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CAPITOLO I

LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI

(di Marina Cirese )

Sommario

1 Premessa. - 2 La protezione internazionale dello straniero extracomunitario. - 3 Il controllo giurisdizionale sui provvedimenti di espulsione e di diniego del permesso di soggiorno. - 4 Il diritto all'unità familiare e la tutela dei minori.

1. Premessa.

Il trattamento giuridico dello straniero extracomunitario nell'attuale assetto normativo è il risultato di una duplice ed opposta tensione, che opera, nel contempo, in direzione del livello sovranazionale e di quello infranazionale.

Lo status dello straniero, invero, non si definisce solo nel binomio Costituzione-legislazione, ma risente dell'interazione con fonti sovranazionali (obblighi di diritto internazionale generale e convenzionale), con la progressiva attenuazione della tradizionale differenza tra diritti riconosciuti a tutti gli uomini e diritti riservati ai soli cittadini Tale indirizzo interpretativo può farsi risalire alla sentenza n 120 del 1967 della Corte costituzionale ove la Corte ebbe a riconoscere l'estensione agli stranieri <<quando trattisi di rispettare quei diritti fondamentali>> del principio di uguaglianza, garantito dall'art 3 Cost, non "isolatamente considerato", ma "letto" in connessione con l'art 2 Cost e appunto con le norme di diritto internazionale, richiamate dall'art 10, comma 2, della Costituzione.

In tempi più recenti, attraverso la chiave offerta dal principio di non discriminazione, viene esteso agli stranieri il godimento di diritti ritenuti fondamentali, quale il diritto alla salute e ad un alloggio, mentre il riconoscimento della titolarità delle diverse posizioni soggettive è il risultato di un'operazione di bilanciamento effettuata caso per caso, in relazione agli interessi in gioco.

Oggetto di specifica tutela è il trattamento giuridico dello straniero minore, tanto che lo stesso diritto all'unità familiare rileva in quanto funzionale alla garanzia del preminente interesse dello stesso a ricevere la massima espressione della funzione genitoriale.

Deve, quindi, rilevarsi che lo "straniero migrante" non costituisce una categoria omogenea, potendosi in essa riscontrare diversità significative di status, sia in ragione del titolo in base al quale lo stesso si muove dal proprio paese, sia in relazione all'area geografica interessata dalla migrazione, partecipando altresì detta condizione del processo di progressiva disarticolazione della contrapposizione tra cittadino e straniero.

Di seguito si affronteranno alcuni dei temi maggiormente toccati dalle pronunce della Suprema Corte nel corso del 2015.

2. La protezione internazionale dello straniero extracomunitario.

La Convenzione di Ginevra del 1951 predispone la tutela del "rifugiato", ovvero di colui che, avendo il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche, si trovi fuori dal paese di cui è cittadino o nel quale abbia la propria residenza abituale e non possa o non voglia a causa di questo timore, avvalersi della protezione di quel paese La disciplina stabilita da tale convenzione, nonché dal Protocollo di New York del 1987, che hanno impresso al rifugio ed all'asilo un'evoluzione significativa, si è poi rivelata inadeguata a fronte del mutamento intervenuto nella realtà internazionale che presenta oggi più che situazioni di persecuzione individuale, situazioni di diffusa violenza e sistematica violazione dei diritti di interi gruppi di persone.

Di qui l'adozione con il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 di un "pacchetto" di direttive in materia di protezione del richiedente asilo o di persona altrimenti bisognosa di protezione, assimilandosi in un unico status giuridico persone bisognose di protezione internazionale tecnicamente qualificati come rifugiati e coloro che invece necessitano di una tutela temporanea o sussidiaria.

A livello europeo la Direttiva 2004/83 introduce la "protezione sussidiaria" quale nuova forma complementare a quella riconosciuta dalla Convenzione di Ginevra Ulteriore risposta alle esigenze di tutela è la Direttiva 2011/95/UE, nota come direttiva qualifiche, che si indirizza verso il riconoscimento di uno status "unico" in grado di garantire gli stessi diritti ai rifugiati ed a coloro che beneficiano di protezione sussidiaria (attuata in Italia con il d.lg 21 febbraio 2014 n 18).

In Italia il diritto di asilo è garantito dall'art 10 comma 3 della Costituzione secondo cui <<Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge>>.

In assenza di una legge organica sull'asilo politico che, in attuazione del dettato costituzionale, ne fissi le condizioni, i termini, i modi e gli organi competenti in materia di richiesta e di concessione, il diritto di asilo deve intendersi come diritto di accedere nel territorio dello Stato al fine di esperire la procedura per ottenere lo status di rifugiato politico, e non ha un contenuto più ampio del diritto di ottenere il permesso di soggiorno temporaneo di cui all'art 1, comma 5, del dl 30 dicembre 1989, n 416, conv con modif nella legge 28 febbraio 1990, n 39 (in tal senso tra le altre Sez 1, n 18940/2006, Cultrera, Rv 591592)..

In relazione poi alla particolare condizione, può essere riconosciuto al cittadino straniero che ne faccia richiesta lo status di rifugiato o può essere accordata la misura di tutela di protezione sussidiaria.

Segnatamente, il rifugiato è colui che abbia un timore fondato di essere perseguitato, nel proprio Paese di origine, per motivi costituzionalmente rilevanti A riguardo va detto che per "persecuzione" si intendono le minacce alla vita, la tortura, le ingiuste privazioni della libertà personale, le violazioni gravi dei diritti umani Per essere riconosciuto rifugiato, non è indispensabile essere già stato effettivamente vittima di persecuzione, bensì è sufficiente il fondato motivo di temere l'esposizione, in caso di rimpatrio, ad un serio rischio di persecuzione.

Tra gli effetti del riconoscimento dello status di rifugiato vi è il diritto al ricongiungimento familiare, il permesso di soggiorno o titolo di viaggio, la parificazione sanitaria e scolastica con il cittadino italiano Viceversa non può essere concesso lo status di rifugiato allo straniero che: a) abbia commesso un crimine contro la pace, di guerra o contro l'umanità; b) abbia commesso, al di fuori del territorio italiano, prima del rilascio del permesso di soggiorno in qualità di rifugiato, un reato grave ovvero atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con un dichiarato obiettivo politico, che possano essere classificati quali reati gravi; c) si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi ONU.

La protezione sussidiaria è, invece, la protezione che viene accordata allo straniero privo dei requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistano fondati motivi di ritenere che possa essere esposto, in caso di rientro nel Paese di origine o nel Paese in cui aveva la propria dimora abituale, ad un rischio effettivo di subire un grave danno, ed il quale non possa o non voglia, a causa di tale rischio, avvalersi della protezione di detto Stato Tale protezione sussidiaria viene, generalmente, riconosciuta in caso di pericolo oggettivo derivante da violenza indiscriminata e non necessariamente individuale.

Infine, la protezione umanitaria può essere concessa mediante il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi ad hoc, ovvero, quando, pur non essendo ravvisabili gli estremi per la protezione internazionale, sussistano gravi motivi di carattere umanitario per il richiedente asilo.

Lo status di rifugiato e le forme di protezione sussidiaria sono riconosciute all'esito dell'istruttoria effettuata dalle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale.

Premesse le linee generali degli istituti previsti a tutela dello straniero extracomunitario, le pronunce della Suprema Corte appaiono ispirate dall'esigenza di garantirne l'effettività.

Con riferimento al riconoscimento del diritto alla protezione internazionale, Sez 6-1, n 05926/2015, De Chiara, Rv 634730, ha stabilito che, qualora vi siano indicazioni che cittadini stranieri o apolidi, presenti ai valichi di frontiera in ingresso nel territorio nazionale, desiderino presentare una domanda di protezione internazionale, le autorità competenti hanno il dovere di fornire informazioni sulla possibilità di farlo, garantendo altresì i servizi di interpretariato necessari per agevolare l'accesso alla procedura di asilo, a pena di nullità dei conseguenti decreti di respingimento e trattenimento, dovendo, il giudice statuire, altresì, sulla dedotta illegittimità del primo, a causa della omessa informazione.

Si precisa, inoltre, che tale dovere di informazione è fondato su di una interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto delle norme interposte della CEDU, come a loro volta interpretate dalla Corte sovranazionale La domanda di protezione internazionale, di cui all'art 3, comma 5, del d.lg 19 novembre 2007, n 251, deve essere adeguatamente circostanziata.

Il procedimento, secondo Sez 6-1, n 19197/2015, De Chiara, Rv 637125, non si sottrae al principio dispositivo, sicché il richiedente ha l'onere di indicare i fatti costituitivi del diritto azionato, pena l'impossibilità per il giudice di introdurli d'ufficio nel giudizio.

La Corte in Sez 6-1, n 16201/2015, De Chiara, Rv 636625, ha altresì chiarito che, se viene presentata una domanda di protezione internazionale, il giudice non deve prendere in considerazione puramente e semplicemente la maggiore o minore specificità del racconto del richiedente asilo, ma è tenuto a valutare se questi abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, se tutti gli elementi in suo possesso siano stati prodotti e se sia stata fornita una idonea motivazione dell'eventuale mancanza di altri elementi significativi.

Il fatto da dimostrare va identificato nella grave violazione dei diritti umani alla quale il richiedente asilo sarebbe esposto rientrando in patria, di cui costituisce indizio, secondo Sez 6-1, n 16201/2015, De Chiara, Rv 636626, anche la minaccia ricevuta in passato, che fa presumere la violazione futura in caso di rientro.

Con riguardo all'onere della prova, la Suprema Corte ha puntualizzato che, in un procedimento finalizzato al conseguimento della protezione internazionale sussidiaria, il richiedente ha obblighi specifici.

Per Sez 6-1, n 07333/2015, Acierno, Rv 634949, lo straniero ha un dovere di cooperazione consistente nell'allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, mentre l'autorità decidente ha l'obbligo di informarsi in modo adeguato e pertinente con riferimento alle condizioni generali del Paese di origine, allorquando le informazioni fornite dal richiedente siano deficitarie o mancanti In particolare, è necessario l'approfondimento istruttorio officioso, allorquando il richiedente descriva una situazione di rischio per la vita o l'incolumità fisica che derivi da sistemi di regole non scritte sub-statuali, imposte con violenza e sopraffazione verso un genere, un gruppo sociale o religioso o semplicemente verso un soggetto o un gruppo familiare nemico, in presenza di tolleranza, tacita approvazione o incapacità a contenere o fronteggiare il fenomeno da parte delle autorità statuali E ciò proprio al fine di verificare il grado di diffusione ed impunità dei comportamenti violenti descritti e la risposta delle autorità statali.

In linea con tale orientamento, Sez 6-1, n 14998/2015, Acierno, Rv 636559, ha osservato che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, ai sensi dell'art 14, lett b) e c), del d.lg n 251 del 2007, non è onere del richiedente fornire una precisa qualificazione giuridica della tipologia di misura di protezione invocata, ma è onere del giudice, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione, di cui all'art 8, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n 25, verificare se la situazione di esposizione a pericolo per l'incolumità fisica indicata dal ricorrente è astrattamente sussumibile in entrambe le tipologie tipizzate di rischio e sia effettivamente sussistente nel paese nel quale dovrebbe essere disposto il rientro al momento della decisione.

È stato, altresì, puntualizzato, con Sez 6-1, n 16202/2015, De Chiara, Rv 636614, che il requisito della individualità della minaccia grave alla vita o alla persona di cui all'art 14, lett c), del d.lgs n 251 del 2007 non è subordinato alla condizione che il richiedente fornisca la prova che egli è interessato in modo specifico con riferimento alla sua situazione personale, in quanto la sua esistenza può desumersi anche dal grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, da cui dedurre che il rientro nel Paese d'origine determinerebbe un rischio concreto per la vita del richiedente.

Molto significativa è la pronuncia, Sez 6-1, n 02830/2015, Ragonesi, Rv 634163, secondo cui il cittadino straniero che è imputato di un delitto comune (nella specie omicidio durante una rissa), punito nel paese di origine con la pena di morte, non ha diritto al riconoscimento dello status di rifugiato politico, poiché gli atti previsti dall'art 7 del d.lgs n 251 del 2007, non sono collegati a motivi di persecuzione inerenti alla razza, alla religione, alla nazionalità, al particolare gruppo sociale o all'opinione politica, ma unicamente alla protezione sussidiaria riconosciuta dall'art 2, lett g), dello stesso decreto, qualora il giudice di merito abbia fondati motivi di ritenere che, se tornasse nel Paese d'origine, correrebbe un effettivo rischio di subire un grave danno.

Con riferimento all'impugnazione dei provvedimenti in materia di protezione internazionale, Sez 6-1, n 18704/2015, Bisogni, Rv 636868, ha puntualizzato che, a seguito dell'abrogazione dell'art 35, comma 14, del d.lgs n 25 del 2008, in materia di ricorso per cassazione, deve applicarsi il termine ordinario di cui all'art 327 cpc e non già il termine di trenta giorni di cui all'art 702-quater cpc, relativo al rito sommario di cognizione, applicabile ai giudizi di merito in virtù dell'art 19 del d.lgs 1 settembre 2011, n 150.

Secondo la Corte, tale interpretazione scaturisce dalla necessità di attribuire priorità nella trattazione delle controversie in materia di protezione internazionale, non anche nel senso di rendere applicabili al giudizio di legittimità disposizioni abrogate o riguardanti i giudizi di merito, posto che ciò sarebbe in contrasto con il diritto delle parti al giusto processo e con la necessità di assicurare l'effettività del diritto di difesa.

Ed inoltre, in linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, Sez 1, n 24415/2015, De Chiara, in corso di massimazione, ha chiarito che la semplice proposizione del ricorso del richiedente asilo avverso il provvedimento negativo della commissione per la protezione internazionale sospende l'efficacia esecutiva di tale provvedimento (tranne in alcune ipotesi, peraltro non dichiarate sussistenti dal giudice del provvedimento impugnato) di talché non scatta l'obbligo per il richiedente di lasciare il territorio nazionale, previsto dall'art 32, comma 4, del d.lg n 25 del 2008, permanendo per converso la situazione di inespellibilità prevista dall'art 7, comma 1, fino alla decisione della commissione territoriale.

Inoltre, come si evince da Sez 6-1, n 17668/2015, Acierno, Rv 636699, l'insorgenza di cause appartenenti all'ambito della protezione internazionale, integranti il divieto di espulsione di cui all'art 19, comma 2, lett b), del d.lg 25 luglio 1998, n 286, non possono essere valutate ove si siano verificate dopo il rimpatrio coattivo, ma solo quando siano coeve all'applicazione della misura espulsiva

3. Il controllo giurisdizionale sui provvedimenti di espulsione e di diniego del permesso di soggiorno.

Le condizioni dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri extracomunitari in Italia sono delineate dagli articoli da 4 a 9 bis del d.lg n 286 del 1998.

Il quadro normativo emergente dagli articoli appena menzionati delinea un complesso di titoli abilitativi all'ingresso e al soggiorno nel territorio italiano che si pongono tra loro in un rapporto di progressiva <<gradualità>> Dai cd visti per l'ingresso, disciplinati dall'art 4, alle ipotesi di permanenza prolungata, al permesso di soggiorno di cui all'art 5, che può essere rilasciato per diversi motivi (di lavoro, studio, formazione ecc) fino ad una situazione di permanenza più consolidata e cristallizzata con il permesso di soggiorno.

Non è invece consentito l'ingresso allo straniero che rappresenti una minaccia per l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato e per le relazioni internazionali, così come non è ammesso in caso di commissione di reati che destano particolare allarme sociale.

I decreti di espulsione (artt 13 e 14) emessi dalle autorità amministrative rappresentano invece, il principale strumento di contrasto al fenomeno dell'immigrazione clandestina L'espulsione amministrativa ha il preciso scopo di assicurare <<una razionale gestione dei flussi di immigrazione nel nostro Paese>>.

In via generale, il sistema normativo nazionale che regola l'accesso e l'immigrazione dei soggetti non appartenenti all'Unione Europea si incentra sulla previsione di obblighi di richiesta del permesso di soggiorno secondo precise modalità e sotto comminatoria di espulsione per colui che a tali obblighi ed oneri si sottragga.

L'art 13 del d.lg n 286 del 1998 distingue tra l'espulsione disposta dal Ministro dell'interno <<per motivi di ordine pubblico e sicurezza>>, cui si aggiunge una seconda ipotesi di espulsione disposta dalla medesima autorità amministrativa <<per motivi di prevenzione del terrorismo>>, e l' espulsione disposta dal Prefetto (art 13, comma 2).

Essa può avvenire quando lo straniero è entrato nel territorio dello stato sottraendosi ai controlli alla frontiera e non è stato respinto, quando si è trattenuto nel territorio dello Stato senza permesso di soggiorno, quando debba essere considerato persona socialmente pericolosa o indiziata di far parte di associazioni di tipo mafioso In ambedue i casi, l'espulsione è eseguita dal Questore (art 13, comma 4).

Con riguardo al riparto di giurisdizione, il legislatore ha demandato al giudice amministrativo la giurisdizione in materia di rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno e degli altri titoli equipollenti (art 6, comma 10) mentre il sindacato sui decreti prefettizi di espulsione (con le eccezioni di cui all'art 13, comma 11) è devoluto alla giurisdizione ordinaria (art 13, comma 8).

Con riguardo alle ipotesi di giurisdizione del giudice ordinario, la Suprema Corte è intervenuta su specifiche questioni relative al diritto di soggiorno dello straniero.

Tra le decisioni più significative, si segnala Sez 6-1, n 18254/2015, Acierno, Rv 636509, secondo cui il divieto di reingresso in Italia dello straniero, destinatario di un provvedimento di espulsione, non può superare il termine di cinque anni previsto dall'art 13, comma 14, del d.lg n 286 del 1998, come novellato dal dl 23 giugno 2011, n 89, conv con modif nella legge 2 agosto 2011, n 189, di recepimento della direttiva n 115/2008/CE.

Si é precisato, inoltre, che non è necessaria la speciale autorizzazione del Ministero dell'interno, prevista dal medesimo art 13, comma 13, nelle ipotesi in cui lo straniero, per particolari ragioni, intenda fare rientro nel territorio dello Stato prima della scadenza del divieto.

Con specifico riferimento al sindacato del giudice ordinario sulla legittimità dell'atto amministrativo emesso dal Questore, quale presupposto del decreto di espulsione, la Suprema Corte, con Sez 6-1, n 14610/2015, De Chiara, Rv 635964, ha affermato che al giudice non è consentita alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del questore che abbia rifiutato, revocato o annullato il permesso di soggiorno, ovvero abbia negato il rinnovo, poiché tale sindacato spetta unicamente al giudice amministrativo, la cui decisione non costituisce in alcun modo un antecedente logico della decisione sul decreto di espulsione Ne consegue che la pendenza di tale ultimo giudizio non giustifica la sospensione del processo instaurato dinanzi al giudice ordinario con l'impugnazione del decreto di espulsione del prefetto, attesa la carenza di pregiudizialità giuridica necessaria tra i due procedimenti.

Nello stesso ambito, merita menzione la pronuncia, Sez 6-1, n 17408/2015, Ragonesi, Rv 636696, secondo cui il giudice di pace, investito dell'impugnazione del decreto di espulsione emesso dal prefetto, può sindacare solo la legittimità del provvedimento e, se non conforme a legge, disporne l'annullamento, ma non anche sostituire od integrare la motivazione dell'atto, trattandosi di una attività preclusa alla giurisdizione ordinaria.

Il controllo giurisdizionale sul ricorso avverso il provvedimento di espulsione disposto ai sensi dell'art 13, comma 2, lett c) del d.lg n 286 del 1998 deve tuttavia avere ad oggetto, secondo Sez 6-1, n 24084/2015, De Chiara, Rv 637703, il riscontro dell'esistenza dei presupposti di appartenenza ad una delle categorie di persone pericolose indicate nell'art 1 della legge 27 dicembre 1956 n 1423, così come sostituito dall'art 2 della legge 3 agosto 1988 n 327, ovvero nell'art 1 della legge del 31 maggio 1965 n 575, come sostituito dall'art 13 della legge 13 settembre 1982 n 646 (riferimenti oggi da intendersi alle corrispondenti disposizioni del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione approvato con d.lg 6 settembre 2011 n 159).

Il giudice di pace, quindi, ha poteri di accertamento pieni e non limitati da una insussistente discrezionalità della PA, ritenendosi che non si attenga a tali principi il giudice che, al fine di verificare l'appartenenza dello straniero ad una delle categorie prima indicate, si limiti a prendere atto di una condanna penale omettendo ogni verifica in ordine alla valutazione di pericolosità sociale formulata dal Prefetto

4. Il diritto all'unità familiare e la tutela dei minori.

La giurisprudenza costituzionale asserisce che l'esigenza della convivenza del nucleo familiare si radica negli artt 29, 30, 31 Cost che assicurano protezione alla famiglia ed in particolare, nell'ambito di questa, ai figli minori e che il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli (art 30 Cost) e perciò di tenerli con sé, ed il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno dell'unità della famiglia sono valori fondamentali della persona, che perciò spettano in via di principio anche agli stranieri.

Detti principi, peraltro, sono affermati anche da alcune disposizioni di trattati internazionali ratificati dall'Italia, in particolare gli artt 8-12 della CEDU, l'art 10 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966, e infine gli artt 9 e 10 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo.

Oggi la protezione dell'unità familiare è prevista anche dalle norme delle direttive comunitarie sul soggiorno dei comunitari e dei loro familiari (anche extracomunitari) e sul diritto al ricongiungimento familiare degli extracomunitari In particolare il d.lg 8 gennaio 2007 n 5, in attuazione della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al ricongiungimento familiare, ha introdotto nel d.lg n 286 del 1998 disposizioni di favore In particolare nell'art 5 comma 5, si prevede che, per il rifiuto del rilascio, ovvero per la revoca o il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, nel caso di straniero che abbia esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o di familiare ricongiunto, <<si tiene conto anche della natura e dell'effettività dei vincoli familiari dell'interessato, dell'esistenza di legami familiari e sociali con il Paese di origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del soggiorno nel medesimo territorio nazionale>> (e analoga modifica è stata apportata, per quel che riguarda il provvedimento amministrativo di espulsione, all'art 13, con l'inserimento del comma 2-bis).

Particolare tutela ricevono i diritti fondamentali del minore straniero Infatti sulla base della Convenzione sui diritti del fanciullo, siglata a New York dall'Assemblea generale dell'ONU il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la legge del 27 maggio 1991, n 176, lo Stato è impegnato a garantire una sempre più completa ed effettiva protezione del minore, prevedendo, tra l'altro, particolari forme di assistenza del bambino privo di una famiglia ed adottabile o del bambino rifugiato e riconoscendo che il bambino non può essere separato dai genitori contro la sua volontà salvo che lo dispongano le autorità competenti nel suo interesse La convenzione impegna ogni Stato a favorire il ricongiungimento familiare quando un membro della famiglia viva in uno Stato diverso da quello in cui vivono altri membri del nucleo familiare.

Una interpretazione delle norme sugli stranieri favorevole al minore e alla famiglia si impone ed è espressamente prevista dallo stesso testo unico delle norme in materia di immigrazione Ed invero l'art 28, comma 3 del d.lg n 286 del 1998 prevede che in tutti i procedimenti giurisdizionali e in tutti i procedimenti amministrativi finalizzati ad attuare il diritto all'unità familiare e riguardanti i minori deve essere preso in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del fanciullo, conformemente a quanto previsto dall'art 3, comma 1, della citata Convenzione sui diritti del fanciullo.

Il vincolo familiare giustifica la sottrazione del trattamento del migrante al regime generale sugli stranieri, emergendo l'intenzione del legislatore di conservare i legami affettivi, nel rispetto delle indicazioni imposte dal bilanciamento con le esigenze di tutela dello Stato.

Secondo la Suprema Corte, Sez 6-1, n 17942/2015, Bernabai, Rv 637103, il "diritto all'unità familiare", infatti, non ha carattere assoluto, atteso che il legislatore, nel contemperamento dell'interesse dello straniero al mantenimento del nucleo familiare con gli altri valori costituzionali sottesi alle norme in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri, può prevedere delle limitazioni bilanciando l'interesse dello straniero al mantenimento del nucleo familiare con gli altri valori costituzionali sottesi alle norme in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri.

Con detta pronuncia la Corte interviene fornendo un importante chiarimento attorno ai presupposti richiesti dall'art 31, comma 3, del d.lg n 286 del 1998 per la concessione di un provvedimento che autorizzi il familiare del minore all'ingresso o alla permanenza nel territorio nazionale.

In particolare la Corte ha ritenuto che le situazioni a tal fine rilevanti devono essere di non lunga o indeterminata durata e non caratterizzate dalla tendenziale stabilità e che, pur non prestandosi ad essere preventivamente catalogate e standardizzate, si devono comunque concretare in eventi traumatici e non prevedibili che trascendono il normale disagio dovuto al proprio rimpatrio o a quello di un familiare.

Alla stregua di detta interpretazione, la Corte rigettava il ricorso, atteso che nel caso di specie la situazione dedotta dalla ricorrente non era destinata a durare per un tempo determinato e temporaneo, con ciò risultando incompatibile con la natura dell'autorizzazione richiesta, dovendosi peraltro considerare che il danno che sarebbe derivato al minore non sembrava caratterizzato dai requisiti di effettività, concretezza e gravità.

La tematica affrontata nella pronuncia in esame risulta caratterizzata da una particolare problematicità, atteso che a fronte dell'interesse del minore si rileva un contrastante interesse dello Stato alla regolamentazione e limitazione del soggiorno da parte degli stranieri ove la soluzione si incentra sull'interpretazione dei "gravi motivi" che legittimano il familiare all'ingresso o alla permanenza in Italia.

Attorno al concetto di gravi motivi di cui all'art 31, comma 3, d.lg n 286 del 1998 si sono tradizionalmente registrate contrastanti interpretazioni nell'ambito della stessa giurisprudenza di legittimità L'orientamento risalente, nella prospettiva di salvaguardare il territorio nazionale da una immigrazione non regolamentata a sostanziale svantaggio del "superiore interesse del fanciullo", ha interpretato restrittivamente il concetto di gravi motivi, ritenendo che questo richiedesse l'accertamento di situazioni di emergenza di natura eccezionale e contingente, di situazioni, cioè, che non siano normali e stabilmente ricorrenti nella crescita del minore.

In seguito alla pronuncia Sez U, n 22216/2006, Vitrone, Rv 592144 ha tuttavia cominciato a farsi strada una interpretazione estensiva dei gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, non limitati dai requisiti dell'eccezionalità e contingenza, ma strettamente connessi allo sviluppo del fanciullo in modo da prendere in considerazione il preminente interesse del minore stesso in relazione alle varie circostanze del caso concreto, quali l'età, le condizioni di salute (anche psichiche) nonché il pregiudizio che potrebbe a questi derivare dall'allontanamento dei familiari.

Nel solco di una interpretazione estensiva dell'art 31, comma 3, del d.lg n 286 del 1998 si pone, invece, Sez 1, n 24476/2015, Acierno, Rv 638154, ove si afferma che la ratio dell'istituto è la tutela del minore globalmente considerato, comprensiva tanto della salute fisica quanto di quella psichica e che sussistono i "gravi motivi" legittimanti la temporanea autorizzazione della madre al soggiorno allorché l'allontanamento del minore dalla madre o lo sradicamento della situazione attuale di vita determinino un pregiudizio ed un grave rischio per l'equilibrio psico-fisico del minore.

Nella fattispecie la Corte ha fondato l'accoglimento del ricorso sulla prognosi del grave pregiudizio che sarebbe derivato alla minore di anni due, che peraltro aveva già subito l'abbandono del padre, dall'allontanamento dalla figura materna e dallo sradicamento dalla situazione di vita attuale.

In linea con la tutela specifica assicurata ai minori e nell'ottica del loro "superiore interesse" si esprime anche Sez 6-1, n 17819/2015, Ragonesi, Rv 637099, che ha statuito che il padre straniero di un minore di sei mesi, che abbia provveduto al riconoscimento del figlio, ha diritto ad ottenere il permesso di soggiorno temporaneo, ai sensi dell'art 19, comma 2, lett d), del d.lg n 286 del 1998, trattandosi di una disposizione finalizzata alla tutela del rapporto genitoriale nell'ottica di una crescita armoniosa del bambino nei mesi immediatamente successivi alla sua nascita.

Sui beneficiari di questo diritto di mobilità "derivato", si è pronunciata Sez 1, n 15362/2015, Acierno, Rv 637091, secondo cui, in tema di espulsione del cittadino straniero, l'art 13, comma 2 bis, del d.lg n 286 del 1998, impone di tenere conto, nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, della durata del soggiorno, nonché dell'esistenza di legami con il Paese di origine, dovendo il giudice effettuare una valutazione caso per caso, senza distinguere tra vita privata e vita familiare, trattandosi di estrinsecazioni del medesimo diritto fondamentale tutelato dall'art 8 CEDU, che non prevede gradazioni o gerarchie.

Il principio della tutela privilegiata garantita alla famiglia ed in particolare al minore si desume a contrario da Sez 6-1, n 14610/2015, De Chiara, Rv 635963, ove si afferma che l'espulsione dello straniero che convive in Italia con un parente, non implica la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, la cui tutela, sancita anche dall'art 8 della CEDU, non è incondizionata, essendo consentita quale misura necessaria ai fini della sicurezza nazionale, del benessere economico del Paese, della difesa dell'ordine e della prevenzione dei reati, della protezione della salute e della morale e della protezione dei diritti e delle libertà altrui

  • libertà sessuale
  • discriminazione sessuale
  • discriminazione basata sulle tendenze sessuali

CAPITOLO II

DIRITTI DELLE PERSONE TRANSESSUALI: LA RETTIFICAZIONE DI SESSO NON NECESSITA LA MODIFICAZIONE CHIRURGICA DEI CARATTERI SESSUALI PRIMARI E NON COMPORTA LO SCIOGLIMENTO AUTOMATICO DEL MATRIMONIO DELLA COPPIA DIVENUTA OMOSESSUALE

(di Giuseppe Nicastro )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il principio affermato dalla sentenza n. 8097 del 2015. - 2.1 La vicenda, le norme applicabili e le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte. - 2.2 La sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 2014 e la problematicità del suo seguito. - 2.3 L'originale seguito della Cassazione: il matrimonio risolutivamente condizionato della coppia divenuta del medesimo sesso. - 3 Il principio affermato dalla sentenza n. 15138 del 2015. - 3.1 La vicenda, le norme applicabili e le trasformazioni del transessualismo. - 3.2 La soluzione della Cassazione: la modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari non costituisce un presupposto necessario della rettificazione di attribuzione di sesso. - BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.

Con due importanti sentenze, la prima sezione civile della Corte ha affrontato il tema, divenuto, negli anni più recenti, di costante attualità, dei diritti delle persone transessuali, sotto gli aspetti - in precedenza mai sottoposti alla sua attenzione - della necessità, ai fini della rettificazione di attribuzione di sesso, della previa modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari (Sez. 1, n. 15138/2015, Acierno, Rv. 635040) e delle conseguenze di tale rettificazione sul matrimonio della persona coniugata (Sez. 1, n. 08097/2015, Acierno, Rv. 636001).

Le due pronunce segnano un indubbio e significativo innalzamento del livello di tutela dei diritti delle persone transessuali e offrono lo spunto per una più generale riflessione sui problemi giuridici del transessualismo.

2. Il principio affermato dalla sentenza n. 8097 del 2015.

Con la sentenza n. 08097/2015, prima in ordine cronologico, la Corte ha affermato il principio secondo cui, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164, operata dalla Corte costituzionale con la sentenza, additiva di principio, n. 170 del 2014, la rettificazione di attribuzione di sesso della persona coniugata non può comportare l'automatico venir meno dello <<statuto dei diritti e dei doveri propri del modello matrimoniale>>, che deve, invece, essere conservato fino a quando il legislatore non detti una disciplina che consenta alla coppia di mantenere in vita il proprio rapporto con un'altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti e obblighi.

2.1. La vicenda, le norme applicabili e le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte.

La sentenza segna la conclusione del lungo iter processuale relativo alla non comune vicenda di una coppia sposata che, ancorché fosse intervenuta la rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei coniugi (nella specie, del marito, da maschile a femminile), intendeva, di comune accordo, proseguire il rapporto matrimoniale.

Ai sensi degli artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982, applicabili ratione temporis alla controversia - e, successivamente, dell'art. 31, comma 6, del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, che ha ripetuto, con un'ininfluente variante lessicale (la sostituzione del verbo <<provoca>> con il verbo <<determina>>), il contenuto del secondo periodo dell'unico comma dell'art. 4 della legge n. 164 del 1982 - la sentenza con la quale è disposta la rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei coniugi <<provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con il rito religioso>>.

La Corte, investita del ricorso avverso il decreto della Corte d'appello di Bologna che, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva rigettato la domanda dei due coniugi di cancellazione dell'annotazione di intervenuta cessazione degli effetti civili del matrimonio, apposta dall'ufficiale di stato civile a margine dell'atto di matrimonio a seguito della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso del marito, aveva ritenuto - in sintonia con la prevalente dottrina - che i citati artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982 prevedessero un'ipotesi di divorzio "automatico" o "imposto" ex lege (la sola contemplata dal nostro ordinamento). La stessa Corte aveva tuttavia dubitato della legittimità costituzionale di tale disciplina in quanto essa, facendo conseguire alla sentenza di rettificazione di sesso di uno dei coniugi l'automatica caducazione del vincolo matrimoniale, avrebbe comportato il sacrificio <<del diritto ad autodeterminarsi nelle scelte relative all'identità personale, di cui la sfera sessuale esprime un carattere costitutivo; del diritto alla conservazione della preesistente dimensione relazionale, quando essa assuma i caratteri della stabilità e continuità propri del vincolo coniugale; del diritto a non essere ingiustificatamente discriminati rispetto a tutte le altre coppie coniugate, alle quali è riconosciuta la possibilità di scelta in ordine al divorzio; del diritto dell'altro coniuge di scegliere se continuare la relazione coniugale>>. La Corte aveva quindi sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge n. 164 del 1982, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione e con gli artt. 8 e 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848 - questi ultimi quali norme interposte agli effetti dell'ulteriore denunciata violazione degli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost. - nonché degli artt. 2 e 4 della stessa legge n. 164 del 1982, per lesione dell'art. 24 Cost. (ordinanza interlocutoria, Sez. 1, n. 14439/2013, Acierno).

Le questioni sono state decise dalla Corte costituzionale con la sentenza, additiva di principio, n. 170 del 2014. La sentenza n. 8097 del 2015 che qui si commenta costituisce il seguito di tale pronuncia del Giudice delle leggi, che è quindi necessario, preliminarmente, esaminare.

2.2. La sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 2014 e la problematicità del suo seguito.

La Corte costituzionale ha anzitutto escluso il contrasto della disciplina censurata con alcuni dei parametri invocati dalla Cassazione, in particolare: con l'art. 29 Cost., perché <<la nozione di matrimonio presupposta dal Costituente (cui conferisce tutela il citato art. 29 Cost.) è quella stessa definita dal codice civile del 1942, che "stabiliva e tuttora stabilisce che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso" (sentenza n. 138 del 2010)>>, affermazione che conferma l'indefettibilità del requisito dell'eterosessualità del matrimonio secondo l'art. 29 Cost., letto, dalla Consulta, in chiave originalista; con gli artt. 8 e 12 della CEDU, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte EDU), in quanto <<in assenza di un consenso tra i vari Stati nazionali sul tema delle unioni omosessuali, la Corte EDU, sul presupposto del margine di apprezzamento conseguentemente loro riconosciuto, afferma essere riservate alla discrezionalità del legislatore nazionale le eventuali forme di tutela per le coppie di soggetti appartenenti al medesimo sesso>>; con l'art. 24 Cost., perché, <<non essendo [...] configurabile un diritto della coppia non più eterosessuale a rimanere unita nel vincolo del matrimonio, non ne è, di conseguenza, ipotizzabile alcun vulnus sul piano della difesa>>; con l'art. 3 Cost., in quanto <<la diversità della peculiare fattispecie di scioglimento a causa di mutamento del sesso di uno dei coniugi rispetto alle altre cause di scioglimento del matrimonio ne giustifica la differente disciplina>>.

Secondo il Giudice delle leggi, il parametro <<pertinente>> è, invece, l'art. 2 Cost. Al riguardo, la Corte costituzionale ha preso le mosse da quanto da essa già affermato con la sentenza n. 138 del 2010 - relativa alla questione di legittimità costituzionale delle disposizioni del codice civile in materia di matrimonio (artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis), nella parte in cui non consentono il matrimonio tra persone dello stesso sesso - ribadendo la necessità di un <<riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri>> dell'unione omosessuale, nonché l'esclusione, tuttavia, che <<l'aspirazione a tale riconoscimento [...] possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio>>. Sempre in continuità con il citato precedente, la sentenza n. 170 del 2014 ha riaffermato la spettanza al Parlamento dell'individuazione delle <<forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette>>, confermando altresì che resta comunque <<riservata alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni>>.

Tale deve ritenersi, sempre secondo la sentenza n. 170 del 2014, quella dei coniugi che intendano proseguire la vita di coppia anche dopo la rettificazione dell'attribuzione di sesso ottenuta da uno di essi. In tale specifica situazione, la Corte costituzionale ha ritenuto che il contrasto, in essa sussistente, tra <<l'interesse dello Stato a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio>> e <<l'interesse della coppia [...] a che l'esercizio della libertà di scelta compiuta dall'un coniuge con il consenso dell'altro, relativamente [alla] identità [di genere], non sia eccessivamente penalizzato con il sacrificio integrale della dimensione giuridica del preesistente rapporto>> sia stato risolto dai censurati artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982 <<in termini di tutela esclusiva di quello statale>>, restando tale normativa <<chiusa ad ogni qualsiasi, pur possibile, forma di suo bilanciamento con gli interessi della coppia, non più eterosessuale, ma che, in ragione del pregresso vissuto nel contesto di un regolare matrimonio, reclama di essere, comunque, tutelata>>. Da ciò la lesione dell'art. 2 Cost.

Quanto alla decisione da prendere al fine della reductio ad legitimitatem della normativa denunciata, la Corte ha escluso di potere adottare una sentenza manipolativa che sostituisca il divorzio automatico con un divorzio a domanda, <<poiché ciò equivarrebbe a rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso, in contrasto con l'art. 29 Cost.>>, affermando che <<Sarà, quindi, compito del legislatore introdurre una forma alternativa (e diversa dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza>>.

La Corte costituzionale ha quindi dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982 - dichiarazione estesa, negli stessi termini, in via consequenziale, all'art. 31, comma 6, del d.lgs. n. 150 del 2011 - <<nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell'attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore>>.

Come si è visto, la sentenza n. 170 del 2014 si pone in continuità con il precedente del 2010 (sentenza n. 138). Tuttavia, mentre in quest'ultimo caso la Corte costituzionale aveva adottato, con riguardo alla questione sollevata in riferimento all'art. 2 Cost., una decisione di inammissibilità, indirizzando, al contempo, un monito al legislatore affinché provvedesse ad adottare una disciplina che consentisse alle coppie omosessuali <<il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri>>, nella presente fattispecie la Consulta, nel sollecitare, parimenti, il legislatore a intervenire <<con la massima sollecitudine per superare la rilevata condizione di illegittimità della disciplina in esame per il profilo dell'attuale deficit di tutela dei diritti dei soggetti in essa coinvolti>>, ha invece optato per una sentenza additiva di principio.

Con tale locuzione, ci si riferisce a quelle sentenze di accoglimento con le quali la Corte costituzionale dichiara l'illegittimità di una disposizione perché omette di prevedere qualcosa ma, a fronte della pluralità delle scelte idonee ad eliminare l'incostituzionalità, nel rispetto del ruolo del legislatore - e a differenza di quanto avviene con le comuni sentenze "additive di regola" - non introduce una regola specifica, bensì, appunto, un principio, che il legislatore è chiamato a svolgere adottando una disciplina di carattere generale e che, nelle more, anche i giudici comuni sono tenuti ad attuare, reperendo in esso, quando ciò sia possibile, mediante l'utilizzo degli strumenti ermeneutici di cui dispongono, la regola del caso concreto. Le sentenze additive di principio, dunque, da un lato dichiarano l'illegittimità costituzionale delle norme impugnate, con quanto da ciò consegue in ordine all'efficacia della pronuncia nel giudizio a quo e in generale (art. 136, primo comma, Cost., e art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, secondo cui <<Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione>>); dall'altro introducono un principio che, in alcuni, più frequenti, casi, può essere immediatamente attuato dal giudice al fine della soluzione della causa, in altri dovrà invece attendere lo svolgimento che ne sarà dato dal legislatore.

Rispetto a tale paradigma, la sentenza n. 170 del 2014 sembra però presentare una singolarità. Essa risulta dallo scarto che pare esistere tra il dispositivo - di incostituzionalità delle disposizioni che prevedono lo scioglimento automatico del matrimonio nel caso di rettificazione del sesso di uno dei coniugi - e la motivazione della sentenza, dove le stesse disposizioni sono ritenute non solo non incostituzionali ma, addirittura, costituzionalmente necessarie, come emerge dall'affermazione della Corte secondo cui l'introduzione, nel caso in considerazione, di un divorzio a domanda <<equivarrebbe a rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso, in contrasto con l'art. 29 Cost.>>.

È proprio alla luce di tale motivazione che in dottrina è stato da alcuni ritenuto che nella sentenza n. 170 del 2014 difetterebbe quell'effetto demolitorio della norma impugnata che, viceversa, dovrebbe immancabilmente seguire qualsiasi dichiarazione di incostituzionalità (inclusa quella adottata con una sentenza additiva di principio) [ROMBOLI, 2014, 2683] e che, con tale pronuncia, la Corte costituzionale avrebbe dichiarato l'illegittimità costituzionale <<di un'omissione legislativa "pura e semplice", ossia non collegata con l'incostituzionalità di una norma scritta>> [ibidem; in senso analogo, Ruggeri, 2015, 306]. La medesima dottrina ha altresì rimarcato come una siffatta dichiarazione di illegittimità costituzionale non sembri del tutto in linea con il nostro sistema di giustizia costituzionale e come, in casi simili, la Corte costituzionale avesse, piuttosto, adottato pronunce di inammissibilità o di rigetto con monito al legislatore perché provvedesse all'adozione di un'idonea disciplina.

La ragione della scelta, nella specie, della diversa tipologia decisoria dell'additiva di principio potrebbe risiedere nel fatto che, come s'è detto, la sentenza n. 138 del 2010 - in un passaggio ripreso dalla sentenza n. 170 del 2014 - nel rivolgere al Parlamento un monito a introdurre il riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali, si era <<riservata [...] la possibilità d'intervenire a tutela di specifiche situazioni>>. Considerato che tale monito era rimasto inascoltato (nonostante il richiamo di esso da parte del Presidente Franco Gallo nel corso della riunione straordinaria della Corte tenutasi il 12 aprile 2013) e ritenuta la specificità della situazione sottopostale, la Corte si è indotta ad adottare una pronuncia di incostituzionalità. Tuttavia, qualora si dovesse convenire che la sentenza n. 170 del 2014 ha dichiarato l'illegittimità non dei censurati artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982, ma di una mera omissione del legislatore, non collegata con l'incostituzionalità di tali disposizioni, i suoi effetti, nonostante la diversità del dispositivo, finirebbero col coincidere con quelli di una pronuncia di inammissibilità o di rigetto accompagnata da un monito al Parlamento, risolvendosi, in realtà, la decisione in un nuovo rinvio alle scelte di questo [RUGGERI, 2015, 310, secondo cui, peraltro, solo l'additiva di principio esprimerebbe un obbligo giuridico a carico del legislatore].

Quali dunque, alla luce di quanto detto, le strade percorribili dalla Cassazione giudice a quo alla riassunzione del processo (e, eventualmente, da altri giudici investiti di analoghe domande)?

Escluso, evidentemente, il non liquet, esse parevano ridotte a due.

La prima era quella di ritenere, alla luce della parte motiva della sentenza n. 170 del 2014 (e in sintonia con la dottrina citata), che la Corte costituzionale avesse dichiarato l'illegittimità costituzionale non dei censurati artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982, ma di una mera omissione del legislatore, non collegata con l'incostituzionalità di questi, e, pertanto, di applicare questi ultimi, dichiarando legittima l'annotazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Soluzione che, tuttavia, nelle more dell'intervento del legislatore, avrebbe lasciato le posizioni soggettive delle ricorrenti prive di ogni effettiva tutela.

La seconda era quella di ritenere, sulla scorta del dispositivo della sentenza n. 170 del 2014, che la Corte costituzionale avesse invece dichiarato l'illegittimità degli artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982, e che questi, quindi, non potessero più essere applicati ai sensi dell'art. 136, primo comma, Cost., e dell'art. 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953, e, pertanto, dichiarare illegittima l'annotazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Soluzione che, dal canto suo, avrebbe però legittimato un matrimonio tra persone dello stesso sesso, cioè un risultato ritenuto dalla Corte costituzionale in contrasto con l'art. 29 Cost.

Questa l'alternativa - certo non facile da sciogliere - davanti alla quale pareva trovarsi la Cassazione.

2.3. L'originale seguito della Cassazione: il matrimonio risolutivamente condizionato della coppia divenuta del medesimo sesso.

La soluzione offerta dalla sentenza n. 8097 del 2015 è stata, peraltro, almeno in parte, originale.

La Corte, dopo avere ripercorso le argomentazioni della sentenza n. 170 del 2014, ha anzitutto negato che esistesse uno scarto tra la motivazione e il dispositivo della stessa. Ciò sulla base dell'assunto secondo cui la motivazione della sentenza n. 170 avrebbe escluso la compatibilità con la Costituzione del perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti (divenuti) dello stesso sesso solo con riguardo a una prosecuzione del vincolo <<in via definitiva e senza alcun limite temporale>>.

Dall'esame, definito, perciò, <<del tutto coerente>>, della motivazione e del dispositivo della sentenza n. 170 del 2014, la Cassazione ha ritenuto dunque emergere che la dichiarazione di illegittimità costituzionale operata <<non ha ad oggetto un principio estraneo agli artt. 2 e 4 della l. n. 182 del 1984>> - cioè, per dirla con Romboli, <<un'omissione legislativa "pura e semplice">> - <<ma una delle conseguenze del cd. divorzio automatico che la Corte mira ad eliminare, ovvero quella che determina il passaggio da una "condizione di massima protezione giuridica ad una condizione di massima indeterminatezza" nella coppia che anche dopo la rettificazione di sesso voglia conservare la propria unione>>. È tale effetto degli artt. 2 e 4 della legge n. 182 del 1982 che la Corte costituzionale, ritenendolo <<produttivo di un deficit di tutela incompatibile con la conservazione del grado di protezione costituzionale dell'unione [omoaffettiva]>>, avrebbe, quindi, dichiarato illegittimo ed espunto dall'ordinamento. Ne consegue, sempre secondo la sentenza n. 8097 del 2015 - che valorizza qui il dispositivo di incostituzionalità della sentenza n. 170 del 2014 e i menzionati effetti che ne derivano - che <<La regola relativa all'eliminazione degli effetti giuridici di protezione dei componenti dell'unione conseguente alla caducazione automatica del vincolo ha cessato di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione nella Gazzetta Ufficiale (art. 136 primo comma, Cost.)>>. A conferma del fatto che la dichiarazione di illegittimità costituzionale <<non ha colpito la norma mancante del riconoscimento di uno statuto costituzionalmente adeguato alle unioni tra persone dello stesso sesso>>, la Cassazione osserva ancora che <<Se l'intento della Corte [costituzionale] fosse stato limitato a questo profilo sarebbe stata sufficiente una sentenza monito, conforme alla pronuncia n. 138 del 2010, con un dispositivo di rigetto>>.

Ritenuta dunque sussistente - e così ricostruita - la parte demolitoria della sentenza n. 170 del 2014, quanto al principio da essa affermato, la Corte lo ha individuato nella <<necessità immediata e senza soluzione di continuità di uno statuto sostanzialmente equiparabile, sul piano dei diritti e doveri di assistenza economico patrimoniale e morale reciproci, a quello derivante dal vincolo matrimoniale per le coppie già coniugate che si vengano a trovare nella peculiare condizione delle ricorrenti>>. La Corte attribuisce anche a tale principio <<natura imperativa e [...] l'efficacia stabilita dall'art. 136 Cost.>>, affermando che, in attesa dell'intervento del legislatore, <<il giudice a quo è tenuto ad individuare sul piano ermeneutico la regola per il caso concreto>> che lo inveri.

È sul terreno di tale <<adeguamento necessario>> all'individuato principio che la Corte adotta una soluzione inedita. Essa è ravvisata nella <<rimozione degli effetti della caducazione automatica del vincolo matrimoniale sul regime giuridico di protezione dell'unione fino a che il legislatore non intervenga a rimpire il vuoto normativo, ritenuto costituzionalmente intollerabile>> o, in altri termini, e conclusivamente, nel <<conservare alle parti ricorrenti il riconoscimento dei diritti e doveri conseguenti al vincolo matrimoniale legittimamente contratto fino a quando il legislatore non consenta ad esse di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi>>. Con la precisazione finale che <<La conservazione dello statuto dei diritti e dei doveri propri del modello matrimoniale è, pertanto, sottoposta alla condizione temporale risolutiva costituita dalla nuova regolamentazione indicata dalla sentenza>>.

Va rimarcato ancora come la Corte - evidentemente consapevole della singolarità della soluzione ermeneutica seguita - si preoccupi di puntualizzare che essa <<non determina l'estensione del modello di unione matrimoniale alle unioni omoaffettive, svolgendo esclusivamente la funzione temporalmente definita e non eludibile di non creare quella condizione di massima indeterminatezza stigmatizzata dalla Corte costituzionale>>.

La Cassazione ha quindi accolto il ricorso <<nei sensi di cui in motivazione>>, ha cassato la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ha dichiarato illegittima l'annotazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio e ne ha disposto la cancellazione.

La regola individuata dalla Corte per risolvere il caso è dunque quella della conservazione dello <<statuto dei diritti e dei doveri propri del modello matrimoniale>>, sia pure sotto la <<condizione temporale risolutiva>> costituita dall'adozione, da parte del legislatore, di una disciplina idonea a tutelare in modo adeguato le esigenze della coppia divenuta dello stesso sesso. Condizione (legale), in effetti, e non termine, atteso che il menzionato intervento regolatore appare incerto non solo nel quando ma anche nell'an, tenuto conto che esso, ancorché doveroso, è, di fatto, incoercibile.

La sentenza è, senza dubbio, coraggiosa. Essa si è assunta la responsabilità di dare effettiva tutela ai diritti fondamentali della coppia attraversata dalla vicenda di rettificazione di sesso, i quali, già maturati nel contesto della precedente vita matrimoniale, qualora fossero cessati gli effetti civili del matrimonio, in assenza di una disciplina legislativa della peculiare formazione sociale, sarebbero rimasti irrimediabilmente sacrificati.

La pronuncia apre peraltro la discussione in ordine all'effettiva corrispondenza della regola del caso concreto reperita rispetto al principio espresso dalla Consulta nella sentenza n. 170 del 2014. La Corte costituzionale, nella motivazione di tale sentenza, aveva escluso che le coppie dello stesso sesso - siano esse originarie o sopravvenute (come quelle attraversate da una vicenda di rettificazione di sesso) - possano essere legate dal vincolo matrimoniale, ai sensi dell'art. 29 Cost. Ciò parrebbe comportare anche che a tali coppie non possa essere riconosciuto uno statuto in tutto e per tutto coincidente con quello delle coppie coniugate, pena il rischio di aggiramento del precetto costituzionale. La questione che viene a porsi è allora se il fatto che, in base alla regola applicata dalla sentenza n. 8097 del 2015, la coppia divenuta dello stesso sesso resti unita in matrimonio (stante la cancellazione dell'annotazione di cessazione degli effetti civili dello stesso) - o, comunque, conservi lo <<statuto dei diritti e dei doveri propri del modello matrimoniale>> - solo "a tempo" riesca ad assicurare la fedeltà del seguito e, in particolare, la sua conformità al paradigma esclusivamente eterosessuale del matrimonio affermato dal Giudice delle leggi.

Certo è che soltanto la ritenuta compatibilità con l'art. 29 Cost. di un vincolo matrimoniale solo temporaneo tra persone divenute dello stesso sesso ha consentito alla Cassazione di estrarre dalla sentenza n. 170 del 2014 un principio - quello della <<necessità immediata e senza soluzione di continuità di uno statuto sostanzialmente equiparabile [...] a quello derivante dal vincolo matrimoniale>> - che non consistesse nella mera affermazione della necessità di un adeguato riconoscimento legislativo delle coppie già coniugate e attraversate da una vicenda di rettificazione di sesso. Principio, quest'ultimo, che, a differenza del primo, era evidentemente inidoneo a tradursi, nell'attesa dell'interpositio legislatoris, in una regola immediatamente applicabile dal giudice a tutela delle posizioni soggettive dei membri della coppia, che sarebbero, perciò, nel frattempo, restate integralmente sacrificate.

La vicenda mostra comunque, ancora una volta, l'improcrastinabilità di un intervento legislativo che riconosca giuridicamente le unioni tra persone dello stesso sesso. In effetti, ancorché l'obbligo imposto al legislatore dalla sentenza n. 170 del 2014 riguardi le sole coppie divenute omosessuali, pare assai probabile che l'attesa soluzione normativa riguarderà, genericamente, le unioni civili tra persone dello stesso sesso, a prescindere dal momento, iniziale o successivo, in cui si determini l'identità di genere (così è in effetti orientato il disegno di legge AS n. 2081, approvato dal Senato della Repubblica il 25 febbraio 2016, il cui art. 7 stabilisce che <<Alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso>>).

L'entrata in vigore dell'auspicata legge, segnando l'avveramento della condizione - in quanto dia alla coppia la possibilità di costituire un'<<altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima>> - determinerà la cessazione degli effetti civili del matrimonio delle ricorrenti.

3. Il principio affermato dalla sentenza n. 15138 del 2015.

Con la successiva sentenza n. 15138/2015, la Corte ha affermato che, in base a un'interpretazione conforme agli artt. 2, 3 e 32 Cost. e all'art. 8 CEDU, degli artt. 1 e 3 della legge n. 164 del 1982 - quest'ultimo attualmente confluito nell'art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 - al fine di ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile deve ritenersi non obbligatorio l'intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali primari, considerato che l'acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un percorso individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà e univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale siano oggetto, ove necessario, di accertamento tecnico in sede giudiziale.

3.1. La vicenda, le norme applicabili e le trasformazioni del transessualismo.

La sentenza riguarda il caso di una persona che, dopo avere richiesto al tribunale, nel 1999, l'autorizzazione al trattamento medico-chirurgico per l'adeguamento dei propri caratteri sessuali primari al genere femminile, al fine di ottenere la rettificazione dell'attribuzione di sesso, dopo circa dieci anni, senza essersi sottoposta all'autorizzato trattamento, si era nuovamente rivolta al tribunale chiedendo comunque la rettificazione anagrafica. A sostegno della nuova domanda, la persona interessata aveva dedotto sia il timore di complicanze di natura sanitaria sia il fatto che, nel frattempo, aveva raggiunto un'armonia con il proprio corpo che l'aveva portata a sentirsi donna a prescindere dal citato trattamento.

Sia il tribunale che, successivamente, la corte d'appello, avevano respinto la domanda, sulla scorta di un'interpretazione degli artt. 1 e 3 della legge n. 164 del 1982 secondo la quale il trattamento chirurgico per la modificazione dei caratteri sessuali primari costituisce un presupposto necessario della rettificazione di attribuzione di sesso. La corte d'appello aveva anche ritenuto manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge n. 164 del 1982 sollevate, in via subordinata, dalla reclamante (si utilizza, in questo scritto, il femminile, conformemente al genere rivendicato e, alfine, riconosciuto dalla Cassazione). Nel corso del giudizio davanti a detta corte d'appello, erano state disposte due consulenze tecniche d'ufficio sulle condizioni psicosessuali della reclamante, le quali avevano accertato che: la somministrazione di ormoni femminilizzanti aveva determinato il quasi azzeramento dell'attività testicolare, come risultava dalle ridotte concentrazioni sieriche di testosterone; la reclamante aveva ottenuto una consolidata modifica dei caratteri sessuali secondari, conseguita mediante diversi e ripetuti trattamenti estetici, anche chirurgici (rinoplastica, mastoplastica additiva, incisive terapie ormonali); sul piano psichico, la stessa reclamante aveva raggiunto l'ormai radicato convincimento di appartenere al genere femminile, senza avvertire il contrasto con la sua realtà anatomica e la necessità di sottoporsi all'intervento chirurgico di amputazione dei genitali maschili e di costruzione dell'organo genitale femminile. Le consulenze concludevano che le caratteristiche femminili erano da ritenersi integrate con l'identità psicofisica della reclamante e per lo più irreversibili, se non attraverso complessi interventi farmacologici e chirurgici.

La questione interpretativa posta ai giudici di merito (e successivamente risolta dalla Corte) nasce dall'ambiguità del dettato legislativo. L'art. 1 della legge n. 164 del 1982 stabilisce che il presupposto della rettificazione di attribuzione di sesso di una persona è costituito da <<intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali>>, senza che venga specificato se queste debbano indefettibilmente riguardare i caratteri sessuali primari o possano avere a oggetto anche i soli caratteri sessuali secondari. L'art. 3 della stessa legge n. 164 del 1982, abrogato dall'art. 34, comma 39, lett. c), del d.lgs. n. 150 del 2011, e attualmente trasfuso, senza variazioni testuali sul punto, nell'art. 31, comma 4, dello stesso decreto, prevede che, <<quando risulta necessario>> un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza. Quanto a quest'ultima disposizione, va osservato che la corte d'appello, nel riconoscere come da essa si desumesse la non indefettibilità dell'intervento chirurgico, aveva tuttavia ritenuto, in base a un'interpretazione definita <<storico-sistematica>>, che la stessa si riferisse esclusivamente alla condizione di coloro che o si fossero già sottoposti all'intervento prima dell'entrata in vigore della legge n. 164 o non ne avessero necessità per ragioni congenite.

Sul piano fattuale, il problema in questione affonda le radici nei mutamenti che hanno attraversato il fenomeno del transessualismo nei decenni successivi all'entrata in vigore della legge n. 164 del 1982. Infatti, e per quanto qui rileva, mentre all'epoca dell'entrata in vigore di tale legge le aspirazioni e le richieste degli interessati consistevano proprio nella possibilità di sottoporsi a intervento chirurgico per la modificazione dei caratteri sessuali primari (intervento che, in assenza di una legge che ne disciplinasse presupposti e limiti, sarebbe stato vietato), successivamente sono costantemente aumentati i casi di persone transessuali che intendono affermare la propria identità di genere senza sottoporsi al detto intervento chirurgico.

3.2. La soluzione della Cassazione: la modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari non costituisce un presupposto necessario della rettificazione di attribuzione di sesso.

Investita del ricorso proposto dall'interessata avverso la sentenza della corte d'appello, la Corte ha anzitutto affermato che l'interpretazione della legge n. 164 del 1982 deve tenere conto del fatto che la sentenza della Corte costituzionale n. 161 del 1985 - dichiarativa, tra l'altro, dell'infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1 della detta legge, nella parte in cui consente di rettificare l'attribuzione di sesso anche nelle ipotesi di transessualismo - nel sancire la riconduzione del diritto all'identità di genere nell'area dei diritti inviolabili della persona, lo ha collocato in <<"una civiltà giuridica in continua evoluzione" in quanto soggetta alle modificazioni dell'approccio scientifico, culturale ed etico alle questioni inerenti, nella specie, alle domande di mutamento di sesso e al fenomeno del transessualismo>>.

Ciò premesso in ordine alla necessità di un'interpretazione "evolutiva" della legge n. 164 del 1982, la sentenza n. 15138 del 2015 ha escluso che la lettera, e anche la ratio, degli artt. 1 e 3 della stessa, congiuntamente esaminati, conducano univocamente a ritenere la necessità della modificazione chirurgica dei caratteri sessuali anatomici primari. Al riguardo, la Corte ha osservato che l'art. 1, utilizzando la clausola <<onnicomprensiva "caratteri sessuali">>, senza specificare se quelli da modificare siano i primari o i secondari, non può ritenersi <<riferito soltanto ai primi perché anche i secondari richiedono interventi modificativi anche incisivi come è emerso dalle consulenze tecniche d'ufficio disposte nel giudizio di merito>> e che l'art. 3, facendo uso della clausola <<"in bianco" [...] "quando risulti necessario">>, coerentemente contempla l'intervento chirurgico come non indefettibile. Quanto, in particolare, a quest'ultima clausola, la Corte ha respinto la menzionata interpretazione che ne aveva dato la corte d'appello, sia in quanto <<fondata su una lettura esclusivamente storico-originalista, di carattere del tutto statico>>, in contrasto con l'evidenziata necessità di interpretare in senso evolutivo gli artt. 1 e 3 della legge n. 164 del 1982, sia perché tale esegesi, leggendo la clausola come riferita esclusivamente a situazioni di impossibilità in natura della sottoposizione ad intervento chirurgico demolitorio dei caratteri sessuali primari, cioè ad ipotesi che escludono in radice la necessità di una norma che possa imporne l'esecuzione, <<priva di efficacia prescrittiva la previsione "quando risulti necessario">>.

Escluso, in base all'argomento letterale e logico, che gli artt. 1 e 3 della legge n. 164 del 1982 esprimano un contenuto precettivo univoco nel senso della necessità della modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari, la Corte ha ritenuto di doverli interpretare alla luce dei principi della Costituzione (artt. 2, 3 e 32) e della CEDU (art. 8) che riconoscono il diritto ad autodeterminarsi in ordine all'identità di genere, nonché bilanciando tale diritto con l'interesse pubblico, con esso in conflitto, alla certezza delle relazioni giuridiche.

Quanto al primo aspetto, la Corte ha ritenuto che il processo di ricongiungimento del <<soma con la psiche>> - secondo l'espressione utilizzata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 161 del 1985 - da parte del soggetto che percepisca una "disforia di genere" (attuale denominazione del manuale diagnostico delle malattie mentali D.S.M. V, che ha sostituito la precedente "disturbo dell'identità di genere") <<non può, attualmente, essere stabilito in via predeterminata e generale soltanto mediante il verificarsi della condizione dell'intervento chirurgico>>. A tale riguardo, la Corte ha rilevato che negli ultimi venti anni si è avuto un progressivo sviluppo della scienza medica e degli approdi della psicologia e della psichiatria, in parallelo con la crescita di una cultura, largamente condivisa a livello europeo (è citata la sentenza della Corte EDU 10 marzo 2015, XY c. Turchia), dei diritti delle persone e che tali fattori hanno influenzato il riconoscimento dei diritti dei transessuali, ai quali <<è stato possibile, diversamente che in passato, poter scegliere il percorso medicopsicologico più coerente con il personale processo di mutamento dell'identità di genere>>, il cui <<momento conclusivo [...] è individuale e certamente non standardizzabile, attenendo alla sfera più esclusiva della personalità>> e alla <<autodeterminazione verso l'obiettivo del mutamento del sesso>>. Ciò non senza rilevare come tale punto d'arrivo sia, <<anche in mancanza dell'intervento di demolizione chirurgica, il risultato di un'elaborazione sofferta e personale della propria identità di genere realizzata con il sostegno di trattamenti medici e psicologici corrispondenti ai diversi profili di personalità e di condizione individuale>>.

Quanto al bilanciamento del diritto all'identità di genere, così inteso, con il configgente interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche - <<che costituisce il limite coerentemente indicato dal nostro ordinamento al suo riconoscimento>> - la Corte ha ritenuto che il <<punto di equilibrio>> tra di essi vada individuato alla stregua del principio di proporzionalità, valutando, in particolare, se il sacrificio del detto diritto fondamentale sia necessario al fine di realizzare l'obiettivo della certezza della distinzione tra i generi e delle relazioni giuridico-sociali.

In proposito, la Corte ha ritenuto che le indicate caratteristiche del percorso individuale di realizzazione dell'identità di genere inducano a ritenere, anche alla stregua delle coincidenti indicazioni delle scienze medica e psicologica, <<che il mutamento di sesso sia una scelta personale tendenzialmente immutabile, sia sotto il profilo della percezione soggettiva, sia sotto il profilo delle oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari estetico somatici ed ormonali>>. Ciò non senza sottolineare che il riconoscimento giudiziale del diritto al mutamento di sesso non può che essere preceduto <<da un accertamento rigoroso del completamento di tale percorso individuale da compiere attraverso la documentazione dei trattamenti medici e psicoterapeutici eseguiti dal richiedente, se necessario integrati da indagini tecniche officiose volte ad attestare l'irreversibilità personale della scelta>>.

Alla luce di tali caratteristiche del percorso di realizzazione dell'identità di genere, <<unite alla dimensione tuttora numericamente limitata del transessualismo>>, la Corte ha ritenuto di dovere aderire ad un'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme degli artt. 1 e 3 della legge n. 164 del 1982, la quale, valorizzando la locuzione, presente nell'art. 3, <<quando risulta necessario>>, non imponga l'intervento chirurgico <<demolitorio e/o modificativo>> dei caratteri sessuali anatomici primari, escludendo che l'interesse pubblico alla definizione certa dei generi richieda il sacrificio, sotto il profilo dell'obbligo di tale intervento, del diritto alla conservazione della propria integrità psico-fisica. La Corte ha affermato, perciò, conclusivamente che <<L'acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non [...] postula la necessità [dell'intevento chirurgico], purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale sia accertata, ove necessario, mediante rigorosi accertamenti tecnici in sede giudiziale>>.

Con riguardo al caso di specie, la Corte ha ritenuto che le consulenze tecniche d'ufficio non lasciassero dubbi <<sulla radicalità della scelta di genere effettuata dalla parte ricorrente>>. Essa ha quindi accolto il ricorso e, non reputando necessari ulteriori accertamenti di fatto, ha deciso la causa nel merito, accogliendo la proposta domanda di rettificazione di sesso da maschile a femminile.

La sentenza n. 15138 del 2015 ha interpretato la disciplina della legge n. 164 del 1982 sulla rettificazione dell'attribuzione di sesso - operata, immediatamente dopo la nascita della persona, sulla base delle sue caratteristiche sessuali esterne - in modo coerente con l'evoluzione già verificatasi in altri Paesi europei per effetto di pronunce delle rispettive Corti costituzionali. Il riferimento è alle pronunce del Bundesverfassungsgericht dell'11 gennaio 2011, che ha ritenuto che l'imposizione dell'intervento chirurgico e la richiesta della sterilità permanente previsti dalla legge tedesca fossero contrari alle garanzie costituzionali in materia di tutela dell'integrità fisica e del diritto all'autodeterminazione sessuale, nonché della Corte costituzionale austriaca del 3 dicembre 2009. L'attualità del tema del transessualismo e, in particolare, delle questioni giuridiche relative alle condizioni imposte ai transessuali ai fini del cambiamento di sesso e della modificazione dello stato civile è emersa di recente anche nella giurisprudenza della Corte EDU, che, con la già citata sentenza del 10 marzo 2015, ha affermato che la sottoposizione dell'autorizzazione al mutamento di sesso alla condizione della previa incapacità di procreare viola il diritto al rispetto della vita privata garantito dall'art. 8 CEDU [su tale pronuncia, CORDIANO, 2015, 502]. La pronuncia della Corte risponde inoltre, almeno in parte, alle raccomandazioni e agli auspici formulati in diversi strumenti di cosiddetta soft law, tra i quali si possono qui menzionare la Raccomandazione CM/Rec(2010)5, adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa il 31 marzo 2010 (punti 20-21 e 35-36 dell'exposé des motifs) e la Risoluzione 1728(2010), adottata dall'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa il 29 aprile 2010 (punto 16.11.2).

Si è visto come la legge n. 164 del 1982 ponga a necessario fondamento della rettificazione di attribuzione di sesso il fatto che siano intervenute <<modificazioni dei [...] caratteri sessuali>> (art. 1), da intendere, come pare evidente, in senso fisico. La novità, certo non da poco, della pronuncia della Corte consiste nell'avere negato la necessità della modificazione (chirurgica) dei caratteri sessuali primari, mentre resta ferma la necessaria sussistenza di <<oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari>>. Resta quindi escluso, pur dopo la sentenza della Corte, che la mera esistenza di una "disforia di genere" - cioè dell'elemento psicologico, anch'esso necessaria precondizione della rettificazione, costituito dalla percezione del soggetto di appartenere al sesso diverso da quello attribuitogli alla nascita - possa di per sé sola costituire presupposto della rettificazione di attribuzione di sesso, quando non sia accompagnata da oggettive modificazioni dei caratteri sessuali (almeno) secondari.

La Corte è pervenuta all'indicata soluzione utilizzando, come si è visto, la tecnica interpretativa del bilanciamento fra diritti o principi tra loro configgenti. Questi sono stati individuati, nella specie, da un lato, in un diritto inviolabile della persona, quello all'identità di genere, dall'altro, in un interesse pubblico, quello alla <<chiarezza nella identificazione dei generi sessuali e delle relazioni giuridiche>>. Va notato come la Corte, ponderando con l'anzidetto diritto costituzionale tale interesse, sembri attribuire anche a questo, sia pure implicitamente, rango costituzionale.

Il <<punto di equilibrio>> del menzionato conflitto è individuato sulla base del principio di proporzionalità, elaborato, come la stessa Corte rammenta, dalla Corte EDU al fine di definire i limiti dell'interferenza dello Stato nell'esercizio del diritto al rispetto della vita privata e familiare garantito dall'art. 8 CEDU. Il giudizio di proporzionalità è inteso, in particolare, come verifica della necessità del sacrificio del diritto all'identità di genere al fine di assicurare il contrapposto interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche.

Per realizzare tale interesse, la Corte ha ritenuto non necessaria l'imposizione della modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari e necessaria, invece, l'imposizione della mutazione di quelli secondari. Ciò sulla scorta delle caratteristiche del percorso individuale del transessuale - che evidenziano che il mutamento del sesso si configura come <<una scelta personale tendenzialmente immutabile, sia sotto il profilo della percezione soggettiva, sia sotto il profilo delle oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari>> - unite alla <<dimensione tuttora numericamente limitata del transessualismo>>. Notazione, quest'ultima, che pare mostrare come anche il carattere numericamente marginale del fenomeno della transizione sessuale abbia avuto un ruolo nella ponderazione operata dalla Corte.

Sempre a tutela dell'interesse alla certezza delle relazioni giuridiche, la Corte non ha mancato di "richiamare" i giudici di merito ad un accertamento <<rigoroso>> della <<serietà ed univocità del percorso scelto [nonché della] compiutezza dell'approdo finale>>.

Va poi notato il riferimento operato dalla Corte al carattere <<tendenzialmente immutabile>> della scelta compiuta dal transessuale. L'avverbio utilizzato non pare escludere, sia pure in casi limite, la possibilità del cosiddetto ritorno alle origini, del resto non precluso dal dato normativo (e addirittura espressamente disciplinato dalla legge tedesca).

Quanto alle modificazioni dei caratteri sessuali secondari, la Corte ha fatto riferimento a mutazioni dei caratteri sessuali secondari <<estetico - somatici ed ormonali>> e all'ottenimento di esse mediante <<terapie ormonali trattamenti estetici>>. Essa non ha quindi precisato se i necessari trattamenti estetici debbano o no essere (anche) di tipo chirurgico - quali, ad esempio, la mastectomia (quando si tratti del transito dal genere femminile a quello maschile) e la mastoplastica additiva (quando si tratti, viceversa, del transito dal genere maschile a quello femminile) - lasciando, perciò, aperta la questione se possano riscontrarsi <<oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari>> nel caso in cui la persona che richieda la rettificazione di attribuzione di sesso si sia sottoposta soltanto a terapie ormonali e a trattamenti estetici non chirurgici (avendo, anche in mancanza di interventi di chirurgia estetica, raggiunto un soddisfacente equilibrio psico-fisico). Potrebbe quindi porsi in futuro il dubbio se, in simili casi, l'interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche richieda o no - alla luce del principio di proporzionalità - il sacrificio del diritto alla conservazione dell'integrità psico-fisica della persona sotto il profilo dell'obbligo di sottoporsi a interventi di chirurgia estetica non desiderati [PATTI, 2015, 647].

Successivamente alla sentenza n. 15138 del 2015, è intervenuta, sul medesimo tema, la sentenza della Corte costituzionale n. 221 del 2015. Il Giudice delle leggi, con una pronuncia interpretativa di rigetto che ha richiamato anche la sentenza n. 15138, ha escluso che l'art. 1, comma 1, della legge n. 164 del 1982, interpretato in senso conforme agli artt. 2 e 32 Cost. e 8 CEDU, imponga la necessità del <<ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali>>.

. BIBLIOGRAFIA

A. Cordinao, La Corte di Strasburgo (ancora) alle prese con la transizione sessuale.

Osservazioni in merito all’affaire Y.Y. c. Turquie, in Nuova Giur. Civ., 2015, 9, 502;

S. Patti, Trattamenti medico-chirurgici e autodeterminazione della persona transessuale. A proposito di Cass., 20.7.2015, n. 15138, in Nuova Giur. Civ., 2015, 11, 643;

B. Pezzini, A prima lettura (la sent. 170/2014 sul divorzio imposto), in www.articolo29.it, 15 giugno 2014;

R. Romboli, La legittimità costituzionale del «divorzio imposto»: quando la Corte dialoga con il legislatore ma dimentica il giudice, in Il Foro it., 2014, 10, 2680-2685;

A. Ruggeri, Il matrimonio "a tempo" del transessuale: una soluzione obbligata e … impossibile? (A prima lettura di Cass., I Sez. civ., n. 8097 del 2015), in ConsultaOnLine, 2015 (28 aprile 2015), 304-313.

  • diritto successorio
  • falsità in atti

CAPITOLO III

GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITÀ DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO.

(di Francesco Federici )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le questioni. - 3 Il contrasto nella giurisprudenza: l'indirizzo favorevole alla sufficienza del disconoscimento. - 4 Il contrasto nella giurisprudenza: l'indirizzo favorevole alla necessità della querela di falso. - 5 Il contrasto nella giurisprudenza: la teoria dell'accertamento negativo. - 6 Il contributo della dottrina alla formazione degli indirizzi giurisprudenziali: la teoria favorevole alla sufficienza del disconoscimento. - 7 Segue: le principali obiezioni. - 8 Segue: la teoria favorevole alla necessità della querela di falso. - 9 La composizione del contrasto: la scelta della terza via. - 10 Brevi considerazioni conclusive. - BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.

Tra gli arresti giurisprudenziali più significativi del 2015 va annoverata la decisione relativa alla individuazione dello strumento processuale cui ricorrere nella ipotesi di contestazione della autenticità del testamento olografo.

Sul punto Sez. U, n. 12307/2015, Travaglino, Rv. 635554, intervenendo a composizione di un contrasto ormai pluridecennale, hanno stabilito che la parte che contesti l'autenticità del testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura, e l'onere della relativa prova, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento negativo, grava sulla parte stessa.

La fattispecie portata alla attenzione della Corte costituiva un caso tipico e frequente in materia. Deceduto il de cuius, la vedova ne aveva fatto pubblicare il testamento olografo. Poiché però i parenti del defunto asserivano che questi da tempo era stato colpito da ictus ed era caduto in stato di totale incoscienza sino al decesso, impugnavano il testamento per falsità (asseritamente privo di autenticità), invocando il diritto al riconoscimento della qualità di eredi e alla attribuzione dei beni del de cuius.

Dopo alterne vicende, nelle quali il tribunale adito rigettava le domande, motivando la pronuncia sull'assunto che il testamento olografo, disconosciuto dagli attori, poteva essere impugnato solo con la querela di falso, e dopo il rigetto dell'appello, la parte soccombente ha censurato la decisione dei giudici di merito, sostenendo la maggiore correttezza dell'orientamento che riconosce la possibilità di ricorso ad entrambi gli strumenti (querela di falso e disconoscimento seguito dalla verificazione) per contestare la genuinità del testamento.

La Terza Sezione della Corte di cassazione, avvertendo che sullo strumento processuale utilizzabile per contestare l'autenticità del testamento olografo vi era contrasto, con ordinanza Sez. 3, n. 28586/2013, rimise gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite Civili, che hanno deciso nei termini riportati.

L'arresto rappresenta una interessante soluzione, che, abbandonando entrambi i termini del contrasto, predilige una terza via a superamento dei dubbi interpretativi che affliggevano da oltre mezzo secolo giurisprudenza e dottrina. Per comprendere la decisione è allora interessante seguire il percorso logico della pronuncia, e cioè comprendere quali ragioni abbiano indotto le Sezioni Unite ad adottare una soluzione "a sorpresa", estranea (o tale solo apparentemente) alla contrapposizione per la quale il contrasto stesso era stato sollevato. Sarà altrettanto interessante comprendere se questa soluzione abbia effettivamente eliminato, una volta per tutte, i dubbi sullo strumento processuale da adottare nella ipotesi di contestazione della autenticità del testamento olografo.

2. Le questioni.

La sentenza intanto avverte come lo sforzo interpretativo a favore dell'uno o dell'altro indirizzo non si riconduce ad una mera scelta dello strumento processuale cui ricorrere per contraddire o impedire che il testamento assuma efficacia nei riguardi di chi non ne è menzionato quale beneficiario, oppure, visto dall'opposto punto d'osservazione, perché possa farsi valere nei confronti di colui che, quale potenziale erede ab intestato, dalla efficacia riconosciuta di quell'atto veda compromesse, in tutto o in parte, le proprie pretese ereditarie, definitivamente accreditando i diritti del successore chiamato nella scheda olografa. La contrapposizione degli indirizzi è peraltro così persistente e radicale perché con essa si interseca l'altra questione sensibile, ossia il valore, anche probatorio, delle scritture private che non provengono da nessuna delle parti in causa, nonché quella, se si vuole ancora più sensibile, della ripartizione dell'onere probatorio. Peraltro, si legge in motivazione, il testamento olografo non è solo un documento che supporta, o contribuisce a supportare, sul piano probatorio, le ragioni della parte in causa, ma costituisce esso stesso il titolo in forza del quale ad un soggetto, o a una pluralità di soggetti in esso menzionati, vengono riconosciuti diritti soggettivi, e in ragione del quale dunque si verifica la successione nelle posizioni giuridiche soggettive del de cuius.

Ma per comprendere il perché della soluzione scelta dalla S.C. è necessario seguire il dibattito in materia della giurisprudenza e della dottrina. Esso è puntualmente riportato nella pronuncia, sicché ne viene agevolata, per le finalità di questo contributo, la illustrazione.

3. Il contrasto nella giurisprudenza: l'indirizzo favorevole alla sufficienza del disconoscimento.

Parte della giurisprudenza, collocando il testamento olografo tra le scritture private, sostiene che per la contestazione della autenticità della sua sottoscrizione sia sufficiente il disconoscimento, più correttamente il non riconoscimento, della scheda testamentaria.

Già Sez. 2, n. 03371/1975, Sagnelli, Rv. 377509, affermava che per la contestazione dell'autenticità di una scrittura privata non riconosciuta non occorre la proposizione della querela di falso, ma l'impugnazione, in via di eccezione, della sottoscrizione mediante il disconoscimento, incombendo alla controparte la richiesta di verificazione e l'onere della prova sulla autenticità della scheda testamentaria. Ciò perché lo strumento della querela di falso si rende indispensabile solo quando la scrittura abbia acquistato efficacia di piena prova, ai sensi dell'art. 2702 c.c., per riconoscimento tacito o presunto, o, ancora, all'esito del procedimento di verificazione. Le conclusioni e l'iter argomentativo non mutano per Sez. 2, n. 03849/1979, Colasurdo, Rv. 400306, che esamina l'ipotesi in cui, contro colui che è stato istituito erede con un precedente testamento, sia prodotto un successivo testamento, a sua volta istitutivo di altro erede, dovendo ricorrersi sempre al procedimento previsto dall'art. 214, comma 2, e segg. c.c.

L'indirizzo favorevole allo strumento previsto dall'art. 214 c.c. non esclude il ricorso alla querela di falso, in alternativa rispetto al semplice disconoscimento. In particolare Sez. 2, n. 03833/1994, Patierno, Rv. 486333 afferma che <<alla parte nei cui confronti venga prodotta una scrittura privata (così come il testamento olografo) deve ritenersi consentita, oltre la facoltà di disconoscerla, così facendo carico alla controparte di chiedere la verificazione (addossandosi il relativo onere probatorio), anche la possibilità alternativa, senza riconoscere né espressamente, né tacitamente la scrittura medesima, di proporre querela di falso, al fine di contestare la genuinità del documento, atteso che in difetto di limitazioni di legge non può negarsi a detta parte di optare per uno strumento per lei più gravoso, ma rivolto al conseguimento di un risultato più ampio e definitivo, quello cioè della completa rimozione del valore del documento con effetti erga omnes e non nei soli riguardi della controparte>>. D'altronde nello stesso senso, con riguardo alla scrittura privata in generale, si ritrovano molte pronunce, come ad es. e tra le più recenti, Sez. 2, n. 01789/2007, Mazziotti di Celso, Rv. 595719, mentre sembra rimarcare la diversa finalità dei due strumenti, escludendo una libera alternatività, perché in rapporto funzionale di reciproca esclusione, Sez. T, n. 01572/2007, Marinucci, Rv. 595303. Inoltre, affermato che l'onere probatorio ricade sulla parte che del testamento voglia servirsene e che a tal fine propone l'istanza di verificazione (salvo la diversa scelta della controparte di promuovere azione di querela di falso), si afferma che non ha alcuna incidenza sull'onere probatorio la posizione processuale assunta dalle parti e cioè <<se l'azione sia esperita dall'erede legittimo (che adduca quindi, in via principale, la falsità del documento), ovvero dall'erede testamentario che voglia far valere i propri diritti ereditari e si trovi di fronte alla contestazione dell'autenticità del documento da parte dell'erede legittimo>>. In tal senso sono indirizzate molte pronunce, come, tra le ultime, Sez. 2, n. 26943/2008, Mazzacane, Rv. 605442.

L'orientamento persiste anche nei tempi più recenti, tanto che Sez. 2, n. 28637/2011, Carrato, dopo aver riaffermato che querela di falso e disconoscimento della scrittura privata sono istituti preordinati a finalità diverse e del tutto indipendenti tra loro, sostiene che, <<poiché il testamento olografo è un documento che non perde la sua natura di scrittura privata per il fatto che deve rispondere ai requisiti di forma imposti dalla legge (art. 602 c.c.) e che deriva la sua efficacia dal riconoscimento, espresso o tacito, che ne faccia il soggetto contro il quale la scrittura è prodotta, quest'ultimo, ove voglia impedire tale riconoscimento e contesti globalmente l'intera scheda testamentaria, deve proporre l'azione di disconoscimento, che pone a carico della controparte l'onere di dimostrare, in contrario, che la scrittura non è stata contraffatta e proviene, invece, effettivamente dal suo autore apparente>>.

4. Il contrasto nella giurisprudenza: l'indirizzo favorevole alla necessità della querela di falso.

Contrapposto a questo orientamento è quello che, pur non attribuendo valore di atto pubblico al testamento olografo, sostiene la necessità della querela di falso. Già Sez. 2, n. 02793/1968, Tresca, Rv. 335435, riteneva che la fattispecie si risolvesse in una eccezione di falso, così da essere sollevata nelle sole forme di cui agli artt. 221 e segg., c.p.c. La pronuncia tiene conto del rapporto tra scrittura prodotta in giudizio e soggetto contro il quale essa è prodotta, affermando che il disconoscimento può provenire solo da chi sia autore dello scritto (o suo erede ex art. 214, comma 2, c.p.c.). In tal senso anzi già deponeva Sez. 2, n. 00766/1966, Straniero, Rv. 321538, che evidenziava come il principio sostanziale affermato dall'art. 2702 c.c., relativo all'efficacia in giudizio della scrittura privata, riconosciuta effettivamente o presupposta tale, e la procedura di disconoscimento e di verificazione regolata dagli artt. 214 e segg. c.p.c. sono istituti applicabili solo <<alle scritture provenienti dai soggetti del processo e alla ipotesi di negazione della propria scrittura o della propria firma da parte di quel soggetto contro il quale sia stato prodotto lo scritto>>. Quando invece la contestazione della autenticità non sia sollevata dalla parte contro cui l'atto viene prodotto, prosegue la pronuncia, risolvendosi in una eccezione di falso, necessita della querela di falso. Ed è proprio tale antico insegnamento a costituire per lustri il principale dei motivi su cui si fonda l'indirizzo giurisprudenziale favorevole al ricorso allo strumento disciplinato dagli artt. 221 e segg. cit. Infatti gli eredi legittimi che contestano l'autenticità della scheda olografa, secondo certa interpretazione (che anche parte della dottrina condivide), sono soggetti estranei alla scrittura testamentaria, non rientrando neppure nello schema dell'art. 214 comma 2, cit. Conferma alla ratio della ricostruzione giurisprudenziale appena accennata viene da un'altra sentenza che, pur ritenendo sufficiente il disconoscimento, relaziona questa conclusione alla qualifica attribuita alla parte che in quel giudizio contestava un testamento olografo. In particolare Sez. 2, n. 01599/1971, Palermo, Rv. 352004, afferma che <<l'erede istituito col primo testamento, che ha esperito la petizione di eredità, in quanto investito di un valido titolo di legittimazione fino al momento in cui non ne sia dichiarata giudizialmente la caducazione, conserva pur sempre la veste di erede, anche nei confronti di altro soggetto che pretenda avere diritto alla eredità in base a successiva disposizione testamentaria. Egli, invero, non può qualificarsi terzo fino al momento del definitivo accertamento della validità del secondo testamento. Pertanto è legittimato a contestare, sulla base del titolo, l'efficacia del testamento posteriore oppostogli mediante il mero disconoscimento, senza necessità di proporre querela, incombendo all'altra parte, che abbia proposto domanda riconvenzionale -tendente a far dichiarare la validità del secondo testamento con conseguente caducamento delle disposizioni contenute nel primo- l'onere di provare tale domanda e, quindi, di chiedere la verificazione dell'olografo successivo, di cui intende avvalersi>>. Balza subito all'evidenza che in questo caso vi è elezione del disconoscimento perché colui che contesta l'autenticità del secondo testamento è a sua volta erede testamentario (in forza di altro precedente testamento), il che lo pone in una posizione processuale "titolata" di erede del de cuius, con conseguente applicabilità del comma secondo dell'art. 214, cit. Da tanto sembra di capire che sarebbe stato necessario proporre querela di falso se si fosse costituito nella qualità di erede legittimo, posizione il cui riconoscimento è subordinato alla declaratoria di non autenticità o falsità del testamento istitutivo di altro erede, sicché sino alla eliminazione del documento l'erede ab intestato resta processualmente terzo rispetto al de cuius. È utile sul punto rammentare che, pur con effetti diversi e comunque in tema di disconoscimento di scrittura privata (non dunque con riguardo al testamento olografo), la lontana Sez. 2, n. 01382/1961, affermava che l'onere dell'erede di disconoscere o di non riconoscere il documento prodotto in giudizio sussiste se e in quanto la qualità di erede sia incontestata in giudizio.

L'indirizzo favorevole alla querela di falso, che tiene conto della provenienza della scrittura, è espresso ancora da Sez. 2, n. 16362/2003, De Julio, Rv. 567822. Essa afferma che <<la procedura di disconoscimento e di verificazione di scrittura privata (artt. 214 e 216 c.p.c.) riguarda unicamente le scritture provenienti da soggetti del processo e presuppone che sia negata la propria firma o la propria scrittura dal soggetto contro il quale il documento è prodotto;...per le scritture provenienti da terzi estranei, come nel caso del testamento olografo oggetto del presente giudizio, la contestazione non può essere sollevata secondo la disciplina dettata dalle predette norme, bensì nelle forme dell'art. 221 e segg. c.p.c., perché si risolve in una eccezione di falso>>.

Le argomentazioni che prediligono lo strumento della querela, principalmente concentrate sull'assunto della terzietà del soggetto rispetto al testamento olografo contro di lui prodotto, trovano una evoluzione interpretativa in Sez. U, n. 15169/2010, Goldoni, Rv. 613799. Questa pronuncia, che interviene sul contrasto relativo ai modi di contestazione delle scritture private provenienti da terzi estranei alla lite, ne ricostruisce l'efficacia probatoria, inquadrandole tra le prove atipiche dal valore meramente indiziario; sennonché per un verso, tenendo conto del loro valore probatorio, afferma che possono essere liberamente contestate dalle parti, ma poi, concentrando l'attenzione su alcune di esse, tra cui il testamento olografo, nega che un simile documento possa annoverarsi tra le prove atipiche per l'incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata che gli è riconosciuto, e assume che la sua contestazione necessiti della querela di falso. La pronuncia sul punto passa per un obiter dictum, sebbene, in rapporto al complesso argomentativo della sentenza, trattasi di un obiter del tutto peculiare perché, distinguendo le stesse scritture provenienti da terzi in due sottocategorie (la prima contenente la generalità, a valenza probatoria debole, la seconda, comprensiva di atti di particolare incisività per l'essere titoli immediatamente esecutivi del diritto fatto valere, e dunque a valenza sostanziale e processuale pregnante), le Sezioni Unite indicano distinti strumenti processuali per la loro contestazione a seconda della collocazione.

La pronuncia in commento evidenzia soprattutto che il precedente del 2010 sposta il baricentro dell'attenzione della giurisprudenza dal rapporto tra scrittura e soggetto (terzo) contro cui è prodotta, al valore intrinseco del documento medesimo. Con ciò finalmente raccordandosi ad un piano di confronto che già investiva la dottrina sullo stesso argomento.

Tale considerazione è tanto più importante quando si segnali che anche la recente Sez. 2, n. 08272/2012, D'Ascola, Rv. 622420, sostiene la necessità dello strumento disciplinato dagli artt. 221 e segg., c.p.c., nella ipotesi di contestazione dell'autenticità del testamento, invocando non solo la provenienza dell'atto da terzi, ma soprattutto l'incidenza sostanziale e processuale particolarmente elevata della scheda olografa.

5. Il contrasto nella giurisprudenza: la teoria dell'accertamento negativo.

Questi due orientamenti, presto entrati in contrasto, erano stati preceduti da un enunciato, contenuto in Sez. 2, n. 01545/1951, Torrente, Rv. 882295, che, sull'asserita ricorribilità alle azioni di accertamento negativo in ordine alla provenienza delle scritture private e del testamento olografo, affermava che l'onere della prova spetta all'attore che chieda di accertare la non provenienza del documento da chi apparentemente ne risulta l'autore. In estrema sintesi l'assunto trova origine nell'opinione, elaborata in parte della dottrina, che la contestazione della genuinità del testamento olografo si traduca in una domanda di accertamento negativo della validità del documento stesso.

La pronuncia pertanto, che in verità non assumeva posizione esplicita se l'accertamento negativo dovesse o meno assumere la forma della querela di falso, fu oggetto di alcuni autorevoli consensi e di numerose rilevanti critiche. Qui è sufficiente rammentare che uno dei fondamenti della pronuncia si riportava ad un orientamento ricostruttivo, propugnato da una parte della dottrina e della giurisprudenza, secondo cui l'impugnazione per falsità del testamento olografo si risolve in una quaestio nullitatis, applicandosi dunque alla fattispecie le regole di cui all'art. 606 c.c., in tema di nullità del testamento olografo per mancanza dei requisiti. A tale osservazione si rispondeva però che l'olografo impugnato non è nullo per difetto di forma ma inesistente.

Abbandonata comunque dalla giurisprudenza la ricostruzione fondata sulla natura di domanda di accertamento negativo, il ricorso agli strumenti processuali della verificazione e della querela, con opposte conseguenze in ordine all'onere della prova, fu ripartito sul presupposto delle diverse finalità e dell'indipendenza dei due istituti. Così affermandosi che la querela postula l'esistenza di una scrittura riconosciuta, mentre il disconoscimento, investendo la provenienza stessa del documento, mira a impedire che la scrittura medesima acquisti efficacia probatoria. Sul punto ad esempio Sez. 2, n. 03880/1980, Pierantoni, Rv. 407755 affermava (nella versione massimata) che <<...chi contesti l'autenticità della sottoscrizione della scrittura onde impedire che all'apparente sottoscrittore di essa venga imputata la dichiarazione sottoscritta nella sua totalità, deve disconoscere la sottoscrizione e non già proporre la querela di falso, mentre invece, allorchè sia accertata l'autenticità della sottoscrizione, chi voglia contestare la provenienza delle dichiarazioni contenute nella scrittura di colui che, ormai incontrovertibilmente, l'ha sottoscritta, ha l'onere di proporre la querela di falso>>.

6. Il contributo della dottrina alla formazione degli indirizzi giurisprudenziali: la teoria favorevole alla sufficienza del disconoscimento.

Il dibattito sull'argomento ha investito anche la dottrina, nella quale si riscontrano nette contrapposizioni tra i due orientamenti, supportate con variegate motivazioni, nelle quali si intersecano: a) l'attenzione al rapporto tra provenienza della scrittura e parte in causa contro cui è prodotta, b) la valutazione del documento per l'incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata che gli è riconosciuta, c) la preoccupazione di tener separato il piano del contenuto del testamento (il thema probandum) da quello dello strumento mediante il quale esso possa acquisire rilevanza agli effetti processuali. Il quadro ricostruttivo risente poi del problema, più generale, dell'efficacia delle scritture private e dei modi di impugnazione.

Per l'indirizzo favorevole al disconoscimento è innanzitutto costante l'inquadramento del testamento olografo tra le scritture private. In verità sul punto non si dubita, salvo tuttavia ad attribuire alla scheda testamentaria un valore intrinsecamente elevato, come anche si riscontra in parte della giurisprudenza. E tuttavia la distinzione tra scritture private in ragione del valore ad esse attribuito è criticata da chi ne contesta il fondamento normativo, denunciando peraltro l'irragionevolezza del riconoscimento ad alcuni documenti provenienti da terzi di un regime giuridico "rafforzato" rispetto a quanto assicurato alle scritture private provenienti dalle parti. Si lamenta in particolare che non sarebbe comprensibile quale criterio adoperare per la identificazione di questa particolare categoria di scritture private [FINOCCHIARO, 2010, 971 e ss.]. Anzi più in generale, oltre che lamentare l'assenza di un supporto normativo che sostenga l'intrinseco grado di attendibilità del testamento olografo a giustificazione della necessaria proposizione della querela di falso, si adombra la confusione concettuale che tende a sovrapporre il piano processuale con quello sostanziale, occorrendo invece aver chiara la distinzione tra efficacia di un documento rispetto alla sua provenienza, da un lato; ed efficacia di un documento rispetto all'oggetto del giudizio, cioè rispetto al thema probandum dall'altro lato. In altre parole si denuncia la confusione tra il valore del documento e del suo contenuto e lo strumento processuale con il quale quel documento viene riconosciuto e assume dignità probatoria nel processo.

D'altronde è proprio alla confusione tra diritto e prova che autorevole dottrina attribuiva la causa dell'errore in cui incorrevano i fautori del ricorso alla querela di falso. In particolare si criticava l'assunto secondo cui incombesse su colui che contestava il testamento olografo la prova del suo accertamento negativo (sul punto si rammenta la sentenza n. 1545 del 1951 già citata), dissentendo dalla necessità della querela di falso e ritenendo invece corretto, al pari di ogni scrittura privata, il mero disconoscimento del documento. Sul punto era infatti convinzione che <<si continuano a confondere la posizione e i poteri della parte relativamente al diritto fatto valere in giudizio...con la posizione e i poteri della parte relativamente alla produzione ed alla verificazione della prova documentale. Dal primo punto di vista, la contrapposizione che qui interessa è quella tra fattispecie successoria legale e fattispecie successoria testamentaria: l'attore in petizione di eredità, che si richiami alla prima, può vedersi contrapposto, come elemento "impeditivo", il testamento il quale, a sua volta, è elemento "costitutivo" della pretesa fondata sulla seconda. Il negozio testamentario, pertanto, è il tema di prova proposto dall'attore o dal convenuto a seconda che sia invocato ai fini della domanda o ai fini della eccezione: il tema contrapposto è dato dal fatto costitutivo della vocazione legittima, a sua volta causa petendi della domanda o della eccezione, secondo della posizione formale di attore o di convenuto dell'erede legittimo. Tutto ciò riguarda (e non può non riguardare) le fattispecie sostanziali, rispetto alle quali opera la regola del giudizio enunciata dall'art. 2967 cod. civ., mentre non ha nulla a che vedere con la prova della autenticità del documento olografo, necessaria perché lo stesso possa spiegare nel processo, se disconosciuto, l'efficacia probatoria che la scrittura privata di per sé non possiede. L'autenticità dell'olografo costituisce se mai il tema della prova nel giudizio incidentale di verificazione, la cui instaurazione è soltanto eventuale, sia perché presuppone il disconoscimento della scrittura, sia perché la produzione del documento, nella causa principale diretta all'accertamento della fattispecie testamentaria, può addirittura non avvenire>> [DENTI, 1961, 1185 ss.].

L'influenza a lungo esercitata dalla teoria della riconducibilità della verifica della provenienza della scheda testamentaria alla domanda di accertamento negativo trova riscontri in teorie che, pur favorevoli al disconoscimento, fanno onere al soggetto che invoca il testamento della prova della sua genuinità, ad eccezione dell'erede legittimo che proponga la domanda di annullamento o di nullità dell'atto mortis causa, nel qual caso è quest'ultimo a sobbarcarsi dell'onere probatorio.

7. Segue: le principali obiezioni.

Sono state peraltro evidenziate due questioni che, se non superate, porrebbero in discussione le conclusioni cui pervengono i fautori dell'indirizzo favorevole al disconoscimento.

La prima riguarda il rapporto tra autore del testamento e parti in causa a fronte di chi ravvisa che la pretesa inapplicabilità dello strumento del disconoscimento, per precisione del non riconoscimento previsto dall'art. 214, comma 2, c.p.c., si riconduce all'opinione che il testamento proviene da un terzo rispetto alle parti del processo ed esula dunque dalla predetta fattispecie normativa. Sul punto invece si ritiene che, pur materialmente provenendo la scheda olografa da chi non può assumere la qualità di parte in senso processuale o sostanziale, acquistando essa efficacia solo con la morte del suo autore, è altrettanto <<vero che la posizione di "parte" del destinatario della attribuzione deriva unicamente dalla devoluzione ereditaria>>, evidenziando per converso che <<ci sono casi in cui il documento, pur non provenendo...da alcuna delle parti in causa, non può essere considerato alla stregua di una scrittura di terzo estraneo alla lite>> [SASSI, 2013, 1408 e ss.].

In argomento vi è chi, avvertendo l'utilità di circoscrivere la qualità di terzo rispetto alla scrittura privata prodotta in giudizio, e dunque all'olografo, dall'esame esegetico degli artt. 2702, 2704 c.c., 214 c.p.c. ricava che nella teoria generale del diritto il concetto di terzo ha "natura relazionale", per tale intendendosi chi è estraneo a un qualsiasi rapporto o atto giuridico, e individua tre piani in cui utilizzare il concetto di terzo, dunque specularmente di parte: 1) quello proprio della formazione della scrittura, così che <<è parte chi abbia sottoscritto o vergato di suo pugno la scrittura, e correlativamente è terzo chi non abbia né sottoscritto né vergato a mano la medesima>>; 2) quello negoziale, cioè <<attinente alla situazione giuridica di diritto sostanziale come incisa dall'atto negoziale contenuto nella scrittura privata prodotta in giudizio (in questa prospettiva parte è la persona fisica cui sia riferibile la dichiarazione negoziale>>; 3) quello processuale, cioè <<del giudizio in cui la scrittura privata è prodotta (in questa accezione è terzo la persona fisica che non sta in giudizio nel processo pendente>> [FINOCCHIARO, op. cit., 977-979]. Lo stesso autore giunge infine ad affermare che l'espressione "eredi o aventi causa" utilizzata dal secondo comma dell'art. 214 c.p.c. va intesa in senso ampio, comprensiva cioè di tutti coloro che si trovino in una "generica posizione di dipendenza".

Si è anche denunciata l'erronea valorizzazione del nesso processuale tra il documento ed il soggetto, condividendo invece quell'orientamento, definito dominante, secondo cui anche il successibile ex lege, in ragione della propria posizione sostanziale, non è terzo ma soggetto contro il quale la scrittura (l'olografo) è prodotta.

La posizione del successibile ex lege, se qualificabile parte o terzo rispetto al testamento olografo che istituisca erede altro soggetto, è questione costantemente dibattuta, e quando la dottrina è orientata a superare la differenza tra erede legittimo e quello testamentario ai fini del mezzo cui ricorrere per contestare una scheda olografa, non può che rimarcare che oggetto dell'accertamento giudiziale è la fattispecie successoria (legale o testamentaria) invocata in proprio favore, affermando che solo all'effetto giuridico di tale fattispecie va riferito l'onere della prova. Da ciò consegue che è proprio il negozio testamentario a costituire il tema della prova, dell'attore come del convenuto, gravando dunque il relativo onere su colui che vuol far valere quel documento, con l'effetto che la parte nei cui confronti l'atto testamentario è prodotto può limitarsi al disconoscimento, ricostruzione peraltro non affatto pacifica.

La seconda questione, anche questa influente sull'elaborazione teorica in ordine all'onere della prova, è relativa al rapporto tra successione legittima e successione testamentaria, ossia alla supposta preminenza della vocazione testamentaria su quella legittima. Secondo certa ricostruzione infatti il tenore dell'art. 457, comma 2, c.c., il quale dispone che <<non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria>>, attribuirebbe alle norme disciplinanti la seconda valenza dispositiva, a fronte della valenza suppletiva della legittima. Per i fautori della querela di falso questa preminenza a sua volta incide sulla ripartizione dell'onere probatorio, perché la contestazione del testamento olografo si traduce in una azione di accertamento negativo, atteso che, a fronte della "posizione consolidata" attribuita dal testamento all'erede vocato, chi voglia impugnarlo ha l'onere di dimostrare la falsità della provenienza o la insussistenza dei requisiti di validità, in osservanza dei principi generali di ripartizione dell'onere probatorio prescritti dall'art. 2697 c.c.

Sulla preminenza della successione testamentaria è sufficiente rammentare che la dottrina ne ha discusso a lungo, contestandone autorevolmente e da tempo il fondamento, sino ad invertirne il rapporto, attribuendo cioè alla delazione legittima funzione primaria, con il conseguente carattere dispositivo della sua disciplina, mentre alla vocazione testamentaria residuerebbe un carattere suppletivo [MENGONI, 1999, 11 e ss.]. Nonostante essa trovi ancora qualche autorevole sostenitore, è comunque avversata dai sostenitori della sufficienza del disconoscimento della scheda testamentaria, che ne evidenziano i limiti e le critiche portate dalla dottrina.

8. Segue: la teoria favorevole alla necessità della querela di falso.

Con riguardo all'opposto indirizzo, già Satta riteneva che il testamento olografo potesse essere contestato solo a mezzo della querela di falso, considerando quel documento <<una autentica prova legale, che solo può essere distrutta dalla querela di falso>> [SATTA, 1959-60, 194 e ss.].

Gli interventi in dottrina a favore dello strumento della querela, certo meno numerosi di quelli a sostegno della sufficienza del disconoscimento, sono supportati da autorevoli motivazioni, attente agli aspetti sostanziali e processuali riconducibili alle peculiarità della scheda olografa.

È stato evidenziato il valore sui generis del testamento sul piano sostanziale, pur estraneo alla categoria degli atti pubblici, rivelato innanzitutto dalla circostanza che la falsificazione della scheda olografa nel sistema penale è equiparata al medesimo reato compiuto con riguardo agli atti pubblici. Infatti vi è equiparazione ai fini della entità della pena, secondo quanto previsto dall'art. 491 c.p., e la condotta criminosa, a differenza che per le scritture private, è perseguibile d'ufficio ai sensi dell'art. 493 bis, comma 2, c.p. Inoltre l'olografo ha effetti immediati e diretti nella sfera giuridica del terzo, costituendo, una volta pubblicato, titolo di acquisto per l'erede e per il legatario, come prescrive l'art. 620, quinto comma, c.c. [SESTA, 2014, 74]. Trattasi infatti di scrittura la cui efficacia non necessita dell'accertamento della autenticità, e che si distingue da tutte le altre scritture private, per natura inidonee a formare titolo immediatamente costitutivo di diritti verso i beneficiati.

Al riconoscimento del suo intrinseco valore sul piano sostanziale depone anche la disciplina riservatagli dalle norme sulla trascrizione, in particolare dagli artt. 2648 e 2660 c.c., che prevedono le modalità di trascrizione dell'acquisto a causa di morte con la sola presentazione del testamento e dell'atto di accettazione della eredità, procedimento che conferma come non vi sia necessità di verificare l'autenticità della scheda, anche in questo dunque in contrapposizione con il trattamento riservato alle altre scritture private, che possono trascriversi solo quando autenticate o giudizialmente accertate, secondo il disposto dell'art. 2657 c.c.

Si è anche asserito che il procedimento di verificazione non è adeguato al testamento, atteso che, trovandosi il documento in deposito presso un notaio per la pubblicazione, ex art. 620 c.c., non è richiesta alcuna altra misura di preservazione del documento durante il giudizio, laddove nel procedimento per querela di falso l'art. 224 c.p.c. prevede più rigorosamente il sequestro del documento quale misura più elevata per la sua custodia.

A sostegno dell'indirizzo favorevole alla querela esistono anche argomenti di natura processualistica, spiegandosi che la contestazione della autenticità del testamento debba promuoversi con quello strumento non tanto per la efficacia probatoria del documento, quanto perché in materia di contraffazione l'azione di verificazione si risolverebbe in una iniziativa processuale identica nel contenuto alla querela, ma libera dalle formalità essenziali che la legge prevede invece nella disciplina dettata dagli artt. 221 e segg. c.p.c.

I sostenitori dello strumento della querela hanno inoltre esaminato la natura dell'accertamento -per i suoi riflessi sull'onere della prova- e la posizione di terzietà del successibile ex lege rispetto al testamento, per trarre argomenti a loro favorevoli, con conclusioni ovviamente opposte rispetto all'altro indirizzo.

Sulla prima questione si è affermato che l'onere della prova gravi su chi contesta il testamento olografo, argomentando dall'art. 2697 c.c. e dall'art. 457, comma 2, c.c., il quale prevede che si fa luogo alla successione ex lege solo in mancanza di vocazione testamentaria, risolvendosi pertanto la contestazione del documento olografo in una domanda di accertamento negativo. Infatti, aderendo alla tesi della preminenza della vocazione testamentaria rispetto alla legale, si esplicita che la norma, in presenza di una scheda olografa, consente di ritenere raggiunta la prova del fatto costitutivo della fattispecie successoria testamentaria, escludendo per l'effetto quella legale, così che chi voglia porre in discussione il testamento per far valere una delazione legale avrà l'onere di provarne la nullità [SESTA, op. cit.].

Quanto al rapporto tra erede ab intestato e testamento si afferma che il disconoscimento di una scrittura non può provenire da terzi, poiché tale strumento è riservato alle parti contro cui il documento è rivolto, e agli eredi o aventi causa, che possono limitarsi a non riconoscere la scrittura o la sottoscrizione del suo autore. E mentre per i sostenitori della sufficienza del disconoscimento gli eredi ex lege sono compresi nella fattispecie del secondo comma dell'art. 214 c.p.c., per i fautori della querela di falso la fattispecie normativa si riferisce <<ad una scrittura del de cuius prodotta contro gli eredi, a fondamento di una pretesa eccepita nei loro riguardi, mentre, prodotto il testamento, deve escludersi che chi lo contesti possa qualificarsi, sic et simpliciter, erede, poiché detta qualifica in capo ai parenti che lo impugnano richiede proprio la dimostrazione della falsità del testamento>> [SESTA, 2012, 75].

Con ciò per il successibile ex lege residua lo strumento della querela di falso per contestare l'autenticità del testamento olografo.

9. La composizione del contrasto: la scelta della terza via.

Le posizioni assunte da dottrina e giurisprudenza mostrano la complessità del tema, ed è proprio nella elevata difficoltà di elezione dell'uno o dell'altro indirizzo, entrambi supportati da argomentazioni persuasive ma ad un tempo oggetto di rilievi altrettanto penetranti, che può individuarsi la chiave di lettura della decisione che la S.C. ha infine assunto.

Sez. U, n. 12307/2015, cit., infatti individuano lucidamente gli elementi a favore dei due orientamenti. In riferimento a quello a sostegno della sufficienza del disconoscimento indicano: a) la natura di scrittura privata del testamento olografo, b) la attribuzione al successibile ex lege della qualità di erede di colui che apparentemente è l'autore della scheda olografa, c) la netta distinzione tra il piano sostanziale della vicenda, che riguarda più propriamente il thema probandum, e il piano processuale, che riguarda le modalità con le quali in un processo può trovare ingresso, con dignità di prova, il documento di delazione testamentaria. In relazione al secondo, a sostegno della necessità della querela di falso, evidenziano: aa) la incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata che è riconosciuta al testamento, come emergente da un complesso di norme, la cui lettura depone a suo favore, bb) la esclusione in capo al successibile ex lege, almeno sino a quando la sua qualità non sia processualmente accertata, della posizione di erede, con conseguente inapplicabilità della fattispecie contemplata nell'art. 214, comma 2, c.p.c.

Ad un tempo però avvertono i limiti di entrambe le posizioni.

Innanzitutto, con riguardo al rapporto tra successore ex lege e scheda olografa, ossia relativamente alla diatriba se l'erede ab intestato sia terzo o meno rispetto alla scrittura, dubitano che possano ricavarsi argomenti del tutto persuasivi per l'uno o per l'altro orientamento. Su questo piano la sentenza avverte che la difficoltà e pericolosità di scandagliare il concetto di terzo emerge dalla considerazione che esso, ai fini dell'art. 214 c.p.c., non va esaminato dal punto di vista del soggetto parte della lite, ma dell'autore del documento che si vuol disconoscere, sicché sarebbe corretto affermare che il de cuius non sia mai parte nel giudizio di impugnazione del proprio testamento. Subito dopo però evidenzia come sia altrettanto legittimo argomentare che l'erede, che può dichiarare di non conoscere la scrittura o la sottoscrizione del suo autore, è colui che subentra al de cuius nei suoi rapporti, il che, su un piano di astratta speculazione, presuppone che quel medesimo scritto si sarebbe potuto produrre nei confronti del testatore se ancora in vita. E tuttavia torna parimenti difficile che tra i documenti (siano essi negoziali oppure dichiarazioni di scienza) possa annoverarsi il testamento formato dal medesimo de cuius, il quale produce effetti giuridici nella sfera giuridica dei suoi destinatari, ma non in quella dell'autore, vigendo dal momento del suo decesso e non prima. Dovrebbe allora concludersi che il testamento è sempre una scrittura di terzo.

E tuttavia è consapevole dei limiti di questo pur complesso percorso argomentativo, essendo quanto meno incontestabile che ad alcuni successibili, quali i legittimari, debba comunque attribuirsi la qualifica di parti e non di terzi ai fini della non riconoscibilità della sottoscrizione del de cuius. Peraltro è frequente che il testamento olografo sia impugnato, contestandosene provenienza ed autenticità, da parte di chi, pur beneficiario di una quota inferiore a quella spettantegli, è comunque un erede testamentario, sicchè nei suoi confronti non può affatto porsi questione di accertamento della sua qualità di erede, avendo già assunto questa qualifica perché vocato nel testamento. Si avverte allora l'inutilità di soluzioni che, a seconda della posizione vestita da chi contesta il testamento (escluso totalmente dalla eredità, erede legittimo compreso nelle categorie dei legittimari, erede testamentario sia pur per quota che non lo accontenti), oscillino tra la sufficienza del disconoscimento e la necessità della querela. Dunque conclude affermando che l'attenzione concentrata sulla qualità di terzo o di parte rispetto alla scheda olografa non porta lontano.

Senza una appagante soluzione si rivela anche la tormentata questione relativa alla preminenza o meno della forma testamentaria su quella legittima, secondo la lettura data dell'art. 457, comma 2, c.c., cui sono riconducibili conseguenze di rilievo in ordine all'onere dalla prova. La sentenza è consapevole di quanto sia impervio anche questo percorso interpretativo, con risultati dubbi quando non irrilevanti, tenendo conto dei rilievi sollevati dai fautori dell'indirizzo favorevole al disconoscimento, i quali sottolineano come nella questione che ci occupa non si controverte sul valore della fonte della successione (legale o testamentaria, che resta il thema probandum), ma sullo strumento probatorio utilizzabile per dare ingresso nel processo al documento stesso.

La sentenza prova allora a seguire un altro percorso, concentrando l'attenzione su due aspetti: 1) il valore sostanziale da attribuire al testamento; 2) il meccanismo processuale attraverso cui il testamento possa superare le contestazioni assumendo dignità probatoria.

I due aspetti sono relazionati e tuttavia, quando si privilegi l'aspetto processuale, qualunque valore possa attribuirsi al testamento olografo, l'oggetto della sua contestazione riguarda propriamente il thema probandum, mentre la opzione tra disconoscimento, cui segue la verificazione a carico di chi di quel testamento voglia valersene, e querela di falso, a carico di chi quel testamento voglia eliminare dalla realtà processuale, riguarda solo lo strumento probatorio a mezzo del quale il testamento spiega efficacia nel processo. Con la conseguenza che la natura di scrittura privata finisce con il privilegiare il primo indirizzo.

Se invece l'attenzione si appunta sull'aspetto sostanziale, se ne esalta l'intrinseca elevata incidenza che il testamento di per sé assume. E sul punto deve evidenziarsi come anche la giurisprudenza e la dottrina favorevole al disconoscimento riconoscono che il testamento olografo, per il suo tratto formalistico, olografo, datato e sottoscritto ai fini della sua validità, sia una scrittura privata sui generis, i cui requisiti tendono a garantire la corrispondenza del contenuto del documento a quello della dichiarazione e la tutela della integrale autenticità di quest'ultima contro le manomissioni del terzo. Anzi proprio all'olografia (di cui non si rinvengono altri riscontri) è attribuita una funzione specifica, ossia la funzione integrativa della "conoscenza" dell'atto, nel senso che con essa vuol garantirsi che il testo sia stato "conosciuto" dal suo autore, in un significato dunque che va oltre la "presunzione di conoscenza" delle normali scritture. D'altronde anche di recente Sez. 6-2, n. 22420/2013, Petitti, Rv. 627816, ha sottolineato l'importanza dei requisiti formali dell'olografo, asserendo che il <<requisito della sottoscrizione...ha la finalità di soddisfare l'imprescindibile esigenza di avere l'assoluta certezza non solo della.... riferibilità [delle disposizioni] al testatore, già assicurata dalla olografia, ma anche della inequivocabile paternità e responsabilità del medesimo che, dopo avere redatto il testamento...abbia disposto [evidentemente il testatore] del suo patrimonio senza alcun ripensamento>>.

Le Sezioni Unite avvertono quanti elementi confermino le peculiarità della scheda olografa rispetto ad una comune scrittura privata: dalla sua immediata esecutività e trascrivibilità, alla disciplina penalistica che ne accomuna le sorti al documento pubblico nella ipotesi di falsificazione, alla maggiore coerenza dello strumento della querela che, per la partecipazione al processo del Pubblico Ministero, si armonizza con la rigorosa disciplina penale prevista per la ipotesi di falsificazione dell'olografo, parificata al reato di falsificazione dell'atto pubblico; alla coerenza all'oggetto dell'indagine, il cui accertamento si estende all'intero testo e non alla sola sottoscrizione, così come avviene per l'ipotesi di querela di falso dell'atto pubblico.

Ma tutti questi pur importanti elementi sono riconducibili agli aspetti sostanziali del documento, senza aver spiegato perché tale aspetto debba superare quello eminentemente processuale.

A questo punto la S.C., consapevole del rischio di non offrire, nell'adesione ad uno dei due indirizzi, una soluzione soddisfacente, e quindi cosciente dei limiti di entrambi, ha scelto una terza via per comporre il contrasto, quella secondo cui per contestare il testamento, perché non genuino, deve proporsi una domanda di accertamento negativo. Con ciò essa ritorna da dove era partita la giurisprudenza, ossia dalla sentenza del 1951, con estensore Andrea Torrente.

Che il motivo della scelta sia riconducibile alla constatata mancata sufficienza dei due indirizzi storicamente contrapposti è la stessa sentenza ad evidenziarlo espressamente. In essa infatti si spiega che la scelta della terza via, significativamente definita come soluzione che <<non del tutto insoddisfacentemente>> sia in grado di superare le aporie delle altre soluzioni, consente: 1) di mantenere il testamento olografo nell'orbita delle scritture private; 2) di evitare infruttuosi sforzi finalizzati a identificare un criterio distintivo tra scritture private a valenza probatoria intrinsecamente elevata e scritture a valenza probatoria debole, e, ove si voglia negare questa distinzione, rischiare di qualificare la scheda olografa, pur tratteggiata da peculiari caratteristiche, come una qualunque scrittura proveniente da terzi; 3) evitare che la scelta dello strumento del disconoscimento gravi l'erede testamentario dell'onere della prova, nonostante rivesta il ruolo processuale di parte titolata in forza di un atto innegabilmente dotato di intrinseca forza dimostrativa; 4) evitare che la contestazione della genuinità della scheda olografa si disperda in un defatigante procedimento, qual'è quello per querela di falso, essendo invece da privilegiare una soluzione processuale <<tutta interna al processo>>.

10. Brevi considerazioni conclusive.

La soluzione adottata dalle Sezioni Unite dunque può intanto definirsi una scelta "saggia", di un giudice che ha avvertito i limiti delle altre soluzioni intorno alle quali il contrasto si è sviluppato e poi avviluppato.

Resta da capire se si tratti di una scelta che soddisfi pienamente la richiesta di chiarezza sulla opzione processuale da adottare, superando definitivamente i dubbi che hanno investito gli strumenti cui si era fatto ricorso in precedenza. Soprattutto resta da capire se quegli strumenti siano concretamente superati perché, se è vero che la S.C. ha indicato l'azione cui ricorrere per contestare la genuinità del testamento olografo, è altrettanto vero che esso però non esclude, e non potrebbe escludere, le altre opzioni processuali. Infatti alla parte interessata non solo a contestare la genuinità della scheda, ma che abbia intenzione di eliminare, del tutto e definitivamente, dalla realtà giuridica il documento, non sembra che possa inibirsi l'utilizzo del procedimento per querela di falso. Pertanto occorrerà comprendere se e quale portata pratica la soluzione adottata possa avere nel prossimo futuro.

Restano poi alcune ombre, di portata sistematica, sulla stessa azione di accertamento negativo, che, all'indomani della sentenza del 1951, fu oggetto di molte perplessità e di critiche da parte della dottrina, e che fu pertanto accantonata poco dopo.

Deve però anche segnalarsi che la complessità dei problemi di teoria generale coinvolti nelle ragioni del contrasto, qualunque sia l'opzione processuale preferita quando contestata l'autenticità del testamento, stride con l'estrema semplicità dell'istruttoria richiesta. Ed infatti, mentre sul piano giuridico la scelta del tipo di azione, e dunque del criterio di distribuzione dell'onere della prova, assumeva molta importanza all'epoca in cui il contrasto è insorto, l'attuale evoluzione scientifica e tecnologica in ordine alle tecniche di verifica della genuinità della scrittura olografa, o addirittura alla capacità di datazione del documento mediante agenti chimici, ha nei fatti ridotto di molto l'attività di accertamento. Questa è oggi prevalentemente assorbita dall'espletamento di una consulenza e nulla più, sicchè ben si comprende quanto sia più marginale, sul piano pratico, il tipo di azione attraverso cui accertare la falsità dell'atto.

A fronte di una attività istruttoria così semplificata, la scelta delle Sezioni Unite, pur nella consapevolezza d'una soluzione "non del tutto insoddisfacentemente" idonea a superare le censure all'uno o all'altro orientamento, resta tanto più opportuna e in grado di dirimere un contrasto pluridecennale che, per come impostato, era non diversamente superabile.

. BIBLIOGRAFIA

G. Finocchiaro, nota a Cass., S.U. 23 giugno 2010, n. 15169, in Rivista diritto processuale, 2011. Pag. 971 e segg.

V. Denti, Verificazione e onere della prova dell'autenticità di testamento olografo, in Foro Padano, 1961, I, pag. 1185 e segg.

A. Sassi, Testamento e garanzie giurisdizionali, in Rivista di diritto civile, 2013, pag 1408 e segg.

L. Mengoni, Successioni per causa di morte, Milano, 1999, pag. 11 e segg

S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, 1, Milano, 1959-60, pagg. 194 e segg.

M. Sesta, Questioni sulla prova del testamento olografo, in Contratto e impresa, 2014, 1, pagg. 69 e segg.

  • trasferimento della proprietà
  • acquisto della proprietà

CAPITOLO IV

QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE

(di Cesare Trapuzzano )

Sommario

1 Premessa. - 2 Usucapione dell'azienda. - 3 Trasferimento del possesso. - 3.1 Trasferimento di proprietà fondato sull'attestazione dell'usucapione a cura del disponente. - 4 Usucapione speciale per la piccola proprietà rurale. - 5 Interruzione del termine per usucapire. - BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.

L'analisi che segue sarà incentrata sull'approfondimento degli argomenti che rivestono carattere di novità e di interesse in ordine ad un tradizionale istituto del diritto civile, disciplinato nel libro terzo del c.c., ossia l'usucapione, quale modo di acquisto a titolo originario della proprietà o di altri diritti reali di godimento (su mobili e immobili). In specie, l'attenzione sarà appuntata sull'usucapione avente ad oggetto i beni immobili.

Innanzitutto, sarà affrontato il tema della usucapibilità dell'azienda, quale complesso di beni, tra loro eterogenei, organizzato e destinato all'esercizio dell'impresa, nel suo insieme distinta dai singoli componenti. Al di là della configurazione-qualificazione dell'azienda (secondo la teoria unitaria o la teoria atomistica, la teoria dell'universalità di beni o di fatto o di diritto o dell'azienda quale unico bene immateriale), l'oggetto della riflessione (e la conseguente soluzione del problema) sarà funzionalmente impostato sul (intorno al) beneazienda quale mezzo attraverso cui si esercita l'attività di impresa, che può essere oggetto di proprietà, usufrutto, sequestro giudiziario (si parla, al riguardo, di "oggettivizzazione" dell'azienda). Per l'effetto, la tesi della relativa usucapibilità è stata prospettata alla stregua dell'applicazione analogica degli artt. 816 e 1160 c.c., artt. rispettivamente vertenti sulla definizione e sull'usucapione delle universalità di mobili.

Seguirà una verifica mirata della questione relativa alla natura dell'accertamento dell'acquisto del diritto sul bene per usucapione e alla surrogabilità della dichiarazione giudiziale con l'attestazione unilaterale dell'alienante, che ponga a fondamento dell'atto di vendita il proprio acquisto, appunto a titolo di usucapione, del bene alienato (per un verso, senza che l'autorità giudiziaria abbia preliminarmente accertato tale acquisto e, per altro verso, senza che l'intestatario usucapito in via stragiudiziale abbia riconosciuto il possesso utile ad usucapionem in suo favore). Siffatto aspetto è stato collegato a quello dell'ammissibilità nel nostro ordinamento della figura della vendita del possesso, indipendentemente dal passaggio di proprietà di un diritto.

Ulteriore riflessione sarà riservata ai requisiti richiesti ai fini della maturazione dell'usucapione speciale per la piccola proprietà rurale. In particolare, sarà trattata la questione relativa alla necessità che, oltre alla destinazione agricola di fatto del bene, vi sia anche il corrispondente inquadramento urbanistico quale fondo rustico nei comuni classificati come montani, affinché possa trovare applicazione la disciplina di favore dell'art. 1159 bis c.c., che - come è noto - stabilisce termini più brevi per il perfezionamento dell'acquisto. Anche l'aspetto procedimentale desta particolare interesse, in ragione della peculiare natura del decreto di riconoscimento della proprietà nonché delle conseguenze che discendono dal mancato assolvimento degli oneri di pubblicità e di notifica prescritti dalla legge speciale.

Anche le questioni connesse alla maturazione dell'effetto interruttivo del termine utile ad usucapire sono di specifico interesse, alla stregua dell'individuazione e della conformazione delle cause tassative di interruzione, siano esse naturali o giudiziali. L'attenzione è stata, in specie, riposta sulle caratteristiche del riconoscimento del diritto altrui, idoneo a fungere da atto interruttivo, e sulla dibattuta querelle relativa all'idoneità del sopravvenuto decreto di esproprio a determinare una forma di costituto possessorio.

2. Usucapione dell'azienda.

Sez. U, n. 05087/2014, Ceccherini, Rv. 629549, risolvendo una questione di massima di particolare importanza, ha statuito che l'azienda, quale complesso dei beni organizzati per l'esercizio dell'impresa, deve essere considerata come bene distinto dai suoi singoli componenti, suscettibile di possesso unitario, che può essere oggetto dell'acquisto a titolo originario per usucapione, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge. Siffatta conclusione è stata argomentata in ragione della riconduzione dell'azienda all'oggetto dell'attività di impresa, come tale passibile - per espresso disposto normativo - di successione a titolo derivativo, unitamente ai relativi rapporti giuridici - contratti, crediti e debiti - [ASCARELLI, Corso di diritto commerciale, Milano, 1962, 329 ss.; Auletta, Note in tema di circolazione dell'azienda, in Studi in onore di Alberto Asquini, I, Padova, 1963, 15], di possesso, di proprietà ed usufrutto, di sequestro ed anche - attraverso un ragionamento analogico - di acquisto per usucapione.

La possibilità di acquistare l'azienda per usucapione è questione strettamente connessa a quella concernente la natura dell'azienda, oggetto in dottrina di un dibattito molto risalente nel tempo e mai definitivamente sopito. Sul punto, nel corso degli anni si sono opposte la teoria unitaria, da un lato, e la teoria atomistica, dall'altro. Secondo la prima ricostruzione, il complesso dei beni connotato dalla medesima destinazione consente di configurare l'azienda in una dimensione unitaria, sia essa un unico bene complesso o una universalità di beni. Ne conseguirebbe, in ordine all'ammissibilità dell'acquisto dell'azienda per usucapione, che il potere di fatto attuato su tale entità unitaria ne permetterebbe l'acquisto con il decorso del tempo, alla stregua del dettato degli artt. 816 e 1160 c.c. per le universalità di beni mobili. In base alla teoria atomistica, invece, l'azienda sarebbe un insieme di beni, ognuno dei quali ha un'autonoma disciplina, in base alla sua intrinseca natura. Sicché, in difetto di un'espressa previsione normativa sull'usucapione dell'azienda, ciascuno dei beni che la compongono soggiacerebbe al regime di specie sull'usucapione, senza che possa trarsene alcuna automatica conclusione sull'acquisto dell'intero, come parrebbe desumersi per gli acquisti a titolo derivativo dall'art. 2556, comma 1, c.c., che prescrive l'osservanza del vincolo di forma stabilito dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che costituiscono l'azienda.

Peraltro, anche aderendo alla tesi della natura unitaria dell'azienda, siccome qualificabile come un'universitas, l'istituto è stato ricondotto dalla giurisprudenza e dalla dottrina talvolta ad un'universitas rerum, talaltra ad un'universitas iuris ed ancora ad un'universitas facti, tanto per giungere alla conclusione secondo cui l'azienda sfugge all'applicazione dell'art. 1153 c.c., in ragione della previsione contenuta nel successivo art. 1156. Conseguentemente, il possesso, per consentire l'acquisto, dovrebbe essere protratto nel tempo tanto da integrare i requisiti della fattispecie di cui all'art. 1160 c.c. Così Sez. 1, n. 13765/2007, Rordorf, Rv. 601318, ha ritenuto che il complesso di beni costituito in azienda rappresenta una tipica universalità di beni ai sensi dell'art. 816 c.c. Ed ancora, altra pronuncia di Sez. 1, n. 04404/2006, Del Core, Rv. 587752, ha affermato la possibilità di possedere una azienda anche solo animo e quindi pur se il rapporto materiale con l'azienda sia esercitato da un mero detentore. Deve essere riportata nell'alveo delle teorie dell'unitarietà anche l'impostazione secondo cui l'azienda non costituirebbe affatto una universitas, bensì un unico bene immateriale.

L'art. 2555 c.c. definisce l'azienda come il complesso dei beni organizzato per l'esercizio dell'impresa. Il coordinamento di questa definizione, dettata nel libro quinto del codice civile, con la classificazione dei beni, contenuta negli artt. 810 - 817 c.c., è tradizionalmente ritenuto un punto indefettibile di qualsiasi concezione dell'azienda. Si osserva, infatti, che la classificazione dei beni giuridici nel codice civile non consentirebbe di qualificare l'azienda - intesa come bene unitario, a composizione variabile nel tempo e qualitativamente mista - come bene mobile o immobile o anche - se non con qualche importante adattamento - come universalità di beni nella definizione dell'art. 816 c.c. (tesi, questa, prevalente invece nella giurisprudenza di legittimità), che suppone non solo la natura mobiliare di tutti i beni, ma altresì la loro appartenenza all'unico proprietario. Queste considerazioni, peraltro, potrebbero indurre anche soltanto alla conclusione che l'art. 2555 c.c. - quantunque avulso dalla disciplina generale dei beni del libro terzo del codice - costituisce la fonte primaria della qualificazione dell'azienda come bene oggetto di diritti, in quanto universalità di beni (in conformità alla generica dizione dell'art. 670 c.p.c.) o che, almeno, proprio questa fosse la voluntas legis. Riconoscere che l'azienda, come oggetto di diritti, costituisce un bene giuridico non sarebbe sufficiente per considerarla una cosa, che sola può essere oggetto di possesso (e quindi di usucapione) nella definizione dell'art. 1140 c.c.; sicché la considerazione delle cose che compongono l'azienda, con la riconduzione - eventualmente analogica - di questa a un'universitas rerum sarebbe un passaggio indispensabile per l'ammissione del suo possesso. La Corte di legittimità ha puntato l'attenzione sul rilievo che la stessa nozione di cosa non è naturalistica, ma economico-sociale, sicché non sarebbe illogico trattare come cosa tutti quei possibili oggetti di rapporti giuridici che non hanno natura corporea. Ora, se non può escludersi la configurabilità di un bene costituito da una cosa immateriale, come nei casi comunemente citati di proprietà intellettuale, non sembra che vi sarebbero insormontabili ostacoli di diritto positivo al riconoscimento di una "cosa" (appunto l'azienda) costituita da un "complesso organizzato di beni", conformemente all'indicazione dell'art. 2555 c.c. Il fatto che l'art. 1140 c.c. restringa il possesso (e quindi l'usucapione) alla "cosa" non implica necessariamente neppure l'esclusione categorica della cosa immateriale, quale sarebbe, secondo un'opinione dottrinale, il "complesso organizzato di beni", distinto dagli stessi beni singolarmente considerati e inteso come "organizzazione", e precisamente come frutto di attività dell'uomo. In conseguenza, il possesso ad usucapionem dell'azienda dovrà essere inteso, non già come disponibilità fisica che il possessore abbia sulle singole cose, valutate dal punto di vista quantitativo, bensì come possesso continuato nel tempo del complesso economico-produttivo finalizzato alla produzione o allo scambio e quindi al profitto, ossia avvalendosi, non tanto di un insieme di elementi singolarmente considerati, quanto anche dell'avviamento aziendale, della capacità cioè di produrre profitto dalle cose che - in ragione della loro connessione/organizzazione armonica - va al di là della somma algebrica delle stesse. Che il "complesso dei beni organizzati" debba essere inteso come un'universalità di beni, o come cosa immateriale o altrimenti, non sembra dunque un punto decisivo per affermare o negare la sua qualità di cosa, suscettibile di possesso. La stessa giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 06957/2000, Verucci, Rv. 536950; Sez. 1, n. 07409/1986, Schermi, Rv. 449459) ha riconosciuto la signoria di fatto su una quota di una s.r.l., addirittura semplicemente mediante la sola iscrizione nel libro soci della società del trasferimento della quota sociale: sicché la quota di una s.r.l. è un bene immateriale equiparato ex art. 812 c.c. ad un bene mobile materiale non iscritto in pubblici registri e quindi sottoposto alla relativa disciplina legislativa. Nella definizione dell'art. 2555 c.c., l'elemento unificatore della pluralità dei beni - indicato nell'organizzazione per l'esercizio dell'impresa (c.d. elemento funzionale) - è ancorato a un'attività (l'organizzazione), a sua volta necessariamente qualificata in senso finalistico (l'impresa): l'attività, come tale, è certamente un'espressione del soggetto, che trascende la categoria dei beni giuridici e non può essere oggetto di possesso. È necessario, per l'effetto, riconoscere che l'art. 2555 c.c. esprime una valutazione dell'azienda che, senza cancellare il suo collegamento genetico (organizzativo) e finalistico con l'attività d'impresa, ne sancisce una considerazione oggettivata (di "cosa", oltre che di strumento di attività), costituente la premessa alla possibilità che essa diventi oggetto di negozi giuridici e di diritti. Ciò che sembra decisivo, per il tema in discussione, è dunque proprio l'oggettività dell'azienda, considerata unitariamente quale oggetto di diritti.

Il problema di fondo si risolve, allora, nell'accertare se non vi siano, nel codice civile, disposizioni incompatibili con l'affermazione che l'azienda è suscettibile di possesso, che per ciò stesso sia utile all'usucapione. La risposta negativa al quesito è imposta dal riconoscimento che, al contrario, un tale possesso è supposto in diverse disposizioni. Va in primis considerata la definizione del possesso nell'art. 1140 c.c. come potere sulla cosa, che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Il possesso è dunque configurabile sempre che, rispetto allo stesso bene, sia ipotizzabile la proprietà o un altro diritto reale, al cui esercizio corrisponda l'attività del possessore. Che l'azienda possa essere oggetto di proprietà o di usufrutto è peraltro espressamente sancito dall'art. 2556, comma 1, c.c. e dall'art. 2561 c.c. È dunque pienamente giustificata l'affermazione che colui il quale esercita sull'azienda un'attività corrispondente a quella di un proprietario o di un usufruttuario la possiede e, nel concorso degli altri requisiti di legge, la usucapisce. All'uopo, si è altresì richiamato l'art. 1145, comma 1, c.c., secondo cui il possesso delle cose di cui non si può acquistare la proprietà è senza effetto. Dalla lettura di tale norma si è argomentato che, poiché dell'azienda si può acquistare la proprietà ai sensi dell'art. 2556 c.c., non si vede perché non si potrebbe anche acquistarne il possesso. Difatti, poiché il possesso è senza effetto per le cose di cui non si può acquistare la proprietà, a contrario dovrebbe produrre effetto per le cose di cui si può acquistare la proprietà, tra cui l'azienda, e dunque consente, con il tempo, di acquistarle per usucapione. Il possesso è qui riferibile esclusivamente al "complesso dei beni" unitariamente considerato, e non già ai singoli beni, che - come è noto - non appartengono necessariamente al titolare dell'azienda e seguono le regole di circolazione loro proprie. Del resto, non è di ostacolo a tale riconoscimento la circostanza che l'azienda sia connotata dall'avviamento, inteso come valore economico del collegamento dei beni in funzione di uno scopo produttivo, il quale non costituisce un bene a sé stante o un elemento dell'azienda, bensì è un modo di essere o una qualità del complesso dei beni avvinti dal vincolo aziendale (Sez. 1, n. 05845/2013, Ceccherini, Rv. 625716).

Il possesso dell'azienda, inoltre, è specificamente considerato nell'art. 670 c.p.c., che ammette il sequestro delle aziende - o di "altre universalità di beni" - quando ne sia controversa (la proprietà o) il possesso. Ora, la previsione di una controversia sulla proprietà dell'azienda - sia essa o no un'universalità di beni - si ricollega evidentemente al dettato dell'art. 2556, comma 1, c.c.; mentre l'ammissione di una controversia sul possesso dell'azienda discende dal collegamento di principio tra possesso ed esercizio di fatto di diritti reali stabilito dall'art. 1140 c.c. In conclusione, il complesso di queste disposizioni non consente di dubitare che, nell'intento del legislatore, l'azienda (nel caso esaminato dalla S.C. una farmacia) debba essere considerata unitariamente, sia sotto il profilo della proprietà (o dell'usufrutto; e con l'ovvia precisazione, anche in questo caso, che la proprietà del "complesso organizzato" non è proprietà dei singoli beni), sia sotto quello del possesso.

3. Trasferimento del possesso.

Secondo una recente pronuncia di Sez. 2, n. 13222/2014, Proto, Rv. 631145, il contratto atipico col quale le parti si obblighino al trasferimento del mero possesso, disgiunto dal diritto, è nullo per impossibilità dell'oggetto, in quanto l'animus possidendi, per la sua soggettività, può riferirsi solo al possessore attuale e non al possessore precedente. Siffatta conclusione conferma gli arresti pregressi (in questo senso già si erano espresse Sez. 2, n. 08502/2005, Oddo, Rv. 581621; Sez. 2, n. 09884/1996, Riggio, Rv. 500494; Sez. 2, n. 08528/1996, Vella, Rv. 499793; Sez. 2, n. 07283/1996, Vella, Rv. 499046) in ordine alla invalidità del trasferimento della signoria di fatto sulla cosa, in considerazione della natura del possesso, che costituisce una situazione di fatto e non un autonomo diritto. Tre ordini di motivazioni supportano la ricostruzione della Suprema Corte, che postulano tutte l'assunto secondo cui il possesso rappresenta una situazione di fatto (o uno stato di fatto), cui sono connesse importanti conseguenze giuridiche, che non determinano però in sé il mutamento o l'evoluzione di detta situazione in un autentico ed assestante diritto.

La prima ragione ostativa al riconoscimento del trasferimento del possesso in sé muove dall'esegesi dell'art. 1470 c.c., secondo il quale oggetto del contratto di compravendita è il trasferimento della proprietà o di altro diritto sulla cosa verso il corrispettivo di un prezzo. Sicché l'atto di trasferimento contemplato dal legislatore deve avere ad oggetto diritti e non situazioni di fatto come il possesso. Sebbene oggetto di detta figura negoziale possano essere anche diritti privi di natura reale (come i diritti di credito ovvero i diritti patrimoniali su beni immateriali, quali i diritti di autore o di brevetto), è escluso che oggetto di tale tipo contrattuale possa essere una posizione che, pur avendo rilevanza giuridica, non costituisca tuttavia un diritto. Conseguentemente il possesso, che è pacificamente qualificato come una mera situazione di fatto (segnatamente il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale ex art. 1140 c.c.), e non come un diritto, non può formare oggetto del contratto di compravendita.

La seconda motivazione è sviluppata in termini negativi. Infatti, si esclude che la tesi circa l'ammissibilità del trasferimento del possesso possa trovare fondamento nell'art. 1146 c.c. e, soprattutto, nel comma 2 dello stesso articolo, che disciplina l'accessione nel possesso. E tanto perché l'accessione nel possesso presuppone l'esistenza di un titolo di acquisto astrattamente idoneo a trasferire il diritto. Ebbene, se - per un verso - la successione e l'accessione del possesso consentono all'erede ed al successore a titolo particolare di unire il proprio possesso a quello esercitato dal dante causa, per goderne gli effetti ai fini dell'usucapione e della tutela possessoria nonché per qualsiasi altra finalità connessa ai vantaggi assicurati dalla legge a chi eserciti il possesso su una cosa - per altro verso -, in base alla norma in esame, il possesso continua nell'erede con effetto automatico dall'apertura della successione, e analogamente avviene nel caso della successione a titolo particolare (dal momento della immissione nel possesso della cosa trasferita), alla condizione che il passaggio dall'uno all'altro dei successivi possessori si ricolleghi e trovi la sua giustificazione in un titolo traslativo del bene che forma oggetto del possesso, anche se viziato, purché astrattamente idoneo a trasferire la proprietà o altro diritto reale che imponga la sostituzione di un soggetto ad un altro. Naturalmente il trasferimento del possesso può avvenire anche al di fuori di specifiche ipotesi negoziali o di successione mortis causa, come semplice atto giuridico, allorché un soggetto consegni ad un altro una cosa, rinunziando al potere che aveva sulla stessa, che comincia ad essere esercitato dall'altro soggetto, ma in tal caso non si verifica l'accessione nel possesso prevista dall'art. 1146 c.c. (in questo senso confronta Sez. U, n. 03369/1972, Saya, Rv. 361213; e più recentemente Sez. 6-2, n. 22348/2011, Matera, Rv. 619866; Sez. 2, n. 06353/2010, Migliucci, Rv. 611857; Sez. 2, n. 03177/2006, Colarusso, Rv. 586254; Sez. 2, n. 08502/2005, Oddo, Rv. 581621; Sez. 2, n. 12034/2000, Mazziotti Di Celso, Rv. 540115). Inoltre, la norma non prevede affatto la trasmissione del possesso da un soggetto all'altro, ma soltanto la possibilità per il successore a titolo particolare (acquirente o legatario) di unire al proprio possesso quello distinto e diverso del dante causa per goderne gli effetti. La regola della continuazione del possesso in capo all'erede o al legatario (perché questi ne possano godere gli effetti ai fini dell'usucapione e della tutela possessoria) sarebbe invece espressione di una scelta avente carattere di specialità, non estensibile a materie diverse da quelle espressamente previste. In conseguenza, il termine "autore", usato dal legislatore nell'art. 1146, comma 2, c.c., non può avere altro significato che quello di precedente titolare del diritto trasferito.

L'ultima spiegazione circa l'invalidità del passaggio a titolo derivativo del possesso (in realtà si tratta di un corollario di tale invalidità) si impernia sul fondamento giuridico degli acquisti a titolo originario. Ora, l'esercizio del possesso per un determinato numero di anni non dà luogo, di per sé, ad un diritto, ma costituisce soltanto il presupposto per ottenere il riconoscimento della proprietà (o di un diritto reale minore) usucapita, mentre l'acquisto vero e proprio del diritto esige l'accertamento di una sentenza dichiarativa, la cui valenza sarebbe assimilabile alla categoria giuridica degli accertamenti costitutivi. Ne discende che il trasferimento del diritto, basato sull'asserzione del trasferente circa l'avvenuto acquisto per usucapione, è impossibile, posto che oggetto di una vendita, come visto innanzi, può essere solo il trasferimento della proprietà di una cosa o comunque di un altro diritto, mentre gli effetti del possesso protratto nel tempo non sono ancora diritto. L'esercizio della signoria di fatto per il numero di anni stabilito dalla legge costituisce, infatti, solo il presupposto per ottenere il riconoscimento del diritto di proprietà (o di altro diritto reale) sulla cosa posseduta, mentre l'acquisto di tale diritto per effetto della usucapione, per potere essere fatto valere e quindi costituire il possibile oggetto di un eventuale contratto di compravendita, deve essere prima accertato e dichiarato nei modi di legge. A questa linea interpretativa sembra aderire altro arresto di Sez. 6-2, n. 07294/2011, Petitti, Rv. 617086, secondo cui, in tema di giudizio volto all'accertamento della proprietà di un bene immobile per intervenuta usucapione, la circostanza che esso sia destinato a pertinenza rispetto ad un altro bene di proprietà dell'istante non fa venire meno la necessità di procedere all'accertamento richiesto, non potendo tale destinazione essere considerata, di per sé, alla stregua di un modo di acquisto della proprietà.

All'opinione restrittiva della giurisprudenza circa la validità del trasferimento del possesso è poi sottesa, in ogni caso, la considerazione, che invece ha trovato formulazione espressa in dottrina, secondo cui non avrebbe in radice senso discorrere di un "trasferimento" del possesso. Dalla stessa nozione del possesso, definito dall'art. 1140 c.c., si evince la sua intrasmissibilità. Infatti, un'attività non è mai trasmissibile, ma può solo essere intrapresa, e l'intrasmissibilità è maggiormente evidente in ordine al possesso, in quanto l'attività che lo contraddistingue deve essere accompagnata dall'animus possidendi, cioè da un elemento che, per la sua soggettività, può essere proprio soltanto di colui che attualmente possiede e non di chi ha posseduto in precedenza. Se è vero, come ormai concordemente si afferma, che il possesso è una res facti e che come tale si qualifica in virtù del duplice elemento materiale (corpus possessionis) e psicologico (animus possidendi), allora si cadrebbe in contraddizione logica nel voler ricostruire come vicenda circolatoria quella per cui un possessore succede ad un altro. Perché vi sia possesso, infatti, è necessario (e sufficiente) che un soggetto ne abbia l'animus e, al contempo, eserciti un potere di fatto sulla cosa: si tratta, con ogni evidenza, di una situazione che, come è stato affermato, <<si esercita, ma non si trasferisce>>. Accade, cioè, che un soggetto che in precedenza era possessore non lo sia più e che, al contrario, un altro che prima non lo era lo diventi, senza che questa situazione composita possa trasferirsi dall'uno all'altro. Quindi, esattamente si è affermato in dottrina che ciò che si trasferisce è solo l'oggetto del possesso, il quale, invece, <<non si compra e non si vende, non si cede e non si riceve per effetto di un negozio>> e, perciò, <<l'acquisto a titolo derivativo del possesso è un'espressione da usarsi solo in senso empirico e traslato>>. Sicché il possesso, inteso come attività, è <<l'indice di una situazione in movimento>> (o dinamica), <<cui, come tale, conviene una valutazione soltanto in termini di attualità e non di mera potenzialità>> [NATOLI, Il possesso, Milano, 1992, 44]. L'unica eccezione a questa regola si ha nella successione universale, in quanto in tale ipotesi, in forza di una fictio legis, il possesso continua nell'erede con effetto dall'apertura della successione, indipendentemente dalla verificazione dei suoi presupposti di fatto.

Pertanto, il contratto, preliminare o definitivo, con cui le parti si siano, rispettivamente, obbligate ad alienare e ad acquistare, ovvero abbiano alienato ed acquistato, la sola situazione possessoria relativa ad un bene immobile è nullo, ai sensi degli artt. 1418 e 1325 c.c., per l'impossibilità dell'oggetto, poiché il possesso, in quanto costituente un'attività (art. 1140 c.c.), necessariamente accompagnata dall'animus possidendi, non è negozialmente trasferibile o non è affatto negoziabile, salva l'eccezione rappresentata dalla prevista continuazione, per effetto di una fictio legis, del possesso nell'erede (art. 1146, comma 1, c.c.).

3.1. Trasferimento di proprietà fondato sull'attestazione dell'usucapione a cura del disponente.

Da queste premesse dovrebbe derivarne anche un corollario. Non può essere altresì valido il contratto traslativo della proprietà (o di altro diritto reale), con il quale il disponente attesti che ha acquistato per usucapione la proprietà (o altro diritto reale) che si appresta a trasferire, benché non vi sia alcun accertamento giudiziale di tale acquisto a titolo originario (ovvero alcun accertamento o transazione raggiunta con l'intestatario che confermi tale acquisto). Anche in questo caso, ad essere trasferito è la res facti, poiché l'accertamento giudiziale dell'acquisto, ovvero l'accertamento o la transazione stragiudiziale raggiunta con l'intestatario (vedi art. 2643, n. 12 bis, c.c.), sebbene abbiano valenza puramente ricognitiva, non possono essere surrogati dall'attestazione unilaterale del disponente contenuta nel contratto e fungono da condicio iuris di efficacia. Nondimeno, su tale specifico punto l'orientamento della giurisprudenza di legittimità non è concorde. Siffatta contrapposizione riflette l'antagonismo tra valori conflittuali e difficilmente compatibili: da un lato, il principio della certezza <<statica>> dei rapporti giuridici e, dall'altro, l'esigenza di <<fluidità>> nella circolazione della ricchezza nel mercato.

Secondo un primo orientamento di Sez. 2, n. 09884/1996, Riggio, Rv. 500494, specificamente riferito agli atti traslativi a titolo oneroso, perché l'acquisto della proprietà di un immobile per effetto dell'usucapione possa essere fatto valere - ed il diritto acquistato possa formare oggetto di un contratto di vendita - deve essere dapprima accertato e dichiarato nei modi di legge. Al riguardo, si sostiene che, pur essendo l'usucapione un modo di acquisto a titolo originario, essa non opera automaticamente con il maturare del possesso ventennale, bensì esige un possesso pieno ed esclusivo, corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale, idoneo a determinare la prescrizione acquisitiva, condizioni necessarie che devono essere previamente controllate dal giudice. Pertanto, sino a quando non vi sia l'accertamento giudiziale dell'insorgenza del diritto di proprietà per effetto del possesso qualificato e continuato ex art. 1158 c.c., l'acquisto del diritto di proprietà non può essere dichiarato a vantaggio del possessore. Pur avendo la sentenza di usucapione natura dichiarativa e non costitutiva del diritto, nondimeno tale funzione di mero accertamento è condizione indispensabile perché il soggetto possa vantare il diritto di proprietà e disporne. Il possesso protratto nel tempo, dunque, non equivale al diritto di proprietà. Perché quest'ultimo emerga e spieghi i suoi effetti, occorre che sia dichiarato in via giudiziale (o mediante negozio di accertamento in contraddittorio con l'usucapito). La stipula dell'atto a cura del notaio sarebbe pertanto censurabile.

Per converso, altra pronuncia di Sez. 2, n. 02485/2007, Triola, Rv. 596957, ha affermato che non è nullo il contratto di compravendita con cui viene trasferito il diritto di proprietà di un immobile sul quale il venditore abbia esercitato il possesso per un tempo sufficiente al compimento dell'usucapione, ancorché l'acquisto della proprietà da parte sua non sia stato giudizialmente accertato in contraddittorio con il precedente proprietario. Nel corpo di tale pronuncia si smentisce che Cass. n. 09884/1996 costituisca un precedente in senso favorevole alla tesi della nullità ed, inoltre, si rileva che la ricostruzione secondo cui la compravendita di immobile, sul presupposto della dichiarazione unilaterale di usucapione a cura dell'alienante, sarebbe nulla, oltre che essere priva di qualsiasi supporto normativo e logico, è tacitamente disattesa da altre pronunce di legittimità, debitamente menzionate (vedi Sez. 1, n. 13184/1999, Papa, Rv. 531526; Sez. T, n. 10372/2000, Cicala, Rv. 539281).

Del resto, prosegue Cass. n. 02485/2007, se si aderisse alla tesi della nullità, si verificherebbe la strana situazione per cui chi ha usucapito sarebbe proprietario, ma non potrebbe validamente disporre del bene fino a quando il suo acquisto non sia accertato giudizialmente. Il che non sarebbe compatibile con il normale contenuto del diritto di proprietà ex art. 832 c.c. Di conseguenza, il notaio che si presti alla stipulazione di simile atto non incorrerebbe in alcuna responsabilità per negligenza professionale, nel momento in cui il rogito precisi che il venditore attesta di avere usucapito il bene oggetto di disposizione, senza che vi sia una corrispondente statuizione che acclari il perfezionamento di detto acquisto a titolo originario.

La questione inerente alla necessità dell'accertamento giudiziale dell'usucapione (ovvero di un accordo di accertamento o di transazione, cui partecipi l'intestatario) rimanda poi al tradizionale dibattito circa l'ammissibilità di un negozio di accertamento posto in essere fra privati. Con la precisazione, in ogni caso, che in questa evenienza l'accertamento riguarderebbe non già l'intestatario e l'usucapiente, bensì il presunto usucapiente ed il terzo acquirente. Secondo autorevole dottrina [SANTORO-PASSARELLI, Le dottrine generali del diritto civile, 9^ ed., rist., Napoli, 2002, 177], infatti, le parti private sarebbero prive del potere di accertamento, che costituirebbe invece un corollario della funzione giurisdizionale. Di conseguenza, sarebbe per le parti possibile accertare retroattivamente l'incerta situazione giuridica esistente solo in ipotesi eccezionali espressamente previste dalla legge (ad esempio, per il riconoscimento del figlio naturale ex artt. 250 ss. c.c.). Ulteriore opinione [GIORGIANNI, Il negozio d'accertamento, Milano, 1939, 1 ss.] ritiene, invece, pacificamente ammissibile il negozio di accertamento, sulla base del rilievo secondo cui la funzione dell'acclaramento si sostanzierebbe in un minus rispetto ai più penetranti poteri dispositivi attribuiti ai consociati dall'ordinamento (ad esempio, di alienazione del bene, di abbandono, etc.). Sennonché in questa ricostruzione non si tiene conto della circostanza che, quand'anche si reputi l'ammissibilità di un negozio di accertamento avente ad oggetto l'acquisto per usucapione (e l'attuale disposizione dell'art. 2643, n. 12 bis, c.c. parrebbe ammettere tale possibilità), sul piano subiettivo, siffatto accordo dovrebbe pur sempre riguardare l'intestatario e la parte che pretende di avere usucapito, non già quest'ultimo ed il terzo. Non è certo l'accettazione dell'acquirente la condizione che può far ritenere verificato il presupposto della vendita, id est l'avvenuto acquisto del diritto sul bene alienato in favore del venditore per usucapione. Per altro verso, l'acquisto a titolo originario non opera automaticamente in ragione dell'asserita protrazione del potere di fatto sulla cosa, ma postula comunque una declaratoria, giudiziale o negoziale, che acclari la ricorrenza delle condizioni per la produzione dell'effetto.

Aspetti ancora più problematici si presentano in ordine all'atto di donazione di immobile acquistato per usucapione non accertata giudizialmente. Secondo una tesi, infatti, tale figura ricadrebbe nel divieto di donazione di beni futuri, sanzionato con la nullità dall'art. 771 c.c. Questo perché l'interpretazione estensiva del disposto dell'art. 771 c.c. (sul punto dell'assimilazione alla fattispecie dell'art. 771 c.c. la questione pende dinanzi alla Sezioni Unite per effetto dell'ordinanza di rimessione di Sez. 2, n. 11545/2014) porterebbe ad includere in tale novero anche i beni altrui, come il cespite acquistato per usucapione non accertata giudizialmente in ipotesi di evizione dello stesso. In tal caso, dunque, il negozio di trasferimento del cespite sarebbe nullo ex art. 771 c.c. (così Sez. 6-2, n. 12782/2013, Manna, Rv. 626423; Sez. 2, n. 10356/2009, Giusti, Rv. 608011; per la tesi dell'inefficacia vedi Sez. 2, n. 01596/2001, Triola, Rv. 543649; che comunque sostengono tutte che il titolo sia astrattamente idoneo alla maturazione dell'usucapione breve). Ulteriore prospettazione sostiene però l'ammissibilità della donazione di un bene di cui sia dichiarata l'usucapione, ancorché in assenza di accertamento giudiziale sul punto. Ciò in quanto si tratterebbe della donazione di un bene qualificato come proprio e non già di un cespite altrui. Il donante, infatti, enuncerebbe un titolo comunque astrattamente idoneo ad escludere l'altruità della res. Sembrerebbe in tale prospettiva, peraltro, opportuno escludere espressamente la garanzia per l'evizione a carico del donante, al fine di elidere ogni rischio che siffatta donazione possa essere per questi fonte di obbligazioni o responsabilità. Ma anche questa opinione, sebbene in modo condivisibile escluda che la donazione basata sulla dichiarazione unilaterale di usucapione del donante possa essere ricondotta alla donazione di bene altrui, poiché il donante dispone del bene come proprio, nondimeno ipotizza la validità di simile atto sul presupposto che l'affermazione unilaterale del donante, in ordine al possesso continuato ed utile ad usucapire, costituisca titolo astrattamente idoneo al perfezionamento dell'acquisto in favore del donante stesso. Conclusione che, come anticipato, non persuade poiché la legittimazione dell'acquisto a titolo originario richiede un vaglio, giudiziale o negoziale, che coinvolga direttamente l'usucapito.

In conclusione, aderendo alla tesi dell'infungibilità dell'accertamento giudiziale dell'acquisto del diritto reale sul bene per usucapione ovvero del negozio di accertamento concluso tra intestatario ed acquirente per usucapione (eventualmente anche all'esito del perfezionamento del tentativo di media-conciliazione), il notaio deve rifiutarsi di stipulare un atto traslativo basato sull'attestazione unilaterale dell'acquisto a cura del disponente. E qualora l'atto sia ciononostante stipulato, esso dovrebbe ricadere nel radicale vizio di nullità sempre per impossibilità dell'oggetto (in difetto del presupposto insurrogabile della dichiarazione giudiziale dell'acquisto o del riconoscimento dell'intestatario). La vendita o la donazione di un immobile, di cui il disponente (alienante o donante) dichiari unilateralmente di avere maturato l'usucapione, non è un atto traslativo di bene altrui, ma astrattamente di bene proprio di chi dispone. Il che non toglie che oggetto del trasferimento non è ictu oculi un diritto ma il possesso sulla cosa, in difetto della verifica indefettibile dell'acquisto a titolo originario di tale diritto. Il trasferimento del diritto, fondato sull'attestazione unilaterale dell'acquisto a titolo originario, esclude a priori che tale acquisto sia intervenuto, sicché il disponente può rivendicare il solo possesso sul bene ed, al contempo, il medesimo possesso non può che costituire l'oggetto del trasferimento. Del resto, se così non fosse, verrebbe meno la ratio che connota l'istituto stesso dell'usucapione, che è quella di rispondere all'avvertita esigenza di attribuire definitività e certezza giuridica alla pacifica utilizzazione del bene protrattasi nel tempo. Di contro, ritenere sufficiente la mera dichiarazione unilaterale dell'acquisto per usucapione ai fini della validità dell'atto di disposizione, senza una pronuncia giudiziale o un negozio che confermino il tramutamento della situazione di fatto protratta nel tempo in diritto, è suscettibile di determinare ulteriori incertezze e conflitti di non poco momento. Ed ancora, siffatta impostazione non appare del tutto in linea con la ricostruzione individualistica della proprietà, come contemplata dalla Cedu (l'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1). Ammettere tale disposizione sulla scorta di una mera attestazione unilaterale del disponente significherebbe, infatti, ledere il principio del rispetto del bene altrui, che esige una verifica qualificata della maturazione dell'effetto, o quantomeno trasgredire la soglia minima esigibile dell'interesse generale nella regolamentazione dell'uso dei beni. Ora, se è pur vero che i singoli ordinamenti possono ammettere che con il decorso del tempo maturi l'acquisto a titolo originario del bene posseduto, nondimeno tale fattispecie acquisitiva deve essere circondata da un minimum di certezze in ordine al perfezionamento dell'acquisto (e non può sicuramente essere basata sulla mera dichiarazione del presunto usucapiente). Anche sul piano pratico sembra auspicabile che la stipulazione dell'atto traslativo sia posticipata alla previa declaratoria giudiziale (ovvero al riconoscimento dell'intestatario formale) dell'avvenuta usucapione. E a questo fine dovrebbe essere diretta anche l'opera qualificata del notaio. Sostenere che siffatta ricostruzione limiterebbe ingiustificatamente le facoltà di disposizione riconosciute al proprietario ai sensi dell'art. 832 c.c., quando i presupposti dell'usucapione sarebbero comunque maturati (benché non dichiarati da una pronuncia giudiziale o da un accordo tra le parti), porterebbe a conseguenze aberranti. Verrebbe, infatti, del tutto eluso il principio che subordina la legittimazione a disporre dei diritti alla titolarità dei medesimi. Se così fosse, la vendita o la donazione potrebbero perfezionarsi sulla base della dichiarazione unilaterale del disponente secondo cui il precedente atto traslativo compiuto dallo stesso disponente sarebbe nullo (sebbene non vi sia l'accertamento giudiziale di tale nullità) ovvero secondo cui tale atto si sarebbe risolto di diritto, in ragione della maturazione di una fattispecie di risoluzione automatica (diffida ad adempiere, clausola risolutiva espressa, termine essenziale), senza che vi sia il corrispondente accertamento di detta risoluzione. In prospettiva, sembra auspicabile una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione, volta a dirimere un contrasto in essere su indubbia questione di massima di particolare importanza.

4. Usucapione speciale per la piccola proprietà rurale.

Recentemente Sez. 6-2, n. 22476/2014, Proto, Rv. 633001, ha affrontato il problema della rilevanza della destinazione urbanistica ai fini della qualificazione di un fondo come rustico e, in quanto tale, soggetto alla disciplina dell'usucapione speciale per la piccola proprietà rurale di cui all'art. 1159 bis c.c. Si premette che la norma allude al fondo rustico che ricada in un comune classificato montano e non esige che esso ricada nella zona montana del comune classificato montano. Ne consegue che, qualora il comune presenti le caratteristiche altimetriche previste dalla legge per essere classificato montano, il fondo incluso nel territorio comunale può essere usucapito ai sensi dell'art. 1159 bis c.c., ancorché si trovi nel livello inferiore del territorio medesimo (Sez. 2, n. 11312/2012, Giusti, Rv. 623079). A tale fattispecie è equiparata, in base alle modifiche apportate alla l. n. 346 del 1976 dalla l. n. 97 del 1994, quella in cui i fondi rustici siano situati in territori non classificati montani, ma il loro reddito dominicale iscritto in catasto non superi complessivamente una certa soglia (Sez. 2, n. 14414/2006, Trombetta, Rv. 590176).

Al riguardo, la Corte ha sostenuto che, in tema di usucapione speciale per la piccola proprietà rurale, la destinazione urbanistica del bene costituisce elemento rilevante per la qualificazione del fondo come rustico, poiché, ove il fondo sia destinato ad insediamenti e attività diversi da quelli agricoli, viene meno lo scopo stesso della disposizione di cui all'art. 1159 bis c.c., volta ad incoraggiare e salvaguardare il lavoro rurale. In particolare, la questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità concerneva la rilevanza della diversa destinazione urbanistica di cui al programma di fabbricazione, quando il terreno sia catastalmente qualificato come fondo rustico e la stessa controparte abbia riconosciuto la sua destinazione agricola; sicché, secondo l'assunto dei ricorrenti, ai fini dell'applicazione della norma richiamata, sarebbe stato necessario fare riferimento all'effettiva destinazione del fondo e non ai dati formali conseguenti a provvedimenti adottati dalla p.a. Sennonché, la S.C. ha precisato che la destinazione urbanistica del bene non è elemento irrilevante al fine della qualificazione nel fondo come fondo rustico, essendo indubbio che un fondo destinato ad insediamenti e attività diversi da quelli agricoli non può essere considerato fondo rustico; in tal guisa verrebbe meno lo stesso scopo della disposizione di cui all'art. 1159 bis c.c., che ha la finalità di incoraggiare lo sviluppo e salvaguardare il lavoro agricolo, obiettivo non perseguibile in presenza di una destinazione urbanistica incompatibile.

Inoltre, non è sufficiente che il fondo sia iscritto nel catasto rustico, ma è necessario che esso sia destinato in concreto all'attività agraria (Sez. 2, n. 14577/2004, Bognanni, Rv. 575139), atteso che la suddetta usucapione può avere ad oggetto soltanto un fondo rustico inteso come entità agricola ben individuata, che sia destinata ed ordinata ad una propria vicenda produttiva; ciò tuttavia non vuol significare che la destinazione urbanistica, incompatibile con la destinazione agricola, non possa e non debba assumere rilievo. Pertanto, devono concorrere i requisiti della destinazione urbanistica, della iscrizione in catasto agrario e della concreta utilizzazione agricola del fondo (Sez. 2, n. 08778/2010, Piccialli, Rv. 612665).

La relativa disciplina speciale è inoltre applicabile ai soli acquisti a titolo originario della proprietà e non di altri diritti reali (Sez. 2, n. 00867/2000, Mazziotti di Celso, Rv. 533196) su fondi rustici, con o senza annessi fabbricati (Sez. U, n. 10301/1993, Triola, Rv. 483971). Ed, ai fini del compimento del periodo di quindici anni, necessario per l'usucapione speciale introdotta dalla l. 10 maggio 1976, n. 346, è invocabile anche il possesso ininterrotto iniziato prima dell'entrata in vigore della l. n. 346, senza che, in contrario, rilevi il disposto di cui all'art. 252 disp. att. c.c., mentre non può tenersi conto del possesso del fondo rustico di durata pari al periodo suddetto, ma interrottosi prima dell'entrata in vigore di tale legge (Sez. U, n. 10690/1993, Triola, Rv. 484085; Sez. 2, n. 05851/1999, Mensitieri, Rv. 527406).

Quanto al particolare procedimento regolato dalla l. 10 maggio 1976, n. 346, la S.C. ha chiarito che il decreto di riconoscimento della proprietà rurale non ha valore di sentenza e, quindi, non è idoneo a passare in cosa giudicata, conferendo soltanto una presunzione di appartenenza del bene a favore del beneficiario del provvedimento fino a quando, a seguito dell'opposizione di cui all'art. 3 della citata l., non sia emessa pronuncia di accertamento della proprietà. Ne consegue che, pur in difetto di opposizione, non rimane precluso al proprietario del bene di far accertare, in un giudizio ordinario, il proprio diritto dominicale, proprio al fine di ottenere una statuizione che abbia idoneità a passare in giudicato e a divenire, dunque, incontrovertibile (Sez. 2, n. 16238/2011, Carrato, Rv. 618715). Del resto, ove il giudizio di opposizione si estingua, gli effetti del decreto devono intendersi caducati (Sez. 2, n. 14373/2004, Malpica, Rv. 575058). In ultimo, nel caso in cui l'istante non osservi gli oneri di pubblicità e di notifica che gli competono con riferimento ad una richiesta divenuta tale in quanto già depositata, entro il periodo di tempo ragionevolmente necessario dato all'istante per assolvere tali oneri, il giudice deve dichiarare l'inammissibilità del ricorso. Qualora tali difetti di pubblicità o notifica siano rilevati nel giudizio di gravame, il giudice dell'appello deve dichiarare nulla la pronuncia impugnata e rimettere le parti davanti al giudice di primo grado, ai sensi dell'art. 354 c.p.c. (trattandosi di ipotesi assimilabile alla nullità della notifica dell'atto introduttivo del giudizio avente la forma della citazione).

5. Interruzione del termine per usucapire.

L'art. 1165 c.c. prevede espressamente che le disposizioni relative all'interruzione della prescrizione si applicano anche all'usucapione, in quanto compatibili. È interessante, all'esito, analizzare la posizione della giurisprudenza di legittimità in ordine alla concreta individuazione - e al relativo assetto - di tali cause di interruzione, siano esse naturali o giudiziali [DE MARTINO, Del possesso, in Commentario di diritto civile, a cura di ScialojaBranca, Bologna-Roma, 1984, 105], in forza del rinvio all'elencazione tassativa delle cause di interruzione della prescrizione, che esclude la possibilità di contemplare atti di interruzione diversi da quelli previsti dalla legge (Sez. 2, n. 16234/2011, Falaschi, Rv. 618663; Sez. 2, n. 13625/2009, Mazzacane, Rv. 608623). In primo luogo, è stato espressamente affermato che il termine per usucapire si interrompe in ragione del riconoscimento del diritto altrui ex art. 2944 c.c. (Sez. 6-2, n. 19706/2014, Giusti, Rv. 632364). Infatti, il riconoscimento del diritto altrui da parte del possessore è atto incompatibile con la volontà di godere il bene uti dominus. Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito impugnata, la quale aveva attribuito valore di riconoscimento alla sottoscrizione, da parte del possessore, della domanda di ammissione al concordato preventivo presentata dal proprietario, nonché all'adesione prestata dal medesimo possessore ad una domanda di divisione presupponente l'altrui proprietà del bene. E ciò sebbene l'atto introduttivo del giudizio di divisione ereditaria in sé non interrompa il decorso del tempo utile per usucapire da parte del convenuto, tale atto non essendo rivolto alla contestazione diretta ed immediata del possesso (Sez. 2, n. 06785/2014, Falaschi, Rv. 630156). Il riconoscimento del diritto altrui, da parte del possessore, quale atto unilaterale non recettizio incompatibile con la volontà di godere del bene uti dominus, interrompe il termine utile per l'usucapione anche quando sia effettuato nei confronti di un soggetto diverso dal titolare del diritto stesso (Sez. 2, n. 18207/2004, Colarusso, Rv. 576943). Detto riconoscimento può essere dimostrato anche con prova testimoniale. Per converso, non interrompe il termine la conoscenza o la manifestazione di tale conoscenza, da parte del possessore, della titolarità del diritto sul bene in capo ad un terzo. Infatti, l'usucapione richiede solo il possesso, inteso come esercizio di un potere di fatto sulla cosa con la volontà di esercitarlo alla stregua di un proprietario, e non è, quindi, incompatibile con la conoscenza del diritto altrui né con una dichiarazione rivolta ad un terzo relativa al titolo di proprietà del titolare formale intestatario (Sez. 2, n. 25245/2013, Proto, Rv. 628796). Pertanto, per escludere la sussistenza del possesso utile all'usucapione non è sufficiente il riconoscimento o la consapevolezza del possessore circa l'altrui proprietà del bene, occorrendo, invece, che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per i fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare, atteso che l'animus possidendi non consiste nella convinzione di essere titolare del diritto reale, bensì nell'intenzione di comportarsi come tale, esercitando le corrispondenti facoltà (Sez. 2, n. 26641/2013, Migliucci, Rv. 628547). Così l'espressione specifica della volontà di acquisto del bene posseduto, esternata direttamente al proprietario (Sez. 2, n. 25250/2006, Fiore, Rv. 593763), è sinonimo di riconoscimento e, quindi, determina interruzione del termine utile ad usucapire. Inoltre, il riconoscimento, affinché possa interrompere il termine, deve provenire direttamente dal soggetto che lo manifesta o da soggetto abilitato ad agire in nome e per conto di quest'ultimo (Sez. 2, n. 07847/2008, Mensitieri, Rv. 602473). Viceversa, quando la disponibilità all'acquisto dell'immobile sia manifestata successivamente al decorso del termine di usucapione, non si configura per ciò solo un'abdicazione al diritto acquisito per usucapione, poiché la rinuncia tacita alla maturazione di tale acquisto postula un'incompatibilità assoluta fra il comportamento del possessore e la volontà del medesimo di avvalersi della causa di acquisto, il che non si realizza nel caso di mera disponibilità ad effettuare la traslazione della proprietà che sia riconducibile all'intento del possessore di regolarizzare la propria posizione e di eliminare il contenzioso in atto (Sez. 2, n. 17321/2015, Falaschi, Rv. 636219).

Il termine utile ad usucapire è interrotto anche dal perfezionamento di atti o comportamenti che radicano l'istituto del costituto possessorio, ossia il passaggio da una signoria di fatto inquadrabile nell'alveo dell'art. 1140 c.c. ad una situazione degradata di detenzione. In tale evenienza a mutare non è l'elemento oggettivo del corpus, che può continuare in modo invariato, bensì l'elemento subiettivo dell'animus possidendi (ovvero la sopravvenienza di un titolo identificativo della detenzione qualificata). Nondimeno, è dibattuto in giurisprudenza se tale effetto possa risalire all'emissione di un decreto di esproprio. Secondo un primo orientamento (Sez. 1, n. 06742/2014, Benini, Rv. 630047; Sez. 1, n. 13669/2007, Benini, Rv. 597367), il decreto di espropriazione è idoneo a far acquisire la proprietà piena del bene, e ad escludere qualsiasi situazione, di diritto o di fatto con essa incompatibile, con la conseguenza che, qualora il precedente proprietario, o un soggetto diverso, continui ad esercitare sulla cosa attività corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà, la notifica del decreto comporta la perdita dell'animus possidendi, derivandone che, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso ad usucapionem, è necessario un atto di interversio possessionis. Sul punto già a suo tempo si era espressa Sez. U, n. 03563/1991, Girone, Rv. 471551, che aveva ritenuto che, dopo l'adozione ed esecuzione del provvedimento di occupazione d'urgenza, l'eventuale protrarsi del godimento del fondo da parte del privato deve ascriversi a mera tolleranza della pubblica amministrazione e, pertanto, non può integrare possesso, come tale tutelabile davanti al giudice ordinario.

Di contrario avviso sono altre pronunce (Sez. 6-2, n. 05996/2014, Carrato, Rv. 629806; Sez. 2, n. 25594/2013, Carrato, Rv. 628831; Sez. 1, n. 05293/2000, Sotgiu, Rv. 535970; Sez. 2, n. 13558/1999, Mazzacane, Rv. 531836), che valorizzano la non alterazione dell'elemento soggettivo, pur in presenza di un provvedimento ablatorio, fino alla concreta immissione in possesso. Secondo detta ricostruzione, in tema di possesso ad usucapionem, tanto il trasferimento volontario quanto quello coattivo di un bene non integrano necessariamente, di per sé, gli estremi del constitutum possessorium, poiché - con particolare riguardo ai trasferimenti coattivi conseguenti ad espropriazione per pubblica utilità - il diritto di proprietà è trasferito contro la volontà dell'espropriato/ possessore, e nessun accordo interviene fra questi e l'espropriante, né in relazione alla proprietà, né in relazione al possesso. Ne consegue che il provvedimento ablativo non determina, ex se, un mutamento dell'animus rem sibi habendi in animus detinendi in capo al proprietario espropriato, il quale, pertanto, può del tutto legittimamente invocare, nel concorso delle condizioni di legge, il compimento in suo favore dell'usucapione (a ciò non ostando, tra l'altro, il disposto degli artt. 52 e 63 l. n. 2359/1865) tutte le volte in cui alla dichiarazione di pubblica utilità non siano seguiti né l'immissione in possesso, né l'attuazione del previsto intervento urbanistico da parte dell'espropriante, del tutto irrilevante appalesandosi, ai fini de quibus, l'acquisita consapevolezza dell'esistenza dell'altrui diritto dominicale.

Secondo una certa impostazione, siffatto contrasto rifletterebbe l'eterogeneità di prospettazioni in ordine agli elementi identificativi della detenzione. Se si aderisse alla tesi secondo cui la detenzione è individuata dal titolo (costitutivo di un diritto personale di godimento ovvero di un'obbligazione), senza che assuma alcun pregio l'elemento spirituale, dovrebbe propendersi per la prima ricostruzione, in forza della quale basterebbe la notifica del provvedimento ablatorio per determinare gli effetti del costituto possessorio. Optando, invece, per la tesi secondo cui la detenzione si individua per mezzo dell'animus detinendi, non basterebbe il mero decreto espropriativo, in difetto della relativa attuazione, a giustificare il mutamento del possesso in detenzione. La ricostruzione non convince poiché, indipendentemente dalla teoria cui si aderisca ai fini della discriminazione tra possesso e detenzione, resta comunque fermo che traditio brevi manu e constitutum possessorium sono forme "consensuali" di trasferimento del possesso, senza che sia intaccato l'elemento materiale (nella prima ipotesi con evoluzione della detenzione in possesso e nella seconda con la degradazione del possesso in detenzione), sicché, affinché tali meccanismi possano operare in concreto, è necessario il coinvolgimento (rectius il consenso) delle parti direttamente interessate dalla traslazione del possesso ovvero che il titolo riguardi immediatamente tali parti. Per contro, nel caso del provvedimento unilaterale ed autoritativo di esproprio non vi è alcuna partecipazione del possessore del bene espropriato, con la conseguenza che, nonostante la notifica del decreto a cura dell'amministrazione terza, la situazione di chi vanta un pregresso potere di fatto sulla res continua a mantenersi tale, sino all'immissione dell'amministrazione nel possesso. Appare, dunque, più plausibile la tesi che disconosce al decreto in sé l'idoneità a costituire una forma di costituto possessorio.

Al contempo, l'atto di disposizione del diritto dominicale da parte del proprietario in favore di terzi, anche se conosciuto dal possessore, non esercita alcuna incidenza sulla situazione di fatto utile ai fini dell'usucapione, rappresentando, rispetto al possessore, res inter alios acta, ininfluente sulla prosecuzione dell'esercizio della signoria di fatto sul bene, non impedito materialmente, né contestato in modo idoneo (Sez. 2, n. 18095/2014, Scalisi, Rv. 631780).

Interrompe, invece, il termine utile ad usucapire l'azione di reintegrazione, anche qualora venga respinta per tardività, atteso che, ai fini della produzione dell'effetto interruttivo, non rileva l'esito dell'azione, ma la volontà di riacquistare il possesso mediante un atto valido ad instaurare il giudizio (Sez. 2, n. 18353/2013, Scalisi, Rv. 627365).

La persistenza del possesso non è ancora intaccata dagli atti di diffida e di messa in mora, quali atti idonei ad interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione, ma non anche il termine per usucapire, potendosi esercitare il possesso anche in aperto e dichiarato contrasto con la volontà del titolare del diritto reale (Sez. 2, n. 15199/2011, D'Ascola, Rv. 618610). Così come il potere di fatto sulla cosa non è interrotto dalla proposizione davanti al giudice amministrativo dell'impugnazione avverso la concessione edilizia rilasciata al possessore per l'opera da cui discende l'occupazione dell'immobile, in quanto l'eventuale annullamento dell'atto amministrativo non implica comunque che il ricorrente recuperi il possesso del bene oggetto dell'intervento edilizio (Sez. 2, n. 20815/2015, D'Ascola, Rv. 636665).

In ultimo, non costituisce in senso stretto un caso di interruzione l'ipotesi in cui, ai fini dell'acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella legale, nel corso del tempo necessario ai fini di tale acquisto, l'originario manufatto (consistente, ad esempio, in un rudere fatiscente) sia stato demolito e sostituito con un immobile avente una differente altezza ed una diversa localizzazione rispetto alle fondamenta ed all'area di sedime del preesistente, poiché in questa evenienza sono integrati gli estremi di una nuova costruzione e non di un intervento di ristrutturazione, con conseguente venir meno dell'identità del bene occorrente per l'unitarietà del possesso ad usucapionem (Sez. 2, n. 14902/2013, Scalisi, Rv. 626588).

. BIBLIOGRAFIA

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Santoro-Passarelli, Le dottrine generali del diritto civile, 9^ ed., rist., Napoli, 2002;

Giorgianni, Il negozio d'accertamento, Milano, 1939.

  • responsabilità contrattuale

CAPITOLO V

LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015.

(di Dario Cavallari )

Sommario

1 La responsabilità della Pubblica amministrazione per i danni arrecati ai terzi nell'esercizio della sua attività: cenni generali. - 2 La responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione. - 3 La vicenda processuale. - 4 La decisione: i punti fondamentali. - 5 Considerazioni finali. - BIBLIOGRAFIA

1. La responsabilità della Pubblica amministrazione per i danni arrecati ai terzi nell'esercizio della sua attività: cenni generali.

Il modello di responsabilità della P.A. per i danni causati ai terzi qualora agisca nell'esercizio delle sue funzioni si è continuamente evoluto, nel nostro ordinamento giuridico, fin dalla nascita dello stato unitario.

Prima dell'entrata in vigore della Costituzione repubblicana la sua ammissibilità in via generale era, nella sostanza, esclusa, in ragione della fondamentale incompatibilità del perseguimento dell'interesse pubblico con il concetto stesso di responsabilità.

I principi basilari di questa responsabilità, ove ammessa, erano stati elaborati, in origine, dalla dottrina italiana sulla base delle disposizioni della legge 20 marzo 1865, n. 2248, e della successiva legge 25 giugno 1865, n. 2359, in tema di espropriazione per pubblica utilità.

La legge n. 2248 del 1865 prevedeva per il privato la possibilità di agire in giudizio, davanti all'autorità giudiziaria ordinaria, a difesa dei propri diritti civili, affinché l'atto amministrativo fosse disapplicato per non conformità alla legge.

Una volta ottenuta la sentenza di condanna il giudice amministrativo doveva annullarlo, adeguandosi alla sentenza civile.

Il risarcimento era previsto nel caso di danno da attività materiale, situazione nella quale la P.A. rispondeva come qualsiasi altro ente, e ad essere tutelati erano solo i diritti soggettivi e non gli interessi legittimi.

In seguito, il fondamento della responsabilità civile della P.A. per lesione di diritti soggettivi di terzi è stato rinvenuto nell'art. 28 Cost., per il quale <<I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti.

In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici>>.

Alla luce di detta disposizione, tale responsabilità, qualificata come extracontrattuale, è stata ricostruita in vari modi dalla dottrina.

In primo luogo, è stata ipotizzata una responsabilità indiretta della P.A., che avrebbe dovuto rispondere per culpa in vigilando o in eligendo con riferimento alla condotta del dipendente, unico soggetto responsabile in via diretta.

Altra impostazione ha affermato l'esistenza di una duplice responsabilità della P.A., la quale sarebbe stata diretta e principale per i danni commessi dai dipendenti nell'esercizio di funzioni dell'ente e indiretta qualora detti danni fossero esulati dall'ambito di queste funzioni.

Per la teoria della responsabilità diretta, invece, l'art. 28 Cost. avrebbe obbligato la P.A. a risarcire i danni dovuti a condotte dei suoi dipendenti.

In particolare, si è sostenuto che vi sarebbe stata una immedesimazione organica fra amministrazione e dipendente, e che la distinzione fra la responsabilità diretta della P.A. per gli illeciti dei dipendenti e quella del subordinato autore del fatto avrebbe avuto una valenza semplicemente processuale.

Le Sez. U, n. 00500/1999, Preden, Rv. 530553, hanno esteso la responsabilità de qua, ancora intesa come aquiliana, anche alle lesioni di interessi legittimi.

Peraltro, soprattutto dopo l'entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241, sono state proposte letture alternative in ordine alla questione della natura di detta responsabilità, non essendo chiaro se la parte pubblica dovesse rispondere dei danni arrecati ai soggetti con cui interagiva nell'esercizio dei suoi poteri a titolo contrattuale od aquiliano.

Infatti, in ambito amministrativo ha avuto un notevole seguito la categoria della cosiddetta responsabilità da contatto sociale (o da contatto amministrativo), da cui derivano obblighi di protezione per le parti (Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 1945 del 2003).

Sulla base di questa categoria la giurisprudenza ha enucleato, così, dei doveri specifici in capo all'amministrazione, nascenti dal contatto sorto fra la stessa ed i cittadini, la violazione dei quali si traduceva in una responsabilità modellata sulla falsa riga di quella contrattuale.

La base normativa per questa ricostruzione è stata individuata nella legge 241 del 1990, con cui sono stati positivizzati i principi di efficienza e di economicità dell'azione amministrativa e di partecipazione del privato al procedimento amministrativo.

L'interessato, pertanto, avrebbe avuto la possibilità di contestare la violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, che si ponevano quali limiti esterni alla discrezionalità amministrativa.

D'altronde, proprio l'esistenza di un legame fra P.A. e privato, determinato dall'instaurazione del procedimento amministrativo, avrebbe dovuto fare escludere il ricorso all'art. 2043 c.c., disposizione concernente le lesioni patite da soggetti estranei al danneggiante.

Pure una parte della giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 00157/2003, Benini, Rv. 559550) ha accolto una lettura contrattualistica della responsabilità della P.A.

Tale impostazione è oggi considerata recessiva, anche alla luce dell'approvazione del Codice del Processo Amministrativo (allegato 1 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104), che avrebbe ormai optato per un modello di responsabilità della P.A. di natura aquiliana.

In questo modo, hanno perso di interesse, altresì, le ulteriori ricostruzioni alternative di detta responsabilità, che la avevano inquadrata ora, in via generale, nello schema precontrattuale (Tar Lombardia, Milano, Sez. 3, n. 1869 del 2000), ora in quello della responsabilità speciale (Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 1047 del 2005).

2. La responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione.

La responsabilità precontrattuale di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c. consegue principalmente alla violazione del dovere di buona fede nelle trattative contrattuali e, come ormai affermato sia in dottrina che in giurisprudenza, rappresenta una specie della responsabilità aquiliana.

La dottrina è solita distinguere due tipi di responsabilità precontrattuale della P.A. [CARINGELLA, 2007].

Il primo è la responsabilità precontrattuale cosiddetta spuria, con la quale si designa l'obbligazione risarcitoria avente ad oggetto i danni cagionati dall'adozione di provvedimenti illegittimi nel corso della serie procedimentale di evidenza pubblica.

Il secondo tipo è rappresentato dalla responsabilità precontrattuale cosiddetta pura, che discende dalla trasgressione dei canoni comportamentali privatistici posti dagli artt. 1337 e 1338 c.c.

Nel primo caso, viene in rilievo una responsabilità da lesione di interessi legittimi solo connessa alle trattative precontrattuali e la P.A. è vista come un cattivo amministratore e non come un cattivo contraente.

Nel secondo, invece, il soggetto pubblico non adotta provvedimenti illegittimi, ma tiene comportamenti illeciti, per cui è l'attività, non l'atto della P.A. a non avere rispettato i canoni di correttezza e buona fede.

È questa la responsabilità precontrattuale propriamente intesa che qui viene in rilievo.

Tale responsabilità impone la necessità di mediare tra due opposti interessi, entrambi meritevoli di protezione.

Infatti, se da una parte occorre garantire ai cittadini una tutela nei confronti dei pubblici poteri, dall'altra la P.A. necessita di uno spazio d'azione che le consenta di realizzare il pubblico interesse in maniera efficiente.

L'esito del bilanciamento di questi opposti interessi dipende dalla preminenza che l'ordinamento riconosce all'uno o all'altro.

Prima dell'entrata in vigore dell'attuale codice civile, detta preminenza era riconosciuta alla parte pubblica, e, quindi, era escluso un modello generale di responsabilità precontrattuale che, comunque, era riferita solo ai rapporti fra privati.

Infatti, si sosteneva che, una volta entrata in contatto con il contraente, l'amministrazione restasse libera di valutare in maniera discrezionale la convenienza alla stipulazione del contratto e che, perciò, l'ammissione di un sindacato giurisdizionale in materia avrebbe violato il principio della separazione dei poteri.

In seguito, tale posizione è stata superata (ex multis Sez. 3, n. 01142/1963, Sbrocca, Rv. 261669), poiché si è osservato, valorizzando i principi della parità contrattuale e della solidarietà sociale, che buona fede e correttezza rappresentavano canoni di valutazione della condotta del contraente durante le trattative riferibili pure all'amministrazione, non avendo alcuna correlazione con profili inerenti alla legittimità e alla convenienza dell'azione amministrativa [CHINÈ, 2003, 803].

Ne conseguiva che ricorreva una responsabilità precontrattuale della P.A. ogni volta che questa, nei rapporti con i terzi, avesse agito in contrasto con i principi di correttezza e buona fede e, quindi, non avesse tenuto il contegno esigibile dal corretto contraente.

Si è ammessa, così, l'applicazione dell'art. 1337 c.c. ai contratti pubblici, limitatamente ai comportamenti tenuti durante la fase terminale delle trattative, ed è stata accolta una nozione restrittiva del concetto di "parti", che considerava tali solo i soggetti identificati come possibili futuri contraenti ed escludeva la responsabilità precontrattuale nelle fasi precedenti, quando i concorrenti erano ancora una pluralità.

Perché si potesse parlare di un obbligo di lealtà della P.A., perciò, era necessario che venisse in essere una relazione specifica tra soggetti in trattativa.

Tale relazione era esclusa nei casi di licitazione privata, di pubblico incanto e di appalto concorso, poiché gli interessati non rivestivano la qualifica di contraenti, ma di partecipanti alla gara, e non potevano, come tali, vantare un diritto alla buona fede nelle trattative, bensì un interesse legittimo al corretto esercizio del potere (Sez. U, n. 04673/1997, Vella, Rv. 504705).

La responsabilità precontrattuale era ammessa, invece, al di fuori delle procedure di evidenza pubblica, cioè quando, individuato il soggetto contraente, l'aggiudicatario fosse divenuto parte nella trattativa negoziale, con possibilità, di invocare l'applicazione delle regole di correttezza e buona fede ove la P.A. avesse revocato in autotutela la gara, rilevando, ad esempio, un errore nel procedimento seguito.

La responsabilità della P.A. in ambito di gara era individuata esclusivamente nel corso di una trattativa privata con un unico destinatario, nella quale il privato assumesse il ruolo di parte della trattativa stessa, e nel contesto di rapporti successivi all'aggiudicazione della gara.

Ciò in quanto si riteneva che i procedimenti che conducevano alla scelta dei contraenti ricorrendo ai pubblici incanti, all'appalto concorso e alla licitazione privata fossero stati previsti dalla legge nell'interesse esclusivo della parte pubblica e non dei privati concorrenti.

Era negata, così, ogni responsabilità precontrattuale della P.A. con riguardo ai comportamenti tenuti in sede di gara o nei procedimenti amministrativi preordinati alla conclusione dei contratti ad evidenza pubblica, stante la non risarcibilità degli interessi legittimi.

Solo più tardi tale forma di responsabilità è stata ravvisata anche nel procedimento ad evidenza pubblica, ma esclusivamente nell'ipotesi di condotta illecita posta in essere successivamente all'aggiudicazione e nella fase precedente la stipulazione del contratto.

È stata affermata, allora, la responsabilità precontrattuale della P.A. nel caso di mancata stipulazione del contratto con l'impresa aggiudicataria senza plausibili motivi di pubblico interesse (Sez. U, n. 04673/1997, Vella, Rv. 504705), ovvero di impedimento dell'attività di controllo del contratto o di omissione colposa o dolosa della redazione formale dello stesso (Sez. 1, n. 02255/1987, Maiella, Rv. 451481).

Tale responsabilità assumeva rilevanza dopo che il ricorrente aveva ottenuto effetti concretamente vantaggiosi, come l'aggiudicazione, per poi perderli nonostante l'affidamento ormai conseguito dalla parte interessata.

Occorre rilevare, però, come la giurisprudenza, in primo luogo amministrativa (ex multis Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 6 del 2005; Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 790 del 2014; Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 1142 del 2015), sia oggi giunta a riconoscere l'applicabilità anche ai soggetti pubblici, sia nell'ambito di trattative negoziali condotte senza procedura di evidenza pubblica, sia nel corso delle procedure di gara e prima dell'aggiudicazione, dell'obbligo di improntare la propria condotta al canone di buona fede e correttezza sancito nell'art. 1337 c.c. [CHINÈ, 2003, 803].

In tal modo, si vuole sanzionare la P.A. che abbia ingenerato nella controparte privata affidamenti ingiustificati ovvero abbia leso, senza giusta causa, affidamenti legittimamente ingenerati, imponendo alla stessa amministrazione l'obbligo di valutare con diligenza le concrete possibilità di positiva conclusione della trattativa e di informare con tempestività la controparte dell'eventuale esistenza di cause ostative rispetto a detto esito.

Con specifico riferimento alle procedure ad evidenza pubblica, il Consiglio di Stato ha, quindi, avuto cura di precisare che le regole di condotta in esame non possono essere riconducibili soltanto ad una o più singole fasi in cui si suddivide la gara, poiché ognuna di dette fasi, pur se distinta da quella successiva e da quella precedente, tende all'unico fine della stipulazione del contratto.

Ne consegue che già da prima della sottoscrizione del contratto l'amministrazione è obbligata al rispetto dei principi della buona fede e correttezza nelle trattative e che l'applicazione di tali principi non può essere circoscritta al periodo successivo alla determinazione del contraente.

La disciplina in materia di culpa in contrahendo non necessita, infatti, di un rapporto personalizzato fra P.A. e privato, che troverebbe la sua unica fonte nel provvedimento di aggiudicazione, ma è posta a tutela del legittimo affidamento nella correttezza della controparte, che sorge sin dall'inizio del procedimento, non potendosi scindere un comportamento che si presenta unitario e che, conseguentemente, non può che essere valutato nella sua complessità, estrinsecandosi sotto forma di atti che hanno al contempo una valenza sia pubblicistica che negoziale.

Costituisce, pertanto, recente conquista giurisprudenziale l'affermazione della responsabilità precontrattuale della P.A. nell'ipotesi di svolgimento di attività amministrativa legittima, ma lesiva dei principi di affidamento e buona fede.

L'importanza del cambiamento giurisprudenziale in questione si coglie se si considera, con specifico riferimento all'eventualità che un contratto pubblico non sia stipulato o che la relativa approvazione sia negata, che l'attività della P.A. che viene contestata ha natura spiccatamente provvedimentale e viene svolta all'interno di un procedimento e che, in un'ottica tradizionale, il soggetto coinvolto nella procedura di evidenza pubblica è titolare di una posizione di interesse e non di un diritto alla stipulazione o all'approvazione.

Seguendo questa impostazione, pure la giurisprudenza della Corte di cassazione, con Sez. 1, n. 15260/2014, Cristiano, Rv. 631507, ha iniziato a ritenere applicabile l'art. 1337 c.c. alla P.A. ove un ente pubblico, anche nell'ambito di una procedura ad evidenza pubblica, abbia posto in essere, nelle trattative con i terzi, delle condotte contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede, ravvisandosi una responsabilità della parte pubblica qualora ricorrano due elementi, uno positivo e l'altro negativo, rappresentati dall'affidamento incolpevole ingenerato dal comportamento della stazione appaltante e dall'assenza di una giusta causa alla mancata conclusione del procedimento.

3. La vicenda processuale.

Nella fattispecie oggetto di Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635222, una società aveva convenuto il Ministero per i Lavori Pubblici per sentire dichiarare la risoluzione di un contratto di appalto per la costruzione di opere e la condanna del convenuto al risarcimento dei danni e al pagamento degli interessi maturati sull'anticipazione e di altre voci.

In particolare, a seguito di una gara a licitazione privata conclusasi con l'aggiudicazione dell'appalto, il Ministero aveva proceduto alla consegna immediata dei lavori per ragioni d'urgenza, per poi successivamente stipulare ed approvare il contratto con decreto ministeriale.

Peraltro, la Corte dei conti aveva negato la necessaria registrazione e, quindi, i lavori, sospesi dalla P.A. a distanza di diciassette mesi dalla consegna, non erano potuti proseguire.

Per queste ragioni, parte attrice aveva sostenuto che il contratto, essendo valido ed efficace, doveva essere risolto per inadempimento del Ministero e, in subordine, che questo doveva essere condannato per responsabilità precontrattuale, avendo posto in essere un comportamento contrario ai principi di buona fede e correttezza.

Le sue domande, però, erano state respinte dalle corti di merito.

Il punto della controversia che qui interessa, pertanto, concerne la configurabilità di una responsabilità della P.A. per la mancata approvazione definitiva di un contratto, in un caso in cui essa aveva ingenerato nel privato un ragionevole affidamento in ordine alla regolare esecuzione del contratto stesso, in quanto aveva proceduto alla consegna dei lavori d'urgenza senza verificare, già nella fase precontrattuale, l'effettiva eseguibilità dell'opera, rivelatasi, poi, non realizzabile.

4. La decisione: i punti fondamentali.

La Corte di cassazione, adita dall'impresa danneggiata, dopo avere escluso che il contratto, seppure perfetto nei suoi elementi costitutivi, potesse essere dichiarato risolto per inadempimento, stante la mancanza del necessario visto di registrazione della Corte dei conti, ha affrontato la questione della sussistenza dell'eventuale responsabilità precontrattuale della P.A. per violazione degli artt. 1337 e 1338 c.c., a causa del suo comportamento colpevole sin dalla fase della progettazione dell'opera.

Era stato dedotto che detta responsabilità sarebbe conseguita alla circostanza che la Corte dei conti aveva riscontrato la carenza della necessaria autorizzazione del Ministero dei Beni culturali e ambientali ed aveva svolto osservazioni critiche su talune scelte tecniche effettuate dalla P.A. stessa.

In tal modo, sarebbe rimasto frustrato, ad avviso di parte ricorrente, l'affidamento ragionevolmente riposto dall'impresa nella genuinità del progetto, la cui attuazione era oggetto di un contratto stipulato e approvato e di cui essa aveva iniziato l'esecuzione, a seguito della consegna anticipata dei lavori in via d'urgenza.

Peraltro, la P.A. aveva omesso di fornire giustificazioni del proprio comportamento, avendo sospeso i lavori per un lungo periodo, senza informare l'impresa interessata.

Era criticato, soprattutto, l'assunto della corte territoriale, secondo la quale la responsabilità precontrattuale del Ministero doveva essere esclusa alla luce della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica da parte del Ministero medesimo nel procedimento di licitazione, che si era svolto regolarmente, come si desumeva dal fatto che le opere erano state approvate dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, mentre il rifiuto della Corte dei conti di autorizzare la registrazione, per la mancanza del visto di conformità da parte del Ministero dei Beni culturali e ambientali, non dimostrava che l'amministrazione fosse a conoscenza di elementi ostativi alla realizzazione delle opere.

La Corte di cassazione, nell'accogliere il ricorso, è partita dalla considerazione che la responsabilità precontrattuale della P.A. non era una responsabilità da provvedimento, ma da comportamento, e presupponeva la violazione dei doveri di correttezza e buona fede nella fase delle trattative e della formazione del contratto. Ne conseguiva che non aveva alcuna importanza la legittimità dell'esercizio della funzione pubblica che aveva condotto all'aggiudicazione e che era espressa nel provvedimento amministrativo di aggiudicazione e in altri provvedimenti successivi, contando solamente la correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall'Amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del contratto, poiché tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica erano strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale.

Del resto, come chiarito da Consiglio di Stato, Sez. 5, n. 3831 del 2013, la formazione dei contratti pubblici è caratterizzata dalla contestuale presenza di un procedimento amministrativo e di uno negoziale, il primo disciplinato da regole di diritto pubblico finalizzate ad assicurare il perseguimento dell'interesse pubblico, l'altro da regole di diritto privato, concernenti la volontà contrattuale. Diviene d'obbligo concludere, quindi, che la fase dell'evidenza pubblica non si colloca al di fuori delle trattative, ma ne è parte integrante, poiché si è in presenza di un'unica serie di atti operanti in una duplice dimensione, pubblicistica e privatistica.

Pertanto, il giudice della legittimità ha affermato che, una volta terminata la procedura di evidenza pubblica con la stipulazione di un contratto la cui efficacia sia condizionata all'approvazione dell'autorità di controllo, l'amministrazione committente ha l'obbligo di comportarsi secondo buona fede e correttezza, vale a dire di informare l'altro contraente delle vicende attinenti al procedimento di controllo e di evitare che subisca i pregiudizi connessi agli sviluppi e all'esito del medesimo procedimento.

Di particolare interesse e degna di specifico rilievo è la circostanza che tale obbligo sia stato posto a carico della P.A. in ragione del suo status professionale, nel quale è implicita una posizione di garanzia nei confronti di coloro che si rapportano ad essa.

Perciò, ad avviso di Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635222, la P.A. è responsabile se, avendo preteso l'anticipata esecuzione della prestazione, abbia accettato il rischio del successivo mancato avveramento della condizione di efficacia del contratto a causa della mancata registrazione del decreto di approvazione, così frustrando il legittimo e ragionevole affidamento del privato nella eseguibilità del contratto.

Il Supremo Collegio, nel giungere a simili conclusioni, ha dato atto, altresì, dell'evoluzione della giurisprudenza in materia, che ha equiparato la parte pubblica ad un normale contraente privato, sul presupposto che le fasi della procedura ad evidenza pubblica sono uno strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale.

In tal modo, la responsabilità precontrattuale della P.A. è stata riconosciuta, a prescindere dall'avvenuta aggiudicazione, persino nel procedimento strumentale alla scelta del contraente, poiché essa già in questa fase instaura trattative idonee a determinare la costituzione di rapporti giuridici specifici e differenziati, entrando in contatto con una pluralità di offerenti, nei confronti dei quali deve rispettare i principi generali di correttezza e buona fede.

È stata censurata, dunque, la decisione della Corte d'Appello, nella misura in cui si era limitata a rilevare la legittimità formale degli atti della procedura di licitazione privata, in quanto la responsabilità precontrattuale della P.A., anche nella procedura pubblicistica di scelta del contraente, non era una responsabilità da provvedimento, ma da comportamento, che presupponeva la violazione dei doveri di correttezza e buona fede nella fase delle trattative e della formazione del contratto.

Questa conclusione conferma l'orientamento di recente espresso da Sez. 1, n. 15260/2014, Cristiano, Rv. 631507, la quale aveva stabilito che <<La responsabilità precontrattuale della P.A. è configurabile in tutti i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, compia azioni o incorra in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede, alla cui puntuale osservanza è tenuto già nel procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente, ossia nel momento in cui entra in contatto con una pluralità di offerenti, instaurando con ciascuno di essi trattative (multiple o parallele) idonee a determinare la costituzione di rapporti giuridici, nel cui ambito è tenuto al rispetto di principi generali di comportamento posti dalla legge a tutela indifferenziata degli interessi delle parti. Ne consegue che l'inosservanza di tale precetto, anche prima della conclusione della gara, determina l'insorgere della responsabilità della P.A. per violazione del dovere di correttezza previsto dall'art. 1337 cod. civ., a prescindere dalla prova dell'eventuale diritto all'aggiudicazione del partecipante>>.

La recente giurisprudenza della Corte di cassazione (Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635222, e Sez. 1, n. 15260/2014, Cristiano, Rv. 631507) è di estremo rilievo, poiché ha superato il precedente prevalente e difforme indirizzo seguito, fino a poco tempo prima, da Sez. 2, n. 00477/2013, Petitti, Rv. 624592, da Sez. 3, n. 12313/2005, Trifone, Rv. 582735, e da Sez. U, n. 04673/1997, Vella, Rv. 504705.

La stessa Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635222, ha sottolineato come questa recente evoluzione della giurisprudenza sia coerente con l'affermazione, contenuta in alcune più risalenti decisioni della Suprema Corte di cassazione, di una responsabilità precontrattuale della P.A., ove sia ravvisabile una relazione specifica tra soggetti che abbia ingenerato un affidamento ragionevole nella parte non pubblica, anche nell'ambito della procedura amministrativa di scelta del contraente ed a seguito dell'aggiudicazione, ad esempio qualora sia stata omessa la redazione del contratto formale senza giustificazione, ovvero questo sia stato stipulato, ma non trasmesso all'autorità di controllo, oppure nell'eventualità che l'ente pubblico abbia preteso l'adempimento della prestazione prima dell'approvazione del contratto ad opera dell'autorità di controllo, (Sez. 1, n. 23393/2008, Panebianco, Rv. 605071; Sez. 1, n. 03383/1981, Sgroi, Rv. 413966; Sez. 2, n. 03008/1968, Bivona, Rv. 335853).

In tal modo, è stata messa in evidenza la necessità di valutare le circostanze del caso concreto, in particolare se la P.A., in pendenza del procedimento di controllo ed approvazione del contratto stipulato con il privato, abbia osservato l'obbligo generale di comportamento secondo correttezza e buona fede, informando l'altro contraente delle vicende attinenti al procedimento di controllo, affinché potesse, a sua volta, evitare i pregiudizi connessi agli sviluppi e ai tempi del procedimento, e ciò a prescindere dagli strumenti di tutela spettanti al privato a seguito dell'eventuale esito negativo del controllo.

Nella fattispecie in esame, Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635222, ha individuato un legittimo affidamento dell'appaltatore nel fatto in sé che egli avesse dovuto iniziare l'esecuzione del contratto prima della sua approvazione, anche perché, ai sensi dell'art. 337, comma 2, legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, egli avrebbe già avuto diritto alla reintegrazione nelle spese per i lavori eseguiti qualora l'approvazione non fosse intervenuta.

Al riguardo, sembra che Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635222, abbia seguito l'orientamento secondo il quale oggetto dell'affidamento è la lealtà del comportamento della controparte nella conduzione delle trattative, come manifestatosi per mezzo di atti che, per la loro serietà e specificità, fanno nascere la fiducia nella correttezza della successiva condotta, e non, al contrario l'indirizzo, in base a cui l'affidamento riguarda solo la futura conclusione del contratto.

Inoltre, Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635220, si segnala perché ha rimeditato l'orientamento tradizionale che escludeva la configurabilità di una responsabilità della P.A., a norma dell'art. 1338 c.c., per non avere informato l'altra parte di una causa di invalidità o inefficacia del contratto di cui doveva presumersi la conoscenza e conoscibilità con l'uso della normale diligenza (ad esempio, la mancanza del visto ministeriale necessario per la registrazione, o della registrazione del decreto di approvazione del contratto della Corte dei conti).

Infatti, era costante l'affermazione in giurisprudenza che la responsabilità prevista ex art. 1338 c.c., a differenza di quella di cui all'art. 1337 c.c., tutelasse l'affidamento di una delle parti non nella conclusione del contratto, ma nella sua validità, sicché non era configurabile una responsabilità precontrattuale della P.A. ove l'invalidità del contratto derivasse da norme generali, da presumersi note ai consociati e, quindi, tali da escludere l'affidamento incolpevole della parte adempiente (Sez. 1, n. 07481/2007, Del Core, Rv. 595698; Sez. 1, n. 11135/2009, Panebianco, Rv. 608244, che ha applicato il principio alle cause di inefficacia del contratto, per l'esattezza alla mancata approvazione del contratto stipulato da una P.A. da parte del Ministro competente).

Pertanto, Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635220, ha chiarito, conformemente a quanto già fatto dalla magistratura amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. 3, n. 279 del 2013), che, in materia contrattuale, il principio ignorantia legis non excusat non deve essere inteso in senso generale e assoluto, così da desumerne sempre la non scusabilità dell'ignoranza dell'invalidità contrattuale derivante da norme di legge, ma che occorre indagare, caso per caso, sulla diligenza e, quindi, sulla scusabilità dell'affidamento del contraente, avendo riguardo non alla conoscibilità astratta della norma, bensì anche all'esistenza di interpretazioni univoche della stessa e, soprattutto, alla conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l'invalidità.

L'astratta conoscibilità della regola, quindi, non dimostra sempre che il privato sia in colpa, poiché avrebbe dovuto sapere dell'invalidità o dell'inefficacia del contratto, in quanto l'effettiva conoscenza di questa spesso dipende dalla necessaria cooperazione dell'altro contraente, il quale è tenuto, ex art. 1338 c.c., a comunicare le circostanze di fatto alle quali per la legge consegue tale invalidità o inefficacia, quando ne sia o ne debba essere informato in ragione delle sue qualità professionali o istituzionali.

In particolare, Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635220, ha escluso che tale conoscenza potesse desumersi automaticamente dalla circostanza che qualunque norma avrebbe efficacia di diritto obiettivo conoscibile dalla generalità dei cittadini, perché la principale funzione dell'art. 1338 c.c. è di compensare l'asimmetria informativa nelle contrattazioni tra parti che non sono su un piano di parità, come avviene nei rapporti con la P.A., la quale governa la procedura di evidenza pubblica sulla base dei suoi poteri ed ha uno status professionale ed un bagaglio di conoscenze tecniche ed amministrative di cui il privato è privo.

L'obbligo specifico di comunicare alle parti tutte le cause di invalidità o inefficacia negoziale di cui abbia o debba avere conoscenza è imposto alla parte pubblica pure per via della sua funzione istituzionale di rappresentanza e di protezione degli interessi di coloro che entrano in rapporto con essa e, perciò, riguarda non solo il procedimento di formazione del contratto secondo il modulo privatistico della trattativa privata, ma anche quello di evidenza pubblica, a tutela dell'affidamento delle imprese concorrenti.

È di indubbio interesse, al riguardo, che Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635220, abbia fatto riferimento, nella motivazione, a quella parte della giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. 5, n. 1300 del 2007) che ha, talora, valutato la colpa della P.A. con riferimento al criterio di imputazione della responsabilità del professionista di cui all'art. 2236 c.c. <<introducendo un parametro di imputazione del danno riferito al grado di complessità delle questioni implicate dall'esecuzione della prestazione>>, così anticipando possibili ulteriori sviluppi in ordine alla tematica in questione.

Sussiste, quindi, una responsabilità per culpa in contraendo della P.A. che non solo rimanga silente con riferimento al summenzionato dovere di informazione, ma conduca il procedimento sino alla stipulazione di un contratto destinato ad essere caducato o a rimanere inefficace, persino chiedendone l'anticipata esecuzione.

In questo modo, infatti, viene frustrato il legittimo affidamento dell'impresa nell'eseguibilità dello stesso e nella legalità dell'azione amministrativa.

Pertanto, Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635220, ha sancito che il giudice adito in sede risarcitoria deve accertare, al fine di escludere o affermare una responsabilità precontrattuale della P.A. ex art. 1338 c.c., se il contraente abbia confidato colpevolmente o incolpevolmente nella validità ed efficacia del contratto, concluso o da concludere (in dottrina [SATULLO, 2011, 3700-3701] è stato suggerito di considerare non scusabile la condotta del privato solo qualora la violazione della P.A. assuma carattere manifesto e particolarmente grave).

Nel fare ciò occorre verificare, in concreto, se la norma di relazione violata sia conosciuta o facilmente conoscibile da qualunque cittadino mediamente avveduto, sulla base del parametro dell'homo eiusdem professionis et condicionis (cosiddetta causa di invalidità "auto evidente"), tenuto conto della univocità dell'interpretazione della norma e della conoscenza e conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l'invalidità.

Infatti, la P.A., in presenza di norme di azione che è tenuta istituzionalmente a conoscere e ad applicare in maniera professionale, ha sempre l'obbligo di informare il privato delle circostanze che potrebbero rendere invalido, inefficace o, comunque, non eseguibile il contratto, pena la sua responsabilità per culpa in contraendo, salva la possibilità di dimostrare che l'affidamento del contraente sia irragionevole, in presenza di fatti e circostanze specifici, che provino come, in quel determinato rapporto, la controparte fosse effettivamente a conoscenza della causa che viziava il contratto concluso o da concludere.

A tal fine, si è proposto [SATULLO, 2011, 3700-3701] di distinguere tra norme che costituiscono diretta ed immediata attuazione di principi fondamentali regolatori dell'attività amministrativa e norme che non lo siano o lo siano indirettamente.

Sono state ritenute conoscibili, così, le disposizioni la cui violazione il privato possa con immediatezza percepire come manifestamente contraria ai principi costituzionali di imparzialità e buon andamento ed ai principi fondamentali dell'attività amministrativa di cui all'art. 1 della legge n. 241 del 1990.

Inoltre, è stato sottolineato che vi sono delle circostanze oggettive che escludono la conoscibilità della norma a priori ed indipendentemente da un giudizio di ordinaria diligenza condotto caso per caso, ad esempio, quando la formulazione della disposizione sia poco chiara od oscura ovvero esista un contrasto giurisprudenziale sulla sua interpretazione ed applicazione.

5. Considerazioni finali.

La decisione in commento, che va letta come un ulteriore passo verso la parificazione della posizione della P.A. a quella del privato, parte dall'assunto che la responsabilità del soggetto pubblico prescinde dall'esistenza di un rapporto personalizzato con il privato, e sorge sin dall'inizio del procedimento ed indipendentemente dalla sua legittimità, in quanto posta a tutela dell'affidamento della controparte.

Non è più possibile negare l'applicabilità, nei confronti della P.A., dell'art. 1338 c.c. con riferimento ad una procedura di evidenza pubblica.

In tal modo, le posizioni della giurisprudenza civile e di quella amministrativa nella materia in questione sono state ricondotte ad unità.

È interessante notare, inoltre, come, nel settore in esame, sia sempre più significativo l'influsso del diritto dell'Unione europea.

In particolare, non può escludersi, anche alla luce del richiamo, contenuto nella sentenza in commento, al concetto di status (riferito alla P.A.) e al criterio di imputazione della responsabilità previsto dall'art. 2236 c.c. per il professionista, che stiano maturando i presupposti per una complessiva rimeditazione della stessa natura della responsabilità precontrattuale della P.A., alla luce dei principi comunitari.

Infatti, è noto l'orientamento maggioritario in dottrina ed in giurisprudenza che qualifica come aquiliana tale responsabilità, da cui derivano determinate conseguenze in tema di prescrizione, di onere della prova, di regime della mora nonché di elemento psicologico del contraente che pone in essere il comportamento scorretto.

Con riferimento a questo ultimo profilo, la riconduzione alla responsabilità extracontrattuale degli artt. 1337 e 1338 c.c. impone al soggetto che si assume danneggiato di fornire la prova del dolo o della colpa della P.A.

Peraltro, secondo le direttive europee (come le Direttive Ricorsi 2007/66/CE e la direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici) la risarcibilità dei danni che conseguono alla violazione di norme in materia di scelta del contraente, da un lato, è ammessa indipendentemente dalla prova di un diritto all'aggiudicazione, dall'altro, è accordata a prescindere dall'accertamento dell'elemento della colpa della P.A.

L'ordinamento europeo configura la responsabilità del soggetto pubblico nel settore specifico degli appalti pubblici in senso oggettivo, tanto che la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha affermato l'incompatibilità con il diritto dell'Unione delle disposizioni nazionali che subordinavano il risarcimento del danno alla prova del comportamento colposo della P.A. (Corte Giustizia UE, Sez. 3, 30 settembre 2010, causa C-314/09, Graz Stadt).

La stessa giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1672 del 2014; Tar Veneto, Sez. 1, n. 251 del 2015) è, ormai, orientata ad ammettere, almeno in caso di violazioni di norme in tema di appalti pubblici, la natura oggettiva della responsabilità della P.A.

Viene allora da chiedersi se la necessità di provare la colpa della P.A. quando sia contestata, nell'ambito di una procedura di evidenza pubblica, la sua responsabilità precontrattuale ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c. (necessità che discende dalla natura aquiliana della detta responsabilità) sia oggi compatibile, ancorché non si ponga una questione di legittimità o meno dell'attività provvedimentale del soggetto pubblico, con i principi enunciati in sede comunitaria.

Le soluzioni che potrebbero prospettarsi per ovviare a tale potenziale conflitto sono varie, fra cui riconoscere il carattere oggettivo di tale responsabilità oppure ammetterne la natura contrattuale [VAPINO, 2014, 1187-1188].

. BIBLIOGRAFIA

F. Caringella, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione: un istituto dal sesso incerto, Relazione tenuta a Roma al convegno del 29 ottobre 2007 su "Attività contrattuale e responsabilità della pubblica amministrazione", rinvenibile su https://view.officeapps.live.com/op/view.aspx?src=https%3A%2F%2Fwww.unirc. it%2Fdocumentazione%2Fmateriale_didattico%2F113_2008_1057_1953.docsu

G. Chiné, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione nell'era della risarcibilità degli interessi legittimi, in Foro amm. – Tar, 2003, 803 ss.

D. Satullo, Responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione e annullamento d'ufficio: il problema del legittimo affidamento, in Foro amm. – Tar, 2011, 3694 ss.

A. Vapino, La Cassazione conferma la responsabilità precontrattuale della p.a. nella fase precedente l'aggiudicazione, in Urbanistica e Appalti, 2014, 11, 1181-1188.

  • contratto

CAPITOLO VI

LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE

(di Annamaria Fasano )

Sommario

1 Il contratto preliminare di preliminare. - 2 Gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità e di merito. - 3 Il recente arresto della Suprema Corte sulla validità del contratto preliminare di preliminare: Sez. U, n. 4826 del 2015. - 3.1 Riflessioni sulla causa. - 3.2 La tesi negativa. - 3.3 La tesi positiva. - 3.4 L'orientamento delle Sezioni Unite e le condizioni di ammissibilità del preliminare di preliminare. - BIBLIOGRAFIA

1. Il contratto preliminare di preliminare.

La formazione di un accordo contrattuale è generalmente preceduta da una fase preparatoria, che spesso si concretizza in semplici trattative o può anche manifestarsi con accordi negoziali quali, ad esempio, l'opzione di patto di prelazione, il contratto normativo, i patti sulla forma ecc. Il contratto preliminare si inserisce in questa fase di formazione progressiva del contratto, strumento con il quale le parti si obbligano a concludere, in futuro, un ulteriore contratto, già delineato nei suoi elementi essenziali, chiamato definitivo. Il contratto preliminare di preliminare integra, invece, l'accordo con cui le parti si impegnano a concludere in futuro un contratto con effetti obbligatori (un contratto preliminare), che a sua volta le vincolerà a stipulare in seguito un negozio definitivo. La prassi immobiliare fa frequente uso di questa figura negoziale nell'ambito delle compravendite immobiliari. Tra le modalità di contrattazione che vedono le agenzie immobiliari nella veste di mediatori è venuta a delinearsi la figura del preliminare c.d. "aperto", con il quale le parti fermano l'affare obbligandosi alla conclusione di un successivo contratto preliminare c.d. preliminare "chiuso". Generalmente è la stessa agenzia che, ottenuta dal futuro acquirente la sottoscrizione di una proposta di acquisto, provvede a a farla sottoscrivere dal futuro venditore. Tale documento, altrimenti definito "preliminare di preliminare", si distingue dal preliminare "chiuso" o "compromesso", con il quale si definisce il contenuto del negozio e ci si obbliga alla stipulazione del definitivo. La distinzione è, in realtà, meglio descritta ove si definisca la prima ipotesi, purchè l'accettazione della proposta sia regolarmente portata a conoscenza del promittente alienante (art. 1326 c.c.), come un vero e proprio contratto preliminare, e la seconda come un contratto definitivo già perfezionato, che andrà poi riprodotto in forma idonea alla trascrizione e integrato con le menzioni urbanistiche e fiscali all'atto del rogito notarile. In questo settore l'istituto, da mera ipotesi di scuola, è divenuto oggetto di rinnovato interesse, in quanto sovente le parti procedono alla stipula di un doppio contratto preliminare.

2. Gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità e di merito.

L'indirizzo prevalente della giurisprudenza di legittimità e di merito propende per l'inammissibilità del c.d. preliminare di preliminare. In particolare, si ritiene che non ricorrerebbe la causa tipica del contratto preliminare e la mancanza di una concreta giustificazione causale ed economica concreta, in grado di offrire una legittimazione, ai sensi dell'art. 1322 c.c., determinarebbe la nullità dell'accordo stipulato. Sulla questione si è pronunciata soprattutto la giurisprudenza di merito, mentre sono isolati gli interventi della Suprema Corte.

In particolare, si riporta la parte motiva della sentenza Trib. Napoli, 23.11.1982, con cui si è dichiarata la nullità del contratto preliminare di preliminare per difetto di causa, evidenziandosi come: <<È opportuno specificare che la singolarità del caso concreto consiste in ciò che l'ordinaria sequenza logica preliminare - definitivo è, nella fattispecie in esame, alterata dall'inserimento tra i due di un secondo preliminare, che dal primo costituisce l'oggetto immediato, dando luogo al fenomeno anomalo del preliminare di un preliminare ossia della promessa di una promessa e, dunque, ad una vicenza contrattuale nell'ambito della quale il preliminare concluso risulta, scopertamente, privo di funzione pratica e, quindi, di causa, perché il promettere di promettere non ha efficacia diversa dal promettere puro e semplice; mentre, è noto cha al contratto preliminare può riconoscersi una funzione giuridicamente apprezzabile soltanto se il contratto la cui stipulazione ne costituisce l'oggetto sia idoneo a produrre effetti diversi, più intensi e specifici di quelli propri del contratto preparatorio, come emerge dalla consueta contrapposizione della funzione strumentale di quest'ultimo alla situazione finale che il contratto definitivo è destinato a produrre e che dalla prima si distingue, nella sostanza proprio perché capace di soddisfare gli interessi perseguiti dalle parti senza ulteriori mediazioni programmatiche e, quindi, senza la necessità di convenzioni integrative>>. Si è formulato un giudizio negativo sull'ammissibilità del preliminare di preliminare nelle sentenze: Trib. Napoli, 28.2.1995, Trib. Napoli, 23.11.1982, Trib. Salerno, 23.7.1948, con cui, sostanzialmente, si esclude la meritevolezza dell'interesse che giustifica l'esistenza della causa. La tesi che nega la validità a tale accordo negoziale riflette lo sfavore per una pattuizione che sarebbe priva di una giustificazione causale ed economica concreta, in quanto il secondo contratto avrebbe identica portata obbligatoria del primo. Con la sentenza del 9.4.1996, la Pret. Bologna e ancora prima la Pret. Firenze, con sentenza del 19.12.1989, hanno escluso qualsiasi funzione diversa da quelle che si vorrebbero realizzare con il preliminare vero e proprio, che potrebbe giustificare il preliminare di preliminare. In particolare, secondo la decisione della Pretura di Firenze, sopra richiamata, alla fase contrattuale intermedia, ancorchè dalle parti denominata contratto preliminare, deve già attribuirsi natura di prestazione del consenso definitivo, intendendo la denominazione pattizia come riferimento a quel "compromesso", che altro non è, nel gerco della prassi del commercio immobiliare, se non un contratto definitivo documentato da semplice scrittura privata, in attesa della riproduzione del consenso in forma autentica, necessaria per soddisfare l'esigenza di pubblicità. La tesi è richiamata anche dalla giurisprudenza di legittimità, nella sentenza della Sez. 2, n. 06040/1979, Pierantoni, Rv. 402744, secondo cui la rimessione ad una altro tempo della traduzione in atto pubblico di un contratto stipulato mediante scrittura privata non vale a trasformare il negozio che le parti hanno inteso concludere definitivamente nella promessa bilaterale di un futuro contratto, in quanto l'atto pubblico assolve ad una mera funzione riproduttiva, al fine di consentire la trascrizione e di soddisfare l'esigenza della pubblicità in conformità del sistema disciplinato dalla legge. Peraltro, si è asserito che l'accordo con cui le parti si impegnano, rispettivamente, a vendere e ad acquistare un immobile, prevedendo tutti gli elementi essenziali della futura vendita, va qualificato senz'altro come contratto preliminare "formale", non rilevando in contrario che sia anche prevista la necessità di sottoscrivere un successivo preliminare, o compromesso, notarile, dovendosi ritenere che quest'ultimo abbia natura meramente riproduttiva di una accordo già completo (in tal senso, si è pronunciata Pret. Bologna, 9.4.1996). La giurisprudenza prevalente ritiene che la funzione economica del preliminare formale, di vincolare le parti alla futura conclusione del contratto definitivo, e, dunque, di "fermare l'affare", in attesa che il compratore reperisca il denaro e svolga ogni indagine necessaria sul cespite oggetto della compravendita, non giustificherebbe la creazione di un contratto, anch'esso preliminare, che impegni le parti alla stipula di un definitivo. Questo indirizzo utilizza il metodo decisionale della "tipizzazione", mediante il quale si legittima, in base al principio che al giudice compete la qualificazione giuridica del contratto come opera di applicazione della norma al fatto, la riconduzione di ogni rapporto negoziale atipico ad un rapporto tipico, con la conseguenza di ritenere che la funzione esercitata non è meritevole di tutela secondo i principi dell'ordinamento giuridico. Si è, quindi, affermato che il contratto preliminare, quale contratto meramente obbligatorio avente ad oggetto la stipulazione di un futuro contratto, in tanto può avere una funzione, in quanto il negozio, di cui si prevede la stipulazione, sia idoneo a produrre effetti diversi più intensi o più specifici di quelli offerti dal preliminare, circostanza che non si verifica allorchè il secondo contratto sarebbe inutile. Nelle decisioni di merito è prevalente l'idea che il contratto preliminare di preliminare debba considerarsi in chiave unitaria, accanto a pronunce, che attribuiscono a tale tipo di accordo il valore di un contratto preliminare "formale o chiuso" (Trib. Roma, 29.3.1994, in Rass. Dir. Civ., 1996, 434; Pretura Bologna, 9.4.1996, in Giur. It., 1997, I, 2, 540; Trib. Napoli, 28.2.1995, in Dir. Giust., 1995, 434; Trib. Torino, 21.3.2006, in Arch. Loc. 2006, 5, 540). In alcuni casi, si prospetta un patto di opzione o un contratto atipico a contenuto ed effetti obbligatori, purchè si rispetti la diversità di fattispecie nell' iter progressivo di avvicinamento al compiuto regolamento di interessi (App. Napoli, 11.10.1967, Dir. Giust., 1968, 550; Trib. Venezia, 5.3.1980, Foro. Pad., 1999, I, 75), mentre altre decisioni lo inquadrano come una semplice manifestazione di intenti, resa seria e fondata dal versamento di una somma di denaro, al fine di giungere alla stipula di un vero e proprio impegno contrattuale cristallizzato nel contratto preliminare. Non è dato rinvenire molte decisioni della Suprema Corte sull'argomento, antecedenti alla sentenza delle Sezioni Unite del 2015, che si illustrerà nel paragrafo che segue. È stata dichiarata la nullità del contratto preliminare di preliminare, con la Sez. 3, n. 08038/2009, Bucciante, Rv. 607773, affermandosi che, all'insegna di una configurazione unitaria del contratto preliminare, tale accordo andrebbe ricondotto alla fase delle trattative, per tale ragione non è vincolante: da un lato, viene, infatti, asserito, nel scolco tracciato dalla prime pronuce di merito, la nullità per difetto di causa dei c.d. preliminare di preliminare, posto che in tale progressione si realizzerebbe <<una inconcludente superfetazione non sorretta da alcun effettivo interesse meritevole di tutela, secondo l'ordinamento giuridico>>; dall'altro, si riconosce che la sottoscrizione del modulo predisposto dal mediatore appartiene alla fase delle trattative <<sia pure, nello stato avanzato della puntuazione, destinata a fissare, ma senza alcune effetto vincolante, il contenuto del successivo negozio>>. Tale decisione è stata seguita, senza ulteriori approfondimenti, dalla sentenza, Sez. 2, n. 19557/2009, Bursese, Rv. 609360. Secondo la Suprema Corte, se il fondamento del contratto preliminare deve essere ritenuto nella comune volontà dei contraenti inteso alla conclusione di un vincolo che, pur non essendo idoneo a produrre gli effetti tipici dela stipulazione definitiva, comunque risulti già pienamente impegnativo per le parti, rimanendo le stesse autorizzate unicamente ad introdurre eventuali modifiche consensuali di carattere secondario rispetto agli elementi del contratto, appare chiaro che l'intento di dare vita ad un preliminare di preliminare non sia altro se non la vana reiterazione di un meccanismo che, quando non sia idoneo a sfociare nel perfezionamento della negoziazione definitiva, si manifesta come del tutto inutile e sovrabbondante. La sentenza, Sez. 3, n. 08038/2009, Bucciante, Rv. 607773, argomenta in questo modo: <<L'art. 2932 c.c. instaura un diretto e necessario collegamento strumentale tra il contratto preliminare e quello definitivo, destinato a realizzare effettivamente il risultato finale perseguito dalle parti. Riconoscere come sia possibile funzione del primo anche quella di obbligarsi...ad obbligarsi a ottenere quell'effetto, darebbe luogo a una inconcludente superfetazione, non sorretta da alcun effettivo interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico, ben potendo l'impegno essere assunto immediatamente: non ha senso pratico il promettere ora di ancora promettere in seguito qualcosa, anziché prometterlo subito. Né sono pertinenti i contrari argomenti esposti dai ricorrenti: in parte non attengono al reciproco rapporto tra le parti del futuro contratto definitivo, ma a quelli tra ognuna di loro e l'intermediario che le ha messe in relazione, sicchè non riguardano il tema in discussione; per il resto prospettano l'ipotesi di un preliminare già riferentesi al definitivo e da rinnovare poi con un altro analogo negozio "formale", il che rappresenta una fattispecie diversa da quella del "preliminare", di cui si è ritenuta in sede di merito l'avvenuta realizzazione nella specie. Correttamente, quindi, nella sentenza impugnata, esclusa la validità dell'accordo raggiunto dalle parti, ha ritenuto che esse si trovassero, in relazione al futuro contratto preliminare, nella fase delle trattative, sia pure nello stato avanzato della "puntuazione", destinata a fissare, ma senza alcune effetto vincolante, il contenuto del successivo negozio>>.

3. Il recente arresto della Suprema Corte sulla validità del contratto preliminare di preliminare: Sez. U, n. 4826 del 2015.

Con ordinanza interlocutoria Sez. 2, n. 05779/2014, la Seconda Sezione civile ha rimesso gli atti del ricorso n. 18978 del 2008 al Primo Presidente per valutare l'opportunità di sottoporre all'esame delle Sezioni Unite la seguente questione: <<Se il contratto con cui le parti si obblighino a stipulare un successivo contratto ad effetti obbligatori (i.e. un contratto preliminare di preliminare) sia nullo per difetto di causa, non essendo meritevole di tutela l'interesse di obbligarsi ad obbligarsi, ovvero sia valido laddove sia identificabile un concreto ed effettivo interesse delle parti, come nel caso in cui le stesse prevedano l'obbligo di riproduzione del contenuto del contratto al verificarsi di determinate circostante a cui risulti subordinata la stipulazione del contratto preliminare (circostanze quali - come nella specie - la cancellazione dell'ipoteca gravante sull'immobile oggetto della promesso di vendita)>>. Le Sez. U, n. 04628/2015, D'Ascola, Rv. 634761, affrontano il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla ammissibilità del contratto preliminare di preliminare, ponendo in evidenza le diversità di tesi ed i contrasti che ne sono derivati.

Nella specie, i ricorrenti, promittenti venditori di un porzione di fabbricato, avevano chiesto l'esecuzione in forma specifica di un contratto preliminare concluso con scrittura privata, che i promissari acquirenti ritenevano insuscettibile di esecuzione in forma specifica, essendo una semplice puntuazione. Il Tribunale rilevò che il contratto conteneva l'impegno a stipulare il contratto preliminare di vendita, allorquando l'istituto bancario avesse dato l'assenso all'esclusione della porzione venduta dall'ipoteca gravante sul fabbricato. Ritenne che il contratto fosse da qualificare come "preliminare di preliminare", e che fosse nullo per difetto orginario di causa, repingendo la domanda. Anche la Corte di appello, adita a seguito di impugnazione della decisione di primo grado, ritenne che al contratto preliminare può riconoscersi funzione giuridicamente apprezzabile solo se è idoneo a produrre effetti diversi da quelli del contratto preparatorio; che, nella specie, il secondo preliminare previsto dalle parti avrebbe prodotto gli stessi effetti di impegnarsi a stipulare alle medesime condizioni e sul medesimo bene; che, pertanto, l'accordo era da ritenersi nullo, per difetto di causa autonoma rispetto al contratto preliminare da stipulare. Rigettava, quindi, la domanda di risoluzione e di risarcimento del danno, introdotta nel corso del giudizio di primo grado, ex art. 1453, comma 2, c.c. Avverso questa sentenza, i promittenti venditori proponevano ricorso per cassazione con un unico complesso motivo di ricorso, invocando le opinioni dottrinali e giurisprudenziali che, contrapponendosi alla corrente di pensiero accolta dai giudici di merito, avevano riconosciuto del tutto ammissibile e lecita la figura del preliminare di preliminare. Precisavano che il contratto per cui era causa, intitolato "dichiarazione preliminare d'obbligo" conteneva gli elementi essenziali del negozio e prevedeva la stipula di un "regolare preliminare di vendita", qualora l' istituto di credito avesse dato l'assenso alla liberazione dall'ipoteca.

La Sezioni Unite rilevano come sia molto evidente lo stato di incertezza che da qualche decennio agita la dottrina e la giurisprudenza in ordine all'ammissibilità dell'istituto. Si procede, quindi, ad una analisi approndita delle diverse tesi e, a fronte di una orientamento tradizionale, ripreso poi dalla sentenza n. 08039/2009, della possibile configurabilità di un momento anteriore al preliminare, vi è un indirizzo positivo, che considera possibile una tripartizione delle fasi che conducono alla stipula del definitivo. La validità dell'obbligo ad obbligarsi si inserisce nel più ampio discorso dell'esplicazione della libertà negoziale, che rimane un valore costituzionale e le sue limitazioni devono essere socialmente giustificate, risolvendosi altrimenti nella lesione di un diritto fondamentale della persona.

3.1. Riflessioni sulla causa.

L'esame della decisione delle Sezioni Unite della Corte impone di riflettere sulla ragione pratica dell'istituto. La funzione del preliminare è quella di creare un vincolo obbligatorio per la futura stipula di un altro contratto. Generalmente il ricorso al preliminare si spiega nell'interesse delle parti di impegnarsi provvisoriamente in attesa che sia regolarizzato qualche punto, o integrato qualche presupposto del contratto, che si intende stipulare. La funzione del preliminare è quella di assicurare, attraverso la riserva del definitivo, il controllo delle sopravvenienze, quale possibilità non di rinnovare il giudizio di convenienza del negozio, ma di verificare eventuali mutamenti obiettivi del contratto. La parte, in questo modo, sarebbe in grado di impedire eventualmente la produzione degli effetti previsti senza ricorrere alla impugnativa del negozio. In dottrina ed in giurisprudenza è stata ampiamente chiarita la differenza tra la conclusione di un vero e proprio preliminare e la semplice fase avanzata delle trattative (cd. minuta o puntuazione). Per il tema che più da vicino ci interessa, non pare possano esserci dubbi sul fatto che, in fase di cd. "preliminare di preliminare", siamo ormai oltre la fase delle trattative ed un contratto tra le parti è già concluso. Le parti possono, stipulando il negozio, realizzare questi risultati:

1. Esplicitare un impegno concreto, anche se provvisorio, assumendo un obbligo in ordine alle prestazioni che ne sono oggetto;

2. Superare la fase delle trattative negoziali;

3. Manifestare attraverso un accordo scritto che si intende prendere un serio impegno futuro per la stipula di un contratto, con la conseguenza di adoperarsi per rimuovere eventuali ostacoli alla conclusione dell'affare;

4. Accordarsi sugli elementi essenziali o accidentali del futuro contratto preliminare, dal quale, se stipulato, possono scaturire, in caso di inadempimento, le conseguenze di cui all'art. 2932 c.c.;

5. Esercitare un controllo sulle sopravvenienze, anche con riferimento ad un periodo temporale preciso, concedendosi il tempo necessario per valutare la convenienza dell'affare.

Con la prima stipulazione le parti possono stabilire i punti centrali dell'impegno obbligatorio asserito, con la seconda puntualizzano con precisione tutti gli elementi della futura vendita, e, infine, con l'atto pubblico, realizzano il trasferimento in via definitiva. La valutazione del paradigma contrattuale potrebbe portare a ritenere che l'interesse alla stipula di un preliminare di preliminare, in sostanza, non esaurisce ma concorre ad integrare la causa, la quale si identifica principalmente nella volontà di stipulare un contratto preliminare, a sua volta strumentale alla stipula di un definitivo. Il contratto preliminare successivo presenta peculiarità proprie, alimentate dalla previsione di un'esecuzione in forma specifica mediante una sentenza che produce gli effetti del contratto non concluso (art. 2932 c.c.). La fenomenologia della prassi distingue, infatti, tra un primo preliminare insuscettibile di esecuzione forzata, seguito da un secondo preliminare idoneo all'esecuzione ex art. 2932 c.c., anche se sulla eseguibilità del primo preliminare la dottrina ha assunto posizioni contrastanti. Secondo la decisione in commento, il vero sorgere della problematica è stato determinato dall'evoluzione della contrattazione immobiliare e dell'attività di mediazione professionalmente gestita. La pratica degli affari offre una incalcolabile serie di varianti, ed alla variabilità della modulistica dei mediatori si aggiunge la inesauribile creatività dei contraenti.

Le Sezioni Unite riflettono proprio sulla difficoltà di comprendere la volontà dei contraenti. Si chiarisce che: <<La questione rimessa oggi alla Corte non riguarda il rilievo della volontà nella conclusione del contratto e se essa sia la sola via per stabilire quando il preliminare venga definitivamente formato: è chiesto invece di indagare sulla dinamica degli accordi contrattuali in tema di compravendita immobiliare. E', infatti, evidente già da questa prima ricognizione quale sia l'incertezza del confine tra tto preparatorio e contratto preliminare, incertezza alimentata da una accentuata polarizzazione tra contratto preliminare (vincolante) da un lato e diniego di rilevanza negoziale, per difetto di causa, di accordi prodromici al preliminare, i quali al più vengono qualificati semplice puntuazione. Occorre, pertanto, stabilire se, ed in quali limiti, sia riconosciuto nell'ordinamento un accordo negoziale che rimandi o obblighi i contraenti a un contratto preliminare propriamente detto>>. Va precisato, per la Corte, che l'istituto deve essere tenuto distinto da tutti gli istituti di confine. Non può, infatti, essere ritenuto un "recipiente comodo" in cui inserire, ad esempio, la figura dell'opzione di contratto preliminare, o il patto di prelazione, o ancora il patto di contrarre con il terzo.

3.2. La tesi negativa.

Nella sentenza n. 04628/2015, si illustra la posizione della dottrina tendenzialmente contraria ad ammettere queste forme di pattuizione, che, pur riconoscendo che nelle trattative complesse il contratto si può formare progressivamente, nega che si possa parlare di obbligo a contrarre e nega che si possa procedere all'esecuzione in forma specifica, ammissibile solo per il secondo contratto. In ragione della completezza del preliminare, si contesta la possibilità di ricorrere ad un preliminare di preliminare; se, infatti, si è già formato un accordo in ordine agli elementi essenziali del contratto e sussiste solo un margine di dubbio in ordine alla opportunità di procedere effettivamente alla stipulazione concordata, si potrà essere di fronte, rispettivamente, ad un preliminare vero e proprio, ovvero ad una intesa precontrattuale, a seconda che sussista o meno la volontà di obbligarsi alla conclusione del contrato. Laddove ci si obblighi ad obbligarsi, il secondo contratto avrebbe identica portata obbligatoria del primo, restando sostanzialmente immutata la situazione giuridica di base, senza riscontro di mutamento della natura e del contenuto dell'obbligazione, che in entrambi i casi avrebbe per oggetto il consenso per la stipulazione del futuro contratto definitivo. Sarebbe nullo, perché privo di giustificazione causale, il secondo preliminare, il quale altro non rappresenterebbe che una mera dilazione del primo. Secondo questi autori [CHIANALE, 2010, 40], la tesi favorevole alla ammissibilità di un preliminare di preliminare, pur se autorevolmente sostenuta, si espone a gravi obiezioni e censure che minano la solidità degli argomenti su cui essa si fonda. Una delle censure attiene alla presunta funzione svolta dal preliminare di preliminare, che è quella di consentire ai contraenti l'assunzione immediata di un vincolo contrattuale di cui abbiano determinato i soli elementi essenziali, rinviando ad un successivo preliminare la completa regolamentazione dell'affare. Secondo questo indirizzo, questa funzione, sulla base dei principi che regolano il contratto in generale, non può essere svolta dal preliminare. I contraenti che si obbligano alla stipula di un contratto del quale non hanno previamente definito il contenuto, assumono un'obbligazione avente ad oggetto una prestazione indeterminata, con la conseguenza di rendere nullo lo stesso contratto che ne costituisce la fonte per indeterminatezza del suo oggetto, ai sensi degli artt. 1346 c.c. e 1418 c.c. Due preliminari successivi l'uno all'altro possono concepirsi solo a condizione di differenziarli compiutamente. Alcuni autori sostengono che, non potendo le parti obbligarsi alla stipula di un futuro contratto preliminare diverso da quello già concluso, la clausola, con cui i contraenti rinviano la definizione degli elementi secondari della compravendita ad un successivo preliminare, varrà, piuttosto, ad imporre un mero obbligo di contrattazione ulteriore, finalizzata ad addivenire ad un successivo accordo nel quale sia contenuta la regolamentazione degli aspetti di dettaglio dell'affare concluso. Nulla osta, infatti, che le parti possano stipulare un secondo preliminare di contenuto più ricco, integrando o modificando le pattuzioni contenute nel precedente, ma tale preliminare sarà la conseguenza di un nuovo consenso liberamente raggiunto e manifestato a cui le parti sono pervenute all'esito delle ulteriori trattative intercorse, e non in adempimento dell'obbligazione assunta con il primo preliminare. Nessuna differenza tra le due fattispecie preliminari sussiste neanche sotto il profilo sanzionatorio in relazione alla clausola, presente nel primo preliminare e non riprodotta nel secondo, con cui le parti abbiano pattuito il pagamento di una somma di denaro in caso di inadempimento dell'obbligo di stipula del successivo contratto. La tesi argomentativa si spinge a ritenere che una pattuizione di tal genere altro non è che una clausola penale con cui i contraenti hanno inteso procedere alla liquidazione forfettaria del danno, la quale serve a rendere più efficace lo strumento risarcitorio eliminando qualunque incertezza in ordine al quantum del pregiudizio subito, senza però che essa escluda la possibilità per le parti di avvalersi degli altri rimedi predisposti dall'ordinamento contro l'inadempimento contrattuale. Da tale pattuizione [GABRIELLI, 1994, 32] non potrebbe desumersi una implicita volontà di precludere il ricorso al rimedio dell'esecuzione in forma specifica; e ciò tanto più quando tale preclusione non sia esplicitamente dedotta in un clausola che rivesta la stessa forma scritta a pena di nullità del contratto in cui è contenuta. Secondo questo orientamento, i due preliminari non presentano e non possono presentare, salvo nuovo accordo, alcuna differenza tra loro né sul piano del regolamento negoziale pattuito, né con riferimento agli effetti prodotti, né con riferimento agli effetti offerti dall'ordinamento in caso di inadempimento. Per un indirizzo della dottrina, sarebbe necessaria anche l'applicazione alla fattispecie in esame dell'art. 1374 c.c., alla luce della quale la mancata previsione di elementi secondari non potrebbe impedire, togliendo rilievo al preliminare formale, la conclusione del definitivo, semmai integrato dalla legge, dagli usi e dall'equità. Questo contratto non realizzerebbe altro che le funzioni del preliminare vero e proprio, attraverso il suo adattamento concreto. Per la mancata differenziazione tra i due contratti non è possibile individuare una ragione causale, in quanto il preliminare che vincola le parti alla conclusione di un altro preliminare crea un obbligo il cui adempimento si risolve nella stipula di un secondo contratto, che è la mera ripetizione del precedente senza alcuna progressione di contenuto, efficacia e forza cogente, rispetto al consenso reciproco già manifestato con il primo preliminare. Quindi non può ravvisarsi un interesse meritevole di tutela da parte dell'ordinamento giuridico, da cui deriva necessariamente la declaratoria di nullità del contratto per difetto di causa [BELLANTE, 2010, 958]. Un'altra tesi sostiene l'inesistenza della figura contrattuale in esame. Il contratto che nasce dallo scambio di proposta e accettazione tra le parti di una compravendita immobiliare, mediante agenzia, non è un preliminare di preliminare, ma un normale contratto preliminare che si perfeziona nel momento in cui il proponente ha notizia dell'accettazione dell'oblato, ex art. 1326 c.c., non rilevando la prevista conclusione di un successivo preliminare al quale essi abbiano rinviato la definizione delle pattuizioni di dettagli dell'affare.

3.3. La tesi positiva.

Gli interpreti che hanno ammesso la validità del preliminare di preliminare, detto "preliminare aperto", hanno ritenuto che lo stesso fosse diretto a realizzare un interesse meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., quello cioè di consentire la creazione tra le parti di un vincolo immediato nel quale siano determinati i soli elmenti essenziali della futura compravendita, riservando ad un altro contratto preliminare la precisazione delle clausole secondarie dell'affare concluso. I due contratti, pertanto, avrebbero funzione e contenuto diverso: il primo, come detto, sarebbe diretto alla creazione di un vincolo immediato tra le parti, contenente i soli elementi essenziali del negozio, con obbligo di addivenire alla stipula di un successivo, più organico e completo, preliminare; il secondo, invece, sarebbe diretto alla compiuta regolamentazione dell'affare, con obbligo di stipula del definitivo. I due negozi, inoltre, secondo un indirizzo, si differenzierebbero anche sul piano sanzionatorio, atteso che il rimedio dell'esecuzione in forma specifica, ex art. 2932 c.c., non sarebbe esperibile contro l'inadempimento del preliminare "aperto". Altri ritengono, invece, che le prime due fasi contrattuali sono entrambe suscettibili di esecuzione forzata, ex art. 2932 c.c. [CHIANALE, 2010, 40]. Il giudizio di utilità deve essere lasciato alle parti, che se fanno un preliminare di preliminare si presume vi abbiano interesse: se l'interesse è meritevole di tutela, il contratto ha causa lecita. Si tratterebbe, pertanto, di una figura contrattuale atipica, espressione di autonomia negoziale, purchè si rispetti la diversità di fattispecie nell'iter progressivo di avvicinamento al compiuto regolamento di interessi. L'unico requisito che si richiede è che la fattispecie preliminare preluda ad una fattispecie che, nell'avvicinarsi maggiormente alla formazione della fattispecie definitiva, non sia identica a quella precedente. Questa impostazione ne giustificherebbe la causa e quindi la concreta giustificazione economica, diversa da quella che è propria del preliminare.

3.4. L'orientamento delle Sezioni Unite e le condizioni di ammissibilità del preliminare di preliminare.

Va preliminarmente osservato come la Corte evidenzia che il dibattito dottrinale e giurisprudenziale, in ordine all'ammissibilità del contratto di cui si discute, fa emergere contrasti solo apparenti. Secondo le Sezioni Unite è singolare, ma non casuale, che la causa del contratto sia stata intesa dalla dottrina e dalla giurisprudenza, come ricerca dell'utilità, cioè della sua complessiva razionalità ed idoneità ad espletare un funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti attraverso quel rapporto contrattuale. Tutte le opinioni, anche se partono da prospettive diverse, coincidono nel definire nulla l'intesa che si risolva in un mero obbligo di obbligarsi a produrre un vincolo che non abbia contenuto ulteriore o differenziato. Si giunge anche a trovare un altro elemento di convergenza. Esso si rappresenta quando l'analisi del primo accordo conduce a ravvisare i tratti del contratto preliminare, in quanto contenente gli elementi necessari per configurare tale contratto, quali, si osserva, l'indicazione delle parti, del bene promesso in vendita, del prezzo.

La Corte illustra, diversificando, le varie motivazioni che possono indurre le parti ad avere interesse alla previsione di una ulteriore attività contrattuale. Si può verificare il caso che nell'accordo raggiunto sia stata esclusa semplicemente l'applicabilità dell'art. 2932 c.c., e ciò configurerebbe una esclusione convenzionalmente ammessa. Oppure può presentarsi il caso in cui la pattuizione della doppia fase risponda all'esigenza di una delle parti di godere del diritto di recesso, facoltà che può essere convenzionalmente prevista nel contratto preliminare, e che può anche accompagnarsi alla prevista perdita di una modesta caparra penitenziale versata dal proponente, quale costo del recesso da un contratto preliminare già concluso. Infine, come nel caso di specie, le parti possono aver raggiunto una intesa completa subordinandola ad una condizione. Molto forte la conclusione cui giunge la Corte, che si cita per esteso: <<Tutte queste ipotesi, e le altre che sono immaginabili, sono apparentate da una conclusione che può regolare buona parte della casistica: va escluso che sia nullo il contratto che contenga la previsione della successiva stipula di un contratto preliminare, allorquando il primo accordo già contenga gli estremi del preliminare. L'assenza di causa che è stata rilevata quando si è discusso di "preliminare di preliminare" potrebbe, in tali casi, riguardare tutt'al più il secondo, ma non certo il primo contratto>>. Non può, comunque, non rilevarsi che la previsione di dovere dare vita, in futuro, all'assunzione dell'obbligo contrattuale nascente dal contratto preliminare, può essere sintomatica del fatto che le parti hanno consapevolezza che la situazione non è matura per l'assunzione del vincolo contrattuale vero e proprio. Quindi, l'accordo potrebbe avere una valenza causale, solo nel caso in cui sia volto, non alla mera ripetizione del primo di identici contenuti, ma solo se <<e quanto le parti sono disposte al mutamento del contenuto del contratto, al cambiamento di esso>>, sicchè <<l'obbligazione assunta sembra avere per oggetto non il contrarre, ma il contrattare>>. La procedimentalizzazione delle fasi contrattuali, secondo le Sezioni Unite, non possono essere connotate da disvalore, se corrispondono ad un complesso di interessi che stanno realmente alla base dell'operazione negoziale. Il trionfo dell'autonomia negoziale. Si è consapevoli, tuttavia, della necessità di guardarsi da un uso poco sorvegliato dell'espressione preliminare di preliminare, perché <<l'argomento nominalistico non è neutro>>.

La linea interpretativa che va seguita impone l'analisi "caso per caso" dell'interesse delle parti, della ricerca dell'utilità dell'affare, ammettendosi una sequenza di atti caratterizzati da contenuto contrattuale tra loro differenziati, con conseguenze differenti. Si conclude, invitando il giudice del rinvio ad attenersi al seguente principio di diritto, che appare utile, per ragioni di completezza, riportare integralmente: <<In presenza di contrattazione preliminare relativa a compravendita immobiliare che sia scandita in due fasi, con la previsione di stipula di un contratto preliminare successiva alla conclusione di un primo accordo, il giudice di merito deve preliminarmente verificare se tale accordo costituisce già esso stesso contratto preliminare valido e suscettibile di conseguire effetti ex art. 1351 e 2932 c.c., ovvero anche soltanto effetti obbligatori, ma con esclusione dell'esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento. Riterrà produttivo di effetti l'accordo denominato come preliminare con il quale i contraenti si obblighino alla successiva stipula di un altro contratto preliminare, soltanto qualora emerga la configurabilità dell'interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare. La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, potrà dare luogo a responsabilità per la mancata conclusione del contratto stipulando, da qualificarsi di natura contrattuale per la rottura del rapporto obbligatorio assunto nella fase precontrattuale>>.

. BIBLIOGRAFIA

G. Gabrielli, Prassi della compravendita immobiliare in tre fasi: consensi a mani dell’intermediario, scrittura privata preliminare, atto notarile definitivo, Riv. notariato, Gennaio-aprile 1994, 32.

M. Bellante, Il cd. preliminare di preliminare concluso nelle compravendite immobiliari mediante agenzia, Rassegna di diritto civile, 3/2010, p. 954 ss.

A. Chianale, Il preliminare di preliminare, Intentio certa se obligandi?, Notariato 1/2010,42.

  • contratto di locazione

CAPITOLO VII

LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO.

(di Luca Varrone )

Sommario

1 Premessa. - 2 Brevi cenni sull'evoluzione normativa in materia di locazioni ad uso abitativo. - 3 L'art. 13 e l'obbligo di registrazione del contratto di locazione ad uso abitativo (Sez. U, n. 18213/2015, Travaglino, Rv. 636227). - 4 L'art. 1, comma 4, e la forma del contratto di locazione di immobili ad uso abitativo (Sez. U, n. 18214/2015, Travaglino, Rv. 636227). - 4.1 La forma nella teoria generale del contratto alla luce dell'evoluzione cd. neoformalista. - 4.2 La forma nel contratto di locazione ad uso abitativo. - 4.3 L'interpretazione dell'art. 1, comma 4, della legge n. 431 del 1998 della giurisprudenza di merito. - 4.4 L'interpretazione delle Sezioni Unite. - BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione nel 2015 hanno risolto due questioni in materia di contratto di locazione di immobili ad uso abitativo rimesse dalla terza sezione come questioni di massima di particolare importanza (Sez. 3, n. 00037/2014, Scarano, e Sez. 3, n. 20480/2014, Vivaldi).

Una prima questione risolta da Sez. U, n. 18213/2015, Travaglino, Rv. 636227, riguardava la necessità di rivedere l'orientamento della Corte espresso da Sez. 3, n. 16089/2003, Preden, Rv. 567691, poi seguito da altre pronunce (Sez. 3, Sentenza n. 08148/2009, Petti, Rv. 607932), Sez. 3, Sentenza n. 19568/2004, Trifone, Rv. 577423, nonché Sez. 3, Sentenza n. 08230/2010, Massera, Rv. 612441) secondo cui: <<deve escludersi che l'art. 13, comma 1, della legge 9 dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo) sanzioni con la nullità, in conseguenza della mancata registrazione, la pattuizione di un canone superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato, dovendo intendersi riferita tale disposizione, (e conseguentemente quella di cui al 2° comma dello stesso articolo, che concede al conduttore l'azione di ripetizione delle somme indebitamente corrisposte), non all'ipotesi della simulazione parziale del contratto di locazione relativa alla misura del canone, bensì al caso in cui nel corso di svolgimento del rapporto venga pattuito un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario, che deve restare invariato, a parte l'eventuale aggiornamento ISTAT, per tutta la durata del rapporto legalmente imposta>>.

La seconda questione risolta da Sez. U, n. 18214/2015, Travaglino, Rv. 636227, aveva ad oggetto, invece, la forma del contratto di locazione ad uso abitativo, ed in particolare se l'art. 1, comma 4, della legge n. 431 del 1998, nella parte in cui prevede che <<per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta>>, prescriva il requisito della forma scritta ad substantiam ovvero ad probationem e se l'eventuale causa di nullità sia riconducibile alla categoria delle nullità di protezione in relazione all'art. 13, comma 5, della medesima legge.

Le sentenze citate rivestono una particolare importanza per l'enorme impatto sociale che ha la materia delle locazioni e in particolare la disciplina del contratto di locazione ad uso abitativo. Basti citare in tal senso le parole della Corte costituzionale secondo cui: <<l'abitazione costituisce, per la sua fondamentale importanza nella vita dell'individuo, un bene primario il quale deve essere adeguatamente e concretamente tutelato dalla legge>> (Corte cost. 28 luglio 1983, n. 252). Il diritto all'abitazione, dunque, <<rientra... fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico>> ed è compreso <<fra i diritti inviolabili dell'uomo di cui all'art. 2 della Costituzione>> ( Corte cost. 25 febbraio 1988, n. 217, Corte cost. 7 aprile 1988, n. 404, Corte cost. 14 dicembre 2001, n. 410, Corte cost. 21 novembre 2000, n. 520, Corte cost. 25 luglio 1996, n. 309). Sul tema del cd. diritto all'abitazione si segnala, peraltro, un'altra importante decisione delle sezioni unite in materia di edilizia convenzionata Sez. U, Sentenza n. 18135/2015 Barnabai Rv. 636470).

2. Brevi cenni sull'evoluzione normativa in materia di locazioni ad uso abitativo.

La locazione di immobili urbani, già oggetto di una specifica disciplina codicistica, ha costituito negli ultimi decenni il punto di riferimento di una abbondante legislazione speciale concernente, in particolare, la locazione di immobili ad uso abitativo. La materia delle locazioni ad uso abitativo ha trovato una prima sistemazione organica nella legge 27 luglio 1978, n. 392, ispirata sostanzialmente all'idea di realizzare un meccanismo di determinazione legale del contenuto del contratto e, in particolare, del canone, calcolato sulla base di una serie di parametri oggettivi.

Infatti mentre nello schema delineato dal codice civile, la locazione è disciplinata da norme pressoché totalmente dispositive, le quali consentono alle parti di determinare liberamente il contenuto contrattuale, con la l. n. 392 del 1978 il legislatore ritiene di predeterminare il contenuto del contratto con riferimento al canone per le locazioni abitative e con riferimento alla durata per le locazioni commerciali, oltre che, in entrambi i casi, sotto ulteriori numerosi e tutt'altro che irrilevanti aspetti. Questa impostazione dirigistica ha prodotto risultati estremamente negativi causando una grave distorsione del mercato delle abitazioni. Infatti i proprietari si sono trovati di fronte all'alternativa o di ricorrere al nero o di lasciare vuoti i propri appartamenti, non essendo economicamente conveniente concederli in locazione ad un canone spesso irrisorio e del tutto sganciato dal vero valore di mercato e con alti rischi di perdita della disponibilità del bene per lungo tempo. Si è determinato, pertanto, un rilevante numero di immobili rimasti vuoti tanto da rendere necessario un intervento del legislatore, prima timidamente derogatorio della precedente impostazione (art. 11 del d.l. 11 luglio 1992 n. 333 - misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica-, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, cd. "patti in deroga"), e successivamente con un radicale ripensamento ad opera della l. n. 431 del 1998.

Il primo tentativo del 1992 è consistito nel consentire, nei contratti di locazione ad uso abitativo, la libera pattuizione del corrispettivo bilanciata da un sostanziale raddoppio della durata del contratto. Tutti gli altri aspetti del rapporto contrattuale sono rimasti regolati dalla precedente disciplina.

La legge n. 431 del 1998 ha reso definitiva la scelta del legislatore del 1992 abbandonando definitivamente l'idea del canone "equo" imposto per legge, e preoccupandosi principalmente della necessità di far emergere il sommerso. Si conferma, dunque, la liberalizzazione del canone delle locazioni ad uso abitativo, bilanciata da una maggiore stabilità del rapporto contrattuale, inoltre, si prevede l'obbligo della forma scritta e della registrazione del contratto. La legge prevede due possibili modalità di contrattazione: una prima "libera" e una seconda mediante modelli tipo, frutto di accordi definiti in sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative (art. 2, comma 3).

I contratti di locazioni che ricadono nell'ambito applicativo della legge sono i contratti di locazione di immobili adibiti ad uso abitativo che non abbiano ad oggetto beni vincolati o che non siano costruiti nell'ambito dell'edilizia residenziale pubblica o che non siano alloggi locati per finalità esclusivamente turistiche (Art. 1).

Il legislatore si limita a dettare pochissime prescrizioni, tra le quali la forma scritta e la durata del contratto che varia a seconda si sia scelto il modello a forma libera oppure quello concordato tra associazioni. Nel primo caso, infatti, è prevista una durata minima di quattro anni rinnovabili per ulteriori quattro, mentre nel secondo la durata minima è di tre anni rinnovabili per altri due. Allo scadere il locatore ed il conduttore possono attivare la procedura per il rinnovo a nuove condizioni o per la rinuncia al rinnovo del contratto, comunicando la propria intenzione con lettera raccomandata da inviare all'altra parte almeno sei mesi prima della scadenza. La parte interpellata deve rispondere con lo stesso mezzo entro sessanta giorni dalla data di ricezione della raccomandata. In mancanza di risposta o di accordo il contratto si intenderà scaduto alla data di cessazione della locazione. In mancanza della comunicazione di rinuncia al rinnovo il contratto è rinnovato tacitamente alle medesime condizioni.

3. L'art. 13 e l'obbligo di registrazione del contratto di locazione ad uso abitativo (Sez. U, n. 18213/2015, Travaglino, Rv. 636227).

La legge n. 431 del 1998 nata, come si è detto, dall'esigenza di far emergere l'enorme numero di contratti in nero determinatosi a seguito dell'imposizione dell'equo canone, all'art. 13 comma 1, ha previsto espressamente la sanzione della nullità per le pattuizioni volte a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato.

La norma era stata oggetto di un'interpretazione riduttiva della sua portata in quanto si era escluso che la stessa sanzionasse con la nullità, in conseguenza della mancata registrazione, la pattuizione di un canone superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato, e si era affermato, invece, che la riferita disposizione riguardasse <<il caso in cui nel corso di svolgimento del rapporto fosse pattuito un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario>> (Sez. 3, n. 16089/2003, Preden, Rv. 567691). In altri termini secondo tale interpretazione il legislatore avrebbe voluto introdurre esclusivamente il cd. "principio di invarianza del canone" che si concretizza nel divieto di aumento del canone inizialmente pattuito, a pena di nullità.

Tale interpretazione nasceva sulla base di due fondamentali presupposti: il primo riguardava la mancata previsione di una analoga sanzione di nullità per l'ipotesi più grave della mancata registrazione dell'intero contratto con sottrazione al fisco dell'intero canone di locazione e non della sola differenza tra la somma realmente pattuita e quella indicata nel contratto registrato. Il secondo riguardava il problema dell'incidenza della violazione delle norme fiscali o tributarie sulla validità o efficacia degli atti negoziali dei privati, problema che si era posto sin dal secolo scorso [GABBA, 1874]. Tradizionalmente, infatti, si era sempre operata una distinzione tra la frode alla legge, la quale determina ai sensi del 1344 c.c. l'illiceità della causa con conseguente nullità del contratto secondo l'art. 1418 c.c., e la frode al fisco i cui effetti rimangono confinati entro l'ambito dell'ordinamento tributario. Anche la giurisprudenza aveva più volte affermato che: <<la frode fiscale, diretta ad eludere le norme tributarie, trova soltanto nel sistema delle disposizioni fiscali la sua sanzione, la quale non è sanzione di nullità o di annullabilità del negozio. È principio generale quello secondo il quale la nullità è collegata alla tutela di interessi "superindividuali" e non particolari come quelli di cui è portatore il fisco. A tal fine, non potrà certamente reputarsi la norma tributaria in oggetto norma di carattere imperativo>>.

Nella sentenza delle sezioni Unite si evidenzia che entrambi i presupposti alla base della sentenza del 2003 non sono più attuali, in quanto l'art. 1, comma 346, della legge n. 311 del 2004 ha previsto espressamente la nullità dell'intero contratto non registrato e la Corte Costituzionale sollecitata a verificare la legittimità costituzionale di tale norma, nella parte in cui prevede che i contratti di locazione sono nulli se non sono registrati, ha colto l'occasione per affermare che essa non solo <<non introduce ostacoli al ricorso alla tutela giurisdizionale, ma eleva la norma tributaria al rango di norma imperativa, la violazione della quale determina la nullità del negozio ai sensi dell'art. 1418 cod. civ.>> (ord. n. 420 del 2007). Pertanto si afferma espressamente che <<Non può darsi ulteriore seguito all'interpretazione della norma adottata da questa Corte con la più volte ricordata sentenza n. 16089 del 2003>>.

Nella motivazione si ribadisce che l'interpretazione del 2003 nasceva dalla correlazione comparativa di due fattispecie solo apparentemente omogenee, quella della elusione fiscale parziale e quella dell'evasione totale delle imposte. Le sezioni unite affermano che oggi l'interpretazione dell'art. 13 deve condursi alla stregua della più generale riflessione secondo cui già nel 1998 la volontà del legislatore era quella di sanzionare con la nullità la sola previsione occulta di una maggiorazione del canone apparente, così come indicato nel contratto registrato, in guisa di vera e propria lex specialis, derogativa ratione materiae, della lex generalis (benché posteriore) costituita dal cd. statuto del contribuente. sotto il profilo della validità del contratto di locazione registrato, e della invalidità della sola pattuizione contenente l'indicazione del canone maggiorato, così come indicata nella controdichiarazione.

Spingono nel senso dell'interpretazione prospettata le seguenti ragioni: a) di tipo letterale, in quanto il comma 1 dell'art. 13 non lascia spazio a dubbi interpretativi di sorta; b) ragioni di tipo logico, in quanto una diversa interpretazione - quella, cioè, predicativa della tutela soltanto ex post dell'invarianza del canone - si risolverebbe nella sostanziale vanificazione della duplice ratio sottesa alla disposizione in esame, volta, in via principale, a colpire in radice l'elusione fiscale, e nel contempo intesa, sia pur in via subordinata, a tutelare la parte contrattualmente "debole" al momento della stipula del negozio; c) ragioni di tipo storicosistematico, se si pensa che le disposizioni di legge successive al 1998 introducono un principio generale di inferenza/interferenza dell'obbligo tributario con la validità del negozio, principio generale di cui è sostanziale conferma il dictum della Corte Costituzionale che nell'ordinanza n. 420 del 2007 ha affermato che la norma sopravvenuta e sopra citata di cui all'art. 1, comma 346, della l. n. 311 del 2004 <<non introduce ostacoli al ricorso alla tutela giurisdizionale, ma eleva la norma tributaria al rango di norma imperativa, la violazione della quale determina la nullità del negozio ai sensi dell'art. 1418 cod. civ.>> (ord. n. 420 del 2007).

Secondo i giudici della Suprema Corte, il procedimento simulatorio si sostanzia nella stipula di un unico contratto di locazione (registrato), cui accede, in guisa di controdichiarazione, la scrittura (nella specie, coeva alla locazione, e redatta in forma contrattuale) con cui il locatore prevede di esigere un corrispettivo maggiore da occultare al fisco. La sostituzione, attraverso il contenuto della controdichiarazione, dell'oggetto apparente (il prezzo fittizio) con quello reale (il canone effettivamente convenuto) contrasta con la norma imperativa che tale sostituzione impedisce, e pertanto, lascia integra la (unica) convenzione negoziale originaria, oggetto di registrazione.

Nella sentenza si precisa che non è la mancata registrazione dell'atto recante il prezzo reale (attesa la funzione già in precedenza specificata di controdichiarazione) ad essere sanzionata con la nullità, ma l'illegittima sostituzione di un prezzo con un altro secondo un meccanismo del tutto speculare a quello previsto per l'inserzione automatica di clausole in sostituzione di quelle nulle.

Le Sezioni Unite offrono soluzione anche all'ulteriore problema degli effetti della tardiva registrazione del patto scritto con il prezzo dissimulato e alla sua possibile efficacia sanante. Sulla base della ricostruzione del meccanismo simulatorio operata nella sentenza, si afferma che, anche nel caso di registrazione successiva dell'atto controdichiarativo avente forma contrattuale, essendosi in presenza della prosecuzione di quello stesso rapporto di locazione nato nell'ambito del procedimento simulatorio, la sostituzione dell'importo del canone fittizio con quello realmente pattuito e riscosso pro tempore, è vietata ex lege, con conseguente nullità del patto contenente la previsione del canone effettivamente preteso dal locatore.

Infatti, l'adempimento tardivo dell'obbligo di registrazione, visto il suo carattere extranegoziale, non può avere alcun effetto sull'aspetto civilistico della validità/efficacia del patto oggetto della registrazione tardiva, diversamente finendo per incidere, del tutto inammissibilmente, sulla sua struttura e sulla sua morfologia. In altri termini la autonomia e diacronia del procedimento simulatorio rispetto al contratto successivamente registrato - sia pur nella singolarità di una vicenda in cui il medesimo atto partecipa al tempo stesso della natura di controdichiarazione (all'interno di quel complesso procedimento) e di vero e proprio contratto quale risultante dalla successiva registrazione - si pone, nondimeno, come del tutto ostativa a qualsiasi ricostruzione della fattispecie volta a predicare, della registrazione, un effetto di sanatoria, poiché l'atto negoziale avente funzione contro-dichiarativa, inserita nell'ambito del procedimento simulatorio, risulta, come già detto, insanabilmente affetto da nullità per contrarietà a norma imperativa. Lo scopo dissuasivo dell'intento di elusione fiscale, che costituisce la ratio dell'intera legge, sarebbe difatti fortemente attenuato, se non del tutto vanificato, dal riconoscimento di una qualsivoglia efficacia sanante alla registrazione tardiva: il legislatore, sanzionando di nullità ogni patto volto alla previsione di un maggior canone, aveva inteso, in via principale, contrastare proprio il fenomeno del cd. mercato sommerso degli affitti, perseguendo incondizionatamente l'emersione del fenomeno delle locazioni cd. "in nero". La causa concreta di tale patto, ricostruita alla luce del procedimento simulatorio, si rivela, pertanto, come ineluttabilmente caratterizzata dalla vietata finalità di elusione fiscale, e conseguentemente affetta dalla medesima nullità che la caratterizzava all'interno del detto procedimento.

Degna di nota la chiosa finale della sentenza nella quale si afferma che la soluzione adottata, su un piano più generale - etico/costituzionale- impedisce che, dinanzi ad una Corte suprema di un Paese europeo, una parte possa invocare tutela giurisdizionale adducendo apertamente e impunemente la propria qualità di evasore fiscale, e che, l'imposizione e il corretto adempimento degli obblighi tributari, lungi dall'attenere al solo rapporto individuale contribuente-fisco, afferiscono ad interessi ben più generali, in quanto il rispetto di quegli obblighi, da parte di tutti i consociati, si risolve in un miglior funzionamento della stessa macchina statale, nell'interesse superiore dell'intera collettività.

4. L'art. 1, comma 4, e la forma del contratto di locazione di immobili ad uso abitativo (Sez. U, n. 18214/2015, Travaglino, Rv. 636227).

4.1. La forma nella teoria generale del contratto alla luce dell'evoluzione cd. neoformalista.

Con la seconda sentenza in commento si è affrontato il diverso tema della forma del contratto di locazione. Nella motivazione si ricorda che nel nostro ordinamento secondo l'opinione dominante (peraltro non condivisa da autorevole dottrina), vige il principio generale di libertà della forma. Di massima, pertanto, la manifestazione di volontà contrattuale non richiede forme particolari, ma può avvenire con qualunque modalità idonea a manifestarla, compresi comportamenti concludenti. Tale principio non è privo di eccezioni. È noto che, per alcuni atti la legge, richiede che la volontà sia manifestata attraverso particolari modalità espressamente stabilite, attraverso la stipula di contratti a forma cd. vincolata: l'art. 1350 c.c. elenca quelli per i quali la forma scritta è prevista a pena di nullità. La forma vincolata risponde ad una molteplicità di esigenze: a) in primo luogo vi è quella di garantire certezza sull'esistenza e sul contenuto del contratto oltre che sulla stessa volontà delle parti; b) quella di rendere possibili i controlli sul contratto, previsti nell'interesse pubblico (come per la contrattazione con la pubblica amministrazione); c) quella di rendere trascrivibile il contratto a fini di pubblicità, per rendere opponibili a terzi i diritti da esso nascenti; d) quella di protezione del contraente che mediante la forma scritta e, quindi, attraverso una certa sacralità si può rendere conto meglio delle obbligazioni che assume mediante il contratto.

Alcune teorie sulla forma del contratto valorizzano il contenuto del contratto attribuendo un valore funzionale alla forma, da valutarsi in concreto, in relazione alle rationes che un determinato contratto esprime. Secondo tale teoria non è possibile applicare automaticamente la disciplina della nullità in mancanza della forma prevista dalla legge ma è necessario operare un'interpretazione assiologicamente orientata nel rispetto dei valori fondamentali del sistema. Quindi il carattere eccezionale o meno della norma sulla forma ovvero il suo carattere derogabile o inderogabile non potrà essere definito in astratto e in via generale ma dovrà risultare da un procedimento interpretativo che dipende dal ruolo che la norma assume nel sistema, dalla ratio che esprime, dal valore che per l'ordinamento rappresenta [PERLINGIERI, 1987].

Il neoformalismo [SCALISI, 2011, 415; BRECCIA, 2006, 535]; tende a favorire l'emersione del rapporto economico sottostante a ciascun documento negoziale favorendo il mutamento genetico del ruolo stesso della forma del contratto, che non è più soltanto indice di serietà dell'impegno obbligatorio, o mezzo di certezza o idoneità agli effetti pubblicitari, ma strumento che consente di rilevare lo squilibrio esistente tra i contraenti e di tutelare la parte debole.

In senso opposto altra dottrina [IRTI, 1985, 41 e ss.] ritiene che l'art. 1325 c.c., n. 4 cod. civ. indichi la forma come puro elemento necessario nella struttura del contratto senza attribuire alcun rilievo all'elemento teleologico sulle ragioni per le quali si ritiene necessaria una certa forma. Nel diritto civile sostanziale, dunque, sarebbe preclusa un'operazione consentita invece nel diritto processuale circa la valutazione sull'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo.

4.2. La forma nel contratto di locazione ad uso abitativo.

Com'è noto prima della legge n. 431 del 1998, sia la disciplina codicistica che la legge n. 392 del 1978 non imponevano alcuna forma particolare al contratto di locazione sia per le locazioni ad uso abitativo che per quelle ad uso diverso. L'unica ipotesi di obbligo di forma scritta era quella relativa ai contratti di locazione ultranovennale ex art. 1350 n. 8 c.c. La giurisprudenza sul punto si era espressa più volte sancendo tra l'altro che la forma scritta ad susbtantiam prevista dall'art. 1350, n. 8, cod. civ. era richiesta solo per i contratti di locazione ultranovennale e non anche per quelli che superassero tale termine a seguito del rinnovo che resta comunque eventuale anche se quasi automatico e obbligatorio (Sez. 3, n. 06130/1993, Fancelli, Rv. 482622 e Sez. 3, n. 01633/1998, Vittoria, Rv. 512680). Pertanto fino alla l. n. 431 del 1998 l'unica eccezione alla regola della libertà della forma era quella prevista per le locazioni ultranovennali.

L'art. 1 comma 4, ha previsto testualmente che <<A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta>>. La forma scritta è ispirata in primo luogo dalla necessità di assicurare certezza a rapporti giuridici che coinvolgono un così importante bene della vita. In secondo luogo si vuole stabilizzare il canone che seppure liberalizzato deve rimanere quello indicato nel contratto per tutta la durata del rapporto e, infine, si vuole assicurare la più ampia pubblicità possibile al rapporto, al fine di contrastare l'evasione fiscale. Infatti la prescrizione della forma scritta è volta soprattutto a tutelare l'intereresse alla trasparenza del mercato delle locazioni in funzione dell'esigenza di un più penetrante controllo fiscale, esigenza avvertita in modo significativo in un settore dove come si è detto, a causa della precedente disciplina dirigistica il fenomeno dell'evasione era elevatissimo. E proprio il collegamento funzionale (anche se non strutturale) tra forma scritta e registrazione del contratto apparve e tuttora appare particolarmente significativo in tal senso.

La stessa relazione di accompagnamento (Relazione della VIII Commissione permanente (Ambiente territorio e lavori pubblici), presentata alla Presidenza il 25.11.1998, Relatore Zagatti, in Atti Parlamentari-Camera dei Deputati, XIII Legislatura - Disegni di legge e Relazioni - Documenti, 3) indica con chiarezza che l'obiettivo della legge n. 431 del 1998 era quello di <<introdurre misure atte a combattere il fenomeno dell'evasione fiscale che appare particolarmente presente in questo settore>>, in aggiunta alla volontà di realizzare una liberalizzazione controllata del mercato locativo.

4.3. L'interpretazione dell'art. 1, comma 4, della legge n. 431 del 1998 della giurisprudenza di merito.

Nell'ordinanza interlocutoria si era evidenziato che la giurisprudenza di legittimità (diversamente da quella di merito, non unanime sul punto) non si era mai pronunciata sulla portata della norma in esame.

Nella sentenza delle sezioni unite si richiamano i diversi orientamenti della giurisprudenza di merito ribadendo che la dottrina in modo pressoché unanime ha sempre ritenuto che la legge n.431 del 1998 richieda per i contratti di locazione ad uso abitativo la forma scritta a pena di nullità.

La giurisprudenza di merito sembra aver privilegiato quasi unanimamente l'interpretazione secondo la quale la forma scritta del contratto di locazione sia richiesta ad substantiam.

Secondo alcuni la norma citata deve combinarsi con l'art. 1418 c.c. che sanziona con la nullità la mancanza di uno dei requisiti di cui all'art. 1325 c.c. ivi compresa la forma del contratto se prevista a pena di nullità.

Secondo altri, invece, deve farsi riferimento all'art. 1350 n. 13 c.c. che contempla tra gli atti che devono farsi per iscritto a pena di nullità anche quelli specificamente indicati dalla legge.

Un'ulteriore percorso interpretativo per affermare che la forma scritta prevista dall'art. 1, comma 4, della l. n. 431 del 1998 sia a pena di nullità fa riferimento agli artt. 1352 e 2739 c.c. circa il significato da attribuire al requisito di forma in difetto di univoche prescrizioni.

In conformità con la tesi della nullità si è detto da parte della giurisprudenza di merito che il contratto di locazione stipulato in forma orale deve ritenersi irrimediabilmente nullo e che, pur dovendosi riconoscere ai proprietari un'indennità per l'occupazione dei locali, questa non può essere commisurata al canone di locazione pattuito con il contratto verbale perché altrimenti si finirebbe con attribuire efficacia ad un contratto espressamente qualificato come nullo dalla legislazione vigente.

4.4. L'interpretazione delle Sezioni Unite.

Le sezioni unite con la decisione in esame hanno ritenuto in primo luogo che la forma scritta sia prevista a pena di nullità in quanto rispondente alla finalità di assicurare al contratto la più ampia pubblicità al fine di contrastare l'evasione fiscale. L'interpretazione letterale dell'art. 1, comma 4, della legge n.431 del 1998 non consente una soluzione diversa in quanto dire che per stipulare validi contratti di locazione è necessaria la forma scritta, significa a contrario dire che il contratto di locazione che manchi di tale requisito è invalido e, quindi, nullo. Non vale obiettare che nella categoria dell'invalidità rientra anche il contratto annullabile perché nella disciplina positiva non si riscontrano ipotesi di annullabilità per vizio di forma.

Le Sezioni Unite evidenziano che deve essere privilegiata l'interpretazione secondo la quale la forma scritta è richiesta ad essentiam, ma che la rilevabilità della nullità da parte del solo conduttore deve essere limitata alla specifica ipotesi di cui all'art. 13, comma 5 della l. n. 431 del 1998, che accorda al medesimo conduttore una speciale tutela nel caso in cui gli sia stato imposto, da parte del locatore, un rapporto di locazione di fatto, stipulato soltanto verbalmente. In altri termini il conduttore può far valere, egli solo, la nullità qualora sia stato il locatore ad imporre la forma verbale, abusando della propria posizione dominante all'interno di un rapporto asimmetrico.

In tal modo si offre una risposta anche al secondo quesito se l'eventuale causa di nullità per vizio di forma sia riconducibile alla categoria delle nullità di protezione con una portata più ampia di quella prevista dall'art. 13, comma 5, della medesima legge.

Secondo i giudici di legittimità non può essere data un'interpretazione estensiva o tantomeno analogica all'art. 13, comma 5, della l. n. 431 del 1998, in quanto le norme in materia di cd. nullità di protezione, hanno una portata eccezionalmente derogatoria di un principio-cardine dell'ordinamento quale quello dell'insanabilità del contratto nullo, e quindi, sono di stretta interpretazione. Anzi proprio il meccanismo di cui all'art. 13, comma 5, della legge n. 431 del 1998, prova che la nullità per difetto di forma scritta ha carattere assoluto, infatti, solo in presenza dell'elemento caratterizzante costituito dall'"abuso" del locatore il rapporto necessita di un riequilibrio mediante l'introduzione di un'ipotesi di nullità relativa, ne consegue che in mancanza di tale <<abuso>> la nullità è assoluta e, quindi, non sanabile e rilevabile da entrambe parti oltre che d'ufficio ex art. 1421 c.c.

Se la forma scritta risponde alla finalità di attribuire alle parti, ed in specie al conduttore, uno status di certezza dei propri diritti e dei propri obblighi, la sua funzione primaria (coerente con la ratio dell'intero dettato normativo di cui alla legge 431) deve comunque ritenersi quella di trarre dall'ombra del sommerso - e della conseguente evasione fiscale - i contratti di locazione.

Il comma 5 dispone, difatti, testualmente, che <<nei casi di nullità di cui al comma 4 il conduttore, con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell'immobile locato, può richiedere la restituzione delle somme indebitamente versate. Nei medesimi casi il conduttore può altresì richiedere, con azione proponibile dinanzi al pretore, che la locazione venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto dal comma 1 dell'articolo 2 ovvero dal comma 3 dell'articolo 2. Tale azione è altresì consentita nei casi in cui il locatore ha preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto, in violazione di quanto previsto dall'articolo 1, comma 4, e nel giudizio che accerta l'esistenza del contratto di locazione il pretore determina il canone dovuto, che non può eccedere quello definito ai sensi del comma 3 dell'articolo 2 ovvero quello definito ai sensi dell'articolo 5, commi 2 e 3, nel caso di conduttore che abiti stabilmente l'alloggio per i motivi ivi regolati; nei casi di cui al presente periodo il pretore stabilisce la restituzione delle somme eventualmente eccedenti>> La norma opera un espresso riferimento all'art. 1, comma 4, ovvero all'ipotesi di un contratto nullo per mancanza di forma scritta che abbia dato luogo ad un rapporto di locazione di fatto. Si richiede, tuttavia, espressamente, un ulteriore presupposto, ovvero che sia il locatore ad aver preteso l'instaurazione del rapporto di fatto, e che quindi la nullità del contratto sia a lui attribuibile, mentre il conduttore deve averla solo subita. Si ipotizza, pertanto, un locatore che ponga in essere una coazione idonea ad influenzare il processo di formazione della volontà del conduttore, condizionando alla forma verbale l'instaurazione del rapporto di locazione in violazione dell'articolo 1, comma 4.

Solo in questo caso il conduttore sarà il (solo) soggetto legittimato a chiedere che la locazione di fatto, nulla per vizio di forma, venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto in relazione al canone predeterminato in sede di accordi definiti ai sensi del comma 3 dell'articolo 2 ovvero ai sensi dell'articolo 5, commi 2 e 3. Il giudice dovrà pertanto accertare, da un canto, l'esistenza del contratto di locazione stipulato verbalmente in violazione dell'art. 1, comma 4, della l. n. 431 del 1998, e, dall'altro, la circostanza che tale forma sia stata imposta da parte del locatore e subita da parte del conduttore contro la sua volontà, così determinando ex tunc il canone dovuto nei limiti di quello definito dagli accordi delle associazioni locali della proprietà e dei conduttori ai sensi del comma 3 dell'articolo 2, con il conseguente diritto del conduttore alla restituzione della eccedenza pagata.

L'innegabile difficoltà probatoria dell'abuso del locatore richiesto dall'art. 13, comma 5, (gravando il relativo onere sul conduttore, in ossequio alle tradizionali regole del relativo riparto) non può condurre a soluzione diversa, non potendo un principio (e una maggior difficoltà) di carattere processuale incidere sulla ricostruzione sostanziale della fattispecie.

Le Sezioni Unite ribadiscono di non poter accedere alla tesi della natura relativa della nullità prevista dall'art. 1, comma 4, della legge n. 431 del 1998 in funzione di protezione del contraente maggiormente esposto al rischio contrattuale. Ciò perché lo scopo della forma scritta nel caso del contratto di locazione non è lo stesso di altre norme che introducono obblighi di forma (nelle varie fasi della formazione del contratto, dalle trattative alla stipulazione definitiva) in funzione di protezione del contraente maggiormente esposto al rischio contrattuale. In alcuni casi, infatti, come per i contratti bancari di investimento la forma scritta è dettata in funzione del superamento di uno squilibrio informativo che caratterizza il rapporto tra le parti ed è diretta a fornire al contraente debole tutte le informazioni necessarie per assumere consapevolezza del rischio cui si espone nell'investimento e per avere la possibilità di verificare la conformità del contratto definitivo con quanto è stato oggetto di informativa preliminare.

Tali finalità non possono ritenersi presenti con riguardo al requisito di forma scritta del contratto di locazione. In primo luogo, non può ravvisarsi un collegamento tra prescrizione di forma e obblighi informativi in quanto non vi sono particolari rischi connessi allo svolgimento del contratto e non è dato riscontrare quello squilibrio informativo che tipicamente caratterizza le relazioni che intercorrono tra contraenti deboli e contraenti professionali. In secondo luogo, la prescrizione di forma non è dettata in funzione strumentale del contenuto, il quale, nell'ordinaria modalità di svolgimento delle relazioni contrattuali, risulta agevolmente comprensibile dal conduttore. Queste considerazioni, sebbene non escludano la volontà di tutelare il conduttore, la quale risulta da una pluralità di norme dettate nel suo esclusivo interesse, conducono a ritenere esclusa la possibilità di applicazione analogica delle norme che prevedono nullità relative.

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V. Scalisi, Forma solenne e regolamento conformato: un ossimoro del nuovo diritto dei contratti? Riv. Dir. Civ., 2011, 3, 415.

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N. Irti, La rinascita del formalismo ed altri temi, in Idola libertatis, Tre esercizi sul formalismo giuridico, Milano, 1985, 41 ss.

  • danno
  • procedimento giudiziario

CAPITOLO VIII

PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITÀ DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITÀ

(di Fabio Antezza, Lorenzo Delli Priscoli )

Sommario

1 Premessa: la questione di diritto. - 2 Ricostruzione dei diversi percorsi logico-giuridici seguiti dalla S.C. - 3 Interpretazione del combinato disposto degli artt. 684 c.p. e 114 c.p.p., beni giuridici tutelati e rilevanza a fini risarcitori. - 4 Danno non patrimoniale di lieve entità e principio di solidarietà. - 5 Considerazioni di sintesi.

1. Premessa: la questione di diritto.

Nel 2015 la S.C. ha affrontato la questione giuridica inerente l'interpretazione del combinato disposto degli artt. 684 c.p. e 114 c.p.p., dovendo decidere in ordine a risarcimento del danno non patrimoniale, per lesione della reputazione e della riservatezza, conseguente al reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale nell'esercizio del diritto di cronaca giudiziaria (in tutti i casi si trattava di pubblicazioni effettuate dopo gli avvisi di cui all'articolo 415 bis c.p.p.).

È stato in particolare posto l'interrogativo in ordine al se la valutazione del giudice di merito, finalizzata all'accertamento del danno non patrimoniale, debba essere vincolata al semplice rilievo delle minima riproduzione di un atto non divulgabile o, per converso, debba avere ad oggetto l'apprezzamento dei contenuti della riproduzione medesima.

Sull'argomento sono intervenute tre decisioni della S.C. ed in particolare Sez. 3, n. 00838/2015, Sestini, che ha statuito nel senso dell'irrilevanza del dato quantitativo della limitatezza della riproduzione dell'atto non divulgabile, oltre che Sez. 3, n. 06428/2015, Vincenti, e Sez. 1, n. 22003/2015, Campanile, che hanno invece rimesso gli atti al Primo Presidente con conseguente assegnazione dei ricorsi alle Sezioni unite, ritenendo sussistente una questione di massima di particolare importanza, allo stato non ancora risolta.

La questione inerisce la riproduzione di atti non coperti da segreto ma non divulgabili, ai sensi dell'art. 114, comma 2, c.p.p., ed in particolare se essa integri il reato di cui all'articolo 684 c.p., ove alla limitatezza della riproduzione si accompagni la marginalità del loro contenuto (ad esempio per il fatto di riferirsi a fatti storici non particolarmente significativi), e se la consumazione di tale contravvenzione possa determinare di per sé un danno non patrimoniale risarcibile per lesione della reputazione o della riservatezza, a prescindere dunque dalla consumazione del reato di diffamazione o di fattispecie a tutela della riservatezza previste dal D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196.

2. Ricostruzione dei diversi percorsi logico-giuridici seguiti dalla S.C.

Sez. 3, n. 00838/2015, Sestini, depositata il 20 gennaio 2015, ha deciso una questione di risarcimento del danno conseguente al reato di cui all'art. 684 c.p. nel senso dell'irrilevanza del dato quantitativo della limitatezza della riproduzione dell'atto non divulgabile.

Con la citata sentenza è stata ritenuta la possibilità di fondare una pretesa risarcitoria sul reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale a prescindere dal fatto che esso concorra o meno con la diffamazione.

La detta possibilità è stata argomentata dalla ritenuta autonomia della tutela fondata sulla violazione delle norme concernenti il segreto su atti processuali rispetto a quella correlata alla diffamazione, in ragione della plurioffensività del reato punito dall'art. 684 c.p. e del combinato disposto di esso e dell'art. 114 c.p.p. (nel senso dell'autonomia delle due tutele si veda anche Sez. pen. 5, n 17051 del 2013).

La fattispecie contravvenzionale di cui innanzi, infatti, è volta a tutelare, nella fase istruttoria, la dignità e la reputazione di tutti coloro che, sotto differenti vesti, partecipano al procedimento penale nonché l'interesse dello Stato al retto funzionamento dell'attività giudiziaria, al fine di garantire l'assenza di condizionamenti del giudice dell'eventuale futuro dibattimento. Le disposizioni di cui all'art. 114 c.p.p. segnano invece gli ambiti entro i quali opera il divieto di divulgazione degli atti coperti da segreto, così integrando il precetto penale dell'articolo 684 c.p.

Nel caso di specie, trattandosi di procedimento penale nella fase delle indagini preliminari ma successiva agli avvisi di cui all'art. 415 bis c.p.p., ha rilevato, come ha chiarito la motivazione della sentenza in esame, l'articolo 114, comma 2, c.p.p. che, rispetto al divieto assoluto di pubblicazione (parziale o per riassunto o anche solo del contenuto), vieta la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti da segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare.

All'esito dell'interpretazione di cui innanzi la S.C. ha negato ogni rilievo al dato quantitativo della "limitatezza" della trascrizione dell'atto non divulgabile enunciando il principio di diritto per il quale <<fatta salva la possibilità di pubblicare il contenuto degli atti non coperti dal segreto, non può derogarsi al divieto di pubblicazione di tali atti (mediante riproduzione integrale o parziale o estrapolazione di frasi), nei casi previsti dall'art. 114 c.p.p., in dipendenza del dato quantitativo della limitatezza della riproduzione, trattandosi di deroga non prevista dalla norma e non compatibile con le esigenze sottese alla disciplina relativa alla pubblicazione di atti di un procedimento penale>> (nello stesso senso, sostanzialmente, Sez. 1, n. 17602/2013, Didone, e Sez. pen. 1, n. 00473 del 2013).

Successivamente, con ordinanza depositata il 30 marzo 2015, Sez. 3, n. 06428/2015, Vincenti, dovendo decidere questione analoga a quella di cui innanzi, ha rimesso gli atti al Primo Presidente della S.C., con conseguente assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, ritenendo sussistente una questione di massima di particolare importanza - come detto, allo stato non ancora risolta - inerente l'interpretazione del combinato disposto degli artt. 114 c.p.c. e 684 c.p., ai fini del risarcimento dei danni non patrimoniali per lesione della reputazione e della riservatezza.

La S.C. ha osservato che l'enunciazione del principio di diritto di cui innanzi da parte della citata Sez. 3, n. 00838/2015, Sestini, si colloca in immediata correlazione con la ritenuta autonomia della tutela fondata sulla violazione delle norme concernenti il segreto su atti processuali rispetto a quella correlata alla diffamazione, in ragione della plurioffensività della contravvenzione di cui all'articolo 684 c.p. e della portata integrativa del precetto penale riconosciuta al disposto di cui all'articolo 114, comma 2, c.p.p. ed interpretato come innanzi evidenziato.

L'ordinanza in oggetto ha poi osservato, da un lato, che sembrerebbe discostarsi dal principio di diritto sancito dalla citata Sez. 3, n. 00838/2015, Sestini, Sez. pen. 1, n. 43479 del 2013, Rv. 257401, per la quale non integra la fattispecie di cui all'art. 684 c.p. la pubblicazione di una brevissima frase, riportata tra virgolette, dell'interrogatorio dell'indagato.

In secondo luogo, in motivazione la S.C. ha altresì evidenziato che, anche sotto il profilo della tutela apprestata dalla previsione incriminatrice di cui all'articolo 684 c.p., la natura plurioffensiva del reato, predicata dalla prevalente giurisprudenza, risulta posta in dubbio da una recente decisione. Il riferimento è a Sez. 3, n. 19746/2014, Vivaldi, Rv. 632104, per la quale la tutela penale accordata dall'art. 684 c.p. non attiene alla sfera di riservatezza dell'indagato o dell'imputato ma alla protezione delle esigenze di giustizia inerenti al processo penale nella delicata fase di acquisizione della prova.

Argomentando nei termini di cui innanzi, Sez. 3, n. 06428/2015, Vincenti, ha ritenuto che, ove si ritenesse (contrariamente alla prevalente giurisprudenza) l'offensività incentrata soltanto sul profilo pubblicistico della giurisdizione si riproporrebbe il problema della legittimazione del privato a far valere una pretesa risarcitoria per la mera violazione dell'articolo 684 c.p., in assenza, quindi, di un concreto pregiudizio alla sua reputazione.

Il tema problematico centrale è stato comunque ritenuto quello della possibilità, o meno, che la riproduzione parziale di atti non divulgabili, ai sensi dell'art. 114, comma 2, c.p.p., integri il reato di cui all'articolo 684 c.p., ove alla limitatezza della riproduzione si accompagni la marginalità del loro contenuto, quale si potrebbe avere anche nel rapporto quantitativo fra gli atti pubblicati e quelli del procedimento penale.

Negli stessi termini di Sez. 3, n. 06428/2015, Vincenti, e con le identiche argomentazioni, ha rimesso gli atti al Primo Presidente della S.C., per la risoluzione della medesima questione di massima di particolare importanza, Sez. 1, n. 22003/2015, Campanile, con ordinanza depositata il 28 ottobre 2015.

3. Interpretazione del combinato disposto degli artt. 684 c.p. e 114 c.p.p., beni giuridici tutelati e rilevanza a fini risarcitori.

In ragione della stretta interdipendenza tra l'art. 114 c.p.p. e la contravvenzione di cui all'art. 684 c.p., in termini di integrazione del precetto penale, necessita una breve disamina del citato art. 114 c.p.p., solo in quanto e nei limiti entro i quali essa risulti prodromica all'individuazione dei beni giuridici tutelati dalla contravvenzione di pubblicazione arbitraria di atti del procedimento penale.

Dalla formulazione dell'art. 114 c.p.p. emerge la non completa coincidenza tra il regime di segretezza degli atti del procedimento penale e quello della loro divulgazione, permanendo difatti una distinzione tra "segreto" e "divieto di pubblicazione".

Per gli atti coperti da segreto assoluto, cioè gli atti del Pubblico ministero e della Polizia giudiziaria fino a che non siano conoscibili dall'indagato, vige un divieto assoluto di pubblicazione, in quanto relativo sia al testo che al contenuto, totale o parziale ed anche per riassunto. Per gli atti non coperti da segreto sussiste invece un divieto limitato di pubblicazione che si atteggia diversamente in considerazione della fase o del grado del giudizio.

Le disposizioni dell'art. 114 c.p.p., che delimitano l'ambito del divieto di pubblicazione e che valgono ad integrare il precetto della norma penale (così, Sez. 3, n. 00838/2015, Sestini), disegnano difatti un sistema che stabilisce, al primo comma, il divieto assoluto di pubblicazione anche parziale o per riassunto degli atti coperti dal segreto istruttorio o anche solo del loro contenuto e che, ai commi secondo e terzo, estende il divieto di pubblicazione anche parziale, agli atti non più coperti da segreto ma relativi ad un procedimento ancora in corso, pur facendo salva, al comma settimo, la possibilità della pubblicazione del loro contenuto.

In particolare, prima della conclusione delle indagini preliminari, la ratio dell'art. 684 c.p. va rinvenuta nella protezione delle esigenze di giustizia inerenti il processo penale nella delicata fase dell'acquisizione degli elementi di prova, a garanzia quindi del buon andamento delle indagini (in questi termini Sez. pen. 2, n. 30838 del 2013, e Sez. 3, n. 19746/2014, Vivaldi, Rv. 632104). Dopo il detto momento la ratio della norma diventa quella della salvaguardia di un principio cardine del processo penale accusatorio, qual è il giudizio senza pregiudizi che potrebbero formasi nel giudice che abbia avuto conoscenza, totale o parziale, di atti del procedimento penale al di fuori delle regole del contraddittorio.

Circa la natura plurioffensiva della fattispecie in oggetto, che tutela il "segreto processuale", si è espressa parte della giurisprudenza della S.C., considerata dominante dalle due citate ordinanze di rimessione degli atti per la risoluzione di massima di particolare importanza.

Secondo tale orientamento oggetto di tutela è non solo l'interesse statale al corretto funzionamento dell'attività giudiziaria ma anche le posizioni delle parti processuali e di tutti coloro che, sotto differenti vesti, partecipano al procedimento penale e, comunque, della loro reputazione oltre che dalla riservatezza (in tal senso, ex plurimis, oltre a Sez. 3, n. 00838/2015, Sestini, anche Sez. 1, n. 17602/2013, Didone; Sez. pen. 1, n. 42269 del 2004, Rv. 230146; Sez. pen. 5, n. 2377 del 1989, Rv. 183403).

Per altro orientamento di legittimità, contrapposto al primo, l'unico bene giuridico tutelato dall'articolo 684 c.p. sarebbe l'esigenza di giustizia inerente il procedimento penale, nei termini già innanzi esplicitati, non attenendo la tutela penale in oggetto anche alla sfera di riservatezza dell'indagato (ex plurimis, Sez. pen. 5, n. 2320 del 1980, Rv. 148098).

Tale ultimo orientamento è stato di recente confermato anche da Sez. 3, n. 19746/2014, Vivaldi, Rv. 632104, per la quale, difatti, in tema di diffamazione a mezzo stampa, la pubblicazione dell'iscrizione della denuncia nel registro delle notizie di reato non costituisce evento lesivo della reputazione del soggetto indagato, atteso che la tutela ex art. 684 c.p. attiene alla protezione delle esigenze di giustizia inerenti il procedimento penale e non alla sfera di riservatezza dell'indagato o dell'imputato.

La tutela della riservatezza dei soggetti del procedimento penale è sì contemplata dalla fattispecie di cui all'art. 684 c.p. ma in via eventuale ed indiretta, non essendo esso il bene giuridico oggetto diretto della tutela penale, prevedendo peraltro il sistema penalistico italiano già la fattispecie di cui all'art. 595 c.p. e non è detto che qualsiasi atto del procedimento penale pubblicato illecitamente determini una lesione dell'altrui reputazione o riservatezza.

Nei detti ultimi termini ha statuito Sez. pen. 1, n. 32846 del 2014, ma tale pronuncia sembrerebbe non fondante un terzo autonomo ed intermedio orientamento della S.C. rispetto ai due già analizzati.

La sentenza da ultimo citata, difatti, fa riferimento al concetto di "tutela", ancorché "indiretta", della reputazione o della riservatezza tale, quindi, da evocare l'accezione plurioffensiva della contravvenzione di cui all'art. 684 c.p., al pari del primo degli esaminati orientamenti, o quella contrapposta, qualora si ritenesse "indiretta" la tutela solo "eventuale", "mediata" ed "occasionale".

Premesso quanto innanzi evidenziato, potrebbe assumere particolare importanza quale chiave di lettura dell'articolo 114 c.p.p. e, quindi, ai fini dell'interpretazione del combinato disposto degli articoli 684 c.p. e 114 c.p.p. ed all'individuazione dei beni giuridici tutelari dalla fattispecie contravvenzionale, la circostanza per la quale vengono in considerazione valori tutti di rango costituzionale. Trattasi in particolare di valori che attengono alla tutela della persona - reputazione e riservatezza), alla libertà di stampa - in termini di esercizio del diritto di cronaca giudiziaria - ed all'esercizio della giurisdizione (artt. 2, 3, 21 e 111 cost.).

Circa i rapporti tra i valori dell'esercizio della giurisdizione, della libertà di stampa e della riservatezza l'art. 111 Cost. prevede, in particolare, che la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata, "riservatamente", della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico. La finalità di assicurare il diritto inviolabile alla riservatezza oltre che l'esercizio della giurisdizione non deve però motivare un'eccessiva compressione della libertà di stampa, così giustificando ragionevoli particolari modalità di divulgazione del materiale probatorio ed in particolare degli atti del procedimento penale nei termini di cui all'articolo 114 c.p.p.

Con il d.lgs. n. 196 del 2003 il legislatore ha poi previsto un sistema ispirato al prioritario rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali e della dignità della persona, in particolare della riservatezza e del diritto alla protezione dei dati personali nonché dell'identità personale o morale del soggetto. Emerge ancora una volta, quindi, l'esigenza di garantire il bilanciamento tra contrapposti diritti e libertà fondamentali, dovendo al riguardo tenersi conto del rango di diritto fondamentale assunto dal diritto alla protezione dei dati personali, tutelato dagli artt. 21 e 2 Cost., nonché dall'art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, quale diritto a mantenere il controllo sulle proprie informazioni. Tale diritto sussiste in capo ad ogni consociato nei diversi contesti ed ambienti di vita e concorre a delineare l'assetto di una società rispettosa dell'altro e della sua dignità in condizioni di eguaglianza (in tali ultimi termini Sez. 2, n. 00186/2011, Giusti).

Analogo ragionamento, in termini di ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali, può effettuarsi con riferimento ai rapporti con la tutela della reputazione al fine di evitare un'illimitata espansione di uno dei diritti, che altrimenti diverrebbe "tiranno" nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette (per il ragionevole bilanciamento onde evitare la tirannia di un diritto costituzionalmente riconosciuto su altro di pari rango, si vedano, ex plurimis, Corte cost., n. 85 del 2013; Corte cost., n. 264 del 2012).

La tesi interpretativa prospettata sembrerebbe anche "convenzionalmente orientata".

L'art 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (di seguito CEDU), rubricato sotto il titolo "libertà di espressione", enuncia una serie di possibili limiti all'esercizio di tale libertà al fine di bilanciarla con altre. Il detto esercizio, comportando doveri e responsabilità, può difatti essere sottoposto a formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge e tali da costituire misure necessarie, in una società democratica, oltre che alla sicurezza nazionale, all'integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell'ordine, alla protezione della salute e della morale, anche, per quanto rileva ai presenti fini, alla prevenzione dei reati ed alla protezione della reputazione o dei diritti altrui.

Quanto al diritto alla riservatezza esso è invece espressamente sancito dall'art. 8 della CEDU, rubricato sotto il titolo "Diritto al rispetto della vita privata e familiare", e tali disposizioni assumono oggi maggiore rilievo anche in ragione dell'articolo 117 Cost. che ha imposto al legislatore, sia statale che regionale, il rispetto degli obblighi internazionali.

Il problema di individuare un corretto punto di equilibrio tra esercizio della giurisdizione, libertà di manifestazione del pensiero, in termini di esercizio del diritto di cronaca giudiziaria ma anche intesa quale diritto fondamentale del pubblico ad essere informati, e tutela della reputazione e della riservatezza dei soggetti coinvolti in procedimenti penali, sia come indagati o imputati sia come terzi, non potendo tale ultimi due diritti considerarsi recessivi rispetto ai primi due, è stato a più riprese considerato tanto dalla Consulta quanto dalla Corte europea dei diritti dell'uomo sempre in termini di "bilanciamento".

Si veda, a tale proposito, Corte cost., n. 34 del 1973, che nel vagliare la legittimità costituzionale della disciplina delle intercettazioni telefoniche ha precisato che è necessario che la stessa sia improntata all'obiettivo di tutelare due distinti interessi e cioè, <<quello inerente alla libertà ed alla segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall'art. 2 Cost., e quello connesso all'esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch'esso oggetto di protezione costituzionale>>.

Proprio al fine di impedire che il diritto alla riservatezza delle comunicazioni telefoniche venga sproporzionatamente sacrificato dalla necessità di garantire una efficace repressione degli illeciti penali, la Consulta ha affermato che nel processo può essere utilizzato solo il materiale rilevante per l'imputazione. Deve, per converso, essere garantita la segretezza delle comunicazioni telefoniche dell'imputato che non siano rilevanti ai fini del relativo processo e, soprattutto, delle comunicazioni non pertinenti a quel processo che terzi, allo stesso estranei, abbiano fatto attraverso l'apparecchio telefonico sottoposto a controllo di intercettazione ovvero in collegamento con lo stesso.

Un ulteriore contributo ad una più intensa ed estesa protezione della riservatezza, sempre in un'ottica di bilanciamento con gli altri citati valori, è stato apportato dalla Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, nella prospettiva di evitare che una eccessiva tutela di uno dei detti valori si traduca nella sostanziale vanificazione della protezione degli altri.

La Corte di Strasburgo ha difatti precisato che <<per quanto i tribunali siano il foro competente per determinare l'innocenza o la colpevolezza di una persona rispetto ad un'accusa penale ciò non significa che non possa esservi una precedente e contemporanea discussione circa l'oggetto dei processi penali, in giornali specializzati, nella stampa in generale o tra il pubblico nella sua globalità>>, a maggior ragione quando è coinvolto un personaggio pubblico (nella specie un ex presidente del Consiglio dei Ministri italiano).

I personaggi pubblici hanno diritto di godere delle garanzie stabilite dall'art. 8 della CEDU al pari di ogni altro soggetto e ciò deve essere tenuto presente dai giornalisti nell'esercizio del diritto di cronaca in ordine a procedimenti penali e dalla stampa, la quale, come ha precisato la Corte, deve astenersi dal pubblicare informazioni suscettibili di pregiudicare, intenzionalmente o meno, il diritto al rispetto della vita privata, addirittura quando il personaggio pubblico rivesta la qualità di imputato (Cfr., Corte europea dei diritti dell'uomo, Sez. I, sentenza 17 luglio 2003, nel caso Craxi vs. Italia).

Il conclusione i giudici di Strasburgo, nel rilevare che nel caso sottoposto al loro esame alcune delle conversazioni pubblicate dalla stampa erano di carattere strettamente privato sicché la loro divulgazione non corrispondeva ad alcuna pressante esigenza sociale, hanno riconosciuto una responsabilità dello Stato italiano per non aver rispettato il proprio obbligo di garantire il diritto del ricorrente al rispetto della sua vita privata, ritenendo non influente la circostanza che la violazione della riservatezza fosse stata fatta da giornali privati e dunque al di fuori del controllo di autorità pubbliche.

L'esigenza di bilanciamento tra i valori di cui innanzi è stata infine sentita anche dalla Corte di giustizia dell'Unione europe, per la quale è necessario bilanciare il diritto alla riservatezza con quello alla libertà di espressione (Grande Sez., 29 giugno 2010, C-28-08; Grande Sez., 9 marzo 2010, C-510-07). Per ottenere il detto equilibrio le limitazioni alla tutela dei dati devono però operare entro i limiti dello stretto necessario (Grande Sez., 16 dicembre 2008, C-73/07).

La validità della esplicitata chiave di lettura dell'articolo 114 c.p.p., in termini di "bilanciamento" dei citati valori costituzionalmente tutelari, e, quindi, del combinato disposto del detto articolo con l'art. 684 c.p., non sembrerebbe infine pregiudicata ma rafforzata dalla circostanza per la quale non integrerebbe il reato contravvenzionale in oggetto la divulgazione del contenuto di un atto non più coperto da segreto mentre costituirebbe divulgazione arbitraria la pubblicazione, anche parziale, di esso.

Quello appena illustrato sarebbe difatti effetto logico-giuridico consequenziale al sistema di cui all'articolo 114 c.p.p. nonché voluto dal legislatore in un'ottica di bilanciamento di valori costituzionali. Il giudice, difatti, non sarebbe, non si sentirebbe e non sarebbe ritenuto dalla coscienza sociale condizionato dalla notizia di cronaca giudiziaria che non riproduca un atto ma solo il suo contenuto secondo quanto ricostruito dal giornalista.

Argomentando nei detti termini potrebbe ritenersi che il legislatore dell'articolo 114 c.p.p., con l'articolato sistema innanzi evidenziato, abbia proprio inteso effettuare il descritto bilanciamento tra i più volte richiamati valori costituzionali e, quindi, si potrebbe concludere nel senso della plurioffensività della contravvenzione in esame, in quanto il relativo precetto è integrato anche dal disposto di cui al citato art. 114 che attua il descritto "bilanciamento".

Occorre però considerare l'eventualità, che invero sembra meno sostenibile, che le medesime premesse conducano nel senso opposto della natura non plurioffensiva della contravvenzione, diretta quindi a tutelare solo l'esercizio della giurisdizione nei termini di cui innanzi, proprio in ragione del preventivo bilanciamento effettuato dal legislatore con l'articolo 114 c.p.p.

Il profilo della natura plurioffensività o meno della contravvenzione in esame, anche per le considerazioni da ultimo svolte, rileva, e sarà quindi utile verificare come sarà risolto dalle adite Sezioni unite, ma al pari del profilo dell'offensività della condotta.

Deve difatti accertarsi, sempre con riferimento al singolo caso concreto, che la riproduzione parziale dell'atto, pur vietata dall'ordinamento giuridico, sia stata tale da offendere il bene giuridico tutelato e, quindi, sembrerebbe più rilevante non tanto il dato quantitativo della riproduzione quanto quello qualitativo di essa, potendo una breve frase riportata essere maggiormente lesiva di un più lungo inciso.

Dopo aver accertato l'offensività della condotta rileva l'indagine in merito alla rilevanza o meno dell'entità della lesione in ragione del principio solidaristico, anche esso di rango costituzionale, che potrebbe essere condotta nei termini di cui al paragrafo che segue circa l'irrilevanza dei danni "futili".

4. Danno non patrimoniale di lieve entità e principio di solidarietà.

Mentre prima della conclusione delle indagini preliminari il bene giuridico tutelato dall'art. 684 c.p. va rinvenuto nella protezione delle esigenze di giustizia inerenti al processo penale nella delicata fase di acquisizione della prova o - per dirlo con altre parole - il buon andamento delle indagini (Sez. 3,n. 19746/2014,/2014, Vivaldi, Rv. 632104), dopo tale momento (dall'avviso di conclusione delle indagini ex art. 415-bis c.p.p. fino all'apertura del dibattimento) la ratio della norma diventa quella di salvaguardare un principio cardine del processo accusatorio, ossia quello secondo il quale il giudice deve arrivare al dibattimento sgombro da pregiudizi, dovendo assistere davanti a sé alla formazione della prova nel contradditorio di accusa e difesa: si tratta in altre parole dell'esigenza di assicurare un corretto, equilibrato, indipendente e sereno giudizio del giudice del dibattimento. È evidente però che, nel momento in cui è comunque consentito al giudice di apprendere notizie relative al processo attraverso i mezzi di informazione, anche se in forma riassuntiva e non nel testo integrale, si comprende come la gravità del fatto di reato in questa fase, ove il segreto è sostanzialmente caduto, è grandemente attenuata. È poi indubitabile che l'art. 684 c.p. sia altresì posto a tutela della riservatezza dell'indagato.

Ai nostri fini è particolarmente importante rilevare che, secondo Sez. 3, n. 25423/2014, Rossetti, Rv. 633798, l'onore e la reputazione costituiscono diritti inviolabili della persona, la cui lesione fa sorgere in capo all'offeso il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo integri o meno un reato, sicché ai fini risarcitori è del tutto irrilevante che il fatto sia stato commesso con dolo o con colpa. Questo significa che, contrariamente all'impostazione delle sentenze della Cassazione, volte principalmente ad interrogarsi da un lato circa la sussistenza o meno del reato di cui all'art. 684 c.p. nelle ipotesi di minore gravità e dall'altro quanto al bene giuridico in astratto da esso tutelato (se la serenità del dibattimento o la riservatezza dell'indagato/imputato), ciò che più appare assumere rilevanza da un punto di vista civilistico è la verifica dell'esistenza o meno di una lesione non lieve dell'altrui reputazione e riservatezza, circostanza che andrà necessariamente valutata facendo riferimento al caso concreto. In effetti, nel caso di diffusione "marginale" di atti di un procedimento penale, probabilmente un reato è astrattamente configurabile, quand'anche sia suscettibile di rientrare nella previsione di cui all'art. 131 bis c.p. (in quanto tale norma, che esclude la punibilità ma non cancella il reato, deve ritenersi dettata in applicazione del principio di necessaria offensività, a sua volta espressione dei principi costituzionali di cui agli artt. 3 - ragionevolezza - e 25, comma 2, Cost. - principio di tipicità e legalità; la particolare tenuità del fatto va valutata in relazione ai parametri di cui all'art. 133 c.p., tra i quali spiccano l'intensità del dolo o il grado della colpa e la gravità del danno cagionato alla persona offesa dal reato), con la conseguenza che ben può invocarsi il diritto al risarcimento del danno ex artt. 2059 c.c. e 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 (codice della privacy), norma quest'ultima che prevede la risarcibilità del danno (anche non patrimoniale) in caso di illecito trattamento dei dati personali.

Si tratta tuttavia di comprendere se, alla luce del principio costituzionale di solidarietà, il danno non patrimoniale di lieve entità possa essere risarcito.

Espressione del principio di solidarietà in campo contrattuale è il principio del divieto di abuso del diritto (Sez. 3, n. 20106/2009, Vivaldi, Rv. 610222), che impone di salvaguardare l'utilità altrui nei limiti di un non apprezzabile sacrificio. È evidente che di tale principio, avendo carattere generale perché derivante dall'art. 2 Cost., non può non predicarsene l'applicabilità anche al campo della responsabilità extracontrattuale, il che impone di verificare nelle ipotesi sottoposte alle sezioni unite se, pur in presenza di una lesione dell'altrui riservatezza e/o reputazione, il giornalista abbia ciò nonostante incrementato in maniera rilevante la possibilità per la collettività di informarsi su circostanze di particolare interesse, in maniera tale da giustificare il sacrificio del singolo.

Nel campo della responsabilità extracontrattuale, a partire dalla fondamentale Sez. U, n. 26972/2008, Preden, Rv. 605492, secondo la Cassazione il danno non patrimoniale è risarcibile soltanto se la lesione dell'interesse protetto sia grave e se il danno conseguenza non sia futile (orientamento sempre confermato e mai smentito: si veda ad esempio Sez. 3, n. 26367/2014, Vincenti, Rv. 633919, secondo cui la risarcibilità del danno non patrimoniale presuppone che la lesione sia grave e che il danno non sia futile). Tale principio è affermato in virtù da un lato dell'esistenza del principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost., che impone a tutti i consociati una certa tolleranza nei confronti dei danni non patrimoniali subiti dagli altri e dall'altro dalla constatazione dell'inesistenza di un principio della necessità di risarcire sempre e comunque il danno non patrimoniale (cfr., in questo senso Corte cost. n. 87 del 1979).

Da una lettura della citata sentenza a sezioni unite sembra emergere che, nell'ipotesi di reato e negli altri casi di danno non patrimoniale la cui risarcibilità è prevista espressamente dalla legge, mentre il requisito della gravità dell'interesse protetto è implicito nella previsione legislativa, occorre invece sempre comunque dimostrare la non futilità del danno subito, a prescindere dunque dal fatto che il danno derivi da reato o che possa qualificarsi come esistenziale o come derivante dalla lesione di un interesse costituzionalmente rilevante. Un indizio a favore della non risarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità lo si ricava anche dalla lettura degli artt. 138 e 139 del d.lgs. n. 209 del 2005 dalla quale emerge che, nella prospettiva del legislatore, il danno non patrimoniale deve essere risarcito in misura più che proporzionale al crescere della sua entità (si noti l'uso delle espressioni "più che proporzionale" e la possibilità di aumentare il danno non patrimoniale di non lieve entità del 30% e quello di lieve entità solo del 20%). Impostazione questa quindi coerente con il riconoscimento della non risarcibilità del danno non patrimoniale "futile". Tale impostazione è stata considerata conforme a Costituzione dalla Consulta con la sentenza n. 235 del 2014. Del resto Sez. 3, n. 16133/2014, Vincenti, Rv. 632536, ha affermato che può ritenersi che il giudizio sulla gravità della lesione (ma non quello sulla serietà del danno) sia già definitivamente espresso dal legislatore nella stessa scelta di politica criminale di punire, per il particolare disvalore che lo caratterizza, un fatto come reato. Si pensi del resto all'esempio, offerto dalla sentenza n. 26972 del 2008 SU, quale danno non patrimoniale non risarcibile, di un "graffio superficiale dell'epidermide". Tale danno non è considerato risarcibile pur costituendo sia lesione del diritto fondamentale alla salute di cui all'art. 32 Cost. sia conseguenza di un reato (se infatti il graffio non integrasse un reato in quanto conseguenza di una condotta né dolosa né colposa non si porrebbe proprio il problema dell'accertamento della futilità del danno, mancando a monte uno dei requisiti base dell'illecito civile, ossia l'elemento soggettivo). Sembra semmai che la sentenza voglia sottolineare da un lato che quando la lesione di un interesse costituzionalmente protetto sia lieve tale danno degradi ad esistenziale (ma comunque andrebbe risarcito essendoci un reato!) e dall'altro che quanto maggiore sia la rilevanza dell'interesse leso tanto minore sarà la tolleranza che si deve avere in caso di sua lesione.

Nel caso oggetto di attenzione alle Sezioni unite sembra che, a prescindere dalla configurabilità o meno del reato di cui all'art. 684 c.p., possa individuarsi un diritto costituzionale leso di particolare importanza (violazione della riservatezza e/o della reputazione). Il problema semmai che si pone quindi è, come detto, quello di accertare, anche una volta ammesso che il reato di cui all'art. 684 c.p. sia plurioffensivo in quanto posto a tutela sia dell'interesse al buon funzionamento della giustizia sia (più o meno indirettamente) a tutela della riservatezza e della reputazione, se il danno sia lieve ove alla limitatezza della riproduzione si accompagni la marginalità del loro contenuto, per il fatto di riferirsi a fatti storici <<non particolarmente significativi... se non addirittura pacifici per il pubblico dei lettori>>.

In effetti, riprendendo l'esempio di danno non patrimoniale non risarcibile fatto da Sez. U, n. 26972/2008 relativa al graffio superficiale all'epidermide, non sembra ragionevole che tale danno, pure oggettivamente esiguo e pur se compiuto una tantum, debba essere tollerato se effettuato dolosamente. Del resto l'art. 833 c.c. vieta persino l'esercizio di un proprio diritto quando esso abbia il solo scopo di nuocere o recare molestia ad altri.

Potrebbe però sostenersi che il principio di solidarietà debba essere più rettamente inteso non come dovere di tollerare e sopportare la maleducazione e l'invadenza del danneggiante ma come dovere nei confronti dell'ordinamento giuridico, e quindi della collettività, <<di non far causa per una questione bagatellare>>, visto che la collettività non può permettersi di sopportare il costo, economico e sociale, di un numero eccessivo di cause, anche alla luce dei principi costituzionali riguardanti la ragionevole durata del processo, dato che l'aumentare del numero delle cause farebbe inevitabilmente rallentare le altre (oltretutto aventi, nella maggior parte dei casi, ad oggetto interessi ben più rilevanti). È infatti evidente, anche in una prospettiva di analisi economica del diritto, che il costo per la collettività di una causa "bagatellare" può raggiungere e nella realtà spesso non solo raggiunge ma supera di gran lunga, il valore della causa.

Inoltre, in ragione del principio del bilanciamento tra valori aventi pari dignità costituzionale quando essi si pongano irrimediabilmente in conflitto fra di loro, sembrerebbe che, applicando questo concetto ai valori tutelati dall'art. 684 c.p., potrebbe sostenersi che quando vi sia una lieve lesione del diritto alla riservatezza, tale lesione possa essere accettata e tollerata in relazione al diritto alla libera manifestazione del pensiero. Infatti, il sacrificio del singolo non sarebbe fine a sé stesso, ma costituirebbe la conseguenza dell'esercizio di un diritto costituzionale di cui usufruiscono anche i destinatari della notizia (in quanto si è detto che il diritto di manifestazione del pensiero di cui all'art. 21 Cost. ha anche un'importante espressione nel diritto della collettività ad essere informata: cfr., in particolare Corte cost. n. 173 del 2009 e n. 59 del 1995). Se infatti il graffio superficiale all'epidermide deve essere tollerato pur violando l'art. 32 Cost. e pur non avendo come contropartita la tutela di un diritto fondamentale, dovrà a maggior ragione ritenersi giustificabile la violazione di un diritto fondamentale sicuramente di minore rilevanza rispetto alla salute ma soprattutto bilanciato dall'art. 21 Cost.

Rimane però, in questa prospettiva, irrisolto il problema della mancata sanzione nei confronti del danneggiante, a meno di non volerlo giustificare per il solo fatto che, in concreto, comportamenti di ordinaria maleducazione sono ormai oggi in Italia all'ordine del giorno e sono purtroppo socialmente ampiamente non solo diffusi ma anche tollerati (si pensi al posteggio di una autovettura in doppia fila per un lasso significativo di tempo).

Tuttavia può replicarsi a questa obiezione rilevando come la concezione della responsabilità civile come avente natura sanzionatoria sia ormai superata: si pensi a Sez. U, n. 15350/2015 Salmé, Rv. 635985, in materia di danno tanatologico, secondo cui: <<in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità "iure hereditatis" di tale pregiudizio, in ragione - nel primo caso - dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero - nel secondo - della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo>>.

Nella prospettiva originaria invece il cuore del sistema della responsabilità civile era legato a un profilo di natura soggettiva e psicologica, che ha riguardo all'agire dell'autore dell'illecito e vede nel risarcimento una forma di sanzione analoga a quella penale, con funzione deterrente (sistema sintetizzato dal principio affermato dalla dottrina tedesca <<nessuna responsabilità senza colpa>> e corrispondente alle codificazioni ottocentesche per giungere alle stesse impostazioni teoriche poste a base del codice del '42). L'attuale impostazione, sia dottrinaria che giurisprudenziale, (che nelle sue manifestazioni più avanzate concepisce l'area della responsabilità civile come sistema di responsabilità sempre più spesso oggettiva, diretta a realizzare una tecnica di allocazione dei danni secondo i principi della teoria dell'analisi economica del diritto) evidenzia come risulti primaria l'esigenza (oltre che consolatoria) di riparazione (e redistribuzione tra i consociati, in attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.) dei pregiudizi delle vittime di atti illeciti, con la conseguenza che il momento centrale del sistema è rappresentato dal danno, inteso come <<perdita cagionata da una lesione di una situazione giuridica soggettiva>> (Corte cost., n. 372 del 1994).

Si ritiene però di poter replicare a questa impostazione sottolineando che nel caso del danno non patrimoniale di lieve entità tale danno (anche se appunto di lieve entità) si è realizzato effettivamente, e quindi, anche in una prospettiva non sanzionatoria ma riparatoria, non può non rilevarsi che così è il danneggiato - che non può chiedere il risarcimento del relativo danno - e non il danneggiante, a doversi fare carico del relativo danno.

5. Considerazioni di sintesi.

Come evidenziato nei precedenti paragrafi, la risoluzione della questione di diritto in esame passa (anche) attraverso l'individuazione dei beni giuridici tutelati dalla fattispecie contravvenzionale di cui all'articolo 684 c.p., così come integrata dall'articolo 114 c.p.p., in un'ottica di ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali.

Vengono difatti in rilievo valori di rango costituzionale che attengono alla tutela della persona - reputazione e riservatezza -, alla libertà di stampa - in termini di diritto di cronaca giudiziaria - ed all'esercizio della giurisdizione (artt. 2, 3, 21 e 111 cost.) potrebbe difatti argomentarsi nel senso della natura plurioffensiva della contravvenzione nei termini già esposti nel precedente par. n. 3.

Per le stesse esigenze di ragionevole bilanciamento è altresì necessario chiedersi se ogni danno non patrimoniale, cioè anche quello di lieve entità, sia risarcibile quale conseguenza della lesione della reputazione o della riservatezza cagionata con la divulgazione dell'atto ed in considerazione del principio solidaristico che impone di "sopportare" quelli "futili".

Con particolare riferimento all'interpretazione del combinato disposto degli articoli 684 c.p. e 114 c.p.p. è infine opportuno evidenziare l'importanza, ai fini della risoluzione della questione di diritto in esame, di accertare se la condotta del giornalista integri la fattispecie contravvenzionale dell'arbitraria pubblicazione di atti di un procedimento penale.

Il danno non patrimoniale ex articolo 2059 c.c. è risarcibile anche a prescindere dalla consumazione di un reato, sempre che si tratti di lesione grave dell'interesse di rango costituzionale e di conseguente danno non futile (Cfr., ex plurimis, Sez. U, n. 26972/2008, Preden, Rv. 605493).

Nel caso in esame, però, se la condotta del giornalista non integrasse la contravvenzione di pubblicazione arbitraria, sarebbe difficile ipotizzare il diritto ad un risarcimento danni per lesione della reputazione o della riservatezza in considerazione delle condizioni scriminanti proprie della cronaca giudiziaria. In tema di esercizio del diritto di cronaca giornalistica, difatti, la verità di una notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste allorché essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti di sorta (Sez. 3, n. 18264/2014, Ambrosio, Rv. 632094).

Sicché, se la condotta del giornalista, integrante corretto esercizio della cronaca giudiziaria (alla stregua dell'interesse pubblico, della continenza e della verità nei termini di cui innanzi) non integrasse il reato di cui all'articolo 684 c.p. essa non potrebbe essere fonte di un danno non patrimoniale risarcibile per lesione della reputazione o della riservatezza, anche a prescindere dalla futilità o meno di esso. La detta scriminante è difatti configurabile, con riferimento alla fattispecie prevista dall'art. 595 e da quelle di cui al d.lgs. n. 196 del 2003, anche quando oggetto di pubblicazione siano atti di un procedimento penale ancora coperti da segreto, giacché la detta efficacia del diritto di cronaca incontra i soli limiti della verità dei fatti divulgati, della loro rilevanza sociale e della loro continenza espressiva (Cfr., Sez. pen. 5, n. 17051 del 2013, Rv. 255094).

Quanto detto assume rilievo anche con riferimento alla violazione del d.lgs. n. 196 del 2003, posto che, in presenza del reato di cui all'art. 684 c.p. sussisterebbe un'illecita pubblicazione ai sensi della normativa sulla riservatezza dei dati personali con possibile integrazione delle fattispecie penali previste dal detto decreto (Cfr., ex plurimis, Sez. 1, n. 17602/2013, Didone, Rv. 627291; Sez. 3, n. 06428/2015, Vincenti).

Come è emerso dalle argomentazioni esposte nei precedenti paragrafi, il profilo della natura plurioffensività o meno della contravvenzione in esame rileva ma al pari del profilo dell'offensività della condotta e, quindi, sembrerebbe determinante non tanto e non solo il dato quantitativo della riproduzione bensì quello qualitativo di essa, potendo una breve frase riportata essere maggiormente lesiva di un più lungo inciso.

Una notizia monca o incompleta potrebbe difatti essere capace di ledere l'onorabilità dell'interessato e la proiezione sociale della sua personalità, mentre, al contrario, riportare l'intero atto potrebbe condurre ad un'adeguata illustrazione di esso e dell'intera vicenda ed essere idoneo a consentire al lettore di formarsi un corretto e ponderato giudizio di valore - o, semmai di disvalore - su una data vicenda o su una determinata persona (in tali ultimi termini si veda Sez. pen. 5, n. 45051 del 2009).

Con riferimento particolare alla rilevanza o meno del dato quantitativo della limitatezza della riproduzione dell'atto, è appena il caso di evidenziare che, diversamente da quanto sembra aver ritenuto Sez. 3, n. 06428/2015, Vincenti, non sembra determinante l'orientamento espresso da Sez. pen. 1, n. 43479 del 2013, Rv. 257401.

Per tale ultima statuizione non integra la citata contravvenzione la pubblicazione di una brevissima frase, riportata tra virgolette, dell'interrogatorio dell'indagato. Dalla motivazione della detta sentenza sembrerebbe emergere, con riferimento al caso concreto, l'utilizzo da parte del giornalista, in un articolo di cronaca giudiziaria, di un'espressione, benché riportata tra virgolette, di sintesi del contenuto delle dichiarazioni e, quindi, rientrante nella lecita pubblicazione del contenuto di atti e non nell'illecita riproduzione di essi.

Dopo aver accertato l'offensività della condotta rileva l'indagine in merito alla rilevanza o meno dell'entità della lesione in ragione del principio solidaristico, anche esso di rango costituzionale, che potrebbe essere condotta nei termini di cui al paragrafo che precede.

  • danno

CAPITOLO IX

IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE.

(di Andrea Penta )

Sommario

1 Il danno tanatologico. Il panorama giurisprudenziale che ha preceduto la "Sentenza Scarano". - 1.1 Gli orientamenti contrario e favorevole al danno tanatologico e la posizione delle Sezioni Unite. - 1.2 Le sanzioni penali: sovrapposizione di tutele. - 1.3 È preferibile uccidere o ferire? - 1.4 I rapporti con il danno biologico terminale ed il danno morale catastrofale. - 1.5 Il danno da perdita del rapporto parentale. - 2 Il danno alla salute: criteri di liquidazione. - 2.1 Il danno morale e quello esistenziale. - 2.2 Altri parametri per la liquidazione del danno non patrimoniale. - 3 I diritti inviolabili. - BIBLIOGRAFIA

1. Il danno tanatologico. Il panorama giurisprudenziale che ha preceduto la "Sentenza Scarano".

È noto che la pronuncia meglio nota come "sentenza Scarano" (dal nome del relatoreestensore), Sez. 3, n. 01361/2014 (Rv. 629366), che ha dato il là all'ordinanza interlocutoria su cui si sono poi pronunciate le Sez. U, n. 15350/2015, Salmè, Rv. 635985, aveva rappresentato un elemento di discontinuità in grado di minare le fondamenta dell'impianto che aveva complessivamente retto agli attacchi provenienti da una parte della giurisprudenza e da un gruppo, significativo, di autorevoli studiosi. Invero, con tale sentenza era stato sostenuto che il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita, siccome bene supremo dell'individuo, oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile, è garantito dall'ordinamento in via primaria anche sul piano della tutela civile, presentando carattere autonomo, in ragione della diversità del bene tutelato, dal danno alla salute, nella sua duplice configurazione di danno "biologico terminale" e di danno (morale) "catastrofale". Esso, pertanto, rileverebbe ex se, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia avuto, dovendo ricevere ristoro anche in caso di morte cosiddetta "immediata" o "istantanea", senza che assumano rilievo né la persistenza in vita della vittima per un apprezzabile lasso di tempo, né l'intensità della sofferenza dalla stessa subìta per la cosciente e lucida percezione dell'ineluttabilità della propria fine. In linea con tale assunto, la S.C. aveva altresì avallato la tesi per cui il risarcimento del danno da perdita della vita avrebbe funzione compensativa, ed il relativo diritto (o ragione di credito) sarebbe trasmissibile iure hereditatis, atteso che la non patrimonialità sarebbe attributo proprio del bene protetto (la vita) e non già del diritto al ristoro della lesione ad esso arrecata.

Non si può comprendere appieno l'impatto che sulla questione del danno cd. tanatologico hanno avuto, dapprima, la menzionata sentenza e, poi, quella a Sezioni Unite, se non si ricostruisce preliminarmente, sia pure in termini estremamente sintetici, l'impostazione fino ad allora seguita dai giudici di legittimità.

Come è noto, se vi è un'apprezzabile lasso di tempo (mentre per Sez. 3, n. 00458/2009, Travaglino, Rv. 606149, e Sez. 3, n. 09470/1997, Favara, Rv. 508304, questo presupposto è da escludere in presenza di tre giorni, per Sez. 3, n. 21976/2007, Lanzillo, Rv. 600108, lo stesso è configurabile in caso di sopravvivenza per sole 24 ore), è possibile riconoscere esclusivamente il danno biologico terminale, anche se la vittima si sia trovata durante l'agonia in stato di coma, poiché la lesione dell'integrità fisica è presente ugualmente sia che la vittima abbia coscienza della lesione sia che non l'abbia (Così Sez. 3, n. 03760/2007, Petti, Rv. 597054, e Sez. 3, n. 06946/2007, Petti, Rv. 595964. Contra Sez. 3, n. 03260/2007, Filadoro, Rv. 598217, che richiede, invece, che la vittima abbia percepito lucidamente l'approssimarsi della morte).

In caso di morte istantanea o dopo breve lasso di tempo, si tende a liquidare il solo danno morale jure hereditatis (cd. danno catastrofico), a condizione (Sez. 3, n. 06754/2011, Amatucci, Rv. 616517) che la vittima sia stata in condizione di percepire il proprio stato (escludendolo, pertanto, nell'ipotesi di coma o di persona svenuta). L'orientamento decisamente prevalente (Sez. 3, n. 28423/2008, Amatucci, Rv. 606104), infatti, esclude la risarcibilità anche del danno morale, quando all'evento lesivo sia conseguito immediatamente lo stato di coma e la vittima non sia rimasta lucida nella fase che precede il decesso (contra la risalente Sez. 3, n. 01203/1965, De Santis, Rv. 312305, secondo cui non può ritenersi che il danno non patrimoniale si verificherebbe solo in dipendenza di sofferenze fisiche e morali, delle quali il paziente sia ben conscio, e non anche per sofferenze e decadimenti fisici e psichici di cui chi li subisce non si renda esattamente conto).

Incertezze vi sono, in caso di morte della vittima primaria, per apprezzare il danno iure hereditatis, essendosi la dottrina e la giurisprudenza domandati, quanto al danno biologico cd. terminale, come debba essere inteso il parametro dell'"apprezzabile lasso di tempo" e, quanto al danno morale cd. catastrofico (o catastrofale), se abbia ancora senso richiedere che la vittima abbia percepito lucidamente l'approssimarsi della morte. Sez. 3, n. 13537/2015, Rossetti, Rv. 631439, ha, ponendosi in consapevole contrasto con la pronuncia n. 01361/2014 (vedasi infra) ed allineandosi a quello che è l'orientamento decisamente prevalente (n. 21976/2007, Rv. 600108; n. 28423/2008, Rv. 606104; n. 06754/2011, Rv. 616517; n. 02564/2012, Rv. 621706), qualificato la paura di dover morire, provata da chi abbia patito lesioni personali e si renda conto che esse saranno letali, come un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se la vittima sia stata in grado di comprendere che la propria fine era imminente (danno morale iure hereditatis), sicché, in difetto di tale consapevolezza, non è nemmeno concepibile l'esistenza del danno in questione, a nulla rilevando che la morte sia stata effettivamente causata dalle lesioni.

È evidente, inoltre, come l'applicazione del criterio cd. cronometrico, con le sue contorsioni, finisca per creare una disparità di trattamento tra gli eredi della vittima deceduta dopo un apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni, i quali acquistano iure hereditatis un diritto al risarcimento del danno biologico terminale (che può essere anche di importo considerevole), e gli eredi della vittima deceduta dopo un arco temporale insufficiente a configurare un'effettiva ripercussione delle lesioni sull'integrità psico-fisica, i quali non acquistano un analogo credito risarcitorio. Proprio al fine di superare, sia pure in parte, il vuoto di tutela che in tal modo si determinava, la Cassazione aveva (recte, ha) creato la figura del danno cd. catastrofale o catastrofico.

Ciò nonostante, al di là della considerazione della estrema difficoltà che può incontrarsi in concreto nell'accertare se la vittima sia rimasta lucida durante l'agonia (per Sez. 3, n. 07126/2013, Barreca, Rv. 625498, e Sez. 3, n. 02564/2012, Uccella, Rv. 621706, l'elemento della durata della sofferenza può incidere unicamente sulla quantificazione del risarcimento), si evidenziava come tale ricostruzione, <<pur segnando un progresso sul piano interpretativo>>, lasciasse <<priva di tutela l'ipotesi dell'agonia inconsapevole, peraltro in passato dalla giurisprudenza ritenuta ristorabile>> (tale rilievo si legge in Cass., n. 01361/2014, cit., la quale, tra le decisioni che - prima dell'arresto delle sezioni unite del 2008 - hanno ammesso la risarcibilità del <<danno non patrimoniale sofferto anche se in stato di incoscienza>>, richiama le pronunce della Corte n. 03760/2007, n. 07075/2001, n. 08177/1994, e n. 01203/1965). Più precisamente, a rigore, in caso di morte immediata o, nell'ipotesi in cui segua dopo un non apprezzabile lasso di tempo, se il de cuius non sia stato cosciente poco prima di morire, sussisterebbero le condizioni per ammettere solo il danno jure proprio da perdita del rapporto parentale. Sul punto, la dottrina [BIANCA, 2012, 1500 ss.] ritiene che, qualora venisse disconosciuto il danno cd. tanatologico, verrebbero a riproporsi i gravi interrogativi se sia ragionevole che il danno non patrimoniale venga riconosciuto risarcibile a persone che per l'età o per la condizione patologica o per la loro natura non sono in grado di percepire un patema d'animo e sia negato alle vittime che a causa della lesione mortale versino in stato d'incoscienza.

Tale lacuna appariva ancora più evidente, se solo si considerava che era stata, invece, riconosciuta la risarcibilità del danno non patrimoniale in favore del neonato e del nascituro (Sez. 3, n. 09700/2011, Amatucci, Rv. 617791).

La "sentenza Scarano", proprio al fine di colmare l'indicato "vuoto di tutela", ha sostenuto che la perdita della vita va ristorata a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, anche in caso di morte immediata, senza che assumano, pertanto, rilievo i presupposti della sopravvivenza per un apprezzabile lasso di tempo e della cosciente e lucida percezione dell'ineluttabile sopraggiungere della propria fine.

1.1. Gli orientamenti contrario e favorevole al danno tanatologico e la posizione delle Sezioni Unite.

Occorre partire da una considerazione condivisa dai simpatizzanti dei due opposti orientamenti: la lesione dell'integrità fisica con esito immediatamente letale non può considerarsi una sotto-ipotesi di lesione della salute, perché la morte non incide sul benesalute (recte, non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute), bensì su un bene giuridico ontologicamente diverso, il bene-vita, oggetto di un distinto diritto della persona (v., in luogo di molte, Sez. 3, n. 07632/2003, Segreto, Rv. 563157, che - insieme alla più recente n. 06754/2011, cit. - può essere considerata il "manifesto" del pensiero della Suprema Corte circa la non ristorabilità in via ereditaria del danno da perdita della vita. Il concetto è stato da ultimo ribadito da Sez. 3, n. 25731/2014, Vincenti, Rv. 63577).

Ciò debitamente premesso, si sostiene, in primo luogo, che il sistema della responsabilità civile è diretto al ristoro di perdite effettivamente risentite dal soggetto, ma in ipotesi di morte immediata a carico della vittima non sono individuabili conseguenze dannose, nel senso che nessuna perdita è risentita dal de cuius che non è più in vita, per cui nessun diritto risarcitorio potrà entrare nel suo patrimonio. Con l'evento della morte, la vittima perde la capacità giuridica e non può, quindi, acquisire un diritto al risarcimento del danno per la lesione del diritto alla vita. In definitiva, posto che, finchè il soggetto è in vita, non vi è lesione del suo diritto alla vita, mentre, sopravvenuto il decesso, il morto, in quanto privo di capacità giuridica, non è in condizione di acquistare alcun diritto (il concetto era già stato espresso da Sez. U, n. 03475/1925, a tenore della quale "Questo - il lesionato - spentosi, cessa anche la capacità di acquistare, che presuppone appunto e necessariamente l'esistenza di un subbietto di diritto."), il risarcimento finirebbe per assumere, in casi siffatti, un'anomala funzione punitiva (Sez. 3, n. 10107/2011, Amendola, Rv. 618206). Più recentemente, Corte Costituzionale, 27/10/1994, n. 372 (in Foro Amm., 1999, 572), aveva dichiarato infondata la q.l.c. dell'art. 2043 c.c., sollevata in rapporto agli artt. 3 e 32 Cost. sul presupposto che la norma primaria precluderebbe la pretesa al risarcimento, iure hereditario, per danno biologico da morte. Infatti l'illecito, dal quale sia derivata la morte immediata della persona, non è stato causa di perdite a carico della persona offesa ormai defunta. Inoltre, il danno biologico iure hereditario non è risarcibile nel caso di decesso immediato, non essendo sorto nel patrimonio del defunto un diritto di risarcimento relativo al danno alla salute.

A fronte di tale (apparentemente assorbente) rilievo, i fautori dell'indirizzo contrario deducono che il diritto al ristoro del danno da perdita della vita - costituendo un'eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni-conseguenza - <<si acquisisce dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi anteriormente all'exitus>> ("sentenza Scarano"; argomentando alla stregua della <<logica interna>> di quello che è il principio cardine delle pronunce di San Martino, e cioè la risarcibilità dei soli danniconseguenza e non anche del danno-evento, ad avviso della S.C., <<non è chi non veda che il ristoro del danno da perdita della vita costituisce, in realtà, ontologica ed imprescindibile eccezione (a tale) principio>>), e si trasmette così iure hereditatis. Questo passaggio sembra chiarire che l'evento di danno non è rappresentato dalla morte, bensì dalla lesione dell'integrità fisica cui segue (immediatamente o a breve distanza di tempo) il decesso. In definitiva, durante la vita della vittima si verificherebbe il "danno-evento" (al momento della lesione mortale la medesima è ancora in vita, ed è in tale momento che acquisterebbe il diritto al risarcimento; il momento dell'evento lesivo, infatti, salvo rare eccezioni, precede sempre la morte cerebrale), il quale sarebbe l'unico che potrebbe dar vita al risarcimento; che, poi, il "danno-conseguenza" si produca post mortem non sarebbe circostanza idonea ad escludere il risarcimento.

Sul piano naturalistico, anche nell'ipotesi di morte immediata, il decesso costituirebbe sempre una conseguenza della lesione dell'integrità fisica, per cui esisterebbe sempre uno iato temporale tra lesioni e decesso, che consentirebbe l'acquisto da parte della vittima del credito al risarcimento del danno, e la sua trasmissione in via ereditaria, al momento della morte.

Non vi è dubbio che è sulla questione della mancanza di un centro di imputazione del diritto al risarcimento e, soprattutto, su quella della funzione che il risarcimento del danno da perdita della vita verrebbe ad assolvere, che, dinanzi alle Sezioni Unite, si è giocata la partita della ristorabilità del danno tanatologico.

E, infatti, sul punto, il passaggio logico contenuto nella recente sentenza delle sezioni unite appare inequivoco: <<E poiché una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l'irrisarcibilità deriva ... dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo>>.

Ancor più significativo risulta un successivo argomento: <<... a parte che l'ipotizzata eccezione alla regola (rappresentata dal danno-conseguenza) sarebbe di portata tale da vulnerare la stessa attendibilità del principio e, comunque, sarebbe difficilmente conciliabile con lo stesso sistema della responsabilità civile, fondato sulla necessità ai fini risarcitoci del verificarsi di una perdita rapportabile a un soggetto, l'anticipazione del momento di nascita del credito risarcitorio al momento della lesione verrebbe a mettere nel nulla la distinzione tra il "bene salute" e il "bene vita" sulla quale concordano sia la prevalente dottrina che la giurisprudenza costituzionale e di legittimità>>.

1.2. Le sanzioni penali: sovrapposizione di tutele.

In secondo luogo, nel nostro ordinamento giuridico il diritto alla vita - che può essere considerato come il primo tra i diritti inviolabili della persona - riceve ampia tutela attraverso la previsione di sanzioni penali, le quali costituiscono, in una ideale gerarchia rimediale, la massima forma di reazione dell'ordinamento alla commissione di un illecito (cfr. Sez. 3, n. 07632/2003, cit.). A fronte dell'affermazione secondo cui la vita sarebbe già sufficientemente tutelata in sede penale [v., tra gli altri, COMANDÈ, 1993, 358], si osserva [BIANCA, cit., 1500 ss.] che la stessa non può essere condivisa, in quanto la tutela penale esige la tutela risarcitoria - art. 185 c.p. -, che si vuole invece negare alla vita; senza tralasciare che l'uccisione può non integrare un reato punibile.

Secondo l'opposta teoria, anche il ristoro del danno da perdita della vita assumerebbe una <<funzione compensativa>> - e non una funzione meramente punitiva, propria invero della sanzione penale - per <<l'obiettiva circostanza che il credito alla vittima spettante per la perdita della propria vita a causa dell'altrui illecito accresce senz'altro il suo patrimonio ereditario>> (così Sez. 3, 01361/2014, cit.).

Sono, tuttavia, molti gli studiosi che considerano insoddisfacente tale argomento al fine di replicare all'obiezione secondo cui ammettere la ristorabilità del danno tanatologico finirebbe per assegnare alla responsabilità civile (anche) una funzione sanzionatoria/deterrente (v., tra gli altri, GORGONI, 2009, 399, la quale rileva come <<l'accrescimento del patrimonio è un fatto che, di per sé solo, non esprime la funzione della attribuzione monetaria>>, che, a suo avviso, nella specie, sarebbe senz'altro punitiva).

In proposito, le Sezioni Unite hanno osservato che <<la progressiva autonomia della disciplina della responsabilità civile da quella penale ha comportato l'obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza (v., tra le tante, cass. n. 1704 del 1997 , n. 3592 del 1997, n. 491 del 1999, n. 12253 del 2007, n. 6754/2011) e l'affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria), tanto che si è ritenuto non delibabile, per contrarietà all'ordine pubblico interno, la sentenza statunitense di condanna al risarcimento dei danni "punitivi" (cass. n. 1183 del 2007, n. 1781 del 2012), i quali si caratterizzano per un'ingiustificata sproporzione tra l'importo liquidato ed il danno effettivamente subito>>.

Un passaggio di quest'ultima sentenza, per quanto sintetico, non sembra ammettere repliche, nel momento in cui richiama un concetto più volte in precedenza speso (<<pretendere che la tutela risarcitoria "sia data anche al defunto corrisponde, a ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire più denaro ai congiunti">>).

Scarso spessore giuridico ha il rilievo, avente mera valenza sociale, secondo cui la morte è un danno per la persona ed un costo per la società, al quale dovrebbe corrispondere un risarcimento capace di trasmettere ai consociati il disvalore dell'uccisione e la deterrenza della reazione dell'ordinamento. Sembra inserirsi in questo contesto il passaggio logico contenuto nella "sentenza Scarano", a mente del quale occorrerebbe considerare la perdita del bene vita quale danno non già del singolo individuo che la subisce, bensì dell'intera collettività.

In relazione a questo profilo, peraltro, le sezioni unite sono chiare: <<... la vita è bene meritevole di tutela nell'interesse della intera collettività, ma tale rilievo giustifica e anzi impone, come è ovvio, che sia prevista la sanzione penale, la cui funzione peculiare è appunto quella di soddisfare esigenze punitive e di prevenzione generale della collettività nel suo complesso, ... ma non impone necessariamente anche il riconoscimento della tutela risarcitoria di un interesse che forse sarebbe più appropriato definire generale o pubblico, piuttosto che collettivo, ...>>.

1.3. È preferibile uccidere o ferire?

Un dato che sembra accomunare un po' tutte le opinioni che criticano la tesi dell'irrisarcibilità del danno tanatologico è quello per cui la reazione risarcitoria non può essere inversamente proporzionale alla gravità dell'evento lesivo. Riparare la menomazione, anche non grave, e non il decesso significherebbe avallare l'idea paradossale che, da un punto di vista economico, per il responsabile sia più conveniente uccidere che ferire. In particolare, al danneggiante 'converrebbe' economicamente la morte immediata, piuttosto che le lesioni gravissime dalle quali derivi la morte a distanza di tempo. Muovendo, infatti, dalla considerazione della morte come massima lesione del bene salute, si osserva che, se è risarcibile il danno minimo alla salute, non si vede perché non dovrebbe essere risarcibile il danno supremo alla stessa integrità fisica, qual è (appunto) la morte.

Le Sezioni Unite, dopo aver ricordato che il principio dell'integrale risarcibilità di tutti i danni non ha copertura costituzionale, ha escluso la corrispondenza al vero che, <<ferma la rilevantissima diversa entità delle sanzioni penali, dall'applicazione della disciplina vigente le conseguenze economiche dell'illecita privazione della vita siano in concreto meno onerose per l'autore dell'illecito di quelle che derivano dalle lesioni personali, essendo indimostrato che la sola esclusione del credito risarcitorio trasmissibile agli eredi, comporti necessariamente una liquidazione dei danni spettanti ai congiunti di entità inferiore>>.

Peraltro, a ben vedere (vedasi postea), il riconoscimento del danno biologico terminale e di quello morale catastrofale ristora già, sia pure in parte qua, anche il danno tanatologico (in tal senso sembra orientarsi Sez. 3., n. 21976/2007, cit.).

Non è, infatti, revocabile in dubbio che sia il danno biologico terminale sia il danno da lucida agonia (o catastrofico) siano stati fatti oggetto di "appesantimenti valutativi" volti a compensare, almeno in parte, il "vuoto di tutela" conseguente alla ritenuta irrisarcibilità del danno da perdita della vita.

1.4. I rapporti con il danno biologico terminale ed il danno morale catastrofale.

Nell'illecito mortale, nel caso in cui il danneggiato sia deceduto dopo un apprezzabile lasso di tempo dall'evento lesivo, poiché la morte è causata da una lesione dell'integrità fisica, alla vittima spetterà il risarcimento del danno biologico, che corrisponderà al danno da inabilità temporanea (per Sez. 3, n. 07632/2003, cit., non è, infatti, in questo caso concepibile un danno da invalidità permanente, che - secondo la medicina legale - insorge solo se, dopo che la malattia ha compiuto il suo decorso, il soggetto leso non sia riuscito a riacquistare l'originaria validità a causa del consolidarsi di esiti permanenti). La misura del danno dovrà essere determinata in relazione alla effettiva menomazione dell'integrità psicofisica subìta dal soggetto per il periodo di tempo tra il verificarsi delle lesioni ed il sopraggiungere della morte. La Suprema Corte respinge l'idea secondo la quale, nel caso in cui il decesso sia causato dalle lesioni, il danno biologico debba essere risarcito "per intero", ossia come se il de cuius fosse vissuto per un tempo pari alle proprie speranze di vita (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 09620/2003, Segreto, Rv. 564291; Sez. 3, n. 02775/2003, Amatucci, Rv. 560677; Sez. 3, n. 07632/2003, cit., osserva che, <<poiché anche il danno biologico è una perdita (del bene salute), non può dar luogo allo stesso risultato risarcitorio risentire di questa perdita del bene salute nella misura del 100% per alcuni giorni/mesi o per l'intera durata della vita media>>).

Il riferimento all'inabilità temporanea consente di ristorare anche la malattia protratta per un brevissimo lasso di tempo (qualche ora), posto che l'invalidità temporanea si calcola su base giornaliera ed è frazionabile. In particolare, nel caso di morte, il danno alla salute raggiunge quantitativamente la misura del 100%, con l'ulteriore fattore "aggravante", rispetto al danno da inabilità temporanea assoluta, che detto danno, se pure temporaneo, ha raggiunto la massima entità ed intensità, senza possibilità di recupero, atteso l'esito mortale. La salute danneggiata non solo non recupera (cioè non "migliora") né si stabilizza, ma degrada verso la morte; quest'ultimo evento rimane fuori dal danno alla salute, ma non la "progressione" verso di esso, poiché durante detto periodo il soggetto leso era ancora in vita (cfr., di recente, Sez. 3, n. 22228/2014, Vincenti, Rv. 633123).

Peraltro, il danno biologico terminale è un danno nel quale, proprio stante la tendenza ad un aggravamento progressivo, i fattori della personalizzazione debbono valere in grado assai elevato (Sez. 3, n. 11003/2003, Di Nanni, Rv. 565030; conf. Sez. 3, n. 01877/2006, Massera, Rv. 588996); esso, pertanto, non può essere liquidato attraverso la meccanica applicazione di criteri contenuti in tabelle che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità temporanee o permanenti di soggetti che sopravvivono all'evento dannoso (per Sez. 3, n. 07499/2012 la quantificazione equitativa va operata avendo presenti sia il criterio equitativo puro sia il criterio di liquidazione tabellare, purché tali criteri siano dal giudice adeguatamente personalizzati, ovvero adeguati al caso concreto). I giudici, in definitiva, nel liquidare tale voce di danno, tendenzialmente non ne determinano l'ammontare in una somma corrispondente a quella prevista per l'inabilità temporanea assoluta moltiplicata per i giorni di sopravvivenza della vittima, ma procedono ad una peculiare "personalizzazione" dei criteri tabellari. Per Sez. L, n. 26590/2014, Napoletano, Rv. 633861, la funzione di una personalizzazione del danno non è conseguibile attraverso il ricorso ai criteri predeterminati e standardizzati contenuti nelle tabelle normative (di cui all'art. 13 del d.lgs. del 23 febbraio 2000, n. 38 e degli artt. 138 e 139 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 e successive modifiche) o di quelle del Tribunale di Milano, che hanno trovato riconoscimento nella giurisprudenza di legittimità.

In concreto, quanto al criterio di calcolo del danno biologico terminale, fermo restando che è preferibile il riferimento all'effettiva durata della sopravvenienza, anziché alla speranza media di vita futura (contra, però, Sez. L, n. 08204/2003, Picone, Rv. 563492), una parte della giurisprudenza di legittimità propugna l'orientamento (Sez. 3, n. 00870/2008, Durante, Rv. 601456) che utilizza il parametro (che prescinde dall'età) dell'inabilità temporanea, sia pure assoluta al 100%.

La Suprema Corte avalla, però, la tesi che, partendo dal valore riconosciuto per la ITT, ne aumenta l'importo in considerazione della peculiarità del pregiudizio da liquidare. In particolare, il danno biologico terminale o il danno morale terminale (o catastrofale o catastrofico) sono stati quantificati con applicazione del criterio equitativo cd. puro (v. Sez. 3, n. 07126/2013, cit.) ovvero, e più frequentemente, movendo dal dato tabellare dettato per il danno biologico, e procedendo alla relativa personalizzazione (v., in particolare, Sez. 3, n. 08360/2010, Lanzillo, Rv. 612362). In quest'ottica, Sez. 3, n. 23183/2014, Sestini, Rv. 633238, ha confermato la sentenza di merito che aveva liquidato in via equitativa, quale danno biologico terminale patito dalla vittima, rimasta in vita sette giorni, la somma di euro 2.500,00 pro die. Quest'ultima sentenza ha avuto altresì il merito di precisare che il danno terminale è comprensivo di un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso) cui può sommarsi una componente di sofferenza psichica (danno catastrofico): mentre nel primo caso la liquidazione può ben essere effettuata sulla base delle tabelle relative all'invalidità temporanea, nel secondo caso risulta integrato un danno non patrimoniale di natura affatto peculiare che comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro (ancorchè sempre puntualmente correlato alle circostanze del caso) che sappia tener conto della enormità del pregiudizio. Parimenti, Sez. 2, n. 00632/2003, Fiore, Rv. 559826, ha condiviso la pronuncia di merito che, in applicazione di detto principio, aveva operato una "personalizzazione" degli importi monetari indicati nelle tabelle per l'inabilità temporanea assoluta, aumentandoli da 63.000 lire a 6.250.000 lire (dunque, di ben cento volte) per ciascun giorno di sopravvivenza della vittima.

In ordine al criterio di calcolo del danno morale catastrofico, si fronteggiano tre indirizzi, accomunati dal rilievo per cui il periodo di sopravvivenza, sebbene limitato nel tempo, consente al fatto illecito di produrre buona parte degli effetti pregiudizievoli. Un primo, riconducibile alla giurisprudenza di merito (Trib. Milano, 15/06/2000, in Resp. civ. e prev. 2001, 461), lo quantifica in una misura oscillante tra una volta e mezzo e tre volte il danno biologico jure hereditatis. Un secondo, espresso dalla Suprema Corte (Sez. 3, n. 10035/2004, Segreto, Rv. 573120), lo esprime in un valore che va da 1/3 alla metà del danno alla salute complessivo (peraltro, Sez. L, n. 01072/2011, Zappia, Rv. 616252, ha riconosciuto il danno catastrofale jure successionis nella misura del 100% del danno biologico terminale). Un ultimo orientamento ricorre al criterio equitativo, utilizzando, quali parametri, l'età della vittima, i giorni di agonia, l'entità delle lesioni, l'intensità del vincolo, la situazione di (eventuale) convivenza.

Alla stregua delle considerazioni che precedono, è evidente che già all'attualità, nella quantificazione dei due pregiudizi ccdd. terminali, si teneva in qualche modo conto, sul piano monetario, dell'evento letale finale.

1.5. Il danno da perdita del rapporto parentale.

Da ultimo, partendo dal presupposto per cui il danno tanatologico si sarebbe inevitabilmente tradotto in un danno che di riflesso avrebbe visto come beneficiari gli eredi (recte, i familiari) del defunto, è inevitabile pervenire alla conclusione che in qualche modo tale pregiudizio viene ristorato indirettamente nel contesto del danno da perdita del rapporto parentale (subìto sia nel momento in cui la perdita stessa è percepita - danno da lutto - sia con riguardo al tempo di sofferenza che accompagna la vittima secondaria - elaborazione del lutto -, posto che tali sofferenze sono componenti del complesso pregiudizio integralmente ed unitariamente considerato; cfr. Sez. 3, n. 03357/2010, D'Amico, Rv. 611460), risarcibile iure proprio ai suoi congiunti.

Per Sez. 3, n. 15760/2008, Rv. 591705, in tema di danno da morte dei congiunti (danno parentale), il danno morale diretto deve essere integralmente risarcito mediante l'applicazione di criteri di valutazione equitativa rimessi alla prudente discrezionalità del giudice, in relazione alle perdite irreparabili della comunione di vita e di affetti e della integrità della famiglia, naturale o legittima, ma solidale in senso etico. A tal fine sono utilizzabili parametri tabellari, applicati dai Tribunali o dalle Corti, rispettando il principio della personalizzazione ed il criterio equitativo dell'approssimazione al preciso ammontare, senza fare applicazione automatica della tabelle concepite per la stima del danno biologico, che consiste nella lesione dell'integrità psicofisica, mentre il danno morale è costituito dalla lesione dell'integrità morale.

D'altra parte, occorrerebbe altresì considerare che vi sono dei pregiudizi esistenziali dinamici che possono accompagnare il danno da perdita del rapporto parentale e che vengono riconosciuti in sede di personalizzazione (se l'illecito ha determinato anche particolari ripercussioni - cfr. Sez. 3, n. 19402/2013, Cirillo, Rv. 627584 - sulle abitudini di vita, si procede alla personalizzazione del dato offerto dalle tabelle).

In termini generali, per la Suprema Corte (n. 26972/2008, n. 12408/2011, n. 07844/2011), in caso di reato, è risarcibile anche il pregiudizio consistente nel non poter fare; al di fuori del reato e dei casi previsti dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili, purchè conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona (su cui vedasi postea).

Premesso che possono assumere rilievo, a fianco del danno biologico o di quello morale, solo in caso di macrosconvolgimenti dell'esistenza del soggetto danneggiato (atteso che i micropregiudizi esistenziali - l'agenda della vita alterata e/o peggiorata - sono già in essi ricompresi), si tende, in presenza di conseguenze negative particolari (radicali cambiamenti di vita), a procedere ad una personalizzazione nei limiti del 20-30%.

Per Sez. 3, n. 16992/2015, Scarano, Rv. 636308, il pregiudizio da perdita del rapporto parentale, da allegarsi e provarsi specificamente dal danneggiato ex art. 2697 c.c., rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto dal danno morale e da quello biologico, con i quali concorre a compendiarlo, e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell'esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita (in applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, nella quale, pur dandosi atto che, dalla vicenda della tragica morte del giovane figlio, la madre ne era uscita distrutta nel corpo, trascinando la propria successiva esistenza tra mille difficoltà e problemi nel solo ricordo, quasi ossessivo, del defunto, aveva, poi, sulla base di tali circostanze, riconosciuto alla medesima il solo danno morale, negandole, però, quello da perdita del rapporto parentale). Ad esempio, l'età avanzata, il legame intenso con la vittima e l'assenza di fattori protettivi alternativi possono condurre al riconoscimento di una percentuale aggiuntiva del 30%; in caso di convivenza, ma di danno parzialmente compensato dalla giovane età e dalla presenza di un fidanzato, è possibile aumentare la liquidazione del 20%; nell'ipotesi di giovane età, ma in assenza di una convivenza quotidiana e sussistendo un proprio nucleo familiare autonomo, la percentuale in maggiorazione riconoscibile è del 10%. Secondo la Corte, n. 07844/2011, n. 10527/2011, n. 14402/2011, n. 09040/2010, n. 19816/2010, per la maggiorazione dovrebbe essersi verificato uno sconvolgimento assoluto delle abitudini di vita del nucleo familiare.

Tuttavia, sul profilo probatorio, si rileva un apparente contrasto, atteso che per Sez. 3, n. 18659/2013 la morte di una persona cara costituisce di per sé un fatto noto dal quale il giudice può desumere, ex art. 2727 c.c., che i congiunti dello scomparso abbiano patito una sofferenza interiore tale da determinare un'alterazione della loro vita di relazione e da indurli a scelte di vita diverse da quelle che avrebbero altrimenti compiuto. In quest'ottica, incomberebbe al danneggiante la prova dell'inesistenza del pregiudizio. Ovviamente, però, se la prova del danno da uccisione del congiunto è fornita in via presuntiva, detto pregiudizio potrà essere valutato soltanto in misura standard, eguale per tutti, mentre una personalizzazione richiede la prova positiva della maggiore incidenza della privazione del congiunto rispetto all'id quod plerumque accidit.

Per quanto riguarda i criteri di liquidazione dei detti pregiudizi, vi è molta incertezza.

Probabilmente un criterio di lettura lo fornisce la Suprema Corte (Sez. 3, n. 09040/2010, Amatucci, Rv. 612532, e Sez. 3, n. 19816/2010, Lanzillo, Rv. 614577): ove nella liquidazione del danno morale (o da perdita del rapporto parentale) siano stati espressamente presi in considerazione i profili relazionali, non è possibile che, in aggiunta a quanto già determinato per il primo, venga attribuito un ulteriore ammontare al diverso titolo di danno esistenziale. Argomentando a contrari, pertanto, ove non siano stati espressamente contemplati i predetti profili, sarà ipotizzabile la loro liquidazione in aggiunta.

Sez. 3, n. 12717/2015, Sestini, Rv. 635949, ha statuito che, in materia di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, non è adeguatamente motivata la sentenza del giudice di merito che, facendo applicazione dei parametri previsti al riguardo dalle tabelle elaborate dal tribunale di Milano, abbia liquidato, per il pregiudizio subito dai genitori in ragione della nascita di un feto morto, una somma pari ai valori più elevati della forbice risarcitoria ivi contemplata, senza considerare che essa, in quanto dichiaratamente calcolata in ragione della qualità e quantità della relazione affettiva con la persona perduta, non è di per sé utilizzabile nel caso del figlio nato morto, dove tale relazione è solo potenziale.

2. Il danno alla salute: criteri di liquidazione.

Minori scossoni ha subìto nel corso degli ultimi tempi il danno cd. alla salute, individuato dalle sentenze meglio note come di San Martino del 2008 come pregiudizio paradigmatico per tutte le altre voci di danno.

Pur tuttavia, nell'ultimo anno si segnalano alcune pronunce che hanno in qualche modo definito con maggiore chiarezza i contorni della liquidazione del danno cd. biologico.

Sez. L, n. 13982/2015, De Marinis, Rv. 635965, ha ritenuto precluso il ricorso in via analogica al criterio di liquidazione del danno non patrimoniale da micropermanente derivante dalla circolazione di veicoli a motore e natanti ovvero mediante il rinvio al decreto emanato annualmente dal Ministro delle attività produttive, reputando, invece, congruo il riferimento ai valori inclusi nella tabella elaborata, ai fini della liquidazione del danno alla persona, dal Tribunale di Milano, in quanto assunti come valore "equo", in grado di garantire la parità di trattamento in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o a ridurne l'entità. Il riferimento alla predetta tabella potrebbe in qualche modo rivitalizzare lo stesso danno morale (sul quale vedasi infra). Invero, ponendo probabilmente la parola "fine" al dibattito che negli ultimi anni si era tradotto nella giurisprudenza di merito in soluzioni discordanti, Corte cost. 16/10/2014, n. 235, aveva reputato non fondata la q.l.c. dell'art. 139 d.lgs. 7.9.2005, n. 209, nella parte in cui stabilisce limiti e modalità del risarcimento del danno biologico per lesioni di lieve entità (cc.dd. micropermanenti), considerandolo osservante dei principi e criteri direttivi della legge-delega e realizzando un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco. La norma, a dire della Consulta, non impedisce, inoltre, di liquidare il danno morale, poiché, qualora ne ricorrano in concreto i presupposti, il giudice può (recte, deve; n.d.r.) incrementare (in sede di personalizzazione del risarcimento) l'ammontare del danno biologico, secondo la previsione, e nei limiti di cui al comma 3 della stessa (e, quindi, in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato). Da ciò consegue che ai giudici di merito è preclusa di fatto la possibilità, in siffatta evenienza, di concedere un ulteriore risarcimento per il "danno morale" del tutto sganciato da quello previsto ex art. 139. Al di fuori dell'ambito della circolazione dei veicoli, dunque, il giudice non sarebbe vincolato nella quantificazione del pregiudizio connesso alla sofferenza morale.

Meritevole di essere segnalata è altresì Sez. 3, n. 16788/2015, Rossetti, Rv. 636384, a mente della quale, in tema di danno biologico permanente, la relativa liquidazione va distinta concettualmente in due fasi: la prima, volta a individuare le conseguenze "ordinarie" inerenti al pregiudizio, cioè quelle che qualunque vittima di lesioni analoghe subirebbe; la seconda, le eventuali conseguenze "peculiari", cioè quelle che non sono immancabili, ma si sono verificate nel caso specifico. Le prime vanno monetizzate con un criterio uniforme; le seconde con criterio ad hoc scevro da automatismi (lo stesso estensore aveva anticipato questa sua visione con la pronuncia Sez. 3, n. 23778/2014).

Quanto all'epoca della sua liquidazione, Sez. 3, n. 05197/2015, Rossetti, Rv. 634697, ha statuito che l'invalidità permanente costituisce uno stato menomativo, stabile e non remissibile, che si consolida soltanto all'esito di un periodo di malattia e non può, quindi, sussistere prima della sua cessazione, a tal punto che, qualora un contratto di assicurazione preveda il pagamento di un indennizzo nel caso di invalidità permanente conseguente a malattia, nessun indennizzo è dovuto se la malattia, senza guarigione clinica, abbia avuto esito letale. Già Sez. 3, n. 26897/2014, Stalla, Rv. 633923, aveva evidenziato che l'invalidità permanente è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l'individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con stabilizzazione dei postumi, con la conseguenza che il danno biologico di natura permanente deve essere determinato soltanto dalla cessazione di quello temporaneo (incorrendosi altrimenti in una duplicazione dello stesso danno).

Da ultimo, Sez. 3, n. 16788/2015, Rossetti, Rv. 636385, ha chiarito che, in tema di risarcimento del danno biologico, il giudice di merito che proceda alla liquidazione secondo il criterio cd. "a punto variabile", nel motivare la propria decisione, non può limitarsi a generici richiami alle relative "tabelle", dovendo, invece, specificare il valore monetario di base del punto ed il grado di invalidità permanente, il coefficiente di abbattimento in funzione dell'età della vittima e le ragioni per cui ha ritenuto di variare o non il risarcimento standardizzato.

2.1. Il danno morale e quello esistenziale.

Sembra ormai che il danno cd. morale e quello cd. esistenziale, appartenente esclusi dalle sentenze di San Martino (il riferimento è, in particolare, a Sez. U, n. 26972/2008, Rv. 605495), abbiano riacquisito la veste di pregiudizi anche ontologicamente diversi rispetto a quello biologico.

Si muove in questa direzione Sez. 3, n. 11851/2015, Travaglino, Rv. 635701 (in merito a tale pronuncia l'Ufficio del Massimario ha predisposto apposita segnalazione di contrasto - Rel. n. 121 - in data 30/07/2015), secondo cui, nel caso di lesioni di non lieve entità e, dunque, al di fuori dell'ambito applicativo delle lesioni ccdd. micropermanenti di cui all'art. 139 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, il danno morale costituisce una voce di pregiudizio non patrimoniale, ricollegabile alla violazione di un interesse costituzionalmente tutelato, da tenere distinta dal danno biologico e dal danno nei suoi aspetti dinamico-relazionali presi in considerazione dall'art. 138 del menzionato d.lgs. n. 209 del 2005, con la conseguenza che va risarcito autonomamente, ove provato, senza che ciò comporti alcuna duplicazione risarcitoria.

In questa direzione si era già mossa Sez. 3, n. 22585/2013, Travaglino, Rv. 628153, nonché, talvolta con degli obiter dicta, Cass. n. 16041/2013, Rv. 626845, n. 23147/2013, Rv. 628623, n. 10524/2014, n. 21917/2014, Rv. 632667.

Peraltro, pur ribadendo l'ormai incontestata omnicomprensività del danno non patrimoniale, è evidente che il pregiudizio morale, riferendosi alla sofferenza interiore, prescinde dall'accertamento medico-legale sull'invalidità, che, invece, costituisce presupposto indefettibile per la valutazione del danno biologico.

Una valutazione siffatta crea incertezze sulla possibilità di considerare la sofferenza morale solo in sede di personalizzazione del danno biologico (vedasi postea) o anche in via autonoma.

D'altra parte, l'eventuale autonomia del danno morale comporterebbe, da un lato, il possibile suo riconoscimento ex se anche in assenza di una menomazione dell'integrità psico-fisica (cfr. Sez. 3, n. 00811/2015) e, dall'altro, l'esclusione di qualsivoglia automatismo in mancanza di specifica domanda o di precipua contestazione sulle singole, seppur connesse, voci di pregiudizio.

Sulla stessa lunghezza d'onda si pone Sez. L, n. 00777/2015, Manna A., Rv. 634051, per la quale il danno esistenziale, quale criterio di liquidazione del più generale danno non patrimoniale, risarcibile ex art. 2059 c.c., può essere desunto in forza dell'art. 115, secondo comma, c.p.c. da massime di comune esperienza, quali la giovane età del danneggiato al momento dell'infortunio (nella specie, venticinque anni) e la gravità delle conseguenze dell'infortunio (nella specie, immobilizzazione su sedia a rotelle) incidenti sulla normale vita di relazione dell'infortunato, avuto riguardo alla capacità di procreazione, alla vita sessuale, alla possibilità di praticare sport ed altre analoghe attività.

D'altra parte, è evidente che un danno esistenziale possa sussistere anche indipendentemente dalla presenza di un danno morale, se solo si considera, ad esempio, che, nel caso di un nenonato che subisce la perdita di un genitore, la sofferenza (almeno per i primi anni di vita) non sarà percepibile, mentre ben evidenti saranno le concrete privazioni sul piano esistenziale.

Avevano già confermato, nella sostanza, la correttezza di un impianto risarcitorio composto da più voci, le quali, solo se complessivamente considerate, sono capaci di assicurare alla vittima dell'illecito il ristoro integrale del danno alla persona, Cass. n. 01361/2014, n. 05056/2014, n. 03549/2014 e n. 20292/2012.

Di recente, la Terza Sezione (n. 18611/2015, Petti) ha sostenuto, proprio partendo dalla considerazione per cui il danno esistenziale e quello morale meritano una valutazione autonoma rispetto al danno biologico, che appesantire soltanto il punto base indicato nelle tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione alla integrità psico-fisica non permette di considerare la perdita delle qualità della vita del soggetto gravemente leso e tutte le componenti psichiche e spirituali del dolore umano.

La tendenza è, quindi, verso un abbandono della valenza meramente descrittiva delle indicate voci di danno.

Il principale rischio che si annida dietro una impostazione del genere è quello di realizzare una indebita duplicazione risarcitoria, cui fa da contraltare il pericolo di incorrere in vuoti risarcitori.

Proprio nell'ottica di individuare con la maggiore precisione possibile il criterio di quantificazione e di contenere il rischio di duplicazioni risarcitorie, Sez. 3, n. 05243/2014, Barreca, Rv. 630077, aveva sostenuto (in ciò preceduta da Sez. 3, n. 18641 del 2011, Sez. 1, n. 11950 del 2013 e Sez. L, n. 00687 del 2014) che la necessaria liquidazione unitaria del danno biologico e del danno morale può correttamente effettuarsi mediante l'adozione di tabelle che includano nel punto base la componente prettamente soggettiva data dalla sofferenza morale conseguente alla lesione, operando perciò non sulla percentuale di invalidità, bensì con aumento equitativo della corrispondente quantificazione, nel senso di dare per presunta, secondo l'id quod plerumque accidit, quanto meno per le invalidità superiori al dieci per cento, l'esistenza di un tale tipo di pregiudizio, pur se non accertabile per via medico-legale, salvo prova contraria, a sua volta anche presuntiva. È evidente, in tal guisa ragionando, l'adesione all'impianto posto alla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano.

A ben vedere, non si hanno duplicazioni risarcitorie in presenza della liquidazione dei diversi aspetti negativi ravvisati causalmente derivare dal fatto illecito, bensì quando lo stesso aspetto venga computato due o più volte sulla base di diverse (meramente formali) denominazioni (Sez. 3, n. 10527/2011).

Sez. 1, n. 13085/2015, Lamorgese, Rv. 635733, ha, invece, ribadito che la risarcibilità del danno non patrimoniale a norma dell'art. 2059 c.c., in relazione all'art. 185 c.p., non richiede che il fatto illecito integri in concreto un reato, né occorre una condanna penale passata in giudicato, ma è sufficiente che il fatto stesso sia astrattamente previsto come reato, sicché la mancanza di una pronuncia del giudice penale non costituisce impedimento all'accertamento, da parte del giudice civile, della sussistenza dei suoi elementi costitutivi.

2.2. Altri parametri per la liquidazione del danno non patrimoniale.

Come si è già accennato, in materia di responsabilità civile, il principio della "omnicomprensività" della liquidazione del danno non patrimoniale comporta l'impossibilità di duplicazioni risarcitorie del medesimo pregiudizio, ma non esclude, in caso di illecito plurioffensivo, la liquidazione di tanti danni quanti sono i beni oggetto di autonoma lesione, seppure facenti capo al medesimo soggetto (cfr. Sez. 3, n. 09320/2015, Rossetti, Rv. 635319; nel caso di specie il giudice di merito aveva erroneamente liquidato in modo unitario il danno non patrimoniale patito dai familiari delle vittima di un sinistro stradale, non attribuendo autonomo rilievo al danno da perdita del rapporto parentale ed a quello alla salute psichica dagli stessi pure subito in conseguenza della morte del proprio congiunto).

Il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., se da un lato preclude duplicazioni risarcitorie, dall'altro impone al giudice di tener conto di tutte le peculiarità del singolo caso, tramite la personalizzazione del risarcimento (Sez. 3, n. 12594/2015). Così, ad esempio, Sez. 3, n. 15733/2015, Armano, Rv. 636175, ha valorizzato il principio di personalizzazione del valore del punto di invalidità in un caso in cui, all'esito di un intervento chirurgico di osteosintesi, erano residuati a carico della paziente postumi permanenti (nella specie, una zoppia per l'accorciamento dell'arto di cm. 5) più gravi di quelli che, per le modalità della frattura, sarebbero comunque derivati nel caso di esecuzione di intervento a regola d'arte, dovendosi in siffatta evenienza tener conto delle conseguenze della maggiore zoppia sulla vita della paziente, ed in particolare delle sue difficoltà a deambulare in modo autonomo, dell'impedimento allo svolgimento del lavoro dinamico precedentemente espletato, oltre che dello sport praticato in epoca anteriore al sinistro, nonché del maggiore danno estetico causato dalla avvenuta esecuzione di un secondo intervento sul medesimo punto dell'arto.

Va ricordato, sul punto, che la Suprema Corte si sta orientando nel senso di riconoscere la personalizzazione del risarcimento solo in presenza di circostanze specifiche che siano anomale ed eccezionali rispetto alla generalità dei casi analoghi (Sez. 3, n. 24471/2014).

Peraltro, Sez. 1, n. 16222/2015, Bisogni, Rv. 636631, ha ribadito che la liquidazione del danno non patrimoniale in via equitativa resta affidata ad apprezzamenti discrezionali del giudice di merito, non sindacabili in sede di legittimità, purché la motivazione della decisione dia adeguatamente conto del processo logico attraverso il quale si è pervenuti alla liquidazione, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo.

3. I diritti inviolabili.

Premesso che tuttora è incerta la differenza tra i diritti fondamentali dell'uomo ed i diritti inviolabili della persona costituzionalmente protetti, ben avrebbero potuto il legislatore e la giurisprudenza, anziché dilaniarsi sulla natura meramente descrittiva o meno delle varie voci del danno non patrimoniale, individuare i beni e gli interessi cui può riconoscersi la qualifica di inviolabili.

Si tende a disconoscere tale qualifica alle libertà di circolazione e di iniziativa economica privata, così come agli interessi tutelati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (la quale, peraltro, non assume il rango di fonte costituzionale).

Viceversa, per quanto non siano qualificati espressamente come inviolabili, si è propensi ad attribuirla ai diritti alla salute (art. 32 Cost.), alla reputazione, immagine nome e riservatezza (artt. 2 e 3 Cost.) ed ai diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.).

Incertezze permangono con riferimento al diritto di proprietà (art. 42 Cost.), anche se sembrano orientarsi in senso favorevole la Convenzione Europea dei diritti fondamentali (artt. 17 e 52), la Corte Europea di Strasburgo e la stessa Corte costituzionale. Quest'ultima, in particolare, in data 24/10/2007, n. 348 (in Giurisprudenza Costituzionale 2007, 5, 3475, con nota di Pinelli), ha, in tema di espropriazione per p.u., evidenziato che l'indennizzo inferiore al valore venale del cespite espropriato vanificava l'oggetto del diritto di proprietà e, così, violava l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 1 del primo Protocollo della Cedu, nella interpretazione ad esso data dalla Corte di Strasburgo.

Vi è, invece, condivisione di intenti sul rilievo che non si sia al cospetto di un numerus clausus.

In questo panorama, Sez. 1, n. 16222/2015, cit., ha confermato che il diritto all'identità personale e sociale costituisce un diritto della persona costituzionalmente garantito, sicché, alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 2043 e 2059 c.c., la sua lesione (nel caso di specie, si trattava di un riconoscimento della paternità consapevolmente falso e, come tale, in seguito disconosciuto) implica il risarcimento del danno non patrimoniale così arrecato, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo costituisca o meno reato.

Nel medesimo contesto, Sez. 6-1, n. 18748/2015, Bisogni, Rv. 636864, ha ribadito che il diritto alla libertà personale (della quale, nel caso di specie, era stato privato uno straniero che era stato trattenuto nonostante non potesse essere allontanato coattivamente contestualmente all'espulsione, costituendo il trattenimento una misura di privazione della libertà personale legittimamente realizzabile soltanto in presenza delle condizioni giustificative previste dalla legge e secondo una modulazione dei tempi rigidamente predeterminata) ha il rango costituzionale e la natura inviolabile, la cui conformazione e concreta limitazione è garantita dalla riserva assoluta di legge prevista dall'art. 13 Cost.

È stato di recente confermato l'inquadramento nei diritti fondamentali di rango costituzionale della libertà personale o del domicilio (Sez. T, n. 04066/2015, Valitutti, Rv. 634970, in una fattispecie di accertamento IVA scaturito a seguito di accesso della Guardia di Finanze presso la sede di una società non autorizzato per iscritto).

Sez. 3, n. 01126/2015, Travaglino, Rv. 634356, ha qualificato come inviolabile il diritto all'identità sessuale, in un caso in cui un ospedale militare, in tal guisa adottando altresì condotte omofobiche, gravemente discriminatorie e lesive del diritto alla privacy, aveva segnalato la dichiarazione di omosessualità da parte di un chiamato alla leva (ed esonerato dal servizio militare per tale sola ragione) alla Motorizzazione civile, evidenziando la derivante carenza dei requisiti psico-fisici legalmente previsti per la guida di automezzi, nonché la conseguente sottoposizione dell'interessato ad un procedimento di revisione della patente di guida.

Sez. 6-3, n. 03079/2015, Vivaldi, Rv. 634387, ha affermato che il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una figlia naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 della Costituzione - oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento - un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell'illecito civile e legittima l'esercizio, ai sensi dell'art. 2059 c.c., di un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole.

Non è chiaro se Sez. 3, n. 14667/2015, Vincenti, Rv. 636276, abbia incluso tra i diritti inviolabili della persona, costituzionalmente tutelati, quello del passeggero, ove il vettore aereo internazionale si renda responsabile del ritardo nel consegnargli il bagaglio (in base all'art. 19 della Convenzione di Montreal del 28 maggio 1999 in materia di trasporto aereo internazionale, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge n. 12 del 2004).

Probabilmente, una tale impostazione, per quanto possa apparire prima facie trasmodare nel danno "bagatellare", allineerebbe la giurisprudenza italiana a quella europea, a mente della quale il termine "danno", ai fini dell'art. 22 n. 2, della convenzione per l'unificazione di alcune norme relative al trasporto aereo internazionale, conclusa a Montreal il 28 maggio 1999, che fissa la limitazione della responsabilità del vettore aereo per il danno derivante in particolare dalla perdita di bagagli, deve essere interpretato nel senso che include tanto il danno materiale quanto il danno morale (Corte giustizia UE, sez. III, 06/05/2010, n. 63).

. BIBLIOGRAFIA

C.M. Bianca, Il danno da perdita della vita, in Vita not., 2012, 1500 ss.

G. Comandè, in Resp. civ. e prev., 1993, 358.

M. Gorgoni, Nascituro e responsabilità sanitaria, in Resp. civ. prev. 2009, 399.

  • responsabilità penale
  • errore medico

CAPITOLO X

LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO

(di Irene Ambrosi )

Sommario

1 Premessa. - 2 Natura della responsabilità della struttura e del medico in essa operante. - 2.1 Responsabilità contrattuale della struttura sanitaria nei confronti del paziente e conseguenti corollari, in parte consolidati, in parte problematici. - 2.2 Natura della responsabilità "da contatto" del medico operante nella struttura sanitaria nei confronti del paziente ricondotta al tipo contrattuale. - 3 Criteri di accertamento degli elementi costitutivi della responsabilità. - 3.1 La misura dell'obbligo ovvero il criterio della diligenza qualificata. - 3.2 La regola "del più probabile che non" nell'accertamento del nesso causale. - 3.3 I criteri di ripartizione dell'onere probatorio in tema di nesso causale. - 4 La responsabilità medico-chirurgica come "Nave... in gran tempesta" verso un nuovo orizzonte normativo. - BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.

Resta molto dibattuto negli orientamenti della giurisprudenza di legittimità il tema della responsabilità civile derivante dallo svolgimento dell'attività medico-chirurgica tanto da far registrare anche nel corso dell'anno 2015 un cospicuo contenzioso. Continua in materia la complessa opera di elaborazione di regole e princìpi che, lungi dall'essere statici, risentono della continua evoluzione, da un lato, degli avanzamenti scientifici e tecnici in campo medico, dall'altro, dalla mutevolezza dei valori assunti nella coscienza sociale come meritevoli di tutela giuridica.

Echeggiano, nello sforzo ermeneutico compiuto dal diritto vivente in materia, le riflessioni dottrinali in tema di nuove funzioni della responsabilità civile [LIPARI, 2013, 194 e ss.; BARCELLONA, 2011, 701; SCOGNAMIGLIO, 2015, 145 e ss.] maturate nella consapevolezza dei suoi incerti confini [CASTRONOVO, 2006, 443 e ss.] e delle mutevoli frontiere del danno ingiusto [GALGANO, 1985, 1 e ss.].

La riflessione sulle problematiche tecnico-giuridiche in materia non può prescindere dal mutamento intervenuto nel modo di intendere i rapporti tra medico e paziente, tradizionalmente ricostruito in termini di responsabilità contrattuale e registrare, per un verso, che i diversi approcci utilizzati appaiono caratterizzati da uno stesso comune fondamento costituito dallo sforzo di apprestare meccanismi di tutela idonei a garantire il paziente considerato soggetto debole del rapporto e constatare, per l'altro, che la responsabilità medica viene oggi intesa in un senso più ampio come responsabilità medico-sanitaria all'interno della complessa dinamica delle relazioni tra medico, struttura sanitaria e paziente, tenuto conto che il sistema sanitario attuale presenta una strutturazione assai articolata che trascende il profilo della mera prestazione medica fino a ricomprendere ulteriori obblighi di protezione e salvaguardia scaturenti da una più moderna concezione della responsabilità [FRANZONI, 2015, 589 e ss.].

La giurisprudenza di legittimità ha dato prova di essere consapevole di tale ampliamento tanto da utilizzare sin dal 1999 Sez. 3, n. 00589/1999, Segreto, Rv. 522538 la categoria del "contatto sociale", qualificando la natura del rapporto obbligatorio del medico ospedaliero nei confronti del paziente come contrattuale <<non già per l'esistenza di un pregresso rapporto obbligatorio insorto tra le parti, bensì in virtù di un rapporto contrattuale di fatto originato dal contatto sociale>> e riconducendo quello che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) ad un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo da cui derivano, oltre a obblighi latu sensu alberghieri, anche quelli di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Così, da ultimo, Sez. 3, n. 18610/2015, Scrima, Rv. 636984 ove si afferma inoltre che la responsabilità della casa di cura (o dell'ente) nei confronti del paziente consegue all'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e l' organizzazione aziendale della struttura, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche "di fiducia" dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto.

Rispetto a tale consolidato assetto, di recente, il legislatore, intervenendo con il decretolegge 13 settembre 2012 n. 158 recante "Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute", convertito in legge 8 novembre 2012 n. 189, ha introdotto, tra l'altro, una disposizione di difficile cifratura stabilendo, nel testo dell'art. 3, come modificato in sede di conversione, che <<l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo>>.

L'intenzione sottesa alla disposizione introdotta è all'evidenza quella di limitare il fenomeno della cd. medicina difensiva, ma l'inciso utilizzato <<fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile>>, di difficile lettura, ha creato perplessità e incertezze negli interpreti rispetto al quadro consolidato [parla di <<piccolo recente scompiglio>> al riguardo, CASTRONOVO, 2015, 159 e ss.] ed è tornata alla ribalta la questione della natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità medica tanto che la Suprema Corte, con due distinte pronunce, ha escluso che la formula normativa utilizzata abbia innovato alcunché in ordine all'applicabilità delle regole di cui agli artt. 1218 e ss. c.c. in materia. In particolare, con la prima pronuncia, Sez. 3, n. 04030/2013, Petti, (in un passo considerato, nel contesto della motivazione, un mero obiter dictum) ha affermato che la novella ha innovato soltanto la responsabilità penale del medico, mentre quella civile <<segue le sue regole consolidate>>. Con la seconda pronuncia, Sez. 3, n. 08940/2014, Frasca, Rv. 630778, ha chiarito come la citata previsione normativa non abbia espresso alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, ma abbia inteso solo escludere, in tale ambito, l'irrilevanza della colpa lieve.

2. Natura della responsabilità della struttura e del medico in essa operante.

Dalla scelta operata dalla giurisprudenza di legittimità di inquadrare la responsabilità della struttura sanitaria e del medico operante in essa, in quella contrattuale discendono conseguenze ermeneutiche fondamentali sul piano dell'inquadramento sistematico dei rispettivi rapporti (l'uno tra struttura e paziente e l'altro, tra medico e paziente), tra loro distinti e autonomi, seppur tra loro saldamente connessi tenuto conto che l'opera intellettuale medica rimane il nucleo qualificante della prestazione sanitaria, pur quando questa si svolga nella cornice di una struttura ospedaliera [CASTRONOVO, 2006, 480].

Muovendo da tale scelta, appare utile compiere una ricognizione dello stato degli arresti più significativi della Cassazione, recenti e meno recenti, nei diversi ambiti.

2.1. Responsabilità contrattuale della struttura sanitaria nei confronti del paziente e conseguenti corollari, in parte consolidati, in parte problematici.

Come già accennato, la giurisprudenza della Suprema corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria all'interno della responsabilità contrattuale, sul rilievo che l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto, così Sez. 3, n. 09085/2006, Manzo, Rv. 589631.

In particolare, si è ritenuto e più volte ribadito che l'accettazione del paziente in una struttura pubblica o privata deputata a fornire assistenza sanitaria ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, trova la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive (talvolta definito come contratto di spedalità, talvolta come contratto di assistenza sanitaria) con effetti protettivi nei confronti del terzo.

Le Sezioni unite, nel confermare tale ricostruzione, hanno valorizzato la complessità e l'atipicità del legame che si instaura tra struttura e paziente che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere atteso che, in virtù del contratto che si conclude con l'accettazione del paziente in ospedale, la struttura ha l'obbligo di fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di "assistenza sanitaria", che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cd. di protezione ed accessori. Pertanto, la responsabilità della struttura ricondotta all'inadempimento di obblighi propri della medesima, per un verso, si muove sulle linee tracciate dall'art. 1218 c.c. e, per l'altro, in relazione alle prestazioni mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, consente di abbandonare il richiamo, <<alquanto artificioso, alla disciplina del contratto d'opera professionale e di fondare, semmai, la responsabilità dell'ente per fatto dei dipendenti sulla base dell'art. 1228 c.c>>. Quindi, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall'assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della struttura (ente ospedaliero o casa di cura), accanto a obblighi di tipo lato sensu alberghieri, quelli di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Con la conseguenza che la responsabilità della struttura (casa di cura o ente ospedaliero) nei confronti del paziente ha natura contrattuale che può dirsi "diretta" ex art. 1218 c.c. in relazione a propri fatti d'inadempimento (ad esempio in ragione della carente o inefficiente organizzazione relativa alle attrezzature o alla messa a disposizione dei medicinali o del personale medico ausiliario o paramedico o alle prestazioni di carattere alberghiero) e che può dirsi "indiretta" ex art. 1228 c.c. perché derivante dall'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale ausiliario necessario dell'ente, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo "un collegamento" tra la prestazione da costui effettuata e la organizzazione aziendale della struttura, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche "di fiducia" dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto; in tal senso, si vedano: Sez. 3, n. 13066/2004, Manzo, Rv. 594562, Sez. 3, n. 01698/2006, Varrone, Rv. 587618, Sez. 3, n. 13953/2007, Trifone, Rv. 597575, Sez. U, n. 00577/2008, Segreto, Rv. 600903 e, infine, Sez. 3, n. 18610/2015, Scrima, Rv. 636984.

A conferma della consolidata ricostruzione in termini autonomi delle rispettive responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente, da un lato e del medico nei confronti del paziente, dall'altro, va segnalata, da ultimo, Sez. 3, n. 15860/2015, D'Amico, Rv. 636191 che, in una ipotesi in cui la domanda risarcitoria aveva ad oggetto solo l'operato del medico e non anche i profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria ha ritenuto che la transazione tra medico e danneggiato, con conseguente declaratoria di cessata materia del contendere, impedisce la prosecuzione dell'azione nei confronti della struttura medesima, perché questa è convenuta in giudizio solo in ragione del rapporto di lavoro subordinato col professionista, e dunque per fatto altrui, sicchè la transazione raggiunta tra il medico e il danneggiato, escludendo la possibilità di accertare e dichiarare la colpa del primo, fa venir meno la responsabilità della struttura, senza che sia neppure possibile invocare l'art. 1304 c.c.

Dall'inquadramento nella responsabilità contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente, discendono, sul piano generale, i seguenti consolidati logici corollari.

In primo luogo, si è affermata l'irrilevanza della qualificazione pubblica o privata della struttura <<tenuto conto che sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria>>, così Sez. U, n. 00577/2008, Segreto, Rv. 600903.

In secondo luogo, non assume più rilievo - ai fini della individuazione della natura della responsabilità della struttura sanitaria - se il paziente si sia rivolto direttamente ad una struttura sanitaria del Servizio Sanitario Nazionale o convenzionata oppure ad una struttura privata o se, invece, si sia rivolto ad un medico di fiducia che ha effettuato la prestazione presso una struttura privata, in tal senso, ancora Sez. U, n. 00577/2008, Segreto, Rv. 600903.

Neppure rileva, come costantemente ritenuto sin dalle pronunce Sez. 3, n. 01855/1989, Taddeucci, Rv. 462532, Sez. 1, n. 01883/1998, Carbone, Rv. 512887, la sussistenza o meno di un rapporto di dipendenza del medico con la struttura, in quanto l'imprenditore risponde del fatto doloso e colposo dell'ausiliario, ancorché questo non sia alle sue dipendenze, in forza del principio fissato dall'art. 1228 c.c., sulla responsabilità del debitore per l'illecito di terzi di cui si avvalga per l'adempimento dell'obbligazione.

Da ultimo, in tema di rapporto tra medico generico e Azienda Sanitaria Locale in ordine al fatto illecito commesso dal medico generico, con essa convenzionato, nell'esecuzione delle prestazioni curative comprese tra quelle assicurate e garantite dal Servizio sanitario nazionale in base ai livelli stabiliti dalla legge, Sez. 3, n. 06243/2015, Vincenti, Rv. 635072 ha ulteriormente chiosato che perché possa operare la responsabilità della Azienda Sanitaria Locale ex art. 1228 c.c. <<non è affatto dirimente la natura del rapporto che lega il debitore all'ausiliario, ma trova fondamentale importanza che il debitore in ogni caso si avvalga dell'opera del terzo nell'attuazione della sua obbligazione, ponendo tale opera a disposizione del creditore, sicchè la stessa risulti così inserita nel procedimento esecutivo del rapporto obbligatorio>>.

Nello stesso ambito, possono inoltre registrarsi i seguenti profili problematici.

Un primo aspetto problematico è quello concernente i criteri di imputazione del rapporto qualora una struttura sanitaria sia gestita, in virtù di apposita convenzione, da un soggetto diverso dal proprietario. Si è al riguardo sottolineato che la Convenzione tra Università ed enti ospedalieri o unità sanitarie locali può dar luogo, quanto all'attività di assistenza sanitaria ed in modo rilevante per i terzi, al trasferimento dalla prima ai secondi della gestione delle cliniche universitarie, tenuto conto che l'elemento idoneo ad individuare il soggetto titolare del rapporto instaurato con il paziente (e con il medico) ed a conseguentemente fondare la correlativa responsabilità è quello della <<diretta gestione>> della clinica Sez. 3, n. 09198/1999, Vittoria, Rv. 529566. Con riferimento ad una fattispecie nella quale un degente aveva subito danni alla persona in conseguenza di un intervento chirurgico, eseguito all'interno di una clinica di proprietà di una università privata, ma concessa in uso, in virtù di apposita convenzione, ad una università pubblica e nella quale operavano medici dipendenti di quest'ultima, Sez. 3, n. 24791/2008, Scarano Rv. 605179, ha affermato che dei danni causati dai medici ivi operanti è tenuto a rispondere il soggetto cha ha la diretta gestione dell'ospedale, e non il proprietario, in quanto è col primo e non col secondo che il paziente stipula, per il solo fatto dell'accettazione nella struttura, il contratto atipico di spedalità. la Corte sulla base di tale principio ha confermato la decisione di merito che aveva condannato l'università pubblica a risarcire il danno del paziente e rigettato la domanda di regresso formulata da quest'ultima ex art. 2055 c.c. nei confronti dell'ente proprietario dell'ospedale.

Ulteriore profilo problematico è quello relativo all'applicabilità della disciplina di cui all'art. 33, comma 2, lett. u), del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, concernente il cd. "foro del consumatore", ai rapporti tra pazienti e struttura sanitaria pubblica e/o privata operante in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale. Dapprima Sez.6-3, n. 08093/2009, Frasca, Rv. 607875 ne aveva escluso l'applicabilità per un duplice ordine di ragioni, la prima, perché, pur essendo l'organizzazione sanitaria imperniata sul principio di territorialità, l'assistito ha la possibilità di rivolgersi a qualsiasi azienda sanitaria presente sul territorio nazionale, sicché se il rapporto si è svolto al di fuori del luogo di residenza del paziente tale circostanza è frutto di una sua libera scelta, che fa venir meno la ratio dell'art. 33 cit.; la seconda, perché la struttura sanitaria non opera per fini di profitto, e non può quindi essere qualificata come "imprenditore" o "professionista". Più di recente, invece, Sez. 6-3, n. 27391/2014, Frasca, Rv. 633920 ne ha affermato l'applicabilità limitatamente alle controversie relative ad eventuali prestazioni aggiuntive rese nell'ambito del rapporto contrattuale intercorrente tra un utente ed una struttura del Servizio Sanitario Nazionale (o convenzionata), i cui costi siano posti direttamente a carico del primo. Nella specie, il contratto aveva ad oggetto una prestazione resa al di fuori delle procedure del S.S.N. ovvero un intervento operatorio eseguito da un medico scelto dal paziente ed operante come libero professionista, sebbene nell'espletamento di attività intramuraria. Secondo la Corte, ai fini dell'applicazione del foro del consumatore, diventa imprescindibile valutare la natura del rapporto o della prestazione che ne è oggetto, con la conclusione che il foro del consumatore è in linea tendenziale applicabile all'utente del Servizio Sanitario Nazionale <<previo riscontro della idoneità del relativo rapporto ad essere ricondotto sotto le norme del codice del consumo di volta in volta considerate>>.

2.2. Natura della responsabilità "da contatto" del medico operante nella struttura sanitaria nei confronti del paziente ricondotta al tipo contrattuale.

Sul versante dell'obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, la giurisprudenza di legittimità, con orientamento consolidato, ha - sin da Sez. 3, n. 00589/1999, Segreto, Rv. 522538 - affermato che ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", anche essa viene ricondotta al tipo contrattuale in quanto si fonda sull'affidamento che il professionista crea per essere stato prescelto per rendere l'assistenza sanitaria dovuta e la sua prestazione, per quanto non derivante da contratto, ma da altra fonte ex art. 1173 c.c., assume un contenuto contrattuale.

La teoria del contatto sociale, elaborata dalla dottrina italiana, sulla scorta di quella tedesca è stata, dapprima, utilizzata dalla giurisprudenza nelle ipotesi di danni subiti da un paziente a causa della non diligente esecuzione della prestazione da parte di un medico dipendente di un ente ospedaliero e, poi, utilizzata in una varietà di casi accomunati dalla violazione di obblighi di comportamento posti dall'ordinamento a carico di determinati soggetti.

La responsabilità da contatto sociale si caratterizza come responsabilità per inadempimento senza obblighi di prestazione contrattualmente assunti, in fattispecie di danno di difficile inquadramento sistematico, <<ai confini tra contratto e torto>>. Vengono ricondotte ad essa, ipotesi in cui la responsabilità extracontrattuale appare insufficiente, in quanto generica responsabilità del "chiunque", e nelle quali manca il fulcro del rapporto obbligatorio, costituito dalla prestazione vincolante. Fonte della prestazione risarcitoria non è ne' la violazione del principio del neminem ledere, né l'inadempimento della prestazione contrattualmente assunta, ma la lesione di obblighi di protezione, di comportamento, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. Il rapporto che scaturisce dal "contatto" è ricondotto allo schema della obbligazione da contratto.

Acutamente la dottrina ha, per un verso, inquadrato la responsabilità da contatto sociale nella zona di confine tra responsabilità contrattuale e extracontrattuale [LIPARI, 2013, 194 e ss.] e storicizzato la teorizzazione relativa all'obbligazione senza prestazione in ragione del limite costituito dalle categorie tradizionali le quali non consentirebbero di andare oltre <<le colonne del diritto soggettivo, ma anche perché si intuisce che, oltre queste colonne, vi è uno spazio che non ammette di essere abbandonato all'irrilevanza giuridica>> [BARCELLONA, 2011, 139 e ss.].

Per avere un'idea quantitativa dell'impatto della teoria sulla pratica, basta operare una ricerca con le parole "contatto sociale" nella banca dati Italgiureweb del Centro elettronico di documentazione della Corte di cassazione per ottenere (dal 1999 al 2015) il dato complessivo di 205 decisioni, 23 delle quali risultano massimate.

Per quanto concerne l'obbligazione del medico nei confronti del paziente, efficacemente ha spiegato la Suprema Corte che tale situazione ricorre in presenza di un operatore di una professione cd. protetta (per l'esercizio della quale è richiesta una speciale abilitazione), particolarmente quando essa, come la professione medica, abbia ad oggetto beni costituzionalmente garantiti come il bene della salute tutelato dall'art. 32 Cost., in tal senso, Sez. 3, n. 09085/2006, Manzo, Rv. 589631.

Come opportunamente osservato in dottrina, la stessa qualificazione professionale del medico genera inevitabilmente un affidamento nei soggetti che su di essa fanno conto sulla base di un contatto sociale funzionale, cioè originariamente volto ad uno specifico fine, <<affidamento dal quale, in forza del principio di buona fede, nascono obblighi di conservazione della sfera giuridica altrui che si interpongono tra la condotta e il danno e sottraggono l'eventuale responsabilità al regime del torto aquiliano>> [CASTRONOVO 2006, 482-483].

Nel 2008, le Sezioni unite hanno ribadito l'assunto secondo cui l'obbligazione del professionista operante in una struttura sanitaria non è fondata sul contratto, ma sul contatto sociale, cui si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire gli interessi emersi o esposti a pericolo in occasione del contatto stesso, così Sez. U, n. 00577/2008, Segreto, Rv. 600903 e hanno precisato che la responsabilità da contatto caratterizza la categoria più ampia dei cd. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario e consente di riconoscere tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto.

In applicazione di tale estensione, difatti, si è riconosciuta tutela, oltre alla gestante, al nascituro, subordinatamente alla nascita e al padre, nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata (cfr., rispettivamente, v. Sez. 3, n. 11503/1993, Segreto, Rv. 484431 e Sez. 3, n. 06735/2002, Vittoria, Rv. 554299); pronunce citate, tra l'altro, in Sez. U, n. 26972/2008, Preden, Rv. 605492.

In questa ottica di protezione, il contatto sociale, è stato utilizzato in ulteriori ambiti similari rispetto a quello della professione medica, ad esempio, con riferimento a quella forense, v. Sez. U, n. 06216/2005, Morelli, Rv. 580918, a quella bancaria, v. Sez. U, n. 14712/2007, Rordorf, Rv. 597395 e a quella di mediazione, v. Sez. 3, n. 16382/2009, Spagna Musso, Rv. 609183 e, addirittura, esportato fuori dall'ambito delle responsabilità professionali, come nel caso dell'insegnante, dipendente dell'istituto scolastico, ritenuto responsabile in solido con l'istituto, del danno da autolesione procuratosi dall'allievo; in tale ipotesi, è stato precisato che tra precettore e alunno si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell'ambito del quale l'insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l'allievo si procuri da solo un danno alla persona, v. Sez. U, n. 09346/2002, Preden, Rv. 555386 e, nello stesso senso, più di recente, Sez. 3, n. 02413/2014, Cirillo, Rv. 630341 e come, ancora, nel peculiare interessante caso di danno conseguente a inesatte informazioni (nella specie previdenziali), attinenti al rapporto di lavoro, fornite, a richiesta, dall'ex datore di lavoro al lavoratore. In tale ipotesi, l'obbligo di comportamento in capo al datore di lavoro rispetto a informazioni in suo possesso attinenti al rapporto di lavoro che non sia più attuale, trova fondamento nell'affidamento che l'ex dipendente ripone nell'ex datore di lavoro, quale detentore qualificato delle informazioni relative ad un rapporto contrattuale ormai concluso, in un contesto che ha sullo sfondo la tutela costituzionale apprestata al lavoro (art. 35 Cost.), cfr. Sez. 3, n. 15992/2011, Carluccio, Rv.619454.

Vanno segnalate, infine, le precisazioni di particolare rilievo, - in tema di evoluzione giurisprudenziale della responsabilità da contatto sociale tra medico e paziente - fornite da due recenti pronunce; la prima, Sez. 3, n. 07909/2014, Vivaldi, Rv. 630750, occupandosi della disposizione di esonero dalla responsabilità sostitutiva, prevista a carico dello Stato ospitante per ogni evento dannoso provocato da atto, comportamento o fatto posto in essere da un soggetto civile o militare straniero nell'esercizio delle sue funzioni (come disposto dall'art. VIII, paragrafo 5, della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 30 novembre 1955, n. 1335), ha affermato che tale esonero opera allorché la richiesta di indennità trovi la sua ragione giustificativa nell'applicazione di un contratto, da intendere - secondo i canoni internazionali pattizi - come accordo bilaterale o plurilaterale su singole clausole, che vanno adempiute dalle parti contraenti. Nella specie, è stata confermata la sentenza con cui il giudice di merito ha escluso che l'esonero da responsabilità potesse operare in favore dello Stato italiano, in relazione alla domanda risarcitoria da errato trattamento medico effettuato in Italia da una struttura sanitaria statunitense, proposta dal coniuge di un militare - e poi dipendente civile - della U.S. Navy, ritenendo estranea alla nozione di contratto, di cui alla norma summenzionata, quella del contatto sociale frutto di elaborazione giurisprudenziale interna.

La seconda, Sez. 3, n. 06438/2015, Petti, Rv. 634965, ha chiarito come il primario ospedaliero, in ferie al momento del contatto sociale, del ricovero e dell'intervento, non possa essere chiamato a rispondere delle lesioni subite da un paziente della struttura ospedaliera solo per il suo ruolo di dirigente, non essendo configurabile una sua responsabilità oggettiva; in proposito, viene osservato opportunamente che <<nella evoluzione giurisprudenziale intorno al contatto sociale ed alla coesistenza tra la funzione apicale del reparto e la sua organizzazione, la responsabilità civile attiene alla imputabilità soggettiva dello inadempimento, che qui manca all'origine del primo contatto, del primo ricovero e del primo intervento>>.

La dottrina, prendendo spunto dalla modifica al codice civile intervenuta in Germania (§ 311 BGB) che ha ricondotto la rilevanza della teoria del contatto sociale nell'ambito della culpa in contraendo e ne ha limitato l'operatività al versante dei rapporti di cortesia, ha posto in luce l'autonomia della rielaborazione compiuta dalla letteratura civilistica italiana della teoria di origine tedesca che, sviluppando l'idea di un rapporto obbligatorio privo di prestazione ed intuendone le potenzialità, l'ha utilizzata per <<dare forma giuridica a rapporti altri da quello precontrattuale, ma con essi caratterizzati da uno scopo e, in relazione a questo, qualificati da un affidamento reciproco tra le parti, adottando tale modello in una serie di fattispecie nelle quali in particolare la qualificazione professionale di una delle parti rende plausibile il sorgere di un affidamento sul quale la buona fede, così come nella culpa in contrahendo, ha potuto essere analogamente accreditata del ruolo di fonte di obblighi di protezione la cui violazione ha inscritto la responsabilità nell'area contrattuale, nel momento in cui reciprocamene, i soggetti interessati non potevano considerarsi, proprio in ragione dello scoccato affidamento, alla stregua di passanti reciprocamente estranei>> [CASTRONOVO, 2015, 131, nota 100, 133 e ss.]

Vanno per completezza segnalati taluni sporadici disallineamenti contenuti in alcune pronunce di legittimità rispetto al consolidato orientamento secondo cui la responsabilità contrattuale da contatto è ravvisabile soltanto nel rapporto tra medico (operante nella struttura) e paziente. Invero, in un passaggio contenuto nelle cd. sentenze gemelle delle Sez. U, n. 26972/2008, n. 26973/2008, n. 26974/2008 e n. 26975/2008, Preden, Rv. 605494, dovuto probabilmente ad un mero lapsus calami - al fine di sostenere la tesi secondo cui anche gli interessi di natura non patrimoniale possono assumere rilevanza nell'ambito delle obbligazioni contrattuali - si prendeva ad esempio la categoria dei cd. contratti di protezione che <<sono quelli che si concludono nel settore sanitario>> e pur richiamando Sez. U, n. 00589/1999, Segreto, Rv.522538 e le successive pronunce conformi, si affermava che <<quanto alla struttura [tali pronunce] hanno applicato il principio della responsabilità da contatto sociale qualificato>>. Ancora più di recente Sez. 3, n. 04030/2013, Petti, non massimata, in un passo della motivazione ha affermato a proposito delle modifiche normative recate dal decreto legge Balduzzi che la novella ha innovato soltanto la responsabilità penale del medico, mentre quella civile <<segue le sue regole consolidate , e non solo per la responsabilità aquiliana del medico, ma anche per la c.d. responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale>>. Ma non pare che tali disallineamenti abbiano condizionato in alcun modo il consolidato orientamento di cui si è tentato di ricostruire in sintesi l'excursus.

3. Criteri di accertamento degli elementi costitutivi della responsabilità.

Ferma la natura contrattuale delle distinte responsabilità della struttura sanitaria e del medico nei confronti del paziente, l'analisi che segue, senza alcuna pretesa di completezza e al fine di percorrere un tracciato sicuro, non può che prendere le mosse dalla struttura della responsabilità civile, di cui la responsabilità sanitaria costituisce "sottosistema" - come affermato sin da Sez. 3, n. 09471/2004, Travaglino, Rv. 572947 - valendo per questa, gli elementi costitutivi di quella: ovvero la condotta, il danno ingiusto (cioè lesivo di un interesse giuridicamente protetto) e il nesso di causalità tra la prima ed il secondo.

Ci si propone quindi di limitare l'esame al primo e al terzo di tali elementi (condotta e nesso), analizzando i criteri utilizzati dalla giurisprudenza di legittimità per accertare, per un verso, il contenuto degli obblighi di diligenza e, per l'altro, i criteri di ricostruzione del nesso causale e di ripartizione dell'onere probatorio con riferimento al rapporto trilatero tra paziente, struttura sanitaria e medico operante in essa.

3.1. La misura dell'obbligo ovvero il criterio della diligenza qualificata.

Criterio di valutazione della condotta nella responsabilità sia della struttura sanitaria sia del medico, è quello della diligenza che, per la prestazione a contenuto professionale, come è quella in esame, deve "valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata" come recita l'art. 1176, comma 2, c.c.

In termini generali, è stato autorevolmente affermato in dottrina che <<la diligenza misura l'obbligo cui il soggetto è tenuto>> e che, con riferimento alla responsabilità in campo medico, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha da tempo assunto un orientamento assai rigoroso [BIANCA, 1990, 478] nell'esigere che il medico presti la sua attività con diligenza scrupolosa e superiore alla media. Tale analisi tova conferma sin da Sez. 3, n. 03616/1972, Minerbi, Rv. 361619, per giungere, da ultimo, a Sez. 3 , n. 24213/2015, Rossetti, Rv. 637836, secondo cui la nozione del professionista medio, lungi dal riferirsi ad un professionista <<mediocre>> sottende un professionista <<"bravo": ovvero serio, preparato, zelante, efficiente>>. Rilevante quest'ultima affermazione perché attinente proprio ad una fattispecie di responsabilità della struttura sanitaria in cui la Corte ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto responsabile l'azienda ospedaliera per lesioni derivate da un trapianto di cornee infette fornite dalla "banca degli occhi" gestita dalla stessa azienda.

Sul versante della responsabilità del medico, un cenno merita la regola di cui all'art. 2236 c.c. che limita la responsabilità del prestatore d'opera ai casi di dolo e colpa grave <<se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà>>. Correttamente in dottrina si è osservato al riguardo, per un verso, che sono pochi i casi in cui la giurisprudenza ha fatto riferimento a tale norma e, per l'altro, che la valutazione del carattere normale o eccezionale del problema offerto alla soluzione del professionista offre ampi spazi di manovra al prudente apprezzamento del giudice [DI MAJO, 1988, 437]. La giurisprudenza, dal suo canto, ha precisato che la distinzione fra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non vale come criterio di ripartizione dell'onere della prova, ma rileva soltanto ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, spettando, al sanitario la prova della particolare difficoltà della prestazione, in conformità con il principio di generale favor per il creditore danneggiato cui l'ordinamento è informato; così, Sez. 3, n. 22222/2014, Scarano, Rv. 633277 con cui è stata cassata la sentenza di merito che aveva respinto la domanda di risarcimento danni di una paziente per la lesione di una corda vocale conseguente ad un intervento di tiroidectomia, ritenendolo, da un lato, di non facile esecuzione ed omettendo, dall'altro, di valutare la condotta del medico specialista alla stregua del criterio di diligenza qualificata.

Il criterio della diligenza "qualificata" posto dall'art. 1176, comma 2, c.c., costituisce dunque regola generale di valutazione del comportamento del debitore e di apprezzamento dell'esattezza della prestazione dovuta ai fini di cui all'art. 1218 c.c.

È stato anche precisato che la diligenza esigibile dal medico nell'adempimento della sua prestazione professionale, pur essendo quella "qualificata" (nella massima si è preferita l'aggettivazione "rafforzata"), non è sempre la medesima, ma varia col variare del grado di specializzazione di cui sia in possesso il medico e del grado di efficienza della struttura in cui si trova ad operare. Da ciò consegue che da un medico di alta specializzazione ed inserito in una struttura di eccellenza è esigibile una diligenza più elevata di quella esigibile, dinanzi al medesimo caso clinico, da parte del medico con minore specializzazione od inserito in una struttura meno avanzata, in tal senso, v. Sez. 3, n. 17143/2012, Scarano, Rv. 623986.

Nello stesso segno, si è aggiunto altresì che al professionista e (a fortiori allo specialista) è richiesta una diligenza "particolarmente qualificata" dalla perizia e dall'impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletare e dallo standard professionale della categoria cui si appartiene e l'impegno dovuto dal professionista, se si profila superiore a quello del comune debitore, va considerato viceversa corrispondente alla diligenza normale in relazione alla specifica attività professionale o lavorativa esercitata, giacché il medesimo deve impiegare la perizia ed i mezzi tecnici adeguati allo standard professionale o lavorativa della sua categoria; tale standard valendo a determinare, in conformità alla regola generale, il contenuto della perizia dovuta e la corrispondente misura dello sforzo diligente adeguato per conseguirlo, nonché del relativo grado di responsabilità. Così, da ultimo, Sez. 3, n. 07682/2015, Scarano, Rv. 633277, secondo cui il contegno dell'aiuto primario che, in caso di assenza o impedimento del primario, ometta di eseguire un intervento chirurgico urgente viola gli obblighi su di esso gravanti, i quali includono non solo quello di attivarsi secondo le regole dell'arte medica, avuto riguardo al suo standard professionale di specialista, ma anche di salvaguardare, ai sensi dell'art. 1375 c.c., la vita del paziente. Sotto il profilo più generale dell'adempimento delle obbligazioni, particolarmente significativo il richiamo che la pronuncia fa agli obblighi di buona fede oggettiva o correttezza, quale generale principio di solidarietà sociale la cui violazione comporta l'insorgenza di responsabilità (anche extracontrattuale) concretantesi nel <<mantenere un comportamento leale, osservando obblighi di informazione e di avviso nonché di salvaguardia dell'utilità altrui - nei limiti dell'apprezzabile sacrificio - dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi>>. In proposito, cfr. in dottrina [BIANCA, 1990, 478] e v. in giurisprudenza Sez. U, n. 28056/2008, Morcavallo, Rv. 605685.

In ordine alla scelta di un trattamento terapeutico o di un metodo di intervento rischiosi, Sez. 3, n. 19213/2015, Scarano, Rv. 637015, ha ribadito un principio già affermato da Sez. 3, n. 08875/1998, Vittoria, Rv. 518666, secondo cui, qualora nel corso di un trattamento terapeutico o di un intervento, emerga una situazione la cui evoluzione può comportare rischi per la salute del paziente, il medico, che abbia a disposizione metodi idonei ad evitare il verificarsi della situazione pericolosa, è tenuto ad impiegarli, essendo suo dovere professionale applicare metodi che salvaguardino la salute del paziente, preferendoli a quelli che possano anche solo esporla a rischio, sicché, ove egli privilegi il trattamento più rischioso e la situazione pericolosa si determini, non riuscendo egli a superarla senza danno, la colpa si radica già nella scelta inizialmente compiuta.

Sul versante della responsabilità della struttura sanitaria, è stato precisato da Sez. 3, n. 21090/2015, De Stefano, Rv. 637449, che <<anche il pieno rispetto della normativa vigente>> in materia di dotazioni <<non esime affatto da responsabilità la struttura ospedaliera se, in relazione proprio a quelle condizioni di partenza pur non ottimali, le condotte degli operatori siano valutate comunque inadeguate>>. Spiega la Corte in proposito che la responsabilità di una struttura ospedaliera di emergenza per contratto cd. di spedalità deriva dall'obbligo di erogare la propria prestazione con massima diligenza e prudenza; essa comprende, oltre all'osservanza delle normative di ogni rango in tema di dotazione e struttura delle organizzazioni di emergenza, la tenuta in concreto, per il tramite dei suoi operatori, di condotte adeguate alle condizioni disperate del paziente, anche in rapporto alle precarie o limitate disponibilità di mezzi o risorse, pur conformi alle dotazioni o alle istruzioni previste dalla normativa vigente, adottando di volta in volta le determinazioni piu' idonee a scongiurare l'esito infausto.

In tema di onere della prova della diligenza, Sez. 3, n. 13328/2015, Rossetti, Rv. 636015, ha affermato come al medico convenuto in un giudizio di responsabilità - per superare la presunzione a suo carico posta dall'art. 1218 c.c. - non basti dimostrare che l'evento dannoso per il paziente costituisca una <<complicanza>>, rilevabile nella statistica sanitaria, dovendosi ritenere tale nozione priva di rilievo sul piano giuridico e soltanto indicativa <<nel lessico medico>> di un evento, insorto nel corso dell'iter terapeutico, astrattamente prevedibile, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare gli estremi della causa non imputabile.

Sul dovere del medico di informare il paziente in ordine al trattamento sanitario, la Corte di cassazione ha già precisato che esso costituisce prestazione altra e diversa da quella dell'intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell'eventuale responsabilità risarcitoria in caso di mancata prestazione da parte del paziente, Sez. 3, n. 11950/2013, Carleo, Rv. 626347. In tale solco, è stato ulteriormente precisato che il diritto all'autodeterminazione è diverso dal diritto alla salute, sebbene entrambi trovino fondamento nell'art. 32 Cost.; difatti, il primo attiene al diritto fondamentale della persona di esprimere mediante il consenso informato consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico e il secondo, ha riguardo alla tutela del diverso diritto fondamentale alla salute. Pertanto, l'autonoma rilevanza della condotta di adempimento della prestazione medica dà luogo ad un danno suscettibile di ulteriore e autonomo risarcimento rispetto a quello dovuto per la violazione dell'obbligo di informazione, in tal senso Sez. 3, n. 02854/2015, Scarano, Rv. 634415. Sul tema, ulteriore interessante precisazione è quella formulata da Sez. 3, n. 24220/2015, Barreca, Rv. 638097, che torna ad esaminare la delicata questione della violazione degli obblighi di informazione da parte del medico in tema di scelte diagnostiche e cassa la decisione di merito che aveva omesso di valutare la lesione del diritto di autodeterminazione della gestante la quale, a seguito del referto negativo del bi - test , che pure non escludeva con certezza la esistenza di una patologia genetica, non era stata informata in modo completo della possibilità di ricorrere ad altro esame (amniocentesi) dagli esiti più certi.

Per ultimo, va pure segnalato che da Sez. 3, n. 03569/2015, Sestini, è stata rimessa all'esame delle Sezioni Unite la soluzione di un contrasto di giurisprudenza insorto sul tema del danno da nascita indesiderata per omessa diagnosi prenatale (ricorrente quando, a causa del mancato rilievo dell'esistenza di malformazioni congenite del feto, la gestante perda la possibilità di interrompere la gravidanza), contrasto che si incentra su due questioni: quella relativa ai criteri di ripartizione dell'onere probatorio e quella concernente la legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria in ordine alla diritto all'autodeterminazione. Le Sez. U, n. 25767/2015, Bernabai, Rv. 637625, Rv. 637626, a risoluzione del contrasto hanno affermato, quanto alla prima questione, che la madre è onerata dalla prova controfattuale della volontà abortiva, ma può assolvere l'onere mediante presunzioni semplici; quanto alla seconda, che il nato con disabilità non è legittimato ad agire per il danno da <<vita ingiusta>>, poiché l'ordinamento ignora il <<diritto a non nascere se non sano>>.

3.2. La regola "del più probabile che non" nell'accertamento del nesso causale.

Il nesso di causalità è quello tra gli elementi costitutivi della responsabilità a porre le più difficili questioni in termini ermeneutici e costituisce un tema "classico" sul quale sia la dottrina sia la giurisprudenza si sono misurate e che in ragione delle difficoltà di ricostruzione teorica è stato definito <<nozione oscura>> [BIANCA, 1991, 194 e ss.].

Il nesso è la relazione che pone in collegamento la condotta con il danno e che identifica l'uno come conseguenza dell'altra.

La letteratura giuridica in argomento è sterminata [per una ricostruzione completa delle teorie sul nesso di causalità, v. BIANCA, 2012, 142 e ss.] e le soluzioni proposte dalla giurisprudenza evidenziano che la questione non è ancora compiutamente risolta e sconta - quali fattori di criticità - la disomogeneità tra gli orientamenti adottati in ambito sia penalistico sia civilistico e la complessità di materie assai delicate, come l'infortunistica o la responsabilità professionale, le cui peculiarità specifiche hanno posto in discussione la tenuta di una ricostruzione sistematica unitaria.

Al fine di sottolinearne le difficoltà ermeneutiche di inquadramento sistematico, Sez. 3, n. 21619/2007, Travaglino, Rv. 599816, ha efficacemente rilevato che <<l'indagine sull'aspetto genetico dell'istituto del nesso causale conduce ad una prima, significativa rilevazione ermeneutica, quella per cui nulla di realmente definito parrebbe emergere dalle fonti legislative, penali e civili, sul tema della causalità in sè considerata>>. Difatti, il nesso causale riceve una scarna descrizione normativa nell'assetto codicistico; l'art. 40 c.p., rubricato <<rapporto di causalità>>, stabilisce che <<nessuno può essere punito (...) se l'evento da cui dipende l'esistenza del reato non è conseguenza della sua azione od omissione>>; il successivo art. 41 c.p. si occupa del concorso di cause, per stabilire, il principio <<dell'interruzione del nesso causale>> conseguente all'intervento di quella causa <<sufficiente da sola a determinare l'evento>>; gli artt. 1227 e 2043 c.c. strutturano, rispettivamente, il rapporto tra fatto - doloso o colposo - ed evento - dannoso - attraverso l'utilizzo del verbo <<cagionare>>.

In tema di responsabilità civile, risponde ormai a principio consolidato quanto affermato dalle Sez. U, n. 00576/2008, Segreto, R. 600899 - v. anche Sez. U pen., n. 30328 del 2002, Canzio, Rv. 222138 - che, tenuto conto della diversità del regime probatorio applicabile in relazione ai valori sottesi ai distinti ambiti civile e penale, hanno ritenuto come nell'accertamento del nesso causale la regola probatoria applicabile nel giudizio penale sia quella della prova "oltre ogni ragionevole dubbio" e quella applicabile nel giudizio civile sia la regola della preponderenza dell'evidenza o "del più probabile che non".

Secondo le Sezioni Unite, quindi, i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati agli artt. 40 e 41 c.p., secondo cui un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (criterio della cd. causalità naturale o condicio sine qua non), dando necessario rilievo, all'interno della serie causale, solo a quegli eventi che non appaiano -alla stregua di una valutazione ex ante- del tutto inverosimili (criterio della cd. causalità adeguata) v. più di recente, Sez. 3, n. 16123/2010, Spirito, Rv. 613967.

Sulla base di tali principi, la regola "del più probabile che non" costituisce uno standard di "certezza probabilistica" in materia civile che <<non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni)>>. Applicata detta regola alla fattispecie allora esaminata, le Sezioni Unite hanno affermato la responsabilità del Ministero della sanità - su cui grava un obbligo di controllo e di vigilanza in materia di raccolta e distribuzione di sangue umano per uso terapeutico - per aver omesso controllo e vigilanza, tenuto conto delle cognizioni scientifiche esistenti all'epoca di produzione del preparato ed accertata l'esistenza di una patologia da virus HIV, HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, così da far ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione fosse stata causa dell'insorgenza della malattia e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento.

Emblematiche, tra l'altro, due precisazioni contenute nella stessa pronuncia; la prima è quella secondo cui <<l'applicazione dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p. temperati dalla regolarità causale, ai fini della ricostruzione del nesso eziologico, va adeguata alla peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile>>. L'aver utilizzato il verbo "adeguare" al fine di attenuare i principi generali di diritto penale alla stregua del principio di regolarità causale, pone in evidenza l'intento pragmatico di valorizzare le peculiarità strutturali delle fattispecie civilistiche cui l'operazione di ricostruzione del nesso causale si riferisce. La seconda precisazione è quella formulata a proposito della differenza tra nesso eziologico e criterio di imputazione stante che <<il criterio di imputazione serve ad indicare quale è la sequenza causale da esaminare e può anche costituire supporto argomentativo ed orientativo nell'applicazione delle regole proprie del nesso eziologico ma non vale a costituire autonomo principio della causalità>>. L'aver affermato ciò implica aver sgombrato il campo del nesso causale da elementi che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilità e l'ingiustizia del danno.

La regola "del più probabile che non" ha suscitato critiche da parte della dottrina che, tra l'altro, ha osservato: "ritenere che il giudice civile possa accontentarsi di una "minore" certezza probatoria appare in netto contrasto, col principio che richiede comunque l'accertamento del fatto per il quale il soggetto è condannato>> [BIANCA, 2011, 133] e ancora, nello stesso senso, che <<se la fattispecie sostanziale si incardina su un nesso causale, esso non è adeguatamente descritto da un enunciato che esprime una correlazione probabilistica>> [TARUFFO, 2006, 106].

A proposito delle cautele nell'utilizzo della regola probabilistica, era già stato evidenziato da Sez. 3, n. 21619/2007, Travaglino, Rv. che <<in una diversa dimensione di analisi sovrastrutturale del (medesimo) fatto, la causalità civile "ordinaria", attestata sul versante della probabilità relativa (o "variabile"), caratterizzata, specie in ipotesi di reato commissivo, dall'accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale, secondo modalità semantiche che, specie in sede di perizia medico-legale, possono assumere molteplici forme espressive ("serie ed apprezzabili possibilità", "ragionevole probabilità" ecc.), senza che questo debba, peraltro, vincolare il giudice ad una formula peritale, senza che egli perda la sua funzione di operare una selezione di scelte giuridicamente opportune in un dato momento storico: senza trasformare il processo civile (e la verifica processuale in ordine all'esistenza del nesso di causa) in una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico: la causalità civile, in definitiva, obbedisce alla logica del "più probabile che non">>.

La giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente precisato che l'adozione del criterio della probabilità relativa (o del "più probabile che non") si delinea invero in una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, sicché la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza limitarsi ad un meccanico e semplicistico ricorso alla regola del 51% ma facendosi luogo ad una compiuta valutazione dell'evidenza del probabile, in tali termini v. Sez. 3, n. 15991/2011, Travaglino, Rv. 618880. In tale ipotesi concernente danni da trasfusione di sangue infetto, veniva sottolineato che: <<se le possibili concause appaiono plurime e quantificabili in misura di dieci, ciascuna con un'incidenza probabilistica pari al 3%, mentre la trasfusione attinge al grado di probabilità pari al 40%, non per questo la domanda risarcitoria sarà per ciò solo rigettata -o geneticamente trasmutata in risarcimento da chance perduta-, dovendo viceversa il giudice, secondo il suo prudente apprezzamento che trova la sua fonte nella disposizione di legge di cui all'art. 116 c.p.c., valutare la complessiva evidenza probatoria del caso concreto e addivenire, all'esito di tale giudizio comparativo, alla più corretta delle soluzioni possibili>>.

Da ultimo, la regola probabilistica è stata ribadita da Sez. 3, n. 03390/2015, Vincenti, Rv. 634481 che, ha affermato come l'accertamento del nesso causale in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, implica una valutazione della idoneità della condotta del sanitario a cagionare il danno lamentato dal paziente che deve essere correlata alle condizioni del medesimo, nella loro irripetibile singolarità. Nella fattispecie esaminata, la Corte ha ritenuto immune da vizi logici la decisione con cui il giudice di merito aveva affermato la responsabilità di una struttura sanitaria, in relazione alla paralisi degli arti inferiori subita da un paziente sottoposto ad un intervento di trombectomia, per essere stato omesso un trattamento preventivo a base di eparina, sebbene lo stesso non fosse previsto da alcun protocollo, ma solo raccomandato in via precauzionale nella letteratura scientifica perché in astratto idoneo a prevenire tale complicanza, attesa l'oggettiva gravità del rischio, sul piano causale, a carico del paziente per le sue particolari condizioni personali, trattandosi di soggetto fumatore, affetto da diabete e, verosimilmente, da vascolopatia.

Va richiamato infine quanto sostenuto da autorevole dottrina con riguardo al principio del rischio specifico. Secondo tale tesi, la norma che sancisce la responsabilità di chi <<cagiona>> il danno, va interpretata nel senso che il nesso di causa sussiste <<tra fatto e danno quando il danno è la realizzazione di un rischio specifico creato da quel fatto>>. Viene sottolineato inoltre che il criterio del rischio specifico non esclude ma integra quello della regolarità causale e che <<il nesso è accertato se il danno è la normale conseguenza di un fatto. Se il danno non è la normale conseguenza del fatto, il nesso causale susssiste se il danno realizza il rischio specifico creato da quel fatto>> [BIANCA, 2012, 146].

L'eco di tale tesi si può percepire in alcune decisioni in tema di responsabilità civile della struttura sanitaria per attività pericolosa da emotrasfusioni, che hanno ritenuto come <<non possa sostenersi che il nesso causale sia risultato provato sulla base della sola prova della causalità generale, in quanto è provata anche la causalità specifica sulla base della prova presuntiva>> e hanno affermato che la prova del nesso causale, che grava sull'attore danneggiato, tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV, ove risulti provata l'idoneità di tale condotta a provocarla, può essere fornita anche con il ricorso alle presunzioni (art. 2729 c.c.), allorché la prova non possa essere data per non avere la struttura sanitaria predisposto, o in ogni caso prodotto, la documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso al singolo paziente, e cioè per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, così, Sez. U, n. 00582/2008, Segreto, Rv. 600915 e, più di recente, Sez. 3, n. 19213/2015, Scarano, Rv. 637015.

3.3. I criteri di ripartizione dell'onere probatorio in tema di nesso causale.

Complesso è il meccanismo di ripartizione dell'onere della prova del nesso causale tra la condotta ed il danno.

Come da tempo chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di responsabilità medica, il problema della prova del nesso causale, anzitutto, va depurato dai riflessi che in esso proietta la tradizionale distinzione tra obbligazioni di risultato e di mezzi. Secondo tale superata impostazione, si riteneva che, nelle obbligazioni di mezzi essendo aleatorio il risultato, incombesse sul creditore l'onere di provare che il mancato risultato fosse dipeso da scarsa diligenza e che, nelle obbligazioni di risultato, invece, incombesse sul debitore l'onere di provare che il mancato risultato fosse dipeso da causa a lui non imputabile.

Secondo le Sezioni Unite, il meccanismo di ripartizione dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2967 c.c. in materia di responsabilità contrattuale <<è identico sia che il creditore agisca per l'adempimento della obbligazione, ex art. 1453 c.c., sia che domandi il risarcimento per l'inadempimento contrattuale, ex art. 1218 c.c., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato>>. Da ciò consegue, che nell'ipotesi in cui la lesione sia avvenuta all'interno di una struttura sanitaria (la fattispecie riguardava il danno da contagio per epatite derivante da emotrasusione con sangue infetto), per un verso, il danneggiato deve provare il contratto relativo alla prestazione sanitaria ed il danno assunto (allegando che i convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto), per l'altro, la struttura sanitaria e il medico in essa operante, debbono entrambi fornire la prova <<che tale inadempimento non vi era stato, poiché non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l'inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell'azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell'affezione patologica già in atto al momento del ricovero>>, così, Sez. U, n. 00577/2008, Segreto, Rv. 600903.

In altri termini, una volta che il paziente abbia provato l'esistenza del rapporto contrattuale e l'insorgenza della patologia e abbia allegato l'inadempimento del medico o della struttura sanitaria, astrattamente idonei a provocare il danno lamentato, rimane comunque a carico di questi ultimi l'onere di dimostrare che non vi sia stato inadempimento o che esso non sia stato rilevante dal punto di vista causale.

Regole e principi, già affermati in tema di riparto degli oneri probatori, sono stati riaffermati in modo esemplare da due recenti pronunce.

Sul versante dell'onere probatorio del nesso causale dovuto dal paziente, efficacemente, Sez. 3 n. 20904/2013, Frasca, Rv. 628993, ha precisato che l'onere probatorio gravante sul danneggiato/paziente si sostanzia nella prova che l'esecuzione della prestazione si è inserita nella serie causale che ha condotto all'evento di danno, rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui era stata richiesta la prestazione, o dal suo aggravamento, fino ad esiti finali costituiti dall'insorgenza di una nuova patologia o dal decesso del paziente.

Sul versante dell'onere probatorio del nesso gravante sulla struttura e sul sanitario, è stato inoltre, nitidamente, osservato che in ogni caso di "insuccesso" incombe al medico o alla struttura provare che il risultato "anomalo" o "anormale" - rispetto al convenuto esito dell'intervento o della cura, e quindi dello scostamento da una legge di regolarità causale fondata sull'esperienza - dipende da fatto a sè non imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità alla diligenza dovuta, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto, bensì ad evento imprevedibile e non superabile con l'adeguata diligenza, rimanendo in caso contrario soccombente, in applicazione della regola generale ex artt. 1218 e 2697 c.c. In proposito, viene evidenziato che la regola di ripartizione dell'onere probatorio del nesso causale gravante sul debitore (sanitario o struttura), applicata in via costante dalla giurisprudenza di legittimità, si fonda sul principio cd. di "vicinanza della prova" o "riferibilità" <<o ancor più propriamente (come sottolineato anche in dottrina), sul criterio della maggiore possibilità per il debitore onerato di fornire la prova, in quanto rientrante nella sua sfera di dominio, in misura tanto più marcata quanto più l'esecuzione della prestazione consista nell'applicazione di regole tecniche sconosciute al creditore, essendo estranee alla comune esperienza, e viceversa proprie del bagaglio del debitore come nel caso specializzato nell'esecuzione di una professione protetta>>, così motiva, Sez. 3, n. 08989/2015, Scarano, Rv. 635339.

La casistica dell'anno 2015 conferma i principi già più volte affermati in materia: ad esempio, l'incompletezza della cartella clinica costituisce circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l'esistenza di un valido legame causale tra l'operato del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l'accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare la lesione Sez. 3, n. 12218/2015, Rossetti, Rv. 635623.

In tema di accertamento dell'efficienza concausale di un fattore naturale, Sez. 3, n. 08995/2015, Cirillo, Rv. 635338, ha ritenuto che, una volta accertato il nesso causale tra l'inadempimento e il danno lamentato, l'incertezza circa l'eventuale efficacia concausale di un fattore naturale non rende ammissibile, sul piano giuridico, l'operatività di un ragionamento probatorio "semplificato" che conduca ad un frazionamento della responsabilità, con conseguente ridimensionamento del quantum risarcitorio secondo criteri equitativi. In applicazione di tale principio, la Corte ha confermato la decisione con cui il giudice di merito, in relazione al danno celebrale patito da un neonato, aveva posto l'obbligo risarcitorio interamente a carico della struttura sanitaria in cui egli era stato ricoverato immediatamente dopo il parto - avvenuto in altra struttura - e presso la quale aveva contratto un'infezione polmonare, e ciò sebbene le risultanze della consulenza tecnica d'ufficio non avessero escluso la possibilità che un contributo concausale al pregiudizio lamentato fosse derivato da una patologia sviluppata in occasione della nascita.

4. La responsabilità medico-chirurgica come "Nave... in gran tempesta" verso un nuovo orizzonte normativo.

Si preannunciano all'orizzonte modifiche normative di rilevante impatto nel campo della responsabilità medica.

Va segnalato, sul versante governativo, che il Ministro della salute - con decreto del 26 marzo 2015 - ha istituito una Commissione Consultiva "per le problematiche in materia di medicina difensiva e di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie" che, al termine dei lavori (30 luglio 2015), ha proposto di distinguere la responsabilità del medico dipendente di una struttura sanitaria da quella del medico libero professionista; per il primo, viene prevista una responsabilità professionale di natura extracontrattuale, mentre per il secondo una responsabilità di natura contrattuale, con conseguenti mutamenti -per l'una e per l'altra- dei rispettivi regimi della prescrizione, dell'onere della prova e dell'azione di rivalsa da parte della struttura sul medico dipendente. La Commissione ha proposto altresì l'introduzione di sistemi assicurativi obbligatori per le strutture ospedaliere pubbliche, per quelle private e per gli operatori sanitari, modifiche in tema di responsabilità penale del medico e, sul versante processuale, l'introduzione di un accertamento tecnico preventivo e di una conciliazione preventiva obbligatori nei giudizi di risarcimento del danno derivante da malpractice.

Sul versante parlamentare, la Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati ha, da ultimo (19 novembre 2015), approvato il testo unificato delle proposte di legge sulla responsabilità professionale del personale sanitario (A.C. 259), recependo, tra l'altro, alcuni degli indirizzi sollecitati dalla Commissione consultiva istituita presso il Ministero della salute.

Limitando l'esame del testo unificato ai punti essenziali e di stretto interesse ai fini della presente analisi, va rilevato che l'art.7, rubricato "Responsabilità per inadempimento della prestazione sanitaria della struttura e dell'esercente la professione sanitaria", prevede che la struttura sanitaria, pubblica o privata, la quale nell'adempimento della propria obbligazione si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorchè non dipendenti della struttura stessa, risponde ex artt. 1218 e 1228 c.c. delle loro condotte dolose e colpose (comma 1). La proposta di legge estende tale previsione alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria nonché attraverso la telemedicina (comma 2); prevede che l'esercente la professione sanitaria nello svolgimento della propria attività si attiene -fatte salve le specificità del caso concreto- alle buone pratiche clinico assistenziali e alle raccomandazioni previste dalle linee guida (comma 3), rispondendo del proprio operato ex art. 2043 c.c. (comma 4).

La scelta operata è chiara: far gravare la responsabilità contrattuale in capo alla struttura nella quale opera "l'esercente la professione sanitaria", nei cui confronti è prevista l'azione di rivalsa soltanto in caso di "dolo o colpa grave" (art. 9). Viene imposto l'obbligo di copertura assicurativa a tutte le strutture sanitarie per danni cagionati dal personale a qualsiasi titolo operante presso le medesime (art. 10). Viene infine prevista l'azione diretta del danneggiato nei confronti della impresa di assicurazione della struttura sanitaria (art. 11).

Le formulate proposte vengono da più parti ritenute ormai ineluttabili al fine di scongiurare i rischi connessi agli effetti distorsivi dell'eccesso di responsabilità in campo medico che, alimentando la medicina cd. difensiva, proiettano riflessi negativi sia sulle finanze dello Stato in termini di costi economici sia in termini di cure inappropriate nei confronti dei pazienti. Secondo tale impostazione, l'introduzione di un regime a doppio binario (responsabilità contrattuale dell'ente e extracontrattuale del medico) non indebolirebbe la tutela dei diritti del paziente, ma consentirebbe di ricondurre tutte le ipotesi non riconducibili né al fatto illecito del medico né all'inadempimento della struttura, alla responsabilità di quest'ultima sulla base del collegamento causale tra danno e organizzazione dell'attività sanitaria [DE MATTEIS, 2015, 566]. Di contro, può osservarsi che un ritorno ad un regime duplice di responsabilità, modello già sperimentato dalla giurisprudenza degli anni 70 del secolo scorso, ritenuto insufficiente e ormai superato dalla consolidata giurisprudenza, potrebbe depotenziare la tutela in giudizio dei diritti del paziente, con un notevole aggravamento degli oneri probatori da questi dovuti.

. BIBLIOGRAFIA

Bianca, Il contratto, Diritto civile, 3 vol., Milano, 1990; biAncA, Il nesso causale: una nozione oscura in cerca di chiarezze, in Leçons du droit civil: mélanges en l'honneur de François Chabas, Bruxelles, 2011, p. 133 ss.,

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  • indennizzo
  • danno
  • trasfusione di sangue
  • errore medico

CAPITOLO XI

IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE

(di Donatella Salari )

Sommario

1 Inquadramento. - 2 Le modifiche di cui alla l. n. 238 del 1997. - 2.1 Le infezioni contratte e conosciute ante l. n. 238 del 1997 e l'estensione del termine decadenziale alle patologie non espressamente soggette al termine di decadenza. - 3 La conoscenza dell'evento dannoso. - 4 Il contrasto di giurisprudenza. - 4.1 La composizione del contrasto da parte delle Sezioni Unite. - 5 Indennizzo e risarcimento. - 6 Decorrenza del termine di decadenza. - BIBLIOGRAFIA

1. Inquadramento.

L'emostrasfusione può considerasi pratica terapeutica la cui tecnica risulta affinata all'inizio del secolo scorso sebbene la letteratura medica ne faccia cenno fin dai tempi più remoti, come antico è il rischio di contagio, soprattutto con la scoperta di virus letali come quello dell'AIDS e delle epatopatie di tipo A, B e C.

È evidente, dunque, la necessità per lo Stato di dotarsi di strumenti di emosicurezza e d'intervenire nel caso d'infezioni contratte per effetto di trasfusioni di sangue e di emoderivati allorchè si sia prodotto l'evento lesivo di menomazione dell'integrità fisica conseguente al contagio.

Gli strumenti a disposizione del cittadino sono, allo stato, due: l'uno si concretizza nell'esercizio dell'azione aquiliana ex art. 2043 c.c., l'altro è quello di tipo assistenziale - previdenziale che prevede un indennizzo a carico dello Stato nel caso di lesione irreversibile del danneggiato contratta in conseguenza di vaccinazione, epatite post- trasfusionale e contagio da HIV, secondo una certa evoluzione legislativa di cui si darà conto nel corso della trattazione.

Sotto il primo profilo va evidenziato che la natura aquiliana della responsabilità del Ministero della Sanità (ora della Salute) è stata letta dalla giurisprudenza di legittimità in relazione ai compiti istituzionali di controllo della pratica sanitaria di emotrasfusione e di distribuzione e commercializzazione di sangue ed emoderivati che nei vari arresti giurisprudenziale è stata ricostruita - sia pure con una serie di correttivi - come omessa vigilanza in virtù di un complesso normativo di disciplina dell'emo sicurezza che rimonta agli anni sessanta del secolo scorso, in uno con le conoscenze scientifiche disponibili al momento del contagio: Sez. 3, n. 10291/2015, Carluccio, Rv. 636454, nonchè, Sez. 3, n. 26152/2014, Scarano, Rv. 633717, per mancato esercizio di <<attività di controllo e di vigilanza in ordine alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell'uso degli emoderivati>> anche in relazione ad eventi infettivi precedenti alla scoperta ufficiale del virus scatenante la lesione epatica - nel caso specifico epatite di tipo B - considerata l'unicità della lesione infettiva secondo l'insegnamento di Sez. U,. n. 00576/2008, Segreto, Rv. 600902: <<Ritengono, invece, queste S.U. (in conformità a quanto ritenuto da una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina) che non sussistono tre eventi lesivi, come se si trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma di un unico evento lesivo, cioè la lesione dell'integrità fisica (essenzialmente del fegato), per cui unico è il nesso causale: trasfusione con sangue infetto - contagio infettivo - lesione dell'integrità>>.

Nondimeno, la stessa decisione esclude che il profilo aquiliano sia riconducibile al parametro di cui all'art. 2050 c.c.: <<Pur essendo indubbio il connotato della pericolosità insito nella pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell'uso degli emoderivati, ciò non si traduce nella pericolosità anche della correlata attività di controllo e di vigilanza cui è tenuto il Ministero della salute; ne consegue che la responsabilità di quest'ultimo per i danni conseguenti ad infezione da HIV e da epatite, contratte da soggetti emotrasfusi per omessa vigilanza da parte dell'Amministrazione sulla sostanza ematica e sugli emoderivati, è inquadrabile nella violazione della clausola generale di cui all'art. 2043 cod. civ. e non in quella di cui all'art. 2050 cod. civ.>>.

Per quanto riguarda, invece, il profilo indennitario conseguente all'infezione e posto a carico dello Stato come prestazione assistenziale, va evidenziato che con la l. 25 febbraio 1992, n. 210 è stato riconosciuto l'indennizzo a favore di coloro che lamentavano conseguenze con esiti morbosi irreversibili a causa di vaccinazioni obbligatorie e trasfusioni con infezione HIV.

L'art. 1 comma 2 della citata legge così disponeva: <<L'indennizzo di cui al comma 1 spetta anche ai soggetti che risultino contagiati da infezioni da HIV a seguito di somministrazione di sangue e suoi derivati, nonché agli operatori sanitari che, in occasione e durante il servizio, abbiano riportato danni permanenti alla integrità psico-fisica conseguenti a infezione contratta a seguito di contatto con sangue e suoi derivati provenienti da soggetti affetti da infezione da HIV>>; ed, inoltre, al comma 3 dello stesso articolo il beneficio risulta esteso anche a << coloro che presentino danni irreversibili da epatiti post-trasfusionali >>).

L'art. 3, comma 1 della citata legge prevedeva, inoltre che: <<I soggetti interessati ad ottenere l'indennizzo di cui all'art. 1, comma 1, presentano domanda al Ministro della sanità entro il termine perentorio di tre anni nel caso di vaccinazioni o di dieci anni nei casi di infezioni da HIV>>.

Al comma 2 stesso articolo si prevedeva inoltre: <<I termini decorrono dal momento in cui, sulla base della documentazione di cui ai commi 2 e 3, l'avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno>>.

In sostanza, la legge citata prevedeva un termine decadenziale rispetto alla domanda d'indennizzo di tre anni nel caso di vaccinazioni, ovvero di dieci nel caso di infezioni da HIV, nulla disponendo quanto al termine di decadenza per le ipotesi di epatiti posttrasfusionali.

Il termine a quo, dunque, veniva fatto coincidere dalla l. n. 210 del 1992, , cit. con la conoscenza, desumibile sulla base della documentazione medica di cui ai commi 2 e 3 dello stesso art. 3, ed inoltre, si riteva applicabile il termine di prescrizione decennale anche per quei casi di danno epatico verificatisi ante 1992, con estensione analogica interpretativa.

Ne conseguiva che alcun termine di decadenza fosse previsto per il caso di epatiti posttrasfusionali dalla legge appena citata.

2. Le modifiche di cui alla l. n. 238 del 1997.

Sul punto è indipensabile dare preventivamente conto dell'evoluzione normativa in punto di danno da emotrasfusioni e della evoluzione giuirsprudenziali.

Il legislatore, infatti, interveniva ancora sulla materia con la legge 25 luglio 1997, n. 238 - introducendo anche per le epatiti post trasfusionali - il termine decadenziale di tre anni per effetto della modifica del comma 1 dell'articolo 3 della legge 25 febbraio 1992, n. 210, nei seguenti termini: <<1. I soggetti interessati ad ottenere l'indennizzo di cui all'articolo 1, comma 1, presentano alla USL competente le relative domande, indirizzate al Ministro della sanita', entro il termine perentorio di tre anni nel caso di vaccinazioni o di epatiti post -trasfusionali o di dieci anni nei casi di infezioni da HIV. I termini decorrono dal momento in cui, sulla base delle documentazioni di cui ai commi 2 e 3, l'avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno>>.

In sostanza, veniva previsto un termine anche per le infezioni epatiche post-trasfusionali introducendo una modifica normativa consistente in un termine di decadenza prima non previsto, lasciando aperto il problema dell'applicabilità della nuova disciplina rispetto a situazioni soggettive già in essere.

2.1. Le infezioni contratte e conosciute ante l. n. 238 del 1997 e l'estensione del termine decadenziale alle patologie non espressamente soggette al termine di decadenza.

Quid iuris, allora, ove la malattia fosse stata accertata ante 28 luglio 1997 - data di entrata in vigore della legge 25 luglio 1997, n. 238 -, ossia, come si concilia detto nuovo termine nel caso di epatiti post-trasfusionali riconosciute ante 1997, riguardo alle quali, come detto prima, nulla disponeva la normativa del 1992, quanto al termine di decadenza e che, pertanto, potevano ragionevolmente considerarsi prescrivibili nell'ordinario termine decennale, con decorrenza dalla conoscenza dell'esito patologico della pratica trasfusionale?

Invero, va dato conto che sul punto si era formata una giurisprudenza di legittimità orientata a ritenere che la normativa del 1997 trovasse applicazione solo nel caso in cui la conoscenza dell'avvenuta infezione fosse successiva all'entrata in vigore della legge 25 luglio 1997, n. 238, con la conseguenza che, nel caso in cui essa fosse anteriore all'anno 1997, trovasse, invece, applicazione l'ordinario termine di prescrizione decennale, Sez. L, n. 10215/2014, Arienzo, Rv 630791, argomentando dal disposto dell'art. 11 preleggi e della irretroattività del nuovo termine di decadenza allorchè conoscenza del danno e della sua genesi eziologica non fosssero tali da consentire la decorrenza dell'esercizio del diritto nell'arco temporale di operatività della legge n. 238 del 1997; Sez. L. n. 19811/2013, Blasutto.

Peraltro, la giurisprudenza di legittimità aveva pure escluso, stante il carattere eccezionale delle norme sulla decadenza e del conseguente divieto di analogia ex art. 14 preleggi, che potesse applicarsi il termine stabilito per fattispecie di danno (epatite post-trasfusionale) diverse da quelle espressamente previste dall''art. 3, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210.

Infatti, si affermava che il termine introdotto dalla legge del 25 luglio 1997, n. 238 dovesse essere considerato come eccezionale e, pertanto, non estensibile con interpretazione analogica ad ipotesi diverse e senza efficacia retroattiva per quei fatti che fossero antecedenti alla sua sua entrata in vigore, Sez. L, n. 06923/2010, Lamorgese, richiamata da Sez. L, n. 16790/2011, Filabozzi, con la conseguenza che l'unico limite temporale applicabile era quello della prescrizione decennale, Sez. L, n. 08781/2004, Vigolo, Rv. 572745.

Secondo Sez. L, n. 10215/2014, Arienzo, Rv. 630791, corollario di questa conclusione è l'invocato principio d'irretroattività della legge stabilito dall'art. 11 preleggi, con la conseguenza che, se il fatto dal quale scaturiscono gli esiti decadenziali legati al trascorrere del tempo si pone in rapporto d'anteriorità con l'entrata in vigore della nuova legge, la decadenza triennale non spiega effetto e recede davanti al termine decennale di prescrizione: <<In relazione alle domande di indennizzo per danni post-trasfusionali, si applica il termine triennale di decadenza introdotto dall'art. 1, comma 9, della legge 25 luglio 1997, n. 238, se la conoscenza del danno è sorta successivamente all'entrata in vigore della nuova normativa, mentre, ove tale conoscenza sia anteriore, il diritto è soggetto all'ordinario termine di prescrizione decennale ancorché questo non sia ancora interamente decorso alla data di entrata in vigore della legge, senza che assuma rilievo che l'eventuale periodo residuo abbia una durata maggiore o minore rispetto al nuovo termine decadenziale. >>

Come noto, il principio d'irretroattività della legge stabilito dall'art. 11 preleggi, risulta privo di copertura costituzionale e, pertanto, appare derogabile dalla discrezionalità del legislatore ordinario il quale può retroattivamente estendere l'efficacia di una legge anche al periodo antecedente alla sua vigenza.

Ne è prova la retrodatazione degli effetti della legge penale più favorevole al reo (art. 2 c.p.), come pure le leggi d'interpretazione autentica.

Radicalmente opposto era l'avviso di quella giurisprudenza prevalente che identificava il dies a quo della decadenza con l'entrata in vigore della nuova legge, ossia il 28 luglio 1997 sul presupposto che, secondo i principi generali, ove nell'ordinamento sia introdotto, ex novo, un termine di decadenza esso attinga anche i diritti sorti anteriormente, ma con decorrenza dall'entrata in vigore della nuova normativa, così, Sez. L, n. 10215/2014, Arienzo, Rv. 630791, cit.; Sez. L, n. 04051/2014, Maisano, Rv 629787; Sez. 6-L, n. 07392/2014, Marotta, Rv. 630276, Sez. L, n. 17131/2013, Bandini, Rv. 627208; Sez. L, n. 01635/2012, Maisano, Rv. 621107; Sez. L, n. 09647/2012, Toffoli, Rv. 622798; Sez. 6-L, n. 07304/2011, Toffoli, Rv. 616435; Sez. 1, n. 06705/2010, Zanichelli, Rv. 612481; Sez. L, n. 25746/2009, Curzio, Rv. 611499; Sez. U, n. 06173/2008, Miani Canevari, Rv. 602255.

3. La conoscenza dell'evento dannoso.

Occorre, perciò, interrogarsi circa il momento in cui il diritto all'indennità può ritenersi sorto, ossia occorre che il soggetto interessato conosca l'esito morboso e la sua eziologia onde esercitare il diritto all'indennità.

Infatti, il termine triennale non può decorrere che dal momento in cui il soggetto risulti avere avuto contezza del contagio e della sua riconducibilità alla trasfusione.

Ne deriva che la novella di cui all'art.1, commi 1, 2 e 5 della legge 25 luglio 1997, n. 238 dovrebbe estendersi anche agli eventi dannosi verificatisi prima della sua entrata in vigore, ma sempre che vi sia conoscenza dell'esito pregiudizievole della pratica sanitaria.

In tal caso il termine utile triennale per conseguire l'indennizzo in caso di infezione epatopatica post-trasfusionale, ove il contagio sia avvenuto in epoca antecedente all'entrata in vigore della nuova disciplina, coincide con il momento d'effettiva conoscenza dell'avvenuto contagio.

È bene evidenziare, a questo punto, che, come rilevato dalla dottrina [RUBINO, 2008, 62] la problematica della conoscenza del fatto è assolutamente contigua a quella del termine prescrizionale che attinge l'esercizio dell'azione aquiliana, sia sotto il profilo della disponibilità degli elementi diagnostici indicativi della menomazione irreversibile dello stato di salute, sia sotto quello della disponibilità di tutta la documentazione utile circa la vaccinazione e la somministrazione degli emoderivati [DRAGONE, 2007, 338] oltre che di quelli diagnostici che consentano l'attendibile riconducibilità dell'evento lesivo alla pratica sanitaria dispensata , ossai l'evento dannoso deve manifestarsi nelle sue componenti essenziali ed irreversibili e nella sua riconducibilità obiettiva alla pratica trasfusionale.

Ne deriva che, quanto meno sotto l'aspetto oggettivo e della ricollegabilità eziologica dell'evento, valgono le elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali, come evidenziato da Sez. U, n. 00576/2008, Segreto, Rv. 600901: <<L'individuazione del dies a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro dell' "esteriorizzazione del danno" può, come visto, rivelarsi limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l'inattività (incolpevole) della vittima rispetto all'esercizio dei suoi diritti>>.

4. Il contrasto di giurisprudenza.

Tale lo stato dei principali arresti giurisprudenziali, fino all'intervento di Sez. U, n. 15352/2015, Di Cerbo, Rv. 636077.

Invero, nei procedimenti relativi al riconoscimento dell'indennizzo per patologie derivanti da trasfusioni di sangue, la Sez. 6-L, con due distinte ordinanze gemelle - rispettivamente n. 20519/2014 e n. 20520/2014 - aveva disposto la rimessione degli atti al Primo Presidente, al fine di valutare l'intervento delle Sezioni Unite sulla questione relative all'applicabilità alle epatiti postrasfusionali del termine triennale per la domanda amministrativa di indennizzo, stante il contrasto tra Sez. L, n. 10215/2014, Arienzo, Rv. 630791, che riteneva che se la conoscenza del danno fosse sorta successivamente al 28 luglio 1997 si dovesse applicare il termine triennale, mentre, ove la conoscenza fosse stata anteriore dovesse trovare applicazione il termine decennale di prescrizione, nonchè Sez. L, n. 13355/2014, Arienzo, Rv. 631461, che espressamente prende le distanze da Sez. L, n. 10215/2014, Arienzo, Rv. 630791, che afferma, a sua volta che il legislatore nell'introdurre con la legge n. 238 del 1997 la nuova decadenza triennale anche per le infezioni epatiche post-trasfusionali antecedenti ha inteso attrarre nell'orbita del termine perentorio anche i diritti sorti ed esercitabili prima della legge, ma con decorrenza dall'entrata in vigore di essa, così realizzando un obiettivo accelleratorio rispetto al più lungo termine di prescrizione decennale, peraltro soggetto a sospensione ed interruzione, secondo i principi generali.

4.1. La composizione del contrasto da parte delle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite con Sez. U, n. 15352/2015, Di Cerbo, Rv. 636077, sposano l'opzione interpretativa della decorrenza del termine di decadenza dall'entrata in vigore della l. n. 238 del 1997 anche per il caso delle epatiti post-trasfusionali verificatesi prima della novella del 1997.

La S.C. è, infatti, intervenuta su di un caso di epatopatia esitata da infezione contratta ante 1997 a seguito di una trasfusione. Il danneggiato aveva rivolto una richiesta d'indennizzo nell' anno 2002 al Ministero della Salute, ai sensi della l. n. 210 del 1992. In primo grado la domanda era stata respinta per essersi maturata decadenza rispetto al termine triennale decorrente dalla scoperta della patologia, secondo la modifica legislativa di cui sopra.

La decisione era stata confermata in grado d'appello e, pertanto, il danneggiato proponeva ricorso per Cassazione sostenendo che la nuova disciplina sulla decadenza triennale era stata introdotta solo nel 1997 laddove, nel caso concreto, l'infezione era stata contratta in un periodo precedente, di qui il contrasto giurisprudenziale sul punto rimesso alle Sezioni Unite della S.C.

Si trattava, perciò, di affermare il principio riguardante l'applicabilità della nuova disciplina sulla decadenza ai fini dell'indennizzo riconosciuto alle vittime di epatiti post-trasfusionali contratte ante legge n. 238/1997 e dirimere il contrasto che, nel frattempo, era insorto nella giurisprudenza di legittimità.

La S.C. argomenta la sua decisione sulla base dell' applicazione dell'art. 252 disp. att. c.c., invocandone il principio circa l'introduzione di un nuovo termine termine di decadenza rispetto a quello vigente ante novella così disattenedendo, quell'orientamento giurisprudenziale contenuto in Sez. L, n. 10215/2014, Arienzo, Rv 630791, per il quale, ai fini dell'esercizio tempestivo della richiesta d'indennizzo, ove la conoscenza del danno irreversibile fosse stata anteriore al 1997 doveva trovare applicazione l'ordinario termine di prescrizione decennale anche se non completamente decorso al luglio 1997, ossia alla data di entrata in vigore della nuova legge.

Le Sezioni Unite non hanno inteso considerare come eccezionale il nuovo termine di decadenza già previsto dall'art. 3 della l. n. 210 del 1992, per la proposizione della domanda amministrativa di ristoro dei danni conseguenti alle vaccinazioni, ma non espressamente riferibile anche ai pregiudizi da pratica trasfusionale, escludendo che, rispetto alla portata generale dell'art. 252 disp.att.c.c. sorga il divieto di applicazione in via analogica del termine prima non previsto.

In tal modo, la decisione aderisce a quella giurisprudenza che, vede nell'art. 252 disp. att. c.c., una regola generale di disciplina della successione delle leggi nel tempo la S.C. ha ritenuto che il termine triennale di decadenza si attagli alle infezioni post-trasfusionali, ora previste dalla novella di cui alla legge n.238 del 1997, anche per le menomazioni contratte prima della entrata in vigore della nuova legge.

Hanno ritenuto, perciò, sanando il contrasto, di pervenire ad un obiettivo di bilanciamento dei contrapposti interessi coinvolti nella fattispecie secondo un criterio di ragionevolezza e di equità [PAGANINI, 2015, 58].

Non può, infatti, disconoscersi che la sollecitazione acceleratoria di un termine di decadenza più breve del diritto al ristoro per esiti epatopatici causati da pratica trasfusionale sia idoneo a garantire una certa stabilizzazione della pretesa indennitaria del singolo, nondimeno non emerge, secondo la S.C. quella compressione irragionevole del suo diritto, che si manifesta, invece, ove l'intervento sulla decadenza sia imprevedibile rispetto ad una eventuale e non imputabile inerzia dell'interessato il quale ragionevolmente aveva fatto affidamento su di un arco di tempo maggiore per azionare la pretesa indennitaria.

Invero, l'interpretazione della regola di transizione - non derogata dalla legge n. 238 del 1997 - rispetto all'art. 252 disp. att. c.c., come istituto di portata generale - come già affermato da Corte costituzionale con la sentenza del 3 febbraio 1994, n. 20, contiene un principio di transizione secondo il quale ove una nuova legge stabilisca per l'esercizio di un diritto un termine più breve di quello fissato dalla legge anteriore, quello nuovo trovi applicazione anche all'esercizio dei diritti sorti anteriormente, nonché alle prescrizioni ed usucapioni in corso, ma il nuovo termine decorre dalla data di entrata in vigore della legge che ne ha disposto l'abbreviazione.

È vero che l'articolo citato era funzionale a consentire il transito e l'armonizzazione del nuovo codice rispetto a quello del 1865, purtuttavia, è rimasta affermata nella giurisprudenza della S.C. la valenza generale del meccanismo de quo: Sez. U, n. 06173/2008, Miani Canevari, Rv 602255, Sez. L, n. 05811/2010, Stile, Rv. 613326; Sez. 1, n. 06705/2010, Zanichelli, Rv. 612481; Sez. L, n. 25746/2009, Curzio, Rv. 611499.

Il principio sposato da Sez. U, n. 15352/2015, Di Cerbo, Rv. 636077, appare, dunque, del tutto congruo all'ipotesi decadenziale come fattispecie generale di subordinazione dell'esercizio di un diritto alla regola del tempo in funzione accelleratoria.

È vero che nella scelta operata entra in gioco anche un altro valore di pari livello che è quello dell'affidamento legittimo circa il tempo utile a disposizione dl singolo per esercitare il diritto stesso, ossia nella sicurezza dei rapporti giuridici da leggere alla luce dell'art. 3 della Costituzione, ma non in termini categorici, ad avviso della S.C. soprattutto ove si consideri che mentre lo stesso termine triennale era già previsto per gli esiti invalidanti delle vaccinazioni alcuna compressione temporale riguardava l'epatite post-trasfusionale nella normativa del 1992.

Va segnalato, tuttavia, che sul principio di affidamento ad un termine di prescrizione più lungo rispetto a quello introdotto successivamente e più breve la stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 69 del 2 aprile 2014 ha affermato che l'efficacia retroattiva della legge, trovi, comunque, un limite nel <<principio dell'affidamento dei consociati nella certezza dell'ordinamento giuridico>>, e pertanto, <<il vulnus arrecato al principio dell'affidamento>> si risolve in irragionevolezza della nuova disposizione e comporta, di conseguenza, l'illegittimità della norma retroattiva ( fattispecie in tema di arretrati di ratei pensionistici). Qui, in effetti, il danneggiato poteva trovarsi di fronte ad nuovo termine decadenziale - introdotto solo nel 1997- rispetto ad un contagio insorto in epoca anteriore.

Secondo Sez. U, n. 15352/2015, cit., il punto di equilibrio tra l'affidamento sul termine di prescrizione decennale ed il nuovo termine di decadenza triennale per i contagi contratti anteriormente alla modifica normatica di cui alla l. n. 238 del 1997 ai fini della prestazione indennitaria sta, allora, nella decorrenza alla data del 28 luglio 1997 per la domanda di ristoro dell'infermità esitata dalla trasfusione, ove essa sia sorta anteriormente a detta data, ma con termine di decadenza che decorrerà dall'entrata in vigore della modifica legislativa.

Dunque, una decisione intermedia tra chi riteneva che la novella si applicasse solo se la conoscenza della malattia fosse avvenuta successivamente all'entrata in vigore della l. n. 238 del 1997, rispetto a quella giurisprudenza che affermava, invece, che se la consapevolezza dell'infezione fosse stata antecedente al 1997 il termine applicabile sarebbe stato quello della prescrizione decennale.

L'intervento delle S.U. persegue, così, anche un intento accelleratorio rispetto all'ipotesi della prescrizione decennale del diritto all'indennizzo.

Del resto, la Corte Cost.con la decisione 27 ottobre 2006 n. 342 del 2006 aveva già affrontato il tema della ragionevolezza del termine triennale di cui all'art. 1, comma 9, della l. n. 238 del 1997, ai fini dell'equo indennizzo, rispetto a quello originale decennale di prescrizione applicabile ai danni da epatite causata da trasfusione ritenendola non fondata rispetto agli artt. 3 e 2 della Costituzione in virtù del carattere solidaristico della prestazione indennitaria che può tollerare una ragionevole compressione del diritto, con la conseguenza che <<Alla luce delle esposte considerazioni, si deve ritenere che la disposizione impugnata non ecceda l'ambito delle scelte spettanti al legislatore in materia di diritti sociali>>.

5. Indennizzo e risarcimento.

Stabilito il principio diventa fondamentale verificare i parametri d'individuazione della fattispecie dalla quale far decorrere il concetto di <<contrazione di epatite post-trasfusionale>> di cui alla modifica normativa della legge n. 238 del 1997, ai fini della decorenza del termine triennale, considerata anche la lungo latenza di simili eventi infettivi.

Come noto, la pretesa indennitaria del danneggiato conseguente al contagio da virus HBV, HIV o HCV si fonda sulla violazione di un obbligo solidaristico che promana dallo Stato e che si fonda, pertanto, su di un titolo diverso da quello della responsabilità aquiliana per i danni derivanti da emotrasfusione che potrebbe, semmai, compensarsi con quella risarcitoria, Sez. 6-3, n. 20111/2014, De Stefano, Rv. 632976: << secondo il principio della compensatio lucri cum damno, quale limite legale rispetto alla locupletazione di una duplice voce di ristoro per effetto dello stesso evento lesivo>> con la conseguenza che la prestazione indennitaria già conseguita dal danneggiato può essere dedotta da quanto liquidabile a titolo di risarcimento del danno prevenendo, così, un ingiustificato arricchimento determinato dal porre a carico della P.A. due diverse prestazioni patrimoniali in favore dello stesso soggetto ed in conseguenza del medesimo fatto produttivo di danno: Sez. 3, n. 06573/2013, De Stefano, Rv. 625543.

Ciò è tanto vero che la S.C. ha affermato con Sez. 6-3, n. 21257/2014, De Stefano, Rv. 632916 che <<il riconoscimento dell'indennizzo può comportare, a tutto concedere, l'ammissione, da parte dello Stato che procede alla sua erogazione, della sussistenza dell'elemento oggettivo della diversa e ben più ampia fattispecie invocata dal danneggiato ai sensi dell'art. 2043 c.c.: ma, in modo intuitivo, nulla può comportare in ordine all'elemento soggettivo della colpa (se non del dolo), riguardo al quale resta quindi del tutto neutro e tanto da non costituire alcuna altra agevolazione probatoria in favore del danneggiato>>. Del resto, Sez. L, n. 07912/2015, Buffa, Rv. 635121, ha sottolineato che << In ipotesi di ritardata corresponsione dell'indennizzo a favore dei soggetti danneggiati a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni ed emoderivati, previsto dall'art. 1 della legge 25 febbraio 1992, n. 210, non è configurabile il risarcimento di un danno non patrimoniale, essendo il valore inerente la persona già tutelato mediante l'erogazione dello stesso indennizzo, nonché dei relativi accessori>>.

Rimane, pertanto, confermata la natura onnicomprensiva dell'indennizzo in uno con la sua originaria impronta solidaristica, secondo la lettura che la Corte Costituzionale con la decisione del 27 ottobre 2006, n. 342 sopra citata ne ha dato.

6. Decorrenza del termine di decadenza.

In sostanza, dunque, l'indennizzo non appare sovrapponibile alla struttura del danno aquiliano, compreso, ovviamente, quello non patrimoniale. Ciò premesso va, però, considerato, che l'art. 1, comma 9, della legge n. 238 del 1997 nel novellare l'art. 3 della l. n. 210 del 1992 ha fissato ai fini dell'esercizio del diritto indennitario il termine perentorio di tre anni per le epatiti post-trasfusionali, così ancorando la decadenza del diritto ad un dato temporale corrispondente al giorno in cui il danneggiato ha avuto avuto conoscenza del danno irreversibile.

Ne consegue che, a tal fine, questo momento potrebbe non coincidere con quello della patologia conclamata.

Di sicuro rilievo, - quantomeno sotto il profilo oggettivo e non dell'imputabilità - potrebbe sovvenire il criterio elaborato da Sez. U, n. 00576/2008, Segreto, Rv. 600899, ossia il dies a quo verrebbe a decorrere non già << dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, bensì dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita usando l'ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche >>.

Ciò è tanto vero che ai fini della prescrizione quinquennale dell'azione aquiliana il termine ultimo corrisponde a quello di proposizione della domanda d'indennizzo.

Questo parametro terrebbe conto della lungo latenza dell'infezione e della sua sintomaticità che può rimanere silente per periodi apprezzabili rispetto alla pratica sanitaria della trasfusione con sangue infetto e del rapporto causale tra trasfusione ed evento dannoso.

La stessa dottrina, invero, a prescindere dal problema dell'imputabilità che riguarda esclusivamente la responsabilità ex art. 2043 c.c., sottolinea che la laconicità dell' indicazione sulla data di conoscenza della lesione epatopatica, ad onta della centralità del problema, rispetto ai termini perentori fissati dalla legge, impone di considerare che non sempre la conoscenza della lesione irreversibile è agevolmente desumibile dalla documentazione sanitaria in possesso del danneggiato [RUBINO, cit., 63 e 185 e ss.; LA MONICA, 2006, 469 e ss.].

La contiguità del tema della consapevolezza delle conseguenze dannose derivate dal contagio rispetto all'azione aquiliana si giustifica con la natuara della pretesa indenniataria verso lo Stato: Sez. L, Blasutto, n. 19811/2013, che ne evidenzia la natura di diritto soggettivo avente per oggetto una prestazione economica a carattere assistenziale, in continuità con Sez. U, n. 10418/2006, Picone, Rv. 589102 che ne afferma il carattere solidaristico in armonia con l'art. 2 Cost. e di risposta al bisogno ex 38, comma 2, Cost., secondo il principio della socializzazione del danno, come ritenuto anche da Sez. L, n. 10876/2014, Lorito, Rv. 630921.

Deve, inoltre, trattarsi di una lesione stabilizzata ed inquadrabile in una delle otto categorie previste dalla tabella allegata alla legge.

In proposito Sez. L, n. 19811/2013, cit., Blasutto, non massimata la Cassazione ha chiarito che il termine di decadenza decorrere solo da quando <<il soggetto contagiato abbia avuto conoscenza di essere portatore di una infermità classificabile in una delle otto categorie della tabella A allegata al D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834>>.

Il problema delle patologie epatiche lungo latenti sta in ciò: che ove non stabilizzate, eppur consistenti in un danno permanente, potrebbero risultare al di sotto dell'ottava categoria con la conseguenza che, nel caso di malattia silente e senza sintomi riconoscibili, l'indennizzo potrebbe non essere attribuibile perché non vi sarebbe il superamento utile di quel livello d'infermità di cui alla tabella delle infermità classificabili che danno, a loro volta, diritto al ristoro indennitario.

Ne consegue la centralità di quella consapevolezza rispetto all'infezione e alla sua diagnosi quale conseguenza della trasfusione da cui decorre il termine di decadenza previsto dall'art. 3, della legge n. 210 del 1997 novellato dalla legge n. 382 del 1997: Sez. 6-L, n. 07304/2011, Toffoli, Rv. 616435.

In questo senso appaiono spendibili le elaborazioni giurisprudenziali riscontrate nel parallelo profilo della responsabilità extracontrattuale per danni derivati dalla prtatica trasfusionale.

Infatti, in ambedue le situazioni giuridiche attive, emerge l'elemento materiale del trascorrere del tempo rispetto all'esercizio del diritto, governati secondo i principii codicistici da decadenza e prescrizione, i quali, per vero, si differenziano così come delineate dall'art. 2964 c.c. soltanto per la circostanza che la prima non potrà essere interrotta o sospesa che nei casi espressamente indicati dalla legge, a differenza della prescrizione.

Nondimeno, non potrebbero mutare i parametri di riferimento temporali rispetto al rapporto causale, Sez. 3, n. 20999/2012, Barreca, secondo la quale non è corretto sostenere che << la prescrizione dovrebbe decorrere da quando il danneggiato ha conosciuto il proprio stato di contagio perché tale circostanza potrebbe non coincidere con la consapevolezza necessaria a ricondurre l'epatopatia alla pregressa trasfusione, ossia deve risultare effettivamente acquisita la consapevolezza circa la derivazione causale della malattia dalle trasfusioni effettuate, senza trascurare le evidenze scientifiche disponibili in quel momento>>.

Se ne dovrebbe trarre la conseguenza, secondo l'elaborazione giurisprudenziale sull'azione aquiliana in tema di contagio da emotrasfusione che come affermato da Sez. 3, n. 28464/2013, Segreto, Rv. 629132, sia pure con riferimento al termine di prescrizione quinquennale: <<... che decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, primo comma, cod. civ., non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche>> sempre che la conoscenza utile, ai fini dell'esercizio del diritto non emerga aliunde.

. BIBLIOGRAFIA

Paganini, Danni da emotrasfusione: le Sezioni Unite decidono sulla applicazione retroattiva dei termini decadenziali, in Diritto & Giustizia 2015, 58.

Dragone, Responsabilità medica danni da trasfusione e da contagio, Milano, 2007, 338.

Rubino, Il danno da emotrasfusioni (e da somministrazione di emoderivati), Milano, 2008, 62.

  • amianto
  • ambiente di lavoro
  • regime pensionistico

CAPITOLO XII

I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO

(di Milena D'Oriano )

Sommario

1 Le controversie previdenziali in materia di amianto. - 2 La natura del beneficio contributivo. - 3 La domanda amministrativa. - 4 La decadenza. - 4.1 La decadenza generale-triennale. - 4.2 La decadenza speciale-semestrale. - 5 La prescrizione. - BIBLIOGRAFIA

1. Le controversie previdenziali in materia di amianto.

L'inalazione di fibre di asbesto, anche dopo un lungo intervallo di latenza, provoca gravi patologie dell'apparato respiratorio e neoplasie varie; sebbene la lavorazione e l'utilizzo di tale materiale siano stati banditi da tempo, le prime e principali vittime dell'amianto continuano ad essere i lavoratori.

Le controversie previdenziali promosse dai lavoratori esposti ad amianto attengono all'applicazione della legislazione che ha loro riconosciuto specifici benefici pensionistici.

In materia, a partire dalla l. 27 marzo 1992, n. 257, di attuazione della direttiva n. 477/83/ CEE, si sono succeduti diversi interventi legislativi che hanno comportato, e ancora comportano in quanto la produzione normativa non accenna ad arrestarsi, con le ultime novità ascrivibili ai commi da 115 a 117 dell'articolo unico della l. 23 dicembre 2014, n. 190, problemi interpretativi che ne rendono difficoltosa l'applicazione.

Benché siano trascorsi decenni dall'introduzione delle prime misure di sostegno per i lavoratori esposti al rischio amianto, sussistono ancora oggi questioni aperte in tema di domanda amministrativa, decadenza, prescrizione, disciplina sostanziale, ambito applicativo soggettivo e oggettivo, diritto intertemporale.

La normativa in tema di amianto è di natura premiale, in quanto prevede il riconoscimento figurativo aggiuntivo di anzianità contributiva, con attribuzione all'assicurato, al momento del collocamento a riposo, di periodi di anzianità virtuali che si aggiungono all'anzianità effettivamente maturata ai fini previdenziali.

La cd. anzianità convenzionale ha di norma un effetto utile, sia per il diritto sia per la misura della pensione, pur senza collegamento con il versamento di contribuzione; consente dunque una maturazione anticipata del diritto a pensione, per chi è ancora in servizio, mentre chi è già titolare di un trattamento pensionistico, senza aver ancora raggiunto il massimo della contribuzione versata, ne beneficia con una rideterminazione della pensione in rapporto al sopravvenuto mutamento della posizione contributiva. [C. MAROTTA, Napoli, 2015].

Attualmente coesistono, in linea di massima, due diverse discipline, quella più favorevole, che consente il riconoscimento della rivalutazione contributiva di cui all'art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992, con moltiplicazione per 1,5 del periodo di esposizione qualificata, cioè superiore alle 100 fibre/litro, ai fini del conseguimento del diritto alla pensione, e beneficio anche sul quantum, e quella più restrittiva, di cui all'art 47 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. con modif. dalla l. 24 novembre 2003, n. 326, entrato in vigore dal 2 ottobre 2003, che prevede la sola maggiorazione del trattamento pensionistico, con moltiplicazione per 1,25 del periodo di esposizione qualificata ai soli fini della determinazione dell'ammontare della pensione; molteplici e complesse le norme che prevedono eccezioni alla mera successione nel tempo delle due normative.

Con le ultime pronunce in materia, la S.C. ha ulteriormente consolidato i suoi più recenti orientamenti in tema di configurabilità del diritto alla rivalutazione contributiva derivante dall'esposizione all'amianto come diritto autonomo, rispetto al diritto alla pensione, e in tema di necessità della previa presentazione di specifica istanza all'INPS, sia ai fini della proponibilità della domanda giudiziale di rivalutazione contributiva che ai fini della decorrenza del termine di decadenza triennale di cui all'art 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639; innovative invece le posizioni assunte in relazione alla decadenza speciale dall'azione giudiziaria, prevista dall'art. 47, comma 5, del d.l. n. 269 del 2003, conv. con modif. in l. n. 326 del 2003, ed in tema di prescrizione.

2. La natura del beneficio contributivo.

In Sez. 6-L, n. 02351/2015, Marotta, Rv. 634542, si cristallizza il principio dell'autonomia del diritto alla rivalutazione contributiva, derivante dall'esposizione all'amianto, rispetto al trattamento pensionistico sul quale può incidere.

Posto che nel sistema assicurativo - previdenziale la posizione assicurativa, nonostante la sua indubbia strumentalità, costituisce una situazione giuridica dotata di una precisa individualità, che può spiegare effetti molteplici, anche successivamente alla data del pensionamento, e può costituire oggetto di un autonomo accertamento, secondo un orientamento che può dirsi ormai consolidato in sede di legittimità, analogo carattere va riconosciuto al beneficio contributivo in materia di amianto, autonomamente disciplinato ed il cui riconoscimento richiede un'apposita domanda amministrativa.

Secondo tale ricostruzione chi, pensionato o meno, agisce per ottenere il riconoscimento della rivalutazione contributiva non lo fa per rivendicare una componente essenziale del credito pensionistico, da liquidarsi ovvero già liquidato parzialmente, bensì per chiedere qualcosa di nuovo e di autonomo.

Non si tratta dunque di una richiesta di esatto adempimento di una prestazione previdenziale riconosciuta solo in parte, ma della possibilità di far valere una posizione giuridica ricollegabile a "fatti", quali l'esposizione qualificata e la durata dell'esposizione stessa, in relazione ai quali viene ad essere determinato con la maggiorazione contributiva, il tempo ovvero l'ammontare della pensione, ancorata a presupposti propri e distinti da quelli in presenza dei quali era sorto, o sarebbe sorto in base ai criteri ordinari, il diritto al trattamento pensionistico.

La caratteristica di fattispecie autonoma costitutiva di un diritto si evince anche dalla facoltà, pacificamente ammessa, di far valere in giudizio la pretesa all'accertamento dell'effettiva consistenza della posizione contributiva, in relazione alla rivalutabilità dei contributi accreditati nei periodi lavorativi di esposizione all'amianto, e ciò separatamente rispetto al diritto a pensione, essendo configurabile un interesse, concreto ed attuale dell'assicurato a tale domanda; né tale autonomia viene meno quando la richiesta di rivalutazione contributiva è contestuale alla domanda di pensione, restando sempre distinti gli elementi costitutivi delle corrispondenti situazioni giuridiche soggettive.

L'opzione sistematica della natura autonoma del beneficio della rivalutazione contributiva ha delle rilevanti ripercussioni in tema di decadenza dall'azione giudiziale per far valere tale diritto e di prescrittibilità dello stesso e costituisce la premessa comune di tutte le principali decisioni in materia della Corte di legittimità.

3. La domanda amministrativa.

Sez. 6-L, n. 11574/2015, Arienzo, Rv. 635716, ha poi efficacemente ribadito che, per ottenere i benefici previdenziali ricollegabili all'esposizione all'amianto, è innanzitutto necessaria una domanda amministrativa.

Anche se la l. n. 257 del 1992 non prevede espressamente l'obbligo di presentazione della domanda amministrativa, a differenza di quanto dispone, con riferimento all'I.N.A.I.L., l'art. 47 del d.l. n. 269 del 2003, la necessità della domanda amministrativa all'ente cui compete il riconoscimento del diritto, e quindi l'erogazione dell'adeguamento del trattamento pensionistico conseguente alla positiva verifica della sussistenza dei presupposti per l'anzianità convenzionale rivendicata, è ricavabile dal sistema.

Salvo casi specifici previsti dalla legge, in cui l'Istituto previdenziale è tenuto ad attivarsi autonomamente per la liquidazione, le prestazioni previdenziali ed assistenziali non vengono mai erogate d'ufficio dall'Ente, ma soltanto se l'interessato abbia presentato l'apposita domanda ed avviato il procedimento amministrativo finalizzato alla valutazione di tutti i requisiti richiesti.

Dalla presentazione della domanda conseguono poi importanti effetti sostanziali, quali l'individuazione della decorrenza della prestazione e la decorrenza degli interessi legali, ma anche effetti processuali, in quanto senza la presentazione della domanda amministrativa e dei ricorsi amministrativi, la domanda giudiziale difetta di un presupposto essenziale.

In numerose occasioni la Corte di legittimità ha ormai affermato il principio - in tema di combinato disposto degli artt. 443 c.p.c. e 148 disp. att. c.p.c., e di rapporto tra procedimento amministrativo ed azione giudiziaria - che la preventiva presentazione della domanda amministrativa costituisce un presupposto dell'azione, la cui mancanza determina non già la mera improcedibilità ma la radicale improponibilità della domanda giudiziale (tra le tante vedi Sez. L, n. 02063/2014, Venuti, Rv. 629924; Sez. L, n. 26146/2010, Napoletano, Rv. 629924; Sez. L, n. 00732/2007, Roselli, Rv. 594245; Sez. L, n. 05149/2004, Vidiri, Rv. 571093).

La necessità della domanda amministrativa in tutte le ipotesi in cui si controverti di rivalutazione dei contributi per l'esposizione ad amianto è stata da ultimo ripetutamente affermata dalla Suprema Corte (cfr. tra le più recenti Sez. 6-L, n. 07934/2014, Mancino, Rv 630093 e Sez. 6-L, n. 16592/2014, Marotta, Rv. 632330), in base alla considerazione che i presupposti del beneficio, quali l'esposizione all'amianto e la relativa durata, sono fatti la cui esistenza è nota soltanto dall'interessato, che pertanto è tenuto a portarli a conoscenza dell'ente con apposita domanda amministrativa.

Può dirsi, dunque, definitivamente superato l'iniziale orientamento espresso in motivazione da Sez. L, n. 21862/2004, D'Agostino, Rv. 578066, e da Sez. L, n. 15008/2005, Picone, Rv. 582633, secondo cui nel regime di cui al comma 8, dell'art. 13 della l. n. 257 del 1992, non fosse prevista una domanda amministrativa per far accertare il diritto alla rivalutazione dei contributi previdenziali in conseguenza dell'esposizione all'amianto.

Trattandosi di un beneficio fondato su presupposti diversi e speciali rispetto alla normale contribuzione versata e computabile ai fini del trattamento pensionistico, non è idonea la semplice domanda di collocamento in pensione ma occorre che venga presentata, prima o dopo il pensionamento, una domanda finalizzata in modo specifico alla richiesta dei benefici amianto.

Nella domanda di pensione non è infatti automaticamente ricompresa la richiesta di riconoscimento della rivalutazione contributiva; sebbene sia gli accrediti contributivi afferenti la posizione del lavoratore per effetto del rapporto di lavoro, sia l'incremento figurativo dei medesimi per effetto dell'esposizione all'amianto, incidano sulla medesima prestazione pensionistica, si tratta di contributi che presentano caratteristiche e presupposti totalmente differenti.

I primi sono soggetti alla regola dell'automatismo e vanno accreditati in virtù del rapporto assicurativo con l'Istituto, non occorrendo alcun procedimento ad hoc né alcuna domanda dell'interessato (salvo il limite della prescrizione dei contributi stessi che vanno accreditati in quanto ancora dovuti).

I secondi, invece, non sono assoggettati ad alcun automatismo, per cui non basta aver lavorato, né basta essere stati esposti, per avere l'accredito, ma occorre accertare autonomamente il presupposto dell'esposizione, attraverso un complesso procedimento che inizia proprio con la domanda dell'interessato. [R. RIVERSO, RGLPS, 2013, 1, 655 e DPL, 2013, 15, 989].

Come poi chiarito da Sez. L, n. 17798/2015, Pagetta, Rv. 636805, la domanda amministrativa va certamente presentata all'I.N.P.S., unico ente legittimato a concedere il beneficio previdenziale in parola e non può ritenersi fungibile quella inoltrata all'I.N.A.I.L., attesa la loro diversità funzionale : la domanda all'I.N.P.S. è, infatti, necessaria per il riconoscimento del diritto al beneficio previdenziale, quella rivolta all'I.N.A.I.L. mira unicamente a fornire al lavoratore la prova dell'esposizione all'amianto. ( Sul difetto di legittimazione passiva dell'I.N.A.I.L. nelle controversie in tema di benefici amianto Sez. 6-L, n. 16592/2014, Marotta, Rv. 632331).

Il fatto che il legislatore, all'art. 3, comma 132, della l. 24 dicembre 2003, n. 350, abbia fatto salve le domande avanzate all'I.N.A.I.L. al fine di regolare il regime transitorio non è significativo di una equiparazione tra l'una e l'altra istanza, poiché il riferimento alle richieste presentate all'I.N.A.I.L. ha la sola finalità di consentire il recupero del vecchio regime in favore di chi si è comunque attivato entro una certa data per ottenere il beneficio, mentre per ottenere la prestazione occorre comunque avere fatto domanda amministrativa all'I.N.P.S., unico soggetto preposto ad attribuirla o negarla; la domanda all'I.N.P.S. è poi sempre necessaria anche per coloro che, rientrando nella disciplina di cui alla l. n. 326 del 2003, che prevede a pena di decadenza speciale l'obbligo di domanda all'I.N.A.I.L., abbiano presentato la domanda all'I.N.A.I.L. nel termine ivi previsto.

4. La decadenza.

In materia di benefici previdenziali da amianto operano due tipologie di decadenza: quella generale, prevista dall'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 e succ. mod., riferita alla domanda giudiziale, e quella speciale, prevista dall'art. 47 del d.l. n. 269 del 2003 e dal relativo d.m. attuativo del 27/10/04, relativa alla domanda da rivolgersi all'I.N.A.I.L., entrambe di natura sostanziale.

4.1. La decadenza generale-triennale.

Sez. L, n. 17798/2015, Pagetta, Rv. 636805, in linea con Sez. 6-L n. 13398/2015, Pagetta, Rv. 635838, e Sez. 6-L, n. 07934/2014, Mancino, Rv. 630093, precedute da plurime decisioni a partire da Sez. L, n. 12685/2008, Roselli, riafferma il principio che la decadenza dall'azione giudiziaria prevista dall'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, nel testo riformulato dall'art. 4 del d.l. 19 settembre 1992, n. 384, conv. con modif. dalla l. 14 novembre 1992, n. 438, trova applicazione anche per le controversie aventi ad oggetto il riconoscimento del diritto alla maggiorazione contributiva per esposizione all'amianto, siano esse promosse da pensionati ovvero da soggetti non titolari di alcuna pensione.

L'applicabilità di tale decadenza consegue alla natura autonoma del diritto: secondo la S.C. non vi sarebbe ragione di non applicarla poiché siamo in presenza di un diritto autonomo, che opera sul montante contributivo, ed in questi casi non si tratta di rivalutare l'ammontare dei singoli ratei bensì i contributi previdenziali necessari a calcolare la pensione originaria.

Posto che l'art. 47 riformulato fa riferimento alle "prestazioni previdenziali", e quindi comprende tutte le domande giudiziarie in cui venga in discussione l'acquisizione del diritto a pensione ovvero la determinazione della sua misura alla luce della posizione contributiva, va ritenuto incluso nella previsione di legge anche l'accertamento relativo alla consistenza dell'anzianità contributiva utile, sulla quale incide il sistema più favorevole di calcolo della contribuzione in cui si sostanzia il beneficio previdenziale previsto dall'art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992.

Colui che presenta una domanda amministrativa per far valere il diritto all'anzianità convenzionale è esposto alla decadenza triennale di cui all'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 in quanto non fa valere il diritto al ricalcolo della prestazione pensionistica, ovvero alla rivalutazione dell'ammontare dei singoli ratei erroneamente liquidati in sede di determinazione amministrativa, bensì il diritto a un beneficio che, seppure previsto dalla legge a fini pensionistici e, dunque, intimamente collegato alla pensione, poiché strumentale ad agevolarne l'accesso, ovvero, nel caso dei già pensionati, ad ottenerne un arricchimento, ove la contribuzione posseduta sia inferiore al tetto massimo, è dotato di una sua specifica individualità e autonomia.

Per lo stesso motivo viene anche escluso che per i già pensionati ci si trovi in presenza di una controversia che abbia ad oggetto l'esatto adempimento di prestazioni già adempiute solo in parte, e che in caso di domanda giudiziale intesa ad ottenere il beneficio contributivo della rivalutazione per esposizione all'amianto possa trovare applicazione la disciplina della decadenza c.d. mobile, atteso che non si tratta di stabilire quale sia il giusto importo dei ratei di prestazione pensionistica, e quindi di rivalutare l'ammontare di singoli ratei, bensì di verificare se i contributi già versati, ed utilizzati per calcolare la pensione originaria, debbano o meno essere rivalutati in applicazione delle speciali disposizioni in tema di esposizione qualificata ad amianto.

Si evidenzia ancora nelle numerose pronunce che, applicata la decadenza, non sussiste alcuna violazione dell'art. 38 Cost., in quanto il soggetto non perde il diritto alla pensione, che resterà calcolata in base all'anzianità contributiva maturata secondo gli ordinari criteri, ma solo il diritto alla rivalutazione dei contributi e all'applicazione del più favorevole sistema di calcolo della contribuzione versata nel periodo di esposizione all'amianto.

Costituisce altro principio consolidato in materia quello affermato in Sez. 6-L, n. 08926/2011, Bandini, Rv. 616914 (e ripreso da Sez.6-L, n. 16592/2013, La Terza, n. 04409/2014, Garri, n. 17500/2014, Blasutto, e n. 05681/2015, Mancino, ed altre), secondo cui, intervenuta la decadenza, al fine di non vanificarne gli effetti e la funzione, è irrilevante e non consente riconoscimento della prestazione la riproposizione, in epoca posteriore alla maturazione della stessa, di una nuova domanda diretta ad ottenere il medesimo beneficio previdenziale della rivalutazione contributiva per esposizione ad amianto,

La tesi dell'autonomia del diritto alla rivalutazione dei contributi ed il granitico orientamento della Suprema Corte sull'applicabilità della decadenza cd. tombale in tema di amianto non sono da tutti condivisi. [S. L. GENTILE, Foro It., 2012, I, 2101 e Giuffrè 2015; P. GHINOY, 2012, 738; R. Riverso, RGLPS, 2013, 1, 655 e DPL, 2013, 15, 989].

Si contesta, in particolare, che possa esistere una prestazione economica autonoma e diversa dalla mera eventuale maggior misura della pensione, ritenendo che si sarebbe comunque in presenza di contributi già versati regolarmente dal datore di lavoro e accreditati dall'INPS, dei quali manca solo la corretta attribuzione contabile con una ripercussione esclusivamente sull'ammontare dei ratei della pensione maturati.

Si afferma che non sarebbe possibile parlare di un diritto autonomo, così come non lo si fa ogni qual volta si discute del computo di ciascun mese di anzianità di servizio o dell'applicazione delle molteplici leggi che disciplinano le percentuali e modalità di accredito contributivo; che l'unico bene giuridico è la posizione assicurativa, cioè il montante contributivo, già accreditato o comunque spettante, in relazione al quale il lavoratore agisce a tutela in quanto bene strumentale al trattamento pensionistico, e non diritto autonomo rispetto ad esso, che nasce ex lege, per effetto soltanto del fatto materiale dell'espletamento di lavoro in regime di subordinazione, senza la necessità di esplicite manifestazioni di volontà e di formalità amministrative, ed esiste sino a quando la posizione assicurativa cessa di produrre effetti giuridici.

Si evidenzia che la rivalutazione contributiva per esposizione all'amianto non comporta soltanto una rivalutazione dei contributi necessari per calcolare l'importo della pensione originaria (essendo tale diritto previsto soltanto dall'art. 47 della l. n. 326 del 2003), ma anche il diritto al conseguimento anticipato della pensione (per chi avesse maturato il diritto ai più sostanziosi benefici previsti dall'art.13, della l. n. 257 del 1992), per cui la decadenza colpisce anche questo diritto al pensionamento anticipato ; che la distinzione tra aumento dei ratei ed aumento dei contributi lascia molto perplessi in quanto è evidente che l'aumento della contribuzione non è mai un diritto fine a sé stesso, ma serve appunto per incidere sul diritto a pensione e quindi di conseguenza sui ratei, presenti e futuri; che la distinzione è solo terminologica perché, se si guarda ai contributi, la rivalutazione per esposizione amianto deve considerarsi diritto ad un'autonoma e speciale contribuzione mentre, se si guarda alla pensione, si tratta del diritto all'aumento della pensione, o all'anticipazione del suo conseguimento, attraverso quei contributi.

Si insiste poi sull'irrilevanza della classificazione come diritto autonomo o accessorio in quanto si esclude a priori che la decadenza rientri tra le ipotesi disciplinate dall'art. 47 già cit.: stante il richiamo ivi contenuto ai "ratei pregressi" ed alla domanda giudiziale relativa agli stessi, si ritiene che l'istituto della decadenza sostanziale si riferirebbe solo a prestazioni che si traducono in un'erogazione periodica, e sarebbe quindi del tutto inapplicabile ai presupposti di computo di tale erogazione, qual è il diritto alla rivalutazione contributiva. [R. RIVERSO, RGLPS, 2013, 1, 655 e DPL, 2013, 15, 989].

Si rileva ancora la contrarietà dell'effetto tombale di tale decadenza, che si ripercuote su tutti i ratei pregressi e futuri, con i principi costituzionali più volte richiamati dalla Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza 3 giugno 1992, n. 246, a tutela dell'intangibilità del diritto a pensione che viene più volte definito fondamentale, irrinunciabile e imprescrittibile. [P. GHINOY, 2012, 738].

In verità, quanto ai profili di costituzionalità, va ricordato che il Giudice delle leggi ha in varie occasioni ridimensionato le sue stesse affermazioni (ad es. nelle sentenze 15 luglio 1985, n. 203, e 22 luglio 1999, n. 345), sia ammettendo che il diritto a pensione, pur coperto da garanzia costituzionale, possa essere sottoposto a limiti, sempre che questi siano compatibili con la funzione del diritto e non si traducano nella esclusione dell'effettiva possibilità di esercitarlo, sia non ritenendo in contrasto con gli artt. 31 e 37 della Cost. norme che non incidevano sull'an del diritto alla pensione, ma solo marginalmente sul quantum, laddove il mancato aumento del trattamento previdenziale non valesse a far considerare tale emolumento insufficiente ai fini della tutela imposta dalle norme costituzionali (vedi ad es. in Corte cost. 26 febbraio 2010, n. 71).

La posizione della S.C., secondo cui l'effetto della decadenza determina la perdita irreversibile del diritto alla rivalutazione contributiva, e quindi solo della parte aggiuntiva della pensione che a tale rivalutazione sarebbe conseguita, sembra quindi del tutto conforme alla citata lettura costituzionale in quanto la componente della pensione, che in tal modo non viene acquisita, ne costituisce una quantità marginale, e comunque non tale da farne scendere l'ammontare al di sotto della soglia costituzionalmente garantita.

Si segnala infine una rivisitazione interpretativa che, al fine di contenere gli effetti decadenziali, recupera una sorta di decadenza mobile, diversa cioè da situazione a situazione, prendendo in considerazione le diverse condizioni soggettive degli istanti, e distingue il lavoratore che non abbia ancora maturato il diritto alla pensione, che ha dunque un interesse a proporre una domanda soltanto accertativa del diritto alla rivalutazione contributiva, con efficacia di giudicato, dal lavoratore che ne è già titolare, e quindi domanda anche il pagamento della pensione nella maggiore misura che gli spetta. [S. L. GENTILE, Foro It., 2012, I, 2101 e Giuffrè 2015].

Precisamente si sostiene che, nel caso di domanda proposta da un pensionato per il ricalcolo del trattamento corrisposto dall'Inps senza la specifica addizione spettante per il rischio amianto, si introduce una controversia di riliquidazione non distinguibile dalle altre aventi la medesima finalità incrementativa per motivi diversi, sia che il ricorso venga impostato proponendo una sola domanda, che distinguendo formalmente quella accertativa da quella di condanna, per cui si dovrebbe applicare l'art. 38, comma 1, lett. d), punto 1, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con modif. dalla l. 15 luglio 2011, n. 111, avente ad oggetto l'adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte.

Da ciò deriverebbe: 1) l'esclusione della necessità di una domanda amministrativa, sia perché la materia del contendere è l'importo di una pensione già chiesta all'Inps e in corso di erogazione, sebbene in misura inesatta per difetto, sia perché la peculiare decorrenza del termine decadenziale <<dal riconoscimento parziale della prestazione ovvero dal pagamento della sorte>>, non sarebbe compatibile con l'attivazione di un'altra fase amministrativa ante causam; 2) il computo, a partire dal dies a quo individuabile mediante lo stesso art. 38, soltanto dei tre anni della decadenza pensionistica vera e propria, senza tenere conto dei tempi della procedura amministrativa pregressa (300 gg.) ormai conclusa e superata dal pagamento dei ratei in esecuzione; 3) la perdita, ove la decadenza sia maturata e venga accertata, della quota addizionale per l'esposizione all'amianto, limitatamente alle mensilità ultratriennali della pensione, e non anche per quelle infratriennali e per quelle future.

In caso di domanda del lavoratore non pensionato, finalizzata esclusivamente alla verifica e alla dichiarazione del beneficio contributivo da amianto, si esulerebbe, invece, dall'ambito operativo dell'art. 38 già cit. per cui occorrerebbe sempre una specifica istanza amministrativa e andrebbe applicata la decadenza triennale di cui all'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, da conteggiare in sequenza dopo la conclusione dell'iter amministrativo; se tuttavia si verificasse la decadenza per superamento di tale termine l'effetto non sarebbe totalmente estintivo del diritto ma, per il principio della insopprimibilità del diritto alla pensione in tutte le sue componenti, la decadenza colpirebbe solo il diritto ai ratei di pensione relativi ai periodi di tempo anteriori alla domanda stessa.

4.2. La decadenza speciale-semestrale.

Sicuramente innovativo l'orientamento espresso da Sez. 6-L, n. 14895/2015, Pagetta, Rv. 636230, in tema di decadenza dall'azione giudiziaria, prevista dall'art. 47, comma 5, del d.l. n. 269 del 2003, conv. con modif. dalla l. n. 326 del 2003, definita speciale in quanto tipica di questa sola fattispecie, che ha imposto a pena di perdita del beneficio, la presentazione di una domanda all'INAIL entro il termine di 180 giorni dalla pubblicazione del decreto ministeriale attuativo.

Il decreto ministeriale, adottato il 27.10.2004, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 17.12.2004, per cui il suddetto termine per la presentazione della domanda all'I.N.A.I.L. è venuto a scadere il 15 giugno 2005.

Sull'ambito applicativo del nuovo termine decadenziale non si registra un unanime orientamento della Corte di legittimità.

Si è posto, infatti, il problema se questo termine di decadenza dovesse operare per tutti i benefici previdenziali amianto, sia per quelli più favorevoli stabiliti dall'art.13 della l. n. 257 del 1992, sia per quelli più ridotti stabiliti dall'art. 47 della l. 326 del 2003 (di conversione del d.l. n. 269 del 2003), come previsto testualmente nell'ultimo inciso del decreto attuativo, o se invece ne dovesse essere esclusa l'applicazione per tutti coloro che in base alla disciplina transitoria, anche dopo le modifiche del 2003, avessero conservato il diritto all'applicazione della previgente disciplina.

Secondo Sez. L., n. 08453/2014, Lorito, seguita da Sez. L., n. 08661/2014 e n. 09095/2014, Bandini; n. 08904/2014 e n. 08973/2014, Lorito; n. 08903/2014 e n. 09069/2014, Doronzo; n. 09469/2014, Patti, ed altre tutte del 2014, la riforma del 2003 ha introdotto l'obbligo di presentare la domanda di riconoscimento dei benefici all'I.N.A.I.L. nel termine fissato, a pena di decadenza, "per tutte le categorie di lavoratori interessati", e poiché il d.m. 27 ottobre 2004, al fine di individuare i soggetti contemplati in quest'ultima disposizione, ha riprodotto la dizione utilizzata all'art. 3, comma 132, della l. 24 dicembre 2003 n. 350 , non si pone alcun problema di una sua eventuale disapplicazione.

Andando di diverso avviso Sez. 6-L, n. 14895/2015, Pagetta, Rv. 636230, che segue un orientamento inaugurato da Sez. 6-L, n. 24998/2014, Marotta, e riaffermato in Sez. 6-L, n. 05928/2015 e n. 07885/2015, Mancino, e da Sez. 6-L, n. 14903/2015, Arienzio, ritiene invece che la decadenza in oggetto si applicherebbe soltanto nei confronti dei lavoratori rientranti nell'ambito applicativo della riforma del 2003, perché la salvezza delle previgenti disposizioni, prevista in alcuni casi, non riguarderebbe solo la disciplina sostanziale dei benefici ma anche gli adempimenti formali per il loro conseguimento.

Ne conseguirebbe che, in tutti i casi ricadenti nel regime previgente in virtù di espressa previsione di legge, ed in particolare per i lavoratori esclusi in virtù del comma 6 bis dell'art. 47 della l. n. 326 del 2003, non opererebbe la decadenza "speciale" di cui al d.l. n. 269 del 2003 riferita alla domanda all'I.N.A.I.L., ma solo quella "generale" di cui all'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, riferita alla domanda all'I.N.P.S.

Quanto poi al d.m. 27.10.2004, si osserva che lo stesso, quale fonte regolamentare meramente attuativa, non può che muoversi nel solco tracciato dalla legge per cui, nella parte in cui, riferendo il termine di 180 giorni anche ai lavoratori ai quali si applica la disciplina previgente, ha introdotto un istituto eccezionale in contrasto con la fonte primaria, va necessariamente disapplicato.

Tale ultima ricostruzione è stata già criticata affermando che un conto è la individuazione dei soggetti che sono stati salvati dalle modifiche restrittive, altro è la questione di coloro che devono presentare domanda all'INAIL; la l. n. 350 del 2003, laddove stabilisce che restano valide le certificazione già rilasciate, intenderebbe solo esonerare dall'onere della presentazione della domanda chi avesse fatto già domanda all'INAIL, o addirittura ottenute le certificazioni, prima delle modifiche di cui al d.l. n. 269 del 2003, introducendo invece l'obbligo, per chi non l'avesse ancora fatta, quale sia il tipo di beneficio che ha diritto di conseguire in base alla disciplina di legge.

Questa interpretazione, si avverte, sarebbe l'unica compatibile con i successivi interventi normativi: il termine del 15.6.2015 viene infatti espressamente richiamato dalla l. 24 dicembre 2007, n. 247, che all'art. 1 comma 20, stabilisce che, nelle aziende interessate dagli atti d'indirizzo ministeriale, i benefici contributivi di cui all'art. 13, comma 8, possono essere oggetto di una nuova rivalutazione solo se ed in quanto i lavoratori abbiano effettuato la domanda entro il 15.6.2005, con conseguente conferma che anche per aver diritto al regime precedente bisogna aver fatto domanda all'INAIL entro quella data. [R. RIVERSO, SSM, Napoli, 2015].

5. La prescrizione.

Ulteriore corollario della natura autonoma del beneficio è la sottrazione al regime della imprescrittibilità del diritto a pensione e l'applicazione dell'ordinario termine di prescrizione decennale che, come chiarito in Sez. 6-L, n. 02351/2015, Marotta, Rv. 634542, seguita da numerose altre dello stesso segno, andrà ad incidere in modo definitivo sul diritto alla rivalutazione contributiva e non solo sui singoli ratei maggiorati.

Notoriamente in materia previdenziale, il diritto alla pensione, costituzionalmente tutelato, è ritenuto indisponibile, imprescrittibile e non assoggettabile a termini di decadenza, mentre sono soggetti a prescrizione e decadenza i soli ratei delle prestazioni previdenziali. ( cfr Sez. U, n. 10955/2002, Evangelista, Rv. 556221 e Sez. U, n. 09219/2010, Prestipino, Rv. 564093.

In tema di benefici da amianto, la tesi dell'applicabilità della prescrizione nel termine ordinario decennale al diritto alla rivalutazione contributiva è una diretta conseguenza della sua configurazione come diritto autonomo, sul presupposto che il lavoratore, a prescindere dalla questione se sia o meno pensionato e da quando, può da subito agire in giudizio, previa domanda amministrativa, per far valere il suo diritto alla rivalutazione.

Si precisa infatti che in materia non è validamente invocabile il principio di imprescrittibilità del diritto a pensione, in quanto vi è una ontologica differenza tra diritto alla rivalutazione contributiva e diritto alla pensione nonché diritto ai singoli ratei, e la prescrizione del diritto alla rivalutazione ben può essere definitiva perché non incide sulla pensione, né sui singoli ratei, ma solo sulla eventuale maggiorazione, se spettante.

Quanto poi al problema ulteriore della decorrenza, tenuto conto che l'assistito può agire in giudizio anche prima di essere andato in pensione, la S.C. ha considerato dirimente il momento della consapevolezza della esposizione ad amianto.

Sebbene l'art. 2935 c.c., nello stabilire che la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, si riferisca soltanto alla possibilità legale di far valere il diritto, quindi agli impedimenti di ordine giuridico e non già a quelli di mero fatto, rientrando in questi ultimi anche l'ignoranza del titolare del diritto, si è ritenuto, analogamente a quanto avviene per le malattie professionali, che quando il presupposto per l'esercizio del diritto è dalla stessa fattispecie legale ricollegato ad un "fatto" - esposizione all'amianto - è solo dal momento in cui tale fatto, quale presupposto di esistenza del diritto stesso, diviene oggettivamente percepibile e riconoscibile che può rilevare l'inerzia dell'interessato. [C. MAROTTA, Napoli, 2015].

Nelle fattispecie sino ad oggi esaminate in sede di legittimità si è ritenuto che tale consapevolezza esistesse certamente nel momento dell'avvenuto pensionamento, essendo già a tale data nota la lesione del diritto alla maggiorazione contributiva, e da tale data si è fatto decorrere il relativo termine prescrizionale.

È prevedibile che in concreto non sarà sempre agevole individuare con certezza il momento della consapevolezza, che dovrà estendersi non solo al "fatto" esposizione all'amianto ma anche alla sua durata ed alla sua natura qualificata e quindi alla presenza di tutti gli elementi costitutivi del diritto alla maggiorazione.

È evidente che coloro che contestano la configurabilità del diritto autonomo escludono anche l'applicabilità del termine di prescrizione alla rivalutazione contributiva nel suo complesso e propendono invece per una eventuale prescrizione quinquennale dei singoli ratei di cui è stata chiesta tardivamente la maggiorazione.

. BIBLIOGRAFIA

S. L. Gentile, Lavoratori esposti all'amianto: per una revisione degli effetti che il ritardo nell'azione produce sul diritto al risarcimento pensionistico – Nota a Cass. 7 marzo 2012 n. 3605, in Foro It., parte I, 2012, 2101;

S. L. Gentile, Il processo previdenziale, Giuffrè, Milano, 2015;

P. Ghinoy, Ancora un'ordinanza ex art. 375 c.p.c. della Cassazione sulla decadenza dalla domanda di rivalutazione contributiva per esposizione ad amianto. Spunti critici, in Rivista Italiana di Diritto del lavoro 2012, 2, 738;

C. Marotta, L'azione giudiziaria di cui al comma 8 art. 13 L. 257/92 e succ. mod.: questioni aperte in tema di domanda amministrativa, decadenza, prescrizione, Napoli, formazione permanente SSM, 16-17 aprile 2015;

R. Riverso, Nella torre di babele della decadenza previdenziale per l'amianto: cronistoria di un'ingiustizia, in Rivista giuridica del diritto del lavoro e della previdenza sociale, 2013, 1, 655;

R. Riverso, Amianto: decadenza dall'azione per i benefici previdenziali, in Diritto e pratica del lavoro, 2013, n. 15, 989;

R. Riverso, La decadenza dell'azione e la decadenza dal diritto per i c.d. benefici previdenziali amianto, Napoli, formazione permanente SSM, 16-17 aprile 2015.

  • contratto
  • proprietà immobiliare
  • fallimento

CAPITOLO XIII

IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO

(di Giuseppe Dongiacomo )

Sommario

1 I dati normativi. - 2 Il potere del curatore di scelta tra il subingresso e lo scioglimento del contratto preliminare. - 3 Il potere del curatore di sciogliere il contratto preliminare e la domanda di esecuzione in forma specifica: il contrasto giurisprudenziale. - 4 La soluzione delle Sezioni Unite. - BIBLIOGRAFIA

1. I dati normativi.

La legge fallimentare, nella sua stesura originaria, non si occupava della disciplina degli effetti del fallimento sul contratto preliminare: in tale testo normativo, l'unico accenno al contratto preliminare riguardava, infatti, l'ipotesi del preliminare trascritto ex art. 2645 bis c.c.: l'art. 72, comma 5, l.fall., introdotto con la legge 28 febbraio 1997, n. 30, prevedeva che <<qualora l'immobile sia stato oggetto di preliminare di vendita trascritto ai sensi dell'articolo 2645-bis del codice civile e il curatore … scelga lo scioglimento del contratto, l'acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto il risarcimento dei danno e gode del privilegio di cui all'art. 2775-bis del codice civile, a condizione che gli effetti della trascrizione del contratto preliminare non siano cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento>>.

L'art. 72 l.fall., così come riformulato con il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (ed applicabile alle procedure aperte a far data dal 16 luglio 2006), prevedeva espressamente che la norma dettata dal primo comma (che stabilisce il principio della sospensione del contratto fino a quando il curatore non dichiari di subentrare nel rapporto pendente ovvero di sciogliersi dal medesimo) trovasse applicazione anche al contratto preliminare, con salvezza, però, di quanto stabilito dall'art. 72 bis l.fall., il quale, a sua volta, prevedeva, al comma 2, che, nel caso in cui il curatore optasse per lo scioglimento, il (promissario) acquirente avesse il diritto di insinuare al passivo il suo (eventuale) credito alla restituzione di quanto prestato, con il privilegio previsto dall'art. 2775 bis c.c., a condizione che gli effetti della trascrizione del contratto preliminare non siano cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento a norma dell'art. 2645 bis c.c., ma senza poter far valere i diritto ai danni, ed, al comma 3, disciplinava l'ipotesi (particolare) dei contratti (anche preliminari) relativi ad immobili da costruire con espresso riferimento alla legge-delega 2 agosto 2004, n. 210, attuata con il d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122.

Il cd. decreto correttivo (d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169) ha ulteriormente modificato la normativa in materia non solo raccogliendo nell'art. 72 l.fall. l'intera disciplina dettata per il contratto preliminare di compravendita (che non abbia ad oggetto immobili da costruire: art. 72 bis l.fall. e artt. 1, lett. a), b) e d), 5 e 6 d.lgs. n. 122 del 2005) con l'aggiunta del comma 7, ma anche prevedendo, con l'introduzione del comma 8, la norma (applicabile ai procedimenti aperti dal 1 gennaio 2008: art. 22 d.lgs n. 169 del 2007) per cui la disposizione del primo comma dell'art. 72 (che riconosce al curatore il potere di scelta tra subingresso e scioglimento del rapporto) non si applica <<al contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell'art. 2645-bis del codice civile avente ad oggetto un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l'abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado>> ovvero, come aggiunto dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con la legge 7 agosto 2012, n. 134, <<un immobile ad uso non abitativo destinato a costituire destinato a costituire la sede principale dell'attività d'impresa dell'acquirente>>.

2. Il potere del curatore di scelta tra il subingresso e lo scioglimento del contratto preliminare.

Nel regime in vigore prima della riforma, l'opinione più diffusa riteneva che, in caso di fallimento del promittente venditore, trovasse applicazione la norma prevista dall'art. 72, comma 4, testo originario, l.fall., per la vendita che non avesse determinato al momento del fallimento il trasferimento della proprietà, riconoscendo, quindi, al curatore la facoltà di scegliere tra il subentro nel rapporto pendente (con il conseguente obbligo del contraente in bonis di stipulare il contratto definitivo ed il diritto del curatore, in difetto, di agire in giudizio a norma dell'art. 2932 c.c.) e lo scioglimento dello stesso, con le conseguenti obbligazioni restitutorie delle eventuali prestazioni eseguite, come sopra descritte: sempre che, naturalmente, il contratto non fosse stato, al momento del fallimento, già eseguito con la stipulazione del contratto definitivo (ovvero con il passaggio in giudicato della sentenza di esecuzione in forma specifica a norma dell'art. 2932 c.c.) ed il conseguente trasferimento della proprietà, ed a prescindere, invece, dalla circostanza che il contratto avesse avuto anticipata esecuzione con la consegna del bene ed il pagamento, parziale o integrale, del prezzo pattuito, trattandosi di effetti meramente anticipatori dell'assetto finale di interessi che trova nel solo contratto definitivo il suo titolo giuridico (cd. preliminare di vendita ad effetti anticipati).

La legge n. 30 del 1997 ha, in sostanza, confermato tale assunto, introducendo, nell'art. 72 l.fall., il comma 5 (divenuto – a seguito della riforma attuata con il d.lgs. n. 5 del 2006 – il comma 7 dell'art. 72 l. fall. ed il comma 2 dell'art. 72 bis l.fall.), secondo cui <<qualora l'immobile sia stato oggetto di preliminare di vendita trascritto ai sensi dell'art. 2645-bis del codice civile e il curatore, ai sensi del precedente comma, scelga lo scioglimento del contratto, l'acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto risarcimento del danno e gode del privilegio di cui all'art. 2775-bis del codice civile a condizione che gli effetti della trascrizione del preliminare non siano cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento>>.

Tale norma (che è stata, nella sostanza, confermata anche con il decreto correttivo, che, dopo averla rimossa dall'art. 72 bis l.fall., ha stabilito, al comma 7 dell'art. 72 l.fall., che <<in caso di scioglimento del contratto preliminare di vendita immobiliare trascritto ai sensi dell'articolo 2645-bis del codice civile, l'acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto il risarcimento del danno e gode del privilegio di cui all'art. 2775-bis del codice civile a condizione che gli effetti della trascrizione del preliminare non sino cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento>>), in effetti, regolando gli effetti restitutori che conseguono allo scioglimento del contratto preliminare da parte del curatore, inequivocamente ammette che il curatore, in caso di fallimento del promittente venditore, ha il potere, appunto, di scegliere se subentrare nel rapporto pendente (ed opponibile) ovvero di provocarne lo scioglimento.

La riforma della legge fallimentare ha confermato tale disciplina.

Il nuovo testo dell'art. 72, comma 3, l.fall. (sia pur facendo salva la norma dettata dall'art. 72 bis l.fall. in tema di contratti preliminari relativi ad immobili da costruire) ha, infatti, esteso al contratto preliminare (e, quindi, anche al preliminare di compravendita) il principio stabilito al comma 1, vale a dire la sospensione del rapporto fino a che il curatore non dichiari di subentrare nel rapporto o di sciogliersi dal medesimo.

Nello stesso senso, del resto, depone il comma 7 dell'art. 72 l.fall., prima citato, così come introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006, per cui <<… qualora l'immobile sia stato l'oggetto di preliminare di vendita trascritta ai sensi dell'articolo 2645 bis codice civile e il curatore … scelga lo scioglimento del contratto, l'acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto il risarcimento del danno e gode del privilegio di cui all'articolo 2775 bis del codice civile a condizione che gli effetti della trascrizione del contratto preliminare non siano cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento>>, nonché (sia pur meno chiaramente) lo stesso comma 7 dell'art. 72 l.fall., anch'esso citato, così come riformulato dal d.lgs n. 169 del 2007, a norma del quale <<in caso di scioglimento del contratto preliminare di vendita immobiliare (evidentemente a norma del comma 3) trascritto ai sensi dell'articolo 2645-bis del codice civile, l'acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto il risarcimento del danno e gode del privilegio di cui all'art. 2775 bis del codice civile a condizione che gli effetti della trascrizione del preliminare non sino cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento>>.

Il d.lgs. n. 169 del 2007 ha, tuttavia, disposto, ma con esclusivo riguardo alle procedure concorsuali aperte da far data dall'1 gennaio 2008, che la norma prevista dall'art. 72, comma 1, legge fall., vale a dire la sospensione del rapporto ed il connesso diritto del curatore di scelta tra subingresso e scioglimento, non trova applicazione in caso di contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell'art. 2645 bis c.c., che abbia ad oggetto un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l'abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado, a condizione, però, che gli effetti della trascrizione non siano cessati anteriormente alla sentenza dichiarativa di fallimento (art. 72, comma 8, l.fall.).

La stessa tutela è stata estesa, con il d.l. n. 83 del 2012, convertito con la legge n. 134 del 2012, anche ai contratti preliminari aventi ad oggetto un immobile ad uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell'attività di impresa dell'acquirente: in presenza delle indicate condizioni, quindi, e cioè la trascrizione del preliminare (e la sua perdurante efficacia al momento della sentenza dichiarativa) e la destinazione dell'immobile ad uso abitativo ad abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado ovvero la destinazione dell'immobile ad uso non abitativo a sede principale dell'attività di impresa dell'acquirente, il curatore perde il diritto di sciogliersi dal contratto preliminare e resta, come tale, soggetto alla eventuale richiesta del contraente in bonis di stipulare il contratto definitivo, che, pertanto, in caso di inadempimento, può azionare il rimedio previsto dall'art. 2932 c.c.

3. Il potere del curatore di sciogliere il contratto preliminare e la domanda di esecuzione in forma specifica: il contrasto giurisprudenziale.

Si è posto, tuttavia, il problema di stabilire se ed in che limiti il curatore possa avvalersi del potere di sciogliersi dal contratto preliminare quando, prima del fallimento del promittente venditore, il promissario compratore abbia proposto, a norma dell'art. 2932 c.c., la domanda di esecuzione in forma specifica dell'obbligo di stipulare un contratto di compravendita immobiliare, e l'abbia trascritta a norma dell'art. 2652, n. 2, c.c.

L'opinione che, per lungo tempo, ha largamente prevalso ha ritenuto che, nell'ipotesi in esame, il curatore del fallimento del promittente venditore rimane titolare del potere di provocare lo scioglimento del contratto preliminare: la trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica del contratto, a norma degli artt. 2932 e 2652, n. 2, c.c., in data anteriore alla sentenza dichiarativa, infatti, ha, in questa prospettiva, il solo effetto di rendere opponibile (a norma del comb. disp. artt. 45 l.fall., 2652, n. 2, e 2915, comma 2, c.c.) la domanda giudiziale (e, per l'effetto, il processo) al curatore [ANDRIOLI, 1967, 399, 400] il quale, pertanto, una volta che il processo sia stato riassunto nei suoi confronti (artt. 43 l.fall. e 299 c.p.c.), ha l'onere, se vuole evitare l'accoglimento della domanda, di (costituirsi e di) eccepirvi (ove ancora possibile: altrimenti, in sede stragiudiziale, purché prima del passaggio in giudicato della sentenza ex art. 2932 c.c., che coprirebbe, come è noto, il dedotto e il deducibile) lo scioglimento del contratto preliminare ex art. 72, comma 4, l.fall., provocando, in tal modo, a fronte del venire meno del titolo invocato a suo fondamento, il rigetto della domanda proposta.

Così, in particolare, ha opinato Sez. 1, n. 03001/1982, Lipari, Rv. 420923, la quale, in motivazione, ha ritenuto che <<… ogni qual volta il fallimento del promittente sopraggiunga nel corso del giudizio diretto all'esecuzione dell'obbligo di concludere il contratto, e non possa invocarsi de plano l'inopponibilità ex art. 45 l.fall., perché la domanda giudiziale è stata resa tempestivamente pubblica ex art. 2652 n. 2 cod.civ., non si verifica la paralisi ope legis della potestas iudicandi del giudice adito, … Ne consegue, …che, nonostante la sopravvenienza del fallimento, quel processo prosegue e apporterebbe alla emanazione di una sentenza di merito di accoglimento della domanda dell'attore se il curatore medesimo non provvedesse ad esercitare il potere che gli è attribuito dalla norma dell'art. 72 l.fall. da qualificare, come eccezione in senso stretto, assoggettata alle regole all'uopo dettate dalle norme procedurali. Ciò comporta che la domanda di esecuzione in forma specifica, la quale a prescindere dalla deduzione del contro diritto del curatore avrebbe dovuto essere accolta (non rilevando in senso contrario la sopravvenienza del fallimento), risulta infondata se ed in quanto il curatore si avvalga concretamente in giudizio del relativo potere, proponendo l'eccezione che viene giudicata fondata dal giudice, previo riscontro della ricorrenza in concreto degli estremi di cui all'art. 72 comma 4 l.fall. cit. … Per converso se l'eccezione non viene tempestivamente formulata il giudice, il quale … non può certo pronunciare d'ufficio il rigetto della domanda del promissario se il curatore resta contumace, oppure, comparendo, si astiene dal far valere, in via di eccezione, il potere processuale che la legge gli attribuisce, consentendogli di paralizzare la esecuzione, così evidenziando il proposito di non avvalersi della opzione di opposto segno a favore dello scioglimento, non deve dichiarare improponibile … la domanda, ma è tenuto, nel rispetto della legge, a portare avanti il processo su stimolo del promissario medesimo, emanando una sentenza di accoglimento destinata ad avere effetti anche in pregiudizio della stessa>>.

In definitiva, conclude la sentenza, <<il curatore che trova pendente la domanda giudiziale del promissario debitamente trascritta ex art. 2652 n. 2 cod.civ. prima della dichiarazione di fallimento, non si può limitare, dal punto di vista formale ad invocare la pendenza del fallimento per paralizzare l'ulteriore corso; né per evitare l'opponibilità della emananda sentenza può semplicemente richiamarsi al difetto della formalità necessaria ex art. 45 l.fall. rapportandola alla sentenza, anziché alla domanda… perché in tale situazione operano le regole generali sugli effetti della trascrizione le quali comporterebbero, a seguito della emanazione della sentenza di accoglimento, la prevalenza del promissario, che ha reso pubblica tempestivamente la propria domanda, sulla massa. La vicenda processuale risulta invece correttamente centrata nella disposizione dell'art. 72 comma 4 l.fall. considerato nel dinamismo del suo innestarsi nel processo pendente sub specie di eccezione in senso stretto. Poiché l'effetto di prenotazione in tanto scatta in quanto alla domanda trascritta si venga a saldare una sentenza di accoglimento, ogni qualvolta l'ordinamento offra alla parte un contraddittorio che impedisca di giungere ad una pronuncia siffatta, il meccanismo di salvaguardia a suo tempo innestato resta paralizzato se ed in quanto il curatore eserciti nel processo il potere di scioglimento, che impedisce al giudice di pronunciare una sentenza siffatta e gli impone di dichiarare lo scioglimento del vincolo scaturente dal contratto preliminare invocato in giudizio per conseguire in via giurisdizionale gli effetti del trasferimento correlato alla mancata stipula di quello definitivo, e quindi rigettare la domanda di esecuzione in forma specifica …>>.

La sentenza è stata così massimata: <<In tema di preliminare di compravendita immobiliare, qualora il promissario abbia instaurato giudizio per l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere il contratto definitivo, ed abbia provveduto a trascrivere la relativa domanda, la sopravvenienza del fallimento del promittente non determina una situazione di improcedibilità, né legittima il curatore a contestare la opponibilità dell'emananda sentenza per il solo fatto della sua posteriorità rispetto al fallimento, tenuto conto degli effetti della suddetta trascrizione in caso di accoglimento della domanda (art. 2652 c.c.), ma il curatore medesimo può conseguire il rigetto di tale domanda avvalendosi – in via di eccezione in senso stretto – della facoltà di scioglimento del contratto conferitagli dall'art. 72 quarto comma del R.d. 16 marzo 1942 n. 267, il quale trova applicazione non soltanto con riguardo alla vendita definitiva con effetti obbligatori non ancora eseguita, ma anche con riguardo al preliminare di vendita non ancora seguito dalla stipulazione del definitivo, ancorché il promissario abbia già provveduto al pagamento del prezzo.>>.

La giurisprudenza della Corte di cassazione, in seguito, ha, in netta prevalenza, ribadito l'orientamento espresso nella sentenza sopra esposta, affermando, appunto, che la trascrizione della domanda ex art. 2932 c.c. prima del fallimento del promittente venditore non impedisce al curatore di scegliere tra il subingresso e lo scioglimento del rapporto contrattuale pendente (indipendentemente dal fatto che il promittente acquirente abbia per parte sua interamente eseguito la prestazione, pagando interamente il prezzo o facendone offerta nei modi di legge) ma con l'onere, onde evitare l'accoglimento della domanda (a lui, come detto, opponibile), di esercitare tale potere fino a quando, con effetti a lui opponibili, non sia stato stipulato il contratto definitivo ovvero sia passata in giudicato la sentenza pronunciata a norma dell'art. 2932 c.c.

In tal senso, in particolare, si sono pronunciate Sez. U, 00239/1999, Finocchiaro, Rv. 525322, per cui <<in relazione alla previsione della norma dell'art. 2932 c.c., secondo cui l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere un contratto è ammessa soltanto "qualora sia possibile", si deve ritenere che il fallimento del promissario venditore, facendo venir meno nel fallito il potere di disposizione e di amministrazione del patrimonio e bloccando la situazione patrimoniale qual era alla data in cui venne pronunciata la dichiarazione di fallimento, impedisca che possa avere corso l'esecuzione specifica della detta promessa, poiché essa determinerebbe un mutamento della situazione patrimoniale ed in particolare un effetto traslativo, nonostante lo spossessamento prodotto dalla sentenza dichiarativa del fallimento, restando, d'altro canto, ininfluente la circostanza che prima del fallimento sia stata trascritta la domanda ex art. 2932 c.c., in quanto essa non può impedire l'apprensione del bene promesso in vendita da parte della curatela fallimentare, giacché gli effetti di tale trascrizione possono spiegarsi soltanto condizionatamente alla trascrizione della sentenza di accoglimento della domanda, che in questo caso non può essere pronunciata>>, e Sez. 2, n. 04888/2007, Mensitieri, Rv. 595388", per cui "… nel caso di fallimento del promittente venditore anche quando il promissario acquirente abbia già proposto domanda giudiziale per l'adempimento in forma specifica ai sensi dell'art. 2932 c.c. ed abbia, inoltre, trascritto la domanda stessa, resta impregiudicata per il curatore intervenuto – ai sensi dell'art. 72 del r.d. n. 267 del 1942 (c.d. legge fallimentare) – la facoltà di dare esecuzione al contratto, oppure (come nel caso di specie) di chiederne lo scioglimento.

Gli argomenti addotti a sostegno di tale conclusione sono, in sostanza, per un verso, che la trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica prevista dall'art. 2932 c.c. prima del fallimento del promittente venditore è opponibile al curatore a norma degli artt. 45 l.fall., 2652, n. 2 e 2915, comma 2, c.c., con la conseguenza che il processo può validamente proseguire nei suoi confronti (previa riassunzione: artt. 43 l.fall. e 299 c.p.c.) e che la sentenza di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c., pur se pronunciata dopo il fallimento, è senz'altro efficace nei confronti dei creditori, e, per altro verso, che il curatore può dichiarare, purché risulti nel processo, la propria scelta di sciogliere il rapporto contrattuale, così determinando il rigetto della domanda: la scelta del curatore di recedere dal contratto determina, infatti, lo scioglimento ex tunc del rapporto contrattuale (pur se in tutto o in parte adempiuto sul piano fattuale) dando così luogo ad un fatto impeditivo, sul piano sostanziale, all'accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica proposta (che deve essere, per l'effetto, respinta), a nulla sul punto potendo rilevare la sua previa trascrizione, il cui effetto prenotativo, in effetti, presuppone, come si evince dall'art. 2652, n. 2, c.c., il suo accoglimento (a mezzo di una sentenza che a norma dell'art. 2643, n. 14, c.c., deve essere a sua volta trascritta).

In tale ricostruzione, quindi, <<la domanda di esecuzione in forma specifica dell'obbligo a contrarre del promissario acquirente, trascritta anteriormente alla dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'art. 2652, n. 2, cod.civ. – poiché l'adempimento di tale formalità non incide sulla facoltà del curatore di recedere ex art. 72 l.fall. ma determina soltanto (ai sensi dell'art. 45 l.fall.) l'opponibilità alla massa dei creditori della domanda stessa e della eventuale sentenza di accoglimento, sempre che il curatore abbia scelto l'esecuzione del contratto, invece che il suo scioglimento – può essere paralizzata dalla scelta del curatore di optare per lo scioglimento del contratto, scelta che si configura come elemento ostativo all'accoglimento di quella domanda>> [FABIANI, 2004, 3040].

Non sono, però, mancate autorevoli opinioni contrarie.

In una prima prospettiva, se il promissario acquirente ha proposto e trascritto la domanda ex art. 2932 c.c. ed ha integralmente pagato (od offerto di pagare il prezzo), il contratto è, da parte sua, interamente eseguito, con la conseguente sottrazione dello stesso alla disciplina dei rapporti pendenti ed al potere del curatore di provocarne lo scioglimento [COLESANTI, 1972, 264 ss].

In altra prospettiva, invece, si è ritenuto che, una volta che la domanda di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare sia stata trascritta, a norma degli artt. 2932 e 2652, n. 2, prima del fallimento, non solo il giudizio è opponibile al curatore, al pari della sentenza di accoglimento, ma anche che quest'ultima, retroagendo (ed escludendo, quindi, il bene immobile dal patrimonio del promittente venditore, poi fallito, sin dal) momento della trascrizione della domanda, impedisce al curatore di avvalersi del potere previsto dall'art. 72 l.fall. di provocare lo scioglimento del rapporto.

Tale soluzione è stata adottata da Sez. U, n. 12505/2004, Marziale, Rv. 574280, la quale, in particolare, ha rilevato come <<il "meccanismo pubblicitario" previsto dall'art. 2652, n. 2, c.c. si articola in due momenti: quello iniziale, costituito dalla trascrizione della domanda giudiziale e quello finale, rappresentato dalla trascrizione della sentenza di accoglimento. È indubbio che la particolare efficacia della trascrizione della domanda resta subordinata alla trascrizione della sentenza e può, pertanto, manifestarsi solo se tale adempimento viene effettuato. Ma è non meno certo che gli effetti della sentenza di accoglimento, quando sia trascritta, retroagiscono alla data della trascrizione della domanda…Non può quindi esservi dubbio che sia la trascrizione della domanda (e non della sentenza) ad assumere rilievo decisivo ai fini dell'opponibilità ai terzi del trasferimento attuato con la pronuncia, ai sensi dell'art. 2932 cod.civ., della sentenza che produce gli effetti del contratto "non concluso". E che l'adempimento di tale formalità sia sufficiente a far prevalere il diritto acquistato dall'attore, una volta trascritta la sentenza, sui diritti contrari o incompatibili venutisi nel frattempo a creare in capo al terzo… Il sistema del codice civile circa gli effetti della trascrizione delle domande giudiziali trova il suo completamento nell'art. 2915, secondo comma, c.c., che risolve il conflitto tra il creditore pignorante (e i creditori che intervengono nel processo di espropriazione) e i terzi, i cui diritti siano accertati con sentenza in epoca successiva al pignoramento, in base alla data della trascrizione della domanda e, quindi, adottando lo stesso criterio accolto dall'art. 2652 c.c. e dall'art. 2653 c.c.. Anche in questo caso, pertanto, la trascrizione della domanda introduttiva del giudizio ha l'effetto di "prenotare" gli effetti della futura sentenza di accoglimento, che saranno pertanto opponibili ai creditori procedenti se la trascrizione della domanda è stata effettuata prima del pignoramento.… L'art. 45 l.fall., non si pone in antitesi con la disciplina appena illustrata, ma la integra (così, in particolare: Cass. 1/75 e 101/90, citt.). Con tale disposizione si è statuito, infatti, che "le formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi", (solo) se compiute dopo la data della dichiarazione di fallimento "sono senza effetto rispetto ai creditori". Il che lascia intendere che, nel caso opposto, tali formalità sono invece opponibili. Nella sentenza 1/75, appena richiamata, si osserva, e il rilievo non può non essere condiviso, che il riferimento agli adempimenti necessari per l'opponibilità degli "atti" ai terzi si traduce nella formulazione di un criterio assolutamente generico, il quale richiede, per poter essere concretamente applicato, "di essere puntualmente specificato" a mezzo di quelle norme che, di volta in volta, a seconda della fattispecie considerata, stabiliscono quali siano le "formalità necessarie".

L'unica particolarità è data dalla circostanza che, non essendo la sentenza dichiarativa di fallimento oggetto di trascrizione o di iscrizione, l'anteriorità dell'atto dovrà essere verificata, come del resto risulta in modo inequivoco dalla formulazione della disposizione in esame, in relazione alla data di deposito della sentenza dichiarativa di fallimento e non a quella della sua annotazione nei pubblici registri ai sensi dell'art. 88, secondo comma, l.fall., essendo tale adempimento previsto per finalità di mera pubblicità notizia (Cass. 1/75; 101/90, citt.). … La giurisprudenza di questa Corte è univoca nel ritenere che l'art. 45 l.fall., si coordini (non solo con gli artt. 2652 e 2653 c.c., ma anche) con l'art. 2915, secondo comma, c.c. e che, pertanto, sono opponibili ai creditori fallimentari (non solo gli atti posti in essere e trascritti dal fallito prima della dichiarazione di fallimento, ma anche) le sentenze pronunciate dopo tale data, se le relative domande sono state in precedenza trascritte … gli effetti derivanti dalla sentenza di accoglimento della domanda trascritta, pronunciata ai sensi dell'art. 2932 cod.civ., retroagiscono alla data di trascrizione della domanda … se, quindi, la trascrizione è stata eseguita prima della dichiarazione di fallimento deve ritenersi che il trasferimento della proprietà del bene promesso in vendita sia avvenuto prima di tale momento, integrando gli estremi della situazione considerata dallo stesso art. 72, quarto comma, l. fall, come ostativa all'esercizio della facoltà di recesso da parte del curatore…>>.

La sentenza è stata, sul punto, così massimata: <<Quando la domanda diretta ad ottenere l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere il contratto è stata trascritta prima della dichiarazione di fallimento, la sentenza che l'accoglie, anche se trascritta successivamente, è opponibile alla massa dei creditori e impedisce l'apprensione del bene da parte del curatore del contraente fallito, che non può quindi avvalersi del potere di scioglimento accordatogli, in via generale, dall'art. 72 della legge fallimentare.>>.

La soluzione esposta dalla sentenza esaminata è stata, in seguito, dichiaratamente condivisa da Sez. 1, n. 15218/2010, Piccininni, Rv. 613712, da Sez. 1, n. 27093/2011, Piccininni, Rv. 620072 e da Sez. 2, n. 16160/2010, Piccialli, Rv. 613933.

4. La soluzione delle Sezioni Unite.

Sez. U, n. 18131/2015, Vivaldi, Rv. 636343, a composizione dell'indicato contrato, hanno adottato una soluzione intermedia.

A norma dell'art. 2652, n. 2, c.c., la trascrizione della sentenza che accolga la domanda diretta a ottenere l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre <<prevale sulle trascrizioni e iscrizioni eseguite contro il convenuto dopo la trascrizione della domanda>>, ivi compresa anche l'iscrizione nel registro delle imprese della sentenza di fallimento a norma degli artt. 16, ult. comma, e 17 l.fall.

A seguito della riforma del 2006, infatti, tale pubblicità non assolve più, come nel regime previgente, ad una mera funzione di pubblicità notizia avendo, piuttosto, assunto, a norma dell'art. 16, ult. comma, l.fall. (secondo cui la sentenza di fallimento produce effetti "nei riguardi dei terzi" solo dalla data della sua iscrizione nel registro delle imprese), la natura di pubblicità dichiarativa (come tale dovendosi qualificare ogni pubblicità dalla quale dipende l'efficacia dell'atto pubblicato nei confronti dei terzi, e cioè la sua opponibilità) e rileva, quindi, oltre che a fini di cui all'art. 44 l.fall., anche ai fini della efficacia ex art. 45 l.fall. e, per l'effetto, dei conflitti che tale norma risolve, a partire da quelli relativi alla trascrizione delle domande giudiziali: le sentenze di accoglimento, quindi, pur se pronunciate dopo, sono opponibili al curatore se sono state trascritte prima dell'iscrizione del fallimento nel registro delle imprese.

In definitiva, se la domanda di esecuzione in forma specifica è stata proposta prima del fallimento del promittente venditore e riassunta nei confronti del curatore, quest'ultimo (parte del giudizio ex art. 43 l.fall. ma terzo rispetto al rapporto controverso) rimane, come tale, senz'altro titolare del potere di scioglimento del contratto (anche se non trascritto) che l'art. 72 l. fall. gli attribuisce e può (anzi: deve) esercitarlo nel relativo giudizio.

Se, però, la domanda è stata trascritta prima del fallimento, l'eccezione di recesso proposta dal curatore, è inopponibile all'attore a norma dell'art. 2652, n. 2, c.c.

La trascrizione della domanda ex art. 2932 c.c. prima del fallimento (rectius: dopo la sua iscrizione nel registro delle imprese) non impedisce, quindi, al curatore di recedere dal contratto preliminare: gli impedisce, piuttosto, di recedere con effetti nei confronti del promissario compratore che ha agito in giudizio.

Il giudice, pertanto, può senz'altro accogliere la domanda pur a fronte della scelta del curatore di recedere dal contratto: con una sentenza che, a norma dell'art. 2652, n. 2, c.c., se trascritta, retroagisce alla trascrizione della domanda stessa e sottrae, in modo opponibile al curatore, il bene dalla massa attiva del fallimento.

Naturalmente, se la domanda trascritta non viene accolta, la caducazione dell'effetto prenotativo della trascrizione della domanda comporta, ad ogni possibile effetto, l'opponibilità all'attore della sentenza di fallimento e, quindi, l'efficacia nei suoi confronti della scelta del curatore di sciogliere il rapporto.

In definitiva, nel caso in cui il promissario acquirente abbia proposto la domanda che mira a conseguire una sentenza che produca "gli effetti del contratto non concluso" a norma dell'art. 2932 c.c., il curatore, pur se il giudizio sia stato riassunto nei suoi confronti (art. 43 l.fall.) e fino a quando, in tal caso, non sia stato definito con il passaggio in giudicato della sentenza, può, in ogni momento (purché, ovviamente, risulti nel giudizio), efficacemente avvalersi della facoltà, di ordine sostanziale, di scegliere se subentrare ovvero di provocare lo scioglimento del rapporto a norma dell'art. 72 l.fall.. Se, però, la domanda di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare è stata trascritta, a norma dell'art. 2652, n. 2, c.c., prima dell'iscrizione della sentenza di fallimento nel registro delle imprese, l'esercizio di tale facoltà è inopponibile all'attore promissario acquirente e, quindi, non impedisce al giudice di pronunciarsi, nel merito, sulla domanda medesima fermo restando, però, che il bene immobile è definitivamente sottratto alla massa attiva solo se la domanda è successivamente accolta e la relativa sentenza sia trascritta.

. BIBLIOGRAFIA

Andrioli, Fallimento, in Enc. Dir., vol. XVI, 1967, 397 ss, 399, 400

Fabiani, Osservazioni a Cass. sez. un. n. 12505 del 2004, in Foro it., 2004, I, 3040

Colesanti, Fallimento e trascrizione delle domande giudiziali, Milano, 1972

  • giurisdizione tributaria

CAPITOLO XIV

IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO.

(di Andrea Nocera )

Sommario

1 Il contraddittorio endoprocedimentale nella sentenza Sez. U, 24823/2015. - 2 Il dato positivo di riferimento. L'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 nella applicazione giurisprudenziale. - 3 Il principio del contraddittorio endoprocedimentale nella giurisprudenza delle Sezioni Unite. La composizione di un'apparente distonia. - 4 La ricerca di un autonomo fondamento del principio nell'ordinamento interno. - 5 Il principio del contraddittorio nel diritto comunitario. - 6 La divaricazione applicativa del principio. L'obbligo del contraddittorio procedimentale nei tributi cd. "non armonizzati" ed in quelli "armonizzati". - 7 La sanzione dell'invalidità dell'atto impositivo per la violazione del principio del contraddittorio negli accertamenti concernenti tributi cd. "armonizzati". - BIBLIOGRAFIA

1. Il contraddittorio endoprocedimentale nella sentenza Sez. U, 24823/2015.

Con la sentenza Sez. U, n. 24823/2015, Cappabianca, sono stati delineati il fondamento, la portata ed i limiti applicativi del principio del contraddittorio endoprocedimentale nell'accertamento tributario, nelle forme tipiche attraverso le quali esso si attua. Con la citata pronuncia si è dato puntuale risposta e soluzione alla complessa questione di massima di particolare importanza, superando i dubbi applicativi – e le opzioni interpretative – ivi proposti e, al contempo, tracciando una linea di sostanziale continuità con i precedenti arresti, anche recenti, delle Sezioni Unite in subiecta materia.

Per evidenti ragioni di approccio sistematico alla questione giova riportare sinteticamente il quesito posto all'attenzione delle Sezioni Unite: se il principio affermato con sentenza delle Sez. U, n. 19667/2014, Botta, Rv. 632586 secondo cui nella materia tributaria, ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente, l'Amministrazione sarebbe tenuta ad attivare, a pena di invalidità dell'atto, il contraddittorio endoprocedimentale <<indipendentemente dal fatto che ciò sia previsto espressamente da norma positiva>> abbia fondamento nell'ordinamento nazionale o esclusivamente nel diritto comunitario e quale ne sia la portata applicativa; se, quindi, le garanzie previste dall'art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000 n. 212 siano applicabili, in via analogica, nei procedimenti di verifica fiscale cd. "a tavolino", effettuata presso la sede dell'Ufficio in base alle notizie e alla relativa documentazione di supporto acquisite presso pubbliche amministrazioni o presso terzi o fornite dallo stesso contribuente mediante la compilazione di questionari o in sede di colloquio presso l'Ufficio; se, in tali casi, al mancato rispetto della norma consegua in ogni caso l'invalidità dell'avviso di accertamento o se, invece, in applicazione dei principi sul contraddittorio procedimentale di matrice eurounitaria, l'atto debba essere giudicato invalido solo se, in mancanza di tale violazione, il procedimento avrebbe potuto avere un esito diverso.

Il quesito investe in via principale l'ambito di operatività delle garanzie endoprocedimentali di cui all'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 (formazione di un verbale di chiusura delle operazioni e rilascio di copia al contribuente; rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni per l'emissione dell'avviso di accertamento), normativamente circoscritte alle ipotesi di cd. "accertamenti a tavolino", ma suscettibili di estensione alla luce della citata sentenza Sez. U, n. 19667/2014, che, in funzione della necessità di tutela e garanzia del diritto di difesa del contribuente, ha riconosciuto l'esistenza di un obbligo di attivazione in fase precontenziosa del contraddittorio "endoprocedimentale" ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente medesimo, forma procedimentale che risponde ad <<un principio fondamentale immanente nell'ordinamento cui dare attuazione anche in difetto di una espressa e specifica previsione normativa. Principio il cui rispetto è dovuto da parte dell'amministrazione indipendentemente dal fatto che ciò sia previsto espressamente da una norma positiva e la cui violazione determina la nullità dell'atto lesivo che sia stato adottato senza la preventiva comunicazione al destinatario>>.

2. Il dato positivo di riferimento. L'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 nella applicazione giurisprudenziale.

La legge n. 212 del 2000 (cd. Statuto dei diritti del contribuente) individua i diritti e le garanzie riconosciuti ai contribuenti in occasione di attività di accertamento e di verifica fiscale svolte dall'Amministrazione finanziaria. La disciplina dettata dall'impianto normativo dà applicazione ai principi costituzionali di eguaglianza, legalità, capacità contributiva, imparzialità ed efficienza amministrativa e, come tale, esprime principi generali dell'ordinamento tributario, derogabili o modificabili solo espressamente, e mai attraverso leggi speciali (art. 1). Ne deriva che le disposizioni dell'art. 12 della suddetta legge, nel riconoscere i diritti e le garanzie del contribuente soggetto ad attività di verifica fiscale, fissano principi, espressi in modo diretto o altrimenti desumibili, caratterizzati da "superiorità assiologia", che svolgono una funzione di orientamento dell'interprete per la migliore garanzia della posizione giuridica del contribuente.

In particolare, il comma 7 dell'art. 12, l. 212 del 2000, che investe la tematica processuale posta all'attenzione della Corte nel ricorso, dispone che, <<…nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che devono essere valutate dagli uffici impositori. L'avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza di detto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza>>.

La norma ha un duplice contenuto precettivo. In primo luogo, riconosce al contribuente soggetto ad attività di verifica fiscale il diritto di <<comunicare osservazioni e richieste>> prima che gli uffici impositori assumano provvedimenti capaci di incidere sulla sua sfera giuridica. Il riconoscimento di tale facoltà partecipativa in favore del contribuente costituisce espressione, oltre che del principio di cooperazione alla funzione di accertamento, del diritto di difesa del contribuente, che, attraverso l'esposizione di puntuali e fondate deduzioni logico–giuridiche, agisce per prevenire l'emissione dell'atto impositivo pregiudizievole per le proprie ragioni.

La facoltà di comunicare osservazioni e richieste, è ancorato dalla norma alla formalizzazione dell'attività istruttoria nel <<processo verbale di chiusura delle operazioni di verifica>> o in un diverso atto endoprocedimentale conclusivo, quale il processo verbale di constatazione (hinc, p.v.c.), atto tipizzato, redatto in contraddittorio col contribuente o con chi eventualmente lo rappresenta, di natura endoprocedimentale, presupposto rispetto all'eventuale avviso di accertamento, che è l'atto impositivo a rilevanza esterna.

In secondo luogo, la norma prevede la garanzia di uno spatium deliberandi di 60 giorni per l'adozione dell'atto impositivo (avviso di accertamento), che decorre dalla consegna del processo verbale di constatazione. La prevalente dottrina [MARONGIU, 2010, 77] individua nella fattispecie un'ipotesi di "paralisi" o "sospensione" del potere di accertamento, funzionale allo svolgimento del diritto di difesa preventiva del contribuente. Nella fase istruttoria, infatti, l'Ufficio finanziario è tenuto a valutare tutte le deduzioni formulate dal contribuente in sede di contraddittorio amministrativo preventivo alla cristallizzazione del processo verbale di constatazione, nonché le richieste e le osservazioni eventualmente proposte dal medesimo in pendenza del termine dilatorio prescritto dall'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000. Di qui la deduzione della illegittimità dell'atto di accertamento, perchè emanato in carenza di potere, nel caso di notificazione prima del decorso del termine di sessanta giorni.

La norma costituisce espressione del principio di cooperazione nei rapporti tra gli Uffici fiscali ed i contribuenti e, in funzione di una corretta applicazione delle disposizioni tributarie nell'ambito del procedimento tributario finalizzato all'accertamento, pone uno specifico obbligo di attivazione del contraddittorio nella fase istruttoria dell'attività di verifica e controllo svolta dall'Amministrazione finanziaria, che si sostanzia nel riconoscimento del diritto del contribuente a formulare osservazioni e richieste, entro il prescritto termine di sessanta giorni, e nella previsione di un termine dilatorio di 60 giorni per l'adozione dell'avviso di accertamento.

La disposizione non sembra assumere, però, la natura di clausola generale. Gli obblighi di attuazione del contraddittorio endoprocedimentale sono dettati, infatti, con riferimento alle sole ipotesi di <<accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all'esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali>> e la formula adottata dal legislatore è in sintonia con la lettura dell'intero articolo, le cui disposizioni appaiono funzionali ad assicurare una piena tutela "partecipativa" del contribuente nelle ipotesi di verifiche in loco.

La formula prescelta dal legislatore manifesta l'intento di assicurare al contribuente, in quanto titolare di una qualificata posizione giuridico–soggettiva di diritto o interesse, particolarmente esposta nei casi di verifica fiscale eseguita mediante accessi o ispezioni, prodromiche condizioni di parità nei rapporti con l'Amministrazione accertante, garantendo forme di partecipazione attiva al procedimento tributario, quale la possibilità di avviare un contraddittorio amministrativo preventivo, in via endoprocedimentale, sia in funzione puramente collaborativa, sia di tutela anticipata delle proprie ragioni, quale espressione del principio costituzionale del diritto di difesa.

Del resto, come ricostruito nella sentenza Sez. U, n. 24823/2015, non si è minimamente dubitato del fatto che il perimetro applicativo dell'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 fosse quello testualmente definito, restando invece acceso il dibattito in merito all'identificazione delle conseguenze dell'inosservanza degli obblighi suddetti, in assenza di puntuale sanzioni di invalidità poste dalla norma.

I contrasti manifestatisi su tale ultimo punto sono stati composti da Sez. U, n. 18184/2013, Virgilio, Rv. 627474. La decisione ha sancito che l'art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000 deve essere interpretato nel senso che l'inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni (dal rilascio di copia del p.v.c. di chiusura delle operazioni) per l'emanazione dell'avviso di accertamento determina, di per sé, l'illegittimità dell'atto impositivo emesso ante tempus, salva la ricorrenza, da comprovarsi dall'Ufficio, di oggettive specifiche ragioni d'urgenza. La sanzione della invalidità, pur non espressamente prevista, scaturisce ineludibilmente dalla circostanza che la violazione procedimentale si risolve in un'intollerabile deviazione dal modello normativo perentoriamente prescritto.

L'indirizzo consolidato della Corte però nega la sussistenza di un obbligo di attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, ove non espressamente previsto dalle leggi speciali, per tutte le ipotesi di accertamento o di verifica condotte "a tavolino", che non presentano tali peculiari modalità direttamente invasive della sfera del contribuente.

Si richiama, al riguardo, Sez. T, n. 26316/2010, Didomenico, Rv. 615834, che ha escluso che, anche dopo l'entrata in vigore dello Statuto dei diritti del contribuente, allo stato attuale della legislazione, si possa ritenere esistente un principio generale di contraddittorio in ordine alla formazione della pretesa fiscale). Più di recente, la Corte con l'ordinanza Sez. 6-T, n. 15583/2014, Bognanni, Rv. 631683, nel far rinvio al principio di diritto enunciato dalla sentenza Sez. T, n. 16354/2012, Olivieri Rv. 623835, ha osservato che le garanzie previste dal citato art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 sono apprestate esclusivamente a favore del contribuente verificato (in loco) e non anche del terzo, pur se soggetto a verifica con accesso e, dunque, non vengono in questione nel caso di attività di verifica e di controllo effettuata dall'Ufficio in base all'esame della dichiarazione fiscale ovvero nel caso di attività di accertamento iniziata a seguito di segnalazioni, rapporti, comunicazioni ricevute da altri organismi od autorità, nell'ambito dei rapporti di cooperazione (artt. 63 e 66 del d.P.R. n. 633 del 1972), ovvero direttamente dalla Polizia giudiziaria che ha operato nell'ambito di indagini penali (su autorizzazione della Autorità giudiziaria, ai sensi dell'art. 63, comma 1, ultima parte, del d.P.R. n. 633 del 1972), ovvero ancora nel caso di accertamento effettuato dagli Uffici finanziari in base a documenti ed elementi acquisiti a seguito di richieste, questionari od inviti, disposti ai sensi dell'art. 51, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972 (nello stesso senso, cfr. Sez. T, n. 07598/2014, Perrino, Rv. 630223 in tema di accise su olii minerali)

L'art. 12 costituisce, dunque, al pari delle disposizioni di cui agli artt. 52, comma 6, del d.P.R. n. 633 del 1972 in materia di IVA, richiamato dall'art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973 in materia di imposte dirette, a propria volta richiamato dall'art. 53-bis del d.P.R. n. 131 del 1981 in tema di imposta di registro, la fonte del diritto alle garanzie procedimentali per lo specifico procedimento di verifica eseguita mediante accesso nei locali in cui il contribuente esercita la propria attività imprenditoriale o professionale. In materia doganale, inoltre, con l'art. 92 del d.l. 24 gennaio 2012 n.1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012 n. 27, è stato inserito all'art. 11 del d. lgs. n. 374 del 1990 il comma 4-bis che, espressamente richiamando l'art. 12 dello Statuto dei diritti del contribuente, ha previsto per il contribuente il termine di 30 giorni dalla notifica dell'esito della revisione dell'accertamento, compiuta d'ufficio, per comunicare osservazioni e richieste.

Del resto, osserva la Corte, quando il legislatore ha inteso estendere l'ambito di applicabilità dei diritti e garanzie previste dallo Statuto del contribuente l'ha espressamente stabilito, come nel caso di accertamenti in materia doganale ed, in particolare, ai sensi dell'art. 11, comma 4-bis del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374, che richiama il <<rispetto del principio di cooperazione stabilito dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12 dopo la notifica all'operatore interessato, <<qualora si tratti di revisione eseguita in ufficio>>, di copia del verbale delle operazioni compiute, e prevede che l'operatore interessato possa <<...comunicare osservazioni e richieste, nel termine di 30 giorni decorrenti dalla data di consegna o di avvenuta ricezione del verbale, che sono valutate dall'Ufficio doganale prima della notifica dell'avviso di cui al successivo comma 5>>.

Ancora, con la sentenza Sez. T, n. 00446/2013, Cirillo, Rv. 624993, in tema di accertamento della base imponibile ai fini IVA, si è ritenuta legittima l'utilizzazione, da parte dell'erario, delle movimentazioni bancarie su conto corrente, acquisite presso istituti di credito, ancorché senza previa instaurazione del contraddittorio con il contribuente sin dalla fase dell'accertamento, atteso che la legge tributaria lo prevede come mera facoltà dell'amministrazione tributaria, e non già come obbligo, nell'esercizio dei poteri previsti dall' art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, in tema di imposte sui redditi, e dall'art. 51, comma 3, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 in materia di IVA.

Con la sentenza Sez. T, n. 03142/2014, nel richiamare, ai fini delle forme attuative del principio del contraddittorio, la differente posizione che assume il privato nella fase procedimentale di accertamento e nelle procedure di tipo giustiziale, espressa dal precedente Sez. T, n. 14026/2012, Olivieri il contraddittorio endoprocedimentale viene disancorato dal diritto di difesa e l'intervento del privato nel procedimento amministrativo definito in termini di mera eventualità – contrapposta alla necessità in ambito processuale – quale mera espressione della funzione partecipativa all'attuazione dell'interesse pubblico. Tale intervento <<si realizza nell'esercizio di poteri autoritativi e si inserisce, pertanto, in un rapporto che non è paritetico ma di supremazia/soggezione, venendo a costituire pertanto uno dei vari segmenti di cui si compone la sequenza di atti che dalla fase della iniziativa (di ufficio o a istanza del privato) perviene, attraverso le diverse fasi del procedimento – istruttoria, costitutiva della decisione e quindi integrativa della efficacia – alla emanazione del provvedimento in quanto espressione della potestà autoritativa della PA.>>

Infine, con la sentenza Sez. T, n. 00961/2015, Cirillo, Rv. 634470 sul punto, seppur in via incidentale, si è negato che, in armonia con il generale principio statutario del giusto procedimento in materia tributaria, sussista un obbligo di contraddittorio preventivo con il contribuente prima dell'emissione dell'atto impositivo, in quanto <<- a prescindere da talune non univoche e circoscritte linee di tendenza isolatamente espansive di garanzie endoprocedimentali in peculiari fattispecie limitative della sfera giuridica del contribuente (v. Sez. U, n. 19667/2014 e Sez. U, n. 19668/2014, sull'iscrizione ipotecaria) – nel quadro istituzionale e normativo generale disegnato dalla Costituzione (art. 97) il principio di legalità dell'azione amministrativa declina il potere pubblico esclusivamente in termini di esercizio tipico e formale (cfr. Sez. U, n. 04648/2010, La Terza)>>.

In tale consolidato orientamento interpretativo, unica decisione in apparente dissonanza si rivela la sentenza Sez. T, n. 02594/2014, in tema di verifica fiscale a fini IVA e IRPEF condotta a mezzo di indagini su conti correnti bancari, la cui motivazione, però, lascia trasparire il dubbio di un possibile fraintendimento in merito alla specifica accezione dei termini "accessi" e "verifiche" rilevanti ai fini della previsione dell'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000.

3. Il principio del contraddittorio endoprocedimentale nella giurisprudenza delle Sezioni Unite. La composizione di un'apparente distonia.

La sentenza Sez. U, n. 24823/2015, diversamente da quanto ipotizzato con l'ordinanza interlocutoria, evidenzia che, anteriormente alla pronunzia delle decisioni Sez. U, n. 19667/2014 e Sez. U, n. 19668/2014, non vi è stata alcuna altra pronuncia anche soltanto vagamente distonica rispetto alla interpretazione sopra riportata circa l'ambito applicativo delle garanzie previste dall'art. 12 della legge n. 212 del 2000. Tale, in particolare, non può considerarsi, la pronuncia Sez. U, n. 18184/2013, né la precedente Sez. U, n. 26635/2009, Botta, pur se l'analisi della giurisprudenza delle Sezioni Unite consentono di delineare l'esistenza di un principio generale del contraddittorio endoprocedimentale, quale connotato essenziale dell'attività impositiva, per sua natura autoritativa.

In particolare, con la richiamata sentenza Sez. U, n. 26635/2009, in tema di studi di settore, si è affermato che il contraddittorio, realizzato attraverso la procedura di accertamento per adesione, costituisce, momento essenziale e imprescindibile (anche in assenza di una espressa previsione normativa) del giusto procedimento che legittima l'azione amministrativa di accertamento. La pronuncia richiama, ed esplicitamente fa proprie, le argomentazioni già espresse da Sez. T, n. 02816/2008, che, in tema di accertamento in via presuntiva delle imposte sui redditi, rilevava che, al di là della eventuale esistenza di disposizione normativa che abbia escluso il contraddittorio procedimentale, per il principio generale amministrativo del giusto procedimento e quello di legalità amministrativa applicato ai rapporti tra atti amministrativi generali ed astratti e atti amministrativi particolari e concreti, la garanzia del contraddittorio è comunque assicurata, per implicito, al contribuente che si voglia assumere come destinatario di un provvedimento amministrativo d'imposizione tributaria esercitando un potere istruttorio di accertamento presuntivo. Tuttavia, la necessità della garanzia del contraddittorio non viene affermata con riferimento alla fase istruttoria, in via anticipata rispetto all'atto impositivo (avviso di accertamento).

Con la sentenza Sez. U, n. 18184/2013, poi, nello stabilire che il mancato rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni, di cui all'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, debba comportare la nullità dell'avviso di accertamento, si è ritenuto che la violazione del predetto termine realizzerebbe un modello procedimentale difforme da quello legale, tale che, pur in assenza d'un'espressa previsione di nullità <<spetta all'interprete il compito di delineare l'oggetto e i confini di una ipotesi di invalidità introdotta in via ermeneutica>>. La pronuncia valorizza il principio del contraddittorio procedimentale, non solo sul piano dell'ordinamento interno, quale primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente e presentando una immediata funzionalità al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva, ma anche sul piano del diritto comunitario, nel richiamo operato all'orientamento della Corte di giustizia in materia di tributi doganali (nella specie, alla sentenza 18 dicembre 2008, in causa C-349/07, Sopropè).

Infine, con le sentenze Sez. U, n. 19667/2014 e Sez. U, n. 19668/2014, non massimate sul punto, le Sezioni Unite, sulla spinta dell'elaborazione della dottrina, sono giunte ad affermare che la partecipazione e l'accesso del soggetto di imposta (e destinatario della pretesa tributaria formatasi in esito al procedimento) sono compatibili con il procedimento tributario ed operano secondo gli schemi dello Statuto del contribuente (e non secondo i modelli dalla legge n. 241 del 1990, sul procedimento amministrativo, pur se talune di queste disposizioni sono sostanzialmente riprodotte nella legge n. 212 del 2000), costituito da <<un complesso di norme la cui precipua funzione è quella di improntare l'attività dell'amministrazione finanziaria alle regole dell'efficienza e della trasparenza, nonché quella di assicurare l'effettività della tutela del contribuente nella fase dei procedimento tributario>> (punto n. 14).

Si rileva, in particolare, che <<la pretesa tributaria trova legittimità nella formazione procedimentalizzata di una "decisione partecipata" mediante la promozione del contraddittorio (che sostanzia il principio di leale collaborazione) tra amministrazione e contribuente (anche) nella "fase precontenziosa" o endoprocedimentale", al cui ordinato ed efficace sviluppo è funzionale il rispetto dell'obbligo di comunicazione degli atti imponibili. Il diritto al contraddicono, ossia il diritto del destinatario del provvedimento ad essere sentito prima dell'emanazione di questo, realizza l'inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall'art. 24 Cost., e il buon andamento dell'amministrazione, presidiato dall'art. 97 Cost.>> (punto n. 15). Per poi desumere che il diritto di difesa del contribuente, da attivarsi in fase pre-contenziosa mediante la forma del contraddittorio "endoprocedimentale" ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente medesimo, <<costituisce un principio fondamentale immanente nell'ordinamento cui dare attuazione anche in difetto di una espressa e specifica previsione normativa. Principio il cui rispetto è dovuto da parte dell'amministrazione indipendentemente dal fatto che ciò sia previsto espressamente da una norma positiva e la cui violazione determina la nullità dell'atto lesivo che sia stato adottato senza la preventiva comunicazione al destinatario>> (punto n. 16).

La presunta distonia con le precedenti pronunce, come detto, si presenta solamente apparente, in quanto il riconoscimento in termini di immanenza del principio del contraddittorio procedimentale si presenta strettamente riferibile al relativo concreto decisum (in tema di contraddittorio nelle ipotesi di iscrizione ipotecaria ex art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1973, in relazione al vulnus conseguente alla insussistenza di un atto suscettibile di impugnativa), restando, dunque, fuori dall'ambito del principio di diritto propriamente enucleabile dalle citate pronunzie.

L'arresto delle Sez. U, n. 24823/2015, richiama, inoltre, la recente sentenza Corte cost., 7 luglio 2015 n. 132, che, in tema di abuso di diritto, ha ritenuto infondata la questione dell'illegittimità costituzionale dell'art. 37-bis, comma 3, del d.P.R. n. 600/1973, prospettata in relazione al fatto che, in tema di imposte dirette, la norma, esplicitamente imponendo il contraddittorio endoprocedimentale quale condizione di legittimità dei soli accertamenti fondati su ipotesi tipizzate, sembra determinare un ingiustificato deteriore trattamento di questi rispetto agli accertamenti basati su ipotesi innominate di abuso di diritto.

La Corte Costituzionale non prende una esplicita posizione sul tema dell'esistenza di una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale, pur dando atto che <<la sussistenza di un orientamento non isolato della stessa Corte di cassazione, che tende a riconoscere forza espansiva alla regola contenuta nella norma denunciata, non consente di ritenere esistente un diritto vivente in base al quale gli atti impositivi adottati in applicazione della clausola generale antielusiva si debbano considerare validi anche se emessi in violazione della regola contenuta nella stessa norma>>.

4. La ricerca di un autonomo fondamento del principio nell'ordinamento interno.

Appare evidente come la soluzione della estensibilità delle garanzie procedimentali previste dall'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, presuppone l'individuazione del fondamento normativo dell'affermato principio generale del contraddittorio endoprocedimentale in materia tributaria.

La definizione in termini di immanenza del principio del diritto al contraddittorio "endoprocedimentale" che emerge dalle richiamate sentenze delle Sezioni Unite trova rispondenza nel corrispondente principio fondamentale del diritto dell'Unione, espressione del diritto di difesa e del diritto di ogni persona di essere sentito prima dell'adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui propri interessi, affermato dalla Corte di Giustizia con le decisioni del 18 dicembre 2008, in causa C-349/07 Sopropè e, più di recente, del 3 luglio 2014 in cause riunite C-129/13 e C-130/13, Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Wortdwide Logistics BV.

In ambito comunitario il diritto al contraddittorio è espresso non solo dagli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che garantiscono il rispetto dei diritti della difesa nonché il diritto ad un processo equo in qualsiasi procedimento giurisdizionale, ma anche dall'art. 41 della medesima Carta, che garantisce il diritto ad una buona amministrazione e, al par. 2 della suddetta norma, prevede che al diritto a una buona amministrazione corrisponde quello di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale lesivo.

Nella giurisprudenza eurounitaria il principio viene richiamato ogniqualvolta l'amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo, garantendo che i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l'Amministrazione intende fondare la sua decisione, mediante una previa comunicazione del provvedimento che sarà adottato, con la fissazione di un termine per presentare eventuali difese od osservazioni.

Al di là del richiamo alle pronunce della Corte di Giustizia in tema di fondamento, presupposti e contenuto del diritto al contraddittorio nella fase procedimentale finalizzata all'adozione di un provvedimento lesivo su posizioni giuridiche soggettive dell'individuo, Sez. U, n. 19667/2014 e Sez. U, n. 19668/2014 individuano il fondamento positivo del diritto al contraddittorio nel complesso delle norme dello Statuto dei diritti del contribuente, dalla cui disciplina organica <<emerge che la pretesa tributaria trova legittimità nella formazione procedimentalizzata di una "decisione partecipata" mediante la promozione del contraddittorio (che sostanzia il principio di leale collaborazione) tra amministrazione e contribuente (anche) nella "fase precontenziosa" o "endoprocedimentale", al cui ordinato ed efficace sviluppo è funzionale il rispetto dell'obbligo di comunicazione degli atti imponibili. Il diritto al contraddittorio, ossia il diritto del destinatario del provvedimento ad essere sentito prima dell'emanazione di questo, realizza l'inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall'art. 24 Cost., e il buon andamento dell'amministrazione, presidiato dall'art. 97 Cost.>>

Resta, comunque, escluso che il diritto alla partecipazione, anche mediante accesso, del contribuente si possa esprimere secondo i modelli generali previsti dalla legge sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990, in ragione della pretermissione dei procedimenti tributari dagli istituti partecipativi (di cui al capo III della legge n. 241 del 1990, ex art. 13 della medesima legge) e del rinvio in materia alle norme speciali previste per detti procedimenti.

A siffatta previsione offre rispondenza una normativa tributaria nel cui ambito non si rinviene alcuna disposizione espressa che sancisca in via generale l'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, idonea a costituirne la Fonte.

Infatti, alla disciplina dell'art. 12 della legge n. 212 del 2000, relativa agli avvisi conseguenti a verifiche effettuate presso i locali del contribuente, si affiancano specifiche disposizioni attuative del contraddittorio nei singoli procedimenti di accertamento tributario, quali, ad esempio, l'articolo 36-bis, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973; l'articolo 36-ter, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973; l'articolo 6, comma 5, della legge n. 212 del 2000; l'articolo 38, comma 7, del d.P.R. n. 600 del 1973; l'articolo 10, comma 3-bis, della legge n. 146 del 1998; l'articolo 110, comma, 11, del d. lgs. 917 del 1986 (TUIR); l'articolo 11, comma 4-bis, del d. lgs. n. 374 del 1990. La previsione di specifiche norme che, collocandosi nella prospettiva del "giusto procedimento", costituiscono presidio della garanzia di partecipazione del cittadino all'esercizio dell'azione amministrativa per singole tipologie di accertamento tributario, costituisce ulteriore elemento indicativo della inesistenza di una disposizione espressa che, anche in materia tributaria, sancisca in via generale l'obbligo di attivazione del contraddittorio nella fase istruttoria, antecedente all'adozione dell'atto impositivo.

Inoltre, come osservano le Sezioni Unite nella parte motiva della sentenza Sez. U, n. 24823/2015, l'art. 22, comma l, d.l. n. 78 del 2010, convertito in legge n, 122 del 2010, ha introdotto l'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale in tema di accertamento sintetico e, al fine di adeguare la disciplina nazionale in materia doganale a quella europea, l'art. 92, comma l, del d.l. n. 1 del 2012, convertito in legge n. 27 del 2012, ha introdotto nella previsione dell'art. 11 del d. lgs. n. 374 del 1990 il comma 4-bis, contemplante l'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale anche per l'ipotesi di "revisione eseguita in ufficio", e quindi, di accertamento cd. "a tavolino". Risultando così asseverato a contrario, da entrambe le disposizioni, il convincimento che, allo stato attuale della legislazione, non sussiste, nell'ordinamento tributario nazionale, una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale. Ancor più incisivo, nel senso indicato, è, forse il rilievo che la legge 11 marzo 2014 n. 23, di delega al Governo per la riforma del sistema fiscale, inserisce tra i principi e criteri direttivi della delega la previsione di forme di contraddittorio propedeutiche alla adozione degli atti di accertamento del tributi (art. l, comma l, lettera b), nonché il rafforzamento del contraddittorio nella fase di indagine e la subordinazione del successivi atti di accertamento e di liquidazione all'esaurimento del contraddittorio procedimentale (art. 9, comma l, lettera b).

Né può ritenersi che, attraverso il richiamo al diritto di difesa del cittadino, presidiato dall'art. 24 Cost., e del buon andamento dell'amministrazione, sancito dall'art. 97 Cost., con le sentenze Sez. U, n. 19667/2014 e Sez. U, n. 19668/2014, si sia voluto riconoscere una diretta portata applicativa a tali norme costituzionali nell'accertamento tributario.

Deve rilevarsi, al riguardo, che l'ancoraggio funzionale del diritto al contraddittorio endoprocedimentale alla realizzazione dell'inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall'art. 24 Cost., e del buon andamento dell'amministrazione, sancito dall'art. 97 Cost., si ritrova nella ricostruzione del modello attuativo proposta da autorevole dottrina [MARCHESELLI, 2015, par. 3]. L'Autore individua due inscindibili ed armoniche funzioni del contraddittorio, quella difensiva e quella istruttoria e analizza il rapporto tra l'istruttoria amministrativa tributaria (che ricomprende tutte le attività conoscitive, di cui la verifica fiscale è uno strumento) con l'attività di imposizione in senso stretto (che si esprime nell'atto di imposizione e di riscossione), nell'ottica delle garanzie di tutela riconosciute al contribuente, affermando la piena autonomia funzionale della prima.

Nella fase istruttoria si riconosce una posizione di preminenza dell'Amministrazione, nei cui confronti le garanzie previste dall'art. 12, comma 7, dello Statuto dei diritti del contribuente costituiscono uno standard minimo concesso ad un soggetto tenuto a collaborare, piuttosto che espressione piena di un suo diritto alla partecipazione.

Da tale collegamento funzionale tra funzione istruttoria e di accertamento emerge il ruolo centrale del diritto al contraddittorio, che culmina nel riconoscimento della facoltà di presentare osservazioni e richieste, così conferendo al soggetto verificato la veste di soggetto attivo, che quasi concorre alla determinazione del contenuto dell'accertamento. Le deduzioni del contribuente contribuiscono a definire il presupposto dell'accertamento, non più modificabile dall'Amministrazione nell'eventuale fase del giudizio di impugnazione.

Si assiste, per tale via, ad un recupero della necessità del contraddittorio nell'esercizio del potere istruttorio, attesa la riconosciuta funzione di acquisizione di conoscenze (fatti ed elementi) fiscalmente rilevanti, con la conseguenza che appaiono sempre più evidenti le aperture alla necessità anche in fase endoprocedimentale di quella <<ponderazione di interessi pubblici e privati>> che caratterizzano le attività tipicamente discrezionali.

Nondimeno, come osservato da Sez. U, n. 04648/2010, <<nel quadro istituzionale e normativo generale disegnato dalla Costituzione (art. 97) il principio di legalità dell'azione amministrativa declina il potere pubblico esclusivamente in termini di esercizio tipico e formale>>, dovendosi per tale via ritenere non riconoscibile l'esercizio di potere autoritativi allorché sia del tutto mancante (e non solo viziata) la forma prevista dalla legge.

Le garanzie previste dall'art. 24 Cost. attengono, testualmente, all'ambito giudiziale; così pure quella di difesa di cui al comma 2, sia per collocazione, tra i commi l ed i commi 3 e 4 (che recano il testuale inequivocabile riferimento all'ambito giudiziale), sia per l'esplicito riferimento al "procedimento" in ogni suo "stato e grado". Come tali non sono sussumibili di immediata applicazione al procedimento tributario.

La sentenza Sez. U, n. 24823/2015 non ritiene condivisibile sul punto <<il rilievo (riportato a p. 14 dell'ordinanza interlocutoria) secondo cui – essendo il giudizio tributario caratterizzato da un'istruttoria giudiziale monca della possibilità di raccogliere prove costituende davanti a giudice terzo e, dunque, di rinnovare davanti ad esso eventuali dichiarazioni di persone informate dei fatti raccolte dai verbalizzanti in sede amministrativa e dotate di valore indiziario – l'anticipazione dei poteri partecipativi del contribuente a momento anteriore all'emanazione dell'atto impositivo, si proietterebbe (ponendo rimedio ad una supposta situazione di "disparità delle armi" in dotazione alle parti processuali), sulla stessa effettività della tutela giudiziale del contribuente.>>

Al di là del rilievo preliminare che l'affermazione del principio della generalizzata operatività del contraddittorio endoprocedimentale in campo tributario, in funzione dell'anticipazione del diritto di difesa nel giudizio, dovrebbe, in ogni caso, inevitabilmente transitare attraverso declaratoria d'incostituzionalità della normativa ordinaria che si presenti in contrasto, deve evidenziarsi che, secondo quanto ritenuto da Sez. U, n. 24823/2015, anche sulla scorta della giurisprudenza della Corte Costituzionale (Corte cost., 21 gennaio 2000 n. 18), <<il giudizio tributario, seppur nella sua particolarità, non viola, per la caratteristica qui in esame, il principio cd. della "parità delle armi", cui dà copertura costituzionale l'art. 111 Cost., giacché, fermo restando il divieto di ammissione della prova testimoniale sancito dall'art. 7 d.lgs. 546/1992, il potere di introdurre in giudizio dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, compete non solo all'Amministrazione finanziaria, che tali dichiarazioni abbia raccolto nel corso d'indagine amministrativa, ma, altresì, con il medesimo valore probatorio, al contribuente (cfr. in tal senso, tra le altre, Cass. n. 05018/2015, n. 11785/2010, n. 16032/2005, n. 04269/2002).>>

Anche l'art. 97 Cost. non reca, in alcuna delle sue articolazioni, il benché minimo indice rivelatore dell'indefettibilità del contraddittorio endoprocedimentale; né in seno al procedimento amministrativo (in relazione al quale l'obbligo del contraddittorio procedimentale è generalizzatamente sancito da legge ordinaria, né, tanto meno, con riguardo allo specifico procedimento tributario, per il quale, come visto, la normativa ordinaria espressamente esclude la sussistenza di una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale, riconoscendo la ricorrenza dell'obbligo correlativo solo in presenza di specifica previsione.

La necessità di una autoqualificazione delle disposizioni dello Statuto come attuative delle norme costituzionali richiamate e come <<principi generali dell'ordinamento tributario>> escludono in radice una diretta applicazione delle norme costituzionali al di là delle disposizioni statutarie e, dunque, la possibilità di affermare l'esistenza di un principio necessario di tutela del contraddittorio endoprocedimentale in materia tributaria.

Viene, dunque, escluso in modo netto dalle Sezioni Unite che, <<sulla base della normativa nazionale, possa, in via interpretativa, postularsi l'esistenza di un principio generale, per il quale l'Amministrazione finanziaria, anche in assenza di specifica disposizione, sia tenuta ad attivare, pena la nullità dell'atto, il contraddittorio endoprocedimentale ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente.>> Tale assunto risolve i dubbi interpretativi posti con l'ordinanza di rimessione e sottrae l'interprete al compito (non congeniale alla funzione) di ricostruire, per le ipotesi non puntualmente disciplinate, le modalità di concreto esercizio del diritto scaturente dal principio affermato e le conseguenze in termini di sanzioni della relativa violazione.

5. Il principio del contraddittorio nel diritto comunitario.

L'esame delle pronunce della Corte di Giustizia consente di ipotizzare un chiaro fondamento del principio del contraddittorio endoprocedimentale nel diritto dell'Unione Europea, lungo il solco della estensione al procedimento di accertamento delle medesime regole processuali attuative del diritto di difesa nella fase giurisdizionale di acquisizione – e non di mera valutazione – delle prove.

In particolare, l'esistenza di un principio generale del rispetto del contraddittorio anche nella fase amministrativa, nel diritto tributario, è stato affermato dalla Corte di Giustizia con le richiamate sentenze sui casi Sopropè (Corte di Giustizia, 18 dicembre 2007, C-349/07), Jiri Sabou (sentenza 22 ottobre 2013, in causa C-276/12) Kamino International Logistics (sentenza 3 luglio 2014, in causa C-129/13). Come detto, nelle sentenze della Corte di Giustizia si ravvisa il fondamento del diritto al contraddittorio nella fase anteriore all'adozione dell'atto impositivo negli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, che garantiscono il rispetto dei diritti della difesa nonché il diritto ad un processo equo in qualsiasi procedimento giurisdizionale, e, soprattutto sull'art. 41 della medesima Carta, che garantisce il diritto ad una buona amministrazione.

I riferimenti tratti dalla giurisprudenza eurounitaria consentono di esigere il rispetto dei diritti di difesa ogniqualvolta l'Amministrazione si proponga di adottare nei confronti del soggetto un atto per esso lesivo (Corte di Giustizia, 18.12.2008, causa C-349107, Sopropè; id. 22.10.2013, causa C276/12 Sabou), imponendo all'Amministrazione l'obbligo che i destinatari di decisioni incidenti sensibilmente sui propri interessi siano messi in condizione di manifestare il proprio punto di vista in merito agli elementi raccolti dall'Amministrazione (Corte di Giustizia 24.10.1996, causa C-32/95 P. Lisrestal; id. 21.9.2000, causa C-462/98 P. Mediocurso; id. 12.12.2002, causa C-395/00, Cipriani; id. Sopropè, cit.; id. Sabou, cit.).

Deve, però, evidenziarsi che l'obbligo di fissare un termine per la presentazione di osservazioni e difese, ad avviso della Corte di Giustizia (cfr. la citata sentenza del 3 luglio 2014 in cause riunite C-129/13 e C-130/13, Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Wortdwide Logistics BV), incombe sulle amministrazioni degli Stati membri ogniqualvolta esse adottano decisioni che rientrano nella sfera d'applicazione del diritto dell'Unione, quand'anche la normativa comunitaria applicabile non preveda espressamente siffatta formalità. L'affermazione di siffatto principio del contraddittorio di derivazione eurounitaria, quantomeno in funzione della possibilità di disapplicazione della norma interna non conforme, resta, dunque, pur sempre soggetto al limite della natura armonizzata della materia tributaria.

Nel richiamare il principio espresso dalla Corte di Giustizia nel caso Sopropè (Corte di Giustizia, 18 dicembre 2007, C-349/07) in tema di tributi doganali la Corte (Sez. T, n. 00406/2015) si è spinta ad operare una riconduzione ad unità sistematica del principio di contraddittorio anticipato, espresso dall'art. 37-bis, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973 – in tema di imposte dirette – e dall'art. 12, comma 7 della legge n. 212 del 2000, riconoscendo ad esso forza espansiva, che, al di là del vincolo interpretativo connesso alla natura armonizzata del tributo, impone ai giudici degli Stati membri di fornire una interpretazione della legislazione nazionale conforme agli scopi del Trattato (TFUE) al fine di assicurare la piena efficacia del diritto dell'Unione Europea (cfr. Corte di Giustizia 28.6.2012, causa C-7/11, Caronna). Ciò al fine di realizzare un necessario allineamento degli standard di tutela al livello più soddisfacente e uniforme anche con riferimento a tributi "non armonizzati", attraverso il meccanismo comunemente denominato spill-over effect.

Come precisato, dunque, la necessità del rispetto del principio del contraddittorio nella fase di accertamento è affermato dalla Corte di Giustizia con riferimento alla materia tributaria oggetto di armonizzazione e tale principio non è assunto in termini assoluti e puramente formali, posto che anche i diritti fondamentali, quali il diritto di difesa, non danno vita a prerogative incondizionate, potendo soggiacere a restrizioni, che rispondano, con criterio di effettività e proporzionalità, ad obiettivi di interesse generale (cfr. Corte di Giustizia 3 luglio 2014, in cause C-129 e C-130/2013, Kamino International Logistics; 26 settembre 2013, in C-418/2011, Texdata Software).

Giova richiamare sul punto quanto osservato da Sez. T, n. 07598/2014, che ha fornito una rilettura della sentenza Sopropè (Corte di Giustizia 18 dicembre 2008, C-349/07), alla luce della successiva pronuncia sul caso Jirì Sabou, (Corte di Giustizia 22 ottobre 2013, C-276/12), in tema di reciproca assistenza fra le autorità degli Stati membri in materia di imposte dirette. In tale ultima sentenza la Corte di Giustizia precisa che occorre distinguere, <<nell'ambito dei procedimenti di controllo fiscale, la fase dell'indagine nel corso della quale vengono raccolte le informazioni...dalla fase contraddittoria, tra l'amministrazione fiscale e il contribuente cui essa si rivolge, la quale inizia con l'invio a quest'ultimo di una proposta di rettifica>> (punto 40), e che <<l'amministrazione, quando procede alla raccolta d'informazioni, non è tenuta ad informarne il contribuente nè a conoscere il suo punto di vista>>, a meno che lo Stato membro estenda il diritto al contraddittorio ad altri momenti della fase d'indagine (punto 45).

Del resto, la Corte di Giustizia con la sentenza 3 luglio 2014, in causa C-129/13, Kamino International Logistics, ha dato copertura comunitaria al principio giuspubblicistico di strumentalità delle forme, chiarendo che <<il giudice nazionale, avendo l'obbligo di garantire la piena efficacia del diritto dell'Unione, può, nel valutare le conseguenze di una violazione dei diritti della difesa, in particolare del diritto di essere sentiti, tenere conto della circostanza che una siffatta violazione determina l'annullamento della decisione adottata al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso>> (cfr. Sez. T, n. 00961/2015, Cirillo, Rv. 634470; Sez. T, n. 05518/2013, Cirillo, Rv. 625622).

Infine, la sentenza Corte di Giustizia, 10 ottobre 2013, in causa C-306/12, Spedition Welter GmbH contro Avanssur SA, nel delineare le linee guida per l'interpretazione delle norme di diritto interno alla luce del testo e dello scopo delle direttive comunitarie, impone al giudice una opzione interpretativa del diritto nazionale conforme al sistema del Trattato FUE, in tal modo assicurando, nell'ambito delle rispettive competenze, la piena efficacia del diritto dell'Unione nella risoluzione delle controversie (cfr., nel medesimo senso, Sez. T, n. 07598/2014, che, sempre in tema di tributi doganali, offre una lettura del principio nel senso del rinvio alla legislazione dello Stato membro dell'opportunità di estendere il contraddittorio alla fase di raccolta delle informazioni in fase di accertamento).

Sulla base del quadro delineato dalle pronunce della Corte di Giustizia e dell'attuale assetto normativo di settore, la sentenza Sez. U, n. 24823/2015 esclude che possa affermarsi per i tributi non armonizzati una diretta applicabilità del principio generale del contraddittorio di derivazione comunitaria, riconoscendo al più di una influenza nell'orientamento interpretativo delle norme sul procedimento di verifica ed accertamento in materia tributaria. Il principio di diritto affermato in proposito è il seguente: <<Differentemente dal diritto dell'Unione europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all'Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l'invalidità dell'atto. Ne consegue che, in tema di tributi "non armonizzati", l'obbligo dell'Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l'invalidità dell'atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito…>>.

6. La divaricazione applicativa del principio. L'obbligo del contraddittorio procedimentale nei tributi cd. "non armonizzati" ed in quelli "armonizzati".

La sentenza Sez. U, n. 24823/2015 riconosce, dunque, l'esistenza di un differente regime della norma comunitaria rispetto alla norma nazionale: <<la prima, infatti, prevede il contraddittorio endoprocedimentale, in materia tributaria, quale principio di generale applicazione, pur valutandone gli effetti in termini restrittivamente sostanzialistici; la seconda, lo delinea, invece, quale obbligo gravante sull'Amministrazione a pena di nullità dell'atto – non, generalizzatamente, ogni qual volta essa si accinga ad adottare provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente – ma, soltanto, in relazione ai singoli (ancorché molteplici) atti per i quali detto obbligo è esplicitamente contemplato>>. Viene in tal modo affermata una inevitabile divaricazione applicativa tra la disciplina dei tributi cd. "non armonizzati" (in particolare: quelli diretti), estranei alla sfera di competenza del diritto dell'Unione europea, e di quelli cd. "armonizzati" (in particolare: l'IVA), in detta sfera rientranti.

Per i tributi "non armonizzati" l'obbligo di attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, pena l'invalidità dell'atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, in cui tale obbligo sia previsto da specifica norma di legge, non potendo trovare spazio applicativo il diritto europeo, come ripetutamente affermato dalla Corte di Giustizia nelle sentenze sopra richiamate. I principi dell'ordinamento giuridico dell'Unione operano in tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell'Unione, ma (v. anche l'art. 5 § 2, T.U.E.) non trovano applicazione al di fuori di esse. In base alla previsione dell'art. 51 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, le relative disposizioni si applicano agli Stati membri (a decorrere dall'1.12.2009) esclusivamente ai fini dell'attuazione del diritto dell'Unione, atteso che la Carta non estende l'ambito di applicazione del diritto dell'Unione al di là delle sue competenze, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l'Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei Trattati (Corte di Giustizia 8 maggio 2014, in causa C-483/12, Pelckmans; ord. 12.7.2012, in causa C-466/11, Currà, sent.15.11.2011, in causa C-256/11, Dereci).

Per tale via, le Sezioni Unite escludono per i tributi non armonizzati qualsivoglia possibilità di ricorso all'estensione in via analogica dell'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, opzione ermeneutica pur prospettata dalla ordinanza di rimessione Sez. 6-T n. 00527/2014 e non preclusa in astratto per la natura procedurale della norma applicata, come tale funzionale alla composizione di conflitti di interesse che nascono dalla definizione del fatto sociale sottoposto ad imposizione.

Viceversa, per i tributi cd. "armonizzati" le Sezioni Unite riconoscono – in contrapposizione ai tributi "non armonizzati" – che l'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale assume, invece, rilievo generalizzato, <<avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell'Unione>>, trattandosi di materia inerente alle proprie competenze.

La normativa eurounitaria trova spazio applicativo al di fuori delle specifiche ipotesi per le quali l'obbligo del contraddittorio è espressamente sancito e disciplinato dal diritto nazionale nel rispetto dei principi di "equivalenza" e di "effettività" (cfr. Corte di Giustizia 3 luglio 2014, in causa C-129 e C/130/13, Kamino International Logistics, punto 82), quale <<clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale di matrice comunitaria>>, la cui violazione è sanzionata con la nullità dell'atto impositivo conclusivo del procedimento di accertamento.

Le Sezioni Unite riconoscono che in tema di contraddittorio endoprocedimentale il superamento della duplicità del regime giuridico dei tributi "armonizzati" e di quelli "non armonizzati" non può essere realizzato in via interpretativa. L'innegabile influenza del diritto comunitario su rapporti analoghi a quelli rientranti nelle competenze dell'Unione se può orientare l'interpretazione del diritto nazionale non può spingersi fino alla diretta applicazione dei principi eurounitari. L'assimilazione in via ermeneutica del trattamento di rapporti sottratti all'operatività del diritto comunitario (tributi "non armonizzati") al trattamento di rapporti analoghi ad esso assoggettati (tributi "armonizzati") è preclusa dal quadro normativo nazionale, univocamente interpretabile nel senso dell'inesistenza, in ambito tributario, di una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale. Si rinvia, dunque, l'assorbimento della dicotomia in essere all'intervento del Legislatore, che, del resto, ha mostrato di essere consapevole della questione e di intendere farsene carico nei contenuti della legge n. 23 del 2014, di delega al Governo per la riforma del sistema fiscale.

7. La sanzione dell'invalidità dell'atto impositivo per la violazione del principio del contraddittorio negli accertamenti concernenti tributi cd. "armonizzati".

Dalla ritenuta estensione del principio del contraddittorio ai casi di accertamento "a tavolino", quando abbiano ad oggetto l'accertamento di tributi cd. armonizzati, dovrebbe discendere la nullità dell'atto lesivo che, in violazione del suddetto principio, sia stato adottato senza preventiva comunicazione al destinatario, invalidità che viene in rilievo come conseguenza dell'omessa predisposizione del p.v.c., quando esso si traduca nella sostanziale esclusione della possibilità dell'interessato di interloquire in via preventiva e "informata" (e del dovere di raccogliere quanto affermato, prodotto o indicato), ovvero per effetto della non adeguatezza in concreto dei tempi riservati alla analisi delle osservazioni e richieste dell'interessato.

In merito all'individuazione del regime della sanzione della invalidità l'ordinanza interlocutoria Sez. 6-T n. 00527/2015 aveva prospettato due soluzioni, tra loro alternative:

1) l'applicazione dei principi "formalistici" fissati nella sentenza Sez. U, n. 18184/2013, secondo cui, nel caso di avviso di accertamento emesso senza essere preceduto dalla consegna di un verbale di constatazione, oppure prima dello spirare del termine dilatorio di sessanta giorni, si ha in ogni caso invalidità (salvi i casi di urgenza di cui all'ultimo periodo del comma 7 dell'art. 12), anche se il provvedimento sia assolutamente giusto e non contestato nel suo contenuto. Sul punto, giova richiamare le pronunce: Sez. T, n. 02594/2014, in tema di verifica fiscale a fini IVA e IRPEF condotta a mezzo di indagini bancarie; Sez. T, n. 03142/2014, in tema di emissione di fatture per operazioni inesistenti, che ha escluso l'emendabilità del vizio attraverso la "prova di resistenza", fondata sulla dimostrazione in concreto dell'effettivo pregiudizio subito dal soggetto destinatario dell'atto, non rientrando l'attività di accertamento impositivo dall'ambito applicativo della legge n. 241 del 1990, art. 21-octies, comma 2 e non essendo sussumibile l'atto impositivo nella categoria degli atti amministrativi cd. "vincolati"; Sez. T, n. 07960/2014, Virgilio, Rv. 629967 in tema di accertamento mediante parametri e studi di settore; Sez. T n. 06088/2011, Di Iasi, Rv. 617449, che, sulla base della natura perentoria del termine previsto dall'art. 12, comma 7, ritiene irrilevante il contenuto del p.v.c.

2) L'applicazione di squisita elaborazione di matrice comunitaria, secondo cui, ai fini della invalidità dell'atto di accertamento emanato in violazione del diritto al contraddittorio del contribuente, occorre valutare (in termini di cd. "prova di resistenza") la possibilità che, in assenza di tale violazione, per effetto della opportunità di interlocuzione concessa al contribuente in fase istruttoria, il procedimento avrebbe potuto avere esito diverso, opzione che il Collegio ritiene preferibile in via generale, in quanto subordina la rilevanza della violazione delle regole sul contraddittorio alla effettiva possibilità per l'interessato di introdurre in fase istruttoria temi che avrebbero potenzialmente e ragionevolmente ampliato il quadro da valutare in sede di decisione.

Le Sezioni Unite forniscono una chiara indicazione nel senso del riconoscimento del carattere di effettività sostanziale e non formale alla garanzia del contraddittorio endoprocedimentale, richiedendo per l'applicazione della sanzione della nullità dell'avviso di accertamento l'esistenza di una violazione sostanziale dell'interesse del contribuente.

Viene in proposito affermato il seguente principio di diritto: <<… in tema di tributi "armonizzati", avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell'Unione, la violazione dell'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell'Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l'invalidità dell'atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l'onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l'opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell'interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto>>.

La sentenza Sez. U, n. 24823/2015 ha per tale via riconosciuto la piena portata applicativa per i tributi cd. armonizzati del principio di ispirazione eurounitaria, secondo cui la violazione dell'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell'Amministrazione fiscale determina l'annullamento del provvedimento adottato al termine del procedimento soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, il procedimento "avrebbe potuto comportare un risultato diverso".

Tale concezione sostanzialistica delle garanzie previste dall'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, che esclude una nullità ipso iure dell'avviso di accertamento emesso prima dello scadere del termine di sessanta giorni dalla conclusione della verifica fiscale, non è nuova, essendo stata già affermata nelle sentenze Sez. T, n. 00992/2015, Cirillo, Rv. 634407 e Sez. T, n. 21103/2011, Terrusi, Rv. 619742 (ma, anche, Sez. T, n. 18906/2011, Sez. T, n. 19875/2008), proprio in tema di violazione degli obblighi informativi di cui all'art. 12, comma 2, della legge n. 212 del 2000, nonché da Sez. T, n. 13890/2008, Scuffi, Rv. 603965, in materia di dazi doganali. Ed ancora, con la sentenza Sez. T, n. 10381/2011, Greco, Rv. 617926, ove la ritenuta nullità dell'avviso di accertamento emesso ante tempus, anche nel caso di consegna di un processo verbale di accesso nel quale non erano stati mossi specifici rilievi né addebiti e, pertanto, prima della chiusura formale della verifica, è connessa non alla violazione della norma procedimentale, ma alla mancanza di motivazione delle ragioni dell'urgenza che la ha determinata, così valorizzando l'eccezione prevista nell'ultimo periodo dell'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 (principio già affermato nella pronuncia di Sez. T, n. 22320/2010, Scarano, Rv. 615577); nonché con l'ordinanza Sez. T, n. 24739/2013, ove, nel sollevare la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., dell'art. 37-bis, comma 4, del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, si evidenzia come sia irragionevole, nel quadro delle fattispecie antielusive, che il mero difetto di forma del contraddittorio debba necessariamente comportare l'invalidità dell'atto fiscale.

Le decisioni indicate, nel sottendere una interpretazione "orientata" in senso sostanzialistico del regime della invalidità conseguente alla violazione del principio del contraddittorio espresso dall'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, àncorano il fondamento della facoltà partecipativa del contribuente ai principi di legalità e imparzialità dell'azione amministrativa. L'organo procedente è giuridicamente tenuto a valutare tutte le deduzioni, osservazioni e richieste formulate dal contribuente nella perduranza del termine prescritto.

In tal modo, la concreta realizzazione del principio del contraddittorio endoprocedimentale si attua con il riconoscimento del diritto del contribuente ad un effettivo esame da parte dell'Amministrazione che procede all'accertamento delle osservazioni, opposizioni, doglianze e, in generale, argomentazioni proposte in fase istruttoria cui si può derogare solo in presenza di ragioni di urgenza oggettive ed oggettivamente gravi.

Le Sezioni Unite hanno anche cercato di definire il limite di rilevanza della violazione dell'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale in tema di accertamenti relativi a tributi "armonizzati" e di fornire utili elementi guida per la corretta applicazione del regime sanzionatorio.

La più attenta dottrina, per superare le indubbie perplessità applicative legate ai labili margini definitori dell'effettività dell'interesse alla interlocuzione nel procedimento, la dottrina più attenta [RAGUCCI, 2009, 94] osserva che la fase istruttoria è funzionale alla acquisizione e valutazione dei singoli dati (fatti e interessi) pertinenti e rilevanti ai fini dell'emanazione dell'atto, la sede naturale nella quale vengono verificate le condizioni di ammissibilità ed i requisiti di legittimazione, nonché le circostanze fattuali e tutti gli interessi, pubblici e privati, coinvolti nell'azione amministrativa. L'invalidità dell'atto impositivo adottato deriva dalla violazione della disposizione procedurale in esame, alla cui base – come visto – si collocano, non soltanto l'interesse del privato ad essere posto nella condizione di riversare nell'istruttoria tributaria tutti gli apporti conoscitivi funzionali a salvaguardarlo dall'adozione di atti d'accertamento ingiusti (e, sol perché adottati, potenzialmente lesivi), ma altresì l'interesse della stessa amministrazione finanziaria ad un modulo organizzativo dell'azione improntato all'obiettività e, almeno in via di regola, alla massima completezza dell'istruttoria, quali strumenti di più autentica attuazione dei valori costituzionali dell'imparzialità e del buon andamento, nonché, in definitiva, di pieno perseguimento dell'interesse fiscale dello Stato-comunità. L'omissione del contraddittorio in fase istruttoria produce una lesione sostanziale solo in quanto preclusivo dello svolgimento di difese non temerarie o pretestuose, da valutarsi sulla base di un giudizio prognostico ex ante.

Il danno del contribuente soggetto ad accertamento consegue alla impossibilità di introdurre tematiche istruttorie che l'Amministrazione procedente avrebbe potuto "ragionevolmente valutare", indipendentemente dalla eventuale infondatezza dei temi da proporre, che potrebbe essere riconosciuta a posteriori in sede di giudizio.

La sanzione della invalidità dell'atto impositivo "anticipato" deve, dunque, avere causa nella lesione di una posizione giuridica del contribuente, individuabile nell'interesse a formulare osservazioni e richieste in ordine ai risultati esposti nel p.v.c. o nell'atto istruttorio equipollente. L'inibizione all'esercizio del potere di accertamento si estende per tutta la durata del termine di legge e la conseguenza dell'invalidità dell'atto, sussistendo concrete posizioni di interesse, è presidio alla garanzia di tutela del contribuente [MARCHESELLI, 2015, par. 7]. Solo in tale ipotesi la violazione delle regole del contraddittorio endoprocedimentale costituisce lesione del "diritto" del contribuente e non può che comportare l'illegittimità dell'accertamento.

La lesione non si realizza, invece, nel caso in cui il soggetto passivo eccepisca la violazione del proprio diritto ad essere avvisato o sentito in fase istruttoria e non alleghi alcuna difesa nel merito, ovvero indichi circostanze manifestamente pretestuose, indici di difesa temeraria.

Nella ricostruzione fornita da Sez. U, n. 24823/2015 si richiede al contribuente che assume di aver subito una lesione del proprio diritto alla piena attuazione del contraddittorio nel procedimento di accertamento, di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere all'atto dell'accertamento, quando ancora la pretesa impositiva non era stata cristallizzata nell'atto tipico conclusivo del procedimento di accertamento.

Ciò non significa, però, che la limitazione della rilevanza della violazione dell'obbligo del contraddittorio nell'ipotesi in cui la sua osservanza "avrebbe potuto comportare un risultato diverso" del procedimento impositivo implichi l'effetto della nullità (parziale o totale) dell'accertamento soltanto se il contribuente fornisca in giudizio prova del fatto che l'omissione del contraddittorio gli ha impedito di far emergere circostanze e ragionamenti idonei ad attestare altri eventuali profili d'illegittimità o l'infondatezza (totale o parziale) della pretesa fiscale. Tale soluzione rende del tutto priva di rilevanza il diritto al contraddittorio nella fase amministrativa, proiettando la fondatezza del diritto alla interlocuzione alla concreta capacità del contribuente di provare in sede giudiziale l'illegittimità per altri profili della pretesa fiscale o la sua infondatezza, finendo così per derubricare l'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale <<a precetto senza sanzione, in contrasto con la stessa configurazione offertane dalla giurisprudenza della Corte di giustizia>>. Si ricorda, sul punto, che più volte la Corte di Giustizia ha affermato che, ai fini considerati, non può obbligarsi l'interessato <<a dimostrare che la decisione avrebbe avuto un contenuto differente, bensì solo che tale ipotesi non va totalmente esclusa in quanto avrebbe potuto difendersi più efficacemente in assenza dell'irregolarità procedurale>> (cfr.: Corte di Giustizia 1 ottobre 2009, in C-141/08, Foshan Shunde Yongjian Housewares, punto 94; 2 ottobre 2003, in C-194/99, Thyssen Stahl/Commissione, punto 31; 8 luglio 1999, causa C-51/92, Hercules Chemicals/Commissione, punto 81).

Ed allora, alla luce della giurisprudenza comunitaria, le Sezioni Unite riconoscono che la limitazione della rilevanza della violazione dell'obbligo del contraddittorio, all'ipotesi in cui la sua osservanza "avrebbe potuto comportare un risultato diverso" del procedimento impositivo, vada inteso nel senso che <<l'effetto della nullità dell'accertamento si verifichi allorché, in sede giudiziale, risulti che il contraddittorio procedimentale, se vi fosse stato, non si sarebbe risolto in puro simulacro, ma avrebbe rivestito una sua ragion d'essere, consentendo al contribuente di addurre elementi difensivi non del tutto vacui e, dunque, non puramente fittizi o strumentali>>.

Più in particolare, affinché scatti la sanzione della nullità del provvedimento impositivo non è sufficiente che, in giudizio, chi se ne dolga si limiti alla relativa formalistica eccezione, ma è, altresì, necessario che esso assolva l'onere di prospettare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l'opposizione di dette ragioni (valutate ex ante con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell'interesse sostanziale, per le quali l'ordinamento lo ha predisposto.

. BIBLIOGRAFIA

G. Marongiu, Lo statuto dei diritti del contribuente, Giappichelli, Torino, 2010

A. Marcheselli, Gli "otto" pilastri del principio del contraddittorio nel procedimento tributario nella giurisprudenza italiana ed europea", in Atti del seminario di aggiornamento professionale per i magistrati delle Commissioni tributarie delle Regioni Piemonte e Valle d'Aosta, 16-17 gennaio 2015, Torino

G. Ragucci, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Giappichelli, Torino, 2009

  • reato tributario
  • evasione fiscale

CAPITOLO XV

GLI ORIENTAMENTI E LE APPLICAZIONI PIÙ RECENTI IN TEMA DI ELUSIONE FISCALE

(di Andrea Venegoni )

Sommario

1 Introduzione. - 2 La clausola anti-elusione nell'evoluzione dottrinale e giurisprudenziale. - 3 Gli aspetti penali dell'abuso di diritto. - 4 Conclusioni. - BIBLIOGRAFIA

1. Introduzione.

Se si volesse esporre in estrema sintesi in cosa sia consistito fino ad oggi il problema ed il dibattito giuridico sul tema dell'abuso del diritto e del contrasto ai comportamenti elusivi nel nostro ordinamento tributario, si potrebbe dire che lo stesso sia ruotato sul riconoscimento dell'esistenza e sui termini di applicabilità di un principio generale antielusivo, che si sostanzia nel divieto dell'abuso del diritto, e sulla fonte normativa dello stesso, considerata l'assenza di una norma di rango legislativo ordinario in tal senso.

Fino all'ottobre 2015, infatti, non esisteva una norma di legge che proclamasse un generale divieto di abuso del diritto in funzione anti-elusiva, ma esistevano norme applicabili per settore di imposta, tutt'al più considerabili di carattere solo semi-generale. Ci si riferisce, in primo luogo, alla disposizione di cui all'art. 37 bis d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, introdotto dall'art. 7 del d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358 all'interno del testo di legge sull'accertamento delle imposte dirette, che rende inopponibili all'Amministrazione finanziaria atti o negozi privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti, legando tale principio a precisi requisiti sostanziali – il compimento di specifiche operazioni nominativamente elencate – e procedurali, sulle modalità di contestazione da parte del fisco, ma anche ad altre norme più specificamente settoriali, quale, per esempio, l'art. 20 del d.P.R. 24 aprile 1986 n. 131 in materia di imposta di registro, secondo cui l'applicazione dell'imposta dipende dalla sostanza degli atti posti in essere e non dalla forma degli stessi, o alla disciplina di cui all'art. 76 (ora 110), comma 5, del d.P.R. n. 917 del 1986 in materia di transfer pricing.

La costruzione di un principio generale anti-elusivo che andasse oltre i confini delle norme sopra citate è stata, quindi, essenzialmente una operazione giurisprudenziale, ma questo ha sollevato un intenso dibattito, perché il superamento per via pretoria delle fonti legislative già esistenti ha richiesto la definizione di tale principio, l'individuazione delle sue fonti e dei suoi confini applicativi; inoltre, il fatto che il riconoscimento di tale principio generale non avesse, almeno all'inizio, un riferimento in una norma di rango legislativo ordinario ha fatto sorgere in letteratura domande, in ultima analisi, sulla rispondenza di tale principio con la certezza del diritto.

Ora, il 1 ottobre 2015 è entrata in vigore nel nostro ordinamento la disciplina dell'abuso di diritto in materia fiscale, regolata nell'art. 10 bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, introdotto dal d. lgs. 5 agosto 2015, n. 128.

La collocazione della nuova norma, che unifica i concetti di elusione ed abuso del diritto dando una definizione di quest'ultimo, all'interno di un atto legislativo applicabile a tutti i tributi, quale è appunto il cd. Statuto dei diritti del contribuente, conferisce alla nuova disciplina un significato generale, rendendola operante per tutte le imposte e non solo per alcune. Anche l'espressa abrogazione, contenuta nella norma, del suddetto art. 37 bis d.p.r. 600 del 1973, conferma il suo valore di nuova disposizione di carattere generale.

In prospettiva futura, questo dovrebbe, pertanto, portare al superamento di molte questioni discusse negli ultimi anni, e sarà quindi interessante vedere le modalità concrete di applicazione e l'interpretazione che di tale norma darà la giurisprudenza, se e come la stessa modificherà il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi sull'argomento negli ultimi quindici anni circa.

2. La clausola anti-elusione nell'evoluzione dottrinale e giurisprudenziale.

Ma poiché la nuova norma sta muovendo i suoi primi passi proprio in queste settimane e non ha ancora, in concreto, dispiegato completamente i propri effetti, né può necessariamente ritenersi che con essa le discussioni sul tema saranno concluse, ai fini del presente contributo può essere interessante ripercorrere in estrema sintesi la genesi e lo sviluppo del tema nel nostro ordinamento, essendo uno degli argomenti sui quali più vivace si è sviluppato il dibattito in dottrina e giurisprudenza negli ultimi anni.

L'esistenza e l'interpretazione di una norma antielusiva nel sistema tributario italiano è un argomento del quale si dibatte da molto tempo, anche da ben prima dell'entrata in vigore delle norme settoriali di cui all'art. 37 bis d.p.r. 600 del 1973 o art. 20 del testo unico sull'imposta di registro, sopra citate.

La discussione dottrinale, infatti, risale almeno agli anni '20 e '30 del XX secolo, a seguito della trasformazione delle concezioni sulla natura dell'ordinamento fiscale, da sistema che limita la libertà dei cittadini e le cui norme sono, pertanto, eccezionali e non suscettibili di alcuna interpretazione né analogica né estensiva, a sistema funzionale a consentire la prestazione di servizi pubblici in favore di tutti i cittadini e quindi, in realtà, a permettere lo sviluppo delle libertà fondamentali degli stessi [FALSITTA, 2009, pag. 293]. In tale ottica, quindi, interpretazioni quale quella estensiva o anche analogica per contrastare situazioni elusive non solo non sono vietate, ma anzi assolutamente possibili. L'interpretazione antielusiva costituisce, quindi, <<una clausola generale di giustizia nella ripartizione del carico tributario tra i consociati>> e nasce dall'esigenza <<di impedire lo svuotamento di efficacia delle norme tributarie di imposizione ed agevolazione, allo scopo di dare piena attuazione al fondamentale obbligo di concorso alle spese pubbliche che deve gravare indistintamente su tutti>>.

Tuttavia, è solo a partire da un'epoca molto più recente che clausole anti abuso diventano norma di diritto positivo, con l'art. 20 del T.U. sull'imposta di registro, l'art. 10 della legge 29 dicembre 1990, n. 408, oggetto poi di modifiche nel tempo, in materia di imposte dirette, e, successivamente, con il già citato art. 37 bis inserito dal d.lgs. 358 del 1997 nella normativa sull'accertamento delle imposte dirette, il d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

Tale ultima disposizione, in particolare, pur avendo quasi assunto il rango di espressione di un principio semi-generale per la sua ampiezza, per la sua collocazione sistematica era ritenuta, però, avere comunque un ambito di applicazione specifico, in particolare al campo delle imposte dirette.

Dall'inizio degli anni 2000, però, come menzionato in apertura, si è sviluppata una elaborazione giurisprudenziale tendente ad affermare l'esistenza di una vera e propria clausola generale anti-elusiva nel nostro ordinamento, anche a prescindere dalla norma di diritto positivo di cui all'art. 37 bis.

Mentre in alcune prime sentenze risalenti agli anni 2001–2003, la Corte di cassazione si è occupata del tema anti elusione piuttosto timidamente, affermando alcuni principi quali l'inesistenza di un principio antielusivo generale di diretta applicazione giudiziale, la non rilevabilità d'ufficio della clausola anti elusiva, la irretroattività delle disposizioni antielusive speciali e la non necessità di ricorrere agli istituti civilistici della nullità o del negozio in frode alla legge per valutare la sorte dei negozi posti in essere per eludere il pagamento delle imposte e limitarne gli effetti [MANZON, 2013, pag. 225], a partire dal 2003 l'orientamento della Corte inizia gradualmente a mutare, avendo Sez. T, n. 07457/2003, Sotgiu, Rv. 563062, inaugurato un orientamento favorevole all'utilizzo delle nullità civilistiche in funzione antielusiva e lasciando intravedere l'applicazione di un principio generale di divieto dell'abuso di diritto.

Tale orientamento è poi definitivamente consacrato in alcune pronunce del 2005, Sez. T, n. 20398/2005, Altieri, Rv. 584630, Sez. T, n. 22932/2005, Altieri, Rv. 585562 e Sez. T, n. 20816/2005, Cicala, Rv. 584572, in cui la Corte stabilisce la nullità dei contratti elusivi, nella specie operazioni di dividend washing, facendo riferimento ad istituti di diritto civile, ed in particolare al difetto di causa in concreto, e cioè la mancanza di una ragione economica diversa dal risparmio fiscale, e l'applicabilità dell'art. 1344 c.c., considerando le norme tributarie come norme imperative a tutela dell'interesse generale del concorso paritario alle spese pubbliche di cui all'art. 53 Cost.

Nel fare ciò, la Corte stimola anche un dialogo con l'ordinamento sovranazionale dell'Unione, atteso che in tali sentenze si fa riferimento alla derivazione comunitaria di una clausola generale antielusiva espressione del principio del contrasto all'abuso del diritto in materia tributaria.

In effetti, l'anno successivo proprio la Corte di Giustizia sembra raccogliere tale invito a specificare i termini della questione, quando nel 2006, nella nota sentenza Halifax (CGUE, caso C-255/02), che sviluppa temi già affrontati in precedenza, esplicita il divieto di abuso del diritto comunitario come principio generale derivante dalla Sesta direttiva in materia di IVA, precisando altresì che può parlarsi di abuso del diritto quando le operazioni poste in essere hanno "essenzialmente" (e non "esclusivamente") lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale contrario all'obiettivo perseguito dalle norme che appaiono formalmente rispettate. Ovviamente, però, il riferimento ad un principio "generale" doveva essere inteso nei limiti dell'ordinamento di cui la Corte può conoscere, cioè quello dell'Unione, e quindi con riferimento alle imposte armonizzate.

A seguito di tale sentenza, e di quella ulteriore sempre della Corte di Lussemburgo nel caso Part Service (CGUE caso C-425/06) in cui la Corte di Lussemburgo ribadisce che <<l'esistenza di una pratica abusiva può essere riconosciuta qualora il perseguimento di un vantaggio fiscale costituisca lo scopo essenziale dell'operazione o delle operazioni controverse,>> e che la circostanza deve essere valutata in concreto dal giudice, la Cassazione ritorna sull'argomento nel 2008 (Sez. T, n. 25374/2008, Altieri, Rv. 605520), proprio nello stesso caso nel quale, in precedenza, aveva compiuto il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia che aveva determinato la sentenza appena sopra menzionata, specificando che il divieto dell'abuso di diritto costituisce una clausola generale antielusiva di derivazione comunitaria, operante, però, sia per i tributi armonizzati che per quelli non armonizzati, (<<la nozione assume il ruolo di Generalklausel antielusiva o di General AntiAvoidance Rule nell'ordinamento tributario: pur non esistendo una corrispondente enunciazione nelle fonti normative nazionali, la sua applicazione, come già riconosciuto dalla Corte (sentenza 21 settembre 2006, n. 21221 e, da ultima, 21 aprile 2008. n. 10257, entrambe in materia di imposizione diretta) s'impone per essere la stessa di formazione comunitaria. Con la conseguenza che la stessa opera anche al di fuori dei tributi "armonizzati "o" comunitari ", quali l'i.v.a., le accise e i diritti doganali>>), e che tale concetto può operare come una sorta di meccanismo di accertamento semplificato, senza che lo stesso sia incompatibile con altre categorie degli ordinamenti nazionali rilevanti la patologie dei contratti, quali la nullità.

Ancora nel 2008, poi, la Cassazione a Sezioni Unite (Sez. U, n. 30055/2008, D'Alessandro, Rv. 605850, e Sez. U, n. 30057/2008, D'Alessandro, Rv. 605907) specifica ulteriormente il concetto, in quanto, pur confermando l'esistenza di un generale principio di divieto di abuso del diritto, della cui esistenza l'introduzione di singole norme specifiche antielusive viene considerato sintomo, e non elemento contrario, ne individua il fondamento nell'art. 53 Cost. per i tributi non armonizzati, e nel diritto comunitario per i tributi armonizzati. Precisa anche che tale principio <<non si traduce nell'imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, ma nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali>> e la sua applicazione non si pone quindi in contrasto con il principio di riserva di legge di cui all'art. 23 Cost.

In decisioni successive, la Corte conferma sostanzialmente tale orientamento cercando di precisare meglio i limiti del principio, che hanno attirato sullo stesso numerosi commenti dottrinali, ad iniziare dalla sua indeterminatezza e dal rilievo che, espresso in tali termini generali, lo stesso sembra non tenere conto del fatto che, nel nostro ordinamento, in realtà almeno una norma anti-elusiva semi-generale non solo esisteva dal 1997 (il già citato art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973), ma la stessa era estremamente dettagliata, conteneva previsioni specifiche sostanziali sulla definizione della condotta illecita (mancanza di valide ragioni economiche degli atti o negozi posti in essere, con lo scopo di aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti) e procedurali sulle modalità con cui, nella pratica, la contestazione della non conformità della condotta all'ordinamento doveva avvenire [LUPI, STEVANATO, 2009, pag. 403].

Altri commenti si sono incentrati sulla diversa interpretazione data dalla Cassazione al concetto di "abuso del diritto" rispetto a quello espresso dalla Corte di Giustizia nella sentenza Halifax. Prescindendo dal fatto che quest'ultima si riferiva solo all'iva mentre la Corte Suprema, anche nelle sentenze successive, consolidava il proprio orientamento consistente nel creare, partendo da ciò, un vero e proprio principio generale di divieto di abuso di diritto applicabile quindi a tutti i settori di imposta (si veda, per esempio, la sentenza Sez. T, n. 08772/2008, Cicala, Rv. 603114), sono state messe in luce anche divergenze nella definizione stessa di "operazione abusiva". La Corte di Giustizia la ha ravvisata non solo nel conseguimento di un vantaggio fiscale pur nell'applicazione formale delle disposizioni di legge, ma anche nel fatto che l'ottenimento di tale vantaggio fiscale è, in realtà, contrario all'obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni applicate. Ciò è tanto vero, che in un altro caso, di poco precedente alla sentenza Halifax, il caso Cadbury Schweppes (Corte di Giustizia UE C-196/04), la Corte, pur affermando un generale principio di divieto di abuso della legislazione comunitaria per conseguire vantaggi fiscali indebiti, aveva ritenuto che il solo fatto che la sede di una società venisse stabilita in uno Stato Membro della UE con regime fiscale più vantaggioso non integrasse, di per sé, un abuso del principio di libertà di stabilimento.

La dottrina ha evidenziato come, invece, l'aspetto sopra menzionato – relativo al perseguimento di un obiettivo contrario a quello cui tendono le norme applicate – sia rimasto piuttosto in ombra nella giurisprudenza della Cassazione, cosicché avere legato il concetto di abuso di diritto al mero conseguimento di un vantaggio fiscale derivante dalla formalmente corretta applicazione delle norme avrebbe reso il confine tra abuso e mere operazioni di risparmio di imposta, del tutto lecite, molto sottile [LOVISOLO, 2009, pag. 49, Beghin, 2009, pag. 23 e ss.].

Col tempo, però, la Cassazione sembra avere chiarito meglio i contorni del principio da essa affermato. Sez. T, n. 01465/2009, Scuffi, Rv. 606466, per esempio, sembra fare chiarezza sul punto ed evitare il suddetto rischio nel momento in cui afferma che l'abuso costituisce un aggiramento della legge tributaria per scopi non propri, in linea quindi con i principi della sentenza Halifax secondo cui ciò che lo connota è lo scopo, il risultato al quale l'autore dell'operazione tende e non l'uso degli strumenti che esso utilizza. Il paventato pericolo di indeterminatezza del concetto di abuso e, soprattutto, la sua sovrapposizione ad operazioni del tutto lecite di mero risparmio fiscale inizia, quindi, ad essere scongiurato nelle stesse decisioni della Suprema Corte. Inoltre il concetto di abuso del diritto, pur mantenendo la valenza di principio generale datogli dalla Corte, viene maggiormente riferito all'art. 37 bis sia per quanto attiene agli aspetti sostanziali che procedurali.

Anche sez. T, n. 01372/2011, Didomenico, Rv. 616371, fornisce qualche, significativa, suggestione in più. In tale ultima decisione, infatti, pur ribadendosi i principi generali già proclamati dalla Corte sull'argomento, si pone, però, in evidenza la necessità che il "disegno elusivo" contestato al contribuente venga motivato comparativamente dall'amministrazione finanziaria nell'atto impositivo e si sottolinea la "particolare cautela" che deve guidare il giudice nell'applicazione del principio generale antielusivo, alla ricerca di una "giusta linea di confine" tra elusione e "libertà di scelta delle forme giuridiche", quale espressione della libertà d' impresa.

La tendenza ad una applicazione non indiscriminata dell'abuso di diritto ad ogni situazione di risparmio di imposta, nonché ad una interpretazione dello stesso in più stretta connessione con le norme esistenti appare essersi confermata nelle sentenze degli anni più recenti.

Sez. T, n. 00405/2015, Olivieri, Rv. 634069, è molto esplicita in tal senso, quando afferma che <<in materia tributaria, l'opzione del soggetto passivo per l'operazione negoziale fiscalmente meno gravosa non è sufficiente ad integrare una condotta elusiva, essendo necessario che il conseguimento di un "indebito"vantaggio fiscale, contrario allo scopo delle norme tributarie, costituisca la causa concreta della fattispecie negoziale>>. Nella specie, così, è stato ritenuto non costituire abuso del diritto, e ricadere al di fuori dell'art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 un contratto di sale and lease back, caratterizzato dalla cd. "clausola tandem", in virtù della quale la banca finanziatrice subentra alla società di leasing nel credito per i canoni residui, <<in quanto tale operazione, pur procurando al contribuente un risparmio d'imposta, collegato all'accelerata deducibilità della prima maxi-rata, consente di realizzare un concreto interesse, che rientra nella libertà d'iniziativa economica, sostituendo un pregresso debito bancario con un finanziamento a condizioni migliori, e non risulta, pertanto, irragionevole rispetto alle ordinarie logiche d'impresa>>.

Ancora nel 2015, Sez. T, n. 24024/2015, Botta, in corso di massimazione, dopo avere ribadito il fatto che l'abuso di diritto rappresenta un principio generale del nostro ordinamento, ha però confermato l'orientamento consolidatosi (Sez. T, n. 04603/2014, Greco, Rv. 629749) secondo cui ciò che connota tale figura è il risultato, lo scopo di eludere il fisco attraverso la manipolazione di schemi negoziali classici (allontanando così ogni rischio di confusione con le mere operazioni di lecito risparmio di imposta); ha, inoltre, affermato che, nelle materie già regolate da specifiche norme di legge (quale, tipicamente, il caso delle imposte dirette dove operava l'art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973), il concetto di abuso del diritto debba intendersi quasi tipizzato alla luce dei requisiti previsti da tali disposizioni, ad iniziare dalla individuazione della operazione specifica, tra quelle previste dell'art. 37 bis, che costituirebbe, nel singolo caso, il mezzo elusivo, cosicché la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva respinto il ricorso del contribuente sulla base dell'affermazione del principio astratto di abuso del diritto, richiedendo l'individuazione della specifica pratica abusiva che sarebbe stata posta in essere nella specie, in conformità a quanto previsto dal suddetto art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973.

Analogo ancoraggio dell'abuso di diritto all'art. 37 bis si ritrova in sez. T, n. 04561/2015, Ferro, Rv. 635403, secondo cui <<il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il cui fondamento si rinviene nell'art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600>>.

Ciò comporta come conseguenza, tra l'altro, l'abbandono del ricorso alle nullità civilistiche, perché ai fini del sistema tributario ciò che rileva, quando si debba stabilire se sussista abuso di diritto, non è la nullità o meno del negozio posto in essere, ma la sua opponibilità o meno all'Amministrazione finanziaria.

Da un punto di vista processuale, poi, se la giurisprudenza è generalmente costante nel ritenere che l'onere di provare l'abuso spetta alla Amministrazione che lo invoca (si veda, per esempio, Sez. T, n. 20029/2010, Giacalone, Rv. 614550, la sopra citata n. 04603/2014, o, ancora, Sez. T, n. 03938/2014, Terrusi, Rv. 629733) ugualmente si riscontra un orientamento favorevole alla rilevabilità anche d'ufficio.

Ancora nella sentenza sopra citata n. 24025/2015, insieme ad altre sempre recentissime del 2015, la Corte, oltre a ribadire il principio per cui <<la fattispecie dell'abuso di diritto e la sua valutazione da parte del giudice nazionale rappresenta un principio generale vigente nell'ordinamento italiano, con radici comunitarie e costituzionali>> ha ripetuto che la sua rilevabilità in sede processuale <<non trova di per sé ostacolo nella mancata allegazione da parte dell'Amministrazione finanziaria e può quindi essere rilevato d'ufficio in sede giurisdizionale>> (Sez. T, n. 05380/2015, Federico.

La nuova disposizione, frutto dell'attuazione della delega fiscale concepita addirittura nel 2012 dal Governo allora in carica e la cui approvazione ha avuto un iter piuttosto travagliato [MANZON, 2013, pag. 225], interviene ora nel dibattito, come detto, non con una portata enormemente rivoluzionaria nella definizione, quanto più con una innovazione nel significato complessivo, ponendosi come norma che per la prima volta codifica un principio generale di abuso del diritto nel nostro ordinamento. In ogni caso, fissa le caratteristiche dell'istituto nella "mancanza di sostanza economica" delle operazioni poste in essere che realizzano vantaggi fiscali "indebiti", distinguendosi così dai meri risparmi di imposta leciti. La norma contiene poi una definizione di "assenza di sostanza economica" e di "vantaggio fiscale indebito", riecheggiando, a proposito di questa ultima definizione, i principi risalenti al caso Halifax, laddove fa riferimento a "vantaggi realizzati in contrasto con la finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario". Contiene, poi, l'espressa abrogazione dell'art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973.

3. Gli aspetti penali dell'abuso di diritto.

Un brevissimo accenno non può non essere compiuto anche ai riflessi penali dell'abuso di diritto, atteso che, almeno in passato, le condotte che lo integravano potevano avere dei risvolti anche da questo punto di vista. In particolare, potevano costituire quanto meno il reato di dichiarazione fraudolenta di cui all'art. 4 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74.

In effetti, non sono mancate in passato, nella giurisprudenza della Corte di cassazione, decisioni che hanno ritenuto integrato il reato sulla sola base di condotte elusive, e non necessariamente di evasione. Cass. pen., Sez. 2, n. 07739 del 2011, Rv. 252019, per esempio, ha stabilito che i reati tributari di dichiarazione infedele o di omessa dichiarazione possono consistere anche solo in condotte elusive ai fini fiscali che siano strettamente riconducibili alle ipotesi di abuso di diritto previste dalla legge, richiamando esplicitamente gli artt. 37, comma 3, e 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973.

La nuova disposizione, invece, al comma 13, oggi esclude espressamente che le condotte integranti abuso di diritto abbiano rilievo penale. Di tale nuova norma è già stata compiuta applicazione da parte della Corte di Cassazione in un caso, relativo a contratti di stock lending, cioè di prestiti di titoli che determinavano perdite fiscali da opporre in compensazione alle attività della società, in cui l'udienza di discussione era fissata proprio il giorno di entrata in vigore della norma, il 1 ottobre 2015. La norma, quindi, è stata applicata con effetto retroattivo, essendosi, in sostanza, realizzata una vera e propria abolitio criminis (Cass. pen., Sez. 3, n. 40272 del 2015), senza che, ai fini penali, sia stato dato valore al limite di applicabilità temporale dell'art. 10 bis alle sole situazioni in cui non fosse stato ancora notificato un atto impositivo ai fini fiscali.

4. Conclusioni.

Non c'è dubbio che il tema dell'abuso di diritto e dell'elusione fiscale sia stato sempre più trattato nel corso degli ultimi anni dalle istituzioni con l'attenzione ed il rilievo che esso merita, non dovendosi dimenticare che si tratta di argomento che, riguardando prevalentemente le imprese e la loro attività, riguarda, in ultima analisi, anche l'economia del Paese.

Lo stesso continua così ad essere al centro delle analisi non solo della giurisprudenza, ma, ovviamente, anche da parte dell'amministrazione finanziaria. Ne è un esempio una recentissima circolare della Agenzia delle Entrate, la n. 36/E dell'1 dicembre 2015, che, a proposito delle società titolari di beni immateriali quali lo sfruttamento dei diritti legati a brevetti, chiarisce che le operazioni di costituzione delle stesse, anche tramite fusioni, scissioni o conferimento di azienda, che determinano, tra l'altro, il venir meno dell'obbligo di presentazione della istanza di ruling per la determinazione del contributo economico direttamente conseguito, non possono considerarsi abusive e non integrano per ciò solo abuso di diritto.

L'argomento è anche al centro degli aspetti organizzativi della giustizia tributaria se è vero che il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, alla luce dell'entrata in vigore anche degli altri decreti attuativi della delega fiscale, ha raccomandato le commissioni tributarie, che nel 2016 dovranno costituire al loro interno sezioni specializzate, di individuare per ciascuna sezione udienze periodiche dedicate alla trattazione delle controversie sull'applicazione dell'art. 10 bis della legge 212 del 2000, in modo da affrontare rapidamente le questioni che si presentino sulla nuova normativa, creare orientamenti uniformi in materia e fornire quella certezza del diritto che una parte della dottrina riteneva messa in discussione dalla costruzione per via solo giurisprudenziale del principio generale.

Sarà quindi interessante notare gli sviluppi nei prossimi mesi ricordando che, come detto sopra, l'importanza dell'argomento va probabilmente al di là del campo giuridico ed attiene in qualche misura allo sviluppo economico del Paese. Si tratterà, quindi, di trovare il giusto equilibrio tra il non penalizzare operazioni economiche, anche originali, che, senza essere dettate da scopi elusivi, possano permettere alle imprese, anche attraverso risparmi leciti di imposta, di risollevarsi dalla crisi di questi anni, ed assicurare il principio, su cui in sostanza si fonda il patto sociale che regge gli Stati moderni, secondo cui il pagamento delle imposte in misura proporzionata alla propria capacità contributiva è un dovere non solo giuridico, ma anche morale per l'altrettanto fondamentale sviluppo, sotto ogni punto di vista, della società in cui viviamo.

. BIBLIOGRAFIA

Falsitta, L'interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in Corr. Giur., 3/2009, pag. 293

Manzon, Note a margine del fallimento del primo "vero" tentativo di codificazione in materia di abuso del diritto/elusione fiscale, in Corr. Giur., n.2/2013, pag. 225

Lupi, Stevanato, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva, in Corr. Trib., 6/2009, pag. 403

Lovisolo, Abuso del diritto e clausola generale antielusiva alla ricerca di un principio, in Riv. Dir. Trib., 1/2009, pag. 49

Beghin, Evoluzione e stato della giurisprudenza tributaria: dalla nullità negoziale all'abuso del diritto nel sistema impositivo nazionale, in Quaderni della Rivista di dir. Trib., Elusione ed abuso nel diritto tributario, a cura di G. Maisto, 2009, pag. 23

  • fiscalità
  • proprietà immobiliare
  • separazione legale
  • divorzio

CAPITOLO XVI

IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE

(di Francesca Picardi )

Sommario

1 I trasferimenti immobiliari relativi a separazione e divorzio. - 1.1 I trasferimenti immobiliari integranti condizioni di separazione o divorzio. - 1.2 I trasferimenti immobiliari integranti meri patti accessori. - 2 L'art. 19 della legge n. 74 del 1987 e la sua evoluzione. - 3 La persistente vigenza dell'esenzione riguardo ai trasferimenti immobiliari relativi a separazione e divorzio. - 4 Il prelievo fiscale oggetto di esenzione. - 5 I trasferimenti immobiliari esenti. - 6 La decadenza dall'agevolazione prima casa - BIBLIOGRAFIA

1. I trasferimenti immobiliari relativi a separazione e divorzio.

In sede di separazione consensuale o divorzio congiunto è frequente che i coniugi prevedano o programmino trasferimenti immobiliari, che possono integrare:

– vere e proprie condizioni del ricorso congiunto, ove siano strumentali alla definizione delle obbligazioni derivanti dal rapporto di coniugio o dal ruolo di genitore;

– meri patti accessori, qualora siano relativi a rapporti autonomi rispetto a quelli familiari che possono, tuttavia, essere definiti in questo contesto, essendo meritevole di tutela l'interesse delle parti a scindere ogni precedente legame patrimoniale al fine di trovare un più sereno equilibrio.

In entrambi i casi si pone il problema della forma e della trascrivibilità di detti accordi. In proposito può osservarsi che il ricorso congiunto introduttivo dei relativi procedimenti, sottoscritto dai coniugi, integra un contratto con forma scritta ed è, quindi, astrattamente idoneo a produrre immediati effetti traslativi tra le parti ai sensi dell'art. 1350 n. 1 c.c., ma non è titolo per la trascrizione, che, in virtù dell'art. 2657 c.c., si può eseguire solo in forza di sentenza, atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente.

Occorre, piuttosto, verificare se possa qualificarsi atto pubblico o scrittura privata autenticata, suscettibile di trascrizione, il verbale di udienza in cui confluisce l'accordo processuale di separazione consensuale e se possa ricomprendersi nei provvedimenti suscettibili di trascrizione, ritenuti un numerus clausus, la sentenza di divorzio congiunto che recepisce il trasferimento immobiliare pattuito dai coniugi. L'esistenza di tali dubbi e soprattutto di prassi ed orientamenti diversi negli uffici giudiziari e nelle conservatorie, unitamente all'avvertita necessità di un più approfondito controllo sulla regolarità urbanistica, catastale e sulla sussistenza dei requisiti necessari alla circolazione dei beni, comporta che spesso i coniugi ripetano l'accordo con rogito notarile oppure si limitino, in sede di separazione e divorzio, ad assumere un mero impegno, realizzando successivamente il trasferimento immobiliare dinanzi al notaio.

1.1. I trasferimenti immobiliari integranti condizioni di separazione o divorzio.

Il trasferimento immobiliare integra una condizione della separazione consensuale o del divorzio congiunto quando è strumentale all'adempimento degli obblighi derivanti dal matrimonio nei confronti dell'altro coniuge o dei figli (ad esempio, quando assume funzione solutoria rispetto all'obbligo di mantenimento o a quello di corrispondere l'assegno divorzile o quando assicura il godimento della casa familiare).

Invero la possibilità di un adempimento in un'unica soluzione delle obbligazioni de quibus, che presentano, per loro natura, un carattere continuativo e periodico, essendo connesse alla soddisfazione di esigenze costanti nel tempo, è espressamente prevista dal legislatore solo relativamente all'assegno divorzile. Ciò ha indotto una parte della dottrina e della giurisprudenza a dubitare dell'ammissibilità di eventuali condizioni della separazione o del divorzio che prevedano l'adempimento dell'obbligo di mantenimento del coniuge o dei figli tramite un trasferimento immobiliare (o anche mobiliare), attesa, da un lato, la possibilità che tale attribuzione patrimoniale non si traduca in una costante fonte di reddito, necessaria ai fini del soddisfacimento dei bisogni quotidiani, e, dall'altro lato, la tendenziale incompatibilità dei trasferimenti immobiliari con la clausola rebus sic stantibus, che, in virtù degli artt. 337 quinquies (già 155 ter) c.c., 710 c.p.c. e dell'art. 9 l. divorzio, integra la regola generale del regime della famiglia in crisi. In particolare appare problematico configurare, in caso d'impoverimento dell'obbligato o di arricchimento del beneficiario, la risoluzione totale o parziale del contratto traslativo avente funzione solutoria dell'obbligo di mantenimento. Difatti, secondo Sez. 2, n. 11342/2004, Fiore, Rv. 573684, la pattuizione, intervenuta in sede di separazione consensuale, contenente l'impegno di uno dei coniugi, al fine di concorrere al mantenimento del figlio minore, di trasferire, in favore di quest'ultimo, la piena proprietà di un bene immobile, non è soggetta né alla risoluzione per inadempimento, né all'eccezione d'inadempimento, non essendo ravvisabile, in un siffatto accordo solutorio sul mantenimento della prole, alcun rapporto di sinallagmaticità tra prestazioni, poichè il mantenimento della prole è un obbligo ineludibile di ciascun genitore, imposto dal legislatore e non derivante, con vincolo di corrispettività, dall'accordo di separazione tra i coniugi, che può solo regolarne le concrete modalità di adempimento.

Ad ogni modo, la giurisprudenza di legittimità è propensa ad ammettere, alla luce del ruolo fondamentale ormai riconosciuto all'autonomia negoziale dei coniugi e dei genitori in ordine ai profili economici connessi alle posizioni familiari, l'accordo con cui si preveda l'adempimento dell'obbligazione di mantenimento in un'unica soluzione, tramite l'attribuzione di beni immobili o mobili (cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 21736/2013, Falaschi, Rv. 627773, secondo cui la convenzione intervenuta tra i coniugi in sede di separazione consensuale, con la quale si pattuisce un trasferimento patrimoniale ai figli, a titolo gratuito e in funzione di adempimento dell'obbligo genitoriale di mantenimento, non è nulla, qualora garantisca il risultato solutorio, non essendo in contrasto con norme imperative, né con diritti indisponibili; Sez. 2, n. 03747/2006, Oddo, Rv. 594127, secondo cui l'obbligo di mantenimento dei figli minori ovvero maggiorenni non autosufficienti può essere legittimamente adempiuto dai genitori mediante un accordo che, in sede di separazione personale o di divorzio, attribuisca direttamente – o impegni il promittente ad attribuire – la proprietà di beni mobili o immobili ai figli, senza che tale pattuizione integri gli estremi della liberalità donativa, assolvendo, di converso, ad una funzione solutorio-compensativa dell'obbligo di mantenimento; Sez. 2, n. 11342/2004, Fiore, Rv. 573683, secondo cui è di per sè valida la clausola dell'accordo di separazione che contenga l'impegno di uno dei coniugi, al fine di concorrere al mantenimento del figlio minore, di trasferire, in suo favore, la piena proprietà di un bene immobile, trattandosi di pattuizione che dà vita ad un contratto atipico, distinto dalle convenzioni matrimoniali e dalle donazioni, volto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico, ai sensi dell'art. 1322 c.c.).

Del resto, l'assenza di un'espressa disciplina preclude l'applicabilità della regola dettata dall'art. 5, comma 8, della legge n. 898 del 1970 secondo cui, in caso di corresponsione in unica soluzione dell'assegno divorzile, non può più essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico, ma non esclude la liceità degli accordi diretti a realizzare interessi meritevoli e compatibili con la tutela dei figli e del coniuge economicamente più debole, ivi compresi quelli aventi ad oggetto l'attribuzione di uno o più beni con funzione solutoria degli obblighi di mantenimento. Né può ritenersi, in re ipsa, tale operazione contraria alla salvaguardia delle posizioni dei figli e del coniuge in assenza di un meccanismo di adeguamento automatico del valore della prestazione, astrattamente compatibile solo con una prestazione pecuniaria di carattere periodico, tenuto conto della possibilità che il valore dei beni, definitivamente attribuiti in un'unica soluzione, non diminuisca, ma, al contrario, aumenti con il trascorrere del tempo e non risenta del problema della svalutazione monetaria. Piuttosto, all'adempimento in un'unica soluzione non può attribuirsi, in assenza di un'espressa previsione in tal senso, l'effetto di estinguere, in modo definitivo ed integrale, l'obbligazione di mantenimento nei confronti del coniuge o dei figli, stante la sottoposizione delle condizioni di separazione e divorzio al principio generale rebus sic stantibus e la conseguente impossibilità di estendere in via analogica la regola, di carattere eccezionale, dell'art. 5, comma 8, della legge l. n. 898 del 1970. Un suggerimento in tal senso si può desumere da Sez. 1, n. 02088/2005, Luccioli, Rv. 583543, secondo cui la pattuizione conclusa in sede di separazione personale dei coniugi non esime il giudice del divorzio dal verificare se essa abbia avuto ad oggetto la sola pretesa azionata nella causa di separazione ovvero se sia stata conclusa a tacitazione di ogni pretesa successiva, e, in tale seconda ipotesi, dall'accertare se, nella sua concreta attuazione, essa abbia lasciato anche solo in parte inadempiuto l'obbligo di mantenimento nei confronti della prole, di cui si deve sempre assicurare la piena realizzazione con l'adozione di idonei provvedimenti. Sarà, pertanto, sempre possibile la richiesta di un'integrazione della prestazione, mentre appare preclusa, in caso d'impoverimento del coniuge obbligato o di arricchimento di quello beneficiario, la richiesta di una sua diminuzione, atteso che non sembrano configurabili i presupposti della risoluzione rispetto all'obbligazione di mantenimento. Potrebbe, però, farsi discendere dalla stessa volontà dei coniugi, liberamente formatasi, la rinuncia, da parte dell'obbligato, al diritto di adeguare la prestazione al peggioramento delle proprie condizioni economiche: rinuncia che è funzionale alle esigenze di tutela del coniuge debole e dei figli.

1.2. I trasferimenti immobiliari integranti meri patti accessori.

I trasferimenti immobiliari non assurgono a condizioni della separazione o del divorzio ove la loro causa non presenti alcun collegamento con i rapporti familiari, da cui restano del tutto autonomi e sganciati. In sede di separazione e divorzio, i coniugi possono, difatti, nell'ottica di una riorganizzazione e sistemazione complessiva del loro assetto patrimoniale, concludere delle vere e proprie vendite, donazioni, divisioni o semplicemente adeguare alla realtà sostanziale pregresse intestazioni fiduciarie, in passato giustificate dall'affectio coniugalis. In tale ipotesi, il trasferimento immobiliare non interferisce sui rapporti familiari, a cui semplicemente si aggiunge, sicché non esclude l'adempimento, nei modi tradizionali, degli obblighi di mantenimento, così come può riguardare immobili diversi dalla casa familiare.

Non mancano opinioni contrarie all'ammissibilità, in sede di separazione o divorzio, di simili pattuzioni, semplicemente occasionate e non funzionalmente collegate alla soluzione della crisi familiare. Si è, tuttavia, osservato che il vero problema non concerne la validità di tali accordi, che, comunque, ricadono nell'esplicazione dell'autonomia negoziale dei coniugi, per cui non vi è ragione di negarne l'inserimento nel ricorso congiunto di separazione o divorzio, ma piuttosto riguarda l'individazione della loro disciplina. In particolare ci si chiede se la loro efficacia sia subordinata al controllo del giudice e, dunque, all'omologazione della separazione consensuale o alla pronuncia del divorzio congiunto o piuttosto ne prescinda, e soprattutto quale, sia rispetto ad essi, il ruolo dell'organo giudicante.

Invero, relativamente al trasferimento immobiliare con funzione solutoria, che confluisce nel contenuto necessario delle condizioni di separazione e divorzio, il giudice deve necessariamente verificare il rispetto dei diritti e doveri inderogabili che derivano dal matrimonio e la funzionalità dell'accordo rispetto agli interessi tutelati, il cui esito dipende dalle possibilità reddittuali e patrimoniali dei coniugi e dalle caratteristiche del bene trasferito. Invece, relativamente ai patti accessori non appare attribuito al giudice alcun potere di controllo, non scaturendo dal vincolo matrimoniale o dalla crisi familiare alcuna limitazione alla libertà negoziale dei coniugi. Dovrebbe, dunque, concludersi che gli effetti di quegli accordi patrimoniali dei coniugi, che sono meri patti accessori alla separazione o al divorzio, non sono subordinati al provvedimento giudiziario, sia esso decreto di omologa o sentenza di divorzio, dovendo anzi l'autorità giudiziaria, che non può introdurre vincoli non previsti dalla legge, limitarsi ad un non luogo a provvedere o ad una mera presa d'atto.

2. L'art. 19 della legge n. 74 del 1987 e la sua evoluzione.

Occorre ora individuare il regime tributario dei trasferimenti immobiliari che, come visto, possono confluire nel ricorso congiunto di separazione, di divorzio o di modifica delle relative condizioni e, dunque, essere recepiti rispettivamente nell'accordo processuale, sottoposto all'omologa del Tribunale, nella sentenza o nel decreto che concludono il procedimento.

L'art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74, in modo analogo a quanto previsto dall'art. 82 della legge 4 maggio 1983, n. 184 relativamente alle procedure di affidamento e di adozione del minore di età, dispone che sono esenti dall'imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché ai procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti ad ottenere la corresponsione o revisione degli assegni di cui agli artt. 5 e 6 della legge 1° dicembre 1970, n. 898.

La terminologia utilizzata – più precisamente l'espressione atto, in aggiunta ai documenti e provvedimenti, e il collegamento al procedimento in termini di relazione e non di appartenenza – ha indotto a ricomprendere, sin da subito, nell'esenzione anche gli accordi traslativi dei coniugi.

Prima di verificare entro che limiti ciò possa avvenire, però, occorre brevemente soffermarsi sull'ambito applicativo di tale disciplina, che è stato progressivamente ampliato, in considerazione della stessa ratio del beneficio, per effetto di tre pronunce additive d'incostituzionalità.

Più precisamente Corte cost., 15 aprile 1992, n. 176 e Corte cost., 10 maggio 1999, n. 154 hanno dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 19 prima nella parte in cui non estende l'esenzione anche alle iscrizioni d'ipoteca effettuate a garanzia delle obbligazioni assunte dal coniuge in sede di separazione e successivamente nella parte in cui non estende l'esenzione a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi. Difatti, l'esigenza di agevolare l'accesso alla tutela giurisdizionale, che motiva e giustifica il beneficio fiscale con riguardo agli atti del procedimento di divorzio, è ancor più accentuata nel giudizio di separazione, ove la situazione di contrasto tra i coniugi, cui occorre dare uno sbocco, presenta, di regola, toni di ben maggiore asprezza e drammaticità, sicchè risulterebbe irragionevole e, quindi, in contrasto con l'art. 3 Cost. diversificare il profilo tributario delle due procedure. In questo modo si è, dunque, pervenuti all'integrale abrogazione dell'art. 8, lettera f), della Tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, che assoggettava all'imposta fissa di registro gli atti dell'autorità giudiziaria in materia di separazione e divorzio, ancorché recanti condanne al pagamento di assegni o attribuzione di beni patrimoniali già facenti parte di comunione fra i coniugi.

Infine, Corte cost. 11 giugno 2003, n. 202 ha dichiato l'illegittimità costituzionale dell'art. 8, lettera b), della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, n. 131, ove non esenta dall'imposta di registro i provvedimenti emessi in applicazione dell'art. 148 c.c. nell'ambito dei rapporti fra genitori e figli, atteso che il trattamento di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987 tutela il figlio minore per il cui mantenimento è disposto il contributo a carico di un genitore ed a favore dell'altro, sicché la sua omessa previsione relativamente alla prole naturale, oltre ad essere irragionevole, con violazione dell'art. 3 Cost., si risolve in un trattamento deteriore dei figli naturali rispetto ai figli legittimi, in contrasto con l'art. 30 Cost. Va, tuttavia, sottolineato che tale pronuncia si riferisce esclusivamente ai provvedimenti dell'autorità giudiziaria e non anche agli atti ed ai documenti, per cui non sembra ancora raggiunta un'integrale equiparazione tributaria della crisi della famiglia legittima e di quella di fatto, che sarebbe alquanto auspicabile, anche alla luce del principio di uguaglianza [Giunchi, 2012, 7].

Oggi si pone, inoltre, il problema dell'applicazione dell'esenzione in esame agli eventuali trasferimenti immobiliari confluiti o programmati nella convenzione di negoziazione assistita di cui all'art. 6, comma 2, del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito in legge 10 novembre 2014, n. 162. Rassicura in tale senso la risoluzione n. 65/E del 16 luglio 2015, con cui l'Agenzia delle Entrate, data la parificazione degli effetti della convenzione di negoziazione assistita ai provvedimenti giudiziali di separazione e divorzio, ha affermato l'applicabiità dell'art. 19 della legge n. 74 del 1987 ai trasferimenti immobiliari ivi previsti, sempreché dal testo dell'accordo medesimo, la cui regolarità sia stata vagliata dal Procuratore della Repubblica, emerga che le disposizioni patrimoniali siano funzionali e indispensabili ai fini della risoluzione della crisi coniugale.

Ad ogni modo, bisogna chiedersi se il trattamento di favore di cui all'art. 19 della legge n. 77 del 1987 sia sopravvissuto all'art. 10, comma 4, del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23 che ha sopresso, a decorrere dal 1° gennaio 2014, tutte le esenzioni ed agevolazioni tributarie, anche se previste in leggi speciali, in relazione agli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili ed agli atti traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari di godimento, salva una serie di eccezioni, in cui, però, non vi è alcuna menzione della disposizione in esame.

3. La persistente vigenza dell'esenzione riguardo ai trasferimenti immobiliari relativi a separazione e divorzio.

Ad avviso dell'Agenzia delle Entrate (par. 9.2 della circolare n.2/E del 21 febbraio 2014), qualora nell'ambito della separazione e del divorzio vengano posti in essere dei trasferimenti immobiliari continua ad applicarsi, anche successivamente al 1° gennaio 2014, l'art. 19 della legge n. 74 del 1987, che non ricade nell'abrogazione disposta dall'art. 10, comma 4, del d.lgs. n. 23 del 2011.

A fronte di tale atteggiamento dell'Agenzia delle Entrate non dovrebbe esservi sul punto occasione di contenzioso e, quindi, di un chiarimento della Suprema Corte.

In dottrina, la sopravvivenza dell'art. 19 della legge n. 74 del 1987 riguardo ai trasferimenti immobiliari relativi a separazione e divorzio, nonostante l'entrata in vigore dell'art. 10, comma 4, del d.lgs. n. 23 del 2011, è stata sostenuta in considerazione:

- della difficoltà di attribuire a tali negozi natura onerosa;

- del carattere generale dell'esenzione, che non riguarda solo i trasferimenti a titolo oneroso, ma tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi a separazione e divorzio, traducendosi, dunque, non in un'agevolazione, ma piuttosto nel trattamento tributario specifico delle crisi familiari [FORMICA – Giunchi, 1999, 8; Glendi, 2014, 734; sono state espresse, però, anche posizioni di compromesso: v. ANSELMI, 2013, 1335, secondo cui l'esenzione continuerà ad applicarsi solo a quei trasferimenti di cui non emerga con sicurezza la natura onerosa].

Peraltro, può osservarsi che la crisi familiare comporta sempre un impoverimento dei componenti l'originario nucleo, che prima beneficiava del risparmio di spesa collegato alla comune organizzazione, sicchè nessuno degli atti, documenti o provvedimenti relativi a separazione o dovorzio sono idonei ad esprimere un'effettiva capacità contributiva. Pertanto, l'abrogazione, anche solo parziale, dell'esenzione di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987, che ha un fondamento costituzionale, in quanto fondata sull'assenza di capacità contributiva degli atti relativi a separazione e divorzio, comporterebbe dubbi di conformità rispetto all'art. 53 Cost.

4. Il prelievo fiscale oggetto di esenzione.

L' esenzione dall'imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa, contemplata dall'art. 19 della legge n. 74 del 1987, si estende ad ogni tipo di tributo, indipendentemente dalla natura d'imposta (diretta o indiretta) o tassa in senso proprio, posto che il riferimento, presente nella norma, ad ogni altra tassa, subito dopo l'indicazione di due imposte, è sintomatica di un uso atecnico del termine, che è, dunque, idoneo a ricomprendere le imposte ipotecarie e catastali, l'imposta sul valore aggiunto, l'imposta sull'incremento di valore degli immobili.

Così, ad esempio, Sez. T, n. 06065/2000, Graziadei, Rv. 536422 e Sez. T, n. 15212/2000, Sotgiu, Rv. 542156 hanno ritenuto ricadere nell'ambito applicativo della disposizione in esame anche l'INVIM. Successivamente Sez. T, n. 02347/2001, Sotgiu, Rv. 543934 ha confermato la decisione di merito, che aveva ritenuto esente da INVIM il conguaglio in denaro a fronte di un trasferimento immobiliare attribuito ad uno dei coniugi in sede di conciliazione giudiziale sullo scioglimento della comunione dei beni, nell'ambito del giudizio di divorzio.

5. I trasferimenti immobiliari esenti.

Più incerta e complessa risulta l'individuazione degli atti negoziali relativi a separazione e divorzio e, dunque, ricompresi nell'ambito applicativo dell'esenzione in esame.

Dal punto di vista testuale, l'aggettivo relativi allude ad un rapporto di connessione, senza, tuttavia, chiarire se sia richiesto un collegamento funzionale o se sia sufficiente un collegamento meramente occasionale.

La prima interpretazione circoscrive il regime di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987 esclusivamente ai trasferimenti immobiliari dipendenti da separazione e divorzio e, cioè, posti in essere per adempiere agli obblighi di mantenimento da essi derivanti o per assicurare il godimento della casa familiare, sottolineando la natura oggettiva e non meramente soggettiva dell'agevolazione in esame, che non può, dunque, investire qualsiasi accordo solo perché posto in essere dai separandi o divorziandi

Secondo l'altra tesi, invece, l'esenzione si estende anche alle vicende traslative che, sebbene del tutto autonome dai rapporti familiari, sono originate dalla crisi familiare, in considerazione dell'esigenza avvertita dai coniugi di sistemare la reciproca situazione economica, recidendo gli eventuali legami e sostegni passati, atteso che, comunque, la frammentazione del patrimonio familiare, unitamente alla perdita del risparmio fondato sulla pregressa organizzazione comune, elimina una reale ed effettiva capacità contributiva.

Ad ogni modo, secondo entrambe le proposte ermeneutiche, non è indispensabile che l'atto traslativo sia realizzato in sede di separazione e divorzio, per cui beneficiano dell'esenzione anche i contratti stipulati per atto pubblico notarile o scrittura privata autenticata da notaio, ove relativi ai procedimenti di separazione o divorzio. Peraltro, l'interpretazione dell'art. 19 della legge n. 74 del 1987 non può prescindere dall'orientamento di molti uffici giudiziari, che escludono la possibilità d'inserire nelle condizioni della separazione consensuale o del divorzio congiunto un accordo immediatamente traslativo, ammettendo esclusivamente l'assunzione, da parte dei coniugi, di eventuali obblighi a trasferire. In questo senso appare, del resto, orientata la giurisprudenza di legittimità, che riconosce l'esenzione ex art. 19 della legge n. 74 del 1987 anche ai trasferimenti immobiliari realizzati fuori dalla sede giudiziaria in ottemperanza ad un'obbligazione assunta in sede di separazione consensuale o divorzio congiunto (v., ad esempio, Sez. T, n. 11458/2005, Meloncelli, Rv. 581955).

La realizzazione dell'effetto traslativo in sede extra-processuale rende, però, necessario che, in qualche modo, emerga il collegamento con i procedimenti giudiziari di separazione e divorzio. Per coloro che limitano l'esenzione alle sole vicende traslative dipendenti da separazione e divorzio, il collegamento non può che risultare dalle condizioni di separazione e divorzio, in cui l'accordo necessariamente confluisce, eventualmente in forma programmatica, riguardando le modalità di adempimento degli obblighi di mantenimento o il godimento della casa familiare ed essendo, pertanto, soggetto al controllo giudiziario. Per coloro che, invece, ritengono sufficiente, ai fini dell'esenzione, un collegamento anche solo occasionale con i procedimenti di separazione e divorzio, tale aspetto è più complesso. Sicuramente l'inserimento nel ricorso congiunto dei coniugi del trasferimento immobiliare o dell'obbligo di realizzarlo costituisce un indizio grave, preciso e concordante, da cui deriva una presunzione che, in sede contenziosa, incombe all'Amministrazione finanziaria rovesciare, mentre l'assenza di una qualsivoglia previsione nelle condizioni di separazione e divorzio pone in capo al contribuente l'onere probatorio, secondo la regola generale per cui chi vuole usufruire di un regime agevolato, in caso di contestazione, deve dimostrarne i presupposti (Sez. T, n. 21406/2012, Valitutti, Rv. 624363).

La giurisprudenza di legittimità sembra orientata verso un'interpretazione restrittiva che esige, ai fini dell'esenzione, un collegamento di tipo funzionale del trasferimento immobiliare con la separazione o il divorzio, la cui esistenza viene riconosciuta, però, anche nell'ipotesi della divisione di un bene originariamente acquistato in regime di comunione legale.

Così, ad esempio, secondo Sez. T, n. 15213/2001, Cicala, Rv. 550764, l'esenzione di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987 opera con esclusivo riferimento a quegli atti che integrano il naturale contenuto patrimoniale della separazione o del divorzio, mentre non si estende a quelli che ne sono solo occasionalmente generati, per cui va esclusa riguardo alla divisione, confluita nel verbale di udienza, di un immobile acquistato dai coniugi in regime di separazione dei beni, potendo la comunione ordinaria, in questo modo sciolta, persistere nonostante la separazione.

Anche Sez. T, n. 07493/2002, Merone, Rv. 554630, sia pure a livello di mero obiter, nega l'operatività dell'esenzione relativamente a quei trasferimenti immobiliari che siano solo occasionalmente generati da separazione e divorzio, richiedendo la sussistenza di un rapporto di causalità necessaria (ritenuto, nella specie, insito nello scioglimento della comunione ordinaria derivante, all'esito della separazione, da quella legale).

Non sembrano porsi in contrasto con tali precedenti Sez. T, n. 14157/2013, Bruschetta, Rv. 627108 e Sez. T, n. 02347/2001, Sotgiu, Rv. 543934 che applicano l'agevolazione sempre alla divisione giudiziale dell'immobile originariamente acquistato in regime di comunione legale, scioltasi proprio per effetto della separazione.

Piuttosto, va evidenziato che nel più recente provvedimento del 2013 è stato riconosciuto il collegamento del trasferimento immobiliare alla separazione ed al divorzio, nonostante la domanda giudiziale di scioglimento della comunione fosse stata proposta in autonomo procedimento giudiziario, in quanto, comunque, strumentale alla regolamentazione dei rapporti economici insorti a cagione della lite matrimoniale.

Ancora in Sez. T, n. 06065/2000, Graziadei, Rv. 536422, che cassa con rinvio il provvedimento di merito, si legge che il problema dell'applicabilità dell'art. 19 della legge n. 74 del 1987, sollevato dai contribuenti, potrebbe essere rilevante ove i trasferimenti immobiliari tra i coniugi (aventi ad oggetto quote di appartamento ad uso abitativo, due appezzamenti di terreno e due cantine), recepiti nella sentenza di divorzio, fossero riconducibili alle disposizioni impartite dall'organo giudicante per riequilibrare le posizioni economiche dei coniugi dopo lo scioglimento del matrimonio o per regolare in unica soluzione l'obbligo di corrispondere l'assegno mensile.

Parimenti la Corte costituzionale non appare propensa ad una lettura onnicomprensiva dell'art. 19 della legge n. 74 del 1987, idonea a ricomprendere ogni trasferimento immobiliare posto in essere dai separati o divorziati. In particolare, Corte cost., 15 dicembre 1995, n. 538 ha rigettato per manifesta inammissibilità la questione sollevata riguardo alla mancata estensione dell'art. 19 alla separazione, ritenendo carente la motivazione circa la rilevanza, proprio perché il giudice a quo aveva assunto come certa l'applicazione dell'esenzione (ove il trasferimento immobiliare fosse stato posto in essere nel giudizio di divorzio) in base ad una lettura latissima, ma per nulla pacifica della disposizione in esame.

Deve, tuttavia, segnalarsi che un approccio più estensivo sembra sotteso a Sez. T, n. 11458/2005, Meloncelli, Rv. 581955 e Sez. T, n. 16348/2013, Sambito, Rv. 627198, secondo cui l'art. 19 della legge n. 74 del 1987 ricomprende tutti gli atti relativi ai procedimenti di separazione o divorzio strumentali all'adempimento, da parte dei coniugi, delle obbligazioni assunte per conferire un nuovo assetto ai loro interessi economici, anche quelli i cui effetti siano favorevoli ai figli (più precisamente, l'esenzione è stata applicata ai trasferimenti gratuiti di quote immobiliari da parte di uno o di entrambi i genitori ai figli, ritenendosi l'art. 19 norma speciale rispetto alla presunzione di gratuità degli atti tra parenti, posta dall'art. 26 del d.P.R. n. 131 del 1986). In tali pronunce, difatti, non si allude, in maniera esplicita, al necessario collegamento funzionale tra il trasferimento immobiliare ed il contenuto di separazione o divorzio, facendosi riferimento, in modo più generico, alla volontà dei coniugi di conferire un nuovo assetto ai loro interessi economici, che possono essere estranei rispetto ai rapporti familiari veri e propri.

Ad ogni modo, l'apertura della giurisprudenza di legittimità relativamente ai trasferimenti immobiliari a favore della prole sembra del tutto giustificata, in quanto i figli non restano estranei, ma sono coinvolti nei procedimenti di separazione e divorzio ed alla loro tutela, secondo la Corte costituzionale, è diretta la stessa esenzione. Questa posizione è stata di recente recepita dall'Agenzia delle Entrate che, con le circolari n. 27 del 21 giugno 2012 e n. 18/E del 18 maggio 2013, ha riconosciuto l'applicabilità dell'esenzione anche nell'ipotesi di trasferimenti immobiliari a favore dei figli, a condizione che, nel testo dell'accordo omologato dal Tribunale (o recepito nel provvedimento del Tribunale), l'attribuzione patrimoniale a favore della prole sia configurata come condizione essenziale ed indipensabile ai fini della risoluzione della crisi familiare.

L'applicazione dell'art. 19 della legge n. 74 del 1987 si ritiene, invece, preclusa in caso di trasferimenti immobiliari in cui siano coinvolti terzi estranei, in considerazione:

- sia del tenore letterale della disposizione, la quale, nel riferirsi a patti assunti in sede di separazione o divorzio, sembra riguardare le prestazioni esecutive rese tra le stesse parti dei procedimenti de quibus,

- sia della ratio della disciplina, che mira a promuovere una soluzione idonea a garantire un nuovo equilibrio, anche economico, per i coniugi, rispetto a cui non assumono rilievo i terzi, il cui coinvolgimento nell'esenzione si presterebbe facilmente ad intenti elusivi;

- sia il principio di stretta interpretazione che ispira l'esegesi delle disposizioni tributarie agevolative.

In questo senso si è espressamente pronunciata Sez. T, n. 00860/2014, Sambito, Rv. 629247, secondo cui l'agevolazione di cui all'art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 spetta solo se i soggetti che li pongano in essere siano gli stessi coniugi e non anche terzi, per cui ne ha escluso l'applicazione all'atto di costituzione di usufrutto vitalizio su un immobile, posto in essere a favore della moglie da una società semplice, di cui è legale rappresentante il marito.

6. La decadenza dall'agevolazione prima casa

La nota II – bis) all'articolo 1 Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 dispone, al comma 4, la decadenza dalle agevolazioni prima casa qualora si proceda al trasferimento, a titolo oneroso o gratuito, degli immobili acquistati con i benefici prima del decorso del termine di cinque anni dalla data della compravendita. In tale ipotesi, l'Agenzia delle entrate provvede al recupero della differenza fra l'imposta calcolata in assenza di agevolazioni e quella risultante dall'applicazione dell'aliquota agevolata, nonché all'irrogazione della sanzione amministrativa pari al 30 per cento e degli interessi di mora. Tuttavia, la decadenza dall'agevolazione può essere evitata se, entro un anno dall'alienazione, si proceda all'acquisto di un nuovo immobile da adibire ad abitazione principale.

In sede di separazione consensuale o divorzio congiunto è possibile che i coniugi pattuiscano il trasferimento, da un coniuge all'altro, di una quota di un immobile comune o di quello adibito ad abitazione familiare o di altro ancora di proprietà esclusiva di uno dei due in epoca anteriore al quinquennio dall'acquisto. In tale ipotesi non appare sostenibile che l'atto traslativo possa configurarsi alla stregua di un atto coatto e non negoziale o imposto da forza maggiore e, quindi, irrilevante ai fini della decadenza.

Occorre, piuttosto, verificare se l'esenzione di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987, oltre a comportare l'inapplicabilità dei tributi a cui l'atto sarebbe in astratto soggetto, escluda la decadenza dall'agevolazione prima casa, di cui l'alienante abbia fruito, e consguentemente impedisca il recupero della differenza impositiva, della sanzione e degli interessi di mora, anche a prescindere dall'acquisto, da parte del cedente, di un nuovo immobile da adibire ad abitazione principale entro l'anno.

L'argomento è stato più volte affrontato dalla Suprema Corte.

Sez. T, n. 02263/2014, Sambito, Rv. 629392 ha affermato che il trasferimento di un immobile in favore del coniuge per effetto degli accordi intervenuti in sede di separazione consensuale è riconducibile alla volontà del cedente e non al provvedimento giudiziale di omologazione, per cui determina la revoca delle agevolazioni prima casa ove intervenga nei cinque anni successivi al suo acquisto e non sia seguito, entro l'anno, dall'acquisto di altro appartamento da adibire a propria abitazione principale, con conseguente legittimo recupero delle ordinarie imposte di registro, ipotecarie e catastali da parte dell'Amministrazione finanziaria. Già in epoca meno recente Sez. T, n. 02552/2003, Oddo (non massimata sul punto) aveva ritenuto del tutto inconferente, oltre che nuovo in sede di legittimità, il richiamo della contribuente alle agevolazioni di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987 al fine di escludere la decadenza dalle agevolazioni prima casa riguardo ad un trasferimento immobiliare programmato in sede di separazione consensuale, posto che il legislatore si limita a consentire l'esenzione dall'imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa anche degli atti e convenzioni destinati a regolare, sotto il controllo del giudice, i rapporti patrimoniali in conseguenza della separazione legale dei coniugi mediante l'eventuale riconoscimento o trasferimento della proprietà esclusiva di beni mobili od immobili all'uno od all'altro di essi.

Successivamente, però, Sez. 6-T, n. 03753/2014, Cicala, Rv. 629984, e Sez. T, n. 23225/2015, Napolitano, Rv. 637409, hanno dato al problema un'opposta soluzione, ritenendo che l'attribuzione al coniuge della proprietà della casa coniugale in adempimento di una condizione inserita nell'atto di separazione consensuale non costituisce una forma di alienazione dell'immobile rilevante ai fini della decadenza dai benefici cosiddetta prima casa, bensì una modalità di utilizzazione dello stesso per la migliore sistemazione dei rapporti fra i coniugi in vista della cessazione della loro convivenza.

In proposito occorre ricordare la posizione espressa dall'Agenzia delle Entrate, nella circolare n. 27 del 21 giugno 2012, secondo cui, qualora, in adempimento di un obbligo assunto in sede di separazione o divorzio, uno dei coniugi ceda all'altro la quota di un immobile, prima del decorso del termine quinquennale, l'art. 19 della legge n. 74 del 1987 impedisce la decadenza dalle agevolazioni prima casa, fruite in sede di acquisto, a prescindere dalla circostanza che il cedente compri, entro l'anno, un nuovo immobile. Questa stessa soluzione deve necessariamente valere anche per il trasferimento dell'immobile di proprietà esclusiva di un coniuge a favore dell'altro, non giustificandosi un diverso trattamento tributario in ragione della maggiore o minore estensione dell'oggetto contrattuale.

Del resto, secondo l'Amministrazione finanziaria, addirittura anche nel caso in cui, in base alla separazione consensuale, omologata dal Tribunale, entrambi i coniugi alienino a terzi la proprietà di un immobile, con rinuncia del corrispettivo da parte di uno dei due a favore dell'altro, il contribuente che non incassa alcuna somma non può incorrere in alcuna decadenza dalle agevolazioni prima casa, atteso che non realizza, di fatto, alcun arricchimento dalla vendita dell'immobile, di cui si priva nell'interesse della famiglia, per cui non può essere tenuto ad acquistare un nuovo immobile, a differenza dell'altro, per il quale resta fermo, al fine della conservazione del beneficio fiscale, l'onere di procedere, entro l'anno, all'acquisto di un altro immobile, da adibire ad abitazione principale.

In definitiva, la decadenza dalle agevolazioni prima casa, traducendosi in un prelievo fiscale (di entità, peraltro, maggiore rispetto a quella ordinaria, tenuto conto della sanzione e degli interessi di mora), sembra dover essere inclusa nell'esenzione di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987, che, al fine di facilitare l'accesso alla tutela giurisdizionale dei coniugi e di garantire la tutela della prole, ricomprende ogni tipo di tributo, a prescindere dalla tipologia e classificazione, assicurando che il regime tributario non ostacoli il conseguimento del nuovo status ed il raggiungimento dell'assetto più conveniente per la famiglia. Il collegamento con la separazione o il divorzio elimina, peraltro, ogni dubbio circa la sussistenza di un intento speculativo. Il trasferimento immobiliare avviene, difatti, non per realizzare un profitto, ma per regolare i rapporti familiari e non è, di regola, accompagnato dall'arricchimento di nessuno dei soggetti coinvolti, dato l'impoverimento ingenerato dalla crisi familiare, che disperde i risparmi fondati sulla comune organizzazione.

Né pare poter assumere rilevanza la circostanza che il trasferimento sia riconducibile alla volontà del cedente e non del giudice, atteso che il presupposto del regime in esame è costituito dal fatto che l'atto sia relativo al procedimento di separazione o divorzio e non che sia imposto da un provvedimento giudiziario.

Più problematica l'ipotesi del trasferimento dell'immobile dei coniugi ad un estraneo, tenuto conto dell'orientamento secondo cui l'agevolazione di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987 spetta solo se i soggetti che pongano in essere gli atti con effetti traslativi siano gli stessi coniugi che hanno concluso gli accordi in sede di separazione o divorzio e non anche terzi (così Sez. T, n. 00860/2014, Sambito, Rv. 629247). Tuttavia, dal punto di vista economico, la fattispecie prospettata dall'Agenzia delle Entrate nella circolare n. 27 del 21 giugno 2012 si risolve non in un'unica, bensì in una duplice operazione e, cioè, nel trasferimento della propria quota, da parte del coniuge che rinuncia al corrispettivo, all'altro e nella successiva alienazione dell'intero immobile al terzo. Tale valutazione economica dovrebbe assumere rilevanza nella ricerca della causa reale e concreta e nella conseguente qualificazione ed interpretazione dell'atto, ex art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, ai fini impositivi. Ad ogni modo, ove l'accordo fosse strutturato anche dal punto di vista giuridico nei termini di un doppio trasferimento immobiliare (il primo da un coniuge a favore dell'altro ed il secondo da quest'ultimo al terzo), si renderebbe ineccepibile l'applicazione al primo negozio dell'esenzione dalle imposte e, dunque, anche dalla decadenza dalle agevolazioni prima casa, dispensando il coniuge che ha rinunciato al corrispettivo dalla necessità di un nuovo acquisto entro l'anno.

Va, peraltro, ricordato che una parte della dottrina [GIUNCHI, 2012, 4; GLENDI, 2014, 736] è critica relativamente alla frammentazione dell'operazione negoziale, che viene considerata unica in considerazione della sua causa, consistente nella sistemazione degli interessi patrimoniali scaturenti dalla crisi familiare. Si è sostenuta, pertanto, l'esisgenza di riconoscere l'esenzione dai tributi e dalla decadenza dalle agevolazioni prima casa, a prescindere dal nuovo acquisto entro l'anno, ad entrambi i coniugi (sia a quello che rinuncia alla sua parte sia a quello che incassa l'intero corrispettivo), attesa l'assenza di ogni intento speculativo: la vendita al terzo avviene, difatti, per affrontare l'impoverimento determinato dalla frattura coniugale e per soddisfare l'esigenza di reperire autonome soluzioni abitative, non sempre realizzabili con un nuovo acquisto. Invero, la riconducibilità del trasferimento immobiliare al terzo nell'ambito applicativo dell'art. 19 della legge n. 74 del 1987 dipende dalla delimitazione della categoria degli atti relativi ai procedimenti di separazione e divorzio, i cui confini continuano ad essere incerti ed in evoluzione, come dimostrato dalla recente inclusione delle attribuzioni a favore della prole.

Occorre, perciò, verificare se il requisto soggettivo sia imprescindibile ai fini del trattamento tributario di favore e se, quindi, parti degli atti relativi ai procedimenti di separazione o divorzio debbano essere i coniugi o altri componenti del nucleo familiare, come i figli, essendo necessario che la ricchezza, di cui è espressione il bene immobile trasferito, resti in tale contesto, o se, al contrario, ciò che rileva, in un'ottica oggettiva, è la strumentalità dell'atto alla sistemazione degli interessi familiari, essendo sufficiente una ridistribuzione della sostanze familiari, originariamente integranti un unico patrimonio, realizzabile anche tramite la vendita a terzi.

Ulteriori problemi che possono porsi concernono l'accesso alle agevolazioni prima casa del coniuge separato o divorziato, ma comproprietario con l'altro di un immobile o beneficiario del provvedimento di assegnazione della casa familiare. Si tratta, però, di tematiche che non sono direttamente pertinenti coi trasferimenti immobiliari relativi a separazione e divorzio, per cui, in questa sede, ci si limita ad un breve cenno.

In particolare, quanto alla prima ipotesi (coniuge separato o divorziato comproprietario di un immobile con l'altro), è sufficiente ricordare che:

- la comunione tra i coniugi esclude l'impossidenza e la conseguente possibilità di usufruire dell'agevolazione prima casa nell'acquisto di un ulteriore cespite, a differenza della comunione con altri soggetti, nel cui ambito, in assenza del rapporto di coniugio, la facoltà di usare il bene comune, senza impedire a ciascuno degli altri comunisti di farne parimenti uso, ai sensi dell'art. 1102 c.c., non consente di destinare la casa comune ad abitazione di uno solo dei comproprietari, per cui la titolarità della quota è simile a quella di immobile inidoneo a soddisfare le esigenze abitative dell'acquirente ed è compatibile con il beneficio fiscale de quo (Sez. 1, n. 09647/1999, Forte, Rv. 529831, Sez. T, n. 10984/2007, Napolitano, Rv. 599236; Sez. 6-T, n. 21289/2014, Conti, Rv. 632662);

- al verificarsi della separazione legale, la comunione tra coniugi di un diritto reale su un immobile, sebbene originariamente acquistato in regime di comunione legale, va equiparata alla contitolarità indivisa tra estranei, che è compatibile con le agevolazioni prima casa (Sez. T, n. 03931/2014, Sambito, Rv. 629628, che non risulta smentita da Sez. T, n. 07069/2014, Sambito, Rv. 629941, secondo cui non assume, invece, rilevanza la mera separazione di fatto al fine di consentire al coniuge, comproprietario con l'altro di un immobile, di fruire dell'agevolazione prima casa nell'acquisto di un nuovo cespite).

Per quanto concerne, invece, l'accesso alle agevolazioni prima casa del genitore beneficiario dell'assegnazione della casa familiare che intenda procedere all'acquisto di un immobile, va tenuto presente, che, secondo l'orientamento consolidato della Suprema Corte (v., tra le tante, Sez. 1, n. 04719/2006, Magno, Rv. 590752), tale provvedimento giudiziale comporta la nascita di un diritto di godimento di natura personale e non di un diritto reale, attesa la tassatività dei modi di costituzione dei diritti reali e l'incompatibilità con la loro struttura dell'incertezza del beneficiario e della durata di tale posizione giuridica, sicché non può precludere i benefici fiscali prima casa che, a norma dell'art 1 della Tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, nota II bis, lett. b) e c), sono esclusi solo se l'acquirente ha la disponibilità di altro immobile a titolo di proprietà o altro diritto reale (così Sez. T, n. 02273/2014, Sambito, Rv. 629512). Analogamente l'adozione di tale provvedimento o la pattuizione di una condizone di separazione in tal senso, sebbene intervenuti nel quinquennio dall'acquisto, non possono rilevare, in danno del genitore non assegnatario, ma esclusivo proprietario dell'immobile, quale causa di decadenza dalle agevolazioni fruite, non derivandone alcun effetto trasaltivo, come già osservato in dottrina.

. BIBLIOGRAFIA

L. Anselmi, La nuova tassazione dei trasferimenti immobiliari: le novità dal 1° gennaio 2014, in Dir. prat. Trib., 2013, I, 1327;

F. Formica – P. Giunchi, Studio del Consiglio Nazionale del Notariato, n. 67, 1999;

P. Giunchi, Studio del Consiglio Nazionale del Notariato, n. 128, 2012;

G. Glendi, La separazione ed il divorzio nel diritto tributario, in Famiglia e diritto, 2014, 727.

  • giurisdizione tributaria

CAPITOLO XVII

RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO

(di Paolo Porreca )

Sommario

1 L'arresto delle Sezioni Unite sul cd. estratto di ruolo tributario e il contrasto nella precedente giurisprudenza della Corte di cassazione. - 1.1 Analisi dell'orientamento affermativo. - 1.2 Analisi dell'orientamento negativo. - 2 La ricostruzione risolutiva. - 3 La discussione nella dottrina: analisi della tesi espansiva. - 3.1 Analisi della tesi restrittiva. - 4 Implicazioni dell'arresto del 2015: atti impugnabili davanti al giudice tributario e natura del processo. Premessa. - 4.1 La riforma del 2001. - 4.2 Dilatazione del catalogo. - 4.3 L'impugnazione facoltativa anticipata. - BIBLIOGRAFIA

1. L'arresto delle Sezioni Unite sul cd. estratto di ruolo tributario e il contrasto nella precedente giurisprudenza della Corte di cassazione.

Le Sezioni Unite civili, con sentenza n. 19704/2015, Di Iasi, Rv. 636309, hanno risolto un contrasto emerso nella giurisprudenza della Corte sull'autonoma impugnabilità del cd. estratto di ruolo tributario. Lo hanno fatto affermando il principio di diritto secondo cui il contribuente può impugnare la cartella di pagamento della quale, a causa dell'invalidità della relativa notifica, sia venuto a conoscenza solo attraverso un estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario della riscossione. A ciò non ostando la norma che stabilisce, all'art. 19, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, l'impugnabilità dell'atto precedente non notificato unitamente all'atto successivo notificato, in quanto una lettura costituzionalmente orientata impone di ritenere che quella prevista non costituisca l'unica possibilità di far valere l'invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque venuto legittimamente a conoscenza e, quindi, non escluda la possibilità di far valere l'invalidità stessa anche prima, giacché l'esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale non può essere compromesso, ritardato, reso più difficile o gravoso, qualora non ricorra la stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo, rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione.

La Corte aveva avuto obiettivamente un atteggiamento ondivago sul punto. In particolare, Sez. T, n. 00724/2010, Polichetti, Rv. 611259, Sez. T, n. 15946/2010, Carleo, e Sez. 6-T, n. 02248/2014, Di Blasi, Rv. 629731, avevano optato per l'impugnabilità. In senso difforme erano invece Sez. T, n. 01837/2010, Bernardi, Rv. 611591, specie in motivazione, Sez. T, n. 00661/2013, Bruschetta, Rv. 625889, Sez. T, n. 06906/2013, Bruschetta, e Sez. T, n. 06395/2014, Valitutti, Rv. 630819, in particolare al punto 2.4.1.1. della motivazione.

1.1. Analisi dell'orientamento affermativo.

Gli arresti affermativi dell'impugnabilità facevano leva sostanzialmente sulla lettura del rapporto di esazione quale instaurato già con la formazione del ruolo, atto esplicitamente impugnabile in quanto identificativo del debito d'imposta e, quindi, della pretesa opponibile, laddove la successiva cartella assume in questa prospettiva una funzione "meramente" partecipativa.

Gli studi hanno evidenziato che nel caso della prima decisione del 2010, tra quelle sopra menzionate, l'estratto di ruolo era stato in realtà notificato al contribuente: la conoscenza era quindi "legale" non "occasionale", sicché la Corte era stata indotta a sottolineare la natura riproduttiva parziale dell'estratto. In buona sostanza, si trattava dell'impugnazione del ruolo ex art. 19, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 546 del 1992.

La seconda decisione del 2010, diversamente, aveva all'attenzione il caso che, nella prassi, ha fatto emergere la criticità ricostruttiva: due contribuenti chiedevano di impugnare in realtà le cartelle di cui affermavano di essere venuti a conoscenza a seguito di visure effettuate presso il locale concessionario del servizio di riscossione dei tributi. Si trattava, dunque, di una conoscenza "occasionale" della pretesa tributaria. Differenza su cui si dovrà tornare ma cui una parte della dottrina annette significative conseguenze. Risulta più comprensibile come, qui, la Corte era stata per così dire spinta a supportare la conclusione positiva riallacciandosi a un'affermazione più generale e rinvenibile altrove, ossia quella secondo cui è possibile ricorrere alla tutela del giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall'ente impositore che, con l'esplicitazione delle concrete ragioni, fattuali e giuridiche, a supporto, portino comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria. Senza cioè necessità di attendere che la stessa si vesta della forma e dinamica autoritative tipiche di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dalla legge, atteso "l'indubbio sorgere in capo al contribuente destinatario, già al momento della ricezione della notizia, dell'interesse, ex art. 100 c.p.c., a chiarire, con pronuncia idonea ad acquisire effetti non più modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa e, quindi, a invocare una tutela giurisdizionale (ormai allo stato esclusiva del giudice tributario), di controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva e/o dei connessi accessori vantati dall'ente pubblico". Principio che si correla a quello che si esamininerà essere un progressivo ampliamento, legislativo ed ermeneutico, della giurisdizione tributaria.

L'arresto n. 02248/2014 si colloca in quest'ultima cornice interpretativa, che gli studi assumono essere quella propriamente contrastante con la negatoria dell'impugnabilità. Anche in questa ipotesi la conoscenza era occasionale perché il contribuente aveva saputo dell'iscrizione del carico tributario direttamente da un dipendente addetto all'ufficio con la consegna di un estratto dei ruoli "piuttosto che attraverso la notifica della cartella".

1.2. Analisi dell'orientamento negativo.

Anche nelle fattispecie sottese alle decisioni "negative" del 2013 il contribuente era venuto a conoscenza "occasionalmente" del ruolo. E la Corte, in questo contesto fattuale, rimarca come il processo tributario sia nato e ancora rimanga connotato da una struttura oppositiva rispetto a manifestazioni di volontà fiscali esternate al destinatario, senza perciò lasciare spazio, per scelta normativa, a preventive azioni di accertamento negativo del tributo. Dunque l'opzione era basata non solo e non tanto sulla natura di atto interno dell'estratto di ruolo, quanto e soprattutto sulla carenza di interesse concreto e attuale a impugnare prima della notifica della pretesa. Il binomio era notifica/impugnabilità, mancata notifica/non impugnabilità, ovvero, come traducono gli studi, nella correlazione tra conoscenza legale e impugnabilità implicata dalla dinamica di opposizione se non proprio impugnatoria del processo tributario.

È doveroso sottolineare che la sentenza n. 01837/2010 sottendeva un caso in cui, a premessa di un'azione esecutiva del concessionario dei tributi, l'estratto di ruolo era stato notificato ma dopo la notifica della cartella contro cui era agevole rilevare che avrebbero dovuto sollevarsi tempestivamente le contestazioni. Dunque in questo caso si era di fronte a una conoscenza legale ma successiva ad altra altrettanto legale che aveva fatto decorrere logicamente i termini per l'impugnazione con conseguente consolidamento della pretesa amministrativa. A ben vedere, cioè, siamo al di fuori del contrasto vero e proprio, sebbene nella motivazione si leghi l'inimpugnabilità dell'estratto di ruolo alla lettura congiunta dell'elencazione degli atti impugnbabili acclusa nell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 alla luce dell'interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. Con argomento usualmente utilizzato dal côté epistemico qui analizzato.

Quanto all'arresto del 2014, in esso si sottolineava che i ruoli sono atti interni dell'amministrazione, i cui vizi, infatti, solo eccezionalmente "si riverberano sul rapporto tributario individuale", in base a norme specifiche, quale ad esempio l'art. 17 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, che stabiliva – prima dell'abrogazione operata dall'art. 1, comma 5-ter, lett. a), n. 1), del decreto-legge 17 giugno 2005 n. 106, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 156 – i termini di decadenza per l'esecutività dei ruoli; ovvero "quando i relativi estratti siano notificati al contribuente in luogo della cartella, ed assumano, quindi, la natura di atti impositivi…impugnabili". In questa chiave la cartella esattoriale costituisce, per converso, l'atto impositivo attraverso il quale il contribuente assume contezza dell'iscrizione a ruolo e i cui vizi, diretti o derivati, comportano l'illegittimità della pretesa tributaria, con la conseguenza che è avverso di essa che va rivolta, di regola, l'impugnazione, senza che residui lesione del diritto costituzionale di difesa. Ecco perché, si legge nella motivazione, "in via di principio…l'estratto di ruolo, che è atto interno all'Amministrazione, non può essere oggetto di autonoma impugnazione, ma deve essere impugnato unitamente all'atto impositivo, notificato di regola con la cartella nella quale il ruolo viene trasfuso, in difetto non sussistendo un interesse concreto e attuale del contribuente, ex art. 100 c.p.c., ad instaurare una lite tributaria, che non ammette azioni di accertamento negativo del tributo".

Altro esempio normativo sui vizi propri del ruolo, espressamente aggredibili come tali, è usualmente indicato in quello regolato dall'art. 10 del d.P.R. 28 novembre 1980 n. 787, sui ruoli dei centri di servizio del Ministero dell'economia e delle finanze. Norma con finalità deflattive e infatti attributiva al centro di uno spatium deliberandi per aderire all'impugnativa del contribuente. Ma anche questa è un'ipotesi superata perché, sebbene fatta salva dall'art. 20 del d.lgs. n. 546 del 1992, è stata abrogata dall'art. 23 del d.P.R. 26 marzo 2001 n. 107.

Dal che può certamente trarsi la conclusione che l'impugnativa del ruolo per vizi propri ha natura eccezionale nella storia legislativa, con la consapevolezza, però, che ciò non ha una conclusiva ricaduta sull'ammissibilità o meno dell'impugnazione della pretesa contenuta nel ruolo prima di una sua conoscenza legale ovvero comunque, in tesi, da ritenere "effettiva" ed equipollente.

L'analisi del contrasto affrontato dalle Sezioni unite segnalava, cioè, che la distinzione tra vizi della cartella e vizi del ruolo eccezionalmente deducibili era ed è questione distinta da quella dell'ammissibilità o meno dell'impugnazione del ruolo prima della sua partecipazione attraverso la notifica della stessa cartella o attraverso altro procedimento legalmente riconoscibile come manifestazione di quella volontà impositiva.

Così come il contrasto evidenziava che il tema dell'impugnabilità del cd. estratto di ruolo era ed è tema distinto da quello dell'individuazione del momento in cui il contribuente è abilitato a esercitare la tutela giurisdizionale avverso la pretesa fiscale, per i vizi che tempo per tempo e caso per caso assuma essere possibile individuare.

2. La ricostruzione risolutiva.

La fattispecie che le Sezioni Unite avevano all'esame era, ancora una volta, quella di una conoscenza occasionale del ruolo, tramite visura di un contribuente che assumeva di non aver avuto notifica della cartella oggetto d'impugnativa. La Corte prende quindi le mosse dalla distinzione tra estratto di ruolo, quale documento riproduttivo del ruolo, e quest'ultimo quale atto amministrativo impositivo. In un certo senso può dirsi che negando l'impugnabilità autonoma – e per vizi propri – del primo, la cui conoscenza come tale non può riaprire alcun termine eventualmente spirato per aggredire la pretesa dell'erario, e ammettendo quella del secondo, s'innerva quest'ultima azione di funzione recuperatoria, laddove, prendendo spunto dal caso, si permetta così di far subito e utilmente valere il vizio della mancata o invalida notifica dell'atto partecipativo terminale.

In realtà l'impostazione della soluzione affermata tende, almeno in prima battuta, a depotenziare la questione del tipo di atto aggredito, posto che ciò che rileva è il vizio che invalida la pretesa.

Dal che lo spostamento del baricentro ricostuttivo sul momento a partire dal quale debba valutarsi possibile far valere l'invalidità. E qui si aggiunge altro depotenziamento: quello del principio dell'impugnativa dell'atto successivo notificato, stabilito dall'art. 19, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, che, in un'ottica anche costituzionalmente orientata, viene letto come facoltà ma non onere che possa comprimere irragionevolmente l'accesso alla tutela giurisdizionale. Con la conseguenza che la pretesa diviene impugnabile ma, fino a quando non vi sia la legale conoscenza nelle forme notificatorie predeterminate, non possono decorrere i termini che una volta spirati farebbero cristallizzare l'atto in questione.

La decisione opera alcuni passaggi in cui il dialogo con la dottrina è evidente.

In primo luogo si correla l'orientamento che ammette l'impugnabilità di ogni atto tributario comunque conosciuto anche senza che sia espresso in forma autoritativa (Sez. U, n. 16293/2007, Cicala, Rv. 598266, quanto a un avviso di pagamento della tassa rifiuti solidi urbani, e soprattutto Sez. U, n. 03773/2014, Virgilio, Rv. 629606, sull'accertamento ex art. 548 c.p.c. del credito d'imposta del debitore esecutato) a quello che vede nella notificazione una condizione di efficacia dell'atto impositivo e non un suo elemento costitutivo costruendo la recettizietà, a mente dell'art. 1334, c.c., quale guarentigia per il destinatario. I precedenti di riferimento sono, in questo caso, Sez. U, n. 08374/2015, Bielli, Rv. 635171, riferita al ritiro da parte del contribuente di avvisi di accertamento mal notificati dall'amministrazione; Sez. U, n. 00654/2014, Terrusi, Rv. 629235, in cui, con logica risalente a Sez. U, n. 19854/2004, Altieri, Rv. 577521, se ne fa premessa per concludere che la nullità o inesistenza della notifica resta irrilevante quando l'atto impositivo raggiunge lo scopo. Scopo partecipativo in quel caso raggiunto posto che l'atto era risultato formalmente impugnato prima della scadenza del termine di legge per la sua adozione.

Va subito evidenziato, come accennano anche le Sezioni unite, che questo profilo ora si giova della conferma enucleabile dall'art. 21-bis della legge 7 agosto 1990 n. 241, quale introdotto dall'art. 14 della legge 11 febbraio 2005 n. 15, secondo cui (di regola e salve ipotesi sanzionatorie con clausola di immediata efficacia ovvero cautelari o urgenti) il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei confronti del destinatario con la "comunicazione allo stesso effettuata anche nelle forme stabilite per la notifica agli irreperibili nei casi previsti dal codice di procedura civile". Sembrando peraltro alludere a una legale, e non occasionale, conoscenza in ogni caso su scelta dell'amministrazione, così da aver indotto negli studi diffusamente ad osservare che la previsione potrebbe aver posto le premesse per una crisi dell'idea di equipollenza tra conoscenza legale e conoscenza occasionale anche quando effettiva.

La giurisprudenza amministrativa (Cons. di Stato, 17 maggio 2012 n. 2849) è solita poi affermare che la notificazione di un atto amministrativo al suo destinatario non incide sull'esistenza o validità dello stesso, e quindi che anche dopo la novella di cui all'art. 21-bis "deve continuare a distinguersi tra la fase della esistenza e legittimità del provvedimento (che dipende dalla sussistenza degli elementi essenziali soggettivi e oggettivi e dei relativi requisiti di validità) e la fase integrativa dell'efficacia (pubblicazioni, notificazioni, comunicazioni, controlli ove previsti, e simili) che non attiene né alla perfezione dell'atto, e neppure alla sua validità, ma che incide esclusivamente sull'efficacia del provvedimento nonché, sul piano processuale, sul decorso dei termini per l'impugnativa. In altre parole proprio l'art. 21-bis della legge n. 241 del 1990 conferma che la mancata comunicazione integrale da parte dell'autorità emanante al soggetto interessato impedisce la compiuta esplicazione degli effetti, ma non rende l'atto nullo né illegittimo" e dunque totalmente inefficace.

Né può omettersi di riflettere sul fatto che, tuttavia, il principio andrebbe coordinato con le altre modifiche apportate al riguardo alla legge n. 241 del 1990 dalla legge n. 15 del 2005. Come, ad esempio, la ben più significativa novella contenuta nell'art. 21-octies che, di fatto, ha dequotato i vizi formali del procedimento amministrativo in caso di attività vincolata, sancendo anzi l'irrilevanza della mancata comunicazione di avvio dello stesso quando l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato.

Da questo coordinamento emerge in modo netto il continuo bilanciamento, in prima e tipica istanza legislativo, tra esigenze dell'amministrazione ed esigenze dei cittadini.

Il richiamo operato da Sez. U., n. 19704/2015 a queste prescrizioni, ne segnala l'estensibilità, almeno nelle rationes ricostruttive, all'ambito sia pure speciale del diritto tributario.

In questo snodo implicato dalla soluzione radicata nel 2015 torna rilevante la natura se proprio la tipologia dell'atto, perché sono le ricadute della sua recettizietà a fare da discrimen. Ricadute che, peraltro, hanno sollevato nuovamente alcune critiche da parte di quella dottrina che contesta almeno la portata generale dell'assunto di base, e cioè la degradazione della recettizietà a elemento non costitutivo della fattispecie provvedimentale, perché destinato a perpetuare il ricordato orientamento che ritiene applicabile il principio del raggiungimento dello scopo al caso di ricorso proposto prima dei termini decadenziali per l'azione esecutiva esattoriale [BRUZZONE, 2015, 4377]. Ciò che comporterebbe una delegittimazione degli uffici amministrativi rispetto a un corretto operare. Indurrebbe cioè il contribuente a non impugnare subito la cartella mal ricevuta per attendere atti successivi (quali il fermo o l'iscrizione), con irragionevole pregiudizio sia al buon andamento amministrativo che alla tutela giurisdizionale.

L'ultimo passaggio della Corte fa leva sulla luce costituzionale per concludere che – seppure la recettizietà dell'atto tributario si possa pensare sia posta, anche in termini di costi pubblici, pure a tutela dell'amministrazione che, procedendo alla notifica, scelga quando esporsi esternando la volontà impositiva aggredibile – sarebbe arbitrario rimettere alla parte pubblica la scelta del momento a partire dal quale il contribuente, già controparte di un rapporto sperequato, possa reagire, laddove l'iter procedimentale di quella pretesa sia (come nella specie delibata) compiutamente terminato, tranne, va detto, il formale momento partecipativo a valle. Ciò in particolar modo quando si pensi che, procedendo oltre, il contribuente potrebbe vedersi ridotto il rimedio alle sole istanze risarcitorie, giungendo alla fase esecutiva caratterizzata dalle limitazioni alle opposizioni proponibili. Limitazioni stabilite come noto dall'art. 57 del d.P.R. n. 602 del 1973 a mente del quale le opposizioni all'esecuzione non sono ammesse tranne quelle sulla pignorabilità dei beni, e sono escluse quelle ex art. 617 c.p.c. relative alla regolarità formale e alla notificazione del titolo esecutivo.

Si tratta di argomento molto forte in chiave di garanzia, che peraltro, in ottica differente, potrebbe indurre a tornare a mettere in dubbio la ragionevolezza delle sperequazioni così normate tra amministrazione e contribuente la cui tutela, in fase di espropriazione forzata tributaria, rasenta il carattere simbolico. Tanto più se si pensi che non può essere certo l'occasionale conoscenza di un ruolo, pur ritenuto impugnabile preventivamente rispetto alla sua notifica in uno alla cartella, a risolvere il dubbio di legittimità dell'assetto ordinamentale.

3. La discussione nella dottrina: analisi della tesi espansiva.

Una parte della dottrina ha sempre mostrato addirittura di non comprendere il ragionamento di chi negava e nega l'impugnabilità del ruolo anteriormente alla notifica formale.

Le più semplici ma lucide voci in tal senso [ANNECCHINO, 2014, 2162] osservano che il concetto dovrebbe essere chiaro: prima che abbia corso la procedura esecutiva il contribuente acquista (o dovrebbe acquistare) conoscenza, mediante notifica della cartella di pagamento, dell'estratto di ruolo ossia della parte del ruolo che lo riguarda, i.e. dei debiti che l'ente impositore intende riscuotere a suo carico. Per evitare che la questione si svaluti sul piano definitorio oscillando tra ruolo e suo estratto, questa lettura esclude vi possano essere dubbi sulla possibilità del contribuente di contestare le risultanze di quest'ultimo qualora sia mancata la notifica della cartella, vuoi perché non andata a buon fine, vuoi perché non è stato (ancora) attivato il procedimento. E non perché vi sia un interesse ad un azione di accertamento negativo a fronte di una pretesa sebbene non manifestata ma comunque compiutamente formata, bensì perché l'azione sarebbe direttamente costitutiva in quanto volta all'annullamento dell'atto impositivo idoneo a incidere sulla sua sfera giuridica, ossia il ruolo quale titolo esecutivo. In altri termini, sebbene vi possano essere dubbi sul fatto che dal ruolo possa derivare una lesione "immediata" (in ragione della preclusione a una legittima azione esecutiva quale conseguenza della mancata notifica della cartella), non potrebbe contestarsi che la "lesione" sia già individuabile con quanto ne consegue.

Questo approccio, però, solo apparentemente supera il tema della natura dell'atto, perché nella sostanza, e spesso anche nella forma [CARINCI, 2013, 587], lega l'ammissibilità dell'impugnazione in realtà al ruolo, quale atto nominato che nessuna norma definirebbe recettizio a forma vincolata. Così come solo apparentemente supera il tema dell'interesse ad agire e quindi della natura del processo tributario, atteso che dell'azione costitutiva di annullamento viene ammessa l'anticipazione in buona sostanza perché, diversamente, si vulnera la tutela del contribuente quante volte l'agente della riscossione, procedendo ad esecuzione forzata senza una previa e rituale notifica della cartella e senza prodromi impugnabili quali l'iscrizione di ipoteca e il fermo amministrativo, lascia il cittadino senza piena tutela stanti i visti limiti delle opposizioni esecutive.

3.1. Analisi della tesi restrittiva.

Di certo la dottrina più dubbiosa in ordine alla tendenza giurisprudenziale espansiva dei confini della giurisdizione tributaria ha trovato un riconoscimento nell'arresto del 2015. L'estratto di ruolo è nozione in qualche modo atecnica non solo e non tanto perché il diritto positivo non ne fornisce alcuna definizione essendo invece il prodotto della prassi, quanto perché costituisce documento ricognitivo del ruolo, un "non atto". A fronte dell'atto pretensivo vero e proprio costituito dal ruolo.

Altro punto di convergenza si può individuare nella verificata recettizietà del ruolo. Come accennato esistono voci discordi negli studi, ma l'opinione largamente maggioritaria è in questo senso.

Una recettizietà non intesa quale condizione di perfezionamento e neppure di efficacia, atteso che il ruolo diviene titolo esecutivo con la sua sottoscrizione (art. 12 del d.P.R. n. 602 del 1973), ma quale condizione per la cristallizzazione nei confronti del destinatario. Ecco perché la notifica della cartella assume su di sé il doppio valore di atto autonomio che condiziona, nella sequenza predeterminata dalla legge (Sez. U, n. 16412/2007, Botta, Rv. 598269), la legittimità dell'azione esecutiva, in questo non surrogabile dalla conoscenza occasionale dell'estratto di ruolo, e, insieme, veicolo per l'impugnazione del ruolo. È pertanto solo da questa conoscenza, in questa forma predeterminata, che possono decorrere i termini che preludono alla sua definitività per mancata impugnazione. Anche a tutela delle certezze del contribuente. [RASI, 2014, 1012].

Di questa funzione della cartella di pagamento, atto terminale esterno, a forma vincolata e funzione partecipativa, si ha conferma nella evoluzione del formante legislativo che, dopo una tormentata storia anche costituzionale (Corte cost., 18 luglio 2005, n. 280) ha individuato nella sua notifica l'atto che impedisce la decadenza dell'amministrazione dalla possibilità di riscuotere le somme dovute a seguito di accertamenti definitivi o atti equipollenti (art. 25 del d.P.R. n. 602 del 1973).

L'ermeneutica dottrinale in parola valorizza quanto sopra per farne derivare però conclusioni diverse da quelle delle Sezioni Unite sulla possibilità d'impugnazione anticipata (e facoltativa) del ruolo: si osserva come solo della cartella è stata normato l'iter partecipativo esterno, e solo a fronte di questo si prevede che s'inneschi l'impugnabilità (art. 19 e 21 del d.lgs. n. 546 del 1992). Non ci sarebbe spazio per equiparazioni.

E quest'ottica si vedrà come sia rilevante per valutare le conseguenze della sentenza del 2015 sulla sistematica degli atti impugnabili davanti al giudice tributario.

Il perno dell'analisi, come si anticipava, è costituito dalla distinzione tra conoscenza occasionale e conoscenza legale della pretesa tributaria. L'assetto che correla l'impugnazione alla notifica viene cioè letto nel senso di attribuire alla recettizietà funzione di conferma della natura oppositiva del processo tributario, sia dal punto di vista delle garanzie del contribuente, la cui sfera per regola non può essere legittimamente incisa senza sua previa partecipazione, sia dell'amministrazione, che non può vedersi esposta a contestazioni giurisdizionali senza aver prima avviato un procedimento partecipativo legale. Così che anche il principio della sanatoria per raggiungimento dello scopo ex art. 156 c.p.c. può ritenersi operante in materia tributaria solo quando si sia nel quadro di un'attività della parte interessata alla notifica nei confronti del destinatario.

In questo senso si può dire vi sarebbe una conformazione dell'interesse ad agire mirata a sintetizzare un bilanciamento tra gli interessi e i costi dell'amministrazione e quelli del cittadino. Interesse che proprio per questo non potrebbe avere latitudine paragonabile, come pure si è alluso negli studi, a quello che ha indotto, in ambito non a caso puramente privatistico, ad ammettere e ricostruire la reazione giurisdizionale contro la segnalazione alla centrale rischi della Banca d'Italia sullo scarso affidamento del soggetto in particolare imprenditoriale (v. ad esempio, Sez. 1, n. 15609/2014, Nazzicone, Rv. 631843).

4. Implicazioni dell'arresto del 2015: atti impugnabili davanti al giudice tributario e natura del processo. Premessa.

È facile prevedere che il quadro dialettico sintetizzato sia destinato a persistere, proprio perché finisce inevitabilmente per riflettere la lettura del processo tributario nel suo insieme talora con accenti sineddotici rispetto ai rapporti tra fisco e contribuente.

La decisione del 2015 ha un'importanza centrale perché prosegue il cammino giurisprudenziale teso a:

1) dequotare la tipologia dell'atto impugnato incentrandosi sulla pretesa dell'erario quando si possa ritenere definita;

2) allargare l'area dell'impugnabilità anticipata rispetto alla manifestazione esterna e formalmente tipica della volontà fiscale.

L'impostazione qualificabile come classica [TESAURO, 2007, 10] vede nel combinato disposto tra l'art. 19, specie comma 3, e l'art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992 una tripartizione del perimetro dell'impugnabilità propria della giurisdizione tributaria: atti nominati soggetti al principio di tassatività, necessariamente impugnabili in via immediata; atti innominati lesivi, impugnabili in via differita, in uno cioè all'atto tipico che segue nella sequenza di legge; e atti innominati non lesivi, quali gli atti interni, mai impugnabili.

La giurisprudenza, come si è già accennato, ha da tempo reagito a quello che è parso un pericoloso eccesso di rigidità nelle tutele configurabili, riconoscendo al contribuente la facoltà di aggredire immediatamente l'atto innominato qualora lo renda compiutamente edotto di una definita pretesa tributaria facendo così sorgere il suo interesse al controllo della legittimità sostanziale della stessa senza attendere ulteriori pregiudizi e con pari utilità per la pubblica amministrazione a non procedere con andamento dalle basi viziate (Sez. T, n. 21045/2007, D'Alonzo, Rv. 600886).

Questo ha dato l'avvio a una metamorfosi almeno parziale del processo tributario, da giudizio sull'atto a giudizio sul rapporto d'imposta. Matemorfosi di cui il grande arresto del 2015 costituisce in un certo senso un approdo ma che non necessariamente è correlata a quella della giurisdizione tributaria da oppositiva a propriamente generale, ossia legata, o meno, alla manifestazione legale ed esterna della pretesa fiscale. Come dimostra la successiva giurisprudenza (Sez. U, n. 06315/2009, D'Alonzo, Rv. 607548) secondo cui la giurisdizione del giudice tributario pur avendo carattere pieno ed esclusivo, estendendosi non solo all'impugnazione del provvedimento impositivo, ma anche alla legittimità di tutti gli atti del procedimento a seguito dei quali l'attività di accertamento inizia, manitiene una struttura tale per cui i vizi deli atti in cui si traduce la sequenza procedimentale possono essere dedotti soltanto nel momento in cui si impugni il provvedimento che conclude l'iter di accertamento. Si esaminavano gli atti di verifica ipoteticamente lesivi dei diritti soggettivi del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi previsti dalla legge, con connesse compressioni di valenze costituzionali piene (in particolare, libertà di domicilio, di corrispondenza, di iniziativa economica), riservando la cognizione, quindi, al giudice ordinario. Con ciò avvertendo per un verso l'esigenza di una tutela propriamente generale, e per altro verso l'insufficienza, al riguardo, delle nervature oppositive della giurisdizione tributaria.

4.1. La riforma del 2001.

La decisione del 2009 prendeva le mosse dalla modifica introdotta dall'art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001 n. 448, all'art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546.

Con questa riforma il principio della tassatività degli atti impugnabili nel processo tributario, scolpito nel testo originario dell'art. 19 del d. lgs. n. 546 del 1992, è stato scardinato perché è stata abbandonata la regola secondo cui il giudice tributario aveva giurisdizione solo in ordine ad un elenco tassativo e chiuso di imposte che il fisco accertava e riscuoteva attraverso atti a loro volta tassativamente e nominativamente indicati.

Oggi infatti "appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il Servizio sanitario nazionale" dunque tutte le controversie "aventi ad oggetto tributi" e non solo quelle relative "agli atti di cui all'art. 19 relativi a tributi".

Rimane ovviamente ferma l'esigenza che la controversia abbia come specifico oggetto "tributi" e non atti che non abbiano (ancora) dato luogo a un interesse di natura tributaria. Interesse che, com'è stato detto, non sussiste in ordine a un sopralluogo o una richiesta di dati bancari, che ancora non abbiano sollevato una problematica "avente ad oggetto tributi" né una qualche pretesa fiscale.

Di ciò si trova conferma nella giurisprudenza della Corte di cassazione che:

1) pur continuando a escludere azioni di accertamento negativo del debito d'imposta (Sez. U, n. 27209/2009, D'Alonzo, Rv. 610763) e simmetricamente

2) confermando la natura strutturalmente oppositiva e processualmente impugnatoria del giudizio (Sez. T, n. 19337/2011, Olivieri, Rv. 619083)

3) hanno concluso – sin dalle prime ricostruzioni (riferite alla individuazione del perimetro reciproco con la giurisdizione amministrativa) – che, dopo il 2001, <<la stretta tipicità degli atti impugnabili … va adeguata al nuovo assetto della giurisdizione tributaria generale, con riferimento alla varietà dei nuovi tributi e alla evoluzione dei diritti del contribuente, sempre, però, nell'alveo di rapporti tributari concreti>> (Sez. U, n. 20318/2006, Merone, Rv. 591498).

Ciò che è puntualmente avvenuto facendo ricorso, sul piano motivazionale, alla possibilità di interpretazione estensiva anche in aree dominate dalla tassatività, e alla natura espansiva degli strumenti ermeneutici dell'interesse ad agire e del buon andamento della pubblica amministrazione.

4.2. Dilatazione del catalogo.

E dunque sono stati considerati impugnabili anche le "fatture" ossia gli atti con cui il concessionario del servizio raccolta rifiuti solidi urbani richiede il tributo paracommutativo costituito dalla tassa d'igiene ambientale (TIA) (Sez. T, n. 17526/2007, Cicala, Rv. 600544). E inoltre: l'invito al pagamento della tasse per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche (TOSAP) (Sez. T, n. 21045/2007, cit.); la visura per la consultazione della partita catastale, attraverso cui il contribuente apprende l'entità della rendita (di un immobile nel caso acquisito da un fallimento: Sez. T, n. 27385/2008, Bernardi, Rv. 605441); il preavviso di fermo amministrativo di beni mobili ex art. 86 del d.P.R. n. 602 del 1973, emesso con riguardo a crediti di natura tributaria, anche all'ipotesi di domanda proposta in epoca anteriore all'entrata in vigore dell'art. 35, comma 25-quinquies, del decreto-legge 4 luglio 2006 n. 223, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 2006 n. 248, che, incidendo sull'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, ha esplicitamente incluso il fermo tra gli atti impugnabili dinanzi al giudice tributario (Sez. U, n. 10672/2009, Botta, Rv. 608134); l'avviso di pagamento previsto, in materia di accise, dall'art. 14 del d.lgs. 26 ottobre del 1995 n. 504, che precede la procedura di riscossione ai sensi del d.P.R. 28 gennaio 1988 n. 43, trattandosi di atto impoaccertativo del tributo, inclusivo di tutti gli elementi necessari a individuare la pretesa fiscale (Sez. T, n. 18731/2009, Scuffi, Rv. 609299); secondo Sez. U, n. 01625/2010, D'Alessandro, Rv. 611393 è devoluta alla giurisdizione del giudice tributario "ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546" l'impugnazione del provvedimento, di competenza dell'Agenzia delle Entrate, di cancellazione (o rifiuto di iscrizione) dall'anagrafe delle Onlus prevista dall'art. 11 del d.lgs. 4 dicembre 1997, n. 460, "trattandosi di un atto che, oltre a rispondere a finalità di carattere prettamente fiscale, avuto riguardo alle agevolazioni tributarie che la legge ricollega all'iscrizione nell'anagrafe, non presenta alcun margine di discrezionalità, in quanto l'iscrizione è subordinata alla verifica dei requisiti prescritti dalla legge, e non modifica lo status dell'ente, il quale non costituisce un tipo particolare di compagine sociale, con la conseguenza che la controversia esula sia dalla giurisdizione amministrativa che da quella ordinaria"; impugnabile anche il bollettino di conto corrente postale relativo al versamento dell'imposta sulla pubblicità, che sia l'unico atto ricevuto dal contribuente (Sez. T, n. 25591/2010, Polichetti, Rv. 615371); la comunicazione di irregolarità ex art. 36-bis, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 (Sez. T, n. 07344/2012, Chindemi, Rv. 622891) o l'avviso bonario ex art. 36-ter, comma 4, dello stesso d.P.R. (Sez. 6-T, n. 15957/2015, Cosentino, Rv. 636113); l'atto di variazione della categoria relativa alla tassa rifiuti solidi urbani (TARSU) con la cui notifica il ruolo era stato portato a conoscenza, la cui omessa impugnazione però, trattandosi di atto innominato, non preclude il ricorso avvero il successivo avviso di pagamento (Sez. T, n. 16952/2015, Bruschetta, Rv. 636281).

Diversa resta l'ipotesi in cui un atto, di dubbia qualificazione, venga ricondotto a uno o più atti tipici autonomamente e necessariamente impugnabili. Ad esempio: il provvedimento di rimborso parziale che costituisce rifiuto, sia pure implicito, per la parte non restituita, assimilabile agli atti ex art. 19, comma 1, lettera g), del d.lgs. n. 546 del 1992, dovendosi escludere che il contribuente possa, successivamente a quello e senza addurre elementi idonei a rilevarne la natura interlocutoria, proseguire la controversia introdotta con l'impugnazione originaria del silenzio-rifiuto cui non sia seguita analoga inziativa per contrastare l'accoglimento non integrare della richiesta di restituzione (Sez. T, n. 14846/2008, Di Iasi, Rv. 603944); o l'atto con cui la cancelleria di un ufficio giudiziario richiede l'integrazione del contributo unificato, contenente a ben vedere un avviso di accertamento che se non impugnato rende inammissibile la successiva impugnazione della cartella (Sez. 6-T, n. 16188/2014, Cicala); ovvero, in tema d'imposta di registro, l'invito al pagamento di cui all'art. 212 del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, che – quale unico atto liquidatorio dell'imposta prenotata a debito con cui viene comunicata al contribuente una pretesa tributaria ormai definita – a prescindere dalla denominazione va qualificato come avviso di accertamento o di liquidazione, la cui impugnazione perciò non è facoltativa, ma necessaria, pena la cristallizzazione dell'obbligazione, che non può più essere contestata nel successivo giudizio avente ad oggetto la cartella di pagamento (Sez. T, n. 23061/2015, Terrusi, Rv. 637154); e altresì, senza dubbio, l'avviso di recupero di un credito d'imposta indebitamente compensato (Sez. T, n. 16006/2015, Napolitano, Rv. 636119, che riprende Sez. T, n. 28543/2013, Ferro, Rv. 626514).

Come sopra si è notato è stata ritenuta la giurisdizione tributaria anche sulla dichiarazione negativa resa dall'Agenzia delle entrate, terzo pignorato, in merito alla sussistenza del credito fiscale (Sez. U, n. 03773/2014, cit.), "dovendosi ritenere – in virtù di una doverosa interpretazione estensiva del catalogo degli atti impugnabili di cui all'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) – che [anch'essa] costituisca espressione del potere impositivo".

E ancora, Sez. U, n. 12759/2015, Ragonesi, Rv. 635918, e Sez. U, n. 12760/2015, Ragonesi, hanno ritenuto impugnabile davanti alla giustizia tributaria la nota con cui il Ministero dell'economia e delle finanze comunichi al contribuente di avere respinto la sua istanza di dare corso alla procedura amichevole, prevista dalla Convenzione europea di arbitrato del 23 luglio 1990, ratificata con legge 22 marzo 1993, n. 99, conclusa per risolvere i casi di doppia imposizione internazionale economica, connessi al settore tributario, dei prezzi di trasferimento, trattandosi di questione afferente alla fase prodromica della procedura (e relativa alla presentazione dell'istanza di apertura della procedura amichevole e alla valutazione dei requisiti soggettivi ed oggettivi di ammissibilità), che si svolge integralmente, ex artt. 6 e 7 della citata Convenzione, nell'ambito del diritto interno, <<sicché non può essere aprioristicamente sottratta alla valutazione giurisdizionale ad opera del competente organo giudiziario dello Stato dove l'istanza è presentata>>.

Il tutto mentre, nella giurisprudenza di merito e nella dottrina, seppure infine escludendola, si è arrivati a discutere dell'impugnabilità dell'avviso di presa in carico, che fa seguito all'introduzione dell'accertamento esecutivo ad opera dell'art. 29 del decretolegge 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010 n. 122. Accertamento che, seppure limitatamente alle imposte sui redditi iva e irap (con certe decorrenze temporali), nonché alle sanzioni connesse, supera la dinamica del ruolo e della cartella, perché l'agente della riscossione può procedere all'esecuzione esattoriale in ragione dell'avviso in questione senza attendere la formazione del ruolo o la conseguente partecipazione della cartella di pagamento. Ciò perché è l'accertamento (impoesattivo) che integra, oltre che l'atto di imposizione, anche il titolo esecutivo e l'intimazione ad adempiere. Senza che il contribuente riceva nulla dopo l'avviso di accertamento e prima dell'inizio dell'esecuzione. Al che la prassi, recepita poi dall'art. 8, comma 12, lettera a), n. 1), del decreto-legge 2 marzo 2012 n. 16, convertito con modificazioni dalla legge 26 aprile 2012 n. 44, introduttivo della lettera b) al comma 1 dell'art. 29 sopra menzionato, quale poi modificato dal d.lgs. 24 settembre 2015 n. 159, ha implementato un atto diretto a temperare il rigore di questa sequenza contratta, con l'obbligo per l'agente di informare il contribuente, con raccomandata semplice o posta elettronica, dell'avvenuta presa in carico dell'atto impoesattivo notificatogli dall'Agenzia delle entrate. Un "passaggio del testimone" interno che non porta a conoscenza del contribuente una pretesa tributaria nuova e diversa da quella contenuta nell'avviso di accertamento. Fermo che la mancata comunicazione non condiziona, come nel caso dell'avviso di mora ex art. 50 del d.P.R. n. 602 del 1973, la procedibilità esecutiva. Mentre potrebbe forse, secondo la ricordata dottrina, legittimare un'azione risarcitoria qualora si provi di non aver potuto per questo presentare tempestivamente istanza di rateizzo.

4.3. L'impugnazione facoltativa anticipata.

Nelle riflessioni più autorevoli si nota che forse fin maggiore è la dilatazione (anzi il sostanziale superamento) dell'art. 19 nella finora consolidata giurisprudenza di legittimità (Sez. T, n. 17010/2012, Virgilio, Rv. 623917, Sez. T, n. 11929/2014, Crucitti) secondo cui le determinazioni, in senso negativo, del direttore regionale delle entrate sull'istanza del contribuente volta ad ottenere le disapplicazione di una norma antielusiva ai sensi dell'art. 37-bis, comma 8, del d.P.R. n. 600 del 1973, non costituiscono atto di diniego di agevolazione fiscale. Perciò non rientrano nelle categorie enunciate dall'art. 19, e il contribuente che non le impugni non perde il diritto di contestare la pretesa tributaria. Fermo però che l'atto in questione può essere impugnato avanti alla giurisdizione tributaria in quanto provvedimento con cui l'Amministrazione porta a conoscenza del contribuente, pur senza efficacia vincolante per questi, il proprio convincimento in ordine a un determinato rapporto tributario. Orientamento che ha superato quello di Sez. T, n. 08663/2011, Parmeggiani, Rv. 617560, replicato da Sez. 6-T, n. 20394/2012, Cicala, secondo cui che il diniego in parola è un atto amministrativo definitivo (così indicato espressamente dal d.m. Finanze 19 giugno 1998 n. 259, attuativo della procedura di cui al comma 8 del citato art. 37-bis) oltre che recettizio con immediata rilevanza esterna, con la conseguenza che <<la mancata impugnazione in termini di tale atto tipico comporta l'intangibilità dello stesso, con esclusione di contestabilità successiva, ponendosi come fatto di per sè preclusivo della pretesa del contribuente nell'ambito del giudizio sul rifiuto espresso o tacito di rimborso>>.

Nel caso, potrebbe pensarsi che il contribuente può disattendere l'opinione del direttore regionale e porre ugualmente in essere l'operazione economica "sospetta". Deducendosene che solo se e quando l'Agenzia contesterà l'abuso del diritto con un avviso di accertamento si concretizzerà una lesione attuale e diretta al patrimonio del contribuente, tale da rendere effettivo e attuale interesse a promuovere un giudizio.

Ma la Corte, appunto, ha ritenuto prevalente il diritto dell'operatore economico a "ottenere chiarezza" attraverso una sentenza del giudice tributario.

Analogamente è agevole rilevare che anche la nota – di cui prima si è fatto cenno – con cui il Ministero competente comunica al contribuente di avere respinto la sua istanza di attivazione della procedura amichevole ex art. 6 della Convenzione europea sull'arbitrato non arreca un diretto pregiudizio al contribuente, che perde solo la possibilità di giovarsi dell'eventuale accordo fra le Amministrazioni dei due Stati e che comunque conserva il pieno diritto di difesa in sede processuale. Ma anche qui l'interesse all'accertamento ha prevalso espandendo in pieno, al di là della terminologia, la giurisdizione tributaria.

Questo contesto rende chiara l'inevitabilità dell'approdo reso con l'arresto n. 19704/2015. E la sua prevedibile stabilità. Anche in punto di lettura evolutiva per così dire della recettizietà intesa, si ripete, quale guarentigia del cittadino: piena conoscenza della compiuta pretesa come dato che libera l'interesse all'accertamento, e conoscenza legale tipizzata come unico presupposto per la decorrenza dei termini spirati i quali l'imposizione diviene immodificabile. Lettura che risponde infatti alla consapevolezza anche della storia dell'omologo diritto amministrativo, che, con illuministico candore, ignorava l'evenienza che il provvedimento invasivo potesse non essere comunicato, disponendo all'art. 9, comma 1, della legge 31 marzo 1889 n. 5992, che il termine di sessanta giorni per l'impugnativa decorresse dalla notifica "nelle forme e nei modi" stabiliti dal regolamento attuativo. Mentre fu la pubblica amministrazione, nella prassi, a discostarsi da questa lineare disciplina, omettendo le notifiche o mal eseguendole e negando anche il rilascio delle copie del provvedimento di cui si mirava a ostacolare il controllo giurisdizionale tempestivo. Sicché, come si è chiarito negli studi, il criterio della decorrenza del termine anche dalla conoscenza effettiva, infine recepito nell'art. 36 del r.d. 26 giugno 1924 n. 1054 e nell'art. 21 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034 (che ancora risuona nelle decisioni della giurisprudenza amministrativa: v. ad esempio Cons. di Stato, 5 giugno 2013 n. 3101), fu, nella sostanza, accondiscendenza legislativa a comportamenti nient'affatto esemplari.

Va peraltro preso atto della indicazione in controtendenza che risulta contenuta nell'art. 6, comma 1, del decreto legislativo 24 settembre 2015 n. 156, recante misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in cui si prevede che avverso <<le risposte alle istanze presentate ai sensi del comma 2 dell'articolo 11 della legge 27 luglio 2000 n. 212, recante lo Statuto del contribuente, può essere proposto ricorso [solo] unitamente all'atto impositivo>>. E quindi parrebbe coinvolgere anche gli interpelli previsti dall'art. 10-bis, sull'abuso di diritto posto che l'art. 10-bis rinvia espressamente all'art. 11.

Si tratta di una tutela differita [COMMITTERI, SCIFONI, 2015, 4270] senza dubbio significativa che ambisce a riflettere le aspirazioni e gli orientamenti dell'amministrazione fiscale. Anche se non si è immediatamente mancato di dubitare della sua conformità alla legge delega 11 marzo 2014 n. 23, che aveva come obbiettivo <<il rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente>> (art. 10), in questa prospettiva sembrando dovesse perseguire <<una maggiore omogeneità della disciplina degli interpelli, anche ai fini della tutela giurisdizionale>> (art. 6, comma 6) semmai ampliando e non restringendo le ipotesi in cui è consentito il ricorso giurisdizionale. Norma che peraltro segna la mancata occasione di fare chiarezza sui limiti specie esterni della giurisdizione tributaria.

. BIBLIOGRAFIA

Tesauro, Gli atti impugnabili ed i limiti della giurisdizione tributaria, in Giust. trib., 2007, 10

Carinci, Impugnazione del ruolo: l'interesse ad agire torna (inspiegabilmente) ad essere ancorato all'idoneità dell'atto a definire effetti pregiudizievoli per il contribuente, Riv. giur. trib., 2013, 587

Annecchino, Natura e impugnabilità degli estratti di ruolo, Foro it., 2014, I, 2162

Rasi, La conoscenza occasionale e legale dell'estratto di ruolo nella giurisprudenza della Cassazione: effetti in tema di impugnabilità, Dir. e pratica trib., 2014, I, 1012

Bruzzone, Le Sezioni Unite ammettono l'impugnazione di cartella e/o ruolo sulla base dell'estratto di ruolo, in Corr. trib., 2015, 4377

Committeri, Scifoni, Il nuovo interpello tra tempi di risposta accelerati e tutela giurisdizionale differita, in Corr. trib., 2015, I, 4270

  • giurisdizione civile

CAPITOLO XVIII

LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ

(di Eduardo Campese )

Sommario

1 Premessa. - 2 Domanda nuova ed emendatio libelli nel significato tradizionale. - 3 L'ordinanza interlocutoria resa da Sez. 2, n. 02096/2014, Carrato. - 4 L'ammissibilità della mutatio libelli: le condizioni oggi poste dalle Sezioni Unite. - BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con un ulteriore (dopo quelli di Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633502-633509, e n. 26243/2014, Travaglino, Rv. 633558-633565, che hanno dilatato il limite cronologico per la proposizione della domanda di accertamento incidentale, nonché di Sez. U, n. 00642/2015, Di Iasi, Rv. 634091, a tenore della quale riprodurre in una sentenza civile il contenuto di un atto di parte o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari, senza aggiungervi niente, non determina la nullità della decisione se dalla motivazione emergono inmodo chiaro, univoco ed esaustivo le ragioni che sono alla base della decisione e se le stesse sono chiaramente attribuibili all'organo giudicante) intervento in ambito procesuale, sebbene con ampie ricadute sull'effettività della tutela della parte, hanno affrontato il tema dell'ammissibilità di una mutatio libelli che consista nella proposizione, entro la prima memoria ex 183 c.p.c., di una domanda che le stesse hanno definito "alternativa", giungendo alla conclusione che una siffatta domanda "diversa" (per petitum, causa petendi, o entrambi) non è sempre e comunque inammissibile. Trattasi di una pronuncia senz'altro innovativa rispetto ai comuni modi di vedere non solo di una lunga giurisprudenza, ma anche di una finora quasi monolitica dottrina, che semmai talora, specie in epoche recenti, ha spesso tentato di ampliare il perimetro della singola domanda e così di allargare the compass of claim [CONSOLO, 2015, 961].

Sembra opportuno, pertanto, ancor prima di esaminare il contenuto di tale interessante statuizione, fare un passo indietro per ricordare il contesto dottrinale e giurisprudenziale sul quale la stessa sarebbe poi andata ad incidere.

2. Domanda nuova ed emendatio libelli nel significato tradizionale.

Il legislatore, anche nel novellato art. 183 c.p.c., ha utilizzato con disinvoltura i concetti di "precisazione" e "modificazione" delle domande e delle eccezioni, senza tuttavia specificarne i rispettivi confini.

Cominciando dalle domande, è anzitutto il caso di sottolineare che, in astratto, tenuto conto che il concetto di "modifica" non differisce, sul piano logico e lessicale, da quello di "mutamento" (di cui il citato articolo non fa menzione), nulla impedirebbe di qualificare come "modificazione" qualunque mutamento di alcuno degli elementi (causa petendi o petitum) che identificano, sul piano oggettivo, la domanda stessa; con la sola condizione, magari, che la diversa domanda che ne risulta conservi un qualche nesso (cioè l'identità di almeno uno dei predetti elementi) rispetto a quella originaria.

Non può escludersi (essendo anzi probabile) che il codice del 1940 – che limitava l'esercizio di tale potere processuale alla prima udienza – intendesse, per l'appunto, in tal senso la possibilità di modificazione della domanda.

Dopo la riforma del 1950, però, si venne consolidando l'orientamento – senz'altro dominante al momento della decisione delle Sezioni Unite cui si è accennato nel paragrafo precedente – per il quale deve distinguersi nettamente, in linea di principio, tra la cd. mutatio libelli, corrispondente al mutamento (cioè alla trasformazione radicale) della domanda, precluso in ogni caso ed in qualunque momento, e la emendatio libelli, consistente nella mera modifica (non sostanziale) della stessa, che invece è consentita, seppure a talune condizioni ed entro certi limiti temporali.

La parte più autorevole della letteratura giuridica fondava la distinzione tra le due fattispecie sulla variazione, o meno, del fatto costitutivo posto a base della domanda, fermi restando i soggetti del rapporto processuale.

Si erano, invero, affermate due impostazioni al riguardo. La prima, detta della "individuazione", richiedeva, allo scopo identificativo, la sola indicazione del fondamento e della ragione dell'azione, ossia l'indicazione del rapporto giuridico affermato dall'attore, con la conseguenza che il mutare dei fatti non comportava cambiamento della causa petendi; la seconda, definita della "sostanziazione", postulava l'indicazione del fatto costitutivo del diritto che si fa valere. Ciò che rilevava, in questo caso, era quindi l'allegazione dei fatti costitutivi, con la conseguenza che il mutare del rapporto giuridico non determinava cambiamento della domanda.

La dottrina più avvertita, tuttavia, ha correlato la possibilità di mutatio alla azionabilità di diritti cosiddetti eterodeterminati e, d'altro canto, la possibilità di emendatio alla tutela di diritti cosiddetti autodeterminati.

Questi ultimi si caratterizzano per l'incentrarsi della causa petendi non già sul fatto costitutivo, bensì sul fatto lesivo, e per il polarizzarsi dell'azione sostanzialmente nel petitum. Così, l'azione di rivendica del diritto di proprietà su di un bene immobile non muterà le sue caratteristiche in dipendenza del titolo di proprietà dedotto dalla parte, ad esempio usucapione o accessione, essendo il diritto fatto valere, per natura unico ed irripetibile (res amplius quam semel mea esse non potest).

Per i diritti eterodeterminati, invece, il collegamento col fatto costitutivo rappresenta l'elemento indispensabile per l'identificazione dell'azione: una parte potrebbe, in tesi, essere titolare di diversi rapporti di credito nei confronti della controparte, e ciascuno di essi dovrebbe essere individuato in base al titolo, ad esempio mutuo o corrispettivo di forniture e così via.

In presenza di diritti autodeterminati, dove, quindi, il fatto costitutivo è collocato al di fuori del processo identificativo dell'azione, e dove, di conseguenza, la situazione sostanziale dedotta si prospetta come unica ed irripetibile, indipendentemente dai fatti storici dedotti, l'allegazione di un fatto costitutivo diverso da quello prospettato all'origine della causa non rappresenta un elemento di novità, ma si attesta nell'ambito della mera modifica della domanda (si pensi alla deduzione successiva di diversi titoli di proprietà, o di diversi titoli, derivativo – per contratto – e, successivamente, originario – per usucapione – del diritto di servitù). Che, poi, nell'ambito di un medesimo grado di giudizio, la modifica del titolo di diritti autodeterminati implichi una emendatio lo si comprende ove si tenga presente che emendare vuol dire non allargare l'oggetto del giudizio e, quindi, non introdurre elementi di novità, ma lasciare invariati gli elementi identificativi dell'azione, ossia petitum e causa petendi, rettificandosene solo alcuni aspetti.

Pertanto, la mutatio libelli corrisponde alla modificazione della domanda giudiziale, mentre l'emendatio libelli concerne la sua mera correzione o diversificazione.

Occorre, poi, distinguere a seconda che le variazioni riguardino i soggetti, il petitum o la causa petendi.

Circa i primi, è difficile ipotizzare dei cambiamenti, dal lato attivo o passivo, che non incidano sull'identità della domanda. Può accadere, semmai, che l'attore o il convenuto siano stati indicati in modo inesatto o incompleto: ma, in questo caso, la conseguenza sarà data dalla nullità, peraltro sanabile, della citazione, ai sensi dell'art. 164, comma 1, c.p.c.

Quanto all'oggetto, poi, la giurisprudenza mostra[va] più rigidità in relazione all'identità del bene giuridico perseguito dall'attore, cioè del petitum cd. mediato, mentre appare in qualche misura più flessibile rispetto al tipo di provvedimento concretamente richiesto al giudice (cd. petitum immediato), le cui variazioni vengono talora ricondotte nell'ambito della mera emendatio libelli.

Problemi ed incertezze maggiori, invece, si registra[va]no con riferimento alla causa petendi, generalmente affermandosi che se ne ha mutamento – e, conseguentemente, un'inammissibile mutatio libelli – ogni qualvolta sono dedotti in corso di causa fatti costitutivi nuovi e diversi da quelli originariamente allegati, così da ampliare in misura sostanziale il tema dell'indagine, sicchè, sebbene implicitamente, sembra ammettersi che possa aversi una mera emendatio allorquando i fatti costitutivi vengano modificati in misura marginale.

Tenuto conto, però, che il legislatore utilizza a questo riguardo anche il diverso concetto di "precisazione" della domanda, sembra[va] preferibile ascrivere a quest'ultimo le modificazioni quantitativamente irrilevanti dei fatti costitutivi, e limitare l'emendatio libelli, invece, alla sole variazioni dei fatti costitutivi di diritto autodeterminati.

Passando, quindi, a considerare proprio la "precisazione" della domanda, è evidente che il suo ambito dovrebbe ricavarsi da quanto appena esposto a proposito della "modificazione".

Ad esempio, può ritenersi che costituisca una mera precisazione del petitum, relativamente alle azioni aventi ad oggetto il pagamento di una somma di danaro, l'indicazione del quantum della domanda, inizialmente omesso (ciò che spesso avviene, in particolare, nelle azioni risarcitorie in cui l'attore attende magari l'esito della fase istruttoria per quantificare il danno), oppure la sua variazione (anche) in aumento; fermi restando, naturalmente, i fatti costitutivi e le causali inizialmente indicati.

Quanto alla causa petendi, invece, la "precisazione" potrà consistere nella variazione di elementi di diritto della domanda (che implichi, ad esempio, una diversa qualificazione giuridica dei fatti costitutivi, o comunque, il loro collegamento ad una diversa norma), oppure nella specificazione o modificazione di circostanze marginali relative ai fatti principali, che siano tali da far ritenere sostanzialmente immutati i fatti medesimi, naturalmente non potendosi negare che, in tal modo, residui un notevole margine di incertezza nell'apprezzamento della "misura" della variazione del fatto costitutivo: ma ciò rappresenta un inconveniente inevitabile dell'impostazione da cui tradizionalmente si muove circa la distinzione tra mutatio ed emendatio libelli.

Deve aggiungersi, per completezza, che dovrebbe rimanere affatto estraneo alla precisazione della domanda la variazione o l'allegazione di nuovi fatti secondari, intendendosi questi ultimi come "qualitativamente" diversi dai fatti principali e operanti, a differenza di essi, sul terreno meramente probatorio.

Analoghi problemi di reciproca delimitazione si pongono, a ben riflettere, con riguardo alla "modificazione" ed alla "precisazione" delle eccezioni.

Per un'ovvia esigenza di simmetria rispetto alle soluzioni appena prospettate in rapporto alle domande, si può pensare che il precisare consiste, ad esempio, nella specificazione o variazione di circostanze marginali relative ad un fatto (estintivo, impeditivo o modificativo) già allegato, oppure nella deduzione di un diverso effetto giuridico del fatto medesimo. La modifica, invece, può riflettersi alle ipotesi in cui, avendo opposto il convenuto, in via di eccezione (cd. riconvenzionale), un proprio diritto autodeterminato, l'allegazione di un nuovo fatto costitutivo di tale diritto non incida sull'identificazione di quest'ultimo: si pensi, ad esempio, al convenuto che, nel resistere all'azione promossa dal proprietario del fondo confinante per ottenere la eliminazione di un'apertura realizzata a distanza inferiore a quella legale, dapprima eccepisca che la veduta è oggetto di servitù acquistata per destinazione del padre di famiglia, ed in seguito deduca di aver comunque usucapito la servitù stessa.

Giova, infine, rammentare che, secondo la giurisprudenza, si ha domanda nuova quando i nuovi elementi dedotti comportino il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, modificando l'oggetto sostanziale dell'azione ed i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella originariamente fatta valere, verificandosi in tale ipotesi una mutatio libelli e non una mera emendatio.

In particolare, si ha mutatio libelli quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga un nuovo tema d'indagine e si spostino i termini della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice emendatio quando si incida sulla "causa petendi", sicché risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul "petitum", nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere.

3. L'ordinanza interlocutoria resa da Sez. 2, n. 02096/2014, Carrato.

Nel contesto dottrinale e giurisprudenziale di cui si è detto, l'ordinanza interlocutoria resa da Sez. 2, n. 02096/2014, Carrato, aveva sollecitato l'intervento delle Sezioni Unite al fine di stabilire se – ove l'attore abbia chiesto, con l'atto di citazione, una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. sulla base di una scrittura privata da lui qualificata come preliminare di vendita immobiliare – costituisse domanda nuova o, mera emendatio libelli, la richiesta di una pronuncia dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà del medesimo immobile, oggetto del contratto qualificato come contratto definitivo di compravendita. Si era rilevato, invero, che, sulla corrispondente questione, esisteva, nella giurisprudenza di legittimità, un contrasto di orientamenti: un primo indirizzo interpretativo, infatti, aveva ritenuto che <<ove l'attore abbia chiesto con l'atto di citazione una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., fondata sull'esistenza di una scrittura privata da lui erroneamente qualificata come preliminare di vendita immobiliare, costituisce mera emendatio libelli, consentita anche in appello, la richiesta di una pronuncia dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà del medesimo immobile, oggetto del contratto qualificato come contratto definitivo di compravendita, trattandosi di semplice specificazione della pretesa originaria e restando in tal caso il thema decidendum circoscritto all'accertamento dell'esistenza di uno strumento giuridico idoneo al trasferimento di proprietà, sicché resta immutato nella sostanza il bene effettivamente richiesto ed identica la causa petendi, costituita dal contratto del quale viene prospettata, rispetto alla domanda originaria, soltanto una diversa qualificazione giuridica>> (cfr., Sez. 2, n. 11840/1991, Marotta, Rv. 474520; Sez. 2, n. 14643/1999, Rv. Annunziata, 532576; Sez. 2, n. 07383/2001, Mazziotti di Celso, Rv. 547144); un altro (ed invero predominante), ad avviso del quale, invece, <<costituisce domanda nuova quella del creditore che, dopo aver invocato l'esecuzione coattiva di un contratto preliminare rimasto inadempiuto, ponendo a base dell'atto introduttivo la richiesta di pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c., sostituisce nell'atto di riassunzione a seguito di interruzione o nelle conclusioni del giudizio di primo grado, ovvero nell'atto di appello, la predetta domanda con una successiva, con la quale chieda una sentenza che accerti l'avvenuto effetto traslativo, qualificando il rapporto pattizio non più come preliminare, ma come vendita per scrittura privata. Si tratta, infatti, di domande diverse sotto il profilo del petitum e della causa petendi, atteso che, nella prima ipotesi, l'attore adduce un contratto preliminare con effetti meramente obbligatori, avente ad oggetto l'obbligo delle parti contraenti di addivenire ad un contratto definitivo di vendita per atto pubblico o per scrittura privata autenticata dell'immobile; nella seconda, un contratto con efficacia reale, immediatamente traslativo della proprietà dell'immobile per effetto del consenso legittimamente manifestato>>.

In tal senso, anche se con riguardo al regime processuale previgente, si era già pronunciata anche Sez. U, n. 01731, Carbone, Rv. 496140, seguita, poi, anche in ordine alla disciplina processuale successivamente novellata, da: Sez. 2, n. 15541/2000, Goldoni, Rv. 542539; Sez. 2, n. 01740/2008, Piccininni, Rv. 601301; Sez. 2, n. 23708/2009, Bursese, Rv. 610648; Sez. 2, n. 12039/2010, Elefante, Rv. 612939.

In particolare, con quest'ultima pronuncia era stato ribadito che costituisse domanda nuova quella del creditore che, dopo aver invocato l'esecuzione coattiva di un contratto preliminare rimasto inadempiuto, ponendo a base dell'atto introduttivo la richiesta di pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c., sostituiva nelle conclusioni del giudizio di primo grado, ovvero nell'atto di appello, la predetta domanda con una successiva, con la quale chiedesse una sentenza accertativa dell'avvenuto effetto traslativo, qualificando il rapporto pattizio non più come preliminare, ma come vendita per scrittura privata, poiché trattavasi di domande diverse sotto il profilo del petitum e della causa petendi atteso che, – come già evidenziato – nella prima ipotesi, l'attore adduce un contratto preliminare con effetti meramente obbligatori, avente ad oggetto l'obbligo delle parti contraenti di addivenire ad un contratto definitivo di vendita per atto pubblico o per scrittura privata autenticata dell'immobile; nella seconda, un contratto con efficacia reale, immediatamente traslativo della proprietà dell'immobile per effetto del consenso legittimamente manifestato.

Giova segnalare, peraltro, che la giurisprudenza – assolutamente prevalente – della Suprema Corte (cfr. Sez. 2, n. 15859/2002, Settimj, Rv. 558422; Sez. 2, n. 13420/2003, Fiore, Rv. 566804; Sez. 2, n. 02723/2010, Giusti, Rv. 611736) aveva seguito l'indirizzo da ultimo riportato anche nell'eventualità processuale della modificazione in senso inverso delle due domande in esame, risultando stabilito che <<costituisce domanda nuova – come tale vietata e, perciò, inammissibile sia in primo grado che in appello – quella conseguente al sopravvenuto mutamento della pretesa di accertamento del contratto di compravendita del diritto di proprietà in quella di esecuzione coattiva di un contratto preliminare ai sensi dell'art. 2932 c.c., essendo le due domande diverse per petitum e causa petendi: infatti, mentre la prima è diretta ad ottenere una sentenza dichiarativa, fondata su un negozio con efficacia reale, immediatamente traslativo della proprietà per effetto del consenso legittimamente manifestato, la seconda mira ad una pronuncia costitutiva, fondata su un contratto con effetti meramente obbligatori come il preliminare, avente ad oggetto l'obbligo delle parti contraenti di addivenire ad un contratto definitivo di vendita per atto pubblico o per scrittura privata autenticata>>.

In un siffatto contesto, era sopravvenuta Sez. 6-3, n. 20177/2013, Lanzillo, Rv. 627632, la quale, riprendendo l'indirizzo minoritario (e maggiormente risalente nel tempo), aveva riaffermato che ove l'attore, dopo aver domandato con l'atto introduttivo del giudizio una sentenza costitutiva ai sensi dell'art. 2932 c.c. sulla base di un contratto da lui qualificato come preliminare di vendita immobiliare, formuli, rispettando le decadenze processuali previste, la richiesta di una pronuncia dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà del medesimo immobile oggetto del contratto, qualificato come contratto definitivo di compravendita, era configurabile non una mutatio, ma una semplice emendatio libelli, poiché il thema decidendum restava circoscritto all'accertamento dell'esistenza di uno strumento giuridico idoneo al trasferimento della proprietà, restando così identico nella sostanza il bene effettivamente chiesto ed uguale la causa petendi costituita dal contratto, del quale veniva prospettata, rispetto alla domanda originaria, soltanto una diversa qualificazione giuridica.

Quale argomentazione di contorno, inoltre, era stato evidenziato che sul giudice incombesse l'obbligo di motivare specificamente – nel dichiarare una domanda inammissibile perché nuova – quali fatti nuovi od estranei alla materia oggetto del contraddittorio fra le parti, si richiedeva di esaminare, rispetto a quelli inizialmente prospettati e discussi nel corso del giudizio.

Tutto ciò aveva, allora, indotto la già citata Sez. 2, n. 02096/2014, Carrato, a sollecitare l'ulteriore intervento delle Sezioni Unite per risolvere il contrasto fin qui descritto.

4. L'ammissibilità della mutatio libelli: le condizioni oggi poste dalle Sezioni Unite.

Così interpellate, le Sezioni Unite non si sono lasciate sfuggire l'occasione per un nuovo intervento a più largo raggio sistematico chiarificatore, non solo provvedendo a dirimere quel contrasto (sancendo l'ammissibilità della modifica, nella memoria ex art. 183 c.p.c., dell'originaria domanda formulata ex art. 2932 c.c. con quella di accertamento dell'avvenuto effetto traslativo), ma, soprattutto, affrontandone direttamente ed ex professo la questione implicitamente presupposta: vale a dire in cosa consista la "modificazione" della domanda consentita dall'art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c.: il quesito, quindi, è divenuto se la domanda "diversa" (per petitum, causa petendi, o entrambi questi elementi identificatori) sia sempre, e necessariamente, domanda "nuova" consentita solo in casi tassativamente previsti (ad esempio, la cd. reconventio reconventionis di cui all'art. 183, comma 5, c.p.c., o la domanda di risoluzione per inadempimento proposta nel corso del giudizio di condanna ad adempiere, ex art. 1453, comma 2, c.c., o la domanda di accertamento incidentale secondo la teorica di Sez. U, Travaglino, n. 26242/2014 e n. 26243/2014).

La prospettiva assunta dalla Suprema Corte non è stata, come meglio si vedrà oltre, il ricondurre nuove causae petendi e nuovi petita nell'ambito di quelli puntualmente caratterizzanti la domanda originaria, ma si è detto chiaramente che se si cambia il petitum e/o la causa petendi la domanda non è la stessa: è sicuramente domanda diversa, ma – a date condizioni – ammissibile ex art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c..

La res in iudicium deducta, dunque, non deve essere concepita come totalmente statica neppure nel processo italiano, sempre che si tratti di domanda che le Sezioni Unite definiscono "alternativa", laddove autorevole dottrina preferisce utilizzare (non da oggi) la dicitura (ammissibile poiché) "complanare" [CONSOLO, 2015, 961 e ss.]. Ossia domanda concorrente, che viaggia complanarmente verso una meta sostanzialmente unitaria, seppur – come oggetto del giudicato – tutt'altro che identica, e che condivide, quindi, con la prima l'identità dell'episodio socio-economico di fondo (ed ovviamente l'identità dei soggetti), e che assai spesso origina da concorsi di pretese ad un unico petitum, o – come nella fattispecie de qua – da diversi petita conseguenti a diverse qualificazioni della causa petendi.

Questa domanda, ancorché frutto di una vera e propria mutatio libelli (intesa come "cambiamento" di uno o più degli elementi identificatori della domanda sul piano oggettivo), è dunque ammissibile, secondo le Sezioni Unite, se proposta nel rispetto delle preclusioni intermedie dell'art. 183 c.p.c..

Tanto premesso, e passando ad esaminare le ragioni che hanno indotto la Suprema Corte a cambiare orientamento rispetto al proprio citato precedente del 1996, non può che muoversi dalla ricognizione più generale dalla stessa effettuata sul rapporto tra mutatio ed emendatio libelli.

In particolare, si è rilevato che, sul punto vige, in linea generale, il principio, più che consolidato, secondo il quale è ammissibile solo la modificazione della domanda introduttiva che costituisce semplice "emendatio libelli", ravvisabile quando non si incide nè sulla causa petendi (ma solo sull'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto), nè sul petitum (se non nel senso di meglio quantificarlo per renderlo idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere). Al contrario, è assolutamente inammissibile quella modificazione della domanda che si risolve in una "mutatio libelli", ricorrente quando si avanza una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima, così ponendo al giudice un nuovo tema d'indagine e spostando i termini della controversia.

La situazione, apparentemente univoca, ha generato nella realtà una situazione ben più complessa, atteso che finora, in molti singoli casi, pur non contravvenendo espressamente al descritto principio, si è giunti a ritenere sostanzialmente ammissibili anche domande che presentavano invece mutamenti in ordine ai suddetti elementi modificativi (ad esempio, la modifica della iniziale domanda di risoluzione del contratto per inadempimento con l'aggiunta di una domanda subordinata di adempimento del contratto, ritenuta una emendatio libelli).

C'è, in altre parole, un contrasto in tale crocevia processuale più consistente di quanto non appaia ad un primo esame della giurisprudenza.

Le Sezioni Unite hanno, pertanto, voluto operare, in primo luogo, una ricognizione della struttura dell'udienza di comparizione, disciplinata dall'art. 183 c.p.c.: secondo la pronuncia in esame, la non ammissibilità della proposizione di domande nuove nel corso dell'udienza di cui alla citata norma, considerando come "nuove" le domande che differiscono da quella iniziale anche solo per uno degli elementi identificativi sul piano oggettivo, è solo una consolidata ma immotivata convinzione.

Nell'art. 183 c.p.c. non si rinviene, infatti, alcun esplicito divieto di domande nuove (come invece, ad esempio, nell'art. 345 c.p.c.).

Non solo: l'art. 189 c.p.c., in tema di rimessione della causa al collegio – laddove afferma che il giudice istruttore invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni <<nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell'art. 183 c.p.c.>> – lascia intendere che, in realtà, le parti possono cambiare le domande e conclusioni avanzate nell'atto introduttivo, anche in modo apprezzabile.

Effettuata tale precisazione, si è pertanto proceduto a definire i tre tipi di domande previste dall'art. 183 c.p.c.: le "nuove", le "precisate" e, infine, le "modificate".

Con riguardo alle domande "nuove", pur non riscontrandosi un espresso divieto, le Sezioni Unite le hanno ritenute implicitamente vietate ad eccezione di quelle che per l'attore rappresentano una reazione alle opzioni difensive del convenuto.

Le domande "precisate" sono, invece, le stesse domande introduttive che non hanno subito modificazioni ma semplici precisazioni, finalizzate a definirle, puntualizzarle, circostanziarle meglio.

Quanto alle domande "modificate", è stato giustamente rilevato che la norma non prevede alcun limite, nè quantitativo nè qualitativo, alla modificazione ammessa.

Da una siffatta analisi esegetica, sembra potersi chiaramente desumere che la netta contrapposizione emendatio/mutatio, generalmente assunta a principio indiscutibile, tende a sovrapporre e far coincidere queste due ultime categorie: se domanda "precisata" è la stessa domanda originaria, che ha subito solo lievi "rimaneggiamenti" e non nei suoi elementi identificatori; e se è inammissibile il mutamento radicale e non "in parallelo" di uno o entrambi gli elementi oggettivi della domanda, quando si sarà in presenza di una domanda "modificata" e non solo "precisata"? Mai, così sostanzialmente svuotandosi la norma di uno dei suoi significati [CONSOLO, 2015, 961 e ss.].

Occorre, quindi, ritenere che, essendo la domanda "modificata" espressamente prevista e qualificata ammissibile (se formulata entro la prima memoria ex 183 c.p.c.), le sue caratteristiche devono individuarsi per differenza rispetto alle domande nuove ed a quelle precisate.

E dunque: da un lato, la domanda modificata sarà diversa per petitum e/o causa petendi dalla domanda originaria (perché, fermi quegli elementi, sarebbe domanda solo precisata); dall'altro, la prima non potrà avere la caratteristica che è il minimo comune denominatore delle domande nuove contemplate dal comma 5 dell'art. 183 c.p.c., e che per le Sezioni Unite sta in ciò, che si tratta di domande che si aggiungono a quella originaria e che possono convivere con quella (e così essere accolte insieme a quella, attribuendo un duplice bene della vita, un doppio risultato anche funzionale, e non solo una diversa ma concorrente res iudicata).

Ne deriva che sono domande modificate, ammissibili ex art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c., quelle domande <<…diverse [per petitum, causa petendi o entrambi] che però non si aggiungono a quelle originarie ma le sostituiscono e si pongono, pertanto, rispetto a queste, in rapporto di alternatività…>> (cfr. parag. 3 della sentenza in esame), altresì precisandosi che, <<…oltre a rimanere ovviamente immutato rispetto alla domanda originaria l'elemento soggettivo delle persone, la domanda modificata deve pur sempre riguardare la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio…>>

In altri termini, la modificazione delle domande ex art. 183 c.p.c. è ammissibile senza limiti, anche con riferimento al petitum ed alla causa petendi. E tale circostanza si evincerebbe non solo dalla previsione di ben tre termini, per formularle, replicare ad esse e provarle, ma anche perché, trattandosi di udienza di prima comparizione, la trattazione della causa non è ancora sostanzialmente iniziata e, conseguentemente, una modifica anche incisiva della domanda non arrecherebbe alcun pregiudizio all'ordinato svolgimento del processo.

Peraltro, da tale interpretazione non deriva – ad avviso delle Sezioni Unite – una degenerazione del processo, giacchè la domanda modificata deve pur sempre riguardare la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l'atto introduttivo o comunque essere a questa collegata o posta in alternativa. E nemmeno si rischierebbe un allungamento dei tempi processuali, atteso che la domanda modificata sostituisce la domanda iniziale e non si aggiunge ad essa, interviene nella fase iniziale del giudizio e non comporta tempi superiori a quelli già preventivati dal medesimo art. 183 c.p.c.

Neppure, infine, può ritenersi, secondo la Suprema Corte, che una simile interpretazione possa "sorprendere" la controparte ovvero mortificarne le potenzialità difensive perchè <<l'eventuale modifica avviene sempre in riferimento e connessione alla medesima vicenda sostanziale in relazione alla quale la parte è stata chiamata in giudizio; la parte sa che una simile modifica potrebbe intervenire, sicchè non si trova rispetto ad essa come dinanzi alla domanda iniziale" ed, infine, "alla suddetta parte è in ogni caso assegnato un congruo termine per potersi difendere e controdedurre anche sul piano probatorio>>.

Ad avviso di chi scrive, però, proprio con riguardo alla completezza dell'esplicazione del diritto di difesa della parte nei cui confronti sia diretta una modificazione della domanda nei termini fin qui esaminati, sembra che sia rimasto in ombra un aspetto: a fronte di una siffatta modificazione effettuata entro il primo dei tre termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., la controparte, avvalendosi del secondo termine previsto dalla medesima norma, potrà senz'altro <<…replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate dall'altra parte…>>, ovvero <<.. proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime…>>.

Ma potrà anche formulare domande che siano conseguenza di quella modificazione ?

Il tenore letterale della disposizione da ultimo citata non sembrerebbe consentirlo, per cui, qualora non si voglia fare ricorso al meccanismo, ormai generalizzato (cfr. art. 153, comma 2, c.p.c., introdotto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69), della rimessione in termini, dovrebbe individuarsi, in via interpretativa, – al fine di scongiurare potenziali lesioni del diritto di difesa – un meccanismo che (magari sulla falsariga di quanto sancito dall'art. 183, comma 5, c.p.c., in favore dell'attore) renda comunque proponibili tali domande (per così dire, ulteriormente) conseguenziali.

Da ultimo, le Sezioni Unite hanno ritenuto che i risultati ermeneutici così raggiunti appaiono in completa consonanza sia con l'esigenza – ripetutamente perseguita nel codice di rito, talora anche attraverso modifiche della disciplina sulla competenza – di realizzare, al fine di una maggiore economia processuale ed una migliore giustizia sostanziale, la concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale (basti pensare alle disposizioni codicistiche in tema di connessione e riunione dei procedimenti), sia, più in generale, con i valori funzionali del processo come via via enucleati, nel corso degli ultimi anni, dalla dottrina e dalla giurisprudenza – soprattutto a Sezioni Unite – di legittimità.

E proprio questo ha indotto autorevole dottrina [CONSOLO, 2015, 961 e ss.] a ribadire che l'aver individuato nell'esordio del processo il momento per l'esercizio dello ius poenitendi, e nel contempo – e giustamente – l'escludere (come fatto dal legislatore del '90, e poi ancora del 2006) con il massimo rigore successive nuove allegazioni (siano esse mere precisazioni o pregnanti modificazioni), consente assai probabilmente di abbandonare in larga parte l'intero dibattito su mutatio ed emendatio.

In quel momento, infatti, si dovrebbe avere – e da oggi anche per le Sezioni Unite si ha – la massima (e, però, ragionevole) libertà anche di mutatio, ovviamente nei limiti plausibili dati appunto dall'identità (non solo delle parti, ma pure) dell'episodio socio-economico di fondo. Dopo quel momento, dovrà subentrare il massimo rigore, tanto da rendere ormai l'udienza di precisazione delle conclusioni (in passato destinata a segnare l'ultimo momento utile per nuove attività di allegazione) snodo pressoché sempre superfluo.

. BIBLIOGRAFIA

Consolo, Le S.U. aprono alle domande "complanari": ammissibili in primo grado ancorchè (chiaramente ed irriducibilmente) diverse da quella originaria cui si cumuleranno, in Corr. giur. 2015, 7, 961 e ss.

  • giurisdizione civile
  • giurisdizione minorile
  • competenza giurisdizionale

CAPITOLO XIX

IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C.

(di Rosaria Giordano )

Sommario

1 Il sistema precedente. - 2 La nuova formulazione dell'art. 38 disp. att. c.c. - 3 Ambito d'applicazione ratione temporis. - 4 Competenza sui procedimenti di decadenza dalla responsabilità genitoriale di cui all'art. 330 c.c. - 5 Pendenza del giudizio sulla crisi coniugale e del procedimento de potestate tra le "stesse parti". - 6 Giudizio di separazione o divorzio "in corso" al momento della proposizione del ricorso dinanzi al tribunale minorile. - 7 Individuazione del giudice ordinario competente se il procedimento sulla crisi coniugale pende in grado d'appello. - 8 Proposizione della domanda dinanzi al tribunale ordinario successivamente all'inizio del procedimento de potestate di fronte al tribunale per i minorenni - 9 Autorizzazione al riconoscimento dei figli da parte dei minori infrasedicenni. - BIBLIOGRAFIA

1. Il sistema precedente.

L'art. 38 disp. att. c.c., nella formulazione antecedente alle modifiche introdotte dall'art. 3 della legge 20 dicembre 2012, n. 219, demandava alla competenza del tribunale per i minorenni l'emanazione dei <<provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 171, 194, comma secondo, 250, 252, 262, 264, 326, 317-bis, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, nonché nel caso di minori dall'articolo 269, primo comma, del codice civile>>. Nel comma 2 si precisava che rientravano, invece, nella competenza del tribunale ordinario i provvedimenti non attribuiti espressamente alla competenza di una diversa autorità giudiziaria.

Nella vigenza di tale previsione normativa, si riteneva che quando nell'esercizio della potestà genitoriale si realizzava un pregiudizio all'interesse del minore, la competenza ai sensi dell'art. 333 c.c. si radicava in capo al tribunale per i minorenni. In particolare, Sez. 1, n. 03765/2001, Adamo, Rv. 546179, aveva affermato che, poiché il discrimine tra la competenza del tribunale ordinario e quella del tribunale per i minorenni deve essere individuato in riferimento al petitum ed alla causa petendi, rientrano, ai sensi del combinato disposto degli artt. 333 cc. e 38 disp. att. c.c., nella competenza del tribunale per i minorenni le domande finalizzate ad ottenere provvedimenti cautelari e temporanei idonei ad ovviare a situazioni pregiudizievoli per il minore, anche se non di gravità tale da giustificare la declaratoria di decadenza dalla potestà genitoriale, di cui all'art. 330 c.c., mentre appartengono alla competenza del tribunale ordinario, in sede di separazione personale dei coniugi, di annullamento del matrimonio o di divorzio, le pronunzie di affidamento dei minori che mirino solo ad individuare quale dei due genitori sia più idoneo a prendersi cura del figlio.

Tuttavia, anche nell'assetto normativo delineato dalla pregressa formulazione dell'art. 38 disp. att. c.c., era problematica l'individuazione dell'autorità giudiziaria competente a decidere in ordine all'esercizio della potestà sul minore, in pendenza di un procedimento di separazione personale tra i genitori. Invero, la questione si correlava al disposto dell'art. 155, comma 3, c.c., che, già nel testo introdotto dall'art. 36 della legge 19 maggio 1975, n. 151, stabiliva che il coniuge separato non collocatario potesse ricorrere al tribunale ordinario nell'ipotesi in cui assumesse l'adozione da parte del coniuge esercente la potestà di decisioni pregiudizievoli al figlio.

In effetti, se non sussistevano dubbi in ordine alla "riserva" di competenza del tribunale per i minorenni ai fini dell'assunzione dei provvedimenti ablativi, ci si interrogava sull'attribuzione, da parte dell'art. 155, comma 3, c.c., di una competenza concorrente al tribunale ordinario per l'adozione dei "provvedimenti convenienti" ex art. 333 c.c.

Sulla questione, già prima della riforma di cui alla legge 8 febbraio 2006, n. 54, Sez. 1, n. 03159/1997, Bibolini, Rv. 503655, aveva chiarito che la tutela della prole rispetto ad una condotta pregiudizievole dei genitori non costituiva ragione esclusiva per radicare la competenza del tribunale per i minorenni ex art. 333 c.c., potendo, per vero, la stessa essere demandata alla competenza del tribunale ordinario, come causa di adozione dei provvedimenti relativi all'esercizio della potestà nella sentenza di separazione o nei provvedimenti assunti ai sensi dell'art. 155, ultimo comma, c.c.

La problematica è stata, in seguito, oggetto di peculiare attenzione da parte di Sez. 1, n. 20352/2011, Dogliotti, Rv. 619890, la quale – considerando i poteri di intervento del tribunale ordinario in pendenza di un procedimento di separazione coniugale tra i gentori ai sensi dell'art. 155 c.c. (anche nella formulazione successiva alla legge n. 54 del 2006), al disposto dell'art. 6, comma 8, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, in tema di divorzio ed ai poteri del giudice ordinario adito ex art. 709 ter c.p.c. – ha statuito che non sussiste alcun limite alla competenza del giudice ordinario correlato alla tipologia dei provvedimenti da assumere nei confronti dei minori. In particolare, la S.C. ha sottolineato che tanto il giudice specializzato (nel caso di coppie non coniugate o tra le quali comunque non penda un procedimento di separazione) che il giudice della separazione e del divorzio, a fronte di una situazione di pregiudizio per i minori, possono assumere i provvedimenti volti alla tutela degli stessi. Non trascurabile, nell'argomentare della Corte, è il rilievo per il quale <<è assai difficile, se non impossibile, distinguere una domanda di modifica pura e semplice da quella fondata appunto sul comportamento pregiudizievole (o, magari, sul grave abuso) del genitore: la competenza (in questo caso) speciale del Tribunale ordinario, trattandosi di genitori separati, prevarrebbe su quella generale dell'organo giudiziario minorile in materia di limitazione della potestà>>.

Il principio fondamentale, nella prospettiva assunta dalla Corte nella richiamata decisione, è quello della concentrazione della tutela del minore dinanzi ad un'unica autorità giudiziaria, enunciato a partire da Sez. 1, n. 08362/2007, Giusti, Rv. 595912, ferma la competenza residuale del tribunale per i minorenni nei procedimenti di cui all'art. 333 c.c. proponibili ad iniziativa dei parenti o del Pubblico Ministero.

2. La nuova formulazione dell'art. 38 disp. att. c.c.

Il quadro normativo del riparto di competenze tra tribunale per i minorenni e tribunale ordinario è radicalmente mutato a seguito delle modifiche apportate all'art. 38 disp. att. dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219.

Nell'attuale formulazione, invero, la norma stabilisce che sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, del codice civile. Per i procedimenti di cui all'articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell'ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell'articolo 316, del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario>>. Peraltro, non può trascurarsi, per la ricostruzione del complessivo quadro normativo, che l'art. 96 del d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, ha aggiunto al richiamato comma 1 dell'art. 38 disp. att. c.c. un altro periodo che demanda alla competenza del tribunale per i minorenni l'emanazione dei provvedimenti previsti dagli articoli 251 e 317 bis c.c.

Il testo novellato dall'art. 38 disp. att. c.c. continua quindi ad attribuire alla competenza del tribunale minorile i procedimenti de potestate ed a pronunciare i decreti limitativi o ablativi della potestà genitoriale ove ricorrano i presupposti indicati dagli artt. 330–335 c.c., competenza che subisce, tuttavia, una significativa deroga in favore del tribunale ordinario quando sia in corso, tra le stesse parti, un giudizio di separazione o divorzio o penda un giudizio sull'esercizio della responsabilità genitoriale ai sensi dell'art. 316 c.c.

La riforma ha la propria ratio nella concentrazione della tutela, ai fini dell'effettività della stessa, dinanzi ad un unico giudice. Il legislatore, perseguendo tale obiettivo, piuttosto che incidere sui criteri di competenza, ha previsto, al ricorrere di determinate condizioni, una vis attractiva tra un procedimento "pilota" ed un procedimento "vicario" [DANOVI, 2013, 620].

Il novellato art. 38 disp. att. c.c. sembra non attribuire, per converso, alcuna competenza per attrazione del tribunale ordinario di fronte al quale sia in corso un procedimento relativo all'affidamento ovvero all'esercizio della responsabilità genitoriale sui figli di genitori non coniugati ai sensi dell'art. 317 bis, ora art. 337 ter c.c.

Secondo alcuni tale lacuna non sarebbe superabile in via interpretativa, in ragione del principio per il quale le norme sulla competenza sono di stretta interpretazione [TOMMASEO, 2013, 560].

È stato tuttavia evidenziato, in senso diverso, che andrebbe considerata la finalità normativa di evitare qualsivoglia discriminazione, peraltro con evidenti profili di incostituzionalità, tra i figli correlata allo status giuridico dei genitori [LUPOI, 2013, 1293].

Molteplici sono, in realtà, gli interrogativi suscitati dalla novellata formulazione dell'art. 38 disp. att. c.c.

Nella giurisprudenza della Corte si segnalano, soprattutto nell'ultimo anno, significative pronunce che hanno reso importanti precisazioni sul quadro normativo novellato.

3. Ambito d'applicazione ratione temporis.

Peraltro, la prima decisione che, all'interno della giurisprudenza della Corte, si è occupata della portata del nuovo art. 38 disp. att. c.c. è Sez. 6-1, 21633/2014, Bisogni, Rv. 632847, la quale, nel delinearne l'ambito d'applicazione ratione temporis, ha precisato che la competenza a conoscere della domanda di limitazione o decadenza dalla potestà dei genitori, introdotta prima della modifica del testo dell'art. 38 disp. att. c.c. da parte della legge n. 219 del 2012, rimane radicata presso il tribunale per i minorenni anche se nel corso del giudizio sia stata proposta, innanzi al tribunale ordinario, domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio, in ossequio al principio della perpetuatio jurisdictionis.

Ne deriva che l'art. 38 disp. att. c.c., nella formulazione successiva alla legge n. 219 del 2012, trova applicazione, in conformità anche alla disciplina transitoria dettata dalla predetta legge, soltanto con riferimento ai procedimenti de potestate introdotti dopo la data del 1° gennaio 2013.

4. Competenza sui procedimenti di decadenza dalla responsabilità genitoriale di cui all'art. 330 c.c.

Particolarmente complessa è subito apparsa, a seguito della novellazione dell'art. 38 disp. att. c.c. ad opera della legge n. 219 del 2012, l'interpretazione del secondo periodo del comma 1 della predetta disposizione laddove stabilisce che <<per i procedimenti di cui all'articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell'ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell'articolo 316, del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario>>.

Invero, avuto riguardo alla formulazione letterale di tale previsione, ai fini dell'indivudazione del giudice competente alla pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale ex art. 330 c.c., potevano prospettarsi due soluzioni antitetiche.

In particolare, i dubbi derivano dall'utilizzo dell'espressione <<nelle disposizioni richiamate nel primo periodo>>, con riguardo ai provvedimenti devoluti alla competenza del giudice ordinario, in quanto la stessa può essere alternativamente riferita sia al primo periodo della norma, i.e. all'incipit generale della medesima, nel quale è ricompresa l'azione di decadenza dalla responsabilità genitoriale di cui all'art. 330 c.c., sia al primo periodo della seconda parte della disposizione che invece limita alle domande ex art. 333 c.c. la deroga alla competenza del tribunale per i minorenni.

Sulla spinosa questione interpretativa (e su altre correlate) è intervenuta Sez. 1, n. 01349/2015, Acierno, Rv. 633988, statuendo che l'art. 38, comma 1, disp. att. c.c., come modificato dall'art. 3, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, si interpreta nel senso che, per i procedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c., la competenza è attribuita in via generale al tribunale dei minorenni, ma, quando sia pendente un giudizio di separazione, di divorzio o ex art. 316 c.c. e fino alla sua definitiva conclusione, in deroga a questa attribuzione, le azioni dirette ad ottenere provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, proposte successivamente e richieste con unico atto introduttivo dalle parti (così determinandosi un'ipotesi di connessione oggettiva e soggettiva), spettano al giudice del conflitto familiare, individuabile nel tribunale ordinario, se sia ancora in corso il giudizio di primo grado, ovvero nella corte d'appello in composizione ordinaria, se penda il termine per l'impugnazione o sia stato interposto appello.

Più in particolare, la Corte, premessa la difficoltà di distinguere tra provvedimenti de potestate di tipo limitativo e provvedimenti incidenti sull'esercizio della responsabilità genitoriale, conferma, in primo luogo, in ordine alle misure "convenienti" ex art. 333 c.c., la tesi, dominante in dottrina e nella prassi applicativa, per la quale il giudice ordinario del "conflitto familiare", in pendenza del processo, può assumere qualsivoglia provvedimento di limitazione della responsabilità genitoriale ai sensi della predetta disposizione normativa.

La Corte ha affrontato, poi, nella medesima pronuncia, anche la più complessa questione afferente la possibilità per il tribunale ordinario di emanare un provvedimento di decadenza dalla responsabilità genitoriale ai sensi dell'art. 330 c.c.

Nell'esaminare siffatta problematica, la S.C., ritenuta inappagante la formulazione letterale del secondo periodo dell'art. 38 disp. att. c.c. (suscettibile, come rilevato, di prestarsi almeno ad una duplice ed opposta interpretazione), ha optato per un'interpretazione teleologica del novellato sistema normativo finalizzata al principio di concentrazione delle tutele che garantisce in modo più pregnante il minore nel superiore interesse del quale devono essere assunte le relative decisioni. In tale prospettiva, pertanto, la Corte afferma che il tribunale ordinario può emettere pronunce di tipo ablatorio della potestà genitoriale, anche al fine di evitare che, mentre si svolge il procedimento di separazione coniugale o di divorzio dinanzi al giudice ordinario, vengano proposte azioni "di disturbo" dinanzi al tribunale per i minorenni. Peraltro, la Corte non trascura di osservare che è frequente che vengono chieste congiuntamente sia la misura maggiore della decadenza sia quella minore della limitazione della potestà genitoriale, sicché la proposizione contestuale delle due domande impone <<il simultaneus processus presso il giudice del conflitto genitoriale, ostando alla ratio ispiratrice della norma di modifica della competenza una loro scissione, con l'attribuzione dell'una (art. 330 c.c.) al tribunale specializzato e dell'altra (art. 333 c.c.) invece al tribunale ordinario>>.

5. Pendenza del giudizio sulla crisi coniugale e del procedimento de potestate tra le "stesse parti".

L'art. 38 disp. att. c.c. correla l'operare della vis attractiva dinanzi al giudice ordinario adito con la domanda di separazione o di divorzio ovvero con un ricorso ex art. 316 c.c. alla circostanza che le parti di tale procedimento e di quello promosso di fronte al tribunale minorile siano le stesse.

Sul punto, Sez. 1, n. 01349/2015, Acierno, Rv. 633988, ha precisato che la vis attractiva in favore del tribunale ordinario opera anche quando l'istanza relativa alla limitazione o alla decadenza dalla potestà genitoriale sia stata formulata dal Pubblico Ministero dinanzi al tribunale per i minorenni.

In altri termini, la S.C. ha chiarito che non viene meno il presupposto dell'attribuzione della competenza al tribunale ordinario cui è demandata la risoluzione del conflitto coniugale costituito dalla necessaria pendenza del procedimento de potestate "tra le stesse parti" rispetto alla posizione del Pubblico Ministero.

La soluzione assunta dalla Corte, nella già indicata prospettiva teleologica della concentrazione delle tutele nel superiore interesse del minore, non era scontata, in ragione del differente ruolo del Pubblico Ministero nel processo minorile de potestate ed in quello di separazione e divorzio.

È opportuno ricordare, invero, che nei procedimenti per la limitazione o la decadenza dalla potestà genitoriale che si svolgono dinanzi al tribunale per i minorenni, il Pubblico Ministero può assumere (alla medesima stregua dei parenti) la veste processuale di attore, mentre nei giudizi di attenuazione o scioglimento del vincolo coniugale è soltanto interveniente necessario ex art. 70 c.p.c. [TOMMASEO, 2013, 562]. Nondimeno, si è anche osservato che, superata la fase iniziale del procedimento, i poteri del Pubblico Ministero interveniente necessario finiscono con il non differire da quelli del Pubblico Ministero al quale è riservato eccezionalmente l'esercizio dell'azione [DANOVI, 2013, 623].

La scelta della Corte è argomentata ponendo in rilievo, da un lato, che gli uffici del Pubblico Ministero possono porre in essere meccanismi di raccordo e trasmissione degli atti laddove il procedimento di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale sia stato promosso dagli stessi e, da un altro, che <<il regime dell'affidamento del figlio minore risulterà fortemente condizionato dall'adozione di misure volte a escludere o limitare la responsabilità genitoriale>>.

Appare per converso difficilmente ipotizzabile che possa argomentarsi la sussistenza del presupposto della pendenza dei procedimenti "tra le stesse parti" nell'ipotesi di proposizione del giudizio de potestate dinanzi al tribunale per i minorenni da parte dei parenti [PROTO PISANI, 2012, 128], considerato che gli stessi neppure sono legittimati ad intervenire ad adiuvandum nel procedimento sulla crisi coniugale di fronte al tribunale ordinario come affermato, con riguardo ai nonni, da Sez. 1, n. 22081/2009, Dogliotti, Rv. 610639.

6. Giudizio di separazione o divorzio "in corso" al momento della proposizione del ricorso dinanzi al tribunale minorile.

Nella medesima decisione Sez. 1, n. 01349/2015, Acierno, Rv. 633988, la Corte ha chiarito, nell'individuare la portata della vis attractiva in favore del tribunale ordinario chiamato a decidere sulla crisi coniugale, in primo luogo, che la stessa opera per i giudizi che siano già incardinati al momento della proposizione della domanda limitativa o ablativa della potestà genitoriale, dovendo invero intendersi in tal senso il riferimento operato, sebbene con terminologia atecnica, dall'odierno art. 38 disp. att. c.c. ai "giudizi in corso".

La S.C. ha evidenziato, inoltre, che la predetta norma, laddove dispone, invece, che detta vis attractiva in favore del giudice del conflitto coniugale resta ferma "per tutta la durata del processo" va interpretata nel senso che la stessa indica un continuum che si interrompe soltanto con il passaggio in giudicato. Ne deriva che, ad esempio, il giudizio deve ritenersi ancora in corso durante la decorrenza dei termini per impugnare, nello svolgimento dei procedimenti in sede di gravame, e laddove si verifichino vicende c.d. anomale come la sospensione o l'interruzione del procedimento.

Sotto quest'ultimo profilo la Corte si è quindi discostata dalla posizione per la quale, valorizzando il termine "in corso" in luogo di quello "pendente" utilizzato dal legislatore con riguardo al giudizio c.d. attraente nell'ipotesi di quiescenza (o litispendenza c.d. attenuata) dello stesso dovrebbe riespandersi la competenza del tribunale per i minorenni [SCARSELLI, 2013, 676].

La Corte non si è, invece, pronunciata sull'operare della competenza per attrazione del tribunale ordinario anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza di separazione o di divorzio nell'ipotesi in cui vengano incarinati i giudizi cameral-contenziosi di revisione previsti dagli art. 710 c.p.c. e dall'art. 9 della legge n. 898 del 1970. La dottrina, pur nella consapevolezza che la formulazione dell'art. 38 disp. att. c.c. potrebbe indurre ad una differente soluzione, appare orientata in senso affermativo in ragione della ratio ispiratrice della riforma [TOMMASEO, 2013, 562].

7. Individuazione del giudice ordinario competente se il procedimento sulla crisi coniugale pende in grado d'appello.

Nella vicenda processuale oggetto del regolamento di competenza d'ufficio deciso da Sez. 1, n. 01349/2015, Acierno, Rv. 633988, veniva in rilievo specifico il correlato problema dell'individuazione del giudice ordinario competente a decidere sulla domanda de potestate proposta nella pendenza del giudizio di separazione tra i genitori in appello, i.e. se detta competenza spettasse al tribunale ovvero alla corte d'appello.

La Corte si è pronunciata nel senso della sussistenza della competenza, in detta ipotesi, della corte d'appello, evidenziando la tollerabilità della perdita di un grado di giudizio, sia per la mancanza di un principio costituzionale che sancisca il doppio grado di giurisdizione, sia per l'ampiezza di poteri istruttori e delle parti e dell'autorità giudiziaria nel procedimento d'appello nei giudizi in tema di crisi coniguale che segue le forme camerali.

Peraltro, l'attrazione della domanda de potestate nel giudizio ordinario di separazione o divorzio, potrebbe comportare, per altro verso, un accrescimento delle garanzie. Invero, il cumulo tra domande assoggettate a riti differenti implica, ex art. 40 c.p.c., che trovi applicazione la disciplina processuale prevista per i giudizi di separazione e di divorzio, sottraendo i procedimenti sulla potestà all'applicazione del rito camerale di cui all'art. 336, comma 2, c.c. Ne deriva che i capi de potestate eventualmente contenuti nella sentenza pronunciata dal giudice della separazione e del divorzio sono assoggettati al medesimo regime impugnatorio della stessa, ossia all'appello o al ricorso per cassazione [TOMMASEO, 2013, 562].

È invero risalente la critica alla giurisprudenza di legittimità che nega la ricorribilità per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., dei provvedimenti in tema di potestate in ragione del carattere personalissimo dei diritti sui quali gli stessi incidono e che potrebbe giustificare, come autorevolmente sostenuto, una deroga ai criteri generali in punto di individuazione della c.d. sentenza in senso sostanziale ai fini dell'ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione [PROTO PISANI, 2013, 74]. Tuttavia, anche di recente, Sez.1, 15341/2012, San Giorgio, Rv. 624333, ha ribadito che l'inammissibilità del ricorso straordinario nella materia in esame si correla alla non definitività dei provvedimenti che, proprio nel superiore interesse dei minori, possono essere oggetto di revisione al mutare delle circostanze di fatto che ne avevano giustificato l'emanazione.

Rimane invece aperta la questione, peraltro oggetto di differenti interpretazioni in dottrina, avente ad oggetto l'individuazione al giudice ordinario competente a decidere sul ricorso in tema di limitazione e/o decadenza dalla potestà genitoriale proposto nella decorrenza del termine per impugnare la sentenza di primo grado di separazione o divorzio.

8. Proposizione della domanda dinanzi al tribunale ordinario successivamente all'inizio del procedimento de potestate di fronte al tribunale per i minorenni

Altra questione problematica derivante dalla novellata formulazione dell'art. 38 disp. att. c.c. è quella che attiene all'operatività della competenza "per attrazione" del tribunale ordinario del conflitto coniugale anche nell'ipotesi in cui il procedimento di fronte al tribunale per i minorenni fosse già pendente alla data dell'introduzione della domanda di separazione personale o di scioglimento del vincolo coniugale di fronte al tribunale ordinario.

Sulla specifica questione è intervenuta Sez. 1, n. 02833/2015, Bisogni, Rv. 634420, la quale ha chiarito che, ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c., come novellato dall'art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219, il tribunale per i minorenni resta competente a conoscere della domanda diretta ad ottenere la declaratoria di decadenza o la limitazione della potestà dei genitori ancorché, nel corso del giudizio, sia stata proposta, innanzi al tribunale ordinario, domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio, trattandosi di interpretazione aderente al dato letterale della norma, rispettosa del principio della perpetuatio jurisdictionis di cui all'art. 5 c.p.c., nonché coerente con ragioni di economia processuale e di tutela dell'interesse superiore del minore, che trovano fondamento nell'art. 111 Cost., nell'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e nell'art. 24 della Carta di Nizza.

Diversamente, una parte della dottrina, nel valorizzare l'utilizzo del termine "in corso", senza invece alcun riferimento alla necessaria prevenzione del giudizio dinanzi al tribunale ordinario da parte dell'art. 38 disp. att. c.c., ha evidenziato che la competenza del giudice della crisi coniugale deve ritenersi sussistente, in deroga al generale principio della perpetuatio jurisdictionis, anche qualora, al momento dell'introduzione della domanda de potestate dinanzi al tribunale per i minorenni non sia stato ancora proposto il giudizio di separazione o divorzio. Si è osservato che siffatta soluzione neppure si sarebbe posta in contrasto con il principio di economia processuale, in ragione della possibilità di tener conto dell'attività istruttoria compiuta dinanzi al giudice specializzato a seguito della riassunzione del procedimento di fronte al giudice ordinario in ossequio al disposto dell'art. 50 c.p.c. [LUPOI, 2013, 1301].

Alla luce dell'orientamento assunto, invece, dalla Corte nella richiamata decisione, resta aperto il problema della possibilità per il giudice ordinario della crisi coniugale investito anche della domanda sull'affidamento della prole di decidere della stessa prima della definizione del procedimento de potestate dinanzi al tribunale per i minorenni. La pregiudizialità ex art. 295 c.p.c. di quest'ultimo giudizio rispetto alla domanda pregiudicata di affidamento dei minori dovrebbe comportare una sospensione della decisione sull'affidamento [DANOVI, 2013, 623].

9. Autorizzazione al riconoscimento dei figli da parte dei minori infrasedicenni.

Come evidenziato, l'art. 96 del d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, aggiungendo un altro periodo al comma 1 dell'art. 38 disp. att. c.c., ha precisato che è demandata alla competenza del tribunale per i minorenni l'emanazione dei provvedimenti di cui agli articoli 251 e 317 bis c.c.

Sulla portata della previsione è intervenuta Sez. 1, 16103/2015, Cristiano, Rv. 636601, la quale ha affermato che la competenza a provvedere sull'autorizzazione al riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio richiesta, ex art. 250, comma 5, c.c., dal genitore non ancora sedicenne, appartiene al tribunale ordinario.

La Corte ha premesso, invero, che le modifiche dell'art. 38 disp. att. c.c. realizzate dalla legge n. 219 del 2012 e dal d.lgs. n. 154 del 2013 hanno attuato nel nostro ordinamento il principio di civilità giuridica in forza del quale i figli sono tali senza distinzioni derivanti dallo status dei loro genitori. In tale prospettiva, l'art. 38 disp. att. c.c. attribuisce ora alla competenza generale del tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali, come nell'ipotesi di quelli assunti ai sensi dell'art. 250 c.c., non è stabilita la competenza di altro giudice ed, in particolare, di quello specializzato minorile.

Pertanto, ritiene la Corte che non possa sostenersi la tesi secondo cui, invece, l'autorizzazione al riconoscimento del figlio da parte del minore infrasedicenne di cui al comma 5 dell'art. 250 c.c. debba essere richiesta al tribunale per i minorenni in ragione del disposto del novellato art. 251 c.c. che, sebbene nel comma 1 faccia riferimento al riconoscimento del figlio nato da persone aventi un vincolo di parentela, nel comma successivo precisa che <<il riconoscimento di una persona minore di età è autorizzato dal giudice>>.

Nel risolvere la complessa problematica interpretativa la Corte effettua rilevanti considerazioni di carattere sistematico.

In primo luogo, si sottolinea che l'attribuzione al tribunale ordinario della competenza a provvedere sulla domanda di riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio è volta ad eliminare ogni forma di discriminazione tra i figli correlata allo status dei loro genitori e che a tale finalità non si sottrae la fattispecie contemplata dal comma 5, ossia quella del riconoscimento del figlio da parte del minore infrasedicenne, poiché l'ammissione, previa autorizzazione dell'autorità giudiziaria, dello stesso, in precedenza non consentito, denota che le esigenze di tutela del genitore <<non possano più ritenersi prevalenti rispetto a quelle del figli>>.

Differente, ed idonea a giustificare la competenza del tribunale per i minorenni (anche per la composizione dell'organo giudicante), è l'ipotesi del riconoscimento del figlio nato da persone legate da un vincolo di parentela nella quale, come specificato dallo stesso art. 251 c.c., proprio nell'interesse superiore del figlio che potrebbe esserne pregiudicato, il riconoscimento è subordinato in ogni caso, ossia a prescindere dall'età dei genitori, all'autorizzazione del tribunale.

. BIBLIOGRAFIA

Danovi, I procedimenti de potestate dopo la riforma, tra tribunale ordinario e giudice minorile, in Famiglia e Diritto, 2013, n. 6, 620;

Lupoi, Il procedimento della crisi tra genitori non coniugati avanti al tribunale ordinario, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2013, n. 4, 1293;

Proto Pisani, Note sul nuovo art. 38 disp. att. c.c. e sui problemi che esso determina, in Il Foro italiano, 2012, V, 128;

Proto Pisani, La giurisdizionalizzazione dei processi minorili c.d. de potestate, in Il Foro italiano, 2013, V, 74;

Scarselli, La recente riforma in materia di filiazione: gli aspetti processuali, in Il giusto processo civile, 2013, 667;

Tommaseo, I procedimenti de potestate e la nuova legge sulla filiazione, in Rivista di diritto processuale, 2013, n. 3, 560.

  • contratto

CAPITOLO XX

DIFETTO DI POTERE RAPPRESENTATIVO, INEFFICACIA DEL CONTRATTO E RILEVABILITÀ D'UFFICIO: IL CONTRATTO CONCLUSO DAL FALSUS PROCURATOR AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE

(di Gian Andrea Chiesi )

Sommario

1 Premessa. - 2 L'orientamento tradizionale. - 3 La fattispecie complessa disciplinata dall'art. 1388 c.c. - 4 Conseguenze derivanti dalla natura di mera difesa. - 5 Il comportamento dello pseudo-rappresentato. - 6 Conclusioni. - BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.

Sez. U, n. 11377/2015, Giusti, Rv. 635537, nel rimeditare il consolidato orientamento di legittimità in tema di rilevabilità dell'inefficacia del contratto concluso dal rappresentante senza poteri o eccedendo i limiti dei poteri conferitigli (per cui essa poteva formare oggetto solo di eccezione di parte e, essendo volta a tutelare il falso rappresentato, poteva essere fatta valere solo da quest'ultimo – o dai suoi eredi – mentre non era invocabile dal terzo contraente che, ai sensi dell'art. 1398 c.c., poteva unicamente chiedere al falsus procurator il risarcimento dei danni sofferti per avere confidato, senza propria colpa, nell'operatività del contratto – cfr., ex multis, Sez. 2, n. 00410/2000, Cioffi, Rv. 532879, Sez. 2, n. 14618/2010, Settimj, Rv. 613398 e Sez. 2, n. 24133/2013, Giusti, Rv. 628199), ha affermato il principio così massimato: <<in tema di contratto stipulato da falsus procurator, la deduzione del difetto o del superamento del potere rappresentativo e della conseguente inefficacia del contratto, da parte dello pseudo rappresentato, integra una mera difesa, atteso che la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è un elemento costitutivo della pretesa del terzo nei confronti del rappresentato, sicché il giudice deve tener conto della sua assenza, risultante dagli atti, anche in mancanza di una specifica richiesta di parte>>.

2. L'orientamento tradizionale.

Il fondamento dell'inquadramento dell'eccezione di inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator tra quelle in senso stretto veniva tradizionalmente ricondotto alla duplice considerazione per cui (a) non solo non si verte in ipotesi di nullità – sicché non trova applicazione l'art. 1421 c.c. – ma (b) si è di fronte ad un'inefficacia cd. asimmetrica (il terzo contraente è vincolato, mentre il falsamente rappresentato non lo è), giustificata dal rilievo per cui l'improduttività di effetti è rivolta alla protezione della sfera giuridica della persona in nome della quale il falso rappresentante ha agito.

La dottrina maggioritaria ha a lungo concordato con tale impostazione, da un lato, sostenendo che l'inefficacia del contratto, tutelando il falso rappresentato, può essere fatta valere solo da questi (escludendone, dunque, non solo il rilievo ufficioso, ma anche la eccepibilità da parte del terzo contraente); dall'altro, evidenziando che lo pseudo-rappresentato si pone come arbitro delle sorti della fattispecie, in positivo e in negativo, potendo ratificare il negozio, come farne, al contrario, dichiarare la definitiva inidoneità operativa.

In sostanza, il dominus – e solo lui – sarebbe titolare di un diritto potestativo di contenuto "complesso" consistente non solo nella ratifica – che attribuisce efficacia al contratto – ma anche nella proposizione dell'eccezione d'inefficacia – che preclude proprio la possibilità ratifica e rende definitiva ed assoluta l'inefficacia originariamente solo temporanea e relativa.

3. La fattispecie complessa disciplinata dall'art. 1388 c.c.

Il revirement condotto da Sez. U, n. 11377/2015, Giusti, Rv. 635537, [condiviso, in dottrina, da CONSOLO, 2014, 19-20], affonda le proprie radici proprio nel diritto sostanziale e, precisamente, nel diverso ruolo riconosciuto dall'organo di nomofilachia al potere rappresentativo, la cui sussistenza, rendendo possibile – nei limiti con cui esso è conferito – la produzione di effetti diretti nei confronti del rappresentato, assurge ad elemento strutturale della fattispecie complessa disciplinata dall'art. 1388 c.c..

In sostanza – osserva in motivazione la Corte – la presenza del potere rappresentativo (o la ratifica da parte dell'interessato) si pone <<come fatto costitutivo rilevante, come nucleo centrale del fenomeno giuridico di investitura specificamente considerato, in quanto coelemento di struttura previsto in funzione della regola di dispiegamento degli effetti negoziali diretti nei confronti del rappresentato>>.

Inevitabilmente, allora, non integrando un fatto impeditivo della domanda quanto, piuttosto, una deficienza strutturale della fattispecie complessa azionata dal terzo contraente nei confronti del rappresentato (volta a fare valere, nei confronti di costui, i diritti nascenti dal contratto concluso con il rappresentante), va da dé che la (deduzione interente la) carenza di legittimazione rappresentativa si sottrae al regime delle eccezioni (e, in specie, di quelle cd. in senso stretto) per essere attratta, piuttosto, nell'orbita delle mere difese, il cui rilievo, come noto, non estende l'oggetto del processo al di là del diritto fatto valere dall'attore né, tampoco, allarga l'insieme dei fatti rilevanti allegati al giudizio.

Soluzione, peraltro, perfettamente in linea con quanto affermato dalla Corte in tema di riparto dell'onere della prova (Sez. 3, n. 03961/1978, Lo Surdo, Rv. 393565, nonché Sez. 3, n. 02694/1963, Sparvieri, Rv. 264161), laddove è stato chiarito che, nel contratto concluso dal rappresentante senza poteri, grava sul terzo contraente l'onere di provare l'esistenza dei poteri rappresentativi contestati dal dominus negotii e, cioè, l'esistenza ed i limiti della procura o la ratifica: una soluzione, con tutta evidenza, difficilmente compatibile con l'inquadramento dell'inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator nella categoria dell'eccezione, peraltro, in senso stretto, cui dovrebbe corrispondere, ai sensi dell'art. 2697 c.c., l'onere, in capo alla parte che se ne avvale (nella specie, dunque, lo pseudorappresentato), di allegare e provare il fatto impeditivo invocato, costituito dall'assenza della procura e della ratifica.

4. Conseguenze derivanti dalla natura di mera difesa.

Dalla qualificazione, in termini di mera difesa, della deduzione di carenza di potere rappresentativo in capo al falsus procurator, il Supremo Consesso trae alcune inevitabili conseguenze di carattere processuale, sinteticamente racchiuse nel principio di diritto affermato dalla pronunzia in esame (così esposto in motivazione, al § 8:<<poiché la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è elemento costitutivo della pretesa che il terzo contraente intenda far valere in giudizio sulla base di detto negozio, non costituisce eccezione, e pertanto non ricade nelle preclusioni previste dagli artt. 167 e 345 c.p.c., la deduzione della inefficacia per lo pseudo rappresentato del contratto concluso dal falsus procurator; ne consegue che, ove il difetto di rappresentanza risulti dagli atti, di esso il giudice deve tener conto anche in mancanza di specifica richiesta della parte interessata, alla quale, a maggior ragione, non è preclusa la possibilità di far valere la mancanza del potere rappresentativo come mera difesa>>) e la cui analitica disamina porta ad evidenziare che: 1) la formulazione di detta deduzione difensiva non soggiace ad alcuna specifica limitazione temporale (cfr. Sez. 3, n. 10280/2002, Finocchiaro, Rv. 555780, Sez. L., n. 21073/2007, Stile, Rv. 599496 e Sez. 3, n. 25415/2013, Carluccio, Rv. 629166); 2) la mancata contestazione, ad opera dello pseudo-rappresentato, circa la sussistenza del potere rappresentativo allegato dal terzo a sostegno della propria domanda costituisce un comportamento processuale significativo determinando, ex art. 115, comma 1, c.p.c., una relevatio ab onere probandi a favore di quest'ultimo; 3) la non contestazione non è, tuttavia, assolutamente vincolante per il giudice, nel senso che questi può sempre rilevare l'inesistenza del fatto allegato da una parte anche se non contestato dall'altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto (cfr. Sez. L, n. 22829/2004, De Matteis, Rv. 578168; Sez. L, n. 05363/2012, Coletti De Cesare, Rv. 621793); 4) inevitabile corollario di quanto precede è la considerazione per cui, alloquando la mancanza del potere rappresentativo sia acquisita agli atti, di essa il giudice può tenere conto anche in assenza di una specifica deduzione della parte interessata, in quanto la sussistenza dei fatti costitutivi della domanda deve essere esaminata e verificata dal giudice anche d'ufficio (cfr. Sez. 3, n. 15375/2010, Federico, Rv. 613795) – conclusione, quest'ultima, conforme a quanto già affermato da Sez. 2, n. 01141/1977, Valente, Rv. 384799, secondo cui il giudice del merito può rilevare d'ufficio, in base alle prove esistenti nel processo, la mancata conclusione del contratto per difetto d'incontro dei reciproci consensi, trattandosi della verifica dell'inesistenza di un elemento costitutivo del diritto dedotto in giudizio e non già dell'accertamento di un contro-diritto (e, quindi, di un'eccezione in senso proprio).

5. Il comportamento dello pseudo-rappresentato.

Diviene allora assolutamente centrale, nella ricostruzione dell'istituto ed al di là del caso – pure espressamente esaminato in motivazione (al § 6.1) – di procura (a monte) nulla, la valorizzazione del comportamento dello pseudo-rappresentato, la cui <<condotta colpevole... funge da fattispecie alternativa ad una vera legittimazione in quanto autonomizza, nel senso di renderla indipendente da quella del falsus procurator, la condizione del terzo incolpevole...>> [PAGLIANTINI, 2015, 652].

In altre parole, la situazione di apparenza colpevolemente creata dal dominus, il quale nulla ha fatto per non ingenerare nel terzo (incolpevole) il convincimento circa l'efficacia del contratto nei suoi confronti, conduce al riconoscimento di una legittimazione in capo al procurator preclusiva dell'operatività della regola della inefficacia; una situazione che, a ben vedere, va esaminata fundituus soprattutto nelle ipotesi di procura tacita ovvero di sua modifica o revoca non adeguatamente pubblicizzate, laddove il discrimen tra apparenza colpevole (idonea ad integrare, come detto, gli estremi richiesti dall'art. 1398 c.c. onde consentire al contratto la produzione di effetti diretti nei confronti del dominus) e solamente "tollerata" (siccome tale, abilitante, a contrario, il rilievo – anche officioso – dell'inefficacia del contratto) non è sempre agevole: <<pur se è esatto che una ratifica tacita non si può desumere dalla semplice conoscenza che il c.d. dominus abbia avuto di una certa attività svolta in suo nome...è innegabile che un inutile temporeggiare si mostra nel contempo proclive all'imputazione di un effetto appropriativo non voluto per la via dell'apparenza>> (Pagliantini, 2015, 652. In particolare, l'Autore chiarisce la valenza esemplificativa del caso concreto esamniato dalla Corte, laddove era emerso – in punto di fatto – che la procura "travalicata" era stata rilasciata dal padre in favore dei figli, con la conseguente labilità del confine tra apparenza colpevole e meramente tollerata dallo speudo rappresentato).

Certamente è da escludere, invece, la rilevabilità d'ufficio dell'inefficacia del contratto nei confronti dello pseudo-rappresentato allorquando sia questi ad agire in giudizio con una domanda (di adempimento o, simmetricamente, di risoluzione per inadempimento) che presuppone l'efficacia del contratto concluso in suo nome dal rappresentante senza poteri, come nell'ipotesi in cui lo stesso dominus, convenuto in giudizio, si difenda nel merito tenendo un comportamento donde emerga, in maniera chiara e univoca, la volontà di fare proprio il contratto concluso in suo nome e conto dal falsus procurator: casi – entrambi – in cui il comportamento tenuto (questa volta) nel processo dal dominus riverbera i propri effetti anche sul piano del diritto sostanziale, facendo venir meno, con la ratifica (pur se tacita), l'originaria carenza dei poteri di rappresentanza e, con essa, la non vincolatività, per la sfera giuridica della persona il cui nome è stato speso, del contratto stipulato dal falsus procurator.

6. Conclusioni.

La conclusione più evidente che emerge dalla pronunzia in esame, la quale si pone in perfetta linea con i più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità in tema di poteri ufficiosi del giudice, è che questa ha il grande pregio di evitare che, in conseguenza della condotta processuale di una controparte poco accorta (perché la costituzione in giudizio avvenga allorquando sono già spirati i termini per la proposizione delle eccezioni in senso stretto), il terzo, anche nelle ipotesi "limite" in cui non sia incolpevole, si ritrovi ad essere destinatario di una tutela giuridica piena ai danni di un contraente (lo pseudo-rappresentato, per l'appunto) ignaro, che finirebbe per vedersi legato ad un contratto, quando non voluto, addirittura neppure conosciuto fino alla proposizione dell'azione giudiziaria.

. BIBLIOGRAFIA

C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, Volume III – Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Torino, 2014, 19-20;

S. Pagliantini, La riconcettualizzazione processuale del contratto: le Sezioni Unite sulla rappresentanza senza potere nel dualismo tra tutela obbligatoria e reale dell'affidamento, in I contratti, 7/2015, Milano, 652.

  • giurisdizione civile
  • prova

CAPITOLO XXI

IL PRINCIPIO DI NON DISPERSIONE DELLA PROVA DOCUMENTALE

(di Antonio Scarpa )

Sommario

1 Sez. U, n. 14475/2015. - 2 Unitarietà dei procedimenti bifasici ai fini dell'acquisizione probatoria. - 3 Disponibilità ed immanenza della prova documentale. - 4 Irreversibilità dell'acquisizione documentale. - 5 Produzione documentale e processo civile telematico. - BIBLIOGRAFIA

1. Sez. U, n. 14475/2015.

Risolvendo il contrasto di decisioni rilevato da Sez. 3, n. 24408/2014, Frasca, Sez. U, n. 14475/2015, Curzio, Rv. 635758, ha affermato che i documenti allegati alla richiesta di decreto ingiuntivo e rimasti a disposizione dell'intimato, agli effetti dell'art. 638, comma 3, c.p.c., seppur non prodotti nuovamente nella fase di opposizione, permangono nella sfera di cognizione del giudice di tale fase, in forza del principio "di non dispersione della prova" ormai acquisita al processo; essi, pertanto, non possono essere considerati nuovi, e, ove siano in seguito allegati all'atto di appello contro la sentenza che ha definito il giudizio di primo grado, devono ritenersi ammissibili secondo il criterio contenuto nell'art. 345, comma 3, c.p.c. (nel testo introdotto dall'art. 52 della legge 26 novembre 1990, n. 353).

Nel dichiarare di condividere la ricostruzione contenuta in Sez. 2, n. 11817/2011, Scalisi, Rv. 618092, le Sezioni Unite hanno sostenuto che la stessa formula normativa adottata nell'art. 345, comma 3, c.p.c. induce a ritenere che i documenti possano intendersi come nuovi soltanto ove ciò siano <<rispetto all'intero processo>>, e che, per essere tali, essi <<non devono mai essere stati prodotti in precedenza>>. Sono persino i canoni costituzionali del giusto processo e della sua ragionevole durata, avverte Sez. U, n. 14475/2015, ad implicare che le prove acquisite al processo lo siano in via definitiva e che non vadano disperse. Siffatto principio <<di non dispersione della prova>> comporta, con specifico riferimento al procedimento per decreto ingiuntivo, che i documenti prodotti a sostegno della domanda d'ingiunzione possano essere valutati dal giudice anche nell'eventuale fase di opposizione, la quale completa il giudizio di primo grado. Neppure l'art. 638, comma 3, c.p.c. (il quale fa divieto di ritirare i documenti allegati alla richiesta di decreto ingiuntivo fino alla scadenza del termine stabilito a norma dell'art. 641 c.p.c.) sottintende che la documentazione esibita nella fase monitoria possa essere liberamente ritirata nella fase oppositiva a cognizione piena, occorrendo a tal fine comunque l'autorizzazione dal giudice ex art. 169 c.p.c.

2. Unitarietà dei procedimenti bifasici ai fini dell'acquisizione probatoria.

La ricostruzione operata dalle Sezioni Unite supera, così, le critiche che colpivano l'orientamento secondo cui i documenti allegati al ricorso per decreto ingiuntivo dovessero restare soggetti, una volta intrapreso il giudizio di opposizione, in primo grado alle preclusioni istruttorie di cui all'art. 183 c.p.c., e in appello al divieto di "novità" posto dall'art. 345, comma 3, c.p.c. Viene piuttosto ribadito che il procedimento che si apre con la presentazione del ricorso e si chiude con la notifica del decreto di ingiunzione non costituisce un processo autonomo rispetto a quello poi aperto dall'opposizione. Il procedimento a cognizione piena, avverte Sez. U, n. 14475/2015, prosegue dinanzi allo stesso ufficio giudiziario ed giudice dell'opposizione <<dovrà>> disporre di tutto il materiale istruttorio (ovvero, di quello prodotto con il ricorso per decreto, nonché di quello che opponente ed opposto abbiano allegato eventualmente), a ciò non ostando la mancanza di una norma che espliciti la necessità della trasmissione integrale del fascicolo della fase monitoria.

Poiché i documenti prodotti in sede monitoria, in base al principio di acquisizione probatoria, devono intendersi già prodotti nel processo, non potrebbe proprio porsi, del resto, un problema di violazione del diritto di difesa dell'opponente a causa della loro esibizione nel giudizio di primo grado pur dopo la maturazione delle preclusioni, giacché il medesimo opponente ha già avuto modo di conoscere quei documenti proprio al fine di proporre opposizione (art. 638, comma 3, c.p.c.).

L'atto di opposizione attua un procedimento a contraddittorio differito, il quale ha origine nel decreto ingiuntivo, e prosegue mediante una fase ulteriore di quello già iniziato, configurandosi come "risposta" del debitore intimato, dopo che questi sia stato messo in grado di esaminare i documenti depositati in cancelleria e posti a fondamento dell'istanza e del provvedimento di ingiunzione. Basti qui ricordare, ad esempio, come Sez. 3, n. 19680/2008, Travaglino, Rv. 604986, intendesse l'atto di opposizione a decreto ingiuntivo come la "prima risposta", agli effetti dell'art. 215, comma 1, n. 2, c.p.c., per disconoscere i documenti esibiti dall'intimante a fondamento dell'istanza monitoria, così reputandoli, evidentemente, già acquisiti in via definitiva pure agli atti del giudizio di opposizione.

Gli studiosi, allora, ravvisano nell'accezione data da Sez. U, n. 14475/2015 al principio di acquisizione processuale un criterio operativo utile per tutti i procedimenti bifasici, e quindi pure per i giudizi di accertamento del passivo fallimentare, nel senso che gli atti e i documenti della fase sommaria possano poi ritenersi allegati altresì al processo di opposizione allo stato passivo del fallimento, senza la necessità di alcuna ulteriore formale produzione, di tal che il tribunale debba prendere in esame dal fascicolo fallimentare tutto ciò che nella fase di verificazione sia stato oggetto di discussione e di produzione [BACCAGLINI, 2015, 1262; in senso contrario, invece, Sez. 6-1, n. 00493/2012, Ceccherini, Rv. 620930].

3. Disponibilità ed immanenza della prova documentale.

Sia in dottrina che in giurisprudenza non è controverso il punto di partenza secondo cui anche le prove documentali sono soggette al principio di acquisizione processuale. Ancora di recente, peraltro, Sez. U, n. 03033/2013, Piccialli, Rv. 625141, ha ribadito che l'appellante, il quale censuri l'erronea valutazione, da parte del giudice di primo grado, di documenti prodotti dalla controparte in quella sede e non ridepositati dalla stessa in appello, ha l'onere di estrarne copia ai sensi dell'art. 76 disp. att. c.p.c. e di allegarli nel giudizio di gravame. Questa soluzione è legata da un nesso di continuità con Sez. U, n. 28498/2005, Carbone, Rv. 586371 e 586372, la quale, com'è noto, affermava pure che il canone costituzionale del giusto processo ed il principio di acquisizione della prova, negando ogni facoltà di sottrarre alla valutazione del giudice un elemento probatorio comunque introdotto in giudizio, indipendentemente dalla provenienza dello stesso dall'uno o dall'altro dei soggetti della lite, comportassero altresì che la parte, all'atto del ritiro del proprio fascicolo nel corso del procedimento, abbia sempre l'onere di depositare copia dei documenti in esso inseriti, in maniera da non precluderne all'avversario la successiva esibizione in caso di mancata restituzione di quello.

Il tema in esame si ricollega, quindi, anche alla questione relativa alla facoltà di ritiro del fascicolo di parte, riconosciuta dall'art. 169 c.p.c. sia durante la fase della trattazione e dell'istruzione della causa (subordinatamente ad un'autorizzazione da parte del giudice istruttore e fin quando questi non ne disponga il rideposito), sia al momento del passaggio alla fase decisoria. Questa disposizione deve contemperare le esigenze, proprie del sistema delle prove, attinenti ai poteri della parte, della controparte e del giudice, sicché, in forza del principio dispositivo, il fascicolo potrebbe dirsi soggetto alla volontà di ciascuno dei contendenti, mentre, per effetto del principio di acquisizione, il contenuto del fascicolo dovrebbe rimanere soggetto ad un vincolo di destinazione, che limita la disponibilità delle parti sul materiale documentale: le formalità di formazione, ritiro e restituzione del fascicolo di parte sono deputate, pertanto, a garantire la tutela del contraddittorio quanto ai documenti prodotti, nonché del diritto di difesa, poiché, conseguentemente alla produzione avversaria, sorge l'interesse dei litiganti ad avvalersi di una prova contraria, ovvero anche dello stesso documento esibito dalla controparte.

Tutta la disciplina relativa alla produzione di documenti è essenzialmente finalizzata a garantire il diritto di difesa della parte contro cui la medesima produzione abbia luogo, tant'è che la conseguita conoscenza dei documenti in favore della controparte costituisce il metro secondo cui orientare la verifica dell'avvenuto rispetto del bisogno di tutela del contraddittorio. Quindi, una volta prodotto in una fase o in un grado di un processo unitario un documento, lo stesso, in quanto "conosciuto" e perciò definitivamente acquisito alla causa, se sia successivamente ritirato e poi ancora allegato, dalla stessa parte che se ne fosse originaria avvalsa o da altra parte, non dovrebbe mai considerarsi "nuovo" né in primo grado, agli effetti dell'art. 183, comma 6, c.p.c., né in appello, ai sensi dell'art. 345, comma 3, c.p.c., né nel giudizio in cassazione, agli effetti del divieto di cui all'art. 372 c.p.c. Il principio di immanenza della prova documentale implica, in sostanza, che l'efficacia istruttoria di essa, una volta che sia stata prodotta in una fase del giudizio, non rivesta caratteri di "novità" in ipotesi di successiva allegazione nelle fasi seguenti.

4. Irreversibilità dell'acquisizione documentale.

Il maturato convincimento giurisprudenziale della definititivà dell'acquisizione probatoria dei documenti prodotti in una fase o in un grado anteriori di un unico giudizio non ha, tuttavia, ancora comportato l'esplicita negazione dell'onere per la parte interessata di attivarsi per procurarne la disponibilità al giudice della fase o del grado successivi. Allorché al giudice non sia stato possibile recuperare al proprio esame i documenti prodotti e non restituiti, la decisione viene così affidata alla regola di giudizio di cui all'art. 2697 c.c., intesa quale criterio da contemperare con i principi di acquisizione processuale e di disponibilità delle prove, decretandosi la soccombenza della parte onerata di estrarne copia e riprodurli (si vedano, indicativamente, Sez. L, n. 21909/2013, Tria, Rv. 627711; Sez. L, n. 01462/2013, Manna, Rv. 625045; Sez. 2, n. 15660/2007, Goldoni, Rv. 598753).

Le sentenze, infatti, sono state solitamente avverse all'elaborazione di una regola di "irreversibilità dell'acquisizione documentale", la quale sarebbe però, secondo alcuni autori, conseguenza inevitabile del principio di acquisizione, dovendo esso operare similmente sia per le prove costituende (argomentando, ad esempio, dall'art. 245, comma 2, c.p.c.) che per le prove costituite. La dottrina esprime la propria insoddisfazione per l'orientamento dei giudici che rimette il concreto funzionamento del principio di acquisizione della prova documentale al diritto di ottenere copia ex art. art. 76 disp. att. c.p.c. (riponendo nella solerzia della controparte il rimedio dell'abuso dell'altra), in quanto il mancato esercizio di tale facoltà (così trasformata in onere) implicherebbe comunque la sottrazione della prova al processo, rischio che si avvera ogni qual volta la parte non ottemperi all'ordine di restituire il fascicolo dopo averlo ritirato, come quando l'appellato non riproduca in appello i documenti prodotti in primo grado. Il principio di irreversibilità applicato alle prove documentali induce, allora, a negare ai contendenti la piena disponibilità del rispettivo fascicolo di parte (come dei singoli documenti in esso contenuti), invocando, semmai, in danno di chi abbia ritirato la produzione una decisione sfavorevole per violazione del dovere di lealtà e di probità, dal quale trarre argomenti di prova, in forza dell'art. 116 c.p.c.

Gli studi dottrinali si adoperano per individuare i mezzi utilizzabili dal giudice allo scopo di conseguire in ogni modo e con pienezza degli effetti il recupero della disponibilità dei documenti dapprima prodotti e poi ritirati, enunciando un "best evidence principle", nel senso che il magistrato, pur nel rispetto del canone di imparzialità e del divieto di utilizzo della scienza privata, sarebbe sempre tenuto ad acquisire pure d'ufficio la "prova migliore". Il giudice dovrebbe, allora, valutare le copie della documentazione prodotta dalla controparte, se reperite nei fascicoli dei gradi precedenti, come la trascrizione del testo ad essa pertinente operata in un provvedimento, in un atto difensivo, o in una relazione peritale, o nel verbale dell'udienza. In caso di contumacia dell'appellato, ancora, il giudice potrebbe acquisire d'ufficio il fascicolo di parte di primo grado (non rinvenendosi un rilievo ostativo nel dato testuale del comma 3 dell'art. 347 c.p.c., il quale prevede la trasmissione del solo fascicolo di ufficio, ed, anzi, valorizzando la portata dell'art. 123-bis disp. att. c.p.c., il quale accorda al giudice di appello il potere di <<ordinare alla parte interessata di produrre copia di determinati atti>>). Si auspica altrimenti il ricorso all'art. 213 c.p.c., sicché il giudice potrebbe richiedere alla cancelleria i documenti non riprodotti, o al sequestro giudiziario ex art. 670, n. 2, c.p.c.

5. Produzione documentale e processo civile telematico.

Com'è noto, ai sensi dell'art. 16-bis, comma 1, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito in legge 17 dicembre 2012, n. 221, a decorrere dal 30 giugno 2014, nei procedimenti civili innanzi al tribunale, il deposito degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle parti precedentemente costituite ha luogo esclusivamente con modalità telematiche, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Per effetto del comma 1-bis di tale norma, introdotto dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2015, n. 132, nell'ambito dei medesimi procedimenti innanzi ai tribunali e, a decorrere dal 30 giugno 2015, innanzi alle corti di appello, è sempre ammesso il deposito telematico dei documenti che si offrono in comunicazione, da parte del difensore o del dipendente di cui si avvale la pubblica amministrazione per stare in giudizio personalmente. In tal caso il deposito si perfeziona esclusivamente con le prescritte modalità telematiche.

La modifica introdotta nel 2015 implica, pertanto, che il deposito dei documenti con modalità telematiche possa avvenire sin dall'atto di costituzione in giudizio anche davanti agli uffici giudiziari sprovvisti del provvedimento dirigenziale di accertamento dell'installazione, dell'idoneità delle attrezzature informatiche e della funzionalità dei servizi di comunicazione di cui all'art. 35 del Decreto del Ministero della Giustizia del 21 febbraio 2011, n. 44.

Il comma 7 del citato art. 16-bis precisa, peraltro, come il deposito dei documenti con modalità telematiche si ha per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del ministero della giustizia.

Si assume, allora, che quando sarà ultimato l'integrale passaggio al processo civile digitale il problema dell'acquisizione probatoria delle prove documentali sia destinato a tramontare, in quanto l'invio telematico del documento lascia intatta al giudice ed alla controparte la definitiva disponibilità dello stesso: <<i documenti saranno prodotti in formato elettronico e per via telematica, quindi rimarranno stabilmente custoditi nell'apposito database della cancelleria; in più, la produzione di nuovi documenti seguirà una procedura obbligata atta ad assicurare l'ordinata formazione del fascicolo. Ciò garantirà al giudice e alle parti la costante e ordinata visibilità "in rete" degli atti e dei documenti trasmessi>> [TURRONI, 2011, 194].

In realtà, altri e forse più complicati interrogativi sull'utilizzabilità della prova documentale si pongono all'orizzonte proprio in conseguenza dell'avvento del processo civile telematico.

L'art. 4, comma 1, del d.l. 29 dicembre 2009, n. 193, convertito con modificazioni dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24, imponeva l'adozione, a mezzo di decreti del Ministro della giustizia, delle regole tecniche per l'adozione nel processo civile delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (cosiddetto Codice dell'amministrazione digitale). Gli artt. 43 e 44 del Codice dell'amministrazione digitale, e il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 3 dicembre 2013, dettano, quindi, i criteri nonché i requisiti e le relative regole tecniche relativi alla riproduzione e conservazione dei documenti informatici degli archivi. Soltanto, allora, la compiuta realizzazione di un meccanismo di archiviazione dei documenti informatici prodotti nel corso di un processo civile (si veda al riguardo il sistema di gestione del fascicolo informatico dettata dall'art. 11 del provvedimento 16 aprile 2014 della Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della Giustizia) consentirà la trasmissione integrale dei fascicoli digitali al giudice d'appello, ai sensi dell'art. 347, comma 3, c.p.c., come anche la trasmissione al giudice dell'opposizione a decreto ingiuntivo dei documenti allegati nella fase monitoria alla richiesta di decreto ingiuntivo (secondo quanto supposto dalla stessa Sez. U, n. 14475/2015 a garanzia del cosiddetto principio di non dispersione della prova).

Andranno inoltre chiarite le conseguenze, ai fini della ritualità della produzione in giudizio, dell'eventuale inosservanza delle regole tecniche di trasmissione dei documenti informatici indicate dal Capo III del provvedimento 16 aprile 2014 DGSIA. Si tratterà di verificare, cioè, se le previsioni di una tale fonte secondaria dettino nuove prescrizioni inderogabili in tema di forma degli atti e dei documenti del processo.

Sfuma, ancora, alla luce delle necessaria forma digitale del documento da produrre in giudizio, la distinzione tra <<originale>> e <<copia>> su cui poggia la tradizionale disciplina codicistica della prova documentale.

Le regole tecniche, peraltro, postulano che il documento informatico, da depositare telematicamente all'ufficio giudiziario, sia necessariamente versato in formato PDF; il che però suppone che il documento da produrre sia in origine cartaceo, mentre preclude, per assurdo, l'allegazione in giudizio di materiale (come, ad esempio, i files video o audio) che non sia convertibile in PDF.

Viepiù, nel sistema del processo civile telematico sembrerebbe venir meno in radice la stessa facoltà di ritiro dei fascicoli di parte assentita dall'art. 169 c.p.c. Questa norma era certamente funzionale al bisogno dei difensori di poter consultare nel corso del giudizio i documenti prodotti dei quali non avessero estratto copia; ma, in ipotesi di inosservanza dell'ordine di restituzione del fascicolo intimato dal giudice, la disciplina dell'art. 169 c.p.c. si poneva altresì, come visto, quale veicolo della volontà della parte di non avvalersi più dei documenti in precedenza allegati, imponendo al giudice di rendere la sua decisione a prescindere da questi. Nel funzionamento del processo telematico, la facoltà di ritiro del fascicolo di parte varrebbe però, in pratica, come un'istanza (evidentemente inaccoglibile) volta a non rendere più visibile lo stesso alla controparte ed al giudice. Perciò in dottrina si conclude che <<l'inapplicabilità delle norme in tema di ritiro del fascicolo di parte paiono in grado di configurare il principio di acquisizione come assoluto e non più relativo; sembra, quindi, possibile ritenere che all'interno del processo telematico i documenti, se ritualmente acquisiti, siano sempre nella reale ed effettiva disponibilità del giudice e di tutte le parti, a prescindere dal successivo comportamento della parte che li ha prodotti>> [COMOGLIO, 2015, 953].

. BIBLIOGRAFIA

BACCAGLINI, Giudizi bifasici oppositorii e principio di acquisizione processuale (senza onere di ri-produzione dei documenti): dalla opposizione monitoria a quella fallimentare, in Corr. giur. 2015, 1262 ss.

RUFFINI, Produzione ed esibizione dei documenti, in Riv. dir. proc. 2011, 433 ss.

COMOGLIO, Processo civile telematico e codice di rito. Problemi di compatibilità e suggestioni evolutive, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 953 ss.

  • giurisdizione civile
  • interesse ad agire

CAPITOLO XXII

L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228

(di Salvatore Saija )

Sommario

1 Introduzione. - 2 La vicenda processuale. - 3 La motivazione di Sez. 3, n. 04228/2015. - 4 I primi commenti. - 5 Il consolidarsi dell'orientamento. - 6 Considerazioni di sintesi. L'interesse ad agire in executivis. - 7 Conclusioni. - BIBLIOGRAFIA

1. Introduzione.

Nell'ambito delle decisioni annualmente esitate dalla Suprema Corte, accade periodicamente che si stagli una pronuncia volutamente di rottura, o se si vuole scomoda, atta insomma a costringere l'interprete a rimeditare assiomi intoccabili e a verificarne la tenuta alla luce delle mutate esigenze e sensibilità provenienti dalla società. E magari ad indurre il legislatore ad intervenire, per meglio regolare la materia e per fornire quelle risposte che la società attende.

È quello che, certamente, può dirsi della sentenza Sez. 3, n. 04228/2015, Salmè, Rv. 634704, così massimata: <<In tema di procedimento esecutivo, qualora il credito, di natura esclusivamente patrimoniale, sia di entità economica oggettivamente minima, difetta, ex art. 100 c.p.c., l'interesse a promuovere l'espropriazione forzata, dovendosi escludere che ne derivi la violazione dell'art. 24 Cost. in quanto la tutela del diritto di azione va contemperata, per esplicita od anche implicita disposizione di legge, con le regole di correttezza e buona fede, nonché con i principi del giusto processo e della durata ragionevole dei giudizi ex art. 111 Cost. e 6 CEDU. (Nella specie, il creditore, dopo aver ricevuto il pagamento della complessiva somma portata in precetto, pari ad euro 17.854,94, aveva ugualmente avviato la procedura esecutiva, nelle forme del pignoramento presso terzi, per l'intero importo, deducendo, nel corso della procedura stessa, l'esistenza di un residuo credito di euro 12,00 a titolo di interessi maturati tra la data di notifica del precetto e la data del pagamento)>>.

2. La vicenda processuale.

S.E.F., munita di regolare titolo esecutivo, in data 1 marzo 2007 notificava alla I.A. s.p.a. (società assicuratrice) atto di precetto per il pagamento della somma di € 17.854,94. La debitrice spediva assegno circolare per il detto esatto importo il successivo 15 marzo, e la precettante lo riceveva il 26 marzo, successivamente negoziandolo.

Tuttavia, S.E.F. procedeva egualmente a pignoramento (presso terzi) con atto del 9 maggio 2007, per l'intero importo precettato (aumentato della metà, ex art. 546 c.p.c.). La società debitrice proponeva quindi opposizione ex art. 615, comma 1, c.p.c., eccependo l'intervenuto pagamento e, quindi, l'insussistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata. Il Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di Treviglio, dopo aver qualificato l'azione come opposizione all'esecuzione e ritenuta pacifica la circostanza del pagamento, la accoglieva, ad un tempo negando che fossero dovute le somme pretese dal creditore per ulteriori costi e spese relativi ad altra procedura esecutiva avviata per lo stesso credito e conclusasi negativamente, e affermando ancora che la pretesa per le spese di notifica del precetto, diritto di disamina della relata, c.p.a. e IVA, formulata solo nelle conclusioni del procedimento, avrebbe dovuto essere in realtà azionata con il precetto stesso, sia per consentire al debitore di prenderne cognizione, sia per il divieto di frazionabilità del credito.

Ma soprattutto, ai fini che qui maggiormente interessano, il Tribunale evidenziava che – a seguito del pagamento dell'importo precettato – il residuo credito per interessi maturati tra la data di notifica del precetto e la data di emissione dell'assegno circolare (€ 12,71) o di ricezione dello stesso da parte del creditore (€ 21,68) era di importo oggettivamente simbolico e comunque, in ossequio ai principi di correttezza e proporzionalità, non idoneo a giustificare l'avvio di una procedura esecutiva per il pagamento dell'intero credito.

Per la cassazione di detta sentenza (inappellabile in relazione al testo dell'art. 616 c.p.c. applicabile ratione temporis), S.E.F. proponeva cinque motivi di ricorso. Con il secondo e il terzo, in particolare, la ricorrente, deducendo la violazione dell'art. 1218 c.c., contestava l'affermazione del giudice di merito circa la mera simbolicità del proprio credito per interessi, nessuna norma autorizzando il giudice ad eliminare un credito, qualunque ne sia l'entità, pena la violazione dell'art. 24 Cost., e fermo restando che l'onere della prova dell'esatto adempimento non può che gravare sul debitore; ancora, S.E.F. deduceva la violazione degli artt. 496 e 546 c.p.c., censurando l'impugnata sentenza laddove s'era ritenuto che la pedissequa trascrizione del precetto nell'atto di pignoramento presso terzi equivalesse a richiedere il pagamento dell'intera somma e non già soltanto del residuo credito per interessi legali sul capitale, oltre alle spese di notifica del precetto stesso e conseguenti accessori. In ogni caso, secondo la ricorrente, era onere del debitore chiedere la riduzione del pignoramento, ove avesse ritenuto che esso concernesse l'intero credito indicato nel precetto.

3. La motivazione di Sez. 3, n. 04228/2015.

La pronuncia in commento, dopo aver sgombrato il campo dalle questioni di contorno (da un lato ribadendo che il credito azionato non poteva che essere, per l'intero, quello precettato, e dall'altro confermando che le spese di notifica del precetto e accessori, essendo determinabili prima della stessa notifica, dovevano essere indicate nel precetto e non essere richieste nelle conclusioni rassegnate nel giudizio di opposizione), si sofferma sull'affermazione del Tribunale – condividendola – secondo cui il credito per interessi sul capitale per il periodo tra la notifica del precetto (1 marzo 2007) e la spedizione dell'assegno circolare (15 marzo 2007) o la ricezione (26 marzo 2007), nella prima ipotesi pari ad € 12,71 e nella seconda ad € 21,68, fosse oggettivamente simbolico.

La Corte, in particolare, opera un parallelismo tra l'interesse ad agire in sede di cognizione, ex art. 100 c.p.c., e quello ad agire in sede esecutiva, affermando che in entrambi i casi, quando l'azione abbia ad oggetto crediti di natura esclusivamente patrimoniale, la tutela giurisdizionale non è esigibile <<se l'entità del valore economico è oggettivamente minima e quindi tale da giustificare il giudizio di irrilevanza giuridica dell'interesse stesso>>.

Né può dirsi – prosegue la Corte – che tale lettura si ponga in contrasto con l'art. 24 Cost., che, pur garantendo il diritto di azione, non esclude tuttavia che la legge (esplicitamente o implicitamente) possa richiedere, in controversie di natura meramente patrimoniale, che il valore economico della pretesa debba superare una soglia minima di rilevanza, anzitutto economica, e quindi anche giuridica. Ciò anche perché la giurisdizione è una risorsa statuale limitata, sicchè il numero di azioni giudiziarie non può non influire sulla ragionevole durata dei giudizi, che è bene protetto sia dall'art. 111 Cost. che dall'art. 6 della CEDU.

Con altro argomento, la Corte evidenzia poi che già da tempo la giurisprudenza di legittimità ha elaborato la nozione di abuso del processo, richiamando in particolare l'insegnamento di Sez. U, n. 23726/2007, Morelli, Rv. 599316, sul divieto di frazionamento, per il creditore, di una determinata somma di denaro dovuta in forza di unico rapporto obbligatorio, in forza di due principi: a) la regola di correttezza e buona fede, con i conseguenti inderogabili doveri di solidarietà ex art. 2 Cost., che viene violata quando la scelta del creditore aggravi ingiustificatamente la posizione del debitore; b) la garanzia del processo giusto e di durata ragionevole, ai sensi dell'art. 111 Cost.: non può dirsi "giusto" il processo che si dispieghi in forme eccedenti o devianti rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, mentre la ragionevole durata finisce con l'essere esclusa dalla proliferazione ingiustificata dei processi, ove non impedita.

La pronuncia in commento, infine, a sostegno di quanto precede, richiama anche due recenti arresti: Sez. 1, n. 09488/2014, Benini, Rv. 631153 (concernente ipotesi di frazionamento soggettivo di azioni giudiziarie), e Sez. L, n. 06664/2013, Arienzo, Rv. 625608. Quest'ultima pronuncia, in particolare, ha affermato sussistere un abuso del processo, idoneo a gravare sia lo Stato che le parti dell'aumento degli oneri processuali, nel caso in cui, intimato un primo precetto e ricevuto l'integrale pagamento della somma, si intimi successivamente un nuovo precetto per ulteriore somma, calcolata sulla base del medesimo titolo posto a fondamento del primo.

Al rigetto del ricorso è seguita la condanna della creditrice soccombente alla rifusione delle spese di lite.

4. I primi commenti.

Da quanto consta, ad oggi la sentenza risulta essere stata commentata da due soli Autori, entrambi con spunti fortemente critici.

La prima [ASPRELLA, 2015, 457 e ss.], esprime perplessità sul principio di diritto affermato, non potendosi leggere l'art. 100 c.p.c. nel senso che esso possa escludere l'accesso alla tutela giurisdizionale sancito dall'art. 24 Cost. ove non si superi una soglia minima di rilevanza economica. E ciò in quanto <<l'interesse ad agire è una condizione dell'azione, espressione del bisogno della parte di ricorrere alla tutela giurisdizionale, a causa della lesione o della contestazione di un proprio diritto. Nel concetto di interesse ad agire si attualizza e diviene concreto il nesso che intercorre tra la lesione di un proprio diritto affermata e il provvedimento giurisdizionale domandato>>. Si evidenzia, ancora, che in tal guisa si viola l'esigenza, costituzionalmente tutelata, della giustizia sostanziale, che verrebbe negletta a seguire fino in fondo l'impostazione criticata.

Su un piano più generale, poi, l'A. si interroga sul limite dell'attività interpretativa della Corte, <<che non può spingersi fino al punto di creare le norme, o reinterpretare quelle esistenti, addirittura costituzionali, sino alle estreme conseguenze, ossia negazione della loro stessa ragion d'essere, quella di garantire puramente e semplicemente, a tutti, il diritto di agire e resistere in giudizio senza ulteriore limitazione>>. Non senza dire che <<cedere alla tentazione di limitare l'accesso alla tutela giurisdizionale sulla base del valore economico del credito vantato, sarebbe, in fondo, come affermare che qualsiasi debitore può senz'altro rifiutarsi di adempiere ove il suo debito sia "irrilevante" da un punto di vista economico>>. Insomma, il rischio concreto, per l'A., sarebbe quello di relegare un'ampia parte delle transazioni commerciali (quelle di scarso valore economico e nelle quali non si pone un problema di interessi non economicamente valutabili) al di fuori dell'area tutelabile in sede giudiziaria, e di far pagare il costo di ciò (sull'altare dell'esigenza di garantire una giustizia rapida per le questioni più rilevanti) ad un soggetto, il creditore, comunque titolare di un diritto soggettivo, a fronte della violazione di uno specifico obbligo da parte di colui, il debitore, che rifiuta pur sempre di adempiere la prestazione cui è tenuto.

Ancora più pungenti sono le critiche alla sentenza mosse da altro Autore [COSTANTINO, 2015].

Muovendo dagli assunti che <<le difficoltà relative all'attuazione del diritto o le conseguenze economiche o sociali dei provvedimenti giurisdizionali non possono costituire, di per sé, in un moderno Stato di diritto, un argomento per negare la tutela giurisdizionale>> e che <<il principio della durata ragionevole del processo non può essere considerato prevalente rispetto alle altre garanzie costituzionali del giusto processo, ma deve essere coordinato con queste ultime>>, l'A. passa in rassegna molteplici indici positivi, atti a negare – in tesi – la correttezza della ricostruzione criticata.

In particolare: a) i criteri di competenza per valore, che attribuiscono al giudice di pace le controversie di minor valore economico ex art. 7 c.p.c.; b) la deroga alla difesa tecnica per talune controversie (giudizi dinanzi al giudice di pace, nei limiti di € 1.100,00, nelle controversie di lavoro nei limiti di € 129,11, nelle opposizioni a sanzioni amministrative e per violazione del codice della strada, nonché nelle controversie transfrontaliere di modesta entità), rispettivamente ai sensi degli artt. 82, comma 1, 417, comma 1, c.p.c., artt. 6, comma 9, e 7, comma 8, d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 10 Reg. CE n. 861/2007; c) la previsione del giudizio secondo equità nei procedimenti dinanzi al giudice di pace, nei limiti di € 1.100,00, ex art. 113, comma 2, c.p.c.; d) l'art. 164 bis disp. att. c.p.c. sulla chiusura anticipata del processo esecutivo per antieconomicità; e) le corrispondenti norme dettate in sede fallimentare (artt. 118, n. 4, 102, comma 1, 104 ter, comma 8, 119), norme tutte che non precludono l'accesso alla tutela giurisdizionale, ma che consentono di escludere la prosecuzione della procedura esecutiva, individuale o concorsuale, sulla base di una valutazione prognostica e discrezionale circa la sua inutilità; f) le norme dettate in tema di riscossione coattiva che escludono o limitano l'azione esecutiva o l'iscrizione ipotecaria (art. 76, comma 1, lett. b, e comma 2, 77, comma 1 bis, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602), sulla base della medesima valutazione, compiuta stavolta dal legislatore; g) l'art. 496 c.p.c., in tema di riduzione del pignoramento, la cui esistenza escluderebbe che l'eccesso di espropriazione possa di per sé comportare la negazione dell'accesso alla tutela giurisdizionale; h) le norme che escludono l'accesso alla tutela giurisdizionale per i crediti tributari e previdenziali di modesta entità (artt. 12 bis, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, 16 legge 18 maggio 1998, n. 146, 3 d.l. 2 marzo 2012, n. 16, conv. in legge 26 aprile 2012, n. 44, 38, comma 1, lett. a, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. in legge 15 luglio 2011, n. 111), disposizioni tutte qualificabili come rinunce al credito, per diretta valutazione del legislatore.

Né pare utilmente invocabile l'orientamento giurisprudenziale sul divieto di frazionamento del credito e sull'abuso del processo derivante da contenzioso seriale, pur richiamato da Sez. 3, n. 04228/2015, atteso che si tratta di questioni che attengono ai modi e alle forme dell'esercizio della tutela giurisdizionale (attenendo al potere del giudice di disporre o meno la riunione delle cause connesse, e più in generale al governo del processo), ma non ne escludono l'accesso. O, ancora, l'insegnamento delle Sezioni Unite sui cd. danni "bagatellari" (Sez. U, n. 26972/2008, Preden, Rv. 605493), che individua la gravità dell'offesa quale ulteriore requisito per l'ammissione al risarcimento del danno non patrimoniale alle persona, tale cioè da eccedere una certa soglia di offensività e da violare un grado minimo di tolleranza, esigibile da ogni consociato in ossequio al disposto dell'art. 2 Cost.. E ciò perché l'affermazione del principio non esclude, di per sé, la tutelabilità in sede giudiziaria dei crediti di minimo valore. Tanto più che, per insegnamento della stessa Corte, la pretesa diretta a far valere un diritto non può configurare atto emulativo (così, Sez. 3, n. 09714/2013, Scrima, Rv. 625989).

E allora, conclude l'A., se il diritto di azione ha diretto fondamento nella Costituzione, sì da prevalere anche sulla sovranità dello Stato, esso non può restare obliterato dal principio, di pari rango, della ragionevole durata del processo, ma dev'essere con esso coordinato. Del resto, se con una controversia di modico valore si determina (ovviamente, su base sistemica) l'ingolfamento della giustizia, ciò dipende in primo luogo dalla resistenza del debitore, che è tenuto all'adempimento della prestazione, dalla fase stragiudiziale fino a quella esecutiva. Ma anche dal giudice del merito, che non ha ben esercitato i poteri attribuitigli dall'art. 185 c.p.c. per indurre le parti a conciliare la lite e per sanzionare la parte che rifiuti senza giustificati motivi.

In ogni caso, la Corte anche nel caso di specie avrebbe potuto limitarsi a condannare la ricorrente alle spese ai sensi dell'art. 92, comma 1, c.p.c., indipendentemente dalla soccombenza, per violazione del dovere di lealtà e di probità, ovvero liquidare le stesse in suo favore, seppur contenendole nei limiti del valore della lite mediante interpretazione sistematica dell'art. 91, comma 4, c.p.c.; o, ancora, segnalare il difensore della ricorrente al competente Consiglio dell'Ordine, a fini disciplinari, per violazione dell'art. 23, comma 4, del Codice deontologico forense, per il quale <<l'avvocato non deve consigliare azioni inutilmente gravose>>. Tutto, insomma, tranne che il principio affermato.

5. Il consolidarsi dell'orientamento.

Il principio è stato ribadito da Sez. 3, n. 25224/2015, De Stefano.

La pronuncia, nel dare continuità a Sez. 3, n. 04228/2015, e in un caso del tutto analogo (invio da parte del debitore di un assegno circolare di € 4.853,20, esattamente pari alla somma precettata, e successivo pignoramento avviato del creditore – dopo aver incassato detto assegno – per il soddisfacimento del residuo credito di € 8,58 per spese di notifica del precetto), ha affermato che, pur vero essendo che il creditore ha diritto di ottenere il pieno e completo soddisfacimento di ogni sua ragione, comprese le spese dell'esecuzione (e quelle ad esse prodromiche, come le spese di notifica del precetto), occorre tuttavia che lo stesso creditore <<adduca specifiche circostanze che consiglino di non invitare prima il debitore a pagare spontaneamente l'importo dovuto, tanto da giustificare la declaratoria di non spettanza delle spese ulteriori, in applicazione analogica degli artt. 88 e 92 co. 2 c.p.c. (Cass., ord. 23 dicembre 2008, n. 30300)>>.

Il che – prosegue Sez. 3, n. 25224/2015 – vale a maggior ragione: a) in presenza di un adempimento pressochè totale; b) in tempi che sostanzialmente coincidono con il normale sviluppo delle fasi preparatorie e iniziali dell'esecuzione; c) se la quota inevasa del dovuto è modestissima; d) se la parziale omissione di pagamento (ammesso che il debitore ne abbia potuto percepire l'esistenza e l'ammontare) non possa ritenersi pretestuosa o arbitraria. Sussiste quindi, <<in un equo contemperamento dei contrapposti interessi (meglio esplicitati nella richiamata Cass. 4228/15, alla cui motivazione può qui bastare un integrale rinvio, per l'integrale condivisione che di essa va qui manifestata), un onere del creditore di sollecitare, prima di procedere o proseguire in via esecutiva, il debitore ad un adempimento spontaneo del modestissimo residuo: inadempiuto il quale, procedere o proseguire in via esecutiva è contrario a buona fede o comunque non risponde ad un interesse giuridicamente tutelabile nell'attuale contesto>>.

6. Considerazioni di sintesi. L'interesse ad agire in executivis.

Una serena lettura della sentenza in commento, opportunamente contestualizzata (e, più in generale, delle ragioni che stanno alla base dell'orientamento che va consolidandosi), consente di superare agevolmente, quantomeno, gli aspetti più critici evidenziati nei commenti riportati al § 4.

Anzitutto, deve rilevarsi che si tratta di decisioni rese in ambito di opposizione esecutiva, ossia in un giudizio di cognizione innestatosi in una procedura di espropriazione forzata, evidentemente avviata sulla base di preesistente titolo esecutivo (e, quindi, "a giochi fatti"), almeno nella prospettazione del creditore. È quindi evidente che la Corte non ha voluto certo affermare (né poteva farlo, in relazione alla res in judicio deducta) che un'ordinaria azione di cognizione dinanzi al giudice competente, avente ad oggetto un credito di modesta entità (ad es., dinanzi al giudice di pace per la condanna al relativo pagamento, o anche per l'opposizione a sanzione amministrativa per divieto di sosta), non possa essere proposta!

Il passaggio motivazionale di Sez. 3, n. 04228/2015 sull'interesse ad agire in sede esecutiva, laddove lo si lega all'interesse sotteso all'azione di cognizione ex art. 100 c.p.c., e si sottolinea che anche riguardo a quest'ultimo occorre sussista la sua rilevanza economica e, quindi, anche giuridica, è pertanto un'argomentazione resa ad abundantiam, ossia un obiter dictum. Ed è noto che la valenza del decisum di ogni pronuncia giurisdizionale, compresa quella della Corte, spiega efficacia vincolante nei limiti della materia del contendere, e non anche riguardo alle enunciazioni incidentali e prive di relazione causale col deciso (così, ex plurimis, Sez. 2, n. 01815/2012, Bursese, Rv. 621374). Non senza dire che, in un sistema come quello vigente, la stessa portata delle pronunce delle Sezioni Unite e dei principi da esse affermati in funzione nomofilattica non si estende fino a vincolare l'interpretazione dei giudici di merito, che pur possono discostarsene (v. da ultimo Sez. 6-5, n. 00174/2015, Conti, Rv. 634261).

Sgombrato quindi il campo dall'equivoco di fondo, la vera portata innovativa della pronuncia in commento (e della successiva Sez. 3, n. 25224/2015, che la richiama, aderendovi), a ben vedere, si coglie nell'affermazione che anche nel processo esecutivo la parte che agisce dev'essere portatrice di interesse ex art. 100 c.p.c., autonomamente individuabile anche sotto il profilo della rilevanza economica.

L'argomento è dirompente perché è insegnamento assolutamente consolidato, sia in dottrina che in giurisprudenza, che l'unica condizione (necessaria e sufficiente) dell'azione esecutiva è costituita dal titolo esecutivo, che in sé cumula ad un tempo a) il documento che lo rappresenta, anche con funzione probatoria, nonchè b) l'accertamento in esso contenuto. Il che significa, secondo tale ricevuta impostazione, che <<l'interesse ad agire, come bisogno di tutela giurisdizionale esecutiva, è implicito (come anche la possibilità giuridica) nel fatto che il diritto è accertato come eseguibile>> [MANDRIOLI–CARRATTA, 2015, 22].

Il titolo esecutivo, infatti, in quanto condizione necessaria del processo esecutivo, deve permanere per tutta la sua durata, dall'inizio alla fine del procedimento (tra le altre, Sez. 3, n. 10875/2012, Barreca, Rv. 623103). Da qui il potere/dovere del giudice dell'esecuzione di verificarne sempre la sussistenza in capo a colui che abbia avviato, eseguendo il pignoramento, l'espropriazione forzata contro il debitore (Sez. L, n. 16610/2011, La Terza, Rv. 618698; potere che permane anche nella fase distributiva: così Sez. 3, n. 07107/2015, De Stefano), ovvero – in caso di successiva caducazione del titolo del pignorante – in capo ad almeno uno dei creditori intervenuti (Sez. U, n. 00061/2014, Spirito, Rv. 628705).

Proprio in applicazione dei superiori principi, e con riferimento alla portata del pagamento parziale, si è affermato in giurisprudenza che <<Sussiste il diritto del creditore pignorante di proseguire il processo esecutivo fintantoché il debitore esecutato non abbia pagato per intero l'importo dovuto, in forza del titolo esecutivo posto a base dell'esecuzione, comprensivo del capitale, degli interessi e delle spese, con la conseguenza che il pagamento parziale di tale importo non osta a che il creditore se ne avvalga per ottenere il credito residuo, inclusi interessi e spese, nella medesima esecuzione iniziata in forza dello stesso unico titolo esecutivo>> (Sez. 3, n. 23745/2011, Barreca, Rv. 620617). Nel caso così deciso, il debitore, ricevuto il precetto per l'importo di € 32.129,64, si era limitato a pagare la sola sorte capitale, pari ad € 29.300,00, così affermando di aver estinto l'obbligazione. Da qui l'enunciazione del principio sopra riportato.

La portata di Sez. 3, n. 04228/2015 non si pone in contrasto col principio poc'anzi esaminato: nella fattispecie decisa con la sentenza in commento il debitore aveva pagato – integralmente – l'esatto importo intimato col precetto, comprensivo di capitale, interessi e spese (come richieste ed autoliquidate) in seno al precetto stesso e fino alla sua data di notifica. Solo in seguito, e nonostante il pagamento integrale di quanto preteso, il precettante aveva proceduto comunque al pignoramento: le due fattispecie non sono dunque sovrapponibili.

Tuttavia, l'affermazione di principio sulla necessità di accertamento dell'interesse ad agire in executivis, in capo a colui che ha già un (formalmente) valido titolo esecutivo (è indubbio che, nella specie, il residuo credito di € 21,68 vantato da S.E.F., in termini strettamente oggettivi, fosse coperto dalla portata del titolo esecutivo, trattandosi di interessi moratori sul capitale precettato e maturati prima del pagamento), implicando la necessità di una sua ricorrenza esterna (o, se si preferisce, aggiuntiva, o ulteriore) rispetto al titolo stesso, merita di essere opportunamente approfondita.

La questione involge, anzitutto, il tema generale dell'interesse ad agire, ex art. 100 c.p.c., e con esso quello sulle teorie dell'azione.

Non può certo essere questa la sede per affrontare funditus questi ultimi argomenti. Va comunque qui evidenziato che, tradizionalmente, l'interesse ad agire è considerato quale condizione dell'azione, ossia quale elemento il cui accertamento, unitamente alla legittimazione ad agire e alla possibilità giuridica di ottenere il provvedimento richiesto, è necessario onde giungere ad una pronuncia sul merito (di rigetto o di accoglimento che sia). Solo la compresenza di questi elementi, quindi, integra e completa l'azione.

Più in dettaglio, circa l'autonomia del concetto di interesse ad agire rispetto all'azione, si contendono il campo, in dottrina, e sia pur con molteplici sfumature, due accezioni: una prima [REDENTI, 1995, 66 e ss.], secondo cui l'interesse ad agire fin dall'origine sarebbe elemento essenziale del diritto soggettivo primario sottostante, sicché non potrebbe esservi azione fondata senza interesse ad agire; una seconda, che invece riconosce portata precettiva all'art. 100 c.p.c., e costruisce l'interesse ad agire attribuendogli natura esclusivamente processuale, <<secondario e strumentale rispetto all'interesse primario, ed ha per oggetto il provvedimento che si domanda al magistrato come mezzo per ottenere il soddisfacimento dell'interesse primario, rimasto leso dal comportamento della controparte (…). L'interesse ad agire sorge dalla necessità di ottenere dal processo la protezione dell'interesse sostanziale; presuppone perciò l'affermazione della lesione di questo interesse e l'idoneità del provvedimento domandato a proteggerlo e soddisfarlo (…). Tuttavia la portata generale della disposizione dell'art. 100 serve ad indicare il limite oltre il quale non è consentito impegnare gli organi giudiziari e vessare la controparte con questioni non attuali o non effettive, ma future e ipotetiche>> [LIEBMAN, 2012, 146-148]. In quest'ottica, quindi, il diritto di azione <<è un diritto autonomo dal diritto sostanziale, poiché si rivolge verso un soggetto diverso dal soggetto passivo del diritto sostanziale (lo Stato in persona dei suoi organi giurisdizionali) e tende ad una prestazione diversa da quella alla quale tende il diritto sostanziale: la tutela giurisdizionale>> [MANDRIOLI–CARRATTA, 2015, 24].

L'ambito elettivo dell'interesse ad agire è tradizionalmente riservato dalla dottrina all'azione di accertamento, costituendo la ricerca di tale elemento la cartina al tornasole circa l'ammissibilità di detta azione, com'è noto non espressamente prevista dall'ordinamento. Numerosi studi si soffermano, in generale, sul diverso modo di atteggiarsi dell'interesse rispetto alle singole tipologie di azioni, ma pressochè tutti convengono, come già evidenziato, sul fatto che non sia necessario uno specifico accertamento dell'interesse ad agire riguardo all'azione esecutiva, proprio perché esso s'intende già ricompreso nel titolo esecutivo, senza il quale non è possibile avviare l'esecuzione forzata, ai sensi dell'art. 474 c.p.c.

7. Conclusioni.

Ora, in situazioni come quelle decise dalla S.C. con la sentenza in commento (seguita da Sez. 3, n. 25224/2015) occorre evidenziare che, prim'ancora che l'interesse ad agire, sembrerebbe difettare proprio l'interesse sostanziale, e segnatamente l'interesse che la prestazione deve pur sempre realizzare ai sensi dell'art. 1174 c.c.. Infatti, se l'interesse del creditore, quale elemento funzionale del rapporto obbligatorio e costitutivo dell'obbligazione, <<è l'interesse che la prestazione è diretta a soddisfare>>, e costituisce quindi anche criterio di valutazione della prestazione eseguita, ne deriva che la prestazione dovrà <<considerarsi liberatoria quando essa abbia comunque conseguito il soddisfacimento dell'interesse creditorio, pur non essendo esattamente conforme al previsto. Inesattezze qualitative e quantitative non escludono infatti la liberazione del debitore se si tratta di inesattezze irrilevanti ai fini del sostanziale soddisfacimento dell'interesse creditorio>> [BIANCA, 1992, 41 e ss.].

Il che, sotto speculare profilo, equivale a dire che – specie nell'attuale contesto economico-sociale – l'esatto adempimento dell'obbligazione, ai sensi dell'art. 1218 c.c., non va indefettibilmente commisurato alla rigida corrispondenza tra preteso e corrisposto, ove la prestazione effettuata dal debitore abbia, in sostanza, comunque realizzato l'interesse del creditore. Ciò anche alla luce dei doveri inderogabili di solidarietà ex art. 2 Cost. (che ben possono giustificare, per il creditore, il dovere di tollerare, ove si tratti di prestazioni a contenuto esclusivamente patrimoniale, minimi scostamenti rispetto al programma obbligatorio, non diversamente da quanto evidenziato dall'insegnamento delle Sezioni Unite sui cd. danni "bagatellari" sopra richiamato) e del principio di buona fede di cui all'art. 1175 c.c., in esso ricompreso l'obbligo di cooperazione del creditore stesso; non senza rimarcare che il diritto del creditore di rifiutare l'inesatto adempimento, ai sensi dell'art. 1181 c.c., dev'essere sempre commisurato all'obbligo di correttezza e buona fede (Sez. 3, n. 10182/2009, Vivaldi, Rv. 608010).

Questa lettura, del resto, trova il suo contraltare – sul piano della tutela giurisdizionale – nel principio di economia processuale e di durata ragionevole del processo (da ultimo ribadito da Sez. 5, n. 21968/2015, Cappabianca, Rv. 637019), che consente di escludere la "giustiziabilità" di una vicenda che ha già avuto, nella sua fase pregressa, piena esplicazione dal punto di vista sostanziale, il processo essendo una risorsa per definizione limitata, da destinarsi – nell'interesse pubblico – ai soli casi in cui ciò sia necessario o anche solo utile, non diversamente da quanto accade per ogni altro bene pubblico. Il diritto di azione sancito dall'art. 24 Cost. non può essere letto come un diritto di natura illimitata, trovando esso un limite sistematico negli altri principii sanciti dall'ordinamento, con i quali dev'essere coordinato. Proprio in tal senso si spiega, pertanto, l'affermazione della sentenza in commento laddove si esclude la limitabilità del diritto di agire qualora vengano in gioco situazioni di natura non esclusivamente patrimoniale, e di rango evidentemente costituzionale.

Da questa duplice prospettiva, quindi, non sembra sostenibile che, nel caso deciso da Sez. 3, n. 04228/2015, l'interesse del creditore precettante, una volta ricevuta l'intera somma intimata (€ 17.854,94), fosse rimasto insoddisfatto perché, alla data del pagamento, erano maturati ulteriori interessi per soli € 21,68 (lo 0,12% del credito), sì da meritare tutela in sede esecutiva.

La prestazione resa dalla società assicuratrice era nella sostanza liberatoria per aver essa esattamente adempiuto la propria obbligazione. Analoghe considerazioni possono spendersi in relazione alla fattispecie decisa da Sez. 3, n. 25224/2015.

In ogni caso, è assai sintomatico che la decisione in commento sia implicitamente ritenuta "giusta" anche da quei commentatori assai critici, nel momento in cui propongono – in alternativa alla soluzione prescelta dalla Corte – di sanzionare processualmente la ricorrente, o anche di segnalare la violazione del codice deontologico da parte del suo procuratore (v. supra, § 4): segno assai evidente che, prima di ogni altra valutazione, si avverte la sussistenza dell'abuso (o della strumentalizzazione immeritevole) dell'accesso alla giurisdizione perpetrato nella fattispecie. Ma ciò spiega anche il perché la Corte ha preferito affermare con forza una sorta di denegatio actionis, quasi riecheggiando il processo per formulas di età classica, anziché applicare una sanzione tutta interna al processo, quale appunto la responsabilità aggravata. Ciò che è in linea, peraltro, con un idem sentire della stessa giurisprudenza della S.C.: <<L'esigenza di individuare un limite agli abusi si estende dunque dal diritto sostanziale al processo, trascende le peculiari connotazioni dei vari sistemi, trovando ampio riscontro negli ordinamenti processuali interni, ma anche in quelli sovranazionali e venendo univocamente risolta, sia a livello normativo che interpretativo, nel senso che l'uso distorto del diritto di agire o reagire in giudizio, volto alla realizzazione di un vantaggio diverso e/o contrario allo scopo per cui il diritto o la facoltà processuale sono riconosciuti, non ammette tutela>> (così Sez. U, n. 16628/2014, Di Iasi, richiamata anche da Sez. 3, n. 25224/2015).

Non è comunque inesatto sostenere, come ha fatto Sez. 3, n. 04228/2015, che, nella vicenda in questione, difettasse l'interesse ad agire, e ciò sia in una prospettiva "redentiana", che anche in una "libmaniana": nella prima visuale, perché l'interesse ad agire è fin dall'origine elemento strutturale del diritto soggettivo e dell'interesse ad esso sotteso, sicchè, in mancanza di quest'ultimo, non c'è né diritto, né azione, né (quindi) interesse ad agire; nella seconda visuale, perché il titolo esecutivo azionato, pur formalmente esistente, non giustificava l'accesso all'esecuzione forzata, essendo stata estinta, nella sostanza, l'obbligazione da esso portata e non sussistendo quindi il diritto di agire in executivis.

Quale che sia la più corretta ricostruzione, comunque, non può che ribadirsi come, a fronte della specifica vicenda processuale, non può che avvertirsi la "giustezza" della decisione, e dell'orientamento che, con Sez. 3, n. 25224/2015, va consolidandosi.

. BIBLIOGRAFIA

C. Asprella, Frazionamento del credito, abuso del processo e interesse a proporre l'azione esecutiva, in REF, n. 3/2015, 457 e ss.

C.M. Bianca, Diritto Civile, IV, Milano, 1992, 41 e ss.

G. Costantino, L'interesse ad eseguire tra valore del diritto e abuso del processo (Note a margine di Cass. 3 marzo 2015, n. 4228), di prossima pubblicazione su Il giusto processo civile.

E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, 2012, Milano, 146-148.

C. Mandrioli - A. Carratta, Diritto Processuale Civile, IV, XXIV Ed., Torino, 2015, 22-24.

E. Redenti, Diritto processuale civile, I, Nozioni e regole generali, IV ed. a cura di M. Vellani, Milano, 1995, 66 e ss.

  • giurisdizione civile
  • responsabilità civile

CAPITOLO XXIII

I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI

(di Paolo Spaziani )

Sommario

1 Posizione del problema. - 2 Gli orientamenti della giurisprudenza di merito. - 2.1 Le tesi "processualiste": tempus regit actum e tempus regit processum. - 2.2 La tesi "sostanzialista". - 3 I principi affermati dalla Suprema Corte con Sez. 3, n. 25216/2015. - BIBLIOGRAFIA

1. Posizione del problema.

La nuova disciplina della responsabilità civile dei magistrati, contenuta nella legge 27 febbraio 2015, n.18, è stata introdotta, come è noto, per adeguare l'ordinamento interno a quello dell'Unione europea e chiudere la procedura di infrazione aperta dalla Commissione europea con lettera di messa in mora del 27 febbraio 2013.

Precisamente, avuto riguardo ai principi generali desumibili dalla consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di responsabilità dello Stato membro nei confronti del singolo per le violazioni del diritto comunitario poste in essere dai suoi organi (Corte di giustizia, 19 novembre 1991, C-6/90 e C-9/90; Corte di giustizia, 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93; Corte di giustizia, 30 settembre 2003, C-224/01), nonché alle specifiche statuizioni contenute nelle pronunce emesse nei confronti dello Stato italiano in tema di responsabilità dello Stato per i danni arrecati ai singoli a seguito di violazioni del diritto comunitario imputabili ad un organo giurisdizionale di ultimo grado (Corte di giustizia, 13 giugno 2006, C-173/03; Corte di giustizia, 24 novembre 2011, C-379/10), erano state ritenute lesive del diritto dell'Unione le limitazioni contenute nell'originario art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, il quale, da un lato (commi 1 e 3), circoscriveva la responsabilità dello Stato, per i pregiudizi derivanti dal cattivo esercizio dell'attività giurisdizionale, ai casi di dolo o colpa grave (tipizzando quest'ultima in fattispecie che richiedevano la necessaria presenza dell'elemento subiettivo della negligenza inescusabile, così escludendo ogni responsabilità in tutte le ipotesi in cui, pur non ricorrendo tale elemento, fosse stata tuttavia posta in essere una violazione manifesta e sufficientemente caratterizzata del diritto dell'Unione) e, dall'altro lato (comma 2), individuava un'esimente generale, non compatibile con le esigenze riparatorie connesse con la lesione del diritto del singolo, nell'attività di interpretazione delle norme del diritto e di valutazione del fatto e delle prove (cd. clausola di salvaguardia).

Con la legge n. 18 del 2015, il legislatore ha dunque modificato il citato art. 2 della legge n.117 del 1988, per un verso ampliando le fattispecie di responsabilità a tutte le ipotesi di oggettiva violazione manifesta della legge e del diritto europeo, a prescindere dalla sussistenza dell'elemento subiettivo della negligenza inescusabile; per altro verso limitando la funzione esimente dell'attività interpretativa e valutativa al di fuori dei casi di di colpa grave di nuova tipizzazione ("nuovi" commi 2, 3 e 3 bis, nella formulazione introdotta dall'art. 2 legge n. 18 del 2015).

L'intervento legislativo, peraltro, non si è limitato a tale operazione di "ampliamento" delle fattispecie sostanziali di responsabilità dello Stato per i danni conseguenti a comportamenti, atti o provvedimenti posti in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, sebbene soltanto in tale ambito fosse ravvisabile un contrasto del diritto interno con quello comunitario.

La nuova legge, infatti, benché nessuna istanza in tal senso fosse rinvenibile nelle citate pronunce della Corte di giustizia, ha inteso apportare modifiche anche alle regole processuali che governano l'esercizio dell'azione risarcitoria, incidendo sia sul termine entro il quale può essere proposta la domanda contro lo Stato (art. 4 legge n. 117 del 1988, come modificato dall'art. 3, comma 1, legge n. 18 del 2015) sia sui presupposti, il contenuto e gli effetti del giudizio di rivalsa dello Stato contro il magistrato (artt. 7 e 8 legge n. 117 del 1988, come modificati, rispettivamente, dagli artt. 4 e 5 della legge n. 18 del 2015) sia, soprattutto, sulla struttura del giudizio risarcitorio nei confronti dello Stato, in relazione al quale l'abrogazione espressa dell'art. 5 legge n. 117 del 1998 (operata dall'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015) ha determinato il venir meno del giudizio di ammissibilità della domanda (cd. filtro di ammissibilità), disciplinato dal predetto art. 5 ed avente ad oggetto la preliminare verifica, da parte del collegio (previa rimessione della causa da parte del giudice istruttore alla prima udienza), del rispetto dei termini e dei presupposti di proponibilità dell'azione risarcitoria, nonché della sua non manifesta infondatezza.

Le modifiche della normativa processuale posta dalla legge n. 117 del 1988 – non necessarie in funzione dell'adeguamento del diritto interno a quello europeo – sono state inoltre disposte senza la predisposizione di una norma di diritto transitorio che operasse il raccordo tra la vecchia e la nuova disciplina.

Si pone dunque il problema se le nuove norme (ed in particolare quella che ha disposto la soppressione del filtro preliminare di ammissibilità, attraverso l'abrogazione dell'art. 5 legge n. 117 del 1988: art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015) trovino applicazione immediata ai processi in corso alla data di entrata in vigore della legge (19 marzo 2015) oppure se esse siano applicabili ai soli giudizi introdotti successivamente a tale data.

Qualora si propendesse per questa seconda soluzione, dovrebbe poi ulteriormente chiarirsi se ai fini dell'operatività della nuova disciplina sia sufficiente che l'azione risarcitoria venga esercitata successivamente all'entrata in vigore della legge n. 18 del 2015 (anche se per fatti illeciti posti in essere dal magistrato prima di tale data, e dunque regolati dalla vecchia disciplina sostanziale) oppure se sia necessario che anche il fatto illecito dedotto in giudizio sia stato posto in essere successivamente all'entrata in vigore della nuova legge, conformemente a quanto già stabilito dalla disposizione di diritto transitorio contenuta nell'art. 19, comma 2, della legge n. 117 del 1988, che escludeva l'applicabilità della legge medesima ai fatti illeciti verificatisi prima della sua entrata in vigore.

2. Gli orientamenti della giurisprudenza di merito.

Nell'immediatezza dell'entrata in vigore della nuova legge, la questione è stata variamente risolta, come era naturale attendersi, dall giurisprudenza di merito.

Un primo orientamento ha preso le mosse dalla natura "processuale" delle disposizioni interessate dalla novella legislativa, traendone le consequenziali implicazioni sul piano della successione della legge nel tempo. All'interno di questo orientamento, che può generalmente definirsi di marca processualista, si collocano tuttavia soluzioni specifiche tra loro eterogenee, in quanto in una pronuncia si è fatto piana applicazione del principio del tempus regit actum (che, come è noto, viene considerato, sul piano processuale, il tradizionale precipitato della regola dell'irretroattività della legge contenuta nell'art. 11 disp. prel. c.c.), mentre altre pronunce, sulla scia dell'insegnamento di una parte della dottrina e di un autorevole precedente della giurisprudenza di legittimità, hanno ritenuto che la rigorosa applicazione di tale principio fosse incompatibile con un'interpretazione costituzionalmente orientata del citato art.11, giungendo a propugnare una soluzione differente, fondata sul diverso principio del tempus regit processum.

Un diverso orientamento, pur prendendo formalmente posizione sulla natura della disposizione abrogata (l'art. 5 legge n. 117 del 1988) e di quella abrogatrice (l'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015) – entrambi ritenute di carattere "sostanziale" – ha peraltro, sia pure in maniera non del tutto esplicitata, tratto argomento, in concreto, dal fondamento della normativa differenziata che connota la responsabilità civile dei magistrati rispetto a quella di diritto comune. Movendo da questa premessa – che riconduce all'idea del rilievo costituzionale delle norme volte a porre condizioni e limiti alla possibilità di agire in giudizio contro lo Stato per il risarcimento del danno derivante dal cattivo esercizio dell'attività giurisdizionale (e, in particolare, di quella istitutiva del cd. filtro preliminare di ammissibilità) – l'orientamento in esame, che può generalmente definirsi di marca sostanzialista, ha ritenuto che le regole che disciplinano l'esercizio giudiziale dell'azione risarcitoria fanno parte, unitamente a quelle che stabiliscono i presupposti della responsabilità, di un complesso inscindibile di norme, il quale deve essere governato, anche sul piano della successione nel tempo, da un principio unico, senza che si possa distinguere, differenziandosene il dies a quo dell'operatività, tra norme sostanziali (destinate ad operare solo con riguardo ai fatti illeciti commessi dopo la loro entrata in vigore) e norme processuali (destinate ad essere immediatamente applicate nei processi in corso).

2.1. Le tesi "processualiste": tempus regit actum e tempus regit processum.

All'interno dell'orientamento generale di marca processualista si è affermata anzitutto la tesi secondo cui deve farsi meccanica applicazione del principio del tempus regit actum.

Come è noto, secondo l'insegnamento tradizionale [CHIOVENDA, 1965, 119; AnDrioLi, 1979, 25], la regola generale stabilita dall'art.11 disp. prel. c.c. (secondo cui la legge non dipone che per l'avvenire) si applica anche alle norme processuali, di talché ogni atto del processo è tendenzialmente regolato dalla legge in vigore al tempo in cui viene posto in essere.

In ossequio a questo insegnamento, si ritiene che, in ipotesi di successione di leggi processuali durante la pendenza di un processo ed in assenza di uno specifico regime transitorio, per un verso non venga toccata la validità e l'efficacia degli atti del processo (cd. facta praeterita) compiuti sotto la legge precedente (Sez. 3, n. 06099/2000, Amatucci, Rv. 536444; Sez. 1, n. 20414/2006, Salvato, Rv. 594139; Sez. 3, n. 03688/2011, Frasca, Rv. 616766); per altro verso, lo ius superveniens debba essere immediatamente applicato a tutti gli atti ancora da compiere [FAZZALARI, 1989, 889; MONTESANO, 1987, 16].

Questi principi, che concernono il tema generale della successione della legge processuale nel tempo, sono stati recepiti, con riguardo alla specifica questione della successione nel tempo delle regole processuali che governano l'esercizio dell'azione risarcitoria contro lo Stato per i danni conseguenti agli illeciti posti in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, da Trib. Trento, ord. 9 maggio 2015, che ha affermato l'immediata applicabilità, ai processi in corso, dell'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015.

Nella fattispecie, la domanda risarcitoria era stata proposta prima dell'entrata in vigore della nuova legge ma la prima udienza era stata celebrata in data successiva.

Ove avesse ritenuto ancora applicabile l'art. 5 legge n.117 del 1988, il giudice istruttore, in tale udienza, avrebbe dovuto rimettere le parti dinanzi al collegio e quest'ultimo avrebbe dovuto provvedere, nei quaranta giorni successivi, sull'ammissibilità della domanda, vagliandone la regolarità formale (sotto il profilo del rispetto dei presupposti e dei termini legislativamente previsti) e la non manifesta infondatezza.

In seguito alla rimessione della causa, il collegio, in accoglimento della richiesta dell'attore, ha invece concesso i termini per il deposito delle memorie, ex art. 183, comma 6, c.p.c., reputando che la norma abrogatrice del citato art. 5, avendo natura processuale, fosse immediatamente applicabile nel giudizio in corso e che pertanto non vi fosse più spazio per il filtro preliminare di ammissibilità (soppresso con efficacia immediata), dovendosi ritenere che alla fase introduttiva seguisse direttamente quella di trattazione del merito, conformemente alla disciplina generale dell'ordinario processo di cognizione.

In identiche fattispecie, altre decisioni di merito, pur accedendo all'orientamento generale "processualista", hanno tuttavia formulato una soluzione differente, fondata sull'applicazione del diverso principio tempus regit proccessum.

L'operatività di questo principio, in luogo del più tradizionale tempus regit actum, è stata affermata, in generale, dalla dottrina che più recentemente ha indagato, con riferimento a tutte le sue diverse implicazioni, il fenomeno della successione delle leggi processuali nel tempo (CAPPONI, 2008, 637; CAPONI, 2006, 449).

Secondo questa dottrina, precisamente, la ricostruzione dei principi di diritto intertemporale dovrebbe essere operata dall'interprete tenendo conto, per un verso, delle garanzie costituzionali del contraddittorio e dell'affidamento in materia processuale e, per altro verso, del principio di irretroattività della legge stabilito dall'art. 11 disp. prel. c.c.

Ogni processo, dunque, ove iniziato nella vigenza di un insieme di norme, dovrebbe concludersi in applicazione dello stesso insieme, in quanto, se si ammettesse un mutamento delle regole del processo durante la sua pendenza, risulterebbero lese sia le predette garanzie costituzionali (le nuove regole potrebbero pevedere preclusioni o decadenze di cui le parti non potevano tenere conto al momento dell'introduzione del giudizio) sia il principio di irretroattività della legge (anche per lo ius superveniens processuale vale il principio che la legge non dispone che per l'avvenire talché esso dovrebbe trovare applicazione solo con riguardo ai giudizi – o, almeno, ai gradi di giudizio – futuri).

Facendo dunque applicazione di questo principio, Trib. Campobasso, decr. 27 aprile 2015, e Trib. Roma, decr. 5 maggio 2015, hanno ritenuto applicabili le norme processuali introdotte dalla legge n. 18 del 2015 ai soli giudizi instaurati successivamente alla sua entrata in vigore (19 marzo 2015) reputando che, invece, i giudizi instaurati anteriormente a tale data avrebbero dovuto essere regolati dall'insieme delle norme processuali sotto il cui imperio erano iniziati, con conseguente perdurante operatività delle regole abrogate e, tra queste, di quella contenuta nell'art. 5 legge n. 117 del 1988, sul cd. filtro di ammissibilità.

Pur pronunciandosi successivamente alla data di entrata in vigore della nuova legge, il collegio, nelle due pronunce in rassegna, ha pertanto proceduto al vaglio preliminare di ammissibilità e, in applicazione del citato art. 5, ha emesso un decreto di inammissibilità, sul presupposto che la disposizione abrogatrice di questa norma, benché di natura processuale, non fosse tuttavia applicabile ai processi iniziati nella vigenza della vecchia disciplina.

La tesi in esame, oltre che nelle surrichiamate riflessioni della dottrina, trova fondamento in un autorevole precedente della giurisprudenza di legittimità sul problema generale della successione delle norme processuali nel tempo.

Secondo Sez. 3, n. 20811/2010, Amatucci, Rv. 615405, infatti, <<in assenza di norme che diversamente dispongano, il processo civile è regolato nella sua interezza dal rito vigente al momento della proposizione della domanda, non potendo il principio del tempus regit actum, in forza del quale lo ius superveniens trova applicazione immediata in materia processuale, che riferirsi ai singoli atti da compiere, isolatamente considerati, e non già all'intero nuovo rito>>. In proposito, la pronuncia in parola ha precisato che, <<posto che il "rito" è da intendersi come l'"insieme" delle regole sistematicamente organizzate in vista della statuizione giudiziale, l'applicazione di un nuovo rito ad un processo già iniziato, in assenza di norme transitorie che ciò autorizzino, si tradurrebbe in una non consentita applicazione retroattiva di quell'"insieme", invece vietata dal principio di irretroattività della legge contenuto nell'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, di cui lo stesso art. 5 c.p.c. è applicazione>>, traendone l'ulteriore conseguenza che la violazione di tale principio <<dà luogo a nullità della sentenza in quanto si risolva in una compressione del diritto al contraddittorio>>.

Va peraltro evidenziato che la soluzione interpretativa rinvenibile in questa sentenza, in quanto formulata in relazione all'ipotesi di mutamento dell'intero rito, non si discosta, a ben vedere, dall'orientamento tradizionale e prevalente della Suprema Corte, la quale, come si è sopra veduto, in numerose altre pronunce (in particolare, Sez. 3, n. 06099/2000, Amatucci, Rv. 536444; Sez. 1, n. 20414/2006, Salvato, Rv. 594139; Sez. 3, n. 03688/2011, Frasca, Rv. 616766) ha invece fatto rigorosa applicazione del principio per cui gli atti del processo sono regolati dalla legge in vigore al momento del loro compimento, con conseguente affermazione dell'immediata applicabilità dello ius superveniens a tutti gli atti ancora da compiere al momento della sua entrata in vigore, e con salvezza della validità e della efficacia degli atti posti in essere sotto l'imperio della legge processuale abrogata.

La differenza tra le due soluzioni interpretative (quella che propugna l'immediata applicabilità dell'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015 ai giudizi in corso sulla base del principio tempus regit actum; e quella che propugna l'applicabilità di tale norma solo con riguardo ai processi iniziati dopo la sua entrata in vigore, invocando il diverso principio tempus regit processum) emerge nitidamente ove si considerino le diverse specifiche fattispecie che la regola processuale è destinata a disciplinare.

Nei giudizi introdotti dopo l'entrata in vigore della nuova legge, sia pure per fatti illeciti commessi dal magistrato nella vigenza della legge abrogata, la nuova disciplina è senz'altro applicabile per entrambe le tesi, atteso il comune riconoscimento della natura processuale della medesima (sicché il processo dovrebbe svolgersi senza filtro preliminare di ammissibilità, secondo la scansione propria del giudizio ordinario di cognizione), sebbene i presupposti sostanziali della responsabilità dello Stato per il cattivo esercizio della funzione giurisdizionale continuino ad essere fissati dalle norme precedenti.

Diversamente, con riguardo ai giudizi introdotti nel vigore della vecchia legge in cui, al momento dell'entrata in vigore della nuova, non sia stata ancora celebrata la prima udienza (fattispecie esaminata dalle pronunce di merito surrichiamate), il processo seguirebbe la normale scansione del giudizio ordinario solo se si aderisse alla prima tesi, laddove invece l'adesione al secondo indirizzo comporterebbe la perdurante applicabilità del filtro di ammissibilità con conseguente necessità, per il giudice istruttore, di rimettere le parti al collegio.

Con riguardo ai giudizi introdotti nel vigore della vecchia legge in cui, al momento dell'entrata in vigore della nuova, la prima udienza sia già stata celebrata e il giudice istruttore abbia rimesso le parti al collegio per la delibazione preliminare di ammissibilità, il collegio dovrebbe provvedere a tale incombente se si aderisse al secondo indirizzo, mentre dovrebbe restituire gli atti al giudice istruttore (perché proceda alla trattazione del merito) se si aderisse al primo.

Infine, con riguardo ai processi in corso iniziati nella vigenza della legge abrogata ma in epoca più risalente (nei quali, al momento di entrata in vigore della nuova legge, il giudizio preliminare di ammissibilità sia in corso di svolgimento e si trovi in fase di impugnazione dinanzi alla Corte di appello o alla Corte di cassazione, per essere stati già pronunciati uno o più decreti di inammissibilità), mentre l'adesione alla seconda tesi comporterebbe la necessità di concludere la fase di impugnazione (con una decisione di rigetto del reclamo o del ricorso ovvero con una decisione di annullamento del decreto e di rimessione al tribunale in diversa composizione, previa declaratoria di ammissibilità della domanda, secondo i dettami dell'art. 5 legge n. 117 del 1988), l'adesione alla prima imporrebbe comunque una pronuncia del giudice dell'impugnazione, restando tuttavia dubbio se tale pronuncia debba limitarsi ad un provvedimento rescindente di annullamento del decreto di inammissibilità (lasciandosi poi piena libertà alla parte interessata di reintrodurre il processo dinanzi al giudice del merito) o debba estendersi ad un provvedimento rescissorio di declaratoria di ammissibilità della domanda, con conseguente rimessione al tribunale per il giudizio di merito.

La necessità della pronuncia (quanto meno rescindente) del giudice dell'impugnazione si pone in quanto l'abrogazione dell'art. 5 legge n. 117 del 1988, quand'anche le si attribuisca operatività immediata nei processi in corso, non comporta la perdita di efficacia dei decreti di inammissibilità della domanda risarcitoria pronunciati nella vigenza della norma e non ancora definitivi, stante il carattere non retroattivo dell'effetto abrogativo (arg. ex art. 11 disp. prel. c.c.).

Sussiste dunque il perdurante interesse della parte alla proposizione del gravame avverso i decreti per i quali pende il termine per l'impugnazione (o alla delibazione della stessa da parte del giudice superiore se si tratta di provvedimenti già gravati), atteso che, in mancanza di impugnazione o di pronuncia sulla medesima, il provvedimento non potrebbe essere rimosso e sarebbe destinato a divenire definitivo.

L'avvenuta abrogazione dell'art. 5, se da un lato lascia inalterato l'interesse all'impugnazione del decreto di inammissibilità pronunciato nella vigenza della disciplina anteriore, dall'altro lato potrebbe tuttavia incidere, ove ritenuta immediatamente operativa nei processi in corso, sulle altre condizioni dell'impugnazione, determinando il venir meno della possibilità giuridica di proporre l'impugnazione medesima.

Infatti, poiché il diritto all'impugnazione trovava fondamento direttamente nella norma abrogata (la quale disciplinava tanto il reclamo in Corte di appello quanto il ricorso per cassazione), il riconoscimento del carattere di immediata operatività alla norma abrogatrice dovrebbe indurre a ritenere la sopravvenuta mancanza di tale diritto, essendo stata rimossa dall'ordinamento la norma attributiva del relativo potere.

Nel contrasto tra il perdurante interesse all'impugnazione e il sopravvenuto venir meno del diritto di proporla potrebbe individuarsi un'abnorme implicazione dell'accoglimento della tesi che propugna la rigorosa applicazione del principio del tempus regit actum.

Tale abnorme implicazione – per effetto della quale i decreti di inammissibilità emessi ai sensi dell'art. 5 legge n. 117 del 1988, non travolti per effetto dell'abrogazione di questa disposizione, sarebbero destinati a consolidarsi senza possibilità di essere rimossi – potrebbe essere evitata, per i soli provvedimenti per i quali pende il termine per l'impugnazione, ammettendone l'impugnabilità con ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., da ritenersi esperibile in ragione del carattere definitivo acquisito dagli stessi (sulla cui natura decisoria non può esservi dubbio) in seguito all'abrogazione medesima.

Analogamente, con riguardo ai decreti di inammissibilità già impugnati con ricorso ordinario per cassazione in seguito a rigetto del reclamo da parte della Corte di appello, potrebbe ipotizzarsi una conversione del mezzo di gravame in ricorso straordinario, mentre maggiore incertezza deve nutrirsi sulla possibilità che una simile conversione possa aversi anche per i reclami in Corte di appello, con riguardo ai provvedimenti impugnati con questo mezzo.

2.2. La tesi "sostanzialista".

La tesi "sostanzialista" – affermata da Trib. Genova, ord. 30 giugno 2015 – si distingue da quelle "processualiste" in quanto ritiene che l'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015 trovi applicazione soltanto nei giudizi introdotti successivamente alla data di entrata in vigore della legge (19 marzo 2015) in cui si deducono fatti illeciti posti in essere dal magistrato dopo tale data.

Ai fini dell'applicazione della nuova disciplina non è dunque sufficiente che l'azione risarcitoria sia esercitata dopo l'entrata in vigore della nuova legge (non essendo essa applicabile ai giudizi in corso) ma è necessario che anche i fatti posti a fondamento della domanda si siano verificati successivamente (non essendo essa applicabile ai fatti illeciti posti in essere dal magistrato anteriormente alla sua entrata in vigore).

Viene così ricondotto ad unità il dies a quo dell'operatività delle norme processuali che regolano l'esercizio dell'azione risarcitoria e quello delle norme sostanziali che fissano i presupposti della responsabilità dello Stato per il fatto del magistrato.

Questa soluzione interpretativa trae argomento, come si è già accennato, non solo (e non tanto) dall'affermata natura sostanziale della normativa quanto piuttosto – sebbene ciò non sia analiticamente esplicitato nella pronuncia in esame – dal fondamento del complessivo statuto della responsabilità del magistrato quale disciplina differenziata che si caratterizza per la previsione di restrizioni e limiti rispetto a quella di diritto comune.

Alla base delle peculiarità che connotano la disciplina della responsabilità dei magistrati si pone, secondo condivisa opinione, l'esigenza di realizzare il contemperamento tra confliggenti interessi costituzionali, sussistendo, da un lato, la necessità di tutelare il diritto dei singoli ad ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla violazione dei loro diritti soggettivi, anche quando posta in essere da funzionari dello Stato (artt. 24 e 28 Cost.); dall'altro lato, l'eguale necessità di preservare le garanzie costituzionali della giurisdizione, consistenti nella soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.), nella autonomia e indipendenza della magistratura (art. 104, comma 1, e 108, comma 2, Cost.) e nella terzietà ed imparzialità del giudice (art. 111, comma 2, Cost.).

Il bilanciamento tra questi diversi interessi costituzionali, se per un verso esige che anche l'attività giurisdizionale (come tutte le attività compiute dai pubblici funzionari) non vada esente da responsabilità, per altro verso impone che la possibilità di chiamare a rispondere, oltre allo Stato, i singoli giudici sia sottoposta a specifiche condizioni, in funzione di evitare la proposizione di domande manifestamente infondate e temerarie, proposte strumentalmente al fine di intimidire il magistrato ed incidere sulla sua serenità e sulla sua imparzialità di giudizio ovvero al fine di creare dolosamente ragioni di astensione o ricusazione.

A tale funzione concorrono non soltanto le norme stricto sensu sostanziali (che individuano, entro limiti più rigorosi di quelli di diritto comune, i presupposti della responsabilità per il cattivo esercizio della funzione giurisdizionale) ma anche le regole propriamente processuali e, tra queste, quella che prevedeva il cd. filtro preliminare di ammissibilità della domanda risarcitoria, il quale consentiva di escludere in limine litis le domande manifestamente infondate.

Il "rilievo" costituzionale del filtro di ammissibilità, oltre che diffusamente riconosciuto in dottrina [per tutti cfr. AMOROSO, 2015, 182], è stato reiteramente ribadito dalla Corte Costituzionale, la quale già nelle pronunce emesse nel vigore della disciplina codicistica, aveva avvertito circa la necessità di un regime speciale della responsabilità dei magistrati fondato sulla singolarità della funzione giurisdizionale (cfr., ad es., Corte cost., 14 marzo 1968, n. 2, con cui era stata dichiarata non fondata la questione di legittimità degli artt. 55 e 74 del codice di procedura civile nella formulazione originaria, in riferimento all'art. 28 Cost.).

Nelle pronunce emesse nel vigore della legge n. 117 del 1988, la Corte Costituzionale non solo ha affermato che <<la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda (art. 5 legge cit.) garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni manifestamente infondate, che possono turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l'astensione e la ricusazione>> (Corte cost., 19 gennaio 1989, n.18), ma si è spinta a costruire <<un filtro laddove mancava>> [AMOROSO, 2015, 185], attraverso la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma transitoria contenuta nell'art. 19, comma 2, della legge n. 117 del 1988 (che stabiliva l'irretroattività della nuova legge), nella parte in cui, quanto ai giudizi di responsabilità civile relativamente ai fatti anteriori al 16 aprile 1988 (data di entrata in vigore della legge medesima) e proposti successivamente al 7 aprile 1988 (data in cui si erano verificati gli effetti del referendum abrogativo degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c.), non prevedeva che il tribunale competente verificasse preliminarmente la non manifesta infondatezza della domanda ai fini della sua ammissibilità (Corte cost., 22 ottobre 1990, n.468).

Il rilievo della funzione costituzionale del giudizio preliminare di ammissibilità ha consentito non soltanto di sospettare dell'illegittimità della sua soppressione, in ragione del sopravvenuto venir meno di uno degli istituti processuali che concorrevano all'equilibrato contemperamento dei contrastanti interessi costituzionali (sul problema, che è stato avvertito sia in dottrina che in giurisprudenza, v., per la prima, AMoroso, 2015, 185 e, per la seconda, Trib. Treviso, ord. 8 maggio 2015 e Trib. Verona, ord. 12 maggio 2015, che hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma abrogatrice contenuta nell'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015, per contrasto, oltre che con gli artt. 101 e ss. Cost., anche con gli artt. 3 e 25 Cost.), ma anche di inferire la stretta connessione tra tutte le norme contenute nella legge speciale, le quali concorrono, con identità di funzione, alla creazione di uno statuto unitario della responsabilità del magistrato, al quale non può riconoscersi un'operatività differenziata nel tempo secondo che vengano in considerazione le disposizioni volte a stabilire i presupposti della responsabilità o quelle deputate a regolare l'esercizio dell'azione risarcitoria.

In questa prospettiva, la norma sul cd. filtro di ammissibilità è stata riguardata come costitutiva <<di una guarentigia di carattere sostanziale>>, che si inserisce in una <<disciplina complessa, con valore sostanziale e non meramente processuale, del nuovo statuto della responsabilità del magistrato: un nuovo statuto quanto alla colpa, ai limiti della cd. clausola di salvaguardia, agli aspetti disciplinari, ai termini>>, ecc. (Trib. Genova, ord. 30 giugno 2015, cit.)

Si è pertanto ritenuto che le modifiche operate con la legge n.18 del 2015 incidono su un insieme organico e inscindibile di disposizioni con rilevanza sostanziale e costituzionale, applicabili, nella medesima misura, ai soli fatti verificatisi nella loro vigenza ed inapplicabili, invece, agli illeciti commessi anteriormente alla loro entrata in vigore.

Come già si è sopra veduto per le tesi "processualiste", anche quella "sostanzialista" ha ritenuto di trovare conforto in un precedente della giurisprudenza di legittimità, il quale, tra l'altro, diversamente da quelli invocati a sostegno delle tesi "processualiste", non riguarda il tema generale della successione delle leggi processuali nel tempo, ma quello specifico dell'ambito temporale di applicazione delle norme introdotte dalla legge n. 18 del 2015.

In effetti, in Sez. 6-3, n. 10121/2015, De Stefano, sembrebbe essere stata propugnata la tesi secondo cui la nuova legge dovrebbe trovare unitaria applicazione per i soli illeciti posti in essere successivamente alla sua entrata in vigore, senza poter distinguere tra norme sostanziali e norme processuali.

Il passaggio motivazionale è il seguente: <<è superfluo annotare che non può trovare applicazione alla fattispecie la L. 27 febbraio 2015, n. 18, che ha modificato in più parti la L. 13 aprile 1988, n. 117, mediante – tra l'altro – la soppressione della fase preliminare di vaglio di ammissibilità e la rimodulazione dei termini di proposizione: in quanto essa, priva di disciplina transitoria, non può che regolare le fattispecie successive alla sua entrata in vigore (19.3.15), quale certamente non è quella odierna>> (l'evidenziazione è nostra).

Al riguardo va peraltro osservato che la pronuncia in esame si era occupata del problema degli effetti della proposizione della revocazione ex art. 391 bis c.p.c., sul decorso del termine di decadenza di cui all'art. 4, comma 2, secondo periodo, legge n. 117 del 1988 per modo che l'annotazione circa la non immediata applicabilità della nuova legge n. 18 del 2015 va considerata alla stregua di un obiter dictum.

Soltanto con Sez. 3, n. 25216/2015, Barreca, in corso di massimazione, la Suprema Corte ha trattato ex professo le questioni di diritto intertemporale poste dalla nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati, componendo, come si sta per vedere, i contrasti interpretativi verificatisi nella giurisprudenza di merito.

Deve, ancora, evidenziarsi che la tesi "sostanzialista" sembrerebbe trovare conferma nell'argomento storico, fondato sulla lettura del più volte citato art. 19, comma 2, legge n. 117 del 1988, il quale espressamente sanciva l'inapplicabilità della legge ai fatti illeciti posti in essere dal magistrato anteriormente alla sua entrata in vigore.

L'argomento tuttavia potrebbe essere invocato anche a sostegno della tesi contraria, in quanto, posta la distinzione dogmatica tra norme di diritto intertemporale (quali regole o principi generali di risoluzione del conflitto tra legge precedente e legge sopravvenuta: ad es., l'art.5 c.p.c. in tema di individuazione della legge determinativa della giurisdizione e della competenza) e norme di diritto transitorio (quali regole particolari di raccordo tra la vecchia e la nuova disci plina), l'agevole rilievo che l'art. 19, comma 2, rientrasse nella seconda categoria, individuando un regime transitorio specifico funzionale al raccordo tra la vecchia disciplina codicistica e la nuova disciplina introdotta dalla legge speciale, induce a ritenere che, in assenza della previsione di tale specifico regime, avrebbe dovuto optarsi per una soluzione diversa, che tenesse conto della diversa natura (sostanziale o processuale) delle singole disposizioni.

3. I principi affermati dalla Suprema Corte con Sez. 3, n. 25216/2015.

Le questioni di diritto intertemporale che hanno affaticato la giurisprudenza di merito sono state recentemente risolte dalla Suprema Corte con Sez. 3, n. 25216/2015, Barreca, Rv. 638090.

Nella fattispecie esaminata dalla Corte, il giudizio di responsabilità contro lo Stato era stato introdotto nella vigenza dell'art. 5 legge n. 117 del 1988 e, al momento dell'entrata in vigore della norma abrogativa di cui all'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015, il giudizio preliminare di ammissibilità della domanda si era svolto sia dinanzi al tribunale (che aveva pronunciato decreto di inammissibilità, ai sensi del comma 3 del citato art. 5) sia dinanzi alla Corte di appello, che aveva rigettato il reclamo avverso il predetto decreto, ai sensi del successivo comma 4.

Anche il ricorso per cassazione avverso il decreto della Corte di appello era stato proposto nella vigenza della vecchia legge, essendo la nuova sopravvenuta tra il deposito del ricorso e l'udienza fissata per la sua trattazione.

Nella memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c., il ricorrente, sul presupposto dell'immediata applicabilità ai processi in corso della norma abrogatrice (alla quale, come a quella abrogata, avrebbe dovuto riconoscersi indubbio carattere processuale), aveva invocato un provvedimento rescindente, con il quale, prendendo atto della sopravvenuta soppressione del filtro di ammissibilità, la Corte provvedesse alla cassazione del provvedimento impugnato, con rinvio ad altro giudice di pari grado per l'annullamento del decreto di inammissibilità e rimessione al primo giudice, al fine di consentire lo svolgimento della fase di merito.

Nell'esaminare la questione pregiudiziale, posta dal ricorrente, circa la portata applicativa del sopravvenuto art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015, la Suprema Corte ha anzitutto preso le distanze dalla tesi "sostanzialista", l'accoglimento della quale avrebbe indotto ad escludere l'operatività della norma sopravvenuta, per essere essa parte di un insieme inscindibile di norme, applicabile, nel suo complesso, ai soli fatti illeciti posti in essere dal magistrato dopo la sua entrata in vigore.

Pur non scostandosi dalla consolidata opinione secondo cui la posizione di condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati risponde all'esigenza di contemperare contrapposti interessi costituzionali (identificati, da un lato, nell'<<interesse generico a che la titolarità di un pubblico potere non sia immune da profili di responsabilità>> e, dall'altro, nell'<<interesse specifico a che la previsione di forme di responsabilità per i titolari del potere giurisdizionale non si traduca in un condizionamento idoneo ad incidere negativamente sull'equilibrato esercizio dello stesso o, peggio ancora, non si presti ad essere utilizzata strumentalmente come arma di pressione volta ad incrinare l'imparzialità del magistrato>>), la Corte ha peraltro evidenziato che tale funzione costituzionale ben può essere assicurata <<sul doppio piano della tutela sostanziale e di quella processuale>>, senza che tali due ordini di regole smarriscano la loro distinta natura.

La tutela delle garanzie costituzionali della giurisdizione (artt. 101 e ss. Cost.) – è stato precisato nella pronuncia in esame – si attua, infatti, <<sia con il riconoscimento al magistrato di guarentigie concernenti i detti limiti, che operano sostanzialmente nella definizione dei fatti costituenti illecito …, sia con la previsione di norme processuali volte a regolare l'esercizio dell'azione di responsabilità civile>>.

Tra queste ultime si poneva quella volta ad istituire e disciplinare il cd. filtro preliminare di ammissibilità della domanda risarcitoria, la quale, sebbene avesse un indubbio "rilievo" costituzionale (come reiteratamente ribadito dalla stessa Corte Costituzionale nelle pronunce sopra citate) – e sebbene pertanto concorresse con le norme sostanziali alla salvaguardia dei valori di indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale -, tuttavia, secondo la Suprema Corte, presentava pur sempre i caratteri di una norma processuale, destinati ad influenzarne la portata applicativa in ipotesi di successione di leggi nel tempo.

Riconosciuto il carattere processuale tanto della norma abrogata quanto di quella abrogatrice, la Corte ha peraltro ritenuto di dissentire anche dalle tesi "processualiste", così come formulate nei surrichiamati precedenti della giurisprudenza di merito.

È stata espressamente respinta la soluzione interpretativa fondata sul principio tempus regit processum, l'adesione alla quale pure avrebbe indotto ad escludere l'immediata applicazione dell'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015, in ragione della necessità di consentire che il processo fosse governato sino alla sua conclusione dallo stesso insieme di norme nella vigenza del quale era iniziato, senza possibilità di attribuire rilevanza alla successione di legge processuale verificatasi durante la sua pendenza, in assenza di una diposizione di diritto transitorio che prevedesse diversamente.

Al riguardo, la pronuncia in esame ha operato un integrale rinvio alla motivazione della citata Sez. 3, n. 03688/2011, Frasca, Rv. 616766, la quale aveva esposto analiticamente le ragioni per le quali il principio tempus regit processum non troverebbe alcun fondamento nel diritto positivo.

In questo precedente – traendo conferma anche da alcuni passaggi contenuti nella motivazione di Sez. U, n. 09940/2009, D'Alonzo, Rv. 607512 – era stato evidenziato che anche la successione nel tempo delle leggi processuali (come quella delle leggi sostanziali) è governata dall'art. 73 Cost. e dagli artt. 10 e 11 disp. prelim. c.c.

Sul presupposto che queste regole escludono l'efficacia retroattiva della legge, disponendo che essa non dispone che per l'avvenire, era stato dunque osservato che, per potere attribuire un fondamento normativo al principio tempus regit processum, sarebbe stata necessaria <<una metanorma (ulteriore rispetto all'art. 11 e che, dunque, allo stato non c'è)>> la quale <<prevedesse che l'efficacia della legge processuale non vada individuata con riferimento a quanto la legge "dispone" (per come assume l'art. 11), bensì con riguardo alla collocazione dell'oggetto del disporre in un processo già iniziato o non ancora iniziato>>.

La norma processuale – era stato ulteriormente evidenziato – <<non diversamente dalla norma di diritto sostanziale, assume come oggetto del suo "disporre" direttamente la fattispecie concreta idonea ad essere sussunta sotto l'ambito della fattispecie astratta che essa individua>>.

Pertanto, <<poiché la legge in materia processuale regola il processo, che è una sequenza di atti (del giudice, delle parti e di terzi, che vi assumano un ruolo ausiliario o altro ruolo previsto da specifiche norme), l'oggetto del "disporre" della legge processuale, salvo i casi nei quali essa stessa l'assuma proprio in un certo processo o in determinati processi (se del caso a far tempo da un certo atto relativo al suo svolgimento), si riferisce ad uno o più degli atti attraverso i quali il processo può avere corso>>.

Si era quindi argomentato che, in quanto <<la norma processuale "dispone" con riferimento ad un certo atto o a certi atti, né l'art. 11, né alcun'altra norma, consentono di leggere l'oggetto di tale "disporre" non già solo in tale modo, ma anche come se tale "disporre" possa riguardare l'atto esclusivamente in quanto compiuto da chi o da coloro che lo devono compiere nell'ambito di un processo non pendente>>, atteso che <<il "disporre" della norma processuale … è direttamente riferibile sia all'atto che verrà compiuto in un processo iniziato ex novo, sia all'atto che verrà compiuto in un processo che sia già pendente>>.

Il principio tempus regit processum – si era dunque concluso – non ha fondamento normativo in quanto <<suppone che il "disporre" della norma processuale, anche quando essa non sia diretta a regolare il processo come tale o taluni processi come tali, sia individuato dando rilievo non alla sola fattispecie astratta espressa risultante dalla norma processuale, bensì ad una sorta di ulteriore fattispecie non scritta (e desumibile dalla stessa logica della norma processuale), secondo cui "la norma processuale non dispone che per l'avvenire e che per i processi introdotti successivamente alla sua entrata in vigore">>.

Richiamate le ragioni che indurrebbero ad escludere la compatibilità con il diritto positivo della tesi fondata sul principio tempus regit processum, la Suprema Corte, nella sentenza n. 25216/2015, ha ritenuto che i problemi di diritto intertemporale posti dall'entrata in vigore della legge n. 18 del 2015 debbano essere invece risolti facendo applicazione del tradizionale orientamento fondato sul principio tempus regit actum.

Peraltro, diversamente da quanto ritenuto dalla giurisprudenza di merito (e contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente), la Corte ha escluso che la rigorosa applicazione di questo principio comportasse l'applicabilità immediata della normativa sopravvenuta ai giudizi introdotti prima della sua entrata in vigore.

La regola del tempus regit actum (secondo cui lo ius superveniens processuale deve trovare applicazione a tutti gli atti processuali ancora da compiere, con salvezza di quelli già compiuti), comporta, secondo la pronuncia in esame, che <<gli effetti di tutti gli atti processuali (delle parti e del giudice) sono quelli regolati dalla legge vigente nel momento in cui l'atto (di parte) è posto in essere o il provvedimento (del giudice) è pronunciato, e non possono essere, invece, effetti che la legge sopravvenuta ricollega all'uno o all'altro>> (l'evidenziazione è nostra).

Con tale affermazione, la pronuncia del 2015 si è posta in linea di perfetta continuità con le citate Sez. 1, n. 20414/2006, Salvato, Rv. 594139, e Sez. 3, n. 03688/2011, Frasca, Rv. 616766, le quali avevano entrambe affermato, in motivazione, che <<un'indebita applicazione retroattiva della legge processuale>>, in difetto di una norma transitoria che disponga in tal senso, <<si ha sia quando si pretenda di applicare la legge sopravvenuta ad atti posti in essere anteriormente all'entrata in vigore della legge nuova, sia quando si pretenda di associare a quegli atti effetti che non avevano in base alla legge del tempo in cui sono stati posti in essere>>.

Ciò premesso, movendo dalla considerazione che l'oggetto della disciplina posta dall'abrogato art. 5 legge n. 117 del 1988 era l'atto processuale (di parte) costituito dalla domanda introduttiva della lite, assoggettata ad un sub-procedimento di ammissibilità – e che l'effetto dell'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015 è l'abrogazione di tale subprocedimento -, la pronuncia in esame ha ritenuto che <<se la norma sopravvenuta si applicasse immediatamente si avrebbe che la domanda presentata nel vigore della discipina preesistente, verrebbe ammessa secondo la disciplina sopravvenuta. Pertanto si applicherebbe quest'ultima con effetto retroattivo, facendone la legge applicabile ad un atto processuale compiuto prima della sua entrata in vigore>>.

Una tale indebita applicazione retroattiva, non autorizzata da alcuna disposizione transitoria, si tradurrebbe – ha aggiunto la Suprema Corte – in una palese violazione proprio del principio invocato dal ricorrente, <<in quanto si avrebbe che un atto (di parte) del processo, quale è la domanda introduttiva della lite, pur essendo stato compiuto nel vigore di un'apposita norma, non sarebbe da questa disciplinato, nel senso che gli effetti di esso verrebbero regolati secondo la legge sopravvenuta>>.

Nel caso di specie, dunque, la circostanza che il procedimento filtro di ammissibilità fosse in corso alla data di entrata in vigore della nuova norma, ancorché riferito ad un atto processuale posto in essere nel vigore della vecchia, esclude che esso potesse interrompersi, perdere efficacia o comunque "venire meno" in quanto sarebbero "venuti meno" <<gli effetti ricollegati all'atto di parte (domanda giudiziale) dalla legge vigente nel momento in cui l'atto è stato compiuto>>.

Invero, secondo la pronuncia in esame, <<quando la legge prevede che una domanda sia soggetta a determinate condizioni di ammissibilità e disciplina il procedimento di verifica dell'ammissibilità nel contesto della stessa norma (come è per l'art. 5 della legge n. 117 del 1988), l'intervento di una norma che abroga quest'ultima in toto – per essere inteso nel senso del pieno rispetto del canone di successione delle leggi nel tempo per cui la legge nuova dispone, cioè regola il suo oggetto di disciplina, solo per l'avvenire – esige che l'efficacia di abrogazione si correli in primo luogo alle condizioni di ammissibilità: ne segue che, poiché esse connotavano la domanda al momento in cui venne proposta, l'efficacia abrogativa della norma sopravvenuta non può che dispiegarsi se non per le domande proposte successivamente all'entrata in vigore della novella>>.

Sulla base di queste considerazioni, la Suprema Corte, con Sez. 3, n. 25216/2015, ha pertanto concluso che, non potendosi riconoscere effetto retroattivo alla sopravvenuta abrogazione dell'art. 5 legge n. 117 del 1988, operata dall'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015 (in mancanza di una norma transitoria che lo preveda), l'ammissibilità della domanda risarcitoria proposta contro lo Stato, per i danni derivanti dal cattivo esercizio della funzione giurisdizionale, nella vigenza del predetto art. 5, deve essere delibata alla stregua delle regole poste da quest'ultima disposizione, trovando applicazione la normativa sopravvenuta solo alle domande proposte dopo la sua entrata in vigore, anche se – deve intendersi – per fatti illeciti posti in essere dal magistrato in epoca anteriore, e dunque regolati dalla vecchia disciplina sostanziale.

. BIBLIOGRAFIA

Amoroso, Riforma della responsabilità civile dei magistrati e dubbi di legittimità costituzionale dell'eliminazione del filtro di ammissibilità dell'azione risarcitoria, in Questione Giustizia, n. 3 del 2015, 182 e ss.

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Caponi, Tempus regit processum (un appunto sull'efficacia delle norme processuali nel tempo), in Rivista del diritto processuale, 2006, 449 e ss.

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Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1965, 119 e ss.

Fazzalari, Efficacia della legge processuale nel tempo, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1989, 889 e ss.

Montesano, Le disposizioni generali del codice di procedura civile, Roma, 1987, 16 e ss.

  • giurisdizione civile
  • magistrato

CAPITOLO XXIV

IL SINDACATO DI LEGITTIMITÀ DELLE DELIBERE DEL C.S.M. IN TEMA DI CONFERIMENTO DEGLI INCARICHI DIRIGENZIALI: ECCESSO DI POTERE GIURISDIZIONALE E LIMITI ESTERNI DELLA GIURISDIZIONE

(di Gianluca Grasso )

Sommario

1 Premessa. - 1.1 Rilievo costituzionale del C.S.M. e conferimento degli incarichi dirigenziali. - 1.2 Provvedimenti consiliari e sindacato giurisdizionale. - 2 I fatti. - 3 I principi di diritto. - 3.1 Ricorso per ottemperanza e ricorso ordinario avverso il medesimo atto amministrativo: insussistenza dell'eccesso di potere giurisdizionale nella pronuncia di appello successiva all'ottemperanza. - 3.2 Impugnazione della delibera del C.S.M. nel caso di magistrato ricorrente collocato successivamente in quiescenza: ammissibilità del sindacato di legittimità ma superamento dei limiti esterni della giurisdizione in caso di ricorso in ottemperanza per ottenere l'ordine rivolto al C.S.M. di assegnare il posto "ora per allora". - 3.3 Limiti del sindacato di legittimità e valutazione di merito del contenuto della delibera e della sua ragionevolezza. - BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.

Tra i grands arrêts dell'anno 2015 della Corte di cassazione si colloca senz'altro la pronuncia delle Sezioni Unite del 5 ottobre 2015, n. 19787. Si tratta di una sentenza importante, resa sulla nozione di eccesso di potere giurisdizionale e sui limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo, con particolare riferimento al sindacato sulle delibere di conferimento degli incarichi direttivi da parte del Consiglio superiore della magistratura.

La pronuncia interviene in una materia delicata, caratterizzata dalla collocazione istituzionale del C.S.M., quale organo di rilievo costituzionale, e dalla peculiarità delle sue delibere.

1.1. Rilievo costituzionale del C.S.M. e conferimento degli incarichi dirigenziali.

L'istituzione del C.S.M. risponde alla volontà del Costituente di rendere effettiva, fornendola di apposita garanzia costituzionale, l'autonomia della magistratura, così da collocarla nella posizione di ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, e conseguentemente sottrarla a interventi suscettibili di turbarne l'imparzialità e di compromettere l'applicazione del principio di cui all'art. 101 Cost., secondo cui i giudici sono soggetti solo alla legge (Corte cost. 30 aprile 1968, n. 44). Si è così provveduto a concentrare ogni provvedimento relativo al reclutamento e allo stato degli appartenenti all'ordine giudiziario nella competenza assoluta ed esclusiva del C.S.M., ivi comprese le nomine dei dirigenti degli uffici giudiziari (artt. 105, 106, 107, 110 Cost.). [In dottrina, ex multis, SANTALUCIA, 45 ss.; n. ZANON, f. BIONDI, 23 ss.]

Sul conferimento degli uffici direttivi, il Consiglio delibera su proposta della V Commissione referente, formata da sei dei suoi componenti, di cui quattro eletti dai magistrati e due dal Parlamento, previo concerto col Ministro della giustizia (art. 11 della l. 24 marzo 1958, n. 195 e art. 22 del Regolamento interno del C.S.M.). La Commissione, con apposita deliberazione, comunica al Ministro della giustizia l'elenco degli aspiranti, le proprie valutazioni e le conseguenti motivate conclusioni, allegando quelle dei dissenzienti che lo richiedono e procede al concerto (art. 22 del Regolamento interno del C.S.M.). Il Ministro esprime le sue motivate valutazioni solo in ordine alle attitudini del candidato relative alle capacità organizzative dei servizi (art. 11, comma 4, della l. n. 195 del 1958). Una volta sottoposte al vaglio dell'assemblea plenaria, le delibere riguardanti l'attribuzione di incarichi direttivi sono spesso l'esito del voto espresso a maggioranza dai componenti su proposte contrapposte, che vedono fronteggiarsi due o più candidati.

La disciplina consiliare in tema di conferimento degli incarichi dirigenziali è stata recentemente rivista con il nuovo testo unico della dirigenza giudiziaria (circolare n. P-148582015 del 28 luglio 2015 e succ. mod.), con cui si è provveduto alla riscrittura della circolare per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi nella prospettiva di garantire le esigenze di trasparenza, comprensibilità e certezza delle decisioni. In particolare, sono stati distinti e specificati i requisiti attitudinali in base alle tipologie di ufficio direttivo e si è inteso proporre criteri chiari e precisi per il giudizio di comparazione tra candidati, ponendo comunque la <<massima attenzione alla necessità di preservare l'autonomia valutativa del C.S.M., evitando di introdurre nelle procedure selettive criteri tali da minare la discrezionalità propria di un Organo di rilevanza costituzionale>>. Secondo quanto specificato nella relazione introduttiva, <<nel ridisegnare la disciplina del conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi si è cercato un giusto punto di equilibrio tra il principio di legalità e l'irrinunciabile esigenza di tutelare il potere di autodeterminazione consiliare, che deve sempre orientarsi alla scelta del migliore dirigente da preporre al posto da coprire, nel rispetto del superiore interesse pubblico. Ciò anche al fine di arrestare recenti tentativi di degradazione della discrezionalità consiliare a mera discrezionalità tecnica>>.

1.2. Provvedimenti consiliari e sindacato giurisdizionale.

Pur nella peculiarità degli elementi che caratterizzano le deliberazioni del C.S.M., distinguendosi senz'altro nel panorama della generalità degli atti sottoposti alla giurisdizione amministrativa, la legge istitutiva dell'organo di governo autonomo della magistratura, ricevendo l'avallo della Corte costituzionale (Corte cost. n. 44/1968), ha sottoposto al sindacato del giudice amministrativo la legittimità dei provvedimenti consiliari (art. 17, comma 2, della l. n. 195 del 1958), che nei riguardi dei magistrati, in conformità delle deliberazioni del Consiglio superiore, vengono adottati con decreto del Presidente della Repubblica controfirmato dal Ministro, ovvero, nei casi stabiliti dalla legge, con decreto del Ministro della giustizia (art. 17, comma 1). Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. IV, 28 ottobre 2013, n. 5205), le deliberazioni con cui il C.S.M. provvede al conferimento di incarichi direttivi, ancorché espressione di attività amministrativa discrezionale, non si sottraggono al sindacato giurisdizionale di legittimità sotto i profili dell'eccesso di potere, della violazione di legge, dell'illogicità, del travisamento dei fatti e della carenza di motivazione qualora i requisiti di merito e attitudini previsti dalla circolare, non siano adeguatamente apprezzati nella procedura comparativa.

La normativa sull'impugnazione dei provvedimenti consiliari riguardanti i magistrati è stata oggetto di successivi interventi che hanno definito le modalità del sindacato giurisdizionale [FRANZONI, 2014, 3 ss.].

Da ultimo, l'art. 17, comma 2, secondo periodo, della l. n. 195 del 1958 – a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 2, comma 4, del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114 – prevede, in materia di incarichi dirigenziali, che <<per la tutela giurisdizionale nei confronti dei provvedimenti concernenti il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi si segue, per quanto applicabile, il rito abbreviato disciplinato dall'articolo 119 del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104>>.

In caso di accoglimento del ricorso di ottemperanza, il giudice amministrativo assegna al C.S.M. un termine per provvedere. L'art. 17, comma 2, della l. n. 195 del 1958, tuttavia, specifica che non si applicano le lettere a) e c) del comma 4 dell'art. 114 c.p.a., che attribuiscono al giudice amministrativo il potere di prescrivere le modalità dell'ottemperanza, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l'emanazione dello stesso in luogo dell'amministrazione (lett. a) e, nel caso di ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, di determinare le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvedere di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano (lett. c). Il giudice amministrativo non può quindi sostituirsi al Consiglio nell'adozione della delibera, né può determinarne il contenuto.

È venuta invece meno, in sede di conversione del d.l. n. 90 del 2014, l'introduzione di limiti più stringenti al sindacato sui provvedimenti consiliari, essendo stata espunta la previsione per cui <<contro i provvedimenti concernenti il conferimento o la conferma degli incarichi direttivi e semi direttivi, il controllo del giudice amministrativo ha per oggetto i vizi di violazione di legge e di eccesso di potere manifesto>>.

Il confine tra le prerogative del C.S.M., quale organo di garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza dei magistrati, il rispetto del principio di legalità e la tutela delle posizioni soggettive delle persone coinvolte, rappresentano i delicati punti entro cui si muove la linea del sindacato del giudice amministrativo. L'approdo a cui giungono le Sezioni Unite con questa decisione, sistemando gli orientamenti succedutisi nel tempo, formerà senz'altro oggetto di dibattito in dottrina e in giurisprudenza.

Al fine di poter compiutamente apprezzare i principi di diritto affermati dalla S.C. nella sentenza in esame appare opportuno riassumere brevemente i fatti oggetto del complesso contenzioso portato all'attenzione della Corte.

2. I fatti.

La pronuncia giunge nel corso di una lunga vicenda giudiziaria riguardante il conferimento dell'ufficio di presidente aggiunto della Corte di cassazione, originata dalla delibera del 22 luglio 2010 con cui il C.S.M. nominava, a maggioranza, uno degli aspiranti.

Il candidato soccombente interponeva ricorso avverso la nomina ma T.a.r. Lazio 8 giugno 2011, n. 5109 respingeva l'impugnazione, ritenendo la delibera immune da ogni profilo di illogicità.

Cons. Stato, sez. IV, 1 febbraio 2012, n. 486, in sede di appello, accoglieva il gravame e annullava la delibera per difetto di motivazione.

Il C.S.M., chiamato a ripetere la valutazione, riesaminava i profili dei due candidati e, con delibera del 18 aprile 2012, conferiva nuovamente l'incarico al medesimo magistrato.

La delibera veniva impugnata sia in sede di ottemperanza sia in sede di legittimità.

Con sentenza del 21 novembre 2012, n. 5903 il Consiglio di Stato respingeva il ricorso per l'ottemperanza, sul presupposto che il C.S.M. aveva provveduto a rinnovare la valutazione comparativa.

In sede di legittimità, il T.a.r. Lazio rigettava parimenti l'impugnazione con sentenza 11 aprile 2013, n. 3651.

Proposto appello avverso quest'ultima pronuncia, Cons. Stato, sez. IV, 10 luglio 2014, n. 3501 accoglieva il gravame e annullava la seconda deliberazione del C.S.M., affermando l'interesse a una decisione "ora per allora" nei confronti di magistrati a riposo, essendo stati entrambi gli aspiranti collocati in quiescenza durante il contenzioso. Il Consiglio di Stato, in particolare, riconosceva, in tema di conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi <<l'interesse legittimo del magistrato, non limitato ai meri effetti economici della progressione in carriera, ma anche e soprattutto da consistenti interessi di natura morale ad acquisire l'atto di conferimento dell'incarico quale prova tangibile del riconoscimento dei propri meriti, derivandone ricadute positive in varie direzioni, anche al di fuori dell'ufficio, e persino in un futuro diverso ambito professionale>>.

La decisione del giudice amministrativo è stata cassata dalla sentenza Sez. U, n. 19787/2015, Amoroso, Rv. 637136, con rinvio ad altra sezione del Consiglio di Stato, in base all'art. 382 c.p.c., avendo il giudice ecceduto i limiti della propria giurisdizione, invadendo lo spazio delle valutazioni discrezionali riservate dalla legge al C.S.M. Nel richiamare il precedente Sez. U, n. 02312/2012, Macioce, Rv. 621165, la S.C. conferma che, ai sensi dell'art. 382 c.p.c., e a seguito dell'entrata in vigore delle norme che attuano il principio della translatio iudicii – segnatamente l'art. 59 della l. 18 giugno 2009, n. 69 e l'art. 11 c.p.a. – la cassazione senza rinvio deve essere disposta esclusivamente quando non solo il giudice adito, ma qualsiasi altro giudice sia privo di giurisdizione sulla domanda, sicché non può farsi luogo a tale tipo di pronuncia tutte le volte in cui il giudice che ha emesso la sentenza cassata sia dotato di potestas iudicandi e la motivazione della cassazione sia soltanto l'errata estensione dell'esercizio della giurisdizione stessa.

3. I principi di diritto.

Nel decidere la controversia, le Sezioni Unite hanno affermato tre principi di diritto ai sensi dell'art. 384, comma 1, c.p.c., attinenti alla nozione di eccesso di potere giurisdizionale e ai limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo.

3.1. Ricorso per ottemperanza e ricorso ordinario avverso il medesimo atto amministrativo: insussistenza dell'eccesso di potere giurisdizionale nella pronuncia di appello successiva all'ottemperanza.

Il primo dei principi enucleati dalle Sezioni Unite afferma che <<non sussiste eccesso di potere giurisdizionale ove – in caso di duplice impugnativa dello stesso atto amministrativo sia con ricorso per ottemperanza sia con ordinario ricorso in sede di legittimità – il Consiglio di Stato, dopo essersi pronunciato, rigettandolo, sul ricorso per ottemperanza, si pronunci nuovamente in sede di appello avverso la sentenza di primo grado del T.a.r. che abbia deciso il ricorso ordinario>>.

Parte ricorrente denuncia, nella specie, la consumazione del potere giurisdizionale da parte del Consiglio di Stato per averlo già esercitato attraverso il rigetto del ricorso in ottemperanza proposto nei confronti del medesimo atto amministrativo. La S.C., nel respingere il motivo di doglianza, evidenzia che, nel caso di specie, la stessa delibera del C.S.M. era oggetto di due distinti ricorsi, l'uno per l'ottemperanza alla prima sentenza del Consiglio di Stato, l'altro per la riforma, in sede di appello, della sentenza del Tar che aveva escluso i vizi dell'atto impugnato, in sede di ordinaria cognizione di legittimità. Pertanto, il giudice amministrativo non poteva che provvedere su entrambe le domande.

La facoltà di proporre congiuntamente la domanda per ottemperanza del giudicato e la domanda di annullamento del provvedimento emanato dal C.S.M. dopo la sentenza è stata affermata da Cons. Stato, sez. IV, 7 aprile 2014, n. 1625, confermando la giurisprudenza dall'adunanza plenaria del Consiglio di Stato (15 gennaio 2013, n. 2), intervenuta sul tema della "doppia impugnazione cautelativa", in sede di ottemperanza e in sede di legittimità, dell'atto adempitivo del giudicato, asseritamente invalido in quanto nullo perché violativo o elusivo, ovvero "semplicemente" illegittimo. La doppia impugnazione, pertanto, non determina l'inammissibilità dei ricorsi con i quali siano state proposte distintamente le due domande avanti ai giudici rispettivamente competenti.

3.2. Impugnazione della delibera del C.S.M. nel caso di magistrato ricorrente collocato successivamente in quiescenza: ammissibilità del sindacato di legittimità ma superamento dei limiti esterni della giurisdizione in caso di ricorso in ottemperanza per ottenere l'ordine rivolto al C.S.M. di assegnare il posto "ora per allora".

Il secondo principio di diritto – trasposto nella massima Sez. U, n. 19787/2015, Amoroso, Rv. 637134 – riguarda il limite del potere giurisdizionale in caso di collocamento in quiescenza del magistrato ricorrente. Secondo le Sezioni Unite, <<in caso di concorso bandito dal Consiglio superiore della magistratura per l'attribuzione di un incarico giudiziario non travalica i limiti esterni della giurisdizione il Consiglio di Stato che, nell'esercizio dell'ordinaria cognizione di legittimità in grado d'appello avverso una sentenza del T.a.r., si pronunci sull'appello, e quindi anche sulla legittimità della delibera del C.S.M., quando il magistrato ricorrente non sia più nel ruolo della magistratura per sopravvenuto collocamento in quiescenza ancorché tale ultima circostanza non consenta successivamente, senza che risultino superati i limiti esterni della giurisdizione, al giudice amministrativo, adito in sede di ottemperanza, di ordinare al C.S.M. di assegnare il posto ora per allora al magistrato vittorioso nel giudizio amministrativo>>.

La S.C., ripercorrendo la propria giurisprudenza sulla figura dell'eccesso di potere giurisdizionale, quale fattispecie del difetto di giurisdizione del giudice, nella specie amministrativo, per superamento dei limiti esterni della sua giurisdizione, distingue la diversa valenza che tale eccesso assume in sede di legittimità e in quella di ottemperanza.

Nell'ambito della giurisdizione di legittimità, la Corte ravvisa il travalicamento dei limiti esterni quando il giudice amministrativo, esercitando apparentemente il suo sindacato di legittimità, nei fatti entra nel merito dell'atto impugnato, compiendo una scelta discrezionale propria dell'amministrazione (Sez. U, n. 02312/2012, Macioce, Rv. 621164).

Riguardo alla giurisdizione di ottemperanza, che attribuisce al giudice amministrativo un sindacato anche di merito, l'eccesso di potere giurisdizionale si riscontra in quei casi in cui il giudice amministrativo ritiene sussistenti i presupposti per provvedere sulla domanda quando in realtà essi non ricorrono affatto, in quanto non sussistono, nella specie, né la violazione, né l'elusione del giudicato (Sez. U, n. 00736/2012, Ceccherini, Rv. 620476).

La Corte, in seguito, esamina le pronunce rese in sede di giudizio di ottemperanza, con particolare riguardo all'ipotesi in cui si sia chiesta l'esecuzione di una sentenza avente a oggetto l'annullamento del conferimento di un incarico giudiziario a seguito di una procedura concorsuale non più ormai ripetibile, per l'avvenuto pensionamento dei candidati concorrenti. Tale giurisprudenza esclude la possibilità di ordinare al C.S.M. di rinnovare "ora per allora" il procedimento di valutazione di magistrati concorrenti già in pensione (Sez. U, n. 23302/2011, Rordorf, Rv. 619646; Sez. U, n. 00736/2012, Ceccherini, Rv. 620476; Sez. U, n. 01823/2015, Rordorf, Rv. 634375).

Le Sezioni Unite, peraltro, evidenziano che l'unica pronuncia che ha ritenuto effettivamente sussistente lo sconfinamento di giurisdizione è Sez. U, n. 23302/2011, Rordorf, Rv. 619646. Secondo quanto affermato dalla S.C., <<la sentenza con cui il Consiglio di Stato, pronunciando su un ricorso per l'ottemperanza di un giudicato avente ad oggetto l'annullamento del conferimento di pubbliche funzioni a seguito di una procedura concorsuale non più ormai ripetibile (nella specie, per l'avvenuto pensionamento dei candidati concorrenti), ordina alla competente Amministrazione (nella specie, al C.S.M.) di provvedere ugualmente a rinnovare il procedimento "ora per allora", al solo fine di determinare le condizioni per l'eventuale accertamento di diritti azionabili dal ricorrente in altra sede e nei confronti di altra Amministrazione, eccede i limiti entro i quali è consentito al giudice amministrativo l'esercizio della speciale giurisdizione di ottemperanza ed è soggetta, pertanto, al sindacato della Corte di cassazione in punto di giurisdizione>>.

Sez. U, n. 00736/2012, Ceccherini, Rv. 620476, pur ritenendo che sia impugnabile per motivi di giurisdizione la decisione con la quale il Consiglio di Stato – in accoglimento di un ricorso presentato in sede di ottemperanza al giudicato di annullamento di una delibera del C.S.M. di conferimento di un incarico direttivo – abbia disposto la nomina "ora per allora" di un candidato nel frattempo collocato in pensione, ha tuttavia considerato la relativa questione coperta dal giudicato, non essendo stata proposta la relativa impugnazione. La questione, pertanto, è stata ritenuta non più esaminabile nel corso del giudizio promosso nei confronti della successiva decisione con la quale il Consiglio di Stato, nell'ambito della medesima procedura di ottemperanza, ha annullato l'ulteriore provvedimento del C.S.M. che aveva nominato per la seconda volta il candidato la cui nomina era stata in precedenza annullata.

Successivamente, Sez. U, n. 01823/2015, Rordorf, Rv. 634375 ha escluso il verificarsi di un eccesso di potere giurisdizionale nella decisione che aveva ritenuto ammissibili i motivi aggiunti presentati dall'interessato, diretti ad accertare la natura elusiva del giudicato della successiva rinnovata deliberazione. Secondo la S.C., avendo il Consiglio di Stato negato la presenza di elementi significativi di novità, esercitando anche i conseguenti poteri sostitutivi, mediante designazione di un commissario ad acta (in fattispecie anteriore all'entrata in vigore delle modifiche apportate dall'art. 2, comma 4, d.l. n. 90 del 2014, convertito dalla l. n. 114 del 2014), veniva in questione solo il modo in cui la giurisdizione era stata in concreto esercitata, senza che assumesse rilievo il fatto che uno dei candidati concorrenti all'incarico direttivo fosse prossimo al pensionamento.

Nella pronuncia in esame, la Corte osserva che non vertendosi in sede di ottemperanza ma di appello – e quindi di legittimità – non è direttamente applicabile il principio affermato dalla pronuncia Sez. U, n. 23302/2011, Rordorf, Rv. 619646, sottolineando la permanenza dell'interesse a ottenere, in sede di legittimità, una pronuncia del giudice amministrativo che accerti la sussistenza dei vizi denunciati della delibera ed eventualmente conduca al suo annullamento. Se tale possibilità fosse preclusa in conseguenza del collocamento in quiescienza del magistrato che concorre per l'assegnazione dell'incarico dirigenziale, verrebbe vanificata la domanda di giustizia, consentendo il consolidarsi di una situazione di fatto, mera conseguenza di una circostanza contingente ed eventuale, quale il collocamento a riposo. Resta esclusa, inoltre, secondo le Sezioni Unite, la configurabilità di una cessazione della materia del contendere giacché non si è modificato l'oggetto del giudizio amministrativo, ovvero la legittimità o meno della delibera consiliare. Diversamente argomentando si finirebbe per cristallizzare la fattispecie nel momento in cui si registra la soccombenza della parte che vede annullato il conferimento dell'incarico, mentre l'altra parte non è effettivamente vittoriosa in quanto non ha ottenuto l'incarico giudiziario. In questo modo, si finirebbe per ledere sia la garanzia della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) sia il canone del buon andamento dell'amministrazione della giustizia (art. 97 Cost.), rimanendo precluso al Consiglio di provvedere ulteriormente, assegnando l'incarico al magistrato vittorioso in giudizio ma collocato a riposo.

Nel caso in cui il magistrato ricorrente sia stato collocato a riposo, il C.S.M., a seguito dell'annullamento della delibera che lo aveva pretermesso, dovrà nuovamente provvedere, tenendo conto del giudicato, e confermare la precedente delibera annullata o disporre il non luogo a provvedere per mera acquiescienza al giudicato amministrativo.

La prima decisione aprirà la strada a una nuova impugnazione in sede di legittimità mentre l'altra consentirà, in sede di giudizio amministrativo, il risarcimento del danno da perdita della chance di ricoprire l'incarico.

Preclusa, invece, sulla base della giurisprudenza richiamata, è l'ottemperanza in forma specifica con l'assegnazione dell'incarico "ora per allora".

3.3. Limiti del sindacato di legittimità e valutazione di merito del contenuto della delibera e della sua ragionevolezza.

Risolta positivamente la questione del dovere del giudice amministrativo di pronunciarsi sulla legittimità della delibera di conferimento dell'incarico, a seguito del collocamento in quiescenza degli aspiranti, pur escludendosi il successivo ricorso al giudizio di ottemperanza per conseguire l'assegnazione dell'incarico "ora per allora", col terzo principio – ripreso nella massima Sez. U, n. 19787/2015, Amoroso, Rv. 637135 – la S.C. interviene sul tema dei limiti del sindacato di legittimità sul contenuto della delibera: <<in caso di concorso bandito dal Consiglio superiore della magistratura per l'attribuzione di un incarico giudiziario travalica i limiti esterni della giurisdizione il Consiglio di Stato che, adito in grado d'appello avverso una pronuncia di primo grado avente ad oggetto la legittimità, o no, della delibera del C.S.M. e quindi nell'esercizio dell'ordinaria cognizione di legittimità, operi direttamente una valutazione di merito del contenuto della delibera stessa e ne apprezzi la ragionevolezza, così sovrapponendosi all'esercizio della discrezionalità del C.S.M., espressione del potere, garantito dall'art. 105 Cost., di autogoverno della magistratura, invece di svolgere un sindacato di legittimità di secondo grado, anche a mezzo del canone parametrico dell'eccesso di potere quale possibile vizio della delibera stessa>>.

Le Sezioni Unite giungono all'affermazione del principio richiamando i propri precedenti sui limiti esterni della giurisdizione di legittimità, evidenziando che il giudice amministrativo non può compiere una diretta e concreta valutazione dell'opportunità e della convenienza dell'atto, con sconfinamento nella sfera del merito (Sez. U, n. 02312/2012, Macioce, Rv. 621164), risultando altrimenti censurabile tale apprezzamento mediante ricorso per cassazione ai sensi degli artt. 111, comma 8, Cost. e 362, comma 1, c.p.c. Preclusa, invece, è la deduzione dinanzi alla S.C. del superamento dei limiti interni della giurisdizione, ovverosia delle modalità mediante cui viene garantita la tutela giurisdizionale.

In particolare, la pronuncia sottolinea che nei casi in cui l'ordinamento riconosce all'amministrazione un ampio margine di apprezzamento dei fatti, il sindacato del giudice amministrativo riguardante la motivazione dell'atto non può giungere a evidenziare una diretta "non condivisibilità" della valutazione, dovendo il suo giudizio essere mantenuto sul diverso piano del sindacato parametrico, ovverosia esterno, della valutazione compiuta. Secondo le Sezioni Unite, la discrezionalità riconosciuta al C.S.M. nel conferimento degli incarichi dirigenziali, in ragione del rilievo costituzionale rivestito dal Consiglio (art. 105 Cost.), rientra nei casi in cui all'organo decidente è riconosciuto un ampio margine di apprezzamento nella valutazione di merito.

Peraltro, i casi in cui viene in concreto riscontrato lo sconfinamento della giurisdizione da parte del giudice amministrativo costituiscono, come evidenziato dalla S.C., delle ipotesi eccezionali, ovvero dei "casi estremi" (Sez. U, n. 02403/2014, Giusti, Rv. 629620)

Nel caso di specie, le Sezioni Unite ritengono che sussista la denunciata violazione dei limiti esterni della giurisdizione di legittimità. Il Consiglio di Stato, infatti, dopo aver esaminato i profili dei due candidati e aver escluso, in generale, un'equiparazione ex lege del servizio svolto presso l'avvocatura dello Stato e quello espletato nella magistratura, premessa riconducibile nei confini del sindacato di legittimità, ha poi ritenuto che, secondo un apprezzamento di "ragionevolezza", i due anni in più che il candidato prescelto vantava nelle funzioni di legittimità non potevano compensare un deficit di diciotto anni di attività complessiva in qualità di magistrato, escludendo l'equiparazione tra l'attività di magistrato ordinario e quella di avvocato dello Stato svolta dall'aspirante prescelto. In questo modo, tuttavia, secondo l'apprezzamento delle Sezioni Unite, il giudice amministrativo ha rifatto direttamente la valutazione comparativa e si è sovrapposto all'esercizio della discrezionalità riservata al C.S.M., finendo per compiere, quindi, una diretta valutazione di merito e non un sindacato sulla valutazione di merito effettuata dal Consiglio a mezzo del canone parametrico dell'eccesso di potere.

Lo scrutinio della questione è rimesso nuovamente al Consiglio di Stato.

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