo dominante individuare - come confermato dal citato art. 3, che impone di consentire il passaggio delle tubazioni per l'allacciamento "alla rete del gas" e non a qualunque serbatoio, anche privato, di gas - non già in quello dell'utente somministrato, bensì nell'impianto di distribuzione, quale fondo a destinazione industriale o commerciale.

Del pari, rientra tra quelle coattive, in mancanza di consenso del proprietario dell'immobile gravato, la servitù avente ad oggetto la costituzione, su fondi privati, di una servitù di passaggio di fili e cavi funzionali agli impianti di reti di comunicazione elettronica: in tal caso, osserva, però, la già citata Sez. 2, n. 18011/2021, Cosentino, Rv. 661710-01, il relativo potere è attribuito, dall'art. 92, comma 1, del d.lgs. n. 259 del 2003, alla Pubblica amministrazione, la quale procede mediante l'adozione di un provvedimento amministrativo di carattere ablatorio, ai sensi del d.P.R. n. 327 del 2001 e della l. 1 agosto 2002, n. 166, non trovando invece applicazione, quale conseguenza dell'assegnazione "ex lege" di siffatto potere all'autorità amministrativa, la disciplina dettata dagli artt. 1032 e ss. c.c. né, dunque, la possibilità che tale imposizione coattiva sia l'effetto di una pronuncia giudiziale.

Quanto, ancora, all'imposizione della servitù di elettrodotto con sentenza del giudice, Sez. 2, n. 04839/2021, Carrato, Rv. 660459-01 (anch’essa già citata supra), rileva che il presupposto della preventiva autorizzazione all'impianto della linea da parte della competente autorità di cui all'art. 108 del r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, che costituisce una condizione dell'azione (sicché deve ritenersene sufficiente la sopravvenienza, purché prima della decisione), sussiste indipendentemente dal fatto che i termini fissati con l'autorizzazione stessa, in connessione con la dichiarazione di pubblica utilità dell'elettrodotto, siano scaduti, trattandosi di circostanza rilevante solo al diverso fine dell'improseguibilità del procedimento amministrativo d'imposizione della servitù medesima in via espropriativa.

Con riferimento, invece, alla costituzione delle servitù volontarie, il requisito dell'apparenza, necessario ai fini del relativo acquisto per usucapione o per destinazione del padre di famiglia, si configura - precisa Sez. 6-2, n. 11834/2021, Casadonte, Rv. 661174-01 - come presenza di segni visibili di opere permanenti obiettivamente destinate al suo esercizio rivelanti, in modo non equivoco, l'esistenza del peso gravante sul fondo servente, così da rendere manifesto che non si tratta di attività compiuta in via precaria, bensì di un preciso onere a carattere stabile. Ne consegue che, per l'acquisto in base a dette modalità di una servitù di passaggio, non basta l'esistenza di una strada o di un percorso all'uopo idonei, essendo, viceversa, essenziale che essi mostrino di essere stati realizzati al preciso scopo di dare accesso al fondo preteso dominante attraverso quello preteso servente ed occorrendo, pertanto, un "quid pluris" che dimostri la loro specifica destinazione all'esercizio della servitù (nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, che aveva ritenuto acquisita, per usucapione, la servitù di passaggio su di una scalinata presente sul fondo dei convenuti ed utilizzata dall'attrice per accedere alla propria cantina, collocata sul fondo costeggiato dalla scalinata medesima, nonostante quest'ultimo avesse altro accesso dalla pubblica via e la scalinata fosse stata realizzata non già per accedere a detta cantina, ma per collegare due strade pubbliche, collocate una a monte e l'altra a valle).

Allorché, poi, il proprietario di un terreno decida di frazionarlo e venderlo a scopo edificatorio, Sez. 2, n. 00524/2021, Varrone, Rv. 660094-01 osserva che, le limitazioni a carico degli acquirenti circa la destinazione del bene contenute in una pattuizione dei contratti di compravendita, ove regolarmente trascritte, costituiscono una servitù prediale reciproca tra i fondi che vincolano all'osservanza anche i successivi aventi causa, pur se i rispettivi atti di acquisto non ne facciano menzione, avendo i proprietari originari dei terreni in tal modo costituito per accordo negoziale unanime un vincolo di natura reale sul bene.

Circa il modo di esercizio della servitù, quando esso non sia regolato dal titolo, il criterio per determinare il contenuto del diritto è dato dal possesso (cfr. art. 1065 c.c.) e, cioè, dall'esistente situazione di fatto rispetto al godimento che si ha sul fondo servente, valutata sulla base della pratica dell'anno precedente o dell'ultimo godimento (art. 1066 c.c.). È fatto in ogni caso divieto, rispettivamente al titolare del fondo dominante e di quello servente, di aggravare o diminuire l’esercizio della servitù (art. 1067 c.c.).

Proprio in relazione a tale ultimo profilo, premesso che, in tema di servitù prediali, l'aggravamento dell'esercizio della servitù, operata sul fondo dominante, va verificato accertando se l'innovazione abbia alterato l'originario rapporto con quello servente e se il sacrificio, con la stessa imposto, sia maggiore rispetto a quello originario, a tal riguardo valutandosi non solo la nuova opera in sé, ma anche con riferimento alle implicazioni che ne derivino a carico del fondo servente, assumendo in proposito rilevanza non soltanto i pregiudizi attuali, ma anche quelli potenziali connessi e prevedibili, in considerazione dell'intensificazione dell'onere gravante sul fondo servente, Sez. 6-2, n. 20609/2021, Falaschi, Rv. 661908-01 ne trae la conclusione per cui la realizzazione di un ulteriore accesso alla proprietà servente integra di per sé l'aggravamento, implicando una duplicazione degli ingressi. Sulla stessa lunghezza d’onda Sez. 6-2, n. 40319/2021, Tedesco, Rv. 663226-01 osserva che, in tema di servitù di passaggio, ed in mancanza di chiare limitazioni ricavabili dal titolo, non ogni mutamento di destinazione o trasformazione del fondo dominante, tale da determinare un maggiore traffico di persone sul fondo servente, costituisce di per sé un aggravamento della servitù, ma solo quei mutamenti o quelle trasformazioni che sono idonei, considerato lo stato dei luoghi, ad aumentare il transito di persone in maniera dannosa per il fondo servente, dando luogo a molestie che, secondo la comune valutazione, siano più gravose in quanto necessarie per soddisfare i bisogni del fondo dominante non oggettivamente prevedibili al tempo della costituzione della servitù.

Avuto riguardo, infine, ai modi di estinzione delle servitù, Sez. 6-2, n. 02316/2021, Oliva, Rv. 660257-01 si occupa dell’ipotesi di estinzione del diritto di servitù per rinuncia del titolare, chiarendo che questa deve risultare da atto scritto, ex art. 1350 c.c., e non può essere desunta indirettamente da fatti concludenti.

Peculiare, per concludere, il principio affermato da Sez. 2, n. 28853/2021, Dongiacomo, Rv. 662571-01 in tema di estinzione della servitù per confusione: la servitù costituita anteriormente al pignoramento del fondo servente ed estintasi per confusione successiva alla trascrizione di detto pignoramento, per effetto dell'inopponibilità del titolo di acquisto del proprietario del fondo dominante nei confronti del creditore procedente, riprende efficacia nei confronti del terzo che abbia acquistato il fondo servente in sede coattiva.

6.1. Profili processuali relativi alla costituzione delle servitù.

La difesa del diritto di servitù è affidata all'azione confessoria, la quale rappresenta il simmetrico della azione negatoria: si tratta di una previsione innovativa rispetto al codice del 1865, che consente a chi pretende di avere il diritto reale sulla cosa altrui di agire nei confronti del proprietario e di chiunque ne contesti l'esercizio.

In proposito Sez. 2, n. 15116/2021, Fortunato, Rv. 661363-01 rileva che, in tema di "actio confessoria servitutis", l'appartenenza del fondo dominante alla parte attrice - la cui dimostrazione non soggiace al medesimo regime probatorio dell'azione di rivendica e che può essere fornita anche ricorrendo alle presunzioni - costituisce una questione pertinente alla titolarità del rapporto sostanziale controverso e le relative contestazioni ad opera della parte convenuta integrano una mera difesa, proponibile anche direttamente in appello, sostanziando la negazione di un fatto costitutivo della domanda.

7. Tutela ed effetti del possesso.

Numerose le pronunce della S.C. relativamente al possesso utile ai fini dell'usucapione che, come noto, deve essere pubblico e pacifico, ininterrotto e continuato.

In particolare, Sez. 2, n. 11465/2021, Varrone, Rv. 661096-01 rileva che il requisito della non clandestinità va riferito non agli espedienti che il possessore potrebbe attuare per apparire proprietario, ma al fatto che il possesso sia stato acquistato ed esercitato pubblicamente, cioè in modo visibile a tutti o almeno ad un'apprezzabile ed indistinta generalità di soggetti e non solo dal precedente possessore o da una limitata cerchia di persone che abbiano la possibilità di conoscere la situazione di fatto soltanto grazie al proprio particolare rapporto con quest'ultimo (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello che aveva accertato l'avvenuto acquisto per usucapione della proprietà di un dipinto oggetto di furto, che il possessore aveva ricevuto in donazione e tenuto per circa quaranta anni appeso alla parete del salotto della sua abitazione, sul rilievo che il bene, pur collocato in modo conforme alla sua destinazione tipica, non era stato oggetto di possesso pubblico e non clandestino, perché destinato ad essere visibile solo dalla ristretta cerchia di persone che frequentavano la casa).

Quanto, invece, alla interruzione del decorso del "tempus ad usucapionem", Sez. 2, n. 15137/2021, Gorjan, Rv. 661356-01, rileva come tale effetto non consegua alla pronunzia della sentenza dichiarativa del fallimento ed alla sua trascrizione, ex art. 88 del r.d. n. 267 del 1942, conseguendo l'interruzione del possesso solo all'azione del curatore tesa al recupero del bene mediante spossessamento del soggetto usucapente, nelle forme e nei modi prescritti dagli artt. 1165 e 1167 c.c. Il profilo concernente l'effetto interruttivo della prescrizione acquisitiva che regola il possesso "ad usucapionem" è, comunque, più generalmente esaminato da Sez. 2, n. 36627/2021, Tedesco, Rv. 662947-01 per la quale, determinando la proposizione di una domanda giudiziale l'interruzione, sino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il relativo giudizio, di tale decorso, ove il giudizio si concluda con il riconoscimento del diritto del titolare, il possessore potrà invocare l'usucapione in forza della protrazione del suo possesso solo a decorrere dal passaggio in giudicato, fatte salve le ipotesi di comportamenti provenienti dal possessore medesimo e comportanti, anche implicitamente, il riconoscimento del diritto del "dominus".

Trattandosi di modo di acquisto della proprietà a titolo originario, peraltro, la giurisprudenza di legittimità richiede, per il suo compiersi, il compimento di atti diretti in maniera non equivoca a manifestare sul bene un animus corrispondente a quello del proprietario: il che non implica affatto, però, che l'"animus possidendi" debba essere ravvisato nella convinzione del possessore di essere titolare del diritto reale, occorrendo all'uopo, piuttosto, che lo stesso manifesti l'intenzione di comportarsi come tale, esercitando le corrispondenti facoltà (Sez. 6-2, n. 13153/2021, Cosentino, Rv. 661313-01).

In tal senso, ad esempio, Sez. 2, n. 23458/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 662075-01 evidenzia che l'interversione della detenzione in possesso può avvenire anche attraverso il compimento di attività materiali, qualora esse manifestino - per l'appunto - in modo inequivocabile e riconoscibile dall'avente diritto il potere sulla cosa esclusivamente "nomine proprio", vantando per sé il diritto corrispondente al possesso in contrapposizione con quello del titolare della cosa, come nel caso in cui sul fondo sia stata realizzata una costruzione.

Simmetricamente, in un contratto ad effetti obbligatori, la "traditio" del bene non configura la trasmissione del suo possesso, ma l'insorgenza di una mera detenzione, sebbene qualificata, salvo che intervenga una "interversio possessionis", mediante la manifestazione esterna, diretta contro il proprietario/possessore, della volontà di esercizio del possesso "uti dominus": il possesso, infatti, costituisce una situazione di fatto, non trasmissibile, di per sé, con atto negoziale separatamente dal trasferimento del diritto corrispondente al suo esercizio, sicché non opera la presunzione del possesso utile "ad usucapionem", previsto dall'art. 1141 c.c., quando la relazione con il bene derivi da un atto o da un fatto del proprietario non corrispondente al trasferimento del diritto (nella specie, Sez. 2, n. 29594/2021, Giannaccari, Rv. 662568-01, ha confermato la decisione di merito che, ravvisando l'esistenza di un contratto di comodato, aveva escluso che l'utilizzo esclusivo del bene ed il compimento di atti di amministrazione, per la conservazione ed il miglioramento delle sue condizioni, integrasse un atto di interversione del possesso nei confronti del proprietario, e successivamente dei suoi eredi, idoneo al mutamento del titolo).

Peculiare è, infine, il caso di compossessore che intenda usucapire la piena proprietà del bene originariamente comune: in tal caso, infatti, non occorre dimostrare la ricorrenza di atti di interversione del titolo del possesso, occorrendo - piuttosto - che lo stesso provi il compimento di atti di estrinsecazione del possesso medesimo, tali da escluderne un pari godimento da parte degli altri comproprietari.

La regola trova applicazione anche in caso di successione ereditaria: così - osserva Sez. 2, n. 09359/2021, Besso Marcheis, Rv. 660860-01 - il coerede che, dopo la morte del "de cuius", sia rimasto nel possesso del bene ereditario può infatti, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, però, egli, che già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", risultando a tal fine insufficiente l'astensione degli altri partecipanti dall'uso della cosa comune (nella specie la S.C., riformando la pronuncia di merito, ha escluso che possa costituire prova dell'usucapione di un appartamento la circostanza che il coerede, che già vi abitava con il padre, abbia continuato, dopo la morte di questi, ad essere l'unico ad averne la disponibilità).

7.1. Profili processuali relativi all'esercizio delle azioni possessorie e quasi-possessorie.

La tutela del possesso è affidata alle azioni di reintegrazione e manutenzione (rispettivamente disciplinate dagli artt. 1168 e 1170 c.c.), nonché alle azioni di nunciazione o quasi-possessorie (denuncia di nuova opera e di danno temuto, disciplinate dagli artt. 1171 e 1172 c.c.) - che, in realtà, spettano non solo al possessore, ma anche al proprietario ed al titolare di altro diritto reale di godimento.

La struttura del procedimento, nell'uno come nell'altro caso, è modellata sulla falsariga di quello disegnato dagli artt. 669-bis e ss. c.p.c. e, in particolare, dei procedimenti cautelari a giudizio di merito solo eventuale (cfr. l'art. 669-octies c.p.c.): in tal senso, dunque, la novella legislativa apportata con il d.l. n. 35 del 2005, conv. con mod. dalla l. n. 80 del 2005 ha profondamente inciso sulla originaria struttura bifasica del procedimento possessorio, come delineata da Sez. U, n. 01984/1998, Vella, Rv. 512984-01, rendendola solo eventualmente tale.

Nel corso dell’anno appena trascorso, in ogni caso, l’interesse della Corte si è appuntato specialmente sulle azioni possessorie.

Così, per Sez. 2, n. 36612/2021, Giannaccari, Rv. 662978-01 è da escludere che ricorra un'ipotesi di "mutatio libelli" ovvero un vizio di ultrapetizione nel caso in cui, a fronte della chiesta tutela del possesso esclusivo (sub specie di domanda di reintegra nel possesso), sia stato invece riconosciuto il compossesso sul bene, in quanto il fatto costitutivo della domanda resta il possesso, mutando solo il profilo giuridico dell'azione; ne consegue che non può ritenersi inibito al giudice, nel sovrano apprezzamento delle prove, di scorgere, anziché una situazione di possesso solitario, una convergenza di poteri di fatto, che si traducono sostanzialmente in possesso.

Quanto, poi, all'individuazione del legittimato passivo, Sez. 2, n. 21613/2021, Criscuolo, Rv. 662058-01, ritiene passibile di azione di reintegrazione, ex art. 1168 c.c., colui che, consapevole di un possesso in atto da parte di un altro soggetto, anche se ritenuto indebito, sovverta, clandestinamente o violentemente, a proprio vantaggio la signoria di fatto sul bene, nel convincimento di operare nell'esercizio di un proprio diritto reale, essendo, in tali casi, "l'animus spoliandi in re ipsa", né potendo invocarsi il principio di legittima autotutela, il quale opera nell'immediatezza di un subìto ed illegittimo attacco al proprio possesso.

Incombe, in ogni caso, su colui che assume di avere subìto uno spoglio clandestino l'onere della prova della tempestività dell'azione di reintegra, il cui termine di un anno inizia a decorrere non già da quando il ricorrente sia venuto effettivamente a conoscenza dello spoglio, bensì da quando egli sia stato nella condizione di potersene accorgere, usando la diligenza ordinaria dell'uomo medio. (Nella specie, Sez. 2, n. 23870/2021, Casadonte, Rv. 662076-01, ha ritenuto che, nel caso di spoglio clandestino del possesso di una servitù di passaggio a favore di un terreno concesso in affitto, la decorrenza del termine annuale per l'esercizio dell'azione di reintegra non era impedita per il solo fatto che il passaggio fosse effettuato dall'affittuario, anziché dalla proprietaria del terreno). A tale riguardo, peraltro, Sez. 2, n. 35932/2021, Tedesco, Rv. 662973-01 specifica che il principio fissato dall'art. 1167, comma 2, c.c. per il quale l'interruzione dell'usucapione si ha per non avvenuta ove, entro l'anno dalla privazione del possesso, sia stata proposta l'azione diretta a recuperarlo e questa sia stata, anche in epoca successiva, accolta, non è limitato al campo della usucapione, ma costituisce applicazione particolare di un principio di carattere generale per cui, alle indicate condizioni, gli effetti della privazione del possesso vengono retroattivamente rimossi, come confermato dagli artt. 1168 e 1170 c.c., che fissano in un anno il termine di decadenza per l'esercizio dell'azione di spoglio.

Occupandosi dell’istruttoria legata al procedimento possessorio e avuto particolare riguardo alla sorte delle deposizioni rese nella fase sommaria di tale giudizio, Sez. 2, n. 21072/2021, Varrone, Rv. 661942-01 ribadisce che le stesse, ove assunte in contraddittorio tra le parti, sotto il vincolo del giuramento e sulla base delle indicazioni fornite dalle parti nei rispettivi atti introduttivi, sono da considerare come provenienti da veri e propri testimoni, mentre devono essere qualificati come "informatori" - le cui dichiarazioni sono comunque utilizzabili ai fini della decisione, anche quali indizi liberamente valutabili - coloro che abbiano reso "sommarie informazioni" ai sensi dell'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c.., ai fini dell'eventuale adozione del decreto "inaudita altera parte".

Ove, infine, lo spogliato agisca per conseguire il risarcimento dei danni, precisa Sez. 2, n. 31642/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 662863-01 che lo stesso è soggetto al normale onere della prova in tema di responsabilità per fatto illecito; sicché qualora non abbia provato il pregiudizio sofferto, non può emettersi, in suo favore, condanna al risarcimento con liquidazione equitativa dei danni.

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CAPITOLO V

COMUNIONE E CONDOMINIO

(di Valeria Pirari )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le parti comuni nel condominio di edifici. - 3 Il godimento della cosa comune. - 4 Le innovazioni. - 5 La responsabilità del condominio. - 6 Il regolamento di condominio. - 7 La ripartizione delle spese condominiali. - 8 L’amministratore: la nomina e le attribuzioni. - 8.1 La revoca dell’amministratore. - 8.2 La legittimazione processuale dell’amministratore di condominio. - 9 L’assemblea e l’impugnazione delle deliberazioni assembleari. - 9.1 Competenza e modalità di convocazione. - 9.2 L’impugnazione.

1. Premessa.

Nel corso del 2021 la S.C. è più volte intervenuta in materia condominiale, affinando alcune delle principali problematiche, sia sostanziali che processuali, che con maggiore frequenza si pongono in rapporto all’istituto giuridico del condominio, talvolta operando significative specificazioni di principi già elaborati nella precedente produzione giurisprudenziale, talaltra sviluppando nuovi profili alla luce della novella introdotta con la l. 11 dicembre 2012, n. 220, recante “Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici”.

2. Le parti comuni nel condominio di edifici.

L’art. 1117 c.c., norma che introduce la disciplina codicistica del condominio, individua, con elencazione non tassativa, i beni che sono presuntivamente di proprietà e godimento comune in relazione alla loro funzione e al collegamento strutturale con le unità immobiliari di proprietà esclusiva costituenti il condominio.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, il presupposto perché si instauri un diritto di condominio su un bene comune è costituito dalla relazione di accessorietà strumentale e funzionale che collega i piani o le porzioni di piano di proprietà esclusiva agli impianti o ai servizi di uso comune, rendendo il godimento del bene comune strumentale al godimento del bene individuale e non suscettibile di autonoma utilità, come avviene invece nella comunione (Sez. 2, n. 04973/2007, Trombetta, Rv. 596943-01).

Sicché, giusta Sez. 2, n. 00884/2018, Scarpa, Rv. 647073-01, la disciplina del condominio degli edifici è ravvisabile ogni qual volta sia accertato in fatto un rapporto di accessorietà necessaria che lega alcune parti comuni - quali quelle elencate in via esemplificativa dall'art. 1117 c.c. - ad unità o porzioni di proprietà individuale, delle quali le prime rendono possibile l'esistenza stessa o l'uso.

Gli elementi cardine, dunque, che consentono di affermare la condominialità dei beni compresi nell’elenco di cui all’art 1117 c.c. (e non solo) sono costituiti dall’assenza di indicazioni contrarie nel titolo e dalla sussistenza della relazione di accessorietà o di collegamento strumentale degli stessi con le singole unità immobiliari.

Con riguardo al titolo, Sez. 2, n. 27363/2021, Oliva, Rv. 662361-01, dopo avere detto che la proprietà comune, in assenza di una volontà derogatoria degli interessati sul regime di loro appartenenza, insorge “ex lege” in seguito all'acquisto della proprietà dei piani o porzioni di piano, in ragione della relazione di accessorietà o di collegamento strumentale con le singole unità immobiliari, ha chiarito che il titolo, richiamato dal ridetto art. 1117 c.c., è da riferire agli atti di acquisto delle altre unità immobiliari, nonché al regolamento di condominio espressamente accettato dai singoli condomini in occasione del loro acquisto, non essendo sufficiente che la proprietà individuale risulti dal titolo di acquisto della parte che si rivendica proprietaria esclusiva del bene (nella specie il terrazzo), sicché, in difetto di tale prova, la presunzione di condominialità spiega piena efficacia.

Discorso diverso va fatto, invece, relativamente agli edifici realizzati da cooperative a contributo statale, ex artt. 201 e ss. del r.d. n. 1165 del 1938, rispetto ai quali, secondo Sez. 2, n. 23876/2021, Tedesco, Rv. 662077-01, il passaggio dal regime della proprietà indivisa, facente capo alla cooperativa, a quello della proprietà frazionata, con la formazione di un condominio, cui partecipa la cooperativa stessa per le unità non ancora trasferite in proprietà ai rispettivi assegnatari, coincide con la stipulazione del primo mutuo individuale e l'acquisto da parte dell'assegnatario dell'alloggio, sicché gli alloggi costruiti in esubero rispetto al numero dei soci, ovvero non ancora assegnati, non entrano a far parte del condominio costituito tra i soci medesimi, non essendo parti comuni dell'edificio, ma, in assenza di un titolo che li attribuisca a tutti o ad alcuni dei condomini, restano piuttosto in proprietà della cooperativa (sulla base di tale principio, è stata dunque cassata la decisione di merito, che aveva ritenuto di proprietà condominiale due appartamenti, costruiti in esubero da una cooperativa a contributo erariale poi estinta, non assegnati formalmente ad alcun socio).

Con riguardo, invece, alla relazione di accessorietà e al collegamento funzionale fra gli impianti o i servizi comuni, da un lato, e le unità in proprietà esclusiva, dall'altro, va innanzitutto detto che tali requisiti, secondo Sez. 6-2, n. 35514/2021, Scarpa, Rv. 663070-01, devono sussistere al momento della nascita del condominio, non rilevando invece il collegamento creato soltanto successivamente alla sua formazione, dal quale potrebbe piuttosto discendere la costituzione di una servitù a carico di porzione di proprietà esclusiva (si parlava, nella specie, dell’assetto proprietario dei cd. volumi tecnici, ossia di quelli destinati a contenere gli impianti tecnici del fabbricato, quali i vani ascensore, caldaia, autoclave, contatori, per essere vincolati all'uso comune, rispetto ai quali, si è detto, non è sufficiente la naturale destinazione o la connessione materiale e strumentale rispetto alle singole parti dell'edificio, essendo necessario anche tale requisito temporale).

Inoltre, occorre tener conto delle caratteristiche strutturali del bene, in virtù delle quali è possibile escludere la presunzione di condominialità dello stesso quando risulti destinato al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari, come sostenuto da Sez. 2, n. 24189/2021, Scarpa, Rv. 662169-01, che ha cassato la pronuncia di merito che aveva omesso di accertare, attraverso l'individuazione e la verifica dell'atto di frazionamento dell'iniziale unica proprietà, se l'obiettiva destinazione primaria del cortile oggetto del giudizio fosse o meno volta al servizio esclusivo di una delle unità immobiliari ivi prospicienti, e da Sez. 2, n. 20555/2021, Dongiacomo, Rv. 661929-02, che ha escluso la necessaria proprietà comune di una canna fumaria, quand’anche ricavata nel vuoto di un muro comune, e affermato che questa ben potrebbe appartenere ad uno solo dei condomini, se destinata a servire esclusivamente l'appartamento o il locale cui afferisce, costituendo detta destinazione titolo contrario alla presunzione legale di comunione.

Non contenendo l’art. 1117 c.c. un’elencazione tassativa, come si è detto, la comproprietà di un bene non indicato in essa può comunque essere attribuita a tutti i condomini, secondo Sez. 2, n. 10370/2021, Scarpa, Rv. 661046-01, o in seguito all'acquisto individuale di una quota del bene, operato con i rispettivi atti, oppure in forza di un contratto costitutivo di comunione, ai sensi degli artt. 1350, n. 3, e 2643, n. 3, c.c., il quale rechi, nella forma scritta essenziale, l'inequivoca manifestazione del consenso unanime dei condomini alla nuova situazione di contitolarità degli immobili individuati nella loro consistenza e localizzazione (si parlava, nella specie, di un tetto avente funzione di copertura di una sola delle unità immobiliari compresa in un condominio orizzontale).

I principi enucleati da Sez. 2, n. 04881/1993, Paolella, Rv. 482042-01, e da Sez. 6-2, n. 17022/2019, Scarpa, Rv. 654613-01, secondo cui la presunzione legale di condominialità stabilita dall'art. 1117 c.c. è applicabile anche in presenza di parti comuni riferite a più edifici, sono stati ribaditi anche nell’anno in rassegna, allorché Sez. 2, n. 02623/2021, Scarpa, Rv. 660315-01, ne ha esteso l’ambito operativo ai casi in cui uno o più beni si trovino in rapporto di accessorietà con una pluralità di edifici costituiti in distinti condomini, giacché oggettivamente e stabilmente destinati all'uso od al godimento di tutti i fabbricati, rispetto ai quali opera la disciplina del condominio e non quella della comunione. Nell’analizzare l’assetto proprietario di una condotta fognaria, si è però precisato che tale principio operi soltanto fino al punto in cui è possibile stabilire a quale degli edifici la conduttura si riferisca, per poi considerare cessata la comunione dal punto in cui le diramazioni siano inequivocabilmente destinate a ciascun edificio, sicché ove i danni subìti da un terzo siano connessi ad un tratto del detto impianto posto ad esclusivo servizio di uno dei condomìni, la relativa responsabilità (nella specie, di natura extracontrattuale, ex art. 2051 c.c.) è addebitabile esclusivamente a quest'ultimo e non all'intero supercondominio, non potendosi estendere agli altri condomìni del complesso gli obblighi di custodia e di manutenzione gravanti sull'amministratore e sull'assemblea del singolo edificio.

L’art. 1118, comma 2, c.c. vieta al condomino di rinunciare al suo diritto sulle parti comuni e questo comporta tendenzialmente la nullità della clausola, contenuta nel contratto di vendita di un’unità immobiliare in condominio, con la quale venga esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune delle parti comuni, in quanto attuativa di quel divieto (in questi termini Sez. 2, n. 3309/1977, Lo Coco, Rv. 386857-01).

Fermo questo principio, Sez. 2, n. 01610/2021, Dongiacomo, Rv. 660162-01, ha tuttavia distinto la c.d. condominialità “necessaria” o “strutturale”, da quella c.d. “funzionale”, sostenendo che il divieto di cessione delle singole unità immobiliari separatamente dal diritto sulle cose comuni, sancito dal ridetto art. 1118, operi soltanto con riguardo alle prime, ossia rispetto a cose comuni indissolubilmente legate, per effetto di incorporazione fisica, a piani o porzioni di piano di proprietà esclusiva oppure rispetto a beni condominiali suscettibili sì di separazione senza pregiudizio reciproco, ma affasciati alle proprietà esclusive da un vincolo di destinazione caratterizzato da indivisibilità per essere gli stessi essenziali per la stessa esistenza di questi ultimi.

Viene a perdere il requisito della condominialità, invece, l’alloggio del portiere che non sia più destinato ad uso condominiale, al quale, secondo Sez. 6-2, n. 35957/2021, Scarpa, Rv. 663217-01, si applica la disciplina della comunione in generale, con la conseguenza che i relativi partecipanti devono contribuire alle spese necessarie per la conservazione ed il godimento del bene, ivi comprese quelle occorrenti per la riparazione del lastrico solare che funge da copertura, ex art. 1126 c.c., in proporzione al solo valore millesimale dell'unità sita nella colonna sottostante al lastrico.

3. Il godimento della cosa comune.

La norma regolatrice, in questa materia, è costituita dall’art. 1102 c.c., dettata in tema di comunione, ma applicabile anche al condominio in forza del richiamo operato dall'art. 1139 c.c.

Tale disposizione, nel permettere a ciascun partecipante di servirsi della cosa comune e di apportarvi anche le modificazioni necessarie per il migliore godimento, pone come condizione limitativa il divieto di alterarne la destinazione e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso, secondo il loro diritto, condizione che, pur avendo portata generale, non è inderogabile, come chiarito da Sez. 2, n. 02114/2018, Carrato, Rv. 647302-01, secondo cui i suddetti limiti possono anche essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale, o da delibere assembleari adottate con il quorum prescritto dalla legge, fermo restando che non è consentita l'introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni.

Osservati questi limiti, dunque, ogni singolo partecipante può trarre dalla cosa comune le utilità che la stessa è in grado di fornire ed apportarvi, a sue spese, tutte quelle modificazioni suscettibili del migliore godimento di essa, laddove per singolo partecipante deve intendersi, secondo Sez. 2, n. 14598/2021, Scarpa, Rv. 661512-01, anche il conduttore di un'unità immobiliare compresa in un edificio condominiale, il quale può, al pari del proprietario, godere delle relative parti comuni e anche, eventualmente, modificarle, purché in funzione del godimento o del miglior godimento dell'unità immobiliare oggetto primario della locazione (limite cd. interno) e sempre che non risulti alterata la destinazione di esse, né pregiudicato il paritario uso da parte degli altri condomini (limite cd. esterno), come accaduto nella fattispecie esaminata, caratterizzata dal fatto che la conduttrice avesse installato, sulla facciata esterna del fabbricato, una canna fumaria che alterava l’aspetto architettonico dello stabile.

Il superamento del limite dell’uso della cosa comune, secondo Sez. 6-2, n. 35213/2021, Scarpa, Rv. 662899-01, deve essere dedotto e provato dal comproprietario che agisce in giudizio per ottenere la rimozione dell'opera nei confronti del condomino che abbia apportato modifiche alla "res", trattandosi di fatto costitutivo, inerente alle condizioni dell'azione esperita, laddove il convenuto può limitarsi a contestare genericamente l'avversa domanda, salvo che invochi a suo favore fatti o titoli diversi, impeditivi, limitativi o estintivi del diritto invocato dalla controparte, nel qual caso ne assume l'onere della prova, mentre il giudizio sulla lesione dell’aspetto architettonico dell’edificio è demandato al giudice di merito, il quale è chiamato a specificare, in sede interpretativa, la concreta ricorrenza, nella vicenda dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo, posto che tale concetto non poggia su leggi generalizzabili, ma studia oggetti singoli, al pari di quelli elaborati dalle scienze idiografiche (qual è, appunto, l'architettura), e non è perciò connotato dall'assolutezza dell'inferenza induttiva tipica delle scienze che, al contrario, elaborano frequenze statistiche direttamente rilevanti per l'accertamento del fatto litigioso, sicché il relativo giudizio è incensurabile in cassazione, se privo di errori logici o giuridici (in tal senso, Sez. 2, n. 29584/2021, Scarpa, Rv. 662706-02).

Quanto alla valutazione circa l’avvenuta violazione del primo dei due limiti, ossia quello afferente al divieto di alterare la destinazione della cosa comune, è necessario considerare, di volta in volta, le caratteristiche e la funzione da essa assolta.

Posto, ad esempio, che i muri maestri o portanti assolvono alla funzione di sostenere l'edificio, integrandone la struttura, onde garantirne sicurezza e stabilità, il divieto viene a colpire le sole opere che ne comportino l’indebolimento, ma non anche quegli interventi che non pregiudichino o non mettano in pericolo la sicurezza statica e l'agibilità del fabbricato, come sostenuto da Sez. 2, n. 35851/2021, Varrone, Rv. 662912-01, allorché ha escluso la configurabilità di un abuso della cosa comune, suscettibile di ledere i diritti degli altri condomini, nella condotta del condomino che abbia praticato lo scavo di una nicchia o l’allargamento o l’apertura di un varco sui muri posti all’interno di un’unità immobiliare, qualora non sia posta in pericolo la fondamentale funzione di assicurare la stabilità dell'edificio e non si comprometta la sicurezza o altre essenziali caratteristiche del muro posto a servizio dell'edificio, non comportando per costoro una qualche impossibilità di far parimenti uso del muro stesso ai sensi dell'art. 1102, comma 1, c.c.; oppure da Sez. 2, n. 07870/2021, Giusti, Rv. 660839-01, che ha ritenuto non violato il suddetto limite nella costruzione, da parte di uno dei condomini, di una tettoia, appoggiata al muro perimetrale condominiale, a copertura di alcuni posti auto siti all'interno della sua proprietà esclusiva, purché non contrastante con la destinazione del muro e non impeditiva del diritto degli altri condomini di farne uso secondo la sua destinazione, non dannosa per le parti comuni e non pregiudizievole per la stabilità, la sicurezza o il decoro architettonico dell'edificio.

Allo stesso modo, considerata la funzione assolta dal tetto preesistente, la trasformazione, ad opera del condomino-proprietario, del piano sottostante al tetto comune dell'edificio in terrazza di proprio uso esclusivo, secondo Sez. 2, n. 02126/2021, Scarpa, Rv. 660434-01, non viola il limite di cui all’art. 1102 c.c., purché le modifiche apportate non siano significative in merito alla consistenza del bene in rapporto alla sua estensione e la sua attuazione avvenga con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio di una terrazza mediante idonei materiali.

Diversamente, si è ritenuto in caso di apertura, da parte del condomino, di un varco sul muro dell'edificio condominiale, al fine di mettere in comunicazione l'appartamento di sua proprietà esclusiva con l'andito di una scala destinata a servire un'altra parte di fabbricato, in quanto considerata da Sez. 6-2, n. 35955/2021, Scarpa, Rv. 663074-01, impositiva di un peso sul bene che darebbe luogo ad una servitù in favore di una unità immobiliare esterna alla limitata contitolarità di esso, con conseguente alterazione della destinazione di cosa comune, oppure in caso di mutamento di destinazione d'uso, da palestra ad autorimessa, di un immobile posto su una strada privata ad uso pubblico, con la connessa apertura di sei accessi carrabili, ancorché assistito dal rilascio delle relative concessioni, in quanto considerato da Sez. 2, n. 24937/2021, Carrato, Rv. 662190-01, impeditivo, per gli altri condomini, della possibilità di continuare a fruire pienamente del parcheggio secondo le antecedenti modalità.

Quanto al secondo limite, ossia quello relativo al divieto di impedire agli altri partecipanti di fare parimenti uso della cosa comune, Sez. 6-2, n. 11870/2021, Scarpa, Rv. 661236-01, considera la nozione di “pari uso” della cosa comune di cui all'art. 1102 c.c. non in termini di utilizzo identico e contemporaneo, ma di compatibilità della destinazione della cosa con i diritti dei partecipanti.

Pertanto, viola tale divieto il proprietario di un vano terraneo dell'edificio condominiale che esegua, in corrispondenza dell'accesso al proprio locale, modificazioni della pavimentazione e dell'arredo del marciapiede condominiale, per consentirne l'attraversamento con autovetture, ove da tale utilizzazione della cosa comune risulti alterata la destinazione e sia impedito agli altri condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto (vedi Sez. 6-2, n. 11870/2021, Scarpa, Rv. 661236-01 cit.).

Peraltro, la controversia avente ad oggetto la realizzazione di un cancello scorrevole nell'androne condominiale ed in adiacenza a tre appartamenti di proprietà di altro condomino, al fine di delimitare la proprietà comune da quella privata, secondo Sez. 6-2, n. 36967/2021, Tedesco, Rv. 663086-01, non investe i limiti qualitativi di esercizio delle facoltà comprese nel diritto di comunione, relativi al modo più conveniente ed opportuno con cui detta facoltà debba esercitarsi, ma implica la sussistenza di un vero e proprio conflitto tra proprietà individuale e proprietà condominiale, il quale, dunque, non è di competenza del giudice di pace ex art. 7 c.p.c., ma è soggetto agli ordinari criteri della competenza per valore.

4. Le innovazioni.

L’art. 1120 c.c., nella formulazione previgente alle modifiche apportate dalla l. n. 220 del 2012, stabiliva che i condomini potessero deliberare innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni e che fossero vietate quelle che potessero “recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato”, che ne alterassero il decoro architettonico o che rendessero talune parti comuni dell'edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.

Successivamente all’entrata in vigore della novella del 2012 e dunque a decorrere dal 18 giugno 2013, trova, invece, applicazione il nuovo testo dell’art. 1120, a mente del quale i condomini, con la maggioranza indicata dal secondo comma dell'articolo 1136 c.c., possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della normativa di settore, riguardino: 1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti; 2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell’edificio, nonché per la produzione di energia mediante l’utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune; 3) l’installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri condomini di farne uso secondo il loro diritto. E’ rimasto, invece, inalterato il divieto di innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino.

Costituisce innovazione agli effetti dell'art. 1120 c.c. non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune (come in caso dell’opera di rivestimento ligneo delle porte degli ascensori condominiali, trattandosi di un intervento diretto a rendere più comodo il godimento della cosa comune, lasciandone però immutate la consistenza e la destinazione), ma, come ribadito da Sez. 6-2, n. 35957/2021, Scarpa, Rv. 663217-02, solamente quella modificazione materiale che ne alteri l'entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria, mentre il relativo accertamento dà luogo a un'indagine di fatto insindacabile in sede di legittimità, se sostenuta da corretta e congrua motivazione.

Non rientra, dunque, tra le innovazioni voluttuarie o gravose ai sensi della norma citata, né può configurare bene destinato a servire i condomini in misura diversa o solo una parte dell'intero fabbricato, secondo Sez. 2, n. 10371/2021, Scarpa, Rv. 661618-01, la realizzazione di un "cappotto termico" sulle superfici esterne dell'edificio condominiale, la quale è invece ricompresa tra le opere destinate al vantaggio comune dei proprietari, inclusi quelli dei locali terranei, siccome finalizzata alla coibentazione dell'edificio condominiale e al miglioramento della sua efficienza energetica, con la conseguenza che, ove la sua realizzazione sia deliberata dall'assemblea, trova applicazione l'art. 1123, comma 1, c.c., per il quale le spese sono sostenute da tutti i condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno.

La nozione di aspetto architettonico di cui all’art. 1120 c.c., infine, è, secondo Sez. 2, n. 33104/2021, Scarpa, Rv. 662751-01, complementare, ancorché differente, a quella sancita dall’art. 1127, comma 3, c.c., che costituisce un limite al diritto di sopraelevazione e che non può prescindere dalla prima disposizione, sicché anche l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare, rispetto al preesistente complesso, una rilevante disarmonia percepibile da qualunque osservatore (come in caso di corpo estraneo visibile per un breve tratto dalla strada e dalle finestre dei condomini attori e di altri fondi privati), senza che occorra che l'edificio sia dotato di particolare pregio artistico, ma soltanto di una fisionomia propria, a meno che, per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, non si trovi in stato di degrado complessivo tale da rendere ininfluente ogni ulteriore intervento. Peraltro, l'apprezzamento del giudice, da condurre in base alle caratteristiche stilistiche dell'immobile al fine di verificare l'esistenza di un danno economicamente valutabile, sfugge al sindacato di legittimità ove congruamente motivato.

5. La responsabilità del condominio.

Il condominio è custode delle parti comuni e di quelle che, indipendentemente dall’assetto proprietario, sono funzionalmente asservite alle proprietà esclusive.

Quando il danno derivante dall’omessa manutenzione delle parti comuni di un edificio vada ad incidere sulla unità immobiliare di un condomino, quest’ultimo, secondo Sez. 6-2, n. 18187/2021, Scarpa, Rv. 661729-01, assume, quale danneggiato, la posizione di terzo avente diritto al risarcimento nei confronti del condominio, senza tuttavia essere esonerato dall'obbligo - che trova la sua fonte nella comproprietà o nella utilità di quelle e non nella specifica condotta illecita ad esso attribuibile - di contribuire, a propria volta e "pro quota", alle spese necessarie per la riparazione delle parti comuni, nonché alla rifusione dei danni cagionati.

6. Il regolamento di condominio.

L’art. 1138 c.c. prescrive l’adozione di un regolamento condominiale quando il numero dei condomini sia superiore a dieci; il regolamento, che costituisce espressione dell’autonomia organizzativa nel condominio, deve contenere le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione.

Il regolamento condominiale si distingue dal regolamento contrattuale, che postula una “convenzione” intervenuta tra tutti i condomini in via contestuale ovvero mediante adesione di tutti gli acquirenti, attraverso i loro “atti di acquisto”, ad un testo di regolamento predisposto dall’originario proprietario alienante.

Chiarisce Sez. 2, n. 23128/2021, Scarpa, Rv. 662142-01, che l'interpretazione delle clausole di un regolamento contrattuale contenenti criteri convenzionali di ripartizione delle spese per la conservazione ed il godimento delle cose comuni è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale ovvero per l'omesso esame di un fatto storico, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.

Da un punto di vista processuale, poi, spiega Sez. 6-2, n. 06656/2021, Scarpa, Rv. 660940-01, che l'azione di nullità del regolamento "contrattuale" di condominio è esperibile non già nei confronti dell'amministratore, carente di legittimazione passiva, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, in situazione di litisconsorzio necessario, trattandosi, da un punto di vista strutturale, di un contratto plurilaterale avente scopo comune. Pertanto, la sentenza che dichiari la nullità di clausole dello stesso, accogliendo la domanda proposta nei confronti del solo amministratore, non solo è inidonea a fare stato nei confronti degli altri condomini, ma neppure può essere appellata da uno ovvero alcuni di essi, benché si tratti degli effettivi titolari (dal lato attivo e passivo) del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, potendo detto potere processuale essere riconosciuto soltanto a chi abbia assunto la qualità di parte nel giudizio conclusosi con la decisione impugnata.

7. La ripartizione delle spese condominiali.

L’art. 1123, comma 1, c.c. stabilisce il criterio generale di ripartizione delle spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Secondo la predetta disposizione, tali spese sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione.

In proposito, Sez. 2, n. 24166/2021, Giannaccari, Rv. 662146-01, ha chiarito che solo le spese afferenti a parti dell'edificio comuni o ritenute tali in base a norma regolamentare e che adempiano, attraverso le opere poste in essere, ad una funzione di prevenzione di eventi che potrebbero interessare l'intero edificio condominiale, devono essere ripartite tra tutti i condomini, in proporzione al valore della quota di ciascuno, mentre sono escluse da tale disposizione quelle relative a utilità riguardanti la singola proprietà esclusiva o a interventi che non possano in alcun modo servire ad uno o più condomini, non essendo gli stessi obbligati a contribuire alle spese relative (In ragione di tale principio, è stata dunque cassata la decisione con la quale la corte d'appello aveva ritenuto legittima la delibera condominiale che aveva posto a carico dei condomini non proprietari le spese concernenti la progettazione e l'esecuzione dei lavori di adeguamento alla normativa antincendi di autorimesse interrate di proprietà esclusiva e dei relativi spazi di manovra, stante l'assenza per essi di utilità, e l'irrilevanza del beneficio solo indiretto ritratto).

Il concorso nelle spese di riparazione o di ricostruzione e nella responsabilità per i danni da infiltrazioni nell'appartamento sottostante, in base ai criteri di cui all'art. 1126 c.c., vale, secondo Sez. 6-2, n. 35316/2021, Scarpa, Rv. 663068-01, per la terrazza a livello, ossia per quella superficie scoperta che, benché non posta sulla sommità del fabbricato ed incassata nel corpo dello stesso, sia collocata al sommo di alcuni vani e nel contempo sullo stesso piano di altri, dei quali formi parte integrante strutturalmente e funzionalmente, e sia dunque destinata tanto a coprire la verticale di edificio sottostante, quanto a dare affaccio e ulteriori comodità all'appartamento cui è collegata, la quale è da equiparare al lastrico solare.

Nel caso in cui l’unità immobiliare sita nel condominio sia venduta successivamente alla delibera assembleare che abbia disposto l'esecuzione di lavori consistenti in innovazioni, manutenzione straordinaria o ristrutturazione sulle parti comuni, i costi di detti lavori, ad avviso di Sez. 2, n. 11199/2021, Scarpa, Rv. 661213-02, gravano, secondo un criterio rilevante anche nei rapporti interni tra compratore e venditore, su chi era proprietario dell'immobile compravenduto al momento dell'approvazione di detta delibera, la quale ha valore costitutivo della relativa obbligazione, anche se poi le opere siano state, in tutto o in parte, realizzate in epoca successiva all'atto traslativo. Ciò dà diritto all’acquirente di rivalersi nei confronti del proprio dante causa, per quanto pagato al condominio in forza del principio di solidarietà passiva ex art. 63 disp. att. c.c., salvo che sia diversamente convenuto tra venditore e compratore, pur rimanendo comunque inopponibili al condominio i patti eventualmente intercorsi tra costoro.

Se poi le spese legate alla gestione delle cose comuni siano state corrisposte dal singolo condomino ai sensi dell’art. 1134 c.c., il diritto al rimborso non può insorgere in caso di mera trascuranza degli altri comunisti alla stregua di quanto sancito nella comunione ordinaria dall’art. 1100 c.c., ma, come ribadito da Sez. 2, n. 27106/2021, Scarpa, Rv. 662359-01, presuppone il requisito dell'urgenza, intendendo la legge trattare con rigore la possibilità che il singolo possa intervenire nell'amministrazione dei beni in proprietà, sicché ha confermato la pronuncia di merito che, su un condominio minimo, aveva negato il diritto al rimborso delle spese anticipate per le parti comuni, attesa la carenza del requisito della loro indifferibilità.

Quanto, poi, ai rapporti del condominio con i terzi, Sez. 2, n. 10371/2021, Scarpa, Rv. 661618-02, ha chiarito che l’obbligo, gravante sul singolo partecipante, di sostenere le spese condominiali per la conservazione delle parti comuni è autonomo dalle vicende debitorie del condominio verso i suoi appaltatori o fornitori, atteso che mentre il primo trova fondamento nelle norme che regolano il regime di contribuzione alle spese per le cose comuni di cui agli artt. 1118 e 1123 ss. c.c., le seconde trovando causa nel rapporto contrattuale col terzo, approvato dall'assemblea e concluso dall'amministratore in rappresentanza dei partecipanti al condominio, sicché il pagamento diretto eseguito dal singolo partecipante a mani del creditore del condominio non è idoneo ad estinguere il debito "pro quota" dello stesso relativo ai contributi ex art. 1123 c.c..

Qualora poi un soggetto subentri nei diritti del condomino al pagamento dei contributi dell'anno in corso e di quello precedente, ai sensi del previgente art. 63, comma 2, disp. att. c.c. ora divenuto, in forza della l. n. 220 del 2012, comma 4, Sez. 2, n. 11199/2021, Scarpa, Rv. 661213-01, ha chiarito che la solidarietà passiva nel rapporto obbligatorio è prevista dal legislatore nell'interesse del creditore e serve a rafforzare il diritto di quest'ultimo, consentendogli di ottenere l'adempimento dell'intera obbligazione da uno qualsiasi dei condebitori, mentre non ha alcuna influenza nei rapporti interni tra condebitori solidali, fra i quali l'obbligazione si divide secondo quanto risulta dal titolo o, in mancanza, in parti uguali. Da ciò consegue che, se il creditore conviene in giudizio più debitori, sostenendone la responsabilità solidale ed il giudice, invece, condanna uno solo di essi, con esclusione del rapporto di solidarietà, il debitore condannato, ove non abbia proposto alcuna domanda di rivalsa nei confronti del preteso condebitore solidale e, dunque, non abbia dedotto in giudizio il rapporto interno che lo lega agli altri debitori, non ha un interesse ad impugnare tale sentenza, nella parte in cui esclude la solidarietà, perché essa non aggrava la sua posizione di debitore dell'intero, né pregiudica il suo eventuale diritto di rivalsa.

8. L’amministratore: la nomina e le attribuzioni.

L’art. 1129 c.c., nella formulazione attualmente vigente, prevede che quando i condomini siano più di otto, la nomina dell’amministratore, se l’assemblea non vi provvede, è fatta dall’autorità giudiziaria su ricorso di uno o più condomini o dell’amministratore dimissionario.

Secondo quanto chiarito da Sez. 3, n. 11717/2021, Scarano, Rv. 661321-01, l'amministratore nominato dal tribunale ex art. 1129 c.c., in sostituzione dell'assemblea che non vi provvede, sebbene non rivesta la qualità di ausiliario del giudice ma instauri, con i condomini, un rapporto di mandato, non può essere equiparato all'amministratore nominato dall'assemblea, in quanto la sua nomina non trova fondamento in un atto fiduciario dei condomini, ma nell'esigenza di ovviare all'inerzia del condominio ed è finalizzata al mero compimento degli atti o dell'attività non compiuta; pertanto, il termine di un anno previsto dall'art. 1129 c.c. non costituisce il limite minimo di durata del suo incarico ma piuttosto il limite massimo di durata dell'ufficio, il quale può cessare anche prima se vengono meno le ragioni della nomina (nella specie, per l'avvenuta nomina dell'amministratore fiduciario), restando applicabile, ai fini della determinazione del compenso, l'art.1709 c.c.

Le attribuzioni dell’amministratore sono descritte dall’art. 1130 c.c., a mente del quale questi è tenuto, tra le altre cose, a convocare l’assemblea per l’approvazione del rendiconto e ad eseguirne le deliberazioni, a curare l’osservanza del regolamento, a disciplinare l’uso delle cose comuni, a riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria, a compiere gli atti conservativi delle parti comuni, a conservare la documentazione contabile e a fornirne copia al condomino che ne faccia richiesta, e dall’art. 1130-bis, quanto alla redazione del rendiconto condominiale.

Con riguardo alla tenuta della contabilità, Sez. 6-2, n. 05443/2021, Scarpa, Rv. 660451-01, ha chiarito che ciascun condomino ha diritto di prendere visione e di ottenere dall'amministratore il rilascio di copia dei documenti attinenti all'adempimento degli obblighi da questo assunti per la gestione collegiale di interessi individuali (nella specie, finalizzati al compimento di atti conservativi relativi alle parti comuni quali una diffida inoltrata per far cessare la realizzazione di lavori abusivi su aree condominiali), senza avere l'onere di specificare ulteriormente le ragioni della richiesta, purché l'esercizio di tale diritto non risulti di ostacolo all'attività di amministrazione, non sia contraria ai principi di correttezza e non si risolva in un onere economico per il condominio, dovendo i costi relativi alle operazioni compiute gravare esclusivamente sui condomini richiedenti.

Peraltro, in caso di cessazione dall’incarico, l’amministratore, secondo Sez. 6-2, n. 18185/2021, Scarpa, Rv. 661728-01, è tenuto a restituire tutta la documentazione in suo possesso ed afferente alla gestione condominiale, mediante riconsegna all'amministratore subentrante, ove l'assemblea abbia provveduto alla sua designazione - spiegando la relativa delibera di nomina efficacia anche nei confronti dei terzi, ai fini della rappresentanza sostanziale del condominio - ovvero al singolo condomino che gliene faccia richiesta, nel caso di mancata nomina del nuovo amministratore, non legittimando siffatta evenienza uno "ius retinendi" rispetto a detta documentazione, né un esonero dal rendiconto, stante la già avvenuta estinzione del mandato collettivo intercorrente tra l'amministratore uscente e ciascuno dei condomini e potendosi presumere che l'istanza di uno di essi interessi egualmente tutti gli altri, in quanto affare agli stessi comune.

Quanto, infine, al compenso, Sez. 2, n. 36430/2021, Bertuzzi, Rv. 663019-01, ha chiarito che le controversie in merito alla sua determinazione rientrano nella competenza del giudice ordinario e non in quella del giudice del lavoro, giacché il rapporto tra quello ed il condominio non solo è qualificabile in termini di mandato (le cui disposizioni sono applicabili ex art. 1129, comma 15, c.c., per quanto non disciplinato in modo specifico da detta norma), ma è, altresì, privo del requisito della coordinazione ed ingerenza caratterizzante la parasubordinazione ex art. 409, comma 1, n. 3., c.p.c., stante la particolare natura del condominio (soggetto sostanzialmente privo di organizzazione ed avente come unico fine la gestione dei beni comuni in funzione del godimento della proprietà esclusiva), la quale esclude sia qualsiasi inserimento dell'amministratore in una qualche organizzazione esterna, che un potere continuo e diffuso di intervento ed intromissione del preponente, tanto più considerato che la l. n. 220 del 2012 ha ulteriormente delineato l'attività dell'amministratore in termini di professionalità e autonomia.

8.1. La revoca dell’amministratore.

L’art. 1129 c.c., nella formulazione attualmente vigente, prevede altresì che la revoca dell’amministratore può essere deliberata, in ogni momento, dall’assemblea, con la stessa maggioranza prevista per la sua nomina oppure con le modalità previste dal regolamento di condominio, o può essere disposta dall’autorità giudiziaria, su richiesta di ciascun condomino, nei casi previsti dall’art. 1131 c.c., se non viene reso il conto della gestione, o in caso di gravi irregolarità, tra le quali rientrano gli inadempimenti tipizzati nella medesima disposizione in ragione della loro gravità, e che il procedimento nell’ambito del quale vengono accertati i presupposti della revoca è quello camerale di cui agli artt. 737 e ss. c.c.

In caso di revoca deliberata dall’assemblea prima della scadenza del termine previsto nell'atto di nomina, l'amministratore ha diritto, oltre al soddisfacimento dei propri eventuali crediti, anche al risarcimento dei danni, in applicazione dell'art. 1725, comma 1, c.c., salvo che sussista una giusta causa, indicativamente ravvisabile tra quelle che giustificano la revoca giudiziale dello stesso incarico (Sez. 2, n. 07874/2021, Scarpa, Rv. 661043-01).

Quando sia invece revocato dall’autorità giudiziaria, l’amministratore è tenuto, ai sensi dell'art. 1713 c.c., a rendere il conto della sua gestione e a rimettere ai condomini tutto ciò che ha in cassa, indipendentemente dall'esercizio cui le somme si riferiscono, ancorché non operi, in tal caso, alcuna "perpetuatio" o "prorogatio" di poteri in capo ad esso, non essendo ravvisabile una presunta volontà conforme dei condomini in tal senso ed essendo anzi la revoca espressione di una volontà contraria alla conservazione dei poteri di gestione (Sez. 2, n. 19436/2021, Scarpa, Rv. 661697-01).

8.2. La legittimazione processuale dell’amministratore di condominio.

I poteri di rappresentanza processuale dell’amministratore, sia dal lato attivo, sia passivo, sono correlati alle attribuzioni stabilite dall’art. 1130 c.c. e ai poteri conferitigli dal regolamento condominiale. L’art. 1131 stabilisce, infatti, che l’amministratore, nei limiti delle proprie attribuzioni o del maggiori poteri conferitigli dal regolamento del condominio o dall’assemblea, ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condomini, sia contro i terzi, può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio ed è destinatario della notifica dei provvedimenti dell’autorità amministrativa che si riferiscono allo stesso oggetto.

A questo riguardo, secondo Sez. 2, n. 02127/2021, Scarpa, Rv. 660164-01, il potere dell'amministratore di rappresentare il condominio nelle liti proposte contro il medesimo di cui all'art. 1131 c.c. deriva direttamente dalla legge e non può soffrire limitazione né per volontà dell'amministratore né per deliberazione dell'assemblea, sicché la clausola contenuta in un regolamento condominiale (ancorché deliberato per mutuo accordo tra tutti gli originari condomini), secondo cui l'autorizzazione a stare in giudizio debba essere deliberata dall'assemblea, semmai a maggioranza qualificata, non ha efficacia giuridica, poiché il quarto comma dell'art. 1138 c.c. prevede che le norme regolamentari non possono derogare alle disposizioni ivi menzionate, fra le quali è appunto compresa quella di cui all'art 1131 citato.

Pertanto, se nelle controversie condominiali che investono i diritti dei singoli condòmini sulle parti comuni, come ricordato da Sez. 2, n. 40857/2021, Scarpa, Rv 663396-01, in continuità con Sez. U, n. 10934/2019, D’Ascola, Rv. 653787-01, ciascun condomino ha una concorrente legittimazione ad agire e resistere in giudizio a tutela dei suoi diritti di comproprietario "pro quota", operando la regola sulla rappresentanza dell'amministratore di cui al 1131 c.c. al solo fine di agevolare l'instaurazione del contraddittorio, non così accade in caso di controversia promossa nei confronti del condominio da un terzo creditore, per ottenere il pagamento di un'obbligazione assunta dall'amministratore per conto dei partecipanti, ovvero per dare esecuzione a delibere assembleari, erogare le spese occorrenti ai fini della manutenzione delle parti comuni o l'esercizio dei servizi condominiali, nella quale la legittimazione passiva spetta al solo amministratore, essendo la stessa intesa a soddisfare esigenze collettive della comunità condominiale, potendo, invece, il singolo condomino svolgere intervento adesivo dipendente, senza però essere ammesso a proporre gravame avverso la sentenza che abbia visto soccombente il condominio. Tuttavia, la legittimazione del singolo condomino a proporre opposizione avverso il decreto ingiuntivo pronunciato a carico del condominio può discendere dalla considerazione che il decreto stesso possa estendere i propri effetti ed essere posto in esecuzione anche contro i condòmini, derivando dall'esistenza dell'obbligazione assunta nell'interesse del condominio la responsabilità dei singoli componenti in proporzione delle rispettive quote.

Nella stessa pronuncia (Rv. 663396-02) è stato peraltro chiarito che gli amministratori di più condomìni di edifici compresi in un supercondominio non sono legittimati ad opporsi, in rappresentanza dei partecipanti ex art. 1131 c.c., al decreto ingiuntivo intimato da un creditore al supercondominio per ottenere il pagamento di un'obbligazione contratta dall'amministratore dello stesso, né possono far valere l'obbligo di manleva assunto da quest'ultimo nei confronti ed a beneficio del supercondominio garantito.

In linea con questi principi, dunque, l’amministratore ha legittimazione passiva rispetto alla domanda, proposta in un giudizio pendente anteriormente alla l. n. 220 del 2012, volta alla determinazione o alla revisione, ex art. 69 disp. att. c.c., della tabella millesimale, in applicazione aritmetica dei criteri legali, senza alcuna necessità di litisconsorzio tra tutti i condomini, trattandosi di controversia rientrante tra le attribuzioni allo stesso riconosciute dall'art. 1130 c.c. e nei correlati poteri rappresentativi processuali (Sez. 2, n. 02635/2021, Scarpa, Rv. 660247-01), oppure, in caso di recesso anticipato dal contratto di manutenzione dell’ascensore deliberato dall’assemblea, rispetto alla controversia instaurata dall’appaltatore al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità del recesso e la condanna del condominio al pagamento dei canoni fino alla naturale scadenza contrattuale, oltreché rispetto alla facoltà di impugnare la sentenza resa nell’ambito della medesima controversia, senza che occorrano l'autorizzazione o la ratifica dell'assemblea, necessarie per le sole cause che esorbitano dalle attribuzioni dello stesso amministratore, ex art. 1131, commi 2 e 3, c.c., ma non per quelle che vi rientrano perché, come nella specie, attinenti all'esecuzione delle delibere assembleari, ex art. 1130, n. 1, c.c. (Sez. 2, n. 11200/2021, Scarpa, Rv. 661214-01).

Per contro, la domanda volta ad ottenere l'esecuzione di determinate opere sulle parti comuni di un edificio (nella specie, copertura del fabbricato, intonacatura esterna e lavorazioni inerenti alle strutture perimetrali) ovvero l'accertamento dell'obbligo di un condomino di realizzare delle modifiche sulle stesse, impone il litisconsorzio necessario tra tutti i condomini, trattandosi di azioni che investono un rapporto giuridico unico ed inscindibile, finalizzate all'adempimento di una prestazione di "facere" non suscettibile di divisione, in quanto destinata ad incidere sui beni comuni (Sez. 2, n. 02634/2021, Scarpa, Rv. 660246-01), mentre in caso di giudizio di impugnazione avverso una delibera assembleare, ex art. 1137 c.c., la questione dell'appartenenza, o meno, di un'unità immobiliare di proprietà esclusiva ad un condominio edilizio, ovvero della titolarità comune o individuale di una porzione dell'edificio, in quanto inerente all'esistenza del rapporto di condominialità ex art. 1117 c.c., può formare oggetto di un accertamento meramente incidentale, funzionale alla decisione della sola causa sulla validità dell'atto collegiale, ma privo – in assenza di esplicita domanda di una delle parti ai sensi dell'art. 34 c.p.c. - di efficacia di giudicato in ordine all'estensione dei diritti reali dei singoli, svolgendosi il giudizio ai sensi dell'art. 1137 c.c. nei confronti dell'amministratore del condominio, senza la partecipazione, quali legittimati passivi, di tutti i condomini in una situazione di litisconsorzio necessario (Sez. 2, n. 35794/2021, Scarpa, Rv. 662910-01).

Va comunque chiarito che, secondo Sez. 6-2, n. 35576/2021, Criscuolo, Rv. 662900-01, l'iniziativa giudiziaria dell’amministratore a tutela di un diritto comune dei condomini non priva i medesimi del potere di agire personalmente a difesa di quel diritto, nell'esercizio di una forma di rappresentanza reciproca, stante la peculiare natura del condominio, ente di gestione sfornito di personalità distinta da quella dei suoi componenti, i quali devono intendersi rappresentati "ex mandato" dall'amministratore, sicché il condomino che interviene personalmente nel processo promosso dall'amministratore, per far valere diritti della collettività condominiale, non è un terzo che si intromette in una vertenza fra estranei, ma è una delle parti originarie determinatasi a far valere direttamente le proprie ragioni e, ove tale intervento sia stato spiegato in grado di appello, non possono trovare applicazione i principi propri dell'intervento dei terzi in quel grado, fissati nell'art. 344 c.p.c.

9. L’assemblea e l’impugnazione delle deliberazioni assembleari.

9.1. Competenza e modalità di convocazione.

L’assemblea dei condomini, che, ai sensi dell’art. 66, comma 3, disp. att. c.c., nella formulazione introdotta con la l. n. 220 del 2012, deve essere convocata con avviso, contenente specifica indicazione dell’ordine del giorno, da comunicare almeno cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza, è l’organo deliberativo del condominio che provvede, ai sensi dell’art. 1135 c.c., all’adozione di decisioni in merito alla conferma dell’amministratore e alla sua retribuzione, all’approvazione del preventivo delle spese occorrenti e alla ripartizione tra condomini, all’approvazione del rendiconto annuale e all’impiego del residuo attivo e alle opere di manutenzione straordinaria e alle innovazioni, oltre alle questioni elencate negli articoli precedenti.

Sulla tempestività dell’avviso di convocazione rispetto alla riunione fissata per la prima convocazione, avente natura di atto recettizio, Sez. 6-2, n. 18635/2021, Scarpa, Rv. 661733-01, ha chiarito che la relativa prova deve essere fornita dal condominio e che, nel calcolo del termine di "almeno cinque giorni prima", stabilito dall'art. 66, ultimo comma (nella formulazione vigente "ratione temporis"), disp. att. c.c., trattandosi di giorni "non liberi" (stante l'eccezionalità dei termini cd. "liberi" - che escludono dal computo i giorni iniziale e finale - limitati ai soli casi espressamente previsti dalla legge) e da calcolare a ritroso, non va conteggiato il "dies ad quem" (e, cioè, quello di svolgimento della riunione medesima), che assume il valore di capo o punto fermo iniziale, mentre va incluso il "dies a quo" (coincidente con la data di ricevimento dell'avviso), quale capo o punto fermo finale, secondo la regola generale fisata negli artt. 155, comma 1, c.p.c. e 2963 c.c. (nella specie, è stato, perciò, ritenuto tempestivo l'avviso di convocazione ricevuto il 29 marzo, in relazione ad un'assemblea condominiale convocata, per la prima adunanza, in data 3 aprile).

Secondo quanto sostenuto da Sez. 2, n. 23128/2021, Scarpa, Rv. 662142-02, l’assemblea può validamente deliberare a maggioranza, al limitato fine di provvedere alle esigenze di ordinaria gestione delle cose e dei servizi comuni, una ripartizione provvisoria dei contributi tra i condomini, a titolo di acconto salvo conguaglio, solo in mancanza di tabelle millesimali applicabili in relazione alla specifica spesa effettuata, così come, secondo Sez. 6-2, n. 03043/2021, Scarpa, Rv. 660351-01, non inficia la validità della deliberazione assembleare di approvazione del rendiconto presentato dall'amministratore la circostanza che, in essa, si provveda all'impiego degli attivi di gestione, costituiti dai proventi che il condominio trae dalla locazione a terzi di parti comuni, al fine di ridurre, per parziale compensazione, l'importo totale delle spese da ripartire tra i singoli condomini, con conseguente proporzionale incidenza sui conti individuali di questi ultimi e sulle quote dovute dagli stessi; tale decisione, infatti, espressione del potere discrezionale dell'assemblea, non pregiudica l'interesse dei condomini alla corretta gestione del condominio, né il loro diritto patrimoniale all'accredito della proporzionale somma, perché compensata dal corrispondente minore addebito degli oneri di contribuzione alle spese.

L'assemblea del condominio ha peraltro il potere di decidere le modalità concrete di utilizzazione dei beni comuni, nonché di modificare quelle in atto, anche revocando una o precedenti delibere, benché non impugnate da alcuno dei partecipanti e stabilendone liberamente gli effetti, sulla base di una rivalutazione - il cui sindacato è precluso al giudice di merito, se non nei limiti dell'eccesso di potere - dei dati ed apprezzamenti obiettivamente rivolti alla realizzazione degli interessi comuni ed alla buona gestione dell'amministrazione, non producendosi alcun autonomo diritto acquisito in capo ai condomini, ovvero ai terzi, soltanto per effetto ed in sede di esecuzione della precedente delibera (in questi termini, Sez. 2, n. 02636/2021, Scarpa, Rv. 660316-01, che ha cassato la sentenza di merito, che aveva ritenuto illegittima la revoca di precedenti delibere autorizzative all'installazione di un ascensore, per il sol fatto di essere quelle divenute inoppugnabili, senza verificare, al contrario, se la revoca fosse conforme a legge o al regolamento, per non esser stati rispettati i limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c. quanto all'installazione dell'impianto).

Essa, infine, secondo quanto stabilito da Sez. 2, n. 23254/2021, Scarpa, Rv. 662909-01, può altresì validamente autorizzare l’amministratore, nell'esercizio dei poteri di gestione di cui all'art. 1135 c.c., a stipulare una polizza assicurativa per la tutela legale, volta a coprire le spese processuali per tutte le azioni concernenti le parti comuni dell'edificio, promosse da o nei confronti del condominio, al fine di evitare pregiudizi economici ai condomini, non potendo siffatta deliberazione intendersi contraria all'art. 1132 c.c., stante la pressoché totale divergenza di contenuti e di funzione tra l'oggetto del contratto in esame e la menzionata norma, giacché quest'ultima: 1) esclude l'onere del dissenziente di partecipare alla sola rifusione delle spese del giudizio in favore della controparte nel caso d'esito della lite sfavorevole per il condominio, lasciandone tuttavia immutato, nell'inverso caso d'esito della lite favorevole, quello di partecipare alle spese affrontate dal condominio per la propria difesa, ove risultino irripetibili dalla controparte; 2) opera per le sole controversie eccedenti dalle attribuzioni demandate all'amministratore ex artt. 1130 e 1131 c.c., supponendo come condizione essenziale una specifica delibera di autorizzazione o ratifica dell'assemblea alla costituzione in giudizio dell'amministratore da cui estraniarsi; 3) postula una rituale manifestazione di dissenso del singolo condomino rispetto alla singola lite deliberata dall'assemblea, dissenso che, ad un tempo, non è impedito dalla stipula di una polizza per la tutela legale del condominio, né può impedire la conclusione di un tale contratto; 4) lascia comunque il condomino dissenziente identicamente esposto verso i terzi per le conseguenze negative della responsabilità del condominio, fornendogli soltanto un meccanismo di rivalsa.

E’ invece nulla, ad avviso di Sez. 2, n. 23255/2021, Scarpa, Rv. 662073-01, la delibera che sia stata approvata nel periodo di efficacia del sequestro preventivo penale ex art. 321 c.p.c., avente ad oggetto le unità immobiliari di proprietà esclusiva e le parti comuni di un edificio condominiale, per le quali sia nominato un custode giudiziario, attesi il vincolo di indisponibilità derivante dal predetto provvedimento, in difetto di contraria indicazione in esso contenuta, e la funzione tipica di detta misura, la quale colpisce sia i diritti e le facoltà individuali inerenti al diritto di condominio, sia le attribuzioni dell'amministratore, sia i poteri conferiti all'assemblea in materia di gestione dei beni comuni.

9.2. L’impugnazione.

L’art. 1137 c.c., come modificato dall'art. 15 della l. n. 220 del 2012, dopo avere sancito l’obbligatorietà, per tutti i condomini, delle deliberazioni assunte dall’assemblea, consente al condomino assente, dissenziente o astenuto, di impugnare, davanti all’autorità giudiziaria, quelle contrarie alla legge o al regolamento di condominio, nel termine di 30 giorni decorrente dalla data della deliberazione per i dissenzienti o gli astenuti ovvero dalla data della comunicazione della deliberazione per gli assenti, instaurando un giudizio in cui, secondo Sez. 2, n. 02636/2021, Scarpa, Rv. 660316-02, i singoli condomini possono volontariamente costituirsi mediante intervento che, dal lato attivo, va qualificato come adesivo autonomo (con la facoltà di coltivare il procedimento nei vari gradi di lite, anche in presenza di rinunzia o acquiescenza alla sentenza da parte dell'originario attore), ove essi siano dotati di autonoma legittimazione ad impugnare la delibera, per non essersi verificata nei loro confronti alcuna decadenza, ovvero, se quest'ultima ricorra, come adesivo dipendente (e, dunque, limitato allo svolgimento di attività accessoria e subordinata a quella della parte adiuvata, esclusa la possibilità di proporre gravame); tale ultima è la qualificazione da riconoscersi, altresì, all'intervento, ove questo sia a favore del condominio, siccome volto a sostenere la validità della delibera impugnata, stante la legittimazione processuale passiva esclusiva dell'amministratore nei giudizi relativi all'impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea, non trattandosi di azioni relative alla tutela o all'esercizio dei diritti reali su parti o servizi comuni.

L’esercizio dell’azione di annullamento di cui al ridetto art. 1137 costituisce, secondo Sez. U, n. 09839/2021, Lombardo, Rv. 661084-03, una regola generale, rispetto alla categoria della nullità, rinvenibile nella mancanza originaria degli elementi costitutivi essenziali, nell’impossibilità dell'oggetto in senso materiale o giuridico - quest'ultima da valutarsi in relazione al "difetto assoluto di attribuzioni" -, e nel contenuto illecito, ossia contrario a "norme imperative" o all'"ordine pubblico" o al "buon costume", la quale ha, viceversa, estensione residuale. Pertanto, con specifico riferimento alle spese, il termine di cui all’art. 1137, comma 2, c.c. deve essere rispettato soltanto quando ad essere impugnata sia una deliberazione avente ad oggetto la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese relative alla gestione delle parti e dei servizi comuni adottate in violazione dei criteri generali previsti dalla legge o dalla convenzione stessi, essendo questa meramente annullabile perché assunta nell'esercizio delle attribuzioni assembleari, non anche quando l’impugnazione attenga a una delibera, assunta a maggioranza, con la quale siano stabiliti o modificati i generali criteri di ripartizione delle spese previsti dalla legge o dalla convenzione, da valere per il futuro, trattandosi di materia che esula dalle attribuzioni dell'assemblea previste dall'art. 1135, n.n. 2) e 3), c.c.

L’impugnazione della delibera invalida, ove posta a fondamento dell’ingiunzione, può avvenire, peraltro, secondo Sez. U, n. 09839/2021, Lombardo, Rv. 661084-02, anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, nel quale il giudice può sindacare sia la nullità, dedotta dalla parte o rilevata d'ufficio, sia l’annullabilità della stessa, purché questa sia dedotta in via d'azione, mediante apposita domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell'atto di citazione, ai sensi dell'art. 1137, comma 2, c.c., nel termine perentorio ivi previsto, e non in via di eccezione, con conseguente inammissibilità, rilevabile d'ufficio, dell'eccezione con la quale l'opponente deduca solo l'annullabilità della deliberazione assembleare posta a fondamento dell'ingiunzione senza chiedere una pronuncia di annullamento.

L’impugnazione ex art. 1137 c.c. può anche riguardare il rendiconto consuntivo per successivi periodi di gestione che, approvato dall’assemblea, riporti, nel prospetto dei conti individuali per singolo condomino, tutte le somme dovute al condominio, comprensive delle morosità relative alle annualità precedenti rimaste insolute (le quali costituiscono non solo un saldo contabile dello stato patrimoniale attivo, ma anche una posta di debito permanente di quel partecipante), costituendo altrimenti esso stesso idoneo titolo del credito complessivo nei confronti di quel singolo partecipante, pur non dando luogo ad un nuovo fatto costitutivo del credito stesso (Sez. 6-2, n. 03847/2021, Scarpa, Rv. 660701-01).

Quanto all’esito del giudizio, Sez. 2, n. 02127/2021, Scarpa, Rv. 660164-02, ha chiarito che la sentenza di annullamento resa ai sensi dell'art. 1137 c.c. ha effetto nei confronti di tutti i condomini, anche di quelli che non abbiano partecipato direttamente al giudizio di impugnativa promosso da uno o da alcuni di loro, ma con riguardo alla specifica deliberazione impugnata, e che l'efficacia preclusiva e precettiva del giudicato di annullamento della delibera condominiale è meramente negativa, in quanto essa pone soltanto un limite all'esercizio dell'attività di gestione dell'assemblea, impedendole di riapprovare un atto affetto dagli stessi vizi, che sarebbe altrimenti parimenti invalido.

  • eredità
  • diritto successorio
  • donazione
  • testamento di vita

CAPITOLO VI

SUCCESSIONI E DONAZIONI

(di Dario Cavallari )

Sommario

1 Apertura della successione, delazione ereditaria, indegnità a succedere e rappresentazione. - 2 L’accettazione di eredità e la sua rinuncia. - 3 La petizione di eredità e la successione legittima. - 4 I legittimari e la reintegrazione della quota loro riservata. - 5 I diritti di uso ed abitazione riservati al coniuge superstite. - 6 Il testamento. - 7 La divisione ereditaria. - 8 La collazione. - 9 Le donazioni.

1. Apertura della successione, delazione ereditaria, indegnità a succedere e rappresentazione.

In tema di apertura della successione e delazione ereditaria, per Sez. U, n. 11421/2021, Scarpa, Rv. 661129-03, nel contratto di assicurazione sulla vita la designazione generica degli “eredi” come beneficiari, in una delle forme previste nell’art. 1920, comma 2, c.c., comporta l’acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione da parte di coloro che, al momento della morte del contraente, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione indicata all’assicuratore per individuare i creditori della prestazione.

Inoltre, come precisato da Sez. U, n. 11421/2021, Scarpa, Rv. 661129-02, tale designazione generica, in difetto di una inequivoca volontà del contraente in senso diverso, non comporta la ripartizione dell’indennizzo tra gli aventi diritto secondo le proporzioni della successione ereditaria, spettando a ciascuno dei creditori, in forza della eadem causa obligandi, una quota uguale dell’indennizzo assicurativo, il cui pagamento ciascuno potrà esigere dall’assicuratore nella rispettiva misura.

In base alla stessa logica Sez. U, n. 11421/2021, Scarpa, Rv. 661129-03, ha chiarito che, allorché uno dei beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita premuore al contraente, la prestazione, se il beneficio non sia stato revocato o il contraente non abbia disposto diversamente, deve essere eseguita a favore degli eredi del premorto in proporzione della quota che sarebbe spettata a quest’ultimo.

2. L’accettazione di eredità e la sua rinuncia.

Secondo Sez. 2, n. 02612/2021, Picaroni, Rv. 660328-02, l’accettazione dell’eredità devoluta per legge costituisce una manifestazione unilaterale di volontà del successibile, non del suo dante causa, con l’effetto di fare acquistare l’eredità a norma dell’art. 459 c.c. e non in forza di disposizioni del de cuius. Essa, pertanto, non essendo riconducibile nello schema negoziale dell’atto traslativo della proprietà, non concreta il requisito del titolo proveniente a non domino, astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà e non può, per l’effetto, determinare l’acquisto della proprietà di un bene mobile ai sensi dell’art. 1153 c.c.

Sez. 2, n. 05569/2021, Tedesco, Rv. 660831-01, ha precisato, altresì, che l’accettazione tacita dell’eredità postula, ex art. 476 c.c., la ricorrenza di due condizioni e, cioè, il compimento di un atto che presuppone necessariamente la volontà di accettare e la qualificazione di tale atto, nel senso che ad esso non sia legittimato se non chi abbia la qualità di erede. Ne consegue che ricorre un'ipotesi di accettazione tacita nel caso di concessione d’ipoteca su uno dei beni compresi nell’eredità, in quanto atto di disposizione del medesimo, ove posta in essere in assenza di qualsiasi riferimento ad una delle circostanze che potrebbero giustificarne il compimento da parte del chiamato.

Inoltre, Sez. 2, n. 11478/2021, Tedesco, Rv. 661054-01, ha confermato l’orientamento già espresso da Sez. 2, n. 10796/2009, San Giorgio, Rv. 608105-01, per il quale l’accettazione tacita di eredità può essere desunta dal comportamento del chiamato che ponga in essere atti che non abbiano solo natura meramente fiscale, quale la denuncia di successione, ma che siano, al contempo, fiscali e civili, come la voltura catastale, che rileva non solo dal punto di vista tributario, per il pagamento dell’imposta, ma anche da quello civile, per l’accertamento, legale o semplicemente materiale, della proprietà immobiliare e dei relativi passaggi.

Con riferimento ai profili processuali, Sez. 2, n. 22730/2021, Oliva, Rv. 662065-01, ha precisato che l’erede il quale intenda esercitare un diritto riconducibile al de cuius deve allegare la propria legittimazione per essere subentrato nella medesima posizione di quello, fornendo la prova, mediante la produzione in giudizio di idonea documentazione, del decesso della parte originaria e della propria qualità di erede; solo successivamente acquisisce rilievo l’accettazione dell’eredità, la quale può anche avvenire tacitamente, attraverso l’esercizio di un’azione petitoria. Nel caso in esame la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, in un giudizio di rivendicazione, ai fini della dimostrazione del trasferimento della proprietà del bene oggetto di causa, aveva ritenuto sufficiente la tacita accettazione dell’eredità da parte degli aventi causa della parte attrice, senza dare rilievo all’imprescindibile necessità di acquisire, altresì, la prova della loro qualità di eredi.

Per Sez. 5, n. 22571/2021, Triscari, Rv. 662004-01, in tema di avviso di accertamento notificato agli eredi, avente ad oggetto una pretesa fiscale concernente il patrimonio del de cuius, l’accettazione con beneficio d’inventario da parte dei successori non preclude all’Amministrazione finanziaria di accertare l’an e il quantum dell’obbligazione tributaria del dante causa, fermo restando che la contestazione, da parte dell'erede, della limitazione della propria responsabilità intra vires hereditatis può avvenire in sede di impugnazione della eventuale successiva cartella di pagamento con cui viene concretamente determinata la pretesa esecutiva.

Con riferimento alla posizione dei creditori, Sez. 6-2, n. 24524/2021, Tedesco, Rv. 662333-01, ha affermato, poi, che, in tema di successione mortis causa, ove il chiamato all’eredità vi abbia rinunciato, il creditore di questi che ne risulti pregiudicato può impugnare la rinuncia ai sensi dell’art. 524 c.c., onde ottenerne la declaratoria di inefficacia nei suoi confronti e così agire sul patrimonio ereditario, fino a concorrenza delle proprie ragioni, senza che il chiamato stesso acquisisca la qualità di erede. Pertanto, non può neanche in astratto configurarsi un pregiudizio a carico del predetto creditore - in relazione ad un accordo fra rinunciante e chiamati per rappresentazione, finalizzato a circoscrivere o limitare nei soli rapporti interni l’efficacia della rinuncia - non potendo egli pretendere, al di là della tutela offertagli dal citato art. 524 c.c., che il proprio debitore acquisisca il titolo di erede in luogo dei chiamati di ordine successivo.

Infine, secondo Sez. 6-2, n. 33479/2021, Tedesco, Rv. 662841-01, il rimedio previsto dall’art. 524 c.c. è utilizzabile dai creditori non solo in presenza di una rinuncia formale all’eredità da parte del chiamato, ma anche nel caso in cui quest’ultimo non dichiari di accettarla in seguito all’esperimento della cd. actio interrogatoria ex art. 481 c.c., essendo le due ipotesi assimilabili dal punto di vista del pregiudizio arrecato alle ragioni dei creditori del chiamato.

3. La petizione di eredità e la successione legittima.

Innanzitutto, Sez. 2, n. 07871/2021, Giusti, Rv. 661042-01, ha chiarito che la petitio hereditatis si differenzia dalla rei vindicatio, malgrado l’affinità del petitum, in quanto si fonda sull’allegazione dello stato di erede e ha per oggetto beni riguardanti elementi costitutivi dell’universum ius o di una quota parte di esso. Ne consegue, quanto all’onere probatorio, che, mentre l’attore in rei vindicatio deve dimostrare la proprietà dei beni attraverso una serie di regolari passaggi durante tutto il periodo di tempo necessario all’usucapione, nella hereditatis petitio può, invece, limitarsi a provare la propria qualità di erede ed il fatto che i beni, al tempo dell’apertura della successione, fossero compresi nell’asse ereditario; pertanto, deve ritenersi inammissibile il mutamento in corso di causa dell’azione di petizione ereditaria in azione di rivendicazione, anche quando non sia contestata dal convenuto la qualità di erede dell’attore, in quanto tale mancata contestazione non fa venire meno la funzione prevalentemente recuperatoria dell’azione ereditaria, ma produce effetti solo sul piano probatorio, senza incidere sulla radicale diversità - per natura, presupposti, oggetto e onere della prova - tra le due azioni.

Inoltre, Sez. 2, n. 13273/2021, Falaschi, Rv. 661288-01, ha precisato che, per i beni soggetti al regime tavolare, previsto dal r.d. n. 499 del 1929, nelle provincie già austro-ungariche, l’efficacia costitutiva dell’iscrizione o intavolazione è limitata agli atti tra vivi e non è estensibile ai trasferimenti per successione ereditaria o agli acquisti a titolo originario, come l’usucapione. Ne consegue che, in tali province, il certificato di eredità previsto dall’art. 13 del citato r.d. dà luogo ad una presunzione iuris tantum circa la qualità di erede, ai sensi dell’art. 21 del medesimo r.d., ponendo a carico di colui che la contesta l’onere di provare in giudizio i fatti ad essa contrari. In particolare, la S.C. ha confermato la sentenza di appello secondo cui la sola intavolazione del certificato di eredità compiuta su iniziativa di un determinato soggetto non può determinare l’acquisto di un bene alla massa ereditaria, dichiarando l’inefficacia e l’inopponibilità nei confronti degli eredi legittimi dei successivi suoi trasferimenti.

4. I legittimari e la reintegrazione della quota loro riservata.

Sez. 2, n. 18561/2021, Tedesco, Rv. 661688-01, ha affermato che il legato in sostituzione di legittima, come espressamente previsto dall’art. 551 c.c., deve gravare sulla porzione indisponibile; ne consegue che, al fine della determinazione di ciascuna quota di riserva, il legittimario che sia beneficiario di detto legato, ancorché lo abbia accettato perdendo il diritto di chiederne un supplemento, deve essere calcolato nel numero complessivo degli eredi legittimari.

Per Sez. 6-2, n. 32197/2021, Tedesco, Rv. 663263-01, in tema di azione di riduzione, il legittimario non può recuperare, a scapito dei convenuti, la quota di lesione a carico del beneficiario che non ha voluto o potuto convenire in riduzione, né pretendere dai donatari solo l’eventuale differenza tra la legittima, calcolata sul relictum e il donatum, e il valore dei beni relitti, giacché la loro sufficienza libera i donatari da qualsiasi pretesa, né recuperare a scapito di un donatario anteriore quanto potrebbe pretendere dal donatario posteriore, giacché se la donazione posteriore è capiente le anteriori non sono riducibili, ancorché la prima non sia stata ancora attaccata dall’azione.

Sez. 2, n. 32804/2021, Tedesco, Rv. 662749-01, ha chiarito, altresì, che nella formazione della massa per la individuazione della porzione disponibile ex art. 556 c.c., analogamente a quanto accade per la determinazione della base imponibile ai fini dell’imposta di successione, si detrae dal valore dei beni relitti solo quello dei debiti del defunto aventi esistenza attuale e certa, fatta salva la reintegrazione della legittima, previa rettifica del calcolo allorché il debito venga ad esistenza in un momento successivo; ne consegue che il debito derivante dalla fideiussione prestata dal de cuius è detraibile se e nella misura in cui sia dimostrata l’insolvibilità del debitore garantito o l’impossibilità di esercitare l’azione di regresso.

Infine, secondo Sez. 2, n. 39368/2021, Criscuolo, Rv. 663171-01, in caso di lesione della quota di legittima, il legittimario, pur potendo eliminare la lesione attraverso la sola collazione, può, altresì, esercitare contestualmente l’azione di riduzione verso il coerede donatario, atteso che soltanto l’accoglimento di tale domanda può assicurargli l’assegnazione dei beni in natura, sia attraverso il subentro nella comunione ereditaria quando la disposizione testamentaria lesiva non riguardi singoli beni, sia attraverso il subentro nella comunione di singoli beni, come dimostrato dall’art. 560 c.c., che, nel disciplinarne lo scioglimento, prevede, in via preferenziale, la separazione della parte di bene necessaria per soddisfare il legittimario e, in caso di impossibilità della separazione in natura e dunque di non comoda divisibilità del bene, l’applicazione dei criteri preferenziali specificamente individuati dal comma 2, in deroga a quelli di carattere generale di cui all’art. 720 c.c.

5. I diritti di uso ed abitazione riservati al coniuge superstite.

Con riguardo al diritto di uso ed abitazione del coniuge, Sez. 2, n. 29162/2021, Besso Marcheis, Rv. 662702-01, ha precisato che, ai sensi dell’art. 540 c.c., il diritto di abitazione della casa adibita a residenza familiare in favore del coniuge sopravvissuto sussiste qualora detta casa sia di proprietà del de cuius od in comunione tra lui e l’altro coniuge. Ne consegue che tale diritto non sorge ove il bene sia in comunione, invece, tra il coniuge deceduto ed un terzo e che, in questo caso, al superstite non spetta neppure l’equivalente monetario del citato diritto, nei limiti della quota di proprietà del defunto, poiché, se si attribuisse un semplice contenuto economico al diritto di abitazione, non sarebbe garantita in concreto l’esigenza di godere dell’abitazione familiare.

6. Il testamento.

Ad avviso di Sez. U, n. 10107/2021, Criscuolo, Rv. 661209-01, in tema di esonero dell’esecutore testamentario dal suo ufficio, il provvedimento del presidente del tribunale è reclamabile davanti al presidente della corte d’appello, ma la decisione assunta da quest’ultimo non è impugnabile per cassazione con ricorso straordinario ex art. 111 Cost., mancando dei caratteri della decisorietà e definitività in senso sostanziale; non rileva, in senso contrario, la denuncia di un vizio di giurisdizione o competenza, posto che la pronuncia sull’osservanza delle norme che regolano il processo mutua la natura dell’atto giurisdizionale cui il processo è preordinato e, pertanto, non può aver autonoma valenza di provvedimento decisorio e definitivo, se di tali caratteri quell’atto sia privo.

Per Sez. 2, n. 27377/2021, Tedesco, Rv. 662363-02, le norme date dal testatore per formare le porzioni, ai sensi dell’art. 733 c.c., devono inquadrarsi nella categoria dei legati obbligatori, i quali impongono agli altri coeredi di lasciare che il bene o la categoria di beni indicati dal testatore siano inclusi nella porzione ereditaria dell’onorato, anziché ripartiti tra tutti i condividenti o assegnati a sorte. Tuttavia, nel caso in cui la cosa legata sia trasformata in modo da aver perso la sua individualità, si applica la presunzione di revoca ex art. 686 c.c.

Sempre in tema di applicazione dell’art. 733 c.c., secondo Sez. 2, n. 03675/2021, Abete, Rv. 660317-01, qualora il testatore fissi regole per la formazione delle porzioni dei coeredi (ovvero legittimamente attribuisca tale facoltà ad un erede), benché venga meno il diritto di costoro di conseguire, per quanto possibile, una parte dei vari beni relitti dal de cuius, secondo la previsione dell’art. 727 c.c., permane, in ogni caso, il diritto degli stessi di ottenere beni di valore corrispondente a quello della quota che ad essi compete.

Inoltre, Sez. 6-2, n. 37228/2021, Tedesco, Rv. 663220-01, ha precisato che l’indicazione erronea della data nel testamento olografo, dovuta ad errore materiale del testatore per distrazione, ignoranza od altra causa, anche se concretantesi in una data impossibile, non voluta, però, come tale, dal testatore, può essere rettificata dal giudice, ma solo avvalendosi di altri elementi intrinseci della scheda testamentaria, così da rispettare il requisito essenziale della autografia dell’atto. L’apprezzamento del giudice del merito circa la sussistenza di un mero errore materiale del testatore al riguardo e circa l’esclusione dell’intenzione del testatore d’indicare, invece, volutamente una data impossibile che renderebbe annullabile il testamento, perché equivalente a data inesistente, è incensurabile in cassazione, qualora sia sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi di logica o di diritto.

Con riferimento ai patti successori, Sez. 6-2, n. 14110/2021, Bellini, Rv. 661331-01, ha confermato l’indirizzo di Sez. 2, n. 01683/1995, Patierno, Rv. 490468-01, per il quale, in tema di patti successori, per stabilire se una determinata pattuizione ricada sotto la comminatoria di nullità di cui all’art. 458 c.c. occorre accertare: 1) se il vincolo giuridico con essa creato abbia avuto la specifica finalità di costituire, modificare, trasmettere o estinguere diritti relativi ad una successione non ancora aperta; 2) se la cosa o i diritti formanti oggetto della convenzione siano stati considerati dai contraenti come entità della futura successione o debbano comunque essere compresi nella stessa; 3) se il promittente abbia inteso provvedere in tutto o in parte alla propria successione, privandosi, così dello jus poenitendi; 4) se l’acquirente abbia contrattato o stipulato come avente diritto alla successione stessa; 5) se il convenuto trasferimento, dal promittente al promissario, debba aver luogo mortis causa, ossia a titolo di eredità o di legato.

Sez. 6-2, n. 25936/2021, Tedesco, Rv. 662320-01, ha affermato che, perché un atto costituisca disposizione testamentaria, è necessario che lo scritto contenga la manifestazione di una volontà definitiva dell’autore, compiutamente e incondizionatamente formata, diretta allo scopo di disporre attualmente dei suoi beni, in tutto o in parte, per il tempo successivo alla propria morte; pertanto, ai fini della configurabilità di una scrittura privata come testamento non è sufficiente il riscontro dei requisiti di forma, occorrendo, altresì, l’accertamento dell’oggettiva riconoscibilità nella scrittura della volontà attuale del suo autore di compiere non già un mero progetto, ma un atto di disposizione del proprio patrimonio per il tempo successivo al suo decesso. Siffatto accertamento - che, ove le espressioni contenute nel documento risultino ambigue o di valore non certo, presuppone la necessaria indagine su ogni circostanza, anche estrinseca, idonea a chiarire la portata, le ragioni e le finalità perseguite con la disposizione - involge un apprezzamento di fatto spettante al giudice del merito che, se adeguatamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità.

Infine, Sez. 2, n. 42121/2021, Tedesco, Rv. 663403-01, ha ribadito che, di fronte all’attribuzione di beni determinati da parte del testatore, occorre vedere quale sia stata la sua intenzione, se di attribuire quei beni e soltanto quelli come beni determinati e singoli, con la conseguenza che si avrà successione a titolo particolare o legato, ovvero se, pur indicando nominativamente detti beni, il testatore ha inteso lasciarli quale quota del suo patrimonio, così configurandosi una successione a titolo universale con istituzione di erede. Tale questione deve essere esaminata dal giudice del merito in base ai canoni ermeneutici fondamentali, potendo egli avvalersi di qualunque mezzo utile ai fini della ricostruzione della volontà del defunto e riconoscere il carattere universale della disposizione solo qualora, dopo attento esame di tutto il complesso delle disposizioni testamentarie, resti accertata l’intenzione del testatore di considerare i beni assegnati come una quota della universalità del suo patrimonio, con la ulteriore precisazione che (Rv. 663403-02) l’institutio ex re certa vale a determinare la quota dell’istituito, non già ad attribuirgli la qualità di unico erede, sicchè le ceterae res sono attribuite agli eredi legittimi, con inclusione, se vi sia concorso di delazioni, anche degli istituiti ex re certa.

7. La divisione ereditaria.

In primo luogo, Sez. 2, n. 03694/2021, Criscuolo, Rv. 660352-01, ha confermato l’indirizzo già espresso da Sez. 2, n. 00287/1962, Albano, Rv. 250444-01, per il quale perché si abbia negozio divisorio non è necessario che si verifichi lo scioglimento della comunione nei confronti di tutti i coeredi, essendo sufficiente che ciò avvenga rispetto ai coeredi partecipanti all’atto; in tal caso, infatti, lo scioglimento della comunione opera egualmente, pur se limitatamente ai soli partecipanti all’atto ed ancorché i coeredi che rimangono in comunione debbano, poi, mettere in essere un altro (od altri) negozio per pervenire allo scioglimento definitivo e totale della comunione stessa.

In tema di modalità di attuazione della divisione, Sez. 2, n. 03694/2021, Criscuolo, Rv. 660352-02, ha chiarito, poi, che, ai fini della comoda divisibilità, non ci si può basare esclusivamente sulla natura e destinazione degli immobili, ma occorre - soprattutto - tener conto dell’intera massa dei beni da dividere, in rapporto al numero delle quote e dei condividenti. Ne consegue che, allorché l’asse ereditario comprenda un solo immobile, questo sarà comodamente divisibile se ciascuno dei coeredi potrà averne una parte, anche di valore inferiore alla quota di spettanza, salvo attuare il pareggio con l’operazione di conguaglio ovvero se, pur non essendo possibile frazionare comodamente l’immobile in tante parti, corrispondenti al numero ed alle quote dei condividenti, alcuni di questi richiedano congiuntamente la formazione di una porzione unica, corrispondente all’ammontare complessivo delle loro quote giacché, in questo caso, la divisione è resa possibile dal minore frazionamento dell’immobile.

Con riferimento alle vicende giudiziarie che possono interessare i beni in comunione, Sez. 2, n. 09359/2021, Besso Marcheis, Rv. 660860-01, ha precisato che il coerede il quale, dopo la morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, però, egli, che già possiede animo proprio ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere detto possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, risultando insufficiente, peraltro, l’astensione degli altri partecipanti dall’uso della cosa comune. In particolare, la S.C. ha escluso che possa costituire prova dell’usucapione di un appartamento la circostanza che il coerede, che già vi abitava con il padre, abbia continuato, dopo la morte di questi, ad essere l’unico ad averne la disponibilità.

Inoltre, Sez. 6-2, n. 11857/2021, Criscuolo, Rv. 661173-01, ha affermato che in tema di scioglimento della comunione ereditaria, il criterio dell’estrazione a sorte previsto, nel caso di uguaglianza di quote, dall’art. 729 c.c. a garanzia della trasparenza delle operazioni divisionali contro ogni possibile favoritismo, non ha carattere assoluto, ma soltanto tendenziale e, pertanto, è derogabile in base a valutazioni discrezionali, che possono attenere non soltanto a ragioni oggettive, legate alla condizione funzionale ed economica dei beni, ma anche a fattori soggettivi di apprezzabile e comprovata opportunità, la cui valutazione non è sindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo del difetto di motivazione. Ne consegue che, a fronte della richiesta della parte di attribuzione di una delle quote di identico valore, il giudice non è obbligato a darvi seguito, avendo solo l’onere di adeguatamente giustificare la scelta in favore della conferma ovvero della deroga al principio del sorteggio, con onere motivazionale più pregnante in tale ultima evenienza, attesa la necessità di porre un limite all’applicazione della volontà del legislatore.

In ambito processuale, per Sez. 6-2, n. 11844/2021, Giannaccari, Rv. 661122-01, in tema di giudizio divisorio, non costituiscono eccezione alla comoda divisibilità di un immobile la necessità di conseguire specifici titoli autorizzativi per attuare la divisione, né l’esigenza di eseguire, all’uopo, lavori, i quali attengono, piuttosto, all’esecuzione forzata degli obblighi di fare o non fare, di cui può essere investito il giudice.

Con riguardo ai crediti sorti in dipendenza del rapporto di comunione (quale tipicamente il credito per il godimento esclusivo della cosa comune esercitato da uno solo dei comproprietari), Sez. 6-2, n. 20706/2021, Tedesco, Rv. 661965-01, ha ritenuto che, poiché la legge (artt. 724 e 725 c.c.) consente ai compartecipi creditori il soddisfacimento del credito al momento della divisione, mediante prelevamenti in natura dai beni comuni, il comunista creditore, il quale abbia ottenuto la revoca per frode di un atto di disposizione della quota comune compiuto dal proprio debitore, possa fare valere il credito nel giudizio di divisione anche nei confronti dei cessionari, i quali debbono subire l’imputazione alla quota acquistata delle somme di cui era debitore il cedente in dipendenza del rapporto di comunione. Pertanto, il comunista che abbia vittoriosamente esperito l’azione revocatoria, al quale la cosa comune sia stata assegnata per intero in esito alla divisione, è tenuto a versare ai cessionari il conguaglio ridotto e commisurato alla minor quota spettante al cedente in conseguenza dell’imputazione del debito maturato per l’occupazione dell’immobile oggetto della stessa divisione.

Sez. 2, n. 21612/2021, Criscuolo, Rv. 662057-01, ha chiarito che l’art. 718 c.c., in virtù del quale ciascun coerede ha il diritto di conseguire in natura la parte dei beni a lui spettanti con le modalità stabilite nei successivi artt. 726 e 727 c.c., trova deroga, ai sensi dell’art. 720 c.c., non solo nel caso di mera “non divisibilità” dei beni, ma anche in ogni ipotesi in cui gli stessi - secondo un accertamento riservato all’apprezzamento di fatto del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua, coerente e completa - non siano “comodamente” divisibili e, cioè, allorché sia elevata la misura dei conguagli dovuti tra le quote da attribuire ovvero quando, pur risultando il frazionamento materialmente possibile sotto l’aspetto strutturale, non siano tuttavia realizzabili porzioni suscettibili di formare oggetto di autonomo e libero godimento, non compromesso da servitù, pesi o limitazioni eccessive, e non richiedenti opere complesse o di notevole costo, ovvero porzioni che, sotto l’aspetto economico-funzionale, risulterebbero sensibilmente deprezzate in proporzione al valore dell’intero. Nel caso concreto, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, in presenza di due immobili aventi una notevole differenza di valore, li ha assegnati ad uno solo dei condividenti sul presupposto che una divisione che avesse previsto due quote formate, ognuna, da uno dei beni avrebbe comportato il versamento di un conguaglio tale da assorbire in modo significativo una delle due quote, vanificando così l’obiettivo dell’effettiva divisione in natura.

Inoltre, secondo Sez. 2, n. 24169/2021, Tedesco, Rv. 662147-01, l’istituito nella disponibile, qualora riceva con testamento beni di valore inferiore, per porre rimedio al divario fra quota e porzione non ha un’azione assimilabile a quella di riduzione, che compete ai soli legittimari per la reintegrazione della quota di riserva, ma, nel concorso dei presupposti previsti dall’art. 763 c.c., può esercitare l’azione di rescissione per lesione, ammessa anche nel caso di divisione del testatore.

Sez. 2, n. 24174/2021, Giannaccari, Rv. 662148-01, ha precisato, altresì, che, nel giudizio di divisione, la domanda di attribuzione di un immobile indivisibile non ha natura negoziale, ma costituisce una mera specificazione della pretesa introduttiva del processo volta a porre fine allo stato di comunione, sicché, afferendo alle modalità di attuazione dello scioglimento della comunione, non costituisce domanda in senso proprio e può essere proposta per la prima volta anche in appello.

Ad avviso di Sez. 2, n. 26563/2021, Bellini, Rv. 662261-01, l’art. 762 c.c., stabilendo che l’omissione di uno o più beni dell’eredità non è causa di nullità della convenuta divisione, ma determina esclusivamente la necessità di procedere ad un supplemento della divisione stessa, sancisce, implicitamente, la indiscutibile validità ed efficacia dell’atto parziale così compiuto, escludendo ogni possibilità di considerarlo come struttura negoziale non dotata di propria autonomia, tale, cioè, da rendere comunque necessario attendere lo scioglimento della comunione sui residui beni per poter proporre la eventuale azione di rescissione per lesione oltre il quarto, azione che sarà, pertanto, legittimamente esperibile anche in relazione alla sola divisione parziale.

Sez. 2, n. 27086/2021, Tedesco, Rv. 662376-01, ha pure chiarito che, nello scioglimento della comunione ereditaria, al pari di quanto accade per quella ordinaria ai sensi dell’art. 1115, comma 3, c.c., il regolamento, sulla massa, dei debiti dipendenti dai rapporti di comunione, in quanto afferenti alla gestione della stessa, previsto dagli artt. 724 e 725 c.c., può essere realizzato dai compartecipi creditori attraverso il prelievo di beni dalla massa in proporzione alle rispettive quote ovvero, quando ciò non sia avvenuto o non sia possibile, con l’incremento delle loro quote di concorso rispetto a quelle risultanti dal titolo della comunione. Con riguardo a quest’ultima modalità, applicabile anche in caso di unico immobile indivisibile, l’individuazione del titolare della quota maggiore si effettua con riferimento alla situazione esistente al momento della relativa pronuncia giudiziale.

Sez. 2, n. 27086/2021, Tedesco, Rv. 662376-02, ha affermato, quindi, che, nella divisione ereditaria e in quella ordinaria, il giudice non può procedere al regolamento, sulla massa, dei debiti dipendenti dal rapporto di comunione senza che, in aggiunta alla domanda principale, sia stata anche proposta istanza di rendiconto, mentre, assolto tale presupposto, può autonomamente provvedere, anche in assenza di apposita domanda, alla liquidazione di tale regolamento col sistema dei prelevamenti ovvero con l’incremento della quota, costituendo questa autonoma attività giudiziale, ferma restando la possibilità di deroga pattizia delle norme sull’imputazione e sui prelevamenti, nonché di quelle che stabiliscono l’ordine delle operazioni divisionali.

In un’ottica processuale, Sez. 2, n. 39340/2021, Manna F., Rv. 663170-01, ha precisato che, nelle cause di scioglimento della comunione ereditaria, legittimati passivi sono coloro che abbiano accettato l’eredità, espressamente o tacitamente, nonché i chiamati il cui diritto di accettare non sia stato dichiarato prescritto con sentenza passata in giudicato, per i quali ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario; la sola constatazione del decorso del termine decennale di cui al comma 1 dell’art. 480 c.c., infatti, non basta a produrre l’effetto estintivo del diritto di accettare l’eredità, in quanto questo deve essere sempre accertato nel contraddittorio di tutte le parti interessate, dovendo l’atto con cui si solleva l’eccezione di prescrizione, per il suo carattere recettizio, essere partecipato al titolare del diritto stesso o, in caso di decesso successivo all’apertura di successione, ai suoi eredi, in modo da loro consentire la facoltà di dimostrare il contrario, per effetto dell’interruzione del termine o dell’avvenuta accettazione, tacita o espressa, effettuata dal de cuius.

Infine, ad avviso di Sez. 2, n. 39368/2021, Criscuolo, Rv. 663171-02, nella divisione ereditaria, ai fini della formazione delle quote tra i condividenti, non è sufficiente la classificazione urbanistica dei terreni caduti in successione, occorrendo, invece, valutare le possibilità edificatorie accordate sui beni. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che dovesse tenersi conto di una delibera comunale che attribuiva la possibilità di una permuta delle aree riclassificate, oggetto di divisione, con altre aree edificabili nella disponibilità dell’ente locale ancora, tuttavia, non identificate).

8. La collazione.

Innanzitutto, Sez. 6-2, n. 00509/2021, Criscuolo, Rv. 660178-01, ha confermato l’indirizzo di Sez. 2, n. 15026/2013, Proto, Rv. 626987-01, per cui la collazione presuppone l’esistenza di una comunione ereditaria e, quindi, di un asse da dividere, mentre, se l’asse è stato esaurito con donazioni o con legati, o con le une e con gli altri insieme, sicché viene a mancare un relictum da dividere, non vi è luogo a divisione e, quindi, neppure a collazione, salvo l’esito dell’eventuale azione di riduzione.

Secondo Sez. 2, n. 29583/2021, Tedesco, Rv. 662705-03, poi, l’obbligo di collazione previsto dall’art. 741 c.c. relativamente a ciò che il defunto ha speso a favore dei suoi discendenti, per soddisfare, tra l’altro, premi relativi a contratti sulla vita a loro favore, riguarda tanto l’ipotesi dell’assicurazione stipulata dal discendente sulla propria vita, sub specie di pagamento del debito altrui, quanto quella dell’assicurazione sulla vita del discendente (o del de cuius), che rientra nello schema della donazione indiretta, quale contratto a favore di terzo. Peraltro, giacché il capitale assicurato può rivelarsi, di fatto, inferiore ai premi - che costituiscono, in linea di principio, l’oggetto del conferimento ex art. 2923, comma 2, c.c. - l’obbligo di collazione va precisato nel senso che, indipendentemente dalla natura cd. tradizionale o finanziaria della polizza, il conseguente conferimento riguarda la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati ed il capitale, non potendo la collazione avere ad oggetto che il vantaggio conseguito dal beneficiario (o dai suoi discendenti), sul quale grava l’onere della relativa prova.

9. Le donazioni.

In primo luogo, per Sez. 2, n. 20062/2021, Tedesco, Rv. 662014-01, in caso di acquisto pro indiviso di un immobile effettuato da due conviventi more uxorio per quote uguali in difetto di diversa indicazione nel titolo, stante la presunzione di cui all’art. 1101 c.c., il maggior apporto fornito dal co-acquirente nella corresponsione del prezzo non può presumersi effettuato in favore dell’altro a titolo di liberalità, avente giustificazione nella mera convivenza, senza che sia fornita dimostrazione, anche mediante presunzioni, purché serie, dell’animus donandi. Pertanto, in difetto di tale prova, il convivente che abbia sborsato una somma maggiore ha il diritto di ottenere dall’altro il rimborso della parte eccedente la sua quota.

Inoltre, Sez. 2, n. 23127/2021, Tedesco, Rv. 662141-01, ha affermato che il trasferimento donationis causa di titoli di credito astratti non dà luogo ad una donazione indiretta, intesa come mezzo per conseguire, attraverso l’utilizzazione di un negozio con causa tipica, un risultato pratico da questo divergente, essendo detti titoli suscettibili di realizzare in modo diretto qualsiasi scopo voluto dalle parti, sicché integra una donazione diretta, soggetta in quanto tale al requisito di forma nel rapporto base tra il tradens e l’accipiens.

Sez. 2, n. 28857/2021, Dongiacomo, Rv. 662558-01, ha chiarito, altresì, che, in tema di attribuzioni a titolo gratuito, lo spirito di liberalità è perfettamente compatibile con l’imposizione di un peso al beneficiato, purché tale peso, non assumendo il carattere di corrispettivo, costituisca una modalità del beneficio, senza snaturare l’essenza di atto liberalità della donazione; stabilire se l’onere imposto al donatario sia tale da porre in essere un modus limitativo della liberalità ovvero, incidendo sulla causa del negozio, imprima ad esso il carattere di onerosità costituisce indagine di fatto attinente all’interpretazione del negozio di donazione che, come tale, è riservata al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se congruamente e correttamente motivata. Di conseguenza, la S.C. ha ritenuto corretta la qualificazione, in termini di donazione modale, attribuita dai giudici di merito ad un negozio, redatto da un notaio, avente ad oggetto la cessione del patrimonio immobiliare dalla madre al figlio e contemplante la previsione di prestazioni di assistenza morale e materiale in favore della prima, tenuto conto del nomen iuris utilizzato per il contratto, dell’indeterminatezza e genericità delle prestazioni assistenziali ivi previste, nonché del comportamento successivo della disponente, che non aveva mai chiesto l’adempimento dell’obbligazione assistenziale.

Con pronuncia originale, Sez. 1, n. 29980/2021, Terrusi, Rv. 662861-01, ha precisato che l’acquisto di un appartamento da parte di uno dei nubendi, finanziato con denaro dell’altro, in previsione del matrimonio, è configurabile come donazione indiretta, che, in quanto finalizzata alle nozze, rientra nella previsione di cui all’art. 80 c.c. Ne consegue che, ove il matrimonio non venga celebrato, essendo venuta meno la causa donandi, si determina la caducazione dell’attribuzione patrimoniale al donatario, senza che ciò incida sul rapporto fra venditore e donante il quale, per effetto della retrocessione, viene ad assumere la qualità di effettivo acquirente.

Infine, Sez. 2, n. 41480/2021, Besso Marcheis, Rv. 663490-01, ha affermato che, perché possa escludersi il ricorrere della donazione remuneratoria ed affermare l’esistenza dell’ipotesi, prevista nel comma 2 dell’art. citato, di semplice liberalità in occasione di servizi resi o comunque in conformità agli usi, occorre che l’attribuzione venga effettuata in funzione di corrispettivo o in adempimento di un’obbligazione derivante dalla legge o in osservanza di un dovere nascente dalle comuni norme morali e sociali e sussista una qual certa equivalenza economica fra il suo valore e quello dei servizi ricevuti dal disponente; nei casi nei quali l’elargizione da parte del donante sia diretta anche al soddisfacimento di prestazioni ricevute, l’intero rapporto è regolato in base al criterio della prevalenza, ricercando quale dei due cennati intenti si sia voluto principalmente perseguire.

PARTE TERZA OBBLIGAZIONI, CONTRATTI E RESPONSABILITÀ

  • contratto
  • debito

CAPITOLO VII

LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE

(di Fabio Antezza )

Sommario

1 Premessa. - 2 Buona fede e correttezza nel “contatto sociale qualificato”. - 3 L’abuso del diritto nella violazione del principio di buona fede e correttezza. - 4 Adempimento secondo diligenza e rapporti con correttezza e buona fede (nei contratti di agenzia, locazione, vendita e lavoro subordinato). - 5 Principio di correttezza e buona fede ed azione giudiziale. - 6 La remissione. - 7 Compensazione cd. atecnica o impropria. - 8 Novazione e debiti contributivi.

1. Premessa.

Nel corso del 2021 la S.C. ha posto alla base di rilevanti decisioni in tema di obbligazioni il principio di correttezza e buona fede, quale espressione del più generale principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.

Sez. 3, n. 09200/2021, Scarano, Rv. 661071-02, ribadisce, difatti, che il principio di correttezza e buona fede - il quale, secondo la Relazione ministeriale al codice civile, “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore” - deve essere inteso in senso oggettivo. Esso, in particolare, enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. Ne consegue che dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile (in senso conforme, ex plurimis, anche Sez. 3, n. 22819/2010, Amendola, Rv. 614831-01, e Sez. U, n. 28056/2008, Morcavallo, Rv. 605685-01). Nel fare proprio il principio di cui innanzi, la S.C. ha, nella specie, confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato una condotta contraria a buona fede e correttezza nel mancato ripristino della fornitura di energia elettrica in favore dell’utente, nonostante l’istanza di quest’ultimo, in quanto il somministrante aveva rilevato che l’utenza risultava a nome di altro soggetto; un sopralluogo o una richiesta di chiarimenti, sebbene non previsti dal contratto, avrebbero difatti potuto dimostrare che si trattava della medesima utenza, semplicemente volturata a un terzo.

Quanto innanzi è emerso con particolare riferimento non solo ai limiti dell’esercizio abusivo del diritto, alla stregua appunto del parametro della correttezza e della buona fede, ma anche in merito al “contatto sociale qualificato” ed alla relativa responsabilità oltre che in ordine all’adempimento secondo diligenza.

Il principio in considerazione, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto, ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, ha costituito, altresì, limite alla parcellizzazione della domanda giudiziale.

La buona fede consiste, altresì, ex art. 1147 c.c., nell’ignoranza di ledere l’altrui diritto; essa è presunta e, quale espressione di un principio generale, opera quando le norme facciano riferimento alla buona fede senza nulla dire in ordine a ciò che vale ad integrarla o ad escluderla, ovvero al soggetto tenuto a provarne l’esistenza o ad altri profili di rilevanza della stessa. Sicché, per Sez. 2, n. 37722/2021, Tedesco, Rv. 663020-01, essa trova applicazione anche alla fattispecie di cui all’art. 2652, n. 6, c.c., per il quale, se la domanda di nullità è trascritta dopo cinque anni dalla trascrizione dell’atto impugnato, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buona fede in base ad atto iscritto o trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda.

2. Buona fede e correttezza nel “contatto sociale qualificato”.

Spetta alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede. La responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa sorge, difatti, da un rapporto tra soggetti (la pubblica amministrazione ed il privato che con questa sia entrato in relazione) inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da “contatto sociale qualificato», inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. Ciò non solo qualora tale danno derivi dall’emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione (in tal senso, Sez. U, 08236/2020, Cosentino, Rv. 657613-01, ancorché ai fini della risoluzione di una questione di giurisdizione, la quale conferma l’inquadramento del contatto sociale qualificato nell’ambito delle fonti dell’obbligazione).

Sulla scia del principio di cui innanzi, Sez. U, n. 12428/2021, Scoditti, Rv. 661305-02, ritiene che la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo, a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, in quanto concernente diritti soggettivi, sia compromettibile in arbitrato rituale (in ragione della natura giurisdizionale dell’attività degli arbitri rituali, per la quale, da ultimo, Sez. 6-2, n. 34569/2021, Rv. 663066-01, conf., ex plurimis, a Sez. U, n. 24153/2013, Segreto, Rv. 627786). Quanto innanzi opera, però, a condizione che sia identificabile un comportamento della pubblica amministrazione, diverso dalla mera inerzia o dalla mera sequenza di atti formali dei quali si compone il procedimento amministrativo, che abbia cagionato al privato un danno in modo indipendente da eventuali illegittimità di diritto pubblico ovvero che abbia indotto il privato a non esperire gli strumenti previsti per la tutela dell’interesse legittimo pretensivo a causa del ragionevole affidamento riposto nell’emanazione del provvedimento non più adottato. Nella specie, la Suprema Corte ha ravvisato nell’inerzia dell’amministrazione, consistita nell’omessa sottoscrizione del nuovo schema di convenzione urbanistica, approvato con delibera del Consiglio comunale, e nel perdurante mancato esercizio del potere di revoca, un comportamento idoneo a indurre il legittimo affidamento del privato sulla conclusione della convenzione.

La convenzione urbanistica, quale accordo sostitutivo ex art. 11 della l. n. 241 del 1990, non è suscettibile - per tutto ciò che non è disposto dal regolamento contrattuale - di produrre obblighi per la pubblica amministrazione correlati a diritti soggettivi del privato attraverso l’integrazione legale dell’accordo, in ragione della incompatibilità del principio di integrazione del contratto sulla base della buona fede con la norma attributiva del potere amministrativo. Ne consegue, per Sez. U, n. 12428/2021, Scoditti, Rv. 661305-01, che la controversia derivante dalla mancata adozione di provvedimenti da parte della pubblica amministrazione che abbia determinato la non eseguibilità della convenzione urbanistica non può essere risolta mediante arbitrato rituale, afferendo ad interessi legittimi.

Medesimo inquadramento della responsabilità da “contatto sociale qualificato» della P.A. conduce Sez. 3, n. 10348/2021, Sestini, Rv. 661244-01, a ritenere, in materia di C.I.G. (ordinaria e straordinaria), che spetti alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia relativa alla pretesa risarcitoria dell’imprenditore, fondata sulla lesione dell’affidamento riposto nella condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede.

3. L’abuso del diritto nella violazione del principio di buona fede e correttezza.

L’abuso del diritto non presuppone una violazione in senso formale, ma si realizza quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo esercizio, ne risulti alterata la funzione obiettiva rispetto al potere che lo prevede ovvero lo schema formale del diritto sia finalizzato ad obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore. Elementi sintomatici ne sono pertanto: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte (ex plurimis: Sez. L, n. 15885/2018, Negri Della Torre, Rv. 649311-01; Sez. L, n. 10568/2013, Napoletano, Rv. 626199-01).

Sez. 3, n. 26541/2021, Iannello, Rv. 662538-01, nel ribadire il principio di cui innanzi, ha cassato la pronuncia di merito nella parte nella quale, eccepito dall’assegnataria della casa familiare l’abuso del diritto per l’ordine di rilascio da parte del terzo proprietario, la corte d’appello non aveva considerato che l’immobile, già di proprietà del marito e destinato ad abitazione della famiglia, in coincidenza con il manifestarsi della crisi coniugale ed all’insaputa della moglie, era stato dallo stesso venduto al padre che, a sua volta, gliene aveva ceduto la disponibilità con contratto di comodato gratuito.

I criteri discretivi dell’esercizio abusivo del diritto, in relazione al principio di buona fede, sono poi applicati da Sez. 3, n. 16743/2021, Fiecconi, Rv. 661638-01, con riferimento alla materia della locazione abitativa. Integra, in particolare, abuso del diritto la condotta del locatore il quale, dopo aver manifestato assoluta inerzia, per un periodo di tempo assai considerevole in relazione alla durata del contratto, rispetto alla facoltà di escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del canone dovutogli, così ingenerando nella controparte il ragionevole ed apprezzabile affidamento nella remissione del debito per facta concludentia, formuli un’improvvisa richiesta di integrale pagamento del corrispettivo maturato. Quanto innanzi si argomenta in forza della considerazione per la quale anche nell’esecuzione di un contratto a prestazioni corrispettive e ad esecuzione continuata trova applicazione il principio di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., quale canone generale di solidarietà integrativo della prestazione contrattualmente dovuta; esso, peraltro, opera a prescindere da specifici vincoli contrattuali nonché dal dovere negativo di neminem laedere, che impegna ciascuna delle parti a preservare l’interesse dell’altra nei limiti del proprio apprezzabile sacrificio.

4. Adempimento secondo diligenza e rapporti con correttezza e buona fede (nei contratti di agenzia, locazione, vendita e lavoro subordinato).

La buona fede oggettiva o correttezza, oltre che regola di comportamento e di interpretazione del contratto, è criterio di determinazione della prestazione contrattuale, imponendo il compimento di quanto necessario o utile a salvaguardare gli interessi della controparte, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio (ex plurimis, Sez. 3, n. 08494/2020, Scarano, Rv. 657807-01), come confermato dalla S.C. nel corso del 2021 anche con riferimento ai contratti di agenzia, locazione, vendita e lavoro subordinato.

Sotto tale ultimo profilo, la violazione del dovere di fedeltà sancito dall’art. 2105 c.c. riguarda la concorrenza che il prestatore possa svolgere non già, dopo la cessazione del rapporto, nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella che egli abbia posto in essere illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, incluso il periodo di preavviso. A tal fine, assume rilievo anche il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, che impone a ciascuna delle parti il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. Ne è conseguita, per Sez. L, n. 03543/2021, Patti, Rv. 660401-01, la cassazione della decisione di merito di rigetto della richiesta risarcitoria avanzata dal datore di lavoro per aver omesso l’esame del fatto storico rappresentato dalla disponibilità, inizialmente accordata dal lavoratore all’atto di recesso, a prestare il periodo di preavviso e poi improvvisamente ritirata a distanza di pochi giorni, senza ottemperare alla redazione della scheda clienti, senza fissare gli appuntamenti con gli stessi, cancellando anzi ogni riferimento “commerciale” relativo alle aziende avute in gestione ed iniziando subito a lavorare per la concorrenza.

Nel contratto di agenzia, invece, l’attribuzione al preponente del potere di modificare talune clausole e, in particolare, quelle relative all’ambito territoriale ed alla misura delle provvigioni, può trovare giustificazione nella necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come modificatesi durante il decorso del tempo. Occorre, tuttavia, affinché non ne rimanga esclusa la forza vincolante del contratto nei confronti di una delle parti contraenti, che tale potere abbia dei limiti e, in ogni caso, sia esercitato dal titolare con l’osservanza dei principi di correttezza e buona fede (Sez. L, n. 05467/2000, Giannantonio, Rv. 536068-01).

Nel ribadire il principio di cui innanzi, Sez. 2, n. 29164/2021, Giannaccari, Rv. 662560-01, ha confermato la decisione di merito che aveva ravvisato nell’intervenuta riduzione unilaterale del portafoglio clienti affidato all’agente - con conseguente necessità di rimodulazione dell’attività di impresa di quest’ultima, da focalizzare esclusivamente sull’acquisizione di nuova clientela - un inadempimento colpevole e di non scarsa importanza del proponente, tale da non consentire la prosecuzione, anche temporanea, del rapporto.

Il conduttore può invece sollevare l’eccezione di inadempimento, ai sensi dell’art. 1460 c.c., non solo quando venga completamente a mancare la prestazione del locatore, ma anche nell’ipotesi di suo inesatto adempimento, tale da non escludere ogni possibilità di godimento dell’immobile, purché la sospensione del pagamento del canone appaia giustificata, in ossequio all’obbligo di comportarsi secondo buona fede, dall’oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, avuto riguardo all’incidenza della condotta della parte inadempiente sull’equilibrio sinallagmatico del contratto, in rapporto all’interesse della controparte. Sez. 3, n. 02154/2021, Iannello, Rv. 660438-01, ponendosi in linea con Sez. 3, n. 20322/2019, Iannello, Rv. 654927-03, ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto illegittima la sospensione del pagamento dei canoni a fronte dell’impossibilità di utilizzare tutte le parti dell’immobile all’uso convenuto - attività commerciale - per irregolarità urbanistico-amministrative, assenza di mutamento di destinazione d’uso e di agibilità.

Parimenti, per Sez. 2, n. 14986/2021, Scarpa, Rv. 661513-02, il compratore può sollevare l’eccezione di inadempimento, ai sensi dell’art. 1460 c.c., non solo quando venga completamente a mancare la prestazione della controparte ma anche nel caso in cui dall’inesatto adempimento del venditore derivi l’inidoneità della cosa venduta all’uso al quale è destinata, purché il rifiuto di pagamento del prezzo risulti giustificato dall’oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, riguardato con riferimento al complessivo equilibrio sinallagmatico del contratto ed all’obbligo di comportarsi secondo buona fede.

5. Principio di correttezza e buona fede ed azione giudiziale.

Circa i rapporti tra principio di correttezza e buona fede ed azione giudiziale, nel corso del 2021 la S.C. si pone nel solco della propria giurisprudenza.

Il creditore che introduca un giudizio di cognizione o inizi una procedura esecutiva senza altro scopo che quello di far lievitare il credito, attraverso la moltiplicazione di spese di esazione esose ed evitabili, viola, difatti, l’obbligo di correttezza di cui all’art. 1175 c.c., che gli impone di cooperare con il debitore per facilitarne l’adempimento, di non aggravarne la posizione e di tollerare quelle minime inesattezze della prestazione che siano insuscettibili di recargli un apprezzabile sacrificio. Ne consegue, per Sez. 3, n. 07409/2021, Rossetti, Rv. 661005-01, l’inammissibilità della domanda che presenti tali caratteristiche, integrando la detta condotta abuso del processo.

L’eccezione di frazionamento del credito sollevata dalla parte, peraltro, fatti salvi gli effetti del giudicato, non soggiace a preclusioni in quanto, attenendo alla proponibilità della domanda, è rilevabile anche di ufficio dal giudice il quale, ove provveda in tal senso, è tenuto ad assegnare al creditore un termine a difesa, al fine di consentirgli di provare l’esistenza di un interesse alla tutela processuale. Sez. 6-2, n. 19898/2018, Falaschi, Rv. 650068-01, aveva ritenuto contrastante con il principio di cui innanzi l’avere il giudice di pace omesso, nella causa di opposizione a due decreti ingiuntivi azionati da un avvocato, di concedere all’opposto un termine per replicare all’eccezione di frazionamento del credito sollevata con memoria dall’opponente.

In tema di rapporto di lavoro subordinato, infine, in caso di proposizione di distinte azioni di impugnazione, per ragioni diverse, del medesimo atto di licenziamento, non sussiste litispendenza tra i due giudizi, pur aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale. Tuttavia, prosegue Sez. L, n. 22930/2021, Spena, Rv. 662093-01, la proponibilità di una nuova iniziativa giudiziaria resta condizionata alla sussistenza di un interesse oggettivo del lavoratore al frazionamento della tutela avverso l’unico atto di recesso.

In particolare, la S.C. ha seguito il proprio orientamento, in tema di rapporti tra principio di correttezza e buona fede ed azione giudiziale, con riferimento alla parcellizzazione della domanda giudiziale.

Sul punto si vedano, limitando i riferimenti alle statuizioni del 2020, Sez. 3, n. 08530/2020, De Stefano, Rv. 657812-01, Sez. 3, n. 04003/2020, Sestini, Rv. 656906-01, Sez. 6-3, n. 00337/2020, D’Arrigo, Rv. 656587-01, e Sez. 2, n. 29638/2020, Falaschi, Rv. 660116-01. Per la prima delle quattro, difatti, il danneggiato, che non dimostri di avervi un interesse oggettivamente valutabile, non può, in presenza di un unitario fatto illecito lesivo di cose e persone, frazionare la tutela giudiziaria, agendo separatamente per il risarcimento dei danni patrimoniali e di quelli non patrimoniali, poiché tale condotta aggrava la posizione del danneggiante-debitore e causa ingiustificato aggravio del sistema giudiziario. In particolare, non integrano un interesse oggettivamente valutabile ed idoneo a consentire detto frazionamento, di per sé sole considerate, né la prospettata maggiore speditezza del procedimento dinanzi ad uno anziché ad altro dei giudici aditi, in ragione della competenza per valore sulle domande risultanti dal frazionamento, né la semplice ricorrenza di presupposti processuali più gravosi per l'azione relativa ad una delle componenti del danno, soprattutto in caso di intervalli temporali modesti. Parimenti, le domande concernenti diversi e distinti diritti di credito relativi a un medesimo rapporto di durata tra le parti che siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, possono essere proposte in separati processi solo ove l’attore risulti assistito da un oggettivo interesse alla tutela processuale frazionata. Nella specie, la citata Sez. 6-3, n. 00337/2020, ha ritenuto non meritevole di tutela la scelta dell’attore di frazionare il suo credito al fine di adire il giudice di pace, così da ottenere una decisione più rapida, trattandosi di condotta che aveva alterato la competenza per valore sulla domanda e, quindi, sottratto la controversia al suo giudice naturale. Il giudicato di rigetto della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento preclude invece la proposizione di una nuova domanda di risoluzione fondata su altri inadempimenti conosciuti o conoscibili alla data di proposizione della prima domanda e non fatti valere con essa. La seconda delle tre statuizioni innanzi indicate (Sez. 3, n. 04003/2020, Sestini, Rv. 656906-01) ha sancito tale principio in fattispecie relativa ad affitto di fondo rustico ove il concedente aveva chiesto la risoluzione del contratto per inadempimento, deducendo l’intervenuto abusivo frazionamento del fondo ad opera dell’affittuario, nonostante tale condotta fosse conoscibile già al momento dell’introduzione di un precedente giudizio di risoluzione per degli ulteriori inadempimenti dello stesso affittuario, definito con sentenza di rigetto favorevole a quest’ultimo e passata in giudicato. La parcellizzazione della domanda diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede sia con il principio costituzionale del giusto processo e si traduce in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale (ex plurimis, Sez. U, n. 04090/2017, Di Iasi, Rv. 623269-01; Sez. 2, n. 17993/2018, D’Ascola, Rv. 649387-01; Sez. 2, n. 20714/2018, Besso Marcheis, Rv. 650013-01; Sez. 3, n. 06591/2019, Dell’Utri, Rv. 653251-01; Sez. U, n. 23726/2007, Morelli, 599316-01). Nel ribadire quanto innanzi, la citata Sez. 2, n. 29638/2020, ha ritenuto che, nella specie, la sentenza del giudice di pace, anche se pronunciata secondo equità, fosse appellabile in virtù dell’espressa previsione contenuta nell’art. 339, comma 3 c.p.c., che include, appunto, tra i casi di appellabilità, anche la violazione di norme costituzionali (si veda, in termini, Sez. 6-2, n. 15398/2019, Orilla, Rv. 654137-01).

6. La remissione.

La remissione del debito, quale causa di estinzione delle obbligazioni, esige che la volontà abdicativa del creditore sia espressa in modo inequivoco e un comportamento tacito, pertanto, può ritenersi indice della volontà del creditore di rinunciare al proprio credito solo se è privo di altra giustificazione razionale.

In tal senso, si era già espressa Sez. 3, n. 28439/2020, Rossetti, Rv. 659863-01, per la quale i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a meno che tale omissione non sia accompagnata da ulteriori circostanze tali da non consentire dubbi sul fatto che l’omessa appostazione in bilancio possa fondarsi su altra causa, diversa dalla volontà della società di rinunciare al credito. Nella specie, la citata ordinanza ha ritenuto esente da critiche la sentenza che aveva escluso che la mera omissione dell’indicazione d’un credito nel bilancio finale di liquidazione potesse ritenersi indice certo della volontà di rinunciarvi.

Nella scia interpretativa di cui innanzi prosegue Sez. 3, n. 36636/2021, Scarano, Rv. 663297-01. Per essa, difatti, proprio in virtù del principio innanzi esplicitato, i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a meno che tale omissione non sia accompagnata da ulteriori circostanze tali da non consentire dubbi sul fatto che l’omessa appostazione in bilancio possa fondarsi su altra causa, diversa dalla volontà della società di rinunciare al credito.

7. Compensazione cd. atecnica o impropria.

In tema di estinzione delle obbligazioni, si è in presenza di compensazione cd. impropria se la reciproca relazione di debito-credito nasce da un unico rapporto, nel quale l’accertamento contabile del saldo finale delle contrapposte partite può essere compiuto dal giudice d’ufficio, diversamente da quanto accade nel caso di compensazione cd. propria, che per operare, postula l’autonomia dei rapporti e l’eccezione di parte. Ne è conseguita, per Sez. 1, n. 28568/2021, Scalia, 662857-01, la conferma della sentenza che, con riguardo ad un contratto di appalto, aveva ritenuto di non poter considerare d’ufficio quale controcredito da porre in compensazione con il corrispettivo dell’appalto azionato dall’impresa la pretesa risarcitoria per la voce “lavori da realizzare in danno» dell’impresa fatta valere dal Consorzio committente, stante la diversità delle cause.

L’ordinanza menzionata mostra di porsi in linea di continuità con la precedente giurisprudenza di legittimità.

Si era già evidenziato che, quando tra due soggetti i rispettivi debiti e crediti hanno origine da un unico - ancorché complesso - rapporto, non vi è luogo ad una ipotesi di compensazione “propria», bensì ad un mero accertamento di dare e avere, con elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza, cui il giudice può procedere senza che siano necessarie l’eccezione di parte o la domanda riconvenzionale, che postulano, invece, l’autonomia dei rapporti ai quali i crediti si riferiscono. In applicazione di tale principio, Sez. 3, n. 16800/2015, Armano, Rv. 636862-01, aveva ritenuto che, correttamente, nel giudizio di merito fosse stato d’ufficio compensato il credito vantato dal locatore-attore, avente ad oggetto il risarcimento dei danni da inadempimento contrattuale per violazione della clausola di non rimozione delle addizioni effettuate dal conduttore, con quello vantato dal convenuto-locatario ed inerente l'indennità per l’eseguita addizione. Tale accertamento, che si sostanzia in una compensazione “impropria» o “atecnica», pur producendo risultati analoghi a quelli della compensazione “propria», non è sottoposto alla relativa disciplina tipica, sia processuale sia sostanziale, ivi compresa quella contenuta nell’art. 1248 c.c., riguardante l’inopponibilità al cessionario, da parte del debitore che abbia accettato puramente e semplicemente la cessione, della compensazione che avrebbe potuto eccepire al cedente. Nei termini di cui innanzi si era espressa Sez. 2, n. 04825/2019, Abete, Rv. 652692-01. Nella specie, veniva in rilievo il caso di una dipendente che aveva dato in garanzia il proprio TFR per ottenere un prestito da una società la quale, dopo le dimissioni della lavoratrice, aveva chiesto il versamento del detto TFR al datore di lavoro che, però, aveva rifiutato, eccependo, in parziale compensazione, il suo credito verso la medesima dipendente avente ad oggetto l’indennità di mancato preavviso da essa dovuta perché dimessasi in tronco. La S.C., enunciando il menzionato principio, aveva cassato la decisione di appello che, applicando l’art. 1248 c.c., aveva accolto la domanda della società cessionaria (in tema di cd. compensazione impropria o atecnica si veda, altresì, ex plurimis, Sez. 3, n. 18498/2006, Scarano, Rv. 593967-01).

Sez. 1, n. 24325/2020, Scarano, Rv. 659653-01, infine, aveva chiarito che, in tema di rapporti tra il credito dell’agricoltore a titolo di contributi dell’Unione europea conseguenti alla Politica agricola comune (PAC) ed i debiti dello stesso per prelievo supplementare relativo alle quote latte, è ammissibile la cd. compensazione impropria o atecnica, a condizione che il controcredito sia certo e liquido secondo la valutazione dei giudici di merito, incensurabile in sede di legittimità. A tal fine, era stata valorizzata l’unitarietà del rapporto, in base al quale il regime delle quote latte è parte integrante del sistema PAC, il cui corretto funzionamento complessivo postula l’effettività del recupero delle somme dovute dai produttori di latte che abbiano superato i limiti nazionali, mediante la previa verifica del Registro nazionale previsto dalla legge, nel quale sono inseriti i debiti e crediti dell’agricoltore, la compensazione dei quali è connaturata al sistema della PAC, come configurato dal diritto dell’Unione (la primazia del quale all’interno degli Stati membri postula l’interpretazione conforme delle norme nazionali).

8. Novazione e debiti contributivi.

Le obbligazioni contributive sono obbligazioni pubbliche, il cui contenuto è determinato dalle norme ed è, pertanto, sottratto - in considerazione del principio di legalità che regola la materia contributiva e dell’indisponibilità dei relativi crediti - all’incidenza degli enti gestori delle forme obbligatorie di previdenza e assistenza, i quali non possono compiere atti dispositivi dei diritti, come la novazione, ma solo adottare provvedimenti di autotutela.

Chiarito il principio appena evidenziato (Sez. L, n. 05551/2021, Buffa, Rv. 660624-02), la S.C. aggiunge che il debito contributivo del datore di lavoro, relativo alla posizione di una pluralità di lavoratori, non è unitario, ma costituito dalla sommatoria di posizioni distinte ed autonome. Ne consegue che le vicende estintive relative ai contributi di solo alcuni dei dipendenti non comportano la novazione del debito per gli altri, che resta immutato, ma implicano soltanto il ricalcolo del debito contributivo complessivo, operazione anch’essa priva di effetti novativi (Sez. L, n. 05551/2021, Buffa, Rv. 660624-01). Argomentando nei termini di cui innanzi, è stata cassata la sentenza del giudice di merito che, per effetto dell’accoglimento di istanze di condono e ricorsi amministrativi relativi alla posizione di alcuni lavoratori, aveva ritenuto novato l’originario debito contributivo verso l’ENPALS, ora INPS, sorto prima dell’entrata in vigore della l. n. 335 del 1995, e aveva applicato al debito residuo ricalcolato la prescrizione quinquennale anziché quella decennale preesistente.

  • frode
  • contratto
  • ricorso per inadempienza
  • responsabilità contrattuale

CAPITOLO VIII

IL CONTRATTO IN GENERALE

(di Francesco Cortesi )

Sommario

1 I requisiti del contratto. - 1.1 La manifestazione del consenso e la forma. - 1.2 L’oggetto e la sua determinazione. - 1.3 La causa e il contratto in frode alla legge. - 2 I contratti atipici e la meritevolezza degli interessi. - 3 Il dovere di buona fede e il contenuto del contratto. - 4 L’interpretazione del contratto. - 5 La nullità del contratto. - 5.1 Nullità per contrarietà a norme imperative. - 5.2 Aspetti processuali. - 6 Il contratto preliminare. - 7 Il contratto concluso dal rappresentante. - 8 Il contratto a favore di terzo. - 9 Le vicende del rapporto contrattuale. - 9.1 L’autotutela e la caparra confirmatoria. - 9.2 La risoluzione e l’eccezione di inadempimento.

1. I requisiti del contratto.

1.1. La manifestazione del consenso e la forma.

L’evoluzione della teoria generale del contratto è stata oggetto, negli ultimi anni, di una rinnovata attenzione degli interpreti relativamente al tema della veicolazione del consenso, della quale sono stati valorizzati i profili funzionali rispetto alla rilevanza sul piano strutturale.

Un ruolo certamente decisivo, al riguardo, hanno assunto le pronunzie rese dalla Suprema Corte in tema di oneri formali; tali pronunzie hanno tracciato un percorso che ha preso le mosse dalla distinzione fra norme di validità e regole di comportamento (di cui a Sez. U, n. 26724/2007, Rordorf, Rv. 600329-01), per poi definire il perimetro delle cosiddette “nullità di protezione” (Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633503-01) ed elaborare, da ultimo, una teoria “finalistica” degli oneri formali che, laddove stabiliti dal legislatore a protezione di una delle parti del rapporto, devono ritenersi assolti ogni qual volta lo scopo protettivo risulti comunque assicurato (Sez. U, n. 00898/2018, Di Virgilio, Rv. 646965-01).

Si collocano in continuità con tale percorso evolutivo alcune pronunzie rese nell’ultimo anno sul tema della forma del contratto; esse, in particolare, sono accomunate dall’indagine circa la possibile sussistenza, in seno agli oneri formali di legge, di una funzione ulteriore rispetto alla mera finalità di documentazione del consenso.

Così Sez. 2, n. 08765/2021, Dongiacomo, Rv. 660840-01, ha affermato che la previsione di forma scritta ad substantiam impone l’adozione del vincolo formale soltanto per gli elementi essenziali del contratto, in quanto solo su di essi si incentra la comune volontà delle parti e poiché gli stessi non possono essere ricavati in altro modo se non dall’obiettiva loro risultanza nel documento contrattuale.

In tal senso, ha specificato la Corte, nel caso di preliminare di vendita immobiliare la forma scritta deve riguardare soltanto il consenso, il bene alienato ed il relativo prezzo, e non - ad esempio - il termine per la stipula del definitivo; dal che consegue che l’eventuale modifica dello stesso, ovvero la rinuncia della parte ad avvalersene, possono rivestire qualunque forma.

Sez. 1, n. 09413/2021, Marulli, Rv. 661212-01, ha, invece, affrontato i profili attinenti al rispetto della previsione di forma scritta ad substantiam per il caso di contratto concluso mediante firma digitale.

In proposito, la sentenza ha operato una distinzione fra “firma elettronica” (o firma digitale leggera), “intesa come l’insieme dei dati in forma elettronica, allegati o connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici, utilizzati come metodo di autenticazione informatica”, e “firma digitale avanzata” (o pesante), ottenuta attraverso l’apposita procedura informatica che garantisce l’univoca identificazione del firmatario, specificando che - in tema di contratti bancari - la prima è idonea a soddisfare il requisito legale della forma scritta di cui all’art. 10 del d.P.R. n. 445 del 2000, come novellato dall’art. 6 del d.lgs. n. 10 del 2002.

Nella specie, la Corte ha ritenuto sufficiente, ai fini dell’integrazione contrattuale abilitante una negoziazione in covered warrant, la mera firma elettronica apposta dal risparmiatore per mezzo del point and click presente nella sua area riservata.

Nel settore dei contratti in strumenti finanziari si segnalano delle pronunzie relative al tema della sottoscrizione del cosiddetto contratto-quadro, che si collocano in linea con la già menzionata decisione n. 898 del 2018 resa dalle Sezioni Unite.

Sez. 1, n. 24015/2021, Nazzicone, Rv. 662386-01, ha specificato che la mancanza di valido contratto-quadro non può essere sanata dal fatto che l’intermediario sia stato successivamente incorporato da altro intermediario, già legato da un rapporto contrattuale con il medesimo investitore; pertanto, la rimodulazione dell’originaria operazione negoziale (avvenuta attraverso il recesso dell’investitore e la contestuale conclusione di un nuovo contratto direttamente con l’incorporante) non conduce a far ritenere sussistente un valido contratto con riguardo alla prima operazione.

Sez. 1, n. 23489/2021, Marulli, Rv. 662316-01, invece, nel ribadire il principio secondo cui la prescrizione di forma scritta si riferisce al solo contratto-quadro e non alle singole operazioni di investimento (affermato, fra le altre, da Sez. 1, n. 18122/2020, Amatore, Rv. 658609-02), ha escluso che la successiva redazione per iscritto di un contratto di investimento possa avere efficacia “sanante” ai sensi dell’art. 117 del d.lgs. n. 385 del 1993, poiché siffatta disposizione si riferisce ai soli contratti bancari.

La rilevanza dei profili funzionali è stata affermata dalla Suprema Corte anche in relazione alle forme prescritte per gli atti unilaterali.

Sez. 3, n. 27412/2021, Scrima, Rv. 662416-01, riaffermando che per l’atto unilaterale non occorrono oneri ulteriori rispetto alla forma scritta, essendo sufficiente che pervenga nella sfera di conoscenza del destinatario, ha ritenuto che l’atto di costituzione in mora produca l’effetto interruttivo della prescrizione anche se giunge nel luogo di lavoro, e non nell’abitazione, del destinatario.

E, tuttavia, la necessità che l’atto di costituzione in mora sia sottoscritto dal creditore è stata chiaramente espressa da Sez. 3, n. 12182/2021, Olivieri, Rv. 661326-02; secondo tale decisione, infatti, la relativa mancanza impedisce di sussumere il documento nella fattispecie legale della scrittura privata produttiva di effetti giuridici, con la conseguenza che l’effetto interruttivo della prescrizione non può prodursi successivamente, e con efficacia ex tunc, attraverso la produzione in giudizio del documento non firmato, unitamente alla manifestazione di volontà di farne proprio il contenuto espressa nell’atto giudiziale debitamente sottoscritto.

Meritano, infine, di essere menzionate due decisioni relative a modalità peculiari di veicolazione del consenso, che affrontano i profili attinenti alla produzione degli effetti traslativi nei contratti aventi ad oggetto diritti reali immobiliari.

Sez. 2, n. 14592/2021, Scarpa, Rv. 661353-01, ha affrontato il tema della formazione dell’accordo nei contratti immobiliari stipulati dalla P.A. con il sistema dell’asta pubblica; in queste fattispecie negoziali, l’atto di aggiudicazione (da trasfondere in un apposito processo verbale che tiene luogo del contratto) rappresenta un mero atto di accertamento dell’accordo intervenuto mediante l’incontro fra il bando - costituente proposta al pubblico, ai sensi dell’art. 1336 c.c. - e la proposta del miglior offerente.

E tuttavia, precisa la sentenza, l’effetto traslativo della proprietà dell’immobile si produce già al momento della redazione del verbale di aggiudicazione soltanto se il bando si riferisce ad un bene esattamente individuato; in caso contrario, infatti, il trasferimento si verifica solo - ex art. 1376 c.c. - al momento della stipula dell’atto pubblico in favore dell’acquirente-aggiudicatario, mediante la manifestazione del reciproco consenso fra le parti in relazione al bene effettivamente venduto ed esattamente identificato.

Infine, Sez. 2, n. 17810/2021, Carrato, Rv. 661514-01, ha affermato che, ove le parti convengano di estinguere un’obbligazione contrattuale mediante una diversa prestazione in luogo dell’adempimento originariamente pattuito, si attua il meccanismo proprio della datio in solutum; quest’ultima, però, costituendo un contratto a titolo oneroso, è assoggettata alla disciplina generale dei contratti e deve rispettare la forma che attiene alla natura della prestazione oggetto di dazione.

1.2. L’oggetto e la sua determinazione.

Con riguardo alla necessaria determinabilità dell’oggetto del contratto, si segnalano due pronunzie di rilievo.

In tema di vendita di cose determinate solo nel genere, Sez. 2, n. 14585/2021, Oricchio, Rv. 661403-01, ha ritenuto che, per l’ipotesi in cui sia trasferita la proprietà di un terreno che debba essere distaccato da una maggiore estensione, e quest’ultimo venga indicato soltanto quantitativamente nella misura della sua superficie, il requisito della determinabilità dell’oggetto sussiste quando sia accertato che le parti avevano considerato la maggior estensione di proprietà del venditore come genus e stabilito la misura della porzione da distaccare, senza necessità di alcuna altra attività individuativa.

In tal caso, infatti, il contratto evidenzia la sussistenza di elementi prestabiliti dalle parti, consistenti nel riferimento a dati di fatto esistenti e sicuramente accertabili, idonei all’identificazione del terreno da trasferire mediante un procedimento tecnico di mera attuazione che ne individui la dislocazione nell’ambito del fondo maggiore, risultando di per sé irrilevante la consegna di una parte piuttosto che di un’altra.

Per l’ipotesi di rapporto di lavoro subordinato con previsione di patto di non concorrenza a carico del lavoratore, Sez. L, n. 05540/2021, Amendola F., Rv. 660541-01, ha poi precisato che tale patto, quantunque stipulato contestualmente al contratto di lavoro, è nullo se non possiede, oltre a quelli di cui all’art. 2125 c.c., anche il requisito di determinatezza o determinabilità, previsto in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c.

1.3. La causa e il contratto in frode alla legge.

In relazione al requisito della causa del contratto, Sez. 2, n. 27362/2021, Orilia, Rv. 658014-01, ha preso in esame l’ipotesi di collegamento negoziale, evidenziando che, in questo caso, ravvisata la sussistenza di un nesso di interdipendenza fra le diverse pattuizioni, il giudice non deve limitarsi a verificare il solo tenore letterale delle clausole inserite nel contratto, ma è tenuto ad accertare la funzione economica sottesa alla fattispecie negoziale posta in essere.

Ne deriva, all’eventuale fine di indagare circa la sussistenza di un concreto intento delle parti di eludere il divieto legale del patto commissorio, la necessità di tener conto di tale sola ultima circostanza; restano così irrilevanti la natura obbligatoria o reale dei contratti, il momento temporale in cui l’effetto traslativo sia destinato a verificarsi, gli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e perfino l’identità dei soggetti che abbiano stipulato i negozi collegati, complessi o misti.

Sul medesimo argomento, e con riferimento specifico al contratto di agenzia, Sez. L, n. 24478/2021, Piccone, Rv. 662262-01, ha ritenuto che la regola inderogabile posta dall’art. 1750, comma 4, c.c., secondo cui i termini di preavviso devono essere gli stessi per le due parti del rapporto, pone un divieto di pattuizioni che alterino la parità delle parti in materia di recesso, con la conseguenza che è nullo per frode alla legge il patto che contempli, in aggiunta all’obbligo di pagare l’indennità di mancato preavviso, una clausola penale eccessivamente onerosa, che abbia l’effetto pratico di limitare fortemente tale facoltà.

La rilevanza della funzione concretamente perseguita dalle parti ispira anche Sez. 2, n. 23127/2021, Tedesco, Rv. 662141-01, concernente l’ipotesi di atto di liberalità avente ad oggetto il trasferimento di titoli di credito astratti

Siffatta operazione, secondo la Corte, non dà luogo ad una donazione indiretta, poiché non configura un mezzo per conseguire, attraverso l’uso di un negozio con causa tipica, un diverso risultato pratico; i titoli trasferiti, infatti, sono suscettibili di realizzare in modo diretto lo scopo voluto dalle parti, sicché il contratto integra una donazione diretta, soggetta, in quanto tale, al corrispondente onere formale.

2. I contratti atipici e la meritevolezza degli interessi.

Diverse pronunzie hanno riguardato fattispecie negoziali diffuse nella prassi commerciale, in ordine alle quali - ritenuta la meritevolezza degli interessi perseguiti - hanno fornito chiare indicazioni circa i profili della relativa disciplina.

Sez. U, n. 16080/2021, Stalla, Rv. 661408-01, ha preso in esame il contratto di cessione di cubatura fra privati, e - al fine di scrutinarne i profili inerenti al corrispondente regime dell’imposta di registro - ha precisato che esso, essendo volto al distacco, totale o parziale, della facoltà inerente ad un diritto dominicale di costruire nei limiti della cubatura assentita dal piano regolatore ed alla successiva formazione di un diritto a sé stante che viene trasferito a titolo oneroso al proprietario di altro fondo urbanisticamente omogeneo, è atto immediatamente traslativo di un diritto edificatorio di natura non reale a contenuto patrimoniale; tale contratto, quindi, non richiede la forma scritta ad substantiam ed è trascrivibile ex art. 2643, n. 2 bis, c.c.

In materia di locazione di terreni gravati da uso civico, Sez. 3, n. 29344/2021, Iannello, Rv. 662730-01, ha osservato che, ai fini della validità dell’operazione negoziale, occorre che la concreta destinazione impressa al bene sia conforme all’esercizio del predetto uso, nonché temporanea e tale da non determinarne l’alterazione dell’originaria qualità; in mancanza di tali requisiti, infatti, il contratto sarebbe affetto da nullità per contrasto con norma imperativa.

Sez. 6-3, n. 04190/2021, Cirillo F.M., Rv. 661249-01, ha, invece, preso in esame l’ipotesi di contratto atipico di parcheggio; nel richiamare la giurisprudenza che ha assoggettato tale fattispecie alla disciplina del deposito (e, in particolare, Sez. 3, n. 22807/2014, Sestini, Rv. 633230-01), la pronunzia in questione ha precisato che il depositario, assumendo l’obbligo di restituire la cosa nello stato in cui è stata consegnata, è tenuto a risarcire il danno in caso di sottrazione, salvo che provi l’imprevedibilità e l’inevitabilità della perdita nonostante l’uso della diligenza del buon padre di famiglia.

I profili di meritevolezza degli interessi sono espressamente presi in considerazione da Sez. 1, n. 24014/2021, Nazzicone, Rv. 662385-01, con riferimento al contratto di investimento in interest rate swap.

Nell’occasione, la Corte ha osservato che questa fattispecie si inscrive nella categoria, prevista dall’ordinamento, dei contratti aleatori, con il che non può in astratto essere esclusa la meritevolezza degli interessi suo tramite perseguiti; occorre, pertanto, che il giudice accerti la ricorrenza di tale profilo con valutazione da effettuarsi ex ante e in concreto, e non ex post, ossia alla luce degli effetti economici prodotti dal contratto.

In termini non dissimili, Sez. 3, n. 04664/2021, Guizzi, Rv. 660707-01, ha affermato che il contratto di sale and lease back, configurando una fattispecie socialmente tipica che, come tale, è astrattamente valida, impone unicamente di verificare, caso per caso, la presenza di elementi sintomatici che ne evidenzino la possibile rispondenza ad una funzione di garanzia e, pertanto, all’elusione del divieto del patto commissorio.

A questo fine, precisa la decisione, l’operazione contrattuale può definirsi fraudolenta qualora si accerti, con indagine tipicamente in fatto, che sussistano un rapporto di credito e debito tra la società finanziaria e il venditore-utilizzatore, una situazione di difficoltà economica di quest’ultimo e la sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente.

3. Il dovere di buona fede e il contenuto del contratto.

Nutrito, al solito, è il numero di pronunzie che ricorrono al dovere di buona fede come canone cui ispirare la valutazione della condotta delle parti nell’esecuzione del contratto, anche a prescindere dal tenore delle clausole contrattuali.

Innanzitutto, merita di essere segnalata Sez. 3, n. 09200/2021, Scarano, Rv. 661071-02, che ha il pregio di enucleare con chiarezza il contenuto di tale dovere, evidenziandone fondamento ed effetti e ponendo una chiara distinzione rispetto all’obbligo di diligenza, spesso erroneamente inteso in senso sinonimico.

Secondo la Corte, infatti, il principio di buona fede enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., al cui rispetto le parti sono tenute anche a prescindere alla sussistenza di specifici obblighi contrattuali; è immanente, infatti, il loro vincolo, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio, a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, che si specifica in obblighi puntuali (come il dovere di informazione e di avviso) dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità.

L’impegno imposto dall’obbligo di buona fede, specifica ancora la Corte, va quindi correlato alle condizioni del caso concreto, alla natura del rapporto, alla qualità dei soggetti coinvolti, e va valutato alla stregua della causa concreta del contratto; mentre il dovere di diligenza designa la misura dello sforzo esigibile dovuto da ciascuna parte nell’adempimento dell’obbligazione, avuto riguardo alle sue caratteristiche soggettive.

In linea con tale impostazione, Sez. 3, n. 24904/2021, Tatangelo, Rv. 662402-01, ha precisato che, nell’ambito di un contratto di somministrazione idrica, laddove l’utente lamenti l’addebito di un consumo anomalo (dovuto a perdita occulta), il dovere di buona fede impone al gestore di informare la controparte delle possibilità che le consentono una pronta attivazione, idonea a non aggravare il danno, e ciò a prescindere dalle iniziative che l’utente sarebbe comunque tenuto ad adottare, quali la cd. autolettura o la verifica dell’impianto.

Non diversamente, in tema di agenzia, Sez. 2, n. 29164/2021, Giannaccari, Rv. 662560-01, ha evidenziato che il canone di buona fede funge da limite al potere, attribuito per contratto al preponente, di modificare le clausole relative all’ambito territoriale ed alla misura delle provvigioni, quando giustificato dalla necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti.

L’obbligo di cooperazione all’altrui adempimento si estende, poi, secondo Sez. 3, n. 07409/2021, Rossetti, Rv. 661005-01, anche all’ambito giudiziale; laddove, infatti, il creditore agisca nei confronti del debitore - in sede di cognizione od esecutiva - a fronte di inesattezze della prestazione che siano insuscettibili di recargli un apprezzabile sacrificio, così da apparire assolutamente tollerabili, egli contravviene al dovere di cui all’art. 1175 c.c., che gli impone di non aggravare la posizione del debitore.

Pertanto, la domanda che presenti le caratteristiche menzionate va dichiarata inammissibile, poiché la corrispondente condotta integra un abuso del processo.

Infine, in tema di leasing traslativo, il patto di deduzione - con il quale, nel caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, è attribuita al concedente la facoltà di determinare unilateralmente il valore del bene oggetto del contratto, al fine di detrarlo, previa eventuale vendita, dal credito vantato verso l’utilizzatore - è stato ritenuto valido ed efficace da Sez. 3, n. 28022/2021, Rossetti, Rv. 662868-01, con la precisazione del fatto che la relativa clausola deve essere, tuttavia, eseguita secondo buona fede.

Pertanto, laddove il concedente esiga il credito risarcitorio o restitutorio ed il bene non sia stato ancora venduto, egli dovrà defalcarne il valore commerciale; mentre, ove il bene sia stato rivenduto, andrà detratto il ricavato della vendita, salva la riduzione del risarcimento ex art. 1227, comma 2, c.c. qualora gli sia imputabile la vendita del bene a prezzo vile.

4. L’interpretazione del contratto.

In relazione all’attività ermeneutica, si segnalano, anzitutto, due decisioni che contribuiscono a tracciare con maggior chiarezza il confine fra interpretazione e qualificazione del contratto.

Sez. 3, n. 15603/2021, Iannello, Rv. 661741-01, ha specificato che la prima è diretta alla ricerca della comune volontà dei contraenti (e, come tale, integra un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito), mentre l’attività di qualificazione giuridica è finalizzata a individuare la disciplina applicabile alla fattispecie; essa ultima, affidandosi al metodo della sussunzione, è suscettibile di verifica in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello contrattuale preso a riferimento, sia per quanto riguarda gli elementi di fatto cui viene attribuita rilevanza qualificante, con le implicazioni effettuali conseguenti.

In linea con tale impostazione, Sez. L, n. 03115/2021, Cinque, Rv. 660347-01, seppur riconducendo entrambe le attività ricostruttive all’unico procedimento di “qualificazione giuridica del contratto”, è pervenuta alle medesime conclusioni quanto all’ampiezza dello scrutinio consentito in sede di legittimità.

In ordine ai canoni ermeneutici, la priorità del criterio di interpretazione letterale è ribadita da Sez. 2, n. 33451/2021, Dongiacomo, Rv. 662753-01, che specifica come soltanto se persistono ambiguità si possa fare ricorso ai canoni strettamente interpretativi (contemplati dall’art. 1362 all’art. 1365 c.c.) e, in caso di insufficienza di questi, a quelli integrativi, previsti dall’art. 1366 c.c. all’art. 1371 c.c. Al riguardo, Sez. 1, n. 00995/2021, Lamorgese, Rv. 660378-01, chiarisce, poi, che l’eventuale censura, svolta dal ricorrente nel giudizio per cassazione, è inammissibile se non indica specificamente quale elemento semantico del contratto avrebbe imposto una diversa interpretazione in senso diverso; in mancanza di tale specificazione, infatti, la doglianza si risolverebbe in una mera contrapposizione fra l’interpretazione proposta dal ricorrente e quella accolta dai giudici di merito, priva di utilità ai fini dell’annullamento della sentenza impugnata.

Quanto all’applicazione del criterio letterale riferita ad una singola clausola, Sez. 1, n. 02945/2021, Pazzi, Rv. 660505-01, ha affermato che solo la lettura dell’intero testo contrattuale ne consente una corretta comprensione; al contrario, l’enucleazione di singole parole può comportare lo stravolgimento del significato della clausola, in particolare laddove si tratti di pattuizione limitativa dell’efficacia del negozio che, in presenza di un processo ermeneutico frammentato, potrebbe amplificare o ridurre la portata dell’accordo.

5. La nullità del contratto.

5.1. Nullità per contrarietà a norme imperative.

I profili “statici” della nullità del contratto continuano a registrare una crescente attenzione della giurisprudenza di legittimità per le fattispecie di cosiddetta nullità “virtuale”.

Di tali fattispecie, Sez. 3, n. 15099/2021, Moscarini, Rv. 661560-01, ha precisato che esse si configurano unicamente in presenza della violazione di norme inderogabili riferite alla validità del contratto; quando, invece, le norme imperative riguardano il comportamento dei contraenti, la relativa violazione può essere soltanto fonte di responsabilità.

Muovendo da tale rilievo, la Corte ha escluso la nullità del contratto di finanziamento concluso da un pubblico dipendente in violazione del termine dilatorio quadriennale di cui all’art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 180 del 1950, mentre era ancora in corso l’ammortamento di un finanziamento precedente.

Concerne, invece, il regime di nullità degli atti di circolazione di immobili abusivi, prevista dall’art. 40 della l. n. 47 del 1985, Sez. 2, n. 29317/2021, Varrone, Rv. 662743-01.

Secondo tale pronunzia, tale forma di nullità non si applica ai contratti stipulati anteriormente all’entrata in vigore della legge; in tal caso occorre, invece, riferirsi al sistema di sanzioni civili previsto dall’art. 10, comma 4, della l. n. 765 del 1967 (cd. legge-ponte) e, in termini pressoché identici, dall’art. 15, comma 7, della l. n. 10 del 1977 (cd. legge Bucalossi) che prescrive, ai fini della validità dell’atto, la consapevolezza, da parte dell’acquirente, della mancanza della concessione al momento della stipula, da esprimersi nell’atto stesso come manifestazione della volontà (anche implicita, ma non desumibile aliunde) di acquistare un’unità edilizia sprovvista di concessione.

5.2. Aspetti processuali.

Circa i profili processuali della disciplina della nullità del contratto vi è, anzitutto, un nutrito elenco di decisioni che, riferite al tema del rilievo officioso della nullità nel giudizio, ne specificano il perimetro applicativo in relazione a diverse fattispecie negoziali.

Così, ad esempio, Sez. L, n. 11106/2021, Blasutto, Rv. 661103-01, nel ribadire che il rilievo officioso, da parte del giudice, di una causa di nullità del contratto va coordinato con il principio della domanda, poiché occorre, comunque, che la relativa questione sia tempestivamente proposta in giudizio, ha confermato la sentenza di appello che aveva negato tale rilevabilità con riferimento al termine illegittimamente apposto ad un contratto di lavoro stipulato in esecuzione di un accordo transattivo, poiché nel ricorso introduttivo era stata dedotta la sola nullità della transazione e del termine apposto ai contratti di somministrazione all’origine della stessa.

In linea con tale pronunzia, Sez. L, n. 36353/2021, Bellè, Rv. 662922-01, ha affermato la necessità che il rilievo officioso sia basato su fatti ritualmente introdotti o comunque acquisiti in causa, secondo le regole che disciplinano, anche dal punto di vista temporale, il loro ingresso nel processo; il giudice, pertanto, non può pronunziarsi in tal senso sulla base di fatti dei quali ipotizzi solo in astratto la verificazione, o che introduca nel giudizio sul presupposto dell’esercizio di un potere di allegazione ormai precluso in rito.

Sui rapporti fra declaratoria di nullità e giudicato si appuntano, invece, le considerazioni di Sez. 3, n. 17955/2021, Sestini, Rv. 661747-02; con questa decisione, la Corte ha affermato che la formazione di un giudicato interno sull’inesistenza di un contratto preclude il rilievo - anche officioso - della nullità di quest’ultimo, ma ciò a condizione che la statuizione di inesistenza si sia fondata su un apprezzamento di fatto in base al quale il giudice abbia escluso la sussistenza di un’attività negoziale, anche nulla.

In relazione al medesimo argomento, Sez. 2, n. 31636/2021, Criscuolo, Rv. 662710-01, nel richiamare il principio affermato da Sez. 3, n. 13207/2015, Rossetti, Rv. 636014-01 - secondo cui il giudicato che si forma in seguito alla mancata opposizione del decreto ingiuntivo fa stato tra le parti anche in ordine all’inesistenza di fatti impeditivi o estintivi del rapporto, non dedotti, ma deducibili nel giudizio di opposizione - ha ritenuto preclusa al committente la deduzione di nullità di un contratto di prestazione d’opera intellettuale, già posto dal creditore a fondamento di precedenti azioni monitorie, dalle quali erano scaturiti giudizi definiti senza che la parte intimata ne avesse mai denunziata la nullità.

Affronta, infine, un interessante profilo consequenziale alla declaratoria di nullità del contratto di apertura di credito in conto corrente Sez. 1, n. 03858/2021, Fidanzia, Rv. 660509-02; nella pronunzia, infatti, si afferma che il diritto alla restituzione di quanto indebitamente versato dal correntista non si pone in rapporto di autonomia rispetto al diritto di far valere la nullità del contratto, poiché discende dalla rettifica delle relative annotazioni di conto corrente; pertanto, la domanda restitutoria è soggetta al regime di imprescrittibilità di cui all’art. 1422 c.c. ed il correntista può domandare la rettifica del conto senza limiti di tempo.

6. Il contratto preliminare.

Il panorama offerto dalla giurisprudenza sul contratto preliminare è, al solito, ricco e variegato.

Le pronunzie di maggiore interesse hanno riguardato, nell’ultimo anno, alcuni profili applicativi della relativa disciplina.

Nell’affrontare il tema del preliminare di cosa altrui, Sez. 2, n. 28856/2021, Dongiacomo, Rv. 662557-01, richiama la possibilità, per il venditore, di adempiere la propria obbligazione tanto acquistando il bene prima della stipula del definitivo, quanto procurando l’acquisto del promissario direttamente dall’effettivo proprietario, e ne fa conseguire il rilievo secondo cui soltanto nel primo caso, e dal momento in cui il venditore acquisisce la proprietà della cosa promessa in vendita, può essere pronunciata sentenza di esecuzione specifica ex art. 2932 c.c.; unicamente in tale momento, infatti, viene meno l’altruità della res che funge da ostacolo alla pronunzia con immediato effetto traslativo.

Sull’ipotesi di contratto preliminare ad effetti anticipati, Sez. 6-2, n. 28218/2021, Besso Marcheis, Rv. 662459-01, ha preso in esame il caso di occupazione anticipata dell’immobile dietro consenso del promittente alienante, ritenendo che la stessa divenga priva di titolo laddove il promissario acquirente proponga domanda di recesso dal contratto per l’inadempimento della controparte.

In tal caso, inoltre, al promittente alienante va riconosciuta l’indennità di occupazione dell’immobile; e ciò, tuttavia, a far data dalla domanda formulata dall’occupante e non, invece, da quella della consegna del bene, come accade quando il recesso consegue all’inadempimento del promissario acquirente.

Infine, per l’ipotesi di mancata conclusione del definitivo di compravendita immobiliare imputabile al promittente alienante, Sez. 2, n. 28856/2021, Picaroni, Rv. 661622-01, ha chiarito che al promissario acquirente spetta il risarcimento del danno in misura corrispondente alla differenza tra il valore commerciale dell’immobile nel momento in cui l’inadempimento è diventato definitivo ed il prezzo pattuito, oltre alla rivalutazione monetaria eventualmente verificatasi nelle more del giudizio.

Circa il primo dei due valori, la sentenza ha precisato che esso, normalmente, è stimato alla data della domanda giudiziale; esso, tuttavia, può essere riferito anche a data anteriore, da accertarsi in concreto, in quanto il termine di riferimento va individuato in base al principio generale espresso dall’art. 1225 c.c., secondo cui la prevedibilità del danno risarcibile deve essere valutata con riferimento al momento nel quale il debitore, dovendo eseguire la prestazione e potendo scegliere se adempiere o meno, è in grado di apprezzare più compiutamente (e, quindi, di prevedere) il pregiudizio che il creditore può subire per effetto del suo inadempimento.

7. Il contratto concluso dal rappresentante.

La S.C. è tornata ad occuparsi anche del tema della rappresentanza in ambito contrattuale, negli specifici profili che riguardano l’impiego dei poteri institori da parte del rappresentante.

A fronte di un tradizionale orientamento che ammette la desumibilità di tali poteri anche da comportamenti univoci e concludenti del rappresentante, escludendo che la contemplatio domini esiga l’uso di formule sacramentali (si veda, fra le altre, Sez. 3, n. 13539/2014, Barreca, Rv. 631722-01), Sez. 1, n. 19306/2021, Scalia, Rv. 661827-01, ha affermato che, tuttavia, la natura formale del rapporto di appalto di opere pubbliche esclude che, ove alla stipula intervenga un rappresentante, la contemplatio domini possa realizzarsi mediante un comportamento concludente; la spendita del nome altrui, quale requisito di efficacia dell’atto concluso dal rappresentante, partecipa, infatti, della natura formale del negozio cui afferisce, rendendo necessaria la presenza dell’atto scritto.

D’altro canto, Sez. 2, n. 02617/2021, Varrone, Rv. 660311-01, ha affermato che la ratifica di un contratto soggetto ad onere formale che sia stato concluso da un falsus procurator non richiede una manifestazione scritta della volontà del dominus, potendo essere resa anche in forma implicita; il rispetto dell’esigenza della forma scritta è soddisfatto dall’atto che, redatto per fini conseguenziali alla stipulazione del negozio, manifesta in modo inequivoco la volontà del dominus, incompatibile con il rifiuto dell’operato del rappresentante senza potere.

8. Il contratto a favore di terzo.

Numerose, e di rilievo, sono le pronunzie che hanno riguardato l’istituto del contratto a favore di terzo, sia puntualizzandone la disciplina generale, sia verificandone i termini di applicazione ad alcune fattispecie contrattuali.

Sotto il primo profilo, Sez. 6-2, n. 15442/2021, Giannaccari, Rv. 661478-01, nel ribadire che i requisiti imprescindibili per la sussistenza della fattispecie sono l’accordo esplicito tra promittente e stipulante, l’indicazione del terzo beneficiario e l’accettazione (anche implicita) da parte di quest’ultimo, ha precisato, in relazione al secondo requisito, che è sufficiente che il contratto consenta la determinabilità del beneficiario dell’attribuzione.

Sul requisito dell’accettazione, Sez. 2, n. 08766/2021, Varrone, Rv. 660920-01, ha chiarito che esso si configura quale mera condicio iuris sospensiva dell’acquisizione del diritto; di conseguenza, anche nella fase di attuazione del contratto ciascuno dei soggetti del rapporto conserva la propria posizione, dimodoché le eventuali azioni contrattuali vanno intentate nei confronti dello stipulante o del promittente ma non contro il terzo, il quale, correlatamente, non può proporre tali azioni nei confronti di questi ultimi, ad eccezione dell’azione di adempimento.

Fra le decisioni riferite a singole fattispecie negoziali, vanno anzitutto annoverate due pronunzie concernenti il contratto di assicurazione sulla vita.

La prima di esse è Sez. U, n. 11421/2021, Scarpa, Rv. 661129-03, concernente l’ipotesi di polizza vita genericamente stipulata a favore degli eredi legittimi.

Le Sezioni Unite, nel frangente, sono state chiamate a comporre il contrasto fra due orientamenti. Il primo si era formato nel senso di ritenere che, in mancanza di un diverso specifico criterio, gli eredi avrebbero dovuto ripartirsi il premio in quote uguali, essendo la fonte regolatrice del rapporto il contratto e non la disciplina codicistica in materia di successione con le relative quote (così, da ultimo, Sez. 6-3, n. 25635/2018, Positano, Rv. 651370-01); il secondo (essenzialmente riconducibile alla sola Sez. 3, n. 19210/2015, Frasca, Rv. 636951-01) si fondava, invece, sulla considerazione del fatto che i contraenti, indicando gli eredi come beneficiari, non avessero solo voluto individuare i destinatari dell’indennizzo, ma anche determinarne l’attribuzione in misura proporzionale alla rispettiva quota.

Il contrasto è stato risolto nel senso di ritenere che la natura inter vivos del credito attribuito per contratto agli “eredi”, designati quali beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione, escluda l’operatività delle regole sulla comunione ereditaria, e, in particolare, quella della ripartizione pro quota.

La qualifica contrattuale di “eredi”, rivestita al momento della morte dello stipulante, ha, pertanto, il mero fine di consentire la determinazione del beneficiario dell’attribuzione (vale a dire del creditore della prestazione), in base alla disciplina del contratto a favore di terzo (nella forma speciale prevista dall’art. 1920 c.c.).

Rimane ferma, com’è ovvio, la libertà del contraente, nel designare gli eredi quali beneficiari, di limitarsi ad un’indicazione generica o nominativa, ovvero di stabilire in quali misure o proporzioni debba suddividersi l’indennizzo.

Sullo stesso tipo contrattuale, Sez. 3, n. 09948/2021, Fiecconi, Rv. 661080-01, ha affermato che, applicandosi al contratto l’art. 1412, comma 2, c.c., dopo la morte dello stipulante la prestazione deve essere eseguita a favore degli eredi del terzo se premorto (e sempreché il beneficio non sia stato revocato o lo stipulante non abbia disposto diversamente); in questo caso, dunque, la morte del disponente non incide sulla nascita del diritto alla prestazione, ma solo sulla sua esigibilità, a prescindere dal motivo intuitu personae o previdenziale sottostante alla designazione del beneficiario.

Sez. 2, n. 25486/2021, Giannaccari, Rv. 662254-01, ha, invece, ritenuto applicabile la disciplina del contratto a favore di terzo per il caso di affidamento in custodia onerosa di un veicolo da parte della polizia di Stato, a seguito di sinistro o perché provento di reato; la Corte ha conseguentemente osservato che il proprietario della vettura è obbligato al pagamento del corrispettivo per la custodia, ove informato dell’avvenuto deposito, in quanto la tempestiva comunicazione dell’avvenuto rinvenimento configura un’adesione tacita al contratto di deposito stipulato in suo favore.

Infine, Sez. 3, n. 22149/2021, Cirillo F.M., Rv. 662352-01, ha preso in esame la fattispecie di contratto di trasporto nel quale il destinatario sia persona diversa dal mittente, evidenziando che in tal caso la consegna delle cose a destinazione (o la richiesta di consegna) integra la “dichiarazione di volerne profittare” di cui all’art. 1411 c.c., con conseguente subentro del destinatario nei diritti ed obblighi del mittente. Pertanto, se le parti originarie del contratto hanno pattuito un foro convenzionale esclusivo, il destinatario, divenuto parte del contratto, a differenza di quanto accade nel contratto a favore di terzo, può avvalersi della clausola derogatoria, essendo egli già subentrato nel contratto già perfezionato, senza necessità di ulteriore comunicazione adesiva al vettore.

9. Le vicende del rapporto contrattuale.

9.1. L’autotutela e la caparra confirmatoria.

In relazione alle vicende del rapporto contrattuale, e con particolare riferimento ai rimedi per l’inadempimento, rivestono particolare interesse alcune pronunzie che si sono occupate dei relativi meccanismi di regolazione adottati dalle parti.

Sez. 6-2, n. 21506/2021, Falaschi, Rv. 662110-01, ha preso in considerazione l’ipotesi nella quale, in presenza di contratti collegati, l’inadempimento delle obbligazioni del contratto principale comporta l’obbligo di corrispondere alla parte non inadempiente una determinata quantità di beni fungibili nel contesto di uno dei rapporti collegati.

La Corte ha ritenuto che tale pattuizione, adottata allo scopo di rafforzare il vincolo principale, ricalchi lo schema della caparra confirmatoria ma abbia natura reale e, come tale, non produca effetto se non con la consegna dei beni; tale natura permane anche laddove le parti abbiano differito la dazione, in tutto o in parte, ad un momento successivo, purché anteriore alla scadenza delle obbligazioni pattuite.

Sez. 2, n. 19801/2021, Carrato, Rv. 662013-01, ha precisato che, se la parte inadempiente restituisce, mediante dazione di assegno, la somma versata a titolo di caparra alla controparte, non viene meno il diritto di quest’ultima a pretendere il doppio della caparra, da far valere, in mancanza di univoca volontà abdicativa da parte del creditore, mediante l’esercizio del diritto di recesso, anche con la proposizione di apposita domanda giudiziale in caso di mancata conformazione spontanea della parte obbligata.

Per il caso di scioglimento del contratto per mutuo dissenso, torna sui profili inerenti alla sua validità (nel senso già affrontato in passato, fra le altre, da Sez. T, n. 20445/2011, Olivieri, Rv. 619289-01) Sez. 2, n. 35931/2021, Abete, Rv. 662972-01, affermando - in fattispecie concernente il mutuo dissenso manifestato dalle parti in ordine ad un preliminare immobiliare - che l’accordo per lo scioglimento deve rivestire, per la sua validità, la stessa forma stabilita per la validità del contratto principale.

In relazione alla medesima ipotesi, peraltro, Sez. 6-3, n. 13504/2021, Cricenti, Rv. 661564-01, ha precisato che nel giudizio fondato su una domanda di risoluzione per inadempimento, con conseguente pretesa restitutoria, la decisione che accolga tale ultima domanda sul diverso presupposto dell’avvenuta risoluzione consensuale, rilevata d’ufficio, non viola il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, poiché il venir meno del titolo, quale che ne sia la causa, rende indebita la prestazione effettuata in base ad esso, non rilevando la ragione per la quale il pagamento è divenuto indebito.

9.2. La risoluzione e l’eccezione di inadempimento.

Nell’ambito dei rimedi caducatori, le pronunzie di maggior rilievo hanno riguardato il tema della risoluzione.

In proposito, continua a costituire oggetto di riflessione l’enucleazione dei parametri che consentano al giudice di formulare la valutazione di “non scarsa importanza” dell’inadempimento di cui all’art. 1455 c.c.

Sez. 2, n. 19579/2021, Oliva, Rv. 661698-01, ha evidenziato come in tale valutazione occorra preliminarmente distinguere le violazioni delle obbligazioni costitutive del sinallagma contrattuale - il cui apprezzamento è necessario - da quelle che incidono sulle obbligazioni di carattere accessorio, in sé sole inidonee a fondare un giudizio di gravità; in tal senso, secondo la pronunzia, potrebbe darsi rilievo alla violazione degli obblighi di informazione imposti dal generale dovere di buona fede soltanto in presenza di un inadempimento che incida sul nucleo essenziale del rapporto, ovvero di un’ipotesi di abuso del diritto da parte di uno dei paciscenti.

D’altro canto, Sez. 6-3, n. 08220/2021, Iannello, Rv. 660990-01, ha sottolineato che il quadro valutativo è interessato dalla centralità di qualsiasi condotta che determini un’alterazione dell’equilibrio contrattuale, a prescindere dalla sua afferenza al novero delle obbligazioni cosiddette principali.

In applicazione di tale criterio, la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva omesso di valutare l’importanza dell’inadempimento in un caso di errato intervento di chirurgia estetica, assumendo che l’operazione non poteva reputarsi del tutto inutile perché aveva comunque prodotto uno degli altri risultati cui essa era preordinata, in base alle finalità dichiarate dal paziente prima dell’intervento.

La valutazione di gravità dell’inadempimento, secondo Sez. 2, n. 23879/2021, Giannaccari, Rv. 662078-01, mantiene intatta la propria necessità ogni qual volta sia stata posta in essere una condotta inadempiente che giustifichi la risoluzione del contratto; ciò anche quando il regolamento contenga una clausola risolutiva espressa, donde tale effetto si produca automaticamente per alcuni casi di inadempimento espressamente previsti, residuando la necessaria valutazione da parte del giudice per tutti gli altri casi.

Ove, poi, un contraente abbia manifestato la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa, ben può accadere che la controparte sollevi eccezione di inadempimento; in tal caso, ha precisato Sez. 3, n. 27692/2021, Guizzi, Rv. 662501-01, il giudice deve valutare la gravità dell’inadempimento ivi dedotto, attesa la pregiudizialità logica della exceptio inadimpleti contractus rispetto all’avverarsi degli effetti risolutivi automatici di cui all’art. 1456 c.c.

Su profili non dissimili, concernenti il regime della risoluzione conseguente alla diffida ad adempiere, Sez. 6-2, n. 00039/2021, Criscuolo, Rv. 660183-01, ha affermato, invece, per il caso in cui la parte intimata invii una controdiffida, diretta a contestare la sussistenza di una qualsiasi delle condizioni cui è subordinata la risoluzione di diritto, che ciò non sospende l’effetto risolutorio secondo il meccanismo di cui all’art. 1454 c.c.

Infine, circa la proponibilità dell’exceptio inadimpleti, due decisioni valorizzano il ricorso al principio di buona fede come parametro valutativo adeguato nell’ottica dell’apprezzamento della necessaria proporzionalità fra i rispettivi inadempimenti.

Sez. 2, n. 14986/2021, Scarpa, Rv. 661513-02, ha affermato, in particolare, che il compratore può sollevare tale eccezione non solo quando venga completamente a mancare la prestazione della controparte, ma anche laddove l’inesatto adempimento del venditore abbia determinato l’inidoneità della cosa venduta all’uso cui è destinata, sempreché ciò giustifichi il rifiuto di adempiere da parte sua in base ad una valutazione compiuta con riferimento al complessivo equilibrio sinallagmatico del contratto ed all’obbligo di comportarsi secondo buona fede.

Dando continuità al medesimo principio in ambito locatizio, Sez. 3, n. 02154/2021, Iannello, Rv. 660438-01, ha abilitato il conduttore a sollevare siffatta eccezione in tutte le ipotesi nelle quali il godimento del bene locato, quantunque non escluso, resti limitato in misura da giustificare la sospensione del pagamento del canone, avuto riguardo al dovere delle parti di comportarsi secondo buona fede, avuto riguardo all’incidenza di tale fattore sull’equilibrio sinallagmatico del contratto.

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CAPITOLO IX

I SINGOLI CONTRATTI

(di Stefania Billi, Stefano Pepe(*) )

Sommario

1 Il contratto di appalto privato; l’esecuzione, le patologie contrattuali e le forme di tutela della parte adempiente. - 1.1 La responsabilità verso terzi. - 2 Il contratto di assicurazione: premessa. - 2.1 L’assicurazione per la responsabilità civile. - 2.2 L’assicurazione obbligatoria. - 2.3 L’assicurazione sulla vita. - 3 Il comodato. - 3.1 Il comodato, disciplina tributaria. - 4 I contratti agrari. - 5 La fideiussione e più in generale la tutela del credito tra garanzie tipiche e atipiche. - 6 La locazione: aspetti processuali. - 6.1 Locazione e il trasferimento della cosa locata. - 6.2 Le obbligazioni del locatore. - 6.3 Locazione non abitativa: locazione di immobile conclusa dalla P.A. iure privatorum. - 6.4 La risoluzione per inadempimento del conduttore, risarcimento danno per il locatore, quantificazione. - 6.5 Locazione di immobile ad uso non abitativo, affitto di azienda: differenze. - 7 Il mandato. - 8 La transazione. - 9 Il trasporto. - 10 La vendita: premessa. - 10.1 Il contratto preliminare. - 10.2 I vizi della cosa e i vizi della volontà. L’inadempimento e la tutela rimediale. - 10.3 La compravendita immobiliare. - 11 Il giuoco e la scommessa.

1. Il contratto di appalto privato; l’esecuzione, le patologie contrattuali e le forme di tutela della parte adempiente.

Sez. 2, n. 23291/2021, Oricchio, Rv. 662144-01 ha riaffermato il noto insegnamento della Corte secondo cui in materia di appalto il committente può, a sua scelta, da una parte, richiedere l’eliminazione delle difformità o dei difetti dell’opera a spese dell’appaltatore ex art. 2931 c.c., con ulteriore ed alternativa istanza di risarcimento per equivalente dovuto in subordine alla mancata esecuzione specifica della condanna all'eliminazione delle difformità e dei vizi, dall’altra, sempre a sua scelta, domandare direttamente la riduzione del prezzo. Tutto ciò a prescindere dalla rilevanza con cui - in concreto - possono variamente atteggiarsi le differenti entità pecuniarie conseguenti alla riduzione del prezzo ovvero al detto risarcimento per equivalente, il primo ed il secondo liberamente richiedibili dalla parte in base a propria scelta.

A ciò consegue che il risarcimento per equivalente ancorato all’entità delle somme necessarie per l’eliminazione di difetti può essere richiesto allorché sia stata svolta domanda di eliminazione delle difformità e dei difetti a cura e spese dell’appaltatore.

Viceversa, allorché si domanda la riduzione del prezzo l’entità del risarcimento richiedibile è costituito solo dalle spese effettivamente già sostenute per rifare l’opera.

In applicazione di tale principio e a conferma della sentenza impugnata, la Corte ha osservato che nella fattispecie in esame l’appaltante/committente - come valutato dalla Corte del merito - aveva optato per la domanda di riduzione prezzo e, quindi (alla stregua dei detti principi), poteva chiedere solo i danni per le spese effettivamente sostenute per l'eliminazione di difformità e vizi e non certo il danno per equivalente (come preteso dalla appaltante/committente con la richiesta della maggior somma perseguita).

In altra controversia nata a seguito dell’inadempimento contrattuale di una parte del rapporto negoziale, la Corte (Sez. 3, n. 17453/2021, Scoditti, Rv. 661687-01) si è occupata della misura del danno risarcibile in caso di risoluzione del contratto di appalto per totale inesecuzione dello stesso. In proposito, la Corte ha affermato che il risarcimento dovuto al committente, liberato dall’obbligo del pagamento del prezzo, non può comprendere l’intero prezzo dal committente medesimo sostenuto per procurarsi, mediante la conclusione di un altro contratto di appalto, la stessa utilità perseguita con il contratto risolto, ma solo quella differenza fra tale ulteriore spesa e la minor somma che egli avrebbe dovuto versare all’appaltatore rimasto inadempiente.

1.1. La responsabilità verso terzi.

Nel corso del 2021 si deve segnalare un’importante pronuncia che ha affrontato il tema della responsabilità verso terzi con riferimento alle diverse ipotesi di appalto privato e pubblico e con riferimento, al caso di responsabilità da bene in custodia. Ed invero Sez. 3, n. 07553/2021, Graziosi, Rv. 660915-01 fa il punto sulla responsabilità del committente e dell’appaltatore in caso di danni a terzi nell’ambito di controversia avente ad oggetto il ricorso proposto da Autostrade Meridionali S.p.A., avverso la sentenza emessa dalla Corte d’appello di Napoli che, in accoglimento del gravame, aveva dichiarato la ricorrente, quale committente, responsabile dei danni cagionati ad un immobile durante l’esecuzione di lavori di appalto. La Corte rileva che il giudice del gravame aveva fondato la responsabilità della ricorrente sulla natura pubblica dell’appalto e, dunque, sul maggiore potere di controllo e ingerenza del committente nell’esecuzione dei lavori rispetto ad un committente privato con conseguente limitazione dell’autonomia dell’appaltatore. In particolare, nell’appalto tra privati, il direttore dei lavori è eventuale, può essere nominato anche dall’appaltatore e non può ingerirsi al punto da impartire ordini all’impresa; diversamente nell’appalto di opere pubbliche, la nomina del direttore dei lavori è obbligatoria con conseguente limitazione dell’appaltatore.

In particolare, la Corte, dopo aver riportato l’evoluzione giurisprudenziale in materia, la quale muovendo dalla posizione di autonomia - imprenditoriale, che nel paradigma contrattuale assume l’appaltatore, aveva individuato la ragione di attribuzione “di regola” della responsabilità verso i terzi proprio a lui; evoluzione che poi aveva, dapprima, individuato residue ipotesi di responsabilità a carico del committente, che, successivamente, si sono progressivamente dilatate “rimettendo in campo” il committente. L’appaltatore infatti “assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio” (articolo 1655 c.c.) i propri obblighi contrattuali. L’evoluzione in esame ha portato la Corte a fondare la responsabilità in materia per danni ai terzi su tre punti fermi: l’autonomia dell’appaltatore da cui discende la sua responsabilità in caso di danni a terzi, salvo i casi in cui egli è mero esecutore (nudus minister) e responsabile diviene il committente; l’esonero di responsabilità del committente privato; la responsabilità o corresponsabilità del committente pubblico stante il potere di ingerenza.

Con riferimento a tale ultima ipotesi, essa ricorre nei casi in cui il danno è effetto diretto di un fatto proprio del committente, il quale si è ingerito, direttamente o attivamente, nell’esecuzione materiale dell’opera, come nel caso della redazione di un progetto pregiudizievole o con la nomina di un direttore dei lavori.

Sul punto merita di essere segnalata Sez. 2, n. 07027/2021, Criscuolo, Rv. 660749-02 che, in tema di responsabilità del proprietario di un fondo per i danni derivanti da attività di escavazione, ex art. 840 c.c., ha affermato che essa non opera in senso oggettivo, ma richiede una condotta colposa, sicché, nell'ipotesi in cui i lavori di escavazione siano affidati in appalto, è l'appaltatore ad essere, di regola, l'esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi nell'esecuzione dell'opera, salvo che non risulti accertato che il proprietario committente, avendo - in forza del contratto di appalto – la possibilità di impartire prescrizioni o di intervenire per richiedere il rispetto delle normative di sicurezza, se ne sia avvalso per imporre particolari modalità di esecuzione o particolari accorgimenti antinfortunistici che siano stati causa (diretta o indiretta) del sinistro, nel qual caso la responsabilità dell'appaltatore verso il terzo danneggiato può aggiungersi a quella del proprietario, ma non sostituirla o eliminarla.

Riprendendo l’iter motivazionale della sentenza n. 7553 del 2021 con essa, in riferimento agli appalti privati, si è rilevato che la responsabilità del committente verso i terzi è meramente eventuale, tenendo conto all’effettivo suo esercizio di poteri relativi all’esecuzione del contratto, mentre negli appalti pubblici è da considerarsi costante. La p.a. ha, infatti, il potere di autorizzazione, di controllo, di ingerenza nell’esecuzione dei lavori, con facoltà, tramite il direttore dei lavori, di disporre varianti e anche di sospendere i lavori se potenzialmente dannosi ai terzi. Nella fattispecie oggetto di esame da parte del Collegio era emersa anche la problematica della custodia dell’immobile coinvolto nei lavori e della correlativa responsabilità (art. 2051 c.c.). Il giudice del gravame aveva radicato la responsabilità del committente sul paradigma dell’appalto pubblico, senza pronunciarsi sulla questione della custodia, sollevata, invece, dai terzi danneggiati. La società committente negava qualsiasi responsabilità, in quanto, durante i lavori, il potere di controllo sull’area del cantiere grava sull’appaltatore e viene interrotto il normale rapporto tra il bene e il suo proprietario. Invero, sempre secondo quanto emerge dalla decisione in esame, non sempre il rapporto tra la res e il titolare viene interrotto dal contratto di appalto. Infatti, in alcune pronunce, è stato affermato che, se la strada pubblica, oggetto di lavori, rimane aperta al transito, permane la responsabilità in capo al proprietario, il quale resta corresponsabile con l’appaltatore verso i terzi. Quindi, occorre operare il seguente distinguo: se il committente trasferisce integralmente all’appaltatore il potere di fatto sul bene, ciò determina la translatio (ossia il passaggio) della custodia e del correlato obbligo di vigilanza all’appaltatore; se ciò non avviene, grava sul primo il dovere di custodia e vigilanza e la conseguente responsabilità ex art. 2051 c.c. In ragione di quanto sopra il custode non può liberarsi della sua posizione di garanzia semplicemente con la conclusione di un contratto di appalto. In tal modo, infatti, si eluderebbe la funzione della disciplina della responsabilità per i danni causati dalle cose. Ai sensi dell’art. 2051 c.c., il custode non risponde dei danni a terzi solo se sussiste il caso fortuito. Pertanto, la permanenza della qualità di custode comporta l’onere, per il committente, di dimostrare che l’attività dell’appaltatore integri un caso fortuito, vale a dire non sia prevedibile o evitabile. In base a tale lettura interpretativa “l’appalto non esclude affatto la custodia, ma è, al contrario, un modo di esercizio di quest’ultima”. In altre parole, l’appalto non comporta la perdita della custodia.

La consegna del bene all’appaltatore non equivale alla correlativa consegna del ruolo di custode. Diversamente opinando, sarebbe come realizzare un esonero contrattuale della responsabilità nei confronti dei terzi che, però, non sono parte del contratto. La clausola di un contratto di appalto che ascriva all’appaltatore la responsabilità esclusiva per tutti i danni che i terzi dovessero subire dall’esecuzione delle opere non può essere invocata dal committente. Infatti, una simile clausola opera solo nei rapporti fra i contraenti (appaltatore e committente) ma “non può vincolare il terzo a dirigere verso l’una, anziché verso l’altra parte, la pretesa nascente dal fatto illecito o cagionato dall’esecuzione del contratto”. Si tratta dell’applicazione del generale principio di relatività del contratto (art. 1372 c.c.). In buona sostanza, l’appalto non vincola il terzo, il quale mantiene il proprio diritto risarcitorio nei confronti del committente/custode.

I supremi giudici esemplificano la fattispecie sostenendo che: rispetto all’appaltatore, il soggetto è un committente, rispetto al terzo, è un custode.

La Corte in ragione di tutto quanto sopra ha rigettato il ricorso della società committente dei lavori ed enunciato il principio di diritto secondo cui in tema di appalto, la consegna del bene all’appaltatore non fa venir meno il dovere di custodia e di vigilanza gravante sul committente, sicché questi resta responsabile, alla stregua dell’art. 2051 c.c., dei danni cagionati ai terzi dall’esecuzione dell’opera salvo che provi il caso fortuito, quale limite alla detta responsabilità oggettiva, che può coincidere non automaticamente con l’inadempimento degli obblighi contrattualmente assunti nei confronti del committente bensì con una condotta dell’appaltatore imprevedibile e inevitabile nonostante il costante e adeguato controllo (esercitato - se del caso - per il tramite di un direttore dei lavori).

2. Il contratto di assicurazione: premessa.

Il tema delle assicurazioni è stato ampiamente arato anche quest’anno dalla S.C., intervenuta, non solo, nell’ambito della responsabilità civile, ma anche in quello dell’assicurazione obbligatoria per la circolazione dei veicoli e dell’assicurazione sulla vita. Nel primo gli interventi hanno riguardato questioni relative agli elementi del contratto e all’individuazione dei soggetti legittimati passivi ed i diversi limiti della responsabilità per il danno. Nel settore dell’assicurazione obbligatoria la S.C. si è occupata dell’azione diretta del danneggiato nei confronti dell'assicuratore, come anche del terzo trasportato intervenendo anche con un’attività interpretativa ispirata ai canoni eurounitari. L’assicurazione sulla vita ha visto anche l’intervento delle S.U., sulla clausola di attribuzione dell'indennizzo a favore degli eredi legittimi, sotto i diversi profili dei canoni interpretativi, dei criteri di ripartizione delle quote, nonché delle conseguenze della premorienza di un beneficiario del contraente.

2.1. L’assicurazione per la responsabilità civile.

Con riferimento agli elementi del contratto di assicurazione, Sez. 3, n. 27913/2021, Rubino, Rv. 662419-01, ha chiarito che in tema di assicurazione per la responsabilità civile, il massimale non è elemento essenziale del contratto di assicurazione, il quale può essere validamente stipulato senza la relativa pattuizione e neppure costituisce fatto generatore del credito assicurato. Configurandosi, invece, come elemento limitativo dell'obbligo dell'assicuratore, sarà a carico di quest’ultimo l'onere di allegare e provare, nel rispetto delle preclusioni processuali, l'esistenza e la misura del massimale, nonché la erosione dello stesso per effetto della liquidazione di precedenti sinistri.

Sotto il profilo dei soggetti nei cui confronti può essere proposta l’azione diretta, Sez. 3, n. 00529/2021, Olivieri, Rv. 660600-01 ha affermato che, in tema di assicurazione della responsabilità civile, soltanto l'assicurato è legittimato ad agire nei confronti dell'assicuratore, e non anche il terzo danneggiato, nei confronti del quale l'assicuratore non è tenuto per vincolo contrattuale, né a titolo di responsabilità aquiliana.

Il danneggiato, infatti, non può agire direttamente nei confronti dell'assicuratore del responsabile del danno, salvi i casi eccezionalmente previsti dalla legge, atteso che egli è estraneo al rapporto tra il danneggiante e l'assicuratore dello stesso. Il danneggiato, inoltre, nemmeno può trarre alcun utile vantaggio da una pronuncia che estenda all'assicuratore gli effetti della sentenza di accertamento della responsabilità, anche quando l'assicurato chieda all'assicuratore di pagare direttamente l'indennizzo al danneggiato, attenendo detta richiesta alla modalità di esecuzione della prestazione indennitaria.

La pronuncia si colloca sul solco, a suo tempo, tracciato da Sez. 3, n. 15039/2005, Preden, Rv. 584733-01, secondo cui nell'assicurazione della responsabilità civile l'obbligazione dell'assicuratore al pagamento dell'indennizzo all'assicurato è distinta ed autonoma rispetto all'obbligazione di risarcimento cui quest'ultimo è tenuto nei confronti del danneggiato. Per effetto dell'assicurazione non si instaura, infatti, alcun rapporto giuridico immediato tra l'assicuratore e il danneggiato: quest’ultimo, a differenza di quanto si verifica nella speciale disciplina della responsabilità derivante dalla circolazione stradale, non ha azione diretta nei confronti dell'assicuratore.

Sotto il diverso profilo dell’azione proposta dal terzo danneggiato Sez. 6-3, n. 04786/2021, Rossetti, Rv. 660611-01, ha chiarito che l'assicurato contro i rischi della responsabilità civile, se convenuto in giudizio dal terzo danneggiato, ha diritto alla rifusione, da parte dell'assicuratore, delle spese sostenute per contrastare la pretesa attorea. Tale diritto sussiste, sia nel caso in cui la domanda di garanzia venga accolta, sia nel caso in cui resti assorbita, mentre può essere negato solo qualora manchi o sia inefficace la copertura assicurativa oppure quando le spese di resistenza sostenute dall'assicurato siano state superflue, eccessive od avventate.

Rimanendo sul versante delle spese sostenute dall’assicurato per resistere alla domanda risarcitoria proposta nei suoi confronti dal terzo danneggiato è interessante la precisazione di Sez. 6-3, n. 03011/2021, Rossetti, Rv. 660608-01 in caso di contratto cd. "multirischio", contenente, oltre alla garanzia della responsabilità civile dell'assicurato, anche la copertura del rischio di sostenere esborsi per la tutela legale. La pronuncia, ricordando che le cd. "spese di resistenza", rientrano "ope legis" nella prima copertura, sino al limite di un quarto della somma assicurata, ai sensi dell'art. 1917, comma 3, c.c., ha affermato che eventuali clausole limitative del rischio per la sola tutela legale sono inopponibili dall'assicuratore ove la domanda di rifusione delle spese di resistenza sia contenuta nei suddetti limiti. L’arresto è da mettere in linea con Sez. 6-3, n. 18076/2020, Iannello, Rv. 658762-01 secondo cui l'assicurato ha diritto di essere tenuto indenne dal proprio assicuratore delle spese processuali nei limiti fissati dalla norma sopra richiamata che, pur non costituendo propriamente una conseguenza del fatto illecito, rientrano nel "genus" delle spese di salvataggio (art. 1914 c.c.), in quanto sostenute per un interesse comune all'assicurato ed all'assicuratore. In quest’ambito vanno ricondotte, sia le c.d. spese di soccombenza che l’assicuratore è stato costretto a rifondere al terzo danneggiato entro i limiti del massimale, in quanto costituiscono una delle tante conseguenze possibili del fatto illecito, sia le c.d. spese di resistenza sostenute per resistere alla pretesa del danneggiato anche in eccedenza rispetto al massimale.

Le spese di chiamata in causa dell'assicuratore non costituiscono, invece, né conseguenza del rischio assicurato, né spese di salvataggio, bensì comuni spese processuali soggette alla disciplina degli artt. 91 e 92 c.p.c.

Per la diversa ipotesi di veicolo non assicurato, Sez. 6-3, n. 40592/2021, Rossetti, Rv. 663517-01, ha affermato che il debito solidale del conducente e del proprietario verso il terzo danneggiato nasce dalla commissione di un fatto illecito consistito nella guida malaccorta del mezzo, della quale il conducente risponde come autore, mentre il proprietario come garante “ope legis”. Tale debito solidale, invece, verso l'impresa designata, sorge dalla violazione dell'obbligo assicurativo, la quale è parimenti imputabile, sia al proprietario, sia al conducente, in quanto ciascuno di essi ha dato luogo con la propria omissione all'insorgenza del debito comune verso l'impresa designata.

2.2. L’assicurazione obbligatoria.

Sull’ambito di esperibilità dell’azione diretta del danneggiato nei confronti dell'assicuratore è intervenuta Sez. 3, n. 22160/2021, Moscarini, Rv. 662201-01, riaffermando il principio consolidato per cui essa è ammissibile soltanto se il sinistro è avvenuto in un'area pubblica o in un'area privata ad essa equiparata, in quanto aperta alla circolazione di un numero indeterminato di persone diverse dai titolari di diritti su di essa. L'estensione pattizia della copertura assicurativa anche ai danni causati da sinistri su aree private, viceversa, rileva soltanto tra le parti del contratto ed è inopponibile al danneggiato. In tal senso si era già espressa Sez. 3, n. 01561/1998, Varrone, Rv. 512614–01.

A proposito della circolazione su aree equiparate a strade di uso pubblico Sez. U, n. 21983/2021, Scarano, Rv. 661872–01, ha fornito una nozione dell’art. 122 del codice delle assicurazioni private (d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209) utilizzando i canoni interpretativi conformi al diritto e alla giurisprudenza eurounitari. La controversia sottesa alla questione riguardava l’esperibilità dell’azione diretta nell’ipotesi di un investimento di un minore da parte di un camper mentre usciva da un box, in un’area privata, ponendo la questione se tale ipotesi potesse essere ricondotta alla locuzione, contenuta nell’articolo citato di “aree equiparate” a quelle di uso pubblico. L’arresto ha chiarito che l’espressione deve essere intesa come quella effettuata su ogni spazio ove il veicolo possa essere utilizzato in modo conforme alla sua funzione abituale.

Occorre ricordare come secondo un’originaria impostazione, per l’operatività della garanzia per r.c.a., fosse richiesto che il veicolo avesse in astratto le caratteristiche che lo rendessero tale, in relazione alle sue funzionalità, restando indifferente l’uso in concreto fatto dal veicolo. In altri termini l’obbligo assicurativo veniva correlato alla circostanza che fosse stato posto in circolazione su strade di uso pubblico o su aree ad essa equiparate, ma, ai fini dell’operatività della garanzia, non prevedeva come presupposto che il veicolo fosse stato utilizzato in un modo piuttosto che in un altro (Sez. U, n. 00860/2015, Ambrosio, Rv. 635401–01).

Richiamando la giurisprudenza eurounitaria (Corte Giustizia del 4 settembre 2014 in causa C-162/2013; Corte Giustizia, Grande Sezione, del 28 novembre 2017 in causa C-514/2016; Corte Giustizia del 20 dicembre 2017 in causa C-334/2016; Corte Giustizia, Grande Sezione, del 4 settembre 2018 in causa C-80/2017; Corte Giustizia del 20 giugno 2019 in causa C-100/2018), l’arresto in esame costituisce un esempio di adeguamento della giurisprudenza di legittimità ai principi espressi a livello sovranazionale, soprattutto, laddove ha affermato che, per l’operare della garanzia in questione rilevano, non solo le strade di uso pubblico, ma anche le proprietà che, sia pure di natura privata, siano aperte all’utilizzazione da parte di “un numero indeterminato di persone” anche diverse dai titolari di diritti su di esse. Il principio si fonda sul rilievo che l’art. 2054 c.c. impone uno specifico “standard” comportamentale che è suscettibile di essere riferito a qualsiasi “utilitas” traibile dal veicolo in conformità alle sue caratteristiche strutturali e funzionali. In tal modo è stata ancorata l’operatività della garanzia assicurativa all’interazione tra veicolo e circolazione che costituisce il vero fondamento dell’ipotesi di responsabilità “da attività pericolosa” richiesta dall’art. 2054 c.c.

Analizzando la giurisprudenza di legittimità interna, la pronuncia ha, poi, affermato l’irrilevanza della natura pubblica o privata dell’area di circolazione, in fase statica, preliminare o successiva, nonché del tipo di uso che del mezzo si faccia, per affermare come per l’equiparazione alle strade di uso pubblico o di ogni altra area o spazio diventi fondamentale il criterio dell’utilizzazione del veicolo in modo conforme alla sua “funzione abituale”, al posto di quelli del “numero indeterminato di persone”. Ne consegue che resta scoperta dall’assicurazione r.c.a. solo l’ipotesi dell’utilizzazione del veicolo in contesti particolari avulsi dal concetto di circolazione come sopra enunciato, previsto dall’art. 2054 c.c. Tale interpretazione estensiva è stata dunque ritenuta, non solo, conforme al diritto dell’Ue, ma anche costituzionalmente orientata.

Un tema in cui l’indirizzo interpretativo di legittimità non è del tutto uniforme riguarda, invece, l’azione diretta del terzo trasportato.

Sez. 3, n. 17963/2021, Scoditti, Rv. 661834-01, ha in proposito affermato che l'art. 141 del d.lgs. n. 209 del 2005, che consente al terzo trasportato di agire nei confronti dell'assicuratore del proprio vettore sulla base della mera allegazione e prova del danno e del nesso causale, "a prescindere dall'accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro", introduce una tutela rafforzata del danneggiato trasportato al quale può essere opposto il solo "caso fortuito", da identificarsi, non già con la condotta colposa del conducente dell'altro veicolo coinvolto, ma con l'incidenza di fattori naturali e umani estranei alla sua circolazione. Da tale principio la pronuncia ha tratto che tale norma non trova applicazione nel diverso caso in cui nel sinistro risulti coinvolto il solo veicolo del vettore del trasportato, essendo in tale ipotesi applicabile l'art. 144 del medesimo d.lgs. Tale disposizione consente al trasportato danneggiato di agire con azione diretta contro l'assicuratore del proprio veicolo, chiamando in causa anche il responsabile civile e, sulla base dei principi generali stabiliti dall'art. 2054, comma 1, c.c., con onere probatorio a proprio carico equivalente a quello previsto dal citato art. 141, spettando al vettore la prova liberatoria "di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno", previsione sostanzialmente corrispondente all'esimente del caso fortuito.

La pronuncia, intendendo dare continuità a Sez. 3, n. 25033/2019, Giaime Guizzi, Rv. 655176–01, ha affermato che la persona trasportata può avvalersi dell’azione diretta nei confronti dell’impresa di assicurazioni del veicolo sul quale viaggiava al momento del sinistro solo se in quest’ultimo siano rimasti coinvolti, pur in mancanza di urto, altri veicoli. Ne consegue che, in virtù del “favor creditoris” sotteso alla disciplina dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, l’assicuratore del vettore è tenuto al risarcimento del danno in modo indipendente dall’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro, fermo, però, il limite del caso fortuito. In tal senso l’arresto si riporta anche a questo espresso dalla Corte Costituzionale (n. 440/2008) che ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 141 citato, secondo cui tale disposizione si limita a rafforzare la posizione del trasportato , considerato soggetto debole, riconoscendo la facoltà dell’azione diretta nei confronti della compagnia assicuratrice del veicolo, senza togliergli la possibilità di fare valere i diritti derivanti dal rapporto obbligatorio nato dalla responsabilità civile dell’autore del fatto dannoso. Da qui l’affermazione della piena cumulabilità fra l’azione prevista dall’art. 141 e quella di cui all’art. 144.

Il riconoscimento del risarcimento senza “accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro” spiega, da un lato, perché, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 141, l’impresa di assicurazioni che ha effettuato il pagamento abbia diritto di rivalsa nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile, dall’altro perché il terzo trasportato è risarcito dall’impresa di assicurazione del veicolo a bordo del quale era al momento del sinistro, non nei limiti del massimale contrattuale, ma di quello minimo di legge. Tale limite trova, infatti, giustificazione proprio in ragione della particolarità di tale azione diretta promossa nei confronti del vettore che potrebbe anche non essere responsabile del sinistro. Il risarcimento, poi, entro i limiti del massimale contrattuale interverrà solo in sede di responsabilità sussidiaria dell’assicuratore del responsabile, sempre a condizione che sia stato pattuito in polizza un massimale superiore a quello minimo di legge.

La differenza di “ratio” e di struttura tra le due azioni spiega la ragione per la quale l’art. 144 trovi applicazione nell’ipotesi di sinistro con il solo veicolo del vettore del trasportato.

Diversamente Sez. 3, n. 04147/2019, Graziosi, Rv. 652744-01, ha sostenuto che l'azione conferita dall'art. 141 del d.lgs. n. 209 del 2005 al terzo trasportato, nei confronti dell'assicuratore del vettore, postula l'accertamento della corresponsabilità di quest'ultimo, dovendosi riferire la "salvezza del caso fortuito", di cui all'inciso iniziale della norma, non solo alle cause naturali, ma anche alla condotta umana del conducente di altro veicolo coinvolto; la relativa presunzione di legge può, tuttavia, essere superata dalla prova, a carico dell'assicuratore del vettore, della totale assenza di responsabilità del proprio assicurato, ovvero dalla dichiarazione, resa ai sensi dell'art. 141, comma 3, del d.lgs. n. 209 del 2005 dall'assicuratore del responsabile civile intervenuto nel processo, a fronte della quale il giudice è tenuto ad estromettere l'originario convenuto, rivolgendosi "ex lege" la domanda risarcitoria dell'attore verso l'assicuratore intervenuto.

Un altro tema su cui si è soffermata la giurisprudenza di legittimità è quello relativo alla richiesta stragiudiziale di risarcimento nei confronti dell'assicuratore del responsabile ai sensi dell’art. 145 del citato d.lgs. n. 209.

Sez. 3, n. 019031/2021, Scarano, Rv. 661745-02 è intervenuta su una questione di diritto intertemporale chiarendo che la vittima di un sinistro stradale che proponga la domanda di risarcimento nei confronti dell'assicuratore del responsabile dopo l'entrata in vigore del codice delle assicurazioni (1° gennaio 2006) non è tenuta a reiterare la richiesta scritta di risarcimento con le nuove modalità previste dagli artt. 145 e 148 del detto codice, se a tale adempimento abbia già provveduto nel vigore dell'abrogata l. n. 990 del 1969, con le modalità indicate dall'art. 22 di quest'ultima legge.

In merito, invece, al contenuto di tale richiesta, la quale si ricorda deve essere inviata a pena di improponibilità della domanda giudiziale, Sez. 6-3, n. 15445/2021, Gorgoni, Rv. 661671-01, ha chiarito che deve contenere gli elementi necessari e sufficienti perché l'assicuratore possa accertare le responsabilità, stimare il danno e formulare l'offerta. Ha ritenuto, pertanto, irrilevante, ai fini della proponibilità, la circostanza che la richiesta sia priva di uno o più dei contenuti previsti dall'art. 148 cod. ass., qualora siano superflui ai fini della formulazione dell'offerta risarcitoria da parte dell'assicuratore.

Sempre acceso resta anche il contenzioso intorno al Fondo di garanzia per le vittime della strada. In materia si segnala un’ordinanza interlocutoria che ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione sulla natura giuridica dell’azione recuperatoria proposta dal Fondo di Garanzia delle Vittime della Strada ai sensi dell’art. 292 del d.lgs. n. 209 del 2005. Il tema riguarda la sua riconducibilità all’azione di regresso o a quella di surrogazione ovvero se essa costituisca un’azione speciale. La questione è stata posta principalmente per i diversi effetti conseguenti, rilevanti, sia sul termine di prescrizione, sia sulla individuazione dei presupposti dell’azione fatta valere dal Fondo, in relazione ai quali è stata, in particolare, posta l’attenzione, per un verso, sulla necessità o meno del previo accertamento della responsabilità dell’autore dell’illecito o del sinistro e, per l’altro, sull’applicabilità o meno della regola prevista dall’art. 2055 c.c. in caso di illecito o sinistro imputabile a più responsabili (Sez. 3, n. 18802/2021, Positano, non massimata).

In materia Sez. 3, n. 19031/2021, Scarano, Rv. 661745-01, cit., ha chiarito che l'art. 283 del d.lgs. n. 209 del 2005, che individua i casi in cui il Fondo di garanzia per le vittime della strada risarcisce i danni causati dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, per i quali vi è obbligo di assicurazione, non si applica ai sinistri verificatisi prima della sua entrata in vigore. La legittimazione passiva per le azioni risarcitorie correlate a tali sinistri, di conseguenza, spetta alla compagnia assicuratrice per la r.c.a. della vettura che ha provocato l'incidente e non all'impresa designata ai sensi dell'art. 286 del d.lgs. citato.

Non è condizione di proponibilità dell'azione di risarcimento del danno esperita, ai sensi dell'art. 19 della l. n. 990 del 1969, "ratione temporis" applicabile, secondo Sez. 6-3, n. 09873/2021, Tatangelo, Rv. 661192-01, la presentazione di una denuncia o di una querela contro ignoti nei confronti dell'impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada. In proposito è stato precisato che il danneggiato non è tenuto ad attivarsi per identificare il veicolo in quanto l'accertamento giudiziale, nel cui contesto la presentazione o meno della denuncia o della querela costituisce un mero indizio, non riguarda la diligenza della vittima nel consentire l'individuazione del responsabile, ma la circostanza che il sinistro stesso sia stato effettivamente provocato da un veicolo rimasto non identificato per circostanze obiettive e non imputabili a negligenza della vittima. Il principio trova conferma nel precedente di Sez. 3, n. 23434/2014, Sestini, Rv. 633196-01.

Sotto il profilo processuale appare utile il richiamo a Sez. 3, n. 07389/2021, Sestini, Rv. 661002-01, secondo cui l'ordinanza con cui il giudice di prime cure abbia assegnato la provvisionale di cui all'art.147 c.ass. produce effetti anticipatori della condanna richiesta dall'attore ed è destinata ad essere assorbita dalla sentenza che definisce il giudizio di primo grado, perdendo la suddetta efficacia in caso di rigetto della domanda. Da tale postulato discende che la parte che abbia pagato in esecuzione della stessa è legittimata ad agire per la restituzione della somma, senza necessità di attendere il passaggio in giudicato della sentenza, con istanza che può essere proposta per la prima volta nel grado di appello, eventualmente con la comparsa di risposta contenente impugnazione incidentale avverso la suddetta sentenza, o in separato giudizio.

In caso di sentenza definitiva sull'"an debeatur", per Sez. 6-3, n. 01699/2021, Gorgoni, Rv. 660277-01, la successiva fase di liquidazione del "quantum debeatur" non integra l'esercizio di una nuova azione risarcitoria e non deve essere preceduta dall'adempimento delle formalità previste nell'art.148 c. ass. Tale adempimento è diretto a consentire, infatti, all'assicuratore di valutare l'opportunità di un accordo con il danneggiato prima dell'introduzione del giudizio e postula, pertanto, necessariamente che la domanda giudiziale non sia stata utilmente proposta nei confronti dell'assicuratore medesimo o del responsabile del danno.

Nell’ambito del diritto di rivalsa della r.c. autoveicoli nei confronti dell'assicurato, infine, secondo Sez. 3, n. 12900/2021, Scoditti, Rv. 661382-01, lo stato di ebbrezza che, per clausola contrattuale priva di specificazioni convenzionali, rende inoperante la garanzia assicurativa va identificato con quello previsto dal codice della strada.

2.3. L’assicurazione sulla vita.

Nel corso dell’anno la S.C. ha effettuato degli interventi incisivi in materia di contratto sulla vita apportando un contributo chiarificatore su alcuni aspetti della disciplina rimasti ancora in alcuni coni d’ombra.

Va a questo proposito fin da subito segnalato l’arresto delle S.U., sulla clausola di attribuzione dell'indennizzo a favore degli eredi legittimi, sotto i diversi profili dei canoni interpretativi, dei criteri di ripartizione delle quote, nonché delle conseguenze della premorienza di un beneficiario del contraente. Sez. U, n. 11421/2021, Scarpa, Rv. 661129-01, ha, dunque affermato che, nel contratto di assicurazione sulla vita la designazione generica degli "eredi" come beneficiari, in una delle forme previste nell'art. 1920, comma 2, c.c., comporta l'acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell'assicurazione da parte di coloro che, al momento della morte del contraente, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione indicata all'assicuratore per individuare i creditori della prestazione.

Sul secondo aspetto relativo ai criteri per la ripartizione delle quote, la medesima pronuncia ha chiarito anche che, in difetto di una inequivoca volontà del contraente in senso diverso, la designazione generica degli "eredi" come beneficiari, non comporta la ripartizione dell'indennizzo tra gli aventi diritto secondo le proporzioni della successione ereditaria. Spetta, viceversa, a ciascuno dei creditori, in forza della "eadem causa obligandi", una quota uguale dell'indennizzo assicurativo, il cui pagamento ciascuno potrà esigere dall'assicuratore nella rispettiva misura (Sez. U, n. 11421/2021, Scarpa, Rv. 661129-02).

Per la particolare ipotesi della premorienza di uno degli eredi al contraente ha, inoltre, affermato che, la prestazione, se il beneficio non sia stato revocato o il contraente non abbia disposto diversamente, deve essere eseguita a favore degli eredi del premorto in proporzione della quota che sarebbe spettata a quest'ultimo.

L’arresto delle S.U sopra richiamato è da porre in linea di continuità con Sez. 3, n. 09948/2021, Fiecconi, Rv. 661080-01 di pochi giorni prima, secondo cui al contratto di assicurazione sulla vita si applica la disposizione relativa al contratto a favore di terzo di cui all'art. 1412, comma 2, c.c., ai sensi del quale, dopo la morte dello stipulante, la prestazione deve essere eseguita a favore degli eredi del terzo se questi premuore allo stipulante, purché il beneficio non sia stato revocato o lo stipulante non abbia disposto diversamente. Ove, pertanto, non ricorrano le ipotesi di revoca o di differente regolamentazione, in caso di premorienza al disponente del terzo beneficiario, l'insorgenza del diritto a favore di quest'ultimo non è condizionata alla morte del disponente. Tale evento, infatti, non incide sulla nascita del diritto alla prestazione, ma solo sulla sua esigibilità, a prescindere dal motivo "intuitu personae" o previdenziale sottostante alla designazione del beneficiario.

Sono da richiamare, inoltre, altri arresti che hanno focalizzato alcune importanti distinzioni in materia.

Sez. 3, n. 00930/2021, Olivieri, Rv. 661073-01, seguendo l’indirizzo espresso da Sez. U, n. 05119/2002, Preden, Rv. 553633-01 ha riaffermato il principio per cui all’ assicurazione contro le disgrazie accidentali non mortali, in quanto partecipe della funzione indennitaria propria dell'assicurazione contro i danni, si applica l'art. 1910, commi 1 e 2, c.c., il quale mira ad evitare che l'assicurato, ottenendo l'indennizzo da più assicuratori, persegua fini di lucro conseguendo un indebito arricchimento. Le disposizioni richiamate, infatti, impongono, in caso di stipulazione di più assicurazioni per il medesimo rischio, l'onere per l'assicurato di dare avviso di tutte le assicurazioni a ciascun assicuratore, e prevedono, in caso di omissione dolosa dell'avviso, l'esonero degli assicuratori dal pagamento dell'indennità. La citata norma, invece, non trova applicazione in caso di assicurazione contro gli infortuni mortali, essendo questa forma di assicurazione assimilabile all'assicurazione sulla vita.

La pronuncia di quest’anno sopra richiamata, riaffermando il principio ora esposto, ha sul punto evidenziato che tale distinto regime delle due differenti categorie di assicurazioni contro gli infortuni, fondato sulla diversità della causa, trova conferma nella disciplina dettata dall'art. 2, commi 1 e 2, del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (cd. Codice delle assicurazioni private), il quale, nel porre la distinzione tra il "ramo assicurativo vita" e il "ramo assicurativo contro i danni", riconduce al primo le assicurazioni contro gli infortuni caratterizzate dall'elemento della "lunga durata" dell'esposizione al rischio che può esitare nella morte o nell'invalidità grave, cui si correla la non rescindibilità unilaterale del contratto da parte dell'assicuratore, mentre gli infortuni invalidanti privi delle suddette caratteristiche restano collocati all'interno del "ramo danni".

La questione del cumulo dell’indennità e del risarcimento è stata affrontata da Sez. 3, n. 09380/2021, Olivieri, Rv. 661073-02, secondo cui, qualora l'evento che concreta la realizzazione del rischio assicurato costituisca anche la conseguenza del fatto illecito di un terzo, l'indennità assicurativa si cumula con il risarcimento, sottraendosi alla regola della "compensatio lucri cum damno". In tale ipotesi, infatti, si è di fronte ad una forma di risparmio posta in essere dall'assicurato, in cui l'indennità costituisce una vera e propria contropartita dei premi versati, svolgendo una funzione diversa da quella risarcitoria ed è corrisposta per un interesse che non è quello di beneficiare il danneggiante.

Un importante distinguo è stato effettuato da Sez. 2, n. 29583/2021, Tedesco, Rv. 662705-01 tra assicurazione “per il caso di vita” e “per il caso di morte”. Nella prima l'assicuratore è obbligato a pagare se, ad un determinato momento, una data persona è ancora in vita. Nel caso in cui l'assicurazione sulla vita sia stipulata "per il caso di morte", l'assicuratore è obbligato a pagare se, in un dato momento, una certa persona sia deceduta. La polizza, tuttavia, può essere stipulata anche nella forma cd. mista sulla vita di un terzo e, cioè, tanto "per il caso di vita", quanto "per il caso di morte".

La pronuncia ha, inoltre, chiarito che le polizze vita a contenuto finanziario sono quelle in cui la componente vita e di investimento risulta preponderante rispetto a quella demografico-previdenziale, tipica delle assicurazioni sulla vita cd. tradizionali di cui all’art. 1882 c.c. Le polizze vita a contenuto finanziario conferiscono all'impresa di assicurazioni, al posto dell'obbligo restitutorio, una sorta di mandato di gestione del denaro investito, rispetto al quale l'investitore matura il diritto al mero risultato di detta gestione, che varia in base ad una serie di fattori, quali l'andamento del mercato o dei titoli. Il riferimento è alle polizze cd. "unit linked" ed "index linked", il cui rendimento è parametrato, rispettivamente, all'andamento di fondi comuni di investimento e ad indici di vario tipo, generalmente consistenti in titoli azionari. Tali polizze sono caratterizzate, dunque, dal rischio finanziario che, in quelle cd. "linked" "pure", grava interamente sull'assicurato, non garantendo la compagnia la restituzione del capitale, né eventuali rendimenti minimi (Sez. 2, n. 29583/2021, Tedesco, Rv. 662705-02).

Nelle polizze di assicurazioni tradizionali, invece, l’assicurato mira generalmente a garantire la disponibilità di una somma ai familiari ovvero a terzi al momento della propria morte e il rischio di perdita del capitale è pari a zero, essendo predeterminato l’importo da erogare al contraente o al beneficiario alla scadenza del contratto.

Le precisazioni sopra richiamate sono state la premessa per risolvere la questione del contenuto e precisamente del “quantum” da conferire nell’adempimento dell’obbligo di collazione. Così è stato anche chiarito che l'obbligo di collazione previsto dall'art. 741 c.c. relativamente a ciò che il defunto ha speso a favore dei suoi discendenti, per soddisfare, tra l'altro, premi relativi a contratti sulla vita a loro favore, riguarda tanto l'ipotesi dell'assicurazione stipulata dal discendente sulla propria vita, "sub specie" di pagamento del debito altrui, quanto quella di assicurazione sulla vita del discendente (o del "de cuius"), che rientra nello schema della donazione indiretta, quale contratto a favore di terzo. Posto, poi, che il capitale assicurato può rivelarsi, di fatto, inferiore ai premi, che costituiscono, in linea di principio, l'oggetto del conferimento ex art. 2923, comma 2, c.c., l'obbligo di collazione va precisato nel senso che, indipendentemente dalla natura cd. tradizionale o finanziaria della polizza, il conseguente conferimento riguarda la minore somma tra l'ammontare dei premi pagati ed il capitale, non potendo la collazione avere ad oggetto che il vantaggio conseguito dal beneficiario (o dai suoi discendenti), sul quale grava l’onere della relativa prova (Sez. 2, n. 29583/2021, Tedesco, Rv. 662705-03).

3. Il comodato.

La nozione di comodato si evince dall’art. 1803 c.c. secondo cui esso è il contratto con il quale una parte (comodante) consegna all’altra (comodatario) una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta. E' un contratto intuitu personae, evincendosi ciò dalla portata dell’art. 1804 c.c., che vieta al comodatario la possibilità di concedere in uso a terzi il bene oggetto del comodato. Ai sensi dell'art. 1803 c.c. il comodato è “essenzialmente gratuito”. L’art. 1809 c.c. stabilisce che “Il comodatario è obbligato a restituire la cosa alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza di termine, quando se ne è servito in conformità del contratto. Se però, durante il termine convenuto o prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa, sopravviene un urgente e impreveduto bisogno al comodante, questi può esigerne la restituzione immediata”. Il successivo art. 1810 c.c. precisa, poi, che “Se non è stato convenuto un termine né questo risulta dall’uso a cui la cosa doveva essere destinata, il comodatario è tenuto a restituirla non appena il comodante la richiede”. Uno dei caratteri del comodato è, dunque, la sua natura essenzialmente gratuita, anche se non è esclusa la possibilità di far ricorso ad un comodato c.d. “modale” o “oneroso”, a patto che l’onere imposto non sia di una consistenza tale da far venir meno la natura tipica del contratto e, dunque, ridursi ad un corrispettivo per il godimento della cosa.

Così riportate le fondamentali caratteristiche del comodato, assume rilievo Sez. 2, n. 29594/2021, Giannaccari, Rv. 662568-01 avente ad oggetto la domanda di usucapione di quote di un immobile. La Corte di merito fondava la decisione sulle stesse allegazioni dell’attore, che aveva affermato di aver ricevuto il magazzino dal suocero a titolo gratuito, sicché la relazione del bene era riconducibile ad un contratto di comodato e non vi era la prova di un atto di interversione del possesso. La Corte nel premettere che in tema di presunzione di possesso utile ad usucapionem, l’art. 1141, comma 1, c.c. opera se e in quanto non si tratti di rapporto obbligatorio e presuppone, quindi, la mancanza di prova che il potere di fatto sulla cosa sia esercitato inizialmente come detenzione, in conseguenza non di un atto volontario di apprensione, ma di un atto o un fatto del proprietario possessore, ha rilevato che, secondo orientamento consolidato, in un contratto ad effetti obbligatori, la traditio del bene non configura la trasmissione del suo possesso ma l’insorgenza di una mera detenzione, sebbene qualificata, salvo che intervenga una interversio possessionis, mediante la manifestazione esterna, diretta contro il proprietario/possessore, della volontà di esercizio del possesso uti dominus, atteso che il possesso costituisce una situazione di fatto non trasmissibile, di per se´, con atto negoziale separatamente dal trasferimento del diritto corrispondente al suo esercizio, sicché non opera la presunzione del possesso utile ad usucapionem, previsto dall’art. 1141 c.c., quando la relazione con il bene derivi da un atto o da un fatto del proprietario non corrispondente al trasferimento del diritto. Alla luce di tali principi la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva accertato che la relazione del bene derivava non da un atto di apprensione ma da un atto del proprietario che aveva trasferito all’attore il bene a titolo gratuito, concedendogli l’utilizzo in ragione dei rapporti di familiare. La Corte di merito, ravvisando l’esistenza di un contratto di comodato, aveva, dunque, correttamente escluso che l’utilizzo esclusivo del medesimo ed il compimento di atti di amministrazione, per la conservazione ed il miglioramento delle sue condizioni, integrasse un atto di interversione del possesso nei confronti del proprietario, e, successivamente dei suoi eredi, idoneo al mutamento del titolo. Conseguentemente, il giudice di appello, facendo applicazione dei principi di diritto sopra citati, aveva escluso il possesso ad usucapionem derivante da un titolo che conferiva al ricorrente un diritto di carattere soltanto personale, in mancanza della prova di un atto di interversione del possesso.

3.1. Il comodato, disciplina tributaria.

La natura e la definizione del contratto di comodato sono state oggetto di esame anche dalla Sezione tributaria della Corte (Sez. 5, n. 05588/2021, Saieva, Rv. 660689-01) la quale ha affermato che proprio in ragione del fatto che esso produce effetti obbligatori, e non reali (essendo il comodatario titolare di un diritto personale di godimento e non di un diritto reale) è il proprietario dell’immobile, quale possessore, sia pure mediato, tenuto al pagamento dell’imposta dovuta per redditi fondiari. Il comodatario, infatti, non consegue il possesso dell’immobile, ma la mera detenzione (nell’interesse proprio), che trova titolo in un contratto costitutivo di un diritto personale di godimento e non di un diritto reale, come richiede l’art. 26 del TUIR, ai fini dell’imposizione del reddito fondiario.

Sez. 6-5, n. 00215/2021, Conti, Rv. 660227-01 ha, poi, ritenuto che in tema di Iva, l’esecuzione, da parte del comodatario, di opere di ristrutturazione e manutenzione sull’immobile detenuto in comodato, indipendentemente dalla loro autonoma funzionalità o asportabilità al termine del periodo contrattualmente stabilito, dà diritto alla detrazione dell’imposta o, in mancanza, all’alternativo diritto al rimborso, allorquando sussista un nesso di strumentalità con l’attività di impresa o professionale, anche se potenziale o in prospettiva, da questi svolta.

4. I contratti agrari.

Con riferimento a tali contratti si segnalano nel corso del 2021 tre decisioni della Corte che hanno delimitato i limiti di applicabilità e di operatività delle norme che disciplinano tali accordi.

La prima pronuncia (Sez. 3, n. 25351/2021, Cirillo, Rv. 662404-01) ha confermato la sentenza di merito che aveva interpretato l’art. 4-bis della l. n. 203 del 1982 nel senso che, per aversi violazione del diritto di prelazione, debbano sussistere congiuntamente tre condizioni: che nei novanta giorni precedenti la scadenza del contratto il locatore riceva una o più offerte di locazione; che non provveda a comunicarle al precedente conduttore; che sottoscriva un nuovo contratto con il nuovo offerente nei sei mesi successivi. In particolare, occorre che vi sia la prova, autonoma, dei suindicati presupposti non essendo all’uopo sufficiente che il nuovo contratto di affitto sia stipulato entro i sei mesi dalla conclusione del precedente per aversi la violazione del diritto di prelazione per provare che la relativa offerta contrattuale fosse pervenuta al locatore nei novanta giorni precedenti la scadenza. Condividendo l’iter logico argomentativo in esame, la Corte ha affermato che, in tema di affitto a coltivatore diretto, la lesione del diritto di prelazione riconosciuto al conduttore, in caso di nuovo affitto, dall'art. 4 bis della l. n. 203 del 1982, inserito dall'art. 5 del d.lgs. n. 228 del 2001, presuppone che il locatore: a) abbia ricevuto offerte di affitto da parte di terzi; b) non abbia comunicato all’affittuario, almeno novanta giorni prima della scadenza del contratto, le offerte ricevute; c) abbia concesso il fondo in affitto a terzi entro sei mesi dalla scadenza stessa. Siffatte condizioni, poiché il diritto di prelazione costituisce una limitazione della libertà legale di contrarre, devono essere provate dal titolare del diritto stesso, dovendosi escludere sia che il legislatore abbia inteso stabilire una presunzione assoluta secondo cui i contratti di affitto stipulati entro i sei mesi dalla scadenza del precedente rapporto siano l’effetto dell'accettazione di proposte risalenti ad epoca anteriore ai novanta giorni precedenti, sia che sussista, in capo al locatore, l’obbligo di comunicare le proposte contrattuali pervenutegli dopo la scadenza del predetto termine di novanta giorni, nonché quelle pervenute nei sei mesi successivi alla scadenza del contratto.

Sempre con riferimento all’esercizio del diritto di prelazione Sez. 3, n. 17958/2021, Fiecconi, Rv. 661640-01 si è occupata della domanda con la quale alcuni coltivatori diretti chiedevano venisse dichiarata la nullità ex artt. 1343, 1344 e 1418 c.c. di un contratto di affitto del fondo rustico, in quanto stipulato al fine di eludere o comunque rendere più gravoso l’esercizio del diritto di prelazione in relazione all’acquisto di detto fondo, diritto riconosciuto dall’art. 7 della l. n. 817 del 1971 ai ricorrenti. La Corte d’Appello di Bologna nel rigettare la domanda sopra proposta rilevava di non poter avallare la tesi degli appellanti - per cui il contratto di affitto sarebbe stato stipulato in frode alla legge ex art. 1344 c.c. - poiché, nel caso concreto, nonostante vi fossero plurimi e concordanti indizi atti a ritenere che l’operazione economica delle società appellate fosse finalizzata a ostacolare e rendere più gravoso l’esercizio del diritto di prelazione degli attori in primo grado, quest’ultimi avevano comunque potuto esercitare tale diritto, divenendo infatti proprietari del fondo oggetto del contratto d’affitto. La Corte nel confermare la sentenza in esame ha affermato che in tema di prelazione agraria, il ricorso ad un’operazione negoziale complessa, avente ad oggetto il trasferimento di un fondo agricolo a mezzo di strumenti contrattuali che, pur leciti, siano finalizzati, nel loro nesso teleologico, ad impedire che l’affittuario eserciti la prelazione, così assicurando l’obiettivo che la legge vieta, deve costituire oggetto di indagine processuale, il cui accertamento, se positivo, non comporta la nullità dei contratti, esulando la fattispecie dalla previsione dell’art. 1418 c.c. e dalla tutela generalizzata di cui all’art. 1421 c.c., ma consente al titolare del diritto di retratto, attraverso un meccanismo di protezione che richiama le nullità relative, l’esercizio del medesimo diritto, mediante sostituzione dell'acquirente voluto dal venditore con il soggetto individuato dalla legge. Nell’affermazione di tale principio la Corte ha, dunque, confermato la sentenza di merito che aveva escluso integrasse un negozio in frode alla legge, la stipula di un contratto di affitto agrario, quand’anche compiuta dal proprietario con l’intento di procedere poi all’alienazione del fondo, tenuto conto che il confinante, titolare del diritto di prelazione, aveva potuto esercitare il diritto di riscatto sul fondo gravato da affitto, divenendone proprietario.

Sez. 3, n. 07292/2021, Cirillo, Rv. 661001-02, ha affermato che, in presenza di una pluralità di coltivatori diretti proprietari di terreni diversi, tutti confinanti con il fondo rustico posto in vendita, a ciascuno dei medesimi spetta il diritto di prelazione e riscatto di cui all’art. 7, comma 2, n. 2), della l. n. 817 del 1971, e, ove si verifichi una situazione di conflittualità, per effetto dell'esercizio della prelazione o riscatto da parte di due o più dei predetti confinanti, è compito riservato al giudice del merito la scelta del soggetto preferito, che dovrà accordare prevalenza ad uno piuttosto che agli altri aspiranti alla prelazione, alla stregua della maggiore o minore attitudine a concretare la finalità perseguita dalla citata norma e, cioè, l’ampliamento delle dimensioni territoriali dell’azienda diretto-coltivatrice che meglio realizzi le esigenze di ricomposizione fondiaria, di sviluppo aziendale e di costituzione di unità produttive efficienti sotto il profilo tecnico ed economico. Il Collegio ha, poi, precisato che l’art. 7 del d.lgs. n. 228 del 2001, compiendo un passo avanti rispetto alla previsione dell’art. 7 della l. n. 817 del 1971, ha dettato una specifica previsione proprio allo scopo di chiarire quali criteri debbano essere seguiti dal giudice per dirimere la conflittualità esistente tra più titolari del diritto di prelazione. Ed ha indicato, nell’ordine, una serie di criteri tra i quali figura, nell'ultima posizione, il possesso da parte dell’aspirante di “conoscenze e competenze adeguate ai sensi dell’art. 8 del Regolamento CE n. 1257/99 del Consiglio, del 17 maggio 1999”. La medesima disposizione ha indicato al primo posto, tra i criteri preferenziali, “la presenza come partecipi nelle rispettive imprese di coltivatori diretti e imprenditori agricoli a titolo principale di età compresa tra i 18 e i 40 anni”, nonché il numero dei medesimi.

5. La fideiussione e più in generale la tutela del credito tra garanzie tipiche e atipiche.

Con riferimento alle forme contrattuali aventi come finalità quelle dell’accesso al credito e di tutela della posizione creditoria, assumono rilievo le garanzie atipiche o improprie, sia personali che reali, diffuse nella prassi bancaria e commerciale, che presentano punti in comune con la fideiussione, ma se ne distaccano per alcuni decisivi caratteri. Si tratta di fattispecie nate in ragione delle mutate esigenze del mercato rispetto a quelle esistenti al tempo di adozione del codice, nonché delle difficoltà di accesso al credito e della collegata esigenza di trovare nuove forme di tutela del creditore, e frutto di successiva elaborazione da parte della giurisprudenza di legittimità.

Prima di passare ad esaminare tali forme di garanzia atipiche, con riferimento alla fideiussione, si evidenzia che Sez. 6-1, n. 26947/2021, Dolmetta, Rv. 662734-01, ha rigettato il ricorso proposto avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna, che aveva ritenuto non operante nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo la liberazione del fideiussore ex art. 1956 c.c. sul presupposto che il garante fosse perfettamente consapevole dell’andamento degli affari della debitrice principale. In particolare, nel caso di specie, i giudici di merito avevano rilevato che il fideiussore era affine dell’amministratore unico della società debitrice principale, di talché se la liberazione del fideiussore ex art. 1956 c.c. costituisce conseguenza della violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) e se l’onere a carico del creditore di richiedere l’autorizzazione del fideiussore prima di fare credito al terzo assolve alla finalità di consentire al garante di sottrarsi, negando l’autorizzazione, all’adempimento di un’obbligazione divenuta senza sua colpa più gravosa, è evidente che nessuna liberazione può essere avvenuta nella presente fattispecie, poiché le prove documentali confermano la conoscenza da parte del fideiussore della situazione debitoria della debitrice principale e del suo peggioramento, nonché la volontà della prima di continuare a garantire la Banca attraverso l’offerta di una garanzia reale sui propri beni personali.

La Corte ha rilevato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, la banca che concede finanziamenti al debitore principale, pur conoscendone le difficoltà economiche, fidando nella solvibilità del fideiussore, senza informare quest’ultimo dell’aumentato rischio e senza chiederne la preventiva autorizzazione, incorre in violazione degli obblighi generici e specifici di correttezza e buona fede contrattuale. Resta inteso - si aggiunge altresì nel contesto di queste osservazioni - che è onere della parte, che deduca la violazione del canone della buona fede dimostrare, non solo che la nuova concessione di credito sia avvenuta nonostante il peggioramento delle condizioni economiche e finanziarie del debitore principale, ma anche che la banca abbia agito nella consapevolezza di una irreversibile situazione di insolvenza.

L’altro principio enunciato dalla Corte attiene alla conformazione dell’atto di “speciale autorizzazione”, ex art. 1956 c.c. il quale non deve per legge rivestire una forma particolare; e neanche essere manifestato a mezzo di peculiari formule, potendo anche essere rilasciata per il mezzo di comportamenti concludenti, fermo restando che non solo la banca è soggetta al rispetto del canone fondamentale della buona fede oggettiva, ma lo è pure - e, si ritiene, in termini del tutto speculari – il fideiussore. Alla base di ciò vi è il convincimento che la protezione accordata dalla norma dell'art. 1956 c.c. al fideiussore deve rispondere a una situazione di oggettiva esigenza di quest’ultimo (di permanente sua estraneità rispetto ai reali termini dello svolgimento del rapporto garantito, cioè), senza spingersi oltre o in altre direzioni. E’, dunque, sulla base di tali principi e di quanto rilevato dai giudici di merito, che nella fattispecie la Corte ha ritenuto inoperante la norma invocata dalla ricorrente.

Nel corso dell’anno 2021 la Corte di cassazione ha, poi, esaminato diverse forme contrattuali aventi le finalità sopra descritte, riconoscendo loro tutela giuridica in ragione degli interessi da esse perseguiti.

Quanto alle forme di garanzia personale atipiche, assumono rilievo alcune sentenze relative al contratto autonomo di garanzia, che si distingue dalla fideiussione - oltre che per il fatto che il fideiussore assume l’obbligo di eseguire una prestazione di identico contenuto a quella dovuta dal debitore medesimo, mentre la prestazione dovuta dal garante ha ad oggetto il pagamento al beneficiario di una determinata somma di denaro – per l’assenza di accessorietà dell’obbligazione del garante rispetto all’obbligazione garantita, laddove il fideiussore può opporre al creditore le eccezioni relative al rapporto di base ex art. 1945 c.c.

Alla luce di tali principi Sez. 6-3, n. 08874/2021, Cricenti, Rv. 660997-01, ha cassato la decisione di merito che aveva qualificato un contratto come di garanzia autonoma, ma aveva concluso nel senso che il garante autonomo è comunque obbligato in solido con il debitore principale, con la conseguenza che l’interruzione della prescrizione nei confronti di quest’ultimo ha effetti anche per quello. Al contrario, la Corte ha affermato che non sussiste vincolo di solidarietà tra l’obbligazione assunta dal debitore principale e quella derivante da un contratto autonomo di garanzia, perché la causa concreta del negozio autonomo consiste nel trasferire da un soggetto all’altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, mentre nelle obbligazioni solidali in generale, e nella fideiussione in particolare, è tutelato l’interesse all’esatto adempimento della medesima prestazione principale, sicché l’obbligazione del garante autonomo rimane sempre distinta da quella del debitore principale, essendo finalizzata ad indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione, configurandosi tra le stesse un mero collegamento negoziale ed un cumulo di prestazioni. Fermi i caratteri di differenziazione sopra riportati tra il contratto autonomo di garanzia e la fideiussione Sez. 3, n. 15091/2021, Scoditti, Rv. 661559-01, ha chiarito che in materia di contratto autonomo di garanzia, la previsione, nel testo contrattuale, della clausola “a prima richiesta e senza eccezioni” fa presumere l’assenza dell’accessorietà della garanzia, la quale, tuttavia, può derivarsi, in mancanza di essa, anche dal tenore dell’accordo, ed in particolare dalla presenza di una clausola che fissa al garante il ristretto termine di trenta giorni per provvedere al pagamento dietro richiesta del creditore, insufficiente per l’effettiva opposizione delle eccezioni, e dalla esclusione, al contempo, della possibilità per il debitore principale di eccepire alcunché al garante in merito al pagamento stesso.

Altra garanzia personale atipica è la cessione del credito a scopo di garanzia, fattispecie molto diffusa nella pratica commerciale con la cessione, da parte di un’impresa, di crediti a una banca al fine di ottenere finanziamenti, con la natura di detti crediti che usualmente si rifà alla commercializzazione di beni o servizi. È a carico della banca, in questi casi, la raccolta dei documenti giustificativi relativi al credito ceduto, come la consegna delle copie delle fatture che attestano la merce il cui prezzo è l’oggetto del credito ceduto.

In questa sede meritano un cenno le garanzie reali che si caratterizzano per una minore flessibilità rispetto a quelle personali, con la conseguenza che nella prassi si sono diffusi nuovi schemi contrattuali derivanti dagli istituti tipici del diritto obbligazionario e contrattuale: tra queste l’ampia categoria delle alienazioni a scopo di garanzia costituite da vendite sospensivamente o risolutivamente condizionate all’inadempimento del debitore, oppure da vendite con annesso patto di ricompera, di riscatto o di retrovendita. In questi casi la funzione di garanzia si compie con il trasferimento al creditore – a titolo temporaneo o provvisorio – del diritto pieno di proprietà. Di tali alienazioni a scopo di garanzia la Corte di cassazione si è dovuta occupare al fine di evitare che con esse le parti violino il divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c.

Con la vendita con patto di riscatto il venditore si riserva il diritto di riacquistare la cosa venduta alle condizioni stabilite dagli artt. 1500 ss. c.c. e ciò al fine di ottenere l’equivalente denaro, nella speranza che, successivamente, possa riacquistare il bene venduto. Il negozio in esame può assumere una funzione di garanzia se vista dal lato del compratore, in quanto il pagamento del prezzo può avere la natura di un prestito e la proprietà del compratore garantisce dall’inadempimento dello stesso.

Con riferimento a tale schema negoziale Sez. 2, n. 27362/2021, Oliva, Rv. 662360-01, nel riportare la consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’esistenza del patto commissorio, o, più in generale, la configurazione di un intento elusivo del relativo divieto legale, va verificata non soltanto in riferimento al tenore letterale delle clausole inserite nel contratto, o nei contratti, posti in essere dalle parti, bensì in considerazione della funzione economica che, in pratica, la fattispecie negoziale dalle stesse posta in essere mira a conseguire; principi che pongono in luce il criterio sostanzialistico e funzionale adottato ha affermato che l’intento elusivo del divieto legale del patto commissorio è configurabile allorché sussista, tra le diverse pattuizioni, un nesso di interdipendenza tale da far emergere la loro funzionale preordinazione allo scopo finale di garanzia piuttosto che a quello di scambio, sicché il giudice non deve limitarsi a verificare il solo tenore letterale delle clausole inserite nel contratto, o nei contratti, posti in essere dalle parti, ma è tenuto ad accertare la funzione economica sottesa alla fattispecie negoziale posta in essere, restando a tal fine irrilevanti sia la natura obbligatoria o reale del contratto, o dei contratti, sia il momento temporale in cui l’effetto traslativo sia destinato a verificarsi, sia, infine, quali siano gli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e perfino l’identità dei soggetti che abbiano stipulato i negozi collegati, complessi o misti. (Nella specie, i giudici di merito, in violazione del suddetto principio, avevano invece escluso la ricorrenza, in concreto, del patto illecito di garanzia in quanto il contratto di compravendita esaminato era stato concluso da parti diverse dal creditore e solo parzialmente coincidenti con il debitore, oltre ad essere privo di clausole che consentissero la retrocessione del bene compravenduto ai proprietari e di riferimenti all’evento condizionante il ritrasferimento, ossia il pagamento dei debiti del venditore, e ai tempi nei quali il pagamento sarebbe potuto avvenire).

Diversamente, nel caso di vendita con riserva di proprietà, l’acquirente paga il prezzo del bene in via dilazionata divenendone proprietario, anche se ne ha già la materiale disponibilità, solo al momento del pagamento dell’ultima rata di prezzo. In sostanza il diritto di proprietà rimane in capo al venditore, svolgendo una funzione di garanzia sul pagamento del prezzo, laddove l’inadempimento del pagamento del prezzo da parte del compratore comporta la risoluzione del contratto.

Altro contratto che potrebbe essere utilizzato al fine di celare una violazione del divieto di patto commissorio è il sale and lease back (ovvero anche locazione finanziaria di ritorno); contratto con cui il proprietario di un bene cede detto bene ad una società di leasing e quest’ultima, a sua volta, versato il prezzo di vendita pattuito, lo concede in leasing all’originario proprietario, dietro corrispettivo di un canone periodico pattuito e con facoltà dell’alienante/utilizzatore di riscattare il bene alla scadenza del leasing. Con riferimento a tale fattispecie Sez. 3, n. 04664/2021, Guizzi, Rv. 660707-01, ha affermato che essa configura un contratto d’impresa socialmente tipico che, come tale, è, in linea di massima, astrattamente valido, ferma la necessità di verificare, caso per caso, la presenza di elementi sintomatici atti ad evidenziare che la vendita sia stata posta in essere in funzione di garanzia e sia volta, pertanto, ad aggirare il divieto del patto commissorio. A tal fine, l’operazione contrattuale può definirsi fraudolenta nel caso in cui si accerti, con una indagine che è tipicamente di fatto, sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della correttezza della motivazione, la compresenza delle seguenti circostanze: l’esistenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice utilizzatrice, le difficoltà economiche di quest'ultima, la sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente.

6. La locazione: aspetti processuali.

Con riferimento agli aspetti processuali, Sez. 3, n. 17955/2021, Sestini, Rv. 661747-01, si è occupata del procedimento per convalida di sfratto per morosità nel corso del quale, a seguito di dell’opposizione dell’intimata, il giudice adito negava la convalida e rigettava l’istanza di pronuncia dell’ordinanza non impugnabile di rilascio. Disposto successivamente il mutamento del rito, il comune locatario insisteva nella domanda di risoluzione, chiedendo - in subordine - che venisse dichiarata la nullità del contratto, con contestuale condanna della conduttrice al rilascio. Il giudice del merito negava la validità del contratto di locazione, perché non avente la necessaria forma scritta, rigettava la domanda di risoluzione per morosità e quella di pagamento delle differenze dei canoni (come pure quella di determinazione del canone di locazione), mentre accoglieva la domanda di rilascio per mancanza di un titolo idoneo a giustificare la detenzione del bene da parte della convenuta. Avverso il ricorso promosso dalla conduttrice, la Corte ha rigettato il ricorso e affermato che, a seguito dell’opposizione dell’intimato ai sensi dell’art. 665 c.p.c., si determina la conclusione del procedimento a carattere sommario e l’instaurazione di un nuovo e autonomo procedimento con rito ordinario, nel quale le parti possono esercitare tutte le facoltà connesse alle rispettive posizioni, ivi compresa, per il locatore, la possibilità di porre a fondamento della domanda una causa petendi diversa da quella originariamente formulata e, per il conduttore, la possibilità di dedurre nuove eccezioni e di spiegare domanda riconvenzionale. Nella specie, all’esito del giudizio a cognizione piena, conseguito al procedimento sommario di convalida di sfratto, la risoluzione del contratto di locazione è stata pronuncia per causa diversa da quella posta a base dell’intimazione.

Ed ancora, Sez. 6-3, n. 15229/2021, Positano, Rv. 661667-01, relativamente alla fattispecie di cessione del credito relativa a canoni di locazione, ha affermato che essa determina un mutamento del soggetto creditore ma non incide sulla competenza funzionale, in quanto il “il giudizio si riferisce comunque ad un rapporto di locazione di immobili urbani con la conseguente competenza funzionale inderogabile del Tribunale” e non incide neanche sul criterio del forum contractus e cioè sulla eventuale competenza stabilita dalla legge per le controversie che abbiano ad oggetto il credito ceduto, il quale si trasferisce con tutte le sue caratteristiche (nella specie, la competenza per le controversie di lavoro prevista dall'art. 413 c.p.c.); la cessione può, invece, incidere sul criterio del forum destinatae solutionis e radicare la competenza nel luogo in cui ha sede o domicilio il cessionario, ma soltanto nel caso sia stata comunicata al debitore ceduto e sia intervenuta prima della scadenza del credito.

6.1. Locazione e il trasferimento della cosa locata.

Sez. 3, n. 02711/2021, Gorgoni, Rv. 660397-01, si è occupata del giudizio nel corso del quale la proprietaria di un immobile, subentrata all’originaria locataria, aveva ottenuto nei confronti della conduttrice e dei suoi fideiussori un decreto ingiuntivo per canoni scaduti; fideiussori che avevano opposto la carenza di legittimazione attiva dell’ingiungente, per avere acquistato l’immobile oggetto del contratto di locazione senza essere subentrata nel contratto di fideiussione. La Corte d’Appello di Venezia accoglieva l’eccezione di carenza di legittimazione attiva, ritenendo che l’originario locatario si era limitato ad alienare l’immobile locato senza cedere i diritti derivanti dal contratto di fideiussione e che il fenomeno successorio in caso di alienazione dell’immobile, regolato dall'art. 1602 c.c., si riferisse esclusivamente alle obbligazioni derivanti dal contratto di locazione che è contratto distinto da quello fideiussorio. La Corte, seppure ha dichiarato inammissibile il ricorso, ha precisato le regole di giudizio che devono essere osservate se la prestazione di una garanzia personale si trasferisca, insieme con il contratto di locazione cui accede, a seguito della vendita dell’immobile locato, in virtù del combinato disposto degli artt. 1599 e 1602 c.c. In particolare, la Corte, dopo aver riportato la giurisprudenza di legittimità circa il trasferimento, in caso di vendita del bene locato, in capo al terzo acquirente dei diritti e doveri facenti capo all’alienante-locatore, ha affermato che in tema di locazione, ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 1599 c.c., l’acquirente della cosa locata subentra ex lege, ai sensi dell’art. 1602 c.c., all’originario locatore, anche nel rapporto obbligatorio di garanzia costituito tra quest’ultimo e il suo fideiussore, soltanto se tale obbligazione possa ritenersi “derivante” dal contratto di locazione (in quanto ne abbia costituito una clausola da esso inscindibile) e non sia venuta meno per specifiche intese tra le parti originarie, dovendosi altrimenti ritenere inoperante la detta surrogazione legale, giacché l’autonomia del contratto di fideiussione rispetto al contratto principale di locazione esclude che l’attribuzione della garanzia “derivi” di regola da quest’ultimo, per gli effetti di cui al citato art. 1602 c.c., nonostante il carattere accessorio da cui è contraddistinta, tanto sul piano genetico quanto su quello funzionale.

6.2. Le obbligazioni del locatore.

Tra le pronunce in tema di obbligazioni del locatore merita di essere riportata Sez. 3, n. 16743/2021, Fiecconi, Rv. 661638-01, la quale è occupata del ricorso proposto da una società e dal locatore che avevano agito in via monitoria per il recupero del credito per canoni di locazione scaduti e non pagati dal conduttore (figlio del locatore), in relazione a un immobile ad uso abitativo. Nell’opporsi al pagamento il conduttore aveva agito in via riconvenzionale per far valere la natura gratuita del contratto anche nei confronti del padre, in ragione della asserita violazione del patto con cui questi avrebbe dovuto consentire il godimento gratuito dell’abitazione, acquisito dopo il frazionamento dell’immobile familiare avvenuto in seguito alla morte della madre, chiedendo in subordine il risarcimento dei danni. La Corte d’Appello di Milano ha rilevato che per il contratto di locazione, formalizzato nel 2004 tra la società di famiglia e il conduttore, anch’esso divenuto all’epoca socio per successione nella quota materna, non vi era stata mai da parte della società locatrice richiesta del pagamento del canone trimestrale pattuito e delle spese, se non in seguito al divorzio intervenuto tra il padre dello stesso conduttore e la moglie che aveva dato luogo all’assegnazione della casa coniugale alla ex moglie; in seguito al divorzio, la società inviava una lettera di diniego di rinnovazione della locazione alla scadenza del 31.12.2011, seguita da uno sfratto per morosità. Alla luce di tale quadro fattuale, la Corte, con la sentenza sopra indicata, ha affermato che in tema di locazione di immobili ad uso abitativo, integra abuso del diritto la condotta del locatore, il quale, dopo aver manifestato assoluta inerzia, per un periodo di tempo assai considerevole in relazione alla durata del contratto, rispetto alla facoltà di escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del canone dovutogli, così ingenerando nella controparte il ragionevole ed apprezzabile affidamento nella remissione del debito per facta concludentia, formuli un’improvvisa richiesta di integrale pagamento del corrispettivo maturato; ciò in quanto, anche nell’esecuzione di un contratto a prestazioni corrispettive e ad esecuzione continuata, trova applicazione il principio di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., quale canone generale di solidarietà integrativo della prestazione contrattualmente dovuta, che opera a prescindere da specifici vincoli contrattuali nonché dal dovere negativo di neminem laedere e che impegna ciascuna delle parti a preservare l'interesse dell'altra nei limiti del proprio apprezzabile sacrificio.

Sez. 3, n. 02154/2021, Iannello, Rv. 660438-01, sempre in tema di obblighi del locatore, ha affermato che il conduttore può sollevare l’eccezione di inadempimento, ai sensi dell’art. 1460 c.c., non solo quando venga completamente a mancare la prestazione del locatore ma anche nell'ipotesi di suo inesatto adempimento, tale da non escludere ogni possibilità di godimento dell'immobile, purché la sospensione del pagamento del canone appaia giustificata, in ossequio all’obbligo di comportarsi secondo buona fede, dall’oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, avuto riguardo all’incidenza della condotta della parte inadempiente sull’equilibrio sinallagmatico del contratto, in rapporto all'interesse della controparte. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto illegittima la sospensione del pagamento dei canoni a fronte dell’impossibilità di utilizzare tutte le parti dell’immobile all’uso convenuto - attività commerciale - per irregolarità urbanistico-amministrative, assenza di mutamento di destinazione d'uso e di agibilità. Ed invero, il locatore aveva concesso in locazione un immobile, costituito da piano primo e piano seminterrato, ad una società perché lo destinasse ad attività di bar caffetteria. Successivamente il locatore intimava lo sfratto per morosità deducendo che la conduttrice aveva omesso il pagamento dei canoni. La società conduttrice aveva resistito assumendo di avere legittimamente sospeso il pagamento dei canoni di locazione, ai sensi dell’art. 1460 c.c., essendo risultato l’immobile locato inidoneo allo svolgimento dell’attività commerciale poiché sprovvisto del cambio di destinazione d’uso e della agibilità.

6.3. Locazione non abitativa: locazione di immobile conclusa dalla P.A. iure privatorum.

Sez. 3, n. 09704/2021, Iannello, Rv. 661082-01, ha affermato il principio secondo cui il contratto di locazione di immobile adibito ad uso non abitativo concluso iure privatorum dalla pubblica amministrazione in qualità di conduttore non si sottrae alla disciplina del recesso anticipato ex art. 27, comma 8, della l. n. 392 del 1978, secondo cui le ragioni che consentono al locatario di liberarsi in anticipo del vincolo contrattuale devono essere determinate da avvenimenti estranei alla sua volontà, imprevedibili, sopravvenuti alla costituzione del rapporto e tali da rendere oltremodo gravosa la prosecuzione, non potendo esse risolversi nella soggettiva e unilaterale valutazione dal medesimo effettuata in ordine alla convenienza (o meno) di continuare il rapporto locativo, né potendosi apprezzare la legittimità del recesso in base all’esclusivo rilievo della natura pubblicistica delle determinazioni assunte dal soggetto conduttore. In particolare, la Corte ha rilevato che la disposizione citata - la quale consente al conduttore di recedere in qualsiasi momento dal contratto per gravi motivi - è applicabile anche ai contratti di locazione contemplati dall’art. 42 stessa legge, ivi inclusi quelli conclusi in qualità di conduttore da un ente pubblico territoriale. In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito ritenendo che non costituisse, di per sé, motivo idoneo di recesso anticipato dal rapporto di locazione la delibera di un’azienda sanitaria locale, adottata in attuazione di una legge regionale, volta a redistribuire sul territorio le strutture psichiatriche.

6.4. La risoluzione per inadempimento del conduttore, risarcimento danno per il locatore, quantificazione.

Sez. 3, n. 27287/2021, Iannello, Rv. 662414-01, ha esaminato il ricorso proposto dal locatore che ha impugnato, tra l’altro, la sentenza di merito che non gli aveva riconosciuto il richiesto risarcimento del danno da perdita di chance a causa della ritardata restituzione dell’immobile. La Corte ha affermato l’infondatezza dell’assunto secondo cui il danno risarcibile conseguente al ritardato rilascio dell’immobile ex art. 1591 c.c. non richiederebbe prova certa dell’esistenza del pregiudizio ma potrebbe essere integrato anche solo dalla perdita di chance di conseguire un maggior reddito locativo. Ai sensi della norma indicata, infatti, quella disciplinata dalla prima parte è un’obbligazione risarcitoria da inadempimento contrattuale, normativamente determinata, salvo il risarcimento dell’eventuale maggior danno (previsto nell'ultimo inciso), da dimostrare in concreto. L’art. 1591 c.c. assicura, in altre parole, al locatore danneggiato dalla ritardata restituzione, una liquidazione automatica del danno, incentrata sulla presunzione secondo cui esso deve essere almeno pari al canone precedentemente pagato. Trattasi di presunzione assoluta, che non ammette prova contraria, se non in senso più favorevole al locatore. Per converso il maggior danno, deve essere concretamente provato dal locatore, richiedendosi la specifica prova dell’esistenza dello stesso, in rapporto alle condizioni dell’immobile, alla sua ubicazione e alle possibilità di nuova sua utilizzazione, nonché all’esistenza di soggetti seriamente disposti ad assicurarsene il godimento dietro corrispettivo, dalle quali emerga il verificarsi di un’effettiva lesione del patrimonio In tale contesto nessuno spazio può trovare la prospettazione di un danno da perdita di chance.

6.5. Locazione di immobile ad uso non abitativo, affitto di azienda: differenze.

La locazione ad uso commerciale è disciplinata dagli artt. 27-42 della l. n.  392 del 1978 (legge sull’equo canone). Il contratto d’affitto d’azienda è invece, previsto dall’art. 2562 c.c., mentre il contratto d’affitto tout court è definito dall’art. 1615 c.c. come il negozio avente ad oggetto un bene produttivo, mobile o immobile. Si tratta del contratto con cui un soggetto (affittante o locatore), dietro corrispettivo, si obbliga a far godere l’azienda ad altro soggetto (affittuario), il quale deve gestirla senza modificarne la destinazione e conservare l’efficienza dell’organizzazione. Sul punto Sez. 3, n. 03888/2020, Cricenti, Rv. 657146- 01 ha indicato i criteri discretivi tra due distinte fattispecie contrattuali: la locazione ad uso commerciale e l’affitto d’azienda. In proposito assume rilievo il carattere dell’organizzazione, che deve preesistere alla cessione; in difetto, non è possibile affermare che si è ceduto il godimento di un’azienda o di un suo ramo. Precisa, ancora, la Corte che il bene immobile oggetto del negozio, non deve rivestire un carattere centrale, ma essere uno degli altri elementi dell’azienda. Nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la decisione della Corte d’Appello, la quale, poiché l’immobile oggetto del contratto era situato in un centro commerciale, aveva erroneamente ritenuto l'avvenuta cessione di un’organizzazione aziendale, senza verificare se il cedente avesse in precedenza impresso ai beni interessati dall’accordo una tale organizzazione e valorizzando, invece, il trasferimento in godimento, assieme al locale, di elementi, quali un massetto, un registratore ed un gabinetto, di per sé insufficienti a costituire un'azienda. Alla luce di ciò, la Corte si è soffermata sugli elementi fondamentali che compongono l’azienda. Uno di essi è l’organizzazione come, del resto, si evince dall’art. 2555 c.c. Premesso che l’azienda è composta da una pluralità di beni, il collante è l’attività dell’imprenditore, intesa come organizzazione volta al perseguimento della finalità d’impresa. In ragione di quanto sopra il contratto con cui il cedente conceda al cessionario il godimento di un’azienda presuppone la preesistenza dell’azienda in capo al cedente; di talché è incompatibile con l’affitto d’azienda la cessione in godimento di beni che sarà il cessionario ad organizzare. Da ciò consegue che se oggetto della cessione è solo un complesso di beni, ma non organizzati ai fini dell’impresa, non si ha cessione d’azienda.

Ai fini dell’esatta individuazione della natura del contratto stipulato dalle parti Sez. 3, n. 15603/2021, Iannello, Rv. 661741-01, - dopo aver affermato il principio secondo cui a differenza dell’attività di interpretazione del contratto, che è diretta alla ricerca della comune volontà dei contraenti e integra un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, l’attività di qualificazione giuridica è finalizzata a individuare la disciplina applicabile alla fattispecie e, affidandosi al metodo della sussunzione, è suscettibile di verifica in sede di legittimità non solo per ciò che attiene alla descrizione del modello tipico di riferimento, ma anche per quanto riguarda la rilevanza qualificante attribuita agli elementi di fatto accertati e le implicazioni effettuali conseguenti - ha rilevato che nella specie assumeva rilievo la circostanza che tra le parti intercorrevano due contratti stipulati contestualmente, il primo di sublocazione di un immobile e il secondo avente ad oggetto la locazione di una universalità di beni mobili (apparecchiature mediche). La Corte, in proposito, ha osservato che tra i due contratti esisteva un collegamento funzionale, non preso in considerazione dai giudici di merito, tale da consentire una considerazione unitaria dell’operazione negoziale, qualificabile come affitto d’azienda assumendo all’uopo rilievo: la contestualità della stipulazione dei due atti, la circostanza che le apparecchiature mediche si trovassero già all’interno dell’immobile, il fatto che nell’immobile e con tali apparecchiature l'Azienda Ospedaliera (che aveva ottenuto con contratto di locazione il suddetto immobile) avesse organizzato il “Centro Poliambulatoriale Pammatone”, il collegamento relativo alla sorte dei rispettivi contratti, recanti clausole che ne condizionavano la continuazione al permanere in vita dell’altro contratto.

7. Il mandato.

Sez. 1, n. 23498/2021, Scotti, Rv. 662187-01, ha affermato il principio secondo cui in materia di successione nei negozi giuridici, l'acquirente di un bene, in difetto di una pattuizione ad hoc, non subentra nei contratti stipulati dal cedente per la gestione del bene ceduto e, in particolare, nel mandato in rem propriam di cui all’art. 1723, comma 2, c.c., salvi i casi eccezionali previsti dalla legge, com’è quello disciplinato dall’art. 2558 c.c. in tema di cessione d’azienda. La questione sottoposta all’attenzione della Corte atteneva alla cessione dei diritti di sfruttamento economico di opere cinematografiche operata in mancanza del consenso di una contitolare. Nel caso di specie, l’attrice aveva agito in giudizio contro la convenuta in quanto quest’ultima aveva concluso illecitamente una serie di contratti aventi ad oggetto i diritti di sfruttamento e utilizzazione economica delle opere oggetto della disputa. L’attrice, infatti, aveva ricevuto tali diritti a fronte di una cessione a titolo particolare da parte della (fallita) contitolare della dante causa della convenuta e riteneva di dover prestare il proprio consenso ad eventuali cessioni verso terzi. La convenuta, tuttavia, si era opposta sostenendo di essere lecitamente subentrata nella posizione della propria dante causa (in qualità, quindi, di mandataria) risultando così titolare di un mandato esclusivo e perpetuo per l’Italia e il mondo. In particolare, il fulcro della questione ruotava attorno al subentro automatico dell’attrice anche nel distinto contratto di mandato – lato mandante – stipulato in rem propriam nell’interesse della mandataria (prima la dante causa della convenuta, poi la convenuta stessa), secondo quanto disposto ex art. 1723, comma 2, c.c. La Corte di Cassazione non ha accolto le argomentazioni della convenuta e ha invece confermato il punto di vista assunto dalla Corte di Appello di Roma: il contratto di mandato era da considerarsi valido e non poteva essere opposto all’acquirente dei diritti che non accettava espressamente di subentrarvi.

Per Sez. 2, n. 02619/2021, Varrone, Rv. 660435-01, il mandante, non partecipe ed ignaro dell'accordo simulatorio, il quale agisca per la dichiarazione di simulazione della quietanza, relativa all'avvenuto pagamento del prezzo, in relazione ad una vendita posta in essere dal suo mandatario con rappresentanza, è da considerarsi "terzo" rispetto a siffatto contratto: conseguentemente egli può fornire la prova della simulazione "senza limiti", ex art. 1417 c.c., e, quindi, sia a mezzo di testimoni, sia a mezzo di presunzioni, dovendosi inoltre escludere che, in dipendenza della natura di confessione stragiudiziale della quietanza, possano valere, riguardo alla sua posizione, i limiti di impugnativa della confessione stabiliti dall'art. 2732 c.c., applicabili esclusivamente nei rapporti fra il mandatario e il preteso simulato acquirente.

8. La transazione.

Lo strumento tipico di composizione delle liti è il processo, avendo, poi, il legislatore previsto, quando si verte in materia di diritti disponibili, la possibilità per le parti di comporre pattiziamente, per mezzo della transazione, le liti senza ricorrere alla pronuncia del giudice. In ragione di quanto sopra, l'istituto in esame trova applicazione in molti settori potendo avere i contenuti più svariati; si possono trasferire diritti, cedere crediti, estinguere obblighi. La causa di tale contratto deve individuarsi nella composizione di una lite già sorta o che può nascere, a fronte della quale le parti si fanno reciproche concessioni.

Con riferimento alla disciplina processuale Sez. 3, n. 26118/2021, Rossetti, Rv. 662498-03, ha affermato che l’eccezione di intervenuta transazione non forma oggetto di un’eccezione in senso stretto sottratta al rilievo officioso, come quelle per le quali la legge richiede espressamente che sia soltanto la parte a rilevare i fatti impeditivi, estintivi o modificativi, e pertanto essa può essere rilevata dal giudice d’ufficio, anche in appello, non essendo il relativo rilievo subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte, purché i fatti risultino documentati ex actis. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che fosse ammissibile in appello l'eccezione di transazione intervenuta nel corso del giudizio, indipendentemente dalla sua natura novativa o non novativa.

Per quanto attiene agli effetti sostanziali della transazione e, in particolare, nel caso di transazione intervenuta con uno dei condebitori in solido, Sez. 1, n. 25980/2021, Tricomi, Rv. 662491-01, richiama il principio secondo cui ove la transazione stipulata tra il creditore ed uno dei condebitori solidali abbia avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che l’ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all’importo pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito; se, invece, il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l’accordo transattivo, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto. Alla luce di tale principio la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva detratto, dall’importo complessivo liquidato a titolo risarcitorio, solo le somme effettivamente incassate dalla banca creditrice all’esito delle transazioni parziali, pur se inferiori all’ammontare delle rispettive quote ideali.

Sempre per quanto attiene agli aspetti sostanziali deve essere distinta la cosiddetta “transazione generale” dalla “transazione speciale”: con la prima le parti in lite chiudono definitivamente ogni contestazione su tutti i loro pregressi rapporti, costituendo una nuova situazione, all’interno della quale non è necessario individuare una concessione in relazione ad ogni singola vicenda implicata nel contratto, potendo la concessione di ciascuna parte tradursi anche nel totale sacrificio di una sola posizione, relativa ad uno dei vari affari coinvolti nel componimento di interessi; si ha invece transazione speciale quando l’accordo ha ad oggetto un affare determinato; in quest’ultimo caso, essa produce l’effetto preclusivo della lite solo limitatamente all’affare transatto. Sul punto Sez. 1, n. 21557/2021, Terrusi, Rv. 662301-01, ha chiarito che la relativa qualificazione giuridica spetta al giudice del merito che deve valutare la comune intenzione delle parti, attribuendo rilevanza decisiva all’identificazione delle specifiche controversie oggetto del contratto, non potendo basarsi esclusivamente sull’ampiezza delle espressioni utilizzate.

Appare opportuno segnalare anche Sez. 5, n. 14568/2021, Giudicepietro, Rv. 661466-01, con la quale si è ritenuto che in materia tributaria, l’accertamento con adesione, pur essendo il risultato di un accordo tra l’amministrazione finanziaria e il contribuente, costituisce una forma di esercizio del potere impositivo, non assimilabile, in quanto tale, ad un atto di diritto privato, sicché esso non ha natura di atto amministrativo unilaterale, né di contratto di transazione, stante la disparità delle parti e l’assenza di discrezionalità in ordine alla pretesa tributaria, ma configura un accordo di diritto pubblico, il quale, in ragione di ciò, non è soggetto alle disposizioni del codice civile in tema di transazione, ma alla speciale disciplina pubblicistica contenuta nel d.lgs. n. 218 del 1997, avente carattere cogente siccome afferente all'obbligazione tributaria, ai suoi presupposti e alla base imponibile. In ragione di tale principio la Corte ha rigettato il ricorso proposto dal contribuente e afferente all’impugnazione dell’accertamento con adesione in ragione dell’applicabilità allo stesso delle norme civilistiche in materia di transazione.

9. Il trasporto.

Circa la natura del contratto di trasporto e gli effetti che da esso derivano Sez. 6-3, n. 22149/2021, Cirillo, Rv. 662352-01, ha precisato che, qualora il destinatario sia una persona diversa dal mittente, si configura come contratto a favore del terzo, nel quale la consegna delle cose a destinazione o la richiesta di consegna integra “la dichiarazione di volerne profittare” prevista dall'art. 1411 c.c., con conseguente subentro del destinatario nei diritti ed obblighi del mittente. Ne discende che, qualora le parti originarie del contratto abbiano pattuito un foro convenzionale esclusivo, il destinatario, divenuto parte del contratto, a differenza di quanto accade nel contratto a favore di terzo, ben può avvalersi della clausola derogatoria della competenza per territorio, non occorrendo alcuna ulteriore comunicazione adesiva al vettore, stante il suo subentro nel contratto già perfezionatosi. In sostanza, ciò che rileva è il venir meno dell’estraneità del terzo nel momento in cui egli, chiedendo la consegna della merce in qualità di destinatario, è subentrato nei diritti ed obblighi gravanti sulla società mittente.

Con riferimento al trasporto aereo, Sez. U, n. 36371/2021, Acierno, Rv. 662967-01, ha dichiarato il difetto di giurisdizione italiana in una controversia promossa dal cessionario del diritto forfettario nei confronti di una compagnia aerea non domiciliata in uno Stato membro - né avente un ufficio di rappresentanza generale per l’Italia, atteso che il biglietto aereo era stato acquistato on-line - sul rilievo che la prestazione del servizio aereo aveva avuto inizio nell’aeroporto di Barcellona e successivamente di Madrid, e nessuno degli scali aveva avuto luogo in Italia, così come l’arrivo. In proposito le Sezioni unite hanno rilevato che ai fini della determinazione della competenza giurisdizionale, alle azioni rivolte ad ottenere i diritti forfettari e standardizzati previsti dal Regolamento CE n. 261 del 2004, in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato, si applica l’art. 7 del Regolamento UE n. 1215 del 2012 (sostitutivo del Regolamento CE n. 44 del 2001), cui va inteso il rinvio alla Convenzione di Bruxelles, contenuto nell’art. 3, comma 2, della l. n. 218 del 1995, in conformità alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza del 3 settembre 2020, in C-186/19). In ragione dell’applicazione dell’art. 7 cit., in mancanza di un collegamento ancorato al domicilio delle parti, l’attore può radicare la causa nel luogo di esecuzione della obbligazione, e, più esattamente con riferimento al contratto di trasporto, nel luogo dove il servizio è stato o avrebbe dovuto essere prestato.

Sempre con riferimento al trasporto aereo internazionale Sez. 3, n. 09474/2021, Iannello, Rv. 661239-01, ha affermato che gli artt. 5 e 7 del Regolamento CE n. 261 del 2004, nel prevedere a favore dei passeggeri un ristoro indennitario per il caso di cancellazione del volo (nonché, secondo la giurisprudenza europea, per il caso di ritardo superiore a tre ore), indipendentemente dall'esistenza di un effettivo pregiudizio, configurano una disciplina speciale che si applica, ai sensi dell'art. 3, par. 1, del regolamento medesimo, ai passeggeri in partenza da un aeroporto situato nel territorio di uno Stato membro e a quelli in partenza da un aeroporto situato in un paese terzo con destinazione in un aeroporto situato nel territorio di uno Stato membro, se il vettore aereo operativo è un vettore dell'Unione; pertanto, la suddetta disciplina non è analogicamente estensibile oltre i predetti casi, al di fuori dei quali resta applicabile il principio generale di cui agli artt. 1223 e 2697 c.c., secondo cui il debitore inadempiente risponde (solo) dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento, mentre il creditore è onerato della prova tanto delle conseguenze dannose quanto del loro collegamento causale con la condotta del debitore, secondo il nesso di cd. causalità giuridica. Nella specie, la Corte ha cassato la sentenza di merito che, in accoglimento della domanda risarcitoria di due passeggeri, aveva ritenuto analogicamente applicabile la disciplina eurounitaria in un caso in cui il vettore aereo, responsabile del ritardo, proveniva da un paese non facente parte dell'Unione europea.

Sez. 6-1, n. 03165/2021, Campese, Rv. 660739-02, ha, poi, precisato, che nel caso di trasporto aereo internazionale eseguito da più vettori successivi, ove si verifichi un incidente o un ritardo nella consegna del bagaglio o della merce e resti indimostrato che il fatto dannoso si sia verificato nel percorso di competenza di uno solo, in applicazione dell'art. 36 della Convenzione di Montreal del 28 maggio 1999 e dell'art. 1700 c.c., nei confronti del danneggiato opera la responsabilità solidale di tutti i vettori mentre, nei rapporti interni, ciascuno risponde in proporzione alla tratta di propria competenza.

10. La vendita: premessa.

Il tema della compravendita ha impegnato anche quest’anno la S.C. su diversi fronti, rappresentando nella vita ordinaria un contratto tipico quotidianamente utilizzato dalla generalità dei cittadini. Oltre ad arresti su specifici settori, quali la vendita a catena o a favore del terzo, i giudici di legittimità sono stati impegnati nell’ambito della vendita immobiliare, su questioni relative al contratto preliminare, affrontando anche tematiche che hanno dato vita a dibattiti ancora aperti in dottrina. I temi scandagliati riguardano, in particolare, la prevedibilità del danno e dei suoi criteri di liquidazione, sia nell’ipotesi della mancata conclusione del contratto definitivo imputabile al promittente alienante, sia in quella imputabile, invece, all’alienante. Non sono, come di consueto, mancate pronunce sempre in tema di compravendita immobiliare, legate alle procedure di condono edilizio o in materia di edilizia pubblica residenziale.

In generale sulla portata dell’obbligo di cui all’art. 1477, comma 3, c.c., Sez. 6-2, n. 17641/2021, Oliva, Rv. 661964-01, ha colto l’occasione per chiarire che i titoli e i documenti che il venditore è obbligato a consegnare all'acquirente, non sono necessariamente tutti quelli comprovanti la proprietà ed il libero uso della cosa, ma piuttosto quelli che, nel momento della conclusione del contratto, il venditore possieda (Sez. 3, n. 02379/1975, Delfini, Rv. 376238–01) e che sono necessari, in relazione all'oggetto della compravendita. Ne consegue che quando il contratto di compravendita abbia ad oggetto un bene la cui "naturale" utilizzazione non sia condizionata dal possesso o dall'esibizione di specifici documenti o titoli, il venditore non è tenuto ad assicurarne la consegna, essendo sufficiente, ai fini del perfezionamento del negozio, la mera dazione della cosa.

Nel contratto a favore del terzo, Sez. 2, n. 08766/2021, Varrone, Rv. 660920-01, ha affermato che la titolarità del rapporto fa capo ai contraenti, mentre quella del diritto appartiene al terzo beneficiario, il quale non diventa mai parte del contratto e la cui adesione, rilevabile anche per "facta concludentia", si configura quale mera "condicio iuris" sospensiva dell'acquisizione del diritto. Da tale assunto deriva che, conservando ciascuno dei soggetti la propria posizione, di parte contraente o di beneficiario, anche nella fase di attuazione del contratto, non verificandosi appunto alcuna successione nel rapporto, le eventuali azioni contrattuali devono essere intentate nei confronti dello stipulante o del promittente, ma non contro il terzo il quale, a propria volta, non può proporre le predette azioni nei confronti di questi ultimi, ad eccezione dell'azione di adempimento. Il principio è stato affermato dalla S.C. che ha escluso la possibilità per i venditori di un autoveicolo di agire per il pagamento del relativo prezzo nei confronti della moglie dell'acquirente, divenutane proprietaria quale terza beneficiaria della vendita, in quanto, per quanto sopra esposto ritenuta estranea al contratto.

Nel diverso settore della vendita a catena, Sez. 3, n. 08164/2021, Scrima, Rv. 661006-01, ha chiarito che l’esercizio del diritto di regresso del venditore nei confronti del soggetto o dei soggetti responsabili facenti parte della suddetta catena distributiva riconosciuto dall'art. 131, comma 1, del codice del consumo (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206) non è condizionato alla circostanza che lo stesso venditore abbia ottemperato ai rimedi esperiti dal consumatore.

Si ricorda in proposito che, ai sensi dell’art. 131 (Diritto di regresso), oggi art. 134 a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. 4 novembre 2021 n.170 “1. Il venditore finale, quando è responsabile nei confronti del consumatore a causa di un difetto di conformità imputabile ad un'azione o ad un'omissione di una persona nell'ambito dei passaggi precedenti della medesima catena contrattuale distributiva, inclusa l'omissione di fornire gli aggiornamenti per i beni con elementi digitali a norma dell'articolo 130, comma 2, ha diritto di regresso nei confronti della persona o delle persone responsabili nella catena di transazioni commerciali.

2. Il venditore finale che abbia ottemperato ai rimedi esperiti dal consumatore può agire in regresso, entro un anno dall'esecuzione della prestazione, nei confronti del soggetto o dei soggetti responsabili per ottenere la reintegrazione di quanto prestato.”

Ad avviso della S.C., la norma individua, nel preventivo adempimento di tutti i rimedi di tutela, esperiti dal consumatore, il momento iniziale, a partire dal quale far decorrere il termine annuale di prescrizione dell'azione di regresso del venditore finale, nei confronti del produttore o di altri soggetti della catena distributiva e non, invece, il presupposto per il legittimo esercizio dell'azione stessa. In caso contrario, infatti, si finirebbe per creare uno squilibrio fra la posizione del venditore finale, gravato da un onere eccessivo e quella del produttore, a vantaggio del quale si verrebbe a creare una vera e propria situazione di privilegio, pur essendo egli, in definitiva, il vero e proprio responsabile del difetto del bene.

In tema di vendita internazionale a distanza, di cose mobili, Sez. 6-2. n. 35784/2021, Falaschi, Rv. 663146-01, ha fornito un utilissimo chiarimento sui rapporti tra l’art. 5 del Reg. (CE) n. 44 del 2001 e l’art. 31 della Convenzione di Vienna dell’11 aprile 1980. L’arresto ha, infatti, affermato che il giudice chiamato a decidere sulla propria giurisdizione, rispetto a tutte le controversie nascenti dal contratto, ivi comprese quelle relative al pagamento dei beni alienati, deve applicare il criterio del luogo di esecuzione della prestazione di consegna, di cui all'art. 5, n. 1, lett. b) del Reg. CE n. 44 del 2000. Tale luogo va individuato in quello ove la prestazione deve essere eseguita, mentre il “luogo di consegna principale” deve essere riconosciuto in quello in cui i beni entrano nella disponibilità materiale e non solo giuridica dell’acquirente.

Diversamente, l’art. 31 della Convenzione di Vienna, relativo al luogo in cui il vettore eventualmente incaricato abbia preso in consegna la merce, nonché l’art. 57 della medesima Convenzione, riguardante l’individuazione del luogo di pagamento del prezzo del venditore non regolano la giurisdizione, fissano la “regola iuris” idonea a disciplinare i rapporti obbligatori delle parti.

La pronuncia prosegue il lavoro di approfondimento intrapreso da Sez. U, n. 17566/2019, Di Virgilio, Rv. 654416–01, che, affermando l’applicazione del citato art. 5 nella vendita internazionale a distanza di beni mobili, ha altresì chiarito che una diversa convenzione stipulata dalle parti sul luogo di consegna dei beni, per assumere prevalenza, deve essere chiara ed esplicita, sì da risultare nitidamente dal contratto, con possibilità di far ricorso, ai fini dell'identificazione del luogo, ai termini e alle clausole generalmente riconosciute nel commercio internazionale, quali gli Incoterms (“International Commercial Terms”), alla condizione, tuttavia, che da essi risulti con chiarezza la determinazione contrattuale.

Nella particolare compravendita delle erbe per il pascolo Sez. 6-2. n. 34508/2021, Abete, Rv. 662894-01, ha chiarito che è devoluta alla competenza della sezione specializzata agraria, ai sensi dell'art. 56 della l. n. 203 del 1982, la controversia avente ad oggetto le obbligazioni derivanti da un contratto di vendita di erbe per il pascolo di durata superiore ad un anno, mentre resta sottratta alla citata disciplina, il negozio che, oltre ad avere durata inferiore a un anno e contenuto limitato alla semplice raccolta dell'erba, si riferisca a terreni effettivamente assoggettati a rotazione agraria, secondo la convenzione stipulata fra le parti ed a prescindere dal diverso andamento assunto in concreto dal rapporto per effetto di unilaterali iniziative di una di esse in violazione dei patti contrattuali.

10.1. Il contratto preliminare.

Sotto il profilo della portata dell’obbligo della forma scritta nel contratto preliminare, Sez. 2, n. 08765/2021, Dongiacomo, Rv. 660840-01, ha confermato che qualora in un contratto preliminare di vendita immobiliare sia previsto un termine per la stipula del definitivo, la modifica di detto elemento accidentale e la rinuncia della parte ad avvalersene non richiedono la forma scritta, non concernendo tale accordo direttamente il diritto immobiliare, né incidendo su alcuno degli elementi essenziali del contratto. Confermando un indirizzo consolidato (da ultimo v. Sez. 2, n. 05197/2008, Colarusso, Rv. 601826–01) ha ribadito che nei contratti per i quali è richiesta la forma scritta "ad substantiam", come nel caso del preliminare di vendita immobiliare, la volontà comune delle parti deve rivestire tale forma soltanto nella parte riguardante gli elementi essenziali, quali il consenso, la "res" e il "pretium", che devono risultare dall'atto stesso e non possono ricavarsi "aliunde".

Restando sul tema della forma, Sez. 2, n. 35931/2021, Abete, Rv. 662972-01, in materia di contratto preliminare ha affermato che l'accordo per lo scioglimento, per mutuo dissenso, di un contratto per il quale la legge richiede la forma scritta "ad substantiam", deve rivestire la stessa forma stabilita per la sua conclusione.

Nel diverso ambito dell’esecuzione del preliminare, Sez. 2, n. 02110/2021, Picaroni, Rv. 660355-01, ha precisato che la domanda del promissario acquirente per la sola quota indivisa del promittente venditore in relazione ad un immobile indiviso è ammissibile quando il bene non sia stato considerato nella sua interezza e in previsione della prestazione del consenso anche da parte degli altri proprietari. In tal senso, inoltre, non è ritenuta di ostacolo al trasferimento l'intervenuta divisione, alla quale il promissario abbia partecipato, ai sensi dell'art. 1113 c.c., prestandovi consenso.

E’, poi, stato ritenuto applicabile al preliminare di vendita di beni immobili il codice del consumo (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206); in particolare, secondo Sez. 6-2, n. 00497/2021, Fortunato, Rv. 660177-01, gli artt. 33 e ss. del citato codice trovano applicazione quando il contratto venga concluso tra un professionista, che stipuli nell'esercizio dell'attività imprenditoriale, o di un professionista intellettuale, ed un altro soggetto, che contragga per esigenze estranee all'esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale. L’eventuale richiamo nel contratto alla disciplina del d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122 in tema di tutela degli acquirenti di immobili da costruire non è di ostacolo all’applicazione delle norme della disciplina consumeristica, atteso che quest'ultima concorre, in presenza dei relativi presupposti applicativi, con le disposizioni a tutela del consumatore, almeno in difetto di un rapporto di reciproca incompatibilità o esclusione.

Sul preliminare di vendita di cose altrui e sulle conseguenze in ipotesi di domanda di risoluzione proposta dal promissario acquirente Sez. 2, n. 28856/2021, Dongiacomo, Rv. 662557-01, ha chiarito che il promittente venditore di una cosa altrui, anche nel caso di buona fede dell'altra parte, può adempiere la propria obbligazione procurando l'acquisto del promissario direttamente dall'effettivo proprietario. Da ciò discende, da un lato, che il promissario acquirente che ignori che il bene, all'atto della stipula del preliminare, appartenga in tutto od in parte ad altri, non può agire per la risoluzione prima della scadenza del termine per la conclusione del contratto definitivo, potendo il promittente venditore, fino a tale momento, adempiere all'obbligazione di fargli acquistare la proprietà del bene, acquistandola egli stesso dal terzo proprietario o inducendo quest'ultimo a trasferirgliela; dall'altro che è solo dal momento in cui il venditore acquisisce la proprietà della cosa promessa in vendita, che può essere pronunciata sentenza di esecuzione specifica, ex art. 2932 c.c., essendo venuta meno l'altruità della "res", fatto ostativo alla sentenza traslativa con effetto immediato.

Sotto il profilo della mancata conclusione del contratto definitivo imputabile al promittente alienante negli ultimi anni la S.C ha fatto maggiore chiarezza sull’individuazione del danno e sulla sua liquidazione. Sez. 6-3, n. 20642/2020, Rossetti, Rv. 659919-01, già aveva chiarito che il danno subito dal promittente venditore per la mancata stipulazione del contratto definitivo di compravendita di un immobile consiste nella differenza tra il valore commerciale del bene al momento della liquidazione e il prezzo offerto dal promissario acquirente rivalutato al medesimo tempo. La pronuncia ha opportunamente chiarito come il decorso del tempo può incidere sul contenuto del danno o sulla misura di esso. Il primo caso si verifica quando, nell’intervallo tra danno e liquidazione, ci sia una variazione delle utilità perdute dal danneggiato, come nel caso del danno che si produce “de die in diem” o in ipotesi di sopravvenuti interventi legislativi che escludano o riducano le conseguenze dannose dell’illecito.

Il contenuto oggettivo del danno deve essere stabilito al momento della liquidazione, giudiziale o consensuale, e non al momento in cui ebbe a verificarsi. Il risarcimento deve consistere nella prestazione dell’equivalente della perdita subita e mettere il danneggiato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato se l’evento dannoso non si fosse verificato. Tale risultato si realizza riconoscendo l’equivalente pecuniario del momento in cui ha luogo il ristoro del danno.

La pronuncia ha chiarito che è possibile tenere conto anche di circostanze future, suscettibili di determinare un incremento o una riduzione del pregiudizio, a condizione che esse siano allegate e provate e appaiano ragionevolmente prevedibili e non meramente ipotizzate. La circostanza del prevedibile aumento dovrà essere allegata e provata dall’attore, mentre la prova della circostanza della prevedibile riduzione sarà a carico del responsabile, in quanto fatto modificativo della pretesa attorea.

L’incidenza sulla misura del danno, viceversa, si ha quando, pur restando fermo il numero e la natura dei beni perduti, ne muti il valore nell’indicato intervallo temporale, oppure quando si alteri il potere di acquisto della moneta. In tale ultima ipotesi si dovrà procedere con la rivalutazione officiosa del credito risarcitorio, in base all’indice del costo della vita calcolato dall’ISTAT, rivalutando il credito al momento della liquidazione.

Nel caso di mutamento del valore della cosa danneggiata il giudice deve prendere in considerazione il momento della liquidazione e, sulla base del principio di cui all’art. 1223 c.c., nella monetizzazione del danno considerare il valore che il bene avrebbe acquistato al momento della liquidazione, se si fosse trovato ancora nel patrimonio del debitore e non il valore che aveva al momento del danno.

Quest’anno Sez. 2, n. 18498/2021, Picaroni, Rv. 661622-01, ha affermato che, in ragione della struttura tipica del contratto preliminare, la prevedibilità del danno deve essere valutata con riferimento al momento in cui il debitore, dovendo dare esecuzione alla prestazione e potendo scegliere fra adempimento e inadempimento, è in grado di apprezzare più compiutamente e, quindi, prevedere il pregiudizio che il creditore può subire per effetto del suo comportamento inadempiente. Sulla scorta del principio generale espresso dall'art. 1225 c.c., il risarcimento del danno in favore del promissario acquirente consiste nella differenza tra il valore commerciale dell'immobile al momento in cui l'inadempimento è diventato definitivo, normalmente coincidente con quello di proposizione, sia pure in via subordinata, della domanda di risoluzione ovvero altro anteriore, ove accertato in concreto ed il prezzo pattuito, oltre alla rivalutazione monetaria eventualmente verificatasi nelle more del giudizio.

Sotto un diverso profilo, nell’ambito dell’indennità eventualmente richiesta per l'occupazione dell’immobile oggetto del preliminare, inizialmente legittima in presenza del consenso scritto da parte del promittente venditore, Sez. 6-2, n. 28218/2021, Besso Marcheis, Rv. 662459-01, ha ritenuto che essa diventa priva di titolo nel momento in cui il promissario acquirente propone domanda giudiziale di recesso dal contratto per l'inadempimento del promittente venditore. Ne consegue che da tale data va riconosciuta l'indennità di occupazione dell'immobile, laddove, nella diversa ipotesi del recesso per inadempimento del promissario acquirente cui il bene sia stato consegnato alla conclusione del contratto preliminare, la data iniziale del computo dell'indennità di occupazione va individuata in quella di consegna dell'immobile.

Sui rapporti tra i vizi del contratto preliminare e la domanda di esecuzione forzata in forma specifica, in conformità con Sez. 2, n. 03855/2016, Falaschi, Rv. 638873–01, Sez. 2, n. 36241/2021, Varrone, Rv. 662945-01, ha ribadito la cumulabilità dell’azione ex art. 2932 c.c. con l'"actio quanti minoris". È ammissibile, quindi, che il promissario acquirente possa esperire congiuntamente l’azione di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto definitivo e chiedere l’eliminazione delle difformità o la riduzione del prezzo, ma, in tal caso, l'offerta del prezzo, ex art. 2932, comma 2, c.c., non è necessaria ove il pagamento non sia esigibile prima della conclusione del contratto definitivo.

Per l’ipotesi di contratto preliminare avente ad oggetto un immobile da costruire, Sez. 2, n. 28859/2021, Fortunato, Rv. 662559-01, in tema di tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti, ha affermato che l'obbligo di rilascio della polizza assicurativa prevista dall'art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 122 del 2005, sussiste, ai sensi del successivo art. 5, in relazione ai contratti, quale il preliminare, aventi ad oggetto il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su immobili per i quali sia stato richiesto il permesso di costruire (o altra denuncia o provvedimento abilitativo) successivamente alla data (coincidente con il 21 luglio 2005) di entrata in vigore del suddetto decreto n. 122.

Con riferimento agli aspetti tributari sull’assoggettabilità ad IVA della corresponsione di caparra confirmatoria, Sez. 5, n. 17868/2021, Triscari, Rv. 661684-01, ha effettuato un’importante precisazione collegandola alla diversità di funzioni che la corresponsione di caparra confirmatoria può assumere nell'ambito della stipula di preliminare di compravendita immobiliare, in particolare quale anticipazione del prezzo finale ovvero risarcimento forfetario. A tal proposito occorre distinguere, ai fini dell'assoggettabilità all'imposta, tra due ipotesi: nel caso di regolare esecuzione del contratto, la caparra è imputata in acconto sul prezzo dei beni oggetto del definitivo, soggetti ad IVA, andando ad incidere sulla relativa base imponibile e, prima ancora, ad integrare il presupposto impositivo in base all'art. 6, comma 4, del d.P.R. n. 633 del 1972; l’inadempimento del preliminare, invece, ne propizia il trattenimento, risarcendo, in tal modo, il promittente venditore e, di conseguenza, non fa parte della base imponibile dell’IVA.

10.2. I vizi della cosa e i vizi della volontà. L’inadempimento e la tutela rimediale.

Occorre brevemente ricordare il principio generalmente condiviso, in materia di denunzia dei vizi della cosa venduta, secondo cui, ai fini della decorrenza del termine di decadenza di cui all'art. 1495 c.c., si deve distinguere tra vizi apparenti ed occulti: per i primi detto termine decorre dalla consegna della cosa, mentre per i secondi dal momento in cui essi sono riconoscibili per il compratore (Sez. 2, n. 11452/2000, Mazzacane, Rv. 539911–01; Sez. 2, n. 05732/2011, Scalisi, Rv 617171–01). La ratio della disciplina in esame consiste nel non lasciare incerta la sorte del contratto e non già nel dare anche la dimostrazione dei vizi, necessaria soltanto più tardi, allorché la contestazione sia insorta.

In tale quadro si innesta la disciplina relativa alla vendita di cose mobili da trasportare da un luogo ad un altro dove Sez. 2, n. 01616/2021, Giusti, Rv. 660163-01, si pone in linea di continuità con Sez. 2, n. 04496/2000, De Julio, Rv. 535492–01, sull'art. 1511 c.c. che fa decorrere il termine per la denuncia dei vizi dal ricevimento. Secondo le pronunce richiamate la disposizione impone un onere di diligenza a carico del compratore, consistente nel dovere di esaminare con tempestività la cosa e di porsi, così, in grado di rilevarne i difetti eventuali, all'occorrenza anche con un'indagine a campione.

Il termine “de quo” decorre dal giorno in cui il compratore è stato in grado di esaminare la merce, vale a dire dal giorno in cui questa è stata posta nella sua disponibilità mediante la consegna. A volere diversamente obliterare l'onere di diligenza del compratore nell'esaminare la merce acquistata, viene procrastinato il “dies a quo” della denuncia dei vizi, lasciando alla discrezionalità del compratore la scelta del tempo di esame della cosa in ipotesi di merce non direttamente visionabile in quanto imballata.

Per i vizi o difetti della cosa venduta nella vendita internazionale di beni mobili, Sez. 2, n. 39032/2021, Bertuzzi, Rv 663391-01, ha precisato che, al fine di ottenere la riduzione del prezzo e il risarcimento del danno, il “termine ragionevole” di denuncia di cui all’art. 44 Convenzione di Vienna presuppone che l’acquirente fornisca la prova di non avere assolto all’onere di denuncia tempestiva a causa di un fatto ragionevolmente scusabile.

Sul terreno, invece, dei vizi del consenso nella compravendita di azioni di società, in particolare di errore sul valore reale delle azioni, senza che il venditore abbia prestato alcuna garanzia in ordine alla situazione patrimoniale della società stessa, secondo Sez. 6-2, n. 17053/2021, Falaschi, Rv. 661663-01, il valore economico dell'azione non rientra tra le qualità di cui all'art. 1429, n. 2, c.c., relativo all'errore essenziale, essendo la determinazione del prezzo delle azioni rimessa alla libera volontà delle parti. In applicazione di tale principio, la S.C. ha considerato priva di rilievo la circostanza che il valore delle azioni, oggetto della cessione, fosse inferiore al corrispettivo pattuito, a causa dell'esistenza di debiti non dichiarati nel bilancio pubblicato (nello stesso senso già Sez. 3, n. 16031/2007, Vivaldi, Rv. 598888-01).

Nella prospettiva processuale dei poteri del giudice, Sez. 2, n. 28069/2021, Besso Marcheis, Rv. 662445-01, ha affermato che questi, chiamato a pronunciarsi su una domanda di accertamento dei vizi della cosa venduta, ha il compito di qualificare d'ufficio l'azione proposta in termini di vendita di bene privo delle qualità essenziali ovvero, sulla base delle circostanze acquisite al processo a tal fine rilevanti, di vendita di "aliud pro alio", la quale dà luogo all'azione contrattuale di risoluzione o di inadempimento ex art. 1453 c.c., svincolata dai termini di decadenza e prescrizioni previsti dall'art. 1495 c.c.

Sul diverso ambito dell’eccezione di inadempimento sollevata dall’acquirente Sez. 2, n. 14986/2021, Scarpa, Rv. 661513-02, ha ritenuto che il compratore può sollevare l'eccezione di inadempimento, ai sensi dell'art. 1460 c.c., non solo, quando venga completamente a mancare la prestazione della controparte, ma anche nel caso in cui dall'inesatto adempimento del venditore derivi l'inidoneità della cosa venduta all'uso cui è destinata, purché il rifiuto di pagamento del prezzo risulti giustificato dall'oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, ma sempre con riguardo al complessivo equilibrio sinallagmatico del contratto ed all'obbligo di comportarsi secondo buona fede.

La stessa pronuncia perimetrando meglio la diversità delle azioni di garanzia e di esatto adempimento ha tratto importanti conseguenze processuali chiarendo che l'azione di risarcimento dei danni proposta dall'acquirente ex art. 1494 c.c., sul presupposto dell'inadempimento dovuto alla colpa del venditore, consistente nell'omissione della diligenza necessaria a scongiurare l'eventuale presenza di vizi nella cosa, può estendersi a tutti i danni subiti dall'acquirente medesimo e, dunque, non solo, a quelli relativi alle spese necessarie per l'eliminazione dei vizi accertati, ma anche a quelli inerenti alla mancata o parziale utilizzazione della cosa, o al lucro cessante per la mancata rivendita del bene. Discende da tale affermazione che tale azione si rende ammissibile in alternativa, ovvero cumulativamente, rispetto alle azioni di adempimento in forma specifica del contratto, di riduzione del prezzo o di risoluzione del contratto medesimo (Sez. 2, n. 14986/2021, Scarpa, Rv. 661513-03).

Secondo un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in tema di prova dell’inadempimento di un’obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno ovvero per l’adempimento ha solo l’onere di dimostrare la fonte del suo diritto, negoziale o legale, e la sua scadenza, limitandosi di allegare l’inadempimento della controparte. Il debitore convenuto, viceversa, è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, consistente nell’avvenuto adempimento.

Analogamente ove sia dedotto l’inesatto adempimento per creditore sarà sufficiente allegare l’inesattezza dell’inadempimento, mentre sul debitore graverà l’onere di dimostrare l’esatto adempimento, in altri termini, la corrispondenza tra l’oggetto della prestazione e quello pattuito (in questo senso, tra le tante, Sez. U, n. 13533/2001, Preden, Rv. 549956–01, Sez. L, n. 02387/2004, La Terza, Rv. 569974–01, Sez. 1, n. 15677/2009, Didone, Rv. 609003–01, Sez. 3, n. 00826/2015, Stalla, Rv. 634361–01).

In tale quadro deve essere inserita Sez. 2, n. 35786/2021, Falaschi, Rv. 663071-01, secondo cui l’adempimento del terzo, ai sensi dell’art. 1180 c.c., per avere effetto liberatorio deve avere carattere specifico e assolutamente conforme all’obbligazione del debitore; tale accertamento di fatto è rimesso all’apprezzamento del giudice di merito ed è, quindi, insindacabile in sede di legittimità, se non quale vizio di motivazione nei limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come modificato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 134 del 2012.

10.3. La compravendita immobiliare.

In relazione alla sufficiente indicazione e descrizione degli elementi identificativi dell’immobile, oggetto di un preliminare Sez. 2, n. 16078/2020, Carrato, Rv. 658476-01, aveva chiarito che, ai fini della determinabilità dell'oggetto e in funzione della conseguente adottabilità della pronuncia ex art. 2932 c.c., è necessario avere riguardo all'indicazione e descrizione degli elementi identificativi del bene che ne costituisce l'oggetto, restando irrilevanti eventuali successive modifiche dei dati catastali del bene stesso, in quanto elementi esterni non incidenti sulla relativa identificazione.

Nel medesimo campo della determinazione dell’oggetto, Sez. 2, n. 14585/2021, Oricchio, Rv. 661403-01, ha chiarito che anche rispetto agli immobili è ammissibile la vendita di cose generiche, appartenenti ad un "genus limitandum", in virtù del principio di conservazione del negozio giuridico, in relazione al "genus limitatum" costituito dal complesso di un determinato fondo. Dove, dunque, un terreno debba essere distaccato da una maggiore estensione e sia indicato soltanto quantitativamente, nella misura della sua superficie, sussiste il requisito della determinabilità dell'oggetto, quando sia accertato che le parti avevano considerato la maggior estensione di proprietà del venditore come "genus", essendo stata la stessa perfettamente individuata nel contratto, nonché stabilito la misura della estensione da distaccare e sempre che per la determinazione del terreno non debba richiedersi una nuova manifestazione di volontà delle parti. In presenza di tali condizioni, infatti, nulla occorre, ai fini della sussistenza del suddetto requisito, se non l'adempimento del venditore che deve prestare la cosa determinata solo nel genere ex art. 1178 c.c.

Discende, quindi, dalla pronuncia richiamata che il requisito di determinabilità dell'oggetto sussiste quando nel contratto siano contenuti elementi prestabiliti dalle parti, che possono consistere anche nel riferimento a dati di fatto esistenti e sicuramente accertabili, i quali siano idonei all’identificazione del terreno da trasferire mediante un procedimento tecnico di mera attuazione, che ne individui la dislocazione nell'ambito del fondo maggiore, per cui la consegna di una parte piuttosto che di un'altra risulti di per sé irrilevante, essendo i diversi tratti di terreno del tutto equivalenti, escluso ogni margine di dubbio sull’identità del terreno oggetto del contratto. Si ritiene utile segnalare che nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva dichiarato la nullità del contratto preliminare di permuta di cosa presente contro cosa futura, avente per oggetto il 75% del terreno di proprietà delle promettenti venditrici contro il 25% delle costruzioni che il promettente permutante avrebbe realizzato sui suddetti fondi, per la indeterminabilità dell'esatta collocazione della parte di terreno e dell'esatta collocazione delle costruzioni risultando, in concreto, omesse sia la dimensione, sia l'esatta ubicazione dei fabbricati da edificare.

Sul limitrofo tema della vendita a corpo e a misura Sez. 2, n. 14592/2021, Scarpa, Rv. 661353-02, ha ulteriormente chiarito che la differenza tra vendita a corpo ed a misura attiene unicamente all'influenza dell'estensione del bene sul prezzo pattuito, mentre non produce effetti in ordine all'individuazione della cosa compravenduta, per la quale l'indicazione dei confini ha una funzione essenziale ove sia precisa e riscontrabile sul terreno.

L’arresto ha precisato che l'accertamento circa la ricorrenza dell'una ovvero dell'altra tipologia di vendita, rilevante allorché sia controversa tra le parti la prevalenza del criterio di riferimento costituito dalla indicazione di determinate particelle catastali ovvero di quello costituito dalla misura complessiva della superficie del fondo venduto, appartiene al giudice di merito ed è, pertanto, incensurabile in cassazione per violazione di norme di diritto.

Con riferimento alla vendita di cosa futura, secondo Sez. 2, n. 23110/2021, Fortunato, Rv. 662140-01, il contratto avente ad oggetto la cessione di un fabbricato non ancora compiutamente realizzato o da ristrutturare, con previsione dell'obbligo del cedente, che sia anche imprenditore edile, di eseguire i lavori necessari a completare il bene o a renderlo idoneo al godimento, può integrare gli estremi della vendita di cosa futura se nel sinallagma contrattuale l'obbligo di completamento dei lavori assume un rilievo soltanto accessorio e strumentale rispetto al trasferimento della proprietà.

Sul differente tema delle concessioni edilizie Sez. 2, n. 11211/2021, Criscuolo, Rv. 661215-03, ha confermato un orientamento da ritenere da tempo consolidato (v. Sez. 2, n. 11322/1997, Spadone, Rv. 509937–01), secondo cui gli acquirenti di un immobile edificato in difformità dalla concessione edilizia, che abbiano chiesto ed ottenuto la sanatoria di cui all'art. 31 della l. 28 febbraio 1985 n. 47 in qualità di proprietari del bene, possono agire in giudizio per la riduzione del prezzo, ai sensi degli artt. 1490 e 1492 c.c., ma non anche esercitare il diritto di rivalsa ex art. 6 della medesima legge, qualora le lamentate difformità non risultino essenziali o totali rispetto alla rilasciata concessione.

Con riferimento al pagamento di oneri derivanti da procedimenti di regolarizzazione urbanistico-edilizia dei quali il venditore abbia fatto menzione nell'atto di compravendita, la stessa pronuncia (Rv. 661215-02) ha affermato che non trova applicazione l'art. 1489 c.c., sulla vendita di cosa gravata da oneri o da diritti di terzi, trattandosi di pesi che non limitano il libero godimento del bene venduto.

L'obbligo di pagamento degli oneri relativi alla procedura di condono edilizio ex art. 31 della l. n. 47 del 1985, inoltre, grava, ai sensi del comma 1 del citato art. 31, su coloro che sono proprietari dei beni interessati al momento del conseguimento della sanatoria e non della sua richiesta, anche qualora, nel caso di trasferimento degli immobili, tale richiesta sia stata presentata dai precedenti proprietari, ma il suo “iter” amministrativo si sia comunque concluso dopo la vendita. Va ricordato che nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva rigettato la richiesta di rivalsa avanzata, in base all'art. 31, comma 3, della l. n. 47 cit., dall'ultimo acquirente di un immobile nei confronti degli originari venditori che, in quanto autori dell'abuso, avevano dato inizio alla procedura di sanatoria, conclusasi successivamente alla prima cessione, difettando, nel contratto concluso tra l'attore ed i propri danti causa, a propria volta acquirenti dagli originari proprietari, una specifica pattuizione che estendesse, in favore del primo, l'impegno assunto dai primi proprietari verso i secondi, di tenerli indenni dalle conseguenze economiche derivanti dal dover far fronte agli oneri concessori e di oblazione (Sez. 2, n. 12111/2021, Criscuolo, Rv. 661215-01).

Per Sez. 2, n. 39914/2021 Bellini, Rv. 663175-01, la vendita parziale di un appartamento non è vietata, né dagli artt. 17 e 40 della l. n. 47 del 1985, che comminano la nullità dei trasferimenti di immobili realizzati in assenza o in totale difformità dalla concessione o licenza edilizia, né dall'art. 222 del r.d. n. 1265 del 1934, che sanziona l'utilizzazione come alloggio di costruzioni prive della licenza di abitabilità. Il rilascio della concessione edilizia e della nuova licenza di abitabilità, ove necessarie per poter attuare lo scorporo di una parte dell'appartamento, infatti, non incide preventivamente sulla validità della vendita ma, solo successivamente, sulla sua attuazione e, pertanto, potrebbe rappresentare una ragione di risoluzione contrattuale per l'inadempimento delle obbligazioni gravanti sul venditore (trasmissione del possesso della cosa al compratore e assicurazione allo stesso della possibilità di servirsi del bene in conformità con la sua destinazione). La pronuncia consolida l’indirizzo espresso da Sez. 2, n. 18535/2003, Bucciante, Rv. 568646–01.

11. Il giuoco e la scommessa.

In tema di giochi e scommesse numerose sono le pronunce intervenute soprattutto sotto l’aspetto tributario.

Dal punto di vista sostanziale Sez. 6-3, n. 26999/2021, Rossetti, Rv. 662511-01, ha chiarito che l'inottemperanza dell'obbligo del gestore della lotteria del "gratta e vinci", ai sensi dell’art. 7, comma 5, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (conv. dalla l. 8 novembre 2012, n. 189), di stampigliare sui tagliandi l'avviso relativo alle probabilità di vincita, non determina la nullità del contratto di scommessa, essendo quell'obbligo espressivo non di una regola conformativa del contenuto del contratto, bensì di una regola di condotta per il concessionario.

In ambito tributario Sez. 5, n. 40140/2021, Fuochi Tinarelli, Rv 663215-01, ha affermato che in tema di prelievo erariale unico (PREU), il gestore, ricoprendo un ruolo di supporto dell'attività del concessionario di contabilizzazione delle giocate, delle vincite e del PREU, è estraneo al rapporto tributario, non essendo né soggetto passivo del tributo (tale è il concessionario), né sostituito (del concessionario), con la conseguenza che la controversia sulla restituzione di somme non riconosciute dal concessionario al gestore è una controversia tra tali due parti, alla quale l'amministrazione finanziaria resta estranea.

Sez. 5, n. 25450/2021, Manzon, Rv. 662232-01, ha fornito, invece, indicazioni sulla natura dell’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse di cui al d.lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, evidenziando che non ha il carattere di imposta sul volume d'affari per le plurime ragioni che essa: riguarda unicamente operazioni relative all'esercizio delle scommesse, irrilevanti ai fini dell'IVA; non tiene conto del valore aggiunto di ciascuna, difettando nel sistema il meccanismo della detrazione IVA e applicandosi il tributo all'importo scommesso; è calcolata senza alcun riconoscimento di deduzione degli acquisti di beni e servizi inerenti effettuati nel periodo in cui sono poste in essere le operazioni di scommessa. Ne consegue che la previsione di detta imposta unica non contrasta con l'art. 401 della direttiva 2006/112/CE.

Restando sul medesimo tributo, Sez. 5, n. 08757/2021, Perrino, Rv. 660937-02, ha riconosciuto la soggettività passiva al centro trasmissione dati. Sul punto ha precisato che detta imposta è applicabile a tutti gli operatori che gestiscono scommesse raccolte nel territorio italiano, a prescindere dal luogo in cui sono stabiliti.

Dovendosi escludere qualsivoglia restrizione discriminatoria tra "bookmakers" nazionali e "bookmakers" esteri, nonché un pregiudizio alla libertà di prestazione di servizi, il centro di trasmissione che invii i dati di gioco per conto di allibratore privo di concessione avente sede in altro Stato membro, operando quale suo intermediario allo stesso titolo degli operatori di scommesse nazionali "concessionati", è soggetto passivo d'imposta a norma dell'art. 1, comma 66, lett. b), l. 13 dicembre 2010, n. 220, godendo altrimenti di un'irragionevole esenzione, contrastante col principio di lealtà fiscale, per il solo fatto di porsi al di fuori del sistema concessorio, funzionale a prevenire infiltrazioni criminali nel settore del gioco (CGUE 26 febbraio 2020, causa 788-18, punti 18 e 21).

È poi soggetto passivo anche il titolare della ricevitoria operante per conto di "bookmakers" esteri privi di concessione poiché, pur non partecipando direttamente al rischio connaturato al contratto di scommessa, svolge comunque attività gestoria che costituisce il presupposto impositivo, assicurando la disponibilità di locali idonei e la ricezione della proposta, e occupandosi della trasmissione all'allibratore dell'accettazione della scommessa, dell'incasso e del trasferimento delle somme giocate nonché, secondo le procedure e istruzioni fornite dallo stesso, del pagamento delle vincite (Sez. 5, n. 08757/2021, Perrino, Rv. 660937-02).

Con riferimento alle operazioni di raccolta delle giocate effettuate con apparecchi e congegni di intrattenimento da gioco Sez. 5, n. 16951/2021, Fuochi Tinarelli, Rv. 661605-01, ha chiarito la portata dell’esenzione di cui all'art. 10, comma 1, n. 6 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. La pronuncia ha precisato che essa si applica anche alle operazioni di raccolta delle giocate effettuate con apparecchi e congegni d'intrattenimento da gioco di cui all'articolo 110, comma 6, T.U.L.P.S. ma, in quanto derogatrice del principio generale secondo cui l'IVA è riscossa per ogni prestazione di servizi effettuate a titolo oneroso da un soggetto passivo, essa deve essere interpretata in senso restrittivo. Ne consegue che non può estendersi alle operazioni aventi ad oggetto l'attività posta in essere dagli esercenti in favore dei gestori, consistente nella messa a disposizione dei locali in cui vengono installate le macchine da gioco, non intervenendo essa nella fase di raccolta delle giocate, affidata dal concessionario al gestore, nei confronti del quale l'esercente pone in essere una mera attività ausiliaria.

In tema di imposte sui redditi, Sez. 5, n. 13038/2021, Giudicepietro, Rv. 661261-01, ha affermato che le vincite da giochi d'azzardo realizzate in case da gioco situate in altri Stati dell'UE non possono essere assoggettate a tassazione come redditi diversi ai sensi degli artt. 67, comma 1, lett. d) e 69, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986 (nella formulazione "ratione temporis" vigente), dovendosi escludere qualsivoglia restrizione discriminatoria, rispetto a redditi simili provenienti da case da gioco situate nel territorio nazionale, della libera prestazione dei servizi, come garantita dall'art. 56 TFUE, nei confronti non soltanto dei prestatori, ma anche dei destinatari di tali servizi, giustificandosi un diverso trattamento solo in presenza di comprovati motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica di cui all'art. 52 TFUE.

In tema di sanzioni amministrative, Sez. 5, n. 09531/2021, Triscari, Rv. 661218-01, ha, invece, chiarito che, fino alla data di entrata in vigore della norma di interpretazione autentica di cui all'art. 1, comma 66, della l. n. 220 del 2010, la quale ha interpretato l'art. 3 del d.lgs. n. 504 del 1998 prevedendo che soggetto passivo dell'imposta unica sulle scommesse è anche chi svolge l'attività di gestione delle stesse pur se privo di concessione, esisteva una condizione di obiettiva incertezza normativa, rilevante ai sensi dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997, in ordine alla soggettività passiva del bookmaker estero operante in Italia, mediante propri intermediari, senza concessione.

DIALOGANDO CON IL MERITO 

  • responsabilità contrattuale
  • norme giuridiche sulla concorrenza
  • concorrenza

CAPITOLO IX-bis

FIDEIUSSIONE OMNIBUS, TUTELA DELLA CONCORRENZA ED EFFETTI SUI SINGOLI CONTRATTI

(di Alessandro Farolfi )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’intervento delle Sezioni Unite n. 41994 del 2021. - 3 Alcune recenti decisioni di merito. - Bibliografia

1. Premessa.

Come è noto la Banca d'Italia, con il provvedimento 2 maggio 2005, n. 55, sulla scorta di un parere conforme reso dall’AGCM in data 20 aprile 2005, n. 14251, ha ritenuto lesive dei principi sulla concorrenza ed espressione di intese vietate alcune clausole contenute in un modello standard di fideiussione omnibus predisposto dall’ABI, destinato ad essere utilizzato da tutti gli istituti di credito aderenti. All’epoca, infatti, la competenza a reprimere gli abusi antitrust nel settore bancario era regolato dall'allora vigente art. 20, comma 2, della l. n. 287 del 1990, che riservava l'applicazione dei divieti di intese restrittive della concorrenza, di abuso di posizione dominante e di concentrazione restrittiva della concorrenza nei confronti degli istituti di credito alla competente autorità di vigilanza; l'art. 20, comma 3, della stessa l. n. 287 della 1990 prevedeva poi che i provvedimenti di Banca d’Italia fossero adottati previa richiesta di parere all'Autorità garante della concorrenza e del mercato. Per completezza, va ricordato che tali disposizioni sono state poi abrogate dall'art. 19, comma 1, della l. 28 dicembre 2005, n. 262, tanto che oggi la competenza ad applicare la disciplina antitrust spetta all'Autorità garante anche per quanto riguarda gli istituti bancari.

Quella che per lungo tempo si è creduto fosse una vicenda destinata ad operare esclusivamente sul piano della tutela del mercato e ad avere riflessi nel solo rapporto fra istituti di credito ed organo di vigilanza ha, invece, acquisito più recentemente una straordinaria attualità nell’ambito di un contenzioso bancario che non accenna a diminuire.

Infatti, Sez. 1, n. 29810/2017, Genovese, Rv. 646199 [annotata da D’ORSI, 2018, 1083] ha stabilito che la nullità delle fideiussioni che recepiscano il “modello ABI” - ritenuto illecito in quanto lesivo delle norme in tema di tutela della concorrenza e del mercato - non può essere esclusa per il solo fatto che il contratto è anteriore al provvedimento sanzionatorio di Banca d'Italia. La decisione, pur non prendendo espressamente posizione a favore del tipo di ricadute dell’illecito concorrenziale sul negozio attuativo ”a valle” (il ragionamento porta infatti a stigmatizzare una esclusione della nullità basata sul profilo cronologico, ma non ad affermare l’indefettibile conseguenza dell’invalidità) è tuttavia estremamente rilevante, in quanto afferma espressamente come le violazioni di carattere concorrenziale possano produrre effetti sui singoli contratti che ne costituiscono realizzazione, anche laddove questi ultimi siano stati posti in essere in epoca anteriore rispetto al rilievo di illeceità dell’organo di vigilanza, purché successivamente all’intesa vietata.

La S.C. è poi tornata recentemente sulla questione per precisare che la nullità non può essere esclusa per il solo fatto che il provvedimento di Banca d'Italia, che aveva accertato l'intesa illecita, non contenesse diffide o sanzioni, né per il fatto che non sia provato che l'ABI, contravvenendo a quanto prescritto da Banca d'Italia, avesse egualmente diffuso il testo delle condizioni generali di contratto di cui era stata affermata la illiceità sul piano concorrenziale (vedi Sez. 1, n. 13846/2019, Falabella, Rv. 654261).

La questione che ne è scaturita, in termini necessariamente schematici e con evidente semplificazione, è quindi se, una volta affermata l’esistenza dell’intesa restrittiva della concorrenza vietata “a monte”, essa possa riverberare automaticamente i propri effetti sui contratti stipulati “a valle” che alla prima si siano conformati.

Secondo un primo indirizzo, si è osservato che dall’accertamento di un’intesa vietata, ai sensi dell’art. 2 della l. n. 287 del 1990, non deriverebbe l’invalidità dei contratti stipulati a valle della stessa; tali negozi rimarrebbero infatti del tutto autonomi e privi di un collegamento causalistico inscindibile: la parte che si assume lesa dalla condotta anticoncorrenziale potrebbe quindi beneficiare solo della tutela risarcitoria, non anche della tutela reale o caducatoria del singolo contratto derivato. Tale teoria rimanda a sua volta all’elaborazione della dottrina tedesca che ha distinto fra contratti ancillari rispetto all'intesa illecita, conclusi tra gli stessi soggetti partecipanti all'accordo anticoncorrenziale e volti a dettagliarne le modalità attuative (c.d. Ausführungsverträge); e contratti conclusi - sia pure aderendo ai termini stabiliti dall’intesa - tra le imprese aderenti e terzi estranei al cartello, come imprese e consumatori finali (c.d. Folgeverträge). Soltanto per i primi potrebbe perciò parlarsi di una invalidità derivata, stante il nesso eziologico necessario fra l’intesa vietata ed il contratto “orizzontale” volto a dettagliarne i contenuti o gli effetti, mentre apparirebbe eccessivo e finanche contrario agli stessi interessi tutelati propagare una simile invalidità sul piano “verticale”, sino ai negozi a valle [MORESCO, 2020, 85].

Secondo una diversa tesi, invece, con specifico riguardo alle fideiussioni omnibus si determinerebbe la nullità delle singole clausole, già censurate da Banca d’Italia e AGCM, qualora letteralmente siano state trasposte nei contratti sottoscritti dai consumatori. Vi sarebbe cioè, in base a questo secondo indirizzo, una invalidità derivata parziale, destinata a prorogarsi esclusivamente nei confronti di quelle clausole contrattuali che siano state specificamente censurate come espressione di un’intesa concorrenziale violata, se e nella misura in cui vengano effettivamente utilizzate ed incluse nei singoli negozi fideiussori “a valle”. Tale conclusione si fonderebbe sul rilievo che le clausole censurate sono caratterizzate da illiceità dell’oggetto, in quanto il contratto finale recepisce l’identico contenuto dell’intesa “a monte”, la cui invalidità è stata espressamente sancita sulla scorta di una norma imperativa come l’art. 2 della l. n. 287 del 1990. In questo senso, ad es. Sez. 1, n. 24044/2019, Tricomi (in Riv.dir.ind., 2020, 1, II, 103).

Vi è, infine, un terzo indirizzo giurisprudenziale più rigoroso che allarga ulteriormente le conseguenze derivate dal recepimento delle clausole illecite sul piano concorrenziale, sino a configurare la nullità dell’intero negozio fideiussorio, ritenendo che il fideiussore “finale”, se avesse potuto scegliere tra più offerte esistenti sul mercato, non avrebbe mai concluso un contratto caratterizzato dalla presenza di clausole illecite ed incidenti in modo determinante sul suo consenso.

2. L’intervento delle Sezioni Unite n. 41994 del 2021.

La prima sezione civile della Corte di cassazione, con l’ordinanza interlocutoria n. 11486, depositata il 30 aprile 2021, ha rimesso gli atti al primo Presidente e la causa è stata assegnata alle Sezioni Unite, sulla questione ritenuta di massima e di particolare importanza, se le fideiussioni bancarie prestate in conformità delle condizioni uniformi dettate dall'ABI, già riconosciute dalla Banca di Italia in contrasto con l'art. 2, comma 2, lett. a), della l. n. 287 del 1990, siano o meno inficiate da nullità derivata o legittimino il solo esercizio del diritto al risarcimento. Si è inoltre ritenuto necessario chiarire se l'indagine a tal fine richiesta debba avere ad oggetto, oltre alla predetta coincidenza, anche la potenziale volontà delle parti di prestare ugualmente il proprio consenso al rilascio della garanzia. Più in particolare, la soluzione della questione demandata al massimo organo di nomofilachia ruota intorno alla risposta da dare ai seguenti quesiti:

a) se le fideiussioni bancarie prestate in conformità delle condizioni uniformi dettate dall'ABI, già riconosciute dalla Banca di Italia in contrasto con l'art. 2, comma 2, lett. a), della l. n. 287 del 1990, siano inficiate da nullità derivata o legittimino il solo esercizio del diritto al risarcimento;

b) quale sia il regime applicabile alla sanzione di nullità, sotto il profilo della tipologia del vizio ed alla legittimazione a farlo valere;

c) se sia ammissibile una dichiarazione di nullità parziale della fideiussione;

d) se l'indagine a tal fine richiesta debba avere ad oggetto, oltre a tale coincidenza, anche la potenziale volontà delle parti di prestare ugualmente il proprio consenso al rilascio della garanzia.

Nelle sue conclusioni redatte ai sensi dell’art. 23, comma 8-bis, del d.l. n. 137 del 2020, conv., con modif., dalla l. n. 176 del 2020, il Procuratore generale ha concluso richiedendo di accertare che dalla declaratoria di nullità di una intesa tra imprese per lesione della libera concorrenza, nella specie per effetto del provvedimento n. 55 del 2005 della Banca d'Italia, non deriva la nullità (a catena) di tutti i contratti di fideiussione posti in essere dalle imprese aderenti all'intesa, né la nullità (derivata) delle singole clausole sanzionate; si deve piuttosto ritenere che i contratti a valle mantengono inalterata la loro validità e possono dare luogo alla specifica azione di risarcimento dei danni da parte dei fideiussori nei confronti degli istituti di credito - previo accertamento incidentale della nullità dell'intesa - purché sia fornita la prova di un possibile danno derivante dalle condizioni contrattuali deteriori che il fideiussore non avrebbe accettato in mancanza dell’intesa vietata.

La sentenza Sez. U, n. 41994/2021, Valitutti, Rv. 663507-01, ha composto il richiamato contrasto affermando, come da massima di questo ufficio, che “i contratti di fideiussione "a valle" di intese dichiarate parzialmente nulle dall'Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, comma 2, lett. a) della l. n. 287 del 1990 e 101 del TFUE, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, comma 3 della legge citata e dell'art. 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducono quelle dello schema unilaterale costituente l'intesa vietata - perché restrittive, in concreto, della libera concorrenza -, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti”. La decisione della S.C., dopo aver ricordato che gli appunti dell’Autorità Garante avevano riguardato le sole clausole n. 2 (c.d. clausola di “reviviscenza”, n. 6 (clausola di “rinuncia ai termini ex art. 1957 c.c.”) e n. 8 (c.d. clausola di “sopravvivenza”), dello schema contrattuale uniforme predisposto dall’ABI, ha effettivamente convenuto come il formante giurisprudenziale formatosi relativamente agli effetti delle intese illecite sui singoli contratti “a valle” sia “quanto mai variegato ed articolato”.

Dopo aver richiamato le diverse decisioni a sezioni semplici e ricostruito i diversi orientamenti, anche dottrinali, sul punto, le Sezioni Unite hanno quindi ritenuto che “tra le tre diverse soluzioni individuate da dottrina e giurisprudenza, quella che perviene a risultati più in linea con le finalità e gli obiettivi della normativa antitrust sia la tesi che ravvisa nella fattispecie in esame un'ipotesi di nullità parziale”.

In motivazione, infatti, si è ritenuto che il riconoscimento della sola tutela risarcitoria per equivalente monetario sia rimedio insufficiente a realizzare le finalità della normativa antitrust, posto che non tutti i soggetti interessati agiscono in giudizio o sono in grado di dimostrare un concreto pregiudizio, mentre il riconoscimento alla vittima dell’illecito anticoncorrenziale del diritto a far valere la nullità contrattuale, oltre all’eventuale risarcimento del danno, si rivela un adeguato completamento del sistema delle tutele. Peraltro, dopo ampi riferimenti al diritto unionale, si è precisato come la tesi della nullità parziale sia quella che, al contempo, tutela il rispetto di altri principi coinvolti nella vicenda, come quello degli istituti di credito ed il più generale principio “di conservazione” del negozio giuridico. Tale ultimo principio si fonda sull’art. 1419 c.c. (ignoto al Code civil e derivato dall’esperienza germanica), ma anche sugli artt. 1420 e 1424 c.c., esprimendo una chiara propensione dell’ordinamento a “conservare”, per quanto possibile, gli atti di autonomia negoziale, ancorché difformi dallo schema legale.

La S.C. fa comunque salva la possibilità, pur ritenendola di difficile configurazione pratica, che la porzione affetta da nullità risulti essenziale per i contraenti, che non avrebbero concluso il contratto “senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità”. Solo in tal caso si genererebbe una nullità derivata dell’intero negozio, con onere della prova spettante a chi invochi tale meccanismo invalidante.

Sulla scorta di tali principi, pertanto, le Sezioni Unite hanno rigettato il ricorso proposto dall’istituto di credito nei confronti della sentenza della Corte d’Appello di Roma che, appunto, aveva dichiarato la nullità delle sole clausole negoziali riproduttive del contenuto degli artt. 2, 6 e 8 dello schema uniforme redatto dall’ABI, in violazione delle regole di tutela della libera concorrenza sul mercato del credito.

3. Alcune recenti decisioni di merito.

Come già evidenziato, il contenzioso bancario sul tema degli effetti derivanti dal recepimento delle intese vietate nei singoli contratti “a valle” - mediante l’utilizzo di condizioni generali predisposte dall’ABI già ritenute illegittime - non accenna a diminuire.

La giurisprudenza appare divisa. In particolare, operando una opportuna tripartizione, si ravvisa una prima tesi contraria ad un effetto invalidante derivato (ad es. Tribunale Treviso, 26 luglio 2018, n. 1623; Tribunale Napoli, 1 marzo 2018, n. 2338; Tribunale Spoleto 14 marzo 2019, n. 197, Tribunale Busto Arsizio 26 maggio 2020, n. 513, Tribunale Rimini, 4 giugno 2021, Tribunale Monza 14 settembre 2021); vi è poi una tesi favorevole ad un effetto invalidante derivato assoluto, tale cioè da caducare l’intero negozio a valle (ad es. Tribunale Taranto, n. 2127/2019 e Corte d’Appello di Bari, decisione del 15 gennaio 2020). Infine, una terza teoria, per così dire intermedia, sostiene che gli effetti invalidanti derivati abbiano un tenore puramente parziale, tale da colpire cioè le singole clausole vietate, oggetto di recepimento nel singolo negozio concluso con il contraente finale (essenzialmente le clausole n. 2, 6 ed 8 già contenute nelle condizioni generali predisposte dall’ABI ed oggetto della declaratoria di illiceità del 2005 da parte dell’istituto di vigilanza). In questo senso la recente Sez. 1, 26 settembre 2019, n. 24044 e, nella giurisprudenza di merito, Tribunale Torino, 8 ottobre 2021 e Tribunale Biella, 26 marzo 2021.

Per rimanere alle pronunce di merito più recenti è possibile partire dalla decisione di Tribunale Torino, 8 ottobre 2021, n. 4518, Dughetti, www.iusexplorer.it, secondo cui quando nel contratto di fideiussione omnibus siano presenti clausole rientranti fra quelle vietate dalla normativa antitrust, ciò non travolge l'intero contratto, ma determina solo l’espunzione delle pattuizioni vietate. Più in particolare, la sezione imprese del tribunale piemontese ha ritenuto che le nullità delle fideiussioni omnibus che presentino i vizi in esame debbano essere valutate alla stregua degli artt. 1418 c.c. e segg. e che trovi applicazione l'art. 1419 c.c., laddove l'assetto degli interessi in gioco non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata alle clausole rivenienti dalla intesa illecita, posto che, in linea generale, solo la banca potrebbe dolersi della loro espunzione.

Anche Tribunale Rovigo, 3 maggio 2021, n. 305, Di Francesco, ivi, ha ritenuto che la nullità delle singole clausole che siano contrarie alla normativa anticoncorrenziale non determini la caducazione dell'intero contratto, se non venga dimostrato che quel contratto, in assenza di quelle clausole, non sarebbe stato concluso. Ciò in quanto l'art. 1419 c.c. prevede l'estensione della nullità a tutta la fattispecie contrattuale solo qualora l'interessato dimostri che le clausole nulle siano in correlazione inscindibile con il resto, nel senso che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità.

Nello stesso senso, Tribunale Biella, 26 marzo 2021, n. 139, Garambone, ivi, con la precisazione che il giudice è chiamato ad accertare la conformità della garanzia personale prestata allo schema ABI del 2003 e tale verifica postula la prova: 1) dell'esistenza di un illecito anticoncorrenziale; 2) che lo schema contrattuale cui ha avuto accesso il garante corrisponde a quello derivante dal predetto illecito; 3) che, in conseguenza ed in ragione di ciò, la libertà di scelta del fideiubente è stata effettivamente limitata.

Aderisce, invece, alla tesi più liberale che esclude conseguenze invalidanti derivate la recente decisione di Tribunale Brescia, 09 febbraio 2021, n. 340, Pernigotto, ivi, secondo cui in tema di fideiussione, non è nullo il contratto di fideiussione c.d. omnibus in cui sia sancita la sopravvivenza dell'obbligazione principale e che preveda la riviviscenza dell'obbligazione in caso di invalidità o revoca di pagamenti da parte del debitore garantito; la decisione afferma inoltre che la clausola così redatta non può neppure considerarsi vessatoria.

Sempre in questa stessa ottica, ma con argomentazione diversa, anche Tribunale Verona, 6 ottobre 2020, n. 1534, Tommasi di Vignano, ivi, per il quale la fideiussione (che si configuri quale atto unilaterale ovvero quale contratto risultante dalla proposta del fideiussore non rifiutata dal creditore, secondo il modello ex art. 1333 c.c.) integra atto proveniente dal fideiussore, e non già dalla banca (astrattamente partecipe dell'intesa); il fideiussore che stipula la fideiussione omnibus non è perciò cliente della banca, trattandosi di soggetto diverso da quello che fruisce del credito concesso dalla banca stessa e terzo rispetto al rapporto di credito; di conseguenza, rispetto alla fideiussione omnibus non trova adeguata espressione la ratio della disciplina antitrust, vale a dire l'esigenza di prevenire l'effetto distorsivo del fenomeno di mercato; la concorrenza, infatti, va tutelata nei confronti del cliente e non già nei confronti del fideiussore, che, come detto, è terzo rispetto al rapporto bancario e non opera in un mercato strictu sensu concorrenziale.

Naturalmente la questione è destinata a porsi in termini diversi quando sulla validità del negozio fideiussorio sia sceso il giudicato. Secondo Tribunale Roma, 21 dicembre 2021, Lauropoli, www.ilcaso.it, deve infatti ritenersi inammissibile l'opposizione all'esecuzione fondata sulla nullità della fideiussione sottesa all'emissione del decreto ingiuntivo costituente il titolo esecutivo dell'esecuzione quando il decreto è divenuto definitivo per mancata opposizione, in quanto il giudicato sostanziale conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo copre non soltanto l'esistenza del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il credito e il rapporto stessi si fondano, ma anche l'inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al ricorso per ingiunzione e non dedotti con l'opposizione.

Discussa è anche la questione relativa alla individuazione della competenza ad esprimersi sulla eventuale invalidità derivata. Mentre, infatti, la giurisprudenza di merito appare divisa, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente preso posizione nel senso dell’attrazione di tale questione nella competenza per materia della sezione specializzata per le imprese di cui all’art. 18 del d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, di modifica del precedente art. 4 del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168.

Sez. 6-1, n. 6523/2021, Terrusi, Rv. 660922-01, ha infatti ritenuto che la competenza della sezione specializzata per le imprese, estesa alle controversie di cui all'art. 33, comma 2, della l. n. 287 del 1990 ed a quelle relative alla violazione della normativa antitrust dell'Unione europea, attrae anche la controversia riguardante la nullità della fideiussione riproduttiva dello schema contrattuale predisposto dall'ABI, contenente disposizioni contrastanti con l'art. 2, comma 2, lett. a), della l. n. 287 del 1990, in quanto l'azione diretta a dichiarare l'invalidità del contratto a valle implica l'accertamento della nullità dell'intesa vietata.

In linea con questa opzione interpretativa può citarsi Tribunale Verona, 22 ottobre 2020, Vaccari, www.iusexplorer.it, la quale ha rilevato che il g.e. non può conoscere questioni di nullità della fideiussione per violazione della normativa antitrust, in quanto la nullità della fideiussione omnibus, sul presupposto che essa sia stata redatta in conformità al modello ritenuto contrario alla disciplina della concorrenza dalla Banca d'Italia, è questione che va valutata dal giudice competente, da individuarsi, ai sensi dell'art. 18 del d.lgs. n. 3 del 2017, nel tribunale delle imprese; in motivazione si aggiunge inoltre che la questione non può essere conosciuta dal giudice non specializzato nemmeno in via di mera eccezione poiché la decisione su di essa implica un accertamento sulla nullità o meno del contratto, che, sebbene incidentale, è comunque idoneo al giudicato. Aderisce alla linea interpretativa scelta dalla S.C. anche Tribunale Torino, 8 ottobre 2021 cit., mentre si pongono in distonia - quantomeno implicita - con tale indirizzo tutte quelle decisioni che, pur non essendo emesse dal Tribunale “distrettuale”, hanno comunque affrontato il tema della nullità derivata.

Appare pacifico, invece, che ove possa predicarsi l’invalidità del negozio “finale” o “a valle”, la stessa può essere rilevata d’ufficio. Così Tribunale Milano, 10 novembre 2020, n. 7093, Gallina, ivi, precisando che devono comunque sussistere gli elementi necessari per poterla rilevare sulla base di dati fattuali già acquisiti e nel rispetto del contraddittorio.

. Bibliografia

Camilleri, Il risarcimento per violazioni del diritto della concorrenza: ambito di applicazione e valutazione del danno, in Nuove leggi civ., 2018, 143;

D'orsi, Nullità dell'intesa e contratto “a valle” nel diritto antitrust; in Corr. giur., 2018, 1063;

Moresco, Fideiussioni omnibus su moduli standard ABI: condizioni generali di contratto anticoncorrenziali e nullità parziale, in Banca borsa tit. credito, 2020, 1, 85.

  • diritti di obbligazioni

CAPITOLO IX-ter

MUTUO FONDIARIO E CONSEGUENZE DERIVANTI DAL SUPERAMENTO DEL LIMITE DI FINANZIABILITÀ

(di Alessandro Farolfi )

Sommario

1 Premessa. - 2 La posizione espressa dalla giurisprudenza di legittimità. - 3 Alcune recenti decisioni di merito. - 4 La rimessione della questione alle Sezioni Unite. - Bibliografia

1. Premessa.

Come è noto, l’art. 38 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (d’ora innanzi t.u.b.) contiene al primo comma la definizione di credito fondiario, come quello che “ha per oggetto la concessione, da parte di banche, di finanziamenti a medio e lungo termine garantiti da ipoteca di primo grado su immobili”. Si tratta di una fattispecie di ampia applicazione pratica, considerato che da tempo si è riconosciuto che, a differenza di quanto accadeva sotto il vigore del r.d. n. 646 del 1905, è stato espunto dall'attuale definizione il carattere ancillare del credito fondiario rispetto all'incremento del patrimonio immobiliare, sì che attualmente qualunque mutuo ipotecario può essere qualificato come “fondiario”, anche quando ad esso non corrisponde un incremento di valore dell'immobile. Tanto assume rilevanza peculiare sia in caso di esecuzione forzata, stante la regola speciale che esenta il creditore dall’obbligo di preventiva notificazione del titolo (cfr. art. 41, comma 1, t.u.b.), sia nel caso di fallimento del debitore, attesi i benefici connessi alla esenzione da revocatoria di cui all’art. 39, comma 4, t.u.b., ed il c.d. privilegio processuale disposto dal già citato art. 41, al comma 2, che consente al creditore fondiario di proseguire o intraprendere l’espropriazione nonostante il fallimento del mutuatario.

Pur se quest’ultima affermazione meriterebbe certamente un maggior approfondimento [sul quale MONTANARI, 2018], va ricordato in questa sede che il secondo comma del già citato art. 38 t.u.b. è divenuto negli ultimi anni un “protagonista” delle aule giudiziarie, nella parte in cui, a sua volta, rinvia per l’individuazione dei limiti entro i quali è consentito accordare la natura fondiaria del finanziamento ad una normazione regolamentare della Banca d’Italia. Si afferma infatti che “la Banca d'Italia, in conformità delle deliberazioni del CICR, determina l'ammontare massimo dei finanziamenti, individuandolo in rapporto al valore dei beni ipotecati o al costo delle opere da eseguire sugli stessi, nonché le ipotesi in cui la presenza di precedenti iscrizioni ipotecarie non impedisce la concessione dei finanziamenti”.

La delibera CICR di attuazione del 22 aprile 1995 ha conseguentemente fissato il limite di finanziabilità secondo la seguente duplice opzione: a) fino all’80% del valore dei beni ipotecati o del costo delle opere da eseguire sugli stessi; b) fino al 100% del valore, qualora vengano prestate garanzie integrative.

Ciò posto, va ribadito che la giurisprudenza ha da tempo accolto una nozione molto ampia di credito fondiario, affermando che si debba escludere che la natura fondiaria del credito sia subordinata all’esclusivo scopo acquisitivo di un immobile, assistito da garanzia ipotecaria necessariamente di primo grado. In particolare, già Sez. 1, n. 04792/2012, De Chiara, Rv. 621970-01, ha ritenuto che il mutuo fondiario, disciplinato agli artt. 38 ss. del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, non è un mutuo di scopo, poiché di esso non è elemento essenziale la destinazione della somma mutuata a determinate finalità; non può, pertanto, essere negata tale qualificazione, sul rilievo della previsione contrattuale che nega la destinazione della somma mutuata all'acquisto, costruzione o ristrutturazione di immobili. Conclusione certamente raggiunta anche alla luce della pronuncia n. 175 del 22 giugno 2004 della Corte cost. che, dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto gli artt. 38 t.u.b. e 67 l.fall., in relazione all’art. 3 Cost., aveva fondato il proprio ragionamento sul superamento della distinzione tra credito fondiario e credito edilizio, secondo una summa divisio già in precedenza negata anche dalla Banca d’Italia con due comunicazioni del 1994 nelle quali si precisava che, essendo venuta meno la distinzione tra credito edilizio e credito fondiario, quest’ultimo può riassumere in sé finanziamenti di diversa natura senza che tale qualificazione importi la necessità di un vincolo di destinazione delle somme erogate, mancando nella norma di riferimento la previsione di uno specifico scopo.

2. La posizione espressa dalla giurisprudenza di legittimità.

Quanto al valore del limite di finanziabilità, invece, nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un peculiare interesse pratico, discutendosi delle conseguenze derivanti dal suo superamento, anche in relazione alla circostanza che la S.C. ha, come noto, mutato al riguardo il proprio precedente indirizzo.

Secondo un più antico e per lungo tempo consolidato orientamento, il superamento del limite di finanziabilità avrebbe al più potuto avere riflessi “interni” all’ordinamento bancario, senza alcun rilievo sulla validità ed efficacia dei singoli contratti di mutuo fondiario. In questo senso ancora Sez. 6-1, n. 22446/2015, Cristiano, Rv. 637649-01.

In tempi più recenti, invece, si è ritenuto che la prescrizione del già citato art. 38, comma 2, t.u.b. non vada qualificata come una disposizione interna all’ordinamento bancario operante nella sola relazione fra autorità di vigilanza e soggetti bancari vigilati, ma debba piuttosto ritenersi espressione di regole di condotta più generali, la cui violazione può determinare effetti diretti in capo ai singoli contraenti. Con l’ulteriore conseguenza che il limite di finanziabilità integra un elemento costitutivo del contratto di mutuo fondiario il cui superamento determina la nullità di tale negozio (cfr. sul punto Sez. 1, n. 17352/2017, Terrusi, Rv. 644846-01; conformi anche Sez. 1, n. 11201/2018, Dolmetta, Rv. 648901.01; Sez. 1, n. 22466/2018, Ceniccola, Rv. 650753-01; Sez. 1, n. 29745/2018, Dolmetta, Rv. 651489-01; in modo dubitativo, invece, Sez. 3, n. 17439/2019, De Stefano, Rv. 654435-01, quest’ultima anche in termini di possibile riqualificazione contrattuale piuttosto che di vera e propria invalidità negoziale, con spunto, come si vedrà ai par. successivi, raccolto da non poche decisioni di merito e tale da divenire una questione di massima di particolare importanza.)

Prima ancora, tuttavia, si deve ricordare che l’art. 1424 c.c. consente la c.d. conversione del contratto nullo, affermando che lo stesso può comunque produrre gli effetti di un contratto diverso, purché dello stesso contenga i requisiti di sostanza e di forma, se avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti si può ritenere che le stesse lo avrebbero comunque voluto se avessero conosciuto la nullità. Nella fattispecie qui esaminata, pertanto, si tratta della possibilità di sanare un mutuo fondiario nullo attraverso la sua conversione in un ordinario mutuo ipotecario, facendo così salva la caratteristica privilegiata speciale del credito ed in particolare il suo grado ipotecario, a fronte della inapplicabilità dei benefici specifici che connotano la fondiarietà, primo fra tutti quello del già citato art. 41 t.u.b.

La sanatoria per convalida è stata affermata, fra le altre, da Sez. 1, n. 22466/2018, cit., la quale ha precisato che il potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità contrattuale (appunto per superamento del limite di finanziabilità) non può estendersi alla sua sanatoria, alla luce del contrario disposto dell’art. 1424 c.c.; tuttavia si è ritenuta l’ammissibilità dell'istanza di conversione avanzata dalla parte mutuante nella prima difesa utile successiva al rilievo della nullità, risultando detta richiesta strettamente consequenziale all'esercizio del potere officioso del giudice. In particolare, la S.C. ha perciò ritenuto ammissibile l'istanza di conversione in mutuo ipotecario, proposta da una banca per la prima volta in seno all'opposizione allo stato passivo, dopo che la nullità era stata affermata d’ufficio dal g.d. nell’ambito della fase di verificazione dei crediti per la formazione dello stato passivo.

Si deve dare conto, in sintesi, di un ulteriore indirizzo intermedio secondo il quale il superamento del limite di finanziabilità (in concreto una erogazione superiore alla percentuale dell’80% del valore del bene che ne costituisce garanzia specifica in assenza di altre garanzie) non avrebbe effetti invalidanti, ma consentirebbe una riqualificazione in concreto dell’operazione di finanziamento nei termini di un ordinario mutuo ipotecario.

Pur se la conclusione può in molti casi rivelarsi in concreto la medesima di quella predicata dal più recente e maggioritario indirizzo della S.C., non è tuttavia perfettamente coincidente nei suoi approdi teorici e nelle conclusioni giuridiche. Da un lato, infatti, la pronuncia di conversione non può essere disposta d’ufficio, ma consegue ad una domanda di parte che si ritiene debba essere proposta nella prima difesa utile al rilievo della nullità, mentre l’operazione di diretta riqualificazione del contratto da parte del giudice, in forza del principio per cui il nomen iuris utilizzato dalle parti non ha natura vincolante, può sempre essere condotta dall’organo giudicante, anche d’ufficio e senza particolari preclusioni se non quelle derivanti dal giudicato. Dall’altro, poi, è evidente che se la conclusione può in concreto essere la stessa (perdita dei benefici speciali previsti dal t.u.b. e conservazione del grado ipotecario del credito), diverso è il percorso argomentativo e pratico, passando in un caso attraverso una declaratoria di nullità che ben può avere riflessi ulteriori ed esterni (si pensi ad es. ai profili disciplinari collegati all’esercizio dell’attività notarile o, seppure all’interno di un più ampio quadro probatorio, ai possibili riflessi in ordine all’elemento soggettivo di eventuali illeciti civili o penali che siano tali da coinvolgere un imprenditore insolvente che sia successivamente dichiarato fallito).

3. Alcune recenti decisioni di merito.

La giurisprudenza di merito ha in misura prevalente, almeno stando alle decisioni più recenti edite o rinvenibili sul punto, prestato adesione, sia pure con alcuni distinguo, all’orientamento più recente della S.C., fondato sugli effetti invalidanti che derivano dal superamento del limite di finanziabilità collegato alla fondiarietà del credito.

Secondo Tribunale Bologna, 2 agosto 2021, Serra, Riv. esec. forzata, deve ritenersi nullo il contratto di mutuo fondiario in cui sia stato superato il limite di finanziabilità previsto in base all’art. 38, comma 2, t.u.b. (ai fini della prova è stato dato rilievo alla perizia di parte prodotta dal debitore opponente relativa al valore dei cespiti ipotecati al momento della conclusione del contratto non accompagnata da una specifica contestazione dell’istituto di credito esecutante).

Nello stesso senso Tribunale Busto Arsizio, 29 gennaio 2021, Lualdi, www.iusexplorer, secondo cui la nullità è denunciabile dalla parte ed è altresì rilevabile d'ufficio dal giudice.

In precedenza, cfr. Tribunale Monza, 26 luglio 2019, Crivelli, Riv. esec. forzata, secondo cui nell’accertamento in ordine al superamento del limite di finanziabilità dell’80% previsto per i mutui fondiari - in virtù del combinato disposto dell’art. 38 T.U.B. e della Delibera CICR del 22 aprile 1995 - si deve avere riguardo non al valore commerciale del bene immobile destinato a fungere da garanzia, bensì al suo valore cauzionale (c.d. mortgage lending value). Il superamento di tale limite di finanziabilità determina la nullità del mutuo fondiario, suscettibile di conversione in un ordinario mutuo ipotecario. Peraltro, per potere procedere all'effettiva conversione di un fondiario nullo in un mutuo valido, occorre riguardare all'intento pratico oggettivo, tratto cioè dal puntuale esame del contesto delle circostanze proposte dal caso concreto, che viene a contraddistinguere l'operazione che è stata posta in essere (nella specie: l’assenza di perizia allegata al contratto di mutuo, l’assenza di riferimenti ai vantaggi propri della fondiarietà nel corso delle trattative, la qualità di soggetto non fallibile della mutuataria; non sarebbe invece di ostacolo il fatto che la banca si sia avvalsa della facoltà di notificare direttamente il precetto non preceduto dalla notifica del titolo).

Il tema può porsi frequentemente anche in sede di formazione dello stato passivo fallimentare. In tale ambito va ricordato Tribunale Reggio Emilia, 22 luglio 2020, Stanzani Maserati, www.ilcaso.it, il quale nell’accogliere la tesi prevalente della nullità derivata (salvo conversione) del mutuo fondiario erogato per un importo superiore al limite di finanziabilità, ha soggiunto che il relativo onere della prova spetta al creditore che avanzi la richiesta di partecipazione al concorso. Sul tema anche la recentissima decisione di Tribunale Livorno, 16 dicembre 2021, in www.ilfallimentarista.it, secondo la quale la richiesta di conversione di un contratto di mutuo fondiario affetto da nullità in un valido mutuo ipotecario ordinario può essere svolta per la prima volta dalla banca anche con l’atto introduttivo dell’opposizione allo stato passivo.

Per l’adesione alla tesi della possibilità di giungere ad una riqualificazione del rapporto, piuttosto che ad una pronuncia incentrata sulla patologia negoziale, si veda invece Tribunale S. Maria Capua a Vetere, 24 gennaio 2020, Vassallo, Riv. esec. forzata, alla cui stregua si è sostenuto che la questione della violazione dell’art. 38 t.u.b. vada risolta sul piano della qualificazione giuridica del contratto, ritenendo che, al di là del nomen iuris utilizzato dalle parti, il mutuo pur qualificato come fondiario, ove non in regola con le disposizioni dell’art. 38 t.u.b. per intervenuto superamento del limite di finanziabilità, debba essere qualificato come mutuo ipotecario ordinario.

In questo senso anche la più recente decisione di Tribunale Torino, 16 dicembre 2020, La Manna, www.giustiziacivile.com, [con nota di METAFORA, 2021] il quale pur partendo dalla premessa che il limite di finanziabilità previsto dal secondo comma dell'art. 38 t.u.b. non esaurisce i suoi effetti sul piano della condotta dell'istituto di credito mutuante, ma è elemento essenziale per la valida qualificazione del contratto di mutuo come fondiario e, quindi, per l'applicabilità della relativa disciplina di privilegio, sostanziale e processuale, in favore del creditore, giunge a ritenere che il superamento di tale limite comporta la sua riqualificazione quale mutuo ordinario con disapplicazione della disciplina speciale di privilegio connessa al carattere fondiario del mutuo.

Anche Tribunale Larino, 12 maggio 2020, D’Alonzo, inedita, ha seguito la tesi della riqualificazione contrattuale, rilevando che se pure è vero che il limite di finanziabilità presidia interessi di ordine generale e che lo stesso non esaurisce i propri compiti nella individuazione di semplici doveri comportamentali relativi al soggetto finanziante, ridondando piuttosto sull’oggetto contrattuale, è pur vero che non appare possibile ricorrere al rimedio invalidante caducatorio quante volte l’applicazione di tale conseguenza produrrebbe gli stessi effetti lesivi degli interessi presidiati, apparendo perciò più corretto ritenere che tale limite operi quale elemento sulla cui scorta procedere - o meno - alla riqualificazione del contratto quale ordinario mutuo ipotecario.

Sui rapporti fra fallimento ed esecuzione forzata intrapresa sulla scorta di un credito fondiario, cfr. Tribunale Larino, 22 giugno 2021, D’Alonzo, Riv. esec. forzata, secondo cui ai sensi del secondo comma del richiamato art. 41 t.u.b. l’esecuzione per credito fondiario, in deroga all’art. 51 l.fall., prosegue anche in caso di fallimento del debitore, salva la possibilità di intervento del curatore. La somma ricavata dall’esecuzione, eccedente la quota che in sede di riparto risulta spettare alla banca, viene attribuita al fallimento. Quindi, in presenza di un credito fondiario, la procedura esecutiva non solo prosegue, ma il credito della banca viene comunque soddisfatto, assegnandosi alla curatela solo la somma che sopravanza all’assegnazione (la prosecuzione della procedura, è stato precisato, avviene a meno che in sede fallimentare sia già stata ordinata la vendita prima che questa sia stata disposta dal giudice dell’esecuzione, secondo un principio di prevenzione). L’ammissione al passivo è requisito per ottenere, già in seno all’esecuzione individuale, l’assegnazione provvisoria del ricavato dalla vendita, nel senso che il creditore fondiario perde il privilegio processuale quante volte non abbia depositato la domanda di insinuazione al passivo nel termine di cui all’art 101 l.fall. (oppure quando la domanda di ammissione, pur formulata, sia stata rigettata dal giudice delegato), a meno che non dimostri di non avervi provveduto per causa a lui non imputabile, a norma dell’ultimo comma del citato art. 101 l.fall. Di contro, egli avrà diritto all’assegnazione provvisoria quando il relativo termine non sia decorso, sebbene non si sia ancora formalmente insinuato al passivo.

Ma si veda anche Tribunale Roma, 31 agosto 2020, Iappelli, ivi, secondo cui l’art. 41, comma 2, t.u.b., che prevede un’eccezione al divieto posto dall’art. 51 l.fall., in quanto accorda al creditore fondiario la facoltà di esercitare l’azione esecutiva individuale sui beni ipotecati anche in costanza di fallimento del debitore esecutato, è disposizione di stretta interpretazione che non può essere estesa analogicamente alla diversa ipotesi di sottoposizione del debitore esecutato alla liquidazione coatta amministrativa. Va conseguentemente respinta l’opposizione agli atti esecutivi proposta dal creditore fondiario nei confronti del provvedimento che, in tale circostanza, abbia dichiarato l’improcedibilità dell’esecuzione forzata individuale. Nel caso di dichiarazione di improcedibilità non spetta al giudice dell’esecuzione liquidare le spese del procedimento, atteso che detta liquidazione, ex art. 95 c.p.c., ha una funzione strumentale rispetto all’assegnazione o alla distribuzione in sede esecutiva.

Sembra invece ormai assodato l’orientamento che riconosce una nozione lata, molto ampia, all’operazione di mutuo fondiario, non necessariamente collegata come tale ad operazioni di carattere edilizio. Costituisce espressione di tale indirizzo Tribunale Teramo, 24 maggio 2021, Di Giacinto, www.iusexplorer.it, secondo cui il mutuo fondiario non costituisce un mutuo di scopo: il mutuo fondiario, infatti, rappresenta una forma speciale di mutuo ipotecario, che si caratterizza per i seguenti requisiti: durata a medio o lungo termine; garanzia data da ipoteca di primo grado su immobili; ammontare non superiore ad una certa percentuale del valore dell'immobile ipotecato. Nel mutuo di scopo, invece, il mutuatario si obbliga a realizzare l'attività programmata nel contratto e tale obbligazione integra la struttura del negozio, sia in relazione al profilo strutturale, perché il mutuatario non si obbliga solo a restituire la somma mutuata e a corrispondere gli interessi, ma anche a realizzare lo scopo concordato, sia in relazione al profilo funzionale, perché nel sinallagma assume rilievo essenziale proprio l'impegno del mutuatario a realizzare la prestazione attuativa.

4. La rimessione della questione alle Sezioni Unite.

Alla luce di quanto esposto, si deve in conclusione registrare un non sopito dibattito dottrinale relativo alla persuasività dell’orientamento adottato a partire da Sez. 1, n. 17352/2017, Terrusi, Rv. 644846-01, già ricordata, nonché il recepimento da parte di numerose prese di posizione della giurisprudenza di merito di un diverso approdo qualificatorio, volto ad escludere la disciplina di favore del creditore fondiario nei casi in cui vi sia un superamento del limite di cui all’art. 38, comma 2, t.u.b., senza giungere, tuttavia, a conseguenze invalidanti.

Tale situazione, che si innesta anche su una difforme ricostruzione del fenomeno contenuta in Sez. 3, n. 17439/2019, già citata, ha infine portato all’adozione dell’ordinanza interlocutoria n. 4117, del 9 febbraio 2022, con la quale la Sezione prima civile, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, della questione ritenuta di massima di particolare importanza se, “in tema di credito fondiario, in caso di superamento del limite di finanziabilità ex art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 385 del 1993, il contratto debba considerarsi nullo, con possibilità, tuttavia, di conversione in ordinario finanziamento ipotecario ove ne sussistano i relativi presupposti, oppure se tale conseguenza non sia configurabile in assenza del carattere imperativo della norma violata”. Con l’ordinanza in parola, nella quale perspicuamente si rileva come l’accoglimento della tesi della nullità conduca, in effetti, al risultato, ritenuto forse paradossale, di pregiudicare ancor più quel valore della stabilità patrimoniale della banca che la norma intendeva proteggere, si sollecita il massimo organo di nomofilachia ad intervenire su un problema di interesse peculiare non solo dal punto di vista teorico (l’inserzione o meno di prescrizioni comportamentali nella struttura genetica dell’atto negoziale), ma anche per le sue importanti ricadute pratiche, sui settori delle esecuzioni forzate e delle procedure concorsuali.

Di poco successiva è quindi l’ordinanza interlocutoria n. 7509 dell’8 marzo 2022, emessa dalla Sezione terza civile, che, nel rinviare a nuova udienza la decisione di un ricorso, in attesa della pronuncia delle Sez. U, ha dettato importanti considerazioni sul tema, riprendendo gli spunti relativi alla tutela non invalidante già contenuti nella più volte citata Sez. 3, n. 17439/2019.

. Bibliografia

Montanari, La realizzazione dei crediti fondiari nel fallimento, in www.ilcaso.it, 2018, fasc. 4 settembre 2018, sez. 2;

Metafora, Mutuo fondiario e superamento del limite di finanziabilità: conferma dalla giurisprudenza di merito alla tesi della riqualificazione del mutuo come ordinario, in www.giustiziacivile.com, 2021, 5;

Sangiovanni, Superamento del limite di finanziabilità, nullità del mutuo fondiario e possibile conversione del contratto nullo, in Corr. Giuridico, 2020, 10, 1230.

  • consumatore
  • diritto bancario
  • diritti di obbligazioni
  • fallimento
  • diritto dei consumatori

CAPITOLO X

LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE

(di Fabio Antezza )

Sommario

1 Premessa. - 2 La ripetizione d’indebito tra condanna poi caducata, delegazione di pagamento e tutela del consumatore. - 3 La ripetizione d’indebito ed il riparto dell’onere probatorio, con particolare riferimento ai contratti bancari. - 4 La ripetizione dell’indebito e l’esecuzione forzata. - 5 L’indebito nell’assegno divorzile. - 6 L’indebito tributario e la giurisdizione ordinaria. - 7 Rapporti tra fallimento e ripetizione d’indebito. - 8 Azione di arricchimento senza causa: presupposti ed arricchimento “indiretto”. - 9 Arricchimento e adempimento. - 10 Arricchimento tra consumatore e fornitura di energia elettrica.

1. Premessa.

Nel corso del 2021 la S.C. ha ribadito oltre che chiarito principi in merito alla disciplina della ripetizione dell’indebito, con particolare riferimento all’errore nei rapporti con l’esecuzione forzata e con il fallimento.

In merito all’arricchimento senza causa, invece, sono stati ribaditi, nonché ulteriormente specificati, i principi inerenti l’esercizio della relativa azione oltre che i presupposti dell’arricchimento “indiretto”.

2. La ripetizione d’indebito tra condanna poi caducata, delegazione di pagamento e tutela del consumatore.

La disciplina della ripetizione dell’indebito di cui all’art. 2033 c.c. ha portata generale e si applica a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa (ex plurimis, Sez. L, n. 18266/2018, Lorito, Rv. 649965-01).

L’azione di restituzione delle somme pagate in base ad una pronuncia di condanna successivamente caducata non è, invece, riconducibile allo schema della ripetizione d’indebito perché si collega ad un’esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale e, dunque, non si presta a valutazioni sulla buona o mala fede dell’accipiens. Per ottenere la restituzione di quanto pagato, prosegue Sez. 3, n. 34011/2021, Rubino, Rv. 662956-01, è necessaria la formazione di un titolo restitutorio, il quale comprende ex lege, senza bisogno di una specifica domanda in tal senso e a prescindere anche da una sua espressa menzione nel dispositivo, il diritto del solvens di recuperare gli interessi legali, con decorrenza, ex art. 1282 c.c., dal giorno dell’avvenuto pagamento.

In caso di delegazione di pagamento titolata rispetto al rapporto di valuta, il delegato che per errore esegua una seconda volta il pagamento in favore del terzo ha il diritto di ripetere tale ultimo pagamento, costituente un indebito oggettivo, senza che, in senso contrario, possa rilevare l’accordo intervenuto tra delegante e terzo ai fini dell’imputazione del secondo pagamento a un diverso debito del primo nei confronti del beneficiario. Ciò, sia perché la ratifica per essere efficace deve avere per oggetto proprio il negozio compiuto dall’agente, individuato dalla sua causa (incorporata nello schema strutturale del negozio o impressa dalla destinazione funzionale data allo stesso negozio dal suo autore) sia perché, a norma dell’art. 1271, comma 3, c.c., dettato per la delegazione di debito, ma applicabile anche alla delegazione di pagamento, ove la delegazione sia titolata rispetto al rapporto di valuta, la ripetizione dell’indebito può essere esperita pure dal delegato (Sez. 3, n. 12885/2021, Graziosi, Rv. 661379-01; conf. Sez. 1, n. 02943/1997, Senofonte, Rv. 503504-01).

Sez. 3, n. 00261/2021, Scrima, Rv. 660213-01, infine, interviene in merito ai rapporti tra indebito e tutela del consumatore. Quest’ultimo, in particolare, non è tenuto, ai sensi dell’art. 57 del codice del consumo (nella specie, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 21 del 2014, venendo in rilievo un contratto concluso prima del 13 giugno 2014), ad alcuna prestazione corrispettiva in caso di fornitura di energia elettrica non richiesta, né il fornitore può agire nei suoi confronti a titolo di indebito o di arricchimento senza causa, ancorché il medesimo consumatore abbia tratto vantaggio dalla detta fornitura. Il legislatore ha, difatti, inteso far prevalere gli interessi della parte debole del contratto - con l’esonero dagli oneri conseguenti a pratiche commerciali scorrette - su quelli del professionista, dovendosi riconoscere al citato art. 57 pure una valenza latamente sanzionatoria.

3. La ripetizione d’indebito ed il riparto dell’onere probatorio, con particolare riferimento ai contratti bancari.

Sotto il versante probatorio, allorché una parte, provata la consegna di una somma di denaro all’altra, ne domandi la restituzione omettendo di dimostrare la pattuizione del relativo obbligo, e la controparte non deduca alcuna causa idonea a giustificare il suo diritto a trattenere la somma ricevuta, il rigetto per mancanza di prova della domanda restitutoria va argomentato con cautela e tenendo conto di tutte le circostanze del caso, onde accertare se la natura del rapporto e le circostanze del caso concreto giustifichino che l’accipiens trattenga senza causa il denaro ricevuto dal solvens. Nella specie, Sez. 2, n. 27327/2021, Criscuolo, Rv. 662545-01, ha riformato la sentenza osservando che, a fronte di un’espressa imputazione del versamento da parte dell’attrice, documentata dalla causale del bonifico, il giudizio in ordine alla carenza di prova dell’esistenza del rapporto di mutuo invocato dalla ricorrente non si era attenuto al criterio di particolare cautela valutativa, specie in presenza di un’allegazione difensiva della controparte che si fondava unicamente su documenti unilaterali predisposti in epoca successiva alla dazione della somma.

Proposta, però, domanda di ripetizione di indebito, l’attore ha l’onere di provare l’inesistenza di una giusta causa delle attribuzioni patrimoniali compiute in favore del convenuto, ma solo con riferimento ai rapporti specifici tra essi intercorsi e dedotti in giudizio, costituendo una prova diabolica esigere la dimostrazione dell’inesistenza di ogni e qualsivoglia causa di dazione tra solvens e accipiens (Sez. 6-3, n. 14428/2021, Rossetti, Rv. 661566-01; conf. Sez. 3, n. 01734/2011, Amendola, Rv. 616329-01).

La tematica in oggetto, nel corso del 2021, è altresì sviluppata con riferimento ai contratti bancari e, in particolare, a quello di conto corrente.

In materia di contratti bancari, qualora sia proposta dal correntista domanda di ripetizione delle somme illegittimamente addebitate, la deduzione difensiva della banca circa la pendenza del rapporto di conto corrente, attenendo a fatto impeditivo del diritto azionato, costituisce eccezione in senso lato rilevabile d’ufficio, sicché essa si sottrae al divieto di cui all’art. 345, comma 2, c.p.c., purché emergente da documenti o altre prove già ritualmente acquisiti al processo. Sez. 6-1, n. 04066/2021, Mercolino, Rv. 660585-01, proprio in applicazione del detto principio, ha cassato la sentenza impugnata, nella parte ove ha dichiarato l’inammissibilità della predetta eccezione in quanto non specificamente sollevata con l’atto d’appello.

Il correntista che agisca per ottenere la declaratoria di nullità di determinate clausole contrattuali, peraltro, ben può limitare la domanda di ripetizione alle sole somme percepite dalla banca in dipendenza di quelle clausole, riducendo la prova al periodo temporale rispetto al quale è stata formulata la domanda (Sez. 6-1, n. 05887/2021, Dolmetta, Rv. 660743-01).

Il correntista che agisca in giudizio per la ripetizione di quanto indebitamente trattenuto dalla banca non è comunque tenuto a documentare le singole rimesse suscettibili di restituzione soltanto mediante la produzione di tutti gli estratti conto periodici, ben potendo la prova dei movimenti desumersi aliunde, vale a dire attraverso le risultanze di altri mezzi di prova, che forniscano indicazioni certe e complete, anche con l’ausilio di una consulenza d’ufficio, da valutarsi con un accertamento in fatto insindacabile innanzi al giudice di legittimità (Sez. 6-1, n. 29190/2020, Lamorgese, Rv. 660146-01). Argomentano nei termini di cui innanzi, Sez. 1, n. 20621/2021, Fidanzia, Rv. 662223-01, la quale ha confermato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda del correntista, le cui scritture contabili - libro giornale e mastrini - erano state ritenute non idonee a provare l’effettiva movimentazione registrata in conto.

Nei contratti di conto corrente bancario cui acceda un’apertura di credito il meccanismo di imputazione del pagamento degli interessi, ex art. 1194, comma 2, c.c., trova, però, applicazione solo in presenza di un versamento avente funzione solutoria in quanto eseguito su un conto corrente avente un saldo passivo che ecceda i limiti dell’affidamento. Sicché, prosegue Sez. 1, n. 03857/2021, Fidanzia, Rv. 660509-01, non può mai configurarsi una siffatta imputazione, quando l’annotazione degli interessi avvenga sul conto corrente che presenti un passivo rientrante nei limiti dell’affidamento, avendo la relativa rimessa una mera funzione ripristinatoria della provvista.

4. La ripetizione dell’indebito e l’esecuzione forzata.

Il pagamento spontaneo eseguito in ottemperanza all’intimazione contenuta nel precetto o allo scopo di evitare l’espropriazione o anche dopo il pignoramento, ma prima della definizione del processo esecutivo con la distribuzione del ricavato dalla vendita dei beni, non osta all’esperimento, da parte del debitore, dell’azione di ripetizione di indebito contro il creditore per ottenere la restituzione di quanto riscosso. La preclusione all’azione ex art. 2033 c.c., prosegue Sez. 3, n. 15963/2021, Tatangelo, Rv. 661635-01, deriva, infatti, soltanto dalla chiusura della procedura con l’approvazione del progetto di distribuzione, la quale comporta l’intangibilità della concreta ed effettiva attribuzione delle somme ricavate, né assume rilievo, sul piano sostanziale, la possibilità di proporre il rimedio, pur sempre facoltativo, dell’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c.

In materia di rapporti tra ripetizione d’indebito ed esecuzione forzata la S.C. già in passato era intervenuta nel chiarire momenti essenziali del loro atteggiarsi.

Nel caso di azione esecutiva intrapresa in forza di un titolo giudiziale provvisoriamente esecutivo, in particolare, la caducazione dello stesso in epoca successiva alla fruttuosa conclusione dell’esecuzione forzata legittima il debitore che l’abbia subita a promuovere nei confronti del creditore procedente un autonomo giudizio per la ripetizione dell’indebito che, avendo ad oggetto un credito fondato su prova scritta, può assumere le forme del procedimento d’ingiunzione (Sez. 3, n. 14601/2020, D’Arrigo, Rv. 658322-01). A seguito della chiusura del procedimento di esecuzione forzata, è da escludere la possibilità di ottenere una modifica della distribuzione del ricavato della vendita mediante l’esperimento dell’azione di ripetizione di indebito da parte di un creditore nei confronti degli altri.

Come aveva chiarito Sez. 6-3, n. 04263/2019, Tatangelo, Rv. 653008-01, infatti, la definizione del procedimento esecutivo con l’approvazione del progetto di distribuzione senza contestazioni da parte dei creditori determina l’intangibilità della concreta ed effettiva distribuzione delle somme ricavate dalla vendita. Il provvedimento che chiude il procedimento esecutivo, pur non avendo, per la mancanza di contenuto decisorio, efficacia di giudicato, è, tuttavia, caratterizzato da una definitività insita nella chiusura di un procedimento esplicato col rispetto delle forme atte a salvaguardare gli interessi delle parti ed incompatibile con qualsiasi sua revocabilità, in presenza di un sistema di garanzie di legalità per la soluzione di eventuali contrasti, all’interno del processo esecutivo. Ne consegue (Sez. 3, n. 12127/2020, Cigna, Rv. 658174-01) che il soggetto espropriato non può esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata e sul presupposto dell’illegittimità per motivi sostanziali dell’esecuzione forzata, l’azione di ripetizione di indebito contro il creditore per ottenere la restituzione di quanto costui abbia riscosso, ma l’irretrattabilità del progetto di distribuzione della somma ricavata attiene al rapporto tra l’esecutato e il creditore e non già al diverso rapporto tra il creditore ed il suo difensore antistatario. In applicazione del principio la S.C. aveva cassato la decisione di merito che aveva respinto la domanda del creditore volta alla restituzione dei compensi del suo difensore, percepiti, con distrazione a suo favore, in un processo esecutivo conclusosi con l’approvazione del piano di riparto in cui le spettanze professionali erano state quantificate e liquidate.

Muovendo, infine, dall’assunto per il quale il provvedimento che chiude il procedimento esecutivo, pur non avendo, per la mancanza di contenuto decisorio, efficacia di giudicato, è, tuttavia, caratterizzato da una definitività insita nella chiusura di un procedimento, già Sez. 3, n. 20994/2018, Saija, Rv. 650324-01, aveva affermato l’impossibilità per l’espropriato di esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata, l’azione di ripetizione di indebito contro il creditore procedente (o intervenuto) per ottenere la restituzione di quanto costui abbia riscosso, sul presupposto dell’illegittimità per motivi sostanziali dell’esecuzione forzata (in senso conforme anche la precedente Sez. 3, n. 17371/2011, Barreca, Rv. 619121-01). Per converso, il soggetto espropriato che abbia fatto valere l’illegittimità dell’esecuzione mediante opposizione proposta nel corso del processo esecutivo, ma accolta successivamente alla chiusura dell’esecuzione, può esperire, sul presupposto di tale illegittimità, l’azione di ripetizione dell’indebito nei confronti del creditore al fine ottenere la restituzione di quanto dallo stesso riscosso (Sez. 3, n. 26927/2018, Rubino, Rv. 650910-01).

5. L’indebito nell’assegno divorzile.

Quando sia stato disposto un assegno divorzile dal giudice di primo grado, ma questa decisione sia stata revocata dal giudice d’appello in conseguenza dell’accertamento dell’insussistenza originaria dei presupposti per la sua attribuzione, l’ex coniuge che ne abbia beneficiato è tenuto alla restituzione di quanto indebitamente ricevuto, a far data da quando ha iniziato a percepire gli emolumenti, oltre agli interessi legali dai rispettivi pagamenti e fino all’effettivo soddisfo. In caso di somme indebitamente versate in forza di una sentenza provvisoriamente esecutiva successivamente riformata, difatti, non si applica la disciplina della ripetizione dell’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 c.c., spettando all’interessato il diritto ad essere reintegrato dall’accipiens dell’intera diminuzione patrimoniale subita, a prescindere dal suo stato soggettivo di buona o mala fede (Sez. 1, n. 28646/2021, Campese, Rv. 662906-01).

6. L’indebito tributario e la giurisdizione ordinaria.

Con riferimento alle controversie aventi ad oggetto richieste di rimborso delle imposte, la giurisdizione generale del giudice tributario può essere esclusa - a favore del giudice ordinario, configurandosi un’ordinaria azione di indebito oggettivo ex art. 2033 c.c. - nel solo caso in cui l’Amministrazione abbia formalmente riconosciuto il diritto al rimborso e la quantificazione della somma dovuta, sicché non residuino questioni circa l’esistenza dell’obbligazione tributaria, il quantum del rimborso o le procedure con le quali lo stesso deve essere effettuato (Sez. U, n. 21893/2009, Botta, Rv. 609515-01).

Nel solco interpretativo appena menzionato, Sez. U, n. 12150/2021, Perrino, Rv. 661139-01, ha cassato la decisione di merito che aveva ravvisato la giurisdizione ordinaria sull’azione proposta dal contribuente per il pagamento di un credito derivante da rimborso IVA, erroneamente ritenendo che il passaggio in giudicato della sentenza di annullamento della sospensione del rimborso implicasse il riconoscimento della sussistenza del diritto e la configurabilità di un indebito di diritto comune, mentre il provvedimento sospensivo costituisce soltanto un sostanziale e temporaneo diniego.

7. Rapporti tra fallimento e ripetizione d’indebito.

La curatela fallimentare che abbia concesso in locazione a terzi un immobile sulla base dell’accoglimento dell’azione revocatoria nei gradi di merito è tenuta - una volta venuto meno il titolo che aveva giustificato l’acquisizione del bene alla massa, per effetto dell’estinzione del giudizio, dichiarata per mancata riassunzione a seguito di cassazione con rinvio - a restituire al proprietario il bene e i frutti dal medesimo prodotti (nella specie, i canoni percepiti per la durata della locazione, atteso che l’obbligo restitutorio in questione è regolato dagli artt. 2033 e 2037 c.c. in tema di ripetizione di indebito: Sez. 3, n. 21371/2021, Moscarini, Rv. 662194-01).

In tema di dichiarazione di fallimento di una società di persone, i prelievi dalla cassa sociale da parte dei soci, che non trovino la loro esatta giustificazione in utili effettivamente conseguiti, concorrono a formare l’attivo patrimoniale, ai fini dell’art. 1, comma 2, lett. a), l. fall., trattandosi di somme che sono soggette ad azione di ripetizione dell’indebito da parte della società (Sez. 1, n. 00979/2021, Dolmetta, Rv. 660206-01).

8. Azione di arricchimento senza causa: presupposti ed arricchimento “indiretto”.

L’azione di ingiustificato arricchimento di cui all’art. 2041 c.c., per la sua natura complementare e sussidiaria, può essere proposta solo quando ricorrano due presupposti: a) la mancanza di un titolo specifico idoneo a far valere il diritto di credito; b) l’unicità del fatto causativo dell’impoverimento sussistente quando la prestazione resa dall’impoverito sia andata a vantaggio dell’arricchito e lo spostamento patrimoniale non risulti determinato da fatti distinti, incidenti su due situazioni diverse e in modo indipendente l’uno dall’altro, con conseguente esclusione dei casi di arricchimento cd. “indiretto”. In essi, difatti, l’arricchimento è realizzato da persona diversa rispetto a quella cui era destinata la prestazione dell’impoverito. Tuttavia, avendo l’azione di ingiustificato arricchimento uno scopo di equità, il suo esercizio deve ammettersi anche nel caso di arricchimento indiretto nei soli casi nei quali lo stesso sia stato realizzato dalla P.A., in conseguenza della prestazione resa dall’impoverito ad un ente pubblico, ovvero sia stato conseguito dal terzo a titolo gratuito (Sez. 3, n. 29672/2021, Scarano, Rv. 662731-01; conf. Sez. U, n. 24772/2008, Travaglino, Rv. 604830-01).

In ipotesi di arricchimento indiretto l’azione in esame è esperibile soltanto contro il terzo che abbia ottenuto l’indebita locupletazione nei confronti dell’istante in forza di rapporto gratuito (ovvero di fatto) con il soggetto obbligato verso il depauperato, resosi insolvente nei riguardi di quest’ultimo (Sez. 3, n. 29672/2021 Scarano, Rv. 662731-01; conf. Sez. 2, n. 10663/2015, Bursese, Rv. 635462-01). Dovendosi peraltro intendere l’”insolvenza” come mancato adempimento e non nel senso tecnico indicato dalla legge fallimentare.

In applicazione del principio, Sez. 6-3, n. 01708/2021, Cricenti, Rv. 660415-01, ha confermato il rigetto della domanda di arricchimento senza causa avanzata nei confronti di terzi, ritenendo che la dichiarazione di fallimento del soggetto obbligato non costituisse insolvenza nei termini indicati, potendo il creditore esercitare l’azione verso il fallito attraverso l’insinuazione al passivo fallimentare.

Sempre con riferimento ai rapporti con ente pubblico, nello specifico in tema di fornitura e servizi prestati in favore degli enti locali senza l’osservanza del procedimento contabile previsto per l’assunzione di obbligazioni vincolanti per l’ente, ai sensi dell’art. 23, comma 4, del d.l. n. 66 del 1989, il contraente privato fornitore non è legittimato a proporre l’azione diretta di indebito arricchimento verso l’ente pubblico per difetto del requisito della sussidiarietà. Può, invece, essere esercitata l’azione ex art. 2041 c.c. nei confronti dello stesso ente utendo iuribus dell’amministratore suo debitore, agendo in via surrogatoria ex art. 2900 c.c., contestualmente alla, ed indipendentemente dalla, iniziativa verso l’amministratore, onde assicurare e conservare le proprie ragioni quando il patrimonio di quest’ultimo non offra adeguate garanzie.

In tal caso, prosegue Sez. 1, n. 05665/2021, Lamorgese, Rv. 660732-01, il privato contraente ha l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento in correlazione con il depauperamento dell’amministratore, senza che l’ente possa opporre il mancato riconoscimento della utilitas, salva la possibilità per l’ente medesimo di dimostrare che l’arricchimento sia stato non voluto, non consapevole o imposto.

La sussistenza del requisito del depauperamento, quale ulteriore presupposto per l’esercizio dell’azione generale di arricchimento, richiede, invece, la dimostrazione che il convenuto non ha alcun titolo per giovarsi di quanto corrisponde alla perdita patrimoniale subita dall’istante senza la propria volontà e senza un’adeguata esplicita causa giuridica. Ne consegue che il diritto all’indennizzo non può essere riconosciuto se il depauperamento è giustificato da una ragione giuridica, come quando sia avvenuto per una spesa fatta dall’istante nel proprio esclusivo interesse, sia pure con indiretta utilità altrui (Sez. 1, n. 18099/2009, Ragonesi, Rv. 609425-01). Nel ribadire il detto principio, Sez. 3, n. 06827/2021, Scarano, Rv. 660908-01, ha confermato la sentenza di appello che, in riforma di quella di primo grado, aveva negato il diritto all’indennizzo preteso da una società per i lavori di adeguamento compiuti su un immobile, requisitole dal Comune, per consentirvi la continuazione dell’attività didattica, avuto riguardo alla circostanza che, pur non risultando formalizzato tra le parti alcun rapporto contrattuale, tuttavia era stata accertata, all’esito di CTU, la congruità del canone di locazione corrisposto dall’ente con riferimento alla nuova destinazione.

9. Arricchimento e adempimento.

La domanda di indennizzo per arricchimento senza causa integra, rispetto a quella di adempimento contrattuale originariamente formulata, una domanda nuova ed è, come tale, inammissibile se proposta per la prima volta in appello, ostandovi l’espresso divieto previsto dall’art. 345 c.p.c. (Sez. 6-1, n. 03058/2021, Iofrida, Rv. 660579-01; conf. Sez. 1, n. 21190/2016, Valitutti, Rv. 642053-02).

Nel processo introdotto mediante domanda di adempimento contrattuale è ammissibile, però, la domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento formulata, in via subordinata, con la prima memoria, ai sensi dell’art. 183, comma 6, c.p.c., qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa per incompatibilità a quella originariamente proposta (ex plurimis, Sez. U, n. 22404/2018, Scrima, Rv. 650451-01).

Nel ribadire il principio, Sez. 3, n. 03127/2021, Scarano, Rv. 660591-01, ha cassato la decisione di appello che aveva ritenuto inammissibile, in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la domanda ex art. 2041 c.c. avanzata, in via subordinata, con la memoria prevista dall’art. 183, comma 6, c.p.c., nei confronti di una ASL per il pagamento di somme relative ad attività di pronto soccorso, terapia intensiva e servizio di urgenza e emergenza medica (cd. SUEM).

10. Arricchimento tra consumatore e fornitura di energia elettrica.

Il consumatore non è tenuto, ai sensi dell’art. 57 del codice del consumo (nella specie, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 21 del 2014, venendo in rilievo un contratto concluso prima del 13 giugno 2014), ad alcuna prestazione corrispettiva in caso di fornitura di energia elettrica non richiesta, né il fornitore può agire nei suoi confronti a titolo di indebito o di arricchimento senza causa, ancorché il medesimo consumatore abbia tratto vantaggio dalla detta fornitura. Il legislatore ha, infatti, inteso fare prevalere gli interessi della parte debole del contratto - con l’esonero dagli oneri conseguenti a pratiche commerciali scorrette - su quelli del professionista, dovendosi riconoscere al citato art. 57 pure una valenza latamente sanzionatoria (Sez. 3, n. 00261/2021, Scrima, Rv. 660213-01).

  • circolazione stradale
  • responsabilità
  • responsabilità contrattuale
  • prescrizione dell'azione
  • danni e interessi
  • sicurezza degli edifici
  • responsabilità per i danni ambientali
  • sostanza pericolosa

CAPITOLO XI

LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE

(di Luigi La Battaglia, Laura Mancini(*) )

Sommario

1 L’ingiustizia del danno. - 2 La colpa. - 3 Le esimenti della responsabilità. - 4 Il nesso di causalità. - 5 Il concorso di colpa del danneggiato. - 6 La responsabilità solidale. - 7 Il danno patrimoniale. - 7.1 La determinazione del danno risarcibile. - 7.2 Il danno da ritardato adempimento dell’obbligazione risarcitoria. - 7.3 Allegazione e prova del danno patrimoniale. - 7.4 La prescrizione del credito risarcitorio. - 7.5 Il risarcimento in forma specifica. - 8 Il danno non patrimoniale. - 8.1 Nozione e caratteri del danno non patrimoniale. - 8.2 La prova del danno non patrimoniale. - 8.3 Il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale. - 8.4 Il danno non patrimoniale da lesione dei diritti della personalità. - 9 La liquidazione del danno non patrimoniale. - 9.1 La liquidazione del danno biologico. - 9.2 La liquidazione tabellare del danno da perdita del rapporto parentale. - 10 Le responsabilità speciali. - 10.1 Padroni e committenti (art. 2049 c.c.). - 10.2 Attività pericolose (art. 2050 c.c.). - 10.3 Cose in custodia (art. 2051 c.c.). - 10.4 Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 c.c.). - 10.5 Rovina di edificio (art. 2053 c.c.). - 10.6 Il danno da circolazione di veicoli (art. 2054 c.c.).

1. L’ingiustizia del danno.

L’ingiustizia del danno, quale requisito strutturale della fattispecie della responsabilità extracontrattuale, postula una lesione non iure – inferta, cioè, in assenza di una causa giustificativa – di un interesse riconosciuto meritevole di tutela dall’ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale (Sez. 3, n. 23170/2014, Vincenti, Rv. 633377-01; Sez. 3, n. 22508/2011, De Stefano, Rv. 620410-01; Sez. 3, n. 12282/2009, Spirito, Rv. 608431-01).

La giurisprudenza di legittimità ha, ormai da tempo, recepito l’interpretazione che scorge nell’art. 2043 c.c. una clausola generale capace di configurare la responsabilità extracontrattuale alla stregua di un sistema aperto, nel quale spetta al giudice selezionare gli interessi emergenti dalla dinamica dei rapporti sociali ed economici e stabilire, attraverso un giudizio di comparazione, se e con quale intensità l’ordinamento vi appresti tutela risarcitoria ovvero, comunque, li prenda in considerazione sotto altri profili, manifestando, in tal modo, un’esigenza di protezione (Sez. U, n. 00500/1999, Preden, Rv. 530553-01).

L’individuazione delle situazioni soggettive suscettibili di tutela risarcitoria non deve, dunque, arrestarsi al dato della qualificazione formale operata dal legislatore, rendendosi necessaria un’indagine sul concreto atteggiarsi dell’interesse sostanziale al quale detto riconoscimento si correla.

Ciò in quanto, come più volte evidenziato dalla Suprema Corte, “l’interesse effettivo che l’ordinamento intende proteggere è pur sempre l’interesse ad un bene della vita” (Sez. U, n. 00500/1999, Preden, Rv. 530553-01; Sez. 1, n. 12455/2008, Salvago, Rv. 603917-01; Sez. U, n. 21170/2011, Salvago, Rv. 619550-01).

Tale indicazione esegetica si è rivelata particolarmente utile nell’accertamento del danno derivante dall’esplicazione illegittima e colpevole della funzione amministrativa e, in particolare, del pregiudizio da lesione dell’interesse legittimo.

Secondo la nozione accolta dalla giurisprudenza di legittimità, l’interesse legittimo è la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell’attribuzione al titolare di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione dell’interesse al bene (Sez. U, n. 21170/2011, Salvago, Rv. 619550-01; Sez. 1, n. 12455/2008, Salvago, Rv. 603917-01). Pertanto, ciò che distingue tale situazione giuridica dal diritto soggettivo è soltanto il modo o la misura con cui l’interesse sostanziale ottiene protezione.

L’interesse legittimo non rileva, dunque, come situazione meramente processuale, quale titolo di legittimazione per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, del quale non sarebbe neppure ipotizzabile una lesione produttiva di danno patrimoniale, ma ha anche natura sostanziale, nel senso che si correla ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione) può concretizzare il danno (Sez. U, n. 00500/1999, Preden, Rv. 530553-01; Sez. U, n. 21170/2011, Salvago, Rv. 619550-01).

Su tali premesse sistematiche poggia l’assunto, che ha ricevuto conferma anche nell’annualità in rassegna, secondo il quale in tema di responsabilità della P.A. per l’esercizio illegittimo della funzione pubblica, il diritto del privato al risarcimento del danno va accertato in maniera diversa a seconda della natura dell’interesse legittimo leso: quando esso è oppositivo, occorre verificare se l’illegittima attività dell’Amministrazione abbia leso l’interesse alla conservazione di un bene o di una situazione di vantaggio, mentre, se l’interesse è pretensivo, concretandosi la lesione nel diniego o nella ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo, occorre valutare a mezzo di un giudizio prognostico la fondatezza o meno della richiesta della parte, onde stabilire se la medesima fosse titolare di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, o di una situazione che, secondo un criterio di normalità, era destinata ad un esito favorevole (Sez. 3, n. 21535/2021, Scarano, Rv. 662198-01).

Fuoriesce, invece, dal perimetro dell’esercizio discrezionale dei poteri autoritativi della P.A., assumendo rilevanza alla stregua del paradigma generale del neminem laedere, la realizzazione e il mantenimento di opere pubbliche dalle quali derivi un vulnus all’incolumità personale ovvero ai beni patrimoniali dei privati.

In tale prospettiva, sviluppando gli spunti ricostruttivi rinvenibili in Sez. 3, n. 5980/1998, Finocchiaro, Rv. 516497-01, Sez. 2, n. 08772/2021, Oliva, Rv. 660859-01, ha rilevato che i danni arrecati da tali attività ad un fondo, legittimano il proprietario di esso alla generale azione risarcitoria, ex art. 2043 c.c., eventualmente inclusiva dell’esborso per l’esecuzione di opere necessarie ad evitarne la reiterazione. In tale ipotesi, pertanto, non trova applicazione la disciplina di cui all’art. 913 c.c. che, viceversa, presuppone l’esistenza di una relazione di vicinitas tra i fondi, l’esecuzione di opere di sistemazione agraria o comunque di modifica dello stato dei luoghi in grado di incidere sul naturale scolo delle acque e la diretta derivazione, da dette opere, di un danno per uno dei due fondi.

In linea con una ricostruzione ampiamente condivisa, Sez. U, n. 14324/2021, Falaschi, Rv. 661286-01, ha ribadito che rientra nel paradigma aquiliano anche la controversia avente ad oggetto il risarcimento dei danni subiti da un privato che abbia fatto incolpevole affidamento su di un provvedimento amministrativo ampliativo della propria sfera giuridica, legittimamente annullato.

Le Sezioni Unite hanno precisato che il fatto lesivo che viene, nella specie, in rilievo rientra nella giurisdizione del giudice ordinario in quanto non comporta la lesione di un interesse legittimo pretensivo, bensì di un diritto soggettivo, avente ad oggetto la conservazione dell’integrità del patrimonio, pregiudicato dalle scelte compiute confidando sulla originaria legittimità del provvedimento amministrativo (licenza edilizia revocata, in sede di autotutela, a seguito dell’approvazione di un nuovo Piano Regolatore Generale) poi caducato.

Il riferimento alla tutela dell’integrità patrimoniale in sé considerata, evocando scopertamente un risalente orientamento incline a considerare risarcibile ogni alterazione patrimoniale, ancorché non mediata dalla lesione di una specifica situazione giuridica soggettiva, eziologicamente riconducibile ad un comportamento doloso o colposo (Sez. U, n. 14231/2020, Valitutti, Rv. 658117-01; Sez. U, n. 06885/2019, Rubino, Rv. 653276-01; Sez. U, n. 01654/2018, Bianchini, Rv. 647009-01), imprime alla nozione di ingiustizia del danno una significativa dilatazione semantica.

Lungo questa direttrice si pone anche la giurisprudenza in tema di responsabilità delle banche per abusiva concessione di credito, la quale, nell’annualità in rassegna, si è arricchita degli illuminanti spunti ricostruttivi offerti da Sez. 1, n. 18610/2021, Nazzicone, Rv. 661819-01.

La Prima Sezione civile ha chiarito che l’erogazione del credito che sia qualificabile come “abusiva”, in quanto effettuata, con dolo o colpa, ad un’impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economico-finanziaria ed in assenza di concrete prospettive di superamento della crisi, integra un illecito del soggetto finanziatore, per essere questi venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione, obbligando il medesimo al risarcimento del danno, ove ne discenda un aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell’attività di impresa.

Con specifico riguardo al profilo qui in esame, la citata pronuncia ha costruito il giudizio di ingiustizia del danno sulla lesione – sia pure qualificata dall’inosservanza di specifiche norme giuridiche – dell’integrità del patrimonio e, segnatamente, sulla “diminuita consistenza del patrimonio sociale” e, sul piano contabile, sull’”aggravamento delle perdite favorite dalla continuazione dell’attività d’impresa”.

2. La colpa.

Nell’anno in rassegna le pronunce in tema di colpa aquiliana hanno confermato la tendenza ad escludere che tale elemento soggettivo sia identificabile nel solo scostamento dal modello comportamentale imposto da regole di diligenza espresse o tratte dalla comune esperienza e a valorizzarne il momento dinamico del necessario adattamento, da parte dell’agente, alle peculiarità della situazione concreta.

In seno a tale prospettiva esegetica, Sez. 1, n. 18610/2021, Nazzicone, Rv. 661819-02, ha escluso la configurabilità di un’abusiva concessione di credito nel caso in cui una banca che, pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi di impresa, abbia assunto un rischio non irragionevole, operando nell’intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un’impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito a detti scopi.

Un approccio non dissimile si scorge in Sez. 1, n. 03630/2021, Mercolino, Rv. 660567-02, secondo la quale l’accertamento della responsabilità civile della p.a. da parte del giudice ordinario che del relativo giudizio sia investito, non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell’azione amministrativa in quanto attività di esecuzione volontaria di un atto amministrativo illegittimo e, quindi, non può limitarsi alla constatazione dell’illegittimità dell’atto, giacché ciò si risolverebbe in una inammissibile presunzione di responsabilità, ma comporta, invece, l’accertamento in concreto della colpa da ritenersi configurabile quando l’esecuzione dell’atto illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole proprie dell’azione amministrativa, desumibili sia dai principi costituzionali in punto di imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge ordinaria in punto di celerità, efficienza, efficacia e trasparenza, sia dai principi generali dell’ordinamento, in punto di ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza.

Coerente con tale impostazione è anche Sez. L, n. 00825/2021, Di Paolantonio, Rv. 660280-01, la quale – in relazione ad una vicenda in cui la vincitrice di un concorso pubblico, posposta, nelle procedure di assunzione, ad altri candidati collocatisi dietro di lei in graduatoria, aveva ottenuto l’assunzione solo dopo che il giudice amministrativo aveva ritenuto illegittimo l’operato della P.A., la quale non aveva tuttavia proceduto alla pronta instaurazione del rapporto a causa del sopravvenuto blocco delle assunzioni – ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso la colpa dell’amministrazione sulla base del solo presupposto della mancanza di una norma che espressamente le imponesse di definire le procedure successive all’approvazione della graduatoria nel rispetto dell’ordine fissato da quest’ultima, senza valutare se tale necessità non discendesse dai principi di imparzialità, buon andamento e trasparenza dell’azione amministrativa.

L’accertamento della colpa deve, dunque, includere la verifica della prevedibilità e dell’evitabilità, alla stregua delle conoscenze di cui l’agente doveva e poteva fare uso, dell’evento dannoso.

Di tale metodo prognostico si ha traccia in Sez. 3, n. 03130/2021, Rossetti, Rv. 660592-01, secondo la quale, in tema di risarcimento del danno derivante da illegittima segnalazione alla Centrale dei Rischi della Banca d’Italia, il giudice, per stabilire se una banca abbia correttamente o meno comunicato l’inadempimento di una obbligazione del cliente, non deve limitarsi a valutare ex post se, all’esito del giudizio tra tale banca e lo stesso cliente, le eccezioni da quest’ultimo frapposte all’adempimento dei propri obblighi si siano rivelate infondate, ma è tenuto a stabilire, con valutazione ex ante, se, al momento in cui il medesimo cliente ha rifiutato detto adempimento, i motivi del rifiuto apparissero oggettivamente non infondati e prospettati in buona fede, gravando l’onere della relativa prova su chi domanda il risarcimento.

Ancora, deve essere segnalata Sez. 1, n. 22496/2021, Iofrida, Rv. 662304-01, la quale, in tema di danno per mancato riconoscimento di paternità, ha precisato che l’illecito endofamiliare, attribuito al padre che abbia generato, ma non riconosciuto il figlio, presuppone la consapevolezza della procreazione che, pur non identificandosi con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, richiede comunque la maturata conoscenza dell’avvenuta procreazione, non evincibile tuttavia in via automatica dal fatto storico della sola consumazione di rapporti sessuali non protetti con la madre, ma anche da altri elementi rilevanti, specificatamente allegati e provati da chi agisce in giudizio.

In tema di colpa Sez. 6-3, n. 21145/2021, Positano, Rv. 661993-01, ha, poi, ribadito il principio, ormai consolidato (Sez. 3, n. 01566/2019, Pellecchia, Rv. 652686-01; Sez. 3, n. 18520/2018, Scarano, Rv. 649728-01), secondo il quale in caso di patologie conseguenti ad infezione da virus HBV, HIV e HCV, contratte a seguito di emotrasfusioni o di somministrazione di emoderivati, sussiste la responsabilità del Ministero della salute anche per le trasfusioni eseguite in epoca anteriore alla conoscenza scientifica di tali virus e all’apprestamento dei relativi test identificativi (risalenti, rispettivamente, agli anni 1978, 1985, 1988), atteso che già dalla fine degli anni ‘60 era noto il rischio di trasmissione di epatite virale ed era possibile la rilevazione (indiretta) dei virus, che della stessa costituiscono evoluzione o mutazione, mediante gli indicatori della funzionalità epatica, gravando pertanto sul Ministero della salute, in adempimento degli obblighi specifici di vigilanza e controllo posti da una pluralità di fonti normative speciali risalenti già all’anno 1958, l’obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni e gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazione della transaminasi.

Deve, infine, segnalarsi Sez. 2, n. 07027/2021, Criscuolo, Rv. 660749-02, la quale, in continuità con Sez. 3, n. 06296/2013, Ambrosio, Rv. 625507-01, ha rilevato che la responsabilità del proprietario di un fondo per i danni derivanti da attività di escavazione, ex art. 840 c.c., non opera in senso oggettivo, ma richiede una condotta colposa, sicché, nell’ipotesi in cui i lavori di escavazione siano affidati in appalto, è l’appaltatore ad essere, di regola, l’esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi nell’esecuzione dell’opera, salvo che non risulti accertato che il proprietario committente, avendo – in forza del contratto di appalto – la possibilità di impartire prescrizioni o di intervenire per richiedere il rispetto delle normative di sicurezza, se ne sia avvalso per imporre particolari modalità di esecuzione o particolari accorgimenti antinfortunistici che siano stati causa (diretta o indiretta) del sinistro, nel qual caso la responsabilità dell’appaltatore verso il terzo danneggiato può aggiungersi a quella del proprietario, ma non sostituirla o eliminarla.

3. Le esimenti della responsabilità.

Le pronunce che nel 2021 hanno affrontato il tema delle cause di giustificazione, riguardando prevalentemente le fattispecie di lesione dell’onore e della reputazione, hanno offerto nuove indicazioni esegetiche ai fini del bilanciamento giudiziale tra i predetti valori della persona e il diritto alla manifestazione del pensiero.

In materia di risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa, particolare interesse riveste Sez. 6-3, n. 39082/2021, Cricenti, Rv. 663347-01, la quale ha precisato che il requisito della verità della notizia assume diversa connotazione a seconda che l’articolo riporti il contenuto di atti giudiziari ovvero riferisca indiscrezioni tratte da indagini in corso, dal momento che, nel primo caso, è necessario che venga fedelmente riportato il contenuto della fonte, mentre nel secondo è sufficiente che le dette indiscrezioni effettivamente vi siano, indipendentemente dal loro grado di aderenza agli atti di indagine presupposti.

È, inoltre, necessario dar conto di Sez. 6-3, n. 38215/2021, Rossetti, Rv. 663339-01, per la quale il diritto di critica, che può essere esercitato da chiunque, quale estrinsecazione della libera manifestazione del pensiero, ha rango costituzionale al pari del diritto all’onore e alla reputazione, sul quale tuttavia prevale, scriminando l’illiceità dell’offesa, a condizione che siano rispettati i limiti della continenza verbale, della verità dei fatti attribuiti alla persona offesa e della sussistenza di un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti oggetto della critica.

Merita, infine, di essere segnalata Sez. 6-1, n. 22741/2021, Lamorgese, Rv. 662351-01, secondo la quale in tema di riservatezza, i limiti dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, che circoscrivono la possibilità di diffusione dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, comportano il dovere di evitare riferimenti alla vita privata dei congiunti del soggetto interessato dai detti fatti, se non aventi attinenza con la notizia principale e se del tutto privi di interesse pubblico.

4. Il nesso di causalità.

Nell’annualità in rassegna la riflessione della giurisprudenza di legittimità sul tema della causalità si è arricchito di nuovi significativi apporti, i quali hanno riguardato, in particolare, questioni riguardanti all’accertamento del nesso eziologico e alle concause.

Utili indicazioni ricostruttive sulla nozione di standard probatorio, quale parametro indicante il livello di prova necessario affinché un determinato enunciato possa ritenersi dimostrato, si traggono da Sez. 3, n. 26304/2021, Dell’Utri, Rv. 662534-01, la quale ha puntualizzato che, in tema di responsabilità civile, il criterio del “più probabile che non” costituisce il modello di ricostruzione del solo nesso di causalità – regolante, cioè, l’indagine sullo statuto epistemologico di un determinato rapporto tra fatti o eventi – mentre la valutazione del compendio probatorio (nella specie, con riferimento ad un determinato comportamento in tema di responsabilità medico-sanitaria) è informata al criterio della attendibilità – ovvero della più elevata idoneità rappresentativa e congruità logica degli elementi di prova assunti – ed è rimessa al discrezionale apprezzamento del giudice di merito, insindacabile, ove motivato e non abnorme, in sede di legittimità.

Con specifico riferimento alla verifica dell’eziologia dell’omissione, è stato precisato che, in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, ai fini dell’accertamento del nesso causale in caso di diagnosi tardiva – da compiersi secondo la regola del “più probabile che non” ovvero della “evidenza del probabile”, come pure delineata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza del 21 giugno 2017 in causa C-621/15 in tema di responsabilità da prodotto difettoso, in coerenza con il principio eurounitario della effettività della tutela giurisdizionale – occorre stabilire se il comportamento doveroso che l’agente avrebbe dovuto tenere sarebbe stato in grado di impedire o meno, l’evento lesivo, tenuto conto di tutte le risultanze del caso concreto nella loro irripetibile singolarità, giudizio da ancorarsi non esclusivamente alla determinazione quantitativo-statistica delle frequenze di classe di eventi (cd. probabilità quantitativa), ma anche all’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica).

In applicazione di tale principio, Sez. 3, n. 21530/2021, Vincenti, Rv. 662197-01, ha ritenuto immune da vizi la decisione di merito che, facendo corretta applicazione dell’enunciato principio, aveva fondato la responsabilità di una struttura sanitaria, per colpa dei medici ivi operanti, in relazione al decesso di una paziente derivato dal ritardo di un solo giorno con cui le era stata diagnosticata la cd. “sindrome di Lyell”, non soltanto sul dato statistico delle percentuali di sopravvivenza dei pazienti affetti da detta sindrome, oltre che sul giudizio controfattuale a fronte di una condotta omissiva, ma anche sulla scorta degli elementi concreti risultanti dalle espletate c.t.u. e dalle prove acquisite riguardo alla superficialità dell’anamnesi effettuata sin dal ricovero, da cui era derivata l’errata diagnosi e le conseguenti dimissioni della paziente, nonostante l’elevata temperatura corporea, per di più, previa somministrazione di un farmaco tale da abbatterne del 70% le probabilità di sopravvivenza.

Ancora, Sez. 1, n. 18584/2021, Tricomi L., Rv. 661816-01, ha ribadito che, in tema illecito aquiliano, applicati nella verifica del nesso causale tra la condotta illecita ed il danno i criteri posti dagli artt. 40 e 41 c.p., e fermo restando il diverso regime probatorio tra il processo penale, ove vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, e quello civile, in cui opera la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, lo standard di cd. certezza probabilistica in materia civile non può essere legato esclusivamente alla probabilità quantitativa della frequenza di un determinato evento, che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato, secondo la probabilità logica, nell’ambito degli elementi di conferma, e, nel contempo, nell’esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto.

Importanti puntualizzazioni sul tema delle concause si devono a Sez. 3, n. 19033/2021, Moscarini, Rv. 661748-01, la quale, nel ribadire che, in tema di responsabilità civile, non si può negare il nesso eziologico fra condotta e danno solo perché vi sono più cause possibili ed alternative, ha posto in evidenza come il giudice debba stabilire quale tra esse sia “più probabile che non”, in concreto ed in relazione alle altre, e, quindi, idonea a determinare in via autonoma il danno evento. Qualora tale accertamento non sia possibile, il problema del concorso delle cause trova, invece, soluzione nell’art. 41 c.p., in virtù del quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra dette cause e l’evento, essendo quest’ultimo riconducibile a tutte, tranne che si verifichi l’esclusiva efficienza causale di una di esse.

Sempre in materia di concorso di cause, Sez. L, n. 38123/2021, Tricomi I., Rv. 663010-01, ha dato continuità al principio, già espresso da Sez. L, n. 13954/2014, Amoroso, Rv. 631451-01, secondo il quale, in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, trova applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo che il nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni.

Un’interessante applicazione del regime delle concause alla responsabilità civile del magistrato si rinviene in Sez. 3, n. 04662/2021, Guizzi, Rv. 660805-01, per la quale la circostanza che, in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il creditore opposto abbia ottenuto la provvisoria esecuzione del provvedimento monitorio prestando dolosamente una fideiussione invalida non è idonea ad interrompere il nesso causale fra il danno subito dall’opponente – (per non essere riuscito a recuperare quanto pagato in conseguenza dell’avvenuta concessione della provvisoria esecuzione) e la condotta colposa del giudice, consistita nell’avere autorizzato siffatta provvisoria esecuzione nonostante la mancanza del requisito del fumus boni iuris, atteso che la condotta dolosa di altro soggetto, ove non si ponga come autonoma, eccezionale ed atipica rispetto alla serie causale già in atto, non è idonea ad interrompere il nesso causale con l’evento lesivo, potendo eventualmente assumere rilievo solo sul piano della selezione delle conseguenze dannose risarcibili.

5. Il concorso di colpa del danneggiato.

Sul principio espresso dall’art. 1227, comma 1, c.c., si è pronunciata Sez. 6-3, n. 21643/2021, Cricenti, Rv. 662375-01, evidenziando che, ai fini del riconoscimento della responsabilità dell’intermediario finanziario ex art. 31 del d.lgs. n. 58 del 1998, la condotta dell’investitore che, ancorché con esperienza nel settore, abbia consegnato in contanti al promotore finanziario, che agiva per conto di una SIM, una rilevante somma di denaro, a fini d’investimento, non rispettando i divieti di legge, ed abbia subito un danno patrimoniale a causa della condotta dolosa del promotore, condannato per truffa e appropriazione indebita, integra il concorso colposo del danneggiato nella condotta dolosa accertata penalmente, per aver agevolato quanto meno con consapevole acquiescenza, la produzione del danno, potendo trovare applicazione anche in questa ipotesi l’art. 1227 c.c.

Ancora, significative indicazioni ricostruttive si ricavano da Sez. 6-3, n. 34886/2021, Cirillo F.M., Rv. 663127-01, la quale, in tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia, ha affermato che la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione – anche ufficiosa – dell’art. 1227, comma 1, c.c., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro.

Per un’interessante applicazione del principio del concorso di colpa del danneggiato alla materia degli infortuni sul lavoro, va segnalata Sez. L, n. 25597/2021, Ponterio, Rv. 662272-01, a mente della quale, in tema di tutela delle condizioni di lavoro del lavoratore subordinato, il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al dipendente, sia quando ometta di adottare le misure protettive, comprese quelle esigibili in relazione al rischio derivante dalla condotta colposa del dipendente medesimo, sia quando, pur avendole adottate, non vigili affinché queste siano di fatto rispettate; ne consegue che, in tutte le ipotesi in cui vi sia inadempimento datoriale rispetto all’adozione di cautele, tipiche o atipiche, concretamente individuabili, nonché esigibili ex ante ed idonee ad impedire il verificarsi dell’evento dannoso, la condotta colposa del prestatore non può avere alcun effetto esimente e neppure può rilevare ai fini del concorso di colpa.

Per quel che riguarda, invece, la regola dell’esclusione del risarcimento del danno che il creditore avrebbe potuto evitare usando la normale diligenza, nell’annualità in rassegna ha ricevuto ulteriore conferma il principio per il quale l’art. 1227, comma 2, c.c. impone al danneggiato una condotta attiva e tale obbligo costituisce estrinsecazione del canone generale di buona fede ed è diretto a limitare le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso, intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza, a tal fine richiesta, soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici. In applicazione di tale principio, Sez. L, n. 22352/2021, Garri, Rv. 662111-01, ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, in relazione al risarcimento preteso da un ente pubblico nei confronti di un proprio dipendente per il danno patrimoniale corrispondente ai pagamenti relativi ad appalti di cui era stata accertata l’irregolarità, aveva ritenuto che la mancata proposizione, da parte dell’ente pubblico, dell’opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto nei suoi confronti dal creditore esulasse dall’ambito di applicazione dell’art. 1227, comma 2, c.c., senza, tuttavia, accertare in concreto se tale omissione fosse ricollegabile ad una condotta negligente dello stesso danneggiato e se vi fossero effettive possibilità di accoglimento.

6. La responsabilità solidale.

In continuità con una tendenza ormai consolidata, la giurisprudenza dell’annualità in rassegna ha riaffermato il principio secondo il quale, affinché possa ritenersi configurabile la responsabilità solidale degli autori dell’illecito ai sensi dell’art. 2055 c.c., è necessario che un medesimo danno sia conseguenza delle azioni od omissioni imputabili a più soggetti, anche tra loro indipendenti, ma insieme concorrenti nella sua produzione, mentre la regola enunciata dal secondo comma del medesimo articolo trova applicazione nei soli rapporti interni tra corresponsabili, operando una ripartizione che tiene conto delle rispettive quote di responsabilità (Sez. 3, n. 12957/2021, Fiecconi, Rv. 661390-02).

Nel solco delle considerazioni espresse da Sez. 3, n. 20192/2014, Rubino, Rv. 632978-01, Sez. 6-2, n. 01842/2021, Dongiacomo, Rv. 660322-01, ha ribadito che l’unicità del fatto dannoso richiesta dall’art. 2055 c.c. ai fini della configurabilità della responsabilità solidale degli autori dell’illecito va intesa in senso non assoluto, ma relativo, in coerenza con la funzione propria di tale istituto di rafforzare la garanzia del danneggiato, sicché ricorre tale responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni od omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, e anche diversi, sempre che le singole azioni od omissioni, legate da un vincolo di interdipendenza, abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del medesimo evento di danno. Ne consegue che il giudice, ove il fatto illecito fonte di danno si articoli in una pluralità di azioni od omissioni poste in essere da più soggetti, è tenuto a verificare, dandone conto in motivazione, se, alla luce del criterio predetto, ricorra un unico fatto dannoso, ovvero non si tratti, anche in parte, di fatti autonomi e scindibili che abbiano, a loro volta, prodotto danni distinti, dei quali può essere chiamato a rispondere solo chi, con la sua azione od omissione, vi abbia concorso, in forza del principio secondo cui ognuno risponde del solo evento di danno rispetto al quale la propria condotta abbia operato come causa efficiente ponendosi quale suo antecedente causale necessario.

Un’interessante applicazione del principio di corresponsabilità dei danneggianti a diverso titolo nella produzione dell’evento lesivo si deve a Sez. 1, n. 18610/2021, Nazzicone, Rv. 661819-04, secondo la quale la responsabilità della banca, in caso di abusiva concessione del credito all’impresa in stato di difficoltà economico-finanziaria, può sussistere in concorso con quella degli organi sociali di cui all’art. 146 l. fall., in via di solidarietà passiva ai sensi dell’art. 2055 c.c., quali fattori causativi del medesimo danno, senza che, per altro, sia necessario l’esercizio congiunto delle azioni verso gli organi sociali e verso il finanziatore, trattandosi di litisconsorzio facoltativo.

Ancora, sul tema della responsabilità per il danno conseguente ad un evento riconducibile, sotto il profilo causale, a più soggetti, Sez. L, n. 11116/2021, Pagetta, Rv. 661134-01, ha precisato che questi ultimi, quale che sia il titolo (contrattuale o extracontrattuale) per il quale siano chiamati a rispondere, sono solidalmente responsabili nei confronti della vittima, la quale può, conseguentemente, pretendere l’intero risarcimento da ciascuno di essi, indipendentemente dalla misura del relativo apporto causale nella determinazione dell’evento. Nella specie, relativa all’infortunio occorso al dipendente di un’impresa appaltatrice di lavori di facchinaggio, per essere caduto, mentre era intento a sistemare della merce, da un ballatoio dell’altezza di circa tre metri posto all’interno del magazzino della società committente, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che, riconosciutane la responsabilità per violazione delle prescrizioni antinfortunistiche di cui all’art. 26, comma 4, del d.lgs. n. 81 del 2008, aveva condannato la committente, in solido con il socio illimitatamente responsabile, al risarcimento dell’intero danno subito dal lavoratore, pur avendo accertato il concorso di responsabilità di un altro dipendente nella produzione del fatto lesivo.

Un’interessante applicazione del principio di equivalenza delle concause alla responsabilità contrattuale, si rinviene, infine, in Sez. L, n. 24405/2021, Boghetich, Rv. 662109-01, secondo la quale, quando un medesimo danno è provocato da più soggetti, per l’inadempimento di contratti diversi, intercorsi rispettivamente tra ciascuno di essi e il danneggiato, tali soggetti debbono essere considerati corresponsabili in solido, non tanto sulla base dell’estensione alla responsabilità contrattuale dell’art. 2055 c.c., dettato per la responsabilità extracontrattuale, quanto perché, sia in tema di responsabilità contrattuale che di responsabilità extracontrattuale, se un unico evento dannoso è imputabile a più persone, al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell’obbligo risarcitorio è sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso di causalità ed il concorso di più cause efficienti nella produzione dell’evento (dei quali, del resto, l’art. 2055 costituisce un’esplicitazione), che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrlo.

7. Il danno patrimoniale.

7.1. La determinazione del danno risarcibile.

Nella produzione giurisprudenziale del 2021, le decisioni in tema di danno patrimoniale, sviluppando indicazioni esegetiche ormai univoche e probabilmente destinate a perpetuarsi, hanno continuato ad applicare, ai fini dell’accertamento del pregiudizio in esame, il principio di stretta correlazione tra riparazione pecuniaria e perdita effettivamente subita.

Esemplari di tale orientamento sono le pronunce in materia di compensatio lucri cum damno, tra le quali merita, innanzitutto, di essere menzionata Sez. 3, n. 09380/2021, Olivieri, Rv. 661073-02, da cui è puntualizzato che, in tema di assicurazione sulla vita, ove l’evento che concreta la realizzazione del rischio assicurato costituisca altresì la conseguenza del fatto illecito di un terzo, l’indennità assicurativa si cumula con il risarcimento, sottraendosi alla regola della compensatio lucri cum damno, perché si è di fronte ad una forma di risparmio posta in essere dall’assicurato sopportando l’onere dei premi, e l’indennità, vera e propria contropartita di quei premi, svolge una funzione diversa da quella risarcitoria ed è corrisposta per un interesse che non è quello di beneficiare il danneggiante.

Sullo stesso tema Sez. 6-3, n. 08866/2021, Cricenti, Rv. 660994-01, ha affermato che nel giudizio promosso nei confronti del Ministero della salute per il risarcimento del danno conseguente al contagio a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, l’indennizzo di cui alla l. n. 210 del 1992 può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno (“compensatio lucri cum damno”) solo se sia stato effettivamente versato o, comunque, sia determinato nel suo preciso ammontare o determinabile in base a specifici dati della cui prova è onerata la parte che eccepisce il lucrum; pertanto la detrazione non è limitata alle somme percepite al momento della pronuncia ma concerne anche le somme da percepire in futuro, purché riconosciute e dunque liquidate o determinabili.

La regola della necessaria derivazione causale del danno conseguenza dall’evento lesivo ha trovato applicazione anche in Sez. 1, n. 21833/2021, Nazzicone, Rv. 661928-01, la quale, in tema di diritto d’autore, ha affermato che il criterio della retroversione degli utili, anche ove più favorevole al danneggiato, resta nondimeno ancorato al principio racchiuso nell’art. 1223 c.c. Ne consegue che la somma, così come accertata quale ricavo per lo sfruttamento dell’opera realizzato dal responsabile, deve essere depurata, da un lato, dei costi sopportati dal medesimo, il quale ha l’onere di fornire, ai fini dello scomputo, elementi concreti di calcolo desumibili dai bilanci, dalle scritture contabili o dai contratti conclusi con i terzi, e, dall’altro, dall’autonomo contributo al successo dell’opera, così come realizzata e diffusa sul mercato dall’autore dell’illecito, per quanto tale successo dipenda dal lancio, propiziato dalla notorietà dell’interprete e dalle concrete capacità esecutive ed evocative del medesimo, tali da suscitare l’interesse del pubblico.

Dalle medesime premesse sistematiche muove Sez. 6-3, n. 18795/2021, Guizzi, Rv. 661913-01, la quale, in materia di liquidazione equitativa del danno patrimoniale, ha precisato che tale operazione, anche nella sua forma cd. “pura”, consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, sicché, pur nell’esercizio di un potere di carattere discrezionale, il giudice è chiamato a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito ad ognuno di essi, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento. Ne consegue che, allorché non siano indicate le ragioni dell’operato apprezzamento e non siano richiamati gli specifici criteri utilizzati nella liquidazione, la sentenza incorre sia nel vizio di nullità per difetto di motivazione (indebitamente ridotta al disotto del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost.) sia nel vizio di violazione dell’art. 1226 c.c.

Nella medesima prospettiva Sez. 2, n. 31251/2021, Scarpa, Rv. 662746-02, ha precisato che il danno da perdita di guadagno di un’attività commerciale, quando la dimostrazione del suo preciso ammontare non sia possibile o sia notevolmente difficile, può essere quantificato in via equitativa, purché l’attore assolva all’onere di fornire elementi di natura contabile o fiscale attestanti, indicativamente, la consistenza e la redditività, il fatturato e gli utili realizzati negli anni precedenti, l’incidenza del pagamento del canone e degli oneri connessi alla locazione.

7.2. Il danno da ritardato adempimento dell’obbligazione risarcitoria.

Per quel che riguarda il danno da ritardato adempimento dell’obbligazione risarcitoria, nella giurisprudenza dell’annualità in rassegna è riaffiorata la contrapposizione tra l’impostazione tradizionale (per la quale si veda, ex aliis, Sez. 1, n. 04028/2017, Campanile, Rv. 644309-01), incline ad intravedere negli interessi compensativi una componente indefettibile del risarcimento del danno, e la più recente tendenza che, anche con riferimento al pregiudizio in esame, ripudia il ricorso ad automatismi liquidatori, per privilegiare l’impostazione che reputa risarcibili le sole conseguenze dannose che siano state oggetto di specifica allegazione e prova (ex multis, Sez. 3, n. 18564/2018, Scoditti, Rv. 649736-01; Sez. 3, n. 07267/2018, Iannello, Rv. 648301-01).

Nel primo orientamento si inscrive Sez. 2, n. 39376/2021, Dongiacomo, Rv. 663173-01, secondo la quale gli interessi “compensativi” (o risarcitori) sono dovuti dal debitore in caso di credito al risarcimento del danno extracontrattuale sulle somme liquidate a tale titolo, con decorrenza dalla maturazione del diritto – e cioè dal momento del fatto illecito – e fino al passaggio in giudicato della sentenza che decide sulla loro liquidazione, in funzione compensativa del pregiudizio subito dal creditore per il tardivo conseguimento della somma corrispondente all’equivalente pecuniario dei danni subiti, dei quali, quindi, costituiscono, al pari della rivalutazione monetaria, una componente, sicché possono essere riconosciuti anche d’ufficio, senza che occorra alcuna specifica richiesta della parte interessata, comprendendo la domanda della parte creditrice relativa al capitale anche quella per gli interessi.

Coerente con l’approccio causale è, invece, Sez. 6-L, n. 36878/2021, Amendola F., Rv. 663090-01, la quale, in continuità con Sez. 3, n. 22607/2016, Cirillo F.M., Rv. 642965-01, ha ribadito che l’obbligazione risarcitoria da illecito aquiliano costituisce un debito di valore, rispetto al quale gli interessi “compensativi” valgono a reintegrare il pregiudizio derivante dalla mancata disponibilità della somma equivalente al danno subito nel tempo intercorso tra l’evento lesivo e la liquidazione; la relativa determinazione non è, peraltro, automatica né presunta iuris et de iure, occorrendo che il danneggiato provi, anche in via presuntiva, il mancato guadagno derivatogli dal ritardato pagamento.

In termini non dissimili si è espressa Sez. 6-2, n. 36659/2021, Fortunato, Rv. 663083-01, per la quale, in tema di obbligazioni pecuniarie, gli interessi – contrariamente a quanto avviene nell’ipotesi di somma di danaro dovuta a titolo di risarcimento del danno, di cui integrano una componente necessaria – hanno fondamento autonomo rispetto al debito cui accedono e, pertanto, corrispettivi, compensativi o moratori che siano, possono essere attribuiti, in applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., soltanto su espressa domanda della parte. Ove questa non specifichi, tuttavia, la natura degli accessori richiesti, si presumono domandati gli interessi corrispettivi – dovuti indipendentemente dalla mora e dall’inadempimento, essendo fondati su presupposti diversi da quelli che giustificano l’attribuzione degli interessi di mora – con conseguente tardività della domanda di attribuzione degli interessi moratori formulata solo in appello.

Per quanto concerne, infine, il tema della rivalutazione monetaria dell’obbligazione risarcitoria, Sez. 1, n. 06711/2021, Iofrida, Rv. 660829-01, in coerenza con le enunciazioni rinvenibili in Sez. 3, n. 13225/2016, Olivieri, Rv. 640418-01, ha affermato che, tale operazione è eseguibile anche d’ufficio, sempre che non si siano verificate preclusioni, con la conseguenza che la richiesta di rivalutazione non costituisce domanda nuova, in quanto con essa il creditore tende a conseguire, attraverso una aestimatio che tenga conto dell’effettivo valore della moneta, lo stesso petitum originario. Pertanto, essa può essere formulata in qualsiasi momento del giudizio di primo grado o di appello e, quindi, anche in sede di precisazione delle conclusioni o nella comparsa conclusionale d’appello, salvo che non si sia verificato un giudicato interno, come nel caso in cui la rivalutazione sia stata espressamente negata dal giudice di primo grado e il danneggiato abbia omesso di impugnare questo capo della decisione.

7.3. Allegazione e prova del danno patrimoniale.

In tema di prova del danno patrimoniale, anche nell’annualità in rassegna è prevalso l’orientamento che, in linea con le indicazioni esegetiche offerte da Sez. U, n. 26972/2008, Preden, Rv. 605489-01, ripudia la categoria concettuale del danno patrimoniale in re ipsa, sul presupposto che l’obbligazione risarcitoria non insorge in seguito alla mera violazione dell’interesse protetto dall’ordinamento, ma soltanto in ragione delle conseguenze pregiudizievoli eventualmente prodottesi come effetto di tale violazione; conseguenze che, riguardate sul piano degli accadimenti fenomenici, implicano un evento ulteriore ed ontologicamente apprezzabile rispetto a quello determinativo della violazione del diritto (ex multis, Sez. 3, n. 07280/2021, Guizzi, Rv. 660912-01; Sez. 3, n. 27126/2021, Scrima, Rv. 662412-01; Sez. 3, n. 26331/2021, Dell’Utri, Rv. 662536-01).

In questa prospettiva, deve essere, innanzitutto, segnalata Sez. 3, n. 14268/2021, Moscarini, Rv. 661551-02, la quale, sviluppando le argomentazioni rinvenibili in Sez. 3, n. 11203/2019, Olivieri, Rv. 653590-01, ha precisato che, in caso di occupazione illegittima di un immobile il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno con l’evento dannoso ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, ponendosi così in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite (n. 26972 del 2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore intervento nomofilattico (n. 16601 del 2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost.; ne consegue che il danno da occupazione sine titulo, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dall’allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto.

Ancora, in termini non dissimili si è espressa Sez. 6-2, n. 21649/2021, Giannaccari, Rv. 661953-01, a mente della quale, pur quando non rimanga integrato un danno biologico, non risultando provato alcuno stato di malattia, la lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria casa di abitazione, tutelato anche dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani, nonché del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, integra una lesione che non costituisce un danno in re ipsa, bensì un danno conseguenza e comporta un pregiudizio ristorabile in termini di danno non patrimoniale. In applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto dovuta la riparazione del pregiudizio del diritto al riposo, sofferto dalle parti lese in conseguenza delle immissioni sonore – in particolare notturne – dipendenti dall’installazione di un nuovo bagno in un appartamento contiguo, siccome ridondante sulla qualità della vita e, conseguentemente, sul diritto alla salute costituzionalmente garantito.

Ancora, in materia di danno possessorio, Sez. 2, n. 31642/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 662863-01, ha chiarito che lo spogliato del possesso, che agisca per conseguire il risarcimento dei danni, è soggetto al normale onere della prova in tema di responsabilità per fatto illecito. Pertanto, qualora non abbia provato il pregiudizio sofferto, non può emettersi, in suo favore, condanna al risarcimento con liquidazione equitativa dei danni.

Si discosta, invece, dall’impostazione accolta dalle pronunce appena richiamate Sez. 1, n. 39763/2021, Scotti, Rv. 663427-01, per la quale in tema di diritto d’autore, la violazione del diritto di esclusiva che spetta al suo titolare costituisce danno in re ipsa, senza che incomba sul danneggiato altra prova del lucro cessante che quella della sua estensione, a meno che l’autore della violazione fornisca la dimostrazione della insussistenza, nel caso concreto, di danni risarcibili, e tale pregiudizio è suscettibile di liquidazione in via forfettaria con il criterio del prezzo del consenso di cui all’art. 158, comma 2, terzo periodo, della l. n. 633 del 1941, che costituisce la soglia minima di ristoro.

In posizione intermedia si sono poste le decisioni per le quali, in alcune fattispecie, il danno è oggetto di una presunzione relativa.

Sez. 6-2, n. 00039/2021, Criscuolo, Rv. 660183-03, in continuità con Sez. 3, 16670/2016, Tatangelo, Rv. 641485-01, ha rilevato che, nel caso di occupazione illegittima di un immobile, il danno subito dal proprietario, essendo collegato all’indisponibilità di un bene normalmente fruttifero, è oggetto di una presunzione relativa, che onera l’occupante della prova contraria dell’anomala infruttuosità di quello specifico immobile.

In termini non dissimili si è espressa Sez. 1, n. 24635/2021, Caiazzo, Rv. 662393-01, precisando che in tema di risarcimento del danno cagionato dalla contraffazione del marchio, l’art. 125, comma 2, del d.lgs. n. 30 del 2005, nella parte in cui consente la liquidazione del lucro cessante in base al “giusto prezzo del consenso” (pari al canone che il contraffattore avrebbe pagato se avesse avuto una regolare licenza), introduce una tecnica di semplificazione probatoria, riferita all’ammontare del danno, che non esonera dalla dimostrazione dell’esistenza dello stesso, anche mediante indizi e presunzioni. In applicazione del principio, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che non aveva liquidato alla vittima della contraffazione alcun danno da lucro cessante, in mancanza della prova di un calo delle vendite dei prodotti o, comunque, di un trend negativo della loro commercializzazione.

7.4. La prescrizione del credito risarcitorio.

Nell’annualità in rassegna utili apporti ricostruttivi sono stati offerti anche dalle pronunce in tema di prescrizione del credito risarcitorio.

La Corte di cassazione ha, innanzitutto, affermato che il danno derivante dall’occupazione sine titulo di un alloggio, per il quale è scaduto il termine di efficacia del provvedimento di requisizione amministrativa, ha natura di illecito permanente, dando luogo al ripetersi di fatti illeciti, connessi alla perdita dei frutti naturali dell’immobile per il periodo di illegittima occupazione, con riferimento a ciascun periodo in relazione al quale si determina la perdita di detti frutti, con la conseguenza che in ogni momento sorge per il proprietario il diritto al relativo risarcimento e nello stesso tempo decorre il relativo termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 2947 c.c. (Sez. 1, n. 26592/2021, Pazzi, Rv. 662398-01).

Per Sez. 6-3, n. 21404/2021, Guizzi, Rv. 662040-03, l’art. 2947, comma 3, c.c., nel far coincidere il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno con quello stabilito dalla legge penale per il reato, si riferisce a tutti i possibili soggetti passivi della pretesa risarcitoria e si applica, perciò, non solo all’azione civile esperibile contro la persona penalmente imputabile, ma anche a quella intentata contro coloro che sono tenuti al risarcimento a titolo di responsabilità indiretta (nella specie, contro un ente ospedaliero per fatto illecito di un medico dipendente).

Occorre, infine dar conto di Sez. U, n. 02146/2021, Graziosi, Rv. 660290-01, per la quale il termine di prescrizione del diritto al risarcimento preteso, nei confronti del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, dai soggetti danneggiati dall’esondazione di un fiume decorre dal giorno in cui gli stessi hanno avuto la conoscenza (o la conoscibilità) tecnico-scientifica dell’incidenza causale delle carenze di progettazione e di manutenzione delle opere idrauliche. Incorre, pertanto, in un errore di sussunzione (e, dunque, nella falsa applicazione dell’art. 2935 c.c.) il giudice di merito che, ai fini della determinazione della decorrenza del termine di prescrizione, ritenga tale conoscenza conseguita, da parte del danneggiato, in base alla mera percezione – inidonea a rendere concretamente esercitabile il diritto in mancanza di una specifica indagine tecnico-scientifica volta a identificare il rapporto causale – dell’episodio di natura meteorologica determinante l’esondazione. Nella specie, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, la quale – affermando che i danneggiati avrebbero potuto immediatamente percepire, con la normale diligenza, i difetti delle opere idrauliche e il nesso di causalità con i danni subiti – aveva fatto coincidere il dies a quo del termine di prescrizione con l’evento alluvionale, durato tre giorni.

7.5. Il risarcimento in forma specifica.

Nel 2021 la giurisprudenza in tema di risarcimento in forma specifica si è soffermata sulla dimensione processuale dell’istituto, indagando, in particolare, le ricadute applicative che conseguono all’esercizio giudiziale del rimedio ex art. 2058 c.c.

Per Sez. 3, n. 28030/2021, Scrima, Rv. 662519-01, poiché il risarcimento del danno in forma specifica non esaurisce in sé, di regola, tutte le possibili conseguenze dannose del fatto lesivo - ed, in particolare, quelle prodottesi prima che la riduzione in pristino sia materialmente eseguita ovvero quelle diverse residuate nonostante tale riduzione in pristino -, il fatto che il giudice abbia condannato i corresponsabili, a titolo di risarcimento del danno, al pagamento delle somme - indicate dall’ausiliario - al fine della riduzione in pristino, non osta, anche in difetto di prova di un concreto danno ulteriore, in aggiunta a quello risarcibile in forma specifica, alla pronuncia di una condanna generica al risarcimento del danno ex art. 278 c.p.c. (che, nel caso di specie, era stata proposta) essendo sufficiente, a tal fine, l’accertamento della potenziale ulteriore dannosità del fatto lesivo.

L’attribuzione al danneggiato del risarcimento per equivalente, invece della richiesta reintegrazione in forma specifica, non viola, ad avviso di Sez. 2, n. 11438/2021, Carrato, Rv. 661094-01, il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, perché il risarcimento per equivalente, che il giudice del merito può disporre anche d’ufficio, nell’esercizio del suo potere discrezionale, costituisce un minus rispetto alla reintegrazione in forma specifica, con la conseguenza che la relativa richiesta è implicita nella domanda giudiziale di reintegrazione in forma specifica; per contro, non è consentito al giudice, senza violare l’art. 112 c.p.c., ove sia stato richiesto il risarcimento per equivalente, disporre la reintegrazione in forma specifica, non compresa, neppure per implicito, in quella domanda così proposta.

8. Il danno non patrimoniale.

8.1. Nozione e caratteri del danno non patrimoniale.

Secondo l’insegnamento di Sez. U., n. 26972/2008, Preden, Rv. 605493-01, la tipizzazione delle fattispecie di danno non patrimoniale, riconducibile ai “casi previsti dalla legge” di cui all’art. 2059 c.c., è triplice, rimontando alla (astratta) ricorrenza del fatto-reato (art. 185 c.p.); alla previsione espressa della risarcibilità di tale tipologia di pregiudizio, da parte della legge ordinaria; alla ricorrenza della lesione di interessi inviolabili della persona costituzionalmente garantiti (direttamente menzionati nella Carta fondamentale o tratti dall’interprete nell’alveo dell’art. 2 Cost.).

Con riguardo alla prima categoria di fattispecie, nell’annualità in rassegna si è espressa, in tema di risarcimento del danno da diffamazione, Sez. 3, n. 03785/2021, Fiecconi, Rv. 660393-01, secondo cui il requisito della comunicazione con più persone può essere ravvisato nel caso in cui le frasi offensive siano pronunciate alla presenza di un adulto e di minori in tenera età, qualora questi ultimi, pur non essendo in grado di cogliere lo specifico significato delle parole usate, ne possano cogliere la generica portata lesiva, tanto da rimanerne turbati o divenire a loro volta potenziali strumenti di propagazione dei contenuti diffamatori. Riguarda il danno non patrimoniale da reato anche Sez. 3, n. 39442/2021, Scarano, Rv. 663437-01, la quale, sotto il profilo processuale, ha affermato che, a fronte della generica richiesta, nell’atto di citazione, di risarcimento dei danni conseguenti alla commissione di un fatto di reato, non integra mutatio libelli (ma semplice emendatio) la specificazione della domanda con riferimento al “danno morale”, effettuata nella memoria ex art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c.

Per quel che riguarda i casi previsti dalla legge ordinaria, si può richiamare il (previgente) art. 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 (c.d. Testo unico privacy), ai termini del quale - secondo Sez. 1, n. 11020/2021, Fidanzia, Rv. 661185-01 - risponde dei danni determinati dall’illecita divulgazione di dati personali chiunque con la propria condotta li abbia provocati, indipendentemente dalla qualifica rivestita, di titolare o di responsabile del trattamento.

Il più nutrito gruppo di decisioni, nell’anno 2021, riguarda la terza tipologia di fattispecie, vale a dire quella in cui l’evento lesivo è connotato dall’ingiustizia costituzionalmente qualificata. Oltre alle pronunce che si passeranno in rassegna, più in dettaglio, nei paragrafi seguenti, meritano di essere segnalate Sez. L, n. 31182/2021, Lorito, Rv. 662993-01, che porta in esponente la dignità professionale del lavoratore, la cui violazione, da parte del datore di lavoro che lo lasci in condizione di forzata inattività (anche senza uno specifico intento persecutorio), determina un pregiudizio incidente sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, indipendentemente da qualsivoglia ripercussione sulla retribuzione; e Sez. U, n. 20819/2021, Tricomi I., Rv. 661868-03, che, con riguardo all’effetto discriminatorio correlato alla clausola di un contratto di lavoro tendente ad inibire ogni azione sindacale del lavoratore e ogni rapporto del datore di lavoro con organizzazioni sindacali, ha sancito la risarcibilità del danno non patrimoniale invocato, ex art. 5 del d.lgs. n. 216 del 2003, da un’organizzazione sindacale che agisca iure proprio a tutela di interessi omogenei individuali di rilevanza generale, sottolineando come il risarcimento si caratterizzi, in questo caso, per una funzione “dissuasiva” che esula dai cd. “danni punitivi”, soprattutto in considerazione del fatto che la discriminazione collettiva rileva anche in assenza di un soggetto immediatamente identificabile.

Ulteriormente consolidando un orientamento affermatosi, nella giurisprudenza di legittimità, a partire da Sez. 3, n. 26899/2014, Lanzillo, Rv. 633753-01, Sez. 6-2, n. 21649/2021, Giannaccari, Rv. 661953-01, ha confermato la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla lesione del diritto inviolabile al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria casa di abitazione e alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane (tutelato anche dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani), suscettibile di conculcazione, in presenza di immissioni eccedenti la normale tollerabilità, anche in mancanza dell’accertamento di un danno biologico in senso stretto.

8.2. La prova del danno non patrimoniale.

La necessità di tenere distinte le conseguenze pregiudizievoli (patrimoniali o non patrimoniali) dall’evento lesivo è alla base del ripudio della teorica del c.d. danno in re ipsa, confermato, nell’anno 2021, da Sez. 6-2, n. 21649/2021, Giannaccari, Rv. 661953-01, la quale ha avuto modo di precisare che il pregiudizio non patrimoniale da immissioni non costituisce, per l’appunto, un danno in re ipsa, bensì un danno-conseguenza ristorabile in termini di danno non patrimoniale. Il danno-conseguenza (così come tutti gli altri elementi della fattispecie) dev’essere compiutamente allegato e provato in giudizio, potendo peraltro il danneggiato valersi di tutti i mezzi di prova previsti dall’ordinamento (tra i quali la prova per presunzioni ex art. 2729 c.c.). In tema di danno da diffamazione (nella specie, mediante l’affissione di numerosi manifesti nelle strade pubbliche), il principio è stato ribadito da Sez. 6-3, n. 08861/2021, Cricenti, Rv. 660992-01, a mente della quale il pregiudizio all’onore e alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è in re ipsa, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima.

Merita di essere segnalata, inoltre, per la peculiarità della materia, Sez. 1, n. 22496/2021, Iofrida, Rv. 662304-01, la quale, in tema di danno endofamiliare da mancato riconoscimento del figlio, ha statuito che, ai fini dell’integrazione dell’illecito, è necessario che il padre abbia l’effettiva consapevolezza della procreazione; consapevolezza che, pur non identificandosi con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, richiede comunque la maturata conoscenza dell’avvenuta procreazione, non evincibile tuttavia, in via automatica, dal fatto storico della sola consumazione di rapporti sessuali non protetti con la madre, ma anche da altri elementi rilevanti, specificatamente allegati e provati da chi agisce in giudizio. Con riguardo alla prova testimoniale del danno non patrimoniale (nel caso di specie, le sofferenze patite dalla madre in conseguenza del decesso di una neonata), Sez. 3, n. 18285/2021, Scarano, Rv. 661704-01, ha affermato che la relativa, mancata ammissione si traduce in un vizio della sentenza, ove il giudice ponga a fondamento della propria decisione l’inosservanza dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., benché la parte abbia offerto di adempierlo.

8.3. Il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale.

Nel solco del precedente di Sez. 3, n. 14258/2020, Guizzi, Rv. 658316-01, Sez. 6-3, n. 21404/2021, Guizzi, Rv. 662040-01, ha ribadito che la responsabilità della struttura sanitaria per i danni da perdita del rapporto parentale, invocati iure proprio dai congiunti di un paziente deceduto, è qualificabile come extracontrattuale, dal momento che, da un lato, il rapporto contrattuale intercorre unicamente col paziente, e dall’altro i parenti non rientrano nella categoria dei “terzi protetti dal contratto”, potendo postularsi l’efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l’interesse, del quale tali terzi siano portatori, risulti anch’esso strettamente connesso a quello già regolato sul piano della programmazione negoziale.

Per ottenere il risarcimento, i congiunti sono tenuti a provare l’effettività e la consistenza della relazione affettiva con la vittima, potendosi avvalere, a tal fine, delle presunzioni, prima fra tutte quella espressa dal grado di parentela che li legava al familiare venuto meno. Per quel che riguarda il pregresso rapporto di convivenza con quest’ultimo, esso - come da ultimo ribadito da Sez. 3, n. 18284/2021, Scarano, Rv. 661702-01 - non costituisce presupposto indefettibile per il riconoscimento del danno, potendo se mai valere a dimostrare l’ampiezza e la profondità della relazione spezzata, ai fini della quantificazione del risarcimento (si veda anche Sez. 6-3, n. 08218/2021, Iannello, non massimata).

8.4. Il danno non patrimoniale da lesione dei diritti della personalità.

Un capitolo piuttosto nutrito della giurisprudenza di legittimità sul danno non patrimoniale è stato, nel 2021, quello relativo alla lesione dei diritti della personalità (onore, reputazione, riservatezza, identità personale, oblio, diritto alla protezione dei dati personali). Segue il consolidato canovaccio del bilanciamento del diritto alla libera manifestazione del proprio pensiero (declinato, per l’attività giornalistica, in diritto di cronaca o critica) con le prerogative costituzionalmente garantite dell’individuo Sez. 6-3, n. 38215/2021, Rossetti, Rv. 663339-01, secondo cui il diritto di critica, che può essere esercitato da chiunque, quale estrinsecazione della libera manifestazione del pensiero, ha rango costituzionale al pari del diritto all’onore e alla reputazione, sul quale tuttavia prevale, scriminando l’illiceità dell’offesa, a condizione che siano rispettati i limiti della continenza verbale, della verità dei fatti attribuiti alla persona offesa e della sussistenza di un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti oggetto della critica (nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza di appello che, nel giudicare lesiva dell’onore e della reputazione di un magistrato una nota con la quale venivano espresse critiche severe ad alcuni suoi comportamenti da parte di un dirigente amministrativo dell’ufficio giudiziario, si era limitata a considerare “non educato” e “non condivisibile” lo scritto, senza valutare se il pubblico dipendente avesse inteso criticare, seppur aspramente, comportamenti tenuti dal magistrato sul luogo di lavoro o se, invece, si fosse lasciato andare ad apprezzamenti gratuiti ed incontinenti sulla persona dell’offeso).

Con precipuo riguardo alla cronaca giudiziaria, Sez. 6-3, n. 39082/2021, Cricenti, Rv. 663347-01, ha distinto la divulgazione giornalistica del contenuto di atti giudiziari da quella di indiscrezioni tratte da indagini in corso, osservando come il requisito della verità della notizia assuma diversa connotazione nelle due ipotesi, posto che, nel primo caso, è necessario che venga fedelmente riportato il contenuto della fonte, mentre nel secondo è sufficiente che le dette indiscrezioni effettivamente vi siano, indipendentemente dal loro grado di aderenza agli atti di indagine presupposti.

Si è occupata delle immagini poste a corredo di un articolo di stampa, invece, Sez. 1, n. 04477/2021, Campese, Rv. 660512-01, a tenore della quale l’interesse pubblico alla diffusione di una notizia, in presenza delle condizioni legittimanti l’esercizio del diritto di cronaca, va distinto dall’interesse alla pubblicazione o diffusione anche dell’immagine delle persone coinvolte, la cui liceità postula – alla stregua della disciplina complessivamente desumibile dagli artt. 10 c.c., 96 e 97 della l. n. 633 del 1941, 137 del d.lgs. n. 196 del 2003 ed 8 del codice deontologico dei giornalisti – il concreto accertamento di uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata ai fini della completezza e correttezza della divulgazione della notizia, oppure il consenso delle persone ritratte, o l’esistenza delle altre condizioni eccezionali giustificative previste dall’ordinamento (sulla base di tale principio, la Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza del tribunale che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno subito da una minore degente per gravissimi motivi di salute, la quale, in occasione di un articolo pubblicato su talune testate giornalistiche, era apparsa ritratta insieme ad un noto calciatore che si era appositamente recato in ospedale per farle visita).

Diverse pronunce hanno affrontato il tema del trattamento dei dati personali, ancora sotto l’egida delle previgenti disposizioni di cui al d.lgs. n. 196 del 2003. Il diritto alla protezione dei dati personali (già riconosciuto, a livello di diritto positivo, dagli artt. 1 e 2, comma 1, d.lgs. n. 196 del 2003, e oggi contemplato dall’art. 1, comma 2, Reg. n. 2016/679/UE, 16 del TFUE e 8 della CEDU) rappresenta una formula sintetica che riassume il complesso dei poteri riconosciuti all’interessato per l’accesso e il controllo sulle informazioni che lo riguardano, in funzione della protezione dei diversi diritti della personalità, nella loro configurazione tradizionale così come nelle declinazioni assunte in ragione delle modalità di diffusione e trasmissione delle informazioni rese possibili dalle nuove tecnologie (prime fra tutte, dalle reti telematiche).

Sez. 1, n. 11020/2021, Fidanzia, Rv. 661185-02, richiamando il diritto alla riservatezza, ha rimarcato che il trattamento dei dati personali deve essere sempre effettuato nel rispetto del “criterio di minimizzazione” del relativo uso (oggi previsto dall’art. 5, comma 1, lett. d, Reg. n. 2016/679/UE), dovendo, cioè, gli stessi essere utilizzati solo se indispensabili, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per cui sono raccolti e trattati, essendo irrilevante, al fine di derogare a tale principio, la circostanza che la divulgazione avvenga nell’ambito di una procedura di rilevanza pubblica (nella specie, la Suprema Corte ha confermato la pronuncia di merito che aveva ritenuto illecita la divulgazione, nell’ambito di un esposto concernente l’attività di un avvocato, di informazioni relative alla condotta asseritamente scorretta sotto il profilo deontologico, tenuta dallo stesso allorché era impiegato pubblico, facendo menzione di procedimenti disciplinari a suo carico senza dar conto della loro successiva archiviazione e dell’annullamento delle sanzioni irrogate). Secondo Sez. 1, n. 18783/2021, Tricomi L., Rv. 661920-01, integra violazione del diritto alla riservatezza e dell’art. 11 del d.lgs. n. 196 del 2003, sulle modalità del predetto trattamento, la condotta del creditore, il quale, nell’ambito dell’attività di recupero credito, svolta direttamente o per mezzo di incaricati, comunichi a terzi informazioni, dati e notizie relative all’inadempimento del debitore oppure utilizzi modalità che palesino ad osservatori esterni il contenuto di una comunicazione diretta al debitore, senza circoscriverla ai dati strettamente necessari all’attività recuperatoria.

Pure al diritto alla riservatezza afferisce Sez. 1, n. 36754/2021, Vella, Rv. 663287-01, la quale, con riguardo alla divulgazione, all’interno di un video musicale girato in una strada di Napoli, dell’immagine di una donna in compagnia di un uomo con il quale intratteneva una relazione extraconiugale, ha confermato la sentenza di merito che aveva valorizzato, ai fini della prova presuntiva del danno non patrimoniale, le circostanze della notorietà del cantante e del contesto sociale del luogo di residenza dell’attrice (nel quale grande curiosità suscitavano notizie del genere).

Sez. 1, n. 11800/2021, Lamorgese, Rv. 661272-01, ha invece affrontato il caso della comunicazione, da parte di un’azienda sanitaria, di dati sensibili contenuti nella cartella clinica di un paziente ricoverato nel reparto psichiatrico, su richiesta dell’autorità di pubblica sicurezza in relazione ad un procedimento per la revoca del porto d’armi, ritenendo legittimo il trattamento, trattandosi di dati indispensabili per lo svolgimento di attività istituzionali a cura di soggetti pubblici, previste dalla legge e non esercitabili “mediante il trattamento di dati anonimi o di dati personali di natura diversa”. In tale occasione la Suprema Corte ha, in ogni caso, precisato che il trattamento deve avvenire in modo corretto e riservato, secondo le modalità fissate dalla legge e senza un’indiscriminata diffusione dei medesimi verso “soggetti indeterminati”, atteso che, in materia di porto d’armi l’assenza di “alterazioni neurologiche” e di “disturbi mentali di personalità o comportamentali” rientra tra i “requisiti psicofisici minimi” richiesti per il rilascio e il rinnovo, tanto che, ai sensi dell’art. 43 TULPS la licenza di porto d’armi può essere revocata non solo in relazione a pregresse condanne per fatti penalmente rilevanti, ma anche quando la persona “non dà affidamento di non abusare delle armi”.

In tema di diffusione a terzi dei dati personali, da parte del titolare del trattamento, si segnala Sez. 1, n. 04475/2021, Campese, Rv. 660511-01, la quale, muovendo dalla considerazione per cui l’art. 11, lett. a), del d.lgs. n. 196 del 2003 (nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche apportate dal d.l. n. 70 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 106 del 2011) delinea i presupposti di liceità della condotta che il titolare del trattamento deve serbare nei confronti dell’interessato, ha puntualizzato che la successiva diffusione di quei dati ad opera di soggetto diverso dal preposto al trattamento non elide la responsabilità di quest’ultimo, non potendosi escludere l’esistenza del nesso causale tra tale comportamento ed il danno lamentato, qualora risulti che le condotte dei terzi non sarebbero state possibili se non fossero stati resi noti i dati personali dei danneggiati. La Corte ha, pertanto, cassato la pronuncia di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento per l’illecita diffusione dei propri dati bancari, proposta dai danneggiati nei confronti della compagnia assicuratrice che li aveva risarciti in occasione di un sinistro, per avere indicato i dati in calce all’atto di liquidazione trasmesso al proprio assicurato, il quale li aveva poi diffusi nel corso di una assemblea condominiale.

Infine, pronunciandosi in tema di diritto all’oblio, Sez. 1, n. 13524/2021, Di Marzio, Rv. 661371-01, ha statuito che la cancellazione di un’ipoteca giudiziale ad opera dell’Agenzia del territorio mediante l’annotazione del titolo per il quale l’ipoteca era stata iscritta, in conformità al disposto dell’art. 2886, comma 2, c.c., non viola il diritto all’oblio di colui che ne ha chiesto la cancellazione, consentendo ai terzi di apprendere le ragioni di tale iscrizione, vertendosi in un’ipotesi di trattamento dei dati personali indispensabile per l’adempimento di un obbligo di legge, tenuto conto che, nel necessario bilanciamento tra interessi contrapposti, il diritto alla cancellazione dei dati personali soccombe quando vi sia una previsione normativa dettata in funzione di un pubblico interesse oppure nell’esercizio di pubblici poteri.

9. La liquidazione del danno non patrimoniale.

In ragione dell’intrinseca natura del danno non patrimoniale, particolare rilievo assumono i criteri mediante i quali il giudice è chiamato a procedere alla liquidazione equitativa, di cui al combinato disposto degli artt. 2056 e 1226 c.c.

In presenza di danno biologico, tale voce di danno è “aggregante” sul piano della liquidazione, sia rispetto alla sofferenza soggettiva interiore (danno morale), sia rispetto ai profili dinamico-relazionali del pregiudizio. La quantificazione del risarcimento è ancorata, dunque, al criterio tabellare, capace di coniugare l’uniformità della liquidazione-base con la possibilità di adattarla alle specifiche circostanze del caso concreto, mediante la c.d. personalizzazione. Il criterio in discorso - come opportunamente ricordato da Sez. 3, n. 11724/2021, Vincenti, Rv. 661322-04 - è ispirato al cd. “sistema a punto variabile”, fondato sulla misurazione delle conseguenze invalidanti in punti percentuali in base a barèmes medico legali che, se non imposti dalla legge, costituiscono criteri di giudizio discrezionali la cui scelta spetta esclusivamente al giudice nel rispetto della regola di liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c., al fine di garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi; è doveroso pertanto che – quantomeno all’interno del medesimo ufficio giudiziario – sia chiesto a tutti gli ausiliari di stimare il grado percentuale di invalidità avvalendosi sempre del medesimo barème, individuato dal giudice con scelta orientata verso quello scientificamente più autorevole e cronologicamente recente, con la conseguenza che – a fronte di una specifica contestazione sul punto – la decisione non può trascurare di accertare se il barème utilizzato dall’ausiliario sia condiviso dalla comunità scientifica ed aggiornato e se sia stato correttamente applicato.

Per quel che riguarda il danno biologico indennizzabile dall’INAIL ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, Sez. L, n. 23896/2021, Cavallaro, Rv. 662153-01, ha affermato che le tabelle delle menomazioni, laddove consentano di individuare la percentuale del danno in relazione ad un intervallo di valori o facendo uso di locuzioni similari, permettono l’adeguamento della stima del danno alla realtà del caso clinico, mentre, ove determinino una percentuale fissa, senza il ricorrere di locuzioni quali “superiore a” ovvero “fino a”, non consentono di modificare il valore indicato (nella specie la Corte ha cassato la pronuncia di merito che aveva recepito le conclusioni del c.t.u. il quale, pur reputando di quantificare il danno residuo secondo una voce tabellare che indicava un valore fisso, aveva operato una riduzione della percentuale).

Una volta individuato il valore tabellare di base (dato dalla moltiplicazione della percentuale di invalidità permanente per il valore del punto per un coefficiente demoltiplicatore in ragione dell’età della vittima), la considerazione delle peculiari circostanze del caso concreto potrà indurre il giudice ad incrementare il risarcimento, secondo le percentuali previste dalla Tabella medesima. In argomento, Sez. 6-3, n. 05865/2021, Rossetti, Rv. 660926-01, ha sottolineato come la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato negli uffici giudiziari di merito (nella specie, si trattava delle tabelle milanesi) può essere incrementata dal giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, solo in presenza di conseguenze anomale o del tutto peculiari (tempestivamente allegate e provate dal danneggiato), mentre le conseguenze ordinariamente derivanti da pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età non giustificano alcuna “personalizzazione” in aumento.

L’applicazione, da parte del giudice di merito, della percentuale massima di personalizzazione è stata ritenuta congrua, da Sez. L, n. 31358/2021, Pagetta, Rv. 662663-01, per la liquidazione equitativa del danno morale soggettivo occorso a un lavoratore coinvolto nel naufragio della nave Costa Concordia. Infine, sempre nel settore lavoristico, Sez. L, n. 2472/2021, Cinque, Rv. 660335-01, ha affermato che il danno non patrimoniale alla professionalità, patito dal lavoratore in conseguenza della grave lesione dei propri diritti costituzionalmente garantiti, va ascritto alla categoria del danno emergente, sicché la relativa liquidazione giudiziale dev’essere effettuata al lordo delle ritenute fiscali, essendo soggette a tassazione, tra le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio, soltanto quelle dirette a reintegrare il lucro cessante derivante dalla mancata percezione di redditi.

9.1. La liquidazione del danno biologico.

Sez. 3, n. 26117/2021, Rossetti, Rv. 662497-01, si è occupata di un caso in cui il giudice era chiamato a quantificare l’incidenza del danno biologico “differenziale”, cagionato dal fatto colposo dei medici di una struttura sanitaria ospedaliera, rispetto ai postumi di lesioni personali riportate in conseguenza di un infortunio sul lavoro indennizzabile (un sinistro stradale in itinere non ascrivibile a responsabilità di terzi). In tale occasione, la Corte di cassazione ha affermato che la liquidazione del cd. “danno iatrogeno differenziale” dev’essere operata, per un verso, secondo il criterio per cui l’indennizzo per danno biologico permanente erogato dall’INAIL va detratto dal credito aquiliano per danno biologico permanente vantato dalla vittima nei confronti del terzo responsabile (al netto della personalizzazione del danno morale); per altro verso, secondo il criterio per cui, ove l’indennizzo sia stato erogato sotto forma di rendita, la detrazione deve avvenire sottraendo dal credito civilistico il cumulo dei ratei già riscossi e del valore capitale della rendita ancora da erogare, al netto dell’aliquota destinata al ristoro del danno patrimoniale. Pertanto, il “danno iatrogeno” va liquidato monetizzando, dapprima, il grado complessivo di invalidità permanente accertato in corpore, e quindi il grado verosimile della predetta invalidità che sarebbe residuato dall’infortunio anche in assenza dell’errore medico, per poi detrarre il secondo dal primo. Il credito residuo vantato verso il responsabile dalla vittima che abbia percepito un indennizzo dall’INAIL va determinato, infine, sottraendo dal risarcimento per “danno iatrogeno” solo l’eventuale eccedenza dell’indennizzo INAIL rispetto al controvalore monetario del danno base, cioè del danno che comunque si sarebbe verificato anche in assenza dell’illecito.

Da altro angolo visuale, Sez. 3, n. 26118/2021, Rossetti, Rv. 662498-02, esaminando il fenomeno del cd. “rischio latente” (vale a dire la possibilità che i postumi, per la loro gravità, provochino un nuovo e diverso pregiudizio consistente in un’ulteriore invalidità o nella morte ante tempus), ha ritenuto che esso costituisca una lesione della salute del danneggiato, da considerare nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente secondo le indicazioni della medicina legale: ne consegue che, qualora il grado di invalidità sia determinato tenendo in conto detto rischio, il danno biologico va liquidato in relazione alla concreta minore speranza di vita del danneggiato e non della durata media della vita; se, invece, il “rischio latente” non è stato incluso nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente (o perché non contemplato dal barème utilizzato o per omissione del consulente), il giudice deve tenerlo in considerazione maggiorando la liquidazione in via equitativa, anche scegliendo il valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima e, dunque, in base alla durata media nazionale della vita, anziché alla speranza di vita del caso concreto.

Una peculiare fattispecie di danno non patrimoniale è quella in cui il pregiudizio è “definito dalla premorienza”, che si verifica allorquando il danneggiato muoia prima di ottenere la liquidazione del danno, per cause non riconducibili alla lesione primigenia. Questo tipo di danno si caratterizza per rapportarsi a un intervallo di tempo noto (quello compreso tra l’evento lesivo e la morte del danneggiato), sicché il risarcimento viene parametrato alla durata effettiva della vita della vittima, e non già alla durata media, calcolata sulla base di dati statistici aggregati (quali sono quelli presupposti dai tradizionali criteri tabellari).

Con l’importante arresto di cui a Sez. 3, n. 41933/2021, Cirillo F.M., Rv. 663500-01, la Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi in ordine alla liquidazione del danno non patrimoniale occorso alla vittima (settantaduenne) di un incidente stradale, la quale aveva riportato un’invalidità permanente del 62% ed era successivamente deceduta, cinque anni dopo il sinistro, per cause non riconducibili allo stesso, ha sconfessato il criterio elaborato dalla Tabella milanese del 2018, giudicandolo fondato su un presupposto non dimostrato, vale a dire quello per cui il danno biologico in discorso sia maggiore nel torno di tempo prossimo all’evento, per poi progressivamente decrescere fino a stabilizzarsi. Tale presupposto, secondo la Terza Sezione, dà luogo a risultati iniqui, nella misura in cui, a fronte dello stesso periodo di sopravvivenza della vittima dopo l’evento, conduce a un risarcimento sensibilmente inferiore, per il fatto che la morte sia intervenuta nel corso del giudizio, rispetto all’ipotesi in cui essa si verifichi dopo il formarsi del giudicato (prendendo ad esempio un soggetto dell’età e con l’invalidità della danneggiata nella fattispecie in discorso, si ha che il risarcimento-base, per i cinque anni successivi al sinistro, equivale, nel primo caso, a € 94.172,00, nel secondo caso a € 144.880,00). Viene proposta, allora, una diversa tecnica di liquidazione, che prenda “come punto di partenza (dividendo) la somma che sarebbe spettata al danneggiato, in considerazione dell’età e della percentuale di invalidità, se fosse rimasto in vita fino al termine del giudizio”, e che quindi, rispetto a tale cifra, assuma “come divisore gli anni di vita residua secondo le aspettative che derivano dalle tabelle dell’ISTAT”, per poi calcolare “la cifra dovuta per ogni anno di sopravvivenza, da moltiplicare poi per gli anni di vita effettiva, in modo da pervenire ad un risultato che sia, nei limiti dell’umanamente possibile, maggiormente conforme al criterio dell’equità”.

Più in generale, è opportuno rimarcare come, nell’annualità in rassegna, abbia ricevuto piena conferma l’orientamento (affermatosi a partire da Sez. 3, n. 901/2018, Travaglino, Rv. 647125-03 e Sez. 3, n. 7513/2018, Rossetti, Rv. 648303-01) secondo cui il danno non patrimoniale, pur “unitario” dall’angolo visuale della sua configurazione sistematica (nel senso di non mutare la propria fisionomia in ragione della tipologia del diritto inviolabile leso), si compone di due pregiudizi distinti, uno “interno” all’individuo - rappresentato dalla sofferenza interiore - e uno “esterno”, corrispondente alle ripercussioni dell’evento lesivo sulle sue abitudini di vita, proiettate in una dimensione dinamico-relazionale, ai quali va riconosciuta autonoma dignità anche dal punto di vista della liquidazione. Se, dunque, il riconoscimento di un’autonoma voce a titolo di danno “esistenziale” costituisce una duplicazione risarcitoria rispetto al ristoro tabellare del danno biologico, lo stesso non può dirsi con riguardo al danno morale, il quale, reclama un’autonoma liquidazione, siccome avulso da un fondamento medico-legale.

Esprime sinteticamente tali concetti Sez. 3, n. 07126/2021, Tatangelo, Rv. 660911-01, secondo la quale, ai fini della liquidazione del danno biologico, che consegue alla lesione dell’integrità psico-fisica della persona, devono formare oggetto di autonoma valutazione il pregiudizio da invalidità permanente (con decorrenza dal momento della cessazione della malattia e della relativa stabilizzazione dei postumi) e quello da invalidità temporanea (da riconoscersi come danno da inabilità temporanea totale o parziale ove il danneggiato si sia sottoposto a periodi di cure necessarie per conservare o ridurre il grado di invalidità residuato al fatto lesivo o impedirne l’aumento, inteso come privazione della capacità psico-fisica in corrispondenza di ciascun periodo e in proporzione al grado effettivo di inabilità sofferto), mentre, ai fini della liquidazione complessiva del danno non patrimoniale, deve tenersi conto altresì delle sofferenze morali soggettive, eventualmente patite dal soggetto in ciascuno degli indicati periodi.

9.2. La liquidazione tabellare del danno da perdita del rapporto parentale.

Fino al 2020, la liquidazione del pregiudizio non patrimoniale da perdita (o grave compromissione) del rapporto parentale ha avuto, come indiscusso parametro di riferimento, quello della tabella di Milano, caratterizzato da una forbice di valori piuttosto ampia, variabile a seconda del rapporto interessato (tra genitore e figlio o tra coniugi, ovvero tra fratelli o tra nonno e nipote, nell’ipotesi di morte di quest’ultimo). La differenza con la tabella del danno biologico (contemplante un sistema di liquidazione “a punti”, in grado di associare – attraverso l’uso dei barèmes medico-legali – a ciascuna menomazione dell’integrità psicofisica una determinata percentuale di invalidità permanente), aveva indotto, peraltro, la Cassazione a puntualizzare che, per quel che riguarda il pregiudizio in discorso, le tabella milanese non costituisce concretizzazione paritaria dell’equità su tutto il territorio nazionale (così come invece statuito, per la tabella del danno biologico, sin da Sez. 3, n. 12408/2011, Amatucci, Rv. 618048-01), fermo restando che, qualora il giudice scelga di applicare i predetti parametri tabellari, la personalizzazione del risarcimento non può discostarsi dalla misura minima ivi prevista senza dar conto nella motivazione di una specifica situazione, diversa da quelle già considerate come fattori determinanti la divergenza tra il minimo e il massimo, che giustifichi la decurtazione (Sez. 3, n. 29495/2019, Graziosi, Rv. 655831-01, seguita, nell’anno in esame, da Sez. 6-3, n. 07597/2021, Scoditti, Rv. 660927-01, relativa a un caso in cui il danno conseguente alla morte del padre era stato liquidato in misura inferiore del 40% al minimo tabellare, in ragione della sola età delle figlie al momento del fatto, in cui la Corte ha ribadito che, qualora il giudice scelga di applicare i parametri delle tabelle del Tribunale di Milano, la personalizzazione del risarcimento non può discostarsi dalla misura minima ivi prevista senza dar conto nella motivazione di una specifica situazione, diversa da quelle già considerate come fattori determinanti la divergenza tra minimi e massimi, che giustifichi la decurtazione).

Nel 2021, due decisioni della Terza Sezione hanno segnato un’inversione di rotta nell’orientamento della Suprema Corte, secondo cui la funzione di “uniformità e prevedibilità delle decisioni a garanzia del principio di uguaglianza” sarebbe garantita unicamente da una liquidazione imperniata sul sistema del punto variabile (quale quella messa a punto dal Tribunale di Roma), che preveda, oltre all’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, indefettibilmente, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza), nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella (in questi termini, Sez. 3, n. 10579/2021, Scoditti, Rv. 661075-01, che ha cassato la decisione del giudice d’appello la quale, per liquidare il danno da perdita del rapporto parentale patito dal fratello e dal coniuge della vittima, aveva fatto applicazione delle tabelle milanesi, fondate sull’individuazione di un importo minimo e di un tetto massimo, con un intervallo molto ampio tra l’uno e l’altro; e Sez. 3, n. 26300/2021, Scarano, Rv. 662499-01, la quale peraltro ha ritenuto non applicabile il principio di diritto alla fattispecie, per essersi formato giudicato implicito sulla decisione dei giudici di merito che, in difetto di doglianze delle parti al riguardo, avevano liquidato il danno da perdita del rapporto parentale patito dalla madre della vittima facendo ricorso alle tabelle milanesi).

10. Le responsabilità speciali.

10.1. Padroni e committenti (art. 2049 c.c.).

Nell’annualità in rassegna della fattispecie ex art. 2049 c.c. si è occupata Sez. 2, n. 28852/2021, Giannaccari, Rv. 662515-01, ribadendo, in linea con il principio enunciato da Sez. 3, n. 12283/2016, Scarano, Rv. 640297-01, che, ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2049 c.c., è sufficiente che il fatto illecito sia commesso da un soggetto legato da un rapporto di preposizione con il responsabile, ipotesi che ricorre non solo in caso di lavoro subordinato, ma anche quando, per volontà di un soggetto (committente), un altro (commesso) esplichi un’attività per conto del primo.

10.2. Attività pericolose (art. 2050 c.c.).

In tema di responsabilità per esercizio di attività pericolosa, occorre, innanzitutto, dar conto di Sez. 6-3, n. 26236/2021, Cricenti, Rv. 662509-01, secondo la quale, dal momento in cui il produttore di una cosa in sé pericolosa, la consegni ad altra persona che la utilizzi autonomamente in un’attività da cui derivi un danno a terzi, il consegnatario assume un distinto potere di disposizione e si trasferiscono a suo carico i doveri di custodia, di sorveglianza e di prudenza; pertanto, la presunzione di responsabilità di cui all’art. 2050 c.c. non grava più sul produttore, di cui è cessata ogni attività, ma sul consegnatario, al quale, in caso di sinistro, spetta l’onere di dimostrare che l’evento dannoso si è verificato per caso fortuito ovvero per un vizio intrinseco della cosa, addebitabile unicamente al costruttore. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità del venditore del gas utilizzato dall’acquirente per il collaudo di una caldaia, realizzata in esecuzione di un appalto affidatogli da un terzo, la quale era esplosa provocando la morte del committente.

Per un’interessante applicazione della fattispecie ex art. 2050 c.c. in materia del trattamento dei dati personali, occorre dare evidenza a Sez. 1, n. 14618/2021, Tricomi, L., Rv. 661496-01, la quale ha chiarito che l’art. 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 (vigente ratione temporis), nel richiamare il disposto dell’art. 2050 c.c., pone a carico del danneggiato la prova del danno e del nesso di causalità, lasciando al danneggiante la dimostrazione di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare quel danno. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito, che aveva rigettato la domanda risarcitoria, fondata sulla dedotta pubblicazione sull’albo pretorio on line di una delibera comunale contenente informazioni sullo stato di salute di un cittadino, in mancanza della prova della pubblicazione della menzionata delibera nella sua versione integrale.

Di particolare interesse è, poi, Sez. 3, n. 10348/2021, Sestini, Rv. 661244-01, la quale, in tema di responsabilità conseguente alla sperimentazione di farmaci, ha precisato che la casa farmaceutica promotrice della sperimentazione, la quale abbia fornito il farmaco ad una struttura sanitaria, perché lo sperimentasse sui suoi pazienti a mezzo dei propri medici, risponde a titolo contrattuale dei danni sofferti dai soggetti cui sia stato effettivamente somministrato il farmaco, a causa di un errore dei medici “sperimentatori”, soltanto nell’ipotesi in cui, sulla base della concreta conformazione dell’accordo di sperimentazione, debba ritenersi che essa si sia personalmente obbligata verso i destinatari della sperimentazione, sicché la struttura ospedaliera e i suoi dipendenti abbiano assunto la qualità di ausiliari di cui la casa farmaceutica si sia avvalsa nell’adempimento, ai sensi dell’art. 1228 c.c.; al di fuori di questa ipotesi, essa può essere chiamata a rispondere solo a titolo di responsabilità extracontrattuale (in applicazione del criterio di imputazione speciale di cui all’art. 2050 c.c., o, eventualmente, di quello generale di cui all’art. 2043 c.c.), da accertarsi secondo le regole proprie della stessa. In applicazione del principio, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che, senza accertare se la società promotrice avesse personalmente assunto una obbligazione verso il paziente reclutato nel programma sperimentale, aveva qualificato la responsabilità della prima verso il secondo in termini di responsabilità contrattuale, facendo riferimento ad un “contatto sociale” tra loro pacificamente insussistente, perché instaurato dal paziente esclusivamente con i medici sperimentatori.

Nell’annualità in rassegna la giurisprudenza di legittimità si è anche occupata di responsabilità per danni da prodotto difettoso, evidenziando che, ai sensi dell’art. 117 del d.lgs. n. 206 del 2005 (cd. codice del consumo), come già previsto dall’art. 5 del d.P.R. n. 224 del 1988, il livello di sicurezza al di sotto del quale il prodotto deve ritenersi difettoso non corrisponde a quello della sua innocuità, dovendo piuttosto farsi riferimento ai requisiti di sicurezza generalmente richiesti dall’utenza in relazione alle circostanze tipizzate dalla suddetta norma, o ad altri elementi valutabili ed in concreto valutati dal giudice di merito, nell’ambito dei quali rientrano anche gli standard di sicurezza eventualmente imposti da normative di settore. In particolare, la responsabilità del produttore non è esclusa dalla prova di avere fornito, tramite il foglietto illustrativo (cd. bugiardino), un’informazione che si sostanzi in una mera avvertenza generica circa la non sicurezza del prodotto, dovendo piuttosto tale avvertenza consentire al consumatore di effettuare una corretta valutazione dei rischi e dei benefici e di adottare tutte le necessarie precauzioni volte ad evitare l’insorgenza del danno, in modo da esporsi al rischio in maniera volontaria e consapevole (Sez. 3, n. 12225/2021, Scarano, Rv. 661549-01).

Nella specie, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione di merito che aveva riconosciuto la responsabilità di una casa farmaceutica per una miopatia dei cingoli causata da un farmaco - il Lipobay 0,2 - considerando non idonee ad escludere detta responsabilità le indicazioni contenute nello specifico foglietto illustrativo.

10.3. Cose in custodia (art. 2051 c.c.).

Tra le pronunce del 2021 in tema di responsabilità per cose in custodia, occorre menzionare, anzitutto, Sez. 3, n. 13595/2021, Scarano, Rv. 661414-01, la quale ha chiarito che nell’ipotesi di sinistro (nella specie, mortale) verificatosi in una piscina di pertinenza condominiale, è configurabile la responsabilità del condominio ex art. 2051 c.c. per l’omessa vigilanza e custodia, quale soggetto obbligato alla manutenzione della struttura, dal momento che la gestione è volta al soddisfacimento di esigenze collettive della comunità condominiale e il funzionamento risponde a un interesse soltanto mediatamente individuale.

Sempre in materia condominiale, si è precisato che, rispetto ad un impianto fognario posto in rapporto di accessorietà con una pluralità di edifici costituiti in distinti condomini, giacché oggettivamente e stabilmente destinato all’uso od al godimento di tutti i fabbricati, trova applicazione la disciplina specifica del condominio, anziché quella generale della comunione, e perciò opera la presunzione legale di condominialità, ma solo sino al punto in cui è possibile stabilire a quale degli edifici la conduttura si riferisca, per poi considerare cessata la comunione dal punto in cui le diramazioni siano inequivocabilmente destinate a ciascun edificio; da ciò consegue che, ove i danni subìti da un terzo siano connessi ad un tratto del detto impianto posto ad esclusivo servizio di uno dei condomìni, la relativa responsabilità (nella specie, di natura extracontrattuale, ex art. 2051 c.c.) è addebitabile esclusivamente a quest’ultimo e non all’intero supercondominio, non potendosi estendere agli altri condomìni del complesso gli obblighi di custodia e di manutenzione gravanti sull’amministratore e sull’assemblea del singolo edificio (Sez. 2, n. 02623/2021, Scarpa, Rv. 660315-01).

Con specifico riferimento alla prova liberatoria gravante sul custode, Sez. 3, n. 06826/2021, Scarano, Rv. 660907-01, ha ribadito che, con riferimento ai beni demaniali, la P.A. è liberata dalla responsabilità civile ex art. 2051 c.c. ove dimostri che l’evento è stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione, ovvero che l’evento stesso ha esplicato la sua potenzialità offensiva prima che fosse ragionevolmente esigibile l’intervento riparatore.

Di particolare interesse sistematico è, infine, Sez. 3, n. 07553/2021, Graziosi, Rv. 660915-01, alla stregua della quale, in tema di appalto, la consegna del bene all’appaltatore non fa venir meno il dovere di custodia e di vigilanza gravante sul committente, sicché questi resta responsabile, alla stregua dell’art. 2051 c.c., dei danni cagionati ai terzi dall’esecuzione dell’opera salvo che provi il caso fortuito, quale limite alla detta responsabilità oggettiva, che può coincidere non automaticamente con l’inadempimento degli obblighi contrattualmente assunti nei confronti del committente bensì con una condotta dell’appaltatore imprevedibile e inevitabile nonostante il costante e adeguato controllo (esercitato – se del caso – per il tramite di un direttore dei lavori).

10.4. Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 c.c.).

Nella produzione giurisprudenziale dell’annualità in rassegna le decisioni sul tema della responsabilità per fatto degli animali investono prevalentemente il “sotto-settore” delle fattispecie di danno cagionato dalla fauna selvatica.

In continuità con un indirizzo recentemente delineatosi in seno alla Terza Sezione civile (Sez. 3, n. 07969/2020, Tatangelo, Rv. 657572-03; Sez. 3, n. 12113/2020, Positano, Rv. 658165-03), Sez. 6-3, n. 08206/2021, Fiecconi, Rv. 660989-01, ha individuato il titolo di tale responsabilità nell’art. 2052 c.c., onde ascrivere la legittimazione passiva dell’azione risarcitoria alla regione, quale ente titolare della competenza normativa in materia di patrimonio faunistico, nonché delle funzioni amministrative concernenti l’attività di tutela e gestione della fauna selvatica, ancorché eventualmente svolte, per delega o in base a poteri propri, da altri enti. La citata ordinanza ha, tuttavia, rilevato che tale titolo può concorrere con quello di cui all’art. 2043 c.c., che, oltre a costituire il fondamento dell’azione di rivalsa della regione nei confronti degli enti a cui sarebbe in concreto spettata, nell’esercizio delle funzioni proprie o delegate, l’adozione delle misure che avrebbero dovuto impedire il danno, consente il diretto esercizio dell’azione risarcitoria anche nei loro confronti da parte del danneggiato, sul quale, peraltro, grava l’onere di provare la condotta colposa causalmente efficiente dell’ente pubblico (nella specie, la provincia), la cui eventuale omissione rispetto alla predisposizione di segnali o di altri presidi a tutela dei veicoli circolanti, deve essere valutata ex ante, avuto riguardo alla concreta situazione di pericolo sussistente sulla strada.

In termini parzialmente divergenti si è, invece, espressa Sez. 6-3, n. 32884/2021, Iannello, Rv. 662964-01, rilevando che la responsabilità civile per i danni causati dai cani randagi grava esclusivamente sull’ente cui le singole leggi regionali, attuative della legge quadro nazionale n. 281 del 1991, attribuiscono il compito di cattura e custodia dei medesimi animali.

10.5. Rovina di edificio (art. 2053 c.c.).

Sulla fattispecie ex art. 2053 c.c. merita di essere segnalata Sez. 3, n. 36718/2021, Valle, Rv. 663187-01, a mente della quale incorre nel vizio di sussunzione il giudice di merito che, in ragione dell’inagibilità dell’immobile, escluda in ogni caso la configurabilità di un danno ai sensi dell’art. 2053 c.c. tenuto conto che la caduta del tetto dell’immobile – come nella specie – anche se fatiscente, costituisce una fattispecie di danno da rovina di edificio in quanto l’evento lascia il cespite esposto alle intemperie e, dunque, in una condizione diversa da quella precedente.

10.6. Il danno da circolazione di veicoli (art. 2054 c.c.).

Le decisioni che nell’annualità in rassegna hanno affrontato i temi della responsabilità da circolazione dei veicoli si sono assestate su coordinate interpretative largamente condivise e da tempo stabilizzate.

Dando continuità al principio espresso da Sez. 3, n. 19197/2018, Olivieri, Rv. 649734-01, Sez. 6-3, n. 03764/2021, Positano, Rv. 660551-01, ha rilevato che la presunzione di pari responsabilità nella causazione di un sinistro stradale, prevista dall’art. 2054, comma 2, c.c. in caso di scontro di veicoli, è applicabile estensivamente anche ai veicoli coinvolti nell’incidente ma rimasti estranei alla collisione, sempre che sia accertato, in concreto, l’effettivo contributo causale nella produzione dell’evento dannoso.

Sulla base di tale premessa, la citata ordinanza ha ritenuto corretta la statuizione del giudice di appello che aveva presunto la pari responsabilità nella produzione del danno, pur in assenza di collisione, nel contegno dei conducenti di due veicoli viaggianti in direzione reciprocamente opposta, l’uno dei quali, pur deducendo di essere finito fuori strada a seguito della manovra di emergenza resa necessaria dall’andatura zigzagante dell’altro, che lo aveva costretto a spostarsi pericolosamente sul margine destro della carreggiata, non aveva tuttavia fornito, ad insindacabile giudizio del giudice di merito, la prova di avere tenuto una condotta di guida esente da colpa.

Ancora, con riferimento alla presunzione di cui al secondo comma dell’art. 2054 c.c., è stato precisato che, ai sensi dell’art. 149, comma 1, del d.lgs. n. 285 del 1992, il conducente di un veicolo deve essere in grado di garantire in ogni caso l’arresto tempestivo dello stesso, evitando collisioni con il veicolo che precede, per cui l’avvenuto tamponamento pone a carico del conducente medesimo una presunzione de facto di inosservanza della distanza di sicurezza; ne consegue che, esclusa l’applicabilità della presunzione di pari colpa di cui all’art. 2054, comma 2, c.c., egli resta gravato dall’onere di fornire la prova liberatoria, dimostrando che il mancato tempestivo arresto del mezzo e la conseguente collisione sono stati determinati da cause in tutto o in parte a lui non imputabili (Sez. 6-3, n. 18708/2021, Positano, Rv. 661911-01).

Sul versante processuale, Sez. 6-3, n. 27169/2021, Scrima, Rv. 662463-01, ha rilevato che la domanda di accertamento della responsabilità del convenuto nella determinazione di un sinistro stradale comporta, ex se, che il giudice possa applicare la previsione dell’art. 2054, comma 2, c.c., sempre che la parte, pur non avendo specificamente dedotto il titolo concorsuale di responsabilità, abbia ritualmente prospettato gli elementi di fatto da cui esso possa desumersi, e ciò in ragione del fatto che l’accertamento del concorso paritario costituisce un possibile esito (di accoglimento parziale) dell’originaria domanda. Qualora il giudice di primo grado non abbia rilevato d’ufficio il concorso di colpa, sul punto, senza che la domanda possa essere considerata nuova, la parte ha l’onere di proporre appello, in quanto la rilevabilità d’ufficio non comporta che essa possa farsi valere in ogni stato e grado del processo.

Per quel che concerne la tutela del terzo trasportato, di particolare interesse è Sez. 3, n. 17963/2021, Scoditti, Rv. 661834-01, la quale ha affermato che, in tema di risarcimento del danno da circolazione di veicoli, l’art. 141 del d.lgs. n. 209 del 2005, che consente al terzo trasportato di agire nei confronti dell’assicuratore del proprio vettore sulla base della mera allegazione e prova del danno e del nesso causale, “a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro”, introduce una tutela rafforzata del danneggiato trasportato al quale può essere opposto il solo “caso fortuito”, da identificarsi, non già con la condotta colposa del conducente dell’altro veicolo coinvolto, ma con l’incidenza di fattori naturali e umani estranei alla sua circolazione; ne consegue che tale norma non trova applicazione nel diverso caso in cui nel sinistro risulti coinvolto il solo veicolo del vettore del trasportato, essendo in tale ipotesi applicabile l’art. 144 c. ass. che consente al trasportato danneggiato di agire con azione diretta contro l’assicuratore del proprio veicolo, chiamando in causa anche il responsabile civile e, secondo quanto stabilito dall’art. 2054, comma 1, c.c., con onere probatorio a proprio carico equivalente a quello previsto dal citato art. 141, spettando al vettore la prova liberatoria “di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno”, che è previsione sostanzialmente corrispondente all’esimente del caso fortuito.

Occorre, infine dar conto di Sez. 6-3, n. 00414/2021, Guizzi, Rv. 660413-01, la quale, in conformità a Sez. 3, n. 04343/2009, Amendola, Rv. 606725-01, ha ribadito che, in tema di trasporto di persone, la presunzione di responsabilità posta dagli artt. 1681 e 2054 c.c. a carico del vettore per i danni al viaggiatore opera quando sia provato il nesso causale tra il sinistro occorso al viaggiatore e l’attività del vettore in esecuzione del trasporto, restando viceversa detta presunzione esclusa quando sia accertata la mancanza di una colpa in capo al vettore, come nel caso in cui il sinistro venga attribuito al fatto del viaggiatore.

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  • avvocato

CAPITOLO XII

LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI

(di Irene Ambrosi )

Sommario

1 Premessa. - 2 La responsabilità del medico. - 3 La responsabilità dell’avvocato. - 4 La responsabilità del notaio. - 5 La responsabilità del commercialista. - 6 Le responsabilità del direttore dei lavori e del costruttore nell’appalto. - 7 La responsabilità del geometra. - 8 La responsabilità dell’intermediario finanziario.

1. Premessa.

Nel corso dell’anno 2021 il “sottosistema” della responsabilità civile del professionista si è sviluppato su temi, in parte già vagliati dalla giurisprudenza della Suprema Corte, tutti indirizzati a meglio tracciare i tratti di omogeneità e disomogeneità del contenuto delle obbligazioni configurabili all’interno dei molteplici ambiti in cui le diverse competenze professionali vengono esercitate.

Come di consueto, il maggior numero di pronunce si è registrato nel settore delle obbligazioni inerenti alle prestazioni professionali sanitarie, ove continua a registrarsi, comparando i dati desunti dal sistema informatico Italgiureweb dell’ultimo biennio, una stabile riduzione del numero delle pronunce massimate rispetto a quelle degli anni precedenti, segno evidente dell’effetto di stabilizzazione innescato dalle “nuove” pronunce dell’11 novembre 2019, con cui la Corte di cassazione ha indicato soluzioni nomofilattiche su una serie di questioni cruciali, inerenti ai criteri di riparto dell’onere della prova in tema di fatto illecito (con particolare riguardo al nesso di causa) o a quelli di liquidazione del danno o alle condizioni e ai limiti del diritto di rivalsa della struttura sanitaria nei confronti del medico solidalmente obbligato(*).

2. La responsabilità del medico.

Il tema classico, sul quale anche nel corso di quest’anno si è appuntato il sindacato nomofilattico della Corte di cassazione in tema di responsabilità medico-sanitaria, è quello che attiene al criterio di accertamento della prova del nesso causale che, viene precisato, è governato dal criterio del più probabile che non, da tenere distinto dal criterio di valutazione del compendio probatorio informato al criterio della attendibilità-congruità logica degli elementi di prova assunti nello stesso ambito, rimesso al discrezionale apprezzamento del giudice di merito. Inoltre, con riferimento al lato passivo del rapporto, si è indagato ancora sui rapporti interni tra medico e struttura, nel caso ne venga affermata la responsabilità solidale in relazione alla domanda risarcitoria per danni derivanti da malpractice medico-chirurgica.

Quanto al primo profilo, di sicuro rilievo, l’affermazione di ordine generale compiuta da Sez. 3, n. 21350/2021, Vincenti, Rv. 662197-01, che, in caso di diagnosi tardiva, ha ritenuto necessaria una verifica dell’eziologia dell’omissione attraverso la regola del più probabile che non ovvero della evidenza del probabile, come pure delineata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza del 21 giugno 2017 in causa C-621/15 in tema di responsabilità da prodotto difettoso, in coerenza con il principio eurounitario della effettività della tutela giurisdizionale; occorre stabilire, pertanto, se il comportamento doveroso che l’agente avrebbe dovuto tenere sarebbe stato in grado di impedire l’evento lesivo, tenuto conto di tutte le risultanze del caso concreto nella loro irripetibile singolarità, giudizio da ancorarsi non esclusivamente alla determinazione quantitativo-statistica delle frequenze di classe di eventi (cd. probabilità quantitativa), ma anche all’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica). Nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto immune da vizi la decisione di merito che, facendo corretta applicazione dell’enunciato principio, aveva fondato la responsabilità di una struttura sanitaria, per colpa dei medici ivi operanti, in relazione al decesso di una paziente derivato dal ritardo di un solo giorno con cui le era stata diagnosticata la cd. sindrome di Lyell, non soltanto sul dato statistico delle percentuali di sopravvivenza dei pazienti affetti da detta sindrome, oltre che sul giudizio controfattuale a fronte di una condotta omissiva, ma anche sulla scorta degli elementi concreti risultanti dalle espletate c.t.u. e dalle prove acquisite riguardo alla superficialità dell’anamnesi effettuata sin dal ricovero, da cui era derivata l’errata diagnosi e le conseguenti dimissioni della paziente, nonostante l’elevata temperatura corporea, per di più, previa somministrazione di un farmaco tale da abbatterne del 70% le probabilità di sopravvivenza.

Nello stesso solco, Sez. 3, n. 26304/2021, Dell’Utri, Rv. 662534-01, ha precisato che il criterio del più probabile che non costituisce il modello di ricostruzione del solo nesso di causalità, regolante cioè l’indagine sullo statuto epistemologico di un determinato rapporto tra fatti o eventi, mentre la valutazione del compendio probatorio (nella specie, con riferimento ad un determinato comportamento in tema di responsabilità medico-sanitaria) è informata al criterio della attendibilità ovvero della più elevata idoneità rappresentativa e congruità logica degli elementi di prova assunti ed è rimessa al discrezionale apprezzamento del giudice di merito, insindacabile, ove motivato e non abnorme, in sede di legittimità.

In tema di accertamento del nesso di causa, Sez. 3, n. 19372/2021, Vincenti, Rv. 661838-01, ha affermato che il medico di guardia è responsabile per la morte del paziente visitato e dimesso, con apposita prescrizione farmacologica, se sia configurabile il suo inadempimento nella forma di una condotta omissiva o di una diagnosi errata o di una misura di cautela non presa, ove l’evento di danno si ricolleghi deterministicamente, o in termini di probabilità, alla condotta del sanitario. In particolare, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto sussistente la responsabilità del sanitario operante in guardia medica per non aver avviato il paziente, in seguito deceduto per disseccazione aortica, presso qualsiasi struttura sanitaria in grado di effettuare i necessari approfondimenti clinico-strumentale a fronte di una sintomatologia dolorosa toracica persistente.

In ordine ai criteri di riparto dell’onere della prova, in una controversia tra il paziente che assuma di avere contratto un’infezione in conseguenza di un’emotrasfusione ospedaliera, Sez. 6-3, n. 10592/2021, Rossetti, Rv. 661275-01, ha ribadito - in continuità con quanto affermato in precedenza da Sez. 6-3, n. 07884/2018, Cirillo F.M., Rv. 648285-01 - che non è onere del paziente allegare e provare che l’ospedale ha tenuto una condotta negligente o imprudente nell’acquisizione e nella perfusione del plasma, ma che spetta alla medesima struttura sanitaria dedurre e dimostrare di avere rispettato le norme giuridiche e le leges artis che presiedono alle dette attività.

Quanto al secondo profilo, inerente al rapporto interno tra la struttura sanitaria e il medico, Sez. 3, n. 29001/2021, Porreca, Rv. 662914-01, ha riaffermato l’innovativo principio, già enunciato nel corso del 2019, in via generale, da Sez. 3, n. 28987/2019, Porreca, Rv. 655790-01, secondo cui la responsabilità della struttura sanitaria integra, ai sensi dell’art. 1228 c.c., una fattispecie di responsabilità diretta per fatto proprio, fondata sull’elemento soggettivo dell’ausiliario, la quale trova fondamento nell’assunzione del rischio per i danni che al creditore possono derivare dall’utilizzazione di terzi nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale, e che deve essere distinta dalla responsabilità indiretta per fatto altrui, di natura oggettiva, in base alla quale l’imprenditore risponde, per i fatti dei propri dipendenti, a norma dell’art. 2049 c.c.; pertanto, nel rapporto interno tra la struttura e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest’ultimo deve essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, comma 2, e 2055, comma 3, c.c., atteso che, diversamente opinando, la concessione di un diritto di regresso integrale ridurrebbe il rischio di impresa, assunto dalla struttura, al solo rischio di insolvibilità del medico convenuto con l’azione di rivalsa, salvo che, nel relativo giudizio, la struttura dimostri, oltre alla colpa esclusiva del medico rispetto allo specifico evento di danno sofferto dal paziente, da un lato, la derivazione causale di quell’evento da una condotta del sanitario del tutto dissonante rispetto al piano dell’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità e, dall’altro, l’evidenza di un difetto di correlate trascuratezze, da parte sua, nell’adempimento del relativo contratto, comprensive di omissioni di controlli atti ad evitare rischi dei propri incaricati.

Nella stessa prospettiva, in tema di transazione tra medico e danneggiato, Sez. 3, n. 26118/2021, Rossetti, Rv. 662498-01, ha affermato che anche quando la domanda risarcitoria si fonda sull’erroneo operato del medico e non sui profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria, la transazione tra medico e danneggiato non impedisce l’esercizio dell’azione per l’accertamento della responsabilità della struttura ospedaliera – che non ha natura di responsabilità per fatto altrui, bensì per fatto proprio e, pertanto, non viene meno in conseguenza della liberazione del medico dalla propria obbligazione risarcitoria –, ma comporta unicamente che, nel compiere detto accertamento, il giudice debba indagare incidenter tantum sulla esistenza di una eventuale condotta colposa del sanitario.

In tema di effetti protettivi del contratto, in sostanziale continuità con quanto affermato da Sez. 3, n. 14615/2020, Sestini, Rv. 658328-01, Sez. 6-3, n. 21404/2021, Guizzi, Rv. 662040-01, ha ribadito la natura extracontrattuale della responsabilità della struttura sanitaria per i danni da perdita del rapporto parentale, invocati iure proprio dai congiunti di un paziente deceduto, dal momento che, da un lato, il rapporto contrattuale intercorre unicamente col paziente, e dall’altro i parenti non rientrano nella categoria dei “terzi protetti dal contratto”, potendo postularsi l’efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l’interesse, del quale tali terzi siano portatori, risulti anch’esso strettamente connesso a quello già regolato sul piano della programmazione negoziale.

In tema di responsabilità conseguente alla sperimentazione di farmaci, Sez. 3, n. 10348/2021, Sestini, Rv. 661244-01, ha ritenuto che la casa farmaceutica promotrice della sperimentazione, la quale abbia fornito il farmaco ad una struttura sanitaria per sperimentarlo sui pazienti a mezzo dei propri medici, risponda a titolo contrattuale dei danni sofferti dai soggetti a cui sia stato effettivamente somministrato il farmaco, a causa di un errore dei medici “sperimentatori”, soltanto se, sulla base della concreta conformazione dell’accordo di sperimentazione, debba ritenersi che essa si sia personalmente obbligata verso i destinatari della sperimentazione, in modo che la struttura ospedaliera e i suoi dipendenti abbiano assunto la qualità di ausiliari di cui la casa farmaceutica si è avvalsa nell’adempimento, ai sensi dell’art. 1228 c.c.; al di fuori di questa ipotesi, essa può essere chiamata a rispondere solo a titolo di responsabilità extracontrattuale (in applicazione del criterio di imputazione speciale di cui all’art. 2050 c.c., o, eventualmente, di quello generale di cui all’art. 2043 c.c.), da accertarsi secondo le regole proprie della stessa. In particolare, nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, senza accertare se la società promotrice avesse personalmente assunto una obbligazione verso il paziente reclutato nel programma sperimentale, aveva qualificato la responsabilità della prima verso il secondo in termini di responsabilità contrattuale, facendo riferimento ad un “contatto sociale” tra loro pacificamente insussistente, perché instaurato dal paziente esclusivamente con i medici sperimentatori.

Sul versante dell’oggetto della prestazione medica, Sez. 3, n. 00200/2021, Scarano, Rv. 660211-01, ha sottolineato che il rilievo della questione concernente la necessità della soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà può essere compiuto d’ufficio dal giudice, sulla base di risultanze ritualmente acquisite, non costituendo oggetto di un’eccezione in senso stretto. Peraltro, ove tale questione non sia stata né prospettata né discussa in primo grado, la corte d’appello che voglia fondare su di essa la propria decisione è tenuta, a pena di nullità, ad invitare previamente le parti ad argomentare al riguardo, anche al fine dell’eventuale sollecitazione dell’esercizio dei poteri ex art. 356 c.p.c., la particolare difficoltà della prestazione medica. Peraltro, la stessa pronuncia, Rv. 660211-02, ha deciso che il giudice che abbia disposto una consulenza tecnica cd. percipiente può anche disattenderne le risultanze, ma solo ove motivi in ordine agli elementi di valutazione adottati e a quelli probatori utilizzati per addivenire alla decisione, specificando le ragioni per le quali ha ritenuto di discostarsi dalle conclusioni del CTU. Nella fattispecie, la S.C. ha cassato con rinvio una decisione di merito che, in una controversia in tema di responsabilità medica per ritardata diagnosi di un aneurisma cerebrale, aveva riformato la pronuncia di primo grado – che aveva accolto le conclusioni del CTU – limitandosi a sottolineare, in maniera generica ed ipotetica, le anomalie del caso clinico sottoposto all’esame dei sanitari e, in particolare, l’assenza di sintomi neurologici e l’immediata remissione degli ulteriori sintomi rilevati.

Sul delicato versante della effettiva garanzia della prestazione del consenso rispetto al trattamento sanitario, Sez. 6-3, n. 39084/2021, Cricenti, Rv. 663348-01, ha escluso per il sanitario l’obbligo di acquisire il consenso informato laddove si tratti di un semplice differimento dell’intervento già programmato rispetto al quale il paziente abbia già prestato il proprio consenso.

In tema di risarcimento del danno cosiddetto da nascita indesiderata, Sez. 3, n. 00653/2021, Sestini, Rv. 660196-01, ha ritenuto che il medico che non informi correttamente e compiutamente la gestante dei rischi di malformazioni fetali correlate a una patologia dalla medesima contratta possa essere chiamato a risarcire i danni conseguiti alla mancata interruzione della gravidanza, la quale si giustifica oltre il novantesimo giorno, ai sensi dell’art. 6, lett. b), della l. n. 194 del 1978, in presenza di un accertamento di processi patologici che possono provocare, con apprezzabile grado di probabilità, rilevanti anomalie del nascituro, idonei a determinare per la donna un grave pericolo – da accertarsi in concreto e caso per caso, senza che sia necessario che la malformazione si sia già prodotta o risulti strumentalmente o clinicamente accertata – per la sua salute fisica o psichica.

Sez. 6-3, n. 21404/2021 Rv. 662040-03, ha precisato che la regola di coincidenza, dettata dall’art. 2947, comma 3 c.c., dei termini di prescrizione del diritto al risarcimento del danno con quelli stabiliti dalla legge penale per il reato, si riferisce a tutti i possibili soggetti passivi della pretesa risarcitoria e si applica, perciò, non solo all’azione civile esperibile contro la persona penalmente imputabile, ma anche a quella intentata contro coloro che sono tenuti al risarcimento a titolo di responsabilità indiretta (nella specie, contro un ente ospedaliero per fatto illecito di un medico dipendente). Nello stesso ambito, Sez. 3, n. 12182/2021, Olivieri, Rv. 661326-01, ha statuito che in tema di risarcimento del danno alla salute causato da emotrasfusione con sangue infetto - che costituisce una ipotesi di danno cd. “lungolatente”, in cui il fatto in relazione al quale decorre il termine ex art. 2947, comma 1, c.c. coincide con il momento in cui viene ad emersione il completamento della fattispecie costitutiva del diritto, da accertarsi, rispetto al soggetto danneggiato, secondo un criterio oggettivo di conoscibilità - la parte eccipiente ha l’onere di allegare e provare, ai sensi dell’art. 2697, comma 2, c.c., il fatto temporale costitutivo dell’eccezione di prescrizione, ossia la prolungata inerzia dell’esercizio del diritto al risarcimento del danno, in quanto riconducibile al termine iniziale di oggettiva conoscibilità della eziopatogenesi, mentre non è tenuta ad indicare altresì le norme applicabili, essendo rimessa al giudice la sussunzione di quel fatto nello schema normativo astratto dello specifico tipo di prescrizione applicabile alla fattispecie concreta, il quale può essere anche diverso da quello indicato dalla parte e condurre all’individuazione di un maggiore o minore termine di estinzione del diritto.

3. La responsabilità dell’avvocato.

Con riferimento al contratto di patrocinio legale, Sez. 6-2, n. 36531/2021, Lombardo, Rv. 663082-01, ha statuito che l’esercizio, in assenza di giusta causa, del diritto di recesso da parte del professionista non incide sull’effetto risolutorio del vincolo sinallagmatico, ma si ripercuote sulla possibilità, per il cliente, di richiedere il risarcimento del danno e sul diritto di rifiutare il pagamento del compenso sino a quel momento maturato, stante l’illegittima cessazione del rapporto contrattuale; in particolare, la deduzione del recesso privo di giusta causa e la conseguente pretesa di esonero dal pagamento del compenso, equivalendo alla proposizione di un’eccezione di inadempimento, costituisce un’eccezione in senso stretto, la cui proposizione, anche a seguito della novella di cui alla l. n. 353 del 1990, è preclusa in grado di appello.

Nello stesso ambito, in tema di responsabilità professionale dell’avvocato per condotta inerte rispetto al mandato ricevuto dal cliente e di limite dell’importo risarcibile entro il valore della competenza del giudice adito, Sez. 2, n. 23434/2021, Varrone, Rv. 662145-01, ha affermato che, nell’ipotesi in cui una domanda di risarcimento danni venga proposta avanti al giudice di pace con la richiesta della condanna della controparte al pagamento di un importo indicato in una somma inferiore (o pari) al limite della giurisdizione equitativa del giudice di pace, la formulazione di questa seconda richiesta alternativa non può essere considerata - agli effetti dell’art. 112 c.p.c. - come meramente di stile, in quanto essa (come altre consimili), lungi dall’avere un contenuto meramente formale, manifesta la ragionevole incertezza della parte sull’ammontare del danno effettivamente da liquidarsi e ha lo scopo di consentire al giudice di provvedere alla giusta liquidazione del danno senza essere vincolato all’ammontare della somma determinata che venga indicata nelle conclusioni specifiche.

In tema di responsabilità professionale del difensore in ambito processuale, Sez. 6-3, n. 34638/2021, Porreca, Rv. 663013-01, ha ritenuto che, in materia di disciplina delle spese processuali – nel caso di azione o di impugnazione promossa dal difensore senza effettivo conferimento della procura da parte del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire nel giudizio (come nel caso di inesistenza della procura ad litem o falsa o rilasciata da soggetto diverso da quello dichiaratamente rappresentato o per processi o fasi di processo diverse da quelle per le quali l’atto è speso) – l’attività del difensore non riverberi alcun effetto sulla parte e resti attività processuale di cui il legale assume esclusivamente la responsabilità, con conseguente ammissibilità di una sua condanna a pagare le spese del giudizio; diversamente, invece, nel caso di invalidità o sopravvenuta inefficacia della procura ad litem, non è ammissibile la condanna del difensore alle spese del giudizio, in quanto l’attività processuale è provvisoriamente efficace e la procura, benché nulla o invalida, è tuttavia idonea a determinare l’instaurazione di un rapporto processuale con la parte rappresentata, che assume la veste di potenziale destinataria delle situazioni derivanti dal processo.

Su analoga questione, Sez. 5, n. 17360/2021, Fanticini, Rv. 661475-01, ha statuito che la condanna alle spese in favore della controparte – quale conseguenza dell’inammissibile attività processuale iniziata col ricorso per cassazione proposto dall’ex legale rappresentante di una società estinta per pregressa cancellazione dal registro delle imprese – va riferita all’avvocato, se consapevole della mancanza del potere rappresentativo in capo alla persona fisica che gli ha attribuito il mandato, perché la procura speciale è giuridicamente inesistente.

In tema, Sez. 1, n. 03340/2021, Marulli, Rv. 660721-01, nell’ipotesi di tardiva proposizione dell’impugnazione, ha statuito che la parte non può invocare la rimessione in termini ex art. 153 c.p.c., quando il ritardo sia dovuto a fatto imputabile al difensore, costituendo la negligenza di quest’ultimo un evento esterno al processo, che attiene alla patologia del rapporto con il professionista, rilevante solo ai fini dell’azione di responsabilità nei confronti del medesimo, senza che ciò comporti alcuna violazione dell’art. 6 CEDU, poiché l’inammissibilità dell’impugnazione, conseguenza dell’inosservanza del termine, non integra una sanzione sproporzionata rispetto alla finalità di salvaguardare elementari esigenze di certezza giuridica secondo Corte EDU, 15 settembre 2016, Trevisanato c. Italia.

In tema di giudizio di cassazione, Sez. 3, n. 04920/2021, Moscarini, Rv. 660806-01, ha precisato che ai fini della comunicazione dell’avviso di fissazione dell’adunanza camerale, l’indicazione, nel ricorso, del codice fiscale del difensore, pur in mancanza di quella del relativo indirizzo di P.E.C., comporta l’automatica domiciliazione nel proprio indirizzo di P.E.C. figurante obbligatoriamente dal Reginde, sicché correttamente la cancelleria, a norma del combinato disposto degli artt. 366, ultimo comma, e 136, comma 2, c.p.c., procede all’individuazione della P.E.C. dal Reginde e all’esecuzione della comunicazione presso la relativa casella; pertanto, nell’ipotesi in cui la comunicazione inviata all’esito di tale individuazione non vada a buon fine per rifiuto da parte della casella di P.E.C. del destinatario, la mancata consegna dell’avviso deve ritenersi imputabile al difensore e la cancelleria non è onerata di procedere al rinnovo dell’atto attraverso una nuova comunicazione a mezzo posta, che, se effettuata tardivamente, resta irrilevante.

4. La responsabilità del notaio.

Anche quest’anno la Suprema Corte è tornata ad analizzare il contenuto del dovere di diligenza professionale gravante sul notaio, con particolare riferimento all’obbligo di informazione e consiglio.

Proprio rispetto al contenuto di tale dovere, per un verso, Sez. 3, n. 15599/2021, Moscarini, Rv. 661631-01, ha statuito che il notaio, rogante una compravendita e il collegato mutuo ipotecario, deve accertarsi dello stato civile delle parti secondo criteri di diligenza, prudenza e perizia professionale ed è adempiente a tale obbligo ove non si limiti ad esaminare la carta d’identità (o altro documento equipollente), ma proceda al confronto dei dati ivi indicati con quelli riportati nella documentazione approntata dalla banca per l’istruttoria della pratica di mutuo. Nella fattispecie, la Corte ha confermato la decisione di merito, con la quale era stata esclusa la responsabilità del notaio che, pur avendo effettuato i menzionati accertamenti, non aveva rilevato che la mutuataria era coniugata, e non nubile, contrariamente a quanto indicato nella carta d’identità e nell’ulteriore documentazione esaminata, le cui risultanze erano pure garantite dal mediatore finanziario, poi rivelatosi un truffatore. Per altro verso, Sez. 3, n. 02493/2021, Moscarini, Rv. 660395-01, ha ritenuto che il notaio, allorquando stipuli un mutuo garantito da ipoteca sulla proprietà superficiaria di un immobile insistente, in forza di concessione, su suolo demaniale, debba verificare l’esistenza della concessione e, dunque, la stessa permanenza del diritto superficiario sul bene, in quanto rientra nei suoi doveri professionali la conoscenza del regime generale dei beni demaniali e delle sue implicazioni sui diritti derivati, nonché dei termini e delle condizioni che regolano la dipendenza del diritto da alienare da un altro, al fine di evitare che la fruttuosità dell’alienazione possa essere incisa dalla sorte del diritto pregiudicante.

Con riferimento all’adempimento dei doveri accessori e di consiglio che gravano sul notaio rogante nei confronti dei propri clienti ove il predetto sia incaricato del rogito di un atto di compravendita immobiliare, Sez. 3, n. 07283/2021, Fiecconi, Rv. 660913-01, ha affermato che questi non possa limitarsi ad accertare la volontà delle parti e sovrintendere alla compilazione dell’atto, ma debba anche compiere l’attività necessaria ad assicurare la serietà e certezza degli effetti tipici e il risultato pratico perseguito ed esplicitato dalle dette parti, poiché contenuto essenziale della sua prestazione professionale è l’obbligo di informazione e consiglio. In particolare, egli è tenuto a compiere una verifica di natura tecnica ed essenzialmente giuridica, che ricomprende anche la stabilità o meno nel tempo dei titoli giudiziali trascritti, dovendo acquisire informazioni presso la conservatoria dei registri immobiliari sulla loro definitività; nella specie, il notaio non aveva compiuto le opportune indagini in ordine al titolo di proprietà dell’immobile acquistato per usucapione dal venditore in forza di una sentenza di primo grado che, benché trascritta, era stata impugnata e, quindi, non recava l’attestazione di passaggio in giudicato.

Degna di nota, infine, la pronuncia emessa da Sez. 5, n. 03456/2021, Lo Sardo, Rv. 660654-01, che ha escluso la responsabilità solidale del notaio in tema di pagamento dell’imposta di registro, in applicazione dell’art. 57, comma 2, del d.P.R. n. 131 del 1986, precisando come la liquidazione operata dall’Amministrazione finanziaria, a seguito della riqualificazione ai sensi dell’art. 20 d.P.R. cit. dell’atto presentato per via telematica, non ha natura di imposta principale (perché non viene effettuata al momento della registrazione) e neppure di imposta suppletiva (perché non è compiuta all’esito della correzione di errori o omissioni dell’Ufficio), essendo riconducibile alla figura residuale dell’imposta complementare, risultante da un’operazione ermeneutica volta a ricostruire a posteriori il reale contenuto giuridico dell’atto; nella fattispecie, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva ritenuto il notaio obbligato al pagamento della maggiore imposta di registro, liquidata a seguito della riqualificazione del patto contenuto nel contratto di mandato da lui rogato, con cui la società mandataria, erogatrice di un finanziamento, era stata autorizzata a iscrivere, a proprio favore, ipoteca sugli immobili di proprietà di mandanti, beneficiari del finanziamento, senza dover richiedere il loro assenso, ritenendo trattarsi in realtà di una condizione sottoposta alla mera volontà del creditore che, ai fini impositivi, è da considerare come non apposta.

5. La responsabilità del commercialista.

In tema di responsabilità professionale del commercialista per inadempimento all’incarico di tenuta della contabilità da cui siano derivati accertamenti fiscali, la decorrenza del termine di prescrizione del diritto al risarcimento presuppone che il danno si sia verificato e ciò non avviene con il processo verbale di constatazione, che è atto meramente interno, non impugnabile, non incidente né sul patrimonio, né su altra situazione giuridica del contribuente, ma si verifica soltanto se il verbale sfoci nell’avviso di accertamento, atto impugnabile con cui il fisco esercita, per la prima volta, il suo diritto a pretendere dal contribuente il pagamento del dovuto. In applicazione del principio, Sez. 6-3, n. 08872/2021, Cricenti, Rv. 660996-01, ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto prescritto il diritto al risarcimento, avendo fatto decorrere il termine decennale dalla notifica dell’atto prodromico, da cui pure emergevano irregolarità nella tenuta della contabilità a carico del professionista, anziché dalla notifica dell’avviso di accertamento.

6. Le responsabilità del direttore dei lavori e del costruttore nell’appalto.

Con una interessante decisione, Sez. 2, n. 06192/2021, Carrato, Rv. 660802-01, è tornata a pronunciarsi sulla responsabilità del costruttore-venditore nel caso in cui i vizi di costruzione di un edificio in condominio riguardino soltanto alcuni appartamenti e non anche le parti comuni, affermando che l’azione di risarcimento dei danni ex artt. 1669 e 2058 c.c. ha natura personale e può essere esercitata da qualsiasi titolare del bene oggetto della garanzia, senza necessità che al giudizio partecipino gli altri comproprietari. Tale azione va proposta, peraltro, esclusivamente dai proprietari delle unità danneggiate, non sussistendo un’ipotesi di litisconsorzio necessario nei confronti degli altri condòmini, ancorché possa insorgere, in sede di esecuzione ed in modo riflesso, un’interferenza tra il diritto al risarcimento del danno in forma specifica riconosciuto in sentenza ed i diritti degli altri condòmini, dovendo i danneggiati procurarsi il consenso di questi ultimi per procedere, nella proprietà comune, ai lavori necessari ad eliminare i difetti, giacché tale condizionamento dell’eseguibilità della pronuncia costituisce soltanto un limite intrinseco della stessa, che non cessa comunque di costituire un risultato giuridicamente apprezzabile.

In tema di riparto di obblighi tra appaltatore e committente, Sez. 3, n. 07553/2021, Graziosi, Rv. 660915-01, ha ritenuto che la consegna del bene all’appaltatore non faccia venir meno il dovere di custodia e di vigilanza gravante sul committente, sicché questi resta responsabile, alla stregua dell’art. 2051 c.c., dei danni cagionati ai terzi dall’esecuzione dell’opera salvo che provi il caso fortuito, quale limite alla detta responsabilità oggettiva, che può coincidere non automaticamente con l’inadempimento degli obblighi contrattualmente assunti nei confronti del committente bensì con una condotta dell’appaltatore imprevedibile e inevitabile nonostante il costante e adeguato controllo, esercitato - se del caso - per il tramite di un direttore dei lavori.

Nello stesso ambito, Sez. 2, n. 39599/2021, Giannaccari, Rv. 663254-01, ha statuito che, affinché si prospetti la responsabilità dell’appaltatore, la qualificazione del vizio come grave costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato.

Infine, in linea con Sez. 3, Sentenza n. 20557/2014, Cirillo F.M., Rv. 633486-01, Sez. 3, n. 39448/2021, Valle, Rv. 663438-01, ha riaffermato il principio secondo cui il direttore dei lavori ha la funzione di tutelare la posizione del committente nei confronti dell’ appaltatore, vigilando che l’esecuzione dei lavori abbia luogo in conformità con quanto stabilito dal capitolato di appalto, senza che da ciò derivi a suo carico una responsabilità per la cattiva esecuzione dei lavori, che resta imputabile alla libera iniziativa dell’appaltatore, ovvero per l’omessa costante vigilanza in relazione a profili marginali dell’esecuzione dell’opera.

7. La responsabilità del geometra.

In conformità ad un orientamento consolidato, Sez. 2, n. 00100/2021, Abete, Rv. 659984-01, ha ribadito che l’art. 16, lett. m), del r.d. 11 febbraio 1929, n. 274 (che non è stato modificato dalla l. n. 1068 del 1971) prevede che la competenza dei geometri sia limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l’adozione - anche parziale - di strutture in cemento armato, mentre, in via d’eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo, solo con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell’ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone, essendo riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato. Pertanto, la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli architetti sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì titolare della progettazione, trattandosi di competenze inderogabilmente affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità. Ne consegue che, qualora il rapporto professionale abbia avuto ad oggetto una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un geometra, quando la progettazione - richiedendo l’adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato - sia riservata alla competenza degli ingegneri.

8. La responsabilità dell’intermediario finanziario.

Anche quest’anno, la Corte di legittimità è tornata sul complesso problema che involge l’individuazione della responsabilità nell’ambito dei rapporti obbligatori di intermediazione bancaria e finanziaria sia dell’intermediario che dell’investitore.

Giova menzionare, in proposito, Sez. 3, n. 21643/2021, Cricenti, Rv. 662375-01, che ha individuato nella condotta dell’investitore – il quale, ancorché con esperienza nel settore, abbia consegnato in contanti al promotore finanziario, che agiva per conto di una SIM, una rilevante somma di denaro, a fini d’investimento, non rispettando i divieti di legge, ed abbia subito un danno patrimoniale a causa della condotta dolosa del promotore, condannato per truffa e appropriazione indebita – un fatto integrante il concorso colposo del danneggiato nella condotta dolosa accertata penalmente, per aver agevolato quanto meno con consapevole acquiescenza, la produzione del danno, potendo trovare applicazione anche in questa ipotesi l’art. 1227 c.c..

Sul requisito della forma scritta del contratto-quadro, posto a pena di nullità (azionabile dal solo cliente) dall’art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, Sez. 1, n. 09187/2021, Marulli, Rv. 660903-01, ha ritenuto che esso vada inteso non in senso strutturale, ma funzionale, avuto riguardo alla finalità di protezione dell’investitore assunta dalla norma, sicché tale requisito deve ritenersi rispettato ove il contratto sia redatto per iscritto e ne sia consegnata una copia al cliente, ed è sufficiente che vi sia la sottoscrizione di quest’ultimo, e non anche quella dell’intermediario, il cui consenso ben può desumersi alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti.

Con una serie di pronunce, la Corte ha dato inoltre rilevanti indicazioni in ordine al contenuto degli obblighi informativi posti a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario.

In primo luogo, Sez. 1, n. 20251/2021, Marulli, Rv. 661821-01, ha ribadito che - per le operazioni nelle quali possa insorgere un conflitto di interessi - il principio disclose or abstain, posto alla base della previgente disciplina del conflitto di interesse, risultante dall’art. 27 Regolamento Consob n. 11522 del 1998, è confermato dall’art. 23, comma 3, Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob del 29 ottobre 2007, poiché le nuove disposizioni, pur essendo finalizzate a prevenire le situazioni di conflitto, prevedono che, ove queste ultime comunque si presentino, l’intermediario sia tenuto ad informare chiaramente il cliente prima di agire per suo conto, mettendolo nella condizione di assumere decisioni consapevoli, che non possono non essere espressione di un assenso, anche solo tacito, all’esecuzione dell’operazione in conflitto.

In secondo luogo, Sez. 1, n. 08997/2021, Falabella, Rv. 660902-01, ha ritenuto che le singole operazioni di investimento in valori mobiliari, in quanto contratti autonomi, benché esecutive del contratto quadro originariamente stipulato dall’ investitore con l’intermediario, possano essere oggetto di risoluzione, in caso di inosservanza di doveri informativi nascenti dopo la conclusione del contratto quadro, indipendentemente dalla risoluzione di questo ultimo. In applicazione dell’enunciato principio la S.C. ha cassato la decisione della Corte di merito che, ritenendo la responsabilità dell’intermediario quale conseguenza dell’inosservanza degli obblighi informativi in favore del cliente di natura precontrattuale, aveva escluso l’esperibilità del rimedio risolutorio con riguardo ai negozi diretti alla negoziazione dei titoli. Nello stesso solco, Sez. 1, n. 33596/2021, Di Marzio M., Rv. 663105-01, ha precisato che gli obblighi informativi gravanti sull’intermediario finanziario sono preordinati a favorire scelte realmente consapevoli da parte dell’investitore, sussistendo pertanto una presunzione legale in ordine alla esistenza del nesso causale fra inadempimento informativo e pregiudizio all’investitore, in relazione alla quale l’intermediario può offrire prova contraria che, però, non può consistere nella dimostrazione di una generica propensione al rischio del cliente, desunta da scelte pregresse intrinsecamente rischiose, poiché anche l’investitore speculativamente orientato, e disponibile ad assumere rischi elevati, deve poter valutare la sua scelta nell’ambito di tutte le opzioni dello stesso genere offerte dal mercato, alla luce dei fattori di rischio che l’intermediario gli deve segnalare. In particolare, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che nella specie aveva ritenuto esistente la menzionata prova contraria, avendo gli investitori acquistato, in un momento successivo e presso un altro intermediario, gli stessi titoli rispetto ai quali avevano lamentato il danno da inadempimento degli obblighi informativi.

Sotto altro profilo, in una fattispecie di inadempimento dell’intermediario finanziario all’obbligo di informazione, in cui la corte d’appello aveva annullato la decisione di primo grado, che aveva pronunciato la risoluzione del contratto d’investimento, pur confermando la sussistenza dell’inadempimento dell’intermediario, senza pronunciare, in mancanza di una specifica impugnazione, sul riconosciuto diritto al risarcimento del danno in favore dell’investitore, Sez. 1, n. 10112/2021, Mercolino, Rv. 661267-01, ha ritenuto che la riforma della pronuncia di condanna, decisa dal giudice dell’appello, comporti la caducazione di quella avente ad oggetto la liquidazione del danno, ai sensi dell’art. 336 c.p.c., soltanto nel caso in cui faccia venir meno ogni fondamento di quest’ultima, sicché ove la condanna al risarcimento sia confermata, anche se per una ragione diversa da quella posta a fondamento della pronuncia riformata, non si determina automaticamente la caducazione della statuizione relativa alla liquidazione del danno, dovendo quest’ultima costituire oggetto di autonoma impugnazione, in mancanza della quale la relativa questione non può essere sollevata in sede di legittimità, risultando definitivamente preclusa dal giudicato interno formatosi in ordine alla misura del risarcimento.

DIALOGANDO CON IL MERITO 

  • medico
  • consulenza e perizia

CAPITOLO XII-bis

LA CONSULENZA TECNICA PREVENTIVA A FINI CONCILIATIVI IN MATERIA SANITARIA NELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO

(di Vittoria Amirante )

Sommario

1 Premessa. - 2 Ambito applicativo della consulenza tecnica preventiva quale condizione di procedibilità. - 3 Il ricorso. - 3.1 La competenza. - 3.2 Il vaglio di ammissibilità dell’ATP. - 3.3 Conseguenze della pronuncia di inammissibilità. - 4 I soggetti: litisconsorzio necessario e chiamate in causa. - 5 Il procedimento. La nomina dei consulenti. - 5.1 Il tentativo di conciliazione. - 6 Il termine perentorio di durata massima del procedimento.

1. Premessa.

L’art. 8 della legge 8 marzo 2017, n. 24 stabilisce che l'azione civile di risarcimento danni da responsabilità sanitaria deve essere preceduta, a pena di improcedibilità, dal ricorso per consulenza tecnica preventiva di cui all'art. 696 bis c.p.c., o, in alternativa, dalla mediazione ai sensi del d.lgs. n. 28 del 2019, art. 5, comma 1 bis. La disciplina della nuova consulenza tecnica preventiva obbligatoria va, peraltro, ricostruita attraverso un articolato sistema di rinvii che, partendo dalle disposizioni contenute negli artt. 8 e 15 della nuova legge, rimanda alla disciplina dettata dal codice di procedura civile e, in particolare, all'art. 696 bis c.p.c. che a sua volta rinvia all'art. 696 c.p.c. e alle altre disposizioni in materia di istruzione preventiva, nonché in quanto compatibili agli artt. 191-197 c.p.c. sulla consulenza tecnica d'ufficio. Tale complesso sistema normativo ha dato luogo, nell'applicazione concreta dell'istituto, a molteplici questioni, sia di ordine giuridico che pratico organizzativo, tanto da indurre alcuni Tribunali ad adottare protocolli o linee guida per rendere più trasparenti e prevedibili le decisioni in ordine alle maggiori criticità applicative.(1)

2. Ambito applicativo della consulenza tecnica preventiva quale condizione di procedibilità.

In base al dato testuale dell’art. 8 della l. n. 24 del 2017, può ritenersi, da un lato, che siano assoggettate alla neo istituita condizione di procedibilità tutte le domande risarcitorie proposte, innanzi al giudice civile(2), dal danneggiato nei confronti della struttura e dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’art. 7 e nei confronti della compagnia di assicurazione con azione diretta ai sensi dell’art. 12, dall’altro, che ne siano escluse le domande aventi ad oggetto il diritto di regresso della struttura sanitaria privata nei confronti dell'esercente sanitario di cui all'art. 9 e dell'assicurazione verso l'assicurato danneggiante prevista all'art. 12, anche se proposte in giudizio separato da quello azionato dal danneggiato, nonché le controversie di mero accertamento(3).

Dubbi sono sorti, invece, nella giurisprudenza di merito per quanto attiene alla ammissibilità del ricorso alla consulenza preventiva a fini conciliativi quale condizione di procedibilità per le controversie in cui il danneggiato lamenti la sola lesione del diritto all'autodeterminazione conseguente alla violazione degli obblighi informativi e di raccolta di un valido consenso informato. Taluni(4) hanno, infatti, ritenuto che tale tipo di controversie “esula dall'ambito di applicazione dell'ATP conciliativo obbligatorio atteso che non richiede una valutazione di tipo tecnico-scientifico ma una verifica in punto di fatto e l'applicazione di principi giuridici, involgendo quindi due ambiti di valutazione che competono esclusivamente al giudice e che non sono da questo delegabili” essendo necessario, in primo luogo, accertare la completezza e adeguatezza dell'informativa fornita al paziente prima dell'effettuazione dell'intervento e, poi, stabilire se la violazione del diritto alla autodeterminazione sia o meno risarcibile in base alla diversa rilevanza causale di essa secondo la casistica recentemente delineata dalla giurisprudenza di legittimità e che, pertanto, per tali controversie, al fine di assolvere alla condizione di procedibilità, dovrà farsi ricorso alla procedura di mediazione.

Altri(5), invece, hanno sottolineato come, anche in relazione a tali tipologie di controversie, siano ipotizzabili casi in cui sia necessaria o anche solo opportuna una consulenza specialistica per valutare la adeguatezza del modulo di consenso predisposto rispetto al tipo di trattamento effettuato, ovvero in ordine alla sussistenza di terapie alternative o anche di rischi specifici, non avendo il giudice le necessarie competenze specialistiche.

3. Il ricorso.

Dalle scarne disposizioni procedimentali dettate dall’art. 8 della l. n. 24 del 2017 si evince, in primo luogo, che il procedimento dovrà essere introdotto con ricorso cui si applicano le norme generali relative alla forma e al contenuto degli atti introduttivi e quelle speciali relative ai procedimenti di istruzione preventiva. Il ricorso dovrà, pertanto, contenere l'esposizione sommaria dei fatti e della domanda cui la consulenza risulta strumentale. Tale requisito, richiesto in via generale dall'art. 693 c.p.c. appare indispensabile sia per determinare la competenza, che segue gli stessi criteri del giudizio di merito, sia per determinare l'oggetto della consulenza tecnica e l'ambito del tentativo di conciliazione anche in funzione del rispetto della condizione di procedibilità, come desumibile dal comma 5 dell'art. 696 bis c.p.c. che prevede l'acquisizione della consulenza agli atti “del successivo giudizio di merito”. L’indicazione appare, inoltre, necessaria per consentire la corretta instaurazione del contraddittorio nei confronti delle controparti che, come si dirà infra, hanno l'obbligo di partecipare al procedimento.

3.1. La competenza.

In ordine alla competenza valgono gli ordinari criteri stabiliti dal codice. Va, peraltro, evidenziato che, mentre il comma 3 dell’art. 696 c.p.c., cui fa rinvio il comma 1 dell’art. 696 bis c.p.c., prevede la competenza del presidente del tribunale o del giudice da questi delegato, l’art. 8, comma 1, della l. n. 24 del 2017 prevede che il ricorso sia proposto “dinanzi al giudice competente”. Si vuole, infatti, che l’ATP si svolga davanti allo stesso giudice competente per l’eventuale causa di merito(6) il quale, avendo una visione unitaria della vicenda processuale ed avendo egli stesso formulato i quesiti ai consulenti nella fase dell’accertamento preventivo, potrà garantire maggiore speditezza del giudizio. Tale intento è reso ancor più esplicito dal comma 2 del medesimo art. 8 ove si prevede che, quando il giudice rileva che il procedimento di cui all'articolo 696 bis c.p.c. non è stato espletato, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione “dinanzi a sé” dell'istanza di consulenza tecnica in via preventiva nonché dal comma 3 sempre dell’art. 8 che stabilisce che il successivo ed eventuale ricorso ex art. 702 bis c.p.c. vada depositato presso il giudice che ha trattato il procedimento di accertamento preventivo. Per quanto riguarda la competenza territoriale, può trovare applicazione, oltre ai criteri generali codicistici, anche la disciplina speciale del foro del consumatore qualora ne ricorrano i presupposti(7).

3.2. Il vaglio di ammissibilità dell’ATP.

Questione assai controversa nella giurisprudenza di merito è quella attinente alla sussistenza ed estensione di un vaglio di ammissibilità del ricorso da parte del giudice. Ci si è chiesti, se, essendo la consulenza preventiva ai sensi dell’art. 8 della l. n. 24 del 2017 una condizione di procedibilità obbligatoria, la stessa sarebbe in quanto tale sempre ammissibile. Possono, infatti, dirsi superati, limitatamente al settore della responsabilità sanitaria(8), i dubbi relativi alla ammissibilità della consulenza a fini conciliativi anche in presenza di contestazioni relative alla sussistenza stessa della responsabilità(9) e di valutazioni di inconciliabilità in astratto della lite(10), posto che una valutazione di tal genere contrasterebbe con la prognosi di generale conciliabilità formulata dal legislatore nell'art.8.

Allo stesso modo dovrebbe escludersi che possa essere affermata l’inammissibilità del ricorso sulla base di giudizi sommari di infondatezza della domanda e/o di meritevolezza delle difese di controparte, pena lo svilimento dello strumento predisposto dal legislatore e delle finalità deflattive con esso perseguite. Eventuali questioni relative alla fondatezza della pretesa, d'altro canto, potranno e dovranno essere affrontate nel successivo giudizio che avrà luogo in caso di esito infausto del tentativo di conciliazione ex art. 696 bis c.p.c. e nel quale, ove occorra, potranno disporsi accertamenti supplementari ed assumersi ulteriori mezzi di prova, previa eventuale valutazione delle eccezioni processuali e di merito sollevate dalle parti. Deve, poi, senz’altro escludersi che sia richiesta la prospettazione di un periculum in mora come, peraltro, è confermato dal comma 1 dell’art. 696 bis c.p.c., richiamato dall’art. 8 cit. che prevede che l’espletamento di una consulenza tecnica preventiva possa essere richiesto anche al di fuori delle condizioni di cui al primo comma dell'art. 696 c.p.c.

E’, invece, questione ancora controversa nella giurisprudenza di merito, la sussistenza di un potere o dovere del giudice di valutare l’ammissibilità del ricorso in relazione al livello di specificità delle allegazioni. Ci si chiede, infatti, se si possa o addirittura si debba dichiarare inammissibile un ricorso ex art. 8 cit., ove difetti la specificazione dell'oggetto della domanda o le allegazioni di parte siano generiche. Secondo un primo orientamento(11), costituendo l'ATP una condizione obbligatoria di procedibilità, non residuerebbe in capo al giudice alcun margine di apprezzamento discrezionale in merito alla delibazione del ricorso, con la conseguenza che non potrebbe mai dichiararsi l'inammissibilità dello stesso. Secondo un altro orientamento l’allegazione di specifici fatti costitutivi della responsabilità sanitaria costituisce presupposto di ammissibilità del ricorso e, dunque, “il ricorso che non prospetti quegli elementi fattuali e tecnici rispetto ai quali soltanto il consulente può fornire le proprie valutazioni, ovvero ancora, il ricorso che, pur rimanendo in ambito tecnico, tenda a voler sollecitare una indagine rispetto alle cause dei danni riportati o del decesso sopravvenuto, senza volere descrivere i fatti di causa con un minimo di specificità, non può che essere considerato inammissibile in quanto esplorativo”(12). Un orientamento intermedio(13) esclude che si possa pervenire ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso per genericità delle allegazioni di parte con decreto inaudita altera parte, ritenendo, invece, necessario che il Giudice richieda in via preliminare gli opportuni chiarimenti nel contraddittorio tra le parti, invitando ove necessario la parte ricorrente a precisare i termini della questione che dovrà essere fatta oggetto di valutazione tecnica. In tale ottica una pronuncia di inammissibilità del ricorso potrà essere emessa solo laddove il ricorrente non ottemperi all’invito ovvero le allegazioni siano, nonostante le precisazioni fornite, talmente generiche da non consentire al Giudice di conoscere le questioni tecniche rilevanti nella controversia, o di formulare i quesiti da porre al CTU ovvero siano tali da pregiudicare le aspettative di difesa della parte convenuta.

Diversa è, poi, la questione, del pari discussa nella giurisprudenza di merito(14), relativa alla ammissibilità dell’ATP conciliativo laddove in relazione ai medesimi fatti sia già stata svolta una procedura di mediazione, e dunque la condizione di procedibilità possa considerarsi assolta, ovvero sia stato svolto un precedente procedimento di ATP conciliativo (in data antecedente all’entrata in vigore della l. n. 24 del 2017 o anche successiva ma nei confronti solo di alcune delle parti del procedimento).

Quanto alla ipotesi di ricorso per ATP conciliativo preceduto da ricorso alla mediazione, parte della giurisprudenza ne ritiene l’ammissibilità non potendosi escludere che l'interessato possa avere un interesse a promuovere il procedimento ex art. 696 bis c.p.c. laddove vengano allegate circostanze sopravvenute all’inutile esperimento della mediazione che rendano plausibile una prospettiva conciliativa. Si ritiene, tuttavia, che in tal caso l’ATP non sia assoggettato alla disciplina speciale introdotta dalla l. n. 24 citata, bensì unicamente alla disciplina codicistica ordinaria di cui all’art. 696 bis c.p.c.

In relazione alla ipotesi di reiterazione di ricorso per ATP, la giurisprudenza di merito è prevalentemente orientata nel senso della inammissibilità, ove la vicenda sia la medesima e non vengano allegati fatti nuovi o diversi, in quanto la richiesta di dare ingresso a un nuovo accertamento peritale viene ritenuto come una forma di abuso del processo perseguendo una finalità diversa ed eccedente rispetto a quella per la quale l'ordinamento la ha predisposta, ossia ottenere un risultato più favorevole al paziente, anziché conciliare la lite ed evitare cause esplorative(15).

In altra prospettiva(16) si è sottolineato come il procedimento per ATP, sia quello generale di cui all’art. 696 bis c.p.c. che quello speciale ex art. 8 della l. n. 24 del 2017, non sfoci in un provvedimento che abbia i requisiti della cosa giudicata, nemmeno nelle forme particolari della inoppugnabilità degli accertamenti sanitari(17)e che, pertanto non si possa parlare di una eventuale problematica correlata al divieto del bis in idem. Si è, peraltro, evidenziato (18) che la provvisorietà del provvedimento che ammette e dispone l’ATP ex art. 696 bis c.p.c., unitamente all’insussistenza di preclusioni istruttorie in fase di accertamento tecnico, portino a ritenere che la relazione peritale che viene redatta in tale procedimento si limiti a prospettare una valutazione tecnica sulla base degli atti prodotti e che, dunque, laddove vengano prodotti altri e diversi documenti rilevanti per l’accertamento della responsabilità, ovvero si ponga un problema di opponibilità della precedente relazione peritale a soggetti rimasti estranei al primo procedimento, possa essere riproposto il ricorso.

3.3. Conseguenze della pronuncia di inammissibilità.

Così delineate le ipotesi di inammissibilità del ricorso, occorre chiedersi quali possano essere le conseguenze di tale declaratoria e, dunque, se dichiarato inammissibile o comunque rigettato il ricorso, possa dirsi assolta la condizione di procedibilità. L'art. 8, comma 3, della l. n. 24 del 2017 stabilisce, infatti, che la condizione di procedibilità si considera in ogni caso soddisfatta decorsi sei mesi dal deposito del ricorso, anche nel caso in cui il procedimento non si sia ancora concluso. Non può, tuttavia, ritenersi che il mero deposito del ricorso, non seguito da alcuna attività processuale, soddisfi la condizione di procedibilità, altrimenti si avallerebbe un sostanzialmente aggiramento della previsione normativa e della finalità deflattiva voluta dal legislatore. Deve, invece, ritenersi che la pronuncia che, all'esito della rituale instaurazione del contradditorio, concluda lo stesso in rito, soddisfi la condizione di procedibilità e consenta al danneggiato di agire come se il procedimento fosse stato esperito. Il giudice del merito, successivamente adito dall'interessato, potrà o inviare le parti in mediazione ai sensi dell'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 28 del 2010, per recuperare la fase conciliativa non esperita, ovvero procedere nella trattazione della causa e disporre, in quella sede, la consulenza tecnica, conferendo agli esperti anche l'incarico di tentare la conciliazione. Nel provvedimento con il quale il Giudice dichiara inammissibile il ricorso, ovvero l’incompetenza del giudice adito, andrà inoltre disposta la condanna del ricorrente alla refusione delle spese. La Suprema Corte ha, infatti, anche di recente affermato che l'art. 669 septies, comma 2, c.p.c. - nel prevedere che se l'ordinanza di rigetto o di incompetenza è pronunciata prima dell'inizio della causa di merito, con essa il giudice provvede definitivamente sulle spese del procedimento - trova applicazione anche ai provvedimenti di istruzione preventiva, e la relativa ordinanza, non è impugnabile ai sensi dell'art.111, comma 7, Cost., in quanto priva dei caratteri della definitività e decisorietà, anche in relazione alle spese del procedimento(19). Nell'ipotesi in cui il giudice, invece, accolga il ricorso dando luogo all'espletamento della consulenza tecnica, il procedimento si conclude con il deposito della relazione peritale, cui segue la liquidazione del compenso al consulente nominato dal giudice, senza che possa essere adottato alcun altro provvedimento relativo al regolamento delle spese tra le parti, stante la mancanza dei presupposti sui quali il giudice deve necessariamente basare la propria statuizione in ordine alle spese ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c. Ne consegue che, laddove un provvedimento in ordine alla liquidazione di tali spese venga viceversa emesso, si è in presenza di un provvedimento non previsto dalla legge di natura decisoria, destinato a incidere su una posizione di diritto soggettivo della parte a carico della quale risulta assunto e dotato del carattere di definitività, contro cui non è dato alcun mezzo di impugnazione, sicché avverso il medesimo ben può essere esperito il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.(20)

Quanto alla possibilità di impugnazione del provvedimento di rigetto o di inammissibilità del ricorso per ATP la giurisprudenza prevalente(21) ritiene che il principio della reclamabilità del provvedimento di rigetto, affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 144 del 16 maggio 2008 con riferimento all'ordinanza di diniego dell'accertamento tecnico preventivo ex art. 696 c.p.c., non si estenda ai provvedimenti di rigetto dell'istanza ex art. 696 bis c.p.c. non avendo il procedimento in esame natura o finalità cautelare e non essendo caratterizzato – a differenza di quello ex art. 696 c.p.c.- dall’urgenza. E’, infatti, evidente che sia la funzione conciliativa che quella di anticipazione del mezzo istruttorio ben potranno essere realizzate in sede di giudizio di merito, senza che il provvedimento negativo spieghi efficacia preclusiva o vincolante.

Tali conclusioni dovrebbero, pertanto, portare ad escludere la reclamabilità anche del provvedimento di rigetto del ricorso ex art. 8 della l. n. 24 del 2017, a patto che si condivida l’impostazione precedentemente esposta secondo la quale il provvedimento di rigetto o di inammissibilità non preclude l’avveramento della condizione di procedibilità e che dunque la parte possa promuovere il giudizio di merito e in quella sede rinnovare la richiesta di consulenza tecnica senza subire limitazioni o preclusioni di sorta.

4. I soggetti: litisconsorzio necessario e chiamate in causa.

Uno dei profili più controversi della nuova disciplina è quello relativo all’individuazione dei soggetti che sono tenuti a partecipare al procedimento di ATP, anche al fine di stabilire chi sia esposto alle conseguenze sanzionatorie di cui al comma 4 dell’art. 8(22). Se, infatti, è pacifico che i soggetti chiamati in sede di ATP conciliativo debbano coincidere con i futuri soggetti convenuti quali responsabili del danno nel giudizio di merito da instaurarsi nell’ipotesi di fallimento della conciliazione, la giurisprudenza è divisa tra chi(23) ritiene che nel procedimento di ATP siano parti necessarie tutti i soggetti che il ricorrente prospetti come obbligati, compreso l'esercente la professione sanitaria autore della condotta illecita, anche se dipendente dalla struttura, e che, pertanto, ove il ricorrente non abbia chiesto che l’accertamento tecnico sia svolto nei confronti di tutti i soggetti potenzialmente responsabili, il giudice sia tenuto a disporre l’integrazione del contraddittorio ai soggetti pretermessi e chi(24) esclude che nel procedimento di ATP conciliativo ex art. 8 della l. n. 24 del 2017 - e di conseguenza nel successivo giudizio di merito - proposto dal danneggiato nei confronti della sola struttura sanitaria, il medico responsabile sia litisconsorte necessario, spettando al danneggiato la facoltà di scegliere se agire nei confronti di uno o di alcuni o di tutti i soggetti potenzialmente responsabili. A tale conclusione si perviene in base ad una interpretazione letterale dell'art. 8 che, nell’imporre l’obbligo di partecipazione al procedimento alle parti e, cioè, a chi è già evocato nel procedimento di istruzione preventiva, non pare poter essere interpretato nel senso che il danneggiato sia tenuto a convenire tutti i presunti corresponsabili che ancora parti non sono.

Dal punto di vista dell’interpretazione sistematica sia l'art. 9 che l’art. 12 della l. n. 24 del 2017 depongono nel senso di escludere che il sanitario sia litisconsorte necessario. Da un lato, infatti, l’art. 9, nel disciplinare le azioni di regresso e rivalsa, prevede specificamente l'ipotesi che l'esercente la professione sanitaria possa non essere stato parte del giudizio, dall’altro l’art. 12, che disciplina l’azione diretta del danneggiato nei confronti della compagnia assicurativa, espressamente prevede il litisconsorzio necessario esclusivamente tra l'impresa di assicurazione della struttura sanitaria e la struttura medesima e tra l'impresa di assicurazione dell'esercente la professione sanitaria ed il sanitario assicurato.

Per quanto, poi, attiene alla posizione della compagnia assicuratrice - della struttura sanitaria, ove esistente, e del singolo sanitario - occorre considerare in primo luogo che il litisconsorzio previsto all'art. 12, per l’ipotesi della azione diretta nei confronti dell’assicurazione, ha carattere processuale ed unilaterale nel senso che mentre la partecipazione al giudizio del responsabile del danno è necessaria quando il danneggiato proponga azione diretta nei confronti dell'assicuratore, ove il danneggiato opti per l’azione ordinaria nei confronti del danneggiante senza citare l'assicuratore, questi non assume la veste di litisconsorte necessario e potrà quindi essere pretermesso. In secondo luogo, deve rilevarsi che, ai sensi del comma 6 dell’art. 12, le disposizioni relative all’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicurazione, si applicano solo a decorrere dall’entrata in vigore del decreto ministeriale previsto dall’art. 10, comma 6 - che avrebbe dovuto essere emanato entro 120 giorni e non è stato a tutt’oggi emanato - disciplinante i requisiti minimi delle polizze assicurative.

Ciò posto, sussiste contrasto nella giurisprudenza di merito in ordine alla ammissibilità della citazione diretta della compagnia assicurativa in sede di ricorso per ATP conciliativo sino all’emanazione dei decreti attuativi previsti dall'art. 10, comma 6, della l. n. 24 del 2017. Secondo un primo orientamento(25), stante il combinato disposto degli artt. 12, comma 6, e 10, sino a quando non sarà emanato il decreto attuativo che disciplinerà i requisiti minimi delle polizze assicurative e le eccezioni opponibili al terzo danneggiato ex art. 12, comma 2, ovvero il decreto ministeriale cui è subordinata la vigenza della disciplina normativa sull'azione diretta ex art. 10, il ricorrente non dispone di azione diretta nei confronti della compagnia di assicurazione del sanitario e/o della struttura. Ove, dunque, il ricorrente provvedesse a notificare il ricorso ex art. 696 bis c.p.c. anche alla compagnia assicuratrice il ricorso sarebbe dichiarato inammissibile per questa parte.

Secondo altro orientamento(26) sarebbe, invece, irrilevante la mancata adozione dei decreti ministeriali posto che l'art. 8, al comma 4, prevede che nella fase dell’ATP conciliativo sia obbligatoria la partecipazione di tutte le parti, e anche delle imprese di assicurazione e che tale obbligo di partecipazione sarebbe indipendente dall'esperibilità in sede di merito dell'azione diretta. Si sottolinea(27), inoltre, come tale soluzione trovi supporto sistematico nella previsione della cd. “clausola di salvezza”, prevista dall'art. 12 della stessa legge, che fa salve le disposizioni di cui all'art. 8, nonché nella finalità conciliativa dello strumento processuale previsto nell'art. 696 bis c.p.c., che potrebbe raggiungere pienamente tale obiettivo solo con la presenza anche della compagnia assicurativa della struttura o del sanitario, essendo la partecipazione strumentale a fornire all'assicurazione i possibili elementi di natura tecnica necessari all'eventuale formulazione di un'offerta di risarcimento che tenga conto dell'an e del quantum della responsabilità e che consenta la chiusura in via transattiva della controversia prevenendo l'instaurazione di un giudizio di merito, anche solo nei confronti dell'assicurato. Vi è chi(28), infine, ritiene non solo che sia ammissibile la chiamata della compagnia assicurativa da parte del danneggiato ma anche che, laddove la compagnia non venga chiamata né dal danneggiato né dal convenuto assicurato (sia esso struttura o sanitario), il giudice debba disporne la chiamata ex art. 107 c.p.c. a cura della parte ricorrente.

Per quanto attiene, in generale, alla possibilità che un terzo venga chiamato o intervenga nel procedimento di consulenza tecnica preventiva ai fini conciliativi, benché l’art. 696 bis c.p.c., cui occorre fa riferimento per tutto quanto non specificamente disposto dall’art. 8, taccia sul punto, la giurisprudenza assolutamente prevalente è orientata nel senso che non sussistano preclusioni alla partecipazione di terzi al procedimento di consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c. stante la natura di giurisdizione contenziosa e non volontaria e che, pertanto, si applichino le norme di diritto comune che disciplinano la partecipazione dei terzi al processo (art. 105 c.p.c. e ss.). Quanto alle modalità procedurali per effettuare la chiamata del terzo si ritiene che il termine entro il quale la parte possa chiedere di chiamare un terzo in causa, pur se non espressamente previsto dalla norma, debba necessariamente individuarsi nella udienza fissata dal giudice ai sensi dell’art. 694 c.p.c. e comunque prima che sia stata emessa la ordinanza di cui all’art. 695 c.p.c.(29).

L’individuazione di tale termine si impone sia al fine di salvaguardare il principio del contraddittorio che si traduce nella sostanziale parità di tutte le parti del giudizio - principio che risulterebbe, infatti, violato ove si consentisse ad una delle parti di chiamare nel procedimento un terzo quando il giudice si è già pronunciato sulla istanza ammettendo l’accertamento tecnico- che per esigenze di economia processuale e per garantire la celerità e speditezza del procedimento tenuto conto che, in via generale, la valutazione dell’esigenza di ragionevole durata del processo è stata ritenuta dalla Suprema Corte intrinseca ad ogni scelta discrezionale, dopo la novella dell'art. 111 Cost.(30) e, più specificamente, in relazione alla procedura in oggetto, è stata ritenuta dal legislatore talmente rilevante da imporre un inusuale termine perentorio per la conclusione del procedimento stesso che quindi non ammetterebbe rallentamenti se non in via del tutto eccezionale. Alla luce di tali considerazioni, peraltro, parte della giurisprudenza(31) ha limitato la platea dei soggetti cui è possibile estendere il contraddittorio in sede di chiamata di terzo. Se, infatti, si è ritenuta senz’altro ammissibile la chiamata dell’assicuratore della struttura sanitaria e/o del singolo sanitario coinvolto, si è esclusa l’ammissibilità della chiamata in causa dei sanitari ritenuti responsabili da parte della struttura unica convenuta, e ciò non solo in considerazione delle richiamate esigenze di speditezza ma anche della ritenuta insussistenza di litisconsorzio necessario e della complessiva ricostruzione dei rapporti tra struttura e medico dipendente delineata dall’art. 9 della l. n. 24 del 2017. L’art. 9, infatti, subordinando l’esperibilità della azione di rivalsa a tre condizioni - ossia 1) l’esistenza di un titolo giudiziale o stragiudiziale che accerti la responsabilità e condanni la struttura al risarcimento del danno nei confronti del danneggiato; 2) l’effettivo pagamento da parte della struttura; 3) il rispetto del termine decadenziale - renderebbe inammissibile la proposizione di una azione di rivalsa contestuale.

Altra parte della giurisprudenza(32), invece, ritiene che la chiamata in causa del sanitario da parte della struttura sia non solo ammissibile ma anche auspicabile, tenuto conto di ragioni di economia processuale, al fine di facilitare la composizione bonaria della controversia mediante l'anticipata effettuazione di accertamento tecnico a tutti opponibile, osservando da un lato come l’art 9 della l. n. 24 del 2017 attenga esclusivamente ai rapporti tra giudizi di merito e non allo svolgimento della consulenza tecnica preventiva e, dall’altro, che l’opportunità di convenire il professionista sanitario già in sede di ATP discenda proprio dall’ultimo comma dell’art. 9, che riconosce al giudice la facoltà di desumere “argomenti di prova dalle prove assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o dell’impresa di assicurazione” se il primo è stato parte del giudizio stesso. Per giudizio, infatti, andrebbe inteso anche l’ATP ante causam che non abbia avuto esito conciliativo, avendo esso anche una funzione di acquisizione della prova.

5. Il procedimento. La nomina dei consulenti.

Ai sensi dell’art. 696, comma 3, c.p.c., all’udienza di comparizione il giudice, risolte le eventuali questioni di rito come sin qui prospettate, nomina il consulente tecnico e fissa la data dell'inizio delle operazioni o meglio, nomina il CTU formulando i quesiti tecnici sui quali il consulente dovrà rispondere e fissa l’udienza per il conferimento dell’incarico(33).

L’art. 15 della l. n. 24 del 2017 prevede, inoltre, che, nelle controversie in materia di responsabilità sanitaria, la nomina dei consulenti debba avvenire secondo regole speciali ed in particolare: che l'incarico venga affidato ad un Collegio di esperti; che questi siano individuati tra gli iscritti negli albi dei consulenti di cui all'art. 13 disp. att. c.p.c.; che del Collegio facciano parte uno o più specialisti del settore medico interessato ed un medico legale; che il giudice, nella selezione degli esperti, debba evitare situazioni di conflitto di interesse che potrebbero verificarsi nello specifico procedimento o in altri connessi. E’, inoltre, richiesto che i consulenti nominati in sede di accertamento preventivo a fini conciliativi “siano in possesso di adeguate e comprovate competenze nell’ambito della conciliazione acquisite anche mediante specifici percorsi formativi”.

Tralasciando tale ultimo requisito, la cui effettività dipenderà dalla creazione di un apposito albo e da una auspicabile revisione di quello già esistente, occorre, invece, soffermarsi sull’obbligo della nomina di un collegio peritale il quale, invece, non sembra presupporre la revisione degli albi di cui ai commi 2 e 3 della stessa norma e deve dunque ritenersi di immediata applicazione(34). La previsione dell’obbligatoria nomina di un collegio peritale sta, infatti, registrando un’applicazione disomogenea nella prassi giudiziaria. La giurisprudenza largamente maggioritaria ritiene che la collegialità sia un requisito indispensabile per il rispetto della norma in esame, ma vi è chi(35) sottolinea come l’aspetto centrale della nuova previsione sia l’adeguata preparazione tecnica specifica dei consulenti chiamati a svolgere l’incarico e che, dunque, ben potrebbe il giudice procedere alla nomina di un solo perito che abbia sia la specializzazione in medicina legale che quella nel singolo campo medico interessato dalla vicenda in esame.

Vi è, poi, chi(36) ritiene che nei casi meno complessi sia possibile la nomina del solo consulente medico legale, il quale potrà, ove ritenuto necessario, indicare uno o più specialisti di cui intende avvalersi per l’espletamento della consulenza. Va, peraltro, evidenziato che non è prevista alcuna sanzione per l’inosservanza di questo precetto, né tantomeno sembra ipotizzabile una nullità della consulenza redatta da un solo consulente, nullità che anche ove ravvisabile sarebbe peraltro sanata ove non fatta valere nella prima udienza utile, e quindi in quella successiva alla nomina dei consulenti e prima del conferimento dell’incarico. Sul punto, tuttavia, sono intervenute di recente sia la Suprema Corte(37) che, seppur in un obiter dictum, non solo ha affermato l'inderogabile obbligatorietà della consulenza collegiale nei giudizi di responsabilità sanitaria, ma ha anche prospettato la sanzione della nullità della consulenza in ipotesi di violazione dell’obbligo, sia la Corte Costituzionale(38) che ha affermato che la norma ha introdotto “il principio della necessaria collegialità nell'espletamento del mandato, di cui si ha conferma attraverso i lavori parlamentari, giacché il testo approvato in prima lettura dalla Camera prevedeva la nomina di un collegio peritale nei casi che avessero implicato la “valutazione di problemi tecnici complessi”, mentre tale inciso è stato successivamente espunto in Senato. Il fine della corretta esplicazione dell'indagine e della valutazione peritale è perseguito dal legislatore tanto attraverso la necessaria collegialità, quanto mediante la previsione della preparazione specialistica e delle conoscenze pratiche dei soggetti incaricati.

5.1. Il tentativo di conciliazione.

Nonostante l’art. 696 bis c.p.c. preveda testualmente che il consulente “prima di provvedere al deposito della relazione, tenta, ove possibile, la conciliazione delle parti”, è pacifico nella giurisprudenza di merito che non sussista alcuna discrezionalità in capo ai consulenti in ordine all’esperimento del tentativo di conciliazione. I consulenti, infatti, devono tentare la conciliazione(39), eccettuati i casi di oggettiva impossibilità, ipotizzabile ad esempio nel caso di contumacia della parte resistente, dal momento che la limitazione del diritto d'azione, connessa all'obbligo di ricorrere al procedimento ex art. 696 bis c.p.c., si giustifica proprio in ragione dello svolgimento e dell'auspicato esito positivo dello stesso. L'unica discrezionalità che si suole riconoscere al consulente attiene al momento in cui svolgere il tentativo di conciliazione ed al contenuto dello stesso. Sul punto si registrano, peraltro, prassi difformi nella giurisprudenza. Fermo restando che l’art. 696 bis c.p.c. dispone unicamente che il tentativo di conciliazione deve essere effettuato prima di provvedere al deposito della relazione peritale definitiva, e che nulla sembra impedire che possa essere svolto anche prima dell'inizio delle indagini tecniche, la giurisprudenza prevalente(40) ritiene opportuno che il tentativo di conciliazione venga esperito dopo che i consulenti abbiano svolto gli accertamenti richiesti dal giudice e ne abbiano condiviso l'esito con le parti, eventualmente convocandole per un incontro finalizzato a verificare la possibilità di un accordo. Ovviamente le peculiarità del caso potrebbero suggerire la scelta di un momento diverso, eventualmente antecedente alla comunicazione della bozza, così da sfruttare il margine di incertezza per rendere più appetibile un accordo. Sembra, peraltro, pacifico che i consulenti possano reiterare il tentativo in ogni momento. Del pari variegati risultano gli indirizzi adottati in ordine alle modalità ed al contenuto della proposta conciliativa. Se, infatti, in alcuni Tribunali(41) si propende per la formulazione, da parte dei CCTTUU di una proposta a contenuto meramente economico senza alcuna anticipazione circa la valutazione di merito, in altri casi(42) il giudice invita i consulenti a condividere con le parti ed i loro difensori le valutazioni svolte in tema di nesso di causa, individuazione dei presupposti di responsabilità e di sussistenza ed entità delle componenti biologiche di danno non patrimoniale e, eventualmente con l’aiuto dei difensori, a formulare una proposta economica, evidenziandone il valore prognostico in relazione all’esito giudiziario. Infine vi è chi(43) ritiene che il tentativo di conciliazione che i consulenti devono obbligatoriamente svolgere attenga unicamente all’indagine valutativa medico legale e dunque agli aspetti tecnici della controversia e che una “Conciliazione risarcitoria” sia solo eventuale e rimessa ad una scelta delle parti.

Se viene raggiunto l'accordo il consulente redigerà il verbale di conciliazione dando atto delle intese intervenute tra le parti ed in particolare dell'entità del risarcimento concordato. Ai sensi del comma 3, dell'art. 696 bis, sarà poi il giudice ad omologare il verbale, attribuendogli efficacia esecutiva ai fini della esecuzione forzata, anche in forma specifica e dell'iscrizione di ipoteca giudiziale.

Nel caso di mancato accordo il Collegio peritale procederà a redigere un verbale negativo(44) e dovrà quindi depositare la relazione che potrà essere acquisita nel giudizio di merito promosso dall'interessato nelle forme di cui agli artt.702 bis ss., c.p.c. e nei termini di cui all'art. 8.

In tale ipotesi, peraltro, mentre in alcuni tribunali(45) si ritiene che il procedimento si concluda con il deposito della relazione peritale definitiva, in altri(46) si tende a fissare una udienza successiva al deposito sia per verificarne il regolare e tempestivo svolgimento sia per eventualmente tentare la conciliazione tra le parti innanzi a sé, alla luce della relazione depositata dai consulenti tecnici d’ufficio.

6. Il termine perentorio di durata massima del procedimento.

Il terzo comma dell'art. 8 della l. n. 24 del 2017 fissa un termine di durata massima della procedura di sei mesi a decorrere dal deposito del ricorso, termine espressamente qualificato come perentorio, e come tale ai sensi dell'art. 152 c.p.c., non prorogabile. Dubbie risultano essere nella giurisprudenza le conseguenze dell'inosservanza del succitato termine perentorio. Se, infatti, in dottrina si sia sostenuto che la violazione del termine perentorio determini l’inutilizzabilità nel successivo giudizio di merito degli accertamenti che dovessero essere espletati dopo la scadenza del termine e a fortiori della relazione che fosse stata depositata dopo quel momento e la necessità di rinnovare quelle attività, con conseguente ritardo e aggravio di costi(47), la giurisprudenza maggioritaria(48), partendo dal dato testuale della norma, ritiene che l’unica conseguenza connessa al mancato rispetto del termine perentorio di sei mesi è che l’attore potrà ritenere munita di procedibilità la sua domanda e instaurare o continuare il giudizio mentre l'attività svolta seppur tardivamente nell'ambito dell'accertamento tecnico tra le medesime parti potrà comunque essere utilizzata nel successivo giudizio di merito. Si ritiene(49), infatti, che la perentorietà del termine di sei mesi per lo svolgimento del procedimento di accertamento tecnico preventivo sia finalizzata, oltre che ad intenti acceleratori, al contenimento del sacrificio al diritto di azione del danneggiato, tutelato dall'art. 24 Cost., nel senso che la condizione di procedibilità debba ritenersi avverata, puramente e semplicemente, allorquando, proposto ricorso ex art. 696 bis c.p.c., siano decorsi sei mesi senza che il procedimento sia concluso e che la conciliazione sia stata raggiunta. Del tutto irragionevole sarebbe, peraltro, porre a carico del danneggiato incolpevole gli effetti negativi del superamento del termine, atteso che il ricorrente non ha nessun controllo dei tempi processuali e di quelli necessari ai CTU per l'espletamento dell'incarico loro affidato. Tale interpretazione della perentorietà del termine semestrale sarebbe avvalorata dal contenuto del secondo comma dell'art. 8 laddove si prevede che l'attività sino a quel momento svolta nel procedimento per ATP non venga in alcun modo vanificata, essendo espressamente prevista, tra le varie ipotesi, la presentazione di una istanza di completamento del procedimento(50).