PARTE QUARTA IMPRESA E MERCATO

  • consumatore
  • diritto dei marchi
  • brevetto
  • diritto d'autore
  • concorrenza

CAPITOLO XIII

I DIRITTI DI PRIVATIVA E LA CONCORRENZA

(di Paolo Fraulini )

Sommario

1 Il marchio. - 2 Il brevetto. - 3 Le condotte anticoncorrenziali ex lege 10 ottobre 1990, n. 287. - 4 La concorrenza sleale. - 5 I diritti del consumatore. - 6 Il diritto d’autore.

1. Il marchio.

In tema di onere della prova del danno da contraffazione del marchio, Sez. 1, n. 24635/2021, Caiazzo, Rv. 662393-01, ritiene che l'art. 125, comma 2, del d.lgs. n. 30 del 2005, nella parte in cui consente la liquidazione del lucro cessante in base al giusto prezzo del consenso (pari al canone che il contraffattore avrebbe pagato se avesse avuto una regolare licenza), introduce una tecnica di semplificazione probatoria, riferita all'ammontare del danno, che non esonera dalla dimostrazione dell'esistenza dello stesso, anche mediante indizi e presunzioni.

Sulla distinzione tra marchi forti e deboli Sez. 1, n. 12570/2021, Amatore, Rv. 661274-01, afferma che l'apprezzamento del giudice del merito sulla confondibilità dei segni nel caso di affinità dei prodotti deve essere compiuto non in via analitica, attraverso l'esame particolareggiato e la separata considerazione di ogni singolo elemento, bensì in via globale e sintetica, vale a dire con riguardo all'insieme degli elementi salienti grafici e visivi, mediante una valutazione di impressione, che prescinde dalla possibilità di un attento esame comparativo e che va condotta in riferimento alla normale diligenza e avvedutezza del pubblico dei consumatori di quel genere di prodotti, dovendo il raffronto essere eseguito tra il marchio che il consumatore guarda ed il mero ricordo mnemonico dell'altro; qualora il marchio sia privo di aderenza concettuale con i prodotti che contraddistingue, le variazioni che lasciano intatta l'identità del nucleo ideologico che riassume l'attitudine individualizzante del segno, debbono sempre ritenersi inidonee ad escludere la confondibilità.

In tema di marchio rinomato, Sez. 1, n. 27217/2021, Fidanzia, Rv. 662721-01, ritiene che la tutela rafforzata accordata dal Codice della proprietà industriale al marchio rinomato importi, oltre alla sua applicabilità a prodotti merceologici non affini, anche che si debba prescindere dall'accertamento di un rischio di confusione tra i segni, essendo sufficiente che il pubblico interessato possa in concreto cogliere l'esistenza di un semplice nesso, ossia di un grado di similarità, tra il marchio notorio e quello successivo.

Sul marchio complesso, Sez. 1, n. 12566/2021, Falabella, Rv. 661319-02, afferma che per valutare la similitudine confusoria tra due marchi complessi occorre utilizzare un criterio globale che si giovi della percezione visiva, uditiva e concettuale degli stessi con riferimento al consumatore medio di una determinata categoria di prodotti, considerando anche che costui non ha possibilità di un raffronto diretto, basandosi invece sulla percezione mnemonica dei marchi a confronto.

In tema di convalidazione del marchio per preuso, Sez. 1, n. 21566/2021, Terrusi, Rv. 661925-01, ritiene che l'art. 48 del r.d. n. 929 del 1942 (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall'art. 45 del d.lgs. n. 480 del 1992), laddove prevede la cd. convalidazione del marchio successivo e confondibile se usato in buona fede per cinque anni senza contestazioni, trova applicazione non soltanto nell'ipotesi di conflitto tra un marchio anteriore di fatto ed uno successivo registrato, ma anche in quella di conflitto tra marchi registrati, restando irrilevante la circostanza che, a partire dal 1981 e fino al 1992 ,sia cessato il sistema della pubblicazione dei brevetti nel Bollettino originariamente previsto dall'art. 97 del r.d. n. 1127 del 1939 (sempre nel testo anteriore alla novella introdotta dall'art. 85 del d.lgs. n. 480 del 1992), dovendosi conciliare il contenuto della norma vigente con la situazione di fatto all'epoca esistente.

Sul contenzioso inerente alla registrazione del marchio, Sez. 1 n. 11227/2021, Nazzicone, Rv. 661271-01, in una controversia regolata dalla disciplina previgente al d.lgs. n. 15 del 2019, afferma che, in tema di ricorso straordinario per cassazione, le decisioni della Commissione dei ricorsi contro i provvedimenti dell'Ufficio Italiano Marchi e Brevetti (UIMB) hanno carattere giurisdizionale e sono suscettibili di impugnazione per violazione di legge o per difetto di giurisdizione, ai sensi dell'art. 111 Cost., esclusi i motivi attinenti a questioni di fatto. Secondo Sez. 1, n. 12566/2021, Falabella, Rv. 661319-01, in tema di ricorso per cassazione contro le decisioni emanate dalla Commissione dei ricorsi contro i provvedimenti dell'Ufficio Italiano brevetti e Marchi, la notificazione della pronuncia impugnata, a cura della segreteria della Commissione e nei confronti delle parti interessate, ex art. 136, comma 16, del d.lgs. n. 30 del 2005 (nel testo vigente ratione temporis), equivale soltanto all'avviso di cancelleria del deposito della sentenza di cui all'art. 133 c.p.c., non integrando invece la notifica ad istanza di parte, necessaria ai fini della decorrenza del termine breve per l'impugnazione ex art. 285 c.p.c.

2. Il brevetto.

Sul tema delle conseguenze della violazione del brevetto, Sez. 1, n. 05666/2021, Iofrida, Rv. 660575-01, ritiene che il titolare del diritto di privativa leso può chiedere di essere ristorato del danno patito invocando il criterio costituito dal margine di utile del titolare del brevetto applicato al fatturato dei prodotti contraffatti, realizzato dal contraffattore, di cui all'art. 125 del d.lgs. n. 30 del 2005 (c.d. codice della proprietà industriale), nel testo modificato dall'art. 17 del d.lgs. n. 140 del 2006, alla luce del quale il danno va liquidato sempre tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto, vale a dire considerando il margine di profitto conseguito, deducendo i costi sostenuti dal ricavo totale. In particolare, in tale ambito, il criterio della giusta royalty o royalty virtuale segna solo il limite inferiore del risarcimento del danno liquidato in via equitativa, che però non può essere utilizzato a fronte dell'indicazione, da parte del danneggiato, di ulteriori e diversi ragionevoli criteri equitativi, il tutto nell'obiettivo di una piena riparazione del pregiudizio risentito dal titolare del diritto di proprietà intellettuale.

Sul medesimo tema, Sez. 1, n. 21832/2021, Scotti, Rv. 662303-02, afferma che il titolare del diritto di privativa che lamenti la sua violazione ha facoltà di chiedere, in luogo del risarcimento del danno da lucro cessante, la restituzione (c.d. retroversione) degli utili realizzati dall'autore della violazione, con apposita domanda ai sensi dell'art. 125, c.p.i., senza che sia necessario allegare specificamente e dimostrare che l'autore della violazione abbia agito con colpa o con dolo.

In tema di conversione del brevetto nullo, Sez. 1, n. 10396/2021, Falabella, Rv. 661133-02, ritiene che la domanda di conversione del brevetto nullo, suscettibile di essere proposta in ogni stato e grado del giudizio, ai sensi dell'art. 76, comma 3, del d.lgs. n. 30 del 2005, può essere avanzata, in primo grado, fino all'udienza di precisazione delle conclusioni, essendo la successiva attività difensiva destinata esclusivamente a illustrare le conclusioni già rassegnate, sicché, ove sia svolta per la prima volta nella comparsa conclusionale, deve essere dichiarata inammissibile.

3. Le condotte anticoncorrenziali ex lege 10 ottobre 1990, n. 287.

In tema di competenza a conoscere delle norme previste dalla disciplina antitrust comunitaria, Sez. 6-1, n. 06523/2021, Terrusi, Rv. 660922-01, afferma che la competenza della sezione specializzata per le imprese, estesa alle controversie di cui all'art. 33, comma 2, della l. n. 287 del 1990 ed a quelle relative alla violazione della normativa antitrust dell'Unione europea, attrae anche la controversia riguardante la nullità della fideiussione riproduttiva dello schema contrattuale predisposto dall'Abi, contenente disposizioni contrastanti con l'art. 2, comma 2, lett. a), della l. n. 287 del 1990, in quanto l'azione diretta a dichiarare l'invalidità del contratto a valle implica l'accertamento della nullità dell'intesa vietata.

Secondo Sez. 2, n. 07051/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 660788-01, l’art. 93-ter, comma 1-bis, della l. n. 89 del 1913, introdotto dalla l. n. 205 del 2017, che richiama l'art. 8, comma 2, della l. n. 287 del 1990, pur disponendo per l'avvenire, è norma ricognitiva di un principio costituente diritto vivente, secondo cui ai Consigli notarili distrettuali che assumano l'iniziativa del procedimento disciplinare non si applicano le previsioni in tema di tutela della concorrenza e del mercato atteso che, limitatamente all'esercizio della vigilanza, essi non regolano i servizi offerti dai notai sul mercato, ma adempiono una funzione sociale, affidatagli dalla legge e fondata su un principio di solidarietà, esercitando prerogative tipiche dei pubblici poteri. Ne consegue che l'attività - doverosa per legge - di promovimento dell'azione disciplinare e degli atti istruttori ad esso propedeutici non va previamente o successivamente sottoposta al controllo dell'Autorità antitrust che, al contrario, è limitato a verificare se, attraverso screening di massa, il consiglio notarile ponga in essere, per la natura delle informazioni richieste (coinvolgenti dati economici sensibili), una condotta diretta ad incidere sulla libera concorrenza.

4. La concorrenza sleale.

In tema di appropriazione di pregi, Sez. 1, n. 19954/2021, Nazzicone, Rv. 661820-01, ritiene integrata la fattispecie dal vanto operato da un imprenditore circa le caratteristiche della propria impresa, mutuate da quelle di un altro imprenditore, tutte le volte in cui detto vanto abbia l'attitudine di fare indebitamente acquisire al primo meriti non posseduti, realizzando una concorrenza sleale per cd. “agganciamento”, quale atto illecito di mero pericolo.

Secondo Sez. 1, n. 37659/2021, Scotti, Rv. 663292-01, la violazione di norme pubblicistiche, che non siano direttamente rivolte a porre limiti all'esercizio dell'attività imprenditoriale, integra la fattispecie illecita o quando è accompagnata dal compimento di atti di concorrenza potenzialmente lesivi dei diritti altrui ovvero quando, di per sé stessa, abbia prodotto un vantaggio concorrenziale che non si sarebbe determinato se la norma fosse stata osservata.

5. I diritti del consumatore.

Per Sez. 6-2, n. 00497/2021, Fortunato G., Rv. 660177-01, gli artt. 33 e ss. del codice del consumo sono applicabili anche ad un contratto preliminare di compravendita di bene immobile, allorquando venga concluso tra un professionista, che stipuli nell'esercizio dell'attività imprenditoriale, o di un professionista intellettuale, ed altro soggetto, che contragga per esigenze estranee all'esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, non risultando decisivo, in senso contrario, che le parti abbiano espressamente richiamato in contratto la disciplina del d.lgs. n. 122 del 2005 in tema di tutela degli acquirenti di immobili da costruire, atteso che quest'ultima concorre, in presenza dei relativi presupposti applicativi, con le disposizioni a tutela del consumatore, almeno in difetto di un rapporto di reciproca incompatibilità o esclusione.

Secondo Sez. 3, n. 06578/2021, Scarano, Rv. 660800-01, in tema di contratti del consumatore, ai fini della identificazione del soggetto avente diritto alla tutela del Codice del consumo (d.lgs. n. 206 del 2005) non assume rilievo che la persona fisica rivesta la qualità di imprenditore o di professionista, bensì lo scopo perseguito al momento della stipula del contratto, con la conseguenza che anche l'imprenditore individuale o il professionista va considerato consumatore allorché concluda un negozio per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'esercizio dell'attività imprenditoriale o professionale.

Sez. 3, n. 00261/2021, Scrima, Rv. 660213-01, ritiene che il consumatore non sia tenuto, ai sensi dell'art. 57 del codice del consumo (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 21 del 2014), ad alcuna prestazione corrispettiva in caso di fornitura di energia elettrica non richiesta, né che il fornitore possa agire nei suoi confronti a titolo di indebito o di arricchimento senza causa, ancorché il medesimo consumatore abbia tratto vantaggio dalla detta fornitura, poiché il legislatore ha inteso fare prevalere gli interessi della parte debole del contratto - con l'esonero dagli oneri conseguenti a pratiche commerciali scorrette - su quelli del professionista, dovendosi riconoscere al citato art. 57 anche una valenza latamente sanzionatoria.

Sez. 1, n. 23655/2021, Scotti, Rv. 662338-01, afferma che, in tema di contratti tra professionista e consumatore, il provvedimento con il quale l'AGCM accerti l'assenza di chiarezza e comprensibilità di alcune clausole contrattuali determina, nel giudizio civile promosso ex art. 37-bis, comma 4, del codice del consumo, una presunzione legale, suscettibile di prova contraria, che non è sancita espressamente dalla legge, ma che scaturisce dalla funzione sistematica assegnata agli strumenti di “public enforcement” e che genera un dovere di motivazione e di specifica confutazione in capo al giudice civile che maturi una diversa opinione.

6. Il diritto d’autore.

In tema di diritti connessi al diritto d’autore, afferma Sez. 1, n. 36753/2021, Vella, Rv. 663286-01, che il contratto atipico di edizione musicale (con cui l'autore o compositore di un'opera musicale trasferisce all'editore i diritti di utilizzazione economica, riservandosi una quota dei proventi che maturano in conseguenza della sua utilizzazione) può essere concluso anche verbalmente, sebbene tra le parti la conclusione debba essere provata per iscritto, ai sensi dell'art. 110 l.d.a.

  • cooperativa
  • libera professione
  • credito
  • consorzio
  • bilancio sociale
  • società a responsabilità limitata
  • sede sociale
  • società di persone
  • diritto delle società
  • responsabilità sociale dell'impresa
  • amministratore

CAPITOLO XIV

IL DIRITTO DELLE SOCIETÀ

(di Cecilia Bernardo )

Sommario

1 Le società in generale. - 1.1 Le vicende modificative ed estintive delle società. - 1.2 Cessione di partecipazioni societarie e intestazione fiduciaria. - 1.3 Società di fatto. - 1.4 La clausola compromissoria e le controversie compromettibili. - 1.5 Azione revocatoria ordinaria. - 1.6 Sede legale e sede effettiva della società. - 2 Le società di persone. - 2.1 La responsabilità solidale dei soci per le obbligazioni sociali. - 2.2 Diritti del socio di società di persone. - 2.3 Gli amministratori nella società di persone. - 2.4 Scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio e scioglimento della società. - 3 Le società di capitali. - 3.1 Diritti e doveri del socio. - 3.2 Finanziamenti e conferimenti a vario titolo. - 3.3 Le deliberazioni dell’assemblea. - 3.4 Gli amministratori. - 3.5 Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori. - 3.6 L’abusiva concessione del credito. - 3.7 La responsabilità dei sindaci. - 3.8 Le operazioni sul capitale. - 3.9 I patti parasociali. - 4 Particolari società di capitali. - 4.1 Le società cooperative. - 4.2 Le società consortili. - 4.3 I gruppi di società. - 4.4 Le società tra professionisti.

1. Le società in generale.

Nel corso del 2021 la Suprema Corte ha trattato della materia societaria, soffermandosi in particolare sulle caratteristiche delle vicende modificative ed estintive delle società, della cessione di partecipazioni sociali, della società di fatto, della clausola compromissoria inserita negli statuti societari, dell’azione revocatoria ordinaria esercitata dal fallimento e della sede sociale.

Vengono di seguito riportate le decisioni che hanno approfondito le tematiche appena menzionate, unitamente a quelle adottate sulle medesime questioni, o su questioni connesse, ma riferite alle particolari tipologie di società, in modo tale da esaltare, insieme agli aspetti comuni, anche quelli propri di ciascuna categoria, ove esistenti.

1.1. Le vicende modificative ed estintive delle società.

In tema di fusione per incorporazione ex art. 2504-bis c.c. intervenuta in corso di causa, va innanzitutto menzionata la risoluzione del contrasto, esistente all’interno delle sezioni civili della Corte, in ordine alla questione della perdurante legittimazione processuale attiva e passiva della società incorporata o che abbia partecipato alla fusione paritaria. Infatti, pur partendo dal comune assunto (affermato per la prima volta da Sez. U, n. 02637/2006, Proto, Rv. 586134-01) che la fusione integri una vicenda meramente “evolutiva-modificativa” e non estintiva, si erano registrati al riguardo tre diversi orientamenti. In particolare, le sezioni civili avevano alternativamente ritenuto che, intervenuta la cancellazione dal registro delle imprese dopo la fusione, la legittimazione attiva e passiva fosse conservata dalla società incorporata, ovvero spettasse esclusivamente alla società incorporante, ovvero ancora ad entrambe senza dar luogo ad una successione mortis causa.

Al descritto contrasto ha posto fine Sez. U, n. 21970/2021, Nazzicone, Rv. 661864-01, affermando che la fusione per incorporazione estingue la società incorporata, che non può dunque iniziare un giudizio in persona del suo ex amministratore. Tuttavia, qualora la fusione intervenga in corso di causa, non si determina l'interruzione del processo, esclusa ex lege dall'art. 2504-bis c.c., ma la società incorporante ha la facoltà di spiegare intervento volontario, ai sensi e per gli effetti dell'art. 105 c.p.c.

Le Sezioni Unite, quindi, dopo aver ribadito che la fusione societaria sia certamente inquadrabile tra le vicende modificative dell’atto costitutivo delle società partecipanti, hanno affermato che con la fusione tutti i rapporti giuridici, attivi e passivi, vengono imputati ad un diverso soggetto giuridico, e cioè la società incorporante. La società incorporata, invece, viene cancellata dal registro delle imprese e, di conseguenza, si estingue. Essa, pertanto, non può intraprendere un nuovo giudizio, perché non è più soggetto di diritti e neppure ha la capacità e la legittimazione processuale per farli valere, essendo stati detti diritti tutti trasferiti alla società incorporante o risultante dalla fusione. Tuttavia, qualora la fusione sopraggiunga nel corso del giudizio, il disposto dell’art. 2504-bis c.c. impedisce l’interruzione del processo, attesa la prosecuzione della incorporante in tutti i rapporti, anche processuali, senza soluzione di continuità. Per tale motivo, va riconosciuto alla società incorporante il diritto di intervenire volontariamente ex art. 105 c.p.c. nel giudizio pendente, ancorché il medesimo sia stato originariamente instaurato da un soggetto irrimediabilmente estinto.

A seguito di questa importante pronuncia, è destinato ad essere superato l’orientamento seguito da Sez. 3, n. 16605/2021, Moscarini, Rv. 661637-01, che ha ritenuto valido il ricorso per cassazione proposto nei confronti della società incorporata e notificato al procuratore costituito, qualora tale società si sia fusa per incorporazione nel corso del giudizio di appello e il suo procuratore non ne abbia dichiarato in udienza l'avvenuta fusione o non la abbia notificata all'altra parte.

In applicazione del principio della continuità dei rapporti giuridici, anche processuali, sancito dall’art. 2504-bis c.c., è intervenuta Sez. 1, n. 20621/2021, Fidanzia, Rv. 662223-02, affermando che, in tema di validità della procura alle liti, ove in corso di causa intervenga la fusione per incorporazione della società in lite, l'incorporante può costituirsi in giudizio avvalendosi della procura in precedenza rilasciata dall'incorporata. Ciò in quanto l'attuale formulazione dell'art. 2504-bis c.c. prevede la prosecuzione dei rapporti giuridici, anche processuali, in capo al soggetto unificato a seguito della fusione, risolvendosi quest'ultima in una vicenda (non estintiva ma) evolutivo-modificativa, che comporta un mutamento solo formale di un'organizzazione societaria esistente. Di conseguenza, l'originaria procura alle liti rimane valida anche per il periodo successivo all'incorporazione e il difensore già designato è legittimato al compimento di tutti gli atti processuali occorrenti per la difesa della posizione giuridica della società, pur nella sua diversa organizzazione.

Ha affrontato il profilo della legittimazione ad agire, ma sotto diverso profilo, Sez. 3, n. 02496/2021, Tatangelo, Rv. 660546-01, con riferimento ad un ricorso per cassazione proposto dalla società incorporante. Nella specie, la S.C. ha ritenuto irrilevante la prova della intervenuta operazione di fusione societaria ed ammissibile il ricorso per cassazione, in quanto il ricorso era stato proposto proprio dal soggetto titolare dei diritti controversi, che nelle more aveva incorporato la società che, nel giudizio di secondo grado, aveva agito in suo nome e per suo conto.

La disciplina relativa alla fusione di società risulta richiamata anche da Sez. 2, n. 19057/2021, Tedesco, Rv. 662043-01, secondo cui l'art. 2504 c.c. può trovare applicazione anche alle associazioni non riconosciute, qualora risulti accertato (con indagine di fatto, che si sottrae al controllo di legittimità, se il relativo apprezzamento è congruamente e logicamente motivato) che due associazioni non riconosciute si sono unificate, dando luogo alla loro estinzione ed alla successione a titolo universale, in tutti i loro rapporti, dell'organismo nato dalla unificazione (Principio applicato a fattispecie antecedente all'introduzione dell'art. 42-bis c.c.). Ed infatti, le associazioni non riconosciute costituiscono un'organizzazione di persone legate tra loro dal perseguimento di un fine di comune interesse. In mancanza di una normativa giuridica più dettagliata, sono gli accordi interni che ne regolano l'ordinamento e solo in mancanza di una diversa volontà espressa dagli associati è possibile fare ricorso, di volta in volta, in via analogica, alle disposizioni che regolano casi analoghi per le associazioni riconosciute, per le società e anche per la comunione, compatibilmente con la struttura di ogni singolo rapporto.

Con riferimento alla scissione, sono intervenute due pronunce tese ad affermare l’ammissibilità della revocatoria ordinaria dell’atto di scissione societaria, conformemente a quanto statuito dalla Corte di Giustizia UE (con sentenza del 30 gennaio 2020 in causa C-394/18). In particolare, Sez. 3, n. 02153/2021, Olivieri, Rv. 660392-01, ha ritenuto ammissibile l'azione revocatoria ordinaria dell'atto di scissione societaria, pure se esercitata dal curatore fallimentare ex art. 66 l.fall., anche in concorso con l'opposizione preventiva dei creditori sociali ex art. 2503 c.c., in quanto la prima mira ad ottenere l'inefficacia relativa dell'atto per renderlo inopponibile al creditore pregiudicato, mentre la seconda è finalizzata a farne valere l'invalidità. Nello stesso senso, Sez. 3, n. 12047/2021, Travaglino, Rv. 661548-01.

In tema di responsabilità per i debiti della società scissa, Sez. 6-2, n. 36690/2021, Dongiacomo, Rv. 662935-01, ha affermato che la responsabilità prevista dagli artt. 2506-bis, comma 2, e 2506-quater, comma 3, c.c. si estende in via solidale e sussidiaria a tutte le società partecipanti all'operazione. Tuttavia, ciascuna di esse risponde nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto assegnatole o rimasto. Trattandosi di fatto parzialmente impeditivo della pretesa altrui, grava sulle predette l’onere di dimostrarne il relativo ammontare, anche in virtù del principio di vicinanza della prova. La pronuncia si pone come precisazione del principio affermato da Sez. 1, n. 04455/2016, Nappi, Rv. 639023-01, secondo cui le società partecipanti ad un’operazione di scissione rimangono solidalmente obbligate per i debiti della società scissa, rispondendone però con modalità diverse. Ed infatti, risponde dell'intero debito solo la società cui lo stesso sia stato trasferito o mantenuto. Per contro, la responsabilità della società scissa presuppone che il credito da far valere sia rimasto insoddisfatto e, pertanto, postula solo la previa costituzione in mora della società beneficiaria (cd. beneficium ordinis) e non anche la sua preventiva escussione. Ciò in quanto la disciplina sulla scissione tende a mantenere integre le garanzie dei creditori sociali, ma non anche ad accrescerle.

Sempre in tema di responsabilità per i debiti della società scissa, Sez. 5, n. 03233/2021, Crucitti, Rv. 660646-01, ha affermato che il regime relativo ai debiti fiscali riguardanti gli anni di imposta antecedenti un’operazione di scissione parziale (previsto dall'art. 173, comma 13, del d.P.R. n. 917 del 1986, e confermato, quanto alle somme dovute per violazioni tributarie, dall'art. 15, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997) diverge dalla responsabilità riguardante le obbligazioni civili, soggetta invece ai limiti di cui agli artt. 2506-bis, comma 2, e 2506-quater, comma 3, c.c., in quanto, fermi gli obblighi erariali in capo alla scissa e alla designata, si estende non solo solidalmente, ma anche illimitatamente a tutte le società partecipanti all'operazione, indipendentemente dalle quote di patrimonio assegnato con detta operazione. Per la S.C., tale differente trattamento non è costituzionalmente illegittimo, siccome rispondente all'esigenza di un'agevole riscossione dei tributi nel rispetto del principio costituzionale di pareggio del bilancio e a criteri di adeguatezza e di proporzionalità, come affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 90 del 2018.

In materia di trasformazione di società di persone in società a responsabilità limitata, Sez. 6-1, n. 13772/2021, Dolmetta, Rv. 661438-01, ha ribadito che la presunzione del consenso dei creditori alla liberazione dei soci illimitatamente responsabili, ex art. 2500-quinquies, comma 2, c.c., opera solo qualora sia rispettato il percorso stabilito dalla norma, dovendo la comunicazione, che può provenire tanto dalla società quanto dai soci, avere come oggetto specifico la detta trasformazione ed essere trasmessa ai singoli creditori con mezzi che consentano di dimostrarne l'avvenuto ricevimento. Di conseguenza, nessun valore può riconoscersi alla conoscenza dell'avvenuta trasformazione che il creditore abbia conseguito aliunde, in via incidentale ed indiretta, da atti della società in corso di trasformazione o già trasformata (Nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia di merito che aveva condannato, per l'inadempimento ad un contratto preliminare, i soci illimitatamente responsabili di una s.n.c. - successivamente trasformatasi in s.r.l. - promittente venditrice di un immobile, a restituire gli acconti corrisposti ai promissari acquirenti, avendo ritenuto che i pagamenti effettuati da questi ultimi direttamente alla s.r.l. non potessero far presumere il loro consenso alla rinuncia alla responsabilità solidale dei soci illimitatamente responsabili). Nello stesso senso, Sez. 2, n. 29745/2020, Tedesco, Rv. 659982-01, ha ritenuto che il consenso dei creditori sociali alla liberazione si possa presumere nei casi previsti dall’art. 2500-quinquies c.c., ma che, tuttavia, la comunicazione debba essere necessariamente effettuata.

Numerose sono, infine, le pronunce in tema di cancellazione delle società dal registro delle imprese e di estinzione delle stesse.

Con riferimento ai crediti della società estinta, Sez. 3, n. 13534/2021, Scoditti, Rv. 661413-01, ha chiarito che il mero omesso deposito del bilancio in fase di liquidazione per oltre tre anni consecutivi, da cui consegua la cancellazione d'ufficio della società dal registro delle imprese, non costituisce presunzione grave, precisa e concordante di rinuncia al credito di cui la società è titolare e non è qualificabile come negozio di remissione del debito.

Tale pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. 6-1, n. 30075/2020, Nazzicone, Rv. 660194-01, nella quale è stato affermato che, nel caso di cancellazione della società dal registro delle imprese (tanto più se si tratta di cancellazione d'ufficio ex art. 2490, ultimo comma c.c.), non può ritenersi automaticamente rinunciato il credito controverso (nella specie derivante dall'azione promossa ex art. 2476 c.c.), atteso che la regola è la successione in favore dei soci dei residui attivi, salvo la remissione del debito ai sensi dell'art. 1236 c.c., che deve essere allegata e provata con rigore da chi intenda farla valere, dimostrando tutti i presupposti della fattispecie, ossia la inequivoca volontà remissoria e la destinazione della dichiarazione ad uno specifico creditore.

Tuttavia, Sez. 3, n. 08521/2021, Tatangelo, Rv. 661007-01, ha precisato che il soggetto che agisce a tutela della pretesa creditoria di una società cancellata dal registro delle imprese ha l'onere di allegare espressamente e, poi, di dimostrare la propria qualità di avente causa della società, come assegnatario del credito in base al bilancio finale di liquidazione oppure come successore nella titolarità di un credito non inserito nel bilancio e non oggetto di tacita rinuncia, senza che assuma alcun rilievo la dichiarata qualità di ex socio o di liquidatore, non necessariamente implicante la successione nella posizione giuridica.

È stato, poi, ribadito il principio secondo cui la cancellazione della società dal registro delle imprese determina un fenomeno successorio, in forza del quale l'obbligazione della società non si estingue, ma si trasferisce ai soci, che ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente a seconda che, pendente societate, fossero responsabili per i debiti sociali in via limitata o illimitata. In applicazione di tale principio, Sez. L, n. 06722/2021, Cavallaro, Rv. 660964-02, ha affermato che, in caso di omesso versamento di contributi da parte del datore di lavoro, l’ordinamento consente all’assicurato unicamente di chiedere all'Inps la costituzione della rendita vitalizia ex art. 13 della l. n 1338 del 1962 ed il rimedio risarcitorio di cui all'art. 2116 c.c. e tale ultima azione non è impedita dalla cancellazione della società datrice di lavoro dal registro delle imprese, dovendo in tal caso essere esercitata nei confronti dei soci.

Per il caso in cui la cancellazione intervenga in pendenza di giudizio, Sez. 5, n. 03454/2021, Lo Sardo, Rv. 660653-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione che non era stato notificato ai soci della società cancellata, essendo questi gli unici legittimati alla prosecuzione del processo, in qualità di successori diretti nei rapporti obbligatori della predetta.

Sempre con attenzione agli effetti della cancellazione delle società nel processo, Sez. 5, n. 05605/2021, Putaturo Donati Viscido di Nocera, Rv. 660763-01, ha evidenziato che la cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l'estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio (con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dall'art. 10 l.fall.). Pertanto, qualora l'estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 e ss. c.p.c., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell'art. 110 c.p.c.; qualora, invece, l'evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo non sarebbe più stato possibile, l'impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d'inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l'evento estintivo è occorso.

In termini simili, con riferimento al processo tributario, Sez. 5, n. 31904/2021, Saija, Rv. 662629-01, ha ritenuto che la disciplina dettata per le società di capitali dall'art. 2495, comma 2, c.c., come modificato dall'art. 4 del d.lgs. n. 6 del 2003, nella parte in cui ricollega alla cancellazione dal registro delle imprese l'estinzione immediata della società, implica che nei debiti sociali subentrano ex lege i soci. Sicché il Fisco, ove le proprie ragioni nei confronti dell'ente collettivo siano state definitivamente accertate (ad esempio, per mancata tempestiva impugnazione dell'atto impositivo, ovvero per intervenuta estinzione del relativo giudizio, o infine per intervenuto giudicato sostanziale) può procedere all'iscrizione a ruolo dei tributi non versati sia a nome della società estinta, sia a nome dei soci (pro quota, in relazione ai relativi titoli di partecipazione), e ciò ai sensi degli artt. 12, comma 3, e 14, lett. b), del d.P.R. n. 602 del 1973, nonché azionare comunque il credito tributario nei confronti dei soci stessi, non occorrendo procedere all'emissione di autonomo avviso di accertamento, ai sensi dell'art. 36, comma 5, del d.P.R. cit., relativo al diverso titolo di responsabilità di cui al precedente comma 3 (nel testo antecedente alla modifica apportata dall'art. 28, comma 5, del d.lgs. n. 175 del 2014), di natura civilistica e sussidiaria.

1.2. Cessione di partecipazioni societarie e intestazione fiduciaria.

In tema di compravendita delle azioni di una società, che si assume stipulata ad un prezzo non corrispondente al loro effettivo valore, senza che il venditore abbia prestato alcuna garanzia in ordine alla situazione patrimoniale della società stessa, Sez. 6-2, n. 17053/2021, Falaschi, Rv. 661663-01, ha considerato priva di rilievo la circostanza che il valore delle azioni, oggetto della cessione, fosse inferiore al corrispettivo pattuito, a causa dell'esistenza di debiti non dichiarati nel bilancio pubblicato. La Suprema Corte ha ritenuto che il valore economico dell'azione non rientri tra le qualità di cui all'art. 1429, n. 2, c.c., relativo all'errore essenziale, essendo la determinazione del prezzo delle azioni rimessa alla libera volontà delle parti.

La pronuncia si pone in linea con i precedenti che hanno affrontato lo stesso argomento. In particolare, Sez. 1, n. 26690/2006, Del Core, Rv. 593651-01, ha affermato che la cessione delle azioni o delle quote di una società di capitali o di persone fisiche ha come oggetto immediato la partecipazione sociale e solo quale oggetto mediato la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta. Pertanto, le carenze o i vizi relativi alle caratteristiche e al valore dei beni ricompresi nel patrimonio sociale - e, di riverbero, alla consistenza economica della partecipazione - possono giustificare la risoluzione del contratto di cessione per difetto di "qualità" della cosa venduta ai sensi dell'art. 1497 c.c. (necessariamente attinente ai diritti e obblighi che in concreto la partecipazione sociale sia idonea ad attribuire e non al suo valore economico) solo se il cedente abbia fornito a tale riguardo specifiche garanzie contrattuali, anche diversamente qualificate, sufficiente essendo che il rilascio della garanzia si evinca inequivocabilmente dal contratto (conf. Sez. 3, n. 16031/2007, Vivaldi, Rv. 598889-01). Da ricordare, sul punto, che la giurisprudenza di legittimità è, così, giunta ad affermare che, in tema di cessione di partecipazioni, le clausole con le quali il venditore assuma l'impegno di tenere indenne l'acquirente dal rischio connesso al verificarsi, successivamente alla conclusione del contratto, di perdite o di sopravvenienze passive della società hanno ad oggetto obbligazioni accessorie al trasferimento del diritto oggetto del contratto, che sono volte a garantire l'esito economico dell'operazione. Pertanto, non rientrando tali pattuizioni nella garanzia legale relativa alla mancanza delle qualità promesse ai sensi dell’art. 1497 c.c., trova applicazione la prescrizione ordinaria decennale e non quella di cui all’art. 1495 c.c., richiamato dall’art. 1497 c.c. (Sez. 2, n. 16963/2014, Migliucci, Rv. 631856-01).

Ha evidenziato la differenza tra cessione di partecipazioni sociali e cessione dell’azienda di proprietà della società Sez. 5, n. 25601/2021, Dell’Orfano, Rv. 662282-01, affermando che, in tema di imposta di registro, le operazioni strutturate mediante conferimento d'azienda seguito dalla cessione di partecipazioni della società conferitaria non possono essere riqualificate in una cessione d'azienda e non configurano, di per sé, il conseguimento di un indebito vantaggio realizzato in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario (fatta salva l'ipotesi in cui tali operazioni siano seguite da ulteriori passaggi idonei a palesare la volontà di acquisire direttamente l'azienda). Oggetto di tassazione è infatti il solo atto presentato per la registrazione attesa l'irrilevanza, alla luce delle sentenze n. 158 del 2020 e n. 39 del 2021 della Corte costituzionale, degli elementi extratestuali e degli atti collegati in coerenza con i principi ispiratori della disciplina dell'imposta di registro.

Con riferimento alla forma dei negozi fiduciari riguardanti partecipazioni societarie, Sez. 1, n. 11226/2021, Nazzicone, Rv. 661281-02, ha osservato che l'intestazione fiduciaria di partecipazioni societarie è un contratto unitario, avente una causa propria, che determina un'interposizione reale di persona in cui il trasferimento della proprietà è strumentale, essendo l'attività del fiduciario svolta nell'interesse del fiduciante. Di conseguenza, tale contratto si inquadra nell'art. 1376 c.c. e, come per l'ordinaria cessione delle stesse partecipazioni, non richiede la forma scritta a pena di nullità e può essere provato anche per presunzioni, salvo il caso di forma convenzionale prevista dalle parti. Tale orientamento si pone in linea con l’importante pronuncia delle Sezioni Unite, relativa proprio alla forma del pactum fiduciae (Sez. U, n. 06459/2020, Giusti, Rv. 657212-01), in cui viene precisato che non è necessaria la forma scritta ad substantiam neanche per il patto fiduciario avente ad oggetto beni immobili, che si innesti su un acquisto effettuato dal fiduciario per conto del fiduciante, trattandosi di atto meramente interno tra fiduciante e fiduciario, il quale dà luogo ad un assetto di interessi che si esplica esclusivamente sul piano obbligatorio. Nello stesso senso, Sez. 1, n. 09139/2020, Falabella, Rv. 657636-01, ha rilevato che il pactum fiduciae che abbia ad oggetto il trasferimento di quote sociali non richiede la forma scritta ad substantiam o ad probationem, perché tale patto deve essere equiparato al contratto preliminare, per il quale l'art. 1351 c.c. prescrive la stessa forma del contratto definitivo, e la cessione di quote è un negozio che non richiede alcuna forma particolare, neppure nel caso in cui la società sia proprietaria di beni immobili.

Quanto agli aspetti processuali, Sez. 1, n. 11226/2021, Nazzicone, Rv. 661281-01, ha affermato che, nel procedimento arbitrale riguardante l'accertamento dell'intestazione fiduciaria di partecipazioni societarie, non sussiste il litisconsorzio necessario della società, poiché la controversia attiene al contratto tra fiduciante e fiduciario, efficace inter partes in virtù dell'incontro delle rispettive volontà, nel quale le partecipazioni al capitale sociale costituiscono soltanto l'oggetto del negozio.

Merita infine menzione Sez. 1, n. 09461/2021, Falabella, Rv. 661265-01, che si è pronunciata sull’interpretazione delle clausole di gradimento inserite nello statuto di società di capitali. Posto che l'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, la Corte ha evidenziato che il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate e dei principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti. Per contro, la censura non può risolversi nella mera contrapposizione dell'interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata. In applicazione di tale principio, quindi, la S.C. ha rigettato il ricorso ritenendo che correttamente il giudice di merito nell'interpretazione della disposizione statutaria, secondo cui l'ingresso del nuovo socio deve essere previamente approvato dall'assemblea, avesse valorizzato il dato letterale invece che accogliere soluzioni ermeneutiche alternative o conferire rilievo a condotte successive al trasferimento delle partecipazioni sociali, non essendo stato dedotto come le stesse potessero elidere il dato letterale.

1.3. Società di fatto.

In continuità con un principio ormai consolidato, Sez. 1, n. 14365/2021, Amatore, Rv. 661494-03, ha ribadito che la mancata esteriorizzazione del rapporto societario costituisce il presupposto indispensabile perché possa legittimamente predicarsi, da parte del giudice, l'esistenza di una società occulta. Tuttavia, ciò non esclude che tutti i soci debbano pur sempre partecipare all'esercizio dell'attività societaria in vista di un risultato unitario e che i conferimenti siano diretti a costituire un patrimonio "comune", sottratto alla libera disponibilità dei singoli partecipi (art. 2256 c.c.) ed alle azioni esecutive dei loro creditori personali (art. 2270 e 2305 c.c.). L’unica differenza è che le operazioni sono compiute dai soci in nome proprio e non della compagine sociale.

Tale orientamento risulta conforme a quanto espresso da Sez. 6-1, n. 08981/2016, Genovese, Rv. 639539-01, secondo cui la mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l'accertamento aliunde, mediante ogni mezzo di prova previsto dall'ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell'esistenza di una struttura societaria (nel medesimo senso, Sez. 6-5, n. 19234/2020, Conti, Rv. 658876-01).

In ambito tributario tale principio è stato applicato in tema di imposte sui redditi da Sez. 5, n. 06835/2021, Fuochi Tinarelli, Rv. 661022-02, secondo cui un ente deve essere qualificato come società di fatto, e il suo reddito sottoposto a tassazione ai sensi degli artt. 5, comma 3, lett. b, e 6, comma 3, del d.P.R. n. 917 del 1986, qualora sia ravvisabile l’esistenza di una causa lucrativa e di un accordo, anche solo verbale, nonché dei criteri di cui all'art. 2247 c.c., ossia l'intenzionale esercizio in comune tra i soci di un'attività commerciale a scopo di lucro con il conferimento, a tal fine, dei necessari beni o servizi.

Sotto il profilo processuale, sempre Sez. 1, n. 14365/2021, Amatore, Rv. 661494-02, ha ritenuto valida la notifica di un atto giudiziario ad uno dei soci di una società di fatto, perché ciascuno di essi ne ha la rappresentanza ed è legittimato a stare in giudizio per la stessa, mancando un sistema di pubblicità alla relativa sede sociale.

1.4. La clausola compromissoria e le controversie compromettibili.

Con riferimento alla opponibilità della clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società, Sez. 6-1, n. 06068/2021, Nazzicone, Rv. 660782-01, ha escluso l’operatività della clausola nei confronti dello Stato, divenuto socio a seguito della confisca delle partecipazioni societarie ai sensi dell'art. 416 bis, comma 7, c.p., in quanto la deroga alla competenza dell'autorità giurisdizionale può operare solo a seguito di una scelta volontaria, mentre, in caso di confisca, l'ingresso in società dello Stato si verifica ex lege per effetto di un acquisto a titolo originario, che piega lo scopo sociale alla finalità di conservazione del patrimonio aziendale per il tempo necessario alla definitiva destinazione dei beni confiscati. Tale principio è stato applicato in sede di regolamento di competenza, nell’ambito di un'azione di responsabilità promossa ex art. 2476 c.c. dallo Stato, quale socio unico di una s.r.l. a cui erano state confiscate tutte le partecipazioni societarie.

La Suprema Corte ha, poi, precisato l’ambito di applicazione dell’art. 34 del d.lgs. n. 5 del 2003 per l'arbitrato societario.

Dopo aver rilevato che tale disciplina risulta indubbiamente più rigorosa rispetto al diritto comune, disponendo che la clausola arbitrale conferisca in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri ad un soggetto estraneo alla società, Sez. 6-1, n. 24462/2021, Mercolino, Rv. 662600-01, ha escluso che essa possa estendersi anche all’arbitrato previsto dal codice di rito, trattandosi di disciplina speciale. Nella vicenda all’esame, la S.C. ha escluso la nullità della clausola compromissoria, la quale prevedeva che il terzo arbitro fosse nominato dal Presidente dell'ABI, associazione cui aderiva anche la banca parte della controversia, in quanto nell’arbitrato di diritto comune l'affidamento della nomina ad un terzo, non estraneo alle parti, non comporta la nullità del compromesso o della clausola compromissoria, restando la posizione di terzietà ed imparzialità degli arbitri garantita dall'operatività dell'istituto della ricusazione, come disciplinato dall'art. 815 c.p.c..

1.5. Azione revocatoria ordinaria.

In materia di azione revocatoria ordinaria di un atto di disposizione patrimoniale compiuto da società di capitali successivamente dichiarata fallita, Sez. 6-3, n. 14478/2021, Cricenti, Rv. 661571-01, ha ritenuto insussistente il requisito dell’eventus damni nel caso in cui l'amministratore societario abbia disposto di un proprio bene per il pagamento di un debito sociale, in quanto tale atto dispositivo non pregiudica la garanzia patrimoniale generica della società, atteso che l'adempimento del terzo, comunque eseguito col patrimonio personale, non depaupera il patrimonio sociale.

1.6. Sede legale e sede effettiva della società.

La S.C. ha avuto, altresì, modo di precisare la distinzione tra sede legale e sede effettiva della società, nell’ambito di una controversia in tema di "esterovestizione", termine con cui si intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all'estero, in particolare, in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale. In conformità ai precedenti orientamenti, Sez. 5, n. 15424/2021, Nicastro, Rv. 661659-01, ha precisato che la “sede effettiva” coincide con la nozione di “sede dell'amministrazione”, contrapposta alla “sede legale” e intesa come il luogo di concreto svolgimento delle attività amministrative e di direzione dell'ente e dove si convocano le assemblee. La suddetta pronuncia ha, poi, ritenuto che tale distinzione sia rilevante anche ai fini della individuazione della residenza fiscale, in quanto la Convenzione Italia-Lussemburgo, ratificata in Italia con l. n. 747 del 1982, detta una disciplina equivalente a quella di cui all'art. 73 TUIR rinviando, come criterio generale, alla legislazione interna. Di conseguenza, nel caso di accertata doppia residenza, assume rilievo il criterio sussidiario della sede “effettiva” della società, che, come già affermato da Sez. L, n. 06021/2009, Ianniello, Rv. 607263-01, è appunto il luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente.

2. Le società di persone.

In tema di società di persone le decisioni del 2021 riguardano, in particolare, la responsabilità solidale dei soci per i debiti della società, il diritto di controllo del socio, gli amministratori e la relativa responsabilità per i danni cagionati alla società amministrata, lo scioglimento della società e la cessazione del rapporto sociale limitatamente a un socio.

2.1. La responsabilità solidale dei soci per le obbligazioni sociali.

Com’è noto, in tema di società in accomandita semplice, l’art. 2313 c.c. prevede che i soci accomandatari rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali, mentre i soci accomandanti rispondono limitatamente alla quota conferita.

Nell’anno in rassegna, tale principio ha trovato applicazione in Sez. 5, n. 13565/2021, Armone, Rv. 661308-01, secondo cui il socio accomandante è privo di legittimazione - attiva e passiva - rispetto alle obbligazioni tributarie (nella specie IVA e IRPEF) riferibili alla società, salvo le deroghe alla regola di cui all'art. 2313 c.c., il quale, nel limitare la responsabilità dell'accomandante per le obbligazioni sociali alla quota conferita, non autorizza i creditori sociali, incluso l'erario, ad agire direttamente nei suoi confronti, limitandosi tale disposizione a disciplinare i rapporti interni alla compagine sociale. Tale pronuncia risulta conforme a quanto statuito da Sez. L, n. 5428/2019, Bellè, Rv. 652892-01.

Sempre con riferimento alle società in accomandita semplice ed in applicazione del suindicato principio, Sez. L, n. 22088/2021, D’Antonio, Rv. 662094-01, ha affermato che, ai fini dell'applicazione dell'aliquota agevolata prevista dall'art. 20 del d.l. n. 30 del1974, conv. con modif. dalla l. n. 114 del 1974, per i contributi dovuti alla cassa unica per gli assegni familiari dai datori di lavoro iscritti negli elenchi nominativi degli esercenti attività commerciale per l'assicurazione di malattia di cui alla l. n. 1397 del 1960, e successive modifiche, rileva esclusivamente l'iscrizione dei soci accomandatari che, rispondendo illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni sociali, si assumono il rischio giuridico ed economico dell'attività imprenditoriale, e non quella dei soci accomandanti, che non hanno la titolarità giuridica ed economica della società.

2.2. Diritti del socio di società di persone.

Ai sensi dell'art. 2261 c.c., nelle società di persone il socio che non partecipa all’amministrazione ha il potere di consultare la documentazione relativa alla società. Sez. 5, n. 20157/2021, Giudicepietro, Rv. 661887-01, ha ritenuto tale disposizione rilevante anche in tema di accertamento delle imposte sui redditi, affermando che il rinvio per relationem, nella rettifica dei redditi del socio, a quella notificata alla società, soddisfa l'obbligo di porre il contribuente in condizione di conoscere le ragioni dalle quali deriva la pretesa fiscale, potendo il socio, in virtù del potere di controllo riconosciuto dal citato art. 2261 c.c., prendere visione sia dell'accertamento presupposto sia dei documenti richiamati a suo fondamento, ovvero di rilevarne l'omessa comunicazione. Tale pronuncia si pone in continuità con quanto già in precedenza affermato da Sez. 5, n. 5645/2014, Cigna, Rv. 630593-01.

2.3. Gli amministratori nella società di persone.

In applicazione del principio generale della prorogatio dei poteri degli amministratori sino alla loro sostituzione, Sez. 1, n. 13516/2021, Amatore, Rv. 661394-01, ha riconosciuto in capo all’amministratore revocato di società di persone la legittimazione alla presentazione dell'istanza di fallimento dell'ente. Ciò in quanto l'art. 2274 c.c. prevede che, avvenuto lo scioglimento della società, i soci amministratori conservano il potere di amministrare limitatamente agli affari urgenti, sino a quando non siano presi i provvedimenti necessari alla liquidazione.

Merita, altresì, menzione Sez. 1, n. 12567/2021, Falabella, Rv. 661366-02, che ha affermato la natura contrattuale della responsabilità dell'amministratore per i danni cagionati alla società amministrata, anche qualora si tratti di società di persone. In conseguenza di ciò, la S.C. ha ritenuto che a fronte di somme fuoriuscite dall'attivo della società, a titolo di utili o compensi erogati, quest'ultima, nell'agire per il risarcimento del danno, può limitarsi ad allegare l'inadempimento, consistente nella distrazione di dette risorse, mentre compete all'amministratore la prova del corretto adempimento e dunque della destinazione del patrimonio all'estinzione di debiti sociali oppure allo svolgimento dell'attività sociale. Tale pronuncia si pone in linea con il consolidato orientamento in tema di responsabilità dell’amministratore di società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata (v. da ultimo Sez. 1, n. 29252/2021, Vella, Rv. 662907-01, in motivazione, e già Sez. 1, n. 17441/2016, Di Marzio, Rv. 641164-01, che, dopo averne ribadito la natura contrattuale, ha conseguentemente affermato che spetta alla società allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri e provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l'osservanza dei doveri previsti dal nuovo testo dell'art. 2392 c.c., modificato a seguito della riforma del 2003).

2.4. Scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio e scioglimento della società.

In ordine alle conseguenze dello scioglimento del rapporto sociale relativamente ad un socio, merita, innanzitutto, menzione Sez. 3, n. 17969/2021, Gorgoni, Rv. 661703-01, che ha fatto diretta applicazione dell’art. 2290 c.c. in ambito negoziale, affermando che il socio di una società di persone, che abbia trasferito la quota sociale a terzi, non risponde delle obbligazioni (nella specie di natura restitutoria) sorte a carico della società in un momento successivo al suddetto trasferimento. Tale orientamento si pone in linea di continuità con Sez. L, n. 08649/2010, Mammone, Rv. 613529-01, secondo cui il regime di cui agli artt. 2290 e 2300 c.c., in forza del quale il socio di una società in nome collettivo che ceda la propria quota risponde, nei confronti dei terzi, delle obbligazioni sociali sorte fino al momento in cui la cessione sia stata iscritta nel registro delle imprese o fino al momento (anteriore) in cui il terzo sia venuto a conoscenza della medesima, è di generale applicazione, non riscontrandosi alcuna disposizione di legge che ne circoscriva la portata al campo delle obbligazioni di origine negoziale con esclusione di quelle che trovano la loro fonte nella legge, quale, nella specie, l'obbligazione di versamento dei contributi previdenziali all'INPS.

Nel caso di scioglimento del rapporto sociale relativamente ad un socio l'art. 2289, comma 2, c.c. riconosce al recedente il diritto ad una somma di denaro che rappresenti il valore della quota da liquidarsi in base alla situazione patrimoniale della società con riferimento al giorno della cessazione del rapporto.

Al riguardo, Sez. 6-1, n. 22346/2021, Dolmetta, Rv. 662210-01, ha affermato che l’eventuale assenza di documentazione in concreto idonea a ricostruire il valore della quota in tale momento non esime dal rispetto di detto criterio temporale. La S.C. ha, quindi, ritenuto non utilizzabili i criteri riferiti al "giorno più prossimo" ovvero al più vicino bilancio d'esercizio, dovendo in tal caso farsi ricorso a criteri sostitutivi, ancorché presuntivi. Nello stesso senso già Sez. 1, n. 05449/2015, Didone, Rv. 634708-01, nella quale è stato evidenziato che nelle società di persone, a differenza delle società per azioni, l’art. 2289 c.c. impone di assumere a base della liquidazione della quota di un socio uscente non l'ultimo bilancio, bensì l'effettiva consistenza al momento della uscita del socio.

Anche in ambito tributario è stato preso in considerazione il credito del socio uscente alla liquidazione della quota. In particolare, Sez. 5, n. 01216/2021, Luciotti, Rv. 660241-01, ha affermato che, in tema di imposte sui redditi, non è consentito agli eredi presentare la dichiarazione dei redditi deducendo pro quota le perdite di competenza del de cuius derivanti dalla sua partecipazione a una società di persone, poiché la morte del socio comporta l'estinzione del rapporto partecipativo e l'insorgenza in capo agli eredi, che non assumono la qualità di soci, di un diritto di credito alla liquidazione della quota già spettante al defunto.

Infine, con riferimento all’estinzione delle società di persone, va evidenziata Sez. 3, n. 17957/2021, Fiecconi, Rv. 661743-01, secondo la quale deve presumersi esistente la società di persone che, pur risultando inattiva, continui ad essere iscritta nel registro delle imprese, conservando così la capacità di stare in giudizio. Analogo principio risulta affermato nel caso inverso, in cui la società di persone abbia continuato ad operare nonostante la cancellazione dal registro delle imprese. Sez. L, n. 13792/2016, Manna, Rv. 640451-01, ha infatti affermato che l'iscrizione nel registro delle imprese dell'atto di cancellazione della società di persone ha valore di pubblicità meramente dichiarativa ed è superabile con la prova che la società abbia continuato ad operare pur dopo la suddetta cancellazione. In conseguenza di ciò, la S.C. ha ritenuto che il difetto di legittimazione processuale della società non possa essere dedotto per la prima volta in cassazione, con produzione dell'atto di cancellazione ai sensi dell'art. 372 c.p.c., comportando una non consentita introduzione di una nuova questione di fatto in sede di legittimità.

La pronuncia si pone in linea di continuità con quanto statuito da Sez. U, n. 06070/2013, Rordorf, Rv. 625325-01, secondo cui, dopo la riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. n. 6 del 2003, la cancellazione dal registro delle imprese estingue anche la società di persone, sebbene non tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo siano stati definiti. Pertanto, la prova contraria, idonea a superare l'effetto di pubblicità dichiarativa che l'iscrizione della cancellazione spiega per la società di persone, non può vertere sul fatto statico della pendenza di rapporti sociali non definiti, occorrendo, viceversa, la prova del fatto dinamico della continuazione dell'operatività sociale dopo l'avvenuta cancellazione, la quale soltanto giustifica, ai sensi dell'art. 2191 c.c., la cancellazione della cancellazione, cui consegue la presunzione che la società non abbia mai cessato di esistere.

3. Le società di capitali.

Le decisioni adottate dalla Corte di cassazione, nel corso del 2021, con specifico riferimento alle società di capitali, trattano in particolare i diritti e i doveri del socio, i finanziamenti e i conferimenti a vario titolo di quest’ultimo, l’assemblea e le delibere assembleari, l’amministrazione, la liquidazione e le azioni di responsabilità. In alcuni casi, la Corte ha affrontato le singole questioni, riferendosi in generale alle società di capitali, mentre, in altri casi, come di volta in volta precisato, ha esaminato in particolare la disciplina propria delle S.p.a. o delle s.r.l.

3.1. Diritti e doveri del socio.

A differenza di quanto disposto per le società di persone dall’art. 2285 c.c., con riferimento alla società a responsabilità limitata, il primo comma dell’art. 2473 c.c. rimette all’atto costitutivo la determinazione delle ipotesi in cui è consentito al socio di recedere dalla società e la disciplina delle relative modalità, salvo il riconoscimento del diritto di recesso in alcuni casi ivi espressamente previsti. La natura capitalistica della società e l’esigenza di tutela dei creditori che, facendo affidamento sul patrimonio sociale, hanno interesse al mantenimento della sua integrità, dunque, escludono che il socio di società a responsabilità limitata possa recedere ad nutum, salvo nel caso in cui la società sia stata costituita a tempo indeterminato.

Alla luce del principio della libera determinazione delle ipotesi di recesso, Sez. 1, n. 04481/2021, Acierno, Rv. 660705-01, ha ritenuto che la disciplina normativa inderogabile della forma scritta ad substantiam, prevista per l'atto costitutivo della società a responsabilità limitata, non sia trasponibile all'atto di recesso, dovendosi invece ricavare dall'art. 2473 c.c. l'opposto principio della libertà di forma, salvo il rispetto delle modalità convenzionalmente predeterminate. La pronuncia ha, infatti, evidenziato che la ratio sottesa alla previsione della forma scritta ad substantiam per l’atto costitutivo è indubitabilmente finalizzata alla cura di interessi fondamentali di rilievo pubblicistico, qualificabili come di ordine pubblico, perché fondati sui principi di trasparenza, di affidamento e di tutela dei terzi nei rapporti commerciali. Tale ratio, tuttavia, non è riscontrabile nella disciplina del recesso, laddove il legislatore ha lasciato all’autonomia privata la regolamentazione delle ipotesi e delle modalità di scioglimento del rapporto sociale limitatamente al singolo socio.

Tra i doveri del socio rientra certamente l’obbligo di eseguire il conferimento corrispondente alla quota sottoscritta. Nell’anno in rassegna, la Suprema Corte si è occupata dello speciale procedimento previsto dall’art. 2466 c.c. per il caso in cui il socio di società a responsabilità limitata non esegua il conferimento nel termine prescritto. In particolare, Sez. 1, n. 13514/2021, Fidanzia, Rv. 661491-01, ha affermato che anche nei confronti della vendita forzosa della quota del socio moroso di s.r.l., disciplinata dall'art. 2466 c.c., opera il disposto dell'art. 168, comma 1, l.fall., che fa divieto ai creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive sul patrimonio del debitore, dalla data della presentazione del ricorso per l'ammissione al concordato preventivo fino al passaggio in giudicato della sentenza di omologazione, in quanto il citato art. 168 l.fall. comprende tutte le iniziative volte a conseguire il soddisfacimento coattivo del credito al di fuori della procedura concorsuale.

3.2. Finanziamenti e conferimenti a vario titolo.

Nell’ambito delle erogazioni che possono garantire un beneficio finanziario alla società ricevente, i soci possono effettuare apporti fuori capitale (effettuati causa societatis e senza obbligo di rimborso), oppure veri e propri prestiti, da cui deriva un obbligo di rimborso a carico della società.

In tema di redditi di impresa, Sez. 5, n. 27540/2021, D’Orazio, Rv. 662453-01, ha preso in considerazione l’ipotesi in cui la società abbia effettivamente ricevuto finanziamenti dai soci, con il versamento di denaro contante, affermando che l'eventuale utilizzo delle somme per finalità estranee all'esercizio dell'impresa non può costituire plusvalenza, ai sensi dell'art. 86, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 917 del 1986, atteso che tale norma si riferisce solo alle plusvalenze generate dai beni relativi all'impresa, strumentali o meramente patrimoniali, con esclusione dei beni-merce e del denaro, anche per l'impossibilità, in tale ultimo caso, di procedere al calcolo della plusvalenza tassabile, non essendo ipotizzabile alcun ammortamento.

3.3. Le deliberazioni dell’assemblea.

Anche nell’anno in rassegna, la S.C. ha adottato alcune pronunce in ordine alle deliberazioni dell’assemblea dei soci. Nell’ambito delle società di capitali, infatti, l’assemblea è l’organo che ha la funzione di determinare la volontà dell’ente, nelle materie riservate alla sua competenza dalla legge e dallo statuto, in maniera vincolante per tutti i soci. A tal fine, infatti, il primo comma dell’art. 2377 c.c. stabilisce che le deliberazioni dell’assemblea, prese in conformità della legge e dell’atto costitutivo, vincolano tutti i soci ancorché non intervenuti o dissenzienti.

Tuttavia, qualora la delibera non sia presa in conformità della legge o dell’atto costitutivo, il legislatore ha dettato una articolata disciplina delle invalidità delle deliberazioni assembleari, differenziata a seconda che si tratti di società per azioni o società a responsabilità limitata, ma volta con riferimento ad entrambi i tipi societari a contemperare l’interesse alla tutela dei soggetti lesi (società, soci o terzi) con quello della stabilità degli atti societari.

Proprio con riferimento a tale contemperamento di interessi, merita menzione Sez. 1, n. 11224/2021, Scotti, Rv. 661280-01, che ha innanzitutto affermato che alle delibere del consiglio di amministrazione di una società è applicabile in via analogica la disciplina in tema di invalidità delle delibere assembleari, ai sensi dell'art. 223 sexies, disp. att. c.c. (che ha regolato il regime transitorio conseguente alle modifiche apportate all'art. 2379 c.c. dalla l. n. 6 del 2003). Precisato ciò, la S.C. ha ritenuto che la nullità delle delibere, così come l’impugnazione delle stesse, possa essere dichiarata d'ufficio dal giudice entro tre anni dalla iscrizione o deposito della delibera nel registro delle imprese, se la deliberazione vi è soggetta, o dalla trascrizione nel libro delle adunanze, anche in riferimento alle delibere anteriori al 1° gennaio 2004, salvo che non si tratti di delibere concernenti la modifica dell'oggetto sociale, consentendosi la proposizione delle azioni per l'annullamento o la dichiarazione di nullità secondo il precedente regime soltanto entro la data del 31 marzo 2004. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto che il giudice di merito non potesse rilevare d'ufficio la nullità di una delibera adottata dal consiglio di amministrazione di una società cooperativa, essendo decorso il termine triennale di decadenza.

Tale pronuncia appare una precisazione di quanto statuito da Sez. 1, n. 08795/2016, Bernabai, Rv. 639560-01, secondo cui il principio per cui il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare d'ufficio (o, comunque, a seguito di allegazione di parte successiva all’editio actionis), ove emergente dagli atti, l'esistenza di un diverso vizio di nullità, essendo quella domanda pertinente ad un diritto autodeterminato, è suscettibile di applicazione estensiva anche nel sottosistema societario, nell'ambito delle azioni di impugnazione delle deliberazioni assembleari, benché non assimilabili ai contratti. Ed infatti, trattandosi di un principio generale, va riconosciuto al giudice il potere di rilevare d'ufficio la nullità di una delibera anche in difetto di un'espressa deduzione di parte o per profili diversi da quelli enunciati, purché desumibili dagli atti ritualmente acquisiti al processo e previa provocazione del contraddittorio sul punto.

In ordine ai criteri interpretativi, Sez. 1, n. 12568/2021, Falabella, Rv. 661451-02, ha affermato che l'interpretazione delle deliberazioni assembleari di società di capitali soggiace alle regole dell'ermeneutica contrattuale, ove il richiamo alla comune intenzione delle parti impone di estendere l'indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici anche quando il senso letterale non è oscuro o incerto, ma risulta incoerente con indici esterni che rivelano una diversa volontà dei contraenti. La S.C. ha applicato tale principio nel respingere l'eccezione secondo la quale doveva ritenersi autorizzata l'azione di responsabilità ex art. 2393 c.c. solo per le condotte espressamente menzionate in assemblea, rilevando invece che era stata approvata la proposta di esercizio di tale azione per i danni "a qualunque titolo causati", senza che, nel corso della discussione, fosse emersa la volontà di ridurne la portata. La pronuncia si pone sulla stessa linea di Sez. 1, n. 375/2018, Dolmetta, Rv. 646587-01, secondo cui le determinazioni assunte dall’assemblea dei soci in costanza di svolgimento del rapporto associativo soggiacciono, ai fini dell’interpretazione del loro contenuto, alle regole ermeneutiche dettate per i contratti.

La stessa pronuncia, Rv. 661451-01, ha rilevato che, in tema di azione sociale di responsabilità, il giudice deve preliminarmente verificare l'esistenza della deliberazione assembleare che ne approvi l'esercizio, poiché tale deliberazione costituisce un presupposto (suscettibile di regolarizzazione ex tunc) che attiene alla legittimazione processuale della parte attrice. L’assenza di tale presupposto, incidendo sulla regolare costituzione del rapporto processuale, può essere rilevata d'ufficio in ogni stato e grado del processo, anche in sede di legittimità, salvo il giudicato interno che, però, si forma solo quando la decisione impugnata sia stata adottata dopo che la specifica questione abbia formato oggetto di discussione nel contraddittorio delle parti. La pronuncia, nell’affermare che l’esistenza della delibera autorizzativa dei soci deve essere verificata d’ufficio dal giudice e che la sua mancanza è suscettibile di regolarizzazione, si pone in linea di continuità con Sez. 1, n. 18939/2007, Panzani, Rv. 598892-01, in cui si precisa che è sufficiente che tale autorizzazione sussista nel momento della pronuncia della sentenza che definisce il giudizio. Tuttavia, tale decisione aderisce all’orientamento tradizionale, che qualifica la deliberazione come una condizione dell’azione (come già evidenziato da Sez. 1, n. 09090/2003, Rordorf, Rv. 564000-01).

Inoltre, con riferimento alla possibile formazione del giudicato interno, nella pronuncia in rassegna trova applicazione il principio sancito da Sez. U, n. 07925/2019, Campanile, Rv. 653277-01, secondo cui la decisione della causa nel merito non comporta la formazione del giudicato implicito sulla legittimazione ad agire ove tale quaestio iuris, pur avendo costituito la premessa logica della statuizione di merito, non sia stata sollevata dalle parti, posto che una questione può ritenersi decisa dal giudice di merito soltanto ove abbia formato oggetto di discussione in contraddittorio.

Con riferimento alla delibera assembleare di autorizzazione al promovimento dell'azione sociale di responsabilità ex art. 2393 c.c., si è pronunciata anche Sez. 1, n. 21245/2021, Caradonna, Rv. 661977-01, ritenendo che la stessa debba contenere l'individuazione degli elementi costitutivi dell'azione, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo. In caso contrario, la delibera deve considerarsi generica e, dunque, invalida, non essendo idonea ad esprimere la volontà compiutamente informata dei soci (Nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia di merito che aveva ritenuto inammissibile l'azione sociale di responsabilità, perché priva di una valida autorizzazione, essendosi l'assemblea dei soci limitata a dare mandato al legale di verificare se vi fossero gli estremi per promuovere "le azioni del caso" nei confronti degli organi di gestione e di controllo in carica a partire dalla data di costituzione della società). Merita, peraltro, di essere segnalato che tale decisione segue l’orientamento tradizionale, già sopra evidenziato, secondo cui la delibera integra una condizione dell’azione.

Con particolare riferimento alla delibera di approvazione del bilancio, Sez. 1, n. 21238/2021, Iofrida, Rv. 661976-01, ha ritenuto che l'interesse ad impugnare del socio debba essere valutato alla stregua della prospettazione della parte, che ben può limitarsi a lamentare la mancanza di una corretta informazione - secondo le prescrizioni di legge - sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell'ente, senza dedurre alcun danno economico.

La Suprema Corte ha, pertanto, chiarito che l’interesse ad agire non sia escluso in caso di perdita dell'intero capitale sociale e di conseguente azzeramento del valore economico della partecipazione, poiché quest'ultima costituisce pur sempre un bene compreso nel patrimonio del socio, al quale non va negato il diritto di essere messo a conoscenza dei fatti che, nel corso dell'esercizio, hanno inciso sul patrimonio e sull'andamento economico della società (conf. Sez. 1, n. 02758/2012, Rordorf, Rv. 621558-01, in cui si precisa che pure in presenza di una causa di scioglimento la partecipazione costituisce un bene nel patrimonio del socio e permane la struttura organizzativa della società ed i suoi organi, né cessa l'obbligo degli amministratori (o dei liquidatori) di redigere e sottoporre all'approvazione dell'assemblea il bilancio, che, quindi, deve essere redatto secondo le modalità inderogabilmente prescritte dalla legge). Del resto, non va dimenticato che Sez. U, n. 00027/2000, Criscuolo, Rv. 534172-01, ha affermato la illiceità del bilancio d'esercizio di una società di capitali, che violi i precetti di chiarezza e precisione, non soltanto quando la violazione della normativa in materia determini una divaricazione tra il risultato effettivo dell'esercizio e quello del quale il bilancio dà invece contezza, ma anche in tutti i casi in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati non sia possibile desumere l'intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle singole poste iscritte.

Sempre con riferimento ai vizi della delibera assembleare, Sez. 2, n. 29325/2021, Abete, Rv. 662704-01, ha affermato che l’interesse del socio al potenziamento ed alla conservazione della consistenza economica della società è tutelabile esclusivamente con strumenti interni, tra cui la possibilità di insorgere contro le deliberazioni invalide, ma non implica la legittimazione ad agire, nei confronti dei terzi, per far annullare o dichiarare nulli anche i negozi intercorsi fra questi ultimi e la società, potendo tale validità essere contestata solo da quest’ultima, come si evince dall'obbligo, facente capo all'amministratore, di attivarsi nelle dovute forme per l'eliminazione degli effetti conseguenti all'accertato vizio (conf. Sez. 1, n. 4579/2009, Rordorf, Rv. 607205-01).

3.4. Gli amministratori.

Quanto al rapporto intercorrente tra amministratore e società, in primo luogo, deve essere menzionata Sez. 1, n. 25050/2021, Dolmetta, Rv. 662479-01, secondo cui, nella società a responsabilità limitata, il fallimento dell'amministratore non comporta la decadenza da tale carica, ove non sia diversamente previsto nello statuto, poiché la novella introdotta dal d.lgs. n. 6 del 2003 non contiene più il rinvio alle cause di ineleggibilità e di decadenza stabilite dall'art. 2382 c.c. per gli amministratori di S.p.a., differenziando, anche sotto questo profilo, la disciplina dei due tipi di società, (conf. Sez. 3, n. 18904/2013, Scrima, Rv. 627799-01).

In ordine alla decadenza dell’amministratore di società a responsabilità limitata che sia stato dichiarato fallito, è recentemente intervenuto il d.lgs. 8 novembre 2021, n. 183, che ha recepito la direttiva (UE) 2019/1151 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, recante modifica della direttiva (UE) 2017/1132 per quanto concerne l'uso di strumenti e processi digitali nel diritto societario. In particolare, l’art. 6, comma 1, lett. a) del citato d.lgs. ha aggiunto al primo comma dell’art. 2475 c.c. il richiamo all’art. 2382 c.c. In virtù di tale aggiunta, trova applicazione anche alle società a responsabilità limitata il citato art. 2382 c.c., in base al quale non può essere nominato amministratore, e se nominato decade dal suo ufficio, l'interdetto, l'inabilitato, il fallito, o chi è stato condannato ad una pena che importa l'interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l'incapacità ad esercitare uffici direttivi.

Sempre in tema di durata dell’incarico dell’amministratore, Sez. 5, n. 26209/2021, Pirari, Rv. 662325-01, ha ritenuto non legittimata a far valere in giudizio un diritto spettante alla società stessa la persona fisica che, pur avendole ricoperte in passato, non rivesta attualmente le cariche di amministratore e legale rappresentante di una società di capitali. La Suprema Corte ha, quindi, affermato che il potere di far valere la nullità di una notificazione eseguita presso un destinatario non legittimato compete al soggetto cui era effettivamente diretta la notificazione stessa, e non a colui presso il quale sia stato erroneamente eseguito l’atto notificatorio. La pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. 5, n. 19870/2004, Monaci, Rv. 578404-01.

Con riferimento, poi, al compenso spettante all'amministratore di società a responsabilità limitata, Sez. 1, n. 29252/2021, Vella, Rv. 662907-01, ha affermato che, nel giudizio instaurato dall’amministratore per ottenere il pagamento del compenso, la società può far valere quale eccezione riconvenzionale, ai sensi degli artt. 1218 e 1460 c.c., l'inadempimento o l'inesatto adempimento degli obblighi assunti dall'amministratore in osservanza dei doveri imposti dalla legge o dall'atto costituivo, la cui violazione integra la responsabilità ex art. 2476, comma 1, c.c., venendo in rilievo non il rapporto di immedesimazione organica, bensì il nesso sinallagmatico di tipo contrattuale tra adempimento dei doveri e diritto al compenso.

Infine, nell’ambito del contenzioso tributario, sono state adottate numerose pronunce in cui hanno trovato diretta applicazione principi propri del diritto societario.

In particolare, in tema di redditi d'impresa, Sez. 5, n. 05763/2021, D’Angiolella, Rv. 660690-01 e Sez. 5, n. 10308/2021, Condello, Rv. 661219-02, hanno ritenuto che non sia deducibile, per difetto dei requisiti di certezza e di oggettiva determinabilità dell'ammontare del costo di cui all'art. 109 T.U.I.R., la spesa sostenuta da una società di capitali per i compensi agli amministratori - non stabiliti nell'atto costitutivo - in mancanza di una esplicita delibera assembleare preventiva, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio né è ratificabile successivamente, stante la natura inderogabile degli artt. 2364 e 2389 c.c. (nel testo successivo al d.lgs. n. 6 del 2003). Ciò in quanto l'effettivo svolgimento dell'attività gestoria non è sufficiente a conferire certezza alla spesa dedotta, stante la natura inderogabile della disciplina del funzionamento della società.

Alcune pronunce, inoltre, hanno preso in considerazione la figura dell’amministratore di fatto.

In particolare, in tema di contenzioso tributario in materia societaria, Sez. 5, n. 36034/2021, Guida, Rv. 663053-01, ha ritenuto che l’amministratore di fatto sia privo della legittimazione ad essere destinatario di un avviso di accertamento rivolto alla società di capitali, in quanto gli artt. 145 c.p.c. e 60 d.P.R. n. 600 del 1973 prevedono che la notifica alle persone giuridiche avvenga mediante consegna alla persona che rappresenta l'ente (ovvero ad altri soggetti legittimati indicati dalla norma).

In caso di avviso di accertamento emanato nei confronti di una società per obbligazioni tributarie ad essa relative, Sez. 5, n. 29474/2021, Catallozzi, Rv. 662622-01, ha ritenuto l'amministratore di fatto non legittimato ad impugnare l'avviso notificatogli, non essendo ravvisabile in capo al predetto alcun interesse all'accertamento della legittimità dell'atto impositivo, trattandosi di situazioni giuridiche soggettive alle quali egli è estraneo. L'amministratore, infatti, non è direttamente responsabile o sanzionabile per le violazioni imputabili alla società amministrata, atteso che la responsabilità disciplinata dall'art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973 configura un'obbligazione ex lege avente natura civilistica e titolo autonomo rispetto a quella fiscale.

In materia di accertamento tributario, Sez. 5, n. 36003/2021, Guida, Rv. 663044-01, ha ritenuto che possa presumersi, secondo l’id quod plerumque accidit, che l'amministratore di fatto di una società "cartiera" abbia direttamente incamerato i proventi dell'evasione fiscale addebitabile all'ente, anche in assenza di evidenze contabili dell'evasione. Sicché, spetta all'amministratore stesso fornire la prova contraria.

Per contro, con riferimento all’amministratore delegato di una società dotata di personalità giuridica, Sez. 5, n. 05164/2021, Federici, Rv. 660478-01, in tema di sanzioni tributarie, nella vigenza dell'art. 11, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 472 del 1997 (nel testo anteriore all'introduzione dell'art. 7 del d.l. n. 269 del 2003, conv. con modif. dalla l. n. 326 del 2003), ha affermato che il principio di personalizzazione della sanzione escluda l'automatica corrispondenza tra la funzione in sé rivestita dall’amministratore delegato e l'imputazione delle condotte illecite. Ciò sebbene la funzione ed i poteri gestionali dell'amministratore delegato di una società dotata di personalità giuridica possano astrattamente ricondurre alla sua persona le condotte che materializzano il compimento degli atti illegittimi, compresa la materiale formazione dell'atto illegale. La Suprema Corte ha, quindi, ritenuto necessaria un'indagine quanto meno sufficiente a identificare gli elementi di base da cui evincere l'addebitabilità delle violazioni all'amministratore.

3.5. Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori.

Numerose sono le pronunce adottate dalla Suprema Corte in tema di azioni di responsabilità nei confronti degli organi di gestione di società di capitali.

Con riferimento alla posizione dei consiglieri non esecutivi, Sez. 2, n. 02620/2021, Varrone, Rv. 660312-01, ha ritenuto che, anche in presenza di eventuali organi delegati, sussiste il dovere dei singoli consiglieri di valutare l'adeguatezza dell'assetto organizzativo e contabile, di verificare il generale andamento della gestione della società, nonché di assumere ogni opportuna iniziativa per assicurare che la società si uniformi ad un comportamento diligente, corretto e trasparente. Ciò in quanto tutti gli amministratori sono tenuti a svolgere i compiti loro affidati dalla legge con particolare diligenza. La pronuncia è stata adottata con riferimento ad una società autorizzata alla prestazione di servizi di investimento e va correlata con il principio affermato in tema di amministratori privi di deleghe da Sez. 1, n. 17441/2016, Di Marzio M., Rv. 641165-01, secondo cui, in virtù della modifica dell'art. 2392 c.c. avvenuta a seguito della riforma delle società di capitali del 2003, gli amministratori privi di deleghe (cd. non operativi) non sono più sottoposti ad un generale obbligo di vigilanza, tale da trasmodare di fatto in una responsabilità oggettiva per le condotte dannose degli altri amministratori, ma rispondono solo quando non abbiano impedito fatti pregiudizievoli di quest'ultimi in virtù della conoscenza - o della possibilità di conoscenza, per il loro dovere di agire informati ex art. 2381 c.c. - di elementi tali da sollecitare il loro intervento alla stregua della diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze.

La Suprema Corte ha poi adottato due importanti pronunce, nelle quali sono stati esaminati alcuni profili processuali relativi all’azione sociale di responsabilità esercitata dal socio di società per azioni e di società a responsabilità limitata. In particolare, Sez. 1, n. 12568/2021, Falabella, Rv. 661451-03, ha affermato che il socio che agisca ex art. 2393-bis c.c. è munito di una legittimazione straordinaria, riconducibile alla previsione dell'art. 81 c.p.c., poiché assume la posizione di sostituto processuale della società. Quest’ultima può, comunque, impugnare la sentenza sfavorevole al sostituto e coltivare, in appello, le domande da lui proposte in primo grado, poiché i poteri processuali del socio sono correlati alla titolarità in capo alla società del diritto azionato, che non viene meno per effetto dell'iniziativa del sostituto, (nello stesso senso, Sez. 1, Falabella, n. 19745/2018, Rv. 650162-03). Poi, per Sez. 6-1, n. 25317/2021, Nazzicone, Rv. 662505-01, nel giudizio di responsabilità promosso dal socio di s.r.l. nei confronti dell'amministratore ai sensi dell'art. 2476 c.c., la società è litisconsorte necessario e l'amministratore, in quanto munito di poteri di rappresentanza dell'ente, versa in una situazione di conflitto di interessi che richiede la nomina di un curatore speciale, il quale mantiene la legitimatio ad processum solo fino a quando i soci non provvedono alla designazione di un nuovo legale rappresentante. Spetta poi al giudice, acquisita la notizia, concedere un termine perentorio per la costituzione di quest'ultimo, in applicazione dell'art. 182, comma 2, c.p.c., pena la nullità degli atti processuali compiuti dopo tale designazione (Nella specie, la S.C., riscontrata la nomina del liquidatore, nuovo legale rappresentante della società, già in pendenza del primo grado di giudizio, ha cassato la sentenza impugnata, rinviando al giudice di appello, in diversa composizione, affinché provvedesse a decidere nuovamente la causa previa rinnovazione degli atti nulli ex art. 354, ultimo comma, c.p.c., e previa eventuale rimessione in termini ex art. 294 c.p.c. della parte non correttamente costituita).

Le decisioni si pongono in linea di continuità con Sez. 1, n. 10936/2016, Bernabai, Rv. 639796-01, che ha affermato il generale principio secondo cui, nella società a responsabilità limitata, il singolo socio è legittimato, giusta l'art. 2476, comma 3, c.c., ad esercitare, come sostituto processuale, l'azione di responsabilità spettante alla società, nei cui confronti, pertanto, deve essere integrato il contraddittorio, quale litisconsorte necessaria.

In tema di azione individuale del socio nei confronti dell'amministratore di una società di capitali, è intervenuta Sez. 1, n. 11223/2021, Scotti, Rv. 661189-01, affermandone la non esperibilità nel caso in cui il danno lamentato costituisca solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, giacché l'art. 2395 c.c. esige che il singolo socio sia stato danneggiato "direttamente" dagli atti colposi o dolosi dell'amministratore, mentre il diritto alla conservazione del patrimonio sociale appartiene unicamente alla società. La S.C. ha precisato che la mancata percezione degli utili e la diminuzione di valore della quota di partecipazione non costituiscono danno diretto del singolo socio, poiché gli utili fanno parte del patrimonio sociale fino all'eventuale delibera assembleare di distribuzione e la quota di partecipazione è un bene distinto dal patrimonio sociale la cui diminuzione di valore è conseguenza soltanto indiretta ed eventuale della condotta dell'amministratore. La pronuncia è conforme al principio espresso da Sez. U, n. 27346/2009, Felicetti, Rv. 610953-01.

Vanno, da ultimo, menzionate due pronunce relative all’azione di responsabilità promossa dal curatore ai sensi dell’art. 146, l.fall., che hanno approfondito il profilo del danno risarcibile e quello della opponibilità al fallimento della cessazione dalla carica di amministratore.

In particolare, secondo Sez. 1, n. 13220/2021, Amatore, Rv. 661367-01, nell'azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell'art. 146, comma 2, l.fall., la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare. Tale criterio, infatti, può essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, purché l'attore abbia allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore medesimo (Nella specie la S.C. ha cassato con rinvio la decisione impugnata che aveva liquidato in via equitativa il danno ascritto all'organo di amministrazione di una società di capitali, poi fallita, pur in presenza di specifici inadempimenti che, ove provati e causalmente collegabili al pregiudizio indotto dalla mala gestio, avrebbero consentito l'esatta quantificazione del danno patito dalla società, senza necessità di ricorrere alla liquidazione equitativa).

Tale pronuncia si pone in piena conformità con l’importante decisione delle Sezioni Unite, n. 09100/2015, Rordorf, Rv. 635451-01.

Quanto all’ipotesi in cui nell’ambito di un’azione di responsabilità promossa dal curatore l’amministratore convenuto abbia ritualmente presentato le proprie dimissioni, Sez. 1, n. 13221/2021, Caiazzo, Rv. 661452-01, ha ritenuto che la cessazione dalla carica sia opponibile al fallimento, anche se non è iscritta nel registro delle imprese, poiché non può operarsi un'estensione della responsabilità - che è, comunque, per fatto proprio (anche se di natura omissiva) - a comportamenti messi in atto da terzi in epoca successiva alle dimissioni, solo perché il collegio sindacale ha omesso di adempiere agli obblighi di pubblicità, alla cui inerzia l'amministratore dimissionario non può supplire, essendo ormai estraneo all'organizzazione societaria.

Tale orientamento non registra precedenti di legittimità.

3.6. L’abusiva concessione del credito.

La S.C. ha poi affrontato la questione se il curatore fallimentare sia legittimato ad agire contro le banche per il danno da queste cagionato con l'abusiva concessione del credito al patrimonio del soggetto fallito, delineando i presupposti in presenza dei quali l’erogazione del credito possa qualificarsi “abusiva”, per poi chiarire quando possa ritenersi sussistente la responsabilità della banca.

In particolare, Sez. 1, n. 18610/2021, Nazzicone, Rv. 661819-01, ha affermato che l'erogazione del credito è qualificabile come "abusiva" se effettuata, con dolo o colpa, ad un'impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economico-finanziaria ed in assenza di concrete prospettive di superamento della crisi. Tale condotta integra un illecito del soggetto finanziatore, per essere questi venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione, obbligando il medesimo al risarcimento del danno, ove ne discenda un aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell'attività di impresa.

Per contro, non integra un'abusiva concessione di credito la condotta della banca che, pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi di impresa, abbia assunto un rischio non irragionevole, operando nell'intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un'impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito a detti scopi, (Sez. 1, n. 18610/2021, Nazzicone, Rv. 661819-02).

La Suprema Corte ha anche ritenuto che, in caso di illecita nuova finanza o di mantenimento dei contratti in corso, che abbia cagionato una diminuzione del patrimonio del soggetto fallito, il curatore fallimentare è legittimato ad agire contro la banca per la concessione abusiva del credito, al fine di ottenere il risarcimento del danno diretto all'impresa conseguito al finanziamento e per il pregiudizio all'intero ceto creditorio a causa della perdita della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c. (Rv. 661819-03)

In tal caso, la responsabilità della banca può sussistere in concorso con quella degli organi sociali di cui all'art. 146 l.fall., in via di solidarietà passiva ai sensi dell'art. 2055 c.c., quali fattori causativi del medesimo danno, senza che, per altro, sia necessario l'esercizio congiunto delle azioni verso gli organi sociali e verso il finanziatore, trattandosi di litisconsorzio facoltativo ( Rv. 661819-04).

3.7. La responsabilità dei sindaci.

Nel corso del 2021, importanti le pronunce in tema di responsabilità dei sindaci, che, ai sensi dell’art. 2407 c.c., possono essere chiamati a rispondere sia per la violazione dei doveri loro imposti dal primo comma (in caso di attestazione di fatti non veri o di violazione del segreto d’ufficio), sia per la violazione del dovere di vigilare diligentemente sull’operato degli amministratori.

In tema di responsabilità dei sindaci per omesso controllo dello svolgimento di attività dannose da parte degli amministratori di società di capitali, Sez. 1, n. 24045/2021, Campese, Rv. 662387-01, ha ritenuto che, non disponendo i sindaci di poteri di veto o di sostituzione rispetto all'organo amministrativo, il concetto di mancata produzione del danno, di cui all'art. 2407 c.c., va inteso nel senso che è necessario che l'attività di vigilanza dei sindaci sia sempre improntata alla tempestiva segnalazione agli organi competenti del pericolo di danno derivante dalla condotta degli amministratori, in modo da porre in essere le condizioni legali per l'eliminazione preventiva, o comunque l'attenuazione, dei danni conseguenti alla cattiva condotta gestoria. In particolare, la Suprema Corte ha precisato che, se è vero che il sindaco non risponde in modo automatico per ogni fatto dannoso aziendale in ragione della sua mera "posizione di garanzia", si esige tuttavia, ai fini dell'esonero dalla responsabilità, che egli abbia esercitato o tentato di esercitare l'intera gamma dei poteri istruttori ed impeditivi affidatigli dalla legge.

Sempre la stessa decisione (Rv. 662387-02), ha affermato che, qualora il danno prodotto sia liquidato in misura pari al risultato economico negativo di più esercizi sociali, è necessario che il giudice, nel determinare la natura parziaria o solidale della relativa obbligazione risarcitoria, verifichi l'apporto causale di ciascun componente dell'organo sindacale alla verificazione del danno, tenendo conto, ai fini della differenziazione della responsabilità, delle circostanze temporali all'interno delle quali il danno si è prodotto ed eventualmente della diversa composizione dell'organo nei vari esercizi presi a riferimento per la quantificazione del danno.

Con riferimento, poi, al diritto al compenso, Sez. 6-1, n. 06027/2021, Dolmetta, Rv. 660852-01, ha ritenuto che l'adempimento dei doveri di controllo, gravanti sui sindaci per l'intera durata del loro ufficio, può essere valutato non solo in modo globale e unitario, ma anche per periodi distinti e separati, come si desume dalla disciplina generale, contenuta nell'art. 1458, comma 1, c.c., riferita a tutti i contratti ad esecuzione continuata. Di conseguenza, poiché l'art. 2402 c.c. prevede una retribuzione annuale in favore dei sindaci, è in base a questa unità di misura che l'inadempimento degli obblighi di controllo deve essere confrontato con il diritto al compenso (Nella specie, la S.C. ha confermato la statuizione di merito, che aveva escluso la retribuzione al sindaco per la sola annualità in cui erano state riscontrate gravi inadempienze, in assenza di specifiche contestazioni riguardanti gli altri anni di svolgimento dell'incarico).

In due pronunce consecutive la S.C. ha trattato della responsabilità dei sindaci in ordine alla irrogazione di sanzioni amministrative; in particolare, in tema di violazione della disciplina delle "operazioni con parti correlate", Sez. 2, n. 01601/2021, Bellini, Rv. 660376-01, ha ritenuto sussistente la responsabilità dei sindaci ove, in occasione di tali operazioni, omettano o esplichino in modo inadeguato il controllo su tutta l'attività sociale. Infatti, il dovere di vigilanza sancito dall'art. 2403 c.c. non è circoscritto all'operato degli amministratori, ma attiene al regolare svolgimento dell'intera gestione dell'ente ed è posto a tutela, oltre che dei soci, anche dei creditori sociali, in modo ancora più stringente nelle società quotate, considerata l'esigenza di garantire l'equilibrio del mercato (Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso di un sindaco, sanzionato per omessa vigilanza in occasione di operazioni con parti correlate, non avendo rilevato significative carenze nel parere del previsto Comitato, pur potendo avvalersi degli strumenti informativi di cui all'art. 151 d.lgs. n. 58 del 1998).

In tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, Sez. 2, n. 01602/2021, Bellini, Rv. 660155-01, ha invece affermato che la complessa articolazione della struttura organizzativa di una società di investimenti non possa comportare l'esclusione od anche il semplice affievolimento del potere-dovere di controllo riconducibile a ciascuno dei componenti del collegio sindacale. I sindaci, infatti, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la corretta gestione societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo quoad functione, gravando su di essi sia l'obbligo di vigilanza sull’operato degli amministratori, sia l'obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d'Italia ed alla Consob (conf. Sez. 1, n. 06037/2016, Lamorgese, Rv. 639053-01).

3.8. Le operazioni sul capitale.

Interessante la pronuncia adottata dalla Suprema Corte in tema di aumento del capitale sociale nelle società a responsabilità limitata, nell’ambito della quale è stata affrontata la problematica della cedibilità del diritto di sottoscrizione del socio.

Con l’art. 2481-bis c.c., il legislatore ha inteso dettare nella società a responsabilità limitata una disciplina dell’aumento di capitale a pagamento autonoma rispetto a quella della società azionaria. Tuttavia, sebbene nella disciplina della società azionaria si parli di diritto di opzione, mentre nella società a responsabilità limitata si parli di diritto di sottoscrizione, si ritiene che i due concetti siano essenzialmente assimilabili.

Il diritto di sottoscrizione consiste nella facoltà di aderire alla decisione di aumento di capitale, per tutta o una parte della quota di propria spettanza, alle condizioni e nei termini stabiliti dalla decisione medesima.

Ove sia deliberato l'aumento del capitale mediante nuovi conferimenti ex art. 2481-bis c.c., Sez. 1, n. 09460/2021, Falabella, Rv. 661177-01, ha ritenuto che il socio possa liberamente cedere a terzi il proprio diritto di opzione prima che scada il termine per il relativo esercizio, a meno che non vi sia una contraria previsione statutaria e sempre che lo statuto non limiti la circolazione delle partecipazioni sociali. In particolare, la Suprema Corte ha osservato che, ove la partecipazione societaria sia suscettibile di trasferimento, il divieto di cessione del diritto di opzione sarebbe privo di fondamento giustificativo, portando a conseguenze scarsamente coerenti sul piano logico. Infatti, porterebbe ad affermare che il socio non possa trasferire il proprio diritto di opzione al terzo, ma possa invece trasferirgli la relativa quota, immediatamente dopo aver esercitato il diritto di opzione.

3.9. I patti parasociali.

Nel corso del 2021, la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sulla validità delle opzioni put e call, previste all’interno di patti parasociali.

In particolare, Sez. 1, n. 27227/2021, Nazzicone, Rv. 662722-01, ha affermato la validità della previsione, all’interno di patti parasociali, di opzioni put e call tra i soci stipulanti, identificandosi la causa concreta del negozio in una forma di garanzia per il socio finanziatore, come tale rientrante nell'autonomia contrattuale concessa ai soci e pertanto meritevole di tutela da parte dell'ordinamento. Tale principio è stato affermato nell’ambito di una controversia relativa al pagamento del prezzo di opzione pattuito nel patto parasociale per l'esecuzione del comune acquisto della totalità delle azioni di una società bersaglio. La S.C. ha ritenuto sussistente il rapporto di sinallagmaticità del patto il quale, permettendo all'una parte di rientrare del finanziamento ed all'altra di lucrare i maggiori profitti dell'investimento, unitamente alla natura temporanea del diritto di opzione, rendeva possibile l'affare economico auspicato, regolando efficacemente gli interessi rispettivi dei soci.

La pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. 1, n. 17498/2018, Nazzicone, Rv. 649519-01, che ha affrontato la questione della nullità di accordi parasociali di tal tipo per carenza di causa o per violazione del divieto di patto leonino ex art. 2265 c.c. A tal riguardo, la Suprema Corte ha ritenuto lecito e meritevole di tutela l'accordo negoziale concluso tra i soci di una società azionaria, con il quale l'uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l'altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l'attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell'acquisto, pur con l'aggiunta di interessi sull'importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società.

Sempre in tema di patti parasociali, merita menzione Sez. 1, n. 36092/2021, Nazzicone, Rv. 663283-01 e Rv. 663283-02, nella quale sono stati enunciati due importanti principi di diritto. In primo luogo, si è affermato che il contratto parasociale può essere qualificato come contratto a favore di terzo, qualora si accerti l'intento dei soci di attribuire direttamente ed immediatamente al terzo un diritto soggettivo, nella specie la designazione per la futura attribuzione assembleare della carica di amministratore della società. In tal caso, i soci sottoscrittori del patto assumono l’obbligo all’espressione del voto in tal senso in assemblea e, in caso di inadempimento, l'amministratore può vantare una pretesa risarcitoria al riguardo, ove ne sussistano tutti gli elementi costitutivi. In secondo luogo, è stato ritenuto valido, e non nullo per violazione degli artt. 2372 e 2383 c.c., il patto di sindacato in cui tutti i soci abbiano stabilito la rielezione di un soggetto alla carica di amministratore per due successivi trienni. Tale accordo, infatti, produce effetti organizzativi del voto meramente interni ed obbligatori, senza porre in discussione il corretto funzionamento dell’organo assembleare.

4. Particolari società di capitali.

Vengono di seguito riportate le pronunce in tema di società regolate da una disciplina speciale, con particolare riferimento alle società cooperative, alle società consortili, alle società tra professionisti. A tali figure devono essere affiancate le società a partecipazione pubblica, comprese le società in house, a cui, proprio per l’accentuata specificità, viene dedicato un autonomo capitolo, nella parte riservata ai rapporti con i pubblici poteri, cui si rinvia.

4.1. Le società cooperative.

Nell’anno in rassegna, la Suprema Corte si è innanzitutto occupata di questioni relative all’estinzione del rapporto del socio lavoratore di cooperativa.

Come è noto, infatti, con la partecipazione ad una società cooperativa, il singolo pone in essere due tipi di rapporti: quello mutualistico (che ha riflessi sul piano patrimoniale) e quello sociale (che attribuisce al socio dei poteri all’interno dell’organizzazione).

A tal riguardo, Sez. L, n. 35341/2021, Pagetta, Rv. 662996-01, ha precisato che l'estinzione del rapporto di lavoro del socio di società cooperativa può derivare dall'adozione della delibera di esclusione, di cui costituisce conseguenza necessitata ex lege, o dall'adozione di un formale atto di licenziamento. Solo in quest'ultimo caso, in presenza dei relativi presupposti, vi sarà spazio per l'esplicazione delle tutele connesse alla cessazione del rapporto di lavoro: a) solo risarcimento, ai sensi dell'art. 8 della l. n. 604 del 1966, in caso di perdita della qualità di socio per effetto di delibera di espulsione non impugnata o di rigetto dell'opposizione avverso la stessa, proposta ai sensi dell'art. 2533 c.c.; b) tutela obbligatoria o reale, nell'ipotesi di adozione di un provvedimento di licenziamento in assenza di delibera di espulsione. (Nella specie, la S.C. ha negato la configurabilità di una violazione degli oneri procedurali ex art. 7 st.lav. in difetto di un formale atto di licenziamento).

Sempre in tema di estinzione del rapporto del socio lavoratore di cooperativa e nel caso in cui sia stata impugnata sia la delibera di esclusione sia il provvedimento di irrogazione del licenziamento, fondati sul medesimo fatto, Sez. L, n. 34721/2021, Pagetta, Rv. 662875-01, ha ritenuto che l'accertamento della illegittimità della delibera per insussistenza del fatto determini, con efficacia ex tunc, sia la ricostituzione del rapporto associativo che quella del rapporto di lavoro. Tale effetto pienamente ripristinatorio non lascia spazio alla tutela reintegratoria, ma solo a quella risarcitoria secondo gli ordinari criteri. Per contro, nel caso in cui l'atto di licenziamento sia fondato su ragioni autonome e distinte rispetto a quelle della delibera di esclusione, per il concreto ripristino del rapporto di lavoro sarà necessaria la rimozione dell'atto che ne ha determinato la cessazione, con possibilità, quindi, di ricorrere ex art. 18 st.lav..

Infine, Sez. L, n. 23727/2021, Piccone, Rv. 662151-01, ha affermato che i soci delle società cooperative di cui al d.l. n. 36 del 1987, conv., con modif., dalla l. n. 452 del 1987, sono espulsi con atto dovuto del commissario governativo, ai sensi dell'art. 12, comma 3, del medesimo decreto, ogniqualvolta risultino assenti dal lavoro senza giustificato motivo, e, in ogni caso, qualora l'assenza dal lavoro si sia protratta per un periodo superiore a quindici giorni, non applicandosi tale disposizione nel solo caso in cui l'assenza sia dovuta a motivi di salute, comprovati da apposito certificato rilasciato da medico del Servizio sanitario nazionale e fatto pervenire entro tre giorni al commissario. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva respinto l'impugnazione della delibera di esclusione di un socio, la cui assenza dal lavoro era stata determinata dalla sottoposizione a detenzione domiciliare in esecuzione di una pena).

Sotto il profilo processuale, Sez. 6-1, n. 12949/2021, Marulli, Rv. 661445-01, ha ribadito che il socio di una cooperativa edilizia è parte di un duplice rapporto, l'uno di carattere associativo e l'altro che deriva dal contratto bilaterale di scambio tra il pagamento degli oneri per la sua realizzazione e l'assegnazione dell'alloggio. Per le somme pretese dalla cooperativa a titolo di contribuzione per sostenere i costi di gestione dell'ente, l'obbligo dei soci non si connette al rapporto di scambio, bensì a quello associativo in cui trova fonte. Di conseguenza, ai sensi dell'art. 3, comma 2, lett. a, del d.lgs. n. 168 del 2003, la competenza sulle relative controversie spetta alla sezione specializzata in materia di imprese del tribunale. Con riferimento alla duplicità del rapporto, la pronuncia si pone in continuità con Sez. 1, Sentenza n. 11015/2013, Mercolino, Rv. 626580-01, in cui si afferma che il socio di una cooperativa, beneficiario del servizio mutualistico reso da quest'ultima, è parte di due distinti (anche se collegati) rapporti, l'uno di carattere associativo, che discende direttamente dall'adesione al contratto sociale e dalla conseguente acquisizione della qualità di socio, l'altro che deriva dal contratto bilaterale di scambio, per effetto del quale egli si appropria del bene o del servizio resogli dall'ente.

La duplicità del rapporto (mutualistico e sociale) influisce anche sulla disciplina del recesso unilaterale del socio dalla società cooperativa. Il cooperatore, infatti, ha diritto –in quanto socio- a conseguire i vantaggi mutualistici ed, al tempo stesso, è tenuto a contribuire affinché tali vantaggi possano essere erogati dalla cooperativa. Poiché i due rapporti, seppur distinti, sono connessi tra di loro, la cessazione del rapporto sociale comporta anche la cessazione del rapporto mutualistico, il quale, tuttavia, può cessare solo qualora la cooperativa abbia realizzato lo scopo mutualistico in favore di tutti i soci, in adempimento del principio di parità di trattamento.

Ha fatto applicazione di tale principio Sez. 1, n. 41515/2021, Caradonna, Rv. 663474-01, secondo la quale il recesso parziale, ossia attuato solo da coloro cui siano stati assegnati alcuni appartamenti, mentre la cooperativa è ancora impegnata nella costruzione o nell'assegnazione di altri alloggi, si pone in contrasto con lo scopo mutualistico che caratterizza e distingue la società cooperativa. In particolare, la S.C. ha affermato che mutualità vuol dire reciprocità, con la conseguenza che lo scopo mutualistico non può compiutamente realizzarsi se non con l'assegnazione di un immobile a tutti i soci. Il recesso parziale va, quindi, considerato illegittimo, a nulla rilevando la circostanza di avere già ottenuto da tempo l'assegnazione in proprietà dell'alloggio e di avere totalmente versato il prezzo dell'appartamento; ovvero la eventuale accettazione del recesso da parte dell'organo di amministrazione e la relativa annotazione sul libro soci.

Tale pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. 1, n. 02524/1990, Grieco, Rv. 466211-01, secondo la quale, qualora una cooperativa edilizia abbia scaglionato nel tempo l'assegnazione ai soci degli alloggi, il socio già assegnatario non può recedere dalla cooperativa - indipendentemente da divieto di cessione delle quote, previsto dallo statuto - conservando l'alloggio, potendo per contro ottenere solo la liquidazione della quota o il rimborso delle azioni.

4.2. Le società consortili.

Anche in tema di società consortili, la S.C. ha affrontato la questione del finanziamento dei soci. In particolare, Sez. 1, n. 03628/2021, Mercolino, Rv. 660722-01, ha evidenziato che il socio può erogare somme di denaro in favore della società a vario titolo (conferimenti, finanziamenti o contributi ex art. 2615-ter, comma 2, c.c.). Di conseguenza, per ritenere esistente il diritto alla restituzione e verificare la fondatezza dell'eccepita prescrizione, occorre dapprima qualificare giuridicamente i versamenti effettuati, previa interpretazione della volontà delle parti, e poi applicare il conseguente regime di prescrizione, tenendo conto che la prescrizione breve, prevista dall'art. 2949 c.c., riguarda solo quei diritti derivanti da relazioni fra i soggetti dell'organizzazione sociale che dipendono dal contratto sociale o da deliberazioni societarie, esclusi tutti gli altri diritti fondati su ordinari rapporti giuridici che la società può instaurare al pari di qualsiasi altro soggetto (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che, applicando l'art. 2949 c.c., aveva ritenuto prescritto il diritto alla restituzione azionato dal socio, senza prima accertare la causa delle erogazioni effettuate).

La pronuncia appare in continuità con Sez. 1, n. 07919/2020, Falabella, Rv. 657564-01, in cui si precisa che l'erogazione di somme dai soci alle società da loro partecipate può avvenire a titolo di mutuo, con il conseguente obbligo per la società di restituire la somma ricevuta ad una determinata scadenza, oppure di versamento destinato a confluire in apposita riserva "in conto capitale". In quest'ultimo caso non nasce un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell'eventuale attivo del bilancio di liquidazione, connotato dalla postergazione della sua restituzione rispetto al soddisfacimento dei creditori sociali e dalla posizione del socio quale residual claimant. Inoltre, con riferimento alla prescrizione, la decisione risulta conforme a quanto statuito da Sez. 1, n. 13084/2015, Di Amato, Rv. 635735-01, secondo cui il diritto del socio ad ottenere la restituzione del finanziamento erogato si prescrive nel termine ordinario e non in quello breve, quinquennale, di cui all'art. 2949, comma 1, c.c., la cui portata riguarda le sole relazioni tra i soggetti dell'organizzazione sociale, sorte in dipendenza diretta del contratto di società o di deliberazioni sociali.

Infine, in ambito tributario, Sez. 5, n. 35912/2021, Catallozzi, Rv. 663040-01, ha evidenziato il carattere meramente strumentale della società consortile costituita nella forma della società di capitale per l'esecuzione di un appalto di opere pubbliche, ai sensi dell'art. 23-bis della l. n. 584 del 1977 e succ. modif.. Tale strumentalità implica, dal punto di vista tributario, che le operazioni e i costi della società consortile sono direttamente riferibili alle società consociate, con l'ulteriore conseguenza che per le imprese socie costituiscono costi propri le spese affrontate per mezzo del consorzio, le quali, quindi, possono essere ad esse riaddebitate attraverso il principio del cd. "ribaltamento dei costi".

4.3. I gruppi di società.

Con riferimento ai gruppi di società, va menzionata Sez. 5, n. 01232/2021, Fraulini, Rv. 660446-01 che ha esaminato la rilevanza, in ambito tributario, della cd. “teoria dei vantaggi compensativi” e ribadito che la ratio della normativa fiscale interna in materia di operazioni con società infragruppo, ma non residenti nel territorio dello Stato, dettata dagli artt. 110, comma 7, e 9, comma 3, del d.P.R. n. 917 del 1986, deve rinvenirsi nella salvaguardia del principio di libera concorrenza, e comporta la sottoposizione a tassazione, al c.d. "valore normale", degli utili derivanti da operazioni infragruppo concluse a condizioni diverse da quelle che sarebbero state convenute fra imprese indipendenti in transazioni comparabili effettuate sul libero mercato. La S.C. ha, quindi, ritenuto che non possa trovare applicazione in materia tributaria la c.d. "teoria dei vantaggi compensativi", fondata sul disposto di cui all'art. 2497, comma 1, c.c., la quale consente alla società capogruppo di andare esente dalla responsabilità derivante dall'attività di direzione e coordinamento provando l'esistenza di un risultato complessivo di gruppo che, pur sacrificando l'interesse di una società ad esso appartenente, determini comunque un'adeguata compensazione del sacrificio, attraverso la dimostrazione dell'aumento complessivo del valore di gruppo di cui anche la società sacrificata si possa in futuro giovare. Per la Suprema Corte, simili scelte imprenditoriali, di per sé, non possono essere causa di giustificazione necessaria e sufficiente per derogare la regola del "valore normale".

Con riferimento alla tematica dei gruppi, merita particolare menzione anche Sez. 3, n. 15276/2021, Olivieri, Rv. 661628-02, secondo la quale l’esercizio, da parte del socio di maggioranza, del diritto di voto relativo all'approvazione del bilancio non integra, al tempo stesso, anche esercizio abusivo dell'attività di direzione e coordinamento ex art. 2497, comma 1, c.c. (nella specie, le condotte materiali contestate al MEF, quale socio azionista di maggioranza ex art. 2359, comma 1, n. 1) e 2) c.c., di Alitalia non erano riconducibili a esercizio dell’attività di direzione e coordinamento della compagnia aerea come delineata dall'art. 2497 c.c.).

4.4. Le società tra professionisti.

La Suprema Corte, infine, è intervenuta a chiarire quando il reddito prodotto da una società di professionisti debba essere qualificato come reddito di impresa o come reddito di lavoro autonomo.

Ai fini di tale qualificazione, infatti, Sez. 3, n. 07407/2021, Guizzi, Rv. 661003-01, ha ritenuto che, in mancanza di una disciplina speciale di natura fiscale, debba farsi riferimento alle regole generali civilistiche. Pertanto, ai sensi dell'art. 2238 c.c., il reddito deve essere qualificato come di impresa quando l'esercizio della professione costituisca elemento di un'attività organizzata in forma di impresa, con prevalenza del carattere dell'organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale. Per contro, dovrà essere qualificato come di lavoro autonomo in difetto di dimostrazione di un'attività diversa e quando l’apporto intellettuale non si configuri come una delle componenti di una più complessa attività organizzata, ma resti connotato dal requisito della personalità di cui all'art. 2232 c.c.

DIALOGANDO CON IL MERITO 

  • società a responsabilità limitata
  • società
  • amministratore

CAPITOLO XIV-bis

LA REVOCA DELL’AMMINISTRATORE NELLA SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA

(di Cecilia Bernardo )

Sommario

1 Considerazioni introduttive. - 2 La natura cautelare del provvedimento di revoca e la strumentalità con la domanda di merito. - 3 Tesi della natura conservativa della revoca cautelare. - 4 Tesi della natura anticipatoria della revoca cautelare. - 5 Conseguenze e criticità. - 6 Rapporti con la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. - 7 Conclusioni.

1. Considerazioni introduttive.

Il legislatore della riforma del diritto societario del 2003 ha inteso dettare, per la società a responsabilità limitata, una disciplina autonoma rispetto a quella della società per azioni, al fine di costituire un tipo societario caratterizzato da una struttura organizzativa più agile e snella, nell’ambito della quale assume un ruolo preponderante l’aspetto personale dei soci.(1) Tale autonomia caratterizza anche la disciplina della responsabilità degli amministratori, interamente contenuta nell’art. 2476 c.c.

In particolare, il primo comma della citata disposizione stabilisce che gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall'inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall'atto costitutivo per l'amministrazione della società. Tuttavia, la responsabilità non si estende a quelli che dimostrino di essere esenti da colpa e, essendo a cognizione che l'atto si stava per compiere, abbiano fatto constare del proprio dissenso. Il successivo terzo comma precisa che l’azione di responsabilità contro gli amministratori è promossa da ciascun socio, il quale può altresì chiedere, in caso di gravi irregolarità nella gestione della società, che sia adottato provvedimento cautelare di revoca degli amministratori medesimi. Infine, il sesto comma stabilisce che le disposizioni dei precedenti commi non pregiudicano il diritto al risarcimento dei danni spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori.

L’art. 2476 c.c., quindi, contiene una disciplina sintetica della responsabilità degli amministratori verso la società, verso i soci e verso i terzi e, innovando rispetto alla disciplina previgente, attribuisce al singolo socio (indipendentemente dalla consistenza della partecipazione sociale) il potere di proporre l’azione sociale di responsabilità ed il potere di chiedere la revoca cautelare dell’organo gestorio, in caso di gravi irregolarità nella gestione. Ciò risponde al particolare ruolo che assumono i singoli soci all’interno della società, avendo essi più penetranti poteri di controllo degli amministratori, potendo anche ingerirsi negli atti di gestione ed assumere per essi una corrispondente responsabilità (art. 2476, comma 8, c.c.).

Non era così nel passato. La previgente formulazione dell’art. 2487, comma 2, c.c., infatti, rinviava alla normativa dettata per la società per azioni sia per l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità, con le relative conseguenze, sia per la nomina e la revoca degli amministratori (art. 2383 c.c.); mentre il previgente art. 2488, ultimo comma, c.c. disponeva espressamente che, per le società a responsabilità limitata, trovava applicazione la denuncia delle gravi irregolarità di gestione prevista dall’art. 2409 c.c., anche nell’ipotesi in cui mancasse il collegio sindacale.

Di conseguenza, l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità era riservato all’assemblea dei soci e non al singolo socio, mentre la revoca dell’amministratore poteva essere richiesta da una minoranza qualificata del capitale sociale per gravi irregolarità di gestione, in sede camerale, mediante lo strumento previsto dall’art. 2409 c.c.

La riforma del diritto societario, invece, al fine di valorizzare l’autonomia privata nell’organizzazione e di emancipare e differenziare la società a responsabilità limitata rispetto alla società per azioni, ha attribuito maggiori poteri al singolo socio, a prescindere dalla consistenza della sua partecipazione al capitale sociale.

Tuttavia, rimangono aperti alcuni dubbi interpretativi. Per riportarne alcuni, ad esempio, si fa notare che la nuova disciplina non ha previsto espressamente la legittimazione della società a promuovere l’azione sociale di responsabilità (pur potendosi ciò ricavare dal generale principio sancito dall’art. 24 della Costituzione, essendo la società il soggetto danneggiato dalla condotta dell’amministratore)(2); né ha previsto in modo espresso se l’azione sociale debba essere previamente autorizzata da una delibera adottata dalla maggioranza dei soci; né ha stabilito in modo espresso se la proposizione dell’azione sociale di responsabilità provochi la revoca automatica dell’amministratore incolpato.

La questione, però, che maggiormente è stata oggetto di un vivace dibattito nella dottrina(3) e nella giurisprudenza di merito(4) attiene alla natura giuridica del provvedimento di revoca previsto dall’art. 2476, comma 3, c.c. ed alla individuazione dei relativi presupposti, ciò soprattutto con riferimento ai rapporti con lo strumento previsto dall’art. 2409 c.c. I due istituti, infatti, hanno vissuto di alterne vicende, essendo stato il primo previsto dal legislatore del 2003 proprio in sostituzione del secondo il quale, tuttavia, è stato recentemente reintrodotto dal codice della crisi di impresa (d.lgs. 14 gennaio 2019, n. 14) senza tuttavia alcuna disciplina di coordinamento(5).

2. La natura cautelare del provvedimento di revoca e la strumentalità con la domanda di merito.

Per comprendere appieno i termini della questione, appare opportuno ricordare la genesi della norma in esame. Ed infatti, nell’introdurre il potere di ciascun socio di chiedere, in caso di gravi irregolarità nella gestione, un provvedimento cautelare di revoca degli amministratori, la riforma del diritto societario ha contestualmente eliminato nella società a responsabilità limitata il richiamo alla denunzia ex art. 2409 c.c.(6)

Tale eliminazione non è stata casuale, atteso che nella Relazione di accompagnamento si chiarisce che la nuova tutela riconosciuta al socio di s.r.l. rende superfluo lo strumento di cui all’art. 2409 c.c.(7), in quanto sostanzialmente sostituito dall’attribuzione di un più penetrante potere ispettivo e di controllo ai soci, nonché dalla legittimazione a proporre l’azione di responsabilità sociale contro gli amministratori e di chiederne la revoca giudiziale.

Orbene, il nuovo strumento della revoca dell’amministratore viene espressamente definito come “cautelare”. Tuttavia, alla natura cautelare del provvedimento di revoca consegue necessariamente che lo stesso possa essere adottato solo in presenza dei due requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora e che debba essere strumentale rispetto ad un’azione di merito. Ma proprio sulla individuazione della azione di merito cui tale cautela sarebbe strumentale gli interpreti sono divisi.

Il problema di fondo è, dunque, di stabilire quale rapporto intercorra tra l’azione sociale di responsabilità, proponibile dal singolo socio nei confronti degli amministratori della società, e l’azione cautelare di revoca che lo stesso socio può proporre nei confronti degli stessi amministratori.

Sono state prospettate, al riguardo, due diverse ricostruzioni. In particolare, la prima sostiene che la revoca anticipata costituisca un provvedimento con la funzione di cautelare, in via conservativa, gli effetti della sentenza di condanna dell’amministratore al risarcimento dei danni provocati alla società. La seconda ritiene, invece, che la revoca anticipata costituisca un provvedimento con la funzione di cautelare, in via anticipatoria, gli effetti della sentenza di revoca definitiva.

Oggi, tuttavia, i due orientamenti suindicati devono essere necessariamente riletti alla luce del ripensamento attuato dal codice della crisi di impresa (d.lgs. 12 gennaio 2019 n. 14), che, come già sopra evidenziato, ha reintrodotto la possibilità di attivare il rimedio di cui all’art. 2409 c.c., anche nelle società a responsabilità limitata prive di organo di controllo.

3. Tesi della natura conservativa della revoca cautelare.

Secondo un primo e più risalente orientamento(8), inizialmente maggioritario, l’azione cautelare di revoca sarebbe una misura strumentale, in funzione conservativa, all’azione di merito, proponibile dal singolo socio, avente ad oggetto la condanna dell’amministratore al risarcimento dei danni cagionati alla società.

Tale impostazione si fonda principalmente sul dato testuale e sulla collocazione sistematica della disposizione. In particolare, il terzo comma dell’art. 2476 c.c. così dispone: “L’azione di responsabilità è promossa da ciascun socio, il quale può altresì chiedere, in caso di gravi irregolarità nella gestione della società, che sia adottato un provvedimento cautelare di revoca degli amministratori medesimi”.

Orbene, dal punto di vista sistematico, si fa notare che la revoca cautelare è contenuta all’interno del medesimo comma che disciplina l’azione sociale di responsabilità promossa dal singolo socio, che è una ordinaria azione risarcitoria. Inoltre, dal punto di vista letterale, si fa notare che il legislatore ha utilizzato le parole “altresì” e “medesimi” amministratori, da ciò potendosi ricavare una evidente connessione con l’azione di responsabilità.

A sostegno di tale ricostruzione viene invocato un passaggio della Relazione ministeriale sulla riforma, laddove si afferma che ciascun socio ha il potere “di promuovere l’azione sociale di responsabilità e di chiedere con essa la provvisoria revoca giudiziale dell’amministratore in caso di gravi irregolarità”.

La revoca in via d’urgenza dell’organo gestorio avrebbe, quindi, lo scopo di prevenire il pericolo che, nelle more del giudizio di merito, la permanenza in carica dello stesso renda impossibile, più difficile o quantomeno dubbia la possibilità per la società di conseguire il risarcimento dei danni subiti.

La diretta conseguenza di tale impostazione è che la revoca cautelare degli amministratori, in quanto strumentale ad una azione di natura risarcitoria, presuppone, quanto al fumus boni iuris, la verosimile violazione di obblighi statutari o di legge nella gestione della società, tale da cagionare un danno al patrimonio della società.

Quanto al requisito del periculum in mora, poi, la misura presuppone il pericolo che la permanenza in carica dell’amministratore arrechi un pregiudizio al patrimonio sociale ulteriore e, quindi, diverso da quello già arrecato: tale ulteriore danno, quindi, deve essere soltanto potenziale. Sul piano probatorio, il pericolo che la permanenza in carica dell’amministratore possa determinare al patrimonio della società ulteriori o più gravi danni rispetto a quelli già provocati, deve essere provato dal socio che agisce.

Il pericolo, dunque, non attiene al rischio di dispersione della garanzia costituita dal patrimonio personale del responsabile (per il quale occorre piuttosto invocare il sequestro conservativo), bensì al rischio di aggravamento del pregiudizio già arrecato al patrimonio sociale, che potrebbe derivare da ulteriori comportamenti antigiuridici degli amministratori incolpati e rendere, per l’effetto, più difficile, se non impossibile, il relativo risarcimento.

Sicché, rimuovendo l’amministratore dalla carica, si mira ad evitare che lo stesso possa compiere altri atti illeciti e provocare ulteriori danni, rendendo più difficile il risarcimento sia di quelli precedenti che di quelli successivi.

Si osserva, altresì, che la natura conservativa del provvedimento in esame non può ritenersi contraddetta dalla circostanza che il provvedimento cautelare e la sentenza di merito producano effetti giuridici diversi. Ed infatti, a differenza di quanto avviene con le misure in tutto o in parte anticipatorie degli effetti della futura sentenza di merito, le tutele cautelari conservative assicurano sempre il conseguimento di un bene che non è compreso nel contenuto del diritto sostanziale tutelato (come, ad es., nel caso del sequestro conservativo, dove il bene garantito non è la somma cui tende l’azione di merito, ma il diverso bene costituito dall’inopponibilità, al creditore di quella somma, degli atti di disposizione compiuti in seguito dal debitore).

4. Tesi della natura anticipatoria della revoca cautelare.

Secondo altra tesi,(9) invece, si potrebbe direttamente dedurre dal terzo comma dell’art. 2476 c.c. l’ammissibilità di un giudizio di merito avente ad oggetto, in via principale, la revoca degli amministratori: giudizio che la normativa sulle società a responsabilità limitata non prevede espressamente. Di conseguenza, la revoca in via d’urgenza avrebbe natura di misura cautelare strumentale, in via anticipatoria, alla sentenza di merito che ha per oggetto la revoca definitiva dell’amministratore.

In particolare, si osserva che l’azione sociale di responsabilità, anche se promossa dal singolo socio, presuppone l’inadempimento dell’amministratore ai doveri inerenti alla carica ed il conseguente danno cagionato al patrimonio sociale ed è volta alla reintegrazione dello stesso. Per contro, l’azione di revoca presuppone il solo inadempimento, purché grave, da parte dell’amministratore, a prescindere dal fatto che ne siano o meno derivati danni al patrimonio della società ovvero al patrimonio di soci o terzi.

Seppur fondate sui medesimi comportamenti dell’amministratore, le due azioni si differenziano, quindi, per petitum e causa petendi.

I sostenitori di tale tesi ritengono, quindi, che la revoca cautelare non sia finalizzata a cautelare il diritto della società al risarcimento dei danni, ma, più in generale, il diritto della società a che i suoi amministratori adempiano ai loro doveri. Evidenziano, infatti, che lo stesso legislatore societario, quando ha dettato norme in tema di azione sociale di responsabilità, ha più volte previsto la revoca anticipata degli amministratori incolpati senza, però, mai prevedere che, in siffatte ipotesi, tale revoca sia strumentale, in funzione conservativa, all’azione sociale di responsabilità. Ad esempio, non ha funzione conservativa la revoca prevista dall’art. 2393, comma 5, c.c. (che, nella società per azioni, la ricollega alla delibera assembleare che decide l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità, se adottata con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale); oppure la revoca prevista dall’art. 2409 c.c. (che può essere disposta dal tribunale, unitamente alla nomina di un amministratore giudiziario, in caso di gravi irregolarità amministrative).

Da ultimo, si osserva che tale ricostruzione giustificherebbe anche la scelta legislativa di non consentire più ai soci di società a responsabilità limitata di avvalersi del rimedio previsto dall’art. 2409 c.c.. In caso contrario, seguendo la prima tesi, si consentirebbe all’amministratore di rimanere in carica semplicemente perché le irregolarità non sono dannose o perché non hanno ancora provocato un danno al patrimonio della società o perché hanno provocato un danno solo a soci e a terzi.

A sostegno di tale assunto viene, altresì, richiamata la sentenza della Corte costituzionale 29 dicembre 2005, n. 481, nella quale si osserva, seppur incidentalmente, che “la qualificazione di “cautelare” data dalla legge alla misura di revoca ben può essere intesa - come peraltro ritiene una parte della giurisprudenza e della dottrina – nel senso di strumentale (ed anticipatoria rispetto) ad una azione volta ad ottenere una sentenza di revoca degli amministratori, per ciò solo che nella gestione della società sono presenti “gravi irregolarità” e v’è mero pericolo di danno per la medesima”.

5. Conseguenze e criticità.

L’adesione all’una o all’altra delle tesi suesposte non è scevra di conseguenze sul piano pratico, sia con riferimento all’esito della domanda cautelare, sia nell’ambito del relativo giudizio di merito.(10)

Ed infatti, seguendo l’impostazione della natura conservativa, la tutela cautelare può essere accordata solo ove il socio dimostri: 1) la probabile verificazione dei comportamenti di cattiva gestione imputabili agli amministratori; 2) l’esistenza e la consistenza del possibile pregiudizio patrimoniale sofferto dalla società in conseguenza diretta di tali comportamenti; 3) l’esistenza di un periculum in mora costituito dalla possibile reiterazione delle condotte inadempienti, aggravando così il danno a tal punto da renderlo non più risarcibile o da mettere a rischio la sopravvivenza stessa della società.

Ne consegue che non sono considerate idonee al fine dell’utile accesso allo strumento in esame tutte quelle irregolarità gestorie (come, ad esempio, la mancata presentazione dei bilanci, la irregolare tenuta delle scritture contabili, la mancata consegna al socio della documentazione sociale, etc.) alle quali non possa conseguire un pregiudizio al patrimonio sociale.

Per contro, qualificando la revoca come un provvedimento cautelare di natura anticipatoria, la sua concessione è subordinata alla mera sussistenza di gravi irregolarità nella gestione, a prescindere dalla attualità del danno conseguente, risultando -con riferimento a tale aspetto- sostanzialmente speculare alla denunzia al tribunale prevista, per le società per azioni, dall’art. 2409 c.c.. Trattandosi, poi, di provvedimento provvisorio, gli effetti della revoca cautelare sono destinati ad essere assorbiti dalla sentenza di accoglimento della domanda di revoca definitiva dell’amministratore. Per contro, la misura cautelare è destinata a perdere efficacia, ex art. 669 novies, comma 3, c.p.c., in caso di rigetto della domanda di merito suindicata.

Nella ricostruzione dell’azione cautelare di revoca in funzione strumentale all’azione sociale di responsabilità, invece, è dubbio quale sia l’effetto della sentenza di merito sull’azione risarcitoria. È agevole ritenere che, in caso di rigetto della domanda risarcitoria, il provvedimento cautelare di revoca perda efficacia. Tuttavia, le opinioni sono discordi in ordine all’assorbimento della misura cautelare in caso di accoglimento della domanda risarcitoria, attesa la diversità di petitum.

Secondo alcuni(11), non potendo il giudice statuire in ordine all’estinzione definitiva del rapporto tra amministratore e società, la revoca interinale perderebbe effetto, determinando la reviviscenza dei poteri gestori dell’amministratore, seppure dichiarato responsabile.

Secondo altri(12), invece, con l’accoglimento della azione risarcitoria, il provvedimento cautelare di revoca diventerebbe definitivo, secondo il meccanismo voluto dal legislatore, che svincola il petitum di merito da quello cautelare.

Entrambe le ricostruzioni sono state oggetto di critiche sotto vari profili.

Con riferimento alla tesi della natura conservativa, viene innanzitutto evidenziato che, così argomentando, la revoca cautelare sarebbe finalizzata ad evitare danni non ancora arrecati ed il cui diritto risarcitorio non sarebbe ancora sorto. Per contro, quanto ai danni già cagionati, la rimozione anticipata dell’amministratore non avrebbe alcuna utilità pratica al fine di garantire la fruttuosità della sentenza di condanna al relativo risarcimento. Ed infatti, avendo tale pronuncia ad oggetto il pagamento di una somma di denaro da parte dell’amministratore condannato, la sua fruttuosità sarebbe assicurata solo dalla capienza (e, quindi, dalla conservazione) del relativo patrimonio.

Si è, poi, osservato che proprio la lettera dell’art. 2476 c.c. indica per la revoca cautelare una causa petendi (le gravi irregolarità gestionali) diversa rispetto a quella richiesta per l’azione sociale di responsabilità (l’inadempimento dannoso per il patrimonio sociale).

Ma soprattutto, sono state evidenziate le rischiose conseguenze pratiche della prima impostazione, che porterebbe al rigetto della domanda cautelare di revoca in tutti quei casi in cui le gravi irregolarità non abbiano cagionato un danno al patrimonio sociale; ovvero nel caso di danno al patrimonio della società ma non suscettibile di aggravamento o per il quale non sia stata data prova; o ancora in caso di inadempimento che abbia arrecato non danni alla società ma danni diretti al socio o a terzi (art. 2476, comma 6, c.c.); in caso di illeciti degli amministratori che abbiano arrecato danni al patrimonio sociale che, però, per la natura dei doveri violati, non sono riconducibili all’azione sociale propriamente intesa, e cioè quella prevista dall’art. 2476 c.c. ma, più genericamente, ad un’azione di adempimento di un’obbligazione contratta dall’amministratore nei confronti della società ovvero ad una responsabilità di natura extracontrattuale.

Sotto altro profilo, si è fatto notare che se la revoca cautelare avesse natura conservativa, sarebbe destinata a perdere efficacia non solo in caso di mancata instaurazione o di estinzione del relativo giudizio di merito, ma anche in caso di rigetto o di accoglimento della domanda risarcitoria, perché comunque non troverebbe una corrispondente statuizione attesa la diversità di petitum dell’azione risarcitoria. Ciò determinerebbe il paradossale ritorno in carica dell’amministratore revocato, magari anche condannato al risarcimento del danno cagionato al patrimonio sociale.

Invece, ritenendo che il provvedimento cautelare di revoca possa divenire definitivo con l’accoglimento dell’azione risarcitoria, allora tale revoca perderebbe il carattere della provvisorietà, che necessariamente devono avere le misure cautelari.

Infine, è stato altresì rilevato(13) che, ai sensi dell’art. 2476, comma 5, c.c., l’azione sociale di responsabilità può essere oggetto di rinuncia o transazione, a seguito di decisione in tal senso adottata dalla maggioranza qualificata dei soci. Tale rinuncia o transazione travolgerebbe anche la domanda cautelare di revoca, menomando la tutela del socio di minoranza.

Parimenti, anche la tesi della natura anticipatoria è stata oggetto di critiche, la principale delle quali attiene alla impossibilità di configurare una azione definitiva di revoca dell’amministratore, non essendo prevista dalla legge e, quindi, inammissibile ai sensi dell’art. 2908 c.c..

Ed infatti, i sostenitori della tesi della natura anticipatoria ritengono che l’azione di merito di revoca – seppur non espressamente indicata dal legislatore - sarebbe ricavabile analogicamente dalle regole dettate per la società di persone e, in particolare, dall’art. 2259, comma 3, c.c., in base al quale la revoca per giusta causa può in ogni caso essere chiesta giudizialmente da ciascun socio(14).

È stato, altresì, autorevolmente precisato che l’azione di merito avente per oggetto la revoca definitiva dell’amministratore sarebbe implicitamente ricavabile proprio dall’art. 2476, comma 3, c.c., dovendo necessariamente sussistere una coincidenza tra potere cautelare e potere di merito. Interpretando, quindi, secondo corretti criteri sistematici la citata disposizione e senza necessità di ricorrere all’analogia, il presupposto di cui all’art. 2908 c.c. sarebbe soddisfatto(15).

Secondo altri, la revoca in via definitiva sarebbe ricavabile dai principi del diritto comune (sia pur con le peculiarità previste dal diritto societario), per effetto dei quali la società, quale controparte del “contratto di amministrazione” che, al momento della nomina, ha stipulato con l’amministratore, ha il diritto (sostanziale) di provocarne la “revoca” anticipata (e cioè la risoluzione) per grave inadempimento, pur senza danni al patrimonio sociale. Tale revoca anticipata può avvenire sia in via stragiudiziale (mediante deliberazione dell’assemblea dei soci in presenza di giusta causa), ovvero in via giudiziale (attraverso un’azione di risoluzione anticipata, per grave inadempimento ai sensi degli artt. 1453-1455 c.c.). Anzi, secondo tale tesi, la norma dell’art. 2476, comma 3, c.c. ha la funzione non già di prevedere un’azione di revoca definitiva (già presente nel sistema normativo) e neppure di consentirne l’anticipazione cautelare (trattandosi di un effetto che può ottenersi già utilizzando il rimedio atipico previsto dall’art. 700 c.p.c.); ma piuttosto di prevedere, in attuazione della riserva contenuta nell’art. 81 c.p.c., che tale azione (e le relative tutele cautelari) possano essere attivate ad iniziativa, oltre che della società, che ne è la titolare, anche del singolo socio quale suo sostituto processuale.

Tale aspetto, tuttavia, risulta quello maggiormente criticato della tesi in esame da coloro che ritengono che, non essendo espressamente prevista dal legislatore un’azione di tal tipo e non essendo applicabile in via analogica l’art. 2259, comma 3, c.c., che prevede la revoca giudiziale per giusta causa nelle società di persone, una pronuncia di revoca in via definitiva contrasterebbe con il principio sancito dall’art. 2908 c.c., in base al quale i provvedimenti dell’autorità giudiziaria possono avere effetti costitutivi soltanto nei casi previsti dalla legge.

Si afferma, del resto, che la mera previsione normativa dell’azione di revoca cautelare non significa affatto che la legge abbia anche previsto, quale corrispondente azione di merito, l’azione di revoca definitiva potendo, evidentemente, anche aver inteso configurare l’azione cautelare di revoca come conservativa rispetto all’azione sociale di responsabilità. Infatti, il silenzio del legislatore non consente di identificare con la dovuta certezza la corrispondente azione di merito. Anzi, si evidenzia che ricavare l’azione di merito dalla stessa norma che consente la revoca cautelare implicherebbe una inversione logica prima ancora che giuridica, in quanto proprio dall’esistenza di un potere del giudice di emettere provvedimenti, a carattere definitivo, costitutivi ovvero estintivi di rapporti giuridici può ricavarsi la possibilità di anticipare quelle decisioni in sede cautelare, ma non viceversa(16).

6. Rapporti con la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c.

Lo scenario, tuttavia, è nuovamente mutato nel 2019, quando il legislatore del codice della crisi di impresa (d.lgs. 14 gennaio 2019 n. 14) ha modificato l’art. 2477 c.c., reintroducendo la possibilità di attivare il rimedio di cui all’art. 2409 c.c., anche per tutte le società a responsabilità limitata(17). Come è noto, ai sensi dell’art. 2409 c.c., se vi è fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che possono arrecare danno alla società o a una o più società controllate, i soci che rappresentano il decimo del capitale sociale oppure il collegio sindacale (settimo comma) possono denunciare i fatti al tribunale con ricorso notificato anche alla società.

Alla stregua di tale disposizione, i presupposti per l’accoglimento della denuncia sono: a) l'esistenza di fondati sospetti di gravi irregolarità nella gestione derivanti dalla violazione, da parte degli amministratori, dei doveri su di loro gravanti; b) il possibile danno alla società o ad una o più società controllate derivante dalle irregolarità nella gestione, con conseguente irrilevanza, pertanto, ai fini della denuncia in questione, dell'eventuale danno arrecato a soci o terzi.

Le gravi irregolarità, come da giurisprudenza assolutamente prevalente devono - oltre che riguardare la sfera societaria e non quella personale degli amministratori - essere attuali, e pertanto nessun provvedimento potrà essere adottato qualora le stesse abbiano esaurito ogni effetto. Inoltre, esse devono assumere un carattere dannoso nel senso che deve trattarsi di violazione di norme civili, penali, tributarie o amministrative, capaci di provocare un danno al patrimonio sociale e, di conseguenza, agli interessi dei soci e dei creditori sociali ovvero un grave turbamento dell’attività sociale(18).

Peraltro, pur non potendo il giudizio del tribunale basarsi su mere supposizioni o su indimostrati rilevi critici, appare sufficiente che sussistano elementi di sicuro affidamento che, pur non assurgendo al livello di prova piena, abbiano tuttavia riscontri obiettivi che vanno al di là del mero sospetto(19).

Confrontando, quindi, i due istituti, emerge innanzitutto una prima distinzione attinente al profilo della legittimazione attiva. Infatti, l’art. 2476, comma 3, c.c. consente a ciascun socio, a prescindere dalla quota di partecipazione, di instaurare sia l’azione sociale di responsabilità, sia il procedimento volto alla revoca cautelare degli amministratori. Per contro, sono legittimati ad avvalersi del rimedio di cui all’art. 2409 c.c. solo i soci che rappresentino il decimo del capitale sociale o, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, il ventesimo del capitale sociale(20).

Altre distinzioni attengono alla natura giuridica ed alla struttura dei due diversi procedimenti. In primo luogo, la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. avvia un procedimento di volontaria giurisdizione, caratterizzato dalla modificabilità e revocabilità dei provvedimenti e dalla loro inidoneità ad incidere sui diritti soggettivi delle parti con valore di giudicato. L’attività svolta dal Tribunale si configura, quindi, come prettamente amministrativa. Per contro, l’istanza di revoca ex art. 2476, comma 3, c.c., avvia un procedimento contenzioso di natura cautelare che, seppur caratterizzato anch’esso dalla provvisorietà dei provvedimenti giurisdizionali, può essere seguito da un giudizio di merito, di natura altrettanto contenziosa e finalizzato alla emissione di provvedimenti decisori, idonei al giudicato.

Anche il profilo dell’impugnazione registra differente struttura, atteso che l’ordinanza di revoca cautelare è reclamabile dinanzi al medesimo tribunale che ha emesso il provvedimento d’urgenza ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c., mentre alla revoca disposta in sede camerale sarà applicabile il rimedio del reclamo dinanzi alla corte di appello ai sensi dell’art. 737 c.p.c.

Tuttavia, se dal punto di vista della natura e della struttura i due istituti appaiono distinti, sul piano della applicazione pratica sono evidenti i profili di interferenza.

Ed infatti, pur dovendosi evidenziare che, con riferimento alla società a responsabilità limitata, appare eccezionale una limitazione della legittimazione attiva legata alla entità della partecipazione al capitale sociale, per il resto, i due strumenti possono essere entrambi azionati anche da un singolo socio (purché titolare della suddetta quota di partecipazione). Entrambi, inoltre, hanno in comune il presupposto oggettivo delle “gravi irregolarità” nella gestione, nonché il petitum, avente ad oggetto la rimozione dell’organo gestorio.

Ciò posto, l’assenza di una specifica disciplina di coordinamento contenuta nel codice della crisi di impresa impone una rimeditazione sui rapporti tra l’istituto della denunzia di gravi irregolarità (reintrodotto senza alcuna modifica né adattamento alle specificità della società a responsabilità limitata) e la revoca cautelare prevista dal terzo comma dell’art. 2476 c.c., al fine di verificare se, a seguito del nuovo intervento normativo, i due strumenti siano da considerarsi alternativi ovvero se possano coesistere.

Per rispondere a tale quesito, si deve innanzitutto ricordare che la finalità posta alla base del recente intervento normativo del 2019 è di consentire la tempestiva rilevazione della crisi e della perdita di continuità aziendale, al fine di adottare gli strumenti previsti dall’ordinamento per il relativo superamento. Alla luce di tale finalità va letta la decisione di ripristinare il controllo giudiziario nella società a responsabilità limitata.

Ed infatti, nei primi commenti alla riforma è stato affermato che la reintroduzione dello strumento della denunzia di gravi irregolarità nell’ambito della disciplina delle società a responsabilità limitata ha lo scopo di potenziare i sistemi di allerta e gli strumenti di tutela della minoranza. Tale strumento, infatti, può costituire al tempo stesso un deterrente contro le violazioni dell’obbligo di monitoraggio e salvaguardia della continuità aziendale (intesa come la capacità dell'impresa di svolgere la propria attività in un prevedibile futuro), nonché una sollecitazione ad adottare misure che consentano di accertare precocemente gli indizi iniziali della crisi (ciò al fine di pianificare gli interventi da adottare, già nel momento in cui la continuità inizia ad essere pregiudicata)(21).

In giurisprudenza(22), poi, è stato evidenziato che la denunzia al tribunale non può essere qualificata in termini di rimedio residuale, esperibile solo dopo aver preliminarmente attivato gli altri strumenti concessi dall’ordinamento. Ed infatti, nessuna limitazione in tal senso è ricavabile dalle norme in esame, dovendosi invece qualificare il suddetto rimedio come autonomo rispetto agli altri strumenti di tutela, endosocietari o giudiziari, a disposizione del socio di minoranza.

Vi è chi, pertanto, ha interpretato la reintroduzione della denunzia al tribunale nella società a responsabilità limitata come un superamento di quell’effetto di “supplenza” che era stato attribuito alla revoca cautelare dai sostenitori della tesi della natura anticipatoria, in ragione della eliminazione della applicabilità dell’art. 2409 c.c. alle società a responsabilità limitata(23). Secondo tale chiave di lettura, dunque, la revoca cautelare degli amministratori verrebbe restituita al suo ambito fatto proprio dalla norma contenuta nel terzo comma dell’art. 2476 c.c. e costituito, precisamente, dalla azione di responsabilità degli amministratori, potendo essere richiesta solo nel corso o in vista di una azione di responsabilità, con tutte le sue conseguenze applicative.

Per contro, alla denunzia al tribunale andrebbe attribuita una finalità di tipo general-preventivo (e non prettamente repressivo), al fine di consentire all’autorità giudiziaria il ripristino della legalità e la regolarità della gestione, con il limite della impossibilità di sottoporre a sindacato il merito delle scelte discrezionali, siano esse organizzative o gestorie, compiute dagli amministratori. Ciò troverebbe conferma nella duplice circostanza che per attivare il rimedio è sufficiente il “fondato sospetto” di compimento di gravi irregolarità e che il tribunale può disporre una ispezione per svolgere un approfondimento delle doglianze sollevate dal ricorrente.

7. Conclusioni.

La questione relativa alla natura giuridica, conservativa o anticipatoria, della revoca cautelare dell’amministratore di società a responsabilità limitata è strettamente collegata al rapporto di strumentalità con la relativa azione di merito e, di conseguenza, al problema della ammissibilità di una azione di merito di revoca definitiva. Come sopra evidenziato, infatti, è possibile attribuire alla revoca cautelare una natura anticipatoria solo qualora si ritenga configurabile, nell’ambito della disciplina delle società a responsabilità limitata, una azione di merito volta a rimuovere l’amministratore dalla carica. Tale azione avrebbe natura costitutiva, essendo destinata ad estinguere, in via definitiva e con pronuncia idonea ad acquisire autorità di giudicato, il rapporto di “amministrazione” tra la società e il suo organo gestorio e sarebbe azionabile dal singolo socio di minoranza, che non è parte del rapporto contrattuale con l’amministratore ed è soggetto giuridico diverso dalla società.

Tuttavia, una tale azione non è espressamente prevista dal legislatore, considerato che l’art. 2476, comma 3, c.c. disciplina la sola revoca “cautelare”, nulla dicendo con riferimento alla possibilità che il socio possa chiedere la revoca dell’amministratore anche nel merito in via definitiva.

Ciò rappresenta indubbiamente l’aspetto più problematico della tesi della natura anticipatoria, perché si scontra con il disposto dell’art. 2908 c.c., in base al quale le sentenze costitutive possono essere emesse nei soli casi previsti dalla legge, da ciò dovendosi ricavare la tipicità delle sentenze che abbiano l’effetto di costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa.

Parimenti problematico appare il tentativo di ricavare l’azione di merito di revoca analogicamente dalle regole dettate per la società di persone e, in particolare, dall’art. 2259, comma 3, c.c., perché stride con il disegno tratteggiato dal legislatore della riforma del 2003, volto a dettare una disciplina autonoma per ciascun tipo societario.

Ma anche il tentativo di non ricorrere all’analogia, ricavando l’azione di revoca definitiva implicitamente dall’art. 2476, comma 3, c.c., si scontra con il dettato letterale della norma, che definisce espressamente come “cautelare” la revoca dell’amministratore. Inoltre, come da taluni correttamente osservato, ricavare l’azione di merito dalla stessa norma che consente la revoca cautelare implicherebbe una inversione logica del ragionamento.

Ed invero, è sempre più diffusa nella giurisprudenza di merito l’idea che lo strumento cautelare costituisca una componente essenziale ed ineliminabile della tutela giurisdizionale: tutela da intendersi come concreta attuazione del principio secondo il quale la durata del processo non deve andare a danno della parte che ha ragione, rendendo vana l'attuazione satisfattiva del diritto.

L’azione cautelare, quindi, dovrebbe essere qualificata come azione generale, volta a tutelare –in via d’urgenza- qualsiasi diritto azionabile in via ordinaria, ciò al fine di assicurare un sistema giurisdizionale efficiente ed effettivo, qualora il tempo necessario per far valere il proprio diritto in via ordinaria rischi di vanificare gli effetti della pronuncia definitiva.

Se dunque si ritiene che, al fine di assicurare il principio di effettività della giurisdizione, l'ambito di applicazione della tutela d'urgenza debba essere identico a quello della tutela giurisdizionale di cognizione, la possibilità di provvedere in via cautelare dovrebbe ricavarsi dalla esistenza di un potere del giudice di emettere provvedimenti definitivi, e non viceversa. Ciò soprattutto nell’ambito di azioni di merito tipizzate dal legislatore, come quelle costitutive.

Nondimeno, comporta conseguenze problematiche la tesi della inammissibilità nel nostro ordinamento di una azione di merito volta alla revoca definitiva dell’amministratore. Ed infatti, collegare la revoca cautelare alla sola azione sociale di responsabilità porta alla rischiosa conseguenza pratica di dover rigettare la domanda d’urgenza in tutti quei casi in cui le gravi irregolarità non abbiano cagionato un danno attuale al patrimonio sociale, pur in presenza di gravi inadempimenti dell’organo gestorio.

Devesi, tuttavia, osservare che tale conseguenza pratica appare oggi meno rischiosa a seguito della reintroduzione del rimedio di cui all’art. 2409 c.c. anche per tutte le società a responsabilità limitata, potendo questo essere attivato in presenza di gravi irregolarità di gestione che risultino potenzialmente dannose, a prescindere che sia stato già cagionato un danno al patrimonio sociale.

Ebbene, le conseguenze pratiche legate alla ammissibilità di una azione di merito che consenta al singolo socio di rimuovere in via definitiva l’amministratore dalla carica, e la conseguente attribuzione di una natura conservativa o anticipatoria alla revoca cautelare, rendono attuale il dibattito, soprattutto se si tiene conto che due tra i principali uffici giudiziari italiani, quali il tribunale di Roma ed il tribunale di Milano, si pongono su posizioni contrapposte nella soluzione della questione in esame.

Come osservato in dottrina(24), del resto, la revoca dell’amministratore di società a responsabilità limitata è uno degli istituti che, nonostante il lungo periodo trascorso dalla riforma del diritto societario, suscita ancora molti dubbi interpretativi e non ha raggiunto una applicazione uniforme.

Sul punto, ed in particolare con riferimento alla ammissibilità di una azione di merito volta a rimuovere in via definitiva dalla carica l’amministratore di società a responsabilità limitata, non è mai espressamente intervenuta la Corte di cassazione: intervento che potrebbe aiutare a chiarire la natura della revoca cautelare ed i suoi rapporti con la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c.. Del resto, sono state sopra evidenziate le differenze tra i due istituti, sia sotto il profilo della natura giuridica, sia sotto il profilo della struttura del procedimento, che non appaiono esattamente coincidenti e sovrapponibili.

Ad oggi, quindi, il dibattito è ancora aperto. Tuttavia, appare opportuno che tale dibattito tenga conto e venga ripensato alla luce delle novità contenute nel codice della crisi d’impresa, atteso che la reintroduzione per le s.r.l. del rimedio della denunzia al tribunale di cui all’art. 2409 c.c. può rendere più difficoltosa la lettura della revoca cautelare come strumento per le società a responsabilità limitata sostituivo e speculare rispetto a quello rappresentato dalla denunzia al tribunale per le società per azioni.

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  • responsabilità contrattuale
  • banca

CAPITOLO XV

IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI

(di Paolo Fraulini )

Sommario

1 La vigilanza sull’operato di banche e intermediari finanziari. - 2 Il contratto di conto corrente. - 3 I contratti bancari regolati in conto corrente. - 4 Intermediazione finanziaria. - 5 La responsabilità della banca. - 6 Titoli di credito.

1. La vigilanza sull’operato di banche e intermediari finanziari.

In tema di vigilanza Sez. U, n. 10355/2021, Terrusi, Rv. 661217-01, ha affermato che nell'Unione bancaria creata tra gli Stati dell'eurozona, il Meccanismo di Vigilanza Unico (MVU), di cui al Regolamento UE n. 1024/2013, presuppone che il potere decisionale esclusivo in ordine alle acquisizioni di partecipazioni qualificate in banche appartenga alla BCE; pertanto, il coinvolgimento delle autorità nazionali nel procedimento che conduce all'adozione della decisione della stessa BCE non mette in dubbio la qualificazione degli atti delle autorità nazionali centrali (ANC) come atti dell'Unione, poiché questi rientrano, nel quadro del Meccanismo di vigilanza unico, in un procedimento unitario nel quale la BCE esercita da sola il potere decisionale. Ne consegue che il relativo controllo di legittimità spetta alla competenza esclusiva del giudice dell'Unione - pure in applicazione della legislazione nazionale, qualora il diritto dell'Unione riconosca differenti opzioni normative agli Stati membri - e non a quella dei giudici nazionali, anche ove sia fatta valere la contrarietà degli atti del medesimo procedimento ad un giudicato nazionale nel contesto della giurisdizione di ottemperanza.

Secondo Sez. U, n. 02157/2021, Stalla, Rv. 660308-01, non sussiste la giurisdizione contabile sulla domanda di danno erariale proposta nei confronti di una banca d'affari sulla base di un petitum sostanziale fondato sulla responsabilità contrattuale o precontrattuale riconducibili al duplice ruolo, di controparte in operazioni in strumenti finanziari derivati e di specialista del debito pubblico, da essa svolto nel rapporto con il Ministero dell'economia e delle finanze, se tale rapporto non presenti, in concreto, i caratteri della relazione di servizio comportante l'assunzione, da parte della banca, di potestà pubblicistiche, nonché il suo inserimento, anche temporaneo, nell'organizzazione interna del Ministero quale agente di questo in ordine alle scelte di negoziazione in strumenti finanziari derivati e di gestione del debito pubblico sovrano.

2. Il contratto di conto corrente.

In tema di validità del contratto di conto corrente, Sez. 6-1, n. 05887/2021, Dolmetta, Rv. 660743-01, ha ritenuto che il correntista che agisca per ottenere la declaratoria di nullità di determinate clausole contrattuali, ben può limitare la domanda di ripetizione alle sole somme percepite dalla banca in dipendenza di quelle clausole, limitando la prova al periodo temporale rispetto al quale è stata formulata la domanda.

Ancora sulla forma del contratto, Sez. 1, n. 39169/2021, Scotti, Rv. 663425-01, afferma che il requisito della forma scritta a pena di nullità, di cui all’art. 117 del d.lgs. n. 385 del 1993, non ricomprende l’indicazione dell’indice sintetico di costo, altrimenti detto tasso annuo effettivo globale, atteso che esso è solo un indicatore sintetico del costo globale per il cliente dell’operazione di finanziamento, comprensivo anche degli oneri amministrativi di gestione, e come tale non rientra nel novero dei tassi, prezzi ed altre condizioni la cui erronea indicazione è sanzionata dal citato art. 117 con la sostituzione automatica dei tassi d'interesse normativamente stabiliti a quelli pattuiti.

In tema di saldo del contratto di conto corrente bancario, Sez. 1, n. 20621/2021, Fidanzia, Rv. 662223-01, ha affermato che il correntista che agisca in giudizio per la ripetizione di quanto indebitamente trattenuto dalla banca, non è tenuto a documentare le singole rimesse suscettibili di restituzione soltanto mediante la produzione di tutti gli estratti conto periodici, ben potendo la prova dei movimenti desumersi aliunde, vale a dire attraverso le risultanze di altri mezzi di prova, che forniscano indicazioni certe e complete, anche con l'ausilio di una consulenza d'ufficio, da valutarsi con un accertamento in fatto insindacabile innanzi al giudice di legittimità.

Secondo Sez. 6-1, n. 22387/2021, Falabella, Rv. 662211-01, nei rapporti bancari di conto corrente, ove alla domanda principale diretta al pagamento del saldo del rapporto, proposta dalla banca in via monitoria, si contrapponga la domanda riconvenzionale del correntista di accertamento del saldo e di ripetizione dell'indebito, formulata in sede di opposizione ex art. 645 c.p.c., ciascuna delle parti è onerata della prova delle operazioni da cui si origina il saldo. In particolare, la mancata documentazione di una parte delle movimentazioni del conto, il cui saldo sia a debito del correntista, non esclude una definizione del rapporto di dare e avere fondata sugli estratti conto prodotti da una certa data in poi; sicché, ove manchi la prova delle movimentazioni del conto occorse nel periodo iniziale del rapporto, il correntista non potrà aspirare ad un rigetto della domanda di pagamento della banca, ma, nel contempo, quest'ultima non potrà invocare, in proprio favore, l'addebito della posta inziale del primo degli estratti conto prodotti.

In tema di assolvimento dell’onere della prova del contratto di conto corrente e dei relativi saldi, secondo Sez. 1, n. 24641/2021, Di Marzio M., Rv. 662395-01 e Rv. 662395-02, il diritto spettante al cliente, a colui che gli succede a qualunque titolo o che subentra nell'amministrazione dei suoi beni, ad ottenere, a proprie spese, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni, ivi compresi gli estratti conto, sancito dall'art. 119, comma 4, del d.lgs. n. 385 del 1993, può essere esercitato in sede giudiziale attraverso l'istanza di cui all'art. 210 c.p.c., in concorso dei presupposti previsti da tale disposizione, a condizione che detta documentazione sia stata precedentemente richiesta alla banca e quest'ultima, senza giustificazione, non abbia ottemperato (contra, Sez. 3, n. 24181/2020). Ha soggiunto che, in tema di contenzioso tra istituto di credito e cliente, il diritto di quest'ultimo ad ottenere copia della documentazione bancaria relativa alle operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni, previsto dall'art. 119, comma 4, del d.lgs. n. 385 del 1993, non può essere soddisfatto in sede di consulenza tecnica d'ufficio contabile, se il cliente non ha precedentemente formulato la relativa richiesta alla banca e la documentazione riguarda fatti o situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento di domande o eccezioni, devono necessariamente essere provati dalla parte che le ha formulate.

Sulla domanda di ripetizione di indebito, Sez. 6-1, n. 04066/2021, Mercolino, Rv. 660585-01, afferma che la deduzione difensiva della banca circa la pendenza del rapporto di conto corrente, attenendo a un fatto impeditivo del diritto azionato, costituisce eccezione in senso lato rilevabile d'ufficio, sicché essa si sottrae al divieto di cui all'art. 345, comma 2, c.p.c., purché emergente da documenti o altre prove già ritualmente acquisiti al processo.

Quanto ai diritti riconosciuti al cliente sulle annotazioni in conto, secondo Sez. 1, n. 03858/2021, Fidanzia, Rv. 660509-02, in tema di pagamenti indebiti effettuati dal correntista, non esiste un diritto alla rettifica di un'annotazione di conto corrente autonomo rispetto al diritto di far valere la nullità, l'annullamento, la rescissione ovvero la risoluzione del titolo che è alla base dell'annotazione stessa, essendo quest'ultima null'altro che la rappresentazione contabile di un diritto, sicché, ove venga accertata la nullità del titolo in base al quale gli interessi sono stati annotati, essendo la relativa azione imprescrittibile ex art. 1422 c.c., la rettifica sul conto può essere chiesta senza limiti di tempo.

Nell’ipotesi di cointestazione del conto, Sez. 2, n. 29324/2021, Carrato, Rv. 662563-01, precisa che a ciascuno dei cointestati, nei rapporti interni ai sensi dell'art. 1298, comma 2, c.c., è riconosciuta la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto medesimo, che si dividono in quote eguali solo se non risulti diversamente (potendo a tal fine anche farsi ricorso a presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti) e che, pertanto, ove il saldo attivo discenda dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, deve escludersi che l'altro possa, nei rapporti interni, avanzare diritti su di esso.

3. I contratti bancari regolati in conto corrente.

In tema di apertura di credito, Sez. 1, n. 03858/2021, Fidanzia, Rv. 660509-01, rileva che il meccanismo di imputazione del pagamento degli interessi, di cui all'art. 1194, comma 2, c.c., trova applicazione solo in presenza di un versamento avente funzione solutoria in quanto eseguito su un conto corrente avente un saldo passivo che ecceda i limiti dell'affidamento, sicché non può mai configurarsi una siffatta imputazione, quando l'annotazione degli interessi avvenga sul conto corrente che presenti un passivo rientrante nei limiti dell'affidamento, avendo la relativa rimessa una mera funzione ripristinatoria della provvista.

Sul medesimo contratto, Sez. 1, n. 10117/2021, Falabella, Rv. 661069-01, ritiene che poiché le somme messe a disposizione non possono considerarsi liquide ed esigibili fino a quando l'accreditato non abbia inteso utilizzarle, non può avere luogo la compensazione di cui all'art. 1853 c.c. tra il saldo passivo di un conto corrente e la corrispondente passività costituita mediante l'apertura di credito su altro conto dello stesso cliente.

In tema di anticipazione bancaria, Sez. 6-1, n. 22506/2021, Falabella, Rv. 662377-01, afferma che ai sensi del combinato disposto degli artt. 1823, 1827, 1831 e 2697, c.c., la banca non può esigere il pagamento di singole voci del suo avere (nella specie per le sole anticipazioni bancarie collegate al conto di corrispondenza) senza prima aver proceduto alla chiusura del conto e dimostrato la esistenza di un saldo attivo a suo favore, e sempre nei limiti di tale saldo.

In tema di deposito bancario, Sez. 1, n. 08998/2021, Falabella, Rv. 660961-01, afferma che l'obbligo restitutorio della banca sorge, salvo il caso di previsione di un termine convenzionale di scadenza del contratto, solo a seguito della richiesta del cliente, quale condizione di esigibilità del credito del medesimo, con la conseguenza che la prescrizione del diritto del depositante ad ottenere la restituzione delle somme depositate non inizia a decorrere prima che il cliente abbia richiesto la somma in restituzione, facendo in tal modo sorgere il corrispondente obbligo della banca. Sulla questione degli interessi legati al deposito bancario, Sez. 1, n. 09670/2021, Nazzicone, Rv. 661056-01, sancisce che l'art. 48, comma 3, del d.lgs. n. 346 del 1990, il quale pone in capo ai debitori del de cuius il divieto di pagare le somme agli eredi prima della presentazione della dichiarazione di successione, prevede un'ipotesi di inesigibilità legale del relativo credito, allo scopo di operare una coazione all'adempimento dell'obbligo fiscale posto a carico degli eredi, sicché fino a tale momento sono inapplicabili gli artt. 1224 e 1282 c.c., salvo che gli interessi siano dovuti ad altro titolo.

In tema di contratto di mutuo bancario, Sez. 1, n. 01517/2021, Dolmetta, Rv. 660370-01, afferma che l'utilizzo di somme da parte di un istituto di credito per ripianare la pregressa esposizione debitoria del correntista, con contestuale costituzione in favore della banca di una garanzia reale, costituisce un'operazione meramente contabile in dare ed avere sul conto corrente, non inquadrabile nel mutuo ipotecario, il quale presuppone sempre l'avvenuta consegna del denaro dal mutuante al mutuatario; tale operazione determina di regola gli effetti del pactum de non petendo ad tempus, restando modificato soltanto il termine per l'adempimento, senza alcuna novazione dell'originaria obbligazione del correntista. In tema di usura applicabile al medesimo contratto, secondo Sez. 3, n. 04033/2021, D’Arrigo, Rv. 660596-01, il cd. tasso di sostituzione, previso dall' art.1, comma 3, del d.l. n. 394 del 2000 (conv., con modif., dalla l. n. 24 del 2001), di interpretazione autentica della disciplina contenuta nella l. n. 108 del 1996, si applica, a norma del comma 2 del medesimo articolo, ai mutui a tasso fisso in essere alla data della sua entrata in vigore e, pertanto, esso non può essere invocato in relazione ai contratti precedentemente risolti o receduti, in cui residuano soltanto obbligazioni restitutorie immediatamente esigibili, rispetto alle quali non vi è spazio per interventi manutentivi del regolamento contrattuale, quale quello costituito dal predetto tasso.

In generale, sui criteri di calcolo del superamento del tasso di usura, Sez. 6-1, n. 31615/2021, Falabella, Rv. 662738-01, ritiene che non è possibile procedere al cumulo materiale delle somme dovute alla banca a titolo di interessi corrispettivi e di interessi moratori, stante la diversa funzione che gli stessi perseguono in relazione alla natura corrispettiva dei primi e di penale per l'inadempimento dei secondi, sicché è necessario procedere al calcolo separato della loro relativa incidenza, per i primi ricorrendo alle previsioni dell'art. 2, comma 4, della l. n. 108 del 1996 e per i secondi, ove non citati nella rilevazione dei decreti ministeriali attuativi della citata previsione legislativa, comparando il tasso effettivo globale, aumentato della percentuale di mora, con il tasso effettivo globale medio del periodo di riferimento.

In tema di contratti di finanziamento erogati dalla banca, Sez. 2, n. 19434/2021, Giusti, Rv. 661696-01, afferma che, ai sensi degli artt. 121 e 124 del d.lgs. n. 385 del 1993, nel testo originario, applicabile ratione temporis, tra i contratti di credito al consumo finalizzati all'acquisto di determinati beni o servizi e i contratti di acquisto dei medesimi ricorre un collegamento negoziale di fonte legale, che prescinde dalla sussistenza di una esclusiva del finanziatore per la concessione di credito ai clienti dei fornitori e che, pertanto, il giudice non deve riscontrare la volontà dei contraenti, ma ha solo il compito di verificare le clausole del contratto di finanziamento e trarre le conseguenze, in concreto, dell'incidenza su di esso della dedotta assenza di un collegato contratto di compravendita, ovvero dell'impiego della somma mutuata per una finalità diversa da quella indicata in contratto e corrispondente a una della tipologie di impiego tassativamente previste dal legislatore.

4. Intermediazione finanziaria.

Sul contratto-quadro di intermediazione, Sez. 1, n. 09187/2021, Marulli, Rv. 660903-01, in espressa continuità con Sez. U. n. 898 del 2018, ribadisce che il requisito della forma scritta, posto a pena di nullità (azionabile dal solo cliente) dall'art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, va inteso non in senso strutturale, ma funzionale, avuto riguardo alla finalità di protezione dell'investitore assunta dalla norma, sicché tale requisito deve ritenersi rispettato ove il contratto sia redatto per iscritto e ne sia consegnata una copia al cliente, ed è sufficiente che vi sia la sottoscrizione di quest'ultimo, e non anche quella dell'intermediario, il cui consenso ben può desumersi alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti. Tuttavia, in ipotesi di cointestazione, Sez. 1, n. 10251/2021, Mercolino, Rv. 661268-01, precisa che la coincidenza soltanto parziale degli intestatari non consente di estendere automaticamente il contratto d'investimento stipulato da uno solo al rapporto costituito con gli altri, ostandovi la diversità delle parti, cui può ben corrispondere anche la disomogeneità delle condizioni concordate. A tenore di Sez. 1, n. 23489/2021, Marulli, Rv. 662316-01, il requisito della forma scritta posto a pena di nullità dall'art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998 attiene al contratto-quadro e non al contratto derivato denominato interest rate swap, stipulato in esecuzione del corrispondente ordine di investimento, potendosi escludere che il requisito di forma possa discendere dall'applicazione dell'art. 117 del d.lgs. n. 385 del 1993, che si riferisce ai soli contratti bancari.

Sempre in materia di validità del contratto, secondo Sez. 3, n. 15099/2021, Moscarini, Rv. 661560-01, in tema di nullità del contratto per contrarietà a norme imperative, unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile, ove non altrimenti stabilito dalla legge, di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch'esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, la quale può essere fonte di responsabilità, sicché, in tema di intermediazione finanziaria, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario (art. 6 della l. n. 1 del 1991) può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguenze risarcitorie, ove dette violazioni avvengano nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti (cosiddetto "contratto quadro"), mentre è fonte di responsabilità contrattuale, ed, eventualmente, può condurre alla risoluzione del contratto, ove le violazioni riguardino le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del "contratto quadro"(il quale, per taluni aspetti può essere assimilato al mandato), andando, in ogni caso escluso, in assenza di un'esplicita previsione normativa, che la violazione dei menzionati doveri di comportamento possa determinare, a norma dell'art. 1418, comma 1, c.c., la nullità del cosiddetto contratto quadro o dei singoli atti negoziali posti in essere in base ad esso. Sul tema, Sez. 1, n. 08997/2021, Falabella, Rv. 660902-01, conferma che le singole operazioni di investimento in valori mobiliari, in quanto contratti autonomi, benché esecutive del contratto quadro originariamente stipulato dall'investitore con l'intermediario, possono essere oggetto di risoluzione, in caso di inosservanza di doveri informativi nascenti dopo la conclusione del contratto quadro, indipendentemente dalla risoluzione di questo ultimo.

In tema di conflitto di interesse dell’intermediario, Sez. 1, n. 20251/2021, Scotti, Rv. 661821-01, afferma che l'art. 23, comma 3, Regolamento congiunto Banca d'Italia-Consob del 29 ottobre 2007, nel testo applicabile ratione temporis, non ha abdicato al principio disclose or abstain, posto alla base della previgente disciplina del conflitto di interesse, risultante dall'art. 27 Regolamento Consob n. 11522 del 1998, poiché le nuove disposizioni, pur essendo finalizzate a prevenire le situazioni di conflitto, prevedono che, ove queste ultime comunque si presentino, l'intermediario sia tenuto ad informare chiaramente il cliente prima di agire per suo conto, mettendolo nella condizione di assumere decisioni consapevoli, che non possono non essere espressione di un assenso, anche solo tacito, all'esecuzione dell'operazione in conflitto.

Quanto agli obblighi informativi dell’intermediario, Sez. 6-1, n. 22513/2021, Fidanzia, Rv. 662346-01, afferma che l'intermediario assolve l'obbligo informativo su di lui gravante, ai sensi dell'art. 28 del Reg. Consob n. 11522 del 1998, allorché raccolga preventivamente, all'atto della sottoscrizione del contratto-quadro, il profilo finanziario dell'investitore e sottoponga a quest'ultimo schede contenenti le caratteristiche descrittive degli strumenti d'investimento recanti la specifica e separata indicazione della rischiosità e della inadeguatezza dell'operazione. Sullo stesso tema, Sez. 1, n. 33596/2021, Di Marzio M., Rv. 663105-01, ritiene che gli obblighi informativi risultano preordinati al riequilibrio dell'asimmetria del patrimonio conoscitivo-informativo delle parti in favore dell'investitore, al fine di consentirgli una scelta realmente consapevole, sicché sussiste una presunzione legale di sussistenza del nesso causale fra inadempimento informativo e pregiudizio, pur suscettibile di prova contraria da parte dell'intermediario: prova che, tuttavia, non può consistere nella dimostrazione di una generica propensione al rischio dell'investitore, desunta anche da scelte intrinsecamente rischiose pregresse, perché anche l'investitore, speculativamente orientato e disponibile ad assumersi rischi, deve poter valutare la sua scelta speculativa e rischiosa nell'ambito di tutte le opzioni dello stesso genere offerte dal mercato, alla luce dei fattori di rischio che gli sono stati segnalati.

Sul tema della forma degli ordini di investimento, Sez. 1, n. 09413/2021, Marulli, Rv. 661212-01, afferma che la firma elettronica (o firma digitale leggera), intesa come l'insieme dei dati in forma elettronica, allegati o connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici, utilizzati come metodo di autenticazione informatica, si distingue dalla firma digitale avanzata o pesante, vale a dire la firma elettronica ottenuta attraverso una procedura informatica che garantisce la connessione univoca al firmatario e la sua univoca identificazione, in quanto creata con mezzi sui quali il firmatario può conservare un controllo esclusivo, ferma restando l'idoneità della prima a soddisfare il requisito legale della forma scritta "ad substantiam" ai sensi dell'art. 10 del d.P.R. n. 445 del 2000, come novellato dall'art. 6 del d.lgs. n. 10 del 2002, tranne che nei casi di cui all'art. 1350 c.c. nei quali la forma scritta è prevista a pena di nullità.

5. La responsabilità della banca.

In riferimento alla responsabilità della banca da inadempimento alle obbligazioni inerenti ai contrati stipulati con il cliente, Sez. 1, n. 25894/2021, Mercolino, Rv. 662490-01, afferma che la responsabilità della banca nei confronti del cliente, per aver eseguito un ordine di bonifico pervenuto alla banca tramite canali inusuali, non può essere esclusa con riguardo al solo riscontro della conformità della firma allo specimen, atteso che, in presenza di circostanze del caso concreto che suggeriscano, secondo le regole di diligenza cui è tenuto il mandatario, ulteriori controlli, l'omissione di questi integra colpa ed è quindi ostativa alla configurabilità di una situazione di apparenza giustificativa di un esonero da detta responsabilità.

Sulla risarcibilità del danno da segnalazione del nominativo del cliente alla Centrale rischi della Banca d’Italia, Sez. 3, n. 03130/2021, Rossetti, Rv. 660592-01, ritiene che il giudice, per stabilire se una banca abbia correttamente o meno comunicato l'inadempimento di una obbligazione del cliente, non deve limitarsi a valutare ex post se, all'esito del giudizio tra tale banca e lo stesso cliente, le eccezioni da quest'ultimo frapposte all'adempimento dei propri obblighi si siano rivelate infondate, ma è tenuto a stabilire, con valutazione ex ante, se, al momento in cui il medesimo cliente ha rifiutato detto adempimento, i motivi del rifiuto apparissero oggettivamente non infondati e prospettati in buona fede, gravando l'onere della relativa prova su chi domanda il risarcimento.

6. Titoli di credito.

In tema di responsabilità della banca per l’illegittimo incasso di assegni, Sez. 1, n. 03649/2021, Fidanzia, Rv. 660494-01, ritiene che, nel caso di pagamento di assegno di traenza non trasferibile in favore di soggetto non legittimato, va esclusa la responsabilità della banca negoziatrice che abbia dimostrato di aver identificato il prenditore del titolo mediante il controllo del documento di identità non scaduto e privo di segni o altri indizi di falsità, in quanto la normativa vigente, e in particolare la normativa antiriciclaggio ex art. 19, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 231 del 2007, stabilisce modalità tipiche con cui gli istituti di credito devono identificare la clientela e non prevede il ricorso a ogni possibile mezzo, né alcuna indagine presso il Comune di nascita. Sul medesimo tema, Sez. 6-1, n. 09842/2021, Dolmetta, Rv. 661247-01, afferma che, ai fini della responsabilità della banca negoziatrice, per avere consentito l'incasso di un assegno cd. di traenza da parte di persona diversa dal beneficiario, la diligenza del funzionario che ha ricevuto il titolo, non va valutata soltanto in relazione all'attività di controllo effettuata in ordine alla rispondenza della persona che presenta il titolo al reale beneficiario, ma anche tenendo conto di altre circostanze anomale che possano destare l'oggettivo sospetto della non rispondenza del soggetto presentatore dell'assegno al beneficiario.

Secondo Sez. 6-1, n. 09844/2021, Dolmetta, Rv. 661248-01, la banca trattaria che proceda al pagamento del titolo portato all'incasso, dopo la scadenza del termine di presentazione, non tiene una condotta negligente fonte di responsabilità risarcitoria, poiché, ai sensi del combinato disposto degli artt. 32 e 35 l. assegni, il decorso del detto termine non comporta l'inefficacia dell'ordine delegatorio, ma incide solo sul vincolo di destinazione della provvista, lasciando alla banca trattaria la facoltà e non più l'obbligo di eseguire il pagamento, sempre che manchi un contrario ordine del traente e vi siano sufficienti somme sul conto corrente.

In tema di buoni fruttiferi postali, secondo Sez. 1, n. 24639/2021, Di Marzio M., Rv. 662394-01, ove il titolo rechi la dizione pari facoltà di rimborso, in caso di morte di uno dei cointestatari, ciascun cointestatario superstite è legittimato a ottenere il rimborso dell'intera somma portata dal documento, non trovando applicazione l'articolo 187, comma 1, del d.P.R. 1 giugno 1989, n. 256 che, in tema di libretti di risparmio, impone la necessaria quietanza di tutti gli aventi diritto, atteso che i buoni fruttiferi circolano a vista e tale diversa natura impedisce l'applicazione analogica della citata disciplina.

In tema di cambiale, Sez. 2, n. 19048/2021, Giusti, Rv. 661695-02, afferma che ove il titolo sia utilizzato per coprire parzialmente delle operazioni finanziarie, l'esercizio dell'azione causale in un separato procedimento, successivamente all'esercizio dell'azione cartolare, promossa in via esecutiva, non determina un frazionamento abusivo del credito per la duplicazione di attività in ragione dell'identica vicenda sostanziale e dell'oggettivo interesse del creditore ad agire inizialmente con lo strumento giudiziario.

Secondo Sez. 1, n. 20624/2021, Fidanzia, Rv. 661822-01, il portatore di una cambiale che eserciti l'azione causale ha l'onere di offrire il titolo in originale, ai sensi dell'art. 66 del r.d. n. 1669 del 1933, anche nel caso in cui intenda soltanto precisare il credito davanti al commissario giudiziale del debitore ammesso alla procedura di concordato preventivo, essendo detta produzione intesa a evitare la possibilità di azione da parte di altri creditori in via cambiaria, ovvero ad assicurare al debitore l'esercizio di eventuali azioni cambiarie di regresso.

  • liquidazione di società
  • imprenditore
  • società
  • fallimento

CAPITOLO XVI

IL DIRITTO DELLE PROCEDURE CONCORSUALI

(di Salvatore Leuzzi, Angelo Napolitano )

Sommario

1 Il fallimento dell’imprenditore: i presupposti. - 1.1 Le società cancellate e l’estensione del fallimento. - 1.2 Il procedimento prefallimentare. - 1.3 I reclami avverso la sentenza di fallimento e il decreto di rigetto. - 2 Gli organi delle procedure concorsuali. - 2.1 I reclami endoconcorsuali. - 3 I pagamenti in costanza di fallimento e le azioni di inefficacia. - 3.1 Le azioni ex art. 66 l.fall. - 3.2 Le revocatorie fallimentari. - 4 I rapporti pendenti. - 5 La formazione dello stato passivo. - 6 La liquidazione dell’attivo. - 7 La chiusura del fallimento e l’esdebitazione. - 8 Il concordato fallimentare. - 9 Il concordato preventivo. - 10 La liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria. - 11 Il sovraindebitamento.

1. Il fallimento dell’imprenditore: i presupposti.

Interessanti pronunce hanno ulteriormente delimitato il recinto dei soggetti fallibili, con particolare riguardo alle soglie dimensionali di fallibilità.

Con riferimento alle società di persone, ad esempio, si è affermato che i prelievi dalla cassa sociale da parte dei soci, che non trovino la loro esatta giustificazione in utili effettivamente conseguiti, concorrono a formare l’attivo patrimoniale, ai fini dell’art. 1, comma 2, lett. a) l.fall., trattandosi di somme che sono soggette ad azione di ripetizione dell’indebito da parte della società (Sez. 1, n. 00979/2021, Dolmetta, Rv. 660206-01).

È stato, altresì, chiarito che ai fini della dichiarazione di fallimento, la nozione di “ricavi lordi”, rilevante ex art. 1, comma 2, l.fall., non comprende, neppure per le società in liquidazione, le somme ritratte dalla cessione a terzi di cespiti aziendali, dovendo tenersi conto soltanto di quanto ottenuto dalle vendite di rimanenze e dall’esecuzione di eventuali contratti pendenti (Sez. 1, n. 00980/2021, Dolmetta, Rv. 660208-01).

Sulla tralatizia esenzione dell’imprenditore agricolo dall’alveo del fallimento, è stata affermata la necessità della prova, da parte di chi la invoca, in ossequio all’art. 2697, comma 2, c.c. e al principio di vicinanza della prova, della sussistenza delle condizioni per ricondurre l’attività di commercializzazione dei prodotti agricoli esercitata nell’ambito di cui all’art. 2135, comma 3, c.c., dovendosi segnatamente dimostrare che essa ha come oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo (Sez. 6-1, n. 01049/2021, Pazzi, Rv. 660224-01).

I requisiti dimensionali per l’esonero dalla fallibilità dell’imprenditore, previsti dall’art. 1, comma 2, l.fall., sono stati temporalmente meglio definiti, precisandosi come essi debbano sussistere anche al tempo dell’istanza e della dichiarazione di fallimento, avendo il compito di esprimere una caratteristica sostanzialmente stabile dell’impresa, senza che abbia rilievo il fatto che, per l’esercizio in corso, non sia ancora depositato il bilancio, potendo l’imprenditore avvalersi dell’intero arco documentale costituito dalle scritture contabili provenienti dalla sua impresa, come pure di qualunque altra documentazione, formata anche da terzi, che possa nel concreto risultare utile (Sez. 1, n. 21188/2021, Dolmetta, Rv. 661823-01).

Ancora in tema di requisiti dimensionali per l’esonero dal fallimento di cui all’art. 1, comma 2, lett. b). l.fall., s’è opportunamente detto che i “ricavi lordi” devono essere individuati facendo riferimento alle sole voci n. 1) e n. 5) dello schema di conto economico previsto dall’art. 2425, lett. A) c.c., poiché ciò che rileva ai fini dell’individuazione del parametro dimensionale è il valore dei ricavi che afferiscono alle attività commerciali specifiche dell’impresa o a quelle accessorie derivanti dalla gestione non caratteristica, idonei a misurare la sua effettiva consistenza economica e finanziaria, dovendo pertanto essere esclusi gli “altri proventi” da sopravvenienze attive, che derivano dalla riduzione “una tantum” di accantonamenti per rischi precedentemente iscritti e non sono correlati alla gestione ordinaria né costituiscono ricavi in senso tecnico (Sez. 1, n. 23484/2021, Caradonna, Rv. 662313-01).

Si è asseverata poi l’assoggettabilità a fallimento della società cooperativa sociale che risulti svolgere un’attività commerciale secondo criteri di economicità (cd. lucro oggettivo) all’esito di un accertamento riservato in via esclusiva all’autorità giudiziaria, senza che abbiano natura vincolante i pareri e gli atti adottati dal Ministero dello sviluppo economico, nell’esercizio dei poteri di vigilanza attribuitigli dalla legge, e senza che rilevi l’eventuale assunzione della qualifica di Onlus, ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. n. 460 del 1997, trattandosi di norma speciale di carattere fiscale che non integra la “diversa previsione di legge” contemplata dal comma 2 dell’art. 2545 terdecies c.c. (Sez. 1, n. 29245/2021, Vella, Rv. 662493-01).

Un’utile puntualizzazione è giunta con riferimento all’attività di farmacia privata, svolta in forma individuale o societaria, ritenuta sottoponibile, in quanto imprenditore insolvente, al fallimento. Al riguardo si è acclarata la giurisdizione del giudice ordinario, posto che il distinto ed autonomo piano riguardante l’abilitazione amministrativa all’esercizio dell’attività farmaceutica non interferisce con il profilo dell’esercizio dell’attività imprenditoriale (Sez. U, n. 11292/2021, Rubino, Rv. 661207-01).

Con riguardo all’accertamento dello stato di insolvenza, consistente nell’incapacità di adempiere regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, è stata sancita l’irrilevanza di ogni indagine sull’imputabilità o meno all’imprenditore medesimo delle cause del dissesto, ovvero sulla loro riferibilità a rapporti estranei all’impresa, così come sull’effettiva esistenza ed entità dei crediti fatti valere nei suoi confronti (Sez. 1, n. 22444/2021, Solaini, Rv. 661996-01).

Si è precisato che il dissesto, inteso come stato di insolvenza, può essere aggravato dalla continuazione dell’attività d’impresa e può essere la conseguenza di una erogazione del credito qualificabile come “abusiva”, in quanto effettuata, con dolo o colpa, ad un’impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economico-finanziaria ed in assenza di concrete prospettive di superamento della crisi. Tale erogazione integra un illecito del soggetto finanziatore, per essere questi venuto meno ai suoi doveri primari di prudente gestione, obbligando il medesimo al risarcimento del danno (Sez. 1, n. 18610/2021, Nazzicone, Rv. 661819-01).

Di converso, è stato opportunamente esplicitato che non integra un’abusiva concessione di credito la condotta della banca che, pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi di impresa, abbia assunto un rischio non irragionevole, operando nell’intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un’impresa suscettibile, secondo una valutazione “ex ante”, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito a detti scopi (Sez. 1, n. 18610/2021, Nazzicone, Rv. 661819-01).

Con riferimento alla disciplina delle procedure di insolvenza, ed in particolare di quella fallimentare, in attesa dell’entrata in vigore del cd. codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, di cui al d.lgs. n. 14 del 2019, è stato affermato che questo è, in generale, non applicabile alle procedure aperte anteriormente alla sua entrata in vigore, potendosi, peraltro, rinvenire in esso delle norme idonee a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare solo ove ricorra, nello specifico segmento considerato, un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro (Sez. U, n. 08504/2021, Manzon, Rv. 660876-01).

Sulla stessa scia interpretativa, nella stessa pronuncia si è ritenuto che le controversie relative al mancato assenso dell’agenzia fiscale alle proposte di trattamento dei crediti tributari regolate dall’art. 182 ter l.fall., spettano, anche con riguardo al periodo anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. n. 14 del 2019, alla giurisdizione ordinaria del tribunale fallimentare, considerata l’obbligatorietà di tali proposte nell’ambito delle procedure nelle quali sono consentite ed in ragione, altresì, del disposto degli artt. 180, 182 bis e 182 ter l.fall., nel testo modificato dal citato d.lgs. n. 14 del 2019 e dal d.l. n. 125 del 2020, da cui si evince la prevalenza, con riferimento all’istituto in esame, dell’interesse concorsuale su quello tributario, senza che assuma rilievo, invece, la natura giuridica delle obbligazioni oggetto dei menzionati crediti (Rv. 660876-02).

Di sicuro rilievo, su un altro piano, è il chiarimento giunto sull’obbligo dell’imprenditore di consegnare al curatore le scritture contabili che sorge, a norma dell’art. 86 l.fall., solo dopo la sentenza dichiarativa di fallimento, sicché l’omessa produzione di tali scritture nell’ambito del procedimento prefallimentare, nel corso del quale il debitore è tenuto solo a depositare i bilanci degli ultimi tre esercizi e una situazione patrimoniale aggiornata, non è un fatto dal quale possa di per sé ricavarsi il mancato assolvimento dell’onere della prova in ordine al possesso dei requisiti dimensionali, né, tantomeno, una presunzione di falsità delle risultanze dei bilanci (Sez. 1, n. 11218/2021, Fidanzia, Rv. 661187-01).

1.1. Le società cancellate e l’estensione del fallimento.

La Corte è stata chiamata ad occuparsi del fenomeno della trasformazione cd. “regressiva”, ex art. 2498 e ss. c.c., di una società a responsabilità limitata in associazione sportiva, ritenendo applicabile al primo ente il termine annuale di cui all’art. 10 l.fall., posto che a seguito della trasformazione in parola, da un lato, muta radicalmente il regime della responsabilità patrimoniale del soggetto trasformato, dall’altro lato, l’esercizio dell’attività d’impresa non è più attuale (Sez. 1, n. 01519/2021, Dolmetta, Rv. 660371-01).

È stato, poi, affermato che, dichiarato il fallimento di una società entro l’anno dalla sua cancellazione dal registro delle imprese, ex art. 10 l.fall., essa, per “fictio iuris”, non perde, benché estinta, la propria capacità processuale ai fini sia del procedimento prefallimentare che della procedura concorsuale, con la conseguenza che il ricorso per cassazione contro la sentenza che, in sede di reclamo, abbia confermato la sentenza dichiarativa di fallimento deve essere proposto, a pena di inammissibilità, da colui che rappresentava la società estinta al tempo della cancellazione di quest’ultima dal registro delle imprese, non avendo gli ex soci, che non sono rappresentanti né successori della stessa, alcuna legittimazione ad impugnare (Sez. 1, n. 22449/2021, Falabella, Rv. 661997-01).

È stata poi la volta dell’estensione del fallimento al socio occulto, fattispecie con riferimento alla quale si è esclusa l’applicabilità del termine annuale ai fini della dichiarazione di fallimento di cui all’art. 10 l.fall., trattandosi di beneficio riservato soltanto a coloro che abbiano assolto all’adempimento formale dell’iscrizione, vale a dire a quei soli soggetti cui la norma si riferisce (Sez. 6-1, n. 06029/2021, Dolmetta, Rv. 660744-01).

In tema di società di persone, si è evidenziato che il rapporto sociale tra la società e il socio illimitatamente responsabile, anche di fatto o occulto, non si scioglie in seguito alla cessazione dell’attività d’impresa della società non seguita dalla cancellazione di quest’ultima dal registro delle imprese, con la conseguenza che il termine annuale previsto dall’art. 147, comma 2 l.fall., oltre il quale il socio non può più essere dichiarato fallito in conseguenza della dichiarazione di fallimento della società, decorre solo dall’iscrizione nel registro delle imprese dei fatti determinanti la perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile e non dall’eventuale cessazione dell’attività d’impresa (Sez. 1, n. 22661/2021, Vannucci, Rv. 662000-01).

1.2. Il procedimento prefallimentare.

In tema di iniziativa per la dichiarazione di fallimento da parte del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 7 l.fall., si è sancito che un eventuale esito favorevole all’imprenditore dei procedimenti penali nei quali il pubblico ministero abbia ravvisato la “notitia decoctionis” debba ritenersi privo di incidenza sulla regolarità del procedimento instaurato a seguito della richiesta, atteso che l’unico dato rilevante ai fini della declaratoria di fallimento è costituito dall’accertamento dello stato oggettivo di insolvenza (Sez. 6-1, n. 26407/2021, Iofrida, Rv. 662508-01).

Ancora con riferimento all’iniziativa per la dichiarazione di fallimento da parte del pubblico ministero, è stato affermato che quest’ultimo può richiedere il fallimento, ai sensi dell’art. 7, n. 1 l.fall., non solo quando apprenda la “notitia decoctionis” da un procedimento penale pendente, ma anche ogni volta che la decozione emerga dalle condotte specificamente indicate dalla norma, le quali non presuppongono indefettibilmente la pendenza di un procedimento penale, sicché esse possono emergere anche da un procedimento iscritto nel registro degli atti non costituenti reato (Sez. 6-1, n. 26407/2021, Iofrida, Rv. 662508-02).

In altra importante pronuncia si evidenzia che in pendenza di un procedimento di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, ai sensi dell’art. 161, comma 6, l.fall., il fallimento dell’imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del pubblico ministero è suscettibile d’essere dichiarato soltanto quando ricorrono gli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l.fall. e cioè, rispettivamente, quando la domanda di concordato sia stata dichiarata inammissibile, quando sia stata revocata l’ammissione alla procedura, quando la proposta di concordato non sia stata approvata e quando, all’esito del giudizio di omologazione, sia stato respinto il concordato; la dichiarazione di fallimento, peraltro, non sussistendo un rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica tra le procedure, non è esclusa durante le eventuali fasi di impugnazione dell’esito negativo del concordato preventivo (Sez. 6-1, n. 08982/2021, Terrusi, Rv. 660974-02).

Qualora la domanda di concordato preventivo sia dichiarata inammissibile, è legittima la segnalazione dell’insolvenza del proponente operata dal tribunale nei confronti del P.M., il quale, acquisita la “notitia decoctionis”, ben può sollecitare la sua dichiarazione di fallimento, poiché la legittimazione a richiederlo ai sensi dell’art. 162 l.fall., non esclude quella prevista dall’art. 7, n. 2, l.fall., essendo il procedimento di concordato preventivo un “procedimento civile” ai sensi di quest’ultima norma (Sez. 1, n. 00976/2021, Pazzi, Rv. 660203-01).

Con riferimento alle società di persone, si è messo in rilievo che all’amministratore revocato fa capo la legittimazione alla presentazione dell’istanza di fallimento dell’ente, posto che l’art. 2274 c.c., nel prevedere che, avvenuto lo scioglimento della società, i soci amministratori conservano il potere di amministrare limitatamente agli affari urgenti sino a quando non siano presi i provvedimenti necessari alla liquidazione, esplicita l’applicabilità del principio generale della “prorogatio” dei poteri degli amministratori sino alla loro sostituzione. Applicando il detto principio di diritto, la Corte ha ritenuto corretta l’affermazione del giudice del merito che, nel ritenere la sussistenza della legittimazione all’istanza per la dichiarazione di fallimento dell’amministratore revocato in forza di un lodo arbitrale, aveva escluso l’applicabilità dell’art. 2266 c.c. (Sez. 1, n. 13516/2021, Amatore, Rv. 661394-01).

In tema di competenza a provvedere, ex art. 9 l.fall., in ordine alla istanza di fallimento, si è chiarito come la stessa spetti inderogabilmente al tribunale del luogo in cui l’impresa debitrice ha la sua sede effettiva, da presumersi coincidente, fino a prova contraria, con la sua sede legale, mentre restano ininfluenti, rispetto alla competenza territoriale, tanto il trasferimento della sede sociale intervenuto nell’anno antecedente all’esercizio dell’iniziativa per la dichiarazione di fallimento, quanto la delibera di trasferimento adottata dall’assemblea in epoca anteriore all’anno dal deposito dell’istanza, ma iscritta nel registro delle imprese successivamente ed entro l’anno, posto che, prima dell’iscrizione, la delibera è sprovvista di efficacia (Sez. 6-1, n. 22389/2021, Falabella, Rv. 662212 - 01).

La Corte si è poi addentrata nel contesto dell’insolvenza transfrontaliera, asserendo che, in base al Regolamento UE n. 848 del 2015, la competenza a dichiarare l’insolvenza si radica in capo al giudice dello Stato membro in cui si trova il centro degli interessi principali dell’impresa, cd. “COMI” (centre of main interests), venendo in rilievo, fino a prova contraria, la presunzione di coincidenza di quest’ultimo con la sede legale, qualora non sia stata trasferita in altro paese dell’Unione nei tre mesi precedenti la domanda di apertura della procedura di insolvenza (Sez. U., n. 10356/2021, Terrusi, Rv. 661016-01).

In tema di giurisdizione del giudice italiano, nel caso in cui sia stata avanzata da una curatela fallimentare la domanda principale di simulazione assoluta di un contratto istitutivo di trust stipulato dal fallito, non trova applicazione il regolamento CE n. 1346/2000, relativo alle procedure di insolvenza, perché solo le azioni che derivano direttamente da queste ultime e che vi si inseriscono direttamente sono riservate ai giudici dello stato membro in cui è stata aperta la procedura, bensì il Regolamento UE n. 1215/2012 sulla giurisdizione in generale in materia civile e commerciale (Sez. U., n. 25163/2021, Terrusi, Rv. 662249-01).

Si è posto in apice che l’art. 147, comma 5, l.fall. trova applicazione anche qualora il socio già fallito sia una società partecipe con altre società o persone fisiche ad una società di persone (cd. “supersocietà di fatto”), nel qual caso, in deroga all’art. 9 l.fall., la competenza alla dichiarazione di fallimento in estensione si radica presso il tribunale ove risulta già pendente la procedura concorsuale riguardante il socio, venendo in rilievo il principio di prevenzione sancito dai commi 4 e 5 dell’art. 9 anzidetto e dall’art. 40 c.p.c. e costituendo il fallimento della società, che sia socia illimitatamente responsabile, l’occasione per accertare anche la distinta insolvenza della supersocietà di fatto (Sez. 1, n. 04712/2021, Terrusi, Rv. 660572-01).

Ancora in tema di competenza, si è chiarito come contro l’ordinanza del giudice adito per la dichiarazione di fallimento che la declina è sempre ammissibile il regolamento necessario di competenza, ai sensi dell’art. 9 bis l.fall., che invece non può essere proposto contro il provvedimento successivamente adottato dal giudice dichiarato competente (Sez. 6-1, n. 16336/2021, Mercolino, Rv. 661505-01).

Lo spinoso tema del riparto di competenza tra il giudice del lavoro e quello del fallimento torna in altra pronuncia della Corte, la quale ha chiarito che qualora difetti un interesse del lavoratore alla tutela della propria posizione all’interno dell’impresa e sia domandato un accertamento del diritto di credito risarcitorio, in via strumentale alla partecipazione al concorso nella procedura, la cognizione spetta al giudice fallimentare. Ne consegue che è improcedibile l’originaria domanda spiegata da un dirigente, assunto con contratto a tempo determinato e poi licenziato, che aveva agito dinanzi al giudice del lavoro, rivendicando la sola tutela risarcitoria nei confronti dell’imprenditore, fallito in corso di causa (Sez. L, n. 30512/2021, Cinque, Rv. 662657-01).

La notificazione dell’istanza di fallimento è il nucleo su cui insiste altra decisione rilevante, tesa a evidenziare che l’individuazione della sede del debitore risultante dal registro delle imprese, presso la quale, ai sensi dell’art. 15 l.fall., deve essere tentata la notificazione medesima insuscettibile d’essere eseguita presso l’indirizzo PEC del debitore, costituisce un’attività propria dell’agente notificatore, compiuta sulla base delle indicazioni contenute nella richiesta della parte istante, compresa tra le circostanze di fatto, riportate nella relata di notifica, munite di fede privilegiata; pertanto, ove la parte alleghi che, contrariamente a quanto attestato dall’ufficiale giudiziario, la notificazione sia stata tentata in un luogo diverso, è necessario che proponga querela di falso (Sez. 1, n. 21199/2021, Mercolino, Rv. 661974-01).

Ancora con riferimento al procedimento per la dichiarazione di fallimento, si è specificato che allorché la notifica del ricorso di fallimento all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore non risulti possibile, la notifica a cura del ricorrente si esegue esclusivamente di persona a norma dell’art. 107, comma 1, del d.P.R. n. 1229 del 1959, laddove la locuzione “di persona” contenuta nell’art. 15, comma 3 l.fall., si riferisce all’ufficiale giudiziario, il quale deve procedere personalmente alla notifica senza potersi avvalere del servizio postale, ma non anche al destinatario, al quale l’atto potrà essere notificato a mani proprie o mediante consegna a soggetto idoneo a riceverlo nelle forme del codice di rito (Sez. 1, n. 13507/2021, Ferro, Rv. 661370-01).

Nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, al debitore, cui sia stato regolarmente notificato il ricorso nel rispetto delle forme previste dalla legge, non devono essere necessariamente notificati i successivi ricorsi che si inseriscano nel medesimo procedimento, avendo egli l’onere di seguire l’ulteriore sviluppo della procedura regolarmente instaurata e di assumere ogni opportuna iniziativa in ordine ad essa, a tutela dei propri diritti (Sez. 6-1, n. 03189/2021, Vella, Rv. 660581-01).

È stato utilmente evidenziato che la mancanza del provvedimento di delega del giudice che ha sottoscritto il decreto di fissazione dell’udienza di comparizione ed ha proceduto all’istruttoria prefallimentare, non si traduce in un vizio di costituzione del giudice e non comporta l’invalidità degli atti compiuti, ma assume rilievo esclusivamente sul piano dell’organizzazione interna dell’ufficio giudiziario e della regolare distribuzione del lavoro tra i magistrati addetti al medesimo (Sez. 6-1, n. 06029/2021, Dolmetta, Rv. 660744-02).

Si è poi chiarito che il decreto di rigetto dell’istanza di fallimento, al pari di quello che lo conferma in sede di reclamo, non è idoneo alla formazione di un giudicato, trattandosi di provvedimento non definitivo, oltreché privo di natura decisoria su diritti soggettivi, sicché non può essere invocato nell’ambito di un diverso giudizio promosso nei confronti del destinatario della medesima istanza (Sez. 1, n. 15806/2021, Pazzi, Rv. 661411-01).

Il ruolo dell’Avvocatura dello Stato è stato fatto oggetto di un importante chiarimento. Segnatamente, nell’ambito del giudizio teso alla dichiarazione di fallimento del contribuente insolvente, l’Agenzia delle Entrate Riscossione può avvalersi dell’Avvocatura nei casi previsti dalla convenzione all’uopo intervenuta (oppure ove vengano in rilievo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici); in alternativa può giovarsi di avvocati del libero foro, senza bisogno di formalità, né della delibera prevista dall’art. 43, comma 4, del r.d. n. 1611 del 1933 (nel rispetto degli articoli 4 e 17 del d.lgs. n. 50 del 2016 e dei criteri di cui agli atti di carattere generale adottati ai sensi dell’art. 1, comma 5, del d.l. n. 193 del 2016, conv, con modif. dalla l. n. 225 del 2016) in tutti gli altri casi ed in quelli in cui, pure riservati convenzionalmente all’Avvocatura dello Stato, questa non sia disponibile ad assumere il patrocinio (Sez. 6-1, n. 16314/2021, Terrusi, Rv. 661504-01).

1.3. I reclami avverso la sentenza di fallimento e il decreto di rigetto.

Si è messo in luce che il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento ex art. 18 l.fall. deve contenere l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione e le relative conclusioni, ancorché non sia richiesta l’indicazione degli “specifici motivi” di cui agli artt. 342 e 345 c.p.c., sicché tale mezzo non ha carattere pienamente devolutivo restando l’ambito dell’impugnazione circoscritto alle sole questioni tempestivamente dedotte dal reclamante, in ciò differenziandosi dal reclamo avverso il decreto di rigetto di cui all’art. 22 l.fall., che non richiede particolari forme volte a delinearne il contenuto ed ha piena natura devolutiva, attribuendo alla corte d’appello il riesame completo della “res iudicanda” (Sez. 6-1, n. 31531/2021, Falabella, Rv. 662737-01).

L’effetto devolutivo pieno che caratterizza il reclamo avverso la sentenza di fallimento riguarda, nell’ottica di altra rilevante decisione, anche la decisione negativa sulla domanda di ammissione al concordato, perché parte inscindibile di un unico giudizio sulla regolazione concorsuale della stessa crisi, sicché, ove il debitore abbia impugnato la dichiarazione di fallimento, censurando anzitutto la decisione del tribunale di revoca dell’ammissione al concordato, il giudice del reclamo, adito ai sensi degli artt. 18 e 173 l.fall., è tenuto a riesaminare, anche avvalendosi dei poteri officiosi previsti dall’art. 18, comma 10, l.fall., nonché del fascicolo della procedura, che è acquisito d’ufficio, tutte le questioni concernenti la predetta revoca, pur attenendo a fatti non allegati da alcuno nel corso del procedimento innanzi al giudice di primo grado, né da quest’ultimo rilevati d’ufficio, ed invece dedotti per la prima volta nel giudizio di reclamo ad opera del curatore del fallimento o delle altre parti ivi costituite (Sez. 1, n. 11216/2021, Pazzi, Rv. 661186-01).

La struttura del giudizio di reclamo è al centro di altra pronuncia, a tenore della quale gli originari creditori istanti per il fallimento di una società di persone o di un imprenditore individuale assumono la posizione di litisconsorti necessari nel giudizio proposto dal socio illimitatamente responsabile, attinto dalla dichiarazione di fallimento in estensione ai sensi dell’art. 147, commi 4 e 5, l.fall. (Sez. 6-1, n. 29288/2021, Fidanzia, Rv. 662931-01).

Il giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall. deve essere tempestivamente riassunto, dinanzi al giudice del rinvio, con ricorso e non con citazione, rimanendo assoggettato alle regole del rito camerale disciplinanti l’originario procedimento di cui esso rappresenta una fase ulteriore (Sez. 6-1, n. 08980/2021, Terrusi, Rv. 660923-01).

2. Gli organi delle procedure concorsuali.

Si è chiarita la legittimazione del curatore fallimentare ad agire contro la banca per la concessione abusiva del credito, in caso di illecita nuova finanza o di mantenimento di contratti in corso, che abbia cagionato una diminuzione del patrimonio del soggetto fallito, per il danno diretto all’impresa conseguito al finanziamento e per il pregiudizio all’intero ceto creditorio a causa della perdita della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c. (Sez. 1, n. 18610/2021, Nazzicone, Rv. 661819-03).

La distinzione fra attività giudiziale e attività stragiudiziale a supporto della curatela è alla base di altra pronuncia. Si è chiarito, infatti, che ai sensi dell’art. 25, comma 1, n. 4 l.fall., letto in combinato disposto con il n. 6 della medesima norma, l’attività stragiudiziale svolta da un avvocato nell’interesse del fallimento su delega del curatore non necessita di autorizzazione del giudice delegato, che è invece richiesta nel caso in cui l’attività comporti la costituzione in giudizio della procedura concorsuale (Sez. 1, n. 05672/2021, Campese, Rv. 660759-01).

Il tema del compenso del curatore è il cuore di altra decisione, che ne puntualizza la determinazione, in forza dei criteri di cui al d.m. n. 30 del 2012, sulla scorta delle percentuali sull’attivo (se esistente) e sul passivo, con la precisazione che la somma minima liquidabile ex art. 4 del citato decreto ministeriale va riconosciuta, a garanzia dell’organo del fallimento, solo se i menzionati criteri conducano alla liquidazione di un compenso inferiore a quello minimo (Sez. 6-2, n. 34842/2021, Fortunato, Rv. 662896-01).

Sempre in ambito di liquidazione di compensi, essenziale il chiarimento secondo cui, nel caso di consecuzione del fallimento al concordato preventivo, il rinvio disposto dall’art. 165, comma 2 l.fall. all’art. 39 della medesima legge, il cui terzo comma prevede che la liquidazione del compenso invocato dal commissario giudiziale di un concordato preventivo ammesso, non giunto alla sua omologazione per il mancato raggiungimento delle necessarie maggioranze dei creditori ex art. 177 l.fall. e seguìto da dichiarazione di fallimento del debitore proponente la domanda concordataria, debba provvedere il tribunale quale giudice del concordato predetto, e non il giudice delegato del fallimento consecutivo (Sez. 1, n. 33364/2021, Campese, Rv. 663103-01 ).

Di non poco momento, nel medesimo settore sensibile dei compensi del curatore, è la precisazione secondo cui l’assuntore del concordato fallimentare è legittimato a ricorrere per cassazione avverso il decreto di liquidazione del compenso del curatore fallimentare, trattandosi di questione destinata ad incidere sulla commisurazione dell’impegno da lui assunto (Sez. 1, n. 15168/2021, Ferro, Rv. 661499-01).

Ed ancora, si è chiarito che la liquidazione del compenso spettante al curatore, a seguito di un fallimento chiuso con un concordato fallimentare, deve avvenire dopo l’esecuzione di quest’ultimo, tenendo conto anche dell’attività svolta dopo l’omologazione e del compito del curatore di sorvegliare l’adempimento del concordato (Sez. 1, n. 15168/2021, Ferro, Rv. 661499-02).

Infine, si è puntualizzato che il giudice, nella liquidazione del compenso al professionista, può limitarsi ad indicare quali elementi, tra quelli indicati nella relativa istanza, lo abbiano convinto ad assumere il provvedimento richiesto, senza doverli riportare tutti, essendo comunque tenuto in ottemperanza all’obbligo di motivazione a prendere in esame anche per implicito tutta la materia controversa (Sez. 1, n. 04713/2021, Amatore, Rv. 660516-01).

2.1. I reclami endoconcorsuali.

Due sono le pronunce salienti in tema.

La prima riguarda l’ambito del riparto fallimentare, con riferimento al quale si è evidenziato che, ai sensi dell’art. 110 l.fall., sia il reclamo ex art. 36 l.fall. avverso il progetto di riparto, predisposto dal curatore, anche parziale, delle somme disponibili, sia quello ex art. 26 l.fall. contro il decreto del giudice delegato che abbia deciso il primo reclamo, possono essere proposti da qualsiasi controinteressato, inteso quale creditore che, in qualunque modo, sarebbe potenzialmente pregiudicato dalla diversa ripartizione auspicata dal reclamante, ed in entrambe le impugnazioni il ricorso va notificato a tutti i restanti creditori ammessi alla ripartizione, potendo il difetto di integrazione del contraddittorio essere rilevato d’ufficio in ogni stato e grado del processo (Sez. 1, n. 00977/2021, Vella, Rv. 660204-01).

La seconda pronuncia attiene al decreto reso in sede di reclamo avverso il decreto di rigetto della richiesta di restituzione dei beni mobili con la procedura semplificata prevista dall’art. 87 bis l.fall., che si chiarisce non essere suscettibile d’impugnazione con ricorso straordinario per cassazione, trattandosi di un provvedimento privo dei caratteri della decisorietà e definitività ed inidoneo a precludere la tutela del richiedente nella diversa sede della verifica del passivo, tramite la domanda di cui all’art. 103 l.fall. (Sez. 1, n. 10833/2021, Amatore, Rv. 661063-01).

3. I pagamenti in costanza di fallimento e le azioni di inefficacia.

Importante la precisazione secondo cui l’art. 44, comma 1, l.fall., nel prevedere l’inefficacia, rispetto ai creditori, dei pagamenti eseguiti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento, costituisce attuazione dei princìpi della “par condicio creditorum” e della conservazione della massa attiva fallimentare spossessata in seguito alla dichiarazione di fallimento, per effetto dei quali le ragioni di tutti i creditori vengono soddisfatte paritariamente attraverso l’amministrazione, da parte del curatore, del patrimonio del fallito, senza alcuna interferenza da parte di quest’ultimo che vanificherebbe le finalità stesse della procedura di salvaguardia della concorsualità. Ne consegue che, nell’alveo dei pagamenti inefficaci, rientra ogni atto estintivo di un debito riferibile al soggetto fallito e comunque idoneo ad incidere sulla consistenza patrimoniale del patrimonio spossessato, ivi compresi i pagamenti relativi a debiti tributari effettuati dopo la dichiarazione di fallimento, per quando conseguenti a riscossione coattiva, constando l’obbligo dell’erario di restituire la somma incamerata e di insinuare al passivo il corrispondente credito (Sez. 5, n. 16958/2021, Leuzzi, Rv. 661606-01).

Una volta ritenuto improduttivo di effetti nei confronti della procedura ex art. 44 l.fall. l’atto traslativo dell’immobile già oggetto di assegnazione come casa familiare in favore del coniuge o del convivente affidatario di figli minori (o convivente con figli maggiorenni non economicamente autosufficienti), la declaratoria di inefficacia non travolge il diritto personale di godimento “sui generis” sorto in capo all’assegnatario, che, in quanto contenuto in un provvedimento di data certa, è suscettibile di essere opposto, ancorché non trascritto, anche al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell’assegnazione medesima, ovvero, qualora il titolo sia stato in precedenza trascritto, anche oltre i nove anni (Sez. 1, n. 00377/2021, Campese, Rv. 660361-01).

Il fermo amministrativo di cui all’art. 69 del r.d. n. 2440 del 1923 non è compatibile con il fallimento, atteso che finirebbe col derogare al divieto di frazionamento dei rapporti tra fallito e singoli creditori posto dall’art. 51 della legge fallimentare (r.d. n. 267 del 1942), salvo che non vi sia contestazione alcuna né sul credito dell’amministrazione finanziaria né su quello vantato dalla curatela e maturato prima del fallimento (Sez. 5, n. 34930/2021, Perrino, Rv. 663034-01).

3.1. Le azioni ex art. 66 l.fall.

Il discrimen tra revocatoria ordinaria e revocatoria fallimentare è stato delineato incisivamente dalla Corte. Si è precisato, infatti, che, mentre l’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria, con riguardo ad un atto dispositivo di un bene, implica una mera declaratoria di inefficacia dell’atto stesso, che consente al creditore vittorioso di aggredire, con successiva esecuzione individuale, l’oggetto dell’atto revocato, l’accoglimento della revocatoria fallimentare, che si inserisce in una procedura esecutiva già in atto e caratterizzata dall’acquisizione di tutti i beni che devono garantire le ragioni dei creditori, non comporta soltanto l’acquisizione del bene alla massa attiva per il suo recupero alla funzione di garanzia ex art. 2740 c.c., ma conferisce anche al curatore, a cui compete, ai sensi dell’art. 31 l.fall., l’amministrazione del patrimonio del fallito, inclusi i beni sopravvenuti, il potere di apprensione del cespite per gestirlo nell’interesse della massa, oltre che per sottoporlo ad espropriazione (Sez. 3, n. 22153/2021, Di Florio, Rv. 662422-02).

È stato puntualizzato che l’azione revocatoria ordinaria esercitata dal curatore fallimentare, ai sensi dell’art. 66 l.fall., pur comportando una deviazione dalla “ordinaria” azione cd. “pauliana”, prevista dall’art. 2901 c.c., quanto a legittimazione, effetti, ed individuazione del foro competente, ne condivide i presupposti sostanziali, con la conseguenza che il curatore non deve provare in giudizio che l’atto in frode abbia determinato o aggravato lo stato d’insolvenza del debitore fallito, bensì che tale atto abbia integrato gli elementi dell’eventus damni, costituiti dalla consistenza dei crediti ammessi al passivo, dalla preesistenza delle ragioni creditorie rispetto al compimento dell’atto pregiudizievole e dal mutamento qualitativo e quantitativo del patrimonio del debitore per effetto di tale atto (Sez. 1, n. 36033/2021, Pazzi, Rv. 663282-01).

In tema di azione revocatoria ordinaria esercitata dal curatore di una società di capitali fallita, si è evidenziato che l’atto dispositivo con cui l’amministratore societario ha disposto di un proprio bene per il pagamento di un debito sociale non pregiudica la garanzia patrimoniale generica della società, in quanto l’adempimento del terzo, comunque eseguito col patrimonio personale, non depaupera il patrimonio sociale (Sez. 6-3, n. 14478/2021, Cricenti, Rv. 661571-01).

Conformemente a quanto statuito dalla Corte di Giustizia UE (con sentenza del 30 gennaio 2020 in causa C-394/18), si è chiarito che l’azione revocatoria ordinaria dell’atto di scissione societaria, pure se esercitata dal curatore fallimentare ex art. 66 l.fall., è sempre ammissibile, anche in concorso con l’opposizione preventiva dei creditori sociali ex art. 2503 c.c., in quanto la prima mira ad ottenere l’inefficacia relativa dell’atto per renderlo inopponibile al creditore pregiudicato, mentre la seconda è finalizzata a farne valere l’invalidità (Sez. 3, n. 02153/2021, Olivieri, Rv. 660392-01).

3.2. Le revocatorie fallimentari.

Nell’ottica nomofilattica, il curatore che abbia esercitato con successo l’azione revocatoria (fallimentare o ordinaria) della cessione del contratto, già facente capo al fallito, non può esercitare le facoltà previste dall’art. 72 l.fall. in relazione alla posizione contrattuale originaria, poiché l’accoglimento dell’azione revocatoria non restituisce al fallimento la pienezza della posizione negoziale ceduta, ma attribuisce la sola ed esclusiva legittimazione a procedere alla sua liquidazione (Sez. 1, n. 23485/2021, Ferro, Rv. 662314-01).

È stato inoltre evidenziato che nella consecuzione delle procedure concorsuali, la prima delle quali sia l’abrogata amministrazione controllata e l’ultima una procedura il cui presupposto oggettivo sia costituito dallo stato d’insolvenza (nella specie un’amministrazione straordinaria), il computo a ritroso del periodo sospetto di cui all’art. 67, comma 1, l.fall., ha inizio dalla data del decreto di ammissione all’amministrazione controllata e non da quella domanda (Sez. 1, n. 04482/2021, Terrusi, Rv. 660513-01).

Si è poi rilevato che il curatore del fallimento della società di persone è legittimato ad esperire l’azione evocatoria contro gli atti di disposizione del socio illimitatamente responsabile fallito, atteso che, nonostante la massa del fallimento della società sia distinta da quella del socio, l’accrescimento del patrimonio di quest’ultimo in conseguenza dell’accoglimento dell’azione produce risultati positivi anche a favore dei creditori della società, il cui credito si intende dichiarato per intero nel fallimento del socio ed è, pertanto, indifferente che il curatore promuova l’azione spendendo il nome del solo fallimento sociale o, viceversa, del solo fallimento del socio, posto che, in un caso o nell’altro, il passaggio in giudicato della sentenza emessa nel relativo giudizio fa stato nei confronti dei creditori di entrambe le masse (Sez. 6-1, n. 29284/2021, Fidanzia, Rv. 662644-01).

È stato puntualizzato che la stipulazione di un contratto di mutuo con la contestuale concessione di ipoteca sui beni del mutuatario, ove non risulti destinata a procurare a quest’ultimo un’effettiva disponibilità, essendo egli già debitore in virtù di un rapporto obbligatorio non assistito da garanzia reale, è revocabile, in presenza dei relativi presupposti, in quanto diretta, per un verso, ad estinguere con mezzi anormali la precedente obbligazione, per altro verso, a costituire una garanzia per il debito preesistente, dovendosi ravvisare il vantaggio conseguito dalla banca non già nella stipulazione del negozio in sé, ma nell’impiego dello stesso come mezzo per la ristrutturazione di un passivo almeno in parte diverso (Sez. 1, n. 04694/2021, Mercolino, Rv. 660570-01).

Il presupposto indispensabile per l’utile esercizio dell’azione revocatoria fallimentare ex art. 67, comma 1, n. 2, l.fall., o ex art. 67, comma 2, l.fall., è costituito dal fatto che l’atto revocando abbia avuto un riflesso negativo sul patrimonio del fallito o abbia comunque indebitamente alterato le regole della “par condicio creditorum” a fronte dell’insolvenza del debitore. Applicando tale principio di diritto, la S.C. ha ritenuto non revocabile l’accredito su di un conto corrente scoperto di un importo concesso al debitore da una banca a titolo di mutuo, ad estinzione e in sostituzione di un precedente credito chirografario di pari entità della stessa banca (Sez. 1, n. 36029/2021, Pazzi, Rv. 663281-01).

Nell’ambito di un’operazione di anticipo su fatture regolata in conto corrente, il concreto mancato riaccredito da parte della banca sul conto corrente ordinario del cliente della somma incassata dal terzo, debitore del proprio cliente, ed il suo utilizzo per estinguere pregresse passività del correntista costituiscono una modalità “anomala” di estinzione dell’obbligazione integrante una causa di revoca a norma dell’art. 67, comma 1, n. 2) l.fall. (Sez. 1, n. 19187/2021, Fidanzia, Rv. 663264-01).

Con riferimento agli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili, di cui all’art. 67, comma 1, n. 2 l.fall., non esistono in assoluto mezzi normali e mezzi anormali di pagamento, essendo la normalità e, specularmente, la anormalità delle caratteristiche che dipendono dalle pratiche commerciali in uso in un dato periodo di tempo e in una determinata zona di mercato (principio affermato per escludere che la delegazione di pagamento, in cui si sostanzia una cambiale tratta, non accettata dal trattario, possa essere considerata, di per sé, un mezzo anomalo di pagamento) (Sez. 6-1, n. 26241/2021, Dolmetta, Rv. 662507-01).

Al fine di verificare se il pagamento eseguito tramite assegno bancario ricada nel periodo sospetto, rileva non il momento in cui il titolo viene tratto o emesso, bensì quello in cui la somma da esso portata viene effettivamente riscossa (Sez. 6-1, n. 26242/2021, Dolmetta, Rv. 662601-01).

Sono soggetti a revocatoria fallimentare, se ricorrono i presupposti dell’art. 67, comma 2. l.fall., i pagamenti dei compensi che il liquidatore di una società ha eseguito in suo favore, non ricorrendo in tal caso né l’eccezione di cui all’art. 67, comma 3, lett. a) l.fall., che si riferisce ai pagamenti delle forniture di beni e servizi che hanno consentito all’imprenditore, poi fallito, di esercitare l’attività oggetto della sua impresa; né l’eccezione di cui all’art. 67, comma 3, lett. f) l.fall., che si riferisce ai pagamenti eseguiti a favore dei soggetti costituenti la forza lavoro dell’impresa, non a quelli che il liquidatore si attribuisce preferendo se stesso agli altri creditori della società, in violazione della “par condicio creditorum” (Sez. 6-1, n. 26244/2021, Dolmetta, Rv. 662602-01).

Ancora in tema di revocatoria fallimentare, la speciale causa di esenzione prevista dall’art. 10 del d.lgs. n. 122 del 2005 per gli immobili “da costruire” (per tali dovendo intendersi, ex art. 1, lett. d), del d.lgs. cit., gli “immobili per i quali non sia stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare o la cui costruzione non risulti essere stata ultimata versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità”) implica che il manufatto non sia stato oggetto di completamento e sia ancora da ultimare, irrilevante essendo la mera mancanza del certificato di agibilità, giacché essa non rileva in sé, ma quale sintomo, in negativo, della impossibilità che il bene stesso possa considerarsi definito nei suoi aspetti identificativi, perché necessitante di ulteriori e non compiuti interventi edilizi (Sez. 6-1, n. 22603/2021, Ferro, Rv. 662378-01).

In tema di revocatoria fallimentare di pagamenti, ai fini dell’accertamento della conoscenza dello stato di insolvenza, il giudice può avvalersi di presunzioni semplici, valorizzando le fonti di conoscenza rappresentate da una campagna di stampa nei confronti dell’imprenditore insolvente, con una valutazione in concreto delle sue caratteristiche, ovvero del numero delle notizie, della rilevanza nazionale e della dovizia di particolari narrati (Sez. 1, n. 23650/2021, Caradonna, Rv. 662337-01).

L’accoglimento della domanda di revocatoria fallimentare riguardante una somma ricevuta dal fallito determina un credito della massa che non può quindi essere opposto in compensazione dal curatore, attraverso l’eccezione di “revocatoria incidentale”, con i crediti vantati verso il fallito in sede di ammissione allo stato passivo (Sez. 1, n. 22666/2021, Ferro, Rv. 662001-01).

4. I rapporti pendenti.

Di grande impatto dogmatico una pronuncia intervenuta in tema di leasing finanziario. A tenore di essa la disciplina di cui all’art. 1, commi 136-140, della l. n. 124 del 2017 non ha effetti retroattivi, sicché il comma 138 si applica alla risoluzione i cui presupposti si siano verificati dopo l’entrata in vigore della legge stessa; per i contratti anteriormente risolti resta valida, invece, la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, con conseguente applicazione analogica, a quest’ultima figura, della disciplina dell’art. 1526 c.c., e ciò anche se la risoluzione sia stata seguita dal fallimento dell’utilizzatore, non potendosi applicare analogicamente l’art. 72 quater l.fall. (Sez. U, n. 02061/2021, Vincenti, Rv. 660307-01).

L’art. 74 l.fall., che contempla la possibilità di pagare in prededuzione anche le prestazioni effettuate prima dell’inizio della procedura concorsuale, in deroga al principio generale di cui all’art. 2741 c.c., è norma eccezionale inapplicabile al contratto di locazione, il quale invero non rientra tra i rapporti negoziali che ex art. 72 l.fall. si considerano sospesi all’atto della dichiarazione di fallimento, ma tra quelli che proseguono ex art. 80 l.fall. in costanza di procedura concorsuale, salvo recesso del curatore (Sez. 1, n. 16568/2021, Campese, Rv. 661591-01).

In caso di fallimento del locatore di immobile, quando il curatore esercita la facoltà di recedere dal contratto di locazione ai sensi dell’art. 80, comma 2, l.fall., al conduttore spetta un equo indennizzo la cui determinazione è rimessa al giudice delegato (Sez. 6-1, n. 19264/2021, Dolmetta, Rv. 661906-01).

Qualora l’impresa appaltatrice di opere pubbliche sia posta in amministrazione straordinaria, il suo contratto con la Pubblica Amministrazione si scioglie e il credito per le prestazioni eseguite fino a quel momento è immediatamente esigibile; la stazione appaltante non può sospendere i pagamenti all’appaltatrice e, segnatamente, non può adoperare il potere di sospensione dei pagamenti ex art. 118, comma 3, del d.lgs. n. 163 del 2006, che viene in rilievo solo in costanza di un rapporto di appalto con una impresa “in bonis”. Ne deriva che il credito del subappaltatore è un normale credito concorsuale da soddisfare nel rispetto della “par condicio” e dell’ordine delle cause legittime di prelazione (Sez. 6-1, n. 24472/2021, Ferro. Rv. 662430-01).

Con riferimento ai rapporti processuali pendenti alla data di dichiarazione di fallimento, è stato significativamente affermano che in caso di apertura del fallimento, l’interruzione del processo è automatica ai sensi dell’art. 43, comma 3, l.fall., ma il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all’art. 305 c.p.c. ed al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi degli artt. 52 e 93 l.fall. per le domande di credito, decorre dal momento in cui la dichiarazione giudiziale dell’interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, qualora non già conosciuta in ragione della sua pronuncia in udienza ai sensi dell’art. 176, comma 2, c.p.c., va notificata alle parti o al curatore da uno degli interessati o comunque comunicata dall’ufficio giudiziario (Sez. U, n. 12154/2021, Ferro, Rv. 661210-01).

Le norme sull’interruzione del processo sono rivolte a tutelare la parte nei cui confronti si sia verificato l’evento interruttivo e, pertanto, nel caso di unico processo con pluralità di parti, soltanto quella che dall’evento può essere pregiudicata può far valere l’irregolare prosecuzione del giudizio, non le altre parti, le quali nessun pregiudizio risentono dall’omessa interruzione del processo. Sulla base di questo principio, la S.C. ha dichiarato inammissibile la censura con cui una parte diversa da quella dichiarata fallita nel corso del giudizio di appello aveva denunciato la nullità della decisione, assunta dalla Corte di merito nonostante l’automatica interruzione del processo derivante dal predetto evento interruttivo (Sez. 3, n. 18804/2021, Iannello, Rv. 661714-01).

Con riferimento ai rapporti tra il processo di espropriazione forzata di crediti ed il procedimento fallimentare, si è affermato che il sopravvenuto fallimento del debitore pignorato, pur determinando, a norma dell’art. 51 l.fall., l’improseguibilità del processo esecutivo sospeso, non comporta l’improcedibilità del giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo. Tuttavia, dopo la riforma introdotta dalla l. n. 228 del 2012, si deve escludere la possibilità di dare ulteriore impulso all’accertamento endoesecutivo compiuto dallo stesso giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 549 c.p.c. (come modificato dall’art. 1, comma 20, n. 3, della l. n. 228 del 2012, e successivamente riformulato dall’art. 13, comma 1, lettera m-ter, del decreto legge n. 83 del 2015, conv., con modif., dalla l. n. 132 del 2015), perché, come affermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 172 del 10 luglio 2019, l’ordinanza emessa produce effetti ai soli fini del procedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione e non dà luogo alla formazione di un giudicato sull’an o sul quantum del debito del terzo nei confronti dell’esecutato (Sez. 3, n. 00272/2021, Tatangelo, Rv. 660181-01).

Il fallimento di una delle parti che si verifichi in pendenza del giudizio di cassazione non determina l’interruzione del processo ex art. 299 ss. c.p.c., trattandosi di procedimento dominato dall’impulso d’ufficio. Ne consegue che, una volta instauratosi il giudizio di cassazione con la notifica ed il deposito del ricorso, il curatore del fallimento non è legittimato a stare in giudizio in luogo del fallito, essendo irrilevanti i mutamenti della capacità di stare in giudizio di una delle parti e non essendo ipotizzabili, nel giudizio di cassazione, gli adempimenti di cui all’art. 302 c.p.c., il quale prevede la costituzione in giudizio di coloro ai quali spetta di proseguirlo (Sez. 1, n. 03630/2021, Mercolino, Rv. 660567-01).

L’intervenuta modifica dell’art. 43 l.fall. per effetto dell’art. 41 del d.lgs. n. 5 del 2006, nella parte in cui stabilisce che “l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo”, non comporta l’interruzione del giudizio di legittimità tempestivamente intrapreso, mediante rituale avvio del procedimento notificatorio, con l’invio della copia del ricorso per il tramite dell’ufficio postale, quand’anche la notifica si sia perfezionata presso il destinatario in una data successiva alla pronuncia della dichiarazione di fallimento di quest’ultimo (Sez. 5, n. 15928/2021, Leuzzi, Rv. 661427-01).

Ancora, con riferimento ai rapporti tributari in corso, si è chiarito che in tema di fallimento di società di capitali, qualora il curatore non rimanga inerte, bensì impugni l’atto impositivo inerente a crediti tributari i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente, non consta alcun residuo interesse del fallito a dolersi dell’omessa notifica dell’avviso di accertamento al fine di contestarlo (Sez. 5, n. 26506/2021, Leuzzi, Rv. 662287-01).

5. La formazione dello stato passivo.

In caso di fallimento, la domanda di ammissione al passivo di crediti tributari non richiede, per la sua ammissibilità, la notificazione al curatore o al fallito “in bonis” della cartella di pagamento emessa ex art. 36-bis del d.P.R. n. 602 del 1973, atteso che l’obbligazione tributaria sorge col verificarsi del presupposto di fatto al quale è collegata l’emersione del tributo e che la successiva attività accertativa dell’amministrazione finanziaria è meramente strumentale all’esercizio del diritto di credito cui attiene (Sez. 5, n. 06846/2021, Perrino, Rv. 660771-01).

I crediti tributari devono essere ammessi al concorso fallimentare indipendentemente dalla circostanza che il loro accertamento ovvero l’iscrizione a ruolo siano successivi all’apertura del fallimento, perché detti crediti nascono “ex lege” con l’avveramento dei relativi presupposti e non per l’effetto dell’atto amministrativo di accertamento, né tantomeno attraverso l’iscrizione a ruolo (Sez. 6-1, n. 08602/2021, Terrusi, Rv. 660954-01).

Ai fini dell’ammissibilità della domanda d’insinuazione proposta dall’agente della riscossione e della verifica in sede fallimentare del diritto al concorso del credito tributario o di quello previdenziale, non occorre che l’avviso di accertamento o quello di addebito contemplati dagli artt. 29 e 30 del d.l. n. 78 del 2010, conv., con modif., nella l. n. 122 del 2010, siano notificati, ma è sufficiente la produzione dell’estratto di ruolo (Sez. U, n. 33408/2021, Perrino, Rv. 662698-01).

Con riferimento all’insinuazione al passivo, la sentenza della Corte di appello che in sede di opposizione alla stima abbia determinato l’indennità di esproprio dovuta dal beneficiario dell’espropriazione, dichiarato fallito in corso di causa, non è opponibile alla massa fallimentare, poiché la liquidazione di tale indennità non si sottrae al principio di esclusività del concorso formale dei creditori, sancito dall’art. 52 l.fall., in forza del quale ogni pretesa deve essere fatta valere nelle forme previste per l’accertamento dello stato passivo (Sez. 1, n. 10111/2021, Pazzi, Rv. 661150-01).

In ragione dell’art. 96, comma 2, n. 3 l.fall., contenente una deroga al principio generale fissato dall’art. 52 l.fall. e alla “vis attractiva” della procedura concorsuale, il curatore è onerato di proporre o di proseguire il giudizio di impugnazione avverso la sentenza pronunciata prima della dichiarazione di fallimento, e non ancora passata in giudicato, che accerti l’esistenza di un credito nei confronti del fallito sicché, qualora l’onere sia disatteso e sulla sentenza in parola maturi il giudicato, il credito va ammesso al passivo senza alcuna riserva (Sez. 1, n. 02949/2021, Pazzi, Rv. 660563-01).

Il denaro, al pari degli altri beni fungibili, può essere rivendicato ai sensi dell’art. 103 l.fall., ove la consegna sia stata eseguita in virtù di un titolo che non prevedeva la facoltà d’uso da parte del depositario e la conservazione sia stata effettuata per massa separata, pur con mescolanza di beni dello stesso genere appartenenti ad altri soggetti, poiché la natura fungibile dei beni non è di ostacolo alla restituzione, che deve avvenire non rispetto alle stesse cose (“idem corpus”) ma con riferimento a cose di coincidente genere, qualità e quantità (Sez. 1, n. 02737/2021, Pazzi, Rv. 660560-01).

In presenza di una domanda di rivendica ex art. 103 l.fall. di beni fungibili (in particolare, somme di denaro), il giudice deve verificare che gli stessi rientrino nella disponibilità del fallimento per la consistenza dovuta, procedendo poi alla integrale restituzione, eventualmente previo scioglimento della comunione formatasi ex art. 939 c.c. sulla massa rinvenuta. Solo a fronte di una pluralità di domande di consistenza tale da non consentire la soddisfazione di tutti i rivendicanti, il giudice deve ripartire gli ammanchi tra questi ultimi, in ragione del concorso nelle perdite tra comproprietari, ma se manca una simile situazione, il rinvenuto deve essere sempre attribuito al rivendicante, non potendo essere rifiutata la restituzione di beni fungibili, rimasti nella disponibilità della procedura ma appartenenti a terzi (Sez. 1, n. 02737/2021, Pazzi, Rv. 660560-02).

In sede fallimentare, le cose mobili fungibili, compreso il denaro, sono rivendicabili solo se sia intervenuto un fatto che abbia determinato la loro individuazione ed evitato la confusione con il patrimonio del fallito, essendo ammissibile, nel caso di avvenuta confusione, soltanto una domanda di insinuazione allo stato passivo per un credito pari al valore dei beni appresi al fallimento (Sez. 1, n. 13511/2021, Caradonna, Rv. 661453-01).

Il creditore titolare di ipoteca su un bene compreso nel fallimento, a garanzia di un credito vantato verso un debitore diverso dal fallito, non deve avvalersi del procedimento di verificazione dello stato passivo al fine di conseguire le rendite maturate sull’immobile ipotecato (Sez. 6-1, n. 01067/2021, Vella, Rv. 660271-01).

In tema di riscossione delle cartelle di pagamento, la sospensione giudiziale ex art. 47 del d.lgs. n. 546 del 1992 non determina la necessità di una nuova iscrizione a ruolo per gli interessi nel frattempo maturati sull’importo della imposta dovuta, fondandosi tale pretesa sul principio generale di cui all’art. 1282, comma 1 c.c., secondo cui i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto in misura del tasso legale, salvo che la legge o il titolo disponga diversamente. Tuttavia, tali interessi, per la loro intrinseca accessorietà, sono della medesima natura del credito principale, sicché ove quest’ultimo sia stato ammesso al passivo del fallimento del debitore, in via definitiva, come credito chirografario, è illegittima la cartella di pagamento emessa, dopo la dichiarazione di fallimento, nei confronti del curatore, senza la dichiarazione, previa notificazione agli organi della società ancora presenti, di voler utilizzare il titolo dopo la chiusura del fallimento, per la successiva azione esecutiva nei confronti del debitore tornato “in bonis”, con riferimento ad interessi da sospensione giudiziale sorti dopo la dichiarazione di decozione, stante il principio generale di sospensione “endoconcorsuale” degli interessi su crediti chirografari, di cui agli artt. 54 e 55 l.fall. (Sez. 5, n. 27209/2021, D’Orazio, Rv. 662424-01).

In tema di compensazione fallimentare, qualora il controcredito del fisco rimanga nell’ambito del valore del credito, della stessa natura, azionato dalla curatela, non è necessario che esso sia insinuato al passivo, non esistendo preclusioni al riconoscimento della compensazione di cui sussistano i presupposti previsti dall’art. 56 l.fall. (r.d. n. 267 del 1942), mentre un’eventuale eccedenza del credito vantato dall’amministrazione finanziaria verso il fallito non potrà essere oggetto di sentenza di condanna nei confronti del fallimento, ma dovrà essere oggetto di autonomo procedimento di insinuazione al passivo, secondo le ordinarie regole del concorso (Sez. 5, n. 34930/2021, Perrino, Rv. 663034-02).

È inammissibile la domanda proposta dal creditore volta ad ottenere il mero accertamento di un credito da portare poi in compensazione con un diverso credito vantato dalla procedura nei suoi confronti; la domanda di ammissione al passivo, tipicamente descritta dall’art. 93 l.fall., implica, infatti, una richiesta di accertamento non solo dell’esistenza del credito dell’istante, ma anche dell’idoneità concorsuale del medesimo, ossia l’attitudine del credito a beneficiare del soddisfacimento concorsuale cui la procedura è volta (Sez. 6-1, n. 33475/2021, Pazzi, Rv. 663309-01).

In forza dell’art. 56 l.fall., applicabile anche ai crediti erariali, qualora sia richiesto all’amministrazione finanziaria il rimborso di un credito IVA formatosi durante lo svolgimento della procedura concorsuale, l’erario può opporre in compensazione solamente i crediti che siano sorti successivamente all’apertura della procedura medesima, con esclusione di quelli formatisi in epoca precedente, non potendo la compensazione ex art. 56 l.fall., quand’anche veicolata alla stregua di una eccezione riconvenzionale, avvenire fra un credito concorsuale, preesistente al fallimento, e un credito della massa, sorto dopo la dichiarazione di fallimento, il quale, facendo capo alla curatela, non è un credito del fallito, né condivide alcun rapporto di reciprocità con il credito concorsuale (Sez. 5, n. 16779/2021, Leuzzi, Rv. 661753 - 01).

Ancora in tema di ammissione al passivo, se il lavoratore abbia operato la cessione del quinto dello stipendio ad una società finanziaria, nella determinazione della misura dell’ammissione di quest’ultima al passivo del fallimento del datore di lavoro, deve tenersi conto dell’eventuale pagamento parziale operato nei suoi confronti dall’impresa terza assicuratrice del credito ceduto, poiché, non essendovi coincidenza tra il debito da restituzione del lavoratore e il debito della società fallita non può applicarsi l’art. 61 l.fall. (Sez. 1, n. 06708/2021, Ferro, Rv. 660794-01).

L’insinuazione al passivo dei crediti vantati dal locatore nel corso della procedura fallimentare non è soggetta al termine di decadenza previsto dall’art. 101, commi 1 e 4 l.fall., tuttavia tale insinuazione incontra un limite temporale, da individuarsi nel termine di un anno, come espressione dell’attuale sistema vigente nella materia concorsuale, decorrente dal momento in cui l’immobile è stato riconsegnato all’avente diritto, perché quest’ultimo non è tenuto ad insinuare il proprio credito in via frazionata, mano a mano che questo maturi, potendo attendere il momento della restituzione del bene, così da determinarne con certezza l’ammontare complessivo in vista dell’unica domanda di partecipazione al concorso (Sez. 1, n. 34730/2021, Iofrida, Rv. 663158-01).

Allorché il creditore abbia presentato una domanda ultratardiva, giudicata ammissibile da parte del tribunale per l’ignoranza dell’apertura del fallimento dovuta alla mancanza dell’avviso di cui all’art. 92 l.fall., la successiva domanda ultratardiva, con la quale lo stesso creditore intenda far valere un credito ulteriore, dovrà essere dichiarata inammissibile, ove l’interessato non fornisca una diversa ragione giustificativa del ritardo e sia trascorso un lasso di tempo superiore a quello necessario per valutare l’opportunità di proporre l’istanza, secondo un criterio di ragionevolezza la cui applicazione è rimessa al giudice di merito (Sez. 6-1, n. 12336/2021, Campese, Rv. 661430-01).

Il creditore che abbia presentato domanda di partecipazione al concorso fondata su un titolo di credito scaduto può per la prima volta in sede di opposizione allo stato passivo richiedere l’ammissione in forza del rapporto causale sottostante, non configurandosi una inammissibile “mutatio libelli” attesa l’identità di “petitum” e di “causa petendi” tra l’azione cartolare e quella causale (Sez. 6-1, n. 01826/2021, Fidanzia, Rv. 660450-01).

In tema di leasing traslativo, nel caso in cui, dopo la risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, intervenga il fallimento di quest’ultimo, il concedente che, in applicazione dell’art. 1526 c.c., intenda far valere il credito risarcitorio derivante da una clausola penale stipulata in suo favore è tenuto a proporre apposita domanda di insinuazione al passivo ex art. 93 l.fall., in seno alla quale dovrà indicare la somma ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto del contratto ovvero, in mancanza, allegare una stima attendibile del relativo valore di mercato all’attualità, onde consentire al giudice di apprezzare l’eventuale manifesta eccessività della penale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1526, comma 2, c.c. (Sez. U, n. 02061/2021, Vincenti, Rv. 660307-02).

La domanda di ammissione al passivo fallimentare postula, ai fini del riconoscimento del privilegio, la necessaria indicazione nel ricorso, ai sensi dell’art. 93, comma 3, n. 4 l.fall., dell’eventuale titolo di prelazione, conseguendo, all’eventuale omissione o assoluta incertezza del titolo in parola, la degradazione a chirografario del credito invocato (Sez. 1, n. 10990/2021, Ferro, Rv. 661279-01).

D’altro canto, la volontà del creditore che intenda ottenere l’insinuazione in collocazione privilegiata può desumersi, qualora manchi una espressa istanza di riconoscimento della prelazione, dalla chiara esposizione della causa del credito in relazione alla quale essa è richiesta, dovendosi determinare l’oggetto della domanda giudiziale alla stregua delle complessive indicazioni contenute in quest’ultima e dei documenti alla stessa allegati (Sez. 6-1, n. 25316/2021, Nazzicone, Rv. 662504-01).

Con riferimento all’ammissione al passivo fallimentare del credito del professionista che abbia redatto la relazione di cui all’art. 161, comma 3, l.fall., in presenza di eccezione di inadempimento sollevata dalla curatela, il giudice non può negare l’ammissione sul fondamento di una diversa ragione di inadempimento, trattandosi di eccezione rimessa all’esclusiva iniziativa di parte (Sez. 1, n. 15807/2021, Campese, Rv. 661812-01).

L’eccezione di prescrizione del credito tributario maturata successivamente alla notifica delle cartelle di pagamento, sollevata dal curatore in sede di ammissione al passivo fallimentare, è devoluta alla cognizione del giudice ordinario e non già di quello tributario, segnando la notifica della cartella il consolidamento della pretesa fiscale e l’esaurimento del potere impositivo (Sez. 6-1, n. 13767/2021, Mercolino, Rv. 661448-01).

Anche il procedimento di accertamento dello stato passivo riguardante le domande di insinuazione tardiva ai sensi dell’art. 101 l.fall., benché la loro trattazione sia frazionabile in più udienze, si conclude con il decreto di esecutività reso ex art. 96, ultimo comma, l.fall., unico e tipico provvedimento a contenuto precettivo, il cui termine per l’impugnazione decorre solo dalla sua comunicazione, mentre è inammissibile un’impugnazione del provvedimento di ammissione di singoli crediti perché in contrasto con l’esigenza di definizione unitaria di tutte le questioni concernenti lo stato passivo (Sez. 6-1, n. 03054/2021, Vella, Rv. 660577-02).

In sede di rivendica di beni nei confronti del fallimento, non può essere fatta valere l’usucapione dell’immobile intestato al fallito, riconosciuta da quest’ultimo in un accordo in sede di mediazione ma non trascritto, non essendo tale accordo opponibile al curatore che, rispetto ad esso, è terzo, né può essere richiesto alcun accertamento in via incidentale sull’intervenuta usucapione, poiché la verifica dello stato passivo coinvolge la massa dei creditori e non il fallito, che è invece parte necessaria nelle cause promosse ex art. 1158 c.c., essendo strutturalmente inidonea alla trattazione di un giudizio sull’usucapione (Sez. 6-1, n. 12736/2021, Dolmetta, Rv. 661503-01).

Poiché il giudice delegato può formare lo stato passivo e renderlo esecutivo con decreto depositato in cancelleria, solo dopo aver terminato l’esame di tutte le domande presentate tempestivamente, deve escludersi che, nel caso in cui il procedimento di verifica si protragga per più udienze, il giudice possa adottare all’esito di ciascuna di esse altrettanti decreti di esecutività, i quali, ove erroneamente emessi, devono ritenersi “tamquam non esset” e, perciò, privi di effetti ai fini della scadenza del termine per il deposito delle domande tardive di cui all’art. 101 l.fall. (Sez. 6-1, n. 03054/2021, Vella, Rv. 660577-01).

Ancora con riferimento alla formazione dello stato passivo, l’omissione della informazione sul diritto di proporre opposizione in caso di mancato accoglimento della domanda non costituisce motivo di nullità della comunicazione ex art. 97 l.fall. e non impedisce la decorrenza del termine di cui all’art. 99 l.fall., in quanto tale diritto nasce direttamente dalla legge e la comunicazione di copia dello stato passivo dichiarato esecutivo ha la mera natura di “provocatio ad opponendum” (Sez. 1, n. 33622/2021, Campese, Rv. 663108-01).

In tema di opposizione allo stato passivo, per verificare la tempestività del deposito del ricorso rispetto al termine indicato dall’art. 99 l.fall., è rilevante la data della comunicazione dell’esecutività dello stato passivo indicata dal creditore nel ricorso medesimo, ove il curatore costituendosi in giudizio non abbia svolto alcuna contestazione al riguardo (Sez. 6-1, n. 16306/2021, Pazzi, Rv. 661576-01).

Nella fissazione dell’adunanza dei creditori oltre il termine perentorio di centoventi giorni indicato dall’art. 16, comma 1, n. 4 l.fall. non può intendersi implicita l’estensione a diciotto mesi del termine per le insinuazioni tardive, ai sensi dell’art. 101, comma 1, l.fall., evocando le due norme altrettante distinte attività e postulando la seconda di esse la necessità di una proroga esplicita contenuta nella sentenza di fallimento e specificamente quantificata, senza alcun automatismo correlato con il rispetto del termine imposto dalla prima (Sez. 6-1, n. 16944/2021, Pazzi, Rv. 661508-01).

In sede di opposizione allo stato passivo, il giudice può accertare, ai sensi dell’art. 98 l.fall., la consecuzione di procedure tra il concordato preventivo e il successivo fallimento al fine di escludere, ex art. 168, comma 3, l.fall. la prelazione ipotecaria a favore di un credito concorsuale, ancorché la sentenza dichiarativa di fallimento non abbia accertato l’insolvenza del debitore già al tempo della sua ammissione alla procedura concordataria (Sez. 1, n. 24056/2021, Nazzicone, Rv. 662390-01).

Il lavoratore ha legittimazione alla domanda di ammissione per le quote di t.f.r. maturate dopo il 1° gennaio 2007 e non versate dal datore di lavoro fallito al Fondo di Tesoreria dello Stato gestito dall’INPS, ai sensi dell’art. 1, comma 755, della l. n. 296 del 2006, poiché il datore di lavoro non è un mero “adiectus solutionis causa” e non perde quindi la titolarità passiva dell’obbligazione di corrispondere il t.f.r. stesso (Sez. 1, n. 24510/2021, Amatore, Rv. 662550-01).

In sede di ammissione al passivo fallimentare deve riconoscersi alla Regione il privilegio in relazione al credito tributario vantato per la tassa automobilistica; il riconoscimento di tale privilegio, in tal caso, si giustifica per lo scopo di assicurare all’ente territoriale la provvista dei mezzi economici necessari per l’adempimento dei compiti istituzionali, con ciò saldandosi al concetto di “legge per la finanza locale” contenuto nell’art. 2752, ultimo comma, c.c., così da legittimare un’interpretazione estensiva e non analogica della norma alla Regione in forza della Comune appartenenza di quest’ultima, con comuni e province, alla categoria degli enti territoriali (Sez. 6-1, n. 24071/2021, Dolmetta, Rv. 662429-01).

La rimessione in termini di cui all’art. 153, comma 2, c.p.c., applicabile anche nell’ambito del procedimento di opposizione all’esclusione dallo stato passivo fallimentare, ex artt. 98 ss. l.fall., quale istituto che dà attuazione ai princìpi costituzionali di tutela delle garanzie difensive e del giusto processo, richiede la verifica della ricorrenza di due elementi e, cioè, dell’esistenza di un fatto ostativo esterno alla volontà della parte, non governabile da quest’ultima e dell’immediatezza della reazione diretta a superarlo prontamente (Sez. 6-1, n. 22342/2021, Dolmetta, Rv. 661991-01).

L’opposizione allo stato passivo, regolata dagli artt. 98 e 99 l.fall., non è equiparabile al giudizio di appello, ancorché abbia natura impugnatoria, sicché non si applicano le norme dettate per il procedimento di gravame e la mancata comparizione della parte opponente, tempestivamente costituitasi, in un’udienza successiva alla prima, non può dar luogo a pronuncia di improcedibilità dell’opposizione (Sez. 6-1, n. 21991/2021, Caiazzo, Rv. 662342-01).

L’iscrizione di ipoteca a garanzia dell’apertura di credito in conto corrente bancario costituisce causa di prelazione opponibile al fallimento del debitore, poiché la mancata annotazione delle erogazioni avvenute successivamente all’iscrizione, e nei limiti di essa, non muta gli effetti e l’estensione della garanzia, né assume rilievo condizionante sospensivo della stessa, ma determina solo l’onere per il creditore di provare l’esistenza e l’entità del credito ed anche la riferibilità dello stesso al titolo e al rapporto in base al quale l’iscrizione è stata effettuata (Sez. 6-1, n. 20618/2021, Ferro, Rv. 662035-01).

Qualora il creditore che abbia avanzato un’unitaria istanza di insinuazione al passivo in seguito proponga avverso l’esclusione di ciascuno specifico credito due distinti atti di opposizione allo stato passivo, contestuali ed espressamente riferentesi l’uno all’altro, il secondo cronologicamente esaminato dal giudice non è inammissibile sulla base del cd. principio di consumazione dell’impugnazione atteso che ciascuno si riferisce ad un singolo credito (Sez. 1, n. 15165/2021, Nazzicone, Rv. 661402-01).

Ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare del credito da compenso professionale del sindaco non incombe su quest’ultimo l’onere di dimostrare di avere agito con la prescritta diligenza, spettando, di contro, al curatore che sollevi l’eccezione di inadempimento della prestazione di “facere”, l’allegazione di uno specifico comportamento negligente e la doverosità della condotta non tenuta in relazione al mandato ricevuto (Sez. 1, n. 13207/2021, Tricomi L., Rv. 661392-01).

La domanda di insinuazione al passivo fallimentare proposta da uno studio associato fa presumere l’esclusione della personalità del rapporto d’opera professionale da cui quel credito è derivato e, dunque, l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento del privilegio ex art. 2751 bis n. 2 c.c., salvo che l’istante dimostri che il credito si riferisca ad una prestazione svolta personalmente dal professionista, in via esclusiva o prevalente, e sia di pertinenza dello stesso professionista, pur se formalmente richiesto dall’associazione professionale (Sez. 1, n. 10977/2021, Vella, Rv. 661182-01).

Con riferimento all’impugnazione dello stato passivo ex art. 98 l.fall., ancorché la prova della tempestività del ricorso debba essere obbligatoriamente resa con modalità telematiche, il ricorso medesimo non incorre nella sanzione dell’inammissibilità qualora in virtù dell’irrituale produzione di documenti in forma cartacea possa reputarsi comunque assicurato ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c., il raggiungimento dello scopo, rappresentato dalla costituzione di un contatto tra la parte e l’ufficio giudiziario dinanzi al quale la controversia è stata instaurata (Sez. 1, n. 09464/2021, Amatore, Rv. 661178-02).

La verifica della tempestività dell’opposizione ex art. 98 l.fall. è questione rilevabile d’ufficio, indipendentemente dall’eccezione di parte e dalla eventuale contumacia del curatore, ed è pertanto dovere del giudice controllare la data di ricezione dell’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione dello stato passivo allegata al fascicolo fallimentare (previa sua acquisizione) o al ricorso in opposizione (Sez. 1, n. 09464/2021, Amatore, Rv. 661178-01).

Il procedimento di opposizione allo stato passivo del fallimento si configura come un vero e proprio giudizio ordinario di cognizione in cui trovano applicazione le regole generali in tema di onere della prova; da ciò consegue che l’opponente è tenuto a fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto di credito, mentre grava sulla curatela l’onere di dimostrare l’esistenza di fatti modificativi, impeditivi o estintivi dell’obbligazione (Sez. 6-L, n. 05847/2021, Ponterio, Rv. 660687-01).

Nel giudizio di opposizione allo stato passivo, la decadenza dall’eccezione di prescrizione può essere rilevata d’ufficio dal giudice, anche se la parte interessata abbia sollevato tardivamente la relativa eccezione (Sez. 6-1, n. 01821/2021, Fidanzia, Rv. 660412-01).

Ai fini della revocazione ex art. 98 l.fall. dell’ammissione al privilegio di un credito allo stato passivo, non si ravvisano i presupposti dell’attività deliberatamente fraudolenta nelle sole deduzioni difensive contenute nella domanda di insinuazione che non si risolvano in prove false, essendo le stesse inidonee a ledere il diritto di difesa del curatore e ad impedire al giudice l’accertamento della verità (Sez. 1, n. 02284/2021, Ferro, Rv. 660559-01).

I crediti prededucibili non contestati per collocazione e ammontare, come tali esonerati, ai fini del loro soddisfacimento, dal procedimento di accertamento del passivo di cui al capo V del titolo II della legge fallimentare e dai relativi termini, sono quelli esplicitamente riconosciuti dagli organi della procedura nella loro sussistenza e nel loro ammontare, o comunque ammessi implicitamente alla stregua di un comportamento logicamente e giuridicamente incompatibile con l’intento di disconoscerli (Sez. 1, n. 34435/2021, Scotti, Rv. 663274-01).

Il creditore che reclami la proprietà dei beni acquisiti al fallimento, deducendo di averli venduti al fallito con patto di riservato dominio, è tenuto solo a provare il titolo in base al quale agisce, spettando al curatore provare che il prezzo sia stato integralmente pagato e che, dunque, la vendita abbia prodotto l’effetto reale del trasferimento della proprietà dei beni al compratore (Sez. 1, n. 36541/2021, Ferro, Rv. 663285-01).

La natura previdenziale delle prestazioni a carico del Fondo di Garanzia costituito presso l’INPS comporta per il lavoratore l’onere di formulare la domanda amministrativa, la quale può essere proposta solo dopo la verifica dell’esistenza e della misura del credito, in sede di ammissione al passivo fallimentare o della liquidazione coatta amministrativa, oppure in seguito all’infruttuoso esperimento dell’esecuzione forzata in base a titolo idoneo in ipotesi di datore di lavoro non assoggettabile a procedure concorsuali, e la cui presentazione, segnando la nascita dell’obbligo dell’ente previdenziale, non può essere assimilata a una condizione dell’azione, che potrebbe efficacemente sopravvenire nel corso del giudizio (Sez. 6-L, n. 15384/2021, Patti, Rv. 661677-01).

6. La liquidazione dell’attivo.

La Corte ha chiarito che in caso di vendita immobiliare effettuata direttamente dal giudice delegato, è valida l'offerta ribassata in misura non superiore al quarto del prezzo fissato nella relativa ordinanza, potendo il giudice, in caso di unicità di offerta, aggiudicare ugualmente il bene, ove sussistano i presupposti di cui all'art. 572, comma 3, c.p.c., norma compatibile con la disciplina della vendita fallimentare, che impone di dare conto nel relativo provvedimento della mancanza di serie possibilità di conseguire un prezzo superiore per effetto di una nuova vendita (Sez. 1, n. 23486/2021, Ferro, Rv. 662315-02).

Di rilievo anche la puntualizzazione secondo cui nell'ambito della vendita fallimentare, eseguita ex art. 107, comma 1, l.fall., il socio unico della controllante, tanto della fallita quanto dell'aggiudicataria, non può essere qualificato come debitore a cui rimane preclusa la partecipazione all'asta fallimentare, rilevando l'autonomia patrimoniale e la distinta personalità giuridica della società di capitali, quand'anche unipersonale, rispetto ai suoi soci o amministratori, ai quali non è riferibile il patrimonio nella titolarità dell'ente (Sez. 1, n. 02280/2021, Pazzi, Rv. 660522-01).

7. La chiusura del fallimento e l’esdebitazione.

Nel procedimento di esdebitazione del fallito, la domanda ed il decreto di fissazione dell'udienza innanzi al tribunale vanno notificati a tutti i creditori non integralmente soddisfatti, quali litisconsorti necessari, in applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2008, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo "in parte qua" l'art. 143 l.fall.; nondimeno, il litisconsorte pretermesso non potrà ritenere inefficace la pronuncia così emessa ma dovrà invece necessariamente proporre opposizione di terzo nella procedura fallimentare, restandogli preclusa ogni tutela, anche cautelare, avverso l'efficacia esecutiva o gli effetti esecutivi o accertativi derivanti dalla decisione "inter alios" non opposta sino al passaggio in giudicato della sentenza che riconosca la situazione come da lui dedotta. Nella specie, la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto inopponibile all'INPS, creditore concorrente non integralmente soddisfatto, il provvedimento di esdebitazione. (Sez. L, n. 34016/2021, Buffa, Rv. 662775-01).

La nomofilachia è intervenuta anche sul tema dei rapporti fra notifica della cartella di pagamento e chiusura del fallimento. È stato affermato che in tema di riscossione delle cartelle di pagamento, la sospensione giudiziale ex art. 47 del d.lgs. n. 546 del 1992 non determina la necessità di una nuova iscrizione a ruolo per gli interessi nel frattempo maturati sull'importo della imposta dovuta, fondandosi tale pretesa sul principio generale di cui all'art. 1282, comma 1, c.c., secondo cui i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto in misura del tasso legale, salvo che la legge o il titolo dispongano diversamente. Tuttavia, tali interessi per la loro intrinseca accessorietà sono della medesima natura del credito principale, sicché ove quest'ultimo sia stato ammesso al passivo del fallimento del debitore, in via definitiva, come credito chirografario, è illegittima la cartella di pagamento emessa, dopo la dichiarazione di fallimento, nei confronti del curatore, senza la dichiarazione, previa notificazione agli organi della società ancora presenti, di voler utilizzare il titolo dopo la chiusura del fallimento, per la successiva azione esecutiva nei confronti del debitore tornato "in bonis", con riferimento ad interessi da sospensione giudiziale sorti dopo la dichiarazione di decozione, stante il principio generale di sospensione "endoconcorsuale" degli interessi su crediti chirografari, di cui agli artt. 54 e 55 l.fall. (Sez. 5, n. 27209/2021, D’Orazio, Rv. 662424-01).

Di non poco momento altra puntualizzazione in tema di riabilitazione fallimentare, essendosi evidenziato che le condizioni per l'ammissione al beneficio previste dall'art. 142, comma 1, n. 5) e 6), l.fall. sono tra loro alternative, cosicché ove il fallito abbia ottenuto la riabilitazione in relazione a uno dei reati previsti dal citato n. 6), la condotta ivi ascritta non può essere riconsiderata dal giudice fallimentare per denegare la riabilitazione ai sensi del precedente n. 5) (Sez. 1, n. 24509/2021, Amatore, Rv. 662392-01).

Si è poi precisato che il rinvio compiuto dall'art. 165, comma 2, all'art. 39 l.fall. - il cui terzo comma prevede che la liquidazione del compenso finale avvenga "al termine della procedura" - comporta che, a seguito della chiusura, per qualsiasi causa, della procedura concordataria, il tribunale competente sulla regolazione del concorso abbia ancora il potere di provvedere alla liquidazione del compenso dovuto al commissario giudiziale, una volta che tutte le sue attività si siano concluse (Sez. 1, n. 15789/2021, Pazzi, Rv. 661500-01).

Utile la precisazione secondo cui la liquidazione del compenso spettante al curatore, a seguito di un fallimento chiuso con un concordato fallimentare, deve avvenire dopo l'esecuzione di quest'ultimo, tenendo conto anche dell'attività svolta dopo l'omologazione e del compito del curatore di sorvegliare l'adempimento del concordato (Sez. 1, n. 15168/2021, Ferro, Rv. 661499-02).

Significativo che il termine annuale per la presentazione della domanda di esdebitazione, ex art. 143 l.fall. debba intendersi, nella prospettiva del giudice di legittimità, previsto a pena di decadenza, per ragioni sia di certezza dei rapporti giuridici che di effettività del procedimento, caratterizzato da specifiche interlocuzioni con gli organi di una procedura ormai chiusa, chiamati ad esprimere il parere sulle condizioni previste dall'art. 142 l.fall. (Sez. 6-1, n. 01070/2021, Vella, Rv. 660410-01).

8. Il concordato fallimentare.

È stato chiarito che la disciplina in base alla quale le somme rivenienti dalla liquidazione dell'attivo ed assegnate, in sede di riparto, ai creditori irreperibili, sono versate, se da questi non reclamate, al Fondo Unico Giustizia, non vìola alcuna disposizione costituzionale né si pone in contrasto con l'art. 1 del Primo Protocollo aggiuntivo alla CEDU, in quanto tali somme, dopo l'assegnazione, fuoriescono dalla disponibilità del fallimento e non possono formare oggetto di alcun diritto né dei creditori rimasti insoddisfatti né, a maggior ragione, del debitore fallito o dell'assuntore del concordato fallimentare (Sez. 6-1, n. 36050/2021, Ferro, Rv. 663315-01).

Si è puntualizzato che il decreto di omologazione pronunciato in assenza di opposizioni, ai sensi dell'art. 129, comma 4, l.fall., non è legittimato alla presentazione del ricorso immediato per cassazione ex art. 111 Cost. il creditore che abbia ricevuto la comunicazione individuale del deposito del decreto ex art. 129, comma 2, l.fall. e che sia stato conseguentemente posto nelle condizioni di poter proporre opposizione (facoltà non esercitata) nel termine ex art. 129, comma 3, l.fall.; tale legittimazione spetta, pertanto, solo a quei soggetti potenzialmente interessati al decreto di omologa del concordato fallimentare che, pur pienamente identificabili dall'esame degli atti della procedura fallimentare, non abbiano ricevuto la comunicazione del decreto del giudice delegato riportante la proposta di concordato (Sez. 1, n. 19461/2021, Fidanzia, Rv. 662544-01).

Si è altresì precisato che l'assuntore del concordato fallimentare è legittimato a ricorrere per cassazione avverso il decreto di liquidazione del compenso del curatore fallimentare, trattandosi di questione destinata ad incidere sulla commisurazione dell'impegno da lui assunto (Sez. 1, n. 15168/2021, Ferro, Rv. 661499-01).

Utile è giunta la puntualizzazione secondo cui in tema d'imposta di registro, al decreto di omologa del concordato fallimentare, con intervento di terzo assuntore, deve essere applicato il criterio di tassazione correlato all'art.8, lett. a), della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, con commisurazione dell'imposta in misura proporzionale al valore dei beni e dei diritti fallimentari trasferiti e con esclusione, dalla base imponibile, del contestuale accollo dei debiti collegato a detta cessione dei beni fallimentari (Sez. 5, n. 11925/2021, Paolitto, Rv. 661258-01).

Si è poi affermato che la risoluzione del concordato fallimentare, ai sensi dell'art. 140, comma 3, l.fall., determina l'acquisizione della cauzione versata all'atto della domanda quale conseguenza del trasferimento a carico del proponente del rischio della mancata attuazione della proposta, sia nel caso di proposta formulata dal fallito che da un terzo assuntore, avendo detta cauzione la funzione di evitare iniziative fraudolente o dilatorie a supporto della serietà della proposta concordataria. Nell’occasione, la Corte ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva disposto la restituzione delle somme versate dal terzo assuntore a titolo di cauzione, nei limiti in cui non erano state utilizzate, affinché fossero poi i creditori a convenirlo in giudizio per la realizzazione delle garanzie (Sez. 1, n. 04697/2021, Mercolino, Rv. 660571-01).

Nel concordato fallimentare, benché manchi una previsione di carattere generale sul conflitto di interessi, deve essere applicato estensivamente il disposto dell'art. 127, comma 6, l.fall. a tutti i casi, anche non espressamente contemplati, in cui occorra neutralizzare ai fini del voto una situazione di contrasto tra l'interesse del singolo e quello comune della massa, come accade tra il creditore che abbia formulato la proposta di concordato e i restanti creditori del fallito. Ne deriva l'esclusione dal voto e dal calcolo delle maggioranze delle società che controllano la proponente o sono da essa controllate o sottoposte a comune controllo o si palesano correlate al soggetto che versa immediatamente in situazione di conflitto, in quanto la loro volontà è da esso condizionata o condizionabile (Sez. 1, n. 02948/2021, Pazzi, Rv. 660702-01).

9. Il concordato preventivo.

Numerose, more solito, le pronunce rilevanti in tema di concordato preventivo.

È stato chiarito che sono devolute alla giurisdizione ordinaria del tribunale fallimentare le controversie relative al mancato assenso dell'agenzia fiscale ad una proposta di trattamento dei crediti tributari ex art. 182-ter l.fall. inserita in una domanda di concordato preventivo, in ragione della prevalenza dell'interesse concorsuale su quello tributario (Sez. U, n. 35954/2021, Conti, Rv. 662944-01).

Sez. 1, n. 34437/2021, Fidanzia, Rv. 663275-01, ha puntualizzato che l'art. 168 l.fall., nel disporre la sospensione delle prescrizioni dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese, non prevede una sospensione generalizzata, riferita ai diritti di natura patrimoniale spettanti a tutti i creditori concordatari, ma limita l'effetto sospensivo in favore di coloro che hanno già intrapreso azioni esecutive e cautelari, che infatti, dalla stessa data, non possono più essere proseguite.

Sez. 1, n. 33594/2021, Vannucci, Rv. 663104-01, ha precisato che la domanda di concordato preventivo con riserva della presentazione della proposta, del piano e dei documenti indicati dall'art. 161, comma 2 e 3, l.fall., proposta dall'imprenditore nei cui confronti pende procedimento per la dichiarazione di fallimento in applicazione del sesto comma del medesimo art. 161, può dal tribunale essere dichiarata inammissibile all'esito del procedimento camerale previsto dal successivo art. 162, comma 2, prima dell'assegnazione del termine previsto dal decimo comma dell'art. 161, quando il ricorrente non abbia depositato, prima della decisione di inammissibilità, documenti qualificabili come bilanci relativi agli ultimi tre esercizi.

Sez. 1, n. 33594/2021, Vannucci, Rv. 663104-02, ha, inoltre, evidenziato che anche l'imprenditore persona fisica che presenti la domanda di cui all'art. 161, comma 6, l.fall., deve depositare dinanzi al tribunale documenti contabili relativi agli ultimi tre esercizi da lui redatti secondo struttura e caratteristiche assimilabili a quelle dei bilanci delle società di capitali, in particolare con riferimento all'osservanza dei princìpi generali dettati dagli artt. 2423 e 2423 bis c.c.

Sez. 1, n. 33364/2021, Campese, Rv. 663103-01, ha affermato che il rinvio disposto dall'art. 165, comma 2, l.fall. all'art. 39 della medesima legge, il cui terzo comma prevede che la liquidazione del compenso finale avvenga al termine della procedura, comporta che alla liquidazione del compenso invocato dal commissario giudiziale di un concordato preventivo ammesso, non giunto alla sua omologazione per il mancato raggiungimento delle necessarie maggioranze dei creditori ex art. 177 l.fall. e seguìto da dichiarazione di fallimento del debitore proponente la domanda concordataria, debba provvedere il tribunale quale giudice del concordato predetto, e non il giudice delegato del fallimento consecutivo.

Sez. 1, n. 33619/2021, Vannucci, Rv. 663107-01, ha ritenuto che nell'ipotesi in cui, respinta dal tribunale la proposta di omologazione del concordato, il decreto venga reclamato ai sensi dell'art. 183 l.fall. e poi riformato dalla corte di appello con l'omologa del concordato, il curatore del fallimento dichiarato nelle more, pure non essendo parte necessaria del relativo giudizio, ha la legittimazione ad impugnare per cassazione la decisione di secondo grado, al solo scopo di fare valere l'improcedibilità del ricorso teso all'omologazione, mentre Sez. 1, n. 33594/2021, Vannucci, Rv. 663104-03, ha considerato che in caso di domanda di concordato preventivo, presentata ai sensi del sesto comma dell'art. 161 l.fall., le scritture contabili che l'imprenditore è obbligato per legge a tenere devono da lui essere messe a disposizione del tribunale e del commissario giudiziale eventualmente nominato, in applicazione della norma appena richiamata, solo dopo l'assegnazione giudiziale del termine per il deposito della proposta di concordato, del piano e dei documenti, di cui al secondo e terzo comma del medesimo art. 161 l.fall.

Secondo Sez. 1, n. 32248/2021, Fichera, Rv. 662948-01, qualora il giudizio di omologa si svolga senza opposizioni, la legittimazione a proporre ricorso per cassazione avverso il decreto che lo conclude spetta alle sole parti che vi abbiano partecipato, salva la sola ipotesi in cui con il ricorso si lamentino un vizio impeditivo di detta partecipazione o altro vizio processuale afflittivo del decreto anzidetto.

Sez. 6-1, n. 31659/2021, Falabella, Rv. 662740-01, ha reputato invece che le domande del debitore volte a far accertare se i creditori concordatari abbiano il diritto di esigere i loro crediti in sede di esecuzione del concordato, nel caso in cui questi siano oggetto di contestazione giudiziale, non rientrino nella competenza funzionale del tribunale che ha omologato il concordato, bensì in quella dell'ufficio giudiziario individuato in base agli ordinari criteri di competenza per valore e territorio.

Sez. 5, n. 31013/2021, Perrino, Rv. 662786-01, ha esplicitato che nel caso di notificazione di una cartella di pagamento prima della pubblicazione della domanda di concordato preventivo nel registro delle imprese, la successiva apertura della procedura concordataria non comporta la nullità della cartella ma l'improseguibilità dell'esecuzione, in ragione dello stato di quiescenza che si determina per effetto della proposizione della domanda concordataria, e tale quiescenza è destinata a protrarsi sino a quando il decreto di omologazione sia divenuto definitivo, per poi cessare con la riespespansione della facoltà del creditore di ridare impulso all'iniziativa già intrapresa, mentre Sez. 6-1, n. 29289/2021, Fidanzia, Rv. 662932-01, ha escluso l’obbligatorietà, nel giudizio di impugnazione avverso la declaratoria di risoluzione del concordato preventivo e di fallimento, dell'intervento del pubblico ministero a norma dell'articolo 70 n. 5 c.p.c., poiché tale partecipazione era prevista dalla disciplina previgente solo per il giudizio di omologazione di cui all'articolo 132 l.fall. (norma poi abrogata dal d.lgs. n. 5 del 2006).

In ambito tributario, Sez. 5, n. 26515/2021, Catallozzi, Rv. 662280-01, ha rilevato che in tema di detrazione dell'IVA, sussiste il diritto alla detrazione dell'imposta addebitata a titolo di rivalsa, sia pure per un'operazione non effettivamente posta in essere, là dove il cedente dei beni o il prestatore dei servizi abbia provveduto a versare integralmente l'imposta indicata nella relativa fattura in esecuzione di una transazione fiscale conclusa nell'ambito di una procedura di concordato preventivo, atteso che, in tale modo, risulta definitivamente eliminato il rischio di perdita di gettito fiscale.

Sez. 1, n. 24056/2021, Nazzicone, Rv. 662390-01, si è peritata di precisare che in sede di opposizione allo stato passivo, il giudice può accertare, ai sensi dell'art. 98 l.fall., la consecuzione di procedure tra il concordato preventivo e il successivo fallimento al fine di escludere, ex art. 168, comma 3, l.fall., la prelazione ipotecaria a favore di un credito concorsuale, ancorché la sentenza dichiarativa di fallimento non abbia accertato l'insolvenza del debitore già al tempo della sua ammissione alla procedura concordataria, laddove Sez. 1, n. 22442/2021, Solaini, Rv. 661994-01, ha ribadito che il decreto con cui il tribunale dichiara l'inammissibilità della proposta di concordato, ex art. 162, comma 2, della l.fall. (eventualmente, anche a seguito della mancata sua approvazione, ai sensi dell'art. 179, comma 1) ovvero revoca l'ammissione alla procedura di concordato, ai sensi dell'art. 173, senza emettere consequenziale sentenza dichiarativa del fallimento del debitore, non è soggetto a ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., non avendo carattere decisorio né essendo idoneo al giudicato, non decidendo nel contraddittorio tra le parti su diritti soggettivi.

Per Sez. 1, n. 21815/2021, Dolmetta, Rv. 661824-01, il decreto con il quale il tribunale in sede di omologazione provvede alla nomina di un liquidatore giudiziale diverso da quello indicato nella proposta approvata, è impugnabile per cassazione a norma dell'art. 111, comma 7, Cost., restando il potere di nomina del tribunale vincolato alla designazione fatta dal debitore, a condizione che essa sia rispettosa dei requisiti previsti dall'art. 28 l.fall. In tal senso, il Collegio si è posto in motivato contrasto con Sez. 1, n. 17949/2016, Di Virgilio, Rv. 641353-01.

Mentre da Sez. 1, n. 21190/2021, Dolmetta, Rv. 661973-01, si è posto in luce che l'art. 161, comma 2, lett. e), l.fall., prescrivendo la presentazione di un piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta, impone al debitore di esplicitare i passaggi per mezzo dei quali la prestazione può diventare concretamente fattibile ed i modi con cui egli intende raggiungere concretamente il risultato che la proposta consegna ai creditori, onde quest'ultima deve considerarsi sempre sindacabile dal tribunale ove risulti implausibile ovvero manifestamente priva di una ragionevole "chance" di successo, Sez. 1, n. 20624/2021, Fidanzia, Rv. 661822-01, ha messo in evidenza che il portatore di una cambiale che eserciti l'azione causale ha l'onere di offrire il titolo in originale ai sensi dell'art. 66 del r.d. n. 1669 del 1933, anche nel caso in cui intenda soltanto precisare il credito davanti al commissario giudiziale del debitore ammesso alla procedura di concordato preventivo, essendo detta produzione intesa ad evitare la possibilità di azione da parte di altri creditori in via cambiaria, ovvero ad assicurare al debitore l'esercizio di eventuali azioni cambiarie di regresso.

In ambito di voto sulla proposta di concordato preventivo, Sez. 6-1, n. 20622/2021, Ferro, Rv. 662036-01, ha precisato che il creditore che intenda esprimere il proprio consenso nelle forme previste dall'art. 178, comma 4, l.fall. per il tramite di un suo delegato non deve munire quest'ultimo del mandato speciale richiesto dall'art. 174 l.fall. per il conferimento della rappresentanza fisica in adunanza, poiché quest'ultima è destinata allo svolgimento di attività varie e articolate, non limitate alla mera manifestazione di voto che, invece, si risolve nel compimento di un atto negoziale unilaterale suscettibile di ratifica, la cui effettiva provenienza costituisce un accertamento in fatto riservato al giudice di merito.

Sul fronte della competenza in materia concordataria, Sez. 6-1, n. 19618/2021, Terrusi, Rv. 661662-01, ha messo in risalto che qualora l’impresa che intende accedere alla procedura abbia i requisiti per l'ammissione all'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, resta ferma la competenza del tribunale nel cui circondario si trova il suo centro degli interessi principali, poiché ai sensi dell'art. 27, comma 1, del d.lgs. n. 14 del 2019 (Codice della crisi d'impresa), la competenza dell'ufficio sede della sezione specializzata in materia di imprese è riservata ai soli procedimenti di regolazione della crisi o dell'insolvenza delle imprese che siano già state ammesse all'amministrazione straordinaria.

È stato perimetrato in modo ancor più definito il ruolo del commissario giudiziale da Sez. 1, n. 16562/2021, Vella, Rv. 661501-01 rilevando che l’organo commissariale è sprovvisto di legittimazione passiva nel procedimento di reclamo avverso il rigetto della domanda di omologazione del concordato preventivo, essendogli attribuiti compiti di vigilanza, informazione, consulenza ed impulso - complessivamente volte al controllo della regolarità del comportamento del debitore ed alla tutela dell'effettiva informazione dei creditori - ma non anche funzioni di amministrazione o gestione o rappresentanza del debitore o dei creditori, rispetto ai quali non riveste il ruolo di sostituto processuale. Nella specie, la Corte ha ritenuto inammissibile la costituzione nel procedimento ex art. 183 l.fall. della massa dei creditori di una società "in persona del commissario giudiziale".

Sul versante processuale, Sez. 1, n. 15807/2021, Campese, Rv. 661812-01, si è incaricata di precisare che in tema di ammissione al passivo fallimentare del credito del professionista che abbia redatto la relazione di cui all'art. 161, comma 3, l.fall., in presenza di eccezione di inadempimento sollevata dalla curatela, il giudice non può negare l'ammissione sul fondamento di una diversa ragione di inadempimento, trattandosi di eccezione rimessa all'esclusiva iniziativa di parte. Nella specie la curatela contestava al professionista di essere stato inadempiente per aver attestato una proposta concordataria palesemente inadeguata, mentre il tribunale aveva respinto la domanda di insinuazione al passivo in quanto l'ammissione al concordato era stata revocata per frode.

Sul tema dei compensi è intervenuta Sez. 1, n. 15789/2021, Pazzi, Rv. 661500-01, la quale ha chiarito che il rinvio compiuto dall'art. 165, comma 2, all'art. 39 l.fall. - il cui terzo comma prevede che la liquidazione del compenso finale avvenga "al termine della procedura" - comporta che, a seguito della chiusura, per qualsiasi causa, della procedura concordataria, il tribunale competente sulla regolazione del concorso abbia ancora il potere di provvedere alla liquidazione del compenso dovuto al commissario giudiziale, una volta che tutte le sue attività si siano concluse. In tal modo la pronuncia si è posta in motivato contrasto con Sez. 6-1, n. 16269/2021, Bisogni, Rv. 641318-01, a tenore della quale, per converso, nel caso di revoca dell'ammissione al concordato preventivo e di successiva dichiarazione di fallimento dell'imprenditore, la domanda di liquidazione del compenso del commissario giudiziale proposta nel corso del procedimento di concordato diviene improcedibile e deve essere riproposta, esaminata e decisa in sede di accertamento del passivo fallimentare.

Sez. 1, n. 14361/2021, Ferro, Rv. 661578-01, ha posto in evidenza che i provvedimenti di autorizzazione emessi dal giudice delegato o dal tribunale sono atti di volontaria giurisdizione, strumentali all'espletamento delle rispettive funzioni tutorie, di controllo e direzione della procedura e, pertanto, intrinsecamente privi di portata e contenuto decisori tali da incidere su diritti soggettivi degli eventuali interessati; in particolare, deve escludersi che siano impugnabili i provvedimenti assunti a norma dell'art. 169-bis l.fall., o l'omessa pronuncia su di essi, in quanto assorbiti dalla pronuncia d'inammissibilità del concordato, alla luce dell'interesse prevalente a verificare prima ed a porre fine poi ad un iter concordatario divenuto inutile per il difetto dei presupposti ex artt. 160 e 161 l.fall. della proposta stessa, mentre Sez. 1, n. 14050/2021, Di Marzio M., Rv. 661372-01, ha messo in risalto la legittimità del provvedimento con il quale il tribunale determini il compenso dovuto al professionista attestatore in misura inferiore rispetto a quella contrattualmente pattuita, allorché accerti un adempimento solo parziale della prestazione stabilita, come avviene nel caso in cui il professionista, verificata l'inattendibilità dei dati e la non fattibilità del piano, anziché elaborare un'attestazione negativa si limiti a presentare un parere sintetico sull'insussistenza dei presupposti per l'accesso alla procedura.

Di automatic stay si è occupata Sez. 1, n. 13514/2021, Fidanzia, Rv. 661491-01, precisando che il disposto dell'art. 168, comma 1, l.fall., che fa divieto ai creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive sul patrimonio del debitore, dalla data della presentazione del ricorso per l'ammissione al concordato fino al passaggio in giudicato della sentenza di omologazione, opera anche nei confronti della vendita forzosa della quota del socio moroso di s.r.l., disciplinata dall'art. 2466 c.c., perché comprende tutte le iniziative volte a conseguire il soddisfacimento coattivo del credito al di fuori della procedura concorsuale. Nell’occasione la Corte ha confermato la decisione di merito, che aveva dichiarato inefficace nei confronti del fallimento del socio moroso, all'epoca ammesso al concordato preventivo, la cessione della quota non liberata di quest'ultimo, operata dagli amministratori in favore di un altro socio della stessa s.r.l.

I confini dell’art. 168 l.fall. sono al centro anche di Sez. 1, n. 08996/2021, Nazzicone, Rv. 660901-01, ad avviso della quale il terzo comma della norma, nel disporre l'inefficacia delle ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni anteriori l'iscrizione nel registro delle imprese del ricorso per concordato preventivo rispetto ai creditori anteriori al concordato, non si applica qualora, rinunciata la domanda di concordato preventivo prima dell'ammissione al concordato medesimo, sia stato in un momento successivo dichiarato il fallimento dell'imprenditore, trovando l'inefficacia degli atti nell'ambito della procedura fallimentare la propria disciplina nell'art. 69-bis l. fall.

Sez. 1, n. 13224/2021, Falabella, Rv. 661368-01, ha avuto modo di evidenziare che il comma 4 dell'art. 160 l.fall., introdotto dal d.l. n. 83 del 2015, conv. con modif. dalla l. n. 132 del 2015, nel prevedere che, fatta eccezione per il concordato con continuità aziendale, la proposta deve assicurare in ogni caso il pagamento della soglia minima di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari, definisce l'ambito del controllo della fattibilità giuridica demandato al tribunale, imponendogli di verificare la funzionalità del piano rispetto al raggiungimento di un risultato che preveda necessariamente il soddisfacimento dei creditori chirografari nell'indicata percentuale. Nel caso di specie, la Corte ha cassato la pronuncia della corte di appello, secondo la quale dovevano essere i creditori, in sede di approvazione della proposta concordataria, a valutare l'idoneità di quest'ultima ad assicurare il pagamento della soglia minima dei crediti chirografari.

Sul perimetro del vaglio giudiziale in ambito concordatario è ritornata Sez. 1, n. 11216/2021, Pazzi, Rv. 661186-02, a tenore della quale, per poter ammettere il debitore alla procedura concordataria, il tribunale è tenuto ad una verifica diretta del presupposto di fattibilità del piano, con il limite, rispetto alla fattibilità economica (intesa come realizzabilità di esso nei fatti), della verifica della sussistenza, o meno, di un manifesta inattitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, desumibile caso per caso in riferimento alle specifiche modalità indicate dal proponente per superare la crisi, dovendo considerarsi gli elementi, significativi e rilevanti, originari o sopravvenuti, che influiscano sull'individuazione dell'entità del passivo e dell'attivo.

Sez. 1, n. 10982/2021, Ferro, Rv. 661269-01, ha posto in luce che il contratto preliminare d'acquisto stipulato dall'imprenditore istante non costituisce in sé una componente autonoma dell'attivo concordatario, attesi, per un verso la non attualità dell'effetto traslativo rimesso ad una successiva attività negoziale di entrambi i contraenti ovvero al passaggio in giudicato della sentenza costitutiva resa ex art. 2932 c.c., e, per altro verso, il rischio correlato alla successiva alienazione del bene a terzi da parte del promittente venditore avuto anche riguardo all'efficacia prenotativa triennale della trascrizione ex art. 2645-bis c.c.

Sul terreno dell’abuso dello strumento concordatario si è addentrata Sez. 6-1, n. 08982/2021, Terrusi, Rv. 660974-01, la quale ha riaffermato che la domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, ai sensi dell'art. 161 l.fall., presentata dal debitore non per regolare la crisi dell'impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile in quanto integra gli estremi di un abuso del processo, che ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l'ordinamento li ha predisposti.

Nello spinoso ambito delle prededuzioni, Sez. 1, n. 00639/2021, Fidanzia, Rv. 660377-01, ha puntualizzato che il credito del professionista che ha assistito il debitore non gode della prededuzione cd. "funzionale" ex art. 111, comma 2, l.fall., ove la procedura sia stata definita con un decreto d'inammissibilità pronunciato ai sensi dell'art. 162, comma 2, l.fall., essendo necessario che vi sia una procedura effettivamente aperta, e non la semplice presentazione di una domanda di concordato. Detta pronuncia, nel segnare una divaricazione rispetto all’orientamento sedimentato della nomofilachia in tema, conduceva successivamente alla presa di posizione contemplata da Sez. U, n. 42093/2021, Ferro, Rv. 663508-01 e Rv. 663508-02 la quale ha chiarito che il credito del professionista incaricato dal debitore di ausilio tecnico per l’accesso al concordato preventivo o il perfezionamento dei relativi atti è considerato prededucibile, anche nel successivo e consecutivo fallimento, se la relativa prestazione, anteriore o posteriore alla domanda di cui all’art. 161 l.fall., sia stata funzionale, ai sensi dell’art. 111, comma 2, l.fall., alle finalità della prima procedura, contribuendo con inerenza necessaria, secondo un giudizio ex ante rimesso all’apprezzamento del giudice del merito, alla conservazione o all’incremento dei valori aziendali dell’impresa, sempre che il debitore venga ammesso alla procedura ai sensi dell’art. 163 l.fall., ciò permettendo istituzionalmente ai creditori, cui la proposta è rivolta, di potersi esprimere sulla stessa; restano impregiudicate, da un lato, la possibile ammissione al passivo, con l’eventuale causa di prelazione e, per l’altro, la non ammissione, totale o parziale, del singolo credito ove si accerti l’inadempimento della obbligazione assunta o la partecipazione del professionista ad attività fraudatoria. 

Sez. 6-1, n. 22604/2021, Ferro, Rv. 662379-01, ha specificato che il credito del professionista che ha assistito il debitore per resistere in giudizio nei procedimenti di risoluzione del concordato e della conseguente dichiarazione di fallimento non gode della prededuzione cd. "funzionale" ex art. 111, comma 2, l.fall., ponendosi detta attività – in ogni caso di denunciato difetto genetico o funzionale della causa concordataria – in contrasto con l'interesse della massa dei creditori nella pronta instaurazione del regime concorsuale appropriato alla reale consistenza dell'impresa e alle effettive possibilità di gestione dell'insolvenza.

10. La liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria.

Sez. 1, n. 36544/2021, Ferro, Rv. 662951-01, ha evidenziato che in tema di ammissione al passivo della liquidazione coatta amministrativa di un'impresa assicuratrice, il credito del professionista previsto dal contratto d'opera professionale per l'ipotesi di recesso anticipato del cliente non gode del privilegio di cui all'art. 2751-bis, comma 1, n. 2, c.c., disposizione limitata alla sola retribuzione dovuta al professionista medesimo per gli ultimi due anni di prestazione, insuscettibile di applicazione analogica ad altre forme di remunerazione della prestazione intellettuale prestata.

Sempre in tema di ammissione al passivo della liquidazione coatta amministrativa, Sez. 6-1, n. 26396/2021, Vella, Rv. 662435-01, ha soggiunto che, nel caso di domanda cd. "supertardiva", il mancato avviso al creditore da parte del commissario liquidatore, ex art. 207 l.fall. integra una causa non imputabile del ritardo per il creditore, essendo onere del commissario dimostrare, ai fini dell'inammissibilità della domanda, che il medesimo creditore abbia comunque avuto notizia dell'apertura della procedura, restando peraltro irrilevante l'intervenuta pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del provvedimento che ordina la liquidazione.

Ancora in tema di ammissione al passivo, Sez. 1, n. 16548/2021, Ferro, Rv. 661588-01, ha precisato che ai fini dell'insinuazione del credito per compensi professionali il "dies a quo" di decorrenza degli interessi moratori corrisponde con la data di costituzione in mora del debitore, rappresentata dalla richiesta di partecipazione al concorso per lo stesso credito in linea capitale. La prestazione principale, attinente dall'origine ad un debito di valuta, genera, infatti, interessi moratori in ragione dell'inadempimento ex art. 1282 c.c., con computo in misura legale ex art. 1224 c.c. sin dalla messa in mora costituita dalla domanda d'ammissione.

Infine, nel medesimo ambito, Sez. 1, n. 16549/2021, Terrusi, Rv. 661589-01, ha posto in luce che il provvedimento del tribunale che decide sull'ammissione allo stato passivo di una società assicuratrice in liquidazione coatta amministrativa non è impugnabile in appello, ma ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 99, ultimo comma, l.fall., come modificato dal d.lgs. n. 5 del 2006, atteso che il combinato disposto degli artt. 194 e 209, comma 2, l.fall., nella formulazione successiva alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 169 del 2007 – che rinvia agli artt. 98, 99, 101 e 103 della stessa legge per il procedimento di formazione dello stato passivo nella l.c.a. - consente di ritenere che il riferimento all'appello contenuto nell'art. 255 c.ass. debba intendersi tacitamente abrogato.

Nel quadro delle opposizioni allo stato passivo della liquidazione coatta amministrativa, di rilievo l’affermazione resa da Sez. U, n. 16084/2021, Torrice, Rv. 661389-01, a tenore della quale la mancata notifica da parte dell'opponente del decreto con il quale il giudice istruttore designato fissa, ai sensi dell'art. 87, comma 3, del d.lgs. n. 385 del 1993, nel testo antecedente alle modifiche apportate dall' art. 1, comma 29, del d.lgs. n. 181 del 2015, l'udienza in cui i commissari e le parti devono comparire davanti a lui, e assegna il termine per la notificazione del ricorso e del decreto ai commissari e alle parti, non produce effetti preclusivi, allorché l'opponente non abbia avuto conoscenza del termine indicato per la notifica, perché la cancelleria non gli ha comunicato il decreto citato.

La medesima pronuncia contiene due importanti affermazioni di principio: quella secondo cui i versamenti del datore di lavoro nei fondi di previdenza complementare - sia che il fondo abbia personalità giuridica autonoma, sia che consista in una gestione separata del datore stesso - hanno natura previdenziale e non retributiva (Rv. 661389-02); l’altra in base alla quale il credito correlato alle contribuzioni dei datori di lavoro ai Fondi di previdenza complementare, non è applicabile il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi previsto dall'art. 16, comma 6, della l. n. 412 del 1991, in quanto non è corrisposto da un ente gestore di forme di previdenza obbligatoria, ma da un datore di lavoro privato (Rv. 661389-03). Infine nella stessa decisione (Rv. 661389-04), si ritrova anche la fondamentale precisazione per cui, in virtù degli artt. 55 e 201 l.fall. e dell'art. 83, comma 2, del d.lgs. n. 385 del 1993, il corso di interessi e di rivalutazione monetaria sui crediti non assistiti da privilegio deve arrestarsi alla data del provvedimento che disponendo la liquidazione apre il concorso fra i creditori.

Nel contesto tributario, Sez. 5, n. 21869/2021, Mele, Rv. 661939-01, ha evidenziato che in tema di imposta di registro sugli atti giudiziari, in caso di liquidazione coatta amministrativa intervenuta in corso di causa, nell'ipotesi di processo con pluralità di parti, ove l'evento interruttivo non sia stato dichiarato o documentato in giudizio ai sensi dell'art. 300 c.p.c., va escluso il concorso della LCA nel pagamento dell'imposta dovuta, ai sensi dell'art. 57 del d.P.R. n. 131 del 1986, in quanto la sentenza risulta validamente emessa nei confronti della società "in bonis".

Sempre in ambito fiscale si colloca Sez. 6-5, n. 15872/2021, Ragonesi, Rv. 661732-01, ad avviso della quale, in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), nell'ipotesi in cui il cespite sia compreso tra i beni di una società sottoposta a liquidazione coatta amministrativa, in pendenza della procedura sussiste l'obbligazione tributaria, ma non l'obbligo di denuncia e di pagamento dell'imposta, che rimangono sospesi in attesa della vendita dell'immobile, di conseguenza nessun accertamento può essere effettuato dall'Amministrazione comunale stante l'assenza di qualsivoglia condotta inadempiente.

Ed ancora, Sez. U, n. 02608/2021, Perrino, Rv. 660402-01, ha messo in risalto che in tema di circolazione dei crediti delle procedure concorsuali, posto che il credito Ires da eccedenza di imposta versata a titolo di ritenuta d'acconto nasce in esito e per effetto del compimento delle attività di liquidazione, di modo che la dichiarazione concernente il maxiperiodo concorsuale comporta soltanto la rilevazione di un credito già sorto, valida ed efficace tra cedente e cessionario è la cessione di quel credito operata dal commissario liquidatore di una società sottoposta a liquidazione coatta amministrativa antecedentemente alla cessazione della procedura, benché non rispondente ai requisiti formali stabiliti dal regolamento sulla contabilità generale dello Stato; laddove il contratto stipulato dopo la cessazione della procedura, che risponda a quei requisiti, si traduce in una riproduzione contrattuale, la quale costituisce un adempimento dovuto, funzionale a consentire al cessionario di far valere nei confronti del fisco il credito che gli è stato ceduto.

Di non minore pregnanza gli orientamenti espressi nel contesto dell’amministrazione straordinaria. Sez. 1, n. 12559/2021, Amatore, Rv. 661440-01, ha chiarito che alla chiusura della procedura ex l. n. 95 del 1979 (cd. legge Prodi) sono applicabili gli artt. 55 e 120 l.fall., atteso che, per quanto l'art. 201 l.fall. non contempli un espresso rinvio alla seconda delle norme evocate, gli effetti di una procedura concorsuale non possono permanere per un tempo indefinito dopo la sua chiusura, né esiste una disposizione che, diversamente da quanto stabilito per il fallimento, preveda in ragione della chiusura della procedura in parola l'estinzione dei debiti concorsuali rimasti insoddisfatti.

Sez. 1, n. 10973/2021, Pazzi, Rv. 661278-01, ha, dal canto suo, rilevato che l'art. 5 del d.lgs. n. 270 del 1999 non richiede al ricorrente la predisposizione di un piano di risanamento, né l'indicazione delle modalità che intende impiegare per perseguire l'obiettivo del recupero dell'equilibrio economico-finanziario, spettando al commissario giudiziale spiegare come la crisi sia superabile e a quello straordinario predisporre un programma di risanamento. Nell’occasione, la Corte ha cassato il decreto reiettivo dell'opposizione allo stato passivo fallimentare avanzata da un professionista in relazione al compenso per l'assistenza prestata all'imprenditore nelle fasi di preparazione e presentazione del ricorso finalizzato all'ammissione all'amministrazione straordinaria, compenso negatogli sull'asserito presupposto dell'insufficienza dell'attività prestata a motivo dell'inidoneità del piano predisposto a giustificare l'accesso alla procedura.

Sez. 1, n. 10972/2021, Pazzi, Rv. 661181-01, ha puntualizzato che ai sensi del combinato disposto degli artt. 15 e 47 del d.lgs. n. 270 del 1999 e dell'art. 39 l. fall., la disciplina per la determinazione del compenso spettante al commissario giudiziale va individuata, quanto ai parametri di liquidazione, in un decreto di carattere generale del Ministro dello sviluppo economico, cui rinvia l'art. 39 l.fall. mentre spetta al tribunale di cui all'art. 3 del d.lgs. n. 270 del 1999 determinare l'entità del compenso spettante a ciascun commissario, caso per caso, in relazione all'attività svolta.

Sez. 6-1, n. 00282/2021, Ferro, Rv. 660405-01, ha ritenuto che in tema di formazione dello stato passivo della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, alla cessione del credito stipulata dalla società sottoposta alla procedura si applica l'art. 7 della l. n. 52 del 1991 che, pur facendo testualmente riferimento agli effetti del fallimento del cedente, esprime un principio applicabile a tutte le procedure concorsuali.

Di rilievo anche l’osservazione resa da Sez. 6-1, n. 24472/2021, Ferro, Rv. 662430-01, secondo cui qualora l'impresa appaltatrice di opere pubbliche sia posta in amministrazione straordinaria, il suo contratto con la P.A. si scioglie e il credito per le prestazioni eseguite fino a quel momento è immediatamente esigibile; la stazione appaltante non può sospendere i pagamenti all'appaltatrice e, segnatamente, non può adoperare il potere di sospensione dei pagamenti ex art. 118, comma 3, del d.lgs. n. 163 del 2006, che viene in rilievo solo in costanza di un rapporto di appalto con un'impresa "in bonis". Ne deriva che il credito del subappaltatore è un normale credito concorsuale da soddisfare nel rispetto della "par condicio" e dell'ordine delle cause legittime di prelazione.

Nel concordato preventivo, ove non trova applicazione il cd. “spossessamento” previsto in ambito fallimentare dagli artt. 42 e 43 l.fall., con la conseguente previsione di inefficacia dei pagamenti eseguiti dal debitore dopo la dichiarazione di fallimento, ai sensi del successivo art. 44 l.fall., ma opera un diverso congegno in forza del quale il debitore conserva l’amministrazione dei suoi beni e l’esercizio dell’impresa sotto la vigilanza del commissario giudiziale, è legittimo, salvo che non ricorra l’ipotesi di frode di cui all’art. 173 l.fall., il pagamento effettuato dal “debitor debitoris” in esito ad un pignoramento presso terzi eseguito prima della pubblicazione della domanda di concordato preventivo, ove l’ordinanza di assegnazione di cui all’art. 533 c.p.c. sia anch’essa antecedente a detta pubblicazione, quantunque il pagamento venga invece effettuato successivamente ad essa (Sez. 1, n. 03850/2021, Di Marzio M., Rv. 660568-01).

In tema di competenza, Sez. 6-1, n. 19618/2021, Terrusi, Rv. 661662-01, ha ritenuto che in tema di concordato preventivo del debitore che abbia i requisiti per l'ammissione all'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, resta ferma la competenza del tribunale nel cui circondario si trova il suo centro degli interessi principali, poiché ai sensi dell'art. 27, comma 1, d.lgs. n. 14 del 2019 (Codice della crisi d'impresa), la competenza dell'ufficio sede della sezione specializzata in materia di imprese è riservata ai soli procedimenti di regolazione della crisi o dell'insolvenza delle imprese che siano già state ammesse all'amministrazione straordinaria.

Sez. 1, n. 10118/2021, Di Marzio M., Rv. 661067-01, ha asserito che in tema di insinuazione al passivo, il lavoratore dipendente ha diritto all'ammissione al concorso del datore di lavoro per le imposte trattenute da quest'ultimo e non versate all'Erario in forza di una norma che abbia rimesso il debito, perché nell'ambito delle obbligazioni tributarie il versamento delle imposte grava sul sostituto, ma il soggetto passivo dell'imposta rimane il sostituito con il cui denaro il tributo è soddisfatto. Nella specie, la Corte ha respinto il ricorso avverso la pronuncia d'appello che aveva confermato l'ammissione allo stato passivo di una società in amministrazione straordinaria, riconoscendo il diritto del suo dipendente ad ottenere il rimborso dell'Irpef a suo tempo trattenuta e non versata dal datore di lavoro che aveva aderito al condono ex l. n. 289 del 2002.

11. Il sovraindebitamento.

Poco incisa, a livello nomofilattico, la materia del sovraindebitamento ex l. n. 3 del 2012 e succ. modif.

Sez. 1, n. 12828/2021, Campese, Rv. 661926-01, si colloca sul versante processuale, venendo a chiarire che l'Organismo di composizione della crisi non è parte necessaria nel giudizio di omologa dell'accordo di composizione, né lo stesso assume una tale veste nel procedimento di reclamo o in quello, innanzi alla Corte di cassazione, avverso i provvedimenti emessi all'esito di quest'ultimo, oppure negli ulteriori giudizi che vertano sull'annullamento o la risoluzione dell'accordo predetto.

Sez. 6-1, n. 04270/2021, Terrusi, Rv. 660587-01, contiene la riaffermazione del principio non inedito – in quanto già contemplato da Sez. 1, n. 26328/2016, Didone, Rv. 642764-01 – secondo cui in tema di omologazione della proposta di composizione della crisi da sovraindebitamento di cui alla l. n. 3 del 2012, ai creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, per i quali sia prevista la soddisfazione non integrale, va assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali insiste la causa di prelazione, come attestato dall'organismo di composizione della crisi. Nell’occasione, la Corte ha cassato con rinvio il decreto che aveva respinto il reclamo avverso il diniego di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, assumendo che non era ammessa la falcidia parziale dei crediti muniti di privilegio generale.

DIALOGANDO CON IL MERITO 

  • impresa
  • fallimento

CAPITOLO XVI-bis

IL CONCORDATO IN CONTINUITÀ: PROBLEMI APPLICATIVI (IN ATTESA DEL NUOVO CODICE DELLA CRISI)

(di Alessandro Farolfi )

Sommario

1 Premessa. - 2 La posizione espressa dalla giurisprudenza di legittimità. - 3 Alcune recenti decisioni di merito. - Bibliografia

1. Premessa.

Il concetto di concordato in continuità non costituisce una novità in assoluto (in prima approssimazione può farsi riferimento all’impresa che all’esito dell’operazione di ristrutturazione dei propri debiti mantenga intatta la propria vitalità). Si deve però attendere il 2012 per vedere l’inserimento nel corpus della legge fallimentare dell’art. 186 bis che per primo ne contiene una definizione normativa, affermando che “quando il piano di concordato di cui all'articolo 161, secondo comma, lettera e) prevede la prosecuzione dell'attività di impresa da parte del debitore, la cessione dell'azienda in esercizio ovvero il conferimento dell'azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione, si applicano le disposizioni del presente articolo. Il piano può prevedere anche la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa”.

La nuova disposizione, che introduce una sorta di statuto speciale per il concordato in continuità, ha previsto alcune precauzioni a tutela dei creditori, potenzialmente pregiudicati dalla prosecuzione di un’attività di impresa deficitaria, che invece di produrre utili sia tale da consumare lo stesso attivo potenzialmente ritraibile dai creditori concorsuali in caso di liquidazione. Sono state così introdotti alcuni requisiti documentali ulteriori rispetto al mero deposito del piano:

a) la necessità di allegare alla proposta concordataria un business plan contente “un'analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attività d'impresa prevista dal piano di concordato, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura”;

b) la presenza di un’attestazione speciale, non necessariamente distinta cartolarmente da quella di cui all’art. 161, comma 3 l.fall., relativa al fatto che detta soluzione si incentri su una “prosecuzione dell'attività d'impresa prevista dal piano di concordato … funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori”.

Al contempo, il legislatore ha previsto una nuova ipotesi speciale di revoca dell’ammissione alla procedura concorsuale minore, ex art. 173 l.fall., nel caso in cui “l'esercizio dell'attività d'impresa cessa o risulta manifestamente dannoso per i creditori”.

A tali cautele specifiche si sono, peraltro, accompagnati alcuni incentivi normativi volti a favorire l’utilizzo di questa forma di concordato, anche in considerazione dei benefici indiretti di sistema che lo stesso comporta, sia in ordine al mantenimento delle realtà produttive investite dalla crisi, sia in ordine alla difesa dei livelli occupazionali. In estrema sintesi, vengono in considerazione:

a) la prosecuzione dei contratti stipulati con le pubbliche amministrazioni;

b) la possibilità di non alienare l’intero patrimonio, destinando alla liquidazione soltanto quei beni non funzionali alla prosecuzione dell’attività aziendale;

c) la possibilità di fruire di una moratoria annuale (recentemente portata a due anni dall’art. 20 del d.l. n. 118 del 2021) al fine di provvedere al pagamento dei creditori privilegiati per i quali non è prevista la vendita del bene che costituisce l’oggetto della garanzia specifica;

d) l’accesso a finanziamenti prededucibili, “funzionali a urgenti necessità relative all'esercizio dell'attività aziendale”, purché non altrimenti surrogabili dall’imprenditore e destinati, in caso di mancata concessione, a produrre “un pregiudizio imminente ed irreparabile all'azienda” (cfr. art. 182 quinquies l.fall.);

e) la possibilità di procedere, previa attestazione circa la loro essenzialità e funzionalità al miglior soddisfacimento dei creditori concorsuali, a “pagare crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi”, in evidente deroga rispetto ai principi della “par condicio creditorum”.

Si è tuttavia dovuto attendere l’introduzione di una diversa disposizione destinata specificamente al concordato liquidatorio, per assistere ad una spinta definitiva degli operatori circa l’utilizzo di proposte di ristrutturazione in continuità. Infatti, nell’intento di stringere le maglie operative del concordato con cessione dei beni, che certamente sino a quel momento rappresentava la procedura alternativa al fallimento più impiegata, nel 2015 è stato introdotto un nuovo ultimo comma all’art. 160 l.fall., prevedendo che “in ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari. La disposizione di cui al presente comma non si applica al concordato con continuità' aziendale di cui all'articolo 186-bis”.

Non è certo questo, per evidenti ragioni, il luogo per approfondire il dibattito giurisprudenziale e dottrinale che simile disposizione normativa ha sollevato negli scorsi anni. Può però in questa sede ricordarsi come la tesi fondata su di una interpretazione letterale della norma, e quindi più rigida nei suoi effetti applicativi, sia stata anche recentemente accolta, probabilmente con una parola definitiva, da Sez. 1, n. 13224/2021, Falabella, Rv. 661368-01, la quale ha ritenuto che il comma 4 dell'art. 160 l.fall., introdotto dal d.l. n. 83 del 2015, conv. con modif. dalla l. n. 132 del 2015, nel prevedere che, fatta eccezione per il concordato con continuità aziendale, la proposta deve assicurare in ogni caso il pagamento della soglia minima di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari, definisca l'ambito del controllo della fattibilità giuridica demandato al tribunale, imponendogli di verificare la funzionalità del piano rispetto al raggiungimento di un risultato che preveda necessariamente il soddisfacimento dei creditori chirografari nell'indicata percentuale.

Una volta espunta dall’area della convenienza, come tale riservata ai creditori, detta verifica di carattere giuridico-economico, l’interesse per il concordato in continuità, nelle sua forma diretta (cioè nella quale vi è una corrispondenza soggettiva fra l’imprenditore che entra in procedura e quello che prosegue l’attività all’esito della ristrutturazione) o indiretta (in cui prevale una idea oggettiva della continuità aziendale in sé, pur se affittata o ceduta a terzi) è apparsa ancora più evidente.

2. La posizione espressa dalla giurisprudenza di legittimità.

La distinzione cui si è appena accennato, fra continuità diretta ed indiretta, è stata specificamente oggetto della importante pronuncia resa da Sez. 1, n. 29742/2018, Campese, Rv. 651873, che ha avuto modo di affrontare, in termini specifici, il tema della compatibilità fra questa forma di concordato e l’affitto d’azienda ad un soggetto terzo, ritenendo che il concordato con continuità aziendale, disciplinato dall'art. 186 bis l.fall., è configurabile anche qualora l'azienda sia già stata affittata o si pianifichi debba esserlo, palesandosi irrilevante che, al momento della domanda di concordato, come pure all'atto della successiva ammissione, l'azienda sia esercitata da un terzo anziché dal debitore, posto che il contratto d'affitto - sia ove contempli l'obbligo del detentore di procedere al successivo acquisto dei beni aziendali (cd. affitto ponte), sia laddove non lo preveda (cd. affitto puro) - assurge a strumento funzionale alla cessione o al conferimento di un compendio aziendale suscettibile di conservare integri i propri valori intrinseci anche immateriali (cd. "intangibles"), primo tra tutti l'avviamento, mostrandosi in tal modo idoneo ad evitare il rischio di irreversibile dispersione che l'arresto anche temporaneo dell'attività comporterebbe.

Il problema della delimitazione della fattispecie non è stato tuttavia completamente risolto, in quanto se è vero che l’art. 186 bis richiamato consente la liquidazione di beni non strumentali rispetto alla prosecuzione dell’attività di impresa, non è tuttavia indicata una proporzione. Si è quindi creato un dibattito interno alla misura della prevalenza o meno, quantitativa o semplicemente qualitativa, in ordine ai flussi finanziari prodotti dalla prosecuzione dell’attività caratteristica, rispetto a quelli generati dall’attività liquidatorio. E tanto non in omaggio ad un astratto esercizio di tassonomia giuridica, quanto rispetto all’inquadramento della specifica proposta nell’una o l’altra forma concordataria, al fine di ritenerla sottratta oppure assoggettata all’obbligo di soddisfacimento minimo di cui al citato art. 160, ultimo comma, l.fall.

A tal proposito occorre altresì ricordare, almeno in sintesi, come l’art. 6 della l. n. 155 del 2017, contenente la “delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza”, abbia sul punto previsto quale criterio direttivo di delega che la disciplina del concordato con continuità aziendale debba applicarsi “alla proposta di concordato che preveda la continuità aziendale e nel contempo la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa, a condizione che possa ritenersi, a seguito di una valutazione in concreto del piano, che i creditori vengano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale”.

Nell’esercizio della delega contenuta nella l. n. 155 del 2017 è stato quindi emanato il nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, non ancora entrato in vigore (si ricorda in sintesi che il Codice è stato approvato con il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, quindi è stato profondamente modificato prima ancora della sua entrata in vigore con il c.d. correttivo di cui al d.lgs. 26 ottobre 2020, n. 147; l’art. 5, comma 1, del d.l. 8aprile 2020, n. 23, conv., con modif., dalla l. 5 giugno 2020, n. 40, ha poi rinviato l’entrata in vigore del nuovo corpus normativo al 1° settembre 2021, quindi il recente art. 1 del d.l. n. 118 del 2021 ha ulteriormente posticipato l’entrata in vigore al prossimo 16 maggio 2022).

Nonostante tale iter travagliato, un indirizzo interpretativo [ricordato in BROGI, 2020, 477] ha ritenuto che i principi contenuti nella citata legge delega, nonché in particolare l’art. 84 del CCI che ne costituisce attuazione (a tenore del quale, fra l’altro, si prevede che “nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta”), dovessero essere valorizzati nell’operazione ermeneutica di qualificazione della fattispecie. Tale proposta interpretativa, fatta propria anche da una parte della giurisprudenza di merito, non è stata tuttavia accolta da Sez. 1, n. 734/2020, Pazzi, Rv. 656520, alla cui stregua si è piuttosto ritenuto che il concordato preventivo, in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell'impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale, rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso dello strumento, dalla disciplina speciale prevista dall'art. 186-bis l.fall., che al comma 1 espressamente contempla anche detta ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito; secondo la S.C., quindi, la norma in parola non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnata una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una siffatta organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori.

In motivazione la decisione osserva come non possa più parlarsi, sul piano della qualificazione giuridica, di un concordato misto (nel quale cioè ad una componente aziendale che prosegue la propria attività si accompagna una liquidazione di taluni beni), posto che anche in tal caso deve ravvisarsi la fattispecie di cui all’art. 186 bis l.fall., in quanto tale ultima norma contempla espressamente la possibilità che il piano preveda "anche la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa", dovendosi perciò ritenere che la regola prevista dalla norma non riguardi la quantità delle porzioni a cui sia affidato un diverso destino (e la conseguente prevalenza dell'una rispetto all'altra in funzione delle risorse da devolvere alla soddisfazione dei creditori), ma la funzionalità di una porzione dei beni alla continuazione dell'impresa in uno scenario concordatario, secondo un criterio qualitativo piuttosto che quantitativo. La stessa decisione precisa, rivolgendosi agli operatori giuridici, che il parametro della funzionalità impone comunque all'interprete di indagare l'effettivo persistere di una continuità d'impresa che, sia pur in misura limitata o ridotta a taluni rami o sedi, assuma una sua autonoma rilevanza in termini economici ed a cui i beni sottratti alla liquidazione siano effettivamente strumentali.

3. Alcune recenti decisioni di merito.

Può senza dubbio ritenersi che nell’ultimo anno la giurisprudenza di merito, almeno nelle decisioni edite o che è stato possibile consultare, si sia fondamentalmente adeguata all’indirizzo espresso dalla citata ultima decisione del S.C. Può tuttavia rinvenirsi, nelle applicazioni concrete, il tentativo di delimitare con maggiore precisione, di fronte alle singole proposte concordatarie, quegli elementi minimali in presenza dei quali può ancora parlarsi realmente di una fattispecie in continuità e tanto sia al fine di evitare possibili abusi dell’istituto - come ammonito dagli stessi giudici di legittimità - sia al fine di escludere che una qualunque prosecuzione dell’attività aziendale, anche del tutto epidermica o apparente, costituisca il destro per evitare l’applicazione - altrimenti necessitata - di quella soglia minima di soddisfacimento dei creditori privi di cause di prelazione di cui al più volte ricordato art. 160, ultimo comma, l.fall. Il che determinerebbe un effetto deprimente la percentuale di recovery dei creditori senza che, al contempo, siano almeno conseguite in modo effettivo quelle finalità di difesa del tessuto produttivo e dei posti di lavoro nella cui direzione lo statuto speciale del concordato in continuità, diretta o indiretta, ha potuto affermarsi negli ultimi anni.

Secondo Trib. Bergamo, 14 luglio 2021, De Simone, ildirittodellacrisi.it, in tema di concordato misto, per trovare applicazione la disciplina della continuità aziendale è perciò necessario che la componente della prosecuzione dell’attività d’impresa sia minimamente significativa in termini qualitativi e quantitativi nel contesto del piano (si ricorda che l’organo giudicante ha valutato corretta l’impostazione di un concordato di natura liquidatoria essendo prevista nel piano la cessione dell’azienda in esercizio per meno del 10% in termini di controvalore monetario rispetto alle ulteriori disponibilità derivanti dalla liquidazione e dall’apporto di finanza esterna, non potendosi apprezzare neppure in termini qualitativi l’elemento della continuità, in assenza di dipendenti e di un know how da salvaguardare).

In precedenza, anche Trib. Ravenna, 8 marzo 2021, Farolfi, ivi, ha osservato che al fine di applicare la disciplina della continuità aziendale, la prosecuzione dell’attività d’impresa implica che ad una componente “quantitativa” collegata ai flussi, se ne affianchi sempre una “qualitativa”, che in quanto finalizzata al recupero dell’equilibrio economico-finanziario, alla difesa dei posti di lavoro e alla tutela degli intangibles aziendali, emerga quale profilo pregnante del turnaround aziendale e dell’operazione di ristrutturazione concordataria del debito. Nell’ammettere una società di costruzioni alla procedura concorsuale minore, in motivazione si è rilevato che se non può farsi una valutazione puramente quantitativa di “maggioranza”, certamente deve potersi compiere una valutazione “qualitativa”, nella quale sia possibile la valorizzazione dei flussi derivanti dalla prosecuzione dell’attività, ivi compresa la cessione in esercizio dell’azienda e la valorizzazione del magazzino inteso in senso lato (cioè come comprensivo di quelle rimanenze che caratterizzano lo svolgimento di una specifica attività economica, che può arrivare per le imprese che ricomprendono un oggetto sociale immobiliare anche nella cessione di beni immobili).

Da ricordare anche la recente decisione di Trib. Bologna, 5 luglio 2021, Remondini, ilcaso.it, per cui in sede di qualificazione del concordato con continuità aziendale, deve essere privilegiato un criterio funzionale più che quantitativo, essendo necessario verificare se i beni destinati alla continuazione dell'impresa abbiano la possibilità di essere organizzati ex art. 2555 c.c. per l'esercizio dell'impresa o di una sua parte. Il parametro della funzionalità impone perciò all'interprete di indagare l'effettivo persistere di una continuità d'impresa che, sia pur in misura limitata o ridotta a taluni rami o sedi, assuma una sua autonoma rilevanza in termini economici ed alla quale i beni sottratti alla liquidazione siano effettivamente strumentali (nel caso concreto si è perciò ritenuto che i beni destinati a permanere in capo al debitore nella prospettiva concordataria non integrassero un'effettiva attività imprenditoriale, poiché la stessa si limitava sostanzialmente alla percezione di utili ed a benefici auspicati dal consolidato fiscale).

Sul tema della prosecuzione dell’attività di impresa e della qualificazione dei flussi finanziari derivanti, cfr. Corte appello Milano, 14 gennaio 2021, Calendino, ivi, secondo cui l’utile derivante dalla continuità aziendale (c.d. surplus concordatario) non può essere considerato alla stregua della liquidità estranea al patrimonio del debitore, con la conseguenza che lo stesso deve essere distribuito secondo l’ordine delle cause legittime di prelazione. Simile impostazione si ritrova anche in Corte appello Venezia, 5 luglio 2021, Valle, ivi, la quale, sulla premessa che il realizzo di componenti attive generate dalla gestione quali sono i flussi provenienti dalla prosecuzione dell’impresa fanno parte del patrimonio del debitore, ha ritenuto che la destinazione di canoni di affitto dell’azienda, dividendi delle società partecipate e del maggior valore di realizzo dell’immobile al di fuori del rispetto delle cause legittime di prelazione, priva il piano concordatario del necessario presupposto della fattibilità giuridica. In precedenza, si deve però ricordare Trib. Verona, 8 maggio 2018, Bottazzi, inedita, secondo cui la destinazione degli utili derivanti dalla prosecuzione dell’attività di impresa al parziale pagamento dei creditori chirografari, a fronte di una soddisfazione non integrale dei creditori privilegiati, non può ritenersi ostacolata dagli artt. 2740 c.c. e 160, comma 2, l.fall., in quanto il rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione va verificato alla data di presentazione della domanda di concordato.

Va aggiunto, sia pure quale mero spunto prospettico, che sulla soluzione da dare a quest’ultimo quesito potrà incidere l’attività di attuazione della Direttiva UE, 20 giugno 2019, n. 1023, c.d. Insolvency, attualmente allo studio di un’apposita commissione ministeriale, i cui esiti dovranno essere recepiti prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice della crisi, anche attraverso la novellazione dello stesso.

Con riferimento, invece, al tema della moratoria nel pagamento dei creditori privilegiati, si può notare un certo confronto dialettico fra giurisprudenza di legittimità e merito. Va infatti considerato che la prima appare orientata a ritenere possibile una falcidia di carattere temporale anche ultrannuale (il riferimento è ovviamente l’art. 186 bis, comma 2, lett. c) l.fall. nel testo antecedente all’ultima modifica apportata dal d.l. n. 118 del 2021), compensata dal riconoscimento del diritto di voto commisurato al pregiudizio subito dal creditore. Le decisioni edite di primo grado, invece, appaiono schierate su posizioni più variegate.

Per esemplificare il dibattito in materia può ricordarsi Trib. Firenze, 13 novembre 2019, Scioscia, www.ilcaso.it, secondo cui è ammissibile, nel concordato preventivo in continuità, la previsione del pagamento oltre l’anno dei privilegiati, previa classazione del credito e diritto di voto per l’intero importo. Dall’altro lato, invece, la più recente decisione resa da Trib. Modena, 8 aprile 2020, Liccardo, ivi, secondo cui la fissazione del termine annuale ex art 186 bis l.fall. (biennale ex art 86 Codice della crisi) recepisce la necessità di assicurare termini certi di pagamento per i creditori con diritto di prelazione sui beni necessari alla continuazione dell'attività di impresa, in quanto non essendone prevista la liquidazione e con essa un termine, il loro pagamento deve necessariamente essere assicurato: i) all'omologazione; ii) ovvero laddove sia prevista una moratoria, nel termine massimo di un anno dall'omologazione, in ragione dell'andamento dell'esercizio imprenditoriale quanto a flussi di cassa, ovvero col ricavato del trasferimento o conferimento nella continuità indiretta previsti nel piano ex art 186 bis lett. b).

Probabilmente una possibile soluzione del contrasto potrà venire proprio dall’entrata in vigore del Codice della crisi, il cui art. 86, oltre a stabilire una moratoria biennale indica come calcolare il diritto di voto del creditore temporalmente falcidiato, stabilendo che lo stesso debba corrispondere non all’intero credito, ma alla differenza fra il credito maggiorato degli interessi di legge e il valore attuale dei pagamenti previsti nel piano calcolato alla data di presentazione della domanda di concordato, determinato sulla base di un tasso di sconto pari alla metà del tasso previsto dall'art. 5 del d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, in vigore nel semestre in cui viene presentata la domanda di concordato preventivo.

Infine, in ordine alla verifica della causa concreta del concordato in continuità aziendale, fondata sull’analisi dell’effettivo andamento dei flussi aziendali rispetto al piano predisposto dal debitore, può ricordarsi la recentissima decisione di Trib. Milano, 4 novembre 2021, Agnese, ivi, secondo cui a tal fine - in un caso nel quale il Commissario giudiziale aveva ipotizzato scostamenti al ribasso dei ricavi derivanti dall’andamento concreto della prosecuzione aziendale - è consentito al giudice fissare una data per l’adunanza dei creditori superiore a quanto indicato dall'art. 163, comma 2, n. 2, l.fall.

Bibliografia.

Brogi, Concordato con continuità e liquidazione dei beni: prevalenza qualitativa, prevalenza quantitativa o combinazione? in Fallimento, 2020, 4, 477;

Fabiani, Il concordato con piano di continuità dopo il codice della crisi, in Foro it., 2020, 2, V, 45;

Macagno, Natura del concordato, destinazione dei flussi della continuità, sindacato sul soddisfacimento dei creditori: il codice della crisi è ancora un sicuro riferimento interpretativo? in Fallimento, 2021, 7, 995.

PARTE QUINTA IL DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA --- SEZIONE PRIMA - IL RAPPORTO DI LAVORO PRIVATO E DI LAVORO PUBBLICO CONTRATTUALIZZATO

  • concorrenza
  • rapporti di lavoro e diritto del lavoro
  • cooperativa
  • retribuzione del lavoro
  • sindacato
  • lavoro
  • agenzia di lavoro temporaneo
  • cessazione d'azienda agricola
  • impresa familiare
  • sanzione amministrativa

CAPITOLO XVII

COORDINATE ERMENEUTICHE DI LEGITTIMITÀ IN MATERIA DI LAVORO PRIVATO

(di Antonella Filomena Sarracino )

Sommario

1 Questioni in materia di subordinazione. - 2 Il contratto di agenzia. - 3 La cessione d’azienda o di un suo ramo. - 4 I contratti a termine. - 4.1 La somministrazione irregolare e a termine. - 5 La retribuzione e il TFR. - 6 Modalità temporali di svolgimento della prestazione, ferie e festività. - 7 Il dovere di fedeltà ed il patto di non concorrenza. - 8 Obblighi, diritti e poteri del datore. - 9 Società cooperative e rapporti di lavoro. - 10 Sulla contrattazione collettiva e sulla interpretazione del contratto. - 11 Questioni specifiche derivanti dalla contrattazione collettiva. - 12 Le sanzioni amministrative. - 13 Sui rapporti di lavoro dei piloti aerei e dei marittimi. - 14 Riconoscimento della sottoscrizione in una scrittura privata, rinunzie e transazioni e prescrizione in tema di rapporto di lavoro. - 15 La nullità dei contratti di lavoro. - 16 In tema di risarcimento del danno. - 17 Assunzione obbligatoria dei disabili, collocamento in aspettativa per incarichi sindacali e condotta antisindacale del datore. - 18 Le dimissioni. - 19 Impresa familiare: la liquidazione della quota. - 20 Il contratto di solidarietà e l’integrazione salariale.

1. Questioni in materia di subordinazione.

La linea di discrimine tra lavoro subordinato ed autonomo, quanto al lavoro giornalistico, viene approfondito da Sez. L, n. 24078/2021, Cinque, Rv. 662157-02, nella quale si afferma, in linea di continuità con Sez. L, n. 22785/2013, Marotta, Rv. 628530-01, che la qualificazione del rapporto di lavoro intercorso tra le parti come autonomo o subordinato deve tener conto che, in tale ambito, il carattere della subordinazione risulta attenuato per la creatività e la particolare autonomia qualificanti la prestazione lavorativa, nonché per la natura prettamente intellettuale dell'attività stessa, con la conseguenza che, ai fini dell'individuazione del vincolo, rileva specificamente l'inserimento continuativo ed organico delle prestazioni nell'organizzazione d'impresa. Nella specie, relativa alla posizione di un praticante giornalista assunto con contratto di collaborazione, la S.C. ha ritenuto corretta la valutazione del giudice di merito, che non aveva dato eccessivo rilievo al non assoggettamento ad orario di lavoro fisso, ritenendo invece decisiva ai fini del ravvisato vincolo di subordinazione la sottoposizione del lavoratore al potere gerarchico dei suoi superiori, con riguardo sia alla presenza sul luogo di lavoro, sia alle modalità di esecuzione delle prestazioni, sottoposte alle direttive, ai controlli e alle correzioni dell'"art director" e del direttore.

Del pari, in tema di lavoro giornalistico, si è ritenuto che non vi è necessaria correlazione tra l'incarico di direttore responsabile di una testata giornalistica e l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato con l'azienda proprietaria della stessa, essendo a tal fine necessario che in capo alla medesima persona, chiamata ad assolvere detta funzione di carattere pubblicistico, si cumulino altri e diversi compiti, svolti in modo tale da dimostrare l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione dell'impresa, con le caratteristiche essenziali della subordinazione e della collaborazione (così, Sez. L, n. 22264/2021, Buffa, Rv. 662099-01, in conformità con quanto già affermato in Sez. L, n. 03647/2016, Rv. 638950-01).

In applicazione di detto principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva qualificato come autonomo il rapporto lavorativo tra la RAI e un noto giornalista televisivo, valorizzando la volontà espressa dalle parti nel contratto, la mancata attribuzione al giornalista di compiti di direttore di testata, l'assenza di prova di direttive datoriali nei suoi confronti e il mancato esercizio, da parte sua, di poteri direttivi o disciplinari nei confronti del personale addetto alla redazione.

Quanto alla prova della subordinazione tra persone legate da vincolo di parentela, Sez. L, n. 19144/2021, Boghetich, Rv. 661716-01, sullo stesso sentiero di Sez. L, n. 17992/2010, Bandini, Rv. 61431801, ha statuito che in tema di onere della prova relativo al rapporto di lavoro subordinato, ove la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative fra persone legate da vincoli di parentela o affinità debba essere esclusa per l'accertato difetto della convivenza degli interessati, non opera "ipso iure" una presunzione di contrario contenuto, indicativa dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato; ne consegue che la parte che faccia valere diritti derivanti da tale rapporto ha comunque l'obbligo di dimostrarne, con prova precisa e rigorosa, tutti gli elementi costitutivi e, in particolare, i requisiti indefettibili della onerosità e della subordinazione.

2. Il contratto di agenzia.

Centrale nell’analisi della giurisprudenza di legittimità dell’anno in rassegna è anche l’esame di una serie di questioni che attengono punti nodali del rapporto di agenzia.

Sez. L, n. 24478/2021, Piccone, Rv. 66226201, ha chiarito che in tema di contratto di agenzia, l'art. 1750, comma 4, c.c., nel porre la regola inderogabile secondo cui i termini di preavviso devono essere gli stessi per le due parti del rapporto, esprime un precetto materiale che vieta pattuizioni che alterino la parità delle parti in materia di recesso, con la conseguenza che è nullo per frode alla legge (art. 1344 c.c.) il patto che contempli, in aggiunta all'obbligo di pagare l'indennità di mancato preavviso, una clausola penale che, in quanto eccessivamente onerosa, incida in maniera significativa sulla normale facoltà di recedere di una delle parti, limitandola fortemente.

Quanto al recesso senza preavviso da parte dell’impresa preponente, Sez. L, n. 22246/2021, Lorito, Rv. 662030-01, ne individua le direttrici: in tema di cessazione del rapporto di agenzia, il recesso senza preavviso dell'impresa preponente è consentito nel caso in cui intervenga una causa che impedisca la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Pertanto, in caso di ricorso da parte dell'impresa preponente ad una clausola risolutiva espressa, che può ritenersi valida nei limiti in cui venga a giustificare un recesso "in tronco" attuato in situazioni concrete e con modalità a norma di legge o di accordi collettivi non legittimanti un recesso per giusta causa, il giudice deve comunque verificare anche che sussista un inadempimento dell'agente integrante giusta causa di recesso, tenendo conto delle complessive dimensioni economiche del contratto, dell'incidenza dell'inadempimento sull'equilibrio contrattuale e della gravità della condotta, da valutarsi in considerazione della diversità della posizione dell'agente rispetto a quella del lavoratore subordinato, in ragione del fatto che il rapporto di fiducia nel rapporto di agenzia assume maggiore intensità, stante la maggiore autonomia di gestione dell'attività.

In tema di rapporto di agenzia, Sez. L, 30457/2021, Lorito, Rv. 662758-01, precisa che l'istituto del preavviso concerne solo i rapporti a tempo indeterminato per i quali non è previsto il momento di cessazione del rapporto "inter partes"; in quelli a tempo determinato, invece, può essere proposta la domanda di risarcimento del danno da recesso "ante tempus" illegittimo. Il "petitum" delle due ipotesi, pur derivando da un fatto simile, è completamente diverso, sicché, proposta in primo grado la domanda di condanna al pagamento dell'indennità di preavviso, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella risarcitoria, senza che possa essere riqualificata del giudice nell'esercizio dei suoi poteri ufficiosi.

Sempre in tema di recesso, ma con riferimento alla verifica della legittimità dello stesso, Sez. L, n. 10028/2021, Balestrieri, Rv. 660983-01, ha ribadito (si veda anche la conforme Sez. L, n. 7019/2011, Rv. 616430-01) che ai fini della legittimità del recesso nel rapporto di agenzia, il preponente non deve fare riferimento, fin dal momento della comunicazione del recesso stesso, a fatti specifici, essendo sufficiente che di essi l'agente sia a conoscenza anche "aliunde". Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata sul rilievo che gli addebiti, benché non indicati nella lettera di recesso, fossero noti all'agente, al quale, come risultava dagli atti di causa e dalle incontestate deduzioni della società, i predetti addebiti erano stati contestati.

Del mancato assoggettamento dell’impugnativa del recesso del preponente da parte dell’agente al termine di decadenza di cui all’art. 32 della l. n. 183 del 2010 si è occupata Sez. L, n. 08964/2021, Cinque, Rv. 660865-01.

In tema di contratto di agenzia, ha sottolineato il giudice di legittimità, l'impugnativa del recesso del preponente da parte dell'agente non è assoggettata al termine di decadenza di cui all'art. 32, comma 3, lett. b), della l. n. 183 del 2010, sia perché la disposizione citata, eccezionale e di stretta interpretazione, richiama esclusivamente i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e non anche le altre forme di parasubordinazione di cui all'art. 409, comma 1, n. 3, c.p.c., utilizzando il termine "committente" che esula dal rapporto di agenzia, sia alla luce di un criterio interpretativo logico-sistematico, sulla base del duplice rilievo che il rapporto di agenzia può presentare forme organizzative incompatibili con la natura personale dei co.co.co. e che a carico dell'agente l'art. 1751 c.c. già prevede una particolare ipotesi di decadenza.

In difformità rispetto all’orientamento seguito in Sez. L, 09636/2003, Amoroso, Rv. 564315-01, Sez. L, n. 14062/2021, Negri Della Torre, Rv. 661253-01, quanto all'indennità sostitutiva del preavviso, spettante all'agente al momento della cessazione del rapporto, ha ritenuto applicabile la prescrizione quinquennale ex art. 2948, n. 5, c.c. e non quella ordinaria decennale, in ragione dell'esigenza di evitare le difficoltà probatorie derivanti dall'eccessiva sopravvivenza dei diritti sorti in occasione della chiusura del rapporto.

In limine - ponendosi in linea di continuità con Sez. L, n. 09676/1992, Roselli, Rv. 478585-01 - Sez. L, n. 10158/2021, Patti, Rv. 660979-01, ha distinto l’attività di propagandista di medicinali da quella dell’agente.

L'attività del propagandista di medicinali (definito anche propagandista scientifico o informatore medico-scientifico), che può svolgersi sia nell'ambito del rapporto di lavoro autonomo che in quello del rapporto di lavoro subordinato, consiste nel persuadere la potenziale clientela dell'opportunità dell'acquisto, informandola del prodotto e delle sue caratteristiche, ma senza promuovere (se non in via del tutto marginale) la conclusione di contratti. Dall'anzidetta attività differisce quella dell'agente, il quale, nell'ambito di un'obbligazione non di mezzi ma di risultato, deve altresì pervenire alla promozione della conclusione dei contratti, essendo a questi direttamente connesso e commisurato il proprio compenso.

3. La cessione d’azienda o di un suo ramo.

Con riferimento al diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro con il cessionario, quanto all’onere della prova, Sez. L, n. 06078/2021, Balestrieri, Rv. 660682-01, puntualizza che nell'ipotesi di cessione di ramo di azienda, cui consegue automaticamente, ex art. 2112 c.c., la prosecuzione del rapporto col cessionario, non spetta al lavoratore la prova di essere ricompreso tra i lavoratori ceduti all'interno del ramo di azienda trasferito, bensì è onere del cedente ovvero del cessionario dimostrare la non appartenenza del lavoratore al ramo ceduto, non essendo possibile la cessione di singoli lavoratori se non alle condizioni previste dall'art. 1406 c.c.

La nozione di trasferimento ex art. 2112 c.c., avuto riguardo ai cd servizi dematerializzati, è stata delineata in Sez. L, n. 07364/2021, Amendola F., Rv. 661038-02.

Ai sensi e per gli effetti dell'art. 2112 c.c., ha chiarito il giudice di legittimità, il trasferimento di ramo d'azienda (che si verifica allorquando venga ceduto un complesso di beni oggettivamente dotato di una propria autonomia organizzativa ed economica, funzionale allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi) è configurabile – come affermato dalla giurisprudenza della CGUE (sentenze 20 gennaio 2011, causa C-463/09; 6 marzo 2014, causa C-458/12; 13 giugno 2019, causa C-664/17) - anche quando oggetto della cessione sia un gruppo organizzato di dipendenti stabilmente assegnato a un compito comune senza elementi materiali significativi, purché tale entità preesista al trasferimento e sia in grado di svolgere quello specifico servizio prescindendo dalla struttura dalla quale viene estrapolata, in favore di una platea indistinta di potenziali clienti.

Nella specie, la S.C. ha quindi confermato la sentenza di merito che aveva escluso l'applicabilità dell'art. 2112 c.c. al trasferimento di un gruppo di lavoratori di un istituto bancario dotati di professionalità eterogenee, come tali inidonee a configurare il presupposto dell'autonomia funzionale del servizio ceduto.

Nella medesima pronunzia si è altresì sottolineato che in tema di trasferimento di ramo d'azienda, la verifica della sussistenza dei presupposti dell'autonomia funzionale e della preesistenza, rilevanti ai sensi dell'art. 2112, comma 5, c.c., integra un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, censurabile per cassazione alla stregua dell'art. 360, n. 3, c.p.c., laddove alla fattispecie, così come accertata dal giudice di merito, sia stata applicata una norma dettata per disciplinare ipotesi diverse (cd vizio di sussunzione), ovvero sulla base dell'art. 360, n. 5, c.p.c., nell'ipotesi in cui sia stato omesso l'esame di un fatto decisivo per il giudizio, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che sia stato oggetto di discussione tra le parti (si veda Sez. L, n. 07364/2021, Amendola F., Rv. 661038-01).

Sez. L, n. 18948/2021, Arienzo, Rv. 661715-01 e Rv. 661715-02 esprime due principi: in relazione all’interesse del lavoratore a far accertare l’insussistenza di un ramo di azienda e alla carenza di un eccesso di delega rispetto alla l. n. 30 del 2003, con riferimento alla modifica dell’art. 2112 c.c., comma 5, posta in essere ad opera dell’art. 32, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003.

Quanto alla seconda delle due questioni innanzi ricordate, la S.C. evidenzia che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 276 del 2003 - per eccesso di delega rispetto alla l. n. 30 del 2003 e conseguentemente per violazione degli artt. 11, 76, 117 Cost. - ove interpretato in conformità con le Direttive n. 1998/50/CE e 2001/23/CE e dunque nel senso che l'autonomia funzionale del ramo di azienda, requisito imprescindibile per la legittima cessione, deve sussistere anche prima del trasferimento, e ciò in quanto le direttive innanzi ricordate dispongono che l'entità trasferita conservi, a seguito del trasferimento, la propria identità, con ciò evidentemente significando che essa deve essere posseduta anteriormente al trasferimento, in tal modo escludendosi che si possa identificare il ramo solo al momento della cessione, perché detta operazione consentirebbe all'imprenditore di estromettere i lavoratori senza le garanzie previste per legge.

Avuto riguardo alla prima, il giudice di legittimità puntualizza che il lavoratore ha interesse ad accertare in giudizio che nel complesso di beni oggetto di trasferimento non è ravvisabile un ramo d'azienda, e, quindi, in difetto del suo consenso, l'inefficacia nei suoi confronti del trasferimento stesso, non essendo per lui indifferente, quale creditore della prestazione retributiva, il mutamento della persona del debitore-datore di lavoro, che può offrire garanzie più o meno ampie di tutela dei suoi diritti. Tale interesse non viene meno né in caso di svolgimento, in via di mero fatto, di prestazioni lavorative per il cessionario, che non integra accettazione della cessione del contratto di lavoro, né per effetto dell'eventuale conciliazione intercorsa tra lavoratore e cessionario all'esito del licenziamento del primo, né, in genere, in conseguenza delle vicende risolutive del rapporto con il cessionario.

Quanto alla nozione ed agli elementi costitutivi del c.d. ramo di azienda, Sez. L, n. 22249/2021, Patti, Rv. 662089-01, sottolinea che ai fini del trasferimento di ramo d'azienda previsto dall'art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dall'art. 32 del d.lgs. n. 276 del 2003, costituisce elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere - autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario - il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente al momento della cessione. L'elemento costitutivo dell'autonomia funzionale va quindi letto in reciproca integrazione con il requisito della preesistenza, e ciò anche in armonia con la giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo la quale l'impiego del termine "conservi" nell'art. 6, par. 1, commi 1 e 4 della direttiva 2001/23/CE, "implica che l'autonomia dell'entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento" (Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12; Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017).

Sez. L, n. 22353/2021, Garri, Rv. 662112-01, rileva come ai fini dell'accertamento della validità della cessione di un ramo d'azienda, ai sensi dell'art. 2112 c.c., l'esistenza di un collegamento negoziale con un accordo conciliativo intervenuto tra il cedente e i lavoratori ceduti è oggetto di un apprezzamento di fatto, il quale si sottrae al sindacato di legittimità, ove sorretto da adeguata motivazione ed immune da vizi logici e giuridici. (Nella specie - relativa a un caso in cui la società cessionaria si era impegnata, in sede di accordi sindacali, a garantire stabilità al personale ceduto per tre anni, ma era fallita prima del decorso di tale termine -, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la nullità della cessione del ramo d'azienda, non ravvisando alcun collegamento negoziale fraudolento tra i suddetti accordi e i verbali di conciliazione con i quali i lavoratori avevano liberato la società cedente da qualsivoglia garanzia di solidarietà).

Sez. L, n. 24691/2021, Boghetich, Rv. 662265-01, chiarisce inoltre che, nell'ipotesi di trasferimento di imprese o parti di esse il cui cedente sia oggetto di una procedura fallimentare, ai fini dell'operatività degli effetti previsti dall'art. 47, comma 5, della l. n. 428 del 1990 - "id. est.": esclusione dei lavoratori eccedentari dal passaggio presso il cessionario -, non occorre il requisito della cessazione dell'attività di impresa, di essa costitutivo, da riferire esclusivamente alla procedura di amministrazione straordinaria.

Affondando le sue radici nell’accertata illegittimità della cessione di azienda, va rammentata anche Sez. L, n. 22428/2021, Balestrieri, Rv. 662090-01, che, avuto riguardo alla indennità di disoccupazione, afferma che nell'ipotesi in cui sia accertata l'illegittimità della cessione di azienda o di ramo di essa, le somme percepite dal lavoratore a titolo d'indennità di disoccupazione dall'INPS, non possono essere detratte da quanto egli abbia ricevuto per il mancato ripristino del rapporto ad opera del cedente, poiché il trattamento economico dovuto al lavoratore illegittimamente trasferito ha natura retributiva.

Seguendo l’insegnamento di Sez. L, n. 05998/2019, Boghetich, Rv. 652899-01, Sez. L, n. 35982/2021, Pagetta, Rv. 662919-01, ha riaffermato che in tema di cessione di ramo d'azienda, di cui sia giudizialmente accertata l'inefficacia, il rapporto di lavoro con il cessionario deve intendersi instaurato in via di fatto, con la conseguenza che le vicende risolutive ad esso attinenti non sono idonee ad incidere sul diritto del lavoratore illegittimamente ceduto a ricevere le retribuzioni a lui spettanti in forza del rapporto con il cedente, che deve considerarsi ancora in essere, sebbene quiescente fino alla dichiarazione di inefficacia della cessione. Nella specie, la S.C. ha quindi ritenuto inidoneo ad incidere sul rapporto lavorativo con il cedente la transazione intervenuta con il cessionario, ritenuta "res inter alios acta".

In materia di trasferimento d'azienda, ha altresì ritenuto il giudice di legittimità che il collegamento societario esistente tra cedente e cessionario non è ostativo all'applicazione della disciplina di cui all'art. 2112 c.c. in quanto non è idoneo, di per sé, a far venire meno l'alterità dei soggetti giuridici e a configurare un unico centro di imputazione dei rapporti di lavoro, occorrendo a tal fine altri requisiti, individuati in indici di simulazione o preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico-funzionale. Inoltre, in caso di cessione di ramo d'azienda, ai dipendenti ceduti trova applicazione, ai sensi dell'art. 2112, comma 3, c.c., il contratto collettivo in vigore presso la cessionaria, anche se più sfavorevole, atteso il loro inserimento nella nuova realtà organizzativa e nel mutato contesto di regole, anche retributive, restando in vigore l'originario contratto collettivo nel solo caso in cui presso la cessionaria i rapporti di lavoro non siano regolamentati da alcuna disciplina collettiva (cfr. Sez. L, n. 37291/2021, Ponterio, Rv. 663006-01 e Rv. 663006-02).

La S.C. ha poi affrontato la questione del passaggio del personale dipendente di una società di gestione del servizio di tesoreria di un Comune ad altra società concessionaria del medesimo servizio, subentrante, in Sez. L, n. 30480/2021, Patti, Rv. 662759-01.

In essa è affermato il seguente principio di diritto: il personale dipendente di una società che abbia in gestione il servizio di tesoreria di un Comune, alla quale subentri altra società concessionaria del medesimo servizio, ha diritto al passaggio diretto, senza soluzione di continuità, alle dipendenze della società subentrante ex artt. 63, comma 4, del d.lgs. n. 112 del 1999 e 52, comma 61, della l. n. 448 del 2001, da considerarsi disciplina speciale rispetto a quella generale dell'art. 2112 c.c., alla stregua di clausola di "salvaguardia sociale" in funzione della continuità del servizio e dell'occupazione, in caso di discontinuità dell'affidatario, atteso che il contratto di tesoreria si configura come concessione di servizio pubblico.

Infine, Sez. L, n. 41463/2021, Esposito, Rv. 663410-01, ha puntualizzato che in tema di trasferimento d'azienda, l'azione del lavoratore volta all'accertamento dell'operatività della disciplina dell'art. 2112 c.c. non richiede l'impugnativa stragiudiziale di cui all'art. 32, comma 4, lett. c, della l. n. 183 del 2010, riferendosi quest'ultima ai soli provvedimenti datoriali dei quali il lavoratore intenda contestare la legittimità.

4. I contratti a termine.

Sez. L, n. 31072/2021, Piccone, Rv. 662714-01, in tema di contratti a termine e diritto all’assunzione a tempo indeterminato, ha affermato il diritto del dipendente, che abbia prestato la propria attività lavorativa presso la stessa azienda in forza di contratti a tempo determinato scaduti, di essere assunto con precedenza ai sensi dell'art. 5, comma 4 quater, del d.lgs. n. 368 del 2001, qualora il datore di lavoro intenda optare per nuove assunzioni a tempo indeterminato, è condizionato alla previa espressione da parte sua di volontà "in tal senso", senza necessità del ricorso a formule sacramentali o del riferimento alla disposizione che lo prevede. Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto che il riferimento del lavoratore all'assunzione "nei tempi e modi previsti dalle disposizioni di legge che regolano i rapporti di lavoro", unitamente alla manifestazione della volontà di essere assunto ed all'indicazione dei contratti intercorsi fra le parti, corrisponda in modo adeguato e sufficiente alle esigenze di certezza del diritto sottostante alla norma, pur in difetto di preciso riferimento alla disposizione legislativa citata.

Sempre in tema di contratto a termine, Sez. L, n. 30805/2021, Amendola F., Rv. 662671-01, ha precisato che l'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l'apposizione del termine un'ipotesi derogatoria anche nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l'apposizione del termine "per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo". Ne deriva che, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative, e pur in assenza di una norma che ne sanzioni espressamente la mancanza, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, all'illegittimità del termine, ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso, consegue l'invalidità parziale relativa alla sola clausola, pur se eventualmente dichiarata essenziale, e l'instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Sulla illegittimità del termine apposto in relazione alle assunzioni a termine previste dalla contrattazione collettiva in base all’art. 23 della l. n. 56 del 1987, va ricordata Sez. L, n. 30803/2021, Balestrieri, Rv. 662670-01, così massimata da questo Ufficio: in tema di assunzione a termine dei lavoratori subordinati, l'art. 23 della l. n. 56 del 1987, nel consentire alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi rispetto a quelle previste dalla l. n. 230 del 1962, non impone di fissare contrattualmente dei limiti temporali alla facoltà di assumere lavoratori a tempo determinato, ma, ove un limite sia stato previsto, la sua inosservanza determina l'illegittimità del termine apposto.

Si occupa della successione dei contratti a termine e delle deroghe previste dalla contrattazione collettiva al limite massimo dei trentasei mesi, Sez. L, n. 31066/2021, Balestrieri, Rv. 662674-01. Nell’ordinanza innanzi citata si è precisato che in tema di successione di contratti di lavoro a tempo determinato, l'art. 85 del c.c.n.l. per i dipendenti delle imprese di distribuzione cooperativa, circa le attività sottratte alla regola del divieto di superamento di 36 mesi consecutivi, di cui all'art. 5, comma 4 bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, si interpreta nel senso che sono previste due distinte ipotesi di contratti sottratti al limite dei 36 mesi - vale a dire, attività stagionali che insistono in particolari periodi dell'anno ed attività legate alla peculiarità del territorio - dovendosi ritenere che la volontà delle parti mirasse ad isolare casi in cui, per ragioni stagionali e/o territoriali si potesse giustificare una assunzione a termine neutra rispetto al limite di legge. Nella specie, sono state ricondotte alla previsione contrattuale in deroga le assunzioni a termine stipulate d'estate per un supermercato sito nell'isola d'Elba.

Sez. L, n. 30746/2021, Piccone, Rv. 662582-01, in tema di lavoro a tempo determinato ha ritenuto che la disciplina sulla prosecuzione di fatto del rapporto di lavoro per un periodo di trenta giorni dalla scadenza del termine (cd. "periodo cuscinetto"), prevista dall'art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 2001, si applica, con riferimento al contratto a termine cd. "acausale" ai soli contratti successivi alla data di entrata in vigore dell'art. 7 del d.l. n. 76 del 2013, conv., con modif., dalla l. n. 99 del 2013, che ha previsto la possibilità di concludere contratti "acausali" ai sensi dell'art. 1, comma 1 bis, dello stesso decreto, e ha introdotto nell'originario testo del comma 2 del citato art. 5, l'inciso "instaurato anche ai sensi dell'art. 1 comma 1 bis". Ne consegue che, per i contratti "acausali" anteriori, il rapporto non può invece proseguire in via di fatto neanche un solo giorno, senza essere trasformato in contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Da ultimo, Sez. L, n. 30745/2021, Piccone, Rv. 662591-01, quanto alle assunzioni a tempo determinato fondate su esigenze sostitutive, ha affermato che il ricorso proposto, ai sensi dell'art. 80, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, all'autorità giudiziaria di cui all'art. 413 c.p.c. per violazione degli artt. 75 ss. del citato d.lgs. è ammissibile, avuto riguardo al procedimento certificativo, per denunciare l'omessa qualificazione del contratto oppure la difformità tra il programma negoziale certificato e la sua attuazione. La S.C. ha enunciato tale principio con riferimento ad una fattispecie in cui la ricorrente aveva contestato il difetto, nel contratto, dell'indicazione del lavoratore che avrebbe dovuto effettivamente sostituire e l'assenza dell'indicazione della mansione, del livello di inquadramento, delle sede e dell'orario di lavoro del lavoratore da sostituire e di quello da questi sostituito, prospettando cioè tutte circostanze incidenti sulla difformità fra il contratto certificato e la sua attuazione.

Sotto il profilo della tutela, va ricordata Sez. L, n. 00702/2021, Pagetta, Rv. 660251-01.

L'indennità di cui all'art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, come autenticamente interpretato dall'art. 1, comma 13, della l. n. 92 del 2012, ritiene il giudice di legittimità, ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore relativamente al periodo compreso fra la scadenza del termine apposto al contratto e la pronuncia del provvedimento contenente l'ordine giudiziale di ricostituzione del rapporto, con la conseguenza che il risarcimento del danno secondo gli ordinari criteri, che presuppone il persistente inadempimento del datore all'obbligo di ripristino del rapporto a seguito dell'ordine in questione, spetta al lavoratore solo dal momento di emanazione di detta pronuncia, la quale elimina ogni incertezza circa la sussistenza dell'obbligo datoriale di riammissione del lavoratore medesimo in servizio. Nella specie, il giudice di merito aveva emesso declaratoria di accertamento della nullità del termine con conseguente riconoscimento di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, senza ordinarne - attesa la ritenuta estinzione del rapporto stesso al momento di emanazione della pronunzia - la ricostituzione, invece disposta, a seguito del giudizio di legittimità, con sentenza del giudice del rinvio, contenente altresì la condanna del datore al pagamento dell'indennità per il periodo compreso tra la scadenza del termine e la sentenza; la S.C., nel rigettare il ricorso del lavoratore, ha ritenuto che il risarcimento secondo i criteri ordinari fosse dovuto per il periodo successivo alla predetta sentenza del giudice del rinvio, poiché solo con la stessa era stata ordinata la ricostituzione del rapporto di lavoro.

Quanto ai termini per l’impugnazione dei contratti a termine, la S.C. ha precisato che l'art. 32, comma 1-bis, della l. n. 183 del 2010, introdotto dal d.l. n. 225 del 2010, conv. con modif. dalla l. n. 10 del 2011, nel prevedere "in sede di prima applicazione" il differimento al 31 dicembre 2011 dell'entrata in vigore delle disposizioni relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento, si applica a tutti i contratti ai quali tale regime risulta esteso e riguarda tutti gli ambiti di novità di cui al novellato art. 6 della l. n. 604 del 1966, sicché, con riguardo ai contratti a termine non solo in corso, ma anche con termine scaduto e per i quali la decadenza sia maturata nell'intervallo di tempo tra il 24 novembre 2010 (data di entrata in vigore del cd. "collegato lavoro") e il 23 gennaio 2011 (scadenza del termine di sessanta giorni per l'entrata in vigore della novella introduttiva del termine decadenziale), si applica il differimento della decadenza mediante la rimessione in termini, rispondendo alla "ratio legis" di attenuare, in chiave costituzionalmente orientata, le conseguenze legate all'introduzione "ex novo" del suddetto e ristretto termine di decadenza (cfr. Sez. L, n. 12033/2021, Arienzo, Rv. 661197-01).

Per la vicinanza ai temi trattati, va ricordata anche Sez. L, n. 40652/2021, Cinque, Rv. 663194-01, in cui si afferma che la decadenza di cui all'art. 32, comma 4, lett. d) della l. n. 183 del 2010, non trova applicazione nelle ipotesi di richiesta di costituzione o di accertamento di un rapporto di lavoro, ormai risolto, in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto, nelle quali manchi un provvedimento in forma scritta o un atto equipollente che neghi la titolarità del rapporto stesso.

4.1. La somministrazione irregolare e a termine.

Nel caso di somministrazione irregolare, ai sensi dell'art. 27 del d.lgs. n. 276 del 2003 applicabile "ratione temporis", per Sez. L, n. 24408/2021, Lorito, Rv. 662174-02, si costituisce un rapporto di lavoro alle dipendenze dell'utilizzatore, con effetto dall'inizio della somministrazione; ne consegue che l'utilizzatore - subentrando nei rapporti così come costituiti e poi gestiti dal somministratore - assume l'onere di adottare le condotte imposte da norme tipizzate o suggerite dalla tecnica, consigliate dalla concreta realtà aziendale e dalla conoscenza di fattori di rischio in un determinato momento storico, ex art. 2087 c.c.

In applicazione del principio innanzi riportato, è stata cassata la decisione di merito che, accertata l'irregolarità del rapporto di somministrazione, aveva escluso, in ragione dello statuto negoziale "inter partes", la responsabilità dell'utilizzatore per l'evento letale occorso al dipendente a seguito di un attentato terroristico avvenuto all'estero.

Della somministrazione di lavoro a termine, invece, si occupano Sez. L, n. 24074/2021, Garri, Rv. 662155-01 e Sez. L, n. 00548/2021, Boghetich, Rv. 660249-01.

Nella prima delle pronunzie innanzi ricordate, si sancisce che in tema di contratto di somministrazione a termine, l'indicazione del limite quantitativo stabilito dalla contrattazione collettiva di settore non rientra tra i requisiti di forma del contratto la cui inosservanza ne comporta la nullità, atteso che nessuna disposizione prevede che l'indicazione delle percentuali di contingentamento debba essere riportata nel contratto, dovendo essere in esso indicato, ai sensi dell'art. 21, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 276 del 2003, solo il "numero dei lavoratori da somministrare", dato diverso rispetto alla percentuale di contingentamento, che è, invece, il parametro astratto, alla luce del quale verificare, in concreto, sulla base dei lavoratori somministrati, la legittimità dell'apposizione del termine.

Nella seconda, invece, si individuano i contenuti della causale giustificativa, in caso di somministrazione a termine disposta per sostituire i lavoratori assenti per ferie, evidenziando che detta indicazione, quale causale giustificativa, ove accompagnata da elementi che consentano di risalire all'individuazione di questi ultimi, è sufficiente ai fini del rispetto del requisito di forma di cui all'art. 21 del d.lgs. n. 276 del 2003 ("ratione temporis" vigente), non essendo necessaria l'indicazione nominativa dei lavoratori da sostituire, allo stesso modo di quanto avviene in materia di contratti a tempo determinato, pur a fronte di una diversa disciplina.

In tema di somministrazione a termine, da ultimo, va rammentata Sez. L, n. 32154/2021, Cinque, Rv. 662666-01, nella quale si evidenzia che nell'ipotesi in cui a un contratto di somministrazione a tempo determinato, stipulato dopo l'entrata in vigore dell'art. 1, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, faccia seguito, senza soluzione di continuità, un contratto di lavoro a termine, si applica la disciplina di cui all'art. 5, comma 4, dello stesso decreto, con la conseguenza che il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto.

Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto che la successione cronologica dei suddetti contratti non soggiacesse alla conversione ex art. 5, comma 4, del d.lgs. n. 368 del 2001, invocando il disposto dell'art. 22, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, applicabile invece alla successione di più contratti di somministrazione, e limitatamente al rapporto tra somministratore e utilizzatore.

5. La retribuzione e il TFR.

Si occupa dell’adeguamento della retribuzione ai sensi dell’art. 36 della nostra Carta costituzionale, con riferimento ai rapporti di lavoro non tutelati da contratto collettivo, Sez. L, n. 00944/2021, Cinque, Rv. 660252-01.

Secondo tale pronunzia, in tema di adeguamento della retribuzione ai sensi dell'art. 36 Cost., il giudice, per i rapporti non tutelati da contratto collettivo, può utilizzare, quale parametro di raffronto, la retribuzione tabellare prevista dal contratto nazionale del settore corrispondente a quello dell'attività svolta dal datore di lavoro ovvero, in mancanza, da altro contratto che regoli attività affini e prestazioni lavorative analoghe, dovendo considerare le sole componenti integranti il cd minimo costituzionale - anche con riguardo alle imprese di non rilevanti dimensioni -, con esclusione delle voci retributive legate all'autonomia contrattuale, come ad esempio i compensi aggiuntivi, gli scatti di anzianità e la quattordicesima mensilità.

Delimita e chiarisce il raggio di azione della norma costituzionale, Sez. L, n. 04667/2021, Negri Della Torre, Rv. 660614-01, che, in conformità con quanto già ritenuto dalla S.C. in Sez. L, n. 05807/2004, Rv. 571448-01, ribadisce che il principio della retribuzione sufficiente di cui all'art. 36 Cost. riguarda esclusivamente il lavoro subordinato e non può essere invocato in tema di compenso per prestazioni lavorative autonome, ancorché rese, con carattere di continuità e coordinazione, nell'ambito di un rapporto di collaborazione.

In tema di principio di irriducibilità della retribuzione, va rammentata Sez. L. n. 23329/2021, Boghetich, Rv. 662107-01, che puntualizza che, nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia stato qualificato “ab origine” come autonomo e sia stato successivamente convertito “ope iudicis” in lavoro subordinato non opera il principio di irriducibilità della retribuzione, sancito dall’art. 2103 c.c.

Sul tema della riduzione della retribuzione ad opera di un accordo aziendale, si veda Sez. L, n. 33131/2021, Patti, Rv. 662768-01, secondo cui è illegittima, per violazione dell'art. 8 del d.l. n. 138 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 148 del 2011, la riduzione di retribuzione stabilita, in misura del 15%, dal punto 2 dell'accordo aziendale del 6 settembre 2013 stipulato tra le oo.ss. e la Fondazione orchestra sinfonica siciliana, nonostante l'espressa delega contenuta nell'Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, in quanto non definibile come intervento di "disciplina del rapporto di lavoro", stante la mancata contestualità tra la suddetta riduzione immediata e la riorganizzazione complessiva del lavoro, da realizzare con un futuro accordo con le organizzazioni sindacali.

Del corrispettivo del patto di non concorrenza, elemento distinto della retribuzione, si occupa Sez. L, n. 05540/2021, Amendola F., Rv. 660541-01. Al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, sottolinea la S.C., si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell'art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, conseguendo comunque la nullità dell'intero patto alla eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale.

Quanto al rapporto di lavoro del personale addetto a pubblici servizi di trasporto in concessione, il giudice di legittimità nell’anno in corso è tornato ad affrontare la questione della retribuzione dei viaggi comandati.

In piena armonia con quanto già ritenuto da Sez. L, n. 26581/2011, Ianniello, Rv. 619943-01, da Sez. L, n. 11338/2021, Negri Della Torre, Rv. 661106-01, si è ritenuto che l'art. 17 del r.d.l. n. 2328 del 1923, nella parte in cui prevede, per il personale addetto ai pubblici servizi di trasporto in concessione, che si computa come lavoro effettivo "la metà del tempo impiegato per recarsi, senza prestare servizio, con un mezzo gratuito di servizio in viaggi comandati da una località ad un'altra per prendere servizio o fare ritorno a servizio compiuto", deve interpretarsi intendendo per "viaggio comandato" ogni trasferimento inevitabile per l'organizzazione dei turni derivante da disposizione aziendale, effettuato sia con mezzo gratuito di servizio sia con proprio mezzo di trasporto con onere di spesa a carico del lavoratore. A tal fine, il computo del tempo di viaggio presuppone che non vi sia coincidenza del luogo di inizio con quello di cessazione del lavoro giornaliero e che tale circostanza sia determinata non da una scelta del lavoratore, bensì, in via esclusiva, da una necessità logistica aziendale, restando irrilevante la scelta del mezzo usato per lo spostamento. Concorrendo tali condizioni, il lavoratore può ottenere il riconoscimento del diritto previsto dalla suddetta norma, il cui fondamento è insito nell'esigenza di compensare il tempo necessario al menzionato spostamento indotto dall'organizzazione del lavoro riconducibile all'azienda.

Per la connessione con i temi salariali qui trattati, oltre che con il contenuto ed i limiti dei divieti di discriminazione, va ricordata anche Sez. L, n. 23330/2021, Patti, Rv. 662108-01, in cui si afferma che non integrano violazione dell'art. 3, comma 5, del d.l. n. 726 del 1984, conv. dalla l. n. 863 del 1984, e non danno luogo a trattamento discriminatorio, le clausole della contrattazione collettiva nazionale che, nel contesto di una riforma degli istituti contrattuali della retribuzione, distinguono i lavoratori con contratto di formazione e lavoro, poi trasformato in contratto a tempo indeterminato, dal personale già in servizio con rapporto a tempo indeterminato, sancendo l'equiparazione dei primi al personale di nuova assunzione, ai soli fini dell'esclusione dall'attribuzione di nuove voci salariali, senza incidere sulla conservazione dell'anzianità di servizio.

Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, affermando che legittimamente i lavoratori con contratto di formazione e lavoro dell'Azienda napoletana mobilità erano stati esclusi dalla fruizione del cosiddetto "terzo elemento salariale", trattandosi di istituto retributivo non correlato all'anzianità di servizio.

In limine, sempre per la contiguità con i temi trattati va segnalata Sez. L, n. 37589/2021, Garri, Rv. 663007-01, secondo il cui insegnamento, ai fini della individuazione della retribuzione da utilizzare come parametro per il calcolo dell'indennità sostitutiva per il mancato godimento dei permessi annui retribuiti, ai sensi dell'art. 5 del c.c.n.l. industria metalmeccanica privata dell'8 giugno 1999, nonché del compenso da erogare durante le ferie, ai sensi dell'art. 12 dello stesso c.c.n.l. del 14 dicembre 1990, nella prospettiva di una nozione europea di "retribuzione" che comprende qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo "status" personale e professionale del lavoratore, è corretta una interpretazione sistematica delle norme collettive che utilizzi come riferimento la media annua della retribuzione globale di fatto percepita, in cui confluiscono tutte le voci retributive corrisposte nell'arco temporale di maturazione del diritto e ove vengono in rilievo le varie componenti erogate su base mensile, o anche con cadenza diversa.

Sul tema del TFR, Sez. L, n. 36927/2021, Pagetta, Rv. 663004-01, ha affermato che incombe sul lavoratore, ai fini della determinazione dell'anzianità di servizio, l'onere di provare l'esistenza di un unico rapporto lavorativo, pur a fronte della formale instaurazione, nel corso del tempo, di più rapporti con soggetti diversi.

6. Modalità temporali di svolgimento della prestazione, ferie e festività.

È importante ricordare che il tempo preparatorio della prestazione lavorativa rientra nell'orario di lavoro se le relative operazioni si svolgano sotto la direzione e il controllo del datore di lavoro; ne consegue che - in ipotesi di personale tecnico "on field", addetto all'installazione e alla manutenzione degli impianti presso le abitazioni e i locali dei clienti, dotato di un terminale aziendale attraverso il quale visualizzare i luoghi degli interventi da compiere, "timbrare" l'orario di inizio del lavoro e ricevere le disposizioni datoriali - sono da considerare nulli gli accordi collettivi che prevedano una franchigia temporale, entro la quale è posto a carico dei lavoratori il tempo necessario per il trasferimento dal luogo di ricovero del mezzo aziendale a quello del primo intervento, nonché, alla fine della giornata lavorativa, per il tragitto inverso (in tal senso si veda Sez. L, n. 37286/2021, Balestrieri, Rv. 663005-01).

Con Sez. L, n. 31349/2021, Lorito, Rv. 662662-01, quanto ai rapporti di lavoro a tempo pieno, si è ritenuto che il diritto del datore di lavoro alla distribuzione dell'orario di lavoro, espressione del potere di organizzazione dell'attività, può subire limiti solo in dipendenza di accordi che vincolino l'imprenditore a particolari procedure, diversamente da quanto accade nei contratti con orario part-time, nei quali la programmabilità del tempo libero del lavoratore (al fine di garantire l'esplicazione di un'ulteriore attività lavorativa) assume carattere essenziale che giustifica l'immodificabilità dell'orario da parte datoriale.

Nel contratto di lavoro a tempo determinato, Sez. L, n. 09229/2021, Negri Della Torre, Rv. 660982-01, in linea con la precedente conforme Sez. L, n. 08882/2015, Patti, Rv. 635353-01, afferma che il datore di lavoro che ometta di indicare l'orario lavorativo, non unilateralmente variabile ai sensi degli artt. 3, comma 7, e 9 del d.lgs. n. 61 del 2000, è tenuto a corrispondere al lavoratore un ulteriore emolumento, ex art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 61 cit., alla cui liquidazione il giudice può provvedere equitativamente senza necessità della prova del danno procurato - che deriva dall'obbiettivo disagio subito dal lavoratore per l'unilaterale determinazione del datore di lavoro delle modalità temporali di svolgimento della prestazione - trattandosi di misura di natura sanzionatoria. Peraltro, l'esercizio di tale potere discrezionale non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell'uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito.

In tema di orario di lavoro, l'applicazione del criterio fatto proprio dalla dir. 2003/88/CE, così come interpretato dalla Corte di Giustizia U.E. (sentenza 10 settembre 2015, causa C-266/14), secondo cui non costituisce "orario di lavoro" il tempo in cui il lavoratore può liberamente dedicarsi alla cura dei propri interessi personali e sociali, implica che debba essere qualificato come prestazione strumentale ed accessoria, ontologicamente diversa dalla prestazione di lavoro, il servizio di "reperibilità speciale" prestato da un dipendente dell'Enel, addetto alla sorveglianza di una diga, che preveda la sola permanenza nella casa di guardia, situata a ridosso della diga, per la durata del turno e che si sostanzi in un servizio di attesa con attivazione solo a seguito di allarme. Ne discende che l'adibizione a tale servizio, oggetto di specifica remunerazione, limita ma non esclude il godimento del riposo, con conseguente impossibilità di riconoscimento del riposo compensativo e addossamento a carico del lavoratore dell'onere di dimostrare l'esistenza di un danno alla salute conseguente alla situazione di attesa richiesta (così Sez. L, n. 30301/2021, Garri, Rv. 662656-01).

La S.C. si è inoltre occupata dell’orario di lavoro avuto riguardo al personale addetto ai servizi di bordo treno, attraverso il prisma normativo dell’art. 4 dell’Accordo di confluenza del 25 giugno 2009, in Sez. L, n. 30788/2021, Garri, Rv. 662668-01.

Secondo l’ordinanza l'art. 4 dell'Accordo di confluenza del 25 giugno 2009, applicabile al personale addetto ai servizi di bordo treno ed in particolare agli addetti alla ristorazione, laddove stabilisce che "l'orario di lavoro del personale viaggiante è costituito dal tempo intercorrente dall'ora di partenza programmata del treno all'ora di effettivo arrivo", individua anche, con ulteriori disposizioni di dettaglio, i tempi necessari per lo svolgimento della prestazione, che concorrono alla formazione dell'orario di lavoro stabilito in cicli lavorativi. Conseguentemente, deve ritenersi che le parti sociali, nell'orario di lavoro, abbiano inteso ricomprendere tutte le ore trascorse a bordo del treno tra la partenza e l'arrivo ed a prescindere dal fatto che la prestazione sia sospesa per effetto dell'organizzazione predisposta dal datore di lavoro del servizio, ricompensandola con una specifica indennità disciplinata dall'art. 12 dello stesso accordo, il che è del tutto compatibile con la nozione di «orario di lavoro» di cui alla dir. 2003/88/CE, che, tra l'altro, non include tra gli elementi caratteristici della stessa nozione l'intensità del lavoro svolto dal dipendente o il rendimento di quest'ultimo, rilevando invece che nei periodi di inattività questi è forzatamente a disposizione del datore di lavoro.

In tema di diritto alle festività infrasettimanali ed alla disponibilità dello stesso da parte del singolo lavoratore, soccorre l’insegnamento di Sez. L, n. 08958/2021, Boghetich, Rv. 660981-01. Il diritto soggettivo di astenersi dalla prestazione in occasione delle festività infrasettimanali, scrive il giudice di legittimità, è disponibile da parte del lavoratore, il quale può rinunciarvi in virtù di un accordo individuale con il datore di lavoro, il cui contenuto deve essere interpretato alla luce della l. n. 260 del 1949, che, pur prevedendo l'indisponibilità del diritto a livello collettivo e dunque la nullità delle clausole della contrattazione collettiva che dovessero prevederlo come obbligatorio, non prevede un divieto assoluto di lavorare nelle predette festività. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva giudicato nulla per indeterminatezza dell'oggetto la clausola di alcuni contratti individuali di lavoro secondo cui, qualora richiesto, il lavoratore poteva essere chiamato "a prestare attività lavorativa nei giorni festivi e domenicali, fermo il diritto al riposo previsto dalla legge", ritenendola interpretabile come manifestazione di una generica disponibilità alla prestazione lavorativa, che necessitava di ulteriore specifico consenso del lavoratore, con riferimento alle singole giornate festive nelle quali il datore avesse richiesto il suo impiego.

Sullo stesso tema anche la successiva Sez. L, n. 29907/2021, Blasutto, Rv. 662585-01, che consente la rinunzia anche a mezzo delle organizzazioni sindacali cui sia stato conferito espresso mandato in tal senso.

Il diritto soggettivo di astenersi dalla prestazione in occasione delle festività infrasettimanali, scrive la S.C., è disponibile da parte del lavoratore, il quale può rinunciarvi in virtù di un accordo individuale con il datore di lavoro, o di accordi sindacali stipulati da O.O.S.S. cui il lavoratore abbia conferito esplicito mandato, dovendosi ritenere sufficiente l'espresso richiamo nel contratto di assunzione alla disciplina normativa del contratto collettivo di categoria ove le parti sociali - nel prevedere un'articolazione dell'orario di lavoro su tutto l'arco della settimana, giorni festivi compresi - senza negare il diritto al riposo nelle festività infrasettimanali, abbiano già preventivamente valutato le esigenze sottese al contemperamento del diritto individuale nel contesto delle peculiarità del settore di competenza.

Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva condizionato l'esigibilità della prestazione lavorativa durante le festività infrasettimanali, di un dipendente addetto a servizi di sicurezza e vigilanza presso un'azienda operante nel settore del trasporto aereo, alla prova da parte del datore di lavoro di adeguate ragioni giustificative, oggettive e soggettive, riferibili al servizio pubblico essenziale da espletare.

Quanto alla materia delle ferie, Sez. L, n. 06493/2021, Garri, Rv. 660686-01, ha affermato che l'art. 21, comma 13, del c.c.n.l. 5 dicembre 1996, area dirigenza medica e veterinaria, che dispone il pagamento delle ferie nel solo caso in cui, all'atto della cessazione del rapporto, risultino non fruite per esigenze di servizio o per cause indipendenti dalla volontà del dirigente, va interpretato in modo conforme al principio di irrinunciabilità delle stesse, sancito dall'art. 36 Cost., di guisa che si applica solo nei confronti dei dirigenti titolari del potere di attribuirsi il periodo di ferie senza ingerenze da parte del datore di lavoro e non anche nei confronti dei dirigenti privi di tale potere.

Sempre in tema, soccorre l’insegnamento di Sez. L, n. 31175/2021, Arienzo, Rv. 662680-01, che ritiene che il dirigente, che non abbia il potere di autodeterminazione incondizionata del proprio periodo di ferie, qualora non usufruisca del periodo di riposo annuale, ha diritto all'indennità sostitutiva delle ferie non godute, senza essere tenuto a provare la ricorrenza di necessità aziendali assolutamente eccezionali ed obiettive ostative alla suddetta fruizione.

7. Il dovere di fedeltà ed il patto di non concorrenza.

Nel rapporto di lavoro subordinato la prestazione svolta dal lavoratore deve conformarsi all’obbligo di fedeltà ed al divieto di concorrenza.

Sez. L, n. 03543/2021, Patti, Rv. 660401-01, a tal riguardo, ha ritenuto che la violazione del dovere di fedeltà sancito dall'art. 2105 c.c. riguarda la concorrenza che il prestatore possa svolgere non già, dopo la cessazione del rapporto, nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella che egli abbia svolto illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, incluso il periodo di preavviso, al tal fine assumendo rilievo anche il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, che impone a ciascuna delle parti il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.

Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito di rigetto della richiesta risarcitoria avanzata dal datore di lavoro per aver omesso l'esame del fatto storico rappresentato dalla disponibilità, inizialmente accordata dal lavoratore all'atto di recesso, a prestare il periodo di preavviso e poi improvvisamente ritirata a distanza di pochi giorni, senza ottemperare alla redazione della scheda clienti, senza fissare gli appuntamenti con gli stessi, cancellando anzi ogni riferimento "commerciale" relativo alle aziende avute in gestione ed iniziando subito a lavorare per la concorrenza.

Si occupa del patto di non concorrenza di cui all’art. 2125 c.c. e della clausola contrattuale di divieto di storno di clientela, Sez. L, n. 22247/2021, Cinque, Rv. 662031-01, affermando il seguente principio di diritto: il patto di non concorrenza di cui all'art. 2125 c.c. e la clausola contrattuale di divieto di storno di clientela vietano due condotte differenti: la prima proibisce, dietro corrispettivo, lo svolgimento di attività lavorativa in concorrenza con la società datrice per una durata limitata nel tempo, al termine del rapporto di lavoro; la seconda, invece, impedisce il compimento di atti e comportamenti funzionali a sviare la clientela storica verso un'altra impresa, sfruttando il rapporto di fiducia instaurato durante il periodo di dipendenza con la prima società, mirando dunque a garantire la tutela dell'avviamento ed il mantenimento e consolidamento dei buoni rapporti con il portafoglio di clienti. Ne consegue l'indipendenza delle due clausole, segnata anche dall'autonomia delle fonti normative regolatrici delle fattispecie, sicché il regime normativo dell'art. 2115 c.c. non può estendersi alla clausola contrattuale. In applicazione del sopraindicato principio, la S.C. ha escluso che la clausola del divieto di storno della clientela costituisca manifestazione del patto di non concorrenza e duplicazione dello stesso.

Della previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro, si occupa, invece, Sez. L, n. 23723/2021, Cinque, Rv. 662116-01, che, in linea con l’insegnamento della precedente Sez. L, n. 212/2013, Bandini, Rv. 624804-01, ha ribadito la nullità di detta clausola per contrasto con norme imperative.

Il giudice di legittimità ha infatti affermato che previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all'arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative, atteso che la limitazione allo scioglimento dell'attività lavorativa deve essere contenuta - in base a quanto previsto dall'art. 2125 c.c., interpretato alla luce degli artt. 4 e 35 Cost. - entro limiti determinati di oggetto, tempo e luogo, e va compensata da un maggior corrispettivo. Ne consegue che non può essere attribuito al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di caducare l'attribuzione patrimoniale pattuita.

8. Obblighi, diritti e poteri del datore.

Vanno qui ricordate tutte le numerose pronunzie che nel corso dell’anno si sono occupate di dettagliare e puntualizzare ulteriormente gli obblighi incombenti sul datore di lavoro, oltre che diritti e poteri dello stesso.

Sez. L, n. 25597/2021, Ponterio, Rv. 662272-01, quanto al contenuto degli obblighi, afferma che in tema di tutela delle condizioni di lavoro del lavoratore subordinato, il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al dipendente, sia quando ometta di adottare le misure protettive, comprese quelle esigibili in relazione al rischio derivante dalla condotta colposa del dipendente medesimo, sia quando, pur avendole adottate, non vigili affinché queste siano di fatto rispettate; ne consegue che, in tutte le ipotesi in cui vi sia inadempimento datoriale rispetto all'adozione di cautele, tipiche o atipiche, concretamente individuabili, nonché esigibili "ex ante" ed idonee ad impedire il verificarsi dell'evento dannoso, la condotta colposa del prestatore non può avere alcun effetto esimente e neppure può rilevare ai fini del concorso di colpa. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che - sebbene avesse accertato che il lavoratore, eseguendo la prestazione lavorativa, consistente nello spostamento di alcune lamiere sollevate con un carroponte, era stato colpito dalla oscillazione delle lamiere stesse, in quanto si trovava nella zona di movimentazione del carico da cui non si era tempestivamente allontanato - aveva escluso ogni responsabilità datoriale sul presupposto di una condotta "anomala" del prestatore, omettendo di indagare sulla idoneità delle misure di prevenzione adottate a scongiurare il rischio connesso alla movimentazione delle lamiere, da valutarsi anche in relazione ad una possibile condotta negligente e imprudente del prestatore medesimo.

In materia di tutela della salute del lavoratore, l'art. 2087 c.c. non delinea un'ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro, i cui obblighi, oltre a dover essere rapportati alle concrete possibilità della tecnica e dell'esperienza, vanno parametrati alle specificità del lavoro e alla natura dell'ambiente e dei luoghi in cui il lavoro deve svolgersi, particolarmente quando vengono in questione attività - nella specie, quella di cantoniere aziendale - che, per loro intrinseche caratteristiche (svolgimento all'aperto, in ambienti sotterranei, in gallerie, in miniera, ecc.), comportano dei rischi per la salute del lavoratore (collegati alle intemperie, all'umidità degli ambienti, alla loro temperatura, ecc.), ineliminabili, in tutto o in parte, dal datore di lavoro; rispetto a detti lavori - importanti una necessaria accettazione del rischio alla salute del lavoratore, legittimata sulla base del principio del bilanciamento degli interessi - non è configurabile una responsabilità del datore di lavoro, se non nel caso in cui questi, con comportamenti specifici ed anomali, da provarsi di volta in volta da parte del soggetto interessato, determini un aggravamento del tasso di rischio e di pericolosità ricollegato indefettibilmente alla natura dell'attività che il lavoratore è chiamato a svolgere (in tal senso, Sez. L, n. 01509/2021, Boghetich, Rv. 660282-01, conforme alla precedente Sez. L, n. 11427/2000, Vidiri, Rv. 539903-01).

Ribadisce l’assenza di una responsabilità oggettiva a carico del datore Sez. L, n. 29909/2021, Pagetta, Rv. 662609-01.

Afferma la S.C. che il contenuto dell'obbligo di sicurezza, previsto dall'art. 2087 c.c., non determina una responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, essendo necessario che la sua condotta, commissiva od omissiva, sia sorretta da un elemento soggettivo, almeno colposo, quale il difetto di diligenza nella predisposizione di misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore. Ne consegue che sono a carico del lavoratore, quale creditore dell'obbligo di sicurezza, gli oneri di allegazione circa la fonte da cui scaturisce siffatto obbligo, del termine di scadenza e dell'inadempimento; nondimeno, l'individuazione delle misure di prevenzione che il datore avrebbe dovuto adottare e l'identificazione della condotta che nello specifico ne ha determinato la violazione deve essere modulata in relazione alle concrete circostanze e alla complessità o peculiarità della situazione che ha determinato l'esposizione al pericolo. Nella specie la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che aveva rigettato una domanda di risarcimento del danno, in quanto carente di allegazioni circa le condotte, commissive od omissive necessarie a configurare l'inadempimento datoriale, pur rilevando come tale "deficit" discendesse dalla stessa dinamica dell'infortunio che aveva visto il dipendente, macchinista di Trenitalia S.p.a., colpito all'occhio da schegge metalliche prodotte dalla frenatura di un rotabile, mentre era in attesa di prendere la guida di un treno sul marciapiede di un binario.

Sugli stessi temi va pure ricordata, Sez. L, n. 11116/2021, Pagetta, Rv. 661134-01, in tema di responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c.

In essa si afferma che in tema di responsabilità datoriale per gli infortuni sul luogo di lavoro, nel caso in cui il danno di cui si invoca il risarcimento consegua a un evento riconducibile, sotto il profilo causale, a più soggetti, questi ultimi, quale che sia il titolo (contrattuale o extracontrattuale) per il quale siano chiamati a rispondere, sono solidalmente responsabili nei confronti della vittima, la quale può conseguentemente pretendere l'intero risarcimento da ciascuno di essi, indipendentemente dalla misura del relativo apporto causale nella determinazione dell'evento. Nella specie, relativa all'infortunio occorso al dipendente di un'impresa appaltatrice di lavori di facchinaggio, per essere caduto, mentre era intento a sistemare della merce, da un ballatoio dell'altezza di circa tre metri posto all'interno del magazzino della società committente, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, riconosciutane la responsabilità per violazione delle prescrizioni antinfortunistiche di cui all'art. 26, comma 4, del d.lgs. n. 81 del 2008, aveva condannato la committente, in solido con il socio illimitatamente responsabile, al risarcimento dell'intero danno subito dal lavoratore, pur avendo accertato il concorso di responsabilità di un altro dipendente nella produzione del fatto lesivo.

Sul fronte della posizione del lavoratore, in caso di violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c., va - invece - segnalata Sez. L, n. 28353/2021, Negri Della Torre, Rv. 662584-01. Secondo detta pronunzia, è legittimo, a fronte dell'inadempimento altrui - nella specie la violazione appunto dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. - il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, conservando, al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore.

Per completezza, va pure rammentato che nella stessa pronunzia si è altresì affermato che in tema di illecito disciplinare, qualora il lavoratore abbia rifiutato di eseguire un ordine - ancorché confermato per iscritto - dalla cui esecuzione possa derivare la violazione di norme penalmente sanzionate, ai sensi dell'art. 51 del c.c.n.l. attività ferroviarie del 16 aprile 2003, va esclusa la configurabilità dell'illecito, in quanto, per effetto di tale disposizione collettiva, il lavoratore assume la titolarità di una posizione di garanzia, rilevante ai sensi dell'art. 40, comma 2, c.p. Nella specie, è stato ritenuto legittimo il rifiuto di condurre un treno adibito al trasporto merci con il modulo di "equipaggio misto" o "agente solo" - vale a dire con a bordo soltanto un Tecnico Polifunzionale Cargo, in assenza di altro macchinista o agente abilitato alla guida - con pericolo per la sicurezza dei trasporti e l'incolumità di terzi.

Fra gli obblighi datoriali, a tutela del lavoratore che assista con continuità un familiare disabile convivente, Sez. L, n. 02969/2021, Lorito, Rv. 660344-02, in conformità con Sez. L, n. 24015/2017, Torrice, Rv. 646099-02, ha statuito che il divieto di trasferimento del lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, di cui all'art. 33, comma 5, della l. n. 104 del 1992, nel testo modificato dall'art. 24, comma 1, lett. b), della l. n. 183 del 2010, opera ogni volta muti definitivamente il luogo geografico di esecuzione della prestazione, anche nell'ambito della medesima unità produttiva che comprenda uffici dislocati in luoghi diversi, in quanto il dato testuale contenuto nella norma, che fa riferimento alla sede di lavoro, non consente di ritenere tale nozione corrispondente all'unità produttiva di cui all'art. 2103 c.c.

Sul datore incombe, altresì, il dovere di evitare la creazione di condizioni di lavoro “stressogene”.

Puntualizza Sez. L, n. 02676/2021, Cinque, Rv. 660527-01, a tal riguardo, che il cd. "straining" è ravvisabile allorquando il datore di lavoro adotti iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante condizioni lavorative "stressogene", e non anche quando la situazione di amarezza, determinata ed inasprita dal cambio della posizione lavorativa, sia determinata dai processi di riorganizzazione e ristrutturazione che abbiano coinvolto l'intera azienda.

Approfondisce le questioni connesse al demansionamento, anche avuto riguardo alla natura di illecito permanente, Sez. L, n. 31558/2021, Lorito, Rv. 662764-01.

Il protrarsi nel tempo di una situazione illegittima come il demansionamento del lavoratore, secondo il giudice di legittimità, non può essere intesa semplicemente come acquiescenza ad una situazione imposta dal datore di lavoro, trattandosi di una forma di illecito permanente. Ne consegue che la pretesa risarcitoria per il danno alla professionalità si rinnova in relazione al protrarsi dell'evento dannoso, impedendo il decorso della prescrizione fino al momento in cui il comportamento "contra ius" non sia cessato, né sussistono limiti alla proposizione della domanda ed al conseguente soddisfacimento del diritto ad essa sotteso per tutto il tempo durante il quale la condotta è stata perpetuata.

Del pari in tema di demansionamento, ma con diversa angolazione, volta a verificare la persistenza dell’interesse ad agire, si rammenta Sez. L, n. 30584/2021, Blasutto, Rv. 662614-01, secondo cui in tema di dequalificazione professionale, proposta domanda di reintegrazione nelle mansioni corrispondenti al livello di inquadramento posseduto non accompagnata da una domanda (di condanna o di accertamento del diritto) al risarcimento del danno, la cessazione del rapporto di lavoro in corso di causa determina il sopravvenuto difetto dell'interesse ad agire per l’impossibilità di conseguire un risultato utile giuridicamente apprezzabile, in quanto il mero accertamento dell'inadempimento datoriale non importa automaticamente l'insorgenza di una pretesa risarcitoria in favore del lavoratore demansionato.

Sui doveri del datore nei confronti del prestatore ed in particolare sul dovere di evitarne l’inattività, si ricorda Sez. L, n. 31182/2021, Lorito, Rv. 662993-01.

La S.C. afferma che il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di forzata inattività il dipendente, pur se non caratterizzato da uno specifico intento persecutorio ed anche in mancanza di conseguenze sulla retribuzione, viola l'art. 2103 c.c., sussistendo in capo al lavoratore non solo il dovere ma anche il diritto all'esecuzione della propria prestazione lavorativa, costituendo il lavoro non solo uno strumento di guadagno, ma anche una modalità di esplicazione del valore professionale e della dignità di ciascun cittadino; ne consegue che la forzata inattività del lavoratore determinata dal datore di lavoro comporta un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa.

Sull’obbligo del datore di adibire il prestatore alle mansioni per le quali è stato assunto, si rammenta anche Sez. L, n. 02969/2021, Lorito, Rv. 660344-01, in cui si detta una regola valutativa per l’individuazione delle categorie di appartenenza in caso di mansioni promiscue.

In caso di mansioni promiscue, ritiene la S.C., ove la contrattazione collettiva non preveda una regola specifica per l'individuazione della categoria di appartenenza del lavoratore, la prevalenza - a questo fine - non va determinata sulla base di una mera contrapposizione quantitativa delle mansioni svolte, bensì tenendo conto, in base alla reciproca analisi qualitativa, della mansione maggiormente significativa sul piano professionale, purché non espletata in via sporadica od occasionale.

Il giudicato formatosi sulla domanda di riconoscimento di una qualifica superiore ai sensi dell'art. 2103 c.c., soggiunge, inoltre, Sez. L, n. 03540/2021, Cinque, Rv. 660349-01, ricomprende ogni possibile profilo inerente al fatto costitutivo dedotto, e quindi lo svolgimento di mansioni superiori per il periodo di tempo utile al riconoscimento della superiore qualifica; pertanto, deve ritenersi preclusa la successiva domanda di una qualifica superiore diversa da quella rivendicata in precedenza, seppur avanzata in base ad una diversa norma contrattuale, poiché il fatto costitutivo resta sempre lo stesso.

Numerose sentenze di legittimità hanno poi indagato il tema dei cd “sistemi difensivi” e dei controlli tecnologici anche a distanza dei lavoratori.

Sez. L, n. 25732/2021, Raimondi, Rv. 662328-01, e la successiva conforme Sez. L, n. 34092/2021, Pagetta, Rv. 662776-01, riguardo al primo aspetto, quello dei cd. sistemi difensivi, affermano che sono consentiti i controlli anche tecnologici posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all'insorgere del sospetto; non ricorrendo le condizioni suddette, la verifica della utilizzabilità a fini disciplinari dei dati raccolti dal datore di lavoro andrà condotta alla stregua dell'art. 4 st.lav. novellato, in particolare dei suoi commi 2 e 3.

Sempre sul tema dei cd sistemi difensivi, Sez. L, n. 32760/2021, Balestrieri, Rv. 662878-01, afferma altresì che l'effettività del divieto di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori richiede che anche per i cd. controlli difensivi trovino applicazione le garanzie dell'art. 4, comma 2, della l. n. 300 del 1970 (nel testo anteriore alle modifiche di cui all'art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2015); ne consegue che se, per l'esigenza di evitare attività illecite o per motivi organizzativi o produttivi, il datore di lavoro può installare impianti ed apparecchi di controllo che rilevino anche dati relativi alla attività lavorativa dei dipendenti, tali dati non possono essere utilizzati per provare l'inadempimento contrattuale dei lavoratori medesimi. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, con riferimento a un lavoratore il quale, durante l'orario di lavoro, aveva fatto un uso improprio del terminale di servizio, collegandosi a siti internet ludici o commerciali, aveva ritenuto illegittimo l'utilizzo a fini disciplinari dei dati rilevati dal sistema di controllo della rete informatica aziendale, in mancanza di prova della funzionalizzazione del controllo stesso alla salvaguardia del patrimonio aziendale.

Nella medesima pronunzia si sottolinea altresì che a seguito della modifica dell'art. 4, comma 2, st.lav., ad opera dell'art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2015, gli elementi raccolti dal datore di lavoro mediante gli strumenti impiegati dal dipendente per rendere la prestazione lavorativa o mediante gli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze possono essere utilizzati anche per la verifica, a fini disciplinari, della diligenza del dipendente medesimo nello svolgimento dell'attività lavorativa (cfr. Sez. L, n. 32760/2021, Balestrieri, Rv. 662878-01).

Quanto al tema dei controlli a distanza, il giudice di legittimità precisa che l'autorizzazione amministrativa ex art. 4 st.lav. (nel testo anteriore alle modifiche di cui all'art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2015) all'installazione di impianti audiovisivi, contenente clausola che preveda limiti di utilizzabilità a fini disciplinari delle informazioni acquisite, conserva, ove i controlli siano stati effettuati successivamente alla data di entrata in vigore della novella legislativa - che sancisce l'utilizzabilità delle informazioni "a tutti í fini connessi al rapporto di lavoro" -, validità, in virtù del principio generale di conservazione degli atti giuridici, a condizione che la predetta clausola presenti, in relazione al contesto dell'atto in cui è inserita, profili di scindibilità e di autonomia, sì da potersi ritenere caducata per contrasto con la legge sopravvenuta, con conseguente non operatività dei predetti limiti di utilizzabilità (cfr. in tal senso Sez. L, n. 32683/2021, Cinque, Rv. 662767-01).

Di estremo interesse anche Sez. L, n. 25731/2021, Raimondi, Rv. 662273-01, in tema di “chat” aziendale, in cui si è ritenuto che la "chat" aziendale, destinata alle comunicazioni di servizio dei dipendenti, è qualificabile come strumento di lavoro ai sensi dell'art. 4, comma 2, st.lav. novellato, essendo funzionale alla prestazione lavorativa, con la conseguenza che le informazioni tratte dalla "chat" stessa, a seguito dei controlli effettuati dal datore di lavoro, sono inutilizzabili in mancanza di adeguata informazione preventiva ex art. 4, comma 3, st.lav.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva annullato il licenziamento comminato a una lavoratrice - per avere quest'ultima inviato ad una collega, su una "chat" aziendale, messaggi offensivi nei confronti, tra l'altro, di un superiore gerarchico -, sul presupposto che il datore fosse venuto a conoscenza dei messaggi stessi in occasione di un controllo tecnico del quale non era stata data alcuna preventiva comunicazione alla lavoratrice medesima.

Fra gli obblighi incombenti sul datore vi è senz’altro quello del pagamento delle somme dovute ai lavoratori.

Ebbene, con specifico riferimento alle modalità di pagamento di quanto dovuto alla propria dipendente da parte di Poste, va ricordata Sez. L, n. 10999/2021, Patti, Rv. 661102-01, in cui si è affermato che la disciplina prevista dall'art. 49, commi 1, 5 e 7, del d.lgs. n. 231 del 2007, che vieta le transazioni in denaro, con libretti di deposito o con titoli al portatore, se non eseguite tramite un intermediario abilitato, si applica, come precisato dal comma 15 della norma citata, solo quando l'intermediario è terzo, garante della tracciabilità delle disposizioni in oggetto tra soggetti comuni e non anche quando agisca come parte in tali transazioni o le effettui in proprio, sicché in tali ipotesi è altresì inapplicabile il regolamento di accettazione scritta della disposizione di tali operazioni da parte dell'intermediario abilitato, previsto dal comma 2 della disposizione richiamata, con conseguente inoperatività degli effetti estintivi e liberatori, di cui al successivo comma 3. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto che Poste Italiane S.p.a., al fine di eseguire un pagamento in favore di una propria dipendente creditrice e costituirla in mora con effetti liberatori, dovesse procedere secondo le modalità ordinarie previste dagli artt. 1210, 1212 c.c., 73 e 74, disp. att. c.c., essendo inidonei allo scopo i tentativi di pagamento effettuati con bonifico domiciliato presso qualsiasi ufficio postale e con assegno postale vidimato.

Da ultimo, sempre sul versante degli obblighi datoriali, nella peculiare ipotesi di contratto d'appalto stipulato con un consorzio, Sez. L, n. 40782/2021, Cavallaro, Rv. 663405-01, ha affermato che il vincolo contrattuale sussistente tra il committente e il consorzio, e tra quest'ultimo e le società consorziate, fa sì che il committente sia solidalmente responsabile, ex art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003 (nella versione anteriore alle modifiche apportate dal d.l. n. 5 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 35 del 2012, e dalla l. n. 92 del 2012), per gli inadempimenti delle consorziate, dovendo individuarsi in queste ultime le vere "appaltatrici", rispetto alle quali sorge l'esigenza di tutela in favore dei lavoratori, posta a fondamento della citata disposizione.

9. Società cooperative e rapporti di lavoro.

In tema di società cooperative, la deliberazione, nell'ambito di un piano di crisi aziendale, di una riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi del socio lavoratore e di forme di apporto anche economico da parte di questi, ex art. 6, comma 1, lett. d) ed e), della l. n. 142 del 2001, in deroga al principio generale del divieto di incidenza "in peius" del trattamento economico minimo previsto dalla contrattazione collettiva, di cui all'art. 3 della predetta legge, è condizionata alla necessaria temporaneità dello stato di crisi e, quindi, all'essenziale apposizione di un termine finale ad esso, la cui carenza non determina una ipotesi di illiceità dell'oggetto o una violazione di norme volte ad impedire la deviazione dallo scopo economico pratico della società, che giustificano la sanzione più grave della nullità ex art. 2379 c.c., ma rientra nella regola generale dell'annullabilità delle delibere assembleari di cui all'art. 2377 c.c., con applicazione del relativo regime di impugnazione (cfr. Sez. L, n. 02967/2021, Lorito, Rv. 660343-01).

Sez. L, n. 23727/2021, Piccone, Rv. 662151-01, quanto all’espulsione del socio nelle cooperative di cui al d.l. n. 36 del 1987, conv., con modif., dalla l. n. 452 del 1987, sottolinea che essi sono espulsi con atto dovuto del commissario governativo, ai sensi dell'art. 12, comma 3, del medesimo decreto, ogniqualvolta risultino assenti dal lavoro senza giustificato motivo, e, in ogni caso, qualora l'assenza dal lavoro si sia protratta per un periodo superiore a quindici giorni, non applicandosi tale disposizione nel solo caso in cui l'assenza sia dovuta a motivi di salute, comprovati da apposito certificato rilasciato da medico del Servizio sanitario nazionale e fatto pervenire entro tre giorni al commissario. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva respinto l'impugnazione della delibera di esclusione di un socio, la cui assenza dal lavoro era stata determinata dalla sottoposizione a detenzione domiciliare in esecuzione di una pena.

Sulle modalità di estinzione del rapporto di lavoro del socio di società cooperativa si veda Sez. L, n. 35341/2021, Pagetta, Rv. 662996-01, (richiamata anche nel capitolo concernente il licenziamento), per la quale l'estinzione del rapporto di lavoro del socio di società cooperativa può derivare dall'adozione della delibera di esclusione, di cui costituisce conseguenza necessitata "ex lege", o dall'adozione di un formale atto di licenziamento; solo in quest'ultimo caso, in presenza dei relativi presupposti, vi sarà spazio per l'esplicazione delle tutele connesse alla cessazione del rapporto di lavoro: a) solo risarcimento, ai sensi dell'art. 8 della l. n. 604 del 1966, in caso di perdita della qualità di socio per effetto di delibera di espulsione non impugnata o di rigetto dell'opposizione avverso la stessa, proposta ai sensi dell'art. 2533 c.c.; b) tutela obbligatoria o reale, nell'ipotesi di adozione di un provvedimento di licenziamento in assenza di delibera di espulsione.

Nella specie, la S.C. ha negato la configurabilità di una violazione degli oneri procedurali ex art. 7 st.lav. in difetto di un formale atto di licenziamento.

Sulla impugnazione della delibera di esclusione e del provvedimento di irrogazione del licenziamento, afferma Sez. L, n. 34721/2021, Pagetta, Rv. 662875-01, (anche essa richiamata nel capitolo sul licenziamento), che in tema di estinzione del rapporto del socio lavoratore di cooperativa, l'impugnazione della delibera di esclusione e del provvedimento di irrogazione del licenziamento, fondati sul medesimo fatto, comporta che l'accertamento della illegittimità della delibera per insussistenza del fatto determina, con efficacia "ex tunc", sia la ricostituzione del rapporto associativo che quella del rapporto di lavoro. Tale effetto pienamente ripristinatorio non lascia spazio alla tutela reintegratoria, ma solo a quella risarcitoria secondo gli ordinari criteri - prevista, in presenza dei relativi presupposti e ferma la necessità della costituzione in mora della società, per le ipotesi in cui venga affermata la giuridica continuità del rapporto di lavoro di fatto interrotto -, diversamente dal caso in cui l'atto di licenziamento sia fondato su ragioni autonome e distinte rispetto a quelle della delibera di esclusione, ove per il concreto ripristino del rapporto di lavoro è necessaria la rimozione dell'atto che ne ha determinato la cessazione, con possibilità, quindi, di ricorrere ex art. 18 st.lav.

10. Sulla contrattazione collettiva e sulla interpretazione del contratto.

In Sez. L, n. 29906/2021, Negri Della Torre, Rv. 662711-01, si afferma che il lavoratore iscritto ad un'associazione sindacale che abbia dato mandato alla stessa per la stipula di un nuovo contratto collettivo ha diritto all'applicazione delle disposizioni contenute in tale contratto, anche se lo stesso sia stato concluso successivamente alla data in cui il suo rapporto di lavoro è terminato, se le parti contraenti, nell'attribuire efficacia retroattiva al nuovo contratto, non abbiano operato alcuna distinzione fra i dipendenti in servizio e quelli non più in servizio alla data della stipulazione. Il principio è stato affermato in relazione agli aumenti retributivi previsti con efficacia retroattiva dall'art. 55 del c.c.n.l. dirigenza medica ospedali classificati del 14.6.2007, per i quali non era espressamente prevista l'estensione al personale non in servizio.

Quanto all’ambito applicativo della contrattazione collettiva, va ricordata Sez. L, n. 42001/2021, Boghetic, Rv. 663373-01, in linea di continuità con Sez. L, n. 24336/2013, Venuti, Rv. 628592-01. In essa viene ribadito che i contratti collettivi non aventi efficacia "erga omnes" sono atti negoziali privatistici, applicabili esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti tra soggetti iscritti alle associazioni stipulanti o che, in mancanza di tale condizione, abbiano espressamente aderito ai patti collettivi o li abbiano implicitamente recepiti, attraverso un comportamento concludente desumibile da una costante e prolungata applicazione, senza contestazione, delle relative clausole al singolo rapporto. Ne consegue che, ove una delle parti faccia riferimento, per la decisione della causa, ad una clausola di un determinato contratto collettivo di lavoro, il giudice del merito ha il compito di valutare in concreto il comportamento posto in essere dal datore di lavoro e dal lavoratore, allo scopo di accertare, pur in difetto della iscrizione alle associazioni sindacali stipulanti, se dagli atti siano desumibili elementi tali da indurre a ritenere ugualmente sussistente la vincolatività della contrattazione collettiva invocata.

In applicazione di detto principio, la S.C. ha quindi ritenuto applicabile la contrattazione collettiva aziendale, benché l'imprenditore avesse dato disdetta dall'associazione sindacale firmataria, attesa la costante e prolungata erogazione, successiva alla disdetta, di voci retributive, indennitarie ed incentivanti ivi previste.

Sull’ermeneutica si sofferma Sez. L, n. 30135/2021, Negri Della Torre, Rv. 662581-01, in cui si ritiene che anche nell'interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune, i canoni legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia, in forza del quale il criterio del senso letterale delle parole, di cui all'art. 1362, comma 1, c.c. è prevalente, potendo risultare assorbente di eventuali ulteriori e successivi criteri interpretativi. Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva riconosciuto al dipendente di un istituto di credito un premio annuale di rendimento - cd. PAR -, legando l'erogazione al solo fatto che il dipendente occupasse una posizione lavorativa strategica e che vi fosse stato un impegno di spesa in bilancio, trascurando il fatto che l'art. 44 del vigente c.c.n.l. per i dipendenti bancari, con disposizione confermata dal contratto integrativo aziendale, attribuisse all'impresa la facoltà discrezionale e unilaterale di subordinare il pagamento del premio al raggiungimento di determinati specifici obbiettivi fissati dalla banca.

Sul tema della interpretazione delle clausole negoziali, Sez. L, n. 24699/2021, Patti, Rv. 662267-01, ritiene che la comune intenzione dei contraenti deve essere ricercata sia indagando il senso letterale delle parole, alla luce dell'integrale contesto negoziale, ai sensi dell'art. 1363 c.c., sia utilizzando i criteri di interpretazione soggettiva di cui agli artt. 1369 e 1366 c.c., rispettivamente volti a consentire l'accertamento del significato dell'accordo in coerenza con la relativa ragione pratica o causa concreta e ad escludere, mediante un comportamento improntato a lealtà e salvaguardia dell'altrui interesse, interpretazioni in contrasto con gli interessi che le parti abbiano inteso tutelare con la stipulazione negoziale, in una circolarità del percorso ermeneutico, da un punto di vista logico, che impone all'interprete, dopo aver compiuto l'esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l'intenzione dei contraenti e di verificare se quest'ultima sia coerente con le restanti disposizioni dell'accordo e con la condotta tenuta dai contraenti medesimi.

In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto inammissibile la domanda del lavoratore volta al conseguimento di differenze retributive, considerate oggetto della generale rinunzia, contenuta in un verbale di conciliazione transattiva, "ad ogni domanda connessa all'esecuzione e cessazione del rapporto", senza valorizzare una esplicita clausola di salvezza altresì prevista nel predetto verbale.

Sulla questione della interpretazione delle clausole di un contratto collettivo, in particolare aziendale, va ricordata Sez. L, n. 02972/2021, Lorito, Rv. 660345-01, che si pone in linea di armonica condivisione con il precedente conforme Sez. L, n. 03547/2016, Marotta, Rv. 638939-01. In detta pronunzia si afferma che nell'interpretazione delle clausole di un contratto collettivo, in particolare aziendale, ai fini della classificazione del personale ha rilievo preminente la considerazione degli specifici profili professionali, rispetto alle declaratorie contenenti la definizione astratta dei livelli di professionalità delle varie categorie, poiché le parti collettive classificano il personale sulla base delle specifiche figure professionali dei singoli settori produttivi, ordinandole in una scala gerarchica, e successivamente elaborano le declaratorie astratte, allo scopo di consentire l'inquadramento di figure professionali atipiche o nuove. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, a fronte di una domanda di superiore inquadramento per la figura di responsabile dell'ufficio contenzioso, atipica per il settore di appartenenza, aveva fatto riferimento ai profili professionali contenuti nel c.c.n.l. Servizi ambientali del 30 giugno 2008.

Il tema della interpretazione degli atti negoziali viene indagato altresì in Sez. L, n. 00701/2021, Blasutto, Rv. 660185-01. L'interpretazione degli atti negoziali - che è riservata al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove rispettosa dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e sorretta da motivazione immune da vizi - va condotta, scrive la S.C., sulla scorta di due fondamentali elementi che si integrano a vicenda, e cioè il senso letterale delle espressioni usate e la "ratio" del precetto contrattuale, nell'ambito non già di una priorità di uno dei due criteri ma in quello di un razionale gradualismo dei mezzi d'interpretazione, i quali debbono fondersi ed armonizzarsi nell'apprezzamento dell'atto negoziale. Nella specie, la sentenza di merito aveva ritenuto che la clausola dell'accordo sindacale - adottato in applicazione dell'art. 4, comma 11, della l. n. 223 del 1991 - secondo cui ai dipendenti in esubero era data la facoltà di avanzare richiesta di adibizione a mansioni e qualifica inferiori con novazione del rapporto, non prevedesse un obbligo del datore di aderire alla richiesta in questione; la S.C., nel cassare la sentenza, ha rilevato che quest'ultima non avesse interpretato la predetta clausola alla luce della funzione gestionale ed obbligatoria dell'accordo, preordinato alla salvaguardia dei livelli occupazionali.

Quanto all’ambito temporale dei contratti collettivi di diritto comune, Sez. L, n. 03672/2021, Blasutto, Rv. 660532-01, ribadisce che poiché essi costituiscono manifestazione dell'autonomia negoziale degli stipulanti, operano esclusivamente entro l'ambito temporale concordato dalle parti, atteso che l'opposto principio di ultrattività della vincolatività del contratto scaduto sino ad un nuovo regolamento collettivo, ponendosi come limite alla libera volontà delle organizzazioni sindacali, sarebbe in contrasto con la garanzia prevista dall'art. 39 Cost.; pertanto, alla previsione della perdurante vigenza del contratto fino alla nuova stipulazione dev'essere riconosciuto il significato della indicazione, mediante la clausola di ultrattività, di un termine di durata chiaramente individuato in relazione a un evento futuro certo, benché privo di una precisa collocazione cronologica. Il principio è affermato dalla S.C. con riferimento al c.c.n.l. per il personale dipendente delle strutture sanitarie private del 23 novembre 2004, il cui art. 4, comma 2, ne stabiliva la durata "fino alla sottoscrizione del nuovo CCNL" (in senso conforme, si veda Sez. L, n. 23105/2016, Lorito, Rv. 642500-01).

Quanto agli accordi aziendali e - in particolare - alla forma dei negozi risolutivi, Sez. L, n. 03542/2021, Arienzo, Rv. 660422-01, nel solco di Sez. L, n. 02600/2018, Manna A., Rv. 646732-01, riafferma che il principio di libertà della forma si applica anche all'accordo o al contratto collettivo di lavoro di diritto comune, che pertanto - salvo diversa pattuizione scritta precedentemente raggiunta ai sensi dell'art. 1352 c.c. dalle medesime parti stipulanti - ben possono realizzarsi anche verbalmente o per fatti concludenti; la medesima libertà va quindi ritenuta anche rispetto ai negozi risolutori di detti accordi, come il recesso unilaterale ex art. 1373, comma 2, c.c., la cui prova può essere offerta anche per testimoni.

Sez. L, n. 31201/2021, Garri, Rv. 662681-01, si occupa della efficacia dei contratti collettivi aziendali nei confronti del lavoratore e ponendosi sulla scia di quanto già in precedenza ritenuto da Sez. L, n. 06044/2012, Bandini, Rv. 621877-01, sottolinea nuovamente che i contratti collettivi aziendali sono applicabili a tutti i lavoratori dell'azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, con l'unica eccezione di quei prestatori che, aderendo ad una organizzazione sindacale diversa, condividono con essa l'esplicito dissenso dall'accordo, potendo eventualmente essere vincolati da un accordo sindacale separato.

Tratta dei rapporti fra contratti collettivi di diverso ambito territoriale - nella specie, provinciale e aziendale - Sez. L, n. 05651/2021, Blasutto, Rv. 660678-01.

Al riguardo il giudice di legittimità ha sostenuto che i rapporti tra contratti collettivi di diverso ambito territoriale è improntato al principio dell’autonomia in virtù del quale l'effettiva volontà delle parti sociali dev'essere desunta attraverso il coordinamento delle diverse disposizioni delle fonti collettive, aventi tutte pari dignità e forza vincolante, con la conseguenza che i rispettivi fatti costitutivi ed estintivi non interagiscono, rispondendo ciascuna disciplina a regole proprie in ragione dei diversi agenti contrattuali e del loro diverso ambito territoriale. Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che, in applicazione della disciplina collettiva provinciale, aveva disposto la conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro di un operaio agricolo che era stato impiegato per più di 180 giorni nell'anno solare, ritenendo che tale esito non confliggesse con la previsione della contrattazione aziendale, secondo cui il datore era tenuto a garantire al lavoratore, nei primi dodici mesi di attività, almeno 51 giornate lavorative con un contratto di durata semestrale, e nei successivi dodici mesi almeno 180 giornate, da calcolarsi all'interno dell'anno solare.

Per la vicinanza ai temi trattati e per l’equiparazione operata dal giudice di legittimità, tra l’uso aziendale e la contrattazione collettiva aziendale, va qui segnalata anche Sez. L, n. 31204/2021, Patti, Rv. 662683-01. In essa si afferma che nell'ambito dei rapporti di lavoro, la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole ai dipendenti integra gli estremi dell'uso aziendale che, essendo diretto, quale fonte sociale, a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con la collettività impersonale dei lavoratori di un'azienda, agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale. A tal riguardo va ricordato che il principio è stato affermato dalla S.C. in un caso in cui il giudice del merito aveva ritenuto, sulla base degli usi in vigore presso l'azienda della società datrice di lavoro, non congruo il preavviso di convocazione di un lavoratore per un corso obbligatorio di formazione.

In tema di interpretazione del contratto va inoltre rammentata Sez. L, n. 03115/2021, Cinque, Rv. 660347-01, secondo cui il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi, delle quali la prima - consistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti - è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., mentre la seconda - concernente l'inquadramento della comune volontà nello schema legale corrispondente – si risolve nell'applicazione di norme giuridiche, anche straniere, se ne è allegata e provata la riferibilità al contratto ed il relativo contenuto, potendo pertanto formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo. Nella specie, in cui una compagnia aerea italiana aveva licenziato un pilota per avere, nel periodo di cassa integrazione, iniziato un'attività lavorativa in favore di una società straniera, la S.C. ha negato che il contratto di lavoro concluso in Quatar secondo la legge di quello Stato potesse essere considerato a tempo determinato, come invocato dal lavoratore, non avendo le parti apposto un termine di scadenza e non rinvenendosi nell'ordinamento estero una disposizione legale idonea a integrare la fonte dell'autonomia privata, secondo un meccanismo equivalente a quello dell'art. 1339 c.c., sì da rendere ogni contratto concluso con gli stranieri a tempo determinato.

11. Questioni specifiche derivanti dalla contrattazione collettiva.

Si è occupata della definizione del tempo massimo di conservazione del posto di lavoro (cd. limite esterno del periodo di comporto), avuto riguardo all’art. 41 del c.c.n.l. del 14 aprile 2011 Poste italiane, Sez. L, n. 30478/2021, Lorito, Rv. 662870-01, per la quale il limite di ventiquattro mesi previsto dall'art. 41 del c.c.n.l. citato è riferibile ad entrambe le ipotesi contemplate dalla disposizione pattizia, di c.d. comporto secco e di comporto per sommatoria, dovendosi ritenere che le parti sociali abbiano così inteso contemperare l'interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro nel perdurare della malattia con l'interesse datoriale al mantenimento di personale attivo nell'organizzazione aziendale, senza che tale previsione, così interpretata, possa dirsi confliggente con i principi di rango costituzionale posti a tutela del diritto alla salute o determini trattamenti discriminatori fra soggetti affetti da malattie gravi e non.

Del pari si occupa del periodo di comporto del personale addetto agli autoservizi Sez. L, n. 32155/2021, Cinque, Rv. 662672-01, per escludere per il personale addetto agli autoservizi di linea extraurbani con più di 25 dipendenti, l’applicazione del c.c.n.l. autoferrotranvieri del 23 luglio del 1976 (che ne fissa la durata in 12 mesi). Nella pronuncia si è ritenuto che in detta ipotesi debba trovare applicazione la disciplina di cui al r.d. n. 148 del 1931 e all'accordo nazionale del 15 novembre 2005 (che lo determina in 18 mesi), non avendo inciso sulla stessa la disposizione dell'art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 285 del 2005, che esclude le imprese con tali requisiti dimensionali dall'ambito di applicazione del citato r.d., in quanto intervenuta successivamente, allorquando le parti sociali avevano già disciplinato la materia.

Nella medesima pronuncia la S.C. afferma che l'estensione dell'applicabilità delle disposizioni del r.d. n. 148 del 1931 al personale delle imprese esercenti l'autoservizio urbano o extraurbano, disposta dagli artt. 1 e 4 della l. n. 1054 del 1960, aveva come presupposto il requisito dimensionale previsto dall'art. 1 di detta legge, che non dipendeva, tuttavia, dalla mera esistenza di un determinato numero (che doveva essere superiore a venticinque) di unità lavorative impiegate, ma anche da un apprezzamento discrezionale dell'Ispettorato generale della Motorizzazione Civile e Trasporti in Concessione (quale articolazione del Ministero dei Trasporti) in ordine alle effettive esigenze dell'impresa di disporre dei dipendenti per l'espletamento del servizio (cfr. Sez. L, n. 32155/2021, Cinque, Rv. 662672-02).

In tema di pagamento della c.d. indennità di vacanza contrattuale in virtù delle previsioni dell’Allegato A del c.c.n.l. Attività Ferroviarie del 28.6.2012, di rinnovo del c.c.n.l. Attività Ferroviarie del 16.4.2003, con particolare riguardo al soggetto obbligato, va segnalata Sez. L, n. 00554/2021, Pagetta, Rv. 660400-01.

Nella sopraindicata pronunzia si precisa che tale Allegato A, allorché riconosce ai lavoratori, in forza alle aziende che applicano il c.c.n.l. del 16.4.2003 alla data del rinnovo del contratto, un importo "una tantum", riconducibile all'indennità di vacanza contrattuale, implica l'attualità del rapporto di lavoro al momento del rinnovo del precedente contratto, sicché esso non può essere riconosciuto per i periodi in cui era in corso un rapporto di lavoro con un datore diverso da quello con il quale il rapporto era instaurato al momento del rinnovo del contratto collettivo; tale indennità ha infatti la funzione di assicurare un parziale recupero del potere di acquisto del dipendente rispetto all'aumento del costo della vita con riferimento al periodo di mancato rinnovo del contratto collettivo e il suo addossamento a carico del datore si giustifica con i possibili vantaggi economici che questi ne trae, onde non appare giustificato porre a carico del soggetto, con il quale il rapporto intercorreva al momento del rinnovo, l'intero importo anche per i periodi di attività prestata presso precedenti datori di lavoro, verso i quali alcun obbligo era stabilito dalla previsione collettiva.

Quanto all’art. 20 del c.c.n.l. autoferrotranvieri del 23 luglio 1976, Sez. L, n. 30802/2021, Blasutto, Rv. 662658-01, ha puntualizzato che la norma contrattuale individua la "tratta a cui l'agente appartiene" quale elemento strutturale utile per l'individuazione della residenza di servizio, sicché essa, in ragione delle mansioni in concreto svolte dai dipendenti (nella specie, operatori di esercizio, addetti alla conduzione di autobus) e del luogo in cui vengono espletate, è idonea a costituire riferimento per l'assegnazione della sede ed il riconoscimento dell'indennità di trasferta.

In tema di trasferta del lavoratore, l'art. 64 del c.c.n.l. per le aziende di credito dell'8 dicembre 2007 si interpreta nel senso che rientra nella nozione di "missione a corto raggio" quella da svolgere in giornata in una sola località posta a distanza non superiore a 25 km dal luogo di residenza del lavoratore, mentre, in virtù del canone logico-sistematico di cui all'art. 1363 c.c., tenuto conto del chiarimento a verbale apposto in calce allo stesso art. 64, esula da tale ambito (e legittima il trattamento dovuto per la trasferta ordinaria) la missione da svolgere raggiungendo una pluralità di località, ciascuna di esse ricompresa entro il raggio di 25 km dal luogo di residenza, in caso di superamento di 50 km nell'arco della medesima giornata, quale interpretazione rispondente alla "ratio" sottesa alla volontà delle parti sociali di evitare un trattamento discriminatorio e deteriore per il dipendente costretto ad eseguire nella stessa giornata più spostamenti, assumendo come termine di equivalenza, rispetto a colui che invece deve effettuarne uno solo, il limite complessivo massimo di 50 km. (cfr. Sez. L, n. 30136/2021, Blasutto, Rv. 662587-01)

Sez. L, n. 05642/2021, Cinque, Rv. 660677-01, in tema di inquadramento professionale, ha puntualizzato che la declaratoria della settima categoria del c.c.n.l. industria metalmeccanica del 5 dicembre 2012 si interpreta nel senso che solo i lavoratori preposti ad attività di coordinamento dei servizi o degli uffici devono possedere i requisiti della sesta declaratoria, congiunti alla notevole esperienza maturata, e non i lavoratori, pure indicati in settima, che svolgono attività di alta specializzazione ai fini della realizzazione degli obiettivi aziendali. Depone in tal senso non solo l'interpretazione letterale e lessicale della disposizione contrattuale, che rende evidente che la richiesta dei requisiti ulteriori concerne solo la prima tipologia dei lavoratori, stante l'utilizzo della disgiunzione "o" seguita dal pronome relativo "che" per differenziare le due figure professionali, ma anche quella logico-giuridica, perché l'essenza delle prestazioni del secondo profilo professionale sta nella ideazione e pianificazione, con caratteristiche di alta specializzazione, delle attività da svolgere per il raggiungimento degli obiettivi aziendali, per le quali non sono rilevanti le pregresse esperienze aziendali.

Del pari, in tema di inquadramento professionale, Sez. L, n. 02674/2021, Cinque, Rv. 660439-01, ritiene che il c.c.n.l. 16 aprile 2003 ha introdotto una nuova classificazione dei lavoratori, non più distinti per aree funzionali, ma distribuiti su una scala di otto livelli professionali, ove il livello C si distingue dal livello D, non solo per la presenza di una funzione di coordinamento e di gestione del personale e/o delle risorse affidate, ma anche per la qualità dell'attività svolta, poiché il profilo di "esperto", proprio del livello C, richiede una preparazione specifica e la destinazione ad attività specialistiche necessariamente superiori a quelle riconducibili al profilo di "tecnico specializzato", rientrante nell'altro livello, che comunque già si connota per un elevato grado di conoscenze, professionalità e competenze tecniche. Ai fini della riqualificazione del personale, le parti sociali hanno affiancato al nuovo c.c.n.l. un "accordo di confluenza" che, tuttavia, non effettua una automatica equiparazione tra vecchi e nuovi ruoli, ma costituisce un ausilio all'inquadramento dei vari profili professionali in considerazione della mutata specificità degli stessi.

Quanto al settore delle aziende di credito, in tema di scatti di anzianità dei dipendenti cui si applica la disciplina dei quadri direttivi, Sez. L, n. 30475/2021, De Marinis, Rv. 662869-01, ritiene che il mantenimento del regime anteriore a quello introdotto dall'art. 69 del c.c.n.l. dell'11 luglio 1999, il quale prevedeva fino a dodici scatti di anzianità, riguarda esclusivamente il personale il cui rapporto è proseguito con la banca datrice con cui era instaurato anteriormente a quella data, perché la "ratio" dell'istituto è intesa a promuovere il protrarsi dell'anzianità di servizio presso lo stesso soggetto datore; in caso di attivazione successiva di un diverso rapporto, trova invece applicazione il regime convenzionale di riconoscimento dell'anzianità pregressa stabilito nell'art. 69 del c.c.n.l. citato, che prevede un numero minore di scatti di anzianità.

Da ultimo, con riguardo al personale ferroviario, Sez. L, n. 41583/2021, Pagetta, Rv. 663379-01, afferma che l'art. 26 del c.c.n.l. attività ferroviarie, in relazione alla malattia e agli infortuni non collegati all'attività lavorativa, fissa il periodo di comporto in dodici mesi, senza che, ai fini della verifica del suo superamento, possa attribuirsi all'espressione contrattuale voluta dalle parti ("12 mesi") un significato convenzionale diverso (nella specie, che il mese fosse pari a 26 giorni, corrispondenti a 312 giorni di malattia, anziché 365) da quello desumibile dal calendario comune, dovendosi altresì ritenere inconferente la clausola di cui al successivo art. 63, secondo cui la retribuzione giornaliera si calcola dividendo per ventisei la retribuzione mensile, trattandosi di previsione sistematicamente estranea al calcolo degli istituti connessi agli aspetti retributivi.

12. Le sanzioni amministrative.

In tema di sanzioni amministrative pecuniarie per omessa registrazione nelle scritture contabili dei lavoratori dipendenti assunti ai sensi dell’art. 3, comma 3, del d.l. n. 12 del 2002, conv., con modif. dalla l. n. 73 del 2002, Sez. L, n. 35978/2021, Amendola F., Rv. 662918-01, afferma che la modifica apportata a detta norma dall'art. 36-bis, comma 7, lett. a), del d.l. n. 223 del 2006, conv., con modif., dalla l. n. 248 del 2006, non si applica alle violazioni accertate prima dell'11 agosto 2006, anche in ragione della natura istantanea ad effetti permanenti del suddetto illecito omissivo, che si consuma nel momento in cui, decorso il termine stabilito per la comunicazione dell'assunzione agli uffici competenti, detta comunicazione non sia effettuata.

Della modifica della qualificazione giuridica del fatto storico addebitato rispetto a quanto riportato nel verbale si occupa Sez. L, n. 24082/2021, Cinque, Rv. 662172-01, con riferimento alla sanzione amministrativa inflitta al titolare di una ditta individuale per la violazione delle norme in materia di assunzione previste dall'art. 4-bis del d.lgs. n. 181 del 2000, in una fattispecie in cui il verbale di accertamento faceva riferimento a una lavoratrice subordinata, mentre l'ordinanza-ingiunzione ad un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, senza, tuttavia, che il fatto materiale contestato avesse subito alcuna modificazione. Al riguardo viene affermato che, in tema di sanzioni amministrative, il mutamento dei termini della contestazione rispetto all'originario verbale di accertamento della violazione non è causa di illegittimità del provvedimento sanzionatorio qualora riguardi soltanto la qualificazione giuridica del fatto oggetto dell'accertamento, sulla cui base l'ente irrogatore abbia ritenuto di passare dalla contestazione di un illecito a quella di un altro, purché, a fondamento del rettificato addebito, non sia stato posto alcun fatto nuovo, atteso che, in tale evenienza, va esclusa la violazione del diritto di difesa, mantenendo il trasgressore la possibilità di contestare l'addebito in relazione all'unico fatto materiale accertato nel rispetto delle garanzie del contraddittorio.

Quanto al concorso di persone nell’illecito amministrativo, va rammentato che per Sez. L, n. 30712/2021, Amendola F., Rv. 662590-01, in tema di sanzioni amministrative, l'art. 5 della l. n. 689 del 1981, che disciplina il concorso di persone nell'illecito, recepisce i principi fissati in materia dal codice penale e stabilisce il principio per cui ciascuno dei trasgressori soggiace per intero alla sanzione stabilita per l'infrazione, senza che possa venire in rilievo il successivo art. 6, che regola la diversa ipotesi della solidarietà con l'autore dell'illecito del soggetto che non abbia concorso nella violazione; ne consegue che, quando l'infrazione sia addebitata a più persone e l'opposizione a ordinanza-ingiunzione sia proposta solo da uno dei concorrenti, non si applica l'art. 1306 c.c. e la decisione favorevole all'opponente non spiega efficacia nei confronti di coloro che non abbiano proposto opposizione.

13. Sui rapporti di lavoro dei piloti aerei e dei marittimi.

In tema di trasporto aereo non commerciale, e specificamente con riferimento al servizio degli aerei antincendi, si occupa dei limiti di età per le attività professionali consentite dalle licenze e dagli attestati di volo Sez. L, n. 23148/2021, Cinque, Rv. 662106-01, puntualizzando che in materia di trasporto aereo non commerciale, i limiti di età per le attività professionali consentite dalle licenze e dagli attestati di volo sono regolati dal d.P.R. n. 566 del 1988, nella versione "ratione temporis" applicabile, da ritenersi ancora vigente, in assenza di disciplina eurounitaria con esso contrastante.

Quanto ai piloti di aeromobili alle dipendenze di CAI S.p.a., sempre con riferimento ai limiti di età, Sez. L, n. 09662/2021, Blasutto, Rv. 661099-01, afferma che la previsione, contenuta nel regolamento approvato con d.P.C.M. 9 settembre 2008 in attuazione dell'art. 748, comma 3, c.nav., della risoluzione automatica, al compimento del sessantesimo anno di età, del rapporto di lavoro dei piloti di aeromobili alle dipendenze di CAI S.p.a. (società svolgente attività istituzionale di natura pubblica per finalità di sicurezza nazionale), non contrasta con la direttiva 2000/78/CE, dal momento che – avuto riguardo a quanto affermato, all'esito del rinvio pregiudiziale, dalla CGUE nella sentenza 7 novembre 2019, causa C-396/18 – la differenza di trattamento in ragione dell'età dalla predetta previsione determinata è giustificata dalla finalità di garantire il perseguimento degli obiettivi di sicurezza pubblica, oltre che un adeguato livello di sicurezza dei voli, nel contesto di una facoltà legittima.

Del lavoro marittimo si è interessata con riferimento ai lavoratori italiani, ingaggiati da raccomandatario marittimo italiano per l’imbarco su navi di nazionalità straniera, che sono soggetti alla disciplina di cui all’art. 4 della l. n. 135 del 1977, Sez. L, n. 31137/2021, Patti, Rv. 662678-01. Il giudice di legittimità ha precisato che detti lavoratori hanno diritto ad una tutela assicurativa, contro le malattie e gli infortuni, non inferiore a quella obbligatoria secondo la legge italiana - ancorché possano essere assicurati presso enti o società di assicurazione, italiani o stranieri - nonché ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello stabilito dai principi fondamentali, anche in materia di retribuzione, contenuti nei vigenti contratti collettivi di lavoro nazionali, seppure non applicabili direttamente al rapporto di lavoro. Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva escluso che il raccomandatario marittimo rispondesse nei confronti del lavoratore, come il datore di lavoro, del risarcimento del danno ex art. 2087 c.c.

14. Riconoscimento della sottoscrizione in una scrittura privata, rinunzie e transazioni e prescrizione in tema di rapporto di lavoro.

La scrittura privata, una volta intervenuto il riconoscimento della sottoscrizione, è assistita da una presunzione di veridicità per quanto attiene alla riferibilità dell'intero contenuto al suo sottoscrittore; qualora, tuttavia, questi neghi di essere autore, totalmente o parzialmente, delle dichiarazioni risultanti dal documento, al fine di superare la presunzione, deve proporre querela di falso (cfr. Sez. L, n. 29912/2021, Arienzo, Rv. 662610-01).

Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza di merito che in una controversia di lavoro ha ritenuto di superare la presunzione di riconoscimento di una scrittura effettuata da una lavoratrice, a seguito di una transazione, sul presupposto che essa si presentava palesemente adulterata, benché la dipendente non avesse proposto querela di falso, limitandosi ad una generica contestazione di abusiva correzione della cifra inizialmente indicata come percepita.

In tema di rapporto di lavoro, Sez. L, n. 24078/2021, Cinque, Rv. 662157-01 ha definito la categoria dei diritti indisponibili, cui si applica, qualora abbiano formato oggetto di rinunzie o transazioni, l'art. 2113 c.c., precisando che essa comprende non soltanto i diritti di natura retributiva o risarcitoria correlati alla lesione di diritti fondamentali della persona, ma, alla luce della "ratio" sottesa alla disposizione codicistica, posta a tutela del lavoratore, quale parte più debole del rapporto di lavoro, ogni altra posizione regolata in via ordinaria attraverso norme inderogabili, salvo che vi sia espressa previsione contraria. Nella specie, sulla base del principio di cui in massima, la S.C. ha ritenuto annullabile ex art. 2113 c.c., se impugnata ed in presenza dei relativi presupposti, la transazione relativa alla cessazione dei rapporti di collaborazione formalmente autonoma succedutisi tra le parti, di cui era stata successivamente accertata in via giudiziale la natura subordinata.

Del tema delle transazioni si occupa, su un piano più generale, Sez. L, n. 16154/2021, Patti, Rv. 661536-01. In tema di transazione, le reciproche concessioni, cui si riferisce il primo comma dell'art. 1965 c.c., devono essere intese in correlazione con le reciproche pretese e contestazioni e non già in relazione ai diritti effettivamente a ciascuna delle parti spettanti.

Quanto alla prescrizione in materia di lavoro, Sez. L, n. 30303/2021, Lorito, Rv. 662611-01, in conformità con Sez. 1, n. 15631/2016, Valitutti, 640674-01, ha riaffermato che l'eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, ossia l'inerzia del titolare, senza che rilevi l'erronea individuazione del termine applicabile, ovvero del momento iniziale o finale di esso, trattandosi di questione di diritto sulla quale il giudice non è vincolato dalle allegazioni di parte.

15. La nullità dei contratti di lavoro.

Sez. L, n. 30544/2021, Pagetta, Rv. 662667-01, ha approfondito il tema della nullità del contratto di lavoro subordinato, con riguardo al caso di sequestro dell’azienda disposto ai sensi del d.lgs. n. 159 del 2011 (cd. “codice antimafia”), affermando che il contratto di lavoro subordinato concluso tra l'amministratore giudiziario ed uno dei soggetti di cui al primo periodo del comma 3 dell'art. 35 del citato d.lgs. è nullo per contrarietà all'ordine pubblico, sicché la risoluzione del rapporto di lavoro disposta dall'amministratore giudiziario su ordine del giudice delegato è legittima e non necessita di un atto formale di recesso, applicandosi al detto rapporto, ai sensi dell'art. 41, comma 4, del d.lgs. 159 del 2011, le ordinarie norme civilistiche in materia di nullità contrattuale, con esclusione della disciplina del licenziamento e della relativa tutela giurisdizionale.

La nullità del contratto coniugata al rispetto del principio della domanda è il terreno di elezione di Sez. L, n. 11106/2021, Blasutto, Rv. 661103-01. Il potere del giudice di rilevare in via officiosa l'esistenza di una causa di nullità di un contratto va contemperato e coordinato - si afferma - con il principio della domanda, fissato dagli artt. 99 e 112 c.p.c., nel senso che occorre comunque la tempestiva proposizione della questione in giudizio. Nella specie, la S.C. ha negato la rilevabilità di ufficio della nullità del termine di un contratto, stipulato in esecuzione di un accordo transattivo, perché la relativa domanda non era stata formulata nel ricorso introduttivo, in cui era stata dedotta la sola nullità della transazione e del termine apposto ai contratti di somministrazione all'origine della transazione.

16. In tema di risarcimento del danno.

Della liquidazione del danno morale soggettivo in via equitativa e della sindacabilità in sede di legittimità si è occupata Sez. L, n. 31358/2021, Pagetta, Rv. 662663-01, affermando che la liquidazione in via equitativa del danno morale soggettivo - quale autonoma voce di pregiudizio non patrimoniale - è suscettibile di rilievi in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione, solo se difetti totalmente di giustificazione o si discosti sensibilmente dai dati di comune esperienza, o sia fondata su criteri incongrui rispetto al caso concreto o radicalmente contraddittori, ovvero se l'esito della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per eccesso o per difetto. Il principio è stato affermato in relazione ad un’ipotesi in cui il pregiudizio lamentato consisteva nel patema d'animo derivante dal coinvolgimento nel naufragio della nave Costa Concordia; la S.C. ha escluso la censurabilità della liquidazione equitativa del danno operata dal giudice di merito attraverso l'utilizzo delle tabelle milanesi ed esplicitamente tenendo conto della drammaticità dei fatti vissuti.

Sul dovere di diligenza imposto al danneggiato si ricorda Sez. L, n. 22352/2021, Garri, Rv. 662111-01, in cui si afferma che l'art. 1227, comma 2, c.c., escludendo il risarcimento per il danno che il creditore avrebbe potuto evitare con l'uso della normale diligenza, impone a quest'ultimo una condotta attiva, espressione dell'obbligo generale di buona fede, diretta a limitare le conseguenze dell'altrui comportamento dannoso, intendendosi comprese nell'ambito dell'ordinaria diligenza, a tal fine richiesta, soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (in armonia con la precedente conforme Sez. 6-3, n. 25750/2018, Sestini, Rv. 651371-01).

Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, in relazione al risarcimento preteso da un ente pubblico nei confronti di un proprio dipendente per il danno patrimoniale corrispondente ai pagamenti relativi ad appalti di cui era stata accertata l'irregolarità, aveva ritenuto che la mancata proposizione, da parte dell'ente pubblico, dell'opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto nei suoi confronti dal creditore esulasse dall'ambito di applicazione dell'art. 1227, comma 2, c.c., senza tuttavia accertare in concreto se tale omissione fosse ricollegabile a una condotta negligente dello stesso danneggiato e se vi fossero effettive possibilità di accoglimento.

Si occupa, su altro versante, invece, della liquidazione del danno alla professionalità, Sez. L, n. 02472/2021, Cinque, Rv. 660335-01, al riguardo precisando che il danno non patrimoniale alla professionalità, patito dal lavoratore in conseguenza della grave lesione dei propri diritti costituzionalmente garantiti, va ascritto alla categoria del danno emergente, sicché la relativa liquidazione giudiziale dev'essere effettuata al lordo delle ritenute fiscali, essendo soggette a tassazione, tra le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio, soltanto quelle dirette a reintegrare il lucro cessante derivante dalla mancata percezione di redditi.

Va poi menzionata Sez. L, n. 24405/2021, Boghetich, Rv. 662109-01.

Quando un medesimo danno è provocato da più soggetti, scrive il giudice di legittimità, per l'inadempimento di contratti diversi, intercorsi rispettivamente tra ciascuno di essi e il danneggiato, tali soggetti debbono essere considerati corresponsabili in solido, non tanto sulla base dell'estensione alla responsabilità contrattuale dell'art. 2055 c.c., dettato per la responsabilità extracontrattuale, quanto perché, sia in tema di responsabilità contrattuale che di responsabilità extracontrattuale, se un unico evento dannoso è imputabile a più persone, al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell'obbligo risarcitorio è sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso di causalità ed il concorso di più cause efficienti nella produzione dell'evento (dei quali, del resto, l'art. 2055 costituisce un'esplicitazione), che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrlo. Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva escluso, per carenza di allegazioni e prova, l'efficienza causale della condotta inadempiente, contestata ad un direttore di filiale, rispetto al danno patrimoniale lamentato dall'istituto di credito.

Afferma il diritto del lavoratore al risarcimento del danno nei confronti del datore che si sia reso inadempiente rispetto agli obblighi assunti nei contratti di assicurazione stipulati ai sensi dell'art. 4 del r.d.l. n. 5 del 1942, conv., con modif., dalla l. n. 1251 del 1942, Sez. L, n. 40783/2021, Cavallaro, Rv. 663376-01.

Il principio affermato è nel senso che i contratti di assicurazione stipulati dal datore di lavoro, ai sensi dell'art. 4 del r.d.l. n. 5 del 1942, conv., con modif., dalla l. n. 1251 del 1942, al fine di garantire ai singoli dipendenti un sistema di liquidazione dell'indennità di anzianità superiore al minimo legale, escludendo a carico dello stesso datore l'obbligo di eseguire versamenti al Fondo per l'indennità agli impiegati, hanno natura di contratti a favore di terzo; ne consegue che, prevedendo l'art. 1413 c.c. l'opponibilità al terzo da parte del promittente delle eccezioni fondate sul contratto dal quale egli deriva il suo diritto, e dovendo ricomprendersi fra tali eccezioni anche l'inadempimento dello stipulante, l'inosservanza da parte del datore di lavoro dell'obbligo di pagamento dei premi determina il venir meno del diritto dei lavoratori alla prestazione assicurativa, fatta salva la sua responsabilità risarcitoria, giacché l'inoperatività del contratto di assicurazione conseguente all'inadempimento datoriale impedisce il sorgere delle prestazioni assicurative in favore dei lavoratori.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso il diritto del dipendente alla prestazione assicurativa, all'esito dello svincolo del contratto di assicurazione per il mancato versamento dei premi da parte del datore di lavoro.

Da ultimo va ricordata Sez. 6-L, n. 36878/2021, Amendola F., Rv. 663090-01, in cui si afferma che l'obbligazione risarcitoria da illecito aquiliano costituisce un debito di valore, rispetto al quale gli interessi "compensativi" valgono a reintegrare il pregiudizio derivante dalla mancata disponibilità della somma equivalente al danno subito nel tempo intercorso tra l'evento lesivo e la liquidazione; la relativa determinazione non è, peraltro, automatica né presunta "iuris et de iure", occorrendo che il danneggiato provi, anche in via presuntiva, il mancato guadagno derivatogli dal ritardato pagamento.

17. Assunzione obbligatoria dei disabili, collocamento in aspettativa per incarichi sindacali e condotta antisindacale del datore.

Quanto al tema della assunzione obbligatoria dei disabili, in Sez. L, n. 30138/2021, De Marinis, Rv. 662588-01, viene evidenziato che la "ratio" dell'art. 9 della l. n. 68 del 1999 e la lettera dell'art. 2 della stessa legge - nella parte in cui fa riferimento a strumenti che permettano di valutare adeguatamente le persone con disabilità "nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto" - portano ad escludere un'opzione ermeneutica volta ad assegnare al termine "qualifica", di cui al summenzionato art. 9, comma 2, una portata astratta ed indefinita, rendendo di contro doverosa una interpretazione che assegni al suddetto termine un significato più concreto, da intendersi cioè come specificazione delle capacità tecnico-professionali, di cui deve essere provvisto l'assumendo ai fini della sua collocazione lavorativa. Ne consegue che l'invio da parte del datore di lavoro di prospetti informativi limitati alla specificazione della mera "qualifica" corrispondente al posto di lavoro disponibile per il disabile devono considerarsi incompleti, così da rendere a lui imputabile il mancato avvio al lavoro di una unità di personale disabile ad integrazione della quota d'obbligo e, di conseguenza, a configurare a suo carico il relativo illecito amministrativo.

Sez. L, n. 30495/2021, Cinque, Rv. 662634-01, afferma che il collocamento in aspettativa, ai sensi dell'art. 31 della l. n. 300 del 1970, del lavoratore cui siano stati conferiti incarichi sindacali non determina di per sé la stabilità del rapporto di lavoro - la quale ricorre quando questo sia soggetto alla disciplina della legge predetta (art. 18) o ad altra analoga che ne preveda la risolubilità per cause determinate ed attribuisca al lavoratore, in caso di violazione della medesima, il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro -, atteso che la "ratio" del citato art. 31, interpretato anche in collegamento con l'art. 51 Cost., risiede nella necessità di porre il lavoratore chiamato a funzioni pubbliche elettive o a cariche sindacali nella condizione migliore per svolgere l'incarico, senza peraltro porlo in una situazione di privilegio rispetto a quella degli altri dipendenti dello stesso datore di lavoro, avendo lo stesso art. 31 solo l'effetto di escludere che l'accettazione del mandato comporti di per sé la perdita del posto di lavoro.

In motivazione, la S.C. ha ritenuto manifestamente infondati i denunciati profili di incostituzionalità dell'art. 31 cit., in relazione agli artt. 3 e 39 Cost., nella parte in cui non prevede la temporanea inefficacia del licenziamento per il lavoratore chiamato a svolgere le funzioni sindacali, analogamente a quanto accade per le fattispecie di cui agli artt. 2110 e 2111 c.c., ritenute dalla Corte totalmente differenti dal punto di vista sia genetico che funzionale.

In tema di repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro ai sensi dell'art. 28 della l. n. 300 del 1970, afferma la S.C. che la condanna di cessazione si estende a tutti i comportamenti datoriali idonei a ledere le libertà sindacali, anche se tenuti dal datore di lavoro dopo la proposizione della domanda, qualora costituiscano prosecuzione dei medesimi comportamenti dichiarati illegittimi (cfr. Sez. L, n. 31419/2021, Balestrieri, Rv. 662712-01).

Nella specie, il giudice di legittimità ha confermato la sentenza di merito che, in sede di rinvio, aveva condannato la parte datoriale per non aver riconosciuto il diritto dei lavoratori alla fruizione di permessi nel monte ore, anche in relazione ai permessi non fruiti dalla data della domanda alla pronuncia della sentenza.

18. Le dimissioni.

Le dimissioni c.d. "incentivate", e cioè agevolate da provvidenze o incentivi, analogamente alla mobilità volontaria e al prepensionamento, danno luogo alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e, come tali, non sono equiparabili al licenziamento; ne consegue che il lavoratore che abbia risolto volontariamente il contratto di lavoro, sebbene su sollecitazione del datore di lavoro e dietro riconoscimento di un incentivo economico, non ha diritto ad essere preferito nelle assunzioni, ex art. 15 della l. n. 264 del 1949 e dell'art. 8 della l. n. 233 del 1991, in quanto è destinatario dell'obbligo legale di riassunzione solo l'imprenditore che abbia licenziato per riduzione del personale (in tal senso Sez. L, n. 35667/2021, Cinque, Rv. 662997-01).

Le dimissioni del lavoratore rassegnate sotto minaccia di licenziamento, afferma inoltre Sez. L, n. 41271/2021, Pagetta, Rv. 663356-01, sono annullabili per violenza morale solo qualora venga accertata - con onere probatorio a carico del lavoratore che deduce l'invalidità dell'atto di dimissioni - l'inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento per insussistenza dell'inadempimento addebitato al dipendente, dovendosi ritenere che, in detta ipotesi, il datore di lavoro, con la minaccia del licenziamento, persegua un risultato non raggiungibile con il legittimo esercizio del diritto di recesso.

19. Impresa familiare: la liquidazione della quota.

In tema di impresa familiare, la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi del familiare va determinata, sulla base della quantità e qualità del lavoro svolto dal predetto, e non della sua effettiva incidenza causale sul loro conseguimento, in relazione al valore complessivo dell'impresa che si connota come entità dinamica soggetta a variazioni in funzione dell'andamento del mercato; ne deriva che, nella liquidazione della quota del familiare al momento della cessazione, va inclusa anche la rivalutazione di un fattore della produzione riferibile a cause estranee all'attività svolta dal partecipante, che si sia tradotto in un aumento di redditività dell'impresa medesima, ed analogamente i fattori di decremento dei beni che abbiano riflessi sulla produttività (si veda Sez. L, n. 01401/2021, Pagetta, Rv. 660175-01).

In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva espunto dal calcolo della quota l'aumento di valore di mercato degli immobili imputabile all'introduzione della moneta unica.

20. Il contratto di solidarietà e l’integrazione salariale.

In caso di difficoltà economico finanziarie dell’imprenditore, Sez. L, n. 09307/2021, Lorito, Rv. 660872-01, quanto all’ipotesi di stipula del contratto di solidarietà, di cui all'art. 1 del d.l. n. 726 del 1984, conv. con modif. dalla l. n. 863 del 1984, quale strumento volto ad evitare una riduzione di personale in situazioni di eccedenza, osserva che esso si colloca all'interno di una fattispecie complessa comprensiva del provvedimento ministeriale di ammissione all'integrazione salariale che, con efficacia costituiva, ne accerta i presupposti, sicché la sua stipula non è preclusa dal pregresso avviamento di altra procedura di mobilità, allorché nella stessa azienda si renda necessario fronteggiare una criticità produttiva sopravvenuta.

Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto illegittima la stipula di un contratto di solidarietà per un ambito aziendale parzialmente coincidente con altro già interessato da una procedura di mobilità in atto.

Quanto alla violazione dei criteri stabiliti dalla contrattazione collettiva per la scelta dei lavoratori da porre in cassa integrazione guadagni straordinaria, in linea con Sez. L, n. 24738/2015, Blasutto, Rv. 637992-01, si segnala Sez. L, n. 10376/2021, De Marinis, Rv. 661010-01, in cui si ribadisce che, in caso di violazione dei criteri stabiliti dalla contrattazione collettiva per la scelta dei lavoratori da porre in cassa integrazione guadagni straordinaria, non trova applicazione l'art. 18 st.lav., sicché il lavoratore ingiustificatamente sospeso non ha diritto alla riammissione in servizio, ma solo al risarcimento del danno nella misura corrispondente alla differenza fra la retribuzione piena (al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali) ed il trattamento corrisposto dalla cassa integrazione guadagni straordinaria nel periodo d'ingiustificata sospensione.

Sez. L, n. 03116/2021, Cinque, Rv. 660348-01, affronta il tema della decadenza dal diritto al trattamento di integrazione salariale affermando che l'art. 8, comma 5, del d.l. n. 86 del 1988, conv., con modif., dalla l. n. 160 del 1988, "ratione temporis" vigente, che individua le attività lavorative soggette a comunicazione preventiva (o ad autocertificazione in caso di personale di volo) all'INPS, va inteso nel suo significato più ampio, come riferentesi all'insieme di condotte umane caratterizzate dall'utilizzo di cognizioni tecniche, del più vario genere, senza che assuma alcun rilievo la loro effettiva remunerazione, rilevando la sola potenziale redditività, perché lo scopo della norma è quello di consentire all'Inps la verifica circa la compatibilità dell'attività da svolgere con il perdurare del lavoro presupposto dell'integrazione salariale. Nella specie, la S.C. ha ritenuto formasse oggetto di necessaria autocertificazione all'INPS l'attività preparatoria di addestramento dei piloti volta al conseguimento della licenza di volo.

  • rapporti di lavoro e diritto del lavoro
  • indennità di licenziamento
  • licenziamento
  • licenziamento abusivo

CAPITOLO XVIII

IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE E COLLETTIVO

(di Luigi Di Paola )

Sommario

1 Potere disciplinare. - 2 Licenziamento individuale. - 2.1 Onere di comunicazione per iscritto. - 2.2 Giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento. - 2.3 Giustificato motivo oggettivo di licenziamento. - 2.4 Licenziamento del socio di società cooperativa di produzione e lavoro. - 2.5 Il licenziamento del lavoratore in età pensionabile. - 2.6 L’impugnazione del licenziamento e le decadenze. - 2.7 Applicazioni della legge “Fornero”. - 2.8 Le conseguenze del licenziamento illegittimo. - 2.9 Il preavviso. - 3 Licenziamenti collettivi.

1. Potere disciplinare.

Le pronunce di rilievo emesse nel corso dell’anno in rassegna confermano alcuni principi centrali della complessiva regolamentazione del procedimento disciplinare.

Sul delicato tema della predeterminazione delle infrazioni e delle sanzioni, Sez. L, n. 33811/2021, Cinque, Rv. 662834-01, ha affermato, sulla scorta di un indirizzo consolidato, che, ai fini del rispetto dell’art. 7 della l. n. 300 del 1970, il codice disciplinare aziendale non deve necessariamente contenere un’analitica e specifica predeterminazione delle infrazioni e, in relazione alla loro gravità, delle corrispondenti sanzioni, secondo il rigore formale proprio del sistema sanzionatorio penale, essendo sufficiente per la sua validità che esso sia redatto in forma che renda chiare le ipotesi di infrazioni, sia pure dandone una nozione schematica e non dettagliata, e che indichi le correlative previsioni sanzionatorie, anche se in maniera ampia e suscettibile di adattamento secondo le effettive e concrete inadempienze.

In ordine alla connessa problematica dell’affissione, con la stessa pronunzia - Sez. L, n. 33811/2021, Cinque, Rv. 662834-02 - è stato ribadito che, ai fini della garanzia procedimentale di cui al primo comma dell’art. 7 st.lav., il codice di disciplina aziendale, quale insieme delle norme poste dal datore di lavoro o dalla contrattazione collettiva per definire sanzioni ed illeciti disciplinari, è efficace solo se portato a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti, mentre resta esclusa la possibilità di considerare equipollenti i mezzi di comunicazione che abbiano come destinatari i singoli dipendenti individualmente considerati.

Resta fermo - e sul punto v., ancora, Sez. L, n. 33811/2021, Cinque, Rv. 662834-03, che il precetto concernente l’affissione in luogo accessibile a tutti delle norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni ed alle procedure di contestazione delle stesse, è soddisfatto - realizzandosi in entrambi i casi l’esigenza di una più agevole conoscibilità del potere punitivo del datore di lavoro e dei relativi limiti - sia quando le norme disciplinari siano affisse come tali, avulse dal contratto che le contiene, sia quando sia affisso il contratto che contiene le stesse norme. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto assolto l’obbligo di pubblicità in presenza di un’affissione ininterrotta, in luogo idoneo, dell’intero contratto collettivo, comprensivo del codice disciplinare).

Quanto alla fase iniziale del procedimento disciplinare, Sez. L, n. 35664/2021, Balestrieri, Rv. 662916-01, ha riaffermato, in conformità ad un orientamento costante, che ai fini della valutazione dell’immediatezza della contestazione e del tempestivo esercizio dell’azione disciplinare, il ritardo nella contestazione dell’addebito non può essere giustificato dal fatto che i diretti superiori gerarchici del lavoratore abbiano omesso di riferire tempestivamente agli organi titolari del potere disciplinare in ordine all’infrazione posta in essere dal dipendente, in quanto, in assenza di prova rigorosa della sussistenza di specifiche ragioni organizzative impeditive di una più celere definizione della procedura disciplinare, il ritardo in questione, pur con riguardo ad una organizzazione aziendale complessa e articolata sul territorio, deve essere ascritto alla cattiva organizzazione del datore di lavoro.

Sul delicato tema del termine, stabilito dalla contrattazione collettiva, per l’irrogazione della sanzione disciplinare, anche espulsiva, Sez. L, n. 27935/2021, Pagetta, Rv. 662521-01, ha evidenziato che la disposizione di cui all’art. 41 del c.c.n.l. per il personale dipendente delle strutture associate all’AIOP, ARIS e FDG - secondo cui il provvedimento disciplinare non può essere “adottato dal datore di lavoro oltre il termine di trenta giorni dalla presentazione della deduzione da parte del lavoratore” - non pone alcuna decadenza per l’ipotesi di recesso comunicato all’interessato oltre il predetto termine, in quanto la disposizione in questione, interpretata sulla base del suo tenore letterale, attribuisce rilievo al momento in cui il provvedimento è deliberato dagli organi competenti e non a quello in cui viene portato a conoscenza del lavoratore.

In una vicenda particolare, Sez. L, n. 28353/2021, Negri Della Torre, Rv. 662584-02, ha puntualizzato che qualora il lavoratore abbia rifiutato di eseguire un ordine - ancorché confermato per iscritto - dalla cui esecuzione possa derivare la violazione di norme penalmente sanzionate, ai sensi dell’art. 51 del c.c.n.l. attività ferroviarie del 16 aprile 2003, va esclusa la configurabilità dell’illecito, in quanto, per effetto di tale disposizione collettiva, il lavoratore assume la titolarità di una posizione di garanzia, rilevante ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p.

Nella specie, è stato ritenuto legittimo il rifiuto di condurre un treno adibito al trasporto merci con il modulo di “equipaggio misto” o “agente solo” - vale a dire con a bordo soltanto un Tecnico Polifunzionale Cargo, in assenza di altro macchinista o agente abilitato alla guida - con pericolo per la sicurezza dei trasporti e l’incolumità di terzi.

2. Licenziamento individuale.

Nel 2021 si è registrata una marcata riduzione, rispetto al passato, delle pronunzie di rilievo concernenti la materia, giunta oramai, a distanza di diversi anni dagli interventi riformatori della legge “Fornero” e del “Jobs Act”, ad un significativo assestamento determinato dal naturale consolidamento di orientamenti delineatisi nel corso del tempo, benché residuino, ancora, temi - in particolar modo quello della esatta individuazione dei cd. vizi formali o procedimentali, nonché quello della valenza, nell’ambito del sistema, del licenziamento disciplinare illegittimo per scarsa rilevanza del fatto contestato e di quello non tempestivo, in quanto intimato a lunga distanza di tempo dalla contestazione disciplinare o successivamente alla scadenza del termine fissato dalla contrattazione collettiva - meritevoli, attesa la delicatezza delle questioni che vi si ricollegano, di un adeguato approfondimento.

Peraltro, rimane acceso il dibattito sulla rilevanza da accordare, ai fini dell’applicabilità o meno della tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4, st.lav., a fatti non direttamente rientranti tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, a seguito di una interpretazione di dette previsioni, ove tuttavia tali fatti possano presentare una minor gravità rispetto a quelli ricompresi, invece, tra le predette condotte.

La materia in questione rimane, d’altra parte, ancora interessata da provvedimenti normativi - il cui sviluppo non è dato prevedere allo stato - volti a fronteggiare, mediante il temporaneo “blocco” dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, il rischio di perdita dell’occupazione derivante dall’emergenza sanitaria.

Va infine segnalata, sulla materia, una rilevante pronunzia della Corte costituzionale - la sentenza 1° aprile 2021, n. 59 -, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, secondo periodo, della l. 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della l. 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma.

2.1. Onere di comunicazione per iscritto.

Sez. L, n. 10023/2021, Amendola F., Rv. 660970-01, ha ribadito, in conformità a Sez. L, n. 12256/2000, Lamorgese, Rv. 540206-01, che l’art. 2 della l. n. 604 del 1966, modificato dall’art. 2 della l. n. 108 del 1990, esige che il licenziamento sia comunicato per iscritto al lavoratore e tale onere di forma impone che l’atto con il quale sia stato intimato il recesso sia sottoscritto dal datore di lavoro (o dal suo rappresentante che ne abbia il potere generale o specifica procura scritta). Ne consegue che in caso di contestazione da parte del destinatario, il datore di lavoro che abbia intimato il licenziamento con telegramma ha l’onere di fornire la prova della ricorrenza delle condizioni poste dall’art. 2705 c.c. per l’equiparazione del telegramma alla scrittura privata e cioè che l’originale consegnato all’ufficio di partenza sia sottoscritto dal mittente, ovvero che in mancanza di sottoscrizione l’originale sia stato consegnato o fatto consegnare all’ufficio di partenza dal mittente.

2.2. Giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

Esiguo, quest’anno, il numero delle pronunzie attinenti alla casistica in materia di giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

Sul generale tema della lesione del vincolo fiduciario, Sez. L, n. 31202/2021, Negri Della Torre, Rv. 662682-01, ha riaffermato, in linea con un indirizzo consolidato, che, in tema di licenziamento per giusta causa, nel giudicare se la violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della conservazione del rapporto di lavoro e, quindi, costituisca giusta causa di licenziamento, rilevano la natura e la qualità del singolo rapporto, la posizione delle parti, l’oggetto delle mansioni e il grado di affidamento che queste richiedono, occorrendo altresì valutare il fatto concreto nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante, ai fini in esame, alla potenzialità del fatto medesimo di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento. (In applicazione del suddetto principio di diritto, la S.C. ha ritenuto esente da censure la sentenza di appello che aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa di un dirigente di azienda al quale era stato addebitato di non avere svolto i dovuti controlli sui costi sostenuti e sui pagamenti effettuati per l’organizzazione di eventi sportivi a cura di una delle società del gruppo per il quale lavorava).

Sez. L, n. 28368/2021, Lorito, Rv. 662522-01, ha evidenziato che la condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare l’irrogazione della sanzione espulsiva.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva reputato legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore - condannato, sia pure con sentenza non passata in giudicato, per produzione e detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti -, sul rilievo che tale contegno, presupponendo l’inevitabile contatto con ambienti criminali, pregiudicasse l’immagine dell’azienda, aggiudicataria di pubblici appalti.

Infine, Sez. L, n. 33811/2021, Cinque, Rv. 662834-04, più volte citata, ha ribadito il principio secondo cui, in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante, spettando al giudice la valutazione di gravità del fatto e della sua proporzionalità rispetto alla sanzione irrogata dal datore di lavoro, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie.

2.3. Giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Sul tema dei limiti di sindacabilità del potere del datore di identificare i dipendenti da licenziare, Sez. L, n. 06085/2021, Garri, Rv. 660683-01, ha evidenziato che per l’esigenza di riduzione di personale omogeneo, la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare appartiene al datore di lavoro, a cui compete in via esclusiva l’individuazione delle modalità organizzative dell’attività, e non può essere censurata dal giudice salvo che per la sua assoluta irragionevolezza. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione del giudice di merito, il quale aveva accertato che l’ambito in cui eseguire la riduzione era stato individuato tra le professionalità omogenee dei medici e che la soppressione del posto di lavoro aveva riguardato l’unico medico non specializzato al quale era precluso l’esercizio di attività in sala operatoria).

Con una significativa pronunzia - Sez. L, n. 01508/2021, Cinque, Rv. 660254-01 - è stato affermato che l’obbligo per il datore di lavoro di dimostrare l’impossibilità di adibire il dipendente da licenziare ad altri posti di lavoro rispetto a quello da sopprimere (cd obbligo di “repêchage”) è incompatibile con motivazioni strettamente collegate alla mera riduzione dei costi per il personale, in quanto il mantenimento in servizio del dipendente, seppure in altre mansioni, contrasterebbe con la predetta esigenza.

In fattispecie peculiare, Sez. L, n. 07068/2021, Cinque, Rv. 660635-01, ha precisato che nell’ipotesi di licenziamento del personale in servizio presso le aziende speciali delle Camere di commercio per giustificato motivo oggettivo, consistente nell’accertata impossibilità di prosecuzione dell’attività per grave dissesto economico, la giustificatezza del recesso non è esclusa dal mancato accorpamento con altre aziende speciali ex art. 3, comma 2, lett. b, del d.lgs. n. 219 del 2016, trattandosi di normativa speciale, che prevede l’aggregazione non come obbligatoria ma solo in presenza di determinati presupposti; né, rispetto alle altre aziende speciali, sono applicabili i principi in tema di obbligo di “repêchage”, trattandosi di un contesto plurisoggettivo (rispetto alla ricollocazione del lavoratore nella medesima azienda) caratterizzato dal perseguimento di interessi pubblicistici (rispetto al regime privatistico).

Sul tema del licenziamento intimato per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di “handicap”, Sez. L, n. 06497/2021, Amendola F., Rv. 660632-01, ha rilevato che il datore di lavoro è tenuto, ai fini della legittimità del recesso, a verificare la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori, nonché ad adottare, qualora ricorrano i presupposti di applicabilità dell’art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, ogni ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, sia idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa, anche attraverso una valutazione comparativa con le posizioni degli altri lavoratori, fermo il limite invalicabile del pregiudizio alle situazioni soggettive di questi ultimi aventi la consistenza di diritti soggettivi.

Con la medesima pronunzia - Sez. L, n. 06497/2021, Amendola F., Rv. 660632-02 -, è stato puntualizzato che nell’ipotesi di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore e in presenza dei presupposti di applicabilità dell’art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, il datore di lavoro ha l’onere di provare la sussistenza delle giustificazioni del recesso, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966, dimostrando non solo il sopravvenuto stato di inidoneità del lavoratore e l’impossibilità di adibirlo a mansioni, eventualmente anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute, ma anche l’impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli, con la possibilità di assolvere tale ultimo onere mediante la deduzione del compimento di atti o operazioni strumentali all’avveramento dell’accomodamento ragionevole, che assumano il rango di fatti secondari presuntivi, idonei a indurre nel giudice il convincimento che il datore di lavoro abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata in grado di scongiurare il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica di un lavoratore addetto a un servizio di autolinee, per essersi il datore di lavoro limitato ad affermare l’impossibilità del “repêchage”, adducendo l’assenza di posti disponibili nell’organigramma della biglietteria e del lavaggio autobus).

Infine, Sez. L, n. 06714/2021, Cinque, Rv. 660841-01, ha ribadito, in conformità a Sez. L, n. 19315/2016, Balestrieri, Rv. 641382-01, che la sottoposizione del lavoratore a carcerazione preventiva per fatti estranei al rapporto di lavoro non costituisce inadempimento degli obblighi contrattuali, ma consente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ove, in base ad un giudizio “ex ante”, tenuto conto di ogni circostanza rilevante ai fini della determinazione della tollerabilità dell’assenza (tra cui le dimensioni dell’impresa, il tipo di organizzazione tecnico-produttiva, le mansioni del dipendente, il già maturato periodo di sua assenza, la ragionevolmente prevedibile ulteriore durata dell’impedimento, la possibilità di affidare temporaneamente ad altri le mansioni senza necessità di nuove assunzioni), non persista l’interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente, senza che sia configurabile, inoltre, a carico del datore di lavoro, l’obbligo del cd. “repêchage”, istituto che richiede una fungibilità e una idoneità attuale lavorativa (sia pure parziale) del dipendente, che non ricorrono nel caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione per stato di detenzione del lavoratore, cui consegue, ex art. 1464 c.c., il venir meno dell’apprezzabile interesse datoriale al parziale adempimento della prestazione lavorativa.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito con cui era stata rigettata l’impugnativa del licenziamento proposta da un lavoratore al quale, dopo la sospensione dal servizio a seguito della sottoposizione ad una misura restrittiva della libertà personale, era stata intimata la risoluzione del rapporto in ragione della protrazione dello stato custodiale per oltre un anno.

2.4. Licenziamento del socio di società cooperativa di produzione e lavoro.

In conformità alla ricostruzione operata da Sez. U, n. 27436/2017, Perrino, Rv. 646129-01, Sez. L, n. 34721/2021, Pagetta, Rv. 662875-01, ha affermato che in tema di estinzione del rapporto del socio lavoratore di cooperativa, l’impugnazione della delibera di esclusione e del provvedimento di irrogazione del licenziamento, fondati sul medesimo fatto, comporta che l’accertamento della illegittimità della delibera per insussistenza del fatto determina, con efficacia “ex tunc”, sia la ricostituzione del rapporto associativo che quella del rapporto di lavoro; tale effetto pienamente ripristinatorio non lascia spazio alla tutela reintegratoria, ma solo a quella risarcitoria secondo gli ordinari criteri - prevista, in presenza dei relativi presupposti e ferma la necessità della costituzione in mora della società, per le ipotesi in cui venga affermata la giuridica continuità del rapporto di lavoro di fatto interrotto -, diversamente dal caso in cui l’atto di licenziamento sia fondato su ragioni autonome e distinte rispetto a quelle della delibera di esclusione, ove per il concreto ripristino del rapporto di lavoro è necessaria la rimozione dell’atto che ne ha determinato la cessazione, con possibilità, quindi, di ricorrere ex art. 18 st.lav.

Inoltre, sempre in tema, Sez. L, n. 35341/2021, Pagetta, Rv. 662996-01, ha evidenziato che l’estinzione del rapporto di lavoro del socio di società cooperativa può derivare dall’adozione della delibera di esclusione, di cui costituisce conseguenza necessitata “ex lege”, o dall’adozione di un formale atto di licenziamento; solo in quest’ultimo caso, in presenza dei relativi presupposti, vi sarà spazio per l’esplicazione delle tutele connesse alla cessazione del rapporto di lavoro: a) solo risarcimento, ai sensi dell’art. 8 della l. n. 604 del 1966, in caso di perdita della qualità di socio per effetto di delibera di espulsione non impugnata o di rigetto dell’opposizione avverso la stessa, proposta ai sensi dell'art. 2533 c.c.; b) tutela obbligatoria o reale, nell’ipotesi di adozione di un provvedimento di licenziamento in assenza di delibera di espulsione. (Nella specie, la S.C. ha negato la configurabilità di una violazione degli oneri procedurali ex art. 7 st.lav. in difetto di un formale atto di licenziamento).

2.5. Il licenziamento del lavoratore in età pensionabile.

Sez. L, n. 10883/2021, Cinque, Rv. 661011-02, ha chiarito che nelle aziende addette ai pubblici servizi di trasporto, soggette al regime previdenziale speciale introdotto dal d.lgs. n. 414 del 1996, non può essere licenziato, ai sensi dell’art. 4, comma 2, della l. n. 108 del 1990, un addetto al personale viaggiante ultrasessantenne, in possesso del requisito anagrafico per il conseguimento della pensione di vecchiaia anticipata, previsto al raggiungimento di un’età ridotta di 5 anni rispetto a quella, tempo per tempo, in vigore nel regime generale obbligatorio, che manifesti espressamente la volontà di permanere in servizio e di non accedere al pensionamento anticipato.

2.6. L’impugnazione del licenziamento e le decadenze.

È stato ribadito - da Sez. L, n. 10883/2021, Cinque, Rv. 661011-01 - che per impugnare il licenziamento non si richiedono formule particolari, essendo sufficiente, come testualmente specificato dall’art. 6 della l. n. 604 del 1966, qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento. (Nella specie, la sentenza confermata dalla S.C. aveva ritenuto idonea la comunicazione a mezzo PEC, inviata dal difensore del lavoratore, cui era allegato un file formato “pdf” contenente la scansione dell’impugnazione del licenziamento sottoscritta da entrambi).

Sez. L, n. 09650/2021, Amendola F., Rv. 660933-01, ha precisato che l’impugnativa stragiudiziale ex art. 6, comma 1, della l. n. 604 del 1966, può efficacemente essere eseguita in nome e per conto del lavoratore dal suo difensore, previamente munito di apposita procura scritta, senza che lo stesso sia tenuto a comunicarla o documentarla al datore di lavoro nel termine di sessanta giorni, perché, ferma la necessaria anteriorità della procura, è sufficiente che il difensore manifesti di agire in nome e per conto del proprio assistito e dichiari di avere ricevuto apposito mandato; il datore di lavoro convenuto in giudizio può contestare l’idoneità dell’impugnativa stragiudiziale sottoscritta dal solo difensore, anche se in precedenza non si sia avvalso della facoltà a lui concessa dall’art. 1393 c.c.

2.7. Applicazioni della legge “Fornero”.

Nell’anno in rassegna si registrano due pronunzie concernenti entrambe il requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”.

Nella prima - Sez. L, n. 06083/2021, Balestrieri, Rv. 660962-01 -, in conformità ad un orientamento che può dirsi acquisito, è stato affermato che, in tema di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, il requisito in questione, previsto dall’art. 18, comma 7, st.lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, ai fini del riconoscimento della tutela reintegratoria, è da intendersi come chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso, a cui non possono essere equiparate né una prova meramente insufficiente, né l’ipotesi nella quale tale requisito possa semplicemente evincersi da altri elementi opinabili o non univoci. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva ritenuto non dimostrativa della manifesta insussistenza la circostanza che l’azienda avesse fatto ricorso al lavoro straordinario, peraltro riferibile al monte ore di due soli lavoratori).

Nell’altra - Sez. L, n. 13643/2021, Garri, Rv. 661333-01 - è stato evidenziato che in presenza di una generica esigenza di riduzione del personale omogeneo e fungibile in funzione di una più efficiente redistribuzione delle mansioni non comportante la soppressione del posto, l’illegittimità del licenziamento derivante dalla violazione dei principi generali di correttezza e buona fede nell’individuazione del dipendente da licenziare non integra l’ipotesi della “manifesta insussistenza del fatto”.

In applicazione del suddetto principio, la S.C. - in relazione a vicenda in cui il datore aveva motivato il licenziamento con la soppressione del posto di lavoro, facendo poi riferimento, nella memoria difensiva, ad una generica esigenza di riduzione del personale - ha confermato la sentenza di merito con la quale, ritenuto il licenziamento conseguenza della predetta esigenza, era stata applicata la tutela indennitaria ex art. 18, comma 5, della l. n. 300 del 1970.

2.8. Le conseguenze del licenziamento illegittimo.

Sul profilo della tutela reale, Sez. L, n. 22371/2021, Piccone, Rv. 662113-02, ha ribadito - in conformità a Sez. L, n. 03026/2014, Buffa, Rv. 630611-01 - che l’assenza dei presupposti per l’applicazione della predetta tutela avverso il licenziamento illegittimo deve essere provata dal datore di lavoro con scritture aziendali, dovendosi escludere che la dimostrazione del numero dei dipendenti possa essere fornita con una mera visura camerale storica, in sé meramente riproduttiva dei dati comunicati dal datore al di fuori della possibilità di controllo.

Quanto ai profili risarcitori, Sez. L, n. 00015/2021, Arienzo, Rv. 660088-01, ha sottolineato, in conformità a Sez. L, n. 09073/2013, Bronzini, Rv. 626142-01, che la predeterminazione legale del danno risarcibile in favore del lavoratore, con riferimento alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione, ai sensi dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970, nella formulazione “ratione temporis” applicabile, anteriore alla modifica apportata dalla l. n. 92 del 2012, non copre eventuali danni ulteriori, ad esempio alla professionalità, che siano derivati al prestatore dal ritardo nella reintegra. Ne consegue che il giudice, in presenza della relativa prova, il cui onere incombe sul lavoratore, ma può essere soddisfatto anche a mezzo presunzioni se sono state operate precise allegazioni, deve provvedere a risarcirlo anche in via equitativa.

Sempre in tema, Sez. L, n. 01507/2021, Cinque, Rv. 660264-01, ha precisato che l’indennità risarcitoria, non associata alla reintegra, di cui all’art. 18, comma 5, st. lav. riformulato, è, in relazione alla sua funzione di riparazione per equivalente, onnicomprensiva, assorbendo qualunque voce di danno, patrimoniale e non patrimoniale, ivi compreso quello previdenziale, fatta eccezione solo per i danni derivanti dal licenziamento ingiurioso o dal fatto costituente reato.

Inoltre, Sez. L, n. 09827/2021, Piccone, Rv. 661009-01, ha riaffermato, in conformità a Sez. L, 05107/2010, Curzio, Rv. 612107-01, che al lavoratore che non abbia tempestivamente impugnato il licenziamento è precluso l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso e, conseguentemente, la tutela risarcitoria in base alle leggi speciali, né il giudice può conoscere dell’illegittimità del licenziamento per ricollegare al recesso illegittimo le conseguenze risarcitorie di diritto comune, in quanto l’ordinamento prevede, per la risoluzione del rapporto di lavoro, una disciplina speciale, con un termine breve di decadenza (sessanta giorni) all’evidente fine di dare certezza ai rapporti giuridici.

È stato poi rimarcato - da Sez. L, n. 33807/2021, Cinque, Rv. 662773-01 - che la sentenza che, dichiarando l’illegittimità del licenziamento, condanni il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore l’indennità risarcitoria di cui all’art. 18, comma 5, st.lav. riformulato, va parificata, quando non sia indicativa di un importo determinato o determinabile in base a semplice calcolo aritmetico, ad una pronuncia di condanna generica, con conseguente eventuale necessità di un ulteriore giudizio per la liquidazione del “quantum”, quando insorga successivamente controversia in ordine alla individuazione della retribuzione globale di fatto assunta dalla norma quale parametro del risarcimento.

Peraltro, Sez. 6-L, n. 17051/2021, Cinque, Rv. 661679-01, ha evidenziato, sulla stessa linea di Sez. L, 07453/2005, De Luca, Rv. 580447-01, che il compenso per lavoro subordinato o autonomo - che il lavoratore percepisca durante il periodo intercorrente tra il proprio licenziamento e la sentenza di annullamento relativa (cosiddetto periodo intermedio) - non comporta la riduzione corrispondente (sia pure limitatamente alla parte che eccede le cinque mensilità di retribuzione globale) del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, se - e nei limiti in cui - quel lavoro risulti, comunque, compatibile con la prosecuzione contestuale della prestazione lavorativa sospesa a seguito del licenziamento (come nel caso, ricorrente nella specie, in cui il lavoro medesimo sia svolto, prima del licenziamento, congiuntamente alla prestazione che ne risulta sospesa).

Infine, il lavoratore che, dopo essere stato illegittimamente licenziato, sia stato reintegrato nel posto di lavoro a seguito dell’annullamento giudiziale del recesso, ha diritto all’indennità sostitutiva delle ferie, delle festività e dei permessi, maturati e non goduti nell’arco temporale tra il licenziamento e la reintegrazione, poiché, pur in assenza di lavoro effettivo, tale situazione deve essere equiparata – secondo quanto affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza 25 giugno 2020 (cause riunite C-762/18 e C-37/19) – a quella della sopravvenuta inabilità al lavoro per malattia, trattandosi in entrambi i casi di impossibilità di esecuzione della prestazione per cause imprevedibili e indipendenti dalla volontà del lavoratore (così Sez. L, n. 06319/2021, Cinque, Rv. 660832-01).

2.9. Il preavviso.

Sez. L, n. 27934/2021, Pagetta, Rv. 662579-01, ha ritenuto che, in tema di rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la rinuncia del datore di lavoro al periodo di preavviso, a fronte delle dimissioni del lavoratore, non fa sorgere il diritto di quest’ultimo al conseguimento dell’indennità sostitutiva, attesa la natura obbligatoria del preavviso, dovendo peraltro escludersi che alla libera rinunziabilità del preavviso possano connettersi a carico della parte rinunziante effetti obbligatori in contrasto con la disciplina delle fonti delle obbligazioni di cui all’art. 1173 c.c.

3. Licenziamenti collettivi.

Il tema di maggior rilievo affrontato nell’anno verte sulla questione della determinazione della platea dei lavoratori da licenziare e della delimitazione dei criteri di scelta.

Sez. L, n. 06086/2021, Bellé, Rv. 660684-03, ha precisato che, in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, la comparazione tra lavoratori di professionalità equivalente addetti a diverse unità produttive deve tener conto non solo delle mansioni concretamente svolte in quel momento, ma anche della capacità professionale degli addetti ai settori da sopprimere, mettendo quindi a confronto tutti coloro che siano in grado di svolgere le mansioni proprie dei settori che sopravvivono, indipendentemente dal fatto che in concreto non le esercitino al momento del licenziamento collettivo. (In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva giudicato legittima una procedura di licenziamento collettivo nella quale era stato attribuito un punteggio pari a zero ai lavoratori operanti nei settori da sopprimere e punteggi, invece, notevolmente superiori a coloro che esercitavano le mansioni nei settori che sarebbero sopravvissuti, omettendo del tutto di considerare il profilo della rispettiva professionalità).

Sempre in tema, Sez. L, n. 12040/2021, Patti, Rv. 661162-01, ha evidenziato che, ai fini dell’esclusione della comparazione tra i lavoratori licenziati e quelli di equivalente professionalità addetti alle unità produttive non soppresse e dislocate sul territorio nazionale, può assumere rilievo il fatto, da accertarsi sulla base delle circostanze concrete, che il mantenimento in servizio dei dipendenti appartenenti all’unità soppressa esigerebbe il loro trasferimento in altra sede, con aggravio di costi per l’azienda e interferenza sull’assetto organizzativo (nella specie, la S.C. ha escluso la necessità della comparazione in quanto il numero dei lavoratori coinvolti - oltre milleseicento - era tale da configurare un trasferimento collettivo, che avrebbe implicato la necessità di concordare in sede sindacale la formazione di graduatorie redatte in base a criteri predeterminati).

Sez. L, n. 12634/2021, Arienzo, Rv. 661206-01, ha ribadito, conformemente a Sez. L, n. 11886/2006, Vidiri, Rv. 589083-01, che il principio previsto dagli artt. 5 e 24 della l. n. 223 del 1991 - in base ai quali i criteri di selezione del personale da licenziare, ove non predeterminati secondo uno specifico ordine stabilito da accordi collettivi, debbono essere osservati in concorso tra loro - se impone al datore di lavoro una valutazione globale dei medesimi, non esclude tuttavia che il risultato comparativo possa essere quello di accordare prevalenza ad uno di detti criteri e, in particolare, alle esigenze tecnico-produttive, essendo questo il criterio più coerente con le finalità perseguite attraverso la riduzione del personale, sempre che naturalmente una scelta siffatta trovi giustificazione in fattori obiettivi, la cui esistenza sia provata in concreto dal datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie.

Va segnalata, infine, Sez. L, n. 06086/2021, Bellé, Rv. 660684-02, ove è puntualizzato che i consorzi di bonifica sono enti pubblici economici operanti in regime di diritto privato, sicché agli stessi è applicabile la disciplina dei licenziamenti collettivi di cui alla l. n. 223 del 1991.

  • rapporti di lavoro e diritto del lavoro
  • mobilità scolastica
  • retribuzione del lavoro
  • mobilità professionale
  • classe dirigente
  • pubblica amministrazione

CAPITOLO XIX

IL RAPPORTO DI LAVORO PUBBLICO CONTRATTUALIZZATO

(di Giovanni Maria Armone, Luigi Di Paola (1) )

Sommario

1 Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni: introduzione. - 2 La costituzione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego privatizzato. - 2.1 Il reclutamento mediante procedure concorsuali: regole ed eccezioni. - 2.2 Contratti di lavoro flessibili. - 2.3 Le stabilizzazioni. - 3 Retribuzione e altri trattamenti economici. - 4 Classificazione del personale: categorie, qualifiche e mansioni. - 5 Vicende del rapporto. - 6 Mobilità. - 7 Illeciti disciplinari: questioni procedimentali e sostanziali. - 8 La cessazione del rapporto di lavoro. - 9 La dirigenza. - 10 Questioni in materia di contenzioso del personale scolastico. - 11 Il rapporto del funzionario onorario con l’amministrazione.

1. Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni: introduzione.

Le pronunce rese dalla S.C. in materia di pubblico impiego privatizzato saranno analizzate, come in passato, seguendo gli sviluppi del rapporto lavorativo, dal momento costitutivo alla sua cessazione, passando per i diritti retributivi, le diverse vicende modificative, la materia disciplinare; un paragrafo ad hoc sarà dedicato alla dirigenza, mentre, per le decisioni in tema di giurisdizione nel pubblico impiego, si fa rinvio alla rassegna processuale.

2. La costituzione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego privatizzato.

Due sono i principi fondamentali che governano l’accesso al pubblico impiego nell’attuale assetto normativo. Il reclutamento del personale avviene di regola, secondo quanto stabilito dall’art. 97 Cost., mediante concorso pubblico e, almeno per far fronte al fabbisogno ordinario, implica la conclusione di contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato (art. 36, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001).

La diffusione del precariato ha tuttavia portato a non poche distorsioni di tale assetto.

La conclusione di contratti di lavoro flessibile, pur continuando a porsi come eccezione, circondata da cautele e avvertenze, è molto diffusa; il malcontento sociale che ne scaturisce conduce periodicamente il legislatore a interventi volti alla stabilizzazione del personale precario in possesso di determinati requisiti. Non sempre tra questi requisiti rientra quello di aver avuto accesso al lavoro flessibile mediante procedure selettive, sicché la stabilizzazione legale integra in tali casi la clausola eccettuativa contenuta nello stesso art. 97 Cost.

Nei prossimi paragrafi saranno anzitutto passate in rassegna le pronunce della S.C. relative alle procedure selettive, nella loro variegata espressione, per poi esaminare le decisioni in materia di lavoro flessibile e di stabilizzazione.

2.1. Il reclutamento mediante procedure concorsuali: regole ed eccezioni.

La giurisprudenza di legittimità ha ormai tracciato con una certa nettezza i confini della giurisdizione ordinaria in materia di accesso all’impiego pubblico. La giurisdizione del giudice amministrativo ex art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001 attrae le procedure concorsuali destinate al reclutamento esterno del personale, nonché le progressioni cd verticali, indette per il passaggio di candidati interni all’amministrazione da un'area funzionale ad un'altra (v. per tutte Sez. U, n. 10409/2013, Nobile, Rv. 625975-01; Sez. U, n. 08985/2018, Tria, Rv. 647916-01). Le fasi successive, in cui si controverta del diritto all’assunzione del candidato utilmente collocato in graduatoria, dopo l’approvazione di quest’ultima, appartengono invece alla giurisdizione ordinaria (Sez. U, n. 10404/2013, Nobile, Rv. 626070-01; Sez. U, n. 29916/2017, D’Antonio, Rv. 646306-01).

Sulla scorta di tali premesse, nel corso del 2021 la S.C. ha fornito alcune importanti precisazioni sulle regole che governano tale fase.

Anzitutto, va ricordato – Sez. L, n. 31422/2021, Di Paolantonio, Rv. 662763-01 – che nell'interpretazione del bando di indizione della procedura concorsuale o selettiva, che costituisce lex specialis della procedura stessa, assume una particolare valenza il canone ermeneutico del senso letterale delle parole ex art. 1362, comma 1, c.c., in quanto il criterio letterale, se privo di equivocità, corrisponde alla funzione dell'atto di fissare regole certe e chiare alle quali devono attenersi l'amministrazione e i candidati.

In termini altrettanto generali, Sez. L, n. 15800/2021, Bellè, Rv. 661458-01, ha fissato il principio secondo cui l'assunzione dei dipendenti pubblici non può essere regolata con modalità cogenti attraverso la contrattazione collettiva, ma consegue al ricorrere dei requisiti di legge e\o all'utile svolgimento delle procedure selettive o concorsuali, sicché eventuali accordi sindacali di individuazione dei tempi delle stabilizzazioni possono avere un mero effetto programmatico e non costituiscono fonte di obblighi per l’amministrazione.

La riserva di legge di cui all'art. 97 Cost. determina inoltre che l'assunzione e la progressione economica del personale sono vincolate alla struttura organizzativa della P.A. ed alle previsioni organiche che della stessa sono espressione; ne consegue la nullità di un verbale di conciliazione che preveda l'inserimento di un'unità di personale eccedente rispetto alla pianta organica esistente, nullità che la P.A. è legittimata a far valere astenendosi dal dare attuazione alle obbligazioni ivi assunte in violazione di norme di legge inderogabili (Sez. L, n. 00440/2021, Bellè, Rv. 660171-01).

Non rientra invece nel raggio applicativo dell’art. 97 e della regola del concorso pubblico il conferimento di posizioni organizzative e di incarichi di alta responsabilità nell'ambito dell'organizzazione dell'ente; l'assegnazione delle predette funzioni costituisce infatti espressione di discrezionalità amministrativa, con la conseguenza che la scelta operata deve solo rispondere ai principi di imparzialità, trasparenza ed efficienza che presiedono ad ogni attività amministrativa (Sez. L, n. 31421/2021, Di Paolantonio, Rv. 662762-01, che, in applicazione del principio, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo - in quanto non discriminatorio, né arbitrario o irragionevole - un bando di conferimento contenente la limitazione della partecipazione ai soli dipendenti già in servizio presso la sede regionale, in possesso di specifiche conoscenze non coincidenti con quelli delle sedi distrettuali).

Alcune pronunce hanno poi scandito i passaggi dell’iter da cui sono caratterizzate le procedure di assunzione.

Sez. L, n. 04057/2021, Torrice, Rv. 660534-02, ha così ricordato che l'amministrazione ha l'obbligo di concludere il procedimento di verifica dei requisiti di ammissione al concorso del candidato prima dell'immissione in ruolo del medesimo; l'accertamento successivo della mancanza dei predetti requisiti può eventualmente rilevare, se sussistono i presupposti dell'azione di danno, a fini risarcitori, ove il candidato abbia fatto affidamento sul comportamento dell'amministrazione, ma non può impedire a quest'ultima, tenuta al rispetto della legalità, di recedere dal rapporto affetto da nullità - facendo così valere l'assenza di un vincolo contrattuale - per violazione delle disposizioni imperative riguardanti l'assunzione, poste a tutela di interessi pubblici alla cui realizzazione deve essere costantemente orientata l'azione amministrativa.

Secondo quanto statuito da Sez. L, n. 31407/2021, Marotta, Rv. 662686-01, il diritto all'assunzione del lavoratore avviato attraverso la procedura di selezione prevista dall'art. 16 della l. n. 56 del 1987, sorge, anche in caso di utile collocazione in graduatoria, solo nel momento di completamento della procedura, così come, per la successiva costituzione del rapporto, è necessario l'intervento della volontà delle parti con la specificazione dei relativi elementi essenziali; ne consegue che, nell'ipotesi di illegittimità della revoca del provvedimento di avviamento, compete soltanto il risarcimento del danno da cd. perdita di chance.

In presenza di più graduatorie per il medesimo profilo, la P.A., ove si avvalga del cd. scorrimento della graduatoria, ha l'obbligo di motivare le ragioni per cui non applica il criterio della prevalenza della graduatoria di data anteriore, quale regola generale rispondente ai principi di imparzialità, trasparenza e buon andamento, derogabile solo in presenza di ragioni di interesse pubblico idonee a giustificare la compressione del diritto allo "scorrimento prioritario" degli idonei utilmente classificatisi nella graduatoria più antica, come, ad esempio, nei casi di modifica della disciplina inerente alla procedura concorsuale quanto alle prove ed ai requisiti di partecipazione ovvero di difformità sostanziale fra il profilo professionale per il quale il precedente concorso era stato bandito e quello del posto da coprire (è questo il dictum di Sez. L, n. 15790/2021, Di Paolantonio, Rv. 661457-01).

Nell’ipotesi invece di rinuncia, decadenza o dimissioni del candidato individuato all'esito dello scorrimento della graduatoria di un concorso ancora efficace, Sez. L, n. 31427/2021, Spena, Rv. 663191-01, ha affermato che la pubblica amministrazione non ha l'obbligo di procedere ad ulteriore scorrimento della graduatoria medesima, al fine di coprire i posti restati vacanti, in quanto – come si desume dal disposto di cui all'art. 8, ultimo comma, del d.P.R. n. 3 del 1957, dettato per l'ipotesi di rinuncia, decadenza o dimissioni dei vincitori di un concorso – la precedente deliberazione di utilizzare la graduatoria ha esaurito i suoi effetti, sicché, per procedere ad ulteriori assunzioni in ruolo, occorre una nuova manifestazione di volontà dell'amministrazione.

Assai peculiare è poi la questione affrontata e risolta da Sez. L, n. 09114/2021, Di Paolantonio, Rv. 660930-01, in cui venivano in evidenza i rapporti di lavoro del personale delle rappresentanze diplomatiche e degli uffici consolari, di cui agli artt. 152 e ss. del d.P.R. n. 18 del 1967. La S.C. ha chiarito che essi sono diversi ed autonomi rispetto a quelli di impiego pubblico successivamente instaurati a seguito di superamento del concorso per l'accesso ai ruoli del Ministero degli affari esteri, in ragione di diversi fattori (il fatto che siano regolamentati in maniera analitica ed autonoma dal citato d.P.R., cui rinvia l'art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001; la previsione dell'art. 167 del d.P.R. n. 18 del 1967, che subordina l'instaurazione del rapporto di impiego pubblico al superamento di una procedura concorsuale, sia pure riservata; la disciplina dell'originario comma 6 dell'art. 167 innanzi ricordato secondo cui, in caso di immissione nei ruoli del Ministero, il servizio in precedenza prestato è valutato ai soli fini del trattamento di quiescenza; la conseguenza dello stabile inserimento, a seguito del concorso, nella dotazione del Ministero, a fronte di un precedente rapporto instaurato per le esigenze dei soli organi periferici; il mutamento della sede di servizio, imposta dal legislatore). Conseguentemente, ritenuta la novazione del rapporto, va negato il riconoscimento, ai fini giuridici ed economici, dell'anzianità di servizio maturata sulla base di un contratto stipulato ai sensi dell'art. 154 del d.P.R. n. 18 del 1967.

In tema di assunzioni dei disabili, Sez. L, n. 31293/2021, Marotta, Rv. 663190-01, ha affermato che la disposizione di cui all'art. 16, comma 2, della l. n. 68 del 1999 (nel testo, applicabile "ratione temporis", anteriore alla modifica introdotta dall'art. 25, comma 9 bis, del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla l. n. 114 del 2014), non attribuisce alla P.A. una mera facoltà discrezionale, ma, nel perseguire l'obiettivo di garantire l'ineludibile rispetto delle quote di riserva di cui al precedente art. 3, pone a suo carico l'obbligo di assumere il disabile dichiarato idoneo, anche se non in possesso del requisito della disoccupazione, qualora, all'esito della procedura concorsuale, non vi siano idonei in possesso del requisito prescritto dal combinato disposto degli artt. 7 e 8 della stessa legge; invero, la "ratio" della disposizione va ricostruita tenendo conto della tassatività del rispetto delle quote di cui al precedente art. 3, delle peculiarità del sistema di reclutamento nel pubblico impiego e della necessità di armonizzare la tutela del disabile (imposta dall'art. 38 Cost., dal diritto dell'Unione europea e dagli obblighi internazionali dello Stato) con altri valori di rilievo costituzionale, come quelli consacrati nell'art. 97 Cost., con la conseguenza che la deroga normativa al requisito della disoccupazione è giustificata dalla possibilità di garantire la tutela della disabilità attraverso l'assunzione dei candidati disabili che siano stati positivamente valutati dalla commissione esaminatrice.

Sempre attuale è il tema dei criteri che consentono di distinguere le selezioni aventi natura concorsuale in senso proprio da quelle invece di carattere interno, con tutti i conseguenti corollari.

Anzitutto, va ricordato che nelle selezioni per progressioni orizzontali non vengono in evidenza atti amministrativi di ambito concorsuale, ma atti paritetici di gestione dei rapporti di lavoro, adottati con i poteri e le capacità del datore di lavoro privato. Le norme sul procedimento amministrativo non trovano pertanto applicazione diretta.

In una delle frequenti controversie che riguardano le procedure previste dal c.c.n.l. 1998/2001 comparto Ministeri per la progressione economica verso la posizione C3 del personale inquadrato nelle posizioni C1 e C2, Sez. L, n. 31406/2021, Di Paolantonio, Rv. 662664-01, ha tratto dal principio sopra enunciato la conseguenza dell’erroneità della sentenza di merito che, muovendo dal non corretto presupposto della sua natura concorsuale, aveva dichiarato illegittima per contrasto con l'art. 97 Cost. una procedura di progressione economica indetta dalla Corte dei conti per il proprio personale, che era stata riservata ai dipendenti già in servizio e che consentiva anche la cd. progressione per saltum.

Sez. L, n. 23827/2021, Bellè, Rv. 662117-01, ha ribadito peraltro che l’amministrazione, in qualità di datore di lavoro privato, è pur sempre tenuta all'osservanza degli obblighi di buona fede e correttezza, il cui contenuto, rispetto alla esibizione di documenti necessari per la partecipazione alla selezione, va conformato ai principi desumibili dall'art. 18, comma 2, della l. n. 241 del 1990; essa non può pertanto richiedere al lavoratore la produzione di atti già in suo possesso, purché gli siano forniti elementi utili al loro reperimento e alla loro valorizzazione a fini concorsuali, specialmente nel caso di P.A. complesse e di grandi dimensioni.

La pretesa con cui un docente di ruolo della scuola pubblica richiede il trasferimento in altra provincia, sulla base delle procedure previste dalla normativa di legge e dalla contrattazione collettiva, ha natura di azione di adempimento, alla cui introduzione è sufficiente la deduzione dell'inosservanza di regole di scelta favorevoli a tale docente e cui la P.A. era vincolata, mentre la questione in ordine alla effettiva spettanza di quel posto proprio a chi agisce e non ad altri concorrenti attiene al diverso piano della fondatezza nel merito o della prova e va definita sulla base dell'intero materiale istruttorio, acquisito o legalmente acquisibile in causa, ferma restando la necessità di integrare il contraddittorio con tutti i candidati concorrenti rispetto a quel medesimo posto e di coloro cui esso sia stato in concreto attribuito (Sez. L, n. 36356/2021, Bellè, Rv. 663002-01).

Altre pronunce sono intervenute su discipline pattizie più settoriali.

Così, Sez. L, n. 00549/2021, Spena, Rv. 660250-01, alle prese con una progressione interna all’INPS, regolata dal corrispondente contratto collettivo integrativo, ha precisato che la disposizione di cui all'art. 3, comma 5, del d.l. n. 726 del 1984, conv., con modif., dalla l. n. 863 del 1984, ha carattere di norma imperativa e osta, in virtù del principio di cui all'art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, a una previsione di contratto collettivo che, nell'indicare, quale requisito di partecipazione ad una selezione interna per la progressione cd. orizzontale, l'inserimento in ruolo ad una data determinata, consideri il momento di assunzione come fatto storico e non anche come effetto giuridico discendente dalla avvenuta trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto di formazione e lavoro.

Nell'ambito del comparto degli enti pubblici non economici, invece, va citato l’intervento di Sez. L, n. 26274/2021, De Marinis, Rv. 662329-01, secondo cui la nuova disciplina posta in materia di classificazione del personale dal c.c.n.l. del 1° ottobre 2007 si interpreta nel senso che i passaggi ai livelli economici successivi avvengono sulla base di criteri oggettivi di selezione, che tengano in considerazione il livello di esperienza maturato, i titoli posseduti e gli specifici percorsi formativi e di apprendimento professionale, così escludendo che il criterio legittimante l'accesso ai livelli di sviluppo economico – destinato a riflettere un più elevato livello qualitativo del lavoro – consista unicamente nel tempo di permanenza nelle singole posizioni.

Di notevole rilievo è poi il tema delle conseguenze derivanti dagli illeciti commessi dalla P.A. nella fase selettiva.

Sez. L, n. 32263/2021, Tricomi I., Rv. 662696-01, ha precisato che nel pubblico impiego contrattualizzato, in caso di illegittimità dell'assunzione, il rapporto di lavoro affetto da nullità può produrre effetti nei soli limiti indicati dall'art. 2126 c.c., applicabile anche alla P.A.; ne consegue che, ferma l'irripetibilità delle retribuzioni corrisposte in ragione della prestazione resa, non può tenersi conto ai fini di successive assunzioni o avanzamenti di carriera di detto rapporto di lavoro, in applicazione del principio quod nullum est nullum producit effectum.

Sez. L, n. 00825/2021, Di Paolantonio, Rv. 660280-01, ha invece fatto il punto sulla responsabilità risarcitoria della P.A. per mancata tempestiva assunzione del lavoratore: essa postula, ai fini dell'accertamento della colpa, l'esatta identificazione delle regole e dei principi che devono ispirare l'azione amministrativa, alla stregua di un giudizio che può essere sindacato in sede di legittimità per violazione di legge qualora l'esclusione o l'affermazione della colpa sia il risultato di un'individuazione non corretta dei principi in questione, venendo in rilievo le regole giuridiche alla luce delle quali deve essere espressa la valutazione sull'illiceità dell'atto o della condotta. (Nella specie, la S.C. - in relazione a vicenda in cui la vincitrice di un concorso pubblico, posposta, nelle procedure di assunzione, ad altri candidati collocatisi dietro di lei in graduatoria, aveva ottenuto l'assunzione solo dopo che il giudice amministrativo aveva ritenuto illegittimo l'operato della P.A., la quale non aveva tuttavia proceduto alla pronta instaurazione del rapporto a causa del sopravvenuto blocco delle assunzioni - ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso la colpa dell'amministrazione sulla base del solo presupposto della mancanza di una norma che espressamente le imponesse di definire le procedure successive all'approvazione della graduatoria nel rispetto dell'ordine fissato da quest'ultima, senza valutare se tale necessità non discendesse dai principi di imparzialità, buon andamento e trasparenza dell'azione amministrativa).

Un’importante affermazione è quella fatta da Sez. L, n. 09568/2021, Di Paolantonio, Rv. 660932-01, che, pur riguardando profili organizzativi, si riflette anche sull’assunzione del personale. Alle prese con una vicenda di reinternalizzazione di un servizio amministrativo, dovuta alla sopravvenuta impossibilità della società affidataria a renderlo, la S.C. ha affermato che essa non consegue automaticamente alla sua natura pubblica, ma presuppone che l'amministrazione deliberi di provvedere direttamente al suo svolgimento con proprio personale, attivando le procedure di cui all'art. 6 del d.lgs. n. 165 del 2001; di conseguenza, neppure sussiste un obbligo di riassorbimento delle unità di personale dell'azienda esterna che non avevano già acquisito lo status di dipendente pubblico e non risultavano inserite nell'organizzazione dell'ente locale per avervi ricoperto una posizione lavorativa prevista dalla pianta organica.

Similmente, Sez. L, n. 35343/2021, Di Paolantonio, Rv. 662915-01, ha chiarito che l'art. 12, comma 18 bis, del d.l. n. 95 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 135 del 2012, nella parte in cui dispone il trasferimento del personale di società privata già controllata da ente pubblico, presso un ente pubblico non economico, nonché l'inquadramento di detto personale presso l'ente di destinazione previo espletamento di apposita procedura selettiva di verifica dell'idoneità, va interpretato nel senso che la verifica in questione è condizione indispensabile non solo per l'inquadramento ma anche per la stessa instaurazione del rapporto con il nuovo datore, in quanto il trasferimento automatico si risolverebbe in un privilegio indebito, in violazione degli artt. 97, 3 e 51 della Costituzione.

2.2. Contratti di lavoro flessibili.

Come accennato, nel pubblico impiego privatizzato, l’art. 36, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 prevede che il reclutamento del personale diretto a far fronte al fabbisogno ordinario avvenga attraverso contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La possibilità di far ricorso a contratti di lavoro flessibile è bensì contemplata dai commi 2 e ss. dello stesso art. 36, ma è circondata da molteplici cautele, allo scopo di contenerne gli abusi. Qualora questi si verifichino, è peraltro noto come la violazione di disposizioni imperative in materia di assunzioni non possa giustificare l’immissione in ruolo, ma, di regola, solo il risarcimento del danno (comma 5).

Sul punto, Sez. L, n. 42004/2021, Sarracino, Rv. 663417-01, ha affermato che nel pubblico impiego privatizzato, alla violazione di disposizioni imperative che riguardino l'assunzione, sia a seguito di pubblico concorso sia attingendo alle liste di collocamento, non può mai far seguito la costituzione di un rapporto di pubblico impiego a tempo indeterminato, atteso che la "ratio" dell'art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, che prevede il divieto di trasformazione del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo indeterminato, non risiede esclusivamente nel rispetto delle regole del pubblico concorso, ma anche, più in generale, nel rispetto del principio cardine del buon andamento della P.A., che sarebbe pregiudicato qualora si addivenisse all'immissione in ruolo senza alcuna valutazione dei fabbisogni di personale e senza seguire le linee di programmazione nelle assunzioni, che sono indispensabili per garantire l'efficienza dell'amministrazione pubblica ed il rispetto delle esigenze di contenimento, controllo e razionalizzazione della spesa pubblica.

La giurisprudenza di legittimità, con l’ausilio della Corte costituzionale e della Corte di giustizia UE, è impegnata da anni in un’attenta opera di delimitazione della nozione di abuso e delle condizioni alle quali le misure sanzionatorie lato sensu intese possano considerarsi satisfattive.

Sotto il primo profilo, merita di essere menzionata anzitutto Sez. L, n. 06089/2021, Spena, Rv. 660963-01, con cui è stata confermata l’applicazione, in caso di successione di contratti a tempo determinato nel pubblico impiego, del limite di 36 mesi di durata complessiva di tali contratti di cui all'art. 5, comma 4 bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, decorso il quale la reiterazione è da considerarsi abusiva, a nulla rilevando che l'assunzione a termine sia avvenuta, di volta in volta, all'esito di distinti concorsi pubblici.

Sempre in tema, va segnalata Sez. L, n. 41896/2021, Di Paolantonio, Rv. 663381-01, ove è affermato che gli artt. 92 e 94 della l.r. Sardegna n. 11 del 1988, laddove prevedono la possibilità di avvalersi di contratti a tempo determinato per la realizzazione di progetti avviati dall'amministrazione regionale, non derogano ai limiti previsti per la disciplina delle assunzioni dalla legislazione statale, in particolare dall'art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, nel senso di consentire una reiterazione illimitata dei contratti a termine; ogni diversa interpretazione si pone in contrasto sia con i parametri costituzionali, atteso che la disciplina del lavoro nelle pubbliche amministrazioni contenuta nel d.lgs. n. 165 del 2001 è riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, con esclusione della competenza primaria anche delle Regioni ad autonomia speciale, sia con la direttiva 1999/70/CE, la quale, pur valorizzando la finalità di incentivare l'occupazione di categorie svantaggiate, non la trasforma in una ragione oggettiva, rilevante ai sensi della clausola 5, lett. a), dell'Accordo Quadro ad essa allegato, né sottrae i rapporti a tempo determinato in parola all'ambito di applicazione della direttiva.

Sez. L, n. 03817/2021, Buffa, Rv. 660442-01, ha invece escluso l’illegittimità, in caso di proroga di un contratto a tempo determinato di un dipendente pubblico, dell'indicazione, in aggiunta al termine fisso finale, di un termine mobile per relationem collegato all'immissione in servizio di personale a tempo indeterminato all'esito di procedure concorsuali o di mobilità: tale clausola, oltre a perseguire interessi meritevoli di tutela correlati ad esigenze occupazionali temporanee, non costituisce una condizione meramente potestativa, essendo ancorata a presupposti oggettivi che esulano dalla volontà arbitraria dell'amministrazione.

In ordine alle misure sanzionatorie dell’abuso, la sentenza che in materia costituisce tuttora il faro in grado di illuminare gli interpreti è Sez. U, n. 05072/2016, Amoroso, Rv. 639066-01, con cui è stato fissato il principio per cui il lavoratore vittima di abusiva precarizzazione – fermo il divieto di “conversione” – ha diritto al risarcimento del danno parametrato alla fattispecie di portata generale di cui all'art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come "danno comunitario", determinato tra un minimo e un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto.

Si tratta di conclusioni che la giurisprudenza successiva ha confermato senza riserve, verificandone anche la tenuta rispetto all’ordinamento sovranazionale e fornendo importanti precisazioni.

Si deve così a Sez. L, n. 02175/2021, Arienzo, Rv. 660332-01, l’importante puntualizzazione che il meccanismo disegnato dalle Sezioni Unite nel 2016 non sanziona la nullità del termine dei singoli contratti bensì la loro abusiva reiterazione, cosicché l’indennità prevista dall’art. 32 della l. n. 183 del 2010 va liquidata una sola volta e non in riferimento ad ogni contratto di cui venga accertata l'illegittimità, senza che ciò si ponga in contrasto con il canone di effettività della tutela (su cui v. Corte giust. UE, sentenza 7 maggio 2018, in C-494/16).

Non meno importanti sono gli arresti che si propongono di chiarire a quali condizioni l’immissione in ruolo nel frattempo intervenuta costituisca misura sanzionatoria idonea a “cancellare” il precedente abuso.

La questione si è posta soprattutto con riferimento all’utilizzo di contratti a termine nel settore scolastico, le cd. supplenze.

Qui il quadro è più articolato, poiché, ferma la tendenziale applicabilità della disciplina generale, nella scuola esistono meccanismi istituzionalizzati di immissione in ruolo, tra cui il piano straordinario di assunzioni di cui alla l. n. 107 del 2015 e il sistema di avanzamento disciplinato dalle previgenti regole sulle graduatorie a esaurimento. Si tratta di misure che da tempo (Sez. L,  n. 22552/2016, Torrice, Rv. 641607-01), la Cassazione reputa idonee a sanzionare e cancellare l'illecito comunitario, realizzatosi mediante la illegittima reiterazione da parte della P.A. datrice di lavoro di contratti di lavoro a tempo determinato su posti in organico di diritto.

Come sottolineato da Sez. 6-L, n. 02338/2021, Doronzo, Rv. 660636-01, detta modalità di immissione in ruolo è stata tra l’altro riconosciuta quale misura idonea ed adeguata anche dalla Corte di Giustizia nella sentenza 8 maggio 2019, causa C-494/17, atteso che l'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, recepito nella direttiva 1999/70/ CE, non impone agli Stati membri di prevedere un diritto al risarcimento del danno che si aggiunga alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Inoltre, come rimarcato da Sez. 6-L, n. 38205/2021, Bellè, Rv. 663231-01, poiché l’idoneità della stabilizzazione o dell'immissione in ruolo, conseguenti alla l. n. 107 del 2015, a sanzionare l'illecito è stata certificata dalla Corte costituzionale, i cui interventi, incidenti sul fondamento stesso del sistema previgente, devono essere parificati allo ius superveniens, devono considerarsi rituali le deduzioni riguardanti il nuovo assetto giuridico, introdotte nel corso del giudizio di secondo grado, purché sia consentito alle altre parti l'adeguamento delle difese, anche in fatto, conseguenziali. (Nella fattispecie la S.C. ha confermato la pronuncia di appello che, valorizzando l'avvenuta stabilizzazione in ruolo dei ricorrenti nel corso del primo grado di giudizio, ha negato il risarcimento del danno da abusiva reiterazione dei rapporti di supplenza a termine, qualificando la deduzione circa la pronuncia costituzionale, intervenuta quando l'appello era stato già proposto, come eccezione in senso lato).

Tuttavia, in un più ampio contesto, Sez. L, n. 14815/2021, Spena, Rv. 661419-01, ha avvertito il bisogno di specificare che la successiva immissione in ruolo del lavoratore costituisce misura sanzionatoria idonea a reintegrare le conseguenze pregiudizievoli dell'illecito a condizione che essa avvenga nei ruoli dell'ente che ha commesso l'abuso e che si ponga con esso in rapporto di diretta derivazione causale, non essendo sufficiente che l'assunzione sia stata semplicemente agevolata dalla successione dei contratti a termine, ma occorrendo che sia stata da essa determinata, costituendo l'esito di misure specificamente volte a superare il precariato, che offrano già ex ante una ragionevole certezza di stabilizzazione, sia pure attraverso blande procedure selettive; ne consegue che - anche alla luce di Corte giust. U.E. 19 marzo 2020, C-103/18 e C-429/18 - non possiede tali caratteristiche una procedura concorsuale, ancorché interamente riservata ai dipendenti già assunti a termine, atteso che in caso di concorsi riservati l'abuso opera come mero antecedente remoto dell'assunzione e il fatto di averlo subito offre al dipendente precario una semplice chance di assunzione, come tale priva di valenza riparatoria (la fattispecie riguardava la procedura di reclutamento, per titoli ed esami, prevista per gli operatori dei servizi scolastici dall'art. 4, comma 6, del d.l. n. 101 del 2013, conv., con modif., dalla l. n. 125 del 2013).

Il raggio applicativo dell’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001 e dei corollari che ne ha tratto la giurisprudenza tendono a estendersi progressivamente.

Anzitutto, Sez. L, n. 00446/2021, Spena, Rv. 660248-01, sulla scia di Corte giust. UE 14 ottobre 2020 in causa C-681/18, ha posto il principio per cui, anche nell'ipotesi di illegittima o abusiva successione di contratti di somministrazione di lavoro a termine, pur essendo esclusa, ai sensi dell'art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell'art. 86, comma 9, del d.lgs. n. 276 del 2003, la trasformazione in un rapporto a tempo indeterminato, si verifica in ogni caso la sostituzione della pubblica amministrazione-utilizzatrice nel rapporto di lavoro a termine e il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno parametrato alla fattispecie di portata generale di cui all'art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come "danno comunitario", determinato tra un minimo e un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto. Tale disciplina appare conforme allo scopo della direttiva 2008/104/CE, la quale è finalizzata a far sì che gli Stati membri si adoperino affinché il lavoro tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice non diventi una situazione permanente per uno stesso lavoratore (v. anche la conforme Sez. L., n. 03815/2021, Bellè, Rv. 660440-01).

Sul piano soggettivo, si veda invece l’affermazione di Sez. L, n. 30520/2021, Spena, Rv. 662612-01, e Sez. L, n. 30909/2021, Marotta, Rv. 662616-01, che, a proposito dei rapporti di lavoro da parte delle università con collaboratori ed esperti linguistici di lingua madre, in possesso di laurea o titolo universitario straniero adeguato alle funzioni da svolgere e di idonea qualificazione e competenza, con contratto di lavoro subordinato di diritto privato a tempo determinato a norma dell'art. 4 del d.l. n. 120 del 1995, conv., con modif., dalla l. n. 236 del 1995, hanno escluso che l’instaurazione di simili rapporti possa comportare, neanche in assenza di esigenze temporanee, la conversione in rapporto a tempo indeterminato; l'art. 4 citato, nel prevedere il rispetto dei vincoli di compatibilità con le risorse disponibili nei bilanci e di selezione pubblica con modalità disciplinate dalle università secondo i rispettivi ordinamenti, ossia criteri di efficiente impiego delle finanze pubbliche e di garanzia di imparziale valutazione meritocratica, rispondenti al principio di "buon andamento e imparzialità dell'amministrazione" (ai sensi dell'art. 97, comma 2, Cost.), esclude tale conseguenza per la palese non omogeneità dei suddetti rapporti di lavoro con quelli di lavoro privato.

O ancora si consideri Sez. L, n. 03558/2021, Di Paolantonio, Rv. 660529-01, secondo cui i rapporti di lavoro instaurati dal Consorzio per le autostrade siciliane, istituito ai sensi dell'art. 16 della l. n. 531 del 1982 e avente natura di ente pubblico non economico, soggiacciono alla disciplina del pubblico impiego contrattualizzato di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, con conseguente divieto di conversione (la pronuncia ha aggiunto essere irrilevante il fatto che l'art. 5 l.r. Sicilia n. 17 del 2001, abbia esteso al suddetto consorzio le norme regionali in materia di assunzioni, dettate per gli enti pubblici economici dall'art. 13 della l.r. Sicilia n. 18 del 1999).

Detta estensione deve tuttavia mantenersi entro i limiti di carattere generale fissati dall’ordinamento. Ne discende (Sez. L, n. 05818/2021, Cinque, Rv. 660679-01), che l'art. 20, comma 6, della l.r. Sicilia n. 11 del 2010, che impedisce alle società a partecipazione regionale di assumere nuovo personale a tempo determinato o indeterminato, non è suscettibile di applicazione retroattiva, trattandosi di disposizione proibitiva di un determinato comportamento che, in mancanza di specifica previsione di segno contrario, soggiace al principio generale di cui all'art. 11 preleggi c.c.

Sul piano processuale, un importante principio è stato affermato da Sez. L, n. 32179/2021, Spena, Rv. 662691-01: in tema di contratti a tempo determinato nel pubblico impiego privatizzato, l'impugnazione rivolta contro il capo della sentenza relativo all'illegittimità dell'apposizione del termine impedisce la formazione del giudicato interno anche sui capi, legati al primo da un nesso di pregiudizialità-dipendenza, concernenti le conseguenze risarcitorie, mentre non vale l'inverso; ne consegue che, qualora la sentenza sia impugnata solo rispetto a uno dei capi inerenti alla domanda di risarcimento del danno, si deve ritenere che sia intervenuta acquiescenza su quello principale.

2.3. Le stabilizzazioni.

Nel corso dell’anno in rassegna, le procedure di stabilizzazione che hanno dato origine al maggior numero di questioni sottoposte alla giurisprudenza di legittimità sono quelle svolte all’insegna dell’art. 1, comma 519, della l. n. 296 del 2006.

La norma ha introdotto – come rammentato da Sez. L, n. 06310/2021, Marotta, Rv. 660619-01 – un regime speciale di reclutamento volto a sanare situazioni di precariato già sorte o in via di consolidamento e solo in ciò consiste la ragione di interesse pubblico idonea a giustificare, nei soli casi eccezionali individuati dal legislatore, un'assunzione in deroga al concorso pubblico. È per questo che può godere della stabilizzazione il personale in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, o che abbia conseguito tale requisito in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data - ex art. 3, comma 90, della l. n. 244 del 2007 - del 28 settembre 2007, mentre non è consentita in favore di dipendenti già in servizio a tempo indeterminato presso altra amministrazione.

Altre decisioni hanno peraltro precisato che, in presenza dei requisiti citati, il diritto alla stabilizzazione sorge automaticamente, senza che ad essa osti la mancata richiesta, da parte dell'ente di appartenenza, dell'autorizzazione governativa, trattandosi di diritto sancito da fonte normativa di rango primario. Lo hanno affermato: Sez. L, n. 11117/2021, Spena, Rv. 661135-01, per il personale dipendente a tempo determinato della Croce Rossa Italiana; Sez. L, n. 02978/2021, Bellè, Rv. 660346-01, per l'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.

Nelle procedure di stabilizzazione in esame, l'ordine di precedenza ai fini della assunzione è dato dal criterio della anzianità di servizio e, in caso di parità di posizione, da quello anagrafico, poiché la norma non individua alcun criterio di preferenza fra le categorie degli aventi diritto in essa indicate. (Sez. L, n. 06498/2021, Bellè, Rv. 660809-01).

Diverso è invece il regime della stabilizzazione contemplata dall'art. 1, comma 558, della stessa l. n. 296 del 2006. Detta norma non attribuisce al lavoratore a tempo determinato un diritto incondizionato alla stabilizzazione presso l'ente di appartenenza, atteso che la determinazione dell'amministrazione a procedervi è condizionata dal rispetto dei limiti finanziari e dall'esistenza dei posti in organico da ricoprire, né dà diritto all'assunzione nella stessa posizione professionale ricoperta nell'ambito dell'ultimo rapporto di lavoro a termine. Lo ha precisato Sez. L, n. 31112/2021, Arienzo, Rv. 662872-01, aggiungendo che tale regime non configura una violazione del principio di non discriminazione dei lavoratori a tempo determinato, di cui alla direttiva 1999/70/CE, potendo una simile violazione dirsi integrata solo nell'ipotesi in cui venisse prospettata in giudizio dimostrata l'esistenza di un'operazione di preordinato fraudolento frazionamento in più segmenti del rapporto di lavoro, in realtà connotato da un'intrinseca unitarietà, con l'intento dell'ente di pervenire alla stabilizzazione di un lavoratore in qualifica inferiore a quella che altrimenti sarebbe spettata in virtù dell'unico rapporto illecitamente frazionato.

La stabilizzazione ex art. 1, commi 519 ss., della l. n. 296 del 2006, ha poi fornito alla S.C. il modello decisionale anche in tema di giurisdizione.

Richiamando i precedenti secondo cui la giurisdizione è del giudice ordinario ogni qual volta la legge si limiti a prevedere un percorso assunzionale che riguardi dipendenti già reclutati a tempo determinato mediante procedure concorsuali e nell'ambito del quale la P.A., sulla base di un'attualizzata programmazione del fabbisogno e nei limiti dei vincoli di spesa pubblica, una volta esercitata la facoltà di fare luogo al processo di stabilizzazione, deve soltanto verificare la sussistenza dei requisiti predeterminati dalla legge, senza, quindi, esercitare alcun pubblico potere (si vedano, con riferimento, Sez. U, n. 16041/2010, Picone, Rv. 613782-01, che ha sancito la necessità di interpretare la parola “concorsuale” in senso restrittivo, nonché Sez. U, n. 19552/2010, Di Cerbo, Rv. 614163-01, Sez. U, n. 29915/2017, D’Antonio, Rv. 646305-01), Sez. U, n. 40953/2021, Marotta, Rv. 663713-01, ha applicato l’indirizzo sopra richiamato alla stabilizzazione prevista dall’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 75 del 2017, sottolineandone le analogie con quella del 2006. Neanche in questo caso l'Amministrazione 'bandisce' un concorso, ma si limita a dare 'avviso' della procedura di stabilizzazione e della possibilità degli interessati di presentare la domanda: di qui la giurisdizione ordinaria.

3. Retribuzione e altri trattamenti economici.

Ai sensi dell’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, l’attribuzione dei trattamenti economici è riservata alla contrattazione collettiva (preordinata al perseguimento di una pluralità di obiettivi di rilievo costituzionale, non riducibili a quello della razionale distribuzione delle risorse finanziarie), sicché non è sufficiente, a tal fine, l’adozione di un atto deliberativo negoziale da parte della P.A., il quale, anche nell’ipotesi in cui sia rispettoso dei vincoli finanziari, deve considerarsi nullo ove non conforme alla suddetta contrattazione (così Sez. L, n. 11645/2021, Di Paolantonio, Rv. 661156-01).

Essendo nullo l’atto con cui venga attribuito ad un dipendente un trattamento economico non conforme alle previsioni di legge o del contratto collettivo, la P.A. - secondo Sez. L, n. 06715/2021, Marotta, Rv. 660929-01 - è obbligata all’azione di recupero di quanto indebitamente corrisposto, sicché l’atto stesso non può far sorgere in capo ad altri dipendenti un diritto soggettivo al medesimo trattamento. (Nella specie, relativa al trattamento retributivo da assicurare al personale assunto a contratto dalle rappresentanze diplomatiche, dagli uffici consolari e dagli istituti di cultura all’estero, ai sensi dell’art. 157 del d.P.R. n. 18 del 1967, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso il diritto di una contrattista presso un istituto di cultura ad ottenere l’adeguamento della propria retribuzione a quella più favorevole riservata ad altro contrattista che svolgeva le medesime mansioni, con contratto di analogo tipo, in epoca precedente, limitandosi a invocare la disparità di trattamento, ma senza indicare i parametri previsti dall’art. 157 che nel suo caso sarebbero stati violati).

In caso di invalidità dei contratti collettivi integrativi per contrasto con le procedure previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro, sussiste - cfr., al riguardo, Sez. L, n. 30748/2021, Bellè, Rv. 662615-01 - il diritto dell’ente erogatore al recupero delle somme corrisposte ai lavoratori in forza di apposite previsioni dei contratti integrativi, non trovando applicazione l’art. 2126, secondo comma, c.c., in quanto la nullità non riguarda il contratto di lavoro bensì proprio la clausola di attribuzione del beneficio.

Quanto al principio della parità di trattamento economico di cui all’art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001, Sez. L, n. 06090/2021, Marotta, Rv. 660808-01, ha precisato che il parametro per verificare l’attuazione del principio in questione è costituito dall’applicazione del contratto collettivo del comparto di appartenenza, rispetto al quale l’amministrazione datrice di lavoro non ha alcun potere di disposizione, mentre non assume rilevanza l’applicazione di fatto di un contratto collettivo diverso ad altri dipendenti di ruolo, neanche quando ciò sia avvenuto in forza di una sentenza passata in giudicato.

In applicazione del principio, la S.C. ha escluso che l’art. 45 citato potesse essere fondatamente invocato da un autista del trasporto pubblico comunale, assunto con contratto a termine, per vedersi estendere il più favorevole trattamento economico illegittimamente mantenuto ai dipendenti a tempo indeterminato con analoghe mansioni, per effetto dell’erronea applicazione del c.c.n.l. autoferrotranvieri, in luogo del c.c.n.l. del comparto regioni ed autonomie locali.

Sulla problematica del compenso per prestazioni aggiuntive che esulino dal profilo professionale di appartenenza, Sez. L, n. 03816/2021, Buffa, Rv. 660441-01, ha rilevato che il lavoratore pubblico che pretenda un tale compenso, oltre ad allegare lo svolgimento di compiti ulteriori rispetto a quelli che il datore di lavoro può esigere in forza dell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, è tenuto a fornire anche gli elementi necessari per verificare la inadeguatezza del trattamento economico ricevuto, rispetto al parametro di cui all’art. 36 Cost., nonché l’aggravamento quantitativo o qualitativo della prestazione, con riferimento all’orario di lavoro o alla maggiore intensità e onerosità della stessa. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva respinto la domanda di infermieri professionali che rivendicavano un compenso aggiuntivo per l’utilizzo della strumentazione diagnostica cd. POCT).

Con una rilevante pronunzia - Sez. L, n. 06930/2021, Torrice, Rv. 660810-01 - è stato chiarito che l’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78 del 2010 - secondo cui “l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale (..), non può superare il corrispondente importo dell’anno 2010 ed è comunque automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio” - dev’essere interpretato nel senso che oggetto della decurtazione dai fondi previsti dalla contrattazione collettiva è l’intero importo corrispondente al trattamento economico (fondamentale e accessorio) destinato a remunerare i dipendenti cessati dal servizio, il quale, dunque, non può essere utilizzato per incrementare le risorse destinate al trattamento accessorio di quelli rimasti in servizio. (Principio affermato dalla S.C. in relazione al Fondo per la retribuzione dei dirigenti medici, di cui all’art. 50 c.c.n.l. dell’8 giugno 2000, destinato alla remunerazione di voci retributive afferenti non solo al trattamento economico accessorio, ma anche a quello fondamentale).

In tema di finanziamento delle progressioni economiche del personale dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), ove l’ente abbia omesso di attivare le procedure selettive volte a individuare i beneficiari delle suddette progressioni entro due mesi dalla sottoscrizione del c.c.n.l. enti di ricerca 1998-2001, come previsto dall’art. 54 dello stesso contratto collettivo, trovano applicazione, secondo Sez. L, n. 27314/2021, Bellè, Rv. 662448-01, l’art. 8 del c.c.n.l. ASI 2002-2003 e l’art. 8 del c.c.n.l. ASI 2004-2005, in virtù dei quali il finanziamento può avvenire solo previa contrattazione integrativa, nel rispetto dei presupposti procedurali di cui all’art. 40-bis del d.lgs. n. 165 del 2001.

Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva riconosciuto, in capo ai dipendenti risultati vincitori di una procedura selettiva indetta dall’ASI nel 2010, il diritto di ottenere la corrispondente progressione economica nonostante non fosse ancora intervenuta la contrattazione integrativa, sull’erroneo presupposto che i controlli di cui all’art. 40-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 - ai quali, pure, il bando condizionava l’efficacia della selezione - potessero ritenersi assorbiti dall’approvazione dei fondi per le retribuzioni accessorie per gli anni 2005-2008, resa dal MEF a seguito di un’ispezione condotta presso l’Agenzia.

Con riguardo al rapporto convenzionale dei pediatri di libera scelta e dei medici di medicina generale con il s.s.n., Sez. L, n. 11566/2021, Di Paolantonio, Rv. 661117-01, ha affermato che il rapporto in questione è disciplinato, quanto agli aspetti economici, dagli accordi collettivi nazionali e integrativi, ai quali devono conformarsi, a pena di nullità, i contratti individuali, ai sensi degli artt. 48 della l. n. 833 del 1978 e 8 del d.lgs. n. 502 del 1992. Ne consegue che tale disciplina non può essere derogata da quella speciale prevista per il rientro da disavanzi economici e che le sopravvenute esigenze di riduzione della spesa devono essere fatte valere nel rispetto delle procedure di negoziazione collettiva e degli ambiti di competenza dei diversi livelli di contrattazione, dovendo pertanto considerarsi illegittimo l’atto unilaterale di riduzione del compenso adottato dalla P.A., posto che il rapporto convenzionale si svolge su un piano di parità ed i comportamenti delle parti vanno valutati secondo i principi propri che regolano l’esercizio dell'autonomia privata.

Sempre in argomento, Sez. L, n. 26264/2021, Tricomi I., Rv. 662364-01, ha evidenziato che, in tema di trattamento economico dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta in convenzione, l’accordo integrativo regionale (AIR) della regione Abruzzo del 25 novembre 1998 che, in attuazione dell’accordo collettivo nazionale (ACN), prevede la corresponsione di un compenso aggiuntivo per l’attività svolta in zone disagiate, demandando il compito di individuare tali zone alle ASL e, solo in caso di inerzia di queste ultime, alla Regione, non pone a carico dell’ente regionale un obbligo contrattuale nei confronti dei medici, i quali percepiscono il trattamento economico previsto dai diversi livelli della contrattazione collettiva, incluso il compenso per l’attività svolta in zone disagiate, in base al contratto di lavoro professionale stipulato con le ASL. Ne consegue che i medici che abbiano prestato la propria attività in zone disagiate possono agire nei confronti della Regione per la loro mancata o tardiva individuazione solo a titolo di responsabilità extracontrattuale e che il termine di prescrizione del relativo diritto ha durata quinquennale.

Con una significativa pronunzia - Sez. L, n. 12031/2021, Marotta, Rv. 661161-02 - è stato puntualizzato che nell’ipotesi di novazione del contratto individuale per modifica del contratto collettivo applicabile, per valutare la spettanza o meno dell’assegno ad personam, occorre verificare se tra i contratti stipulati in successione non vi sia stata soluzione di continuità ed accertare la legittima applicazione della contrattazione più favorevole, cosicché il mantenimento dell’emolumento trovi fondamento nel divieto di “reformatio in peius” del trattamento economico più favorevole acquisito.

Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva omesso di verificare se tra i due contratti a termine stipulati con un’agenzia regionale per il lavoro non vi fosse stata soluzione di continuità nonché di accertare le circostanze che avevano condotto ad applicare al primo contratto il c.c.n.l. del terziario e al secondo contratto, stipulato a pochi mesi di distanza, il c.c.n.l. comparto regioni e autonomie locali.

Quanto al profilo della prescrizione dei crediti retributivi è stato chiarito - da Sez. L, n. 35676/2021, Spena, Rv. 662998-01 - che nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato, nell’ipotesi di contratto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia successivamente accertata la natura subordinata, la prescrizione in questione decorre in costanza di rapporto, attesa la mancanza di ogni aspettativa del lavoratore alla stabilità dell’impiego e la conseguente inconfigurabilità di un “metus” in ordine alla mancata continuazione del rapporto suscettibile di tutela.

Numerose pronunzie hanno avuto ad oggetto questioni, in materia retributiva, concernenti il c.c.n.l. del comparto sanità.

In tema di indennità giornaliera per il personale infermieristico, prevista dall’art. 44, comma 6, lett. a), b) e c) del c.c.n.l. 1° settembre 1995 comparto sanità, Sez. L, n. 00550/2021, Spena, Rv. 660139-01, ha ribadito, in conformità a Sez. L, n. 05565/2014, Mancino, Rv. 630275-01, che la spettanza dell’emolumento è strettamente correlata allo svolgimento di attività in reparti specifici, destinati alla somministrazione di particolari cure, sicché essa compete solo al personale addetto ai servizi - intesi quali articolazioni strutturali dell’organizzazione sanitaria - di malattie infettive, di terapia intensiva e di terapia sub-intensiva.

Nella specie, la S.C. ha escluso la spettanza dell’indennità in favore di un’infermiera che prestava la propria attività in un servizio pediatrico non esclusivamente dedicato alla cura delle malattie infettive.

Sez. L, n. 01505/2021, Di Paolantonio, Rv. 660281-01, ha affermato che l’indennità prevista dall’art. 44, commi 3 e 12, del c.c.n.l. comparto sanità del 1 settembre 1995 è volta a compensare la maggiore gravosità del lavoro prestato secondo il sistema dei turni, gravosità che si accresce nei casi in cui il turno cada in giorno festivo, ed è cumulabile con il diritto, riconosciuto al lavoratore dall’art. 9 del c.c.n.l. del 20 settembre 2001, di godere del riposo compensativo per il lavoro prestato nelle festività infrasettimanali o, in alternativa, di ricevere il compenso per il lavoro straordinario con la maggiorazione prevista per il lavoro straordinario festivo.

In tema di servizio di pronta disponibilità del personale sanitario, Sez. L, n. 00436/2021, Marotta, Rv. 660168-01, ha puntualizzato che l’art. 7, comma 10, del c.c.n.l. integrativo comparto sanità del 20 settembre 2001, che prevede il limite di sei turni al mese per ciascun dipendente, va inteso, avuto riguardo al tenore letterale della norma, alla qualità dei destinatari ed alla natura del servizio reso, come previsione di natura programmatica, con conseguente possibilità di superamento di detto limite al ricorrere di particolari situazioni che lo impongano, ferma restando la corresponsione dell’indennità di pronta disponibilità anche in relazione ai turni aggiuntivi, nella misura indicata dalla norma della contrattazione collettiva che, sotto questo profilo, ha portata precettiva, e fatto salvo, in caso di superamento del limite, il diritto del lavoratore al risarcimento dell’eventuale danno subito per il pregiudizio arrecato alla possibilità di recupero delle sue energie psicofisiche.

Quanto all’indennità di coordinamento ex art. 10 del c.c.n.l. sanità del 2001, Sez. L, n. 41272/2021, Marotta, Rv. 663357-01, ha chiarito che nella fase di prima applicazione del predetto c.c.n.l., l’attribuzione al personale proveniente dalla categoria C dell’indennità in questione è subordinata, oltre che al conferimento delle funzioni di coordinamento da parte di coloro che all’interno dell’ente avevano il potere di conformare la prestazione lavorativa ed alla traccia documentale di tale conferimento, ad una valutazione aziendale in ragione della situazione organizzativa dell’ente, non sussistendo, in tale prima fase, un automatismo tra svolgimento della funzione di coordinamento e percezione della indennità.

Sempre in tema, Sez. L, n. 41575/2021, Marotta, Rv. 663371-01, ha precisato che l’indennità di coordinamento ex art. 10 del c.c.n.l. 2000-2001 compete, ai sensi del comma 2 e in sede di sua “prima applicazione”, a tutti i collaboratori professionali sanitari-caposala con reali funzioni di coordinamento alla data del 31 agosto 2001, senza necessità di riconoscimento formale, mentre, ai sensi dei successivi commi 3 e 7, può essere riconosciuta anche agli altri collaboratori sanitari degli altri profili e discipline, nonché ai collaboratori professionali-assistenti sociali già appartenenti alla categoria D, solo a condizione che la funzione di coordinamento, non intrinseca al ruolo dei suddetti profili, sia dimostrata o accertata con atto formale.

Sez. L, n. 05547/2021, Spena, Rv. 660623-01, ha confermato la decisione di merito che, ai fini del riconoscimento del buono pasto ad un dipendente con turni 13/20 e 20/7, aveva collegato le “particolari condizioni di lavoro” di cui all’art. 29 del c.c.n.i. del comparto Sanità del 20 settembre 2001, al diritto alla fruizione della pausa di lavoro, a prescindere che la stessa avvenisse in fasce orarie normalmente destinate alla consumazione del pasto o che il pasto potesse essere consumato prima dell’inizio del turno, evidenziando che l’attribuzione del buono pasto, in quanto agevolazione di carattere assistenziale che, nell’ambito dell’organizzazione dell’ambiente di lavoro, è diretta a conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del dipendente, al fine di garantirne il benessere fisico necessario per proseguire l’attività lavorativa quando l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente previsto per la fruizione del beneficio, è condizionata all’effettuazione della pausa pranzo che, a sua volta, presuppone, come regola generale, solo che il lavoratore, osservando un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore, abbia diritto ad un intervallo non lavorato.

Quanto all’indennità di “sede disagiatissima” - prevista dall’art. 34 del d.P.R. n. 271 del 2000, al fine di fornire un servizio sanitario aderente alle esigenze della popolazione in base alla sua dislocazione sul territorio della regione -, Sez. L, n. 40898/2021, Patti, Rv. 663407-01, ha precisato che la stessa remunera, in misura forfettaria, il disagio procurato al medico da ogni singolo viaggio necessario per raggiungere un presidio ospedaliero posto a notevole distanza dalla propria residenza, e non già quello legato al pernottamento prolungato nella suddetta sede a causa dell’articolazione dei turni di servizio.

Diverse anche le pronunzie aventi ad oggetto, sempre in materia retributiva, il c.c.n.l. del comparto Regioni ed enti locali.

Sez. L, n. 31479/2021, Marotta, Rv. 662995-01, ha evidenziato che i dipendenti regionali con funzione organizzativa che, ai sensi del c.c.n.l. del Comparto Regioni ed Enti Locali 1998-2001, propongano domanda di risarcimento del danno per perdita di “chance” in relazione all’assegnazione dell’indennità di risultato, che presuppone necessariamente non solo lo svolgimento, secondo l’ordinaria diligenza, delle attività in cui consisteva la posizione organizzativa, ma anche la valutazione del raggiungimento degli obiettivi fissati con l’attribuzione di tale posizione direttiva, non possono allegare quale fondamento della loro richiesta soltanto il mancato approntamento da parte della Regione del sistema interno di valutazione del risultato assegnato al dipendente, ma devono anche specificare quale fosse l’obiettivo della loro posizione organizzativa - ossia il risultato perseguito dall’Amministrazione - e devono quanto meno allegare (e dimostrare in caso di contestazione) che quell’obiettivo sia stato raggiunto, pur in mancanza di una valutazione positiva da parte della Regione, che non si era dotata della struttura amministrativa per apprezzare tale risultato.

Ai dipendenti del comparto delle regioni e delle autonomie locali che svolgono la prestazione lavorativa con il sistema dei turni, funzionale all’esigenza di continuità del servizio, si applica, ove la prestazione cada in giornata festiva infrasettimanale, come in quella domenicale, l’art. 22, comma 5, del c.c.n.l. 14 settembre 2000 del comparto autonomie locali, che compensa il disagio con la maggiorazione del 30 per cento della retribuzione, mentre il disposto dell’art. 24, che ha ad oggetto l’attività prestata dai lavoratori dipendenti in giorni festivi infrasettimanali, oltre l’orario contrattuale di lavoro, trova applicazione soltanto quando i predetti lavoratori siano chiamati a svolgere la loro attività, in via eccezionale od occasionale, nelle giornate di riposo settimanale che competono loro in base ai turni, ovvero in giornate festive infrasettimanali al di là dell’orario di lavoro (così Sez. L, n. 19326/2021, Bellè, Rv. 661652-01).

Sez. L, n. 27316/2021, Torrice, Rv. 662330-01, ha rimarcato il principio che, in tema di compensi da liquidare agli avvocati interni agli enti locali, l’art. 27 del c.c.n.l. Comparto delle Regioni e delle autonomie locali del 14 settembre 2000 si interpreta in base al tenore letterale della clausola collettiva nel senso che è lasciato ampio spazio al potere degli enti, provvisti di avvocatura, di disciplinare la corresponsione dei compensi professionali dovuti a seguito di sentenza favorevole all’ente, fermo il rispetto dei principi (e non già della puntuale disciplina) del R.d.l. n. 1578 del 1933, rimanendo affidata alla contrattazione collettiva decentrata la sola materia del coordinamento tra le due voci retributive accessorie (i compensi professionali e la retribuzione di risultato).

In tema di indennità di anzianità per il personale dipendente delle Camere di commercio assunto anteriormente al primo gennaio 1996 - la cui unica fonte di disciplina è costituita, ex art. 2, comma 7, della l. n. 335 del 1995, dalla contrattazione collettiva, alla stregua dell’interpretazione letterale e logico-sistematica del c.c.n.l. Regioni e Autonomie locali del 14 settembre 2000 e, in particolare, dell’allegata dichiarazione congiunta n. 3, che ha confermato espressamente la perdurante vigenza del decreto interministeriale 12 luglio 1982 e successive modifiche -, deve escludersi, secondo Sez. L, n. 05831/2021, Spena, Rv. 660680-01, l’omnicomprensività dell’indennità di anzianità ed il computo, nell’ultima retribuzione utile ai fini della determinazione della stessa, delle voci retributive considerate pensionabili a fini diversi, ex art. 2, comma 9, della l. n. 335, cit., essendo queste ultime definite tali non già dalla contrattazione collettiva, bensì da una fonte eteronoma come quella della retribuzione contributiva e pensionabile, destinata a spiegare effetti non tra lavoratore e datore di lavoro, ma tra datore ed ente previdenziale, quanto all’onere contributivo, e tra lavoratore ed ente previdenziale, quanto all’onere pensionistico.

Quanto al trattamento retributivo del personale della Regione Calabria, Sez. L, n. 22673/2021, Tricomi I., Rv. 662114-01, ha affermato che la l.r. Calabria n. 7 del 2001 ha riconosciuto, all’art. 2, il diritto del lavoratore a conseguire un’indennità straordinaria in caso di prepensionamento volontario e, con normativa di interpretazione autentica, pertanto retroattiva, la l.r. Calabria n. 46 del 2002 ha previsto che la disciplina dovesse applicarsi anche ai lavoratori i quali, essendosi avvalsi della proroga biennale di cui all’art. 16 del d.lgs. n. 503 del 1992, avessero quale termine per il definitivo collocamento a riposo il 67° anno di età; neanche tali lavoratori, tuttavia, hanno diritto all’indennità se l’effettivo anticipato pensionamento non si sia perfezionato e siano rimasti in servizio, continuando a percepire la retribuzione, non rispondendo alla “ratio” della legge la corresponsione sia della retribuzione sia dell’indennità.

Con riguardo alla disciplina economica e normativa dei rapporti lavorativi con la Regione Sicilia del personale addetto ai servizi di sistemazione idraulico forestale e idraulico-agrario, Sez. L, n. 11563/2021, Torrice, Rv. 661111-01, ha precisato che il contratto collettivo nazionale non si impone in ambito regionale per il sol fatto della sua sottoscrizione, così prevalendo su quello integrativo regionale in applicazione di una sorta di criterio gerarchico, essendone, invece, necessario l’espresso recepimento con delibera di giunta e decreto assessoriale.

Sez. L, n. 37287/2021, Marotta, Rv. 663026-01, ha evidenziato che il personale transitato dalla Regione Lazio agli enti locali, ai sensi della l.r. Lazio n. 14 del 1999, ha diritto alla conservazione del trattamento economico goduto all’atto del trasferimento, con esclusione degli emolumenti aventi carattere precario ed eventuale (in quanto legati dalla contrattazione collettiva alla ricorrenza di specifiche condizioni attinenti all’“an” e al “quantum”); questi ultimi, d’altra parte, non possono essere utilmente concordati dalle parti in sede di concertazione, non rientrando il trattamento retributivo tra le materie contemplate dagli artt. 16 del c.c.n.l. del comparto Regioni-Autonomie locali del 31 marzo 1999 e 8 del c.c.n.l. del 1° aprile 1999.

Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ha respinto la domanda di alcuni lavoratori i quali, a seguito del trasferimento dalla Regione Lazio alla Provincia di Latina, rivendicavano il diritto a percepire l’indennità di produttività collettiva e di posizione organizzativa, secondo quanto previsto da un verbale di concertazione concordato dalla Regione con i rappresentanti dei lavoratori.

In tema di personale dell’amministrazione degli affari esteri assunto per le esigenze delle rappresentanze diplomatiche, degli uffici consolari e degli istituti di cultura all’estero, Sez. L, n. 07531/2021, Di Paolantonio, Rv. 660845-01, ha ritenuto che dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 103 del 2000, che ha riformulato l’art. 166 del d.P.R. n. 18 del 1967 abrogando il comma 6 relativo all’indennità di cessazione o di risoluzione del rapporto: a) per i nuovi assunti ex art. 152 e ss. del richiamato d.P.R. il trattamento di fine rapporto deve essere corrisposto solo se previsto dalla legge locale dello Stato di accreditamento, non trovando altrimenti applicazione l’art. 2120 c.c.; b) per gli impiegati a contratto, già in servizio alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 103 del 2000 con contratto a tempo indeterminato assoggettato alla legge locale, che abbiano esercitato l’opzione prevista dal comma 6 dell’art. 2 del predetto d.lgs., il diritto a percepire, alla cessazione o alla risoluzione del rapporto e senza soluzione di continuità, l’indennità di anzianità è conservato, in base al successivo comma 7, alle condizioni e nei limiti previsti dal contratto individuale in essere alla data di entrata in vigore della nuova normativa; c) per il personale in servizio con contratto a tempo indeterminato, alla data di entrata in vigore del d.lgs. in questione, assoggettato alla legge italiana è conservato il diritto a percepire, alla cessazione o alla risoluzione del rapporto e senza soluzione di continuità, l’indennità prevista dall’art. 166, comma 6, del d.P.R. n. 18 del 1987 nel testo antecedente alla riformulazione della norma operata dal richiamato decreto legislativo.

Con la stessa sentenza – (Rv. 660845-02) - è stato rilevato che i titolari di contratto di prima assunzione regolato dalla legge italiana, in servizio alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 103 del 2000, il cui rapporto sia divenuto a tempo indeterminato a seguito di rinnovo ex art. 162, comma 2, del d.P.R. n. 18 del 1967, conservano il diritto all'indennità di anzianità prevista dal testo originario dell'art. 166, comma 6, del predetto d.P.R. negli stessi limiti previsti per la corrispondente categoria dei dipendenti già in servizio con contratto a tempo indeterminato, dovendosi interpretare l’art. 3 della l. n. 442 del 2001, sul diritto di opzione, in senso conforme alla clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE, che sancisce il principio di non discriminazione, quanto alle condizioni di impiego, fra assunti a termine e dipendenti a tempo indeterminato.

Sez. L, n. 11759/2021, Marotta, Rv. 661158-01, ha chiarito che il trattamento economico spettante al personale del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale per il periodo di servizio all’estero non include l’indennità integrativa speciale, secondo quanto disposto dall’art. 1 bis del d.l. n. 138 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 148 del 2011, norma di interpretazione autentica dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, come tale priva di carattere innovativo.

Quanto al trattamento economico accessorio del personale della nuova categoria EP appartenente all’area economico-gestionale, ex art. 62 del c.c.n.l. 1998-2001, comparto Università, Sez. L, n. 31135/2021, Di Paolantonio, Rv. 662677-01, ha ribadito, in conformità a Sez. L, n. 23149/2015, Balestrieri, Rv. 637966-01, che detto articolo ha regolato, in via autonoma e senza possibilità d’intervento della contrattazione decentrata, l’intera materia del trattamento economico in questione, prevedendo l’assorbimento nella retribuzione di posizione e di risultato, con la sola eccezione delle voci specificatamente indicate, di tutte le competenze accessorie e delle indennità previste dal c.c.n.l. 21 maggio 1996, compreso il compenso per il lavoro straordinario, nonché di quelle previste dalla contrattazione collettiva decentrata previgente che, ai sensi dell’art. 5, comma 6, del c.c.n.l. 1998-2001, resta applicabile, sino alla sottoscrizione di un nuovo contratto integrativo che regoli diversamente la materia, solo in via residuale.

Il trattamento economico dei segretari comunali e provinciali, utilizzati presso l’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo nazionale o presso la Scuola superiore per la formazione e la specializzazione dei dirigenti della pubblica amministrazione locale, non include i diritti di segreteria, atteso che le parti sociali, nel prevedere all’art. 48 bis del c.c.n.l. del 16 maggio 2001, che in tale ipotesi spetta il trattamento in godimento alla data del provvedimento di utilizzo, previsto dall’art. 37, comma 1, dello stesso c.c.n.l., hanno avuto come presupposto la disciplina legale statale, la quale correla l’erogazione dei diritti di segreteria in favore dei segretari all’effettivo esercizio della funzione presso l’ente locale ed alla riscossione dei diritti da parte di quest’ultimo (così Sez. L, n. 32232/2021, Spena, Rv. 662693-01).

In tema di rimborso delle spese legali sostenute dai pubblici dipendenti, Sez. L, n. 32225/2021, Spena, Rv. 662692-02, ha affermato che, in tema di rifusione delle spese legali sostenute in giudizio da un pubblico dipendente ex art. 25 del c.c.n.l. Area dirigenza medica veterinaria, ove il compenso sia stato liquidato dopo l’entrata in vigore dell’art. 13, comma 10, della l. n. 247 del 2012, e prima dell’emanazione del decreto ministeriale attuativo previsto dallo stesso art. 13, il difensore del lavoratore ha comunque diritto al rimborso delle spese generali, atteso che il rinvio al decreto attuativo vale solo per la fissazione della misura massima del rimborso, ma non per la spettanza del diritto; in tal caso, le spese generali devono essere liquidate nella misura del 12,5% degli onorari e dei diritti, continuando a trovare applicazione l’art. 14 del d.m. n. 127 del 2004.

Sempre in tema, Sez. L, n. 41999/2021, Di Paolantonio, Rv. 663503-02, ha chiarito che il presidente dell’Autorità portuale, essendo legato al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti da un rapporto assimilabile a quello di un funzionario onorario, può ottenere, in applicazione analogica dell’art. 1720, comma 2, c.c., il rimborso delle sole spese sostenute a causa del proprio incarico, e non semplicemente in occasione del medesimo. Ne consegue che egli non può pretendere il rimborso delle spese effettuate per difendersi in un processo penale, iniziato in relazione a fatti pur connessi all’incarico, non solo qualora sia stato condannato (giacché la commissione di un reato non potrebbe rientrare nei limiti di un mandato validamente conferito), ma anche qualora sia stato assolto, poiché in tal caso la necessità di effettuare le spese di difesa non si pone in nesso di causalità diretta con l’esecuzione del mandato, ma tra l’uno e l’altro si pone un elemento intermedio, dovuto all’attività di una terza persona, pubblica o privata, e costituito dall’accusa poi rivelatasi infondata.

Sulla premessa che la procedura di passaggio del personale degli enti locali nel ruolo del personale A.T.A. dell’amministrazione scolastica statale costituisce un trasferimento d’impresa ai sensi della direttiva n. 77/187/CE, trasfusa, unitamente alla direttiva n. 98/50/CE, in quella n. 2001/23/CE, Sez. L, n. 08968/2021, Di Paolantonio, Rv. 660866-01, ha ribadito, in conformità a Sez. L, n. 07698/2018, Di Paolantonio, Rv. 648190-01, che il passaggio in questione non può determinare per il lavoratore trasferito, ai sensi dell’art. 3 della direttiva n. 77/187/CE, condizioni di lavoro meno favorevoli di quelle godute in precedenza, secondo una valutazione comparativa da compiersi all’atto del trasferimento, in relazione al trattamento retributivo globale, compresi gli istituti e le voci erogati con continuità, ancorché non legati all’anzianità di servizio. (In applicazione del principio, la S.C. ha escluso dalla valutazione comparativa: i premi incentivanti, in quanto emolumenti incerti nell’“an” e nel “quantum”; l’indennità di rischio, mancando nelle scuole l’esposizione ai fattori nocivi che ne costituisce il presupposto; il LED, in quanto già precedentemente assorbito nel trattamento economico fondamentale; i buoni pasto, stante il loro carattere assistenziale).

Quanto alla posizione stipendiale di docente laureato degli istituti secondari di secondo grado, Sez. L, n. 33237/2021, Marotta, Rv. 662770-01, ha ritenuto che essa può essere attribuita esclusivamente al personale docente che sia abilitato all’insegnamento di una classe di concorso che richieda, quale titolo di accesso, la laurea, non essendo sufficiente, ai fini del riconoscimento di detta posizione, l’assegnazione all’attività didattica di sostegno presso un istituto scolastico superiore.

Alcune pronunzie hanno riguardato in vario modo la disciplina dell’indennità di buonuscita.

Sez. L, n. 13914/2021, Bellè, Rv. 661332-01, ha precisato che al personale non dirigente dell’ICE, già in servizio al 31 dicembre 1995, non è applicabile la disciplina di cui all’art. 13 della l. n. 70 del 1975 in materia di indennità di buonuscita, bensì il regime del trattamento di fine rapporto, il quale, riconosciuto a favore di detto personale in virtù dell’art. 5, comma 5, della l. n. 106 del 1989, è stato poi tenuto fermo dall’art. 46, comma 5, del c.c.n.l. per gli enti pubblici non economici 1998-2001.

Sez. L, n. 31469/2021, Calafiore, Rv. 662689-01, ha chiarito che l’art. 6, ultimo comma, del d.P.R. n. 1034 del 1984, secondo cui le anticipazioni dell’indennità di buonuscita corrisposte agli iscritti al fondo di previdenza per il personale del Ministero delle Finanze, ai sensi dell’art. 4, n. 2 del citato d.P.R., devono essere detratte dall’importo finale dell’indennità stessa con la maggiorazione degli interessi legali, non si pone in contrasto con l’art. 2120 c.c., né con il generale principio di parità di trattamento tra lavoro privato e lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, in quanto l’unificazione dei criteri di maturazione, di calcolo e di erogazione dell’indennità di fine servizio dei dipendenti pubblici contrattualizzati in base alle regole dettate originariamente per i lavoratori privati dall’art. 2120 c.c. è stata disposta dall’art. 2, comma 5, della l. n. 335 del 1995 (cd. “riforma Dini”), ed è diventata operativa solo per le assunzioni intervenute successivamente al 31 dicembre 2000, per gli effetti dell’art. 2, comma 2, del d.p.c.m. 20 dicembre 1999, come integrato e modificato dall’art. 1, comma 1, lett. b), del d.p.c.m. 2 marzo 2001.

Quanto all’assegno ad personam, Sez. L, n. 31123/2021, Bellè, Rv. 662675-01, ha specificato che nel caso di dimissioni da un determinato ente pubblico, nella specie un Comune, e successiva assunzione ex nunc da parte di un altro ente, nella specie il MIUR, non compete al lavoratore alcun assegno ad personam, non essendo invocabile a fondamento della pretesa l’art. 3, comma 57, della l. n. 537 del 1993, che rinvia al caso previsto dall’art. 202 del d.P.R. n. 3 del 1957 o ad altre analoghe disposizioni, sia perché queste ultime riguardano le sole ipotesi di passaggi presso la stessa o altra amministrazione da parte di dipendenti statali, sia perché le norme generali e speciali del pubblico impiego sono inapplicabili a seguito della sottoscrizione del c.c.n.l. 1998-2001, sia perché, infine, nel caso di dimissioni e successiva assunzione, il passaggio avviene senza continuità e in dipendenza della sola volontà del prestatore.

Quanto all’assegno aggiuntivo di sede, previsto per i docenti supplenti dall’art. 658 del d.lgs. n. 294 del 1994, applicabile “ratione temporis”, per il servizio svolto nelle istituzioni scolastiche all’estero, Sez. L, n. 41577/2021, Bellè, Rv. 663415-01, ha chiarito che esso ha natura non retributiva, di talché non può essere corrisposto nel caso in cui non vi sia stata una presa di servizio all’estero del docente, che come tale abbia comportato disagi suoi propri. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di una docente, relativa alla percezione per intero dell’assegno di sede relativamente a periodi durante i quali, pur avendo accettato l’incarico di “supplente non residente” presso un liceo di Asmara, non aveva tuttavia preso possesso presso la sede estera, trovandosi in interdizione obbligatoria per gravidanza e, quindi, in congedo parentale ed in seguito in astensione obbligatoria per nuova gravidanza).

Diverse le pronunce sulle obbligazioni retributive derivanti da un rapporto di lavoro autonomo in senso lato.

Sez. L, n. 04891/2021, Spena, Rv. 660617-02, ha chiarito che in tema di rapporti coordinati e continuativi, istituiti tra i medici e le competenti strutture del servizio sanitario nazionale ai sensi dell’art. 48 della l. n. 833 del 1978, l’esercizio da parte dell’Amministrazione sanitaria del potere unilaterale di sospensione cautelare del professionista dal servizio, in relazione alla proposizione di azioni disciplinari o penali nei confronti del medesimo, comporta la sospensione della prestazione lavorativa che, in assenza di una disciplina specifica, non produce effetti estintivi dell’obbligazione retributiva; ne consegue il diritto del medico convenzionato di esigere il pagamento dei corrispettivi in costanza del periodo di sospensione cautelare e, dunque, il decorso della prescrizione ex art. 2935 c.c. sin dal momento della loro maturazione.

Con la stessa sentenza - (Rv. 660617-01) - è stato ribadito, in conformità a Sez. U, n. 04955/1997, Evangelista, Rv. 504920-01, che sebbene l’Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti, di contenuto privatistico, con i medici specialistici ambulatoriali, titolari di convenzioni con le U.S.L., recepito nel d.P.R. n. 316 del 1990, non preveda espressamente l’attribuzione all’Amministrazione sanitaria di un potere unilaterale di sospensione cautelare del professionista dal servizio, in relazione alla proposizione di azioni disciplinari o penali nei confronti del medesimo, nonché alle esigenze del buon andamento dell’attività la cui cura è rimessa alla detta Amministrazione, l’esercizio di un potere siffatto, ove risulti non ispirato da intenti discriminatori, coerente con gli obblighi generali di correttezza e buona fede ed effettivamente coordinato alle indicate evenienze ed esigenze, deve ritenersi connaturato al potere direttivo derivante dallo stesso rapporto convenzionale e, quindi, legittimo, ancorché inidoneo a produrre effetti estintivi dell’obbligazione retributiva per il periodo della sospensione della prestazione lavorativa.

In tema di trattamento economico dei medici specializzandi e con riferimento alla domanda risarcitoria per non adeguata remunerazione, Sez. L, n. 09104/2021, Blasutto, Rv. 660868-01, ha rimarcato, sulla stessa linea di Sez. L, n. 18670/2017, Boghetich, Rv. 645008-02, il concetto che l’importo della borsa di studio prevista dall’art. 6 del d.lgs. n. 257 del 1991 non è soggetto ad incremento in relazione alla variazione del costo della vita per gli anni accademici dal 1992-1993 al 2004-2005, in applicazione di quanto disposto dall’art. 7 del d.l. n. 384 del 1992 (ed analoghe normative successive), senza che il blocco di tale incremento possa dirsi irragionevole, iscrivendosi in una manovra di politica economica riguardante la generalità degli emolumenti retributivi in senso lato erogati dallo Stato.

Resta fermo che l’attività svolta dai medici iscritti alle scuole di specializzazione universitarie non è inquadrabile nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, né del lavoro parasubordinato, sicché, non essendo ravvisabile una relazione sinallagmatica di scambio tra la suddetta attività e la remunerazione prevista dalla legge, è inapplicabile l’art. 36 Cost. ed il principio di adeguatezza della retribuzione ivi contenuto (così Sez. L, n. 09103/2021, Blasutto, Rv. 660867-01).

Quanto al profilo della retribuzione dei collaboratori esperti linguistici, già lettori di madre lingua straniera, Sez. L, n. 11637/2021, Bellè, Rv. 661114-01, ha puntualizzato che la conservazione del trattamento di miglior favore previsto dal d.l. n. 2 del 2004, conv. con modif., dalla l. n. 63 del 2004, opera nei limiti precisati dall’art. 26, comma 3, della l. n. 240 del 2010, sicché va escluso che la retribuzione stessa possa rimanere agganciata, anche per il periodo successivo alla stipula del contratto di collaborazione, alle dinamiche contrattuali previste per i ricercatori confermati a tempo definito, né una eventuale delibera derogatoria può trovare legittimazione nel procedimento sostituivo per i trattamenti integrativi, di cui all’art. 40, comma 3-ter, del d.lgs. n. 165 del 2001, mancando la procedura di controllo da parte dei revisori dei conti, prevista per la contrattazione collettiva sostituita, e la costituzione del fondo per il trattamento accessorio. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto legittimo il recupero da parte della P.A. del miglioramento retributivo previsto per i ricercatori, erroneamente esteso ai collaboratori con delibera poi revocata).

Infine, con riferimento a vicenda peculiare, Sez. L, n. 09371/2021, Cavallaro, Rv. 660931-01, ha sottolineato che la domanda di riconoscimento della causa di servizio, presentata in data anteriore all’entrata in vigore del d.P.R. n. 468 del 2001, è disciplinata dall’art. 18 del medesimo d.P.R., dovendo nel resto applicarsi il principio generale secondo cui, una volta impedita la decadenza, il diritto rimane assoggettato soltanto alle regole della prescrizione, senza che al riguardo rilevi la successiva abrogazione ex art. 6 del d.l. n. 201 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 214 del 2011. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza che aveva rigettato per intervenuta decadenza la domanda di riconoscimento della causa di servizio, costituita da un’istanza di riesame nel merito di un provvedimento reso in esito ad un procedimento che era ancora in corso alla data di entrata in vigore del d.P.R. n. 468 del 2001 e dunque soggetto ai previgenti termini di decadenza).

4. Classificazione del personale: categorie, qualifiche e mansioni.

Sul tema generale dell’inquadramento del personale si registrano, nel corrente anno, poche pronunzie significative.

In tema di personale scolastico A.T.A., Sez. L, n. 17602/2021, Spena, Rv. 661646-01, ha evidenziato che, ai sensi dell’art. 47 del c.c.n.l. comparto scuola del 29 novembre 2007 e della allegata tabella A, tra le mansioni di cui al profilo professionale dell’Area A rientrano anche i compiti “di pulizia dei locali, degli spazi scolastici e degli arredi”, mentre la possibilità di fare ricorso a contratti di fornitura di servizi ausiliari non costituisce un obbligo del dirigente scolastico, né esonera il collaboratore A.T.A. dallo svolgimento delle predette mansioni. (Nella specie, è stata respinta l’impugnazione del licenziamento intimato per scarso rendimento al dipendente A.T.A. che aveva reiteratamente rifiutato di svolgere i lavori di pulizia perché ritenuti non di competenza).

Quanto al diritto al compenso per lo svolgimento di mansioni superiori, Sez. L, n. 15476/2021, Marotta, Rv. 661337-01, ha chiarito che il diritto in questione non si traduce in un rigido automatismo, risultando sufficiente, per l’osservanza dell’art. 36 Cost., l’attribuzione di un compenso aggiuntivo, rispetto alla qualifica di appartenenza, la cui determinazione può derivare anche da una norma collettiva; ne consegue che ai funzionari apicali delle qualifiche ad esaurimento, a cui possono essere attribuite, ai sensi dell’art. 69, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, le funzioni vicarie di dirigente o di direzione di uffici di particolare rilevanza, spetta un trattamento economico aggiuntivo, determinato dalla contrattazione collettiva integrativa, che non deve necessariamente coincidere con il trattamento economico dei dirigenti.

Sez. L, n. 03666/2021, Tricomi I., Rv. 660531-01, ha precisato che nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, il giudicato non si estende - diversamente dal processo civile - anche ai vizi deducibili, ma solo a quelli dedotti, in relazione ai quali sia stata accertata la legittimità (o illegittimità) dell’atto amministrativo impugnato; conseguentemente, la sentenza del giudice amministrativo di annullamento di un provvedimento che abbia modificato le mansioni di un dipendente pubblico, a causa di un vizio procedimentale (nella specie, la violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento, di cui all’art. 7 l. n. 241 del 1990), non può essere utilmente dedotta dinanzi al giudice ordinario ai fini della reintegrazione nel precedente profilo professionale e della ricostruzione della carriera.

In tema di personale docente della Provincia autonoma di Bolzano, la frequenza di un corso di formazione universitaria in un altro Stato membro dell’U.E. non riveste valore abilitante ai fini dell’inserimento nella terza fascia delle graduatorie provinciali per l’insegnamento nella scuola secondaria, in quanto il corso in questione non è equiparabile ad un percorso post-laurea, richiesto dalla normativa nazionale, funzionale al conseguimento dell’abilitazione, né la l. provinciale n. 24 del 1996, di cui va fornita una lettura costituzionalmente orientata, tale da garantire la necessaria armonia con i principi stabiliti dalla predetta normativa, può essere interpretata - nella parte in cui ha consentito l’iscrizione con riserva anche a coloro che frequentavano in altro Stato dell’Unione un percorso di formazione analogo a quello previsto per l’esercizio in Italia della professione docente - nel senso di delegare all’autorità scolastica provinciale la valutazione sull’efficacia abilitante del titolo straniero, rientrando la valutazione in questione, ex art. 5, comma 1, lett. f, del d.lgs. n. 206 del 2007, nella competenza del Ministero della Pubblica Istruzione (così Sez. L, n. 12424/2021, Di Paolantonio, Rv. 661295-01).

5. Vicende del rapporto.

L’invio in missione cd. breve all’estero ex art. 27 della l. n. 49 del 1987 non può riguardare il personale già residente nel paese di svolgimento della missione, poiché la locuzione normativa “in missione all’estero” implica che il soggetto inviato abbia la residenza nonché il domicilio effettivo nel territorio nazionale, in coerenza con la previsione di un trattamento economico comprensivo di emolumenti - come la indennità di servizio all’estero ed il rimborso delle spese di viaggio e di trasporto degli effetti - che presuppongono un effettivo trasferimento, in ragione della missione, dal territorio italiano a quello di uno Stato estero (così Sez. L, n. 07517/2021, Spena, Rv. 660844-01).

In materia di orario di lavoro, Sez. L, n. 02273/2021, Marotta, Rv. 660334-01, ha precisato che in tema di personale degli enti locali, la disposizione di cui all’art. 32 del c.c.n.l. per il personale del comparto delle regioni e delle autonomie locali del 2000 è diretta a regolamentare l’orario di lavoro dei docenti delle istituzioni scolastiche gestite dagli enti locali, mentre l’art. 34 del medesimo c.c.n.l. disciplina l’orario dei docenti dei centri di formazione professionale prevedendo l’applicazione dell’orario ordinario di cui all’art. 17 del c.c.n.l. per il personale del medesimo comparto del 1995. (Principio affermato ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c.).

Sul tema della proroga del periodo di prova, Sez. L, n. 05546/2021, Spena, Rv. 660622-01, ha evidenziato che in tema di personale docente, in caso di periodo di prova con esito sfavorevole, la proroga di un altro anno scolastico al fine di acquisire maggiori elementi di valutazione, concessa, in alternativa alla dispensa, ai sensi dell’art. 439 del d.lgs. n. 297 del 1994, non richiede un servizio minimo effettivo di 180 giorni, previsto invece per l’anno iniziale di formazione dal successivo art. 440, comma 2, in quanto durante la stessa non restano irrilevanti gli elementi di valutazione già acquisiti né si procede a nuova valutazione, sicché il mancato raggiungimento di tale limite non consente una ulteriore proroga, ex art. 438, comma 5, dello stesso decreto, applicabile solo in riferimento al primo anno di prova.

Sulla delicata questione dell’incompatibilità, Sez. L, n. 09660/2021, Bellè, Rv. 660969-02, ha affermato che la disciplina prevista dalla l. n. 339 del 2003 trova applicazione anche nei confronti del personale impiegato presso l’area tecnica dell’Università, atteso che i casi di compatibilità costituiscono eccezioni alla regola generale insuscettibili di estensione, rientrando nella discrezionalità del legislatore la modulazione del divieto in vista della necessità di tutelare interessi di rango costituzionale quali, da un lato, quelli di cui agli artt. 97 e 98 Cost., nonché, dall’altro, l’indipendenza della professione forense, in quanto strumentale all’effettività del diritto di difesa ex art. 24 Cost.

In tema di organizzazione dei servizi per la gestione dei rifiuti, a seguito della soppressione degli ambiti territoriali ottimali (ATO), di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, per effetto del d.l. n. 2 del 2010 (conv., con modif., dalla l. n. 42 del 2010), il personale già in servizio presso i comuni, transitato negli ATO, ha facoltà, ai sensi della legislazione regionale (nella specie, l.r. Sicilia n. 9 del 2010), di chiedere di tornare nei comuni di appartenenza, senza che, tuttavia, possa configurarsi in capo all’ente locale l’obbligo di procedere alla riassunzione, che deve essere discrezionalmente valutata sulla base della disponibilità del posto precedentemente occupato in pianta organica e della compatibilità con i limiti di bilancio legislativamente imposti, in ossequio all’art. 97 Cost. (in tale senso Sez. L, n. 22187/2021, Torrice, Rv. 662088-01).

Secondo Sez. L, n. 22885/2021, Marotta, Rv. 662105-01, si deve negare che il diritto al trasferimento riconosciuto dall’art. 33, comma 5, della l. n. 104 del 1992, possa assumere a suo esclusivo presupposto la vacanza del posto a cui il lavoratore richiedente, familiare dell’handicappato, aspira, poiché tale condizione esprime una mera potenzialità, che assurge ad attualità soltanto con la decisione organizzativa dell’amministrazione di coprire talune vacanze; sicché, ai fini del riconoscimento del suddetto diritto - il quale non si configura come assoluto ed illimitato, in quanto l’inciso “ove possibile” contenuto nel citato articolo postula un adeguato bilanciamento degli interessi in conflitto -, non basta la mera scopertura di organico, profilandosi invece necessario che i posti, oltre che vacanti, siano anche resi “disponibili” dall’amministrazione stessa, le cui determinazioni devono sempre rispettare i principi costituzionali d’imparzialità e di buon andamento, tenuto conto di finalità ed esigenze commisurate anche all’interesse alla corretta gestione della finanza pubblica.

In materia di aspettativa, Sez. L, n. 32262/2021, Tricomi I., Rv. 662695-01, ha specificato che l’art. 18, comma 3, del c.c.n.l. del comparto scuola dev’essere interpretato nel senso che la durata massima dell’aspettativa del dipendente, fissata in un anno scolastico, va riferita al rapporto di lavoro unitariamente considerato, sotto il profilo formale e sostanziale, e dunque anche nel caso di passaggio di ruolo all’interno dell’amministrazione scolastica.

6. Mobilità.

Sul piano generale, Sez. L, n. 00086/2021, Bellè, Rv. 659964-01, ha affermato che il passaggio diretto di personale da amministrazioni diverse, di cui all’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, va ricondotto alla fattispecie della “cessione del contratto” ex art. 1406 c.c., sicché l’individuazione del trattamento economico e giuridico da applicare ai dipendenti trasferiti va effettuata sulla base dell’inquadramento dell’ente di provenienza, nell’ambito della disciplina legale e contrattuale del comparto dell’amministrazione cessionaria, tenuto conto delle posizioni differenziate attraverso le quali, all’interno delle aree, si realizza la progressione in carriera; in caso di confluenza da un ente locale ad un’amministrazione statale, il d.p.c.m. n. 446 del 2000, che regola il passaggio inverso, può costituire un idoneo parametro per il giudizio di comparazione.

Sul versante processuale è stato precisato - da Sez. L, n. 26265/2021, Bellè, Rv. 662366-01 - che la procedura di trasferimento volontario del dipendente tra pubbliche amministrazioni diverse, che realizza una cessione del contratto secondo i moduli civilistici di cui all’art. 1406 c.c., salve le integrazioni derivanti dall’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, non involge, neppure quando sia qualificata come “bando”, i poteri autoritativi delle amministrazioni, ma solo la capacità di diritto privato di acquisizione e gestione del personale, da esercitare secondo le regole per essa previste. Ne consegue l’inammissibilità del motivo di ricorso per cassazione con cui si contesti la qualificazione del bando operata dal giudice di merito, senza far riferimento alla violazione dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., applicabili anche agli atti unilaterali di diritto privato ex art. 1324 c.c. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto inammissibile la censura mossa alla qualificazione di offerta al pubblico della procedura di mobilità, fondata unicamente sulla pretesa natura pubblicistica della fase di selezione dei candidati al trasferimento).

In tema di trasferimento di personale tra enti pubblici non economici, ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001, Sez. 6-L, n. 39896/2021, Bellè, Rv. 663232-01, ha ritenuto che nel caso di invalidità del trasferimento di attività accertata giudizialmente, il rapporto di lavoro permane con l’ente trasferente e se ne instaura uno nuovo e diverso con l’ente trasferitario presso cui il dipendente abbia materialmente continuato a lavorare; ne consegue che la responsabilità per violazione dell’art. 2103 c.c. deve essere imputata a quest’ultimo ente, in quanto l’incardinamento del lavoratore nei suoi ruoli, per quanto poi caducato, non può esimere l’ente in questione dalle responsabilità datoriali conseguenti alla relazione di fatto che si è nelle more instaurata.

Peraltro, sempre in tema di passaggi di personale e procedure volontarie di mobilità, Sez. L, n. 11771/2021, Tricomi I., Rv. 661116-01, ha puntualizzato che, in difetto di disposizioni speciali che espressamente definiscano un determinato trattamento retributivo come non riassorbibile o, comunque, ne prevedano la continuità indipendentemente dalle dinamiche retributive del nuovo comparto, si applica, argomentando dall’art. 34 del d.lgs. n. 29 del 1993, come sostituito dall’art. 19 del d.lgs. n. 80 del 1998 (ora art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001), il principio generale della riassorbibilità degli assegni “ad personam”. L’operatività di detto principio non può essere esclusa dalla contrattazione collettiva, alla quale sono demandate, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001, la determinazione degli elementi che formano il trattamento economico complessivo dei pubblici dipendenti, nonché, per quanto riguarda il riassorbimento, le sole modalità applicative del principio, che dunque resta intangibile per la fonte contrattuale, stante l’inderogabilità della normativa che disciplina i criteri generali della materia.

Il trasferimento “ex lege” alle Camere di commercio dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle soppresse Stazioni sperimentali per l’industria, previsto dall’art. 7, comma 20, del d.l. n. 78 del 2010, conv., con modif., dalla l. n. 122 del 2010, è riconducibile alla fattispecie dell’art. 2112 c.c., la cui applicazione non è preclusa dalla circostanza che il rapporto di lavoro non fosse, di fatto, operante al momento del trasferimento; pertanto, l’accertamento giudiziale - avente efficacia ex tunc - dell’illegittima apposizione del termine da parte del cedente fa sorgere il diritto alla reintegrazione del lavoratore presso il cessionario (così Sez. L, n. 09318/2021, Marotta, Rv. 661051-01).

Con riguardo al trasferimento interprovinciale del personale scolastico, Sez. L, n. 04677/2021, Tricomi I., Rv. 660616-01, ha specificato che l’art. 13 del c.c.n.i. di settore dell’8 aprile 2016, nel riconoscere il diritto di precedenza al dipendente che assiste un genitore in condizione di handicap grave esclusivamente nelle operazioni di assegnazione provvisoria, non si pone in contrasto con la disposizione di cui all’art. 33 della l. n. 104 del 1992 - che attribuisce, tra l’altro, al lavoratore il diritto di scegliere la sede di lavoro più vicina alla persona da assistere, ove possibile -, poiché la norma contrattuale assegna a ciascuna situazione, in relazione alla sua gravità ed alle connesse esigenze di assistenza, una considerazione ai fini del trasferimento, così soddisfacendo l’esigenza basilare dell’amministrazione alla corretta gestione della mobilità del personale e collocandosi nell’ambito del principio del bilanciamento degli interessi che la l. n. 104 del 1992 privilegia.

Sez. L, n. 31119/2021, Spena, Rv. 662661-01, ha ribadito, in conformità a Sez. L, n. 16476/2009, Monaci, Rv. 609367-01, che in caso di transito di un dipendente delle Ferrovie dello Stato ad un ente pubblico, dapprima sulla base della legislazione sulla mobilità e poi in virtù di definitivo trasferimento, il lavoratore conserva “ad personam” il trattamento economico in atto alla data del trasferimento, ai sensi dell’art. 5, comma 2, del d.P.C.M. n. 325 del 1988; nella determinazione del suo ammontare, tuttavia, occorre considerare che il d.P.C.M. n. 473 del 1992, nel porre a carico delle Ferrovie dello Stato il trattamento economico anche nella fase di mobilità e fino al 30 settembre 1992, prevede che esso comprenda le voci di retribuzione fissa, ma non le classi biennali di stipendio, legate all’acquisizione di una maggiore anzianità e giustificate solo dalle modalità e dai caratteri particolari della prestazione di lavoro presso le Ferrovie, né il premio di esercizio non ancora maturato, non facente parte del trattamento di fatto già in atto al momento del distacco. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito, con cui si era escluso che il lavoratore definitivamente trasferito presso l’ente pubblico potesse pretendere da quest’ultimo l’inclusione nel trattamento ad personam delle voci retributive già non spettanti durante il periodo di mobilità).

Infine va segnalata Sez. 6-L, n. 41247/2021, Di Paolantonio, Rv. 663382-01, che, in vicenda peculiare, ha affermato che in tema di passaggio al Comune territorialmente competente del personale delle IPAB regionali a seguito della loro soppressione, posto che la sentenza della Corte cost. n. 135 del 2020, che ha dichiarato incostituzionale “in parte qua” l’art. 34, comma 2, della l.r. Sicilia n. 22 del 1986, che prevedeva tale passaggio, ha fatto salvi i rapporti esauriti, per i quali sia cioè intervenuta sentenza passata in giudicato ovvero si siano verificati altri atti o fatti, parimenti rilevanti sul piano sostanziale o processuale, idonei a produrre il medesimo effetto giuridico, va comunque escluso che possa ravvisarsi una situazione giuridica irrevocabile in presenza di un rapporto che sia sorto per effetto della norma dichiarata incostituzionale, anche in considerazione della nullità prevista dall’art. 16, comma 8, del d.l. n. 98 del 2011, conv., con modif., dalla l. n. 111 del 2011, per gli atti relativi al rapporto di pubblico impiego posti in essere in base a disposizioni di cui venga successivamente dichiarata l’illegittimità costituzionale. (Nella specie, la S.C. ha escluso che la norma dichiarata illegittima potesse continuare ad applicarsi per il solo fatto che il Comune destinatario del trasferimento, in conseguenza della soppressione dell’IPAB, avesse già adottato un atto di carattere generale che si limitava a predisporre quanto necessario ai fini del passaggio del personale).

7. Illeciti disciplinari: questioni procedimentali e sostanziali.

Il paragrafo dedicato alla materia disciplinare non può non aprirsi, nel 2021, con la menzione di Sez. U, n. 24414/2021, Giusti, Rv. 662230-01, 662230-02, 662230-03, le cui affermazioni di principio in tema di libertà religiosa e laicità dello Stato non devono far dimenticare che la vicenda concreta all’origine della decisione riguardava un illecito disciplinare contestato a un docente della scuola pubblica.

Si trattava di un insegnante di un istituto d’istruzione superiore che, in nome della propria libertà d’insegnamento e del principio di neutralità della scuola pubblica in materia religiosa, aveva più volto rimosso il crocifisso dalle pareti delle aule dove svolgeva le proprie lezioni. Questa condotta, reiterata nel tempo e accompagnata da atteggiamenti polemici, gli era valsa un procedimento disciplinare, ritualmente impugnato davanti al giudice del lavoro.

All’esito di un’ampia disamina delle fonti nazionali e sovranazionali, le Sezioni Unite sono giunte ad affermare che la presenza del crocifisso non può essere imposta nelle aule, essendo tale imposizione incompatibile con i principi costituzionali di laicità dello Stato e libertà religiosa. Di conseguenza, la circolare del dirigente scolastico che obblighi a non rimuovere il crocifisso, pur non discriminatoria, è illegittima e tale illegittimità dell’atto presupposto fa cadere di conseguenza anche la sanzione disciplinare inflitta al docente per la sua inosservanza.

Numerose sono state poi le pronunce relative ai rapporti tra procedimento disciplinare e processo penale.

Anzitutto va segnalata Sez. L., n. 41892/2021, Di Paolantonio, Rv. 663416-01, ove è affermato che in assenza di disposizioni transitorie, l'art. 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001, introdotto dal d.lgs. n. 150 del 2009 - che ha reso la sospensione del procedimento disciplinare solo facoltativa nella pendenza del procedimento penale - è applicabile immediatamente a tutti gli illeciti disciplinari la cui notizia sia stata acquisita dall'amministrazione dopo il 16 novembre 2009, data di entrata in vigore della riforma, ancorché commessi prima di quella data, trattandosi di norma di carattere processuale; agli illeciti anteriori non è invece applicabile l'art. 55-quater dello stesso d.lgs. n. 165 del 2001, poiché detta norma, disciplinandone il trattamento sanzionatorio, ha carattere sostanziale.

Sez. L, n. 03659/2021, Marotta, Rv. 660530-01, ha ribadito l’insegnamento, ormai consolidato, per cui l'accertamento contenuto nella sentenza penale passata in giudicato non preclude una nuova valutazione dei fatti in sede disciplinare, attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, con il solo limite dell'immutabilità dell'accertamento dei fatti nella loro materialità - e dunque, della ricostruzione dell'episodio posto a fondamento dell'incolpazione - operato nel giudizio penale (la fattispecie riguardava un funzionario amministrativo assolto dal reato di corruzione in ragione del mancato compiuto accertamento dei fatti; la S.C. ha negato che ciò precludesse un nuovo vaglio degli stessi nell'ambito del procedimento disciplinare, sulla scorta degli elementi di prova ivi raccolti).

Secondo Sez. L, n. 35997/2021, Bellè, Rv. 663001-01, in tal caso la ripresa del procedimento disciplinare ammette le modifiche dell'addebito giustificate dall'evolversi della vicenda penale, permettendo alla P.A. di procedere per fatti, magari rivelatisi inidonei alla condanna penale, ma che siano contenuti nella originaria contestazione, e ciò in quanto, la sospensione legittima dell'iter ha anche lo scopo di consentire la fruizione degli accertamenti svolti in sede penale, che devono essere apprezzati nella loro interezza; esorbita, invece, dalle modifiche consentite, l'inserzione nella contestazione di fatti nuovi, tali da esprimere un disvalore diverso da quello originario.

La situazione è tuttavia diversa – lo ha sottolineato Sez. L, n. 25901/2021, Bellè, Rv. 662274-01 – da quella in cui il potere disciplinare sia stato validamente esercitato in relazione a determinati fatti, con irrogazione della sanzione espulsiva e successivamente sia passata in giudicato una condanna penale per quegli stessi fatti; il potere disciplinare non può essere nuovamente esercitato, trovando applicazione il principio generale del ne bis in idem, parzialmente derogato dall'art. 55 ter del d.lgs. n. 165 del 2001 per i soli casi ivi espressamente previsti, al fine di adeguare, in ragione delle peculiari esigenze pubblicistiche l'esito disciplinare, in melius o in peius, alla statuizione penale (nella specie, una dipendente comunale, resasi responsabile di atti di calunnia nei confronti dei superiori, era stata licenziata una prima volta per violazione di una determinata norma del contratto collettivo con atto annullato con sentenza definitiva del giudice del lavoro; passata in giudicato la condanna per calunnia, la lavoratrice era stata licenziata per la seconda volta ai sensi di una diversa norma pattizia, ma la S.C. ha negato la legittimità del secondo licenziamento, sulla base del principio sopra enunciato).

Più delicato è stabilire quando il potere-dovere di riattivazione da parte della P.A. sorga e decada.

Sez. L, n. 35997/2021, Bellè, Rv. 663001-02, ha precisato che il dovere decorre solo a partire dal momento in cui sia certa la definitività della pronunzia penale, anche ai fini civili, vieppiù quando la parte civile coincide con l'amministrazione titolare del potere disciplinare; infatti, in tale evenienza, in cui il giudicato opera proprio nei riguardi del datore di lavoro, parte interessata agli effetti disciplinari di esso, l'esito dell'impugnazione della parte civile può influire anche sull'accertamento dell'entità del danno in ipotesi arrecato, con conseguente ricaduta sulla scelta della sanzione.

Quando però, a seguito della comunicazione della sentenza che definisce il procedimento penale, la P.A. deve riattivare il procedimento disciplinare entro un termine di decadenza, Sez. L, n. 15464/2021, Marotta, Rv. 661336-01, ha chiarito che occorre avere riguardo alla data di adozione dell'atto da parte della P.A., in applicazione della regola più generale secondo cui la decadenza è impedita dal compimento dell'atto tipico entro il termine indicato; mentre - se l'atto ha carattere recettizio - la sua conoscenza (o conoscibilità) da parte del destinatario rileva esclusivamente ai fini della produzione degli effetti dell'atto, a meno che essa non sia prevista come elemento costitutivo della fattispecie impeditiva nella fonte che contempla la decadenza.

Sez. L, n. 41892/2021, Di Paolantonio, Rv. 663416-02, ha peraltro precisato che nell'ipotesi di riattivazione del procedimento disciplinare in data antecedente alla formazione del giudicato penale, non può operare il termine iniziale previsto dal comma 4 dell'art. 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001, che spiega effetti solo qualora l'amministrazione attenda l'esito definitivo del processo penale, mentre resta operante quello finale indicato dalla stessa disposizione, termine che decorre dalla ripresa del procedimento, ossia dalla data di rinnovo della contestazione.

Anche la fase della sospensione obbligatoria – ai sensi dell'art. 4 della l. n. 97 del 2001 – dà origine a questioni di una certa complessità.

Si tratta di misura cautelare di carattere interinale il cui esito – lo ha chiarito Sez. L, n. 04411/2021, Spena, Rv. 660861-01 – è legato agli sbocchi del procedimento disciplinare, che l'amministrazione ha l'onere di avviare anche nell'ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia medio tempore cessato: pertanto, ove la sanzione inflitta sia di gravità pari o maggiore della sospensione applicata, la sospensione deve dirsi “ex post” giustificata; nel caso invece in cui il procedimento disciplinare non venga attivato o la sanzione inflitta sia di minore gravità, al dipendente è dovuta la “restitutio in integrum” in relazione al periodo di sospensione cautelare non legittimato dalla sanzione irrogata.

Strettamente collegato al principio appena enunciato è quanto affermato da Sez. L, n. 06500/2021, Bellè, Rv. 660634-01: nel ricorrere dei presupposti del licenziamento disciplinare, è possibile per la P.A. irrogare la sanzione anche se il rapporto di lavoro sia precedentemente cessato per altre cause, non applicandosi – in ragione dell'interesse pubblico a definire il procedimento disciplinare a tutela dell'immagine dell'amministrazione e per gli ulteriori effetti, anche economici, riconducibili alla condotta imputabile al dipendente – il principio elaborato in riferimento al rapporto di lavoro privato, secondo cui il secondo licenziamento è produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente recesso (ovvero altra causa di cessazione del rapporto). Ne consegue che il licenziamento disciplinare sopravvenuto mantiene efficacia al fine di regolare le vicende economiche rispetto alle quali esso può assumere persistente rilevanza, come rispetto all'indennità di mancato preavviso, caducando ex nunc la causa dell'attribuzione, con effetto estintivo parziale sul diritto già maturato o, qualora l'erogazione vi sia già stata, rendendola parzialmente indebita nella misura in cui tale indennità sia proiezione obbligatoria del diritto rispetto a mensilità per le quali, a causa del sopravvenuto recesso per motivi disciplinari, non può ex post ammettersi la legittimità del riconoscimento.

Passando all’esame delle scansioni del procedimento disciplinare e delle garanzie che la P.A. deve assicurare, va ricordato, con Sez. L, n. 09313/2021, Marotta, Rv. 660873-01, che, ai fini della decorrenza del termine per la contestazione dell'addebito, è necessaria una notizia "circostanziata" dell'illecito, ovvero un conoscenza certa, da parte dei titolari dell'azione disciplinare, di tutti gli elementi costitutivi dello stesso; pertanto, deve ritenersi inidonea al predetto scopo l'informazione di garanzia che, ai sensi dell'art. 369 c.p.p., viene inviata dal pubblico ministero alla persona sottoposta ad indagini quando deve essere compiuta un'attività cui il difensore ha diritto di assistere, trattandosi di atto che non presuppone necessariamente alcuna precedente attività investigativa diversa dalla mera denuncia e che pertanto è privo del, pur minimo, riscontro in termini quanto meno di “fumus” della fondatezza della stessa, necessario ai fini della formulazione di una contestazione disciplinare, la quale deve essere basata su una completa e autonoma valutazione dei fatti e deve consentire all'incolpato il completo ed effettivo esercizio del diritto di difesa.

La "notizia di infrazione" deve essere di contenuto tale da consentire al datore di lavoro di dare, in modo corretto, l'avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell'addebito, dell'istruttoria e dell'adozione della sanzione; ciò vale anche nell'ipotesi in cui il protrarsi nel tempo di singole mancanze, pur da sole disciplinarmente rilevanti, integri una autonoma e più grave infrazione. (Sez. L, n. 11635/2021, Marotta, Rv. 661113-01).

La citata pronuncia, Rv. 660873-02, ha poi statuito che, nel pubblico impiego contrattualizzato, all'obbligo datoriale di procedere all'audizione del dipendente raggiunto da una contestazione disciplinare, non corrisponde un incondizionato diritto di quest'ultimo al differimento dell'incontro in cui deve essere sentito, atteso che la violazione del predetto obbligo dà luogo alla nullità della sanzione solo ove sia dimostrato dall'interessato un pregiudizio al concreto esercizio del diritto di difesa; per tale ragione, è onere del dipendente provare di non avere potuto presenziare all'audizione a causa di una patologia così grave da risultare ostativa in assoluto all'esercizio di quel diritto, dovendosi ritenere che altre malattie non precludano all'incolpato diverse forme partecipative (quali, ad es., l'invio di memorie esplicative o di delega difensiva ad un avvocato) tali da consentire al procedimento di proseguire nel rispetto dei termini perentori finali che lo cadenzano.

Peraltro, Sez. L, n. 34702/2021, Negri della Torre, Rv. 662779-01, ha chiarito che, in caso di audizione a difesa fissata dal datore di lavoro in una data anteriore a quella in cui il dipendente ha avuto legale conoscenza della contestazione, l'illegittimità del licenziamento consegue senza che occorra la prova di un pregiudizio arrecato in concreto all'esercizio del diritto di difesa, in quanto il cd. termine a difesa, che precede l'audizione dell'interessato, va computato a decorrere dal momento in cui il lavoratore ha avuto conoscenza degli addebiti a lui mossi e, dunque, dalla data di ricevimento della contestazione in riferimento alla quale deve essere posto in condizione di poter predisporre una difesa circostanziata in relazione ai fatti oggetto di addebito.

All’origine di frequenti contrasti è il tema della competenza dell’U.P.D. (Ufficio per i Procedimenti Disciplinari).

In primo luogo, va menzionata Sez. L, n. 11634/2021, Bellè, Rv. 661112-01, su una questione di carattere intertemporale: ove vi sia stato il differimento dell'azione disciplinare all'esito del processo penale, la competenza ad avviare e concludere il procedimento, ai sensi dell'art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo vigente prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2009, in caso di trasferimento successivo ad altra sede lavorativa, è dell'ufficio per i procedimenti disciplinari del luogo dove il lavoratore presta servizio al momento della contestazione, in quanto la notizia che assume rilevanza è quella che si rende disponibile all'esito del processo penale, dai cui accertamenti deriva la consistenza e fondatezza dei fatti da addebitare.

Più in generale, va ricordato che il principio di terzietà dell'ufficio dei procedimenti disciplinari ne postula la distinzione sul piano organizzativo rispetto alla struttura nella quale opera il dipendente (Sez. L, n. 41568/2021, Negri della Torre, Rv. 663414-01), ma non va confuso con quello di imparzialità dell'organo giudicante, che solo un soggetto terzo può assicurare, laddove il giudizio disciplinare, sebbene connotato da plurime garanzie per il dipendente, è comunque condotto dal datore, parte del rapporto.

Ne consegue che qualora l'U.P.D. abbia composizione collegiale, e sia distinto dalla struttura nella quale opera il dipendente sottoposto a procedimento, la terzietà dell'organo non viene meno per il sol fatto che sia composto anche dal soggetto che ha effettuato la segnalazione disciplinare, nella specie dal responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (in applicazione di tale principio, Sez. L, n. 15239/2021, Marotta, Rv. 661335-01, in fattispecie anteriore alla modifica dell'art. 1, comma 7, della l. n. 190 del 2012, ad opera dell'art. 41 del d.lgs. n. 97 del 2016, ha ritenuto correttamente costituito l'ufficio disciplinare di cui era membro il responsabile della prevenzione della corruzione).

Presso il Ministero della giustizia, la competenza per i procedimenti disciplinari più gravi è del Direttore generale del personale e della formazione, ai sensi dell'art. 5 del d.P.C.M. n. 84 del 2015, restando del tutto irrilevante l'omessa adozione dei decreti attuativi la cui previsione è correlata alla riorganizzazione di determinati uffici; infatti, né l'art. 16 del citato d.P.C.M., che individua puntualmente gli uffici e le strutture oggetto della ristrutturazione, né le disposizioni transitorie fanno riferimento al Direttore generale del personale e della formazione e alle funzioni ad esso assegnate (Sez. L, n. 30579/2021, Torrice, Rv. 662613-01).

L’incompetenza dell’U.P.D. costituisce un vizio che determina la nullità del provvedimento disciplinare irrogato. Va tuttavia rammentato che il rilievo d'ufficio di una nullità sostanziale è ammissibile esclusivamente se basato su fatti ritualmente introdotti, o comunque acquisiti in causa, secondo le regole che disciplinano, anche dal punto di vista temporale, il loro ingresso nel processo, non potendosi fondare su fatti di cui il giudice (o la parte, tardivamente rispetto ai propri oneri) possa ipotizzare solo in astratto la verificazione e la cui introduzione presupponga l'esercizio di un potere di allegazione ormai precluso in rito. Pertanto, non può essere rilevata d’ufficio dal giudice la nullità del licenziamento disciplinare, intimato da organo incompetente ex art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, ove tardivamente eccepita e qualora non risultino acquisite le circostanze di fatto relative all'organizzazione interna dell'ente ed alle modalità con cui era stato adempiuto l'obbligo di previa individuazione dell'U.P.D. (Sez. L, n. 36353/2021, Bellè, Rv. 662922-01).

Di grande interesse, vista la crescente importanza che è destinato ad assumere nel prossimo futuro il fenomeno del cd. “whistleblowing”, oggetto di una specifica regolamentazione UE con la direttiva n. 2019/1937/UE, è Sez. 6-L, n. 38204/2021, Bellè, Rv. 663230-01.

Com’è noto, il “whistleblowing” ha ricevuto un primo riconoscimento nella sfera del pubblico impiego con l’art. 54-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, che ha formato oggetto di modifiche con la l. n. 190 del 2012. Tale norma prevede alcune precise garanzie disciplinari in favore di chi segnali, con la dovuta cautela, comportamenti illeciti interni all’amministrazione di appartenenza. Si tratta di garanzie contro i licenziamenti o comunque gli atti interni di carattere ritorsivo: ebbene, la decisione in rassegna ha affermato che tali garanzie non si applicano con riguardo alle sanzioni irrogate nei confronti del segnalante prima dell'entrata in vigore della l. n. 190 del 2012.

Con riferimento a fattispecie in cui si discuteva della legittimità della sanzione in concreto applicata, meritano menzione: Sez. L, n. 17600/2021, Tricomi I., Rv. 661644-01, con cui si è chiarito che l'assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio, consente l'intimazione della sanzione disciplinare del licenziamento, ai sensi dell'art. 55 quater, lett. b), del d.lgs. n. 165 del 2001, purché non ricorrano elementi che assurgano a "scriminante" della condotta tenuta dal lavoratore, tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa, in relazione sia all'adempimento della prestazione principale sia agli obblighi strumentali di correttezza e diligenza; Sez. L, n. 26267/2021, Leone, Rv. 662447-01, che, a proposito degli autoferrotranvieri, cui tuttora si applica la speciale disciplina del r.d. n. 148 del 1931, ha puntualizzato che la retrocessione ex artt. 37, comma 1, n. 5, e 44, comma 1, all. A), del citato r.d., applicata quale sanzione sostitutiva della destituzione, costituisce, alla luce della sentenza della Corte cost. n. 188 del 2020, una misura speciale che non determina alcuna disparità di trattamento, né violazione di principi costituzionali, in riferimento al rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri, in quanto, quale alternativa al licenziamento per motivi disciplinari, riconosce un trattamento “in melius” che, mediante la destinazione a mansioni inferiori, consente al dipendente la conservazione del posto di lavoro.

A margine della materia disciplinare strettamente intesa si colloca la fattispecie disegnata dall’art. 127, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 3 del 1957, che fa derivare la decadenza dall'impiego pubblico da alcune specifiche condotte di inadempimento del dipendente, tra cui in particolare l’assenza dal servizio superiore a 15 giorni.

Sul punto, sembra registrarsi un contrasto all’interno della più recente giurisprudenza di legittimità.

Secondo Sez. L, n. 16393/2021, Bellè, Rv. 661641-01, la previsione di cui all'art. 127, lett. c) è «integralmente coperta, nel regime dell'impiego privatizzato, dalle regole in esso previste in tema di violazioni disciplinari. La norma prevede infatti l'estinzione del rapporto di lavoro come conseguenza dell'assenza dal servizio, come anche della mancata assunzione o ripresa del servizio, ma riconosce che la decadenza da essa prevista non operi a fronte di un giustificato motivo, così delineando un'ipotesi di cessazione dell'impiego per effetto di un comportamento inadempiente (mancata assunzione, rientro e assenza) e colpevole (carenza di un giustificato motivo) del dipendente».

Diversa la prospettiva adottata da Sez. L, n. 15125/2021, Marotta, Rv. 661334-01, che, attingendo alla decennale giurisprudenza amministrativa su tale istituto, ha ritenuto che la decadenza costituisca espressione di un potere vincolato a precisi presupposti, dovendosi pertanto escludere che essa integri un’ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato riconducibili ad una scelta discrezionale del datore di lavoro, di carattere disciplinare. Di conseguenza, deve escludersi che all'adottato provvedimento possa applicarsi la decadenza prevista dall'art. 6 della l. n. 604 del 1966 (nel testo “ratione temporis” vigente, anteriore alle modifiche di cui alla l. n. 183 del 2010 ed alla l. n. 92 del 2012), norma dettata per le ipotesi di licenziamento del prestatore di lavoro per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c. o per giustificato motivo.

Un altro istituto di confine è quello delle incompatibilità dell’impiego pubblico con incarichi o attività extralavorativi, prevista dall'art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957 (richiamato prima dall'art. 58 del d.lgs. n. 29 del 1993, e poi dall'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001) o da altre norme speciali.

Sez. L, n. 22188/2021, Torrice, Rv. 662098-01, ha evidenziato che, una volta accertata l’incompatibilità, non occorre valutare l'esistenza di riflessi negativi sul rendimento e sull'osservanza dei doveri d'ufficio, essendo sufficiente, per la preminenza dell'interesse pubblico, la mera potenzialità del conflitto, senza che rilevi l'eventuale conoscenza del fatto da parte dell'amministrazione, stante l'indisponibilità della materia.

Quanto alla speciale disciplina prevista dalla l. n. 339 del 2003, che sancisce l'incompatibilità tra impiego pubblico part-time ed esercizio della professione forense, Sez. L, n. 09660/2021, Bellè, Rv. 660969-01, ha precisato che essa è diretta a tutelare interessi di rango costituzionale quali, da un lato, l'imparzialità e il buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.), nonché, dall'altro, l'indipendenza della professione forense (in quanto strumentale all'effettività del diritto di difesa ex art. 24 Cost.): pertanto, trova applicazione anche nei confronti di chi abbia ottenuto l'iscrizione all'albo degli avvocati in epoca anteriore all'entrata in vigore della l. n. 662 del 1996 - cui va esteso il regime opzionale appositamente previsto per contemperare la reintroduzione del divieto generalizzato con le esigenze organizzative di lavoro e di vita dei dipendenti pubblici a tempo parziale, già ammessi dalla legge dell'epoca all'esercizio della professione legale; un'operatività limitata solo per l'avvenire otterrebbe infatti il risultato irragionevole di conservare ad esaurimento una riserva di lavoratori pubblici part-time, contemporaneamente avvocati, all'interno di un sistema radicalmente contrario alla coesistenza delle due figure lavorative nella stessa persona.

8. La cessazione del rapporto di lavoro.

Nel ricorrere dei presupposti del licenziamento disciplinare, è possibile per la P.A. irrogare la sanzione anche se il rapporto di lavoro sia precedentemente cessato per altre cause, non applicandosi - in ragione dell’interesse pubblico a definire il procedimento disciplinare a tutela dell’immagine dell’amministrazione e per gli ulteriori effetti, anche economici, riconducibili alla condotta imputabile al dipendente - il principio elaborato in riferimento al rapporto di lavoro privato, secondo cui il secondo licenziamento è produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente recesso (ovvero altra causa di cessazione del rapporto). Ne consegue, secondo Sez. L, n. 06500/2021, Bellè, Rv. 660634-01, che il licenziamento disciplinare sopravvenuto mantiene efficacia al fine di regolare le vicende economiche rispetto alle quali esso può assumere persistente rilevanza, come rispetto all’indennità di mancato preavviso, caducando “ex nunc” la causa dell’attribuzione, con effetto estintivo parziale sul diritto già maturato o, qualora l’erogazione vi sia già stata, rendendola parzialmente indebita nella misura in cui tale indennità sia proiezione obbligatoria del diritto rispetto a mensilità per le quali, a causa del sopravvenuto recesso per motivi disciplinari, non può “ex post” ammettersi la legittimità del riconoscimento.

Sez. L, n. 00150/2021, Bellè, Rv. 660166-01, ha rimarcato, sulla stessa linea di Sez. L, 06556/2019, De Felice, Rv. 653192-01, il concetto che l’esercizio della facoltà di collocamento a riposo d’ufficio del personale in ragione del raggiungimento dell’anzianità massima di quaranta anni (contributiva o di servizio), prevista dall’art. 72, comma 11, del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 133 del 2008, richiede, nel regime anteriore alle modifiche apportate dall’art. 16, comma 11, del d.l. n. 98 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 111 del 2011, una motivazione che consenta il controllo di legalità sull’appropriatezza della risoluzione del rapporto rispetto alla finalità di riorganizzazione perseguita, sicché la sua mancanza viola i principi generali di correttezza e buona fede, il principio dell’imparzialità e buon andamento della P.A., le norme imperative che richiedono la rispondenza dell’azione amministrativa al pubblico interesse e l’art. 6, comma 1, della direttiva 78/2000/CE, restando irrilevante, ove il collocamento a riposo sia anteriore alle suddette modifiche normative, l’eventuale adozione di atti generali di organizzazione interna, se non trasfusi o richiamati nella motivazione.

Ed è stato sottolineato - da Sez. L, n. 19536/2021, Bellè, Rv. 661719-01 - che la facoltà di adesione della P.A. alla richiesta di esonero dal servizio formulata dal dipendente ex art. 72, comma 1, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 133 del 2008, “ratione temporis” vigente, costituisce libero esercizio della dismissione del diritto datoriale alla continuazione del rapporto di lavoro, sicché il diniego frapposto alla richiesta si giustifica in sé e non è sindacabile, salvo la prova dell’abuso del diritto a carico del dipendente, a differenza dell’ipotesi disciplinata dal comma 11 dello stesso art. 72, che, configurando un recesso datoriale, richiede l’adozione di adeguate motivazioni, per consentire la verifica che la caducazione del diritto del lavoratore alla prosecuzione del rapporto di lavoro sia avvenuta sulla base di controllabili esigenze organizzative. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto legittimo il diniego all’esonero dal servizio frapposto dalla P.A., considerando inidonea a provare un abuso del diritto la concessione dell’esonero ad altre unità di personale, sia perché intervenuta in epoca anteriore, sia perché relativa a dipendenti addetti ad uffici diversi).

Sez. L, n. 09556/2021, Marotta, Rv. 660957-01, ha evidenziato che la sopravvenuta e permanente inidoneità totale del lavoratore subordinato allo svolgimento dell’attività lavorativa, ex art. 2, comma 12, della l. n. 335 del 1995, configura un caso di impossibilità assoluta della prestazione per il venir meno della causa del contratto, sicché la risoluzione del rapporto è oggettivamente vincolata, perché consegue “al fatto in sé” dell’inidoneità psicofisica all’espletamento del lavoro, senza che occorra alcuna manifestazione di volontà da parte del datore, né il rispetto del termine di preavviso, di modo che non è dovuta la relativa indennità sostitutiva. Pertanto, a detta ipotesi non può essere applicata la disposizione pattizia di cui all’art. 49 del c.c.n.l. Agenzie Fiscali 2002-2005, che si riferisce ad una inidoneità rapportata alle mansioni proprie della qualifica rivestita e cioè alla possibilità del lavoratore di svolgere, presso il datore, un proficuo lavoro, tanto che l’Amministrazione “può” procedere alla risoluzione del rapporto, manifestando la volontà di esercitare il recesso cui è collegato il preavviso.

Infine, con una significativa pronunzia, Sez. L, n. 37593/2021, Marotta, Rv. 663009-01, ha precisato che in tema di licenziamento nel pubblico impiego privatizzato si applica la decadenza prevista dall’art. 6 della l. n. 604 del 1966, in virtù del rinvio operato dall’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 alle disposizioni sul rapporto di lavoro subordinato nell’impresa.

9. La dirigenza.

L’universo della dirigenza pubblica è assai frastagliato e richiede continue integrazioni tra la disciplina generale del d.lgs. n. 165 del 2001 e quelle settoriali, non senza contare le regole della contrattazione collettiva.

Un utile punto di partenza nella disamina delle decisioni del 2021 è quello dello svolgimento di mansioni dirigenziali da parte di dipendenti privi della corrispondente qualifica.

Sez. L, n. 10030/2021, Bellè, Rv. 661083-01, ha precisato che la reggenza di un ufficio dirigenziale si caratterizza per la straordinarietà e temporaneità, da rapportare funzionalmente alla copertura del posto mediante nomina di un titolare, sicché il superamento di tali limiti, qualora i compiti siano conferiti a persona munita di inquadramento non dirigenziale, comporta lo svolgimento di mansioni superiori - da remunerare, consequenzialmente, ai sensi dell'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001 -, cui è riconducibile anche l'utilizzazione costante di un medesimo dipendente, inquadrato in livelli non dirigenziali, quale sostituto dei dirigenti di diverse unità del medesimo ente.

Al di là del caso della reggenza, tuttavia, il principio che governa la remunerazione dirigenziale è quello dell'onnicomprensività, sancito dall'art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, né, data l'unicità del ruolo, può configurarsi lo svolgimento di mansioni superiori ex art. 52 del citato d.lgs. ovvero ex art. 2103 c.c. (Sez. L, n. 36358/2021, Bellè, Rv. 663003-01). Ne consegue – secondo la pronuncia appena citata – che non ogni svolgimento di attività aggiuntive rispetto al proprio incarico e già proprie di altro dirigente può giustificare, a meno che la contrattazione collettiva non lo preveda, il riconoscimento di differenze retributive, essendo invece necessario che, quanto di aggiuntivo sia attribuito, comporti - dal punto di vista qualitativo, quantitativo e temporale - il trasmodare dell'incarico originariamente attribuito in una prestazione radicalmente diversa e destinata, in assenza di regolare formalizzazione nei termini di un nuovo accordo, a far prevalere, rispetto alla regola della onnicomprensività, anche ai sensi e per gli effetti dell'art. 2126 c.c., l'attività in concreto svolta, ove rispetto a questa siano in ipotesi previsti maggiori erogazioni retributive (nella specie, è stata disattesa la domanda avanzata da una dirigente di seconda fascia della Corte dei conti, sul rilievo che, secondo l'accertamento fattuale svolto dal giudice di merito, l'estensione dei compiti determinatasi dopo il pensionamento del dirigente generale non avesse comportato un reale subentro nella piena responsabilità dell'ufficio).

In tema di conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione, l'art. 40, comma 1, lett. e) del d.lgs. n. 150 del 2009 ha apportato significative modifiche alla legislazione preesistente, in particolare prevedendo – all’art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001 – l'obbligo di motivazione e la mancanza di professionalità adeguate all'interno dell'ente come condizioni di validità del conferimento. Inoltre, al comma 1, lett. f), ha reso applicabile in via diretta la suddetta previsione anche alle amministrazioni regionali e non statali.

Sul tema, nel corso dell’anno in rassegna, si sono avute alcune importanti decisioni.

Anzitutto, Sez. L, n. 06485/2021, Bellè, Rv. 660630-02, con cui la S.C. ha precisato che l'atto di conferimento di incarichi dirigenziali richiede un'adeguata motivazione delle ragioni per cui il candidato selezionato sia stato prescelto all'esito della valutazione comparativa con gli altri candidati, dovendosi peraltro distinguere – ai fini dell'accertamento e della liquidazione del danno da perdita di chance invocato dal candidato escluso – le ipotesi in cui la suddetta motivazione sia mancante o illegittima, ovvero soltanto insufficiente: nel primo caso, il giudice investito della domanda risarcitoria dovrà procedere ex novo a una valutazione comparativa del profilo dei candidati, verificando se l'attore avesse una significativa probabilità di essere prescelto e, in caso positivo, calcolando il risarcimento tenendo conto dell'incertezza sottesa alla natura ipotetica del giudizio prognostico; nel caso in cui, invece, dalla motivazione assunta dalla P.A. sia possibile evincere i criteri di merito posti a fondamento della nomina, il giudice dovrà apprezzare alla stregua di questi ultimi l'esistenza di una significativa probabilità che la valutazione comparativa delle posizioni dei candidati esclusi conducesse a un diverso esito, su cui fondare il ristoro.

Di grande rilievo pratico è poi Sez. L, n. 06308/2021, Torrice, Rv. 660629-01, che, in una controversia riguardante incarichi dirigenziali della Regione Calabria, ha affermato che, in assenza di una norma imperativa che preveda la relativa sanzione, va esclusa la nullità ex art. 1418 c.c. di un provvedimento di nomina privo di tali requisiti, adottato in data antecedente all’estensione operata nel 2009.

Ricco, come sempre accade, il contenzioso intorno alla dirigenza sanitaria.

In primo luogo, Sez. L, n. 12359/2021, Marotta, Rv. 661251-01, ha affermato che il trattamento economico del direttore sanitario delle aziende sanitarie è determinato sulla base dei parametri retributivi previsti dalla contrattazione collettiva per le posizioni apicali della dirigenza medica, da valutarsi al momento della stipula del contratto d'opera intellettuale, senza che possano rilevare i successivi adeguamenti in melius di detti parametri nel corso del rapporto; né un siffatto sistema può considerarsi irragionevole, tenuto conto, da un lato, della mera eventualità del disallineamento dei compensi tra posizioni professionali peraltro diverse, e, dall'altro, della natura temporanea di un tale effetto, in ragione della limitata durata del vincolo contrattuale - derivante da un rapporto autonomo a tempo determinato - del direttore sanitario.

Sul versante del trattamento previdenziale, Sez. L, n. 31132/2021, Tricomi I., Rv. 662676-01, ha escluso, ai fini del calcolo dell'indennità premio di fine servizio, l'estensione alla figura del direttore dei servizi sociali, disciplinata dalla l.r. Toscana n. 40 del 2005, del trattamento previdenziale previsto dall'art. 3-bis del d.lgs. n. 502 del 1992 per il direttore generale, amministrativo e sanitario, in quanto la delega alle Regioni prevista dall'art. 3, comma 1-quater, del citato d.lgs., della disciplina di forme e modalità per la direzione e il coordinamento delle aree socio sanitarie, non comporta anche il potere di stabilire il regime previdenziale di dette figure di istituzione regionale, essendo tale materia, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. o), Cost., riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.

Sez. L, n. 15954/2021, Marotta, Rv. 661460-01, si è invece soffermata sulla responsabilità disciplinare della dirigenza sanitaria, per escludere la necessità del parere conforme del Comitato dei Garanti di cui all'art. 23 del c.c.n.l. 8 giugno 2000 dell'area medico-veterinaria, il quale riguarda le sole ipotesi di responsabilità dirigenziale, conseguente al mancato raggiungimento degli obbiettivi e alla grave inosservanza delle direttive impartite dall'organo competente.

Rispetto ai dirigenti medici operanti all'interno del dipartimento di salute mentale, Sez. L, n. 23731/2021, Piccone, Rv. 662152-01, ha specificato che gli appartenenti a tale categoria sono tenuti, senza eccezioni, ad assicurare l'attività di pronta disponibilità, in considerazione dell'unitarietà strutturale della relativa organizzazione, composta da unità operative complesse a base territoriale e da altre semplici a base dipartimentale (quale, nella specie, il servizio psichiatrico di diagnosi e cura), tutte caratterizzate dallo svolgimento di attività di tipo continuativo.

Due pronunce hanno poi affrontato il problema del rimborso delle spese legali sostenute dai dirigenti sanitari, ai sensi dell'art. 25 del c.c.n.l. Area dirigenza medica e veterinaria del 20 settembre 2001.

Sez. L, n. 32225/2021, Spena, Rv. 662692-01, lo ha fatto chiarendo che il comma 2 dell’art. 25 costituisce disciplina di maggior favore rispetto a quella di cui all'art. 41 del previgente d.P.R. n. 270 del 1987, riconoscendo il diritto del dipendente al rimborso in caso di esito favorevole del procedimento cui è stato sottoposto, benché, con valutazione ex ante, sussistesse un conflitto di interessi; la misura del rimborso, anche a seguito dell'abrogazione della cd. "tariffa ordinistica" ad opera dell'art. 9 del d.l. n. 1 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 27 del 2012, è riconosciuta nel limite di quanto l'azienda avrebbe dovuto corrispondere ad un legale da essa nominato, atteso che l'abrogazione della tariffa citata è produttiva del solo effetto di eliminare il limite minimo del rimborso, legato al precedente sistema di inderogabilità dei minimi tariffari, lasciando fermo quello massimo, punto di equilibrio, raggiunto dalle parti collettive, tra l'interesse privato del dipendente a restare indenne dagli oneri della difesa e quello pubblico alla prevedibilità ed al contenimento della spesa.

Sez. L, n. 40296/2021, Fedele, Rv. 663257-01, ha invece affermato che la stessa norma pattizia deve interpretarsi come inclusiva delle sole spese legali e non di quelle di assistenza tecnica peritale.

Più settoriali, ma non meno importanti, sono le seguenti decisioni.

Nelle Università statali, secondo Sez. L, n. 12642/2021, Di Paolantonio, Rv. 661252-02, la scelta del direttore generale - al quale non possono essere estesi, attesa la sussistenza di una normativa speciale in materia, i principi che valgono, quanto all'instaurazione del rapporto, per l'impiego pubblico a tempo determinato o indeterminato - non deve avvenire, in mancanza di apposita previsione statutaria, all'esito di una procedura selettiva, non richiesta dalla normativa in questione, con la conseguenza che il contratto stipulato tra le parti non preceduto dalla predetta procedura non è affetto da nullità, stante l'assenza di una norma imperativa che fissi, quale condizione per la stipula del negozio di diritto privato, la previa procedimentalizzazione della scelta.

A margine si colloca poi Sez. L, n. 37592/2021, Marotta, Rv. 663008-01, secondo cui l'incarico di direttore amministrativo esterno di un ente regionale, conferito ai sensi dell'art. 27 della l.r. Campania n. 21 del 2002 e qualificato dalle parti come incarico di diritto privato di prestazione d'opera, costituisce un rapporto di lavoro autonomo, con i tratti propri della collaborazione coordinata e continuativa, spettando dunque al lavoratore ricorrente fornire la prova di una deviazione da detto schema contrattuale e dunque della ricorrenza di una ipotesi di subordinazione.

Sul trattamento economico dei dirigenti delle autorità amministrative indipendenti, con particolare riferimento al personale dirigenziale del Garante privacy, Sez. L, n. 11548/2021, Bellè, Rv. 661157-01 e 661157-02, ha affermato due importanti principi.

Da un lato, ha specificato che in caso di passaggio dal ruolo della dirigenza statale a quello del Garante, l'attribuzione delle qualifiche presso l'amministrazione di destinazione deve avvenire sulla base della Tabella di corrispondenza allegata al Regolamento concernente il trattamento giuridico ed economico del Garante per la protezione dei dati personali n. 2 del 28 giugno 2000, senza che sussistano ragioni per la disapplicazione di detto atto, adottato per razionalizzare e armonizzare la disciplina relativa a profili professionali provenienti da differenti realtà ordinamentali, per il solo fatto che non sia stato operato un livellamento verso l'alto di tutte le categorie dirigenziali, che sempre hanno presentato differenziazioni in ragione delle diverse responsabilità loro attribuite. Va quindi escluso che costituisca elemento in sé integrante un pregiudizio per la tutela della professionalità acquisita o per la garanzia del trattamento economico precedentemente goduto il fatto che, secondo la Tabella citata, gli ex dirigenti superiori abbiano diritto a essere inquadrati in un livello più elevato rispetto a quello riconosciuto agli altri dirigenti dello Stato o di amministrazioni pubbliche.

Dall’altro lato, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 33, comma 1-bis, della l. n. 675 del 1996, introdotto dall'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 51 del 1999, in attuazione della delega contenuta nell'art. 1, comma 1, lett. c) della l. n. 676 del 1996, nella parte in cui non equipara il trattamento economico dei dirigenti del Garante privacy a quello riconosciuto ai dirigenti dell'AGCOM: sia con riferimento all'art. 76 Cost., perché la disposizione ha mero valore transitorio e la legge delega non esigeva una piena identità del trattamento economico rispetto al personale delle altre autorità indipendenti, lasciando al legislatore delegato un margine di libero apprezzamento e qualificando solo come tendenziale il criterio della "uniformità" a parità di responsabilità costituzionale; sia con riferimento all'art. 3 Cost., in quanto, in assenza di una norma o principio dell'ordinamento che imponga di attribuire il medesimo trattamento economico ai dipendenti delle diverse amministrazioni pubbliche o autorità indipendenti, la minore retribuzione riconosciuta al personale del Garante privacy rispetto a quello dell'AGCOM si colloca in un panorama remunerativo già di per sé diversificato in relazione alle specifiche attività delle varie autorità indipendenti.

Assai peculiare è la vicenda decisa da Sez. L, n. 34554/2021, Spena, Rv. 662778- 01, a proposito del Segretario generale delle Camere di commercio, il cui rapporto di lavoro subordinato a termine, ex art. 20, comma 3, lett-a), della l. n. 580 del 1993, non si pone in continuità giuridica rispetto al preesistente rapporto di pubblico impiego dirigenziale; ne consegue che il riconoscimento dell'anzianità di servizio maturata nell'ambito dell'amministrazione di provenienza può avvenire nei limiti in cui lo prevedano specifiche disposizioni; ai sensi dell'art. 27, comma 7, del c.c.n.l. area dirigenza 1998-2001 del comparto regioni-enti locali, norma applicabile anche ai Segretari generali non provenienti dalla dirigenza pubblica, tale riconoscimento è previsto nel solo caso di nomina "in sede diversa", da intendersi quale passaggio di sede dalla nomina ricevuta ad altro incarico, conferito ai sensi dell'art. 20 cit., presso una diversa Camera di commercio.

10. Questioni in materia di contenzioso del personale scolastico.

Sez. L, n. 32938/2021, Bellè, Rv. 662828-01, ha affermato che in tema di contenzioso del personale scolastico, l’Ufficio Scolastico Regionale o il dirigente generale ad esso preposto, in quanto organo privo di soggettività appartenente al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, non può essere evocato in giudizio in proprio, ma solo in rappresentanza processuale del predetto Ministero, ai sensi dell’art. 75 c.p.c., e ciò anche in forza dei regolamenti di organizzazione che, nel tempo, lo hanno individuato come munito di “legittimazione passiva”.

Sez. L, n. 05819/2021, Marotta, Rv. 660712-01, ha precisato che l’inserimento di un insegnante nello speciale contingente del Ministero degli affari esteri, destinato a prestare servizio presso le istituzioni scolastiche all’estero, ne determina il collocamento fuori ruolo e comporta la temporanea modificazione del soggetto in favore del quale le sue prestazioni lavorative vengono svolte, senza tuttavia far venir meno l’appartenenza del lavoratore all’Amministrazione di provenienza; conseguentemente, nella controversia relativa alla determinazione della retribuzione, la legittimazione passiva spetta al Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in qualità di datore di lavoro, restando peraltro irrilevante l’evocazione in giudizio di altro organo statale, che dà luogo ad una mera irregolarità, sanabile, ai sensi dell’art. 4 della l. n. 260 del 1958, mediante la rinnovazione dell’atto nei confronti dell’organo indicato dal giudice, ovvero con la costituzione in giudizio dell’Amministrazione.

11. Il rapporto del funzionario onorario con l’amministrazione.

Sulla distinzione intercorrente tra il rapporto tipico del pubblico impiego e quello che lega il funzionario onorario all’amministrazione è intervenuta Sez. L, n. 41999/2021, Di Paolantonio, Rv. 663503-01, la quale ha puntualizzato che quest’ultimo rapporto sorge sulla base di una scelta politico-discrezionale (e non di un concorso), non implica l’inserimento strutturale nell’apparato organizzativo della pubblica amministrazione, nonostante lo svolgimento di funzioni pubbliche, né soggiace allo statuto tipico del pubblico impiego, essendo disciplinato da disposizioni speciali e dalle previsioni contenute nell’atto di conferimento dell'incarico; inoltre ha durata normalmente temporanea, in luogo di quella, tendenzialmente indeterminata, dell’impiego pubblico, e prevede un compenso avente funzione indennitaria, e non già retributiva in funzione di un sinallagma negoziale.

PARTE QUINTA IL DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA --- SEZIONE SECONDA - IL DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE

  • rapporti di lavoro e diritto del lavoro
  • assunzione
  • retribuzione del lavoro

CAPITOLO XX

LA PREVIDENZA SOCIALE

(di Ileana Fedele )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’obbligazione contributiva ed i soggetti obbligati. - 3 La retribuzione imponibile ed il minimale contributivo. - 4 Gli sgravi contributivi. - 5 L’incremento occupazionale e gli incentivi all’assunzione. - 6 Accertamento e riscossione. - 7 Cessione dei crediti nei confronti dello Stato e pagamento dei contributi previdenziali. - 8 Omissione contributiva e posizione del lavoratore. - 9 Riscatto degli anni di laurea. - 10 La prescrizione dei crediti contributivi.

1. Premessa.

Numerose le decisioni che hanno affrontato i diversi aspetti della previdenza sociale, a partire dalle caratteristiche dell’obbligazione contributiva e dall’individuazione dei soggetti obbligati.

2. L’obbligazione contributiva ed i soggetti obbligati.

La natura dell’obbligazione contributiva è stata espressamente affrontata da Sez. L, n. 05551/2021, Buffa, Rv. 660624-02, che ne ha evidenziato il carattere pubblicistico ed il contenuto determinato dalle norme per escluderne la disponibilità da parte degli enti gestori delle forme obbligatorie di previdenza e assistenza, i quali non possono di conseguenza compiere atti come la novazione, ma solo adottare provvedimenti di autotutela. In questo senso, è stato altresì escluso (Sez. L, n. 05551/2021, Buffa, Rv. 660624-01) che le vicende estintive relative ai contributi di solo alcuni dei dipendenti possano comportare la novazione del debito per gli altri, che resta immutato, implicando solo il ricalcolo del debito contributivo complessivo; ne consegue che, nell’ipotesi di debito contributivo del datore di lavoro relativo alla posizione di una pluralità di lavoratori, l’accoglimento di istanze di condono e ricorsi amministrativi relativi alla posizione di alcuni lavoratori, non comporta la novazione dell’originario debito contributivo, che non è unitario, ma costituito dalla sommatoria di posizioni distinte ed autonome, sicché rimane applicabile anche l’originario termine di prescrizione.

Sez. L, n. 07357/2021, Mancino, Rv. 660863-01, ha superato i dubbi di legittimità del contributo di solidarietà ex art. 24, comma 21, del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. con modif. dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, istituito per il quinquennio dal 2012 al 2017, a carico degli iscritti e dei pensionati delle gestioni previdenziali confluite nel Fondo pensioni lavoratori dipendenti e del Fondo di previdenza per il personale di volo dipendente da aziende di navigazione aerea, in quanto finalizzato al riequilibrio dei fondi pensionistici nei quali sono confluite le diverse gestioni, avente natura previdenziale e rispondente a criteri di proporzionalità e ragionevolezza perché grava sui titolari delle pensioni più elevate e soddisfa apprezzabili esigenze di sostenibilità del sistema previdenziale.

Sul piano dei soggetti obbligati, Sez. L, n. 11430/2021, Cavallaro, Rv. 661110-01, ha chiarito che, nel caso dei collaboratori coordinati e continuativi iscritti alla gestione separata, sono essi stessi personalmente obbligati alla contribuzione, ai sensi dell’art. 2 della legge 8 agosto 1995, n. 335, restando irrilevante che l’art. 1 del d.m. 2 maggio 1996, n. 281, ponga anche a carico dei committenti, nella misura dei due terzi, l’obbligo di versamento dei contributi, trattandosi soltanto di una forma di delegazione legale di pagamento, diretta a semplificare la riscossione, che tuttavia non immuta i soggetti passivi dell’obbligazione contributiva; tanto che, nell’ipotesi di omissione del pagamento da parte del committente, il collaboratore ha la facoltà di dichiarare all’I.N.P.S. di assumere in proprio il debito relativo alla parte del contributo accollata al suo committente, salvo rivalersi nei confronti di costui per i danni, o, in alternativa, di agire nei confronti del committente per il risarcimento dei danni ex art. 2116, comma 2, c.c. ovvero di esercitare l’azione di cui all’art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338. Ne consegue l’inapplicabilità del principio di automaticità delle prestazioni previdenziali di cui all’art. 2116, comma 1, c.c. ai collaboratori coordinati e continuativi iscritti alla gestione separata, atteso che il predetto principio non trova applicazione, in difetto di specifiche disposizioni di legge o di una legittima fonte secondaria in senso contrario, nel rapporto tra lavoratore autonomo ed ente previdenziale, in cui il mancato versamento dei contributi obbligatori impedisce di regola la stessa costituzione del rapporto previdenziale e comunque la maturazione del diritto alle prestazioni, esclusione che non può essere ritenuta irragionevole, dal momento che nel rapporto tra lavoratore autonomo ed ente previdenziale l’obbligazione contributiva grava sullo stesso lavoratore al quale compete il diritto alle prestazioni, il quale, coerentemente, non può che subire le conseguenze pregiudizievoli del proprio inadempimento.

Per ciò che attiene, invece, ai collaboratori coordinati e continuativi delle pubbliche amministrazioni, Sez. L, n. 19586/2021, Pagetta, Rv. 661720-01, ha ritenuto che l’obbligo contributivo di iscrizione alla gestione separata, ai sensi dell’art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995, va verificato alla luce dell’art. 50, comma 1, lett. c-bis, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, cui fa riferimento il citato comma 26, che prevede, ai fini fiscali, l’assimilazione ai redditi da lavoro dipendente di quelli derivanti dallo svolgimento di rapporti di collaborazione con determinate caratteristiche, ossia la prestazione di attività in assenza di vincolo di subordinazione a favore di un determinato soggetto, nell’ambito di un rapporto unitario e continuativo, senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica prestabilita. Di conseguenza, è stato confermato quanto deciso dalla Corte territoriale, in ordine all’obbligo di versamento dei contributi a carico del Comune in relazione ad alcuni collaboratori addetti a vari servizi comunali, avuto riguardo all’apprezzabile durata del rapporto, all’assenza di organizzazione autonoma in capo al collaboratore, all’uso di materiali del committente e la percezione, a cadenza periodica, di un compenso in misura predeterminata.

Il carattere pubblico della società rileva ai fini dell’esenzione contributiva, e, secondo quanto affermato da Sez. L, n. 19154/2021, Mancino, Rv. 661844-01, in piena continuità con Sez. L, n. 00600/2016, Napoletano, Rv. 638232-01, va individuato verificando la funzione e i limiti del potere di controllo pubblico sulla relativa gestione; pertanto, le società a capitale misto sono tenute al versamento dei contributi cd. minori, per assegni familiari, malattia, maternità e TFR, in quanto in tali organismi l’ente pubblico è soggetto alle evenienze della dialettica societaria, nell’esercizio del potere decisionale e nell’organizzazione aziendale, senza l’autonomia propria dei casi in cui detenga la totalità del pacchetto azionario.

Quanto alla “vexata quaestio” dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995, per i professionisti per i quali è prevista l’iscrizione ad un albo o ad un elenco – salvo che il reddito prodotto sia già integralmente oggetto di obbligo assicurativo gestito dalla cassa di riferimento – Sez. L, n. 04419/2021, Cavallaro, Rv. 660536-01, ha precisato che il requisito dell’abitualità dell’esercizio dell’attività professionale, da cui dipende l’obbligo di iscrizione, va accertato in punto di fatto, mediante la valorizzazione di presunzioni ricavabili, ad es., dall’iscrizione all’albo, dall’accensione della partita IVA o dall’organizzazione materiale predisposta dal professionista a supporto della sua attività, potendo la percezione di un reddito annuo di importo inferiore alla soglia di euro 5.000, ex art. 44, comma 2, del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. con modif., dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, rilevare quale indizio, da ponderare adeguatamente con gli altri che siano stati acquisiti al processo, per escludere in concreto la sussistenza del requisito in questione.

L’accertamento del requisito dell’abitualità, unitamente a quello della prevalenza, è stato sottolineato anche da Sez. L, n. 02665/2021, D’Antonio, Rv. 660338-01, con riferimento alla posizione del socio accomandatario nelle società in accomandita semplice, dal momento che, ai sensi dell’art. 1, comma 203, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, che ha modificato l’art. 29 della legge 3 giugno 1975, n. 160, e dell’art. 3 della legge 28 febbraio 1986, n. 45, la qualità di socio accomandatario non è sufficiente a far sorgere l’obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali, essendo necessaria anche la partecipazione personale al lavoro aziendale, con carattere di abitualità e prevalenza, la cui ricorrenza deve essere provata dall’istituto assicuratore.

I medesimi requisiti di abitualità e prevalenza sono tracciati da Sez. L, n. 01684/2021, Calafiore, Rv. 660284-01, anche per i contributi dovuti per il familiare coadiutore, atteso che l’obbligo di iscrizione alla gestione commercianti sorge, ai sensi degli artt. 1 e 2 della legge 22 luglio 1966, n. 613, allorché la sua prestazione lavorativa sia abituale, in quanto svolta stabilmente con continuità e non in via straordinaria od eccezionale (ancorché non sia necessaria la presenza quotidiana e ininterrotta sul luogo di lavoro, essendo sufficiente escluderne l’occasionalità, la transitorietà o la saltuarietà), e prevalente, in quanto resa, sotto il profilo temporale, per un tempo maggiore rispetto ad altre occupazioni del lavoratore, restando esclusa ogni valutazione concernente la prevalenza del suo apporto rispetto a quello degli altri occupati nell’azienda, siano essi lavoratori autonomi o dipendenti.

Quanto, invece, all’obbligo contributivo del 2%, a carico delle società di capitale nel sistema previdenziale ENPAM, ai sensi dell’art. 1, comma 39, della legge 23 agosto 2004, n. 243, Sez. L, n. 02669/2021, Mancino, Rv. 660339-01, in continuità con Sez. L, n. 11254/2016, Lorito, Rv. 639840-01, ha ribadito che occorre assumere come base di calcolo il fatturato annuo attinente alle prestazioni specialistiche rimborsate dal servizio sanitario nazionale ed effettuate con l’apporto di medici o odontoiatri operanti con le società in forma di collaborazione autonoma libero professionale, tenuto conto dell’abbattimento forfettario per costo dei materiali e spese generali ex d.P.R. n. 119 e n. 120 del 23 marzo 1988, e con esclusione del fatturato attinente a prestazioni specialistiche rese senza l’apporto di medici o odontoiatri. In senso conforme si è espressa anche Sez. 6-L, n. 36879/2021, Amendola F., Rv. 662937-01.

Ancora, con riferimento ai contributi previdenziali in favore di lavoratori stranieri alle dipendenze di enti stranieri con sede in Italia, Sez. L, n. 06216/2021, Mancino, Rv. 660685-01, ha affermato che sussiste l’obbligo di versamento all’I.N.P.S. delle contribuzioni minori da parte di un’università statunitense per i dipendenti, cittadini statunitensi, che prestino servizio presso la sede italiana, in quanto la deroga al principio di territorialità, di cui agli artt. 37 del r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827, e 7, comma 2, dell’Accordo tra la Repubblica italiana e gli Stati Uniti d’America in materia di sicurezza sociale, concluso a Washington il 23 maggio 1973, ratificato con legge 24 febbraio 1975, n. 86, è condizionata alla circostanza che la legislazione statunitense preveda, per le assicurazioni diverse dall’assicurazione IVS, un apparato normativo di sicurezza sociale tale da proteggere il lavoratore dai medesimi eventi di cui alla legislazione nazionale, ciò che, secondo quanto accertato dalla Corte territoriale, è rimasto escluso per gli Stati Uniti quanto alla copertura per i rischi c.d. minori (maternità, disoccupazione, tbc).

Quanto al pagamento dei contributi previdenziali per prestazioni rese in regime di convenzionamento con la ASL ed espletate da biologhe iscritte all'ENPAB e associate in società di persone, Sez. L, n. 41024/2021, Buffa, Rv. 663355-01, ha ritenuto, sulla base dell’art. 4 del regolamento ENPAB, approvato con regolamento ministeriale del 16 luglio 1997 (che prevede quanto al contributo integrativo che «le associazioni professionali e le società alle quali partecipa un iscritto dell’ente devono applicare la maggiorazione per la quota di competenza di ogni singolo socio o associato iscritto all’ente» e che determina quindi la percentuale sugli utili rilevante per la quantificazione della detta maggiorazione ed affida alle medesime associazioni la riscossione ed il versamento della stessa), che il soggetto obbligato al versamento del contributo integrativo è quello che si giova della prestazione professionale dell’iscritto (nella specie, individuato nella ASL con il quale vigeva il rapporto di convenzionamento).

Infine, in riferimento al giudizio di accertamento circa la regolarità contributiva, intrapreso per il mancato rilascio del documento Unico di Regolarità Contributiva (cd. DURC), Sez. L, n. 05825/2021, Cavallaro, Rv. 660625-01, nel riconoscere che il relativo contenzioso rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, ha tuttavia precisato che rimane preclusa la pronuncia di condanna dell’ente previdenziale alla consegna del DURC, sia pure in presenza di una richiesta in tal senso del privato, stante il divieto posto dall’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E.

3. La retribuzione imponibile ed il minimale contributivo.

Ai fini dell’individuazione del minimale contributivo, Sez. L, n. 17993/2021, D’Antonio, Rv. 661647-01, in linea con l’indirizzo aperto da Sez. L, n. 9169/2003, La Terza, Rv. 564063-01, ha ribadito che, secondo quanto prescritto dall’art. 1 del d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, conv., con modif., dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389, occorre far riferimento, quale retribuzione da assumere a base per il calcolo dei contributi, al complessivo importo delle voci retributive indicate nel cd. contratto leader (al netto delle voci esentate da contribuzione), dovendosi procedere al raffronto tra l’ammontare dei contributi che ne risulta e la contribuzione complessivamente versata. In virtù di tale principio, la Corte di legittimità ha confermato la sentenza di merito che aveva annullato le cartelle emesse dall’I.N.P.S. per il pagamento dei contributi relativi ai compensi per il cd. tempo di viaggio, dal momento che questi ultimi erano stati retribuiti, secondo un criterio forfettario stabilito da accordi aziendali integrativi, in misura superiore rispetto a quella dovuta in base al c.c.n.l.

Il principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto all’obbligazione retributiva, in virtù del quale l’obbligo contributivo ben può essere parametrato ad un importo superiore rispetto a quanto effettivamente corrisposto dal datore di lavoro, consolidatosi a partire da Sez. U, n. 11199/2002, Ravagnani, Rv. 556364-01, è posto da Sez. L, n. 04676/2021, Cavallaro, Rv. 660615-01, a fondamento dell’assunto secondo cui l’obbligazione contributiva, commisurata alla retribuzione che al lavoratore spetterebbe sulla base della contrattazione collettiva vigente (cd. “minimale contributivo”), è dovuta anche nei casi di mancata esecuzione della prestazione lavorativa per forza maggiore non imputabile al datore di lavoro, quale causa che, pur potendo liberare il lavoratore dall’obbligo della prestazione ed il datore di lavoro dall’obbligo di corrispondere la retribuzione, non acquista rilevanza ai fini della determinazione dell’obbligazione contributiva se non in quanto vi sia una clausola del contratto collettivo di settore che attribuisca alla “forza maggiore” la qualità di causa di sospensione del rapporto di lavoro.

In coerenza con tale indirizzo, Sez. 6-L, n. 23360/2021, Marchese, Rv. 662178-01, ha affermato che, nell’ipotesi in cui gli enti previdenziali ed assistenziali pretendano da un’impresa differenze contributive sulla retribuzione virtuale determinata ai sensi dell’art. 1, comma 1, del d.l. n. 338 del 1989, conv., con modif., dalla l. n. 389 del 1989, anche con riferimento all’orario di lavoro, è onere del datore di lavoro allegare, e provare, la sussistenza di un’ipotesi eccettuativa dell’obbligo contributivo.

Per quanto attiene alla gestione previdenziale degli artigiani e dei commercianti, Sez. L, n. 14994/2021, Calafiore, Rv. 661302-01, ha chiarito che coloro che svolgono attività di affittacamere, ai sensi dell’art. 6, comma 9, della legge 17 maggio 1983, n. 217, in virtù della previsione di cui all’art. 8 del d.l. 29 marzo 1995, n. 97, conv., con modif., dalla legge 30 maggio 1995, n. 203, sono soggetti a contribuzione previdenziale in rapporto al reddito effettivamente percepito anche se inferiore al livello minimo imponibile, determinato ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge 2 agosto 1990, n. 233, dovendo ritenersi esclusa la regola del minimale contributivo in ragione dell’implicito riconoscimento di una minore capacità contributiva della categoria.

Infine, Sez. L, n. 41021/2021, De Felice, Rv. 663354-01 ha dato seguito al consolidato orientamento (Sez. L, n. 17495/2009, Picone, Rv. 609509-01, Sez. L, n. 3686/2014, Venuti, Rv. 629746-01), secondo il quale l’obbligazione contributiva rimane insensibile agli effetti della eventuale transazione, ribadendo che le somme corrisposte dal datore di lavoro al dipendente in esecuzione di un contratto di transazione non sono, ai sensi e per gli effetti dell’art. 12 della legge n. 153 del 1969 - nel testo anteriore alla sostituzione operata dall’art. 6 del d.lgs. n. 314 del 1997 - dovute in dipendenza del contratto, appunto, di lavoro, ma del contratto di transazione, con la conseguenza che, rimanendo l’obbligazione contributiva insensibile agli effetti della transazione, l’I.N.P.S. può azionare il credito contributivo provando - con qualsiasi mezzo ed anche in via presuntiva, dallo stesso contratto di transazione e dal contesto dei fatti in cui è inserito – quali siano le somme assoggettabili a contribuzione spettanti al lavoratore.

4. Gli sgravi contributivi.

Sez. L, n. 02677/2021, Buffa, Rv. 660255-01, nell’affrontare un caso particolare, quello degli sgravi contributivi in favore delle imprese operanti nei territori di Venezia e Chioggia, qualificati quali aiuti di Stato vietati dalla Commissione europea, ha affermato che, ove in ragione del riavvio dell’azione di recupero ex art. 1, commi 351 ss., della legge 24 dicembre 2012, n. 228, delle somme oggetto dei predetti sgravi, sia stata dichiarata l’estinzione del processo pendente, difetta l’interesse attuale ad impugnare la sentenza che contenga siffatta declaratoria, in quanto tale esito della lite è stato previsto da una disposizione normativa di natura procedimentale, che ha espressamente sancito la nullità dei titoli amministrativi afferenti il recupero degli aiuti di cui al predetto comma 351, emessi dall’ente previdenziale e oggetto di contestazione giudiziale alla data di entrata in vigore dell’anzidetta legge, senza che possa dubitarsi della legittimità costituzionale o di contrasto con le norme dell’Unione Europea con la CEDU, posto che essa non costringe alcuna delle parti a nuove iniziative processuali per la realizzazione dei propri diritti e pertanto non arreca loro alcun danno.

Quanto agli sgravi collegati all’incremento occupazionale, Sez. L, n. 01769/2021, Buffa, Rv. 660287-01, ha chiarito che poiché il presupposto per l’applicabilità degli sgravi contributivi di cui all’art. 3, comma 5, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è la realizzazione di un incremento occupazionale mediante nuove assunzioni di personale che già risulti iscritto nelle liste di collocamento o di mobilità o fruitore della cassa integrazione guadagni, il beneficio non compete nel caso di trasformazione di un contratto di formazione e lavoro in contratto a tempo indeterminato, trattandosi di una mera stabilizzazione di posti già esistenti e non di nuova assunzione avente le finalità ed i caratteri indicati dalla disposizione, che è volta ad incentivare l’assunzione di soggetti che non abbiano o abbiano perduto l’occupazione; le condizioni dell’incremento occupazionale perseguito con la richiamata disciplina potrebbero invece verificarsi ove si accerti che tra la scadenza del contratto di formazione e la stipula di un nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato vi sia stata una cesura temporale rilevante, accompagnata da iscrizione nelle liste del collocamento del lavoratore già parte del contratto di formazione e lavoro ormai scaduto.

Sempre sul piano dell’ambito di applicazione degli sgravi, Sez. L, n. 01767/2021, Buffa, Rv. 660286-01, ha escluso che gli sgravi previsti per i contratti di inserimento di cui agli artt. 54 e ss. del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, possano essere fruiti dagli studi professionali, poiché la normativa nazionale sui benefici contributivi è da considerarsi di stretta interpretazione, in quanto derogatoria rispetto alla sottoposizione generale agli obblighi contributivi, sicché non ne è consentita l’estensione anche a soggetti che esercitano una professione intellettuale, dovendosi interpretare il riferimento alle imprese, di cui alla lett. a) del predetto articolo, come limitato ai soli soggetti che esercitano professionalmente attività economica organizzata.

Quanto all’onere della prova, Sez. 6-L, n. 09913/2021, Ponterio, Rv. 661193-01, ha ritenuto che, ai fini del riconoscimento del diritto allo sgravio, il datore di lavoro che abbia assunto lavoratori diversi da quelli aventi il diritto di precedenza nella riassunzione, in quanto licenziati per riduzione di personale, deve fornire la prova della inevitabilità della scelta, sotto il profilo delle professionalità assolutamente peculiari da acquisire all’azienda ovvero dell'impossibilità di procedere alla stipulazione di contratti con gli ex dipendenti. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto insufficiente a soddisfare l’onere della prova l’unico rilievo dell’essere il lavoratore licenziato e quello neo-assunto inquadrati in due distinti livelli contrattuali ed assegnati a mansioni diverse per contenuto e tipologia, pur avendo la medesima qualifica di impiegati.

Da sottolineare, poi, che Sez. L, n. 35984/2021, Cavallaro, Rv. 662920-01, in continuità con il principio espresso da Sez. 5, n. 22318/2010, Persico, Rv. 615131-01, ha affermato che l’efficacia diretta delle norme U.E. nell’ordinamento interno si estende anche alle decisioni con cui la Commissione, nell’esercizio del controllo sulla compatibilità degli aiuti di Stato con il mercato comune, disponga la sospensione di una misura di aiuto, ne dichiari l’incompatibilità o ne ordini la restituzione, e comporta l’invalidità o l’inefficacia delle norme di legge e degli atti amministrativi o negoziali in forza dei quali la misura di aiuto è stata erogata.

Infine, sul piano delle successioni delle leggi nel tempo, Sez. L, n. 41413/2021, Mancino, Rv 663409-01, ha affermato, in continuità con Sez. L, n. 13211/2008, Bandini, Rv. 603090-01, che il nuovo sistema dello sgravio contributivo totale introdotto con l’art. 1, comma 2, del d.l. 22 marzo 1003, n. 71, conv. con modif. dalla legge 20 maggio 1993, n. 151, ha sostituito quello regolato dall’art. 59, comma 9, del T.U. approvato con d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218, essendo stata la nuova disposizione di legge dettata per disciplinare una materia già regolata dalla legge precedente, la cui abrogazione è quindi intervenuta per manifesta incompatibilità, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi, e dovendosi escludere, in base al generale criterio ermeneutico di cui all’art. 12 delle stesse preleggi, che il legislatore, nel momento in cui ha dettato una disciplina inerente allo sgravio totale ed in relazione ad una fattispecie che potrebbe, in teoria, essere regolata non solo dalla norma sopravvenuta, ma anche da quella precedente, abbia inteso creare un sistema di “doppio binario”, che consentirebbe all’imprenditore d scegliere, a suo piacimento, la disciplina a lui più favorevole. Ne consegue che la proroga generalizzata sino al periodo di paga in corso al 31 maggio 1993, prevista dal comma 1 dell’art. 1 del d.l. n. 71 del 1993, non riguarda lo sgravio totale decennale di cui al citato comma 9 dell’art. 59 del d.P.R. n. 218 del 1978 e che ogni riferimento normativo a detto articolo, oggi abrogato, operato dai provvedimenti normativi successivi, deve intendersi fatto alle altre disposizioni contenute nel citato decreto. In aderenza a tale principio, la Corte ha precisato, quanto al discrimine temporale per l’accesso allo sgravio totale contributivo previsto dalla disciplina abrogata, che non è dirimente l’epoca temporale in cui si colloca l’assunzione dei lavoratori con effetto d’incremento delle unità effettivamente occupate, come pretendeva la parte ricorrente, bensì il tempo in cui sia stata presentata un’apposita domanda amministrativa, in coerenza, sul piano sistematico, con le regole che presiedono l’accesso all’esenzione, totale o parziale, dall’obbligazione contributiva.

5. L’incremento occupazionale e gli incentivi all’assunzione.

Con specifico riferimento al beneficio della decontribuzione previsto dall’art. 8, comma 4, della legge 23 luglio 1991, n. 223, in favore del datore di lavoro che, “senza esservi tenuto”, assuma a tempo pieno e indeterminato i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità, al fine di incentivare le assunzioni dei lavoratori espulsi dal mercato del lavoro creando nuovi posti per esigenze proprie dell’azienda, in assenza di un obbligo all’assunzione, Sez. L, n. 01763/2021, Cavallaro, Rv. 660285-01, in linea con Sez. L, n. 17838/2015, Venuti, Rv. 636944-01, ha escluso che l’agevolazione possa essere riconosciuta nelle ipotesi di automatico trasferimento dei rapporti di lavoro subordinato, esistenti al momento della cessione, effettuato ai sensi dell’art. 2112 c.c., senza soluzione di continuità, in capo al cessionario.

6. Accertamento e riscossione.

Sul piano della regolarità procedurale, Sez. L, n. 19157/2021, Cavallaro, Rv. 661717-01, ha ritenuto applicabile anche al procedimento per omissioni contributive, ai sensi dell’art. 7, comma 2, lett. d), del d.l. 13 maggio 2011, n. 70, conv., con modif., dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, il termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, concernente le disposizioni in materia di Statuto dei diritti del contribuente, secondo il quale il contribuente ha diritto di effettuare «osservazioni e richieste» entro sessanta giorni dal ricevimento del verbale di chiusura delle operazioni ispettive e l’amministrazione ha l’obbligo di non emettere «l’avviso di accertamento» prima del compimento del predetto termine, salvi i casi di motivata urgenza, sebbene detto termine vada riferito non già al verbale di accertamento redatto dagli enti previdenziali in esito all’accesso ispettivo, che ha valore di mera diffida ad adempiere, bensì all’avviso di addebito, quale atto contenente l’intimazione ad adempiere l’obbligo di pagamento delle somme oggetto di recupero coattivo, strutturalmente e funzionalmente equiparabile all’avviso di accertamento in materia tributaria.

Ancora, sul piano dell’accertamento della regolarità procedurale, Sez. L, n. 35032/2021, Buffa, Rv. 662877-01, ha ritenuto che la spedizione della cartella desumibile dalla stampa del sistema informativo dell’amministrazione e, per altro verso, la successiva istanza di sgravio proposta dal contribuente proprio per i debiti portati dalla cartella, rappresentano elementi da cui ricavare correttamente la presunzione di ricezione della predetta cartella da parte del contribuente.

Sempre in ordine alla ritualità della notifica, Sez. L, n. 35692/2021, Buffa, Rv. 663000-01, ha affermato che la notifica della cartella esattoriale avvenuta, nell’irreperibilità relativa del destinatario, senza l’invio della raccomandata informativa, non prevista secondo la legislazione vigente al momento di effettuazione della predetta notifica, rimane rituale anche dopo la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 258 del 2012, con la quale è stato introdotto l’obbligo della raccomandata in questione, a condizione che il termine perentorio per proporre opposizione avverso la cartella sia decorso, in tal caso configurandosi l’esaurimento del rapporto, ormai consolidato per l’inoppugnabilità della cartella stessa.

Il carattere pubblicistico dell’imposizione contributiva, trattandosi di materia in cui l’esercizio del potere di autotutela da parte dell’istituto previdenziale incide su situazioni giuridiche indisponibili per l’ente, da conto del principio espresso da Sez. L, n. 05550/2021, Cavallaro, Rv. 660830-02, in continuità con Sez. L, n. 16501/2013, Manna A., Rv. 627079-01, secondo cui l’esito del procedimento amministrativo contenzioso, quand’anche favorevole all’assicurato, non comporta per l’istituto la preclusione ad agire in giudizio per l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e dei conseguenti obblighi contributivi, non avendo detto giudizio natura impugnatoria ed essendo diretto a verificare l’esistenza dei requisiti necessari per l’erogazione della prestazione. Di conseguenza, la S.C. ha ritenuto che l’annullamento in sede amministrativa, da parte del Comitato regionale del lavoro, del verbale di accertamento di omissioni contributive non precludesse all’ente la proposizione di una domanda giudiziale di condanna al pagamento di tali contributi.

Sul piano dei rapporti fra la riscossione coattiva ed il procedimento giudiziario, Sez. 6-L, n. 38236/2021, Cinque, Rv. 663092-01, in linea con l’indirizzo espresso per il contenzioso tributario (Sez. 5, n. 24092/2014, Terrusi, Rv. 633163-01), ha chiarito che, anche qualora il ricorso sia accolto solo parzialmente, gli avvisi impugnati perdono la loro efficacia di atti impositivi, poiché il contribuente non è tenuto ad adempiere all’obbligazione in conformità a tali atti ma ad ottemperare alla sentenza che, nel processo di “impugnazione-merito”, li sostituisce, vincolando sia l’ente impositore che il concessionario alla riscossione relativamente alla nuova determinazione del debito.

Ancora, in tema di rapporti fra riscossione coattiva ed accertamento giudiziale, Sez. L, n. 20261/2021, Buffa, Rv. 661947-01, ha precisato che la sentenza passata in giudicato che rigetta l’opposizione a cartella esattoriale determina la cd. “conversione” del termine breve di prescrizione in quello decennale di cui all’art. 2953 c.c., poiché l’azione esercitata nel giudizio non è la domanda di mero accertamento negativo proposta dal contribuente, bensì quella di condanna proposta dall’attore in senso sostanziale, sicché il diritto che consegue in favore dell’Istituto previdenziale trova titolo nell’atto giurisdizionale che lo ha definitivamente ed inequivocabilmente accertato e non più solo nella cartella.

Quanto all’applicazione del regime di solidarietà previsto in tema di appalto di opere o di servizi, Sez. L, n. 34982/2021, Marchese, Rv. 662876-01, ha ritenuto che, nella successione delle disposizioni diversamente regolanti la materia, il regime di solidarietà applicabile, per la riscossione dei crediti degli enti previdenziali, è quello vigente al momento di esecuzione della prestazione lavorativa, in cui sorge il diritto alla retribuzione ed alla contribuzione. Nel caso di specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che non aveva applicato la disciplina della responsabilità del committente estesa ai debiti del subappaltatore, secondo la formulazione dell'art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, derivante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 911, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, a contributi relativi ad un arco temporale compreso tra gennaio 2007 e novembre 2007.

D’altro canto, proprio in ragione della peculiarità delle caratteristiche dell’obbligazione contributiva, Sez. 6-L, n. 41373/2021, Ponterio, Rv 663383-01 ha ribadito, in continuità con quanto già ritenuto da Sez. L, n. 18004/2019, Calafiore, Rv. 654482-01, che il termine di due anni previsto dall’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003 non è applicabile all’azione promossa dagli enti previdenziali, soggetti alla sola prescrizione; infatti, proprio dalla peculiarità dell’oggetto dell’obbligazione contributiva, che coincide con il concetto di “minimale contributivo” strutturato dalla legge in modo imperativo, discende la considerazione di rilievo sistematico che fa ritenere non coerente con tale assetto l’interpretazione che comporterebbe la possibilità, addirittura prevista implicitamente dalla legge come effetto fisiologico, che alla corresponsione di una retribuzione – a seguito dell’azione tempestivamente proposta dal lavoratore – non possa seguire il soddisfacimento anche dell’obbligo contributivo solo perché l’ente previdenziale non ha azionato la propria pretesa nel termine di due anni dalla cessazione dell’appalto. In effetti, tale conclusione comporterebbe, senza alcuna plausibile ragione logica e giuridica apprezzabile, la rottura del nesso stretto tra retribuzione dovuta (in ipotesi addirittura effettivamente erogata) e adempimento dell’obbligo contributivo, con ciò procurandosi un vulnus nella protezione assicurativa del lavoratore che, invece, l’art. 29 in esame ha voluto potenziare. Va, peraltro, opportunamente sottolineato che la Corte, nel dare continuità all’interpretazione già resa, ha chiarito che la portata del principio non è intaccata dalla modifica dell’art. 29 cit. effettuata dall’art. 21, comma 1, del d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, conv. con modif. dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, che ha escluso dalla responsabilità solidale del committente «qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento», atteso che tale aggiunta non ha riflessi sulla disciplina della decadenza.

Infine, quanto all’annullamento, ai sensi dell’art. 4, comma 1, del d.l. 23 ottobre 2018, n. 119, conv., con modif., dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136, dei debiti contributivi la cui riscossione sia stata affidata agli agenti di riscossione nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2000 e il 31 dicembre 2010, Sez. L, n. 20254/2021, D’Antonio, Rv. 661845-01, in dichiarata discontinuità rispetto a quanto sostenuto da Sez. 5, n. 11817/2020, Cavallari, Rv. 658928-01, ha aderito invece all’interpretazione resa da Sez. 3, n. 17966/2020, Fiecconi, Rv. 658627-01, affermando che il limite di valore del debito (mille euro) non deve essere riferito ai singoli carichi risultanti da ciascuna cartella esattoriale ma alla sommatoria di essi e, se i debiti sono di diversa natura, al valore complessivo dei carichi omogenei. Di conseguenza, la Corte, nel caso di specie, non ha ritenuto applicabile tale annullamento automatico in quanto la cartella opposta non solo superava il tetto dei mille euro, ma si trattava altresì di carichi omogenei (tutti contributi relativi all’anno 2007).

7. Cessione dei crediti nei confronti dello Stato e pagamento dei contributi previdenziali.

In proposito, è importante sottolineare che Sez. L, n. 22183/2021, Cavallaro, Rv. 662097-01, ha consolidato l’interpretazione già resa da Sez. L, n. 17606/2020, Cavallaro, Rv. 658888-02, ribadendo che il perfezionamento dell’efficacia della cessione, da parte dei datori di lavoro, dei crediti maturati nei confronti dello Stato, di altre pubbliche amministrazioni o di enti pubblici economici, al fine del pagamento dei contributi previdenziali, richiede, oltre all’osservanza di specifici requisiti formali ed ai requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità del credito ceduto, che l’amministrazione debitrice – cui l’atto di cessione va notificato a cura del cedente – comunichi entro 90 giorni dalla notifica il riconoscimento della propria posizione debitoria, atteso che, in considerazione del rigore che assiste le operazioni contabili delle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici, la specifica disciplina è disancorata dalle disposizioni del codice civile concernenti la cessione ordinaria dei crediti, realizzando piuttosto una fattispecie di datio in solutum, avente struttura non contrattuale, in deroga allo schema generale previsto dall’art. 1198 c.c., con effetto estintivo del debito dalla data della cessione medesima e non da quella della riscossione del credito da parte del cessionario.

8. Omissione contributiva e posizione del lavoratore.

Sez. L, n. 15947/2021, Piccone, Rv. 661459-01, ha chiarito che in caso di omissioni contributive, l’azione attribuita al lavoratore dall’art. 2116 c.c. per il conseguimento del risarcimento del danno patrimoniale – consistente nella perdita totale del trattamento pensionistico ovvero nella percezione di un trattamento inferiore a quello altrimenti spettante – presuppone che siano maturati i requisiti per l’accesso alla prestazione previdenziale e postula l’intervenuta prescrizione del credito contributivo; ne consegue che prima del perfezionamento dell’età pensionabile, in presenza di diritti non ancora entrati nel patrimonio del creditore, sussiste l’impossibilità di disporre validamente della posizione giuridica soggettiva inerente al diritto al risarcimento del danno pensionistico. Dando applicazione a tale principio, la S.C. ha cassato la decisione che aveva ritenuto che il diritto al risarcimento del danno pensionistico potesse essere oggetto di una transazione intervenuta prima del raggiungimento dell’età pensionabile da parte del dipendente.

Sul piano delle azioni a disposizione del lavoratore, Sez. L, n. 02164/2021, Calafiore, Rv. 660330-01, in linea con quanto già sostenuto da Sez. L, n. 3491/2014, Ghinoy, Rv. 630041-01, ha ribadito che in caso di omissione contributiva, il lavoratore, pur se abbia dato comunicazione all’ente previdenziale dell’inadempimento e quest’ultimo non si sia attivato per il recupero, non può agire nei confronti dell’istituto per l’accertamento dell’esistenza del rapporto di lavoro subordinato, né chiedere all’ente di sostituirsi al datore di lavoro nel pagamento dei contributi, atteso che l’obbligazione contributiva vede quale soggetto attivo l’ente assicuratore e quale soggetto passivo il datore, residuando in favore del lavoratore soltanto l’azione di risarcimento del danno ex art. 2116 c.c. e la facoltà di chiedere all’ente la costituzione della rendita ai sensi dell'art. 13 della l. n. 1338 del 1962.

L’assunto è stato ulteriormente confermato e puntualizzato da Sez. L, n. 06722/2021, Cavallaro, Rv. 660964-02, secondo cui, a fronte dell’omissione contributiva da parte del datore di lavoro, l’ordinamento non prevede un’azione dell’assicurato volta a condannare l’ente previdenziale alla regolarizzazione della sua posizione contributiva, nemmeno nell’ipotesi in cui l’ente previdenziale, che sia stato messo a conoscenza dell’inadempimento contributivo prima della decorrenza del termine di prescrizione, non si sia tempestivamente attivato per l’adempimento nei confronti del datore di lavoro obbligato, residuando unicamente in suo favore la facoltà di chiedere all’I.N.P.S. la costituzione della rendita vitalizia ex art. 13 della l. n. 1338 del 1962 ed il rimedio risarcitorio di cui all’art. 2116 c.c. Né tale ultima azione è impedita dalla cancellazione della società datrice di lavoro dal registro delle imprese, determinandosi in tale ipotesi un fenomeno successorio in forza del quale l’obbligazione della società non si estingue, ma si trasferisce ai soci, che ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente a seconda che, “pendente societate”, fossero responsabili per i debiti sociali in via limitata o illimitata.

9. Riscatto degli anni di laurea.

In continuità con i precedenti relativi al mancato rispetto dei termini di scadenza dei versamenti previsti per il riscatto degli anni di laurea (in particolare, Sez. L, n. 5813/2010, Stile, Rv. 613331-01), Sez. L, n. 41274/2021, Calafiore, Rv 663367-01, ha ribadito che, anche rispetto al regime di cui all’art. 1, comma 77, della legge 24 dicembre 2007, n. 247, con cui è stato modificato l’art. 2 del d.lgs. 30 aprile 1997, n. 184, con l’inserimento, dopo il comma 4, del comma 4-bis, sebbene nessuna norma di legge preveda la cd. decadenza nel mancato rispetto del termine per il versamento della riserva matematica, nondimeno la funzionalità del sistema (e segnatamente le modalità operative normativamente previste per il calcolo della riserva matematica) riconduce a natura essenziale il termine all’uopo fissato nella lettera raccomandata con cui l’istituto previdenziale comunica all’interessato l’ammontare di detta riserva, ai sensi dell’art. 1457 c.c.; ne consegue che, in caso di mancato rispetto dei termini di versamento, è necessaria una nuova e diversa domanda, che consenta di aggiornare il calcolo alla diversa situazione soggettiva del lavoratore e ai conseguenti diversi coefficienti da applicare, che determinano, a loro volta, un altrettanto diverso risultato completamente estraneo alla situazione già negoziata e che lega entrambe le parti per la copertura contributiva del periodo interessato.

10. La prescrizione dei crediti contributivi.

Sull’individuazione del regime prescrizionale, Sez. L, n. 05820/2021, Calafiore, Rv. 660713-01, ha affermato che il raddoppio del termine quinquennale di prescrizione, previsto dall’art. 3, comma 9, della l. n. 335 del 1995, per il caso di denuncia del lavoratore, non si applica ai crediti maturati in epoca successiva all’entrata in vigore della legge, dal momento che la suddetta denuncia ha unicamente l’effetto di mantenere il termine decennale per i crediti maturati anteriormente e non può essere qualificato come atto interruttivo della prescrizione. In tal modo, la S.C. ha aderito all’opzione ermeneutica che ascrive il rilievo della denuncia del lavoratore (o dei suoi superstiti) in tema di prescrizione dell’obbligo contributivo solo all’interno del meccanismo regolatorio stabilito in via di disciplina transitoria, muovendo anche e soprattutto dalla considerazione, di tipo sistematico, del rapporto di netta autonomia che esiste tra il rapporto contributivo (che lega il datore di lavoro e l’Istituto previdenziale) ed il rapporto previdenziale (che lega il lavoratore al medesimo Istituto), così come autonomo rispetto a tali rapporti è il rapporto di lavoro che lega il lavoratore al datore di lavoro; tale ricostruzione, peraltro, sarebbe confermata, e non già smentita, dalla previsione di cui all’art. 38, comma 7, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 («Nell’ipotesi di periodi non coperti da contribuzione risultanti dall’estratto conto di cui all’articolo 1, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335, e successive modificazioni, relativi all’anno 1998, il termine di prescrizione di cui all’articolo 3, comma 9, lettera a), secondo periodo, della citata l. n. 335 del 1995 è sospeso per un periodo di 18 mesi a decorrere dal 1 gennaio 2003»), che, proprio in ragione della natura affatto specifica della previsione in commento, ha avvalorato ulteriormente la conclusione intesa ad escludere che la denuncia del lavoratore possa in via ordinaria produrre analoghi effetti.

Sez. L, n. 06499/2021, Buffa, Rv. 660633-01, ha affermato che la notifica della cartella esattoriale ha un effetto interruttivo, ma non sospensivo, della prescrizione del credito, che riprende a decorrere dalla data della notifica, senza che rilevi il termine di sessanta giorni concesso al debitore per l’adempimento, durante il quale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 25, comma 2, e 50, comma 1, del d.P.R. 20 settembre 1973, n. 602, è preclusa ogni azione esecutiva da parte del concessionario.

Sempre in ordine alla interruzione della prescrizione, Sez. L, n. 20260/2021, Buffa, Rv. 661930-01, ha attribuito agli istituti di patronato la capacità di riconoscere validamente il debito contributivo dei propri assistiti, con effetto interruttivo della prescrizione, poiché l’ambito del mandato deve intendersi esteso a tutti gli atti il cui compimento è necessario per la sua attuazione, ed ha, pertanto, confermato la sentenza di merito nella quale era stata riconosciuta efficacia interruttiva della prescrizione ad alcune istanze di rateizzazione del debito contributivo – pur non seguite da alcun versamento – inviate all’I.N.P.S. da un istituto di patronato in nome e per conto dell’azienda debitrice.

D’altro canto, Sez. L, n. 41423/2021, De Felice, Rv 663377-01, ha ribadito, in continuità con Sez. L, n. 17640/2017, Calafiore, Rv. 644996-01, che la notifica ad una società di persone di un atto interruttivo della prescrizione concernente il debito sociale (nella specie, verbale di accertamento di debito contributivo), che è debito anche dei soci, interrompe, ai sensi dell’art. 1310 c.c., la prescrizione anche nei confronti di questi ultimi; non è vero, tuttavia il contrario: la notifica di un atto interruttivo della prescrizione nei confronti del singolo socio non è allo stesso modo idonea a produrre effetti nei confronti della società, non potendo, di norma, ricollegarsi alcun effetto interruttivo a una richiesta di pagamento inoltrata ad un soggetto diverso dal debitore, salvo il caso in cui costui sia rappresentante o comunque, benché privo del potere rappresentativo, abbia agito in tale qualità, qualora risulti applicabile il principio dell’apparenza.

Ancora, Sez. L, n. 21799/2021, Cavallaro, Rv. 661847-01, in espressa discontinuità con Sez. 3, n. 12058/2014, Carleo, Rv. 630926-01, e con Sez. L, n. 9589/2018, D’Antonio, Rv. 648639-01, ha ritenuto che la richiesta del convenuto di mero rigetto della altrui domanda di accertamento negativo di un debito può costituire domanda idonea a svolgere efficacia interruttiva della prescrizione del diritto vantato nei confronti del debitore, ex art. 2943, comma 2, c.c., se è volta, in concreto, a ribadire le ragioni del proprio credito e a chiederne giudizialmente l’accertamento, con i consequenziali effetti permanenti di cui all’art. 2945, comma 2, c.c., ben potendo un’azione di accertamento negativo dell’altrui negazione del credito contenere implicitamente un’azione di accertamento della titolarità della situazione giuridica dedotta in giudizio. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva negato efficacia interruttiva alla memoria di costituzione, con cui l’I.N.P.S. chiedeva solo il rigetto dell’azione di accertamento negativo di un obbligo contributivo, senza accertare se tale richiesta trovasse fondamento in un’affermazione positiva delle sue ragioni creditorie.

Riguardo, invece, alla sospensione della prescrizione, Sez. L, n. 14193/2021, Calafiore, Rv. 661298-01, ha chiarito che l’impossibilità di far valere il diritto, quale fatto impeditivo della decorrenza della prescrizione ex art. 2935 c.c., è solo quella che deriva da cause giuridiche che ne ostacolino l’esercizio e non comprende anche gli ostacoli di mero fatto (come il ritardo indotto dalle necessità di accertamento del diritto) o gli impedimenti soggettivi, per i quali il successivo art. 2941 c.c. prevede solo specifiche e tassative ipotesi di sospensione della prescrizione. In virtù di tale principio, la Corte ha rilevato che la facoltà di sospendere la riscossione prevista dal comma 2 dell'art. 25 del d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, vigente ratione temporis (in quanto abrogato dal d.l. 31 maggio 2010, n. 78, conv. con modif. dalla legge 30 luglio 2010, n. 122), non realizza un’ipotesi di sospensione della prescrizione, poiché la norma citata non contiene siffatta previsione, limitandosi piuttosto a prevedere «Dopo l’iscrizione a ruolo l’ente, in pendenza di gravame amministrativo, può sospendere la riscossione con provvedimento motivato notificato al concessionario ed al contribuente. Il provvedimento può essere revocato ove sopravvenga fondato pericolo per la riscossione».

Quanto alla decorrenza della prescrizione dei contributi dovuti alla gestione separata, Sez. L, n. 10273/2021, Cavallaro, Rv. 661100-01, ha precisato che occorre considerare espressamente anche il differimento dei termini di pagamento degli stessi, quale quello previsto dalla disposizione di cui all’art. 1, comma 1, d.P.C.M. del 10 giugno del 2010 in relazione ai contributi dovuti per l’anno 2009 dai titolari di posizione assicurativa che si trovino nelle condizioni da detta disposizione stabilite (vale a dire: «i contribuenti tenuti ai versamenti risultanti dalle dichiarazioni dei redditi [...] entro il 16 giugno 2010, che esercitano attività economiche per le quali sono stati elaborati gli studi di settore di cui all’art. 62- bis del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, e che dichiarano ricavi o compensi di ammontare non superiore al limite stabilito per ciascuno studio di settore dal relativo decreto di approvazione del Ministro dell’economia e delle finanze»), ed ha cassato la sentenza impugnata perché aveva erroneamente ritenuto che l’interessata rientrasse nel novero dei «contribuenti estranei [...] agli studi di settore, in quanto in regime dei c.d. minimi», atteso che, giusta la lettera dell’art. 1, comma 1, d.P.C.M. cit., il differimento del termine di pagamento concerne tutti «contribuenti [...] che esercitano attività economiche per le quali sono stati elaborati gli studi di settore» e non soltanto coloro che, in concreto, alle risultanze di tali studi fossero fiscalmente assoggettati per non aver scelto un diverso regime d’imposizione, quale quello di cui all’art. 1, commi 96 ss., legge 24 dicembre 2007, n. 244.

Ancora in tema di contributi dovuti dai professionisti a seguito di iscrizione alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995, Sez. 6-L, n. 37529/2021, Marchese, Rv. 663091-01, ha chiarito la portata del principio espresso da Sez. L, n. 6677/2019, Mancino, Rv. 652871-01, precisando che non è configurabile un automatismo tra la mancata compilazione del cd. “quadro RR” nella dichiarazione dei redditi e l’occultamento doloso del debito contributivo, in quanto il relativo accertamento costituisce oggetto di una valutazione rimessa al giudice di merito, censurabile in cassazione nei ristretti limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c..

  • indennizzo
  • indennità di licenziamento
  • mobilità professionale
  • sostegno di famiglia
  • condizione di pensionamento
  • diritti di obbligazioni
  • disoccupazione

CAPITOLO XXI

LE PRESTAZIONI PREVIDENZIALI

(di Milena d’Oriano )

Sommario

1 La domanda amministrativa. - 2 La decadenza dall’azione giudiziaria. - 3 L’obbligazione contributiva. - 4 La contribuzione figurativa. - 5 Le prestazioni pensionistiche. - 6 Gli assegni familiari. - 7 Indennità di malattia e di maternità. - 8 C.I.G. e indennità di mobilità. - 9 Indennità di disoccupazione. - 10 L’indebito previdenziale.

1. La domanda amministrativa.

Per il riconoscimento delle prestazioni previdenziali è necessaria una preventiva presentazione di una domanda amministrativa con cui il soggetto interessato manifesti all'ente competente la volontà di ottenerne l’attribuzione.

La domanda amministrativa costituisce un presupposto indispensabile attraverso il quale si dà l’impulso all'inizio di un procedimento amministrativo a formazione progressiva e si determina il momento in cui sorgerà l'eventuale obbligazione di pagamento a carico dell'ente tenuto all’erogazione.

Sul piano processuale, la domanda amministrativa costituisce un presupposto dell'azione, la cui mancanza determina la radicale improponibilità della domanda giudiziale e può essere rilevata, anche d'ufficio, dal giudice in ogni stato e grado del giudizio, senza che tale difetto possa essere sanato dalla presentazione di una domanda amministrativa concernente prestazione previdenziale diversa, ancorché compatibile con quella poi richiesta in giudizio (Sez. L n. 05453/2017, Doronzo, Rv. 643427-01; Sez. 6-L n. 19767/2017, Ghinoy, Rv. 645666-01).

Con principio condiviso, la S.C. afferma da tempo che, in tema di benefici previdenziali e assistenziali, la preventiva presentazione della domanda amministrativa prevista dalla l. n. 533 del 1973, art. 7, costituisce un presupposto dell'azione, mancando il quale la domanda giudiziaria è improponibile, senza che - in contrario - possano trarsi argomenti né dalla l. n. 533 del 1973, art. 8, che si limita a negare rilevanza ai vizi, alle preclusioni e alle decadenze verificatisi nel corso della procedura amministrativa, né dall'art. 443 c.p.c. che, con disposizione non suscettibile d'interpretazione estensiva, prevede la mera improcedibilità - anziché l'improponibilità - della domanda soltanto per il caso del mancato esaurimento del provvedimento amministrativo, che sia stato però iniziato.

La domanda amministrativa, condizionando la stessa insorgenza del diritto del privato da tutelare eventualmente davanti all'autorità giudiziaria, diritto che non può ritenersi sorto (unitamente allo speculare obbligo dell'ente previdenziale di provvedervi) anteriormente al perfezionamento della fattispecie a formazione progressiva che nella presentazione della domanda all'ente previdenziale trova appunto il suo incipit, appartiene pertanto, secondo Sez. L n. 41571/2021, Cavallato, Rv 663370-01 all'ampio genus degli atti ricettizi, per la cui efficacia si richiede che vengano portati a conoscenza del destinatario (art. 1334 c.c.), e che si reputano conosciuti, acquistando perciò efficacia, nel momento in cui giungono all'indirizzo del destinatario (art. 1335 c.c.), senza che ad essa, avente efficacia sostanziale, possa applicarsi il principio della scissione degli effetti della notificazione in deroga alla regola generale della natura recettizia degli atti unilaterali, essendo stato tale principio affermato dalla giurisprudenza costituzionale con riguardo agli atti processuali.

Dalla natura previdenziale delle prestazioni a carico del Fondo di garanzia costituito presso l'INPS, Sez. 6-L, n. 15384/2021, Patti, Rv. 661677-01, ne ha desunto per il lavoratore l'onere di formulare la domanda amministrativa, la quale può essere proposta solo dopo la verifica dell'esistenza e della misura del credito, in sede di ammissione al passivo fallimentare o della liquidazione coatta amministrativa, oppure in seguito all'infruttuoso esperimento dell'esecuzione forzata in base a titolo idoneo in ipotesi di datore di lavoro non assoggettabile a procedure concorsuali, e la cui presentazione, segnando la nascita dell'obbligo dell'ente previdenziale, non può essere assimilata ad una condizione dell'azione, che potrebbe efficacemente sopravvenire nel corso del giudizio; nella fattispecie esaminata la domanda giudiziale del lavoratore era seguita alla presentazione in via amministrativa di due domande fondate su esecuzioni individuali negative, mentre le circostanze della dichiarazione di fallimento della società datrice di lavoro e della ammissione del lavoratore allo stato passivo, da cui il giudice del merito aveva desunto la sussistenza dei presupposti del credito vantato verso il Fondo di garanzia, erano sopravvenute nel corso del giudizio di primo grado; la S.C., in applicazione dell'enunciato principio, ha cassato la sentenza di appello e, decidendo nel merito, ha rigettato la domanda del lavoratore.

Ancora in tema di proponibilità della domanda giudiziale, con riferimento ai benefici previdenziali in favore dei lavoratori esposti all'amianto, Sez. L, n. 09230/2021, Cavallaro, Rv. 660965-01, in conformità a Sez. 6-L, n. 17798/2015, Pagetta, Rv. 636805-01, ha ribadito che è sempre necessaria la previa presentazione della domanda amministrativa all'INPS, unico ente legittimato all'erogazione della prestazione pensionistica oggetto di rivalutazione contributiva, sicché, ai fini della decorrenza del termine di decadenza di cui all'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, va tenuto conto della data di presentazione dell'istanza allo stesso Istituto, e non della data di inoltro della domanda all'INAIL.

2. La decadenza dall’azione giudiziaria.

In tema di decadenza, ed in particolare del diritto transitorio attinente alla determinazione dell'incidenza di una legge sopravvenuta che introduca ex novo un termine di decadenza su una situazione ancora pendente, è stato più volte affermato che la nuova previsione non possa avere effetto retroattivo, facendo decorrere il termine prima dell'entrata in vigore della legge che l'abbia istituito, affermandosi, conformemente ai principi generali dell'ordinamento in materia di termini, che, ove una modifica normativa introduca un termine di decadenza prima non previsto, la nuova disciplina si applichi anche alle situazioni soggettive già in essere, ma la decorrenza del termine viene fissata con riferimento all'entrata in vigore della modifica legislativa.

Tale soluzione, secondo la S.C., realizza il bilanciamento di due contrapposte esigenze e cioè, da un lato, quella di garantire l'efficacia del fine sollecitatorio perseguito dal legislatore con l'introduzione del termine decadenziale, e, dall'altro, quella di tutelare l'interesse del privato, onerato della decadenza, a non vedersi addebitare un comportamento inerte allo stesso non imputabile.

A tale principio è stata data continuità anche nel 2021 con le pronunce in tema di decadenza triennale di cui all'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, come modificato dall'art. 38, comma 1, lett. d), del d.l. n. 98 del 2011, conv., con modif., dalla l. n. 111 del 2011.; come chiarito da Sez. 6-L, n. 11909/2021, Doronzo, Rv. 661254- 01, tale decadenza si applica anche alla riliquidazione dei trattamenti pensionistici già in essere, con decorrenza dalla data di entrata in vigore del d.l. citato (6 luglio 2011), atteso che, conformemente ai principi generali dell'ordinamento in materia di termini, ove una modifica normativa introduca un termine di decadenza prima non previsto, la nuova disciplina si applica anche alle situazioni soggettive preesistenti, ma la decorrenza del termine viene fissata con riferimento all'entrata in vigore della novella.

Con riferimento alla stessa decadenza, Sez. L, n. 22820/2021. Buffa, Rv. 662092-01 ha chiarito che, in presenza di una richiesta di adeguamento o ricalcolo di prestazioni pensionistiche parzialmente già riconosciute, la stessa è evitata non già dalla domanda amministrativa ma solamente dalla proposizione dell'azione giudiziaria, essendo questo l'atto previsto dalla legge il cui compimento va effettuato nel previsto termine iniziale (riconoscimento parziale ovvero pagamento in misura ridotta della pensione).

Sez. L, n. 17430/2021, Buffa, Rv. 661517-01, si è poi pronunciata sul discusso tema se tale decadenza abbia natura "tombale", pur con riferimento alle differenze rivendicabili dal privato in aggiunta alla prestazione già riconosciuta, ovvero "mobile", ossia riguardi soltanto le differenze sui ratei per i quali il termine è decorso e non anche eventuali differenze sui ratei futuri (ed altresì sui ratei pregressi per i quali non è maturata la decadenza).

In tale decisione la S.C. ha ritenuto con ampia motivazione di optare per l’interpretazione che propende per la natura mobile della decadenza, ritenuta maggiormente conforme alla Costituzione, in quanto l'applicazione della decadenza della domanda di riliquidazione ai soli ratei pregressi ultratriennali, e non all'intera pretesa del privato, attua un giusto equilibrio tra il diritto alla pensione e l'obiettivo decorso del tempo assicurato dalla decadenza mobile, che comunque sanziona il pensionato in modo significativo con la perdita dell'integrazione dei ratei ultratriennali rispetto alla domanda giudiziale, laddove alcun bilanciamento tra gli opposti interessi sarebbe assicurato dall'accoglimento della tesi opposta, che produrrebbe una pensione decurtata per sempre in modo contra legem, con effetto completamente ablativo del diritto alle differenze (a fronte di una situazione di ignoranza del pensionato all'esatto importo della prestazione, che potrebbe protrarsi per anni), su una situazione soggettiva costituzionalmente protetta.

Si è così affermato che in riferimento alla richiesta di adeguamento o ricalcolo di prestazioni pensionistiche parzialmente già riconosciute, la decadenza triennale di cui all'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, come modificato dall'art. 38, comma 1, lett. d), del d.l. n. 98 del 2011, conv., con modif., dalla l. n. 111 del 2011, si applica solo alle differenze sui ratei maturati precedenti il triennio dalla domanda giudiziale.

In conformità a Sez. L, n. 25892/2009, Morcavallo, Rv. 611775-01, Sez. L, n. 40780/2021, Cavallaro, Rv 663375-01 ha ribadito che in tema di decadenza dall'azione giudiziaria per il conseguimento di prestazioni previdenziali, il comportamento dell'INPS che, nel denegare la prestazione abbia indicato termini erronei di impugnazione cui il ricorrente si sia conformato, può assumere rilievo ai fini risarcitori, in relazione all'affidamento erroneamente ingenerato nell'assicurato, ma non esclude l'obiettiva circostanza dell'avvenuta decadenza, che opera "de iure", prescindendo dalla condotta delle parti. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato la decadenza ex art. 22 del d.l. n. 7 del 1970, per la proposizione dell'azione giudiziaria per la reiscrizione negli elenchi dei lavoratori agricoli, sebbene la comunicazione di cancellazione non contenesse alcun riferimento a tale termine).

Sempre in materia di decadenza dall’impugnativa della cancellazione dagli elenchi dei lavoratori agricoli, prevista dall’art. 22 del d.l. n. 7 del 1970, conv., con modif., dalla l. n. 83 del 1970, Sez. L., n. 41469/2021, Mancino, Rv 663412-01, nel ricordare (in conformità a Sez. L, n. 26161/2016, Berrino, Rv. 642246-01) che tale decadenza è stata abrogata dall’art. 24 del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 133 del 2008, che fa salva l’applicazione dei commi 14 e 15 dell’art. 14 della l. n. 246 del 2005, ma non del comma 17, la cui lettera e) stabilisce la permanenza in vigore delle disposizioni in materia previdenziale e assistenziale, ha precisato che la stessa ha ripreso vigore dal 6 luglio 2011 (data di entrata in vigore del d.l. n. 98 del 2011, conv., con modif., dalla l. n. 111 del 2011, sicché essa non è stata operante limitatamente al periodo dal 21 dicembre 2008 al 5 luglio 2011.

Principio consolidato quello riaffermato in tema di benefici previdenziali in favore dei lavoratori esposti all'amianto da Sez. L, n. 41886/2021, Cavallaro, Rv 663300-01, che, in conformità a Sez. L, n. 12087/2017, Spena, Rv. 644336-01, e Sez. 6-L, n. 19029/2018, Doronzo, Rv. 649869-01, ha ribadito che la decadenza di cui all'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 è applicabile anche alle domande giudiziali di rivalutazione contributiva avanzate da soggetti già pensionati, poiché ciò che si fa valere in questi casi non è il diritto al ricalcolo della prestazione pensionistica erroneamente liquidata in sede di determinazione amministrativa, bensì il diritto ad un beneficio dotato di una sua specifica individualità ed autonomia, siccome riconosciuto dalla legge in presenza di condizioni diverse rispetto a quelle previste per la liquidazione di pensioni e supplementi secondo le regole ordinarie

3. L’obbligazione contributiva.

La sussistenza dell’obbligazione contributiva è condizionata da elementi oggettivi e soggettivi e costituisce il presupposto per il riconoscimento del diritto alle prestazioni previdenziali.

Sez. 6-L, n. 36381/2021, Calafiore, Rv. 663149-01, chiamata a pronunciarsi sulla classificazione delle imprese a fini previdenziali, dopo aver ricordato che qualora un'impresa eserciti non già attività distinte che, in sé considerate, comporterebbero inquadramenti diversi, ma un'unica attività di natura promiscua, l'inquadramento deve essere effettuato con riguardo a quella prevalente in relazione alle finalità economiche perseguite, la cui prova grava sull'ente che faccia valere, in conseguenza di detto inquadramento, un credito previdenziale, ferma la necessità che il relativo accertamento abbia natura non già formale, in forza della documentazione relativa alla sola indicazione dell'attività esercitata (certificato d'iscrizione al registro delle imprese presso la C.C.I.A.A. e statuto della società), bensì sostanziale, fondandosi sull'esame delle risultanze istruttorie, tra loro logicamente e coerentemente ordinate, in funzione della determinazione dell'attività prevalente in concreto svolta, ha confermato la sentenza di merito che, a partire dal 2009, aveva inquadrato nel settore terziario - e non più in quello industriale - una società dedita alla vendita e all'affitto degli immobili precedentemente costruiti, in virtù della ritenuta prevalenza dell'attività di commercializzazione degli edifici, desunta da una serie di circostanze, quali l'affidamento in appalto a terzi, per il 90%, della relativa costruzione; il consistente lasso di tempo durante il quale l'attività di impresa era proseguita, pur senza lo svolgimento di alcuna attività di costruzione; la coincidenza della posta attiva più significativa del bilancio con i rimanenti fabbricati ancora da alienare.

Quanto all’iscrizione negli elenchi dei lavoratori agricoli, secondo Sez. L, n. 30859/2021, Calafiore, Rv. 662871-01, la semplice domanda di cancellazione non è sufficiente, in assenza di elementi di prova del venir meno dei presupposti per l'iscrizione, a esonerare dall'obbligo contributivo, atteso che esso, al pari del corrispondente diritto alle prestazioni previdenziali, discende dalla predetta iscrizione, che costituisce condizione di efficacia della fattispecie costitutiva della qualità personale di coltivatore diretto.

Sez. L, n. 30853/2021, Marchese, Rv. 662713-01, ha chiarito che la diversità dei periodi di debenza delle obbligazioni contributive, pur nella identità dei termini di riferimento e di connotazione del rapporto, basta a far configurare quali diversi i rapporti contributivi ad essi afferenti, sicché il giudice non può stabilire, con efficacia di giudicato, che le norme sottoposte al suo esame debbano essere interpretate nel senso che anche per il futuro l'obbligo contributivo si atteggi in un determinato modo, in quanto per questa parte giudicherebbe di un rapporto del quale non si sono ancora realizzati tutti i presupposti.

In tema di determinazione dei trattamenti pensionistici, l'esclusione dal calcolo della pensione dei periodi di retribuzione ridotta non necessari ai fini del perfezionamento dell'anzianità contributiva minima, ai sensi dell'art. 3, comma 8, della l. n. 297 del 1982, è finalizzata ad evitare un depauperamento della prestazione previdenziale causato dallo svolgimento di un'attività lavorativa meno retribuita nell'ultimo quinquennio di lavoro; per Sez. L, n. 26442/2021, Buffa, Rv. 662275- 01, ne consegue che il principio di neutralizzazione può operare solo all'interno del periodo indicato dalla norma, e non anche in relazione a periodi diversi, restando inapplicabile al montante contributivo minore che non si riferisca al periodo finale del rapporto contributivo previdenziale e sia inoltre relativo a periodi precedenti l'ultimo quinquennio di contribuzione

Sez. L, n. 18826/2021, Calafiore, Rv. 661842-01, ha invece ritenuto che in tema di anzianità contributiva dei lavoratori a tempo parziale, l'art. 7, comma 1, del d.l. n. 463 del 1983, conv., con modif., dalla l. n. 638 del 1983, vada interpretato - in ossequio al principio di parità di trattamento con i lavoratori a tempo pieno, ricavabile dall'art. 4 della direttiva n. 97/81/CE (come applicato dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza del 10 giugno 2010, C-395/08 e C-396/08), e comunque immanente all'ordinamento previdenziale interno - nel senso che, ai fini dell'acquisizione del diritto alla pensione, i lavoratori con orario part-time verticale ciclico hanno diritto all'inclusione anche dei periodi non lavorati.

Come evidenziato da Sez. L, n. 00809/2021, Garri, Rv. 660253-01, in forza del potere di autotutela spettante, in via generale, alle pubbliche amministrazioni, l'Inps è legittimato a compiere atti di verifica, di rettifica e di valutazione di situazioni giuridiche preesistenti, nonché ad annullare d'ufficio, con effetto "ex tunc", qualsiasi provvedimento che risulti "ab origine" adottato in contrasto con la normativa vigente, e quindi può disconoscere in radice l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato che costituisce presupposto necessario ed indefettibile della sussistenza del rapporto assicurativo, con la conseguenza, in questa evenienza, che i contributi versati sono inidonei a costituire una valida posizione assicurativa. In tal caso, colui che intende far valere l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato e, per l'effetto, la valida attivazione del rapporto previdenziale-assicurativo deve provare in modo certo l'elemento tipico qualificante del requisito della subordinazione.

4. La contribuzione figurativa.

Ai fini della determinazione dell’anzianità contributiva necessaria per il riconoscimento delle prestazioni previdenziali assume notevole importanza il riconoscimento ex lege di periodi di contribuzione figurativa.

Secondo Sez. L, n. 33202/2021, Cavallaro, Rv. 662769-01, l'art. 40 della l. n. 183 del 2010 stabilisce che per il computo della contribuzione figurativa accreditabile all'assicurato che fruisca di prestazioni di integrazione o sostegno al reddito - tra le quali sono ricomprese quelle di disoccupazione e mobilità - per i periodi successivi alla data del 31 dicembre 2004, debba farsi riferimento all'importo della normale retribuzione, da determinarsi sulla base degli elementi retributivi ricorrenti e continuativi, che il lavoratore avrebbe percepito nel caso in cui avesse prestato attività lavorativa nel mese in cui si colloca l'evento assicurato, con la conseguenza che vanno esclusi, dal computo in questione, gli emolumenti extramensili (quali i ratei di mensilità aggiuntive e le indennità sostitutive delle ferie), in quanto, pur maturando mese per mese, diventano esigibili e vengono corrisposti solo in determinati momenti dell'anno; né l'applicazione della "reformatio in peius" dei criteri di calcolo ai periodi di disoccupazione successivi alla predetta data è suscettibile di dubbi di costituzionalità per violazione del principio di irretroattività delle leggi, sorgendo il diritto alla pensione nell'istante in cui si perfezionano nella sfera giuridica del soggetto protetto tutti i requisiti previsti dalla singola fattispecie pensionistica e potendo la legge modificare nel tempo tanto i requisiti di accesso quanto le modalità di computo della prestazione pensionistica, attraverso previsioni transitorie di tipo discrezionale.

La domanda di accertamento delle condizioni sanitarie preordinate al riconoscimento del beneficio contributivo ex art. 80, comma 3, della l. n. 388 del 2000, introdotta dal pubblico dipendente con procedimento ex art. 445 bis c.p.c., in quanto strumentale all'adozione del provvedimento amministrativo di attribuzione di un beneficio, pari a due mesi di contribuzione figurativa per ogni anno di servizio, rilevante ai fini della quantificazione dell'anzianità contributiva utile per la determinazione dell'"an" e del "quantum" della prestazione pensionistica, appartiene poi alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti, che ricomprende tutte le controversie funzionali e connesse al diritto alla pensione dei pubblici dipendenti. (Sez. U, n. 12903/2021. Marotta, Rv. 661140-01).

5. Le prestazioni pensionistiche.

In continuità con precedenti pronunce Sez. L, n. 01931/2021, D’Antonio, Rv. 660289-01, ha ribadito che in tema di pensione di vecchiaia anticipata, di cui all'art. 1, comma 8, del d.lgs. n. 503 del 1992, il regime delle cd. "finestre" previsto dall'art. 1, comma 5, della l. n. 247 del 2007 si applica anche agli invalidi in misura non inferiore all'ottanta per cento, come si desume dal chiaro tenore testuale della norma, che individua in modo ampio l'ambito soggettivo di riferimento per lo slittamento dell'accesso alla pensione di vecchiaia al 1° gennaio dell'anno successivo, in difetto di una disposizione specifica di esclusione, nell'ambito del regime in questione, di detta pensione anticipata, la cui regolamentazione consente soltanto una deroga ai limiti di età rispetto ai normali tempi di perfezionamento del diritto al trattamento di vecchiaia

Sez. L, n. 00692/2021, D’Antonio, Rv. 660173-01, dopo aver chiarito che la decisione giudiziale riguardante la ripartizione della pensione di reversibilità tra l'ex coniuge divorziato e il coniuge superstite al momento del decesso deve essere resa, ai sensi dell'art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, nel testo vigente, con sentenza, e che pertanto il provvedimento assunto dal giudice di secondo grado con decreto conserva la natura e il valore di sentenza, ne ha ritenuto l’impugnabilità con ricorso per cassazione per vizi motivazionali, ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., anche prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40.

In applicazione del principio analogo già affermato con riferimento all’assegno di mantenimento, da Sez. 6-L, n. 14513/2020 Riverso, Rv. 658800-01, Sez. L, n. 24954/2021, Cavallaro, Rv. 662269-01, ha evidenziato che il diritto alla corresponsione dell'assegno sociale ex art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995, prevede come unico requisito lo stato di bisogno effettivo del titolare, desunto dalla condizione oggettiva dell'assenza di redditi o dell'insufficienza di quelli percepiti in misura inferiore al limite massimo stabilito dalla legge, senza che assuma rilevanza la mancata richiesta, da parte dell'assistito, dell'importo dovuto dall'ex coniuge a titolo di assegno divorzile, non essendo previsto che lo stato di bisogno, per essere normativamente rilevante, debba essere anche incolpevole.

In tema di pensione ai superstiti, Sez. L, n. 26443/2021, Buffa, Rv. 662276- 01, ha ritenuto che la neutralizzazione dei periodi di sospensione del rapporto assicurativo previdenziale, derivanti da situazioni impeditive ex art. 37 del d.P.R. n. 818 del 1957 riferite all'assicurato (nella specie una malattia di lunga durata), è applicabile anche ai fini del conseguimento del trattamento pensionistico indiretto del superstite che, pur restando autonomo, trae le sue condizioni di maturazione dalla posizione assicurativa del dante causa, costituendo la morte dell'assicurato uno dei requisiti soggettivi richiesti per il conseguimento della pensione indiretta.

6. Gli assegni familiari.

In tema di assegni familiari Sez. L, n. 22088/2021, D’Antonio, Rv. 662094- 01, ha affermato che, ai fini dell'applicazione, alle società in accomandita semplice, dell'aliquota agevolata prevista dall'art. 20 del d.l. n. 30 del 1974, conv. con modif. dalla l. n. 114 del 1974, per i contributi dovuti alla cassa unica per gli assegni familiari dai datori di lavoro iscritti negli elenchi nominativi degli esercenti attività commerciale per l'assicurazione di malattia di cui alla l. n. 1397 del 1960, e successive modifiche, rileva esclusivamente l'iscrizione dei soci accomandatari che, rispondendo illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni sociali, si assumono il rischio giuridico ed economico dell'attività imprenditoriale, e non quella dei soci accomandanti, che non hanno la titolarità giuridica ed economica della società.

Sez. L, n. 11118/2021, Marotta, Rv. 661136-01 ha invece precisato che la legittimazione passiva rispetto alla pretesa creditoria relativa all'assegno per il nucleo familiare, spettante ai lavoratori socialmente utili e a quelli impiegati in lavori di pubblica utilità in forza di convenzione tra Ministero del lavoro e regione ex art. 27, comma 1, del d.l. n. 159 del 2007, conv. con modif. dalla l. n. 222 del 2007, compete alla regione e non già all'ente utilizzatore, sul quale gravano unicamente gli oneri relativi all'assicurazione obbligatoria presso l'INAIL e per la responsabilità civile verso i terzi, nonché quelli attinenti all'importo integrativo per le ore eccedenti rispetto a quelle remunerate con la prestazione a carico dell'INPS.

Come ricordato da Sez. L, n. 05640/2021, Cavallaro, Rv. 660711-01, il datore di lavoro, maturate le condizioni per la spettanza degli assegni familiari, è gravato dall'obbligo di anticipazione della stessa ai propri dipendenti, salvo il diritto al conguaglio, per far luogo al quale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 11, 24 e 47 del d.P.R. n. 797 del 1955, non occorre alcun atto autorizzativo dell'Inps, ad eccezione delle ipotesi, espressamente previste dalla legge, in cui tali provvidenze siano state erogate per i figli, occupati quali apprendisti o che si trovino nella impossibilità assoluta e permanente di svolgere attività lavorativa, o per i genitori a carico, con la conseguenza che, al di fuori dalle ipotesi sopra richiamate, non può ritenersi indebito il conguaglio degli assegni familiari corrisposti al lavoratore effettuato dal datore senza l’autorizzazione dell'Inps.

7. Indennità di malattia e di maternità.

Secondo quanto chiarito da Sez. L, n. 19316/2021, Cavallaro, Rv. 661718-02, in tema di lavoro a tempo determinato, l'indennità economica di malattia non può essere corrisposta per periodi successivi alla cessazione del rapporto, ai sensi dell'art. 5, comma 2, del d.l. n. 463 del 1983, conv., con modif., dalla l. n. 638 del 1983, né tale disposizione è derogabile dalle parti private, non incidendo sul rapporto di lavoro bensì sul rapporto previdenziale, disciplinato, come il rapporto contributivo, da norme volte alla salvaguardia dell'integrità del bilancio pubblico.

Con specifico riferimento alle società derivanti dal processo di trasformazione dell'Enel, Sez. L, n. 31055/2021, Calafiore, Rv. 662660-01, ha ritenuto che le stesse sono obbligate al pagamento della contribuzione per maternità anche per il periodo anteriore al 1° gennaio 2009, nonostante il versamento diretto del trattamento dovuto alle lavoratrici madri, non essendo estensibile a tali contributi l'esonero previsto dall'art. 20 del d.l. n. 112 del 2020, conv., con modif., dalla l. n. 133 del 2008, con riferimento ai contributi per malattia, in favore dei datori di lavoro che abbiano corrisposto direttamente ai lavoratori la relativa indennità, atteso che per tali società l'obbligo di corresponsione dei contributi discende dai contratti collettivi, anziché dall'art. 1 del d.P.R. n. 145 del 1965, e nessuna deroga all'ordinaria obbligatorietà dei versamenti può essere fatta discendere dall'origine di tali soggetti, società di natura privata.

8. C.I.G. e indennità di mobilità.

La cassa integrazione guadagni costituisce una forma di assicurazione sociale a mezzo della quale il legislatore vuole garantire, in presenza di particolari vicende dell'impresa, un sostegno al reddito dei lavoratori, altrimenti irrimediabilmente compromesso.

Poiché l'istituto è preordinato, ai sensi dell'art. 38 Cost., ad eliminare la situazione di bisogno, socialmente rilevante, in cui si vengano a trovare i lavoratori in ipotesi in cui perdano in tutto o in parte il lavoro, sia al fine di non sottrarre all'intervento previdenziale la sua giustificazione sociale, sia a quello di evitare indebiti arricchimenti a scapito delle finanze dello Stato, analogamente che per altre fattispecie analoghe, quali l'indennità di disoccupazione e l'indennità di mobilità, operano in materia delle specifiche disposizioni normative che sono dirette a fissare i limiti entro cui i beneficiari di tali forme assistenziali possano svolgere attività di lavoro produttive di reddito

Per evitare il cumulo delle provvidenze economiche il legislatore ha previsto l'obbligo di comunicazione preventiva o della c.d. autocertificazione di cui al comma 5 dell'art. 8 del d.l. n. 86 del 1988, la cui ratio è quella di consentire all'Inps la tempestiva verifica della compatibilità tra l'integrazione salariale e la prestazione lavorativa che il lavoratore si appresta a svolgere.

Secondo Sez. L, n. 03116/2021, Cinque, Rv. 660348-01, tale disposizione, nel testo "ratione temporis" vigente, che individua le attività lavorative soggette a comunicazione preventiva (o ad autocertificazione in caso di personale di volo) all'INPS, va intesa nel suo significato più ampio, come riferentesi all'insieme di condotte umane caratterizzate dall'utilizzo di cognizioni tecniche, del più vario genere, senza che assuma alcun rilievo la loro effettiva remunerazione, rilevando la sola potenziale redditività, perché lo scopo della norma è quello di consentire all'Inps la verifica circa la compatibilità dell'attività da svolgere con il perdurare del lavoro presupposto dell'integrazione salariale, sicché va compresa tra le attività soggette ad obbligo anche l'attività preparatoria di addestramento dei piloti volta al conseguimento della licenza di volo.

Sempre in tema di cassa integrazione guadagni Sez. L, n. 16382/2021, Patti, Rv. 661510-01, in conformità ad un risalente principio già affermato da Sez. L. n. 05219/1987, Tondo, Rv. 453813-01, ha ribadito che anche se l'art. 3 della l. n. 464 del 1972, disponendo che il trattamento di integrazione salariale sostituisce l'indennità giornaliera di malattia, si riferisce soltanto alla cassa integrazione straordinaria, mentre analoga disposizione non è prevista per la cassa integrazione ordinaria, tuttavia, quando l'intervento ordinario della cassa si riferisce ad un'ipotesi di sospensione dell'attività produttiva, e non già di mera riduzione dell'orario lavorativo, sussiste una piena identità di "ratio", che consente di estendere a quest'ultima ipotesi la regola stabilita per la cassa integrazione straordinaria e cioè quella che il trattamento di integrazione salariale sostituisce l'indennità giornaliera di malattia, nonché l'eventuale integrazione contrattualmente prevista.

Nella stessa decisione, con altra massima Rv. 661510-02, conforme a Sez. L, n. 10057/1991, Farinaro, Rv. 474017-01, è stato riaffermato che il trattamento di cassa integrazione guadagni - sia ordinario che straordinario - non è escluso rispetto ai lavoratori assenti per malattia od infortunio con diritto alla conservazione del posto (art. 2110 c.c.), ma il loro credito, in deroga all'art. 2110 citato (che prevede la liberazione del datore di lavoro dalla obbligazione di corrispondere anche a tali lavoratori la retribuzione solo ove siano predisposte equivalenti forme previdenziali, con conseguente permanenza di un'obbligazione integrativa nel caso che forme siffatte diano luogo a trattamenti di minore entità rispetto al tetto massimo della retribuzione stessa), si riduce nei limiti del suddetto trattamento, con la conseguenza che la legittima ammissione alla cassa integrazione comporta il subingresso dell'ente erogatore delle relative prestazioni in tali obbligazioni del datore di lavoro (il quale rimane tenuto alle anticipazioni quale "adiectus solutionis causa"), previa corrispondente riduzione delle medesime, nel senso che quest'ultimo è tenuto ad anticipare anche ai menzionati lavoratori o l'intero trattamento di cassa integrazione o l'importo pari alla differenza fra questo e l'inferiore trattamento di natura previdenziale o assistenziale.

Come evidenziato da Sez. L, n. 11346/2021, D’Antonio, Rv. 661108-01, anche le società partecipate a prevalente capitale pubblico, aventi ad oggetto l'esercizio di attività industriali, sono tenute al pagamento dei contributi previsti per la cassa integrazione guadagni e la mobilità, non potendo trovare applicazione l'esenzione stabilita per le imprese industriali degli enti pubblici dall'art. 3 del d.l.c.p.s n. 869 del 1947, a società di natura essenzialmente privata, finalizzate all'erogazione di servizi al pubblico in regime di concorrenza, nelle quali l'amministrazione pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato, rilevando, ai fini di tale esclusione, la mera previsione statutaria che consente la partecipazione di azionariato privato, pur in presenza di una partecipazione maggioritaria, ma non totalitaria, da parte dell'ente pubblico.

9. Indennità di disoccupazione.

In difformità con il precedente orientamento affermato da Sez. L, n. 13959/2009, Napoletano, Rv. 608865-01, Sez. L, n. 17606/2021, Buffa, Rv. 661518-01, ha ritenuto che in caso di recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il periodo di preavviso non lavorato, per il quale sia corrisposta l'indennità sostitutiva del preavviso, sebbene il preavviso abbia natura obbligatoria ed il rapporto lavorativo cessi immediatamente, assume rilevanza in ambito previdenziale e va computato ai fini del raggiungimento del requisito dei due anni d'iscrizione nell'AGO contro la disoccupazione involontaria per la corresponsione dell'indennità ordinaria di disoccupazione, in quanto l'indennità corrisposta in tale periodo è assoggettata a contribuzione, che concorre a formare la base imponibile e pensionabile maturata durante il rapporto di lavoro.

La S.C. nell’affermare tale principio ha considerato da un lato che sull'indennità sostitutiva del preavviso viene pacificamente pagata la contribuzione, in quanto è uno degli emolumenti corrisposti dal datore di lavoro in relazione al rapporto di lavoro ai quali si correla l'obbligazione contributiva e, dall'altro lato, che tale indennità è reddito imponibile ai fini previdenziali e retribuzione pensionabile maturata durante il rapporto di lavoro sicché la liquidazione del trattamento pensionistico goduto tiene conto della somma ricevuta a titolo di indennità sostitutiva del preavviso erogatagli dal datore di lavoro all'atto della cessazione del rapporto di lavoro e dei relativi contributi.

Osserva la Corte che poiché l'indennità di disoccupazione è prestazione che ha natura previdenziale e non assistenziale, non essendo a carico della fiscalità generale, ma risultando correlata specificamente ad un montante contributivo (e ciò sia in ordine ai presupposti della maturazione, sia in ordine all'ammontare della prestazione), logica (sinallagmatica) vuole che il tempo coperto dal preavviso sia considerato utile anche ai fini del raggiungimento del periodo minimo di lavoro necessario per beneficiare del trattamento di disoccupazione, mentre, per converso, l'esclusione della rilevanza dei contributi pagati sull'indennità sostitutiva del preavviso contrasterebbe, con il generale principio della rilevanza dei contributi versati, che altrimenti si rileverebbero sterili.

In tema di indennità di disoccupazione agricola, la S.C. ha da tempo evidenziato che le prestazioni per la disoccupazione spettanti ai lavoratori agricoli hanno storicamente presentato almeno due profili di specificità rispetto a quelle previste per la restante parte dei lavoratori subordinati: da un lato, per le peculiari modalità di accertamento e riscossione, che ne fanno, più che una provvidenza per contrastare la disoccupazione involontaria, uno strumento d'integrazione del reddito per indennizzare la precarietà, la discontinuità o stagionalità dell'attività svolta in agricoltura (cfr. Sez. L, n. 21564/2017, Riverso, Rv. 645871-01), dall'altro lato, per la platea dei potenziali beneficiari, che - ben prima delle note modifiche nel regime dell'indennità ordinaria di disoccupazione - ha incluso anche i lavoratori autonomi tipici del settore agricolo, vale a dire i compartecipanti familiari, i piccoli coloni e i piccoli coltivatori diretti (cfr. art. 8, l. n. 334 del 1968).

Tali specificità hanno a loro volta dato luogo al problema della retribuzione sulla cui base commisurare i contributi e le prestazioni previdenziali spettanti ai lavoratori agricoli: e ciò non soltanto per la difficoltà di assumere quale base di calcolo retribuzioni che sono alquanto variabili nel corso dell'anno, ma altresì per l'impossibilità di configurare una "retribuzione" per i lavoratori autonomi, che pure sono beneficiari delle prestazioni di disoccupazione.

Su tale problema è intervenuto più volte il legislatore che per la determinazione dei contributi dovuti in favore dei lavoratori agricoli, ha inizialmente previsto il ricorso ad un sistema di determinazione "virtuale" delle retribuzioni, mediante decreti del Ministro del lavoro emanati sulla base delle retribuzioni risultanti dai contratti collettivi di lavoro stipulati per le suddette categorie di lavoratori dalla organizzazioni sindacali interessate (cfr. art. 28 del d.P.R. n. 488 del 1968); tale sistema fu dapprima modificato dall'art. 4 del d.lgs. n. 146 del 1997, con cui si previde che, a decorrere dal 1° gennaio 1998, il salario medio convenzionale determinato con decreto del Ministro del lavoro e rilevato nel 1995 restasse fermo, ai fini della contribuzione e delle prestazioni temporanee, fino a quando il suo importo per le singole qualifiche degli operai agricoli non venisse superato a quello spettante nelle singole province in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative e poi definitivamente abbandonato "per tutte le categorie di lavoratori agricoli a tempo determinato e indeterminato" dall'art. 01, commi 4-5, del d.l. n. 2 del 2006 stabilendo che a decorrere dal 1° gennaio 2006 la retribuzione imponibile per il calcolo dei contributi agricoli unificati, e ai fini del calcolo delle prestazioni temporanee previste in favore degli operai agricoli a tempo determinato, dovesse essere parametrata a quella di cui all'art. 1, comma 1, del d.l. n. 338 del 1989, conv. dalla l. n. 389 del 1989.

Successivamente, poiché il riferimento alla retribuzione prevista dai contratti collettivi, che pur costituendo una sicura base di riferimento per la determinazione sia della retribuzione imponibile che della retribuzione parametro "per tutte le categorie di lavoratori agricoli a tempo determinato e indeterminato", non è apparso un criterio congruo per la determinazione dei contributi e delle prestazioni nei riguardi dei lavoratori autonomi, l'art. 1, comma 785, della l. n. 296 del 2006, ha previsto che la disposizione dell'art. 01, comma 4, cit., dovesse interpretarsi nel senso che "per i soggetti di cui all'articolo 8 della legge 12 marzo 1968, n. 334, e per gli iscritti alla gestione dei coltivatori diretti, coloni e mezzadri continuano a trovare applicazione le disposizioni recate dall'articolo 28 del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488, e dall'articolo 7 della legge 2 agosto 1990, n. 233", facendo così salvo, per costoro, il precedente regime del calcolo dei contributi e delle prestazioni sulla base del salario medio convenzionale.

Sulla base di tale complesso quadro normativo, Sez. L, n. 40400/2021, Cavallaro, Rv 663193-01 ha ritenuto che, ai fini del calcolo delle prestazioni temporanee previste in favore degli operai agricoli a tempo determinato, non possa più farsi riferimento alla misura del salario medio convenzionale di cui all'art. 28 del d.P.R. n. 488 del 1968, in quanto tale criterio, per la categoria in questione, è stato sostituito con quello della retribuzione prevista dai contratti collettivi di cui all'art. 1, comma 1, del d.l. n. 338 del 1989, conv. con modif. dalla l. n. 389 del 1989, secondo quanto previsto dall'art. 01, commi 4-5, del d.l. n. 2 del 2006, conv. con modif. dalla l. n. 81 del 2006, e dell'art. 1, comma 55, della l. n. 247 del 2007, dovendosi escludere che il richiamo contenuto nell'art. 1, comma 785, della l. n. 296 del 2006, all'art. 8 della l. n. 334 del 1968, possa avere il significato di reintrodurre il precedente sistema del salario medio convenzionale come criterio generale valendo piuttosto a confermare che quel sistema è rimasto in vigore, soltanto per la determinazione della contribuzione e delle prestazioni relative ai lavoratori autonomi dell'agricoltura.

10. L’indebito previdenziale.

In tema di indebito previdenziale l’'art. 52, comma 2, della l. n. 88 del 1989 stabilisce che le somme erogate indebitamente a titolo previdenziale non sono ripetibili, se non in presenza di dolo dell'interessato.

L'art. 13, comma 1, della l. n. 412 del 1991, norma di interpretazione autentica ma dal contenuto innovativo (Corte cost. sentenza 10 febbraio 1993, n. 39), ha integrato tale regola, stabilendo che la ripetibilità di cui all'art. 52, comma 2, riguarda le somme indebitamente corrisposte per «errore di qualsiasi natura imputabile all'ente erogatore» e che la ripetibilità sussiste non solo in caso di comprovato dolo nella percezione, ma anche se l'errore sia dovuto ad «omessa od incompleta segnalazione da parte del pensionato» di fatti che egli fosse tenuto a comunicare, salvo risulti che l'ente fosse già a conoscenza di essi.

Dalla combinazione delle predette disposizioni ne deriva che l'indebito pensionistico I.N.P.S., per essere ripetibile, deve derivare da errore imputabile all'ente, oppure occorre che il percettore sia in dolo o abbia omesso la trasmissione di comunicazioni dovute rispetto a dati non noti all'I.N.P.S.

Secondo poi quanto stabilito dal comma 2 dello stesso art. 13, l'I.N.P.S. «procede annualmente alla verifica delle situazioni reddituali dei pensionati incidenti sulla misura o sul diritto alle prestazioni pensionistiche e provvede, entro l'anno successivo, al recupero di quanto eventualmente pagato in eccedenza».

In proposito si è già affermato il principio per cui «l'obbligo dell'I.N.P.S. di procedere annualmente alla verifica dei redditi dei pensionati, prevista dall'art. 13 della legge n. 412 del 1991 quale condizione per la ripetizione, entro l'anno successivo, dell'eventuale indebito previdenziale, sorge unicamente in presenza di dati reddituali certi, sicché il termine annuale di recupero non decorre sino a che il titolare non abbia comunicato un dato reddituale completo (Sez. 6-L, n. 18551/2017, Ghinoy, Rv. 645144-01), con l’ulteriore corollario che la questione attinente alle modifiche reddituali di cui l'ente previdenziale venga autonomamente a conoscenza in ragione della propria attività istituzionale o che siano ad esso regolarmente rese note dall'interessato, non appartiene in sé all'ambito degli errori I.N.P.S. e quindi alla sfera della non ripetibilità, soggiacendo invece alla regola di ripetibilità, ma in un termine decadenziale stabilito appunto dall'art. 13, comma 2, basato sulla considerazione per cui tra la percezione di una prestazione connessa al reddito e la verifica in merito al mantenersi dei redditi al di sotto della soglia che condiziona l'an o il quantum della prestazione stessa si manifesta una «fisiologica sfasatura temporale» data dai tempi tecnici affinché i dati disponibili all'Istituto siano «immessi nei circuiti delle verifiche contabili » (Corte cost. sentenza 24 maggio 1996 n. 166).

In applicazione di questi principi si è così ritenuto che l'art. 13, comma 2, della l. n. 412 del 1991, si interpreta nel senso che l'INPS deve procedere alla verifica nell'anno civile in cui ha avuto conoscibilità dei redditi maturati dal percettore di una data prestazione e che, entro l'anno civile successivo a quello destinato alla verifica, deve procedere, a pena di decadenza, al recupero dell'eventuale indebito (Sez. L, n. 03802/2019, Bellé, Rv. 652884-01), e che sempre l'art. 13, comma 2, nella parte in cui prevede che l'INPS provvede al recupero di quanto eventualmente pagato in eccedenza entro l'anno successivo, si interpreta nel senso che entro tale termine l'Istituto deve formalizzare la richiesta di restituzione dell'importo ritenuto indebito - "id. est.": iniziare il procedimento amministrativo di recupero portandolo a conoscenza del pensionato - e non già provvedere all'effettivo recupero dell'importo stesso (Sez. L, n. 13918/2021, Calafiore, Rv. 661297-01).

Quanto al dolo dell'assicurato, che consente l'incondizionata ripetibilità delle somme indebitamente corrisposte, Sez. L, n. 22081/2021, Mancino, Rv. 662087-01, nel ribadire che lo stesso è sempre configurabile in presenza di dichiarazioni non conformi al vero, di fatti e comportamenti dell'interessato positivamente indirizzati ad indurre in errore l'ente erogatore, ingenerando una rappresentazione alterata della realtà tale da incidere sulla determinazione volitiva di esso e, quindi, sull'attribuzione della prestazione, ha chiarito che non assume alcuna rilevanza se in via amministrativa l'ente previdenziale abbia adottato provvedimenti che ne presuppongono l'assenza, e quindi cassato la decisione di merito che aveva escluso il dolo dell'assicurato per il solo fatto che l'INPS, nel contestargli l'indebito, aveva operato la decurtazione di un quarto, in applicazione della sanatoria prevista dall'art. 38, comma 8, della l. n. 448 del 2001.

Sez. L, n. 10274/2021, Cavallaro, Rv. 661039-01, ha invece precisato che in caso di indebita percezione dell'indennità economica correlata ai permessi retribuiti ex art. 33 della l. n. 104 del 1992, non può trovare applicazione l'art. 52 della l. n. 88 del 1989 - secondo cui non si fa luogo al recupero delle somme corrisposte, salvo che l'indebita percezione sia dovuta a dolo dell'interessato -, in quanto tale disposizione riguarda esclusivamente le prestazioni pensionistiche, e non qualunque prestazione previdenziale, ed avendo natura di norma eccezionale è insuscettibile di interpretazione analogica.

  • assistenza sociale
  • assicurazione per invalidità
  • assistenza agli invalidi

CAPITOLO XXII

LE PRESTAZIONI ASSISTENZIALI

(di Milena d’Oriano )

Sommario

1 Le prestazioni assistenziali. - 2 L’invalidità civile. - 2.1 Le prestazioni di invalidità civile. - 3 Le prestazioni a beneficio delle vittime del dovere e di soggetti assimilati. - 4 Le prestazioni ai soggetti danneggiati da vaccinazioni o emotrasfusioni. - 5 Il rapporto speciale degli LSU. - 6 L’indebito assistenziale.

1. Le prestazioni assistenziali.

In ossequio al dettato costituzionale, le prestazioni assistenziali sono tese a fornire protezione a coloro che sono affetti da inabilità al lavoro, intesa come incapacità psico-fisica e culturale al lavoro, e da mancanza dei mezzi di sostentamento, in ragione del basso livello reddituale oltre una certa soglia predeterminata per legge; ai sensi dell’art. 38, 1° comma, Cost. la funzione dell’assistenza sociale è quella di assicurare il mantenimento e l'assistenza ai cittadini inabili e bisognosi, attraverso misure di sostegno finanziate esclusivamente dallo Stato

Le forme di assistenza sociale differiscono da quelle previdenziali per l'assenza del criterio organizzativo-mutualistico e per il finanziamento della spesa interamente posto a carico dello Stato, che vi provvede con le normali entrate fiscali; esse sono realizzate attraverso pubblici servizi - gestiti direttamente dallo Stato o da questi affidati a enti pubblici preesistenti o appositamente creati - che garantiscono prestazioni individuali ai singoli beneficiari, che vanno individuati nella generalità dei cittadini che si vengano a trovare nelle condizioni di cui al primo comma dell’art. 38 Cost.; per fruire delle prestazioni assistenziali non è necessaria alcuna iscrizione a gestioni previdenziali ma è lo Stato, a seconda della sua discrezionalità legislativa, a stanziare determinate somme del bilancio pubblico per i bisogni dei destinatari.

2. L’invalidità civile.

L'art. 38 Cost., comma 1, ha trovato applicazione nell’ordinamento positivo attraverso una serie di leggi ordinarie che riconoscono particolari benefici a carattere economico e non, ai soggetti che si trovano in condizioni fisiche tali da determinare uno stato di invalidità; l'invalidità in questione si definisce invalidità civile perché la sua esistenza non è legata al verificarsi di altra condizione che non quella strettamente fisica e le relative prestazioni vengono riconosciute a prescindere dallo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa, e pertanto, dalla sussistenza di un rapporto assicurativo con un ente previdenziale, differenziandosi per questo dalle prestazioni di invalidità previdenziale che invece necessitano dell'iscrizione e del versamento di contribuzione in un fondo pensione gestito dalla previdenza pubblica obbligatoria.

Anche il diritto alle prestazioni assistenziali dovute agli invalidi civili nasce sulla base della domanda amministrativa e dei presupposti normativamente previsti, trasmettendosi in via ereditaria in caso di morte dell'assistibile antecedente all'accertamento del diritto; per Sez. L, n. 02166/2021, Calafiore, Rv. 660353-01, da ciò ne consegue che, in caso di mancato riconoscimento della prestazione in via amministrativa, gli eredi possono agire in giudizio senza necessità di presentare una nuova istanza alla P.A., restando irrilevante che l'art. 1, comma 8, del d.P.R. n. 698 del 1994 preveda, in caso di morte del richiedente, che gli eredi sottopongano alle commissioni mediche istanza di definizione del procedimento, trattandosi di disciplina che, lungi dall'introdurre una nuova condizione di proponibilità della domanda giudiziaria, esaurisce i propri effetti nell'ambito del procedimento amministrativo.

Sez. L, n. 09235/2021, D’Antonio, Rv. 661097-01 ha quindi ricordato che nelle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatoria, le collegiali mediche sono prive, ai sensi dell'art. 147, comma 1, disp. att. c.p.c., di qualsiasi efficacia vincolante, sostanziale e processuale, dovendosi ritenere, anche alla luce dell'art. 1 della l. n. 295 del 1990 (nel testo applicabile "ratione temporis"), la natura non provvedimentale degli accertamenti sanitari, in quanto strumentali e preordinati all'adozione del provvedimento di attribuzione della prestazione, in corrispondenza di funzioni di certazione assegnate alle indicate commissioni.

Dal luglio 2011 il legislatore, al dichiarato scopo di deflazionare e accelerare il contenzioso in materia previdenziale e assistenziale, ha inserito nel codice di procedura civile l’art. 445 bis rubricato «Accertamento tecnico preventivo obbligatorio»; in virtù di tale disposizione chi intende agire in giudizio per il riconoscimento dei propri diritti «in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, disciplinati dalla legge 12 giugno 1984, n. 222», deve preliminarmente proporre con ricorso al tribunale competente «istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere»

Sez. L, n. 24953/2021, Calafiore, Rv. 662268-01, ha affermato che in tema di accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c., l'interesse ad agire per il riconoscimento della condizione di portatore di handicap grave, di cui all'art. 3, comma 3, della l. n. 104 del 1992, sussiste indipendentemente dalla specificazione di un determinato beneficio, in quanto la predetta condizione assume un pieno rilievo giuridico, essendo tutelata dall'ordinamento in funzione del successivo riconoscimento di molteplici misure finalizzate a rimuovere le singole situazioni di discriminazione dalla stessa generate, mentre per Sez. 6-L, n. 14629/2021, Ponterio, Rv. 661287-01, l'ammissibilità di tale procedura presuppone, come proiezione dell'interesse ad agire ai sensi dell'art. 100 c.p.c., che l'accertamento medico-legale, richiesto in vista di una prestazione previdenziale o assistenziale, risponda ad una concreta utilità per il ricorrente - la quale potrebbe difettare ove siano manifestamente carenti, con valutazione "prima facie", altri presupposti della predetta prestazione -, al fine di evitare il rischio della proliferazione smodata del contenzioso sull'accertamento del requisito sanitario, interesse ad agire che va pertanto escluso per un soggetto carente del requisito anagrafico per fruire dell'assegno mensile di invalidità.

Sempre in tema di accertamento tecnico preventivo ex art. 445 bis c.p.c., Sez. L, n. 22089/2021, Mancino, Rv. 662027-01, ha precisato che la decorrenza del termine di 120 giorni posto dal comma 5, seconda parte, per il pagamento della prestazione all'esito dell'omologa del requisito sanitario, postula l'esigibile collaborazione dell'assistito, mediante il sollecito inoltro all'ente previdenziale, nelle forme da quest'ultimo previste, delle informazioni aggiornate concernenti gli altri requisiti del diritto alla prestazione richiesta, sicché, prima del compimento degli adempimenti incombenti sull'assistito, va esclusa la responsabilità dell'Inps per l'eventuale ritardo nell'erogazione della prestazione.

2.1. Le prestazioni di invalidità civile.

Altre pronunce fanno riferimento alle singole prestazioni di invalidità civile.

Secondo Sez. L, n. 23899/2021, Cavallaro, Rv. 662121-01, la legittimazione passiva rispetto alle domande di esenzione dalla quota di partecipazione alla spesa sanitaria (c.d. "ticket") appartiene in via esclusiva alle ASL, essendo esse gli organi, con personalità giuridica, attraverso cui gli enti territoriali competenti assicurano l'assistenza sanitaria; il difetto di legittimazione passiva (nella specie, dell'INPS) può essere rilevato d'ufficio dal giudice, se risulta dagli atti di causa, in ogni stato e grado del giudizio.

Nelle cause aventi per oggetto l'accertamento del diritto al rimborso dei costi per ricoveri e cure mediche e la condanna del soggetto ad esso obbligato, la legittimazione passiva non spetta, invece, al Ministero della salute, ma alla Regione, nella qualità di ente che provvede ad assicurare i livelli essenziali di assistenza attraverso le unità sanitarie locali e le aziende ospedaliere di cui agli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 502 del 1992, quali articolazioni territoriali del servizio sanitario nazionale finanziato dalla generalità dei cittadini, in applicazione della l. n. 833 del 1978, che prevede la erogazione gratuita delle prestazioni a tutti i cittadini entro livelli di assistenza uniformi definiti con il piano sanitario nazionale. (Sez. L, n. 06920/2021 Calafiore, Rv. 660862-01).

In tema di assegno di invalidità, previsto dall'art. 13 della l. n. 118 del 1971, nel caso in cui gli elementi costitutivi per il riconoscimento di tale prestazione siano maturati prima del compimento del sessantacinquesimo anno di età e la relativa domanda amministrativa sia stata proposta prima di tale data, la sostituzione di tale prestazione con l'assegno sociale opera dal primo giorno del mese successivo a quello di compimento del sessantacinquesimo anno, anche se si debba corrispondere direttamente l'assegno sociale; sussiste, pertanto, un interesse all'accertamento del superamento della soglia invalidante, seppure ciò comporti che non venga pagato neanche un rateo dell'assegno di invalidità. (Sez. 6-L, n. 37273/2021, Bellé, Rv. 663152-01).

Sez. 6-L, n. 28141/2021, Buffa, Rv. 662533-01, in conformità a Sez. L, n. 23763/2018, Riverso, Rv. 650547-01, ha ribadito che lo straniero, legalmente soggiornante nel territorio dello Stato da tempo apprezzabile e in modo non episodico, a prescindere dal superamento del limite temporale quinquennale che condiziona il rilascio della carta di soggiorno, ha diritto alla pensione di invalidità civile, ove in possesso degli ulteriori requisiti di legge, rientrando tale prestazione tra le provvidenze destinate al sostentamento della persona, nonché alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui il disabile è inserito, che, alla luce della giurisprudenza costituzionale che ha espunto l'ulteriore condizione della necessità della carta di soggiorno, devono essere erogate senza alcuna discriminazione tra cittadini e stranieri che hanno titolo alla permanenza nel territorio dello Stato, pena la violazione del principio di non discriminazione sancito dall'art. 14 CEDU.

In tema di pensione di inabilità di cui all'art. 12 della l. n. 118 del 1971, Sez. L, n. 09238/2021, Cavallaro, Rv. 661098-01, ricorda che il requisito reddituale previsto per la sua attribuzione deve essere accertato con riferimento all'anno di decorrenza della prestazione, tenendo conto non solo del reddito personale percepito dall'invalido ma anche di quello eventuale del coniuge fino alla data di entrata in vigore dell'art. 10, commi 5 e 6, del d.l. n. 76 del 2013 (conv. con modif. dalla l. n. 99 del 2013), poiché, a decorrere da tale data, la disposizione da ultimo indicata ha attribuito rilievo, ai fini del riconoscimento del diritto alla prestazione assistenziale, al solo reddito del soggetto interessato, con esclusione di quello percepito da altri componenti del nucleo familiare; analogamente Sez. 6-L, n. 02517/2021, De Felice, Rv. 660258-01, ha specificato che l'art. 10, comma 5, del d.l. n. 76 del 2013, conv. con modif. dalla l. n. 99 del 2013, secondo cui assume rilievo il solo reddito personale dell'invalido e non più quello degli altri componenti il nucleo familiare, trova applicazione, ai sensi del comma 6 dello stesso articolo, anche alle domande amministrative già presentate ed ai procedimenti giurisdizionali non conclusi con sentenza definitiva alla data della sua entrata in vigore, limitatamente al riconoscimento del diritto alla pensione e con esclusione del pagamento di importi arretrati, sicché, in tali casi, l'erogazione della prestazione spetterà sulla base del reddito personale dal 28 giugno 2013 in poi e sulla base del reddito familiare per il periodo antecedente.

Quanto all’indennità di frequenza in favore dei minori di diciotto anni che si trovino nelle condizioni stabilite dalla l. n. 289 del 1990, Sez. 6-L, n. 10628/2021 Marchese, Rv. 661125-01, ha affermato che la prestazione va erogata con decorrenza dal periodo successivo alla presentazione della domanda amministrativa, a prescindere dal momento di maturazione del diritto al beneficio - che coincide con quello in cui si perfezionano tutti i requisiti costitutivi dello stesso -, poiché, pur in assenza di una espressa previsione in tal senso, opera in materia una regola insita nel sistema delle prestazioni previdenziali ed assistenziali.

Poiché l'equiparazione dell'indennità di accompagnamento goduta dai ciechi civili assoluti a quella prevista per i grandi invalidi di guerra investe esclusivamente la misura dell'indennità stessa e le relative modalità di adeguamento automatico, e non comporta l'estensione ai primi dell'intero complesso delle misure di assistenza predisposte a favore dei secondi, Sez. L, n. 02664/2021, D’Antonio, Rv. 660337-01, ha ritenuto che tale differenziazione non realizzi una ingiustificata disparità di trattamento, in considerazione della diversità dei presupposti che sono alla base del fatto invalidante, scaturente, in quest'ultimo caso, da eventi bellici, che comportano anche un elemento risarcitorio, estraneo all'ipotesi della invalidità civile e che, ai fini della determinazione di tale indennità, deve applicarsi la tabella E, lett. A), n. 1, allegata alla l. n. 656 del 1986, relativa all'indennità di accompagnamento prevista per le persone affette da cecità bilaterale assoluta per causa di guerra, stante il testuale richiamo contenuto nell'art. 1 della l. n. 429 del 1991 e nell'art. 2, comma 2, della l. n. 508 del 1988. (Rv. 660337-02).

3. Le prestazioni a beneficio delle vittime del dovere e di soggetti assimilati.

Sono molteplici le speciali elargizioni previste a favore di dipendenti pubblici o di cittadini che siano rimasti vittime del dovere o di azioni terroristiche, che, introdotte dalla l. 27 ottobre 1973 n. 629, sono state implementate dalla l. 13 agosto 1980 n. 466 ed estese a fenomeni analoghi quali la criminalità organizzata e di stampo mafioso o le richieste estorsive e di usura.

In tema di domanda per il riconoscimento dei benefici previsti dalla l. n. 302 del 1990 in favore delle vittime della criminalità mafiosa, Sez. L, n. 31116/2021, De Felice, Rv. 662873-01 ha chiarito che il termine di decadenza di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione del soggetto inizialmente accusato del fatto, previsto dall'art. 6 della l. n. 302 del 1990, come modificato dalla l. n. 47 del 1998, si applica anche alle domande di indennizzo per i fatti antecedenti al 1° gennaio 1969, dovendosi così interpretare il disposto dell'art. 1, comma 3, della l. n. 407 del 1998 (che ha soppresso il secondo periodo dell'art. 12, comma 2, della l. n. 302 del 1990 che prevedeva che per gli eventi verificatisi successivamente al 1° gennaio 1969 la decadenza maturasse dopo due anni dall'accadimento) e dell'art. 3, comma 2, lett. a) della medesima legge (che ha sostituito il comma 1 dell'art. 12 della l. n. 302 cit. prevedendo che i benefici previsti dalla legge si applicano alle vittime del dovere e ai superstiti per gli eventi verificatisi dopo il 1° gennaio 1969), secondo un'esegesi coerente con la volontà del legislatore che con la riforma del 1998 ha inteso assicurare parità di trattamento tra categorie di beneficiari, oltre che mediante l'ampliamento degli aventi diritto, anche attraverso l'estensione del nuovo termine di decadenza agli eventi occorsi tra il 1969 e la data di entrata in vigore della nuova disciplina

In applicazione del principio secondo cui l'art. 4 della l. n. 466 del 1980 - che estende le elargizioni a favore delle vittime del dovere a "qualsiasi persona che, legalmente richiesta, presti assistenza ad ufficiali e agenti di polizia giudiziaria o ad autorità, ufficiali e agenti di pubblica sicurezza" - riconosce il beneficio sia a colui che abbia ricevuto una specifica richiesta di assistenza nell'immediatezza d'una situazione di pericolo, sia al soggetto che è tenuto a prestare un obbligo qualificato di soccorso, avente fondamento nelle competenze attribuite, in via generale, dalla legge e distinto dal generico dovere di soccorso che opera per il comune cittadino, Sez. L, n. 30902/2021, Buffa, Rv. 662659-01, ha confermato la decisione di merito che aveva riconosciuto le elargizioni in favore dei familiari di un caposquadra del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico, deceduto prestando assistenza, non richiesta da un agente o ufficiale di polizia giudiziaria, a un compagno di cordata, perché, pur essendo il C.N.S.A.S. un'associazione di volontariato, lo stesso costituisce struttura operativa del Servizio Nazionale della Protezione Civile e ha tra le sue precipue finalità il soccorso alle persone in imminente pericolo di vita, come espressamente previsto dall'art. 1, comma 2, della l. n. 74 del 2001.

Il beneficio previdenziale spettante, ai sensi dell'art. 1, comma 563, lett. c) ed e), della l. n. 266 del 2005, alle vittime del dovere che abbiano subito un'invalidità permanente in conseguenza di lesioni riportate a seguito di eventi verificatisi nel corso di attività di vigilanza ad infrastrutture civili e militari ed a tutela della pubblica incolumità, non compete, invece, al collaboratore scolastico con compiti di custodia e sorveglianza generica sui locali della scuola, la cui attività non è ordinariamente connotata da una speciale pericolosità e dall'assunzione di rischi qualificati rispetto a quelli propri della generalità dei pubblici dipendenti. (Sez. L, n. 29204/2021, Cavallaro, Rv. 662580-01), né al vigile del fuoco per i postumi dell'infarto occorsogli durante le operazioni di spegnimento di un piccolo fuoco posto a lato di una strada, in assenza di persone, non ricorrendo il presupposto del pericolo per la pubblica incolumità, sulla base della distinzione – di matrice penalistica – tra "fuoco" e "incendio", quest’ultimo configurabile solo allorquando il fuoco divampi in vaste proporzioni, con fiamme che si propaghino con potenza distruttrice, così da porre in pericolo l'incolumità di un numero indeterminato di persone (Sez. L, n. 06313/2021, Buffa, Rv. 660714-01)

Sempre in tema di benefici in favore delle vittime del dovere, Sez. L, n. 03824/2021, Spena, Rv. 660612-01 ha ritenuto che le provvidenze a carattere continuativo di cui agli artt. 2, comma 1, della l. n. 407 del 1998, e 5, comma 3, della l. n. 206 del 2004, sono cumulabili con la pensione privilegiata, perché le leggi citate non disciplinano il concorso delle provvidenze in questione con altri benefici, né opera in materia la previsione di incumulabilità ex art. 13 della l. n. 302 del 1990, che riguarda solo gli assegni vitalizi e le elargizioni previste da quest'ultima legge.

Per Sez. L, n. 25402/2021, Cavallaro, Rv. 662270-01, anche alle vittime del terrorismo ex l. n. 302 del 1990 vanno riconosciuti i benefici di cui alla l. n. 206 del 2004, la quale non delimita soggettivamente una speciale categoria di "vittime del terrorismo", ma estende i predetti benefici anche ai soggetti che siano rimasti vittime di azioni criminose compiute sul territorio nazionale in via ripetitiva e poste in essere in luoghi pubblici o aperti al pubblico, sul presupposto che anche i soggetti in questione si trovino nella medesima condizione di meritevolezza delle altre vittime del terrorismo di cui alla citata l. n. 302 del 1990.

Sempre in materia di trattamenti previdenziali ed assistenziali in favore delle vittime di atti terroristici, Sez. L, n. 11342/2021, Spena, Rv. 661107-01 ha precisato che il rateo di pensione spettante ai soggetti che abbiano proseguito l'attività lavorativa, in presenza delle condizioni di cui all'art. 4, comma 2-bis, della l. n. 206 del 2004, va rideterminato, a decorrere dal gennaio 2007, secondo le previsioni di cui all'art. 2, comma l, della stessa legge, come modificato dal d.l. n. 296 del 2006, conv. con modif., dalla l. n. 222 del 2007, sulla base di una retribuzione pensionabile calcolata in misura pari all'ultima retribuzione integralmente percepita, aumentata del 7,5%, senza che possa trovare applicazione la più limitata rivalutazione automatica della retribuzione riconosciuta nel sistema generale dall'art. 3 della l. n. 297 del 1982.

4. Le prestazioni ai soggetti danneggiati da vaccinazioni o emotrasfusioni.

Tema quanto mai attuale nel contesto pandemico, quello della riconoscibilità dell’indennizzo previsto dalla l. 25 febbraio 1992, n. 210 anche in caso di danni irreversibili conseguenti a vaccinazioni solo raccomandate e non obbligatorie.

La Consulta, nella sentenza n. 118 del 2020, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della l. n. 210 del 1992 nella parte in cui non prevede il diritto a un indennizzo, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla medesima legge, a favore di chiunque abbia riportato lesioni o infermità, da cui sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, a causa della vaccinazione contro il contagio dal virus dell’epatite A, raccomandata e non obbligatoria, ha evidenziato che “In presenza di una effettiva campagna a favore di un determinato trattamento vaccinale, è naturale che si sviluppi negli individui un affidamento nei confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie: e ciò di per sé rende la scelta individuale di aderire alla raccomandazione obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell’interesse collettivo, al di là delle particolari motivazioni che muovono i singoli.”.

La Corte cost. ha ripetutamente affermato che la necessaria traslazione in capo alla collettività anche degli effetti dannosi che eventualmente conseguano ad una vaccinazione raccomandata si giustifica perché la ragione che fonda il diritto all’indennizzo del singolo, non risiede nel fatto che questi si sia sottoposto a un trattamento obbligatorio, ma piuttosto sul necessario adempimento, che si impone alla collettività, di un dovere di solidarietà, laddove le conseguenze negative per l’integrità psico-fisica derivino da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato che sia) effettuato nell’interesse della collettività stessa, oltre che in quello individuale.

Sono le esigenze di solidarietà costituzionalmente previste, oltre che la tutela del diritto alla salute del singolo, a richiedere che sia la collettività ad accollarsi l’onere del pregiudizio da questi subìto, mentre sarebbe ingiusto consentire che l’individuo danneggiato sopporti il costo del beneficio anche collettivo, laddove la previsione del diritto all’indennizzo – in conseguenza di patologie in rapporto causale sia con una vaccinazione obbligatoria che raccomandata – non deriva da valutazioni negative sul grado di affidabilità medico-scientifica della somministrazione di vaccini, ma ha la funzione di completare il “patto di solidarietà” tra individuo e collettività in tema di tutela della salute, e rende più serio e affidabile ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali, al fine della più ampia copertura della popolazione.

In attuazione di tale importante decisione del Giudice delle leggi, Sez. L, n. 07354/2021, D’Antonio, Rv. 660843-01 ha riconosciuto il diritto all'indennizzo ex art. 1, comma 1, della l. n. 210 del 1992, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla medesima legge, anche ai soggetti danneggiati dalla vaccinazione, non obbligatoria ma raccomandata, contro il contagio dal virus dell'epatite A, che abbiano riportato lesioni o infermità da cui sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica.

Sempre in tema di danni da vaccinazione, Sez. L, n. 02474/2021, Calafiore, Rv. 660336-01, ha evidenziato che ai fini dell'ottenimento dell'indennizzo previsto dalla l. n. 210 del 1992, la sussistenza del nesso causale tra la somministrazione vaccinale e il verificarsi del danno alla salute deve essere valutata secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica ispirato al principio del "più probabile che non", da ancorarsi non esclusivamente alla determinazione quantitativo-statistica delle frequenze di classe di eventi (cd. probabilità quantitativa), ma riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica), ed ha quindi confermato la decisione di merito che aveva rigettato la domanda di indennizzo avanzata dai genitori di una minore, invalida al 100%, sul presupposto che la c.t.u. svolta in grado d'appello aveva consentito di instaurare una relazione di mera possibilità - e non già di rilevante probabilità scientifica – tra le gravi patologie occorse alla minore e le vaccinazioni cui la stessa era stata precedentemente sottoposta.

Quanto all’indennizzo spettante ai soggetti danneggiati da emotrasfusioni infette, Sez. L, n. 09239/2021, Buffa, Rv. 660870-01, ribadito il principio per cui il termine triennale per la presentazione dell'istanza in sede amministrativa non può decorrere prima che l'avente diritto abbia avuto conoscenza del fatto lesivo, trova applicazione anche con riferimento agli eventi dannosi verificatisi prima dell'entrata in vigore della l. n. 210 del 1992, con decorrenza dall'entrata in vigore della legge solo se alla medesima data il soggetto abbia già avuto conoscenza non solo della patologia ma anche della relativa eziologia, ha cassato la decisione di merito che aveva respinto la richiesta di indennizzo per intervenuta decadenza in base alla data di conoscenza della patologia, senza considerare che l'assistita solo in epoca successiva e per effetto di un accertamento medico aveva appreso che la malattia derivava da una emotrasfusione subita in passato.

5. Il rapporto speciale degli LSU.

La S.C. ha da tempo affermato che l'occupazione temporanea in lavori socialmente utili non integra un rapporto di lavoro subordinato in quanto, ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. n. 468 del 1997, l'utilizzazione avviene nell'ambito di un rapporto speciale, che ha matrice assistenziale e coinvolge più soggetti, ossia il lavoratore, l'amministrazione pubblica beneficiaria della prestazione e l'ente previdenziale erogatore dell'assegno (vedi Sez. L, n. 06180/2016, Amendola F., Rv. 639161-01; da tale qualificazione Sez. L, n. 11768/2021, Di Paolantonio, Rv. 661115-01, ne ha desunto che in tema di trattamento economico dei lavoratori socialmente utili l'importo integrativo corrisposto dall'utilizzatore ex art. 8 del d.lgs. n. 468 del 1997, nei casi in cui l'impegno ecceda l'orario settimanale previsto dallo stesso decreto, non ha carattere retributivo, con la conseguenza che nella base di calcolo del suo ammontare, fissato dal legislatore e sottratto alla determinazione ad opera delle parti del rapporto, non si può tenere conto di emolumenti tipici della prestazione subordinata corrisposti annualmente, seppure in proporzione ai mesi lavorati ed in applicazione di tale principio ha confermato la decisione di merito che aveva escluso dal calcolo del compenso integrativo, dovuto ad LSU occupati presso una Università siciliana, i ratei mensili di tredicesima mensilità e indennità di ateneo spettanti a dipendenti addetti ad analoghe mansioni.

6. L’indebito assistenziale.

Tema da sempre delicato quello dell’indebito assistenziale ove l'applicazione, in luogo della generale ed incondizionata regola civilistica della ripetibilità di cui all'art. 2033 c.c., di quella propria di tale sottosistema che, in armonia con l'art. 38 Cost., esclude la ripetizione, quando vi sia una situazione idonea a generare affidamento del percettore e la erogazione indebita non gli sia addebitabile, è stata esclusa da Sez. 6-L, n. 24133/2021, De Felice, Rv. 662179-01, nell'ipotesi in cui la ripetizione dell'indebito sia coperta da giudicato, in conseguenza della riforma del titolo esecutivo in base al quale le somme erano state percepite, confermando la ripetibilità dei ratei dell'indennità di accompagnamento, percepiti all'esito del giudizio di primo grado, divenuti indebiti per il passaggio in giudicato della sentenza di appello che aveva riconosciuto all'assistita la sola pensione di inabilità.

Secondo Sez. L, n. 13915/2021, Calafiore, Rv. 661296-01, la disciplina della ripetibilità delle prestazioni economiche corrisposte agli invalidi civili - quale la maggiorazione della pensione sociale prevista dall'art. 38 della l. n. 448 del 2001 - indebitamente erogate va ricercata nella normativa appositamente dettata in materia, non potendo trovare applicazione in via analogica le regole dettate con riferimento alle pensioni o ad altri trattamenti previdenziali, le quali non possono interpretarsi neppure estensivamente, in quanto derogano alla previsione generale di cui all'art. 2033 c.c.; ne consegue che i ratei indebitamente erogati per mancanza del requisito reddituale vanno restituiti - trovando applicazione l'art. 3-ter del d.l. n. 850 del 1976, conv., con modif., dalla l. n. 29 del 1977, e l'art. 3, comma 9, del d.l. n. 173 del 1988, conv., con modif., dalla l. n. 291 del 1988 - a partire dalla data del provvedimento che accerta che la prestazione assistenziale non era dovuta, salvo che l'erogazione indebita sia addebitabile al percipiente e non sussistano le condizioni di un legittimo affidamento.

Sempre in materia di prestazioni assistenziali indebite, Sez. 6-L, n. 04600/2021, Ponterio, Rv. 660639-01, ha affermato che nell'ipotesi di erogazione dell'indennità di accompagnamento in difetto "ab origine" di tutti i requisiti, trova applicazione non già la speciale disciplina dell'indebito previdenziale, bensì quella ordinaria dell'indebito civile di cui all'art. 2033 c.c., ed ha quindi ritenuto ripetibili, secondo l'ordinaria disciplina civilistica, i ratei dell'indennità di accompagnamento erogati sulla base di un errore, compiuto nel decreto prefettizio, noto alla richiedente, a cui era stato tempestivamente comunicato dalla commissione medica il verbale attestante il mancato riconoscimento dei requisiti necessari per il conseguimento del beneficio.

  • assicurazione
  • assicurazione infortuni sul lavoro
  • assicurazione per invalidità
  • infortunio sul lavoro

CAPITOLO XXIII

LA TUTELA INAIL

(di Milena d’Oriano )

Sommario

1 L’ambito di applicazione: la selettività soggettiva ed oggettiva. - 2 I contributi assicurativi INAIL. - 3 L’infortunio sul lavoro. - 4 L’azione di regresso. - 5 Le regole processuali specifiche.

1. L’ambito di applicazione: la selettività soggettiva ed oggettiva.

L’assicurazione obbligatoria gestita dall’INAIL trova il suo fondamento nell’art. 38 della Cost. con la finalità di garantire al lavoratore che si infortuni sul lavoro, o che abbia contratto una malattia professionale, un sostegno adeguato di tipo economico e sanitario per liberarlo dal bisogno in un momento in cui è impossibilitato a rendere la prestazione lavorativa.

Il sistema pubblico dell’assicurazione INAIL non garantisce tuttavia una protezione globale e capillare per tutti i lavoratori, per tutti gli eventi dannosi, per tutti i danni, e, nonostante gli ampliamenti dell’ambito applicativo iniziale, determinati da interventi legislativi e giurisprudenziali, sia costituzionali che di legittimità, la tutela resta di tipo selettivo.

La selezione opera sul piano soggettivo, in quanto l’assicurazione sociale è riconosciuta solo a determinate categorie di lavoratori, e sul piano oggettivo, sia perché è limitata a determinate attività ritenute protette o pericolose, sia perché garantisce la copertura di limitate voci di danno rispetto a quelle potenzialmente risarcibili in ambito civilistico.

Con riferimento all’ambito soggettivo della tutela, Sez. L, n. 31137/2021, Patti, Rv. 662678-01, confermando la decisione di merito che aveva escluso che il raccomandatario marittimo rispondesse nei confronti del lavoratore, come il datore di lavoro, del risarcimento del danno ex art. 2087 c.c., ha chiarito che i lavoratori italiani ingaggiati da raccomandatario marittimo italiano per l'imbarco su navi di nazionalità straniera - soggetti alla disciplina di cui all'art. 4 della l. n. 135 del 1977 -, hanno diritto ad una tutela assicurativa, contro le malattie e gli infortuni, non inferiore a quella obbligatoria secondo la legge italiana - ancorché possano essere assicurati presso enti o società di assicurazione, italiani o stranieri - nonché ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello stabilito dai principi fondamentali, anche in materia di retribuzione, contenuti nei vigenti contratti collettivi di lavoro nazionali, seppure non applicabili direttamente al rapporto di lavoro.

Quanto al piano oggettivo delle voci di danno oggetto di tutela Sez. L, n. 08956/2021, Calafiore, Rv. 661037-01, ha invece escluso che al lavoratore vittima di infortunio o malattia professionale spetti l’indennità giornaliera per l'inabilità temporanea parziale, facendo riferimento gli artt. 66 e 68 del d.P.R. n. 1124 del 1965 (anche dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 38 del 2000) alla sola inabilità temporanea assoluta "che impedisca totalmente e di fatto all'infortunato di attendere al lavoro".

Sez. L, n. 23896/2021, Cavallaro, Rv. 662153-01, nell’affrontare il tema della liquidazione del danno biologico, nel regime di cui all'art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, ha quindi evidenziato che le tabelle delle menomazioni, ove consentano di individuare la percentuale del danno in relazione ad un intervallo di valori o facendo uso di locuzioni similari, consentono l'adeguamento della stima del danno alla realtà del caso clinico; viceversa, ove determinino una percentuale fissa, senza il ricorrere di locuzioni, quali "superiore a" ovvero "fino a", il valore ivi indicato non è modificabile, e dando applicazione a tale principio ha cassato la pronuncia di merito che aveva recepito le conclusioni del c.t.u. il quale, pur reputando di quantificare il danno residuo secondo una voce tabellare che indicava un valore fisso, aveva operato una riduzione della percentuale.

2. I contributi assicurativi INAIL.

Sulla questione della classificazione delle imprese ai fini del versamento dei premi assicurativi INAIL, Sez. L, n. 06081/2021, Mancino, Rv. 660807-01 ha chiarito che, ai sensi del d.m. 12 dicembre 2000, gli effetti dei provvedimenti di variazione disposti d'ufficio, tanto in vista della modifica della classificazione quanto ai fini della rettifica della tassazione errata, trovano applicazione, salvo che il datore di lavoro abbia dato causa all'errata classificazione, dal primo giorno del mese successivo alla comunicazione dell'INAIL, in nome del principio di irretroattività della legge affermato, in via generale, dall'art. 11 delle disp. prel. c.c. e ribadito, nella materia in esame, dall'art. 3, comma 8, della l. n. 335 del 1995, nonché dagli artt. 14 e 16 del decreto citato.

In riferimento ai medici specializzandi, legati da contratto di formazione specialistica con l'Università, Sez. L, n. 00443/2021, Calafiore, Rv. 660263-01, ha precisato che l'obbligo di copertura assicurativa grava, ai sensi dell'art. 41, comma 3, del d.lgs. n. 368 del 1999, "ratione temporis" vigente, sull'azienda sanitaria, quale soggetto titolare dell'organizzazione produttiva presso cui viene espletata l'attività formativa sottesa al rischio assicurato, in funzione dell'equiparazione della tutela rispetto al personale sanitario dipendente, e deve essere assolto presso l'INAIL, inscrivendosi nello schema tipico delle assicurazioni sociali di cui all'art. 38 Cost., che non si limitano a realizzare la semplice traslazione del rischio, ma hanno la finalità pubblicistica di garantire ai cittadini presi in considerazione dalla norma, al verificarsi delle condizioni in essa previste, i mezzi adeguati alle loro esigenze di vita.

Questione peculiare quella decisa da Sez. L, n. 31484/2021, Mancino, Rv. 662716-01, secondo cui in tema di contributi economici a carico dell'INAIL per l'abbattimento delle barriere architettoniche nel contesto domestico, in favore dei soggetti affetti da disabilità di origine lavorativa, l'abitualità della dimora del lavoratore, richiesta dall'art. 37 del reg. INAIL n. 23 del 2007, assurge ad elemento costitutivo del diritto alla prestazione in quanto la "ratio" della previsione risiede proprio nell'agevolare la rimozione dei disagi ambientali patiti negli spazi di vita abituali e familiari del lavoratore.

3. L’infortunio sul lavoro.

Secondo una giurisprudenza da tempo consolidata vanno ricondotte ad “occasione di lavoro”, rilevante ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio sul lavoro, tutte le circostanze e le modalità in cui il lavoro si svolge, per cui il lavoro è occasione del fatto quando consente alla causa violenta di operare.

Nelle applicazioni pratiche viene utilizzato un concetto ampio di occasione di lavoro, facendo riferimento a situazioni ed attività distinte dalla prestazione di lavoro in senso stretto, ma con essa strettamente connessa, che include tutti i fatti, anche straordinari ed imprevedibili, inerenti all'ambiente, alle macchine, alle persone, al comportamento colposo dello stesso lavoratore, purché attinenti alle condizioni di svolgimento della prestazione, ivi compresi gli spostamenti spaziali funzionali allo svolgimento della prestazione, con l'unico limite del rischio elettivo, inteso come tutto ciò che sia estraneo e non riguardante l’attività lavorativa e dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore. (Sez. L, n. 17917/2017, Riverso, Rv. 645001-01); come precisato da Sez. L, n. 02838/2018, D’Antonio, Rv. 647402-01, l'occasione di lavoro di cui all'art. 2 del d.P.R. n. 1124 del 1965 non prevede necessariamente che l'infortunio avvenga durante lo svolgimento delle mansioni lavorative tipiche in ragione delle quali è stabilito l'obbligo assicurativo, essendo indennizzabile anche l'infortunio determinatosi nell'espletamento dell'attività lavorativa ad esse connessa, in relazione a rischio non proveniente dall'apparato produttivo ed insito in una attività prodromica e comunque strumentale allo svolgimento delle medesime mansioni, anche se riconducibile a situazioni ed attività proprie del lavoratore (purché connesse con le mansioni lavorative), con il solo limite, in quest'ultima ipotesi, del cd. "rischio elettivo", dovendosi dare rilievo, in attuazione dell'art. 38 Cost., non già, restrittivamente, al cd. rischio professionale, come tradizionalmente inteso, ma a tutti gli infortuni in stretto rapporto di connessione con l'attività protetta.

In perfetta continuità con tali precedenti per Sez. L, n. 32257/2021, De Felice, Rv. 662694-01, costituisce occasione di lavoro in senso tecnico ogni attività che abbia concretizzato un rischio tale da determinare la situazione di bisogno cui è rivolto l'operare della tutela assicurativa, incluse le attività prodromiche e strumentali allo svolgimento delle mansioni lavorative, purché ad esse connesse; in applicazione di tale principio , la S.C. ha riconosciuto la tutela assicurativa in favore di un muratore, deceduto nel corso di un sopralluogo presso il cantiere di un terzo, in vista dell'affidamento in subappalto di una parte dell'opera a lui commissionata.

Con riferimento invece all'azione violenta idonea a determinare, ex art. 2 del d.P.R. n. 1124 del 1965, una patologia riconducibile all'infortunio protetto, Sez. L, n. 23894/2021, Cavallaro, Rv. 662120-01, ha ribadito che la stessa deve operare come causa esterna, che agisce con rapidità ed intensità, in un brevissimo arco temporale, o comunque in una minima misura temporale, non potendo ritenersi indennizzabili come infortuni sul lavoro tutte le patologie che trovino causa nell'affaticamento, costituente normale conseguenza del lavoro.

L’occasione di lavoro è, poi, esclusa dal rischio elettivo anche se l'infortunio occorso sia collegato topograficamente e temporalmente all'attività lavorativa; costituisce rischio elettivo la deviazione, puramente arbitraria ed animata da finalità personali, dalle normali modalità lavorative, che comporta rischi diversi da quelli inerenti le usuali modalità di esecuzione della prestazione. Tale genere di rischio - che è in grado di incidere, escludendola, sull'occasione di lavoro - si connota per il simultaneo concorso dei seguenti elementi: a) presenza di un atto volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; b) direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; c) mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell'attività lavorativa. (Sez. L, n. 07649 del 19/03/2019, Ghinoy, Rv. 653410-01)

Anche per l’infortunio in itinere, ove si richiede l’occasione di lavoro, rilevano le ipotesi di rischio elettivo, a cui Sez. L, n. 22180/2021, Calafiore, Rv. 662028-01, riconduce la condotta del lavoratore avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa, tenuta volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali, tale, dunque, da interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata; ne consegue che, seppur è vero che l'infortunio che sia occorso al lavoratore nel tragitto prescelto per raggiungere il posto di lavoro non è escluso dalla copertura assicurativa per il sol fatto che non fosse il "più breve", si deve pur sempre verificare la "normalità" della percorrenza dell'itinerario seguìto e la sua non riconducibilità a ragioni personali, estranee all'attività lavorativa, quali una deviazione del percorso, determinata dalla libera scelta del lavoratore di accompagnare a casa un collega.

L’art. 2, comma 3, ultima parte, del d.P.R. n. 1124 del 1965, aggiunto dall’art. 12 del d.lgs. n. 38 del 2000, esclude dalla tutela gli infortuni in itinere cagionati direttamente dall’abuso di alcoolici, di psicofarmaci, o dall’uso non terapeutico di stupefacenti e allucinogeni, nonché in caso di guida senza patente.

Sulla base di tale dato normativo si è affermato il rigoroso principio secondo cui il rischio elettivo nell’infortunio in itinere deve essere valutato con maggiore rigore rispetto a quello che si verifichi nel corso dell’attività lavorativa diretta, e che la violazione di norme fondamentali del codice della strada può integrare, secondo la valutazione del giudice di merito, un aggravamento del rischio tutelato talmente esorbitante dalle finalità di tutela da escludere la stessa. (Sez. 6-L, n. 03292/2015, Marotta, Rv. 634289 - 01)

A conferma di tale orientamento, Sez. L, n. 09375/2021, Cavallaro, Rv. 661053-01, ha ritenuto non indennizzabile, ai sensi dell'art. 2 del d.P.R. n. 1124 del 1965 (come integrato dall'art. 12 del d.lgs. n. 38 del 2000), l'infortunio "in itinere" occorso al lavoratore privo dell'abilitazione di guida prevista per il tipo di veicolo condotto, confermando la sentenza di merito che aveva negato l'indennizzo al titolare di patente di tipo B e C che aveva riportato l'infortunio mentre si trovava alla guida di un motociclo di 250 cc., per il quale era richiesta una diversa abilitazione.

In tema di prestazioni erogate dall’Istituto, premesso che la capitalizzazione della rendita da inabilità permanente di cui all'art. 75 del d.P.R. n. 1124 del 1965 presuppone, in ossequio al principio della stabilizzazione dei postumi, il decorso di un decennio dalla data della relativa costituzione, sicché alla scadenza di tale periodo l'assicurato soggiace al potere-dovere dell'istituto debitore di liberarsi mediante la corresponsione della prestazione unica, Sez. L, n. 09372/2021, Cavallaro, Rv. 661052-01 ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittima la capitalizzazione della rendita, sul presupposto che il termine decennale decorresse non già dal giorno in cui era stato emesso il provvedimento costitutivo della stessa, bensì da quello, antecedente, dal quale era stata fissata la relativa decorrenza.

Per Sez. L, n. 24025/2021, Buffa, Rv. 662171-01, il termine di complessivi dieci anni dalla data dell'infortunio per l'esercizio del diritto alla liquidazione della rendita INAIL - fissato dall'art. 83, comma 8, del d.P.R. n. 1124 del 1965, per l'ipotesi in cui le condizioni del lavoratore infortunato, guarito senza postumi di invalidità permanente ovvero con postumi che non raggiungono il minimo indennizzabile, si aggravino in conseguenza dell'infortunio, in misura tale da raggiungere l'indennizzabilità - pone una presunzione assoluta di stabilizzazione dei postumi, con la conseguenza che, in caso di loro insorgenza in data successiva al termine decennale, essi non sono più ricollegabili all'infortunio ed è impedita, sul piano sostanziale, la stessa insorgenza del diritto alla rendita; tuttavia, la proposizione della domanda di costituzione della rendita oltre il decennio non è preclusa, sempreché il lamentato aggravamento si sia verificato entro la stessa data e a condizione che sia rispettato il termine triennale di prescrizione fissato dall'art. 112 dello stesso d.P.R. n. 1124.

4. L’azione di regresso.

In tema di azione di regresso dell'INAIL, essendo venuta meno la correlazione sistematica fra gli artt. 10 e 11 e l'art. 112 del T.U. n. 1124 del 1965, sia per effetto di pronunce della Corte costituzionale (sentenze n. 102 del 1981 e n. 118 del 1996) che per i mutamenti del regime processuale penale (artt. 75 e 651 ss. c.p.p. del 1988) e civile (art. 295 c.p.c., come novellato dalla l. 26 novembre 1990, n. 353, art. 35), con la definitiva nell’abolizione della cosiddetta pregiudiziale penale, secondo Sez. L, n. 22876/2021, Calafiore, Rv. 662104-01, tale azione è connessa soltanto all'astratta previsione legale quale reato del fatto causativo dell'infortunio e non dal concreto accertamento dell'illecito penale per cui l'INAIL ben può agire in regresso ex art. 11 cit., sia nel caso in cui in sede penale il datore di lavoro sia stato assolto, sia nel caso dell'assenza del procedimento penale; nel caso in cui questi sia stato assolto dall'imputazione derivatagli dall'infortunio sul lavoro, l’azione di regresso è sottoposta al termine triennale di cui all'art. 112, comma 5, seconda parte, del d.P.R. citato che, avendo natura di prescrizione e non di decadenza, può essere interrotto non con il deposito bensì con la notificazione del ricorso con cui l'azione viene esercitata, oppure da ogni atto idoneo alla costituzione in mora.

In diversa fattispecie, Sez. L, n. 12631/2021, Calafiore, Rv. 661205-01 ha invece affermato che l'azione di regresso esperibile dall'INAIL contro il datore di lavoro, civilmente responsabile dell'infortunio sul lavoro di un suo dipendente, prevista dall'art. 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965, è assoggettata al termine triennale di decadenza (insuscettibile d'interruzione), decorrente dalla data di emissione della sentenza del giudice penale di non doversi procedere, caratterizzata dalla mancanza di un accertamento del fatto-reato, alla quale è equiparabile qualsiasi provvedimento, ancorché adottato nella fase precedente al dibattimento, che precluda, se non in presenza di una diversa situazione fattuale, la possibilità dell'avvio di nuove indagini e l'esercizio dell'azione penale nei confronti della medesima persona, con la conseguenza che, ove sia stato emesso, ai sensi dell'art. 409 c.p.p., decreto di archiviazione, il termine decadenziale decorre dalla relativa data di emissione, trattandosi di atto la cui rimozione deve essere autorizzata dal giudice.

In continuità con tale principio di diritto, Sez. L, n. 41279/2021, Buffa, Rv 663358-01 ha evidenziato che l’art. 112 cit, introdotto prima del nuovo codice di procedura penale, secondo una interpretazione del dettato normativo in chiave evolutiva e non di una applicazione analogica della disposizione, va applicato anche ad ipotesi previste dalla sopravvenuta codificazione che possono essere ricomprese nella formula legislativa, ed in particolare in caso di archiviazione penale, quale che ne sia la causa, ove non vi è la mera assenza di procedimento penale, ma un provvedimento del giudice che preclude la possibilità dell'avvio di nuove indagini e l'esercizio dell'azione penale nei confronti della medesima persona, e ciò fino al momento in cui la riapertura delle indagini sia autorizzata, con altro provvedimento; una volta ammesso che l'archiviazione rientri nella previsione normativa, ne deriva non può farsi alcuna distinzione in ordine alle ragioni dell'archiviazione, sicché il termine decadenziale opererà dalla data di emissione del decreto, quale che ne sia ragione, e quindi anche nel caso di archiviazione per mancanza di querela.

Ha rilevanza anche in tema di regresso il principio affermato da Sez. L, n. 01399/2021, Buffa, Rv. 660174-01, secondo cui in tema di infortuni e sicurezza sul lavoro, opera una nozione di datore di lavoro in senso prevenzionale che, per espressa previsione normativa, comprende non solo il datore di lavoro formale ma anche il titolare dei poteri di decisione e di spesa in materia di prevenzione e sorveglianza degli obblighi antiinfortunistici; in tale nozione va, pertanto, inclusa la figura dell'amministratore unico di società che, in quanto titolare di una specifica posizione di garanzia, è responsabile ex artt. 2087 e 2050 c.c. nonché in relazione al regresso esperibile dall'INAIL ai sensi degli artt. 10 ed 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965.

5. Le regole processuali specifiche.

Dando applicazione a principi generali che regolano il processo del lavoro, Sez. L, n. 02174/2021, Cavallaro, Rv. 660331-01, dopo aver precisato che l’'onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte e dedotti nel processo, non anche per quelli ad essa ignoti o allegati in sede extraprocessuale, atteso che il principio di non contestazione trova fondamento nel fenomeno di circolarità degli oneri di allegazione, confutazione e prova, di cui agli artt. 414, n. 4 e n. 5, e 416 c.p.c., che è tipico delle vicende processuali, ha escluso che l'INAIL avesse l'obbligo di contestare i fatti posti alla base della domanda giudiziale di indennità temporanea da infortunio sul lavoro, perché il fatto costitutivo della prestazione trae origine dal rapporto di lavoro cui l'ente è estraneo, restando irrilevante, ai fini della non contestazione, quanto dedotto dal lavoratore in sede amministrativa con la denuncia d'infortunio.

Sempre con riferimento agli oneri di allegazione e contestazione, Sez. L, n. 10375/2021, Calafiore, Rv. 661101-01, ha quindi affermato che nel giudizio proposto contro l'I.N.A.I.L. per il riconoscimento delle prestazioni conseguenti ad infortunio sul lavoro, la negazione della causa o dell'occasione di lavoro da parte del convenuto senza deduzione di fatti o titoli diversi da quelli posti dall'attore a fondamento della domanda, integra una mera difesa non soggetta alle preclusioni previste dagli artt. 416 e 437 c.p.c., rispettivamente per il primo grado e per l'appello, e non un'eccezione in senso sostanziale idonea ad invertire l'onere della prova, gravante sull'infortunato, dei fatti costitutivi della domanda, con la conseguenza che in presenza della sopraindicata negazione, che vale come non ammissione dei fatti costitutivi della domanda, permane il potere - dovere del giudice di verificare la sussistenza di questi ultimi.

Per Sez. L, n. 09373/2021, Cavallaro, Rv. 660875-01, la domanda di liquidazione dell'indennizzo in capitale per le menomazioni dell'integrità psico-fisica pari o superiori al 6%, conseguenti a infortunio sul lavoro, è implicita nella domanda di riconoscimento del diritto alla rendita per inabilità causata da menomazioni pari o superiori al 16%, in quanto la prima costituisce un "minus” della seconda.

Principio ampiamente consolidato, infine, quello ribadito da Sez. L, n. 38123/2021, Tricomi I. Rv 663010-01, secondo cui in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, trova applicazione la regola contenuta nell'art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo che il nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni (conformi Sez. L, n. 27952/2018, Ponterio, Rv. 651052-01; Sez. L n. 06105/2015, Tricomi I., Rv. 634807-01).

  • ordine professionale
  • condizione di pensionamento

CAPITOLO XXIV

LA PREVIDENZA DI CATEGORIA

(di Milena d’Oriano )

Sommario

1 Le Casse professionali. - 2 ONAOSI e Fondo lavoratori dello spettacolo. - 3 INPGI. - 4 INPDAI, INPDAP ed ENPAIA. - 5 La previdenza integrativa.

1. Le Casse professionali.

La trasformazione in enti privati dei soggetti pubblici che gestivano le assicurazioni obbligatorie dei professionisti, ai sensi del d.lgs. n. 509 del 1994, non ne ha modificato la funzione di soggetti preposti a svolgere le attività previdenziali ed assistenziali in atto, posto che all'autonomia organizzativa, amministrativa e contabile che gli è stata riconosciuta in ragione della loro mutata veste giuridica fa ancora da riscontro un articolato sistema di poteri ministeriali di controllo sui bilanci e d'intervento sugli organi di amministrazione, nonché una generale funzione di controllo sulla gestione da parte della Corte dei Conti.

Permanendo immutato il carattere pubblicistico dell'attività istituzionale di previdenza ed assistenza svolta dalle Casse professionali, la S.C. ha più volte evidenziato (ex multis Sez. L, n. 03461/2018, Calafiore, Rv. 647412-01; Sez. L, n. 05375/2019, Fernandes, Rv. 652778-01) che l’esercizio degli ampi poteri regolamentari che sono stati loro attribuiti resta retto dal rispetto sia del principio di autonomia riconosciuto agli enti previdenziali privati che dalla natura obbligatoria del regime assicurativo che gli stessi gestiscono e tale legame comporta necessariamente una relazione con la fonte legislativa nei cui confronti esiste un obbligo di conformazione.

La realizzazione del fine pubblico, imposto dall'art. 38 Cost., è mediata dalla legge ed è, dunque, la legge che di volta in volta fissa i corretti parametri di riferimento dei poteri regolamentari imponendo ai medesimi poteri i limiti al cui interno la detta potestà può estendersi.

Tale assetto è stato richiamato anche dalla più recente giurisprudenza costituzionale (Corte cost. sentenza n. 67 del 2018) che, sintetizzando gli esiti della privatizzazione delle Casse professionali, ha precisato: "(...) Con il citato D.Lgs. n. 509 del 1994, il legislatore delegato, in attuazione di un complessivo disegno di riordino della previdenza dei liberi professionisti (L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 1, comma 23, recante "Interventi correttivi di finanza pubblica"), ha arretrato la linea d'intervento della legge (si è parlato in proposito di delegificazione della disciplina: da ultimo, Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 13 febbraio 2018, n. 3461), lasciando spazio alla regolamentazione privata delle fondazioni categoriali, alle quali è assegnata la missione di modellare tale forma di previdenza secondo il criterio solidaristico".

Nell’ambito di tale quadro normativo si muovono tutte le pronunce che, per le diverse Casse dei professionisti, affrontano le varie questioni attinenti alla gestione dei rispettivi sistemi previdenziali.

In tema di trattamento pensionistico degli avvocati iscritti alla Cassa nazionale di assistenza e previdenza forense, secondo Sez. L, n. 31754/2021, Cavallaro, Rv. 662690-01, il termine quinquennale per le verifiche del requisito della continuità nell'esercizio della professione, previsto dall'art. 22 della l. n. 576 del 1980, ai fini dell'anzianità dell'iscrizione, ha natura decadenziale e decorre dalla data in cui il professionista ha presentato la prescritta dichiarazione sostitutiva funzionale all'esercizio della potestà di verifica.

Quanto alle prestazioni pensionistiche erogate dalla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali, Sez. L, n. 31454/2021, Balestrieri, Rv. 662874-01, ha specificato che per i trattamenti maturati prima del 1° gennaio 2007 il parametro di riferimento è costituito dal regime originario dell'art. 3, comma 12, della l. n. 335 del 1995, sicché non trovano applicazione le modifiche "in peius" per gli assicurati introdotte da atti e provvedimenti adottati prima dell'attenuazione del principio del "pro rata", mentre, per i trattamenti pensionistici di anzianità liquidati a partire dal 1° gennaio 2007, trova applicazione il medesimo art. 3, comma 12, della l. n. 335 del 1995, ma nella formulazione introdotta dall'art. 1, comma 763, della l. n. 296 del 2006, che prevede che gli enti previdenziali suddetti emettano i provvedimenti necessari per la salvaguardia dell'equilibrio finanziario di lungo termine, "avendo presente" (e non più dovendo rispettare in modo assoluto) il principio del "pro rata".

In senso analogo, quanto alle prestazioni pensionistiche erogate dalla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza dei dottori commercialisti, Sez. L, n. 04565/2021, Buffa, Rv. 660537-01 ha evidenziato che ai fini della liquidazione dei trattamenti pensionistici, a partire dal 1° gennaio 2007, l'art. 3, comma 12, della l. n. 335 del 1995, riformulato dall'art. 1, comma 763, della l. n. 296 del 2006, impone solo di aver presente - e non di applicare in modo assoluto - il principio del "pro rata", in relazione alle anzianità già maturate rispetto all'introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti, con conseguente legittimità del regolamento approvato con decreto interministeriale del 14 luglio 2004 che, in coerenza con l'obbligo di assicurare l'equilibrio di bilancio posto a salvaguardia delle posizioni degli assicurati che possano far valere un periodo di effettiva iscrizione e contribuzione antecedente il 1° gennaio 2004, ha previsto la riliquidazione della pensione di vecchiaia anticipata sulla base della media dei redditi dichiarati dall'assicurato nei venticinque anni anteriori al 2003.

Secondo Sez. L, n. 18616/2021, Calafiore, Rv. 661650-01, nel caso di accreditamento di contributi, a favore dello stesso lavoratore, presso diverse gestioni (nella specie, dei lavoratori dipendenti, dei commercianti e degli iscritti alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza in favore dei ragionieri e periti commerciali), trovano applicazione, ai fini del diritto alla pensione e del calcolo della medesima, le norme sul cumulo dei contributi e la disciplina di computo per quote della pensione di cui all'art. 16 della l. n. 233 del 1990, non derogate o abrogate dall'art. 71 della l. n. 388 del 2000 e dalla relativa disciplina sulla totalizzazione dei periodi assicurativi (sostituita, successivamente, dal d.lgs. n. 42 del 2006). La liquidazione della pensione in regime di totalizzazione va effettuata in modo unitario, secondo le previsioni di cui all'art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 42 del 2006, applicando il sistema contributivo, salvo il ricorrere delle ipotesi eccettuative di tale regola, che richiedono quali presupposti l'iscrizione del lavoratore prima del 1996 ed il raggiungimento, presso la gestione dei lavoratori dipendenti, dei requisiti minimi per il conseguimento del diritto ad una autonoma pensione di vecchiaia.

Quanto alla decadenza prevista dall'art. 49 del regolamento della Cassa Italiana di Previdenza ed Assistenza dei Geometri Liberi Professionisti, riguardante il termine per la richiesta di rimborso dei contributi versati e divenuti inefficaci, Sez. L, n. 31459/2021, Calafiore, Rv. 662687-01, ne ha ritenuto la rilevabilità d'ufficio dal giudice, atteso che la materia contributiva è di rilievo pubblicistico, in quanto funzionale alla realizzazione dei compiti assegnati dall'art. 38 Cost., con conseguente inapplicabilità dell'art. 2969 c.c., che disciplina la decadenza in relazione ai diritti disponibili.

In riferimento alla medesima Cassa dei geometri liberi professionisti, Sez. L, n. 4568/2021, Buffa, Rv. 660620-01, ha affermato che ai fini dell'obbligatorietà dell'iscrizione e del pagamento della contribuzione minima, è condizione sufficiente, alla stregua del regolamento della predetta Cassa, l'iscrizione all'albo professionale - essendo irrilevante la natura occasionale dell'esercizio della professione e la mancata produzione di reddito -, avendo il predetto regolamento definito il sistema degli obblighi contributivi in linea con i principi di cui alla l. n. 335 del 1995, che ha consentito interventi finalizzati ad assicurare l'equilibrio finanziario di lungo termine degli enti.

L'esclusione per il professionista dalla iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per gli ingegneri ed architetti, prevista dall'art. 2 della legge n. 1046 del 1971, in relazione al periodo in cui questi sia stato iscritto ad altra forma di previdenza obbligatoria, non opera per il solo fatto dell'iscrizione ad altro ente di previdenza, essendo necessario che la Cassa, su cui incombe il relativo onere, trattandosi di fatto impeditivo e non di elemento costitutivo negativo del diritto, offra prova che il professionista abbia effettivamente svolto l'attività professionale tutelata dall'altro ente previdenziale (vedi Sez. L, n. 02671/2021 Cavallaro, Rv. 660341-01), mentre per gli stessi professionisti Sez. L, n. 02670/2021, Calafiore, Rv. 660340-01 ha affermato che, ai fini della conservazione del diritto alla pensione di vecchiaia con il regime più favorevole di cui all'art. 25, comma 7, della l. n. 6 del 1981, rileva il mero fatto della pregressa iscrizione alla Cassa rispetto alla data di entrata in vigore della medesima legge, anche se non attuale, non continuativa o con versamento di contribuzione ridotta ex l. n. 179 del 1958, ciò sia in base al dato testuale, significativo di un ambito della disposizione esteso a qualsiasi ipotesi di iscrizione, sia per ragioni di ordine logico-sistematico, non risultando disposizioni contrarie, sia, infine, sotto il profilo della ragionevolezza che impone di non discriminare situazioni tra di loro equiparabili sul piano della tutelabilità.

Sempre in tema di previdenza per ingegneri ed architetti, Sez. L, n. 24694/2021, D’Antonio, Rv. 662266-01 ha escluso che la pensione di reversibilità possa essere riconosciuta, nella vigenza della disciplina antecedente alla data di entrata in vigore della l. n. 76 del 2016 - che ha introdotto nel nostro ordinamento l'istituto dell'unione civile anche tra persone dello stesso sesso, disciplinando altresì le convivenze di fatto -, a favore di superstite già legato da stabile convivenza con persona dello stesso sesso poi deceduta, avuto riguardo al principio di irretroattività dettato dall'art. 11 preleggi, mentre per Sez. L, n. 04566/2021, Buffa, Rv. 660538-01, la presentazione di una apposita domanda costituisce un requisito necessario non solo per l'erogazione dei trattamenti pensionistici ma anche per la restituzione dei contributi, sicché, in assenza di un'istanza proposta dal professionista prima della modifica statutaria che ha soppresso l'istituto restitutorio, va escluso il diritto degli eredi al rimborso dei contributi versati dal dante causa che non abbia maturato il diritto a pensione.

Con riferimento agli stessi professionisti, ma iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie, per i quali è preclusa l'iscrizione all'INARCASSA, alla quale versano esclusivamente un contributo integrativo di carattere solidaristico in quanto iscritti agli albi, cui non segue la costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio, Sez. L, n. 05826/2021, Cavallaro, Rv. 660626-01, ha ribadito, in continuità con Sez. L, n. 32166/2018, Calafiore, Rv. 652029-01 e Sez. L, n. 30344/2017, Cavallaro, Rv. 646559-01, che per essi permane comunque l’obbligo di iscrizione alla gestione separata presso l'INPS, in virtù del principio di universalizzazione della copertura assicurativa, cui è funzionale la disposizione di cui all'art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995, secondo la quale l'unico versamento contributivo rilevante ai fini dell'esclusione di detto obbligo di iscrizione è quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale; sussiste, infatti, una relazione di complementarità tra gestione separata e casse professionali, posto che, ai sensi dell'art. 18, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011 (conv. con modif. dalla l. n. 111 del 2011), anche per coloro che sono iscritti ad albi ed elenchi è previsto l'obbligo di iscriversi alla gestione separata quando non effettuino alcun "versamento contributivo" agli enti della categoria professionale di appartenenza.

2. ONAOSI e Fondo lavoratori dello spettacolo.

Questione risalente quella relativa ai contributi versati dai professionisti medici alla Fondazione Opera Nazionale Assistenza Orfani Sanitari Italiani in riferimento gli anni 2003-2005, divenuti privi di una valida fonte in seguito alla sentenza della Corte cost. n. 190 del 2007; Sez. L, n. 17996/2021, Mancino, Rv. 661648-01, ha chiarito che a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 2, lett. e), della l. n. 306 del 1901 (come sostituito dall'art. 52, comma 23, della l. n. 289 del 2002), nella parte in cui demandava la fissazione della misura del contributo obbligatorio in favore dell'ONAOSI alla regolamentazione della stessa fondazione, l'art. 14, comma 9, del d.l. n. 158 del 2012 (conv., con modif., dalla l. n. 189 del 2012) ha disposto l'estinzione "ex lege" dei processi relativi alla determinazione, pagamento, riscossione o ripetizione dei suddetti contributi per il periodo 2003-2007, irrilevante essendo che detti processi siano stati introdotti dopo l'entrata in vigore della citata disposizione.

Con articolata motivazione Sez. L, n. 41397/2021, Calafiore, Rv 663368-01, nell’individuare i presupposti dell'obbligo di iscrizione al Fondo per i lavoratori dello spettacolo, ex ENPALS, relativamente alle prestazioni rese in seno all'organizzazione di soggetti riconosciuti dalle competenti autorità sportive quali esercenti attività dilettantistica, premesso che ai sensi del d.m. 15 marzo 2005 n. 17445, sulla base della preesistente previsione contenuta nel d.lgs. C.p.S. n. 708 del 1947, art. 3, comma 2, primo periodo, rientrano nell'ambito del raggruppamento di cui alla lett. B), gli "impiegati, operai, istruttori ed addetti agli impianti e circoli sportivi di qualsiasi genere, palestre, sale fitness, stadi, sferisteri, campi sportivi, autodromi" che dunque sono soggetti in via generale all'obbligo assicurativo presso la gestione ENPALS, ora confluita presso l'INPS, ha chiarito che, per effetto della previsione contenuta nell'art. 67 TUIR, comma 1, lett. m), che dunque determina effetti eccettuativi anche rispetto all’obbligo contributivo previdenziale, non risultano soggette agli obblighi predetti le prestazioni, se compensate nei limiti monetari di cui all'art. 69 TUIR, relative alla formazione, alla didattica, alla preparazione ed all'assistenza all'attività sportiva dilettantistica (art. 35, comma 5, del d.l. n. 207 del 2008, conv. dalla l. n. 14 del 2009) a condizione che chi invoca l'esenzione, con accertamento rimesso al giudice di merito, dimostri che:

- le prestazioni rese non siano compensate in relazione all'attività di offerta del servizio sportivo svolta da lavoratori autonomi o da imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente assunta dal prestatore (art. 67, comma 1, TUIR);

- tali prestazioni siano rese in favore di associazioni o società che non solo risultano qualificate come dilettantistiche, ma che in concreto posseggono tale requisito di natura sostanziale, ossia svolgono effettivamente l'attività senza fine di lucro e, quindi, operano concretamente in modo conforme a quanto indicato nelle clausole dell'atto costitutivo e dello statuto, il cui onere probatorio ricade sulla parte contribuente, e non può ritenersi soddisfatto dal dato del tutto neutrale dell'affiliazione ad una federazione sportiva o al CONI;

- le prestazioni siano rese nell'esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche e cioè che siano rese in ragione del vincolo associativo esistente tra il prestatore e l'associazione o società dilettantistica, restando esclusa la possibilità che si tratti di prestazioni collegate all'assunzione di un distinto obbligo personale;

- il soggetto che rende la prestazione e riceve il compenso non svolga tale attività con carattere di professionalità e cioè in corrispondenza all'«arte o professione» abitualmente esercitata anche se in modo non esclusivo (art 53 TUIR).

3. INPGI.

In tema di lavoro giornalistico, Sez. L, n. 14391/2021, Garri, Rv. 661301-01, ricorda che ai fini della sussistenza dell'obbligo di iscrizione all'INPGI è necessario che ricorrano due requisiti, tra loro concorrenti e non alternativi, quali l'iscrizione all'Albo dei giornalisti (elenco professionisti, elenco pubblicisti e/o registro praticanti) e lo svolgimento di attività lavorativa riconducibile a quella professionale giornalistica presso il datore di lavoro chiamato a versare i contributi.

Chiamata a pronunciarsi sulla questione di massima di particolare importanza, sul se il datore di lavoro pubblico fosse tenuto a versare i contributi dei dipendenti, giornalisti pubblicisti, che ricoprono i ruoli di responsabile e addetto dell’ufficio stampa delle pubbliche amministrazioni ex art. 9 della l. n. 150 del 2000 nei confronti dell’INPS o dell’INPGI, Sez. U, n. 21764/2021, Marotta, Rv. 662033-01, ha affermato che l'attività svolta nell'ambito dell'ufficio stampa di cui alla l. n. 150 del 2000, per la quale il legislatore ha richiesto il titolo dell'iscrizione all'albo professionale e previsto un'area speciale di contrattazione con la partecipazione delle oo.ss. dei giornalisti, ha natura giornalistica e, di conseguenza, comporta l'iscrizione all'Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani (INPGI), che ha portata generale e prescinde dalla natura pubblica o privata del datore di lavoro e dal contratto collettivo applicabile al rapporto

In tale arresto le Sezioni Unite ricordano che, come già ritenuto da Sez. L, n. 16147/2007, Celentano, Rv. 598564-01, richiamata da Corte cost. sentenza n. 112 del 2020, ed anche da Sez. L, n. 11944/2004, De Luca, Rv. 573942-01, l'obbligo di iscrizione all'Istituto di previdenza "Giovanni Amendola" (INPGI) - cui si collega quello del versamento dei relativi contributi previdenziali - insorge per il solo fatto di aver instaurato un rapporto di lavoro subordinato con un soggetto che sia giornalista professionista o praticante giornalista, a nulla rilevando la natura del datore di lavoro, sia esso un ente pubblico o un imprenditore privato che operi anche in settori diversi dall’editoria.

Ritenuto che l’accertamento della natura giornalistica sia un prerequisito indispensabile, unitamente alla iscrizione all’albo, al fine di ritenere che i versamenti vadano effettuati all’INPGI (su cui Sez. L, n. 16691/2018, Mancino, Rv. 649486-02; Sez. L, n. 14391/2021, Garri, Rv. 661301-01 già citata), la S.C. afferma che la natura giornalistica anche dell’attività svolta presso gli uffici stampa si ricava da una serie di indici univoci, quali la formale istituzione di tali uffici, i titoli richiesti per l’assegnazione agli stessi, la previsione di una contrattazione speciale con l’intervento delle organizzazioni rappresentative dei giornalisti, le classificazioni della contrattazione di comparto; ne consegue che la questione si sposta sull’accertamento in fatto dell’attività svolta che, nel caso di specie, era stata ritenuta di natura giornalistica, con accertamento non più rivedibile in sede di legittimità, in ragione dei caratteri di creatività, originalità, mediazione tra la diffusione del fatto e la notizia, di tal che il rapporto di subordinazione gerarchica non contrasta con il principio fondamentale della libertà di informazione, di reperimento e verifica delle notizie e commento delle stesse, oltre che di elaborazione dei documenti, con conseguente confezionamento di un prodotto del tutto simile ad un articolo giornalistico, anche nell’utilizzo del linguaggio e dello stile.

Conclude quindi la S.C. che, accertata la natura giornalistica dell’attività e rammentate le funzioni attribuite all’INPGI, la contribuzione va versata a detto ente, dovendo rinvenirsi la fonte di tale obbligo nella normativa generale, rispetto alla quale l’applicazione necessitata della contrattazione pubblica non può costituire una valida ragione ostativa.

Quanto al tema del cumulo tra pensione e redditi da lavoro per gli iscritti all'INPGI, Sez. L, n. 22170/2021, Mancino, Rv. 662095-01 ha ritenuto che si debba applicare la stessa disciplina prevista per gli iscritti all'Assicurazione Generale Obbligatoria facente capo all'INPS, in quanto l'INPGI gestisce, per espresso disposto dell'art. 76 della l. n. 388 del 2000, una forma di assicurazione sostitutiva di quella garantita dall'INPS, mentre gli artt. 72, comma 1, della legge appena citata, e 44, comma 1, della l. n. 289 del 2002, poi seguiti dall'art. 19 del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 133 del 2008, parificano il trattamento pensionistico a carico dell'AGO e quelli a carico delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative della medesima. Ne consegue che deve essere disapplicato l'art. 15 del Regolamento dell'INPGI, che disciplina la materia del cumulo tra reddito da lavoro e trattamento pensionistico in maniera diversa da quanto previsto nel regime relativo all'AGO.

In tema di pensione anticipata ex art. 37 della l. n. 416 del 1981 per gli stessi iscritti, Sez. L, n. 22173/2021, Cavallaro, Rv. 662096-01 ha, invece, affermato la legittimità dell'abbattimento annuo in percentuale, previsto dall'art. 7 del Regolamento INPGI sino al raggiungimento dell'età pensionabile secondo il regime ordinario, perché, modulando l'ammontare della prestazione pensionistica, garantisce, sino all'entrata in vigore dell'art. 19, comma 18 ter, del d.l. n. 185 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 2 del 2009, che ha posto il relativo onere finanziario a carico del bilancio pubblico, il rispetto degli obblighi di equilibrio della gestione finanziaria dell'ente previdenziale nonché del dovere di coordinamento di cui all'art. 38 della l. n. 416 del 1981, come novellato dall'art. 76, comma 1, della l. n. 388 del 2000.

4. INPDAI, INPDAP ed ENPAIA.

Per Sez. L, n. 24076/2021, D’Antonio, Rv. 662156-01, in tema di pensione di vecchiaia, il passaggio, nella gestione INPDAI, in virtù dell'art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 181 del 1997, da una scala di computo dell'anzianità contributiva in trentesimi ad una in quarantesimi non determina alcuna incidenza sulle giornate di contribuzione maturate, in quanto la norma, parificando l'anzianità contributiva prevista nei due sistemi, INPS e INPDAI, e stabilendola in quaranta anni, non prevede anche un meccanismo di trasformazione o rivalutazione dell'anzianità (cd. "omogeneizzazione"), né di quella maturata presso lo stesso INPDAI, né di quella conseguente al trasferimento dei contributi dall'INPS, maturati in precedenza, da ricongiungersi con la prima.

Poiché l'art. 78, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2001 prevede la riduzione degli oneri contributivi quale conseguenza della fiscalizzazione degli importi delle indennità di maternità erogate per eventi successivi al 1° luglio 2001 e per i quali è riconosciuta la tutela previdenziale obbligatoria, senza alcun riferimento all'aumento dell'aliquota contributiva dovuta al Fondo pensioni lavoratori dipendenti di cui all'art. 3, comma 23, della l. n. 335 del 1995, Sez. L, n. 19152/2021, Mancino, Rv. 661843-01, ha affermato che tale riduzione è applicabile anche sulle retribuzioni dei lavoratori che siano dipendenti da datori di lavoro privati e che, in forza di pregresse disposizioni legislative, abbiano optato per il mantenimento della posizione assicurativa presso l'INPDAP.

In tema di previdenza per gli impiegati nell'agricoltura, l'eventuale inadempimento datoriale nel versamento degli accantonamenti non riduce la prestazione economica che l'ENPAIA è tenuto ad erogare ai lavoratori, a titolo di trattamento di fine rapporto, nella misura integrale, ben potendo e dovendo l'ente previdenziale azionare, entro congruo tempo, nei confronti del datore di lavoro, il credito per gli accantonamenti non versati. (Sez. L, n. 06080/2021, Mancino, Rv. 660628-01).

5. La previdenza integrativa.

I versamenti del datore di lavoro nei fondi di previdenza complementare - sia che il fondo abbia personalità giuridica autonoma, sia che consista in una gestione separata del datore stesso hanno natura previdenziale e non retributiva; questo il principio ribadito da Sez. U, n. 16084/2021, Torrice, Rv. 661389-02.

La pronuncia si inserisce nel solco della continuità con Sez. U, n. 04684/2015. Di Cerbo, Rv. 634402-01 e Sez. U, n. 06928/2018, Tria, Rv. 647568-01, che avevano già valorizzato la natura previdenziale dei versamenti contributivi datoriali nei fondi di previdenza complementare riconducendo all'alveo dell'art. 38, comma 2, della Costituzione la funzione della previdenza complementare, in ragione del suo concorso alla realizzazione dell'obiettivo dell'adeguatezza dei mezzi al soddisfacimento delle esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, disoccupazione volontaria.

Dalla natura previdenziale la S.C. trae il corollario dell’impossibilità di accordare alla contribuzione il privilegio che l'art. 2751 bis, n. 1, c.c. espressamente riserva, da rubrica, ai "Crediti per "retribuzioni e provvigioni, crediti dei coltivatori diretti, delle società o enti cooperativi e delle imprese artigiane", e che possa operare il regime del privilegio previsto dagli artt. 2753 e 2754 c.c., indirizzati ai distinti crediti per contributi di assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti e per contributi relativi ad altre forme di assicurazione.

In linea di continuità con Sez. U n. 06928/2018, già citata, conferma poi il principio in base al quale al trattamento pensionistico erogato dai fondi pensione integrativi, pur avendo natura previdenziale, fin da quando tali fondi sono stati istituiti, non è applicabile il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi previsto dall'art. 16, comma 6, della l. n. 412 del 1991, mettendo in risalto come il trattamento sia corrisposto da datori di lavoro privati, e non da enti gestori di forme di previdenza obbligatoria, mentre in controtendenza con la stessa pronuncia afferma che, ancorché il credito correlato alla previdenza complementare non sia privilegiato, nondimeno vadano riconosciuti ad esso, in sede d’ammissione al passive, interessi legali fino al soddisfo.

Secondo Sez. L, n. 29915/2021, Cavallaro, Rv. 662654-01, in tema di previdenza complementare, la percezione del trattamento pensionistico in una somma capitale "una tantum" determina l'estinzione della prestazione pensionistica integrativa periodica, con conseguente venir meno, da tale momento, del diritto alla perequazione automatica di cui all'art. 11 del d.lgs. n. 503 del 1992; in applicazione di tale principio la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che, all'esito di un'erronea interpretazione della clausola contenuta nello statuto del Fondo complementare per gli ex dipendenti del Banco di Napoli, aveva riconosciuto a questi ultimi le differenze sul trattamento pensionistico complementare, nonostante essi avessero optato per la capitalizzazione della relativa prestazione, ai sensi dell'art. 7, comma 6, lett. a, del d.lgs. n. 124 del 1993, "ratione temporis" vigente.

Sempre per il settore delle aziende di credito Sez. L, n. 35995/2021, Cavallaro, Rv. 662921-01, ha affermato che il diritto al trattamento pensionistico integrativo per i dipendenti del Monte dei Paschi di Siena S.p.a., previsto dall'accordo collettivo del 5 settembre 1985, si consegue anche quando il requisito anagrafico, di cui all'art. 6 dell'accordo, si perfezioni alle dipendenze di un altro datore di lavoro, purché tuttavia i 15 anni di anzianità utili al conseguimento del trattamento, ai sensi dell'art. 3 dell'accordo stesso, siano interamente maturati alle dipendenze del Monte dei Paschi.

I lavoratori che, avendo riscosso la propria quota capitale di un fondo pensione, non vi siano più iscritti, non hanno invece diritto a partecipare alla liquidazione delle relative plusvalenze immobiliari, posto che essi beneficiano dei rendimenti annuali in ragione della rispettiva quota di partecipazione, ma solo fino a quando non ritirino, per qualsiasi motivo, il proprio investimento (Sez. L, n. 22267/2021, Buffa, Rv. 662101-01).

Per Sez. 6-L, n. 07079/2021, Doronzo, Rv. 660949-01, ai fini della riliquidazione del trattamento pensionistico integrativo degli ex dirigenti dell'INAM, ai sensi dell'art. 30 del Regolamento interno di previdenza, l'indennità di posizione di cui all'art. 1 della l. n. 334 del 1997 non è poi cumulabile con la quota A dell'indennità di funzione di cui all'art. 13 della l. n. 88 del 1989, fatto salvo il trattamento di miglior favore, trattandosi di prestazioni diverse ancorché entrambe mirino a retribuire lo svolgimento di funzioni dirigenziali ai fini di un riequilibrio retributivo.

Al trattamento pensionistico aziendale integrativo dei dipendenti dell'ENEA, va invece riconosciuta natura retributiva in quanto, pur assolvendo ad una funzione previdenziale, la relativa obbligazione è strutturalmente inerente al rapporto di impiego posto in essere con l'ente datore, senza che assuma rilievo che gli accantonamenti siano effettuati mediante l'accensione di una polizza assicurativa; da tale principio affermato da Sez. L, n. 29923/2021, Di Paolantonio, Rv. 662586-01, ne consegue che, correttamente, l'art. 52 del c.c.n.l. 31 dicembre 1982 per i dipendenti dell'ENEA, nel prevedere espressamente - in attuazione dell'art. 8, comma 1, della l. n. 84 del 1982 - la conservazione del trattamento stesso "nel valore maturato nell'ultimo mese di vigenza" del precedente regime giuridico, regolato con la legge n. 70 del 1975, ha confermato i diritti, di natura retributiva e non previdenziale, già acquisiti dai lavoratori, con esclusione di ogni "reformatio in pejus" ai loro danni.

Sez. L, n. 09315/2021, D’Antonio, Rv. 660874-01, ha invece escluso che la pensione di invalidità erogata dalla gestione INPS coltivatori diretti possa convertirsi, ai sensi dell'art. 2-ter del d.l. n. 30 del 1974, conv. con modif. dalla l. n. 114 del 1974, in pensione di vecchiaia da erogarsi da parte di un Fondo integrativo, qual è il Fondo gas, perché la norma innanzi citata è speciale e può trovare applicazione nella sola ipotesi da essa disciplinata, quella della pensione erogata dall'assicurazione generale obbligatoria, dovendo escludersi che tale ultima provvidenza e l'integrazione costituiscano un'unica pensione in ragione della contestuale erogazione da parte del Fondo, in quanto la modalità di corresponsione non ne muta la natura.

Sez. L, n. 28605/2021, Buffa, Rv. 662523-01, precisa infine che, ai sensi dell'art. 64, comma 5, della l. n. 144 del 1999, come autenticamente interpretato dall'art. 18, comma 19, del d.l. n. 98 del 2011, conv. dalla l. n. 111 del 2011, il contributo di solidarietà è dovuto oltre che dai lavoratori ancora in servizio, anche dagli ex dipendenti sulle prestazioni integrative in godimento, per i quali è calcolato sul "maturato" della pensione integrativa al 30 settembre 1999 ed è trattenuto sulla retribuzione, rispondendo la disciplina, come affermato dalla sentenza n. 156 del 2014 della Corte costituzionale, ad obiettivi di interesse generale e di rilievo costituzionale, quali quelli della certezza del diritto e del ripristino della uguaglianza e della solidarietà all'interno del sistema previdenziale.

PARTE SESTA I RAPPORTI CON I PUBBLICI POTERI

  • indennizzo
  • espropriazione

CAPITOLO XXV

ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ

(di Aldo Ceniccola )

Sommario

1 Premessa. - 2 La giurisdizione. - 3 La determinazione dell’indennità di espropriazione. - 4 Qualificazione delle aree e natura dei vincoli. - 5 L’asservimento. - 6 L’opposizione alla stima. - 7 L’espropriazione parziale. - 8 La retrocessione.

1. Premessa.

L’analisi delle pronunce in tema di espropriazione per pubblica utilità evidenzia il consolidamento e la sistemazione dei principi desumibili dalla Costituzione e dal d.P.R. n. 327 del 2001 (T.U. espropriazioni), con particolare riguardo agli aspetti della giurisdizione, della garanzia del serio ristoro all’espropriato e dell’incidenza dei vincoli urbanistici.

2. La giurisdizione.

La ricognizione delle decisioni della Suprema Corte non può non cominciare con l’esame delle questioni afferenti al riparto di giurisdizione.

Innanzitutto, viene ribadito - Sez. U, n. 32688/2021, Mercolino, Rv. 662924-01 - che la giurisdizione esclusiva attribuita al giudice amministrativo è circoscritta alle controversie riguardanti atti, provvedimenti, accordi e comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere delle Pubbliche Amministrazioni, compresa quella avente ad oggetto la restituzione dell’immobile occupato, in caso di sopravvenuta scadenza del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, trattandosi pur sempre di una domanda collegata all’esercizio di un pubblico potere in materia di espropriazione.

Sez. U, n. 20691/2021, Lamorgese, Rv. 661853-02, ha poi precisato che appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie nelle quali sia dedotta la illegittimità in sé del provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, per l’insussistenza dei requisiti previsti dalla legge, anche ai fini della valutazione delle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, in relazione ai contrapposti interessi privati ed all’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione.

Sono devolute, invece, al giudice ordinario e alla corte d’appello, in unico grado, le controversie sulla determinazione e corresponsione dell’indennizzo ex art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 (Sez. U, n. 20691/2021, Lamorgese, Rv. 661853-01): ciò per la natura intrinsecamente indennitaria del credito vantato dal proprietario del bene, globalmente inteso dal legislatore come un unicum non scomponibile nelle diverse voci, con la conseguenza che l’attribuzione di una somma forfettariamente determinata a titolo risarcitorio (pari all’interesse del cinque per cento annuo sul valore venale del bene, a norma del comma 3 dell’art. 42 bis cit.) si riferisce unicamente ad uno degli elementi (il mancato godimento del bene per essere il cespite occupato senza titolo dall’amministrazione) rilevanti per la determinazione dell’indennizzo in favore del proprietario, il quale non fa valere una duplice legittimazione, cioè di soggetto avente titolo ora a un «indennizzo» (quando agisce per il pregiudizio patrimoniale, e non patrimoniale, conseguente alla perdita della proprietà del bene), ora a un «risarcimento» di un danno scaturito da un comportamento originariamente contra ius dell’amministrazione.

Secondo Sez. U, n. 20691/2021, Lamorgese, Rv. 661853-03, poi, in tema di acquisizione sanante ex art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, la ricostruzione in termini indennitari e le modalità di determinazione dell’indennizzo, anche per la pregressa occupazione illegittima del bene, nel procedimento di cui all’art. 29 del d.lgs. n. 150 del 2011, dinanzi alla corte d’appello, in unico grado di merito, non sono suscettibili di arrecare un deficit di tutela né per l’amministrazione, per esserle preclusa l’introduzione di azioni di rivalsa nei confronti di terzi, nell’ipotesi di concorso di più enti nella realizzazione dell’opera pubblica, trattandosi di una limitazione coerente con la natura del procedimento, ferma restando la facoltà di rivalersi in separato giudizio ordinario sul soggetto corresponsabile della pregressa occupazione illegittima; né per il privato, per essergli consentito di agire nei confronti della sola autorità che utilizza il bene immobile per scopi di interesse pubblico, essendo tale autorità, cui è affidato il pagamento dell’indennità, il suo creditore, né essendo precluso al privato stesso di avviare un autonomo giudizio di danno, a tutela dei suoi diritti, per il periodo di occupazione illegittima, prima dell’adozione del provvedimento di cui all’art. 42 bis cit. da parte della pubblica amministrazione.

Sempre in tema di acquisizione sanante, è stato ulteriormente precisato - Sez. U, n. 20691/2021, Lamorgese, Rv. 661853-04 - che la qualificazione in termini indennitari dell’indennizzo per la pregressa occupazione senza titolo, nella misura del cinque per cento annuo sul valore venale del bene all’attualità, non è foriera di un deficit di tutela per le parti, avendo il legislatore previsto una clausola di salvaguardia che fa salva la prova di una diversa entità del danno, la cui applicazione è rimessa all’incensurabile valutazione del legislatore in via forfettaria - in melius o in pejus - in sintonia con le istanze e le prove offerte dalle parti nel caso concreto.

Importante è l’affermazione - Sez. U, n. 09543/2021, Acierno, Rv. 660919-01 - in tema di disapplicazione dell’atto amministrativo: in particolare, nel giudizio promosso dal privato per la determinazione dell’indennità di espropriazione, costituisce error in procedendo, e non involge una questione di giurisdizione, bensì d’illegittimo esercizio di un potere interno alla giurisdizione ordinaria, la disapplicazione da parte della Corte di appello del decreto di esproprio in ragione di una presunta inefficacia della proroga della dichiarazione di pubblica utilità, in quanto l’ente espropriante che ha emesso il decreto disapplicato è parte del giudizio e su di esso si fonda il diritto azionato, laddove il potere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo da parte del giudice ordinario può essere esercitato unicamente nei giudizi tra privati e nei soli casi in cui l’atto illegittimo venga in rilievo come mero antecedente logico, e non già come fondamento del diritto dedotto in giudizio.

Le Sezioni Unite sono, poi, intervenute sul tema della giurisdizione sulle domande volte ad accertare l’intervenuta usucapione della proprietà del fondo occupato: secondo Sez. U, n. 05513/2021, Stalla, Rv. 660466-03, tali domande, introdotte dalla P.A. in via riconvenzionale, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, quale conseguenza non già riconducibile al pregresso esercizio del potere autoritativo bensì meramente occasionale, atteso che, tra quel potere e questo effetto intercorre, necessariamente, la interversio possessionis, dalla detenzione qualificata al possesso, dell’occupante, ferma restando la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulla domanda, anche risarcitoria, relativa all’occupazione preordinata all’espropriazione.

3. La determinazione dell’indennità di espropriazione.

Numerose le pronunce riguardanti la determinazione dell’indennità di espropriazione.

Allorché si tratti di determinare l’indennità di esproprio di un terreno destinato a cava, per Sez. 1, n. 11811/2021, Caiazzo, Rv. 661273-01, occorre fare riferimento all’art. 39 della l. n. 2359 del 1865 e, pertanto, al valore venale del bene che, nella specie, va ragguagliato al parametro del materiale complessivamente estraibile dalla cava sino al suo esaurimento. Trattasi di criterio omnicomprensivo, che non è compatibile con la liquidazione, in favore dell’espropriato, di una ulteriore indennità per l’occupazione della cava, con la funzione di indennizzarlo della privazione del godimento del bene oggetto del procedimento di esproprio e della mancata percezione dei frutti nel corso dell’occupazione medesima, in quanto - avuto conto delle modalità di liquidazione dell’indennità di espropriazione, che fa riferimento al valore dei materiali estraibili durante il periodo di godimento della cava e non prevede il riconoscimento di un reddito in periodi e per causa ulteriori rispetto a quelli già considerati - si tradurrebbe in una ingiustificata duplicazione della medesima indennità di espropriazione.

Sempre con riferimento ai terreni destinati a cava, Sez. 1, n. 27899/2021, Marulli, Rv. 662851-01, ha precisato che, allorché l’esercizio di una cava nel sottosuolo del fondo espropriato sia giuridicamente precluso non solo dalla mancanza dell’autorizzazione, ma dalla ben più vincolante circostanza che l’area estrattiva non risulti inclusa nel Piano delle attività estrattive (PAE), va esclusa l’indennizzabilità del pregiudizio correlato al sottosuolo del cespite ablato in quanto, mentre la mera mancanza di autorizzazione non esclude un suo successivo rilascio, la non inclusione dell’area nel Piano non consente di formulare analoga previsione.

Con riferimento, poi, alle fattispecie generative dell’indennità aggiuntiva, Sez. 1, n. 07975/2021, De Marzo, Rv. 660892-01, ha statuito che in caso di espropriazione per pubblica utilità conclusasi tramite l’adozione del decreto di acquisizione sanante ex art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, deve riconoscersi in favore del proprietario coltivatore diretto dell’area l’indennità aggiuntiva di cui all’art. 17 della l. n. 865 del 1971, possedendo quest’ultima una funzione compensativa del pregiudizio provocato all’attività lavorativa, ulteriore ed autonoma rispetto sia al valore della proprietà perduta sia alla componente non patrimoniale, forfettariamente liquidata dall’art. 42 bis nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.

Sempre riguardo all’indennità aggiuntiva, secondo Sez. 1, n. 07688/2021, De Marzo, Rv. 660891-01, all’affittuario coltivatore diretto del fondo espropriato spetta ex art. 42 del d.P.R. n. 327 del 2001 un’indennità aggiuntiva, autonoma rispetto a quella di espropriazione, sul presupposto che sia stato firmato un atto di cessione volontaria produttivo dell’effetto di determinare l’abbandono del terreno coltivato in esecuzione di una delle tipologie contrattuali indicate dalla menzionata norma. Nell’affermare il principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, a fronte di un atto di cessione volontaria stipulato tra le parti, aveva retrodatato la spettanza dell’indennità aggiuntiva alla data della delibera della giunta comunale che aveva deciso di sottoscrivere l’accordo di cessione.

Circa la natura dell’obbligazione indennitaria, Sez. 1, n. 03274/2021, Meloni, Rv. 660506-01, ha confermato l’orientamento (già fatto proprio da Sez. 1, n. 20178/2017, Campanile, Rv. 645212-01, e da Sez. 1, n. 13456/2011, Di Virgilio, Rv. 618330-01) per il quale le obbligazioni di pagare l’indennità di espropriazione e di occupazione legittima costituiscono debiti di valuta (non di valore) sicché, qualora, in esito ad opposizione alla stima effettuata in sede amministrativa, venga riconosciuta all’espropriato una maggiore somma a titolo di indennità espropriativa, l’espropriante deve corrispondere, solo su detta maggiore somma, gli interessi legali, di natura compensativa, dal giorno dell’espropriazione e fino alla data del deposito della somma medesima.

Inoltre, secondo Sez. 1, n. 32911/2021, Scalia, Rv. 663102-01, sempre in tema di indennità di espropriazione, non trova diretta applicazione l’art. 1 del Primo Protocollo addizionale della CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, relativo al diritto alla percezione di una giusta indennità da parte del soggetto privato della proprietà per causa di pubblico interesse, non essendo la materia disciplinata dal diritto europeo, ma solo da quello nazionale che, peraltro, recando la possibilità della liquidazione del maggior danno da ritardo per le obbligazioni di valuta, ai sensi dell’art. 1224, comma 2, c.c., consente di soddisfare ugualmente l’esigenza di pieno ristoro del soggetto espropriato, ove decorra un certo lasso di tempo tra l’espropriazione e la liquidazione dell’indennizzo.

4. Qualificazione delle aree e natura dei vincoli.

Ad avviso di Sez. 1, n. 21561/2021, Valitutti, Rv. 662353-01, i vincoli di inedificabilità di tipo paesistico o idrogeologico, avendo natura conformativa e costituendo delle limitazioni legali della proprietà stabilite in via generale, sono idonei a fare classificare l’immobile oggetto del procedimento come “non edificabile”, incidendo negativamente sul suo valore di mercato e, di conseguenza, sulla determinazione dell’indennità di espropriazione o di occupazione; ne consegue che l’inserimento di un immobile in una zona urbanistica astrattamente edificabile secondo le Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G. non è sufficiente ad attribuirgli natura edificabile ove sul medesimo immobile insistano vincoli paesistici ed idrogeologici tali da escluderne totalmente, in concreto, l’edificabilità. Nella specie, in adesione al decisum della corte di appello, la S.C. ritenuto che i terreni oggetto di controversia non potessero in alcun modo considerarsi edificatori - ad onta del loro inserimento, nelle N.T.A. del P.R.G., tra le zone di natura edificatoria - essendo emerso dai certificati di destinazione urbanistica che si trattava di aree sottoposte a diversi vincoli di «inedificabilità assoluta», a norma dell’art. 37, comma 4, del d.P.R. n. 327 del 2001.

Quanto alla natura delle aree ricomprese dal piano regolatore generale nell’ambito di un piano per gli insediamenti produttivi (PIP), Sez. 1, n. 15174/2021, Caradonna, Rv. 661581-01, ne ha affermato il carattere edificatorio: esse subiscono la conformazione propria del piano stesso, onde, nella determinazione del loro valore (nella fattispecie eseguita mediante applicazione del metodo analitico - ricostruttivo), come non si può tenere conto, ai fini della liquidazione dell’indennità di espropriazione, dell’incidenza negativa esercitata sul valore dell’area dal vincolo specifico di destinazione preordinato all’esproprio, così sono invece suscettibili di considerazione i vincoli di conformazione al riguardo stabiliti, indipendentemente dall’espropriazione, in virtù della preesistente destinazione urbanistica legale e deve, perciò, in particolare, essere fatto riferimento agli “standards” del piano anzidetto, come, ad esempio, agli indici di fabbricabilità previsti da quest’ultimo.

Inoltre, Sez. 1, n. 15174/2021, Caradonna, Rv. 661581-02, ha precisato che, al fine della determinazione dell’indennità d’espropriazione di un fondo edificabile in base al piano regolatore ed incluso in un piano per l’edilizia economica e popolare, la valutazione delle possibilità legali ed effettive di edificazione, al momento dell’apposizione del vincolo preordinato all’espropriazione, ai sensi dell’art. 5 bis del d.l. n. 333 del 1992, introdotto con la l. di conversione n. 359 del 1992, deve tenere conto delle previsioni di tale piano per l’edilizia in punto di densità volumetriche, quali varianti del piano regolatore, quando esse si traducano in indici medi di fabbricabilità, correlati (o correlabili) al totale della superficie al lordo dei terreni da destinarsi a spazi liberi, ed inoltre si riferiscano all’intera area del piano stesso o ad una porzione differenziata per situazioni indipendenti dal progetto espropriativo. Tale valutazione deve, invece, trascurare la maggiore o minore fabbricabilità che il fondo venga a godere o subire per effetto delle disposizioni del piano per l’edilizia attinenti alla collocazione sui singoli fondi di specifiche edificazioni ovvero servizi ed infrastrutture.

Sempre a proposito della determinazione dell’indennità espropriativa in ordine alle aree edificabili, Sez. 1, n. 36331/2021, Pazzi, Rv. 663284-01, ha statuito che l’adozione del criterio previsto per le aree edificabili richiede, quale condizione necessaria e sufficiente, che l’immobile sia individuato come zona edificabile anche ad iniziativa privata nello strumento urbanistico generale, pur se a fini diversi dall’edilizia residenziale privata, e sebbene l’edificabilità risulti subordinata alla stipula di una convenzione con l’amministrazione comunale e sia comunque limitata ad una tipologia vincolata, non configurandosi, in tal caso, un vincolo conformativo della proprietà a fini pubblicistici (Nella specie il terreno privato era stato espropriato per consentire la realizzazione della piastra logistica, “hub interportuale”, Terni-Narni).

Sempre natura edificabile è stata riconosciuta, da Sez. 1, n. 34205/2021, Caradonna, Rv. 663273-01, alle aree da espropriare ove, pur rientrando in una zona destinata dal PRG a spazi pubblici attrezzati a verde e sport, le norme tecniche di adozione del piano consentano, con riguardo alle modalità attuative delle attrezzature pubbliche, l’intervento diretto da parte dei proprietari dell’area in regime di convenzione.

Quanto all’incidenza delle varianti apportate allo strumento urbanistico generale, Sez. 1, n. 05803/2021, Caradonna, Rv. 660576-01, ha precisato che l’accertamento delle possibilità legali ed effettive di edificazione di un’area ai fini della determinazione dell’indennità di esproprio va effettuato senza tenere conto delle varianti apportate allo specifico scopo di realizzare l’opera che viene contestualmente approvata, giacché esse costituiscono fonte di vincolo preordinato all’esproprio e pertanto non può, ad esse, essere riconosciuta alcuna incidenza in sede di accertamento della vocazione edificatoria dell’area. Deve, invece, ai predetti fini, attribuirsi rilevanza alle varianti successive all’apposizione del vincolo espropriativo, e presenti al verificarsi della vicenda ablativa, le quali abbiano carattere conformativo, imponendo un vincolo di destinazione riguardante una generalità di beni e di soggetti.

Nessuna rilevanza possiede, invece, l’aspettativa di edificabilità futura di un terreno attualmente agricolo in ragione dell’evoluzione degli strumenti urbanistici: secondo Sez. 1, n. 04228/2021, Scalia, Rv. 660508-01, ai fini della quantificazione dell’indennità di esproprio rileva solo l’edificabilità legale dell’area ablata all’epoca dell’adozione del relativo decreto, secondo gli strumenti urbanistici già in essere. Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva stimato un’area agricola, valorizzandone la collocazione adiacente al centro comunale e la propensione al mutamento di destinazione urbanistica, come edificabile.

Ad avviso di Sez. 1, n. 34203/2021, Caradonna, Rv. 663272-01, poi, l’art. 20, comma 1, l.r. Emilia-Romagna n. 37 del 2002, non riconosce, come chiarito dalla decisione della Corte cost. n. 64 del 2021, il requisito dell’edificabilità legale in via automatica ed alla sola condizione dell’inserimento delle aree espropriate nel perimetro del territorio utilizzato, in quanto anche nel territorio di questa Regione sono vigenti i principi fondamentali della legislazione statale relativi alla edificabilità legale. Ne consegue che anche per le aree in oggetto troverà applicazione il principio secondo il quale un’area va ritenuta edificabile quando è in tal modo classificata al momento della vicenda ablativa dagli strumenti urbanistici e, tuttavia, le possibilità legali di edificazione andranno escluse tutte le volte in cui, in base allo strumento vigente, la zona sia stata concretamente vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico.

In tema di indennizzo spettante per la reiterazione del vincolo espropriativo, secondo Sez. 1, n. 05339/2021, Lamorgese, Rv. 660727-01, esso va determinato considerando che gli effetti di tale vincolo cessano con l’approvazione del progetto esecutivo dell’opera pubblica poiché quest’ultima, valendo come dichiarazione implicita di pubblica utilità, segna il momento nel quale ha inizio il procedimento ablatorio.

Sempre in tema di reiterazione dei vincoli, Sez. 1, n. 00643/2021, Caradonna, Rv. 660366-01, ha affermato che l’indennità dovuta in caso di incidenza di previsioni urbanistiche su particolari aree comprese in zone edificabili, in applicazione dell’art. 39 del d.P.R. n. 327 del 2001, deve essere erogata dall’Autorità che ha disposto la reiterazione del vincolo direttamente al proprietario, essendo previsto il deposito presso la Cassa depositi e prestiti (ora Ministero dell’economia e delle finanze) soltanto nell’ambito di una procedura perfezionatasi con l’emissione di un valido ed efficace decreto di esproprio o di occupazione temporanea e non anche ai fini del risarcimento del danno derivante dalla perdita di proprietà in conseguenza di un’occupazione appropriativa o usurpativa.

Sulla rilevanza del giudicato formatosi sulla qualificazione del terreno si sofferma Sez. 1, n. 09264/2021, Caiazzo, Rv. 661148-01, secondo la quale tale giudicato, essendo antecedente logico giuridico della statuizione sulla indennità di occupazione legittima, calcolata secondo il criterio degli interessi legali sul valore del suolo, preclude ogni diversa qualificazione e valutazione del terreno medesimo nel giudizio risarcitorio per occupazione appropriativa o accessione invertita, costituendo l’accertamento in fatto del valore del bene il comune punto di partenza per la stima sia dell’indennità di occupazione sia del danno risarcibile.

5. L’asservimento.

In tema di imposizione di servitù nel corso della procedura espropriativa, secondo Sez. 6-1, n. 03891/2021, Mercolino, Rv. 660740-01, l’applicabilità del procedimento previsto dall’art. 21 del d.P.R. n. 327 del 2001 non dipende dalla circostanza che la realizzazione dell’opera pubblica comporti l’ablazione del diritto di proprietà sul fondo, anziché l’imposizione di un vincolo suscettibile di menomare le facoltà di godimento e disposizione del proprietario, bensì dal coinvolgimento di quest’ultimo nel procedimento espropriativo, reso possibile dalla diretta incidenza del vincolo sul bene che, consentendo d’identificare immediatamente l’avente diritto all’indennità, impone all’espropriante di procedere alla determinazione della stessa in via provvisoria, dando in tal modo l’avvio al subprocedimento disciplinato dagli artt. 20 e ss. del d.P.R. n. 327 del 2001, ed è proprio la previsione di una precedente fase amministrativa di liquidazione a giustificare l’assoggettamento della domanda giudiziale di determinazione dell’indennità alla disciplina speciale dettata dall’art. 54 del d.P.R. n. 327 del 2001 e dall’art. 29 del d.lgs. n. 150 del 2011, imperniata sull’attribuzione della competenza alla corte d’appello in unico grado e sull’applicabilità del rito sommario di cognizione.

Con riguardo all’imposizione, con sentenza del giudice, di una servitù di elettrodotto, Sez. 2, n. 04839/2021, Carrato, Rv. 660459-01, ha chiarito che il presupposto della preventiva autorizzazione all’impianto della linea da parte della competente autorità di cui all’art. 108 del r.d. n. 1775 del 1933, che costituisce una condizione dell’azione (sicché deve ritenersene sufficiente la sopravvenienza, purché prima della decisione), sussiste indipendentemente dal fatto che i termini fissati con l’autorizzazione stessa, in connessione con la dichiarazione di pubblica utilità dell’elettrodotto, siano scaduti, trattandosi di circostanza rilevante solo al diverso fine dell’improseguibilità del procedimento amministrativo d’imposizione della servitù medesima in via espropriativa.

6. L’opposizione alla stima.

Circa la decadenza dal diritto di proporre l’opposizione alla stima, Sez. 1, n. 05340/2021, Lamorgese, Rv. 660728-01, ha chiarito che l’art. 54, comma 2, del d.P.R. n. 327 del 2001, applicabile ratione temporis, prevede siffatta decadenza solo a seguito del decorso del termine perentorio di trenta giorni dalla notifica del decreto di esproprio o della successiva stima peritale, dovendo escludersi, pertanto, che l’opponente incorra in altra decadenza ove tali notifiche non siano effettuate, pure nei casi in cui l’opposizione sia proposta dallo stesso ente espropriante, che sia anche promotore o beneficiario dell’espropriazione. Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto inammissibile l’opposizione del comune, ente espropriante ed anche beneficiario dell’espropriazione, solo perché presentata dopo sessanta giorni dal deposito della relazione di stima presso gli uffici comunali.

Sempre sul tema della decadenza, Sez. 1, n. 07369/2021, Caradonna, Rv. 660796-01, ha precisato che l’azione volta ad ottenere la maggiorazione del dieci per cento dell’indennità di esproprio, ai sensi dell’art. 37, comma 2, del d.P.R. n. 327 del 2001, deve essere promossa nel termine perentorio di trenta giorni, previsto per la domanda di determinazione giudiziale dell’indennità dall’art. 54, comma 2, del d.P.R. citato - nel testo previgente al d.lgs. n. 150 del 2011 -, poiché tale maggiorazione costituisce una componente della ridetta indennità.

Quanto al rapporto tra l’opposizione alla stima e le ulteriori domande risarcitorie, secondo Sez. 1, n. 39145/2021, Scotti, Rv. 663424-01, è ammissibile il cumulo di domande concernenti l’impugnazione innanzi alla corte di appello della pronuncia di primo grado avente a oggetto il risarcimento del danno da occupazione illegittima e l’opposizione alla stima dell’indennità per l’occupazione legittima, atteso che, in tale ipotesi, non si verifica alcuna lesione del diritto al doppio grado di giurisdizione di merito.

Importante è, poi, il chiarimento di Sez. 1, n. 03655/2021, Tricomi L., Rv. 660555-01, secondo cui nelle espropriazioni per pubblica utilità, quali che siano le modalità e gli istituti tramite cui l’Amministrazione espropriante pervenga all’acquisizione dell’immobile privato, il suo obbligo di pagare un corrispettivo correlato al valore venale del bene deriva direttamente dall’art. 42, comma 3, Cost.; pertanto, qualora il privato abbia promosso una prima domanda, per conseguire la declaratoria di nullità della cessione volontaria delle aree ed il risarcimento del danno dipendente dalla vicenda ablativa, azione conclusasi con esito negativo, ed abbia allora introdotto un’ulteriore domanda giudiziale, in conseguenza dell’ormai definitivamente accertata validità ed efficacia della cessione delle aree, volta a conseguire la corresponsione della differenza tra l’acconto ricevuto a la definitiva indennità di esproprio, sussiste tra le due azioni uno stretto collegamento, con la conseguenza che la domanda prioritariamente promossa è sufficiente ad interrompere la prescrizione anche rispetto al diritto invocato con la seconda, perché le due azioni sono volte entrambe a fare valere il diritto al ristoro patrimoniale in ragione della medesima vicenda ablativa, senza che rilevi, a tal fine, la differenza tra il petitum e la causa petendi delle due domande.

7. L’espropriazione parziale.

Sez. 6-1, n. 04264/2021, Scalia, Rv. 660586-01, ha chiarito che, rispetto al soggetto espropriato, non sono concepibili due distinti crediti, l’uno a titolo di indennità di espropriazione e l’altro quale risarcimento del danno per il deprezzamento che abbiano subito le parti residue del bene espropriato, tenuto conto che questa seconda voce è da considerare ricompresa nella prima che, per definizione, riguarda l’intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo per effetto del provvedimento ablativo. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, ai fini della determinazione dell’indennità dovuta sulla base di un esproprio parziale al soggetto espropriato, aveva fatto applicazione, anziché della disposizione di cui all’art. 33 del d.P.R. n. 327 del 2001, di quella contenuta nel successivo art. 44, destinata ad operare in funzione del ristoro del pregiudizio subito dai terzi non espropriati in relazione ai pregiudizi indiretti che immobili non coinvolti nell’espropriazione ricevono per effetto dell’esecuzione dell’opera pubblica.

Anche secondo Sez. 1, n. 27555/2021, Marulli, Rv. 662635-01, in tema di espropriazione parziale, il pregiudizio alla porzione di fondo rimasta in proprietà all’espropriato derivante dall’opera pubblica realizzata è suscettibile di indennizzo ai sensi dell’art. 33 del d.P.R. n. 327 del 2001, poiché l’indennità di espropriazione comprende l’intera diminuzione patrimoniale subita dal destinatario del provvedimento ablativo. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza nella quale la corte di appello aveva ritenuto che il pregiudizio derivante dalle immissioni, vibrazioni e difficoltà di accesso alla parte del terreno rimasta in proprietà dell’espropriato, causate dal passante autostradale realizzato sulla porzione di fondo espropriata, dovesse essere fatto valere in un distinto giudizio risarcitorio.

Sez. 6-1, n. 25005/2021, Marulli, Rv. 662433-01, ha precisato, poi, che l’indennità prevista dall’art. 33 del d.P.R. n. 327 del 2001 si applica esclusivamente ai fondi frazionati, poiché la diminuzione di valore è indennizzabile solo qualora sussista un rapporto immediato e diretto tra la parziale ablazione e il danno, non anche quando il deprezzamento sia dovuto a limitazioni legali della proprietà o a vincoli che non colpiscono in modo specifico e differenziato la porzione residua, risolvendosi in obblighi o limitazioni di carattere generale che gravano, indipendentemente dall’intervento ablatorio, su tutti i beni che si trovano in una certa posizione di vicinanza rispetto all’opera pubblica realizzata o da realizzare. Nella specie, la S.C. ha respinto il motivo di ricorso con il quale era stata censurata la liquidazione dell’indennità senza considerare il pregiudizio subito dalle particelle non frazionate, ma rimaste isolate dal restante compendio degli espropriati.

Infine, per Sez. 1, n. 21206/2021, Caiazzo, Rv. 661975-01, l’art. 41 della l. n. 2359 del 1865, consente la detrazione, dalla somma liquidata a titolo di indennità, del vantaggio che dall’esecuzione dell’opera di pubblica utilità possa derivare alla parte residua del fondo espropriato, purché esso presenti il duplice requisito della specialità e dell’immediatezza e non si risolva, cioè, nel vantaggio generico e comune che tutti gli immobili ubicati nella zona ottengono per effetto dell’opera.

8. La retrocessione.

Sez. 1, n. 25825/2021, Scotti, Rv. 662486-01, dopo avere precisato che il diritto alla retrocessione presuppone la validità e la perdurante efficacia del decreto di espropriazione, ha affermato che esso consiste nel diritto potestativo attribuito al proprietario dell’immobile espropriato, ma non utilizzato per la realizzazione dell’opera pubblica a causa di un fatto verificatosi ex post, di chiedere all’autorità giudiziaria che gli sia ritrasferito il bene tramite la pronuncia di una sentenza che non dà luogo alla caducazione del precedente acquisto avvenuto in base al decreto di espropriazione, ma attua un nuovo trasferimento a titolo derivativo con effetto ex nunc.

  • appalto pubblico
  • arbitrato commerciale

CAPITOLO XXVI

APPALTI PUBBLICI

(di Stefano Pepe )

Sommario

1 Premessa: il quadro normativo. - 2 La giurisdizione: cenni. - 3 L’esecuzione del contratto. - 4 Appalto e sub-appalto: rapporti e interferenze. - 5 L’arbitrato negli appalti pubblici.

1. Premessa: il quadro normativo.

Prima di esaminare i principi affermati dalla Corte di cassazione nel corso dell’anno 2021 in materia di appalti pubblici, in ragione della particolarità e complessità della materia non può non tenersi conto, da un lato, delle successive e articolate modificazioni del quadro normativo e, dall’altro, dei limiti entro i quali opera la giurisdizione del giudice ordinario rispetto a quella del giudice amministrativo.

Quanto al primo aspetto, va osservato che alla prima legge sulle opere pubbliche, l. n. 2248 del 1865, all. F, ha fatto seguito la legge quadro sui lavori pubblici, l. n. 109 del 1994, che aveva lo scopo di creare una disciplina omogenea in materia di lavori pubblici. A seguito di tale legge, il d.m. n. 145 del 2000 ha introdotto il nuovo capitolato generale d’appalto e il d.P.R. n. 34 del 2000 ha definito il sistema di qualificazione delle imprese e altre normative di carattere tecnico.

Nel 2004 l’Unione Europea ha, poi, adottato la direttiva 2004/18/CE (abrogata dalla nuova direttiva 2014/24/UE) che riunisce le procedure per l’aggiudicazione degli appalti nei tre settori dei lavori, dei servizi e delle forniture quale obiettivo di semplificazione e snellimento delle procedure; direttive che il d.lgs. 163 del 2006 (codice dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture) ha recepito nel nostro ordinamento. Con l’entrata in vigore del d.P.R. n. 207 del 2010, di esecuzione e attuazione del d.lgs. n. 163 del 2006, si è abrogato il d.P.R. n. 554 del 1999 e il d.P.R. 34 del 2000 di attuazione della l. n. 109 del 1994, e gran parte del d.m. 145 del 2000. In ultimo, è stato approvato il d.lgs. n. 50 del 2016, che costituisce la fonte normativa di riferimento per quanto riguarda la disciplina di qualsiasi tipo di contratto pubblico di lavori, servizi e forniture.

In particolare, il nuovo codice dei contratti si compone di 220 articoli e XXV allegati ed è diviso in sei parti - la prima dedicata all’ambito di applicazione, principi, disposizioni comuni ed esclusioni (artt. 1-34); la seconda ai contratti di appalto per lavori, servizi e forniture, comprensiva sia della disciplina degli appalti nei settori ordinari sia di quella degli appalti nei settori speciali, oltre che della disciplina di appalti in specifici settori, quali gli appalti relativi a beni culturali, gli appalti della protezione civile, gli appalti nei servizi sociali, i concorsi di progettazione, gli appalti relativi a difesa e sicurezza (artt. 35-163); la terza alle concessioni (artt. 164-178); la quarta al partenariato pubblico e privato e al contraente generale (artt. 179-199); la quinta a infrastrutture e insediamenti prioritari (artt. 200-203); la sesta recante disposizioni finali e transitorie, dove sono collocate pure le disposizioni sul contenzioso (rito appalti, transazione, accordo bonario, arbitrato, altri rimedi paragiurisdizionali) (artt. 204-220).

Il d.lgs. n. 50 del 2016 è stato, poi, oggetto di modifica ad opera del d.lgs. n. 56 del 2017 e, in ultimo, del d.l. n. 77 del 2021 (pubblicato nella G.U. n. 129 del 31 maggio 2021), cd. Decreto Semplificazioni 2021, in vigore dal 1° giugno 2021, convertito dalla l n. 108 del 2021, il quale detta le regole per la governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza (PNRR) e le prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure. In particolare, in materia di contratti pubblici e appalti, il Decreto Semplificazioni prevede: l’inserimento, ad opera delle stazioni appaltanti, nei bandi di gara, negli avvisi e negli inviti, di specifiche clausole dirette all’inserimento, come requisiti necessari e come ulteriori requisiti premiali dell’offerta, di criteri orientati a promuovere l’imprenditoria giovanile, la parità di genere e l’assunzione di giovani, con età inferiore a 36 anni, e donne (art. 47); semplificazioni in materia di affidamento ed esecuzione dei contratti pubblici PNRR e PNC (artt. 48 e 50); il divieto, dal 1° giugno 2021 (data di entrata in vigore) fino al 31 ottobre 2021, in caso di subappalto, di superamento della quota del 50% dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture (art. 49); modifiche al d.l. n. 76 del 2020.

In particolare, fino al 30 giugno 2023, si alza la soglia per la possibilità di affidamento diretto che diventa utilizzabile per servizi e forniture, compresi i servizi di ingegneria e architettura e l’attività di progettazione, di importo inferiore a 139.000 euro (art. 51) e si prevede il rafforzamento della centralità della Banca dati gestita dall’ANAC (Autorità nazionale anticorruzione) e l’istituzione del fascicolo virtuale dell’operatore economico (art. 53).

Discende come logica conseguenza da quanto sopra che le sentenze di seguito riportate, seppur riferite a fattispecie in cui risultano applicabili norme formalmente non più attuali, in quanto abrogate dal d.lgs. n. 50 del 2016, assumono, comunque, valore di piena attualità, nei casi nei quali il loro contenuto è stato sostanzialmente riprodotto in tale ultimo testo normativo.

2. La giurisdizione: cenni.

Quanto al secondo aspetto, relativo al riparto di giurisdizione, esso assume rilievo ai fini di comprendere entro quale ambito è riconosciuto al giudice ordinario il potere di decidere le controversie in materia di appalti pubblici.

Sul punto, si riportano quattro pronunce che hanno affrontato il menzionato riparto con riferimento a tre specifiche fattispecie di estrema attualità.

Con una prima sentenza (Sez. U, n. 17329/2021, Graziosi, Rv. 661540-01) si è affermata la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla controversia introdotta dalla P.A. «che ha indetto una gara per l’affidamento di lavori o servizi pubblici nei confronti del soggetto privato ad essa partecipante, al fine di ottenere il risarcimento del danno conseguente all’inadempimento del convenuto all’obbligo di rinnovare la polizza fideiussoria da esso prestata ove sia venuta a scadenza prima dell’aggiudicazione della gara, vertendo il petitum sostanziale sull’inadempimento di una obbligazione del privato funzionale a preservare il diritto dell’ente pubblico appaltante all’escussione della garanzia, il cui fondamento risiede nel principio di buona fede di cui all’art. 1337 c.c. e dalla cui violazione scaturisce una responsabilità precontrattuale meramente occasionata dal procedimento amministrativo di affidamento di lavori o servizi».

L’affermazione di tale principio muove dalla premessa secondo cui, se è vero che, ordinariamente, il riparto giurisdizionale trova il suo discrimen nella stipulazione del contratto d’appalto, è vero, altresì, che sussiste anche una fase prodromica a quella amministrativa, definibile, pur lato sensu, precontrattuale, nella quale la struttura delle posizioni soggettive è affidata, da un lato, all’adempimento di obbligazioni di buona fede e correttezza e, dall’altro, al diritto al loro adempimento che si riverbera, logicamente, nel diritto al risarcimento dei danni derivati dall’inadempimento. Tale fase, pur essendo prodromica ad una fase amministrativa, a sua volta a monte della stipulazione del contratto da cui scaturiranno posizioni soggettive riconducibili alla giurisdizione ordinaria, non può non essere fondata su obblighi e diritti soggettivi la violazione dei quali, considerato proprio lo stadio prodromico in cui interagiscono, va ricondotta alla species della responsabilità extracontrattuale che si qualifica precontrattuale. Pertanto, l’incidenza dell’obbligo di buona fede, id est di tutela dell’altro soggetto che ne è protagonista, non può venire meno con l’avvio della fase amministrativa. La fase prodromica precontrattuale, in questo senso, si protrae, allora, come parallela alla fase amministrativa fino alla stipulazione del contratto frutto del provvedimento di aggiudicazione, dopo la quale i suoi relativi obblighi e correlativi diritti soggettivi verranno integralmente sostituiti da ciò che discende dal contratto. Ne deriva, dunque, che la responsabilità precontrattuale non consegue al procedimento amministrativo, che costituisce soltanto l’occasione del verificarsi del correlato illecito. In conclusione, la sussistenza e, come appena rilevato, la persistenza della fase precontrattuale sono effetto, a ben guardare, della mancanza di una posizione di potere della pubblica amministrazione, atteso che, nella suddetta fase, circolano esclusivamente obbligazioni e diritti soggettivi, per cui essa effettivamente non inerisce ad un potere pubblico.

Con la sentenza Sez. U, n. 09005/2021, Cosentino, Rv. 660917-01, la Corte si è occupata del riparto di giurisdizione in ordine alla controversia relativa alla domanda di escussione della polizza fideiussoria. La S.C., con la decisione in esame, ha affermato, diversamente da quanto statuito dai giudici di merito, che siffatta controversia, avente ad oggetto la detta polizza, a cui una stazione appaltante abbia proceduto a seguito dell’esclusione di un concorrente dalla gara - per non avere quegli fornito la prova del possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa richiesti nel bando di gara, mediante presentazione della documentazione ivi indicata o richiamata nella lettera di invito - è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario ove si discuta esclusivamente dei diritti derivanti dalla polizza (con riguardo, ad es. all’ammontare delle somme dovute, ai tempi e alle modalità del relativo pagamento e all’individuazione dei soggetti obbligati), mentre è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo ove si discuta della sussistenza dei presupposti di esclusione del concorrente dalla gara.

Con altra sentenza la Corte si è occupata dei limiti di applicabilità delle norme in materia di procedimento di evidenza pubblica in relazione ad attività svolta da un organismo di diritto pubblico. La lite aveva ad oggetto la cessione di un credito da parte di una società privata qualificabile quale organismo di diritto pubblico e, quindi, in quanto tale, sottoposta alla normativa in materia di evidenza pubblica. La S.C. (Sez. 1, n. 05664/2021, Lamorgese, Rv. 660731-01) ha affermato che, in simile ipotesi, tenuto conto della normativa applicabile ratione temporis non è richiesto da norme imperative, e dunque a pena di nullità, che la scelta del cessionario avvenga mediante il procedimento di evidenza pubblica, non rientrando la predetta cessione né tra i servizi bancari e finanziari, di cui all’Allegato II A), richiamato dagli artt. 20, comma 2, e 3, comma 10, del codice degli appalti pubblici (d.lgs. n. 163 del 2006, applicabile ratione temporis), né tra i servizi esclusi, cui si applicano i principi proconcorrenziali derivanti dai trattati europei, ai sensi dell’art. 27 del medesimo codice. Inoltre, la cessione del credito rientra tra i contratti attivi, ai quali i suddetti principi sono stati estesi da normativa entrata in vigore solo successivamente (art. 4 del d.lgs. n. 50 del 2016, come modificato dall’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 56 del 2017) ed applicabile alle sole amministrazioni statali, a norma dell’art. 3 r.d. n. 2440 del 1923.

Infine, Sez. U, n. 30580/2021, Nazzicone, Rv. 662649-01, si è occupata della controversia afferente la domanda di condanna al pagamento di prestazioni eseguite in ragione di un contratto di appalto di servizi la cui stipula era stata successivamente annullata, in via di autotutela, dall’amministrazione pubblica. A fronte di tale domanda, il Tribunale adito aveva dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in favore del g.a., statuizione confermata in sede di appello sul presupposto che la pretesa al corrispettivo delle prestazioni eseguite aveva titolo nel contratto concluso con la P.A., ma questo era stato dalla stessa dichiarato nullo o, comunque, risolto, in ragione dell’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione dopo che la P.A. aveva accertato l’esistenza della causa di esclusione dalla gara, costituita dal rinvio a giudizio del legale rappresentante di una delle società mandanti del R.T.I. per il reato di truffa ai danni della medesima amministrazione. Avendo la P.A. disposto l’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione, con conseguente nullità o, comunque, risoluzione del contratto in forza della clausola 12 in esso contenuta, e dovendosi applicare il d.lgs. n. 163 del 2006, nel regime anteriore al d.lgs. n. 53 del 2010, la corte del merito ha concluso per la giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto non si trattava della mera esplicazione di un potere contrattuale, ma dell’esercizio di un potere autoritativo della P.A. a fronte della quale esisteva una posizione di mero interesse legittimo.

In particolare, osserva la S.C. che la domanda proposta dal privato non attiene alla legittimità dell’atto di autotutela, ma semplicemente alla condanna di controparte al pagamento di quanto negozialmente pattuito in forza della parziale esecuzione del contratto di appalto di servizi, avvenuta senza contestazioni e con piena soddisfazione della committente; ne´ innanzi al giudice ordinario, ne´ innanzi al T.A.R. per la Sicilia, le parti hanno mai chiesto di pronunziarsi sulle sorti del contratto, dato che esso aveva già avuto parziale esecuzione, con l’espletamento del servizio per la prima delle tre annualità pattuite. Così individuato il thema decidendum, la Corte, nell’accogliere il ricorso, ha affermato il principio secondo cui è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia - promossa vigente il d.lgs. n. 163 del 2006 nella formulazione anteriore al d.lgs. n. 53 del 2010 - avente ad oggetto la domanda di condanna della pubblica amministrazione al pagamento delle prestazioni rese in esecuzione di un contratto di appalto stipulato in forza di aggiudicazione poi annullata d’ufficio, vertendo la lite sul diritto soggettivo all’adempimento del contratto e non già sulla legittimità dell’esercizio del potere autoritativo della pubblica amministrazione. In buona sostanza, le controversie nelle quali il petitum sostanziale è l’accertamento dell’adempimento o dell’inadempimento delle parti alle obbligazioni assunte nell’ambito del contratto, ai fini del pagamento del corrispettivo o dell’attivazione di altri rimedi civilistici, non coinvolgono in se´ il controllo sull’esercizio del potere pubblico, in relazione ai parametri di legittimità dell’azione amministrativa provvedimentale: onde non sussiste la giurisdizione amministrativa quando la causa petendi della domanda proposta in giudizio non sia radicata sull’illegittimità del provvedimento emesso, con conseguente lesione dell’interesse legittimo dei ricorrenti, ma abbia ad oggetto l’applicazione di una clausola contrattuale ed il diritto al pagamento. Alla giurisdizione ordinaria resta sottratta solo la cognizione in via principale sul potere di revoca dell’aggiudicazione, di cui all’art. 21 quinquies, e di annullamento d’ufficio, ai sensi dell’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990, ancorché incidenti pure sulla permanenza del rapporto contrattuale.

3. L’esecuzione del contratto.

Il contratto di appalto trova nella sua esecuzione la causa di molteplici controversie afferenti a sopravvenienze che in corso d’opera incidono sull’assetto di interessi regolato con il suddetto contratto e che, in alcuni casi, determinano il venir meno del vincolo contrattuale. Di seguito, sono esaminate le pronunce di maggior rilievo che nel corso del 2021 si sono occupate di diverse tematiche relative alla fase esecutiva del contratto di appalto.

In tema di esecuzione anticipata prima della stipula del contratto disciplinata dall’art. 11, comma 9, del d.lgs. n. 163 del 2006, Sez. 1, n. 03629/2021, Mercolino, Rv. 660566-01, ha ritenuto che essa dà luogo ad un rapporto distinto da quello derivante dall’aggiudicazione, anche se ad esso collegato e destinato a rimanere dallo stesso assorbito in caso di stipulazione del contratto, che s’instaura nel caso in cui sia disposta l’esecuzione in via d’urgenza e che non esclude la necessità della successiva stipulazione del contratto vero e proprio. In particolare, esso è volto a consentire l’esecuzione dei lavori o la prestazione del servizio o della fornitura per il tempo strettamente necessario all’espletamento dei controlli ed all’adempimento delle formalità preliminari alla stipulazione e determina effetti quantitativamente più ridotti di quelli derivanti dal contratto, nonché temporalmente circoscritti alle prestazioni rese nel medesimo periodo. In tal senso depone chiaramente il dettato della norma in esame, la quale prevede che, nel caso in cui la stipulazione non abbia luogo nel termine fissato, l’aggiudicatario non ha diritto al corrispettivo contrattualmente previsto per le prestazioni eseguite, ma soltanto al rimborso delle spese sostenute per l’effettuazione delle stesse, e, nell’attribuire all’aggiudicatario la facoltà di sciogliersi da ogni vincolo, non ne esclude l’esercizio neppure nel caso in cui l’esecuzione sia stata già intrapresa in via d’urgenza. La S.C., in conclusione, afferma che l’avvio anticipato dell’esecuzione si configura come una fase del procedimento che conduce alla stipulazione del contratto, dotata di proprie caratteristiche e finalità, avente origine da un apposito provvedimento, con cui viene disposta l’esecuzione in via d’urgenza, e destinata ad esaurirsi naturalmente per effetto della stipulazione del contratto, la quale dà inizio all’esecuzione vera e propria, ovvero a cessare anticipatamente per effetto dell’accertata impossibilità di procedere alla stipulazione; di talché, risulta superflua la pattuizione di un corrispettivo, essendo il rapporto tra le parti destinato a confluire in quello contrattuale, in caso di stipulazione del contratto, ed in alternativa a concludersi con il solo ristoro degli oneri sopportati dalle parti.

In relazione ai ritardi dell’appaltatore e alla loro rilevanza in ordine al giudizio di imputabilità ai fini della risoluzione del contratto di appalto, Sez. 1, n. 20874/2021, Iofrida, Rv. 661972-01, ha affermato il principio secondo cui tale rilevanza, secondo la procedura prevista dall’art. 119 del d.P.R. n. 554 del 1999, applicabile ratione temporis, dipende dal riscontro dei presupposti della gravità ed imputabilità, «la cui valutazione deve essere operata non solo alla stregua di un criterio oggettivo, attraverso la verifica che l’inadempimento abbia inciso in misura apprezzabile nell’economia complessiva del rapporto, ma anche di eventuali elementi di carattere soggettivo, consistenti nel comportamento di entrambe le parti che possano, in relazione alla particolarità del caso concreto, incidere sul giudizio di gravità. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza con la quale la Corte d’appello, dopo aver considerato che il ritardo dell’appaltatore non poteva oggettivamente considerarsi sufficiente a legittimare la risoluzione contrattuale, aveva però trascurato di esaminare l’aspetto soggettivo e cioè che i numerosi inviti e richiami erano rimasti senza risposta, sì da far insorgere nella stazione appaltante il fondato dubbio sulla affidabilità dell’appaltatore e sulle sue possibilità di rientro)».

Questa sentenza si pone sul solco giurisprudenziale secondo cui lo scioglimento del contratto per inadempimento - salvo che la risoluzione operi di diritto - consegue ad una pronuncia costitutiva, che presuppone da parte del giudice la valutazione della non scarsa importanza dell’inadempimento stesso, avuto riguardo all’interesse dell’altra parte. Tale valutazione viene operata alla stregua di un duplice criterio, applicandosi in primo luogo un parametro oggettivo, attraverso la verifica che l’inadempimento abbia inciso in misura apprezzabile nell’economia complessiva del rapporto (in astratto, per la sua entità e, in concreto, in relazione al pregiudizio effettivamente causato all’altro contraente), sì da dar luogo ad uno squilibrio sensibile del sinallagma contrattuale; l’indagine va completata, poi, mediante la considerazione di eventuali elementi di carattere soggettivo, consistenti nel comportamento di entrambe le parti (come un atteggiamento incolpevole o una tempestiva riparazione, ad opera dell’una, un reciproco inadempimento o una protratta tolleranza dell’altra), che possano, in relazione alla particolarità del caso, attenuare il giudizio di gravità, nonostante la rilevanza della prestazione mancata o ritardata (ex plurimis e da ultimo Sez. 2, n. 10995/2015, Proto, Rv. 588671-01).

Sempre con riferimento ai doveri e obblighi imposti alle parti in sede di esecuzione del contratto, Sez. 1, n. 03839/2021, Scalia, Rv. 660703-01, ha precisato che la l. n. 109 del 1994 e il d.P.R. n. 554 del 1999, applicabili ratione temporis, prevedono l’obbligatoria acquisizione, da parte della stazione appaltante, della relazione geologica tra gli atti progettuali della gara; in assenza di essa, tuttavia, ove venga ugualmente stipulato il contratto di appalto, l’impresa appaltatrice non può agire per la risoluzione ex art. 1453 c.c., facendo valere l’inadempimento della committenza nella precedente fase di gara, «poiché rientra tra i suoi obblighi di diligenza controllare la validità tecnica del progetto e, nella fase successiva, la stessa impresa è tenuta a segnalare le omissioni progettuali, ai fini dell’adozione di varianti in corso d’opera, in adempimento del dovere di collaborazione che presiede allo svolgimento del rapporto».

4. Appalto e sub-appalto: rapporti e interferenze.

Sez. 6-1, n. 24472/2021, Dongiacomo, Rv. 662430-01, si è occupata della sorte del contratto di appalto o, meglio, dei pagamenti delle prestazioni ad esso riferite, a seguito del fallimento dell’impresa appaltatrice, affermando che, qualora l’impresa appaltatrice di opere pubbliche sia posta in amministrazione straordinaria, il suo contratto con la Pubblica Amministrazione si scioglie e il credito per le prestazioni eseguite fino a quel momento è immediatamente esigibile; la stazione appaltante non può sospendere i pagamenti all’appaltatrice e, segnatamente, non può adoperare il potere di sospensione dei pagamenti ex art. 118, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006, che viene in rilievo solo in costanza di un rapporto di appalto con un’impresa in bonis. Ne deriva che il credito del subappaltatore è un normale credito concorsuale da soddisfare nel rispetto della par condicio e dell’ordine delle cause legittime di prelazione.

5. L’arbitrato negli appalti pubblici.

L’arbitrato in materia di contratti pubblici di lavori è stato oggetto di continui interventi da parte del legislatore che, con gli artt. 241, 242 e 243 del d.lgs. n. 163 del 2006, ha provveduto a unificarne la disciplina prima di allora contenuta in diverse disposizioni (art. 32, l. n. 109 del 1994, e successive modificazioni; artt. 149, 150 e 151 del regolamento generale di attuazione della suddetta legge, approvato con d.P.R. n. 554 del 1999; artt. 1-12, d.m. Grazia e Giustizia n. 398 del 2000; artt. 32, 33 e 34, d.m. Lavori Pubblici n. 145 del 2000).

Per effetto dell’art. 217, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 50 del 2016, a decorrere dal 19 aprile 2016, il d.lgs. n. 163 è stato abrogato, ai sensi di quanto disposto dall’art. 220, risultando, ora, l’arbitrato disciplinato dall’art. 209 del cit. d.lgs. n. 50.

Per quanto rileva in tale sede, l’originario art. 241 cit. stabiliva che «Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario previsto dall’articolo 240, possono essere deferite ad arbitri».

A fronte di questa iniziale previsione che consentiva il ricorso all’arbitrato, l’art 3, comma 19, della l. n. 244 del 2007 ha introdotto il divieto per le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, di inserire clausole compromissorie «in tutti i loro contratti aventi ad oggetto lavori, forniture e servizi ovvero, relativamente ai medesimi contratti, di sottoscrivere compromessi. Le clausole compromissorie ovvero i compromessi comunque sottoscritti sono nulli e la loro sottoscrizione costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale per i responsabili dei relativi procedimenti».

Successivamente, il d.lgs. n. 53 del 2010, nel dare attuazione alla direttiva 2007/66/CE, che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudicazione degli appalti pubblici, ha, con l’art. 15, abrogato il cennato art. 3 della l. n. 244 del 2007 e, all’art. 5, comma 1, lett. b), inserito il comma 1 bis all’art. 241 cit. Con tale ultima disposizione il legislatore prevedeva che «La stazione appaltante indica nel bando o nell'avviso con cui indice la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, se il contratto conterrà, o meno, la clausola compromissoria. L’aggiudicatario può ricusare la clausola compromissoria, che in tale caso non è inserita nel contratto, comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell'aggiudicazione. È vietato in ogni caso il compromesso».

Per effetto delle modifiche introdotte dall’art. 1, commi 19-24, l. n. 190 del 2012 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), l’art. 241, nel testo in vigore dal 28 novembre 2012 al 18 aprile 2016, sanciva che «Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario previsto dall’articolo 240, possono essere deferite ad arbitri, previa autorizzazione motivata da parte dell’organo di governo dell’amministrazione. L’inclusione della clausola compromissoria, senza preventiva autorizzazione, nel bando o nell’avviso con cui è indetta la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, o il ricorso all’arbitrato, senza preventiva autorizzazione, sono nulli».

Il medesimo art. 1 della l. n. 190 del 2012 prevedeva, al comma 25, che «le disposizioni di cui ai commi da 19 a 24 non si applicano agli arbitrati conferiti o autorizzati prima della data di entrata in vigore della presente legge».

Infine, oggi, per effetto dell’art. 209 del d.lgs. n. 50 del 2016, è previsto che «Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario di cui agli articoli 205 e 206 possono essere deferite ad arbitri. L’arbitrato, ai sensi dell’articolo 1, comma 20, della legge 6 novembre 2012, n. 190, si applica anche alle controversie relative a concessioni e appalti pubblici di opere, servizi e forniture in cui sia parte una società a partecipazione pubblica ovvero una società controllata o collegata a una società a partecipazione pubblica, ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile, o che comunque abbiano ad oggetto opere o forniture finanziate con risorse a carico dei bilanci pubblici. 2. La stazione appaltante indica nel bando o nell’avviso con cui indice la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, se il contratto conterrà o meno la clausola compromissoria. L’aggiudicatario può ricusare la clausola compromissoria, che in tale caso non è inserita nel contratto, comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione. È vietato in ogni caso il compromesso. 3. È nulla la clausola compromissoria inserita senza autorizzazione nel bando o nell’avviso con cui è indetta la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito. La clausola è inserita previa autorizzazione motivata dell’organo di governo della amministrazione aggiudicatrice (…)».

Il quadro normativo sopra riportato pone in luce il difficile bilanciamento perseguito dal legislatore tra le diverse esigenze che sono alla base del ricorso all’arbitrato nei contratti della pubblica amministrazione. Da un lato, infatti, l’istituto in esame risponde all’esigenza avvertita non solo in ambito nazionale, ma, più in generale, in quello europeo, di rendere più efficaci le procedure di risoluzione delle controversie relative agli appalti pubblici, con conseguente anche contenimento dei relativi costi rispetto ai contenziosi ordinari. Dall’altro lato, il legislatore, proprio in ragione della portata dell’arbitrato quale strumento di risoluzione delle controversie diverso da quello rimesso alla giurisdizione ordinaria, ne ha previsto l’operatività previo rispetto di specifici presupposti tra i quali l’autorizzazione da parte dell’organo di governo della singola pubblica amministrazione.

È con riferimento alla portata applicativa delle disposizioni che hanno introdotto, quale requisito di validità della clausola compromissoria, la preventiva autorizzazione che la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata. In particolare, la questione è quella di individuare la disciplina a cui devono essere sottoposti quei contratti di appalto stipulati in epoca antecedente alla previsione della necessaria autorizzazione sopra indicata.

Sez. 1, n. 08085/2021, Terrusi, Rv. 660977-01, ha affermato che la clausola compromissoria contenuta nel contratto può essere invocata dall’appaltante che abbia stipulato la convenzione, sebbene titolare di un mandato con rappresentanza conferitogli da un terzo, quando il medesimo abbia agito in nome proprio, perché quando il rappresentante stipula anche in nome del rappresentato assume la veste di parte soltanto formale del contratto. Nella fattispecie, la Corte ha espresso il suindicato principio nel giudizio in cui l’appaltante, mandatario con rappresentanza di un istituto di credito, aveva stipulato il contratto contenente la clausola compromissoria senza che vi fosse stata la spendita del nome del mandante, con la conseguenza che il mandatario aveva assunto la veste di parte anche sostanziale del contratto.

Sempre in tema di arbitrato relativo a contratti pubblici, Sez. 1, n. 07980/2021, Terrusi, Rv. 660893-01, ha precisato che il comma 15 bis dell’art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006, introdotto dall’art. 5 del d.lgs. n. 53 del 2010, che consente l’impugnabilità del lodo anche per violazione di regole di diritto relative al merito della controversia, non trova applicazione riguardo ai collegi arbitrali già costituiti alla data di entrata in vigore del predetto d.lgs. n. 53 del 2010. In tali casi, inoltre, l’impugnazione del lodo a cagione di violazioni di regole di diritto inerenti al merito deve escludersi anche in forza delle norme del codice di rito, richiamate dal comma 2 dell’art. 241 suddetto, allorché le parti, con convenzione arbitrale anteriore all’entrata in vigore della nuova disciplina dell’arbitrato introdotta dal d.lgs. n. 40 del 2006, abbiano dichiarato il lodo non impugnabile in applicazione dell’art. 829, comma 2, c.p.c., nel testo previgente.

  • società di capitali
  • diritto delle società
  • ente pubblico

CAPITOLO XXVII

LE SOCIETÀ IN HOUSE PROVIDING

(di Cecilia Bernardo )

Sommario

1 Le società in house providing e la giurisprudenza di legittimità. - 2 I rapporti tra la società in house e il soggetto pubblico. - 3 Il controllo analogo nelle società in house.

1. Le società in house providing e la giurisprudenza di legittimità.

Il d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, poi modificato dal d.lgs. 16 giugno 2017, n. 100, ha strutturalmente rivisitato la disciplina delle società a partecipazione pubblica.

Tale intervento ha razionalizzato le disposizioni nazionali, caratterizzate da una estrema frammentazione, e le ha raccordate alle fonti dell’Unione europea, creando una disciplina generale organica, denominata Testo Unico sulle Società a partecipazione pubblica, (di seguito anche T.U.S.P.).

Come già evidenziato nelle Rassegne degli anni precedenti, molte disposizioni del T.U.S.P. hanno fatto proprie le soluzioni interpretative adottate dalla giurisprudenza. Tuttavia, molte altre questioni sono rimaste aperte.

Nel corso dell’anno 2021, la S.C. si è pronunciata in materia di contributi previdenziali previsti per la cassa integrazione guadagni e la mobilità, stabilendo che anche le società partecipate a prevalente capitale pubblico, aventi ad oggetto l'esercizio di attività industriali, sono tenute al loro pagamento. In altra pronuncia è stato, inoltre, affermato che soggiace al principio generale di cui all’art. 11 prel. c.c. il divieto per le società a partecipazione regionale di assumere nuovo personale a tempo determinato o indeterminato, insuscettibile quindi di applicazione retroattiva.

Per tali decisioni riguardanti i rapporti di lavoro, si rinvia al corrispondente capitolo di questa Rassegna, mentre di seguito verranno illustrate due importanti statuizioni riguardanti la qualificazione della società in house.

2. I rapporti tra la società in house e il soggetto pubblico.

In argomento, Sez. 5, n. 21658/2021, Nonno, Rv. 661900-01, ha affermato che, in tema di reddito d’impresa, la società in house providing, anche sotto il profilo fiscale, è centro autonomo di imputazione di rapporti e posizioni giuridiche soggettive rispetto all’ente locale, che su di essa esercita il cd. controllo analogo, con conseguente sussistenza di un autonomo titolo giuridico per dedurre i costi e detrarre l’IVA in relazione ai contratti dalla stessa stipulati, operando essa come società di diritto privato.

La controversia è sorta perché l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che una società in house, interamente partecipata da un Comune, avesse indebitamente considerato come deducibili i costi e l’Iva afferenti a contratti con i fornitori, sebbene tutte le scelte ad essi relativi fossero state effettuate dall’ente pubblico socio.

La S.C., nel respingere il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, ha ribadito che il rapporto tra la società a partecipazione pubblica e l’ente che ne è socio è di sostanziale autonomia, non potendo quest’ultimo incidere unilateralmente sull’attività dell’ente collettivo mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali. Richiamando gli orientamenti oramai sedimentati del giudice di legittimità, la pronuncia in esame conferma che tale rapporto di sostanziale autonomia non viene meno neanche in caso di società in house providing, in quanto il cd. controllo analogo esercitato dall’Amministrazione sulla società partecipata serve a consentire all’azionista pubblico di svolgere un’influenza dominante sulla società, ma non incide affatto sull’alterità soggettiva dell’ente societario nei confronti dell’amministrazione pubblica.

3. Il controllo analogo nelle società in house.

Con riferimento alle caratteristiche del “controllo analogo”, è importante menzionare la pronuncia delle Sez. U, n. 26738/2021, Mercolino, Rv. 662245-01, nella quale, in sede di regolamento di giurisdizione, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione relativa alla possibilità di qualificare come in house providing la società che, sebbene partecipata da una pluralità di enti pubblici, sia sottoposta al controllo analogo di uno solo di essi.

Per risolvere tale questione, le Sezioni Unite hanno, innanzitutto, richiamato il principio generale - da tempo affermato - secondo cui, in tema di società a partecipazione pubblica, la giurisdizione sull’azione di responsabilità proposta nei confronti degli organi sociali per i danni arrecati al patrimonio sociale spetta alla Corte dei conti soltanto se sussistono contemporaneamente i seguenti requisiti, che consentono di qualificare l’ente come società in house providing: a) il capitale sociale sia integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi e lo statuto vieti la cessione delle partecipazioni a soggetti privati; b) la società esplichi statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo tale che l’eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale; c) la gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, con modalità ed intensità di comando non riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del codice civile (conf., tra le altre, Sez. U, n. 22409/2018, Virgilio, Rv. 650605-01).

Poi, con riferimento a quest’ultimo requisito, hanno ritenuto infondata la tesi secondo cui, in caso di società partecipata da una pluralità di enti pubblici, il controllo analogo dovrebbe essere esercitato congiuntamente da tutti gli enti pubblici partecipanti. Infatti, la definizione di società in house dettata dall’art. 2, lett. o), del d.lgs. n. 175 del 2016, subordina l’operatività della predetta qualificazione alla configurabilità di un controllo analogo esercitato, in via alternativa, individualmente da un’amministrazione o congiuntamente da più amministrazioni, senza richiedere la coincidenza di queste ultime con tutte quelle titolari di una partecipazione al capitale sociale.

  • obbligazione
  • responsabilità amministrativa
  • banca
  • codice della strada
  • infrazione al codice della strada
  • sanzione amministrativa

CAPITOLO XXVIII

LE SANZIONI AMMINISTRATIVE

(di Dario Cavallari, Maria Elena Mele, Aldo Natalini(1) )

Sommario

1 Principi generali, struttura impugnatoria del giudizio di opposizione e regole processuali. - 2 Giurisdizione. - 3 Competenza ed incompetenza. - 4 Altri vizi procedurali e procedimentali. - 5 Cumulo materiale e concorso di persone. - 6 Intrasmissibilità dell’obbligazione e responsabilità solidale. - 7 Prescrizione. - 8 Sanzioni in ambito bancario e finanziario: profili procedimentali e processuali. - 9 Sanzioni in ambito bancario e finanziario: soggetti responsabili e contenuto della condotta loro imposta. - 10 Sanzioni in ambito bancario e finanziario: il giudizio di opposizione. - 11 Abuso di informazioni privilegiate. - 12 Ulteriori pronunce riguardanti le sanzioni in ambito bancario e finanziario. - 13 Le sanzioni amministrative previste dal codice della strada: modalità di accertamento. - 14 Il verbale di constatazione delle violazioni al codice della strada: natura, requisiti e notificazione. - 15 L’opposizione: il rito, la competenza, l’oggetto e gli effetti. - 16 Le violazioni sanzionate dal codice della strada. - 17 Le altre sanzioni.

1. Principi generali, struttura impugnatoria del giudizio di opposizione e regole processuali.

La struttura del giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, regolato dagli artt. 22 e ss. della l. n. 689 del 1981, ha natura impugnatoria su ricorso e annullatoria di un atto amministrativo, mutuata dal processo amministrativo, rappresentando una delle rare eccezioni ai principi-cardine posti dagli artt. 4 e 5 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo (Sez. 6-2, n. 18158/2020, Tedesco, Rv. 659212-01). Detto giudizio riguarda, come ricorda Sez. 6-2, n. 21146/2019, Carrato, Rv. 655278-01, in continuità con l’indirizzo nomofilattico (Sez. U, n. 01786/2010, Goldoni, Rv. 611243-01), il rapporto giuridico sotteso, avente fonte legale in un’obbligazione di tipo sanzionatorio (così già Sez. 2, n. 12503/2018, Carrato, Rv. 648753-01; Sez. 2, n. 09286/2018, Criscuolo, Rv. 648150-01).

Al descritto paradigma impugnatorio è annesso un rigido sistema preclusivo (Sez. 2, n. 27909/2018, Picaroni, Rv. 651033-01), valevole per ogni soggetto coinvolto nel giudizio di opposizione, sicché tutte le ragioni poste alla base dell’istanza demolitoria di nullità (o di annullamento) dell’atto (causae petendi) devono essere prospettate nel ricorso introduttivo entro i termini di legge.

Neppure il giudice può rilevare d’ufficio, fuori dei limiti dell’oggetto dello stesso giudizio così delimitato, eccezioni relative a vizi o ragioni di nullità del provvedimento opposto o del procedimento che ne ha preceduto l’emanazione distinti da quelli dedotti dal ricorrente, salvo che essi incidano sull’esistenza dell’atto impugnato. Rientra in quest’ultima eccezione, l’illegittimità del provvedimento opposto per violazione del principio di legalità di cui all’art. 1 della l. n. 689 del 1981, che è rilevabile d’ufficio, trattandosi di principio-cardine dell’intero sistema normativo di settore ed ha valore ed efficacia assoluti, essendo direttamente riferibile alla tutela di valori costituzionalmente garantiti (artt. 23 e 25 Cost.), sicché la sua attuazione non può rimanere, sul piano giudiziario, affidata alla mera iniziativa dell’interessato, ma deve essere garantita dall’esercizio della funzione giurisdizionale (Sez. 2, n. 04962/2020, Varrone, Rv. 657117-01).

Legittimato nel giudizio di opposizione ad ordinanza emanata ai sensi della l. n. 689 del 1981 è esclusivamente il destinatario dell’ingiunzione, al quale è addebitata la violazione. Ciò anche in caso di eventuale responsabilità sanzionatoria col vincolo di solidarietà (come ha precisato Sez. 2, n. 09286/2018, Criscuolo, Rv. 648150-01), sicché non è consentita la partecipazione di soggetti diversi dall’ingiunto e dall’Amministrazione ingiungente. Sez. 2, n. 35795/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 662911-01, ha ribadito, quindi, che, nel giudizio di opposizione ex art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011 (già art. 23 della l. n. 689 del 1981), la legittimazione passiva spetta, ai sensi del comma 5 dell'art. 7 cit., alternativamente al prefetto ovvero a regioni, province e comuni, anche quando l’autorità che ha emesso l’ordinanza agisca quale organo periferico dell’amministrazione statale, per effetto di una specifica autonomia funzionale che comporta deroga a quanto stabilito dall’art. 11, comma 1, del r.d. n. 1611 del 1933 (come sostituito dall’art. 1 della l. n. 260 del 1958), in tema di rappresentanza in giudizio dello Stato; tale legittimazione resta ferma nella successiva fase di impugnazione davanti alla Corte di cassazione, non rinvenendosi, nell’attuale disciplina dell’art. 7 cit. (e, prima, dell’art. 23 della l. n. 689 del 1981), alcun elemento da cui possa desumersi che, alla legittimazione in primo grado dell’autorità che ha emesso il provvedimento sanzionatorio subentri, nella fase di impugnazione, quella del Ministro, con la conseguenza che il ricorso per cassazione proposto nei confronti del Ministro, e non nei confronti dell’autorità che ha emesso l’ordinanza, è inammissibile. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto nei confronti del Ministero dell’Interno, anziché dell’Ufficio territoriale del Prefetto, che si era difeso nei precedenti gradi di giudizio).

L’opposizione ad ordinanza-ingiunzione ex art. 22 della l. n. 689 del 1981 può essere proposta - a seguito della sentenza costituzionale n. 98 del 2005 ed alla luce di quanto disposto dall’art. 6, comma 6, del d.lgs. n. 150 del 2001 - anche tramite servizio postale, a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno e, ove ciò avvenga, essa deve considerarsi tempestiva, alla luce degli artt. 149 c.p.c. e 4 della l. n. 890 del 1982, qualora la consegna del plico da parte del notificante all’agente postale sia intervenuta nel termine di cui al comma 1 del cit. art. 22, rimanendo irrilevante che il medesimo pervenga alla cancelleria del giudice adito successivamente alla scadenza del termine stesso. Ne consegue che, in tal caso, la data d’inizio della lite, anche ai fini dell’individuazione del termine lungo di impugnazione, in rapporto al discrimine temporale segnato dall’inizio del giudizio prima o dopo il 4 luglio 2009 (quale data di entrata in vigore della l. n. 69 del 2009, che all’art. 46, comma 17, ha ridotto da un anno a sei mesi il termine ex art. 327 c.p.c.), va correlata a quella di spedizione del ricorso e non a quella di materiale recezione del piego da parte della cancelleria, con l’iscrizione a ruolo (Sez. 6-2, n. 09486/2021, Tedesco, Rv. 660946-01).

Regola processuale comune ai procedimenti di opposizione nella vigenza del d.lgs. n. 150 del 2011 (che ha previsto - come noto - misure di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione), è l’applicazione degli artt. 429, comma 1, e 437, comma 1, c.p.c., giustificata - per quanto precisato da Sez. 2, n. 00072/2018, Bellini, Rv. 646662-01 - dal rinvio generale contenuto nell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 150 cit. Ne deriva che, anche in secondo grado, il giudice d’appello, nel pronunciare la sentenza, deve, a pena di nullità insanabile, dare lettura del dispositivo all’esito dell’udienza di discussione (contra Sez. 2, n. 12954/2015, Picaroni, Rv. 635706-01, che invece ha escluso, in mancanza di un’espressa disciplina, l’automatica estensibilità delle regole speciali dettate per il giudizio di primo grado). Inoltre, come precisato da ultimo da Sez. U, n. 02145/2021, Doronzo, Rv. 660222-01, nel regime introdotto dall’art. 6 del d.lgs. n. 150 cit., le controversie, regolate dal processo del lavoro, di opposizione ad ordinanza ingiunzione che abbiano ad oggetto violazioni concernenti le disposizioni in materia antinfortunistica, di tutela e di igiene sui luoghi di lavoro nonché di previdenza ed assistenza obbligatoria, diverse da quelle consistenti nell’omissione totale o parziale di contributi o da cui deriva un’omissione contributiva, non rientrano tra quelle indicate dagli artt. 409 e 442 c.p.c. per le quali l’art. 3 della l. n. 742 del 1969 dispone l’inapplicabilità della sospensione dei termini in periodo feriale; ne consegue che, ai fini della tempestività dell’impugnazione, avverso la sentenza resa in tema di opposizione a ordinanza ingiuntiva del pagamento di una sanzione amministrativa per violazioni inerenti al rapporto di lavoro o al rapporto previdenziale, deve tenersi conto di detta sospensione. Ancora, secondo Sez. 3, n. 19993/2021, Tatangelo, Rv. 661840-01, l’applicazione del rito speciale del lavoro ad una opposizione proposta avverso una cartella di pagamento notificata dall’agente della riscossione non comporta di per sé una implicita qualificazione della domanda in termini di opposizione a sanzione amministrativa ex art. 22 della l. n. 689 del 1981, ai fini del cd. principio dell’apparenza, per l’identificazione del mezzo di impugnazione esperibile contro la relativa sentenza e, di conseguenza, non determina l’esclusione della qualificazione della domanda stessa, in sede d’impugnazione, in termini di opposizione all’esecuzione e/o agli atti esecutivi, ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c., anche con riferimento all’applicazione o meno del regime di sospensione feriale dei termini, in mancanza di ulteriori elementi che portino a ritenere che il giudice a quo, avvalendosi del rito speciale, abbia inteso effettuare una vera e propria qualificazione di detta domanda.

Quanto al deposito di documenti strettamente connessi all’opposizione a sanzione amministrativa, la produzione da parte dell’Autorità opposta - per Sez. 2, n. 09385/2020, Varrone, Rv. 657753-01 - può intervenire anche nel corso del giudizio, non avendo il relativo termine natura perentoria, e indipendentemente dalla costituzione della predetta autorità o dalla comparizione della medesima, senza che venga in considerazione il disposto dell’art. 87 disp. att. c.p.c. che contempla, regolandone le modalità, la diversa ipotesi di documenti offerti in comunicazione alle parti dopo la costituzione (sulla perentorietà del termine di cui all’art. 7, comma 7, del d.lgs. n. 150 del 2011, a differenza di quello previsto dall’art. 416 c.p.c., applicabile invece, agli altri documenti depositati dall’Amministrazione, v. anche Sez. 3, n. 15887/2019, Porreca, Rv. 654292-01). Pertanto, Sez. L, n. 31108/2021, Cinque, Rv. 662715-01, ha affermato che, nel procedimento di opposizione all’ordinanza-ingiunzione irrogativa di sanzione amministrativa, il modello processuale prefigurato dal legislatore, governato dal principio dispositivo, non prevede particolari sanzioni processuali per omissioni o ritardi di attività delle parti, né inficia di nullità eventuali deviazioni dal modello stesso, sicché l’inosservanza, da parte dell’autorità che ha emesso il provvedimento opposto, del termine per il deposito dei documenti relativi all’infrazione fissato dall’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, indipendentemente dalla tempestività della sua costituzione, non implica, in difetto di espressa previsione di sua perentorietà, alcuna decadenza, né rende la relativa esibizione nulla, ma meramente irregolare.

2. Giurisdizione.

In tema di sanzioni disciplinari sportive, Sez. U, n. 04850/2021, Ferro, Rv. 660542-01, ha statuito il difetto assoluto di giurisdizione sulle controversie riguardanti i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni, riservate, a tutela dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, agli organi di giustizia sportiva che – anche ove si invochi la tutela in forma specifica della rimozione della sanzione disciplinare – le società, le associazioni, gli affiliati e i tesserati hanno l’onere di adire ai sensi dell’art. 2 del d.l. n. 220 del 2003, conv. dalla l. n. 280 del 2003, come ulteriormente confermato dalle modifiche dell’art. 3 del cit. d.l. apportate dall’art. 1, comma 647, della l. n. 145 del 2018, applicabile anche ai processi ed alle controversie già pendenti in forza del comma 650 del medesimo articolo.

In materia di riparto di giurisdizione, ove sulla sanzione amministrativa, emessa a titolo di concorso nell’indebita percezione di aiuti comunitari, intervenga il giudicato di rigetto della relativa opposizione, ma, poi, venga pronunciata, in sede penale, sentenza irrevocabile di assoluzione per insussistenza del fatto, Sez. U, n. 26493/2020, Mancino, Rv. 659550-01, affida al giudice ordinario la cognizione della vertenza promossa nei confronti del diniego di revoca o annullamento della sanzione, ai sensi dell’art. 22 della l. n. 689 del 1981, poiché la causa petendi non attiene alla correttezza dell’azione amministrativa di riesame, ma alla permanente legittimità della sanzione a seguito della menzionata sentenza di proscioglimento.

Quanto alle opposizioni ad ordinanza-ingiunzione di pagamento per violazioni della normativa urbanistica ed edilizia, a seguito dell’emanazione del d.lgs. n. 150 del 2011 (che ha abrogato l’art. 22 bis della l. n. 689 del 1981 e modificato l’art. 22 della stessa legge) Sez. U, n. 12429/2021, Scoditti, Rv. 661306-01, ha statuito l’appartenenza alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, come previsto espressamente dall’art. 133, comma 1, lett. f), del codice del processo amministrativo, spettando al giudice della giurisdizione verificare la riconducibilità mediata del rapporto dedotto in giudizio all’esercizio del potere amministrativo avente ad oggetto l’uso del territorio.

3. Competenza ed incompetenza.

Si segnalano anche delle pronunce di legittimità in tema di competenza.

Con riguardo alla competenza per territorio, Sez. 6-1, n. 00580/2019, Valitutti, Rv. 652670-01, ha ritenuto che l’illecito amministrativo già previsto dall’art. 58 del d.lgs. n. 29 del 1993 - il quale, ai commi 6 e 7, impone ai soggetti pubblici e privati che, comunque, si avvalgano di prestazioni di lavoro autonomo o subordinato rese da dipendenti pubblici di richiedere l’autorizzazione dell’ente di appartenenza e/o di comunicare ai medesimi enti i compensi erogati (ora art. 53, comma 9, del d.lgs. n. 168 del 2001) - debba ritenersi commesso nel luogo in cui il soggetto che ha conferito l’incarico ha avuto conoscenza dell’accettazione da parte del destinatario, in virtù del carattere recettizio della manifestazione della volontà di ricevere un incarico professionale. In precedenza, Sez. 6-2, n. 04840/2018, Abete, Rv. 647985-01, ai fini dell’individuazione del giudice di pace territorialmente competente a pronunciarsi sull’opposizione ad ordinanza-ingiunzione per emissione di assegno bancario (o postale) senza autorizzazione (o senza provvista) di cui agli artt. 1 e 2 della l. n. 386 del 1990, aveva identificato il «luogo in cui è stata commessa la violazione» non in quello di emissione, bensì in quello ove è pagabile l’assegno bancario o postale; ciò in continuità con un precedente di legittimità (Sez. 1, n. 16205/2006, Petitti, Rv. 592309-01) secondo cui era il Prefetto di detto luogo (che, per l’assegno postale, coincide con la sede dell’ufficio postale di radicamento del conto corrente postale) l’autorità territorialmente competente ad emettere l’ordinanza-ingiunzione ai sensi dell’art. 4 della l. n. 386 del 1990.

In tema di competenza per materia, in fattispecie relativa a sanzioni elevate per violazione degli artt. 3 e 16 del d.lgs. n. 109 del 1992 relative all’etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari, Sez. 6-2, n. 05242/2018, Orilia, Rv. 648217-01, ha riconosciuto la competenza del giudice di pace, avuto riguardo alla disciplina commerciale finalizzata ad assicurare la correttezza e la completezza delle indicazioni riportate dai produttori e, con esse, a tutelare l’affidamento dei consumatori, escludendo, quindi, la riconducibilità della materia all’igiene degli alimenti e bevande, riservata ex art. 6, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 alla competenza del tribunale.

Relativamente, poi, alla competenza per valore, un principio di portata generale resta quello espresso da Sez. 6-3, n. 20191/2018, Cirillo F.M., Rv. 650293-01, secondo cui - come già affermato in passato - ai fini dell’attribuzione al giudice di pace delle opposizioni alle sanzioni amministrative pecuniarie di valore fino ad euro 15.493,00 ai sensi dell’art. 6, comma 5, lett. a), del d.lgs. n. 150 del 2011, occorre avere riguardo al massimo edittale della sanzione prevista per ciascuna violazione, non rilevando che il provvedimento sanzionatorio abbia ad oggetto una pluralità di contestazioni e che, per effetto della sommatoria dei relativi importi, venga superato il suddetto limite di valore.

Sul fronte patologico del vizio di incompetenza, la sedimentata giurisprudenza di legittimità in tema di opposizione a sanzioni amministrative - compendiata da ultimo da Sez. 6-2, n. 17569/2021, Fortunato, Rv. 661487-01 (conf. Sez. 2, n. 28108/2018, Picaroni, Rv. 651188-01) - ravvisa l’incompetenza assoluta dell’Amministrazione, con conseguente inesistenza del provvedimento sanzionatorio, quando l’atto emesso concerne una materia del tutto estranea alla sfera degli interessi pubblici attribuiti alla cura dell’Amministrazione cui l’organo emittente appartiene, mentre si ha incompetenza relativa nel rapporto interno tra organi od enti nelle attribuzioni dei quali rientra, sia pure a fini ed in casi diversi, una determinata materia; soltanto il primo vizio è rilevabile d’ufficio mentre il secondo deve essere dedotto dalla parte esclusivamente con l’atto di opposizione.

Sul correlato fronte giurisdizionale, Sez. 2, n. 15043/2020, Oliva, Rv. 658119-01, specifica che nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa il giudice è tenuto a rilevare ex officio solo l’incompetenza assoluta dell’autorità amministrativa che abbia emesso, senza averne alcun potere, l’ordinanza-ingiuntiva opposta, poiché solo in tal caso difetta in radice il potere sanzionatorio in concreto esercitato dall’autorità predetta e l’incompetenza si risolve nel difetto di uno degli elementi costitutivi della fattispecie sanzionatoria. In ogni altro caso di incompetenza, spetta, invece, alla parte sollevare la relativa eccezione nel ricorso introduttivo, unitamente alle ragioni poste alla base dello stesso, e fornirne la dimostrazione puntuale, in ottemperanza ai normali criteri di ripartizione dell’onere della prova, poiché il vizio non attiene alla titolarità in astratto del potere sanzionatorio, ma soltanto al suo corretto esercizio in concreto.

4. Altri vizi procedurali e procedimentali.

Quanto agli altri possibili vizi dell’ordinanza-ingiunzione, va premesso che il procedimento preordinato all’irrogazione delle sanzioni amministrative sfugge all’ambito applicativo della l. n. 241 del 1990 perché, per la sua natura sanzionatoria, è compiutamente retto dai principi autonomamente sanciti dalla l. n. 689 del 1981 e dal d.P.R. n. 495 del 1992, che non prescrivono, quanto al contenuto del verbale di accertamento, la necessità di indicare il nominativo del responsabile del procedimento ovvero l’autorità territorialmente competente a conoscere dell’impugnativa (Sez. 6-2, n. 17088/2019, Falaschi, Rv. 654616-01). Pertanto - come rammenta Sez. 2, n. 01740/2020, Criscuolo, Rv. 656852-01 - l’omessa o erronea indicazione, nell’ordinanza-ingiunzione (o, in sua mancanza, nella cartella di pagamento), del termine per proporre l’opposizione e dell’autorità competente a decidere sulla stessa, ai sensi dell’art. 3, comma 4, della l. n. 241 del 1990, non determinano, ex se, invalidità dell’atto ma, possono, al più, dar luogo ad errore scusabile, impedendo la decadenza dal diritto di proporre opposizione, qualora tali indicazioni mancanti o sbagliate non consentano l’adeguata identificazione dell’Autorità a cui ricorrere e la conoscenza dei termini relativi.

Da ultimo, in tema di sanzioni amministrative, Sez. L, n. 24082/2021, Cinque, Rv. 662172-01, ha escluso che il mutamento dei termini della contestazione rispetto all’originario verbale di accertamento della violazione sia causa di illegittimità del provvedimento sanzionatorio qualora riguardi soltanto la qualificazione giuridica del fatto oggetto dell’accertamento, sulla cui base l’ente irrogatore abbia ritenuto di passare dalla contestazione di un illecito a quella di un altro, purché, a fondamento del rettificato addebito, non sia stato posto alcun fatto nuovo, atteso che, in tale evenienza, va esclusa la violazione del diritto di difesa, mantenendo il trasgressore la possibilità di contestare l’addebito in relazione all’unico fatto materiale accertato nel rispetto delle garanzie del contraddittorio.

La recente Sez. 2, n. 10369/2021, Carrato, Rv. 661090-01, ha confermato l’indirizzo di Sez. 1, n. 06361/2005, Di Palma, Rv. 580829-01, per il quale la nozione di “privata dimora” rilevante, agli effetti dell’art. 13 della l. n. 689 del 1981, per delimitare il potere di ispezione degli organi addetti all’accertamento di illeciti amministrativi (potere che può, appunto, esercitarsi esclusivamente in luoghi diversi dalla privata dimora) coincide con quella rilevante agli effetti del reato di violazione di domicilio (art. 614 c. p.) e, dunque, comprende non soltanto la casa di abitazione, ma anche qualsiasi luogo destinato permanentemente o transitoriamente all’esplicazione della vita privata o di attività lavorativa, vale a dire di atti della sua vita privata riconducibili al lavoro, al commercio, allo studio, allo svago. (Nel caso di specie, la S.C. ha confermato la decisione del giudice di merito che aveva considerato illegittima la sanzione irrogata per attività rumorosa accertata all’interno di una casa di abitazione nella quale si svolgeva una festicciola con accompagnamento musicale).

Sez. 6-2, n. 16316/2020, Falaschi, Rv. 658790-01, ha negato, altresì, che l’atto debba avere una motivazione analitica e dettagliata come quella di un provvedimento giudiziario, essendo sufficiente che sia dotato di una motivazione succinta, purché dia conto delle ragioni di fatto della decisione (che possono essere anche desunte per relationem dall’atto di contestazione) ed evidenzi l’avvenuto esame degli eventuali scritti difensivi formulati dal ricorrente.

Inoltre, Sez. 2, n. 29580/2021, Dongiacomo, Rv. 662566-01, ha affermato, con riferimento ad una tematica processuale, che il personale ferroviario (nella specie, di Trenitalia S.p.a.) incaricato, nell’ambito dell’attività di prevenzione ed accertamento delle infrazioni relative ai trasporti, del controllo dei biglietti di linea riveste la qualifica di pubblico ufficiale. Ne consegue che il verbale di contravvenzione redatto durante dette operazioni è un atto pubblico dotato, quanto alla sua provenienza da chi l’ha formato, nonché alle dichiarazioni delle parti ed agli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti esser avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, di efficacia probatoria privilegiata, contestabile, tanto ove ne sia dedotta l’alterazione, pur involontaria o dovuta a cause accidentali, quanto nel caso in cui si lamentino errori od omissioni di natura percettiva da parte del medesimo pubblico ufficiale, con la proposizione, nel giudizio di opposizione, della querela di falso.

Quanto alla misura della sanzione amministrativa pecuniaria applicata in esito al giudizio di opposizione, Sez. 2, n. 04844/2021, Carrato, Rv. 660460-01, ha chiarito che il giudice non deve specificare in sentenza i criteri adottati per determinarne l’entità in ragione della gravità del fatto concreto, globalmente considerato, né la Corte di cassazione può censurare la statuizione adottata, ove tali limiti di pena, minimi e massimi, siano stati rispettati e dal complesso della motivazione risulti che quella valutazione è stata compiuta.

5. Cumulo materiale e concorso di persone.

In fattispecie concernente delle sanzioni amministrative per plurime violazioni in materia di orario di lavoro, commesse con più azioni od omissioni, Sez. L, n. 12659/2019, Arienzo, Rv. 654065-01, ha ritenuto operativo, in una simile situazione, il criterio del cd. cumulo materiale, atteso che la disciplina dell’art. 8 della l. n. 689 del 1981 contempla il criterio del cd. cumulo giuridico soltanto in materia di previdenza e assistenza e che la differenza morfologica e soggettiva tra illecito penale e illecito amministrativo non consente di applicare analogicamente l’art. 81 c.p.

In tema di illeciti amministrativi di cui al d.lgs. n. 196 del 2003 (Codice della privacy), Sez. 2, n. 18288/2020, Besso Marcheis, Rv. 659098-02, inquadra la fattispecie prevista dall’art. 164 bis, comma 2, non come un’ipotesi aggravata rispetto alle violazioni semplici ivi richiamate, ma come figura di illecito del tutto autonoma, atteso che essa prevede la possibilità che vengano infrante dal contravventore, anche con più azioni ed in tempi diversi, una pluralità di ipotesi-base, unitariamente considerate dalla norma con riferimento a «banche di dati di particolare rilevanza o dimensioni», sicché, in caso di concorso di violazioni di altre disposizioni unitamente a quella in esame, ravvisa un’ipotesi di cumulo materiale di sanzioni amministrative.

L’art. 5 della l. n. 689 del 1981 disciplina il concorso di persone nell’illecito recependo i principi fissati in materia dal codice penale e fissando la regola secondo la quale ciascuno dei trasgressori soggiace per intero alla sanzione stabilita per l’infrazione, senza che possa venire in rilievo - come rammenta Sez. L, n. 30712/2021, Amendola F., Rv. 662590-01 - il successivo art. 6, che regola la diversa ipotesi della solidarietà con l’autore dell’illecito del soggetto che non abbia concorso nella violazione; ne consegue che, quando l’infrazione sia addebitata a più persone e l’opposizione a ordinanza-ingiunzione sia proposta solo da uno dei concorrenti, non si applica l’art. 1306 c.c. e la decisione favorevole all’opponente non spiega efficacia nei confronti di coloro che non abbiano proposto opposizione.

Per Sez. 2, n. 34031/2019, Bellini, Rv. 656220-01, l’art. 5 della l. n. 689 del 1981, in tema di concorso di persone nella commissione dell’illecito, rende applicabile la pena pecuniaria non soltanto all’autore o ai coautori dell’infrazione, ma anche a coloro che, comunque, abbiano dato un contributo causale. Da Sez. 2, n. 04830/2021, Tedesco, Rv. 660457-01, si è chiarito che l’omessa menzione, nella contestazione dell’illecito commesso da un soggetto in concorso con altri, e nella successiva ordinanza-ingiunzione di pagamento, dell’art. 5 della l. n. 689 del 1981, che tale concorso prevede, non rende illegittimo il provvedimento per violazione del principio della correlazione tra il fatto contestato e quello per il quale viene irrogata la sanzione, essendo, in tale ipotesi, necessario e sufficiente, ai fini del rispetto di tale principio, che dalla contestazione risulti la circostanza dell’avvenuta commissione dell’illecito da parte dell’ingiunto in concorso con altri.

In caso di pluralità di illeciti, Sez. 2, n. 11481/2020, Varrone, Rv. 658267-01, ha affermato che nel giudizio di opposizione avverso le sanzioni amministrative pecuniarie, il giudice, nel caso di contestazione della misure delle stesse, è autonomamente chiamato a controllarne la rispondenza alle previsioni di legge, senza essere soggetto a parametri fissi di proporzionalità correlati al numero ed alla consistenza degli addebiti, e può reputare congrua l’entità della sanzione inflitta in riferimento ad una molteplicità di incolpazioni anche qualora escluda l’esistenza di alcune di esse; egli, inoltre, non è chiamato a controllare la motivazione dell'ordinanza-ingiunzione, ma a determinare la sanzione entro i limiti edittali previsti, allo scopo di commisurarla all’effettiva gravità del fatto concreto, desumendola globalmente dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, senza che sia tenuto a specificare i criteri seguiti, dovendosi escludere che la sua statuizione sia censurabile in sede di legittimità ove quei limiti siano stati rispettati e dalla motivazione emerga come, nella determinazione, si sia tenuto conto dei parametri previsti dall’art. 11 della l. n. 689 del 1981.

Infine, secondo Sez. 1, n. 03652/2021, Tricomi L., Rv. 660495-01, in tema di occupazione abusiva di spazi ed aree pubbliche, l’indennità pari al canone maggiorato fino al 50 per cento e la sanzione amministrativa pecuniaria, di cui rispettivamente alle lett. g) e g bis) dell’art. 63, comma 2, del d.lgs. n. 446 del 1997, nel testo vigente ratione temporis, sono tra loro cumulabili, atteso che, come emerge dal tenore letterale delle disposizioni, la quantificazione della sanzione discende direttamente dalla commisurazione dell’indennità ed esse soddisfano esigenze differenti, essendo la prima volta ad assicurare il pagamento dell’indennità a ristoro del canone che avrebbe dovuto essere versato in caso di occupazione autorizzata quale corrispettivo dell’uso esclusivo o speciale del bene pubblico, e la seconda rivestendo un esclusivo carattere sanzionatorio.

6. Intrasmissibilità dell’obbligazione e responsabilità solidale.

La morte dell’autore della violazione comporta l’estinzione dell’obbligazione di pagare la sanzione pecuniaria irrogata dall’Amministrazione, la quale, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 689 del 1981, non si trasmette agli eredi; ne discende - come da ultimo precisato da Sez. 2, n. 29577/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 662564-01 - la cessazione della materia del contendere nel giudizio di opposizione alla conseguente ordinanza-ingiunzione, declaratoria che può intervenire anche in sede di legittimità, ove il decesso sia documentato ex art. 372 c.p.c., senza alcuna regolazione delle spese, non trovando applicazione il principio della soccombenza virtuale, per effetto del mancato vaglio dei motivi di doglianza.

È poi consolidato l’indirizzo (ribadito da Sez. 2, n. 21265/2020, De Marzo, Rv. 659362-01) secondo il quale il disposto del cit. art. 7 e quello dell’ultimo comma dell’art. 6 della l. n. 689 del 1981 (secondo cui l’obbligato solidale che ha pagato «ha diritto di regresso per l’interno nei confronti dell’autore della violazione») sono espressione del principio della personalità della sanzione amministrativa, per il quale la morte dell’autore della violazione determina non solo l’intrasmissibilità ai suoi eredi dell’obbligo di pagare la somma dovuta per la sanzione, ma anche l’estinzione dell’obbligazione a carico dell’obbligato solidale per la sanzione amministrativa. Detto principio di intrasmissibilità dell’obbligazione sanzionatoria si rende applicabile a tutte le violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro, anche quando questa sanzione non è prevista in sostituzione di una sanzione penale, e trova la sua ragione giustificativa nel carattere afflittivo di tali sanzioni che le riconduce all’ambito del diritto punitivo, accentuandone quindi la stretta inerenza alla persona del trasgressore (Sez. U, n. 22082/2017, Manna, Rv. 645324-01).

Nell’ipotesi di responsabilità del proprietario di un bene per il pagamento della somma dovuta a titolo di sanzione amministrativa, prevista dall’art. 6, comma 1, della l. n. 689 del 1981, il suddetto principio di intrasmissibilità dell’obbligazione conosce un’eccezione, essendo prevista una sua presunzione di responsabilità qualora non fornisca la prova precisa che il medesimo bene sia stato utilizzato per il compimento dell’illecito contro la sua volontà (v. già Sez. 2, n. 16798/2006, Bognanni, Rv. 591529-01). Pertanto - ha precisato Sez. 2, n. 20522/2020, De Marzo, Rv. 659197-01 - la responsabilità solidale del proprietario non viene meno in conseguenza del decesso dell’autore dell’illecito.

In caso di solidarietà ai sensi dell’art. 6 della l. n. 689 del 1981, ad avviso di Sez. 2, n. 00303/2019, Tedesco, Rv. 652052-01, il limite apportato dal comma 2 dell’art. 1306 c.c. al principio enunciato nel comma 1 è applicabile pure alle obbligazioni basate su rapporti giuridici pubblicistici, con l’effetto che la sentenza pronunciata tra il creditore e uno dei debitori solidali è opponibile al creditore da parte degli altri, ove ad essi favorevole e non fondata su ragioni personali al condebitore nei cui confronti è stata emessa, purché essi abbiano partecipato al relativo giudizio. In precedenza, se l’oggetto dell’unico provvedimento sanzionatorio era costituito da più condotte poste in essere da più soggetti, Sez. 2, n. 21347/2018, Gorjan, Rv. 650036-01, aveva escluso che il giudicato relativo all’accoglimento dell’opposizione proposta da taluni di essi potesse spiegare i suoi effetti verso dei concorrenti rimasti estranei al giudizio, stante la diversità delle parti e delle condotte addebitate.

7. Prescrizione.

La prescrizione del diritto a riscuotere le somme dovute a titolo di sanzione amministrativa decorre, in ossequio all’art. 2935 c.c., dal momento in cui il diritto può essere fatto valere.

Al riguardo, Sez. 5, n. 05577/2019, D’Orazio, Rv. 652721-02, in vicenda relativa a cartella di pagamento per sanzioni fondata su sentenza passata in giudicato, ha chiarito che il diritto alla riscossione delle sanzioni amministrative pecuniarie è assoggettato al termine di prescrizione decennale previsto dal succitato art. 2935 c.c. per l’actio iudicati solo ove si fondi su un accertamento divenuto definitivo contenuto in una sentenza coperta da giudicato; se, invece, la definitività della sanzione non deriva da un provvedimento giurisdizionale irrevocabile, opera il termine di prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 727 del 1997.

Sez. 6-2, n. 15694/2020, Tedesco, Rv. 658783-01, ha chiarito che la revoca della patente di guida, quale sanzione accessoria che consegue alla violazione di determinate norme del codice della strada, costituisce adempimento per il quale la legge non prevede alcun termine, sicché la sanzione può essere irrogata nel termine generale di prescrizione quinquennale.

Nella particolare ipotesi di fatti già sanzionati penalmente e successivamente depenalizzati, Sez. 6-2, n. 19897/2018, Falaschi, Rv. 650067-01, ha escluso che il dies a quo rilevante a fini prescrizionali possa identificarsi nella data dell’infrazione, dovendosi avere riguardo a quando pervengono alla competente Autorità amministrativa gli atti inviati dall’Autorità giudiziaria, poiché esclusivamente da tale momento l’Amministrazione è in grado di esercitare il diritto di riscuotere la somma stabilita dalla legge a titolo di sanzione amministrativa.

Sez. 2, n. 06310/2020, Fortunato, Rv. 657130-01, annette carattere permanente alla violazione del divieto di impianto di nuovi vigneti o di reimpianto di cui all’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 260 del 2000 (applicabile ratione temporis) sicché il relativo termine di prescrizione, sia riguardo alla violazione che alla sanzione, decorre dal momento della cessazione della permanenza, che coincide con la rimozione materiale dell’impianto o con il momento della contestazione dell’illecito che, valendo anche come atto interruttivo, conferisce all’eventuale protrazione della violazione il carattere di autonomo illecito amministrativo, ulteriormente sanzionabile.

In precedenza, Sez. 2, n. 15025/2019, Picaroni, Rv. 654189-01, si è occupata di un’ipotesi di illecito omissivo proprio permanente, affermando che, in ordine alla decorrenza della prescrizione di cui all’art. 28 della l. n. 689 del 1981, occorre verificare la configurabilità della permanenza in relazione alle singole condotte.

Riguardo agli atti interruttivi della prescrizione, Sez. 6-2, n. 24677/2021, Casadonte, Rv. 662290-01, ha specificato che, affinché abbia efficacia, debbono contenere, oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato, anche l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di fare valere il proprio diritto, con l’intento sostanziale di costituirlo in mora, in mancanza della quale non è sufficiente la verificata corrispondenza tra i numeri identificativi dei documenti apposti sugli avvisi di ricevimento della cartella esattoriale, cui si riferisce l’intimazione contenuta in piego raccomandato inviato all’obbligato, e quelli impressi nei report interni della società di riscossione.

Sez. 3, n. 01550/2018, D’Arrigo, Rv. 647596-01, ha chiarito che l’atto notificato ad uno dei coobbligati, in caso di solidarietà tra questi ai sensi dell’art. 6 della l. n. 689 del 1981, determina effetti interruttivi verso gli altri, in base all’art. 1310 c.c., stante il richiamo generale contenuto nell’art. 29 della medesima legge alla disciplina del codice civile anche quanto all’interruzione della prescrizione. La Corte ha ritenuto irrilevante che il soggetto nei confronti del quale è stata interrotta la prescrizione sia il materiale esecutore della violazione (o colui al quale la legge estende la corresponsabilità nel pagamento della relativa sanzione), non potendosi distinguere, ai fini dell’art. 1310 c.c., fra coobbligati solidali. L’estensione degli effetti interruttivi non si verifica, invece, nella diversa ipotesi, regolata dall’art. 5 della l. n. 689 del 1981, del concorso di più persone nella commissione della violazione, difettando il vincolo della solidarietà fra i coobbligati, ciascuno dei quali è tenuto al pagamento della sanzione amministrativa per intero.

8. Sanzioni in ambito bancario e finanziario: profili procedimentali e processuali.

Con riferimento ai profili attinenti alla giurisdizione in caso di opposizione, Sez. U, n. 25476/2021, Napolitano L., Rv. 662251-02, ha affermato che le controversie relative all’applicazione delle sanzioni amministrative irrogate dalla CONSOB, ai sensi del d.lgs. n. 58 del 1998, per le violazioni commesse in materia finanziaria, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, la cui cognizione si estende agli atti amministrativi e regolamentari presupposti che hanno condotto all’emissione del provvedimento finale, i quali costituiscono la concreta e diretta ragione giustificativa della potestà sanzionatoria esercitata nel caso concreto ed incidono, pertanto, su posizioni di diritto soggettivo del destinatario.

9. Sanzioni in ambito bancario e finanziario: soggetti responsabili e contenuto della condotta loro imposta.

Con riferimento alla responsabilità dei consiglieri non esecutivi di società autorizzate alla prestazione di servizi d’investimento, Sez. 2, n. 02620/2021, Varrone, Rv. 660312-01, ha chiarito che è richiesto a tutti gli amministratori, che vengono nominati in ragione della loro specifica competenza anche nell’interesse dei risparmiatori, di svolgere i compiti loro affidati dalla legge con particolare diligenza e che, quindi, pure in presenza di eventuali organi delegati, sussistono il dovere dei singoli consiglieri di valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo e contabile, nonché il generale andamento della gestione della società, e l’obbligo, in ipotesi di conoscenza o conoscibilità di irregolarità commesse nella prestazione dei servizi di investimento, di assumere ogni opportuna iniziativa per assicurare che la società si uniformi ad un comportamento diligente, corretto e trasparente.

In tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, poi, Sez. 2, n. 01602/2021, Bellini, Rv. 660155-01, ha precisato che la complessa articolazione della struttura organizzativa di una società d’investimenti non può comportare l’esclusione od anche il semplice affievolimento del potere-dovere di controllo riconducibile a ciascuno dei componenti del collegio sindacale, i quali, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la corretta gestione societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo quoad functione, gravando sui sindaci, da un lato, l’obbligo di vigilanza - in funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche della verifica dell’adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno della società di investimenti, secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare CONSOB, a garanzia degli investitori - e, dall’altro lato, l’obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d’Italia ed alla CONSOB.

Inoltre, Sez. 2, n. 01601/2021, Bellini, Rv. 660376-01, ha affermato che, in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di “operazioni con parti correlate”, sussiste la responsabilità dei sindaci ove, in occasione di tali operazioni, omettano o esplichino in modo inadeguato il controllo su tutta l’attività sociale, poiché il dovere di vigilanza sancito dall’art. 2403 c.c. non è circoscritto all’operato degli amministratori, ma attiene al regolare svolgimento dell’intera gestione dell’ente ed è posto a tutela, oltre che dei soci, anche dei creditori sociali, in modo ancora più stringente nelle società quotate, considerata l’esigenza di garantire l’equilibrio del mercato.

10. Sanzioni in ambito bancario e finanziario: il giudizio di opposizione.

Secondo Sez. 2, n. 31239/2021, Dongiacomo, Rv. 662708-01, il procedimento preordinato alla irrogazione di sanzioni amministrative sfugge all’ambito di applicazione della l. n. 241 del 1990 in quanto, per la sua natura sanzionatoria, è compiutamente retto dai principi sanciti dalla l. n. 689 del 1981; ne consegue che non assume alcuna rilevanza il termine di trecentosessanta giorni per la conclusione del procedimento di cui all’art. 4 del regolamento CONSOB n. 12697 del 2 agosto 2000, attesa l’inidoneità di un regolamento interno, emesso nell’erroneo convincimento di dovere regolare i tempi del procedimento ai sensi della l. n. 241 del 1990, a modificare le disposizioni della citata l. n. 689 del 1981.

11. Abuso di informazioni privilegiate.

Innanzitutto, Sez. 2, n. 04524/2021, Criscuolo, Rv. 660698-02, ha chiarito che, in tema di abuso d’informazioni privilegiate ex art. 187 bis del d.lgs. n. 58 del 1998, per effetto della pronuncia della Corte costituzionale n. 63 del 21 marzo 2019, che ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n.72 del 2015, deve trovare applicazione retroattiva in mitius il più favorevole regime sanzionatorio introdotto dal comma 3 dello stesso art. 6, sicché è illegittima la sanzione adottata sulla base della cornice normativa previgente quand’anche essa, nella misura concretamente inflitta, sia comunque contenuta all’interno dei limiti edittali previsti dalla normativa sopravvenuta più favorevole, e senza che assuma rilevanza, in senso contrario, il giudizio circa la congruità della sanzione effettivamente irrogata pure alla luce del trattamento sanzionatorio introdotto dalla nuova previsione normativa, atteso che la finalità rieducativa della sanzione di derivazione penale ed il rispetto dei principi di uguaglianza e proporzionalità impongono di rivalutarne la misura alla luce dei parametri edittali modificati dal legislatore in termini di minore gravità.

In particolare, per Sez. 2, n. 04524/2021, Criscuolo, Rv. 660698-01, nella nozione di “informazione privilegiata” fornita dalla giurisprudenza eurounitaria rientrano le informazioni acquisite nelle fasi intermedie delle operazioni idonee ad influenzare il prezzo degli strumenti finanziari, allorché esse posseggano il carattere della “precisione” ai sensi dell’art. 7 del Regolamento UE n. 596 del 2014, vale a dire ove siano sufficientemente specifiche da permettere di trarre conclusioni sul possibile effetto dell’evento pronosticato sui prezzi, senza che possa essere invocato, in contrario, il concetto di “puntuazione” delineatosi nell’ordinamento nazionale, il quale comprende altresì l’ipotesi in cui sussista un accordo iniziale non ancora configurabile come preliminare, ma già vincolante su taluni profili, restando da concordare, secondo buona fede, ulteriori punti. Il possesso di informazione privilegiata è stato ritenuto sussistente, pertanto, in riferimento alla conoscenza di un’intesa sulla risoluzione anticipata di un pluriennale rapporto contrattuale di licenza relativa ad un marchio commerciale, con la quale, pur avendo le parti rimesso ogni effetto vincolante alla successiva stipulazione di tre complessi contratti, era stata tuttavia raggiunta una fase avanzata delle contrattazioni che, sebbene non connotata da definitività, quanto meno imponeva alle stesse di progredire, secondo buona fede, negli ulteriori stadi concordati in vista del raggiungimento del risultato finale della risoluzione anticipata del rapporto.

12. Ulteriori pronunce riguardanti le sanzioni in ambito bancario e finanziario.

In primo luogo, ad avviso di Sez. 2, n. 17971/2021, Cosentino, Rv. 661542-01, in tema di sanzioni amministrative per violazione della normativa antiriciclaggio, in coerenza anche con il parere n. 1504 del 1995 reso dal Consiglio di Stato, il divieto di trasferire, senza il tramite di intermediari abilitati, denaro contante e titoli al portatore per importi superiori a euro 12.500,00, posto dall’art. 1, comma 1, del d.l. n. 143 del 1991, conv. dalla l. n. 197 del 1991 (nella formulazione, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 231 del 2007), fa riferimento al valore dell’intera operazione economica alla quale il trasferimento è funzionale (cd. criterio oggettivo) e si applica pure quando detto trasferimento si sia realizzato mediante il compimento di varie operazioni, ciascuna di valore inferiore o pari al massimo consentito, mentre sono irrilevanti il criterio del valore dei singoli pagamenti e quello del tempo in cui questi sono stati effettuati.

Inoltre, per Sez. 2, n. 30779/2021, Oliva, Rv. 662572-01, in tema di giudizio di opposizione ad ordinanze ingiunzione adottate per aver emesso assegni privi di provvista, colui contro il quale la prova dell’illecito valutario è addotta può disconoscere la propria sottoscrizione e porre in discussione l’autenticità del titolo di credito, ma il conseguente accertamento istruttorio non va compiuto nelle forme del giudizio di verificazione ex art. 216 c.p.c., ben potendo l’amministrazione dimostrare l’elemento materiale dell’illecito con altri mezzi di prova ed eventualmente pure con presunzioni.

Infine, Sez. 2, n. 17821/2021, Carrato, Rv. 661596-01, ha confermato l’indirizzo di Sez. 2, n. 18345/2006, Oddo, Rv. 592678-01, in base al quale, in materia di sanzioni amministrative connesse all’emissione di assegni senza provvista (fattispecie sanzionata come illecito amministrativo a seguito delle depenalizzazione, operata dall’art. 29 del d.lgs. n. 507 del 1999, che ha novellato l’art. 2 della l. n. 386 del 1990, del corrispondente delitto), viola il dovere di diligenza media, con conseguente impossibilità di invocare il fatto scusabile, l’emittente il quale, non solo non si attenga al dovere di controllare l’andamento del proprio conto bancario, al fine di assicurare che in ogni momento vi sia disponibilità del denaro necessario al pagamento degli assegni emessi nei termini per la presentazione di essi all’incasso ma, oltre a fare affidamento sulla tolleranza da parte della banca di una situazione di scoperto, assuma consapevolmente con la post-datazione degli assegni - indicativa, di per sé, di scarsa liquidità - il rischio della sopravvenienza di un difetto di provvista al momento della loro presentazione.

13. Le sanzioni amministrative previste dal codice della strada: modalità di accertamento.

Numerose sono state le pronunce nel corso dell’anno in tema di sanzioni amministrative previste per la violazione di disposizioni del codice della strada.

Con riguardo alle modalità di accertamento delle infrazioni, secondo Sez. 6-2, n. 17574/2021, Fortunato, Rv. 661477-01, nel caso in cui la rilevazione della velocità sia effettuata con apparecchio cd. autovelox, ai fini della legittimità della sanzione irrogata per la violazione di cui all’art. 142, comma 8, del codice della strada, non è necessario che il verbale contenga l’indicazione del certificato di regolare taratura dell’apparecchiatura con la quale è stata misurata la velocità, poiché la mancata menzione degli estremi di tale certificato non pregiudica i diritti di difesa del sanzionato, che può limitarsi a contestare l’effettuazione delle verifiche di regolare funzionamento dell’impianto, spostando sull’amministrazione l’onere di depositare la certificazione di taratura.

Peraltro, è necessario che le apparecchiature di misurazione della velocità (cd. autovelox) siano periodicamente tarate e verificate, indipendentemente dal fatto che funzionino automaticamente o alla presenza di operatori ovvero, ancora, tramite sistemi di autodiagnosi. Tuttavia, in presenza di contestazione da parte del soggetto sanzionato, spetta all’Amministrazione la prova positiva dell’iniziale omologazione e della periodica taratura dello strumento (Sez. 2, n. 14597/2021, Oliva, Rv. 661511-01).

Si è inoltre precisato che l’accertamento dell’infrazione dell’art. 142 del codice della strada, ove effettuato a mezzo cd. autovelox, è atto dell’organo di polizia stradale del tutto distinto dalla mera registrazione analogica o digitale ovvero dalla correlata documentazione fotografica o video del fatto che integra la violazione stessa. Detto accertamento consiste nella lettura, da parte degli organi di polizia, del supporto sul quale i dati sono registrati dall’apparecchiatura di controllo. Il giudice di merito deve accertare se l’assistenza tecnica della società noleggiatrice sia limitata all’installazione ed all’impostazione dell’apparecchiatura, secondo le indicazioni del pubblico ufficiale, mentre deve essere riservato ai pubblici ufficiali l’accertamento delle violazioni, di modo che l’attività della forza pubblica sia solo supportata e non sostanzialmente sostituita dall’operatore privato e non sussista una delega delle operazioni di accertamento della violazione (Sez. 2, n. 38276/2021, Giannaccari, Rv. 663163-01).

Con riguardo alla guida sotto l’influenza dell’alcool, l’accertamento strumentale dello stato di ebrezza alcolica (mediante cd. alcooltest o etilometro) costituisce atto di polizia giudiziaria urgente ed indifferibile, che impone alla polizia giudiziaria di dare avviso, al soggetto che vi sia sottoposto, della facoltà di farsi assistere da un difensore, senza, però, che da ciò derivi l’obbligo, per i verbalizzanti, di attendere un lasso di tempo minimo da detto avviso prima di procedere all’effettuazione del test alcolimetrico, onde consentire l’arrivo del difensore eventualmente nominato (Sez. 6-2, n. 00028/2021, Casadonte, Rv. 660001-01).

14. Il verbale di constatazione delle violazioni al codice della strada: natura, requisiti e notificazione.

Per quanto attiene al verbale di contestazione dell’infrazione al codice della strada e alla sua notifica, deve, innanzitutto, essere richiamata Sez. U, n. 02866/2021, Oricchio, Rv. 660403-01, che ha affrontato la questione delle modalità di notifica a persona residente in altro Stato membro dell’Unione europea e, in particolare, quella della idoneità della notifica effettuata a mezzo posta. Discostandosi da una precedente pronuncia del 2018 (Sez. 6-2, n. 22000/2018, Carrato, Rv. 650355-01), le Sezioni unite hanno affermato che, in tale ipotesi, non è applicabile il Regolamento n. 1393 del 2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, dal momento che esso esclude espressamente dal suo ambito di applicazione la materia “fiscale, doganale ed amministrativa” (nella quale rientra il verbale di accertamento in quanto atto amministrativo rientrante nell’esercizio di pubblici poteri). Hanno ritenuto, inoltre, che, nei confronti di un cittadino tedesco, non può procedersi ai sensi dell’art. 11 della Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977 (ratificata con la l. n. 149 del 1983) - che consente la notificazione diretta a mezzo del servizio postale dei documenti in materia amministrativa - poiché la Germania ha apposto specifica riserva volta ad escludere la facoltà di notifica per posta di detti atti. In tali ipotesi, pertanto, si deve dunque ricorrere - per la notificazione e a pena di nullità (suscettibile di sanatoria) - all’assistenza dell’autorità centrale dello Stato di residenza e destinazione a norma dell’art. 2 della citata Convenzione.

Ancora in tema di verbale di contestazione di infrazione al codice della strada, nell’ipotesi in cui sia impossibile procedere alla contestazione immediata, Sez. 6-2, n. 36969/2021, Fortunato, Rv. 663219-01, ha ribadito che il verbale deve essere notificato al trasgressore entro il termine fissato dall’art. 201 codice della strada, salvo che ricorra il caso previsto dall’ultima parte del citato art. 201, vale a dire che non sia individuabile il luogo dove la notifica deve essere eseguita, per mancanza dei relativi dati nel Pubblico registro automobilistico o nell’Archivio nazionale dei veicoli o negli atti dello stato civile. In tale ipotesi residuale, invocabile soltanto in presenza di situazioni di difficoltà di accertamento addebitabili al trasgressore, il termine per la notifica decorre, infatti, dal momento - da valutare in base a criteri oggettivi, senza che possano assumere rilievo vicende di carattere meramente soggettivo - nelle quali l’Amministrazione è posta in condizione di identificare il trasgressore o il suo luogo di residenza. In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la pronuncia di merito, che aveva ritenuto tempestiva la notifica all’estero al conducente di un’auto concessa in noleggio, effettuata oltre i 360 giorni dall’accertamento dell’infrazione, essendo stato il verbale di contravvenzione notificato nei termini alla società risultata intestataria del veicolo dal pubblico registro automobilistico, mentre solo successivamente era stato possibile identificarne il conducente, in base alle informazioni fornite da quella.

Nel caso in cui le contravvenzioni stradali siano accertate mediante apparecchi di rilevazione a distanza, Sez. 6-2, n. 35262/2021, Bertuzzi, Rv. 662833-01, ha affermato che il termine di 90 giorni, previsto dall’art. 201, comma 1, del codice della strada, per la notifica del relativo verbale decorre dall’accertamento dell’infrazione, momento che, ai sensi del comma 1 bis, lett. e), del medesimo art. 201, coincide con quello della rilevazione della violazione, tenuto conto che le operazioni di verifica delle rilevazioni di tali strumenti sono insite nel loro impiego, presupponendo la predisposizione, da parte dell’amministrazione, di modalità immediate per il loro compimento, né essendo prevista dalla legge alcuna deroga od eccezione in ordine ad una diversa decorrenza di detto temine in siffatte ipotesi.

Sez. 2, n. 03692/2021, Criscuolo, Rv. 660320-01, ha chiarito che le dichiarazioni, a sé sfavorevoli, rese dal trasgressore ed inserite nel verbale di contestazione, ex art. 383 del d.P.R. n. 495 del 1992, possono - stante la natura amministrativa della sanzione correlata alle suddette violazioni, che esclude che a tali dichiarazioni possano estendersi le regole del processo penale - essere utilizzate in sede giudiziale, essendo poi rimesso alla valutazione del giudice di merito - non sindacabile in sede di legittimità – l’apprezzamento circa l’effettiva idoneità delle stesse a costituire una sostanziale ammissione di responsabilità.

15. L’opposizione: il rito, la competenza, l’oggetto e gli effetti.

In forza del d.lgs. n. 150 del 2011, sia ai giudizi di opposizione ad ordinanza-ingiunzione sia a quelli di opposizione al verbale di accertamento di violazioni del codice della strada, introdotti dopo il 6 ottobre 2011, si applica il rito del lavoro e, in particolare, l’art. 434 c.p.c.

Per tale ragione, Sez. 6-2, n. 21153/2021, Falaschi, Rv. 661952-01, ha ribadito che l’appello avverso la sentenza di primo grado, da proporsi con ricorso, è inammissibile ove l’atto sia stato depositato in cancelleria oltre il termine di decadenza di trenta giorni dalla notifica della sentenza o, in caso di mancata notifica, oltre il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., senza che incida, a questo fine, che l’appello sia stato irritualmente proposto con citazione, assumendo comunque rilievo solo la data di deposito di quest’ultima (conforme Sez. 6-3, n. 25061/2015, Vivaldi, Rv. 638032-01).

Sempre in ragione dell’applicabilità del rito del lavoro, Sez. 6-2, n. 38521/2021, Fortunato, Rv. 663223-01, ha ritenuto che l’omessa lettura del dispositivo all’udienza di discussione determini, ex art. 156, comma 2, c.p.c., la nullità insanabile della sentenza per mancanza del requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto, correlato alle esigenze di concentrazione del giudizio e di immutabilità della decisione rispetto alla successiva stesura della motivazione.

La competenza per territorio a conoscere dell’opposizione al verbale di accertamento dell’infrazione, secondo Sez. 6-2, n. 36968/2021, Tedesco, Rv. 662936-01, ha natura inderogabile, ai sensi dell’art. 204 bis del codice della strada, con conseguente ammissibilità, in ipotesi di conflitto negativo virtuale di competenza, del regolamento d’ufficio ex art. 45 c.p.c.

Sez. 6-2, n. 37999/2021, Varrone, Rv. 663087-01, ha riaffermato il principio (già affermato da Sez. U, n. 20544/2008, Carbone, Rv. 604645-01) per cui l’avvenuto pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria non preclude il ricorso al prefetto o l’opposizione al giudice ordinario rispetto alle sanzioni accessorie dal momento che il cosiddetto pagamento in misura ridotta, secondo l’art. 202 codice della strada, non influenza l’applicazione delle eventuali sanzioni accessorie. Detto pagamento comporta soltanto un’incompatibilità, oltre che un’implicita rinunzia, a far valere qualsiasi contestazione relativa sia alla sanzione pecuniaria irrogata, sia alla violazione contestata che della sanzione pecuniaria è il presupposto giuridico.

Pertanto, l’interessato potrà far valere doglianze che abbiano ad oggetto le sole sanzioni accessorie, quali la mancata previsione della pena accessoria o la previsione della stessa in misura diversa, come, ad esempio, quando si contesti che la violazione astrattamente considerata non contemplava quella pena accessoria o non la prevedeva nella misura applicata.

Con riguardo all’opposizione alla cartella di pagamento emessa ai fini della riscossione di una sanzione amministrativa pecuniaria comminata per violazioni al codice della strada, si deve ricordare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, essa può avere funzione recuperatoria e, pertanto, consente all’interessato di recuperare il mezzo di tutela previsto dalla legge avverso l’atto presupposto solo allorché la cartella sia stata effettivamente il primo atto attraverso cui l’interessato è venuto a conoscenza della pretesa sanzionatoria. Al riguardo, Sez. 3, n. 14266/2021, Fiecconi, Rv. 661443-01, ha ribadito il principio, già affermato dalle Sezioni unite (Sez. U, n. 22080/2017, Barreca, Rv. 645323-01) secondo il quale, ove la parte deduca che tale cartella costituisce il primo atto con il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogata, in ragione della nullità o dell’omissione della notificazione del processo verbale di accertamento della violazione, l’opposizione deve essere proposta ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, e non nelle forme dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., e, pertanto, entro trenta giorni dalla notificazione della cartella.

Ancora, nel caso di opposizione “recuperatoria” avverso la cartella di pagamento fondata sull’omessa o invalida notifica dell’ordinanza ingiunzione, emessa in esito a ricorso gerarchico avverso verbale di accertamento per infrazione al codice della strada, il ricorrente ha l’onere di dedurre non soltanto la mancanza o l’invalidità della notificazione dell’ordinanza, atto presupposto su cui si basa la cartella, ma anche i vizi che attengono al merito della pretesa sanzionatoria, dalla cui omessa deduzione consegue l’inammissibilità dell’opposizione (Sez. 3, n. 03318/2021, Fiecconi, Rv. 660524-01).

Ove il verbale di accertamento dell’infrazione non sia opposto, esso diventa titolo esecutivo e non può essere contestato con l’opposizione alla cartella esattoriale, salvo che l’opponente deduca che quest’ultima costituisce il primo atto con cui è venuto a conoscenza della sanzione comminatagli, a causa della nullità o dell’omissione della notificazione del menzionato verbale. In applicazione del principio, Sez. 6-2, n. 09059/2021, Picaroni, Rv. 661118-01, ha confermato la decisione di merito, che aveva escluso la possibilità di far valere, con l’opposizione alla cartella, l’illegittimità del verbale di contravvenzione, siccome elevato nei confronti di un soggetto carente di legittimazione passiva.

Infine, occorre richiamare Sez. 2, n. 20919/2021, Criscuolo, Rv. 662019-01, la quale ha ritenuto che, a differenza di quanto accade in materia tributaria, l’avviso bonario avente ad oggetto il pagamento di sanzioni pecuniarie conseguenti a contravvenzioni al codice della strada non sia autonomamente impugnabile per soli vizi formali propri, senza estensione della contestazione, in funzione cd. recuperatoria, alla validità degli atti ad esso prodromici, trattandosi di crediti per pretese non tributarie, per le quali il legislatore ha configurato un modello processuale non impugnatorio, ma volto ad individuare specifici strumenti di tutela processuale.

16. Le violazioni sanzionate dal codice della strada.

Con riguardo alle sanzioni amministrative connesse alla guida in stato di ebbrezza, Sez. 2, n. 17999/2021, Picaroni, Rv. 661543-01, ha affermato che la sospensione della patente di guida ex art. 186 del codice della strada consegue a titolo di sanzione accessoria del reato ed è disposta dal giudice penale, anche se applicata in concreto dal prefetto, mentre la sospensione cautelare/preventiva disposta dal prefetto ai sensi dall’art. 223 del medesimo codice - la quale deve intervenire entro un tempo ragionevole, la cui valutazione in concreto è rimessa al giudice del merito - risponde alla necessità di impedire che, nell’immediato, il destinatario possa continuare a tenere una condotta pericolosa. In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva ritenuto legittima l’applicazione della sospensione cautelare a distanza di 19 mesi dall’accertamento del fatto, senza tuttavia chiarire le ragioni per le quali il provvedimento doveva considerarsi adottato in tempo ragionevole.

Sez. 6-2, n. 33082/2021, Dongiacomo, Rv. 662829-01, ha chiarito che, qualora la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza sia dichiarata estinta per esito positivo di messa alla prova ai sensi dell’art. 168 ter c.p., il prefetto non può più infliggere, ricorrendone le condizioni, la sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo col quale la violazione è stata commessa, in esito alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 224 ter codice della strada (Corte cost., sent. n. 75 del 2020). Egli deve, invece, disporne la restituzione in favore dell’imputato che ne era stato privato sin dal momento del sequestro.

Nel caso di guida in assenza di copertura assicurativa, Sez. 6-2, n. 39853/2021, Grasso, Rv. 663225-01, ha affermato che, ove sia stato disposto il sequestro del veicolo ai sensi dell’art. 193, comma 4, codice della strada, la restituzione del mezzo, a seguito del pagamento della sanzione in misura ridotta, è subordinata alla corresponsione delle spese di relativo prelievo, trasporto e custodia, nonché del premio di assicurazione per almeno sei mesi, decorrenti dal momento dell’accertamento, tempo individuato dal legislatore quale congruo e ragionevole, al fine di garantire la protezione assicurativa a vantaggio dei terzi eventualmente danneggiati.

Sez. 6-2, n. 07089/2021, Oliva, Rv. 660942-01, ha affrontato il tema delle sanzioni amministrative accessorie per contravvenzioni al codice della strada, stabilendo che il proprietario del veicolo che sia stato posto in circolazione da altri prima del rilascio della relativa carta di circolazione (o prima dell’immatricolazione, in relazione alla sentenza n. 371 del 1994 della Corte costituzionale, dichiarativa dell’illegittimità dell’art. 21, comma 3, della l. n.689 del 1981 e, dunque, per implicito, dell’art. 93, comma 7, del nuovo codice della strada), in tanto potrà invocare, per evitare la confisca amministrativa del mezzo che sia stato successivamente immatricolato, l’applicazione dell’art. 213, comma 6, codice della strada, presupponente la sua estraneità alla violazione, in quanto non sia responsabile dell’autonoma infrazione di cui all’art. 93, comma 7, secondo inciso, codice della strada, consistente nel non averne impedito, per dolo o per colpa, la circolazione. Quella del proprietario, infatti, non è un’obbligazione solidale (ex art. 196, comma 1, codice della strada), ma autonoma, collegata all’attività omissiva consistita nel non avere impedito il fatto, che realizza una distinta contravvenzione, della quale il proprietario del veicolo (o l’usufruttuario, il locatario con facoltà di acquisto ovvero l’acquirente con patto di riservato dominio) risponde tutte le volte che la sua omissione, cosciente e volontaria, sia connotata da dolo o colpa, giusta il principio generale posto dall’art. 3, comma 1, della l. n. 689 del 1981 (in senso conforme, si era espressa Sez. 3, n. 09493/2000, Amatucci, Rv. 538558-01).

Tra le varie sanzioni amministrative comminate dal codice della strada deve essere ricordata anche quella prevista dall’art. 23, comma 13 bis, per l’omessa rimozione di cartelli pubblicitari nel termine di dieci giorni dalla comunicazione della diffida dell’ente titolare della strada. Sez. 6-2, n. 34583/2021, Criscuolo, Rv. 662830-01, ha ribadito che tale sanzione è autonoma e non accessoria rispetto alla diversa sanzione amministrativa prevista dal precedente comma 11 del medesimo art. 23, relativa all’abusiva installazione di detti cartelli, trattandosi di condotte differenti ed a carico di soggetti diversi, rispettivamente il diffidato inadempiente all’obbligo di rimozione e l’installatore abusivo. Ne consegue che, nel primo caso, la sanzione può essere applicata al soggetto inadempiente alla diffida, senza necessità della preventiva contestazione della condotta di installazione abusiva (nello stesso senso, si era già espressa Sez. 6-2, n. 00167/2016, D’Ascola, Rv. 638728-01).

17. Le altre sanzioni.

Nell’anno di riferimento la S.C. ha precisato presupposti e ambito di applicazione anche di sanzioni amministrative non riconducibili ad infrazioni al codice della strada.

In tema di violazioni amministrative per le quali è necessaria la contestazione immediata, e con specifico riferimento alla sanzione irrogata ad un natante che aveva navigato all’interno di un porto, in una fascia oraria vietata da un provvedimento della relativa Capitaneria, Sez. 6-2, n. 25698/2021, Besso Marcheis, Rv. 662292-01, ha ribadito che, a fronte dell’impossibilità di fermare il veicolo in tempo utile nei modi regolamentari, non sussistono margini di apprezzamento, in sede giudiziaria, in riferimento all’astratta possibilità di una predisposizione del servizio con modalità tali da permettere la contestazione immediata della violazione in quanto, da un lato, non è consentito al giudice dell’opposizione sindacare le modalità organizzative del servizio di rilevamento delle infrazioni, in termini di impiego di uomini e mezzi, ove difettino specifiche previsioni normative di cui si configuri, in ipotesi, la violazione; dall’altro, giacché alcuna norma impone all’amministrazione il dispiegamento di una pluralità di pattuglie per garantire l’immediata contestazione delle violazioni (principio già affermato da Sez. U, n. 03936/2012, Petitti, Rv. 621350-01, in materia di accertamento di violazioni delle norme sui limiti di velocità compiuto mediante apparecchiature di controllo, cd. autovelox).

Con riguardo al trasporto pubblico non di linea per via d’acqua, Sez. 2, n. 24378/2021, Fortunato, Rv. 662164-01, ha precisato che l’art. 43, lett. a) e c), della l.r. Veneto n. 63 del 1993, che sanziona l’esercizio di servizi pubblici non di linea per via d’acqua in assenza della prescritta autorizzazione o licenza, non trova applicazione nelle ipotesi di noleggio con conducente che effettui il trasporto nelle acque di navigazione interna nella città di Venezia in presenza di autorizzazione rilasciata da un comune diverso, non potendosi configurare, in tale ipotesi, un illecito esercizio senza autorizzazione.

Ove vengano organizzate escursioni in laguna con l’utilizzo di imbarcazioni, tale attività rientra in quella delle agenzie di viaggio ex art. 63, comma 2, lett. f), della l.r. Veneto n. 33 del 2002 a condizione che a bordo delle stesse siano presenti solo i partecipanti all’escursione. Se, viceversa, a bordo vi siano anche o solo persone che abbiano avanzato unicamente richiesta di trasporto da un luogo all’altro, l’attività rientra nel trasporto pubblico non di linea e il suo esercizio richiede apposita autorizzazione comunale, ai sensi dell’art. 5 della citata legge regionale (Sez. 2, n. 23435/2021, Orilia, Rv. 662074-01).

Per quanto concerne il trasporto di cose con autoveicoli o motoveicoli senza licenza o autorizzazione, Sez. 2, n. 20906/2021, Bellini, Rv. 661832-01, ha affermato che l’impugnativa del verbale di contestazione con sanzione pecuniaria è disciplinata dall’art. 46 della l. n. 298 del 1974, come modificato dal d.lgs. n. 507 del 1999, il quale, nel richiamare le norme di cui al capo I, sezione II, del titolo VI del d.lgs. n. 285 del 1992, determina l’applicabilità, per richiamo, dell’art. 214 codice della strada (che prevede il ricorso al prefetto), anziché dell’art. 204 bis (che stabilisce l’alternatività tra opposizione al prefetto e ricorso all’autorità giudiziaria). Pertanto, il ricorso eventualmente proposto al giudice di pace risulta inammissibile.

In tema di sanzioni amministrative riguardanti la cessione di prodotti vitivinicoli, secondo Sez. 6-2, n. 36739/2021, Criscuolo, Rv. 663084-01, il criterio del cumulo giuridico, previsto dall’art. 5, comma 3 quater, del d.l. n. 370 del 1987, trova applicazione non solo relativamente alle condotte sanzionate dal citato decreto, ma, in virtù di quanto previsto nell’art. 4, altresì per gli illeciti individuati dai regolamenti comunitari - anche sopravvenuti - volti a contrastare le sofisticazioni e le contraffazioni nel settore vitivinicolo quale, tra gli altri, la mancata emissione dei documenti di accompagnamento relativi alla cessione di tali prodotti, ex art. 3, par. 1, del Reg. CE n. 884 del 2001. La S.C. ha ritenuto che non assuma rilevanza, in senso contrario, l’abrogazione dell’art. 5 cit., la cui previsione sanzionatoria è oggi contenuta nel d.lgs. n. 260 del 2000, dal momento che tale nuova disciplina ha abrogato quella precedente solo per la parte incompatibile e, dunque, per quella relativa alla determinazione della pena, non anche per la porzione concernente il cumulo giuridico.

In tema di “quote latte”, Sez. 6-2, n. 32006/2021, Varrone, Rv. 662810-01, ha affermato il principio di diritto secondo cui l’acquirente che non abbia rispettato l’obbligo di versamento del prelievo supplementare di cui all’art. 5, comma 5, del d.l. n. 49 del 2003, conv. dalla l. n. 119 del 2003, può estinguere l’illecito amministrativo, a norma dell’art. 16, comma 1, della l. n. 689 del 1981, col pagamento di una somma in misura ridotta pari al doppio del minimo edittale di € 1.000,00.

Con riguardo alla disciplina relativa alla protezione dei dati personali, per quanto attiene alle fattispecie regolate dalle norme previgenti al d.lgs. n. 101 del 2018 (che ha adeguato la normativa nazionale al reg. UE n. 679 del 2016), secondo Sez. 1, n. 19947/2021, Falabella, Rv. 661829-01, l’irrogazione delle sanzioni amministrative è disciplinata dalle disposizioni della l. n. 689 del 1981, in quanto applicabili, stante il richiamo operato dall’art. 166 del d.lgs. n. 196 del 2003, nel testo in vigore ratione temporis; ne consegue che il presunto trasgressore non può impugnare il verbale di accertamento, trattandosi di un atto a carattere procedimentale, inidoneo a produrre alcun effetto nella sua sfera giuridica, incisa solo a seguito dell’emanazione dell’ordinanza ingiunzione, unico atto contro il quale è possibile proporre opposizione.

La medesima pronuncia (Rv. 661829-02) ha chiarito, altresì, che, con riguardo alle fattispecie regolate dalle norme previgenti al d.lgs. n. 101 del 2018 (che ha adeguato la normativa nazionale al reg. UE n. 679 del 2016), l’atto di accertamento e di contestazione dell’illecito amministrativo non è irrogativo della sanzione e, come tale, non è idoneo a produrre effetti nella sfera giuridica del presunto trasgressore che, infatti, è privo di interesse ad agire in riferimento alla domanda di accertamento negativo dell’illecito solo contestato, potendo unicamente proporre opposizione avverso il provvedimento sanzionatorio successivamente emanato dal Garante a norma dell’art. 18 della l. n. 689 del 1981.

Sez. 1, n. 03652/2021, Tricomi L., Rv. 660495-01, ha affrontato la questione, concernente il tema dell’occupazione abusiva di spazi e aree pubbliche, relativa alla cumulabilità della sanzione prevista dall’art. 63, comma 2, lett. g bis), del d.lgs. n. 446 del 1997, nel testo vigente ratione temporis, con l’indennità pari al canone maggiorato fino al 50 per cento previsto dalla lett. g) della medesima disposizione. Secondo la richiamata pronuncia indennità e sanzione sono tra loro cumulabili atteso che, come emerge dal tenore letterale delle disposizioni, la quantificazione della sanzione discende direttamente dalla commisurazione dell’indennità ed esse soddisfano esigenze differenti, essendo la prima volta ad assicurare il pagamento dell’indennità medesima a ristoro del canone che avrebbe dovuto essere versato in caso di occupazione autorizzata quale corrispettivo dell’uso esclusivo o speciale del bene pubblico, e la seconda rivestendo un esclusivo carattere sanzionatorio.

In tema di sanzioni amministrative in materia elettorale, l’art. 2, comma 1, n. 3, della l. n. 441 del 1982, richiamato dall’art. 7, comma 6, della l. n. 515 del 1993, pone l’obbligo di attestare, in alternativa alla dichiarazione concernente le spese sostenute per la campagna elettorale, di essersi avvalso esclusivamente di materiali e mezzi propagandistici messi a disposizione del partito. Tale obbligo - secondo quanto ribadito da Sez. 6-2, n. 08263/2021, Falaschi, Rv. 660825-01 - mira ad assicurare, in relazione a tutti i candidati che abbiano partecipato alla competizione elettorale, la trasparenza delle fonti di finanziamento, consentendo gli eventuali controlli; ne consegue che tale dichiarazione autocertificativa, sebbene in forma negativa, deve essere resa anche dai candidati che, oltre a non avere sostenuto personalmente oneri o ricevuto contributi, neppure si siano avvalsi di strutture e mezzi messi a disposizione dal partito, onde, in caso di omissione, è legittima la sanzione irrogata dal Collegio di Garanzia Elettorale (conf. Sez. 2, n. 08443/2008, Piccialli, Rv. 602412-01).

In tema di elezioni amministrative, Sez. 1, n. 03857/2021, Di Marzio M., Rv. 660497-01, ha affermato che, ai fini della sanzione di incandidabilità degli amministratori di cui all’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267 del 2000, è sufficiente una situazione di cattiva gestione della cosa pubblica ascrivibile ad una condotta anche soltanto omissiva, ove quest’ultima abbia costituito la causa o la concausa dello scioglimento dell’organo consiliare, potendo tale fattispecie realizzarsi quando si ometta di assumere, sia pure solo per colpa, le determinazioni utili per rimediare ad ingerenze esterne e pressioni inquinanti derivanti da associazioni criminali, quantunque ereditate da precedenti consiliature.

In materia di rifiuti, Sez. 2, n. 18000/2021, Giannaccari, Rv. 661544-02, ha chiarito che l’art. 258 del d.lgs. n. 152 del 2006 disciplina due distinti tipi di illecito: il comma 1 contempla la condotta di chi omette del tutto la compilazione del registro di carico e scarico ovvero l’annotazione di alcuni trasporti, mentre il comma 5 prevede l’ipotesi attenuata in cui le indicazioni, pur riportate nei registri di carico e scarico, siano formalmente incomplete o inesatte e, cionondimeno, i dati contenuti nella comunicazione al catasto, nei registri predetti, nei formulari di identificazione dei rifiuti trasportati e nelle altre scritture contabili tenute per legge consentano di ricostruire le informazioni dovute. Pertanto, ove il registro contenga l’indicazione, anche se imperfetta, del trasporto e richiami, dunque, l’attenzione dell’accertatore su di esso, la violazione è meno grave, per l’agevole integrazione del dato, mentre, nel caso in cui nel registro manchi del tutto un riferimento ad un determinato trasporto, l’integrazione con il formulario non è consentita.

Con riguardo allo scarico a mare di acque reflue urbane senza autorizzazione, Sez. 2, n. 17823/2021, Carrato, Rv. 661620-01, ha ritenuto che non vada esente da responsabilità il Comune che abbia affidato la gestione della rete fognaria ad un consorzio intercomunale, come consentito dall’art. 6 della l. n. 319 del 1976 (applicabile ratione temporis), in quanto la norma prevede il solo trasferimento della gestione, ferma restando la responsabilità dell’ente che, in quanto titolare di detta rete, è soggetto agli inerenti obblighi, compreso quello di munirsi dell’autorizzazione prevista dal successivo art. 9 della medesima legge (in senso conforme v. Sez. 2, n. 22058/2009, Bucciante, Rv. 609929-01).

Sez. 2, n. 06897/2021, Criscuolo, Rv. 660786-01, ha affrontato la questione relativa all’applicabilità della sanzione prevista dall’art. 2, comma 2, del d.l. n. 5 del 2001, conv. dalla l. n. 66 del 2001, in relazione all’inottemperanza dell’ordine di riduzione a conformità delle emissioni elettromagnetiche generate dall’emittente radiofonica per l’ipotesi in cui vengano superati i limiti di esposizione agli impianti che generano campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici con frequenza compresa tra 100 kHz e 300 GHz, disciplinati dall’art. 3 del d.P.C.M. 8 luglio 2003. La S.C. ha affermato che detti limiti vanno rispettati a prescindere dall’attuale e concreta adibizione degli edifici interessati dall’esposizione medesima, nonché delle loro pertinenze esterne fruibili come ambienti abitativi, quali balconi, terrazzi e cortili (esclusi i lastrici solari), ad usi che determinino una permanenza non inferiore a quattro ore giornaliere, essendo sufficiente, in ragione del principio di precauzione di matrice comunitaria, la loro potenziale destinazione a siffatti usi.

In tema di commercio ambulante, integra la violazione dell’art. 29, comma 1, del d.lgs. n. 114 del 1998 l’esercizio di tale commercio su aree pubbliche in una postazione fissa da parte del titolare di autorizzazione al commercio in forma itinerante, dal momento che si tratta di attività svolta oltre i limiti fissati dall’autorizzazione (Sez. 2, n. 10924/2021, Picaroni, Rv. 661092-01).

Per quanto riguarda le sanzioni irrogate per il mancato rispetto, da parte degli esercizi commerciali, degli orari di chiusura al pubblico imposti dal regolamento comunale, Sez. 2, n. 06895/2021, Carrato, Rv. 660748-01, ha ricordato che, secondo la giurisprudenza costituzionale, la regolamentazione di tali orari appartiene alla competenza esclusiva dello Stato, ex art. 117, comma 2, lett. e), Cost., in quanto afferisce alla materia della tutela della concorrenza, salvo il potere del Sindaco di adottare, sulla base di un’adeguata motivazione che ne individui le sottese ragioni di tutela del pubblico interesse, ordinanze contingibili e urgenti, ex art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267 del 2000, con limitati effetti spaziali e temporali. Da tanto consegue l’obbligo, per il giudice ordinario, di disapplicare le disposizioni degli enti locali che, in contrasto con l’art. 31, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, modificativo dell’art. 3, comma 1, lett. d bis), del d.l. n. 223 del 2006, ai sensi del quale le attività commerciali sono svolte senza limiti e prescrizioni, anche per quanto concerne l’obbligo della chiusura, introducono limiti a tali orari. In applicazione del principio, la S.C., cassando la decisione impugnata e decidendo nel merito, ha annullato l’ordinanza ingiunzione emessa nei confronti di una società titolare di un locale per la somministrazione di alimenti e bevande, disapplicando le previsioni contenute nel regolamento del Comune di Ferrara, disciplinante tali attività ed asseritamente violato che, sulla base della l.r. Emilia Romagna n. 14 del 2003, aveva imposto agli esercenti in detto settore il rispetto di fasce orarie di chiusura obbligatoria.

In materia di sanzioni per la violazione delle disposizioni sulla protezione degli animali durante il trasporto, secondo Sez. 6-2, n. 29426/2021, Picaroni, Rv. 662804-01, rientrano nella condotta sanzionata dall’art. 7 del d.lgs. n. 151 del 2007 le operazioni di carico, scarico, trasferimento e riposo, fino all’arrivo dell’animale nel luogo di destinazione. Si è affermato, pertanto, che la violazione della richiamata disposizione deve ritenersi integrata nel luogo in cui viene accertata l’inidoneità dell’animale ad essere trasferito da un luogo ad un altro e, dunque, anche durante il trasporto.

  • elezione

CAPITOLO XXIX

ELEZIONI E GIUDIZI ELETTORALI

(di Aldo Ceniccola )

Sommario

1 Premessa. - 2 Elettorato passivo. - 3 Contenzioso elettorale.

1. Premessa.

Le pronunce intervenute nel 2021 in materia elettorale non sono numerose. Significativi, comunque, sono stati gli interventi concernenti i temi dell’elettorato passivo e del contenzioso elettorale.

2. Elettorato passivo.

In tema di sanzioni amministrative in materia elettorale, Sez. 6-2, n. 08263/2021, Falaschi, Rv. 660825-01, ha chiarito che l’obbligo stabilito dall’art. 2, comma 1, n. 3, della l. n. 441 del 1982, richiamato dall’art. 7, comma 6, della l. n. 515 del 1993, di attestare, in alternativa alla dichiarazione concernente le spese sostenute per la campagna elettorale, di essersi avvalso esclusivamente di materiali e mezzi propagandistici messi a disposizione del partito, mira ad assicurare, in relazione a tutti i candidati che abbiano partecipato alla competizione elettorale, la trasparenza delle fonti di finanziamento, consentendo gli eventuali controlli; ne consegue che tale dichiarazione autocertificativa, sebbene in forma negativa, deve essere resa anche dai candidati che, oltre a non aver sostenuto personalmente oneri o ricevuto contributi, neppure si siano avvalsi di strutture e mezzi messi a disposizione dal partito, onde, in caso di omissione, è legittima la sanzione irrogata dal Collegio di Garanzia Elettorale.

Sul tema della sanzione di incandidabilità degli amministratori di cui all’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267 del 2000, per Sez. 1, n. 03857/2021, Di Marzio M., Rv. 660497-01, è sufficiente una situazione di cattiva gestione della cosa pubblica ascrivibile ad una condotta anche soltanto omissiva, ove quest’ultima abbia costituito la causa o la concausa dello scioglimento dell’organo consiliare, potendo tale fattispecie realizzarsi quando si ometta di assumere, sia pure solo per colpa, le determinazioni utili per rimediare ad ingerenze esterne e pressioni inquinanti derivanti da associazioni criminali, quantunque ereditate da precedenti consiliature.

Sempre a proposito dell’applicazione della misura interdittiva prevista dall’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267 del 2000, Sez. 1, n. 02749/2021, Pazzi, Rv. 660720-03, ha affermato che, qualora, alla luce di una visione di insieme della congerie istruttoria disponibile, risulti che l’amministratore, anche solo per colpa, sia venuto meno agli obblighi di vigilanza, indirizzo e controllo previsti dagli artt. 50, comma 2, 54, comma 1, lett. c), e 107, comma 1, del d.lgs. n. 267 del 2000, tale condotta deve considerarsi di per sé sufficiente ad integrare i presupposti per l’applicazione della misura interdittiva prevista dall’art. 143, comma 11, del d.lgs. cit., così come risultante dalla sostituzione operata dall’art. 2, comma 30, della l. n. 94 del 2009, dato che la finalità perseguita dalla norma è proprio quella di evitare il rischio che quanti abbiano cagionato il grave dissesto dell’amministrazione comunale, rendendo possibili ingerenze al suo interno delle associazioni criminali, possano aspirare a ricoprire cariche identiche o simili a quelle già rivestite e, in tal modo, potenzialmente perpetuare l’ingerenza inquinante nella vita delle amministrazioni democratiche locali.

Infine, Sez. 1, n. 05060/2021, Lamorgese, Rv. 660518-01, ha precisato che la declaratoria di ineleggibilità del sindaco non comporta pure quella “derivata” dei consiglieri eletti nella lista collegata al sindaco, altrimenti creandosi una nuova ipotesi di ineleggibilità non prevista dalla legge, legata al mero fatto dell’iscrizione nella lista collegata al candidato non eleggibile anziché ad una ragione specifica inerente alla posizione dei singoli candidati.

3. Contenzioso elettorale.

Il rito camerale richiamato dall’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267 del 2000, risulta compatibile, secondo Sez. 1, n. 04500/2021, Scalia, Rv. 660499-01, con la tutela dei diritti soggettivi e degli status, nonché rispettoso del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, in quanto idoneo a contemperare le esigenze di effettività della tutela dell’aspirazione del cittadino ad accedere alle cariche elettive pubbliche, con quelle di rapida definizione delle questioni concernenti la sua incandidabilità.

Inoltre, Sez. 1, n. 02749/2021, Pazzi, Rv. 660720-01, ha precisato che il procedimento volto alla dichiarazione di incandidabilità degli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del consiglio comunale o provinciale, di cui all’art. 143, comma 11, ultimo periodo, del d.lgs. n. 267 del 2000, è soggetto alla sospensione feriale dei termini, non applicandosi la deroga prevista dagli artt. 3 della l. n. 742 del 1969 e 92 del r.d. n. 12 del 1941, poiché queste disposizioni non contemplano, nella loro tassativa elencazione, tale procedimento né, in linea generale, i procedimenti in camera di consiglio di cui agli artt. 737 e ss. c.c.

La sospensione dei termini procedurali stabilita, dal 9 marzo 2020 all’11 maggio 2020, dal combinato disposto dagli artt. 83, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020 (conv., con modif., dalla l. n. 27 del 2020) e 36, comma 1, del d.l. n. 23 del 2020 (conv., con modif., dalla l. n. 40 del 2020), per Sez. 1, n. 02749/2021, Pazzi, Rv. 660720-02, si applica ai giudizi di incandidabilità di cui all’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267 del 2000, perché essi non hanno natura cautelare, mancando il carattere di strumentalità rispetto ad ulteriori procedimenti finalizzati ad assicurare in via definitiva i diritti fondamentali della persona, e sono volti ad assicurare, senza interlocuzioni strumentali e limitando diritti pubblici soggettivi, l’interesse della comunità locale ad essere preservata da ingerenze inquinanti di tipo mafioso nella sua ordinata vita democratica.

Sui poteri della Corte di cassazione nei ricorsi in materia elettorale, Sez. 1, n. 04227/2021, Campese, Rv. 660498-02, ha precisato che la Corte è giudice non solo di legittimità, ma anche di merito, sicché può procedere all’esame diretto degli atti, indipendentemente dalla valutazione che ne ha fatto il giudice di appello, disponendo di poteri di diretta cognizione dei fatti di causa nell’ambito delle risultanze probatorie già acquisite nei precedenti gradi del giudizio. Nella specie, la S.C. ha condiviso il giudizio della corte d’appello circa la inidoneità dei documenti prodotti dall’interessato, al fine di dimostrare la tempestività delle sue dimissioni dalla carica di presidente di un istituto, rispetto al termine utile per far cessare una situazione di ineleggibilità prevista dalla legislazione regionale.

Infine, secondo Sez. 1, n. 04227/2021, Campese, Rv. 660498-01, che si pone in linea di continuità con Sez. 1, n. 27327/2011, Di Palma, Rv. 620749-01, nell’azione popolare in materia elettorale, è inammissibile l’intervento ad adiuvandum del candidato resistente, svolto in primo grado da un terzo elettore, atteso che parti necessarie del giudizio sono soltanto l’elettore e il candidato, oltre al pubblico ministero, né potendo l’azione popolare, per il suo carattere eccezionale, essere piegata a scopi diversi da quello teso al controllo giurisdizionale delle norme in materia di eleggibilità o incompatibilità.

  • magistrato
  • notaio
  • procedura disciplinare
  • responsabilità
  • deontologia professionale
  • avvocato

CAPITOLO XXX

I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI

(di Gianluca Grasso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La responsabilità disciplinare dei magistrati. - 2.1 Gli illeciti disciplinari. - 2.1.1 I comportamenti che, violando i doveri del magistrato, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti. - 2.1.2 La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile. - 2.1.3 La consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge. - 2.1.4 Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni. - 2.1.5 I comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori. - 2.1.6 L’emissione di provvedimenti privi di motivazione. - 2.1.7 Lo svolgimento di attività incompatibili con la funzione giudiziaria. - 2.1.8 La condotta disciplinare irrilevante. - 2.2 Il procedimento disciplinare. - 2.2.1 Rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio penale. - 2.2.2 Intercettazioni disposte in un processo penale. - 2.2.3 Incompatibilità, astensione e ricusazione nel procedimento disciplinare. - 2.2.4 Il giudizio di impugnazione e sindacato di legittimità. - 2.3 La misura cautelare della sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio. - 3 La responsabilità disciplinare degli avvocati. - 3.1 Gli illeciti disciplinari. - 3.2 Il criterio del favor rei. - 3.3 Il regime giuridico della prescrizione. - 3.4 Il procedimento disciplinare. - 3.4.1 Il giudizio disciplinare dinanzi al Consiglio Nazionale Forense. - 3.4.2 Giudizio disciplinare e giudizio penale. - 3.4.3 Il giudizio di impugnazione. - 4 La responsabilità disciplinare dei notai. - 4.1 Gli illeciti disciplinari. - 4.2 Il procedimento disciplinare. - 4.3 Il giudizio di impugnazione.

1. Premessa.

La rassegna sulla responsabilità disciplinare racchiude le pronunce rese in tale ambito dalla S.C. nei riguardi dei magistrati, degli avvocati e dei notai.

2. La responsabilità disciplinare dei magistrati.

Sul tema della responsabilità disciplinare degli appartenenti all’ordine giudiziario va fatta menzione delle pronunce rese sugli illeciti commessi nell’esercizio delle funzioni e al di fuori di queste mentre, in relazione al procedimento, numerose decisioni hanno affrontato i temi legati ai profili processuali.

2.1. Gli illeciti disciplinari.

Riguardo alle diverse fattispecie, vanno distinte le pronunce delle Sezioni Unite in merito alle ipotesi di illecito che discendono dall’esercizio delle funzioni da quelle realizzate al di fuori di esse.

Nel primo ambito ricadono le fattispecie dei comportamenti che, violando i doveri del magistrato, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti, della grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, della consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge, del reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni, dei comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori, dell’emissione di provvedimenti privi di motivazione.

Sugli illeciti commessi al di fuori delle funzioni, si segnala lo svolgimento di attività incompatibili con la funzione giudiziaria.

2.1.1. I comportamenti che, violando i doveri del magistrato, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti.

Riguardo all’illecito previsto dall’art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006, le Sezioni Unite hanno ritenuto che ricada nella fattispecie la condotta del magistrato di sorveglianza che - adottando un immotivato provvedimento di diniego dell’autorizzazione ad allontanarsi dall’abitazione per sottoporsi ad un intervento di interruzione volontaria della gravidanza - abbia omesso il dovuto rispetto alla dignità della richiedente riguardo alla soddisfazione di una fondamentale esigenza di vita strettamente connessa alla salute psico-fisica e cagionato alla medesima un danno ingiusto, consistente nell’esigenza di rivolgersi a un legale per ripresentare l’istanza e nel necessario rinvio ad altra data dell’intervento programmato (Sez. U, n. 03780/2021, Giusti, Rv. 660424-02). La pronuncia, in tal modo, conferma che ai fini della sussistenza dell’illecito è necessaria la verificazione di un evento costituito dall’ingiusto danno (o dall’indebito vantaggio) per una delle parti del procedimento, non essendo sufficiente la sola condotta del magistrato, consistente nella violazione dei doveri d’ufficio (Sez. U, n. 26548/2013, Cappabianca, Rv. 628429-01).

La S.C. ha parimenti ricondotto alla fattispecie la condotta del giudice delle indagini preliminari che non si avveda della protrazione oltre i termini massimi di legge della custodia cautelare nei confronti di un minorenne, senza che assuma rilievo la circostanza che la misura cautelare in concreto applicata sia extramuraria e connotata da finalità rieducative, trattandosi in ogni caso di un provvedimento limitativo della libertà personale (Sez. U, n. 35460/2021, Napolitano L., Rv. 662885-01).

Nella fattispecie, la Sezione disciplinare del CSM, non aveva escluso la sussistenza dell’addebito, ma aveva ritenuto la condotta irrilevante ai sensi dell’art. 3 bis, muovendo dal presupposto che non vi potesse essere stata lesione del bene della libertà personale perché le misure cautelari della permanenza in casa e del collocamento in comunità resterebbero connotate da una preminente funzione rieducativa, tanto da presupporre l’adesione ad esse della parte. Al contrario, le Sezioni Unite, hanno evidenziato che anche la misura cautelare personale della permanenza in casa, come del collocamento in comunità presentano un rilevante e decisivo carattere o contenuto della limitazione personale del minore, tale da giustificare di per sé un trattamento comune alle altre misure custodiali (si veda Cass. pen., Sez. 4, n. 34900/2017, D’Andrea, Rv. 270754-01). Viene così ribadito che, in tema di privazione della libertà personale di chi è sottoposto ad indagini, l’illecito disciplinare può ritenersi scriminato solo in presenza di gravissimi impedimenti all’assolvimento del dovere di garantire il diritto costituzionale alla libertà personale del soggetto che subisca, per effetto di misura cautelare, la restrizione del diritto medesimo.

Grava, infatti, sul magistrato l’obbligo di vigilare con regolarità sulla persistenza delle condizioni, anche temporali, cui la legge subordina la privazione della libertà personale di chi è sottoposto ad indagini, sicché l’inosservanza dei termini di durata massima della custodia cautelare costituisce grave violazione di legge idonea ad integrare gli illeciti disciplinari di cui all’art. 2, comma 1, lett. a) e g), del d.lgs. n. 109 del 2006 (Sez. U, n. 17333/2021, Giusti, Rv. 661546-02 e Sez. U, n. 17985/2021, Nazzicone, Rv. 661958-01).

Sul possibile concorso formale di illeciti, Sez. U, n. 02610/2021, Scarpa, Rv. 660309-03, ha confermato che le fattispecie di illecito disciplinare previste, rispettivamente, dalle lett. a) e g) dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006 - che sanzionano, l’una, la violazione dei doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio e rispetto della dignità della persona che arrechi ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti, e l’altra la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile - non sono tra loro in rapporto di specialità, potendo sussistere tanto gravi violazioni di legge determinate da ignoranza o negligenza inescusabile che non arrecano danno ingiusto o indebito vantaggio ad una delle parti, ma che comunque compromettono il bene giuridico, l’immagine del magistrato a tutela del quale è diretta la previsione di ogni illecito disciplinare di cui al d.lgs. n. 109 del 2006, quanto, simmetricamente, violazioni dei doveri imposti al magistrato che non si traducono in gravi violazioni di legge determinate da ignoranza o negligenza inescusabile ed arrecano, tuttavia, ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti (Sez. U, n. 05943/2013, Ceccherini, Rv. 625494-01). Ne consegue che, quando un’unica condotta del magistrato ricada nella sfera di applicazione di entrambe le norme, ricorre un’ipotesi di concorso formale di illeciti disciplinari, tutti astrattamente sanzionabili.

In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza della Sezione disciplinare del CSM nella parte in cui aveva desunto dall’esclusione della configurabilità dell’illecito per l’inadempimento dell’obbligo di cui all’art. 335 c.p.p. anche l’automatica insussistenza della contestata violazione dei doveri di correttezza e diligenza, senza alcun apprezzamento sull’assenza di qualsiasi attività investigativa del magistrato per un lungo periodo, individuata nell’incolpazione come distinto comportamento connotato da scarso impegno, autonomo rispetto alla omessa iscrizione e potenzialmente idoneo a compromettere il prestigio e la credibilità dell’ordine giudiziario.

2.1.2. La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile.

Sul rilievo disciplinare della grave violazione di legge, la S.C. ha ribadito che la grave violazione di legge rileva non in sé, bensì in relazione alla condotta deontologicamente deviante posta in essere nell’esercizio della funzione, e impone, pertanto, una valutazione complessiva della vicenda e dell’atteggiamento in essa tenuto dal magistrato, al fine di verificare se il comportamento sia idoneo, siccome dovuto “quantomeno” a inescusabile negligenza, a compromettere sia la considerazione di cui il singolo magistrato deve godere, sia il prestigio dell’ordine giudiziario (Sez. U, n. 07337/2021, Mercolino, Rv. 660793-01; in precedenza, conforme, Sez. U, n. 20819/2019, Scaldaferri, Rv. 655034-01).

Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione del CSM nella parte in cui aveva ritenuto integrato l’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 109 del 2006, in quanto il magistrato incolpato, nel pronunciare 109 sentenze ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., non aveva provveduto al loro deposito nell’immediatezza, bensì in data successiva a quella risultante dai verbali e anche in un lasso temporale di vari mesi, così pregiudicando la possibilità delle parti di proporre impugnazione nel termine decorrente dalla lettura in udienza.

2.1.3. La consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge.

In tema di responsabilità disciplinare per mancata osservanza dell’obbligo di astensione per interesse personale o familiare, Sez. U, n. 08563/2021, Falaschi, Rv. 660878-01, ha confermato che il magistrato del P.M. ha l’obbligo di astenersi ogni qual volta la sua attività possa risultare infirmata da un interesse personale o familiare, giacché l’art. 52 c.p.p., che ne prevede la facoltà di astensione per gravi ragioni di convenienza, va interpretato alla luce dell’art. 323 c.p., ove la ricorrenza di “un interesse proprio o di un prossimo congiunto” è posta a base del dovere generale di astensione, in coerenza con il principio d’imparzialità dei pubblici ufficiali ex art. 97 Cost., occorrendo, altresì, equiparare il trattamento del magistrato del P.M. - il cui statuto costituzionale partecipa dell’indipendenza del giudice - al trattamento del giudice penale, obbligato ad astenersi per gravi ragioni di convenienza ai sensi dell’art. 36 c.p.p. (in senso conforme, Sez. U, n. 21853/2012, D’Ascola, Rv. 624267-01).

2.1.4. Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni.

Riguardo alla fattispecie dei comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori, la Corte ha ritenuto sussistente l’illecito nel comportamento del pubblico ministero che, scaduti i termini delle indagini preliminari, ritardi in maniera reiterata, grave ed ingiustificata la definizione dei procedimenti assegnatigli, non procedendo all’esercizio dell’azione penale o alla richiesta di archiviazione, anche con riguardo alla disciplina processuale anteriore all’introduzione del comma 3 bis nell’art. 407 c.p.p. da parte della l. n. 103 del 2017, che ha sancito il dovere di esercitare l’azione penale o di richiedere l’archiviazione entro il termine di tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini e comunque dalla scadenza dei termini di cui all’art. 415 bis c.p.c. (Sez. U, n. 37017/2021, Stalla, Rv. 663246-01).

In precedenza, Sez. U, n. 26373/2018, Bronzini, Rv. 650875-01, riguardo al combinato disposto di cui agli artt. 359 e 321 c.p.p. e 70 disp. att. c.p.p., aveva ritenuto sussistente l’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 109 del 2006 in relazione al comportamento di un P.M. che aveva omesso di adottare qualsiasi provvedimento inteso a sollecitare il deposito della relazione da parte del consulente, incaricato di una perizia autoptica, in un procedimento per omicidio con imputato in stato di detenzione, con la conseguenza che il ritardo, protrattosi per tredici mesi, aveva reso necessaria la richiesta di proroga dei termini custodiali di fase, il cui rigetto, in sede di riesame, aveva poi determinato la scarcerazione della persona sottoposta a indagine.

2.1.5. I comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori.

Con riferimento alla nozione di grave scorrettezza, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, la S.C. ha ribadito che vi rientrano anche quelle condotte che, pur se non compiute direttamente nell’esercizio delle funzioni, sono inscindibilmente collegate a contegni precedenti o anche solo in fieri, involgenti l’esercizio delle funzioni giudiziarie, al punto da divenire tutte parte di un modus agendi contrario ai doveri del magistrato (Sez. U, n. 20042/2021, Criscuolo, Rv. 661737-01; conf. Sez. U, n. 28653/2018, Conti, Rv. 651439-01).

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza disciplinare di condanna del presidente di un collegio di corte d’assise che, su sollecitazione di un giudice popolare, in occasione di una cena organizzata pochi giorni prima della camera di consiglio, si era espresso sul tema della responsabilità civile dei magistrati ed aveva affermato che la riforma di un’eventuale sentenza di condanna avrebbe esposto anche i giudici non togati a conseguenze patrimoniali; l’incolpato, in particolare, aveva fornito delle informazioni inesatte, atteso il diverso regime della responsabilità dettato per i giudici popolari, e si era espresso con modalità comunicative che erano idonee a coartare, secondo una valutazione ex ante, la libertà di determinazione degli stessi giudici popolari, alla luce del contesto, estraneo alla camera di consiglio, in cui si era verificata la vicenda.

Parimenti, è stato ritenuto costituire comportamento gravemente scorretto del magistrato nei confronti di altri magistrati, delle parti e dei loro difensori l’inserimento in provvedimenti giurisdizionali di valutazioni e giudizi personali sull’operato di altri colleghi e su vicende estranee all’oggetto dei procedimenti nei quali sono pronunciati, tanto più se oggettivamente denigratori nei loro confronti (Sez. U, n. 19028/2021, Cirillo F.M., Rv. 661656-01; in precedenza, in senso conforme, Sez. U, n. 01416/2019, Carrato, Rv. 652232-01, aveva affermato che, ai fini della valutazione delle incolpazioni incentrate sull’adozione di un provvedimento giudiziario, non rileva la correttezza in sé del provvedimento, bensì la condotta del magistrato che lo ha adottato, allorché raggiunga un livello di negligenza tale da poter incidere negativamente sui valori tutelati dalla prescrizione disciplinare).

Nella specie, la S.C. ha ravvisato l’illecito in questione nella condotta di un magistrato che, in qualità di presidente ed estensore di una sentenza, aveva indebitamente inserito nel provvedimento una serie di considerazioni critiche, diffuse e non pertinenti, sull’operato dei colleghi della Procura, che, in precedenza, avevano sollecitato il medesimo magistrato a valutare l’opportunità di astenersi dalla trattazione del procedimento, vicenda peraltro già compiutamente definita nella competente sede.

Sul concorso formale di illeciti, Sez. U, n. 22302/2021, Vincenti, Rv. 662229-06, ha escluso la sussistenza di un rapporto di specialità tra le fattispecie previste, rispettivamente, dagli artt. 2, comma 1, lett. d), e 3, comma 1, lett. i), del d.lgs. n. 109 del 2006, - che sanzionano, l’una, i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti di altri magistrati e, l’altra, l’uso strumentale della qualità che, per la posizione del magistrato o per le modalità di realizzazione, è diretto a condizionare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste. Come chiarito dalle Sezioni Unite, la condotta scorretta del magistrato, nei riguardi dei soggetti previsti dal richiamato art. 2, prescinde del tutto dall’uso strumentale della qualità ai fini del condizionamento sull’esercizio di funzioni costituzionali, mentre la spendita, anche implicita, della qualità ai predetti fini non integra di per sé una scorrettezza nei confronti di altri magistrati. Ne consegue che, quando un’unica condotta del magistrato incolpato ricada nella sfera di applicazione di entrambe le norme, ricorre un’ipotesi di concorso formale di illeciti disciplinari, tutti astrattamente sanzionabili.

2.1.6. L’emissione di provvedimenti privi di motivazione.

Sui provvedimenti privi di motivazione, sanzionati dall’art. 2, comma 1, lett. l), del d.lgs. n. 109 del 2006, le Sezioni Unite hanno ritenuto che integra l’illecito disciplinare il comportamento di un magistrato di sorveglianza che - per negare ad una donna ristretta in regime di detenzione domiciliare l’autorizzazione ad allontanarsi dall’abitazione per sottoporsi ad un intervento di interruzione volontaria della gravidanza - abbia adottato un provvedimento la cui motivazione consiste nella sola declamazione dell’insussistenza dei presupposti di cui all’art. 284, comma 3, c.p.p., richiamato dall’art. 47 ter della l. n. 354 del 1974, privando così la richiedente della possibilità di cogliere la ragione della decisione, destinata a risolversi nell’espressione di un immotivato diniego (Sez. U, n. 03780/2021, Giusti, Rv. 660424-01).

In senso conforme è stato, infatti, chiarito (Sez. U, n. 20570/2013, Amatucci, Rv. 627332-01) che integra l’illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni per l’emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, il comportamento di un magistrato che abbia omesso di motivare, anche solo in forma succinta (come richiesto dall’art. 134, comma 1, c.p.c.), un’ordinanza di ingiunzione di pagamento di somme non contestate emessa a norma dell’art. 423, comma 2, c.p.c., privando così le parti della possibilità di cogliere la ragione di fondo che sorregge il provvedimento giurisdizionale, destinato a risolversi nell’espressione di un immotivato comando.

La mancanza della motivazione assurge a illecito disciplinare non per le sue conseguenze processuali, ma in quanto lesiva di un valore fondamentale della giurisdizione, la cui legittimazione è strettamente connessa alla trasparenza delle decisioni e alla conoscibilità delle ragioni che hanno condotto il giudice ad assumere una determinata decisione. Attraverso la motivazione è infatti possibile verificare se il giudice abbia applicato la legge in conformità all’obbligo esclusivo di soggezione ad essa, posto dall’art. 101, comma 2, Cost.

2.1.7. Lo svolgimento di attività incompatibili con la funzione giudiziaria.

In relazione all’illecito ex art. 3, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, è stato ribadito che il suo perimetro, consistente nello svolgimento di attività incompatibili con la funzione giudiziaria, è definito esclusivamente dall’art. 16, comma 1, del r.d. n. 12 del 30 gennaio 1941, in quanto richiamato espressamente dall’art. 3, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006 (Sez. U, n. 06004/2021, Cirillo F.M., Rv. 660640-01. In senso conforme, Sez. U, n. 27493/2013, Giusti, Rv. 628622-01).

In materia di illeciti disciplinari vige, infatti, il principio di tipicità, che il legislatore del 2006 ha inteso una volta di più confermare e rafforzare. Si è così escluso che l’attività di normazione secondaria espletata dal CSM possa innovare o integrare la portata delle attività vietate, né restringerne l’ambito applicativo. Di conseguenza, pur essendo previsto, nella circolare che disciplina gli incarichi extragiudiziari, il divieto di partecipazione, sotto qualsiasi forma ed indipendentemente dalle caratteristiche dimensionali, alla gestione economica, organizzativa e scientifica delle scuole private di preparazione a concorsi o esami per l’accesso alla magistratura, non può ritenersi esclusa dall’illecito disciplinare configurato nell’art. 16, comma 1, del r.d. n. 12 del 1941, la condotta di partecipazione attiva alla gestione organizzativa e scientifica con esclusione della gestione economica.

La ratio legis - che costituisce il faro che deve guidare l’interprete nel suo compito di ricostruzione del sistema - è nel senso che l’attività giudiziaria, per l’altissima rilevanza costituzionale e sociale che riveste e per l’affidamento che in essa ripongono i consociati, non può tollerare la commistione con altre attività, pubbliche o private, che possano far insorgere il dubbio che il magistrato venga distolto, distratto o reso comunque meno solerte nello svolgimento dei suoi compiti istituzionali. Tale commistione, infatti, oltre a incidere sulla tempestività ed efficacia dell’attività giudiziaria, può legittimamente appannare l’immagine del magistrato sotto il profilo della laboriosità e dell’impegno, con evidenti ricadute sulla fiducia riposta dai consociati nell’amministrazione della giustizia.

2.1.8. La condotta disciplinare irrilevante.

Sull’esimente della scarsa rilevanza del fatto di cui all’art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006, è stato ribadito che essa si applica - sia per il suo tenore letterale sia per la sua collocazione sistematica - a tutte le ipotesi di illecito disciplinare, qualora la fattispecie tipica sia stata realizzata ma il fatto, per particolari circostanze anche non riferibili all’incolpato, non risulti in concreto capace di ledere il bene giuridico tutelato, secondo una valutazione che spetta alla Sezione disciplinare del CSM, soggetta a sindacato di legittimità soltanto ove viziata da un errore di impostazione giuridica oppure motivata in modo insufficiente o illogico (Sez. U, n. 08563/2021, Falaschi, Rv. 660878-02; in senso conforme, Sez. U, n. 17327/2017, De Chiara, Rv. 644922-01).

Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della Sezione disciplinare del CSM che aveva riconosciuto l’esimente in questione in favore di un P.M. che aveva preso parte a un’udienza, tenuta davanti al GUP, nell’ambito di un procedimento penale che riguardava un avvocato con il quale aveva una relazione sentimentale, considerato che tale udienza era servita a concordare un mero rinvio, senza svolgimento di alcuna attività accusatoria/difensiva in senso tecnico.

Particolarmente rigorosa appare la giurisprudenza in caso di privazione della libertà personale e di inosservanza dei termini di durata massima della custodia cautelare, escludendosi la possibilità che gli illeciti disciplinari di cui all’art. 2, comma 1, lett. a) e g), del d.lgs. n. 109 del 2006, possano essere scriminati dalla laboriosità o capacità dell’incolpato, dalle sue gravose condizioni lavorative o dall’eventuale strutturale disorganizzazione dell’ufficio di appartenenza, né può reputarsi integrata l’esimente della “scarsa rilevanza” del fatto, di cui all’art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006, a fronte di una lunga privazione della libertà personale dell’imputato, per la sola evenienza della concomitante negligenza del funzionario di cancelleria o dell’indiscusso impegno e capacità del magistrato o del disinteresse del soggetto ad ottenere la cessazione della misura, elementi inidonei a determinare l’inoffensività della condotta (Sez. U, n. 17985/2021, Nazzicone, Rv. 661958-01; in senso conforme, Sez. U, n. 17120/2019, D’Antonio, Rv. 654414-01).

Nella specie, le Sezioni Unite hanno cassato la decisione di merito che - sulla base del ragionevole affidamento riposto dal magistrato sul corretto adempimento dei compiti di cancelleria, della sua figura professionale, dell’unicità dell’episodio, dell’avvenuta sostituzione della misura detentiva con quella degli arresti presso una struttura di accoglienza, delle dichiarazioni scritte dell’imputato circa l’assenza di pregiudizio, della mancanza di istanze di revoca o modifica della misura - aveva formulato un giudizio di scarsa rilevanza del fatto, nonostante l’illegittima privazione della libertà personale dell’imputato per 578 giorni.

Per concretizzare l’effetto scriminante occorrerebbe la presenza di gravissimi impedimenti all’assolvimento del dovere di garantire il diritto costituzionale alla libertà personale del soggetto sottoposto a custodia cautelare, senza che possa assumere rilievo il ritardo del funzionario di cancelleria nella presentazione del fascicolo al magistrato, posto che a quest’ultimo, e non al cancelliere spetta l’obbligo di esercitare una diuturna vigilanza sulla persistenza delle condizioni, anche temporali, di legalità dello stato di detenzione (Sez. U, n. 17333/2021, Giusti, Rv. 661546-02), che - nel confermare la condanna alla censura dell’incolpato, che, disinteressandosi del procedimento dopo il suo invio alla cancelleria delegata per la trasmissione degli atti in appello, aveva determinato l’illegittima privazione della libertà personale dell’imputato per 292 giorni - hanno escluso che potesse costituire esimente il fatto che il cancelliere deputato alla gestione del fascicolo, a sua volta disciplinarmente sanzionato, limitandosi a far giacere per mesi l’incartamento, nulla avesse fatto o segnalato al magistrato.

2.2. Il procedimento disciplinare.

Diverse pronunce si sono concentrate sui profili procedurali.

Riguardo alla conformità della disciplina interna rispetto ai parametri europei, è stato ribadito che l’attribuzione a un organo interno della magistratura della competenza a decidere in merito agli illeciti disciplinari dei magistrati non viola l’art. 6 della Convenzione EDU, in quanto la Sezione disciplinare costituisce organo indipendente ed imparziale come stabilito anche dalla CEDU, ric. n. 51160/2006, Di Giovanni (Sez. U, n. 18923/2021, Criscuolo, Rv. 661655-02; Sez. U, n. 11295/2021, Doronzo, Rv. 661137-01, secondo cui l’attribuzione a un organo interno alla magistratura della competenza a decidere in merito a illeciti disciplinari non viola in sé la Convenzione, e ciò in quanto la Sezione disciplinare del CSM costituisce un “organo giudiziario di piena giurisdizione”).

Le modalità di designazione e la durata del mandato dei componenti, secondo le Sezioni Unite, nonché l’esistenza di una tutela contro le pressioni esterne, assicurano l’indipendenza e l’imparzialità dell’organo giudicante, attesa l’impossibilità di rimozione dei singoli componenti per tutta la durata del mandato, l’assenza di un legame di dipendenza gerarchica o di altro tipo ai loro pari, la loro elezione a scrutinio segreto.

In precedenza, Sez. U, n. 13532/2006, Vitrone, Rv. 591004-01, aveva ritenuto manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 24, 28, 111 e 112 Cost., sotto il profilo della terzietà, imparzialità ed indipendenza dell’organo giudicante, la questione di legittimità costituzionale delle norme che regolano la Sezione disciplinare del CSM, nella parte in cui prevedono che in essa siano presenti solo due componenti laici, mentre gli altri componenti sono chiamati a giudicare i propri elettori, atteso che l’origine elettiva di essi non crea alcun rapporto di dipendenza con le parti in causa, sia perché la composizione collegiale dell’organo giudicante esclude qualsiasi attentato all’imparzialità nei confronti del magistrato elettore sottoposto a giudizio disciplinare, con riferimento alla sua eventuale appartenenza alle diverse correnti in cui si divide l’Associazione Nazionale Magistrati, sia perché l’assoluta indipendenza del collegio rispetto ai titolari dell’azione disciplinare ne garantisce pienamente l’autonomia, non potendo la posizione funzionale del magistrato giudicante temere alcun pregiudizio in dipendenza dell’atteggiamento da lui tenuto nell’esercizio dell’attività di componente della Sezione disciplinare.

2.2.1. Rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio penale.

In tema di rapporti tra il procedimento penale e quello disciplinare riguardante magistrati, la S.C. ha confermato che il giudicato penale non preclude una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale nella sede disciplinare, attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità operato nel giudizio penale (Sez. U, n. 20385/2021, Stalla, Rv. 661709-01; in senso conforme, Sez. U, n. 14344/2015, Greco, Rv. 635922-01; Sez. U, n. 23778/2010, Di Palma, Rv. 614954-01, secondo cui il giudice disciplinare non è vincolato dalle valutazioni contenute nella sentenza penale relative alla commisurazione della pena, alla concessione delle attenuanti generiche e del beneficio della sospensione condizionale, trattandosi di determinazioni riconducibili a finalità del tutto distinte rispetto a quelle del giudizio disciplinare).

Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di condanna disciplinare del magistrato - impugnata da quest’ultimo per essere stato assolto, per insussistenza del fatto, dai reati di concussione e violenza sessuale - essendo stato accertato, in sede penale, che nella sua veste di pubblico ministero aveva intrattenuto una relazione sentimentale con il coniuge di persona da lui sottoposta a richiesta di misura cautelare personale, circostanza che rilevava sotto il profilo della sua responsabilità disciplinare per violazione dell’obbligo di astenersi.

L’accertamento dei fatti contenuto nella sentenza penale di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, pur non essendo vincolante in sede disciplinare, deve essere necessariamente valorizzato dal giudice disciplinare, quando le pronunce rese in sede penale siano giunte a conclusioni conformi in ordine alla prova delle condotte contestate all’incolpato (Sez. U, n. 18923/2021, Criscuolo, Rv. 661655-03; in precedenza, in senso conforme, Sez. U, n. 18264/2019, Tria, Rv. 654625-01).

In tal caso, può addivenirsi alla conclusione che il quadro probatorio che ne risulta sia pienamente consolidato e tale da non consentire alcun tipo di ipotesi assolutoria, mentre le prove di colpevolezza acquisite e riportate nelle sentenze penali ne fanno elementi pienamente utilizzabili in sede disciplinare, secondo quanto previsto dall’art. 34 del r.d.lgs. n. 511 del 1946 nonché dagli artt. 18, comma 3, e 32 bis del d.lgs. n. 109 del 2006.

Qualora, per il medesimo fatto storico, siano stati promossi due distinti procedimenti a seguito dell’avvio per due volte dell’azione penale nei confronti dell’incolpato, ferma l’improcedibilità del secondo giudizio, stante la preclusione discendente dal principio del ne bis in idem, al giudice disciplinare spetta la decisione nel merito del primo giudizio una volta venuta meno la sua sospensione causata dal procedimento penale pendente (Sez. U, n. 18923/2021, Criscuolo, Rv. 661655-01).

2.2.2. Intercettazioni disposte in un processo penale.

Riguardo all’utilizzo delle intercettazioni disposte in un processo penale, è stata confermata l’inapplicabilità, nel procedimento disciplinare, dell’art. 270 c.p.p., riguardante i limiti di utilizzazione, nell’ambito del processo penale, dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali queste ultime sono state disposte (Sez. U, n. 09390/2021, Cosentino, Rv. 660918-01; conforme, Sez. U, n. 03271/2013, Botta, Rv. 625434-01).

Il rispetto delle regole del codice di procedura penale, in tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, infatti, è prescritto negli artt. 16, per l’attività di indagine, e 18, per il dibattimento, del d.lgs. n. 109 del 2006, nei limiti della loro compatibilità col procedimento speciale, il quale è volto a garantire - sempre nel rispetto dell’inviolabile diritto di difesa dell’incolpato - l’efficacia dell’azione di accertamento e repressione degli illeciti disciplinari e, dunque, il più penetrante controllo del CSM sulla correttezza dei comportamenti dei magistrati.

La S.C. ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale - in riferimento all’art. 117 Cost. e per contrasto con l’art. 8 CEDU - della disciplina dell’utilizzabilità in sede disciplinare dei risultati di intercettazioni disposte in sede penale, trovando questa la sua base legale nel disposto degli artt. 16 e 18 del d.lgs. n. 109 del 2006 (Sez. U, n. 09390/2021, Cosentino, Rv. 660918-04).

Sono invece ritenuti inutilizzabili nel procedimento disciplinare i risultati delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni non legalmente disposte, per mancanza o illegalità dell’autorizzazione, o non legalmente effettuate nel procedimento penale a quo (Sez. U, n. 09390/2021, Cosentino, Rv. 660918-02) o i risultati delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni disposte nel procedimento penale, i cui supporti materiali, nonostante la specifica e tempestiva richiesta del magistrato incolpato, non siano stati acquisiti agli atti del procedimento e resi ascoltabili da parte dell’incolpato stesso (Sez. U, n. 09390/2021, Cosentino, Rv. 660918-03).

2.2.3. Incompatibilità, astensione e ricusazione nel procedimento disciplinare.

Sulle questioni legate ai temi dell’imparzialità e della composizione della Sezione disciplinare del CSM, le Sezioni Unite hanno affermato che il rispetto delle regole del codice di procedura penale è prescritto negli artt. 16, per l’attività di indagine, e 18, per il dibattimento, del d.lgs. n. 109 del 2006 nei limiti della loro compatibilità col procedimento speciale, dovendo applicarsi per il resto - anche in tema di astensione e ricusazione dei componenti della Sezione disciplinare del CSM - le disposizioni del codice di procedura civile, posto che rimane nell’ambito di un ragionevole esercizio della discrezionalità legislativa conformare diversamente la disciplina degli stessi istituti, come quelli dell’astensione e della ricusazione, in relazione a processi differenti allorché sia comunque assicurato in entrambi i giudizi il rispetto delle garanzie minime idonee ad assicurare la terzietà e l’imparzialità del giudice (Sez. U, n. 22302/2021, Vincenti, Rv. 662229-03).

Riguardo alle diverse fattispecie, Sez. U, n. 22302/2021, Vincenti, Rv. 662229-05, ha ritenuto che, al fine di integrare il motivo di ricusazione ex art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c., per avere il giudice deposto nella causa come testimone, occorre che la testimonianza sia già precedentemente resa nella stessa controversia da giudicare (nella specie è stata esclusa la ricorrenza di tale causa di ricusazione per un componente della Sezione disciplinare del CSM che era stato indicato come teste a discarico dall’incolpato).

Sul motivo di ricusazione ex art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c., per avere il giudice “dato consiglio... nella causa”, si è specificato che occorre che il “consiglio” sia rivolto alla parte e alimentato da una concreta base informativa e si esprima sugli esiti della specifica controversia, sia pure senza assumere i caratteri di un responso dalla particolare valenza tecnica (Sez. U, n. 22302/2021, Vincenti, Rv. 662229-04).

Nella fattispecie, la S.C. ha escluso che un componente della Sezione disciplinare del CSM - nell’ambito di un colloquio con un magistrato che non aveva rivestito la qualità di parte nel procedimento disciplinare né all’epoca dei fatti, né successivamente - avesse prestato consiglio sulla vicenda, sia perché le dichiarazioni rese erano generiche e si collocavano su un piano di mera acquisita conoscenza di una porzione soltanto dei fatti, sia perché le esternazioni non prefiguravano possibili esiti o sviluppi del procedimento a carico dell’incolpato.

La Corte ha del pari escluso che i componenti supplenti nominati per decidere della ricusazione di altri membri della Sezione disciplinare abbiano un interesse nella causa ex art. 51, comma 1, n. 1, c.p.c., previsto come motivo di astensione obbligatoria e fondamento di un’istanza di ricusazione, se la condotta gravemente scorretta nei confronti dei componenti del CSM, addebitata al ricusante, attiene al funzionamento regolare ed imparziale dell’organo di autogoverno e non già all’onore o al prestigio del singolo consigliere (Sez. U, n. 11295/2021, Doronzo, Rv. 661137-01).

2.2.4. Il giudizio di impugnazione e sindacato di legittimità.

In caso di azione disciplinare promossa separatamente dal Ministro della giustizia e dal P.G. presso la Corte di cassazione per differenti capi di incolpazione e trattata in unico procedimento, il termine per l’impugnazione della sentenza della sezione disciplinare del C.S.M. proposta dal Ministero della giustizia sul capo di incolpazione non formulato dal medesimo decorre dalla comunicazione della sentenza al Ministero, in ragione della unitarietà del procedimento e del principio per cui in ipotesi di decorrenze diverse opera il termine che scade per ultimo (Sez. U, n. 33001/2021, Scoditti, Rv. 662941-01).

In tema di ricorso per cassazione avverso le sentenze della Sezione disciplinare del CSM, secondo la disciplina dell’art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006, è stato ribadito (Sez. U, n. 39258/2021, Di Marzio M., Rv. 663250-01) che, qualora la predetta Sezione, senza nulla indicare in dispositivo riguardo a un maggior termine di deposito per la particolare complessità della motivazione, abbia depositato la sentenza oltre il termine prescritto dall’art. 19, comma 2, del citato decreto, l’impugnazione deve essere proposta, ex art. 585, comma 1, lett. b), c.p.p., nel termine - decorrente dalla notificazione o dalla comunicazione dell’avviso di deposito di sentenza, art. 585, comma 2, c.p.p.) - di trenta giorni, poiché l’ampliamento a quarantacinque giorni del termine d’impugnazione è previsto nel solo caso in cui il giudice, ai sensi dell’art. 544, comma 3, c.p.p., abbia indicato nel dispositivo un termine per il deposito superiore rispetto a quello ordinario (conforme, Sez. U, n. 06059/2009, Vidiri, Rv. 608349-01).

Sul rapporto di pregiudizialità, Sez. U, n. 28271/2021, Manzon, Rv. 662466-01, ha escluso che la coeva pendenza di una procedura di dispensa per ragioni di salute del magistrato incolpato possa legittimare il rinvio del procedimento disciplinare in attesa della sua definizione, atteso che tra i due giudizi non sussiste alcun nesso di pregiudizialità, né è configurabile un diritto o un’aspettativa giuridicamente tutelata alla previa definizione della prima rispetto al secondo.

Con riferimento alla produzione di documenti, la Corte ha distinto tra quelli allegati all’atto di impugnazione della sentenza disciplinare e quelli prodotti nel corso del giudizio di legittimità.

Il giudizio di impugnazione delle sentenze emesse dalla Sezione disciplinare del CSM dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione è regolato, ai sensi dell’art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006, dalle norme processuali penali nella fase della proposizione del ricorso, anche per quanto riguarda l’ammissibilità di documenti allegati all’atto di impugnazione della sentenza disciplinare (Sez. U, n. 22302/2021, Vincenti, Rv. 662229-01). Ne consegue che non è ammissibile la produzione, per la prima volta in sede di legittimità, di documentazione nuova, ulteriore rispetto a quella già presente nel fascicolo di merito e diversa da quella di natura tale da non costituire “nuova prova”, né l’art. 327 bis, comma 2, c.p.p. - nell’attribuire al difensore la facoltà di svolgere in ogni stato e grado del processo investigazioni in favore del proprio assistito - può essere interpretato nel senso di consentire la produzione nel giudizio d’impugnazione di documentazione attinente al merito della contestazione e all’applicazione degli istituti sostanziali, potendosi derogare a tale principio solo per i documenti che l’interessato non sia stato in grado di esibire nei precedenti gradi di giudizio, e, comunque, in coerenza con la struttura e la finalità del giudizio di cassazione, purché non attinenti al merito della regiudicanda, nonché per quelli che riguardino l’applicazione dello ius superveniens, di un giudicato sostanziale, di cause estintive o di disposizioni più favorevoli.

Sulla produzione di documenti nel corso del giudizio di legittimità è stato precisato che, in ragione delle modalità operative dell’art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006, questa possibilità è disciplinata dall’art. 372 c.p.c., il quale consente di produrre la documentazione riguardante la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso, nonché quella rappresentativa di vizi propri dell’atto per mancanza dei suoi requisiti essenziali o a supporto di censure relative a errores in procedendo idonei a ripercuotersi sulla validità della decisione impugnata, posto che, altrimenti, il divieto di produzione di nuovi documenti concernenti queste ultime, come nei casi di giudizio con doppio grado di merito, si tradurrebbe in un’ingiustificata limitazione del diritto di difesa della parte, costituzionalmente garantito (Sez. U, n. 22302/2021, Vincenti, Rv. 662229-02).

In relazione alle norme applicabili al giudizio di impugnazione e al diverso rilievo delle norme processuali penali nella fase della proposizione del ricorso, e di quelle civili nella fase del giudizio (art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006), la S.C. ha precisato che, nell’ipotesi in cui prima dell’udienza vengano depositati “motivi aggiunti”, non trova applicazione l’art. 585, comma 4, c.p.p., che consente, nell’ambito del processo penale, di presentare “motivi nuovi”, ma l’atto depositato può essere riqualificato come memoria di parte, ai sensi dell’art. 378 c.p.c., e come tale può essere ritenuto ammissibile, in quanto si limiti ad illustrare e chiarire le ragioni già compiutamente svolte con l’atto di costituzione e a confutare le tesi avversarie, nell’ambito delle argomentazioni già prospettate e sviluppate nell’atto introduttivo, e purché il deposito avvenga tempestivamente, non oltre cinque giorni prima dell’udienza (Sez. U, n. 15110/2021, Rubino, Rv. 661421-01).

In merito ai motivi di impugnazione, l’errata indicazione delle conclusioni rassegnate dal Procuratore generale nella intestazione della sentenza disciplinare, riportate in modo difforme dal verbale dell’udienza, non determina l’invalidità della decisione e il predetto errore materiale può essere oggetto di correzione secondo la disciplina dell’art. 130 c.p.p. (Sez. U, n. 17333/2021, Giusti, Rv. 661546-01). Nella fattispecie, le Sezioni Unite hanno disposto la correzione dell’errore materiale nell’intestazione della sentenza della Sezione disciplinare del CSM nella parte in cui era scritto che il requirente aveva domandato la condanna alla sanzione della censura, anziché la richiesta di assoluzione dell’incolpato per essere il fatto di scarsa rilevanza, istanza quest’ultima risultante dal verbale dell’udienza.

Riguardo all’ambito del sindacato in sede di legittimità, la Corte (Sez. U, n. 33001/2021, Scoditti, Rv. 662941-02) ha confermato che la valutazione della gravità dell’illecito, anche in ordine al riflesso del fatto oggetto dell’incolpazione sulla stima del magistrato, sul prestigio della funzione esercitata e sulla fiducia nell’istituzione, nonché la determinazione della sanzione adeguata, rientrano negli apprezzamenti di merito attribuiti alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, il cui giudizio è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua e immune da vizi logico-giuridici (in senso conforme, Sez. U, n. 08615/2009, Mazziotti Di Celso, Rv. 607489-01). Nella specie, la Sezione disciplinare del CSM, con motivazione ritenuta dalla S.C. non attinta da vizio, aveva valutato il dileggio di un collega, operato dall’incolpato nel corso di una conversazione privata con un avvocato, come comportamento “scorretto”, ma non “gravemente scorretto”, inidoneo pertanto ad integrare l’illecito disciplinare.

In ipotesi di cassazione con rinvio della decisione disciplinare emessa dal CSM nei confronti di un magistrato, il giudizio di rinvio, quale processo chiuso, deve essere limitato ai punti oggetto di annullamento e a quelli consequenziali, dovendosi ritenere formato il giudicato interno a ciascun capo di incolpazione relativamente alle questioni che sono state oggetto dei motivi di ricorso non accolti, per le quali la decisione è stata ritenuta esente da vizi logico-giuridici, poiché su di esse si è avuto sia il giudizio di merito che quello esclusivo di legittimità (Sez. U, n. 17332/2021, Nazzicone, Rv. 661541-01). Nella specie, la S.C. ha ritenuto esente da censura l’ordinanza cautelare della Sezione disciplinare del CSM che, in seguito a cassazione con rinvio fondata sull’accoglimento di un motivo di impugnazione relativo ad uno solo dei capi di incolpazione, si era limitata ad indagare, rispetto agli altri, la perdurante sussistenza delle esigenze cautelari, senza rivalutarne il fumus, stante la reiezione, sul punto, dei motivi del precedente ricorso per cassazione.

2.3. La misura cautelare della sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio.

La sospensione facoltativa di un magistrato dalle funzioni e dallo stipendio, ai sensi dell’art. 22 del d.lgs. n. 109 del 2006, può essere disposta anche prima dell’inizio del procedimento disciplinare, sicché non assume rilievo la circostanza che taluni dei comportamenti ascritti non fossero stati contestati dai titolari della relativa azione (Sez. U, n. 08565/2021, Scrima, Rv. 660950-01).

3. La responsabilità disciplinare degli avvocati.

Riguardo alla responsabilità disciplinare degli avvocati, vanno richiamate le pronunce sulle fattispecie di illecito, sul criterio del favor rei, sul regime giuridico della prescrizione, nonché su taluni profili procedurali.

3.1. Gli illeciti disciplinari.

Come chiarito dalle Sezioni Unite, nella materia disciplinare forense non trova applicazione il principio di stretta tipicità dell’illecito, proprio del diritto penale, per cui non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti vietati, ma solo l’enunciazione dei doveri fondamentali, tra cui segnatamente quelli di probità, dignità, decoro, lealtà e correttezza di cui all’art. 9 del nuovo codice deontologico forense che, quale “norma di chiusura”, consente, mediante l’art. 3, comma 3, della l. n. 247 del 2012, di contestare l’illecito anche solo sulla base di tale norma, evitando che la mancata descrizione di uno o più comportamenti, e della relativa sanzione, generi immunità (Sez. U, n. 37550/2021, Esposito, Rv. 662970-01). Nella specie, in applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha confermato la decisione con cui il CNR ha ritenuto illecita la condotta posta in essere da un avvocato che aveva formato, e consegnato al cliente, una scrittura privata apocrifa di transazione e assegni bancari privi di copertura, da lui stesso emessi.

Sulle fattispecie di illecito, va richiamata la pronuncia Sez. U, n. 13168/2021, Mercolino, Rv. 661246-02, secondo cui, ai fini della responsabilità disciplinare dell’avvocato, le espressioni sconvenienti od offensive vietate dal codice deontologico forense, vigente ratione temporis, rilevano di per sé, a prescindere dal contesto in cui sono usate e dalla veridicità dei fatti che ne sono oggetto, senza che tale divieto, previsto a salvaguardia della dignità e del decoro della professione, si ponga in contrasto con il diritto, tutelato dall’art. 21 Cost., di manifestare liberamente il proprio pensiero, il quale non è assoluto ma trova concreti limiti nei concorrenti diritti dei terzi e nell’esigenza di tutelare interessi diversi, anch’essi costituzionalmente garantiti.

3.2. Il criterio del favor rei.

In tema di giudizi disciplinari nei confronti degli avvocati, ai sensi dell’art. 65, comma 5, della l. n. 247 del 2012, che ha recepito il criterio del favor rei in luogo di quello del tempus regit actum, le norme contenute nel nuovo codice deontologico forense, approvato il 31 gennaio 2014, si applicano ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato (Sez. U, n. 16296/2021, Greco, Rv. 661409-01; Sez. U, n. 09546/2021, Torrice, Rv. 661057-01).

Ne consegue che l’individuazione del regime giuridico più favorevole deve essere effettuata non in astratto, ma con riguardo alla concreta vicenda disciplinare, tenendo conto di tutte le conseguenze che potrebbero derivare dall’integrale applicazione di ciascuna delle due normative nella specifica fattispecie; tuttavia, all’esito dell’individuazione, quella ritenuta più favorevole deve essere applicata per intero, dovendo escludersi la possibilità di operare una combinazione tra la vecchia e la nuova normativa ricavandone arbitrariamente una terza attraverso l’utilizzo e l’applicazione di parti dell’una e parti dell’altra.

In tal senso, nel caso di comparazione tra la abrogata sanzione della cancellazione dall’albo e la sospensione dall’esercizio della professione forense prevista dalla nuova normativa, la comparazione deve tener conto della possibilità prevista dal regime previgente di reiscrizione dopo un periodo minimo di due anni, dei criteri fissati per un eventuale aumento di tale periodo e del tempo occorrente per la presentazione della relativa istanza (Sez. U, n. 16296/2021, Greco, Rv. 661409-01).

Riguardo all’esonero dall’obbligo di formazione continua per gli avvocati ultrasessantenni, introdotto dall’art. 11, comma 2, della l. n. 247 del 2012, la Corte ha ritenuto che, incidendo in maniera innovativa e più favorevole sull’obbligo deontologico di formazione continua dell’avvocato, si applica anche al procedimento disciplinare nel quale si contesti l’inosservanza di tale obbligo in relazione a periodi precedenti l’entrata in vigore della medesima disposizione, in applicazione del regime transitorio di cui all’art. 65, comma 5, della citata legge nella parte in cui prevede che le norme del codice deontologico trovino applicazione nei procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato (Sez. U, n. 09549/2021, Conti, Rv. 661058-01).

3.3. Il regime giuridico della prescrizione.

In tema di prescrizione dell’azione disciplinare, il regime più favorevole introdotto dall’art. 56 della l. n. 247 del 2012, il quale prevede un termine massimo di prescrizione dell’azione disciplinare di sette anni e sei mesi, non trova applicazione con riguardo agli illeciti commessi prima della sua entrata in vigore (Sez. U, n. 20383/2021, Stalla, Rv. 661851-01). Le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense hanno natura amministrativa sicché, per un verso, con riferimento alla disciplina della prescrizione, non trova applicazione lo jus superveniens, ove più favorevole all’incolpato, restando limitata l’operatività del principio di retroattività della lex mitior alla fattispecie incriminatrice e alla pena, mentre, per altro verso, il momento di riferimento per l’individuazione del regime della prescrizione applicabile, nel caso di illecito punibile solo in sede disciplinare, rimane quello della commissione del fatto e non quello della incolpazione.

3.4. Il procedimento disciplinare.

Nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati, la fase che si svolge davanti al Consiglio distrettuale di disciplina conserva il carattere amministrativo del precedente procedimento di competenza dei locali Consigli dell’ordine, svolgendo tale organo una funzione amministrativa di natura giustiziale (Sez. U, n. 19030/2021, Criscuolo, Rv. 661739-01); pertanto, non trovano applicazione le norme in tema di astensione del giudice contenute nei codici di procedura civile e penale.

Analogamente, non sono state ritenute affette da inutilizzabilità le dichiarazioni testimoniali assunte dal consigliere istruttore del Consiglio distrettuale di disciplina successivamente alla presentazione della memoria difensiva da parte dell’incolpato, atteso che il predetto procedimento e, a fortiori, la fase preprocedimentale condotta dal consigliere istruttore, ai sensi dell’art. 58 della l. n. 247 del 2012, hanno natura amministrativa, rispondendo ai principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost. (Sez. U, n. 20384/2021, Stalla, Rv. 661852-01). Le osservazioni difensive richieste dal consigliere istruttore all’incolpato, da presentarsi entro 30 giorni dalla comunicazione, non debbono, quindi, essere necessariamente depositate, a pena di nullità o di inutilizzabilità, dopo gli accertamenti istruttori, assumendo esse una funzione prettamente informativa e preliminare, volta, tra l’altro, proprio a indirizzare e mirare quegli accertamenti.

3.4.1. Il giudizio disciplinare dinanzi al Consiglio Nazionale Forense.

Nel giudizio disciplinare dinanzi al Consiglio nazionale forense, privo di termini perentori per l’inizio, lo svolgimento e la definizione del procedimento, la natura giurisdizionale delle funzioni attribuite all’organo giudicante giustifica l’inapplicabilità dell’art. 2 della l. n. 241 del 1990, il cui ambito operativo è espressamente limitato all’attività amministrativa, con la conseguenza che rispetto a tale procedimento trova applicazione soltanto il principio di ragionevole durata del processo, previsto dall’art. 6 della CEDU e consacrato nell’ordinamento interno dall’art. 111, comma 2, Cost., la cui inosservanza non comporta l’invalidità del procedimento né della decisione (Sez. U, n. 13167/2021, Mercolino, Rv. 661208-01).

Le Sezioni Unite hanno parimenti ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale in relazione al profilo del difetto di terzietà del giudice, perché la nomina dei componenti del Consiglio Nazionale Forense (giudice speciale istituito dall’art. 21 del d.lgs. lt. n. 382 del 1944 e tuttora operante, giusta la previsione della VI disposizione transitoria della Costituzione) e il procedimento di disciplina dei professionisti iscritti al relativo ordine, peraltro compatibili col diritto comunitario, assicurano il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata in tale materia al CNF, pur avendo questo anche una funzione di indirizzo e di coordinamento dei vari Consigli dell’ordine territoriali, i quali ultimi esercitano funzioni amministrative e non giurisdizionali, risultando così manifestamente inammissibile, attesa la non pertinenza dei parametri invocati - artt. 24, 102 e 111 Cost. - la questione di legittimità costituzionale sollevata con specifico riguardo alle loro competenze disciplinari (Sez. U, n. 08777/2021, Nazzicone, Rv. 660916-01; in senso conforme, già Sez. U, n. 11833/2013, Mazzacane, Rv. 626349-01, e Sez. U, n. 09097/2005, Settimj, Rv. 580707-01).

Dalla natura giurisdizionale dell’attività svolta dal Consiglio Nazionale Forense discende, altresì, che l’accertamento dell’ineleggibilità di uno o più dei suoi componenti non influisce sulla validità originaria della pronuncia di tale organo, in quanto la decisione, se già pubblicata, resta a regolare la vicenda, mentre, in relazione a decisione adottata e non ancora depositata, il presidente e il segretario mantengono il potere-dovere di provvedere alle debite sottoscrizioni ai fini della pubblicazione, in forza del principio di conservazione degli atti e, in particolare, dei provvedimenti giurisdizionali (Sez. U, n. 08777/2021, Nazzicone, Rv. 660916-02).

Sul regime delle incompatibilità, è stato evidenziato che la proposizione dell’istanza di ricusazione se, per un verso, non sospende automaticamente il giudizio, atteso che l’esigenza di impedire un uso distorto dell’istituto impone di riconoscere al collegio investito della controversia il potere di delibarne in limine l’ammissibilità e di disporre la prosecuzione del procedimento ove ritenga, in forza di una valutazione sommaria, che della ricusazione manchino ictu oculi i requisiti formali, per altro verso obbliga lo stesso organo giudicante a trasmettere il fascicolo al collegio competente a decidere sul fondo della ricusazione, del quale non può far parte il soggetto avverso cui l’istanza è stata proposta, in ragione del principio generale della terzietà del giudice che, essendo stato elevato a garanzia costituzionale dall’art.111, comma 2, Cost., opera in ogni ambito giurisdizionale (Sez. U, n. 00461/2021, Nazzicone, Rv. 660215-01).

Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza del Consiglio Nazionale Forense, pronunciata da un collegio composto, tra gli altri, da cinque avvocati ricompresi tra quelli ricusati, la quale aveva dichiarato l’inammissibilità dell’istanza di ricusazione non solo per la ragione formale - peraltro, risultata insussistente - che la stessa fosse stata rivolta nei confronti dell’intero collegio, ma anche per mancata integrazione della denunciata fattispecie della “grave inimicizia” tra giudicanti e giudicati, dedotta dai ricusanti, con ciò indebitamente statuendo sul fondo dell’istanza di ricusazione.

3.4.2. Giudizio disciplinare e giudizio penale.

L’art. 54 della l. n. 247 del 2012, diversamente da quanto previsto dalla previgente normativa, novellata dall’art. 1 della l. n. 97 del 2001, disciplina in termini di reciproca autonomia i rapporti tra il procedimento disciplinare nei confronti di avvocati e quello penale avente ad oggetto gli stessi fatti. Pertanto, in deroga alla generale previsione dell’art. 653 c.p.p., soltanto l’accertamento con sentenza penale irrevocabile che “il fatto non sussiste” o che “l’imputato non lo ha commesso” ha efficacia di giudicato, preclusivo di un’autonoma valutazione dei fatti ascritti all’incolpato da parte del Consiglio Nazionale Forense, effetto che non determinano, invece, le diverse formule assolutorie “il fatto non costituisce reato o illecito penale” o il fatto “non è previsto dalla legge come reato” (Sez. U, n. 12902/2021, Valitutti, Rv. 661284-01).

Il criterio della piena autonomia tra i due giudizi trova applicazione tanto dal punto di vista procedimentale quanto rispetto alle valutazioni sottese all’incolpazione disciplinare e alle imputazioni oggetto del processo penale (Sez. U, n. 09547/2021, Conti, Rv. 661060-01). Ne consegue che, ai fini della competenza territoriale del procedimento disciplinare, non trovano operatività le disposizioni del codice di procedura penale che fanno riferimento al criterio di collegamento costituito dal reato più grave, dovendosi fare applicazione della specifica regola contenuta nell’art. 51 della citata l. n. 247 del 2012, alla cui stregua è competente il consiglio distrettuale di disciplina del distretto in cui è iscritto l’avvocato o nel cui territorio è stato compiuto il fatto oggetto di indagine o di giudizio disciplinare.

Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso avverso la decisione del CNF che, nel disattendere l’eccezione di incompetenza territoriale dell’incolpato, aveva ritenuto territorialmente competente il consiglio distrettuale di disciplina del luogo in cui si era verificata la “stragrande maggioranza” dei fatti contestati, e non quello del luogo indicato dall’autorità giudiziaria penale ai fini del radicamento della competenza per il procedimento penale, individuato in base al reato più grave.

Richiamando, altresì, il principio di autonomia dei giudizi, Sez. U, n. 07336/2021, Bruschetta, Rv. 660854-01, ha escluso la sospensione necessaria del primo giudizio in attesa della definizione del secondo, pur ammettendo, in via di eccezione, che possa essere disposta una sospensione facoltativa, limitata nel tempo, qualora il giudice disciplinare ritenga indispensabile acquisire elementi di prova apprendibili esclusivamente dal processo penale.

3.4.3. Il giudizio di impugnazione.

Riguardo ai profili dell’impugnazione delle decisioni del Consiglio Nazionale Forense dinanzi alla Corte di cassazione proposto dall’interessato, contraddittore necessario - a parte il consiglio dell’ordine locale che ha deciso in primo grado in sede amministrativa - è il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, giacché l’art. 68 del r.d. n. 37 del 1934 indentifica nel pubblico ministero presso la S.C. il soggetto che ha il potere di ricorrere alle Sezioni Unite della stessa Corte di cassazione avverso dette decisioni (Sez. U, n. 34778/2021, Scoditti, Rv. 663239-01).

In applicazione del suesteso principio, le Sezioni Unite hanno dichiarato l’inammissibilità del ricorso, nella parte in cui era stato proposto anche nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale e della Procura generale presso la Corte d’appello nella cui circoscrizione ricadeva il consiglio dell’ordine competente, in quanto gli artt. 59 e 36 della l. n. 247 del 2012 prescrivono la notificazione nei loro confronti del provvedimento reso all’esito del procedimento disciplinare e della decisione del Consiglio Nazionale Forense, restando comunque parte del procedimento giurisdizionale dinanzi a quest’ultimo il solo magistrato delegato dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione.

Riguardo al termine per proporre ricorso per cassazione - termine di 30 giorni concesso dall’art. 36, commi 4 e 6, della l. n. 247 del 2012, all’avvocato per ricorrere avverso le decisioni del CNF decorre dalla loro notifica all’interessato personalmente e non al suo procuratore - è stato chiarito che tale termine non è interrotto dall’intervenuta sospensione cautelare dell’avvocato dall’esercizio della professione poiché la legge nulla dispone al riguardo e, comunque, siffatta sospensione impedisce al medesimo avvocato di sottoscrivere in proprio il ricorso per cassazione contro la pronuncia del CNF, ma non di impugnarla con il patrocinio di altro difensore (Sez. U, n. 31570/2021, Stalla, Rv. 662925-01).

Sui motivi di impugnazione, è stato confermato che il codice deontologico forense non ha carattere normativo, essendo costituito da un insieme di regole che gli organi di governo degli avvocati si sono date per attuare i valori caratterizzanti la propria professione e garantire la libertà, la sicurezza e la inviolabilità della difesa, con la conseguenza che la violazione del codice rileva in sede giurisdizionale solo quando si colleghi all’incompetenza, all’eccesso di potere o alla violazione di legge, cioè a una delle ragioni per le quali l’art. 36 della l. n. 247 del 2012 consente il ricorso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, per censurare unicamente un uso del potere disciplinare da parte degli ordini professionali per fini diversi da quelli per cui la legge lo riconosce (Sez. U, n. 13168/2021, Mercolino, Rv. 661246-01; conf. Sez. U, n. 15873/2013, Forte, Rv. 626862-01).

La S.C. ha ribadito, altresì, che la necessaria correlazione tra addebito contestato e decisione disciplinare non rileva in termini puramente formali, rispondendo all’esigenza di garantire pienezza ed effettività del contraddittorio sul contenuto dell’accusa e di evitare che l’incolpato sia condannato per un fatto rispetto al quale non abbia potuto esplicare difesa; ne consegue che la modifica, ad opera del giudice, della qualificazione giuridica dell’incolpazione non determina alcuna lesione del diritto di difesa ove siano rimasti immutati gli elementi essenziali della materialità del fatto addebitato (Sez. U, n. 31572/2021, Stalla, Rv. 662879-01; in senso conforme, Sez. U, n. 11024/2014, Cappabianca, Rv. 630846-01).

Nella specie, la S.C. ha escluso che si potesse configurare immutazione del fatto nella decisione del CNF, che - in relazione al contestato operato dell’avvocato, che aveva tra l’altro presentato, per conto di soggetto interdetto, un’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, nonché ulteriore istanza volta alla sostituzione del tutore, autenticandone la firma - aveva individuato le norme di riferimento nell’art. 3, comma 2, della l. n. 247 del 2012, nonché nell’art. 9 del codice deontologico forense, secondo cui la professione forense deve essere esercitata, tra l’altro, con lealtà e probità, anziché nell’art. 23, comma 6, dello stesso codice deontologico, che fa divieto di suggerire atti nulli o illeciti, come invece ritenuto dal Consiglio distrettuale di disciplina.

4. La responsabilità disciplinare dei notai.

In materia di responsabilità disciplinare dei notai si segnalano alcune pronunce rese sulle fattispecie di illecito, in tema di procedimento disciplinare e di giudizio di impugnazione.

4.1. Gli illeciti disciplinari.

Sul piano sostanziale, è stato chiarito che la mancata assistenza del notaio nella sede principale, prevista dall’art. 26 della l. n. 89 del 1913, costituisce una condotta diversa da quella, individuata dall’art. 9 del codice deontologico, della presenza non consentita nella sede secondaria; infatti, la violazione della prima disposizione, volta a punire l’“assenza” del notaio dal suo studio, è sanzionata dall’art. 147, comma 1, lett. b), della l. n. 89 cit., con la censura, la sospensione ovvero anche la destituzione; invece, per la violazione della seconda, finalizzata a sanzionare la “presenza” nella sede secondaria, lesiva del principio di etica professionale, l’art. 137, comma 2, della medesima legge notarile dispone l’applicazione di una pena pecuniaria (Sez. 2, n. 06442/2021, Oricchio, Rv. 660747-01).

Sull’illecita concorrenza mediante riduzione degli onorari, il requisito della non occasionalità, richiesto dall’art. 147, comma 1, lett. b), della l. n. 89 del 1913, è ritenuto compatibile anche con una collocazione temporale degli illeciti confinata entro un periodo inferiore all’anno, non dovendo necessariamente sussistere un rapporto di adeguata proporzione tra il numero delle pratiche illecite e il volume complessivo dell’attività professionale calcolato su base annuale e non essendo richiesto un monitoraggio esteso ad un periodo predefinito a priori, fatta salva la necessità che le violazioni non risultino isolate o del tutto episodiche (Sez. 2, n. 04645/2021, Fortunato, Rv. 660456-01).

L’omesso avvertimento all’acquirente, da parte del notaio, circa i rischi connessi ad una compravendita rispetto alla quale l'alienante dichiari di avere acquistato il bene per usucapione, senza il relativo accertamento giudiziale, ha rilevanza disciplinare con riguardo all’illecito derivante dal combinato disposto di cui agli artt. 147, comma 1, lett. b), della l. n. 89 del 1913, da un lato, e 50, lett. b), nonché 14, lett. b), del codice deontologico, dall’altro, quanto al rispetto degli obblighi di chiarezza e di completezza dell’atto rogato, da cui devono risultare le indicazioni emergenti dalle visure ipotecarie e catastali per un periodo comprensivo del ventennio anteriore alla stipula, per un completo esame delle risultanze degli atti di provenienza, delle formalità pregiudizievoli e, in genere, delle formalità pubblicitarie relative all’immobile (Sez. 2, n. 11186/2021, Tedesco, Rv. 661093-02).

Nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia di merito che - anche con l’ulteriore riferimento alla salvaguardia dell’immagine e del prestigio della classe notarile, ex art. 147, lett. a), della l. n. 89 cit. - ha ritenuto disciplinarmente rilevante la sistematica ricezione, da parte del notaio, di oltre 250 atti sulla base della sola dichiarazione dell’alienante di essere proprietario per usucapione, in assenza delle verifiche ordinarie richieste per la stipula.

In merito all’obbligo di conservazione a raccolta ex art. 72, comma 3, della l. n. 89 del 1913, Sez. 2, n. 04526/2021, Fortunato, Rv. 660453-01, ha chiarito che nelle operazioni di portabilità dei mutui di cui all’art. 120 quater del d.lgs. n. 385 del 1993, trovando applicazione l’art. 1202, comma 2, c.c., la quietanza di pagamento - quale documento essenziale per l’efficacia della surrogazione - deve essere autenticata dal notaio ai sensi dell’art. 2835 c.c. e presentata al conservatore ai fini dell’annotazione nei registri immobiliari ex art. 2843 c.c.

Il notaio che rettifichi unilateralmente un errore incidente sul contenuto sostanziale dell’atto incorre in un illecito disciplinare, atteso che la facoltà di rettifica degli atti notarili riconosciuta dall’art. 59 bis della l. n. 89 del 1913 riguarda esclusivamente i casi di omissioni o errori materiali (Sez. 2, n. 04171/2021, Oricchio, Rv. 660436-01).

4.2. Il procedimento disciplinare.

L’iniziativa del procedimento disciplinare a carico dei notai, regolata dall’art. 153 della l. n. 89 del 1913, è sottoposta a termini che, in mancanza di una espressa qualificazione di perentorietà, sono ordinatori (Sez. 2, n. 07051/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 660788-04; conf. Sez. 2, n. 09041/2016, Scarpa, Rv. 639766-01). Cionondimeno, pur non essendo prevista dall’art. 146 della legge notarile la decadenza o l’estinzione dell’azione intempestiva ed essendo il sistema presidiato dalla prescrizione, l’espressione “senza indugio”, utilizzata dal cit. art. 153, comma 2, ai fini del promovimento del procedimento, impone al giudice l’obbligo di accertare se il tempo impiegato all’uopo possa considerarsi adeguato in relazione all’esigenza di celerità richiesta, giacché la pendenza della fase delle indagini produce un inevitabile pregiudizio indiretto sulla vita e sull’esercizio della vita del notaio assoggettato, oltre a rendere progressivamente più difficile, per quest’ultimo, approntare un’adeguata difesa.

Sul potere di iniziativa disciplinare, Sez. 2, n. 04527/2021, Criscuolo, Rv. 660454-01, ha chiarito che, per le infrazioni di norme non deontologiche emerse a seguito dell’attività ispettiva del Capo del locale archivio notarile, il potere di iniziativa disciplinare spetta non solo a quest’ultimo, ma anche al Procuratore della Repubblica presso il tribunale nel cui circondario ha sede il notaio, ovvero nel cui circondario il fatto per il quale si procede è stato commesso, e al Presidente del Consiglio notarile del distretto nel cui ruolo è iscritto il notaio, ovvero del distretto nel quale il fatto per il quale si procede è stato commesso, atteso che la funzione dell’avverbio “limitatamente” utilizzato dall’art. 153, comma 1, lett. c), della l. n. 89 del 1913 è quella di porre un limite, costituito dalle infrazioni rilevate nel corso dell’attività ispettiva, per il solo Capo dell’archivio notarile.

Sull’applicabilità delle norme a tutela della concorrenza, la S.C. ha ritenuto che l’art. 93 ter, comma 1 bis, della l. n. 89 del 1913, introdotto dalla l. n. 205 del 2017, che richiama l’art. 8, comma 2, della l. n. 287 del 1990, pur disponendo per l’avvenire, sia norma ricognitiva di un principio costituente diritto vivente, secondo cui ai Consigli notarili distrettuali che assumano l’iniziativa del procedimento disciplinare non si applicano le previsioni in tema di tutela della concorrenza e del mercato, atteso che, limitatamente all’esercizio della vigilanza, essi non regolano i servizi offerti dai notai sul mercato, ma adempiono una funzione sociale, affidatagli dalla legge e fondata su un principio di solidarietà, esercitando prerogative tipiche dei pubblici poteri (Sez. 2, n. 07051/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 660788-01). Ne consegue che l’attività - doverosa per legge - di promovimento dell’azione disciplinare e degli atti istruttori ad esso propedeutici non va previamente o successivamente sottoposta al controllo dell’Autorità antitrust che, al contrario, è limitato a verificare se, attraverso screening di massa, il consiglio notarile ponga in essere, per la natura delle informazioni richieste, coinvolgenti dati economici sensibili, una condotta diretta ad incidere sulla libera concorrenza.

Riguardo a possibili rilievi di legittimità costituzionale, la S.C. ha ritenuto manifestamente infondata la questione sollevata in relazione agli artt. 148, 150 bis e 151 della l. n. 89 del 1913, relativamente alla composizione della commissione regionale di disciplina, Co.re.di., per contrasto con l’art. 111, comma 2, e l’art. 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, § 1, della CEDU, considerando, da un lato, che la legge, nel rispetto dell’esigenza ineludibile, connaturata a ogni valutazione giustiziale deontologica, di attingere alla categoria professionale di appartenenza, per comporre il collegio giudicante, assicura adeguate condizioni di indipendenza e imparzialità alla commissione medesima - la quale rappresenta pur sempre un organo amministrativo, cui sono devolute funzioni giustiziali - e, dall’altro, che la garanzia giurisdizionale è assicurata, in primo luogo, dal giudizio successivo che si svolge innanzi alla corte di appello e, quindi, dall’accesso al giudizio di legittimità (Sez. 2, n. 07051/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 660788-03).

4.3. Il giudizio di impugnazione.

In tema di impugnazione dei provvedimenti disciplinari e cautelari a carico dei notai, il reclamo dinanzi alla Corte d’appello avverso la decisione della Commissione amministrativa regionale è soggetto agli artt. 702 bis ss. c.p.c., con espressa esclusione dei commi 2 e 3 dell’art. 702 ter; in assenza di una previsione specifica sulla pubblicità delle udienze opera, dunque, il regime generale della pubblicità della sola udienza di discussione, pienamente compatibile con l’art. 6 CEDU, in virtù del quale non tutta l’attività processuale deve svolgersi pubblicamente, a condizione che sia assicurato un momento di trattazione della causa in un’udienza pubblica (Sez. 2, n. 07051/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 660788-02; in senso conforme, Sez. 2, n. 09041/2016, Scarpa, Rv. 639768-01).

È stato confermato che la dispensa per rinuncia ex art. 31 della l. n. 89 del 1913 del notaio sottoposto a procedimento disciplinare, sopravvenuta in pendenza del giudizio di impugnazione di un provvedimento disciplinare emesso dalla Commissione amministrativa regionale di disciplina e prima del passaggio in giudicato della pronuncia sulla sanzione disciplinare, non comporta la cessazione della materia del contendere e, quindi, l’inammissibilità, per sopravvenuto difetto d’interesse, del ricorso per cassazione proposto contro l’ordinanza emessa in sede di reclamo dalla corte di appello, in quanto idonea a incidere sul concreto esercizio delle funzioni e non sullo “status” del notaio, il quale permane seppure in condizione di quiescenza (Sez. 2, n. 11186/2021, Tedesco, Rv. 661093-01; in senso conforme, Sez. 2, n. 28905/2018, Scarpa, Rv. 651384-01).